Filosofia contemporanea. Questioni e risposte nelle parole dei filosofi 9788820375904

I filosofi del Novecento e dei nostri giorni senza interpretazioni e apparati, ma in presa diretta attraverso i loro scr

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Filosofia contemporanea. Questioni e risposte nelle parole dei filosofi
 9788820375904

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),/262),$ &217(0325$1($ Questioni e risposte nelle parole dei filosofi a cura di Maurizio Pancaldi e Maurizio Villani

EDITORE ULRICO HOEPLI MILANO

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ISBN 978-88-203-7590-4

Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. - Bologna Progetto editoriale: Massimo Manzoni Coordinamento editoriale e redazione: Cinzia Bisognin Progetto grafico: Caterina Manieri Impaginazione: Luciana Baldi

Copertina: mncg S.r.l., Milano

indice

capitolo  1 

Scienze dell’uomo 1 capitolo  2 

La reazione al positivismo 15 capitolo  3 

Log ica, scienza, ling uagg io 51 capitolo  4 

Essere ed esistere 83 capitolo  5 

Il marxismo critico 109

capitolo  6 

Ling uagg io e comunicazione 129 capitolo  7 

Politica ed etica 145 capitolo  8 

Filosofia e relig ione 165 capitolo  9 

Filosofia e mente 175

Indice degli autori  187

capitolo

1 scienze dell’uomo Nell’Ottocento il positivismo sottrae alla filosofia lo studio del mondo umano, la cui conoscenza passa dall’ambito metafisico a quello della ragione scientifica: nascono la psicologia sperimentale, la sociologia, l’antropologia culturale. Tuttavia nella cultura tedesca, memore della lezione degli storicisti e dei neokantiani, si afferma la tesi che il metodo delle scienze della natura (finalizzato alla formulazione di leggi necessarie) sia inapplicabile alle scienze storico-sociali, che indagano l’agire di soggetti liberi. La sociologia comprendente di Weber è il risultato di questa consapevolezza critica. Una svolta antropologica radicale si ha con la scoperta freudiana dell’inconscio: l’io come soggetto razionale si dissolve ed è reinterpretato all’interno di dinamiche pulsionali, di natura prevalentemente erotica, che sfuggono in gran parte al controllo della coscienza.

W, Il metodo delle scienze storico-sociali CONOsCERE sIgNIFICA vALUTARE, OPPURE CONOsCERE qUALCOsA E DARNE UNA vALUTAzIONE sONO DUE OPER AzIONI DELLO sPIRITO DA TENERE DIsTINTE? Tra le scienze dello spirito che all’inizio del Novecento furono oggetto di particolare attenzione ci fu la sociologia, anche per ragioni pratiche: stava nascendo la moderna società di massa e l’obiettivo di governarne le dinamiche appariva sempre più complesso, soprattutto perché una molteplicità di nuovi attori sociali stavano facendo il loro ingresso nella vita collettiva (nuove classi sociali, per esempio, ma anche partiti politici di massa, sindacati e così via). Occorrevano strumenti di analisi raffinati che consentissero di MRXIVTVIXEVI, e quindi GSQTVIRHIVI i movimenti in atto. Weber ritenne che l’obiettivo della sociologia fosse identificare modelli teorici entro i quali inquadrare i fenomeni sociali e diede loro il nome di “tipi ideali”. Escluse che compito della scienza fosse darne una valutazione in nome di qualche valore: si trattava invece di comprenderli, di elaborarne una descrizione teorica e di imparare a seguirne sia le dinamiche che le regole. L’etica e la politica, non la sociologia, sono la sede della valutazione. Non la scienza. E la sociologia è una scienza (dello spirito).

[Il compito della sociologia comprendente] L’atteggiamento umano («esterno» o «interno») mostra nel suo corso connessioni e regolarità, al pari di ogni divenire. Ciò che però, almeno in senso pieno, è proprio soltanto dell’atteggiamento umano, sono connessioni e regolarità il cui corso possa essere interpretato con l’intendere. Una «comprensione» dell’atteggiamento umano, conseguita mediante l’interpretazione, comporta anzitutto una specifica «evidenza» qualitativa, di grado assai differente. Che un’interpretazione possegga tale evidenza in misura particolarmente elevata non prova di per sé ancora nulla intorno alla sua validità empirica. Infatti un comportamento eguale nel suo corso esterno e nel suo risultato può poggiare su costellazioni di motivi quanto mai diverse tra loro, di cui la più evidente per la comprensione non sempre è anche quella realmente in gioco. L’«intendere» rivolto a una certa connessione deve piuttosto essere sempre controllato, per quanto è possibile, con i mezzi del resto consueti dell’imputazione causale, prima che un’interpretazione anche assai evidente divenga una «spiegazione intelligibile» valida.

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La misura maggiore di evidenza è posseduta dall’interpretazione razionale rispetto allo scopo. Per comportamento razionale rispetto allo scopo si deve intendere un comportamento che sia orientato esclusivamente in vista di mezzi concepiti (soggettivamente) come adeguati per scopi intesi (soggettivamente) in modo univoco. Non già che soltanto l’agire razionale rispetto allo scopo sia per noi intelligibile: noi «intendiamo» anche il corso tipico degli affetti e le loro conseguenze tipiche per l’atteggiamento. [...] L’evidenza specifica del comportamento razionale rispetto allo scopo non ha naturalmente come conseguenza che l’interpretazione razionale debba essere considerata, in modo particolare, come fine della spiegazione sociologica... Il comportamento interpretabile razionalmente rappresenta piuttosto molto spesso il «tipo ideale» più appropriato per l’analisi sociologica di connessioni intelligibili. La sociologia, al pari della storia, procede anzitutto a un’interpretazione «pragmatica», in base a connessioni razionalmente intelligibili dell’agire. La sociologia elabora... concetti di tipi e cerca regole generali del divenire, in antitesi alla storia, la quale mira all’analisi causale e all’imputazione di azioni, di formazioni, di personalità individuali che rivestono un’importanza culturale. L’elaborazione concettuale della sociologia trae il suo materiale – in forma di modelli – essenzialmente, anche se non esclusivamente, dalle realtà dell’agire che sono rilevanti pure dal punto di vista della ricerca storica. Essa forma infatti i suoi concetti e va in cerca di regole soprattutto anche in base alla prospettiva che essi possono, per tale motivo, rivestire in vista dell’imputazione storico-causale dei fenomeni di importanza culturale. Come avviene nel caso di ogni scienza generalizzante, il carattere specifico delle sue astrazioni fa sì che i suoi concetti debbano essere relativamente vuoti di contenuto rispetto alla realtà concreta del processo storico. Ciò che essa può offrire in compenso è l’accresciuta univocità dei concetti; e questa viene conseguita in virtù del grado massimo di adeguazione di senso, al quale tende l’elaborazione concettuale della sociologia. Ciò vuol dire che la massima univocità può essere raggiunta con particolare compiutezza nel caso – che abbiamo finora prevalentemente considerato – di concetti e di regole razionali (razionali rispetto al valore o razionali rispetto allo scopo). Ma la sociologia cerca di formulare in concetti teorici, e cioè adeguati nel loro senso, anche i fenomeni irrazionali (e cioè mistici, profetici, pneumatici, affettivi). In tutti i casi, sia di fenomeni razionali sia di fenomeni irrazionali, essa si distacca dalla realtà e serve alla conoscenza di questa in quanto, indicando la misura dell’avvicinamento di un fenomeno storico a uno o a più di tali concetti, consente di comprenderlo in un ordine. Per esempio, il medesimo fenomeno storico può configurarsi in una parte dei suoi elementi come «feudale», in un’altra come «patrimoniale», in un’altra ancora come «burocratico» oppure come «carismatico». Affinché

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questi termini possano designare qualcosa di univoco la sociologia deve, da parte sua, formulare tipi «puri» (cioè tipi ideali) di formazioni di quel genere, le quali mostrano in sé l’unità coerente della più completa adeguazione di senso, ma appunto perciò non si presentano, in questa forma idealmente pura, nella realtà... Soltanto muovendo dal tipo puro (cioè dal tipo «ideale») è possibile una casistica sociologica. La capacità di realizzare la distinzione tra il conoscere e il valutare, cioè tra l’adempimento del dovere scientifico di vedere la realtà dei fatti e l’adempimento del dovere pratico di difendere i propri ideali – questo è il principio al quale dobbiamo attenerci più saldamente. In ogni epoca c’è e rimarrà sempre – questo è ciò che ci interessa – una differenza insormontabile tra un’argomentazione la quale si diriga al nostro sentimento e alla nostra capacità di entusiasmarci per fini pratici concreti o per forme e contenuti culturali, oppure anche alla nostra coscienza – nel caso in cui sia in questione la validità di norme etiche – e un’argomentazione la quale si rivolga invece alla nostra capacità e al nostro bisogno di ordinare concettualmente la realtà empirica, in maniera da pretendere una validità di verità empirica. E questa proposizione rimane corretta nonostante che quei «valori» supremi che stanno a base dell’interesse pratico siano e restino sempre di decisiva importanza, come si porrà ancora in luce, per la direzione che l’attività ordinatrice del pensiero assume ogni volta nel campo delle scienze della cultura.

 - Max Weber (Erfurt 1864 - Monaco 1920) ha scritto i due brani citati in due saggi pubblicati rispettivamente nel 1913 (Über einige Kategorien der verstehenden Soziologie) e nel volume, uscito postumo nel 1922, Wirtschaft und Gesellschaft. I testi riportati sono tratti da: La metodologia delle scienze storico-sociali. Weber, in Lo storicismo contemporaneo, a cura di P. Rossi, Loescher, Torino 1969, pp. 129-131.

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F, L’inconscio POICHé LA COsCIENzA UMANA HA zONE OsCURE, è bEN FONDATA L’IPOTEsI DELL’EsIsTENzA DI UN INCONsCIO? Nella storia della filosofia è spesso comparsa l’ipotesi che nella psiche dell’uomo vi siano elementi che sfuggono alla coscienza in modo integrale o parziale. Per esempio Leibniz ha introdotto la nozione di “piccole percezioni” per indicare alcune percezioni intuitive, l’atto della mente con cui intuiamo qualcosa ma non siamo ben coscienti dei processi che ci hanno portato ad avere proprio quella determinata intuizione e non altre. Anche nell’idealismo, per esempio in schelling, compare una nozione di spirito non cosciente, a proposito della natura (alla quale apparteniamo) e Nietzsche, pochi anni prima di Freud, è andato alla ricerca delle radici nascoste (alla coscienza) delle convinzioni, dei valori, delle “verità” in cui crediamo. Concezioni di questo tipo compaiono anche in schopenhauer. La psicoanalisi nasce quando Freud elabora in modo compiuto l’ipotesi che la maggior parte della vita cosciente dell’uomo dipenda da pulsioni che rimangono del tutto nascoste alla coscienza, e tuttavia ritiene che sia possibile indagare in questa sfera della psiche. La pratica psicoanalitica ha innanzitutto questo obiettivo: far riemergere dall’inconscio ciò che è al di là della coscienza, acquisendo così la possibilità di dare una più completa interpretazione della psiche umana nel suo complesso.

Il diritto di ammettere l’esistenza di una psiche inconscia e di lavorare scientificamente in base a questa ipotesi ci viene contestato da più parti. A nostra volta possiamo replicare che l’ipotesi è necessaria e legittima, e che abbiamo parecchie prove dell’esistenza dell’inconscio. Tale ipotesi è necessaria perché i dati della coscienza sono molto lacunosi; nei sani non meno che nei malati si verificano spesso atti psichici che possono essere spiegati solo presupponendo altri atti che non sono invece testimoniati dalla coscienza. Atti del genere non sono solo le azioni mancate e i sogni delle persone sane, o tutto ciò che nei malati rientra nella denominazione di sintomo psichico e manifestazione ossessiva; la nostra più personale esperienza quotidiana ci fa costatare l’esistenza tanto di idee improvvise di cui non conosciamo l’origine quanto di risultati intellettuali la cui elaborazione ci è rimasta oscura. Tutti questi atti coscienti restano slegati e incomprensibili se ci ostiniamo a pretendere che ogni atto psichico che compare in noi debba essere sperimentato dalla coscienza; mentre si organizzano in una connessione

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ostensibile se li interpoliamo con gli atti inconsci di cui abbiamo ammesso l’esistenza. Ma guadagnare in significato e in connessione è una ragione perfettamente legittima per andare al di là dell’esperienza immediata. Se poi risulterà altresì che l’ipotesi dell’inconscio ci consente di costruire un efficace procedimento con cui influenzare utilmente il decorso dei processi consci, tale successo costituirà un’inoppugnabile testimonianza della validità di quel che abbiamo assunto. Stando così le cose, dobbiamo ritenere che, se si esige che tutto ciò che accade nella psiche debba per forza esser noto alla coscienza, si avanza in effetti una pretesa insostenibile. Si può andare più in là, e corroborare la tesi dell’esistenza di uno stato psichico inconscio osservando come in ciascun momento la coscienza comprenda solo un contenuto assai limitato, talché la massima parte di quello che chiamiamo sapere cosciente deve comunque trovarsi per lunghissimi periodi di tempo in uno stato di latenza, e cioè di inconsapevolezza psichica. Se si considerano tutti i nostri ricordi latenti, il fatto che sia contestata l’esistenza dell’inconscio diventa assolutamente incomprensibile. Ma a questo proposito ci viene obiettato che tali ricordi latenti non vanno più definiti come alcunché di psichico, ma corrispondono invece ai residui di processi somatici dai quali può nuovamente venir fuori lo psichico. Sarebbe facile ribattere che al contrario il ricordo latente è l’inequivocabile sedimento di un processo psichico. Ma è più importante rendersi conto che l’obiezione si basa sull’equiparazione – non dichiarata, e tuttavia assunta a priori – dello psichico con il cosciente. Questa equiparazione o è una petitio principii, la quale non ammette che venga posto il problema se tutto ciò che è psichico debba anche essere cosciente, oppure si tratta di una convenzione, di una faccenda terminologica. In questo secondo caso è ovviamente inoppugnabile, come ogni altra convenzione. Resta solo da domandarsi se essa sia davvero così opportuna da dover essere adottata per forza. Possiamo rispondere che l’equiparazione convenzionale dello psichico con il cosciente è assolutamente inopportuna. Lacera le continuità psichiche, ci irretisce nelle insolubili difficoltà del parallelismo psicofisico, è soggetta all’obiezione di sopravvalutare la funzione della coscienza senza alcuna ragione plausibile, e ci costringe ad abbandonare prematuramente il terreno della ricerca psicologica senza essere in grado di portarci un risarcimento a partire da altri ambiti di indagine. […] Ma la postulazione dell’inconscio è anche pienamente legittima giacché, adottando tale ipotesi, non ci discostiamo di un passo dal nostro abituale modo di pensare [...]. La coscienza trasmette a tutti noi soltanto la nozione dei nostri personali stati d’animo; che anche altre persone abbiano una coscienza, è una conclusione analogica che, in base alle azioni e manifestazioni osservabili degli altri, ci permette di farci una ragione del loro comportamento. […]

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Nella psicoanalisi non abbiamo altra scelta: dobbiamo dichiarare che i processi psichici in quanto tali sono inconsci e paragonare la loro percezione da parte della coscienza con la percezione del mondo esterno da parte degli organi di senso. Nutriamo addirittura la speranza che questo confronto giovi allo sviluppo delle nostre conoscenze. L’ipotesi psicoanalitica di un’attività psichica inconscia ci appare, da un lato, come un ulteriore sviluppo dell’animismo primitivo che ci induceva a ravvisare per ogni dove immagini speculari della nostra stessa coscienza, e d’altro lato come la prosecuzione della rettifica operata da Kant a proposito delle nostre vedute sulla percezione esterna. Come Kant ci ha messo in guardia contro il duplice errore di trascurare il condizionamento soggettivo della nostra percezione e di identificare quest’ultima con il suo oggetto inconoscibile, così la psicoanalisi ci avverte che non è lecito porre la percezione della coscienza al posto del processo psichico inconscio che ne è l’oggetto. Allo stesso modo della realtà fisica, anche la realtà psichica non è necessariamente tale quale ci appare. Saremo tuttavia lieti di apprendere che l’opera di rettifica della percezione interna presenta difficoltà minori di quella della percezione esterna, che l’oggetto interno è meno inconoscibile del mondo esterno.

 - Sigmund Freud (Freiberg in Moravia 1856 - Londra 1939) scrisse L’inconscio nel 1915. Il testo riportato è tratto da: S. Freud, L’inconscio, in Opere, vol. VIII, a cura di C.L. Musatti, Boringhieri, Torino 1966, pp. 49-53.

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F, Compendio di psicoanalisi sE LA PsICHE UMANA NON è INTER AMENTE sOTTO IL CONTROLLO DELLA COsCIENzA , è POssIbILE sCOPRIRE qUAL è LA sUA sTRUTTUR A? La risposta alla domanda che abbiamo posto sarebbe naturalmente negativa se non avessimo la possibilità di studiare le manifestazioni dell’inconscio nella sfera della coscienza. è infatti del tutto escluso che l’io cosciente possa penetrare direttamente nella sfera dell’inconscio. Tutto quello che si può fare è interpretare i segni con cui esso “parla”, per esempio attraverso i sogni. Le analisi che Freud compie dei sogni e di altre manifestazioni “spontanee” dell’inconscio lo portano a ritenere che la coscienza dell’“Io” sia solo una piccola parte della vita psichica. Freud chiama “Es” l’area originaria, ancestrale, della vita psichica da cui provengono le pulsioni primarie; chiama “super-Io” la sfera, in parte conscia, in parte inconscia, dei valori che dominano la coscienza morale dell’uomo. Naturalmente si tratta di un modello teorico, analogo a quelli che la fisica propone per realtà ugualmente al di fuori dell’esperienza umana (per esempio l’atomo).

[L’apparato psichico] La psicanalisi parte da una premessa di fondo, la cui discussione è riservata al pensiero filosofico e la cui giustificazione risiede nei suoi stessi risultati. Di ciò che chiamiamo la nostra psiche (o vita psichica) ci sono note due cose: innanzitutto l’organo fisico e il suo scenario, il cervello (o sistema nervoso) e, in secondo luogo, i nostri atti di coscienza che sono dati immediatamente e che nessuna descrizione potrebbe farci comprendere più da vicino. Tutto ciò che sta in mezzo fra queste due cose ci è sconosciuto, e non è data una relazione diretta fra i due estremi del nostro sapere. Ma se pure una tale relazione esistesse, al massimo potrebbe fornire un’esatta localizzazione dei processi della coscienza, comunque non potrebbe aiutarci a comprenderli meglio. Le nostre due ipotesi si riallacciano a questi punti terminali o iniziali del nostro sapere. La prima riguarda la localizzazione. Noi supponiamo che la vita psichica sia la funzione di un apparato al quale ascriviamo estensione spaziale e struttura composita e che ci figuriamo dunque simile a un cannocchiale, a un microscopio e ad altri strumenti del genere. L’elaborazione coerente di un’idea come questa rappresenta, a prescindere da certe approssimazioni già tentate in passato, una novità scientifica.

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Siamo giunti alla conoscenza di questo apparato psichico studiando lo sviluppo individuale degli esseri umani. Chiamiamo Es la più antica di queste province o istanze della psiche: suo contenuto è tutto ciò che è ereditato, presente fin dalla nascita, stabilito per costituzione, innanzitutto dunque le pulsioni che traggono origine dall’organizzazione corporea, e che trovano qui, in forme che non conosciamo, una prima espressione psichica. Sotto l’influsso del mondo esterno reale che ci circonda, una parte dell’Es ha subito un’evoluzione particolare. Da quello che era in origine lo strato corticale munito degli organi per la ricezione degli stimoli, nonché dei dispositivi che fungono da scudo protettivo contro gli stimoli, si è sviluppata una particolare organizzazione che media da allora in poi fra Es e mondo esterno. Questa regione della nostra vita psichica l’abbiamo chiamata Io.

[I caratteri principali dell’Io] In virtù della relazione precostituita fra percezione dei sensi e azione muscolare, l’Io dispone dei movimenti volontari. Suo compito è l’autoconservazione, compito che è assolto, per quel che riguarda l’esterno, imparando a conoscere gli stimoli, accumulando (nella memoria) esperienze su di essi, evitando (con la fuga) gli stimoli di intensità eccessiva e andando incontro (con l’adattamento) a quelli di intensità moderata, apprendendo infine a modificare (con l’attività) in modo adeguato e in vista di un proprio vantaggio il mondo esterno; per quel che riguarda l’interno, nei confronti dell’Es, il compito è assolto acquistando il controllo sulle richieste pulsionali, decidendo se a esse può esser dato soddisfacimento, rinviando tale soddisfacimento a tempi e circostanze migliori del mondo esterno, o magari reprimendo del tutto gli eccitamenti di queste pulsioni. Nella sua attività l’Io è guidato dalla considerazione delle tensioni prodotte dagli stimoli che in lui sono presenti o in lui sono state introdotte. L’esaltarsi di queste tensioni è generalmente avvertito come dispiacere e il loro ridursi come piacere. [...] L’Io aspira al piacere e si sforza di eludere il dispiacere. A un incremento atteso e previsto di dispiacere risponde con un segnale d’angoscia; ciò che può dar luogo a questo aumento di dispiacere è detto pericolo, e non importa se esso incombe dall’esterno o dall’interno. Di tanto in tanto l’Io allenta il suo legame con il mondo esterno e si ritrae nello stato di sonno, durante il quale modifica in larga misura la propria organizzazione. Prendendo spunto dallo stato di sonno traiamo la conclusione che questa organizzazione consiste in una particolare ripartizione dell’energia psichica. Come sedimento del lungo protrarsi dell’età infantile, durante la quale l’essere umano in formazione vive in uno stato di dipendenza dai suoi genitori, si struttura nel suo Io una speciale istanza in cui tale influsso viene perpetuato. A essa è stato dato il nome di Super-io. Nella misura in cui

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questo Super-io si differenzia dall’Io e gli si contrappone, esso rappresenta un terzo potere di cui l’Io deve tener conto. Un’azione dell’Io, in tanto è corretta in quanto si dimostra all’altezza delle esigenze dell’Es, del Super-io e della realtà, e riesce dunque a conciliare fra loro le pretese diverse di queste istanze. Le singole peculiarità della relazione fra Io e Super-io diventano perfettamente intellegibili purché ci si rifaccia al rapporto del bambino con i suoi genitori. Nell’influsso parentale non incide naturalmente soltanto la natura personale dei genitori, ma anche la tradizione familiare, razziale e popolare che essi portano innanzi, oltre alle esigenze di un determinato ambiente sociale che essi rappresentano. Parimenti il Super-io, man mano che l’individuo cresce, accoglie apporti provenienti da persone che continuano o surrogano l’influsso dei genitori, come gli educatori, o determinati personaggi emblematici della vita pubblica, o ideali socialmente ammirati. Si vede dunque che l’Es e il Super-io, pur differendo in molte cose fondamentali, in una cosa concordano, nel fatto di rappresentare entrambi gli influssi del passato, l’Es l’influsso di ciò che l’individuo ha ereditato, il Super-io essenzialmente di ciò che egli ha recepito da altre persone; l’Io è determinato invece principalmente da ciò che l’individuo ha sperimentato di persona, dunque da eventi accidentali e attuali.

 - Sigmund Freud (Freiberg in Moravia 1856 - Londra 1939) scrisse il Compendio di psicoanalisi, la sua ultima opera, nel 1938. Il testo riportato è tratto da: S. Freud, Compendio di psicoanalisi, in Opere, vol. XI, a cura di C.L. Musatti, Boringhieri, Torino 1966, pp. 572-574.

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F, Cinque conferenze sulla psicoanalisi è POssIbILE sU bAsI sCIENTIFICHE INTERPRETARE I sOgNI? L’ipotesi psicoanalitica dell’inconscio implica l’esistenza di “pensieri” non coscienti. Tuttavia, che cosa significa pensare, se non si è coscienti di farlo? Una delle obiezioni classiche contro l’ipotesi dell’esistenza di forme inconsce del pensiero è proprio l’impossibilità che esistano “idee” di cui non si ha coscienza (per esempio è questa l’obiezione di Locke contro la tesi cartesiana sull’esistenza delle idee innate). L’obiezione si supera se l’inconscio è concepito come la sede di pulsioni e non di idee, e di ricordi allo stato latente. Pulsioni e ricordi riemergono in molti modi alla coscienza ed è possibile studiare la struttura dell’inconscio, anche se esso rimane al di là della coscienza, quando esso “parla” senza l’intervento cosciente dell’io. questo accade in diverse situazioni, ma soprattutto nei sogni, in cui l’io cosciente è soltanto “spettatore”. L’analisi dei sogni mira a decifrare il contenuto latente, cioè il significato che esso assume quando si va a indagare quale siano state le pulsioni e i ricordi che l’inconscio ha messo in campo. L’interpretazione è difficile perché l’inconscio si esprime in modo camuffato. Parla attraverso il sogno, ma si nasconde. si esprime, ma non si fa capire. Interpretare un sogno significa aggirare questo ostacolo, e vincere molte “resistenze”.

L’interpretazione dei sogni è in realtà la via regia per la conoscenza dell’inconscio, il fondamento più sicuro della psicoanalisi e il campo in cui ogni praticante deve maturare il proprio convincimento e perseguire il proprio perfezionamento. Se mi si chiede in che modo si possa diventare psicoanalista, rispondo: attraverso lo studio dei propri sogni. Con vera discrezione tutti gli avversari della psicoanalisi hanno evitato sinora qualunque apprezzamento del mio libro L’interpretazione dei sogni, oppure hanno tentato di averne ragione con le obiezioni più futili. Se voi al contrario sarete in grado di ammettere le soluzioni dei problemi posti dalla vita onirica, le novità che la psicoanalisi propone al vostro pensiero non presenteranno più alcuna difficoltà. Non dimenticate che le nostre produzioni oniriche notturne presentano da un lato la più grande somiglianza esteriore e parentela interiore con le creazioni della malattia mentale, e d’altro lato sono però compatibili con la piena salute della vita vigile. Non è un paradosso affermare che chi dimostra meraviglia, anziché comprensione, per codeste illusioni sensoriali, idee

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deliranti e modificazioni caratteriali “normali”, non ha la benché minima probabilità di comprendere le formazioni abnormi degli stati psichici morbosi in un senso diverso da quello del profano. Fra questi profani potete annoverare oggi tranquillamente quasi tutti gli psichiatri. Seguitemi ora in una rapida escursione nel campo dei problemi onirici. Al nostro risveglio siamo soliti trattare i sogni nello stesso modo spregiativo con cui il paziente tratta le associazioni che lo psicoanalista esige da lui. Ma per di più li allontaniamo da noi, dimenticandoli di regola rapidamente e completamente. Il nostro spregio si basa sul carattere peregrino anche di quei sogni che non sono né confusi né privi di senso, e sulla evidente assurdità e insensatezza degli altri, il nostro rifiuto si richiama alle sfrenate e immorali tendenze che in certi sogni affiorano apertamente. È noto che l’antichità non condivise questo spregio per i sogni. Anche oggi gli strati inferiori del nostro popolo non si lasciano ingannare sul valore da attribuire loro; al pari degli antichi essi si aspettano dai sogni la rivelazione del futuro. Confesso che non sento alcun bisogno di congetture mistiche per colmare le lacune delle nostre attuali conoscenze, ed è per questo che non ho mai potuto trovare nulla che confermasse la natura profetica dei sogni. Vi sono ben altre cose da dire sui sogni – anch’esse straordinarie quanto basta. In primo luogo: non tutti i sogni sono completamente estranei al sognatore, incomprensibili e confusi. Se accetterete di sottoporre alla vostra attenzione i sogni di bambini molto piccoli, a partire da un anno e mezzo, li troverete assolutamente semplici e facili da spiegare. Il bambino piccolo sogna sempre l’appagamento di desideri che il giorno precedente ha destato in lui senza soddisfarli. Non vi occorre alcuna arte interpretativa per trovare questa semplice soluzione, basterà che vi informiate sulle sue esperienze del giorno prima (giorno del sogno). Ora, è certo che avremmo la soluzione più soddisfacente dell’enigma Onirico se anche i sogni degli adulti, non diversamente da quelli dei bambini, si rivelassero appagamenti di impulsi di desiderio sorti il giorno del sogno. Ed è cosi in realtà; le difficoltà che ostacolano questa soluzione si possono eliminare gradualmente, attraverso un’analisi più approfondita. A questo punto la prima e più importante obiezione è che i sogni degli adulti hanno di solito un contenuto incomprensibile, che non permette di riconoscere proprio nessun appagamento di desiderio. La risposta è questa: questi sogni hanno subìto una deformazione; il processo psichico che sta alla loro base avrebbe dovuto trovare in origine tutt’altra espressione verbale. Dovete distinguere il contenuto onirico manifesto, che ricordate vagamente al mattino e rivestite con fatica di parole, apparentemente in modo arbitrario, dai pensieri onirici latenti, che dovete supporre presenti nell’inconscio. Questa deformazione onirica è lo stesso processo che ave-

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te imparato a conoscere nell’indagine sulla formazione dei sintomi isterici; essa indica anche che nella formazione del sogno interviene lo stesso antagonismo di forze psichiche che interviene nella formazione del sintomo. Il contenuto onirico manifesto è il surrogato distorto dei pensieri onirici inconsci, e questa distorsione è opera di forze di sbarramento dell’Io, di resistenze, che nella vita vigile impediscono generalmente ai desideri rimossi dell’inconscio l’accesso alla coscienza, mentre pur ridotte nello stato di sonno, sono perlomeno ancora abbastanza forti da imporre loro un travestimento che li maschera. Il sognatore riconosce allora il significato dei suoi sogni altrettanto poco quanto l’isterico il nesso e il significato dei suoi sintomi. Del fatto che esistano pensieri onirici latenti, e che tra essi e il contenuto onirico manifesto esista effettivamente la relazione or ora descritta, vi convincerete con l’analisi dei sogni, la cui tecnica coincide con quella psicoanalitica. Astraete del tutto dalla connessione apparente degli elementi presenti nel sogno manifesto, e raccogliete le idee che risultano per ogni singolo elemento onirico dall’associazione libera condotta secondo la procedura psicoanalitica. Da questo materiale voi indovinate i pensieri onirici latenti esattamente nello stesso modo in cui dalle associazioni del malato intorno ai suoi sintomi e ricordi avete indovinato i suoi complessi nascosti. I pensieri onirici latenti così trovati vi permettono senz’altro di comprendere quanto sia giustificato ricondurre i sogni degli adulti ai sogni infantili. Ciò che ora si sostituisce come senso vero e proprio del sogno al contenuto onirico manifesto, è sempre chiaramente comprensibile, si riallaccia alle esperienze di vita del giorno prima, si rivela un appagamento di desideri insoddisfatti. Il sogno manifesto, quale voi lo conoscete ricordandolo al risveglio, non si può allora descrivere che come un appagamento mascherato di desideri rimossi. Mediante una sorta di lavoro sintetico, ora potete anche farvi un’idea dello svolgimento che ha portato alla distorsione dei pensieri onirici inconsci in contenuto onirico manifesto. Chiamiamo questo svolgimento «lavoro onirico». Esso merita il nostro interesse teorico più pieno, perché in esso più che altrove possiamo osservare quali insospettati processi psichici siano possibili nell’inconscio o più esattamente tra due sistemi psichici distinti come il conscio e l’inconscio. Fra questi processi psichici da poco conosciuti spiccano vistosamente quelli della condensazione e dello spostamento. Il lavoro onirico è un aspetto particolare delle influenze reciproche di diversi raggruppamenti psichici, quindi dei risultati della scissione psichica, e appare nella sostanza identico a quel lavoro di deformazione che in caso di rimozione fallita trasforma i complessi rimossi in sintomi. Con l’analisi dei sogni [...] scoprirete più oltre con stupore la parte di insospettato rilievo che impressioni e avvenimenti dei primi anni d’infanzia

s c i e n z e d e l l ’u o m o

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svolgono nello sviluppo dell’uomo. Nella vita onirica il bambino continua, per così dire, la sua esistenza nell’uomo, conservando tutte le sue caratteristiche e i suoi impulsi di desiderio, anche quelli divenuti inutilizzabili nel seguito della vita. Con forza imperiosa vi si rivela attraverso quali sviluppi, rimozioni, sublimazioni e formazioni reattive, emerga dal bambino ben altrimenti predisposto l’uomo cosiddetto normale, il portatore e in parte la vittima della civiltà che ha faticosamente raggiunto.

 - Sigmund Freud (Freiberg in Moravia 1856 - Londra 1939) scrisse le Cinque conferenze sulla psicoanalisi nel 1909, in occasione di un viaggio negli Stati Uniti. Il testo riportato è tratto da: S. Freud, Cinque conferenze sulla psicoanalisi, a cura di A. Staude, Boringhieri, Torino 1975, pp. 49-54.

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Capitolo

2 La reazione al positivismo Le filosofie del primo Novecento sono accomunate dalla reazione al positivismo, di cui criticano la pretesa di ridurre la conoscenza della realtà alla sola dimensione scientifica. In Italia questa reazione si esprime nel neoidealismo crociano (che interpreta storicamente la vita dello spirito nelle forme dell’arte, della logica, dell’economia e della morale) e in quello di Gentile (che vede nell’atto puro il principio unificante della realtà). Nel resto d’Europa, se in Francia prevalgono le correnti legate al neotomismo attualizzato di Maritain o allo spiritualismo vitalista ed evoluzionista di Bergson, nel mondo tedesco Husserl fonda la fenomenologia, filosofia che riconosce alla coscienza la capacità di cogliere l’essenza dei fenomeni. Negli Stati Uniti invece il pragmatismo afferma il primato dell’attività pratica, intesa come principio del reale e come criterio di verità.

C, Estetica Che Cos’è l’arte? la questione è dove indagare per trovare la risposta a questa domanda: indagheremo nell’opera d’arte? sì, certo, ma che cosa vi troveremo? l’opera d’arte è qualcosa di materiale e di oggettivo: è fatta di parole (una poesia, un romanzo), di suoni (un brano musicale), di marmo (una statua) e così via. Un quadro dipinto da un bambino è materialmente un quadro come quello di un pittore del rinascimento o di un impressionista, che attirano le folle nei musei. Perché l’uno non è un’opera d’arte e l’altro sì? la risposta la troveremo se indaghiamo che cosa succede nella vita interiore di ciascuno di noi nella fruizione delle opere d’arte: esse ci aiutano a esprimere qualcosa che abbiamo dentro, modellano sentimenti, intuizioni, forme di vita che ci sono propri e che senza l’arte non sapremmo come esprimere, benché li intuiamo. l’artista è artista perché sa tanto intuire quanto esprimere. trova le parole (o i suoni, o le forme visive) per dire agli altri quanto intuisce della sua vita interiore profonda. l’opera d’arte è un’intuizione espressa in modo compiuto.

La conoscenza ha due forme: è o conoscenza intuitiva o conoscenza logica; conoscenza per la fantasia o conoscenza per l’intelletto; conoscenza dell’individuale o conoscenza dell’universale; delle cose singole ovvero delle loro relazioni; è, insomma, o produttrice d’immagini o produttrice di concetti. [...] Eppure vi è un modo sicuro di distinguere l’intuizione vera, la vera rappresentazione, da ciò che le è inferiore: quell’atto spirituale dal fatto meccanico, passivo, naturale. Ogni vera intuizione o rappresentazione è, insieme, espressione. Ciò che non si oggettiva in una espressione non è intuizione o rappresentazione, ma sensazione e naturalità. Lo spirito non intuisce se non facendo, formando, esprimendo. Chi separa intuizione da espressione, non riesce mai più a congiungerle. L’attività intuitiva tanto intuisce quanto esprime. Se questa proposizione suona paradossale, una delle cause di ciò è senza dubbio nell’abito di dare alla parola «espressione» un significato troppo ristretto, assegnandola alle sole espressioni che si dicono verbali; laddove esistono anche espressioni non verbali, come quelle di linee, colori, toni: tutte quante da includere nel concetto di espressione, che abbraccia perciò ogni sorta di manifestazioni dell’uomo, oratore, musico, pittore o altro che sia. E, pittorica o verbale o

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musicale o come altro si descriva o denomini, l’espressione, in una di queste manifestazioni, non può mancare all’intuizione, dalla quale è propriamente inscindibile. Come possiamo intuire davvero una figura geometrica, se non ne abbiamo così netta l’immagine da essere in grado di tracciarla immediatamente sulla carta o sulla lavagna? Come possiamo intuire davvero il contorno d’una regione, per esempio, dell’isola di Sicilia, se non siamo in grado di disegnarlo così come esso è in tutti i suoi meandri? A ognuno è dato sperimentare la luce che gli si fa internamente quando riesce, e solo in quel punto che riesce, a formolare a se stesso le sue impressioni e i suoi sentimenti. Sentimenti e impressioni passano allora, per virtù della parola, dall’oscura regione della psiche alla chiarezza dello spirito contemplatore. È impossibile, in questo processo conoscitivo, distinguere l’intuizione dall’espressione. L’una viene fuori con l’altra, nell’attimo stesso dell’altra, perché non sono due ma uno. Ma la cagione principale che fa sembrare paradossale la tesi da noi affermata, è l’illusione o pregiudizio che s’intuisca della realtà più di quanto effettivamente se ne intuisce. Si ode spesso taluni asserire di avere in mente molti e importanti pensieri, ma di non riuscire a esprimerli. In verità, se li avessero davvero, li avrebbero coniati in tante belle parole sonanti, e perciò espressi. Se, nell’atto di esprimerli, quei pensieri sembrano dileguarsi o si riducono scarsi e poveri, gli è che o non esistevano o erano soltanto scarsi e poveri. Parimenti si crede che noi tutti, uomini ordinari, intuiamo e immaginiamo paesi, figure, scene, come i pittori, e corpi, come gli scultori: salvo che pittori e scultori sanno dipingere e scolpire quelle immagini, e noi le portiamo dentro il nostro animo inespresse. Una Madonna di Raffaello, si crede, avrebbe potuto immaginarla chiunque: ma Raffaello è stato Raffaello per la abilità meccanica di averla fissata sulla tela. Niente di più falso. Il mondo che intuiamo ordinariamente è poca cosa, e si traduce in piccole espressioni, le quali si fanno via via maggiori e più ampie solo con la crescente concentrazione spirituale in alcuni particolari momenti. Sono le parole interne che diciamo a noi stessi. I giudizi che esprimiamo tacitamente: «ecco un uomo, ecco un cavallo, questo pesa, questo è aspro, questo mi piace, ecc. ecc.», ed è un barbaglio di luce e di colori, che pittoricamente non potrebbe avere altra sincera e propria espressione se non in un guazzabuglio, e dal quale appena si sollevano pochi tratti distintivi particolari. Ciò, e non altro, possediamo nella nostra vita ordinaria, ed è base della nostra azione ordinaria. [...] È stato osservato da coloro che hanno meglio indagato la psicologia degli artisti che, quando dal vedere con rapido sguardo una persona ci si dispone a intuirla davvero, per farle, per esempio, il ritratto, quella visione ordinaria, che sembrava così vivace e netta, si rivela come poco meno che nulla: ci si accorge di possedere, tutt’al più, qualche tratto superficiale, non bastevole

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neppure per un pupazzetto; la persona da ritrarre si pone innanzi all’artista come un mondo da scoprire. E Michelangelo sentenziava che «si dipinge col cervello, non con le mani»; e Leonardo scandalizzava il priore del convento delle Grazie con lo stare giorni interi davanti al Cenacolo senza mettervi pennello, e diceva che «gli ingegni elevati talor che manco lavorano più adoprano, cercando con la mente l’invenzione». Il pittore è pittore perché vede ciò che altri sente solo, o intravede, ma non vede. Un sorriso crediamo di vederlo, ma in realtà ne abbiamo solo qualche vago accenno, non scorgiamo tutti i tratti caratteristici di cui risulta, come, dopo averci lavorato intorno, li scorge il pittore, che perciò può fermarlo compiutamente sulla tela. Anche del nostro più intimo amico, di colui che ci sta accanto tutti i giorni e tutte le ore, non possediamo intuitivamente se non qualche tratto appena della fisionomia, che ce lo fa distinguere dagli altri. [...] Ognuno di noi, insomma, è un po’ pittore, scultore, musicista, poeta, prosatore; ma quanto poco, rispetto a coloro che son chiamati così appunto pel grado elevato in cui hanno le comunissime disposizioni ed energie della natura umana; e quanto poco un pittore possiede delle intuizioni di un poeta, o di quelle anche di un altro pittore; pure, quel poco è tutto il nostro patrimonio attuale d’intuizioni o rappresentazioni. Fuori di esse, sono soltanto impressioni, sensazioni, sentimenti, impulsi, emozioni, o come altro si chiami ciò che è ancora di qua dello spirito, non assimilato dall’uomo, postulato per comodo di esposizione, ma effettivamente inesistente, se l’esistere è anche esso un atto dello spirito. [...] L’intuizione o rappresentazione si distingue da ciò che si sente e subisce, dall’onda o flusso sensitivo, dalla materia psichica, come forma; e questa forma, questa presa di possesso, è l’espressione. Intuire è esprimere; e nient’altro (niente di più, ma niente di meno) che esprimere.

 - Benedetto Croce (Pescasseroli 1866 - Napoli 1952) pubblicò l’Estetica nel 1902. Il testo riportato è tratto da: B. Croce, Estetica, Laterza, Bari 1965, pp. 11-14.

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C, La storia come pensiero e come azione PoiChé la storia è la vita Che si disPiega nel temPo, hanno Un senso Chiar amente identiFiCabile la vita e la storia? il termine “storia” indica due cose molto diverse: quanto è accaduto e il racconto di quanto è accaduto. Quando raccontiamo la storia (questo fa lo storico, questo fa la storiografia nel suo complesso: narrare quanto è avvenuto), inevitabilmente la interpretiamo: ne indichiamo un senso, selezionando tra l’enorme complesso degli eventi quelli che ci appaiono dare un senso al complesso di quanto è accaduto. ma la storia ha in se stessa un senso o glielo diamo noi narrandola? Poiché la storia è il dispiegarsi della vita individuale e collettiva nel tempo (e la storiografia è il racconto di questo dispiegarsi), la domanda può essere espressa in questo altro modo: ha un senso la vita individuale e collettiva? Croce ritiene di poter rispondere di sì. non glielo diamo noi se non in quanto facciamo noi stessi storia vivendo (e quindi narrando); il senso lo troviamo proprio nella vita. Qual è? la creatività stessa della vita o, con espressione diversa, la sua “libertà”. il che equivale a dire che il senso della vita è il vivere, perché nella vita stessa è la potenza creatrice di senso.

L’attività morale Se si domanda quale sia il fine dell’attività morale, e si sia messa da banda la dottrina teologica dell’obbedienza ai comandamenti imposti dalla persona di un Dio, e rivolta al suo contrario l’altra, che è dei negatori della vita o pessimisti, i quali lo collocano nel mortificare la volontà del vivere fino ad annullarla nell’ascesi o a persuaderla al suicidio universale, si deve rispondere che il fine della morale è di promuovere la vita. «Viva chi vita crea!», cantava Volfango Goethe. Ma la vita promuovono tutte le forme dell’attività spirituale con le opere loro, opere di verità, opere di bellezza, opere della pratica utilità. Per esse si contempla e si comprende la realtà, e la terra si copre di campi coltivati e d’industrie, si formano le famiglie, si fondano gli stati, si combatte, si sparge il sangue, si vince e si progredisce. E che cosa mai aggiunge a queste opere belle, vere e variamente utili la moralità? Si dirà: le opere buone. Ma le opere buone, in concreto, non possono essere se non opere di bellezza, di verità, di utilità. E la moralità stessa, per attuarsi praticamente, si fa passione e volonla reazione al positivismo

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tà e utilità, e pensa col filosofo, e plasma con l’artista, e lavora con l’agricoltore e con l’operaio, e genera figli ed esercita politica e guerra, e adopera il braccio e la spada. Si dirà: che in tutte queste opere la morale mette una sua intenzione, che è per l’appunto intenzione morale e non utilitaria. Ma cotesto è un circolo vizioso, definendosi la moralità per l’intenzione e l’intenzione per la moralità, e lasciando tutto indeterminato: della quale indeterminatezza si servirono assai bene i gesuiti per trarne la loro immoralissima «direzione dell’intenzione»; come, nell’estremo opposto, dell’indiscernibilità nell’esterno delle opere morali dalle opere utili si valgono gli utilitaristi per negare l’originalità della morale e identificarla con l’utilità. La moralità è nient’altro che la lotta contro il male; ché se il male non fosse, la morale non troverebbe luogo alcuno. E il male è la continua insidia all’unità della vita, e con essa alla libertà spirituale; come il bene è il continuo ristabilimento e assicuramento dell’unità, e perciò della libertà. Bene e male e i loro contrasti, e il trionfo del bene, e il rinascere dell’insidia e del pericolo, non sono effetto dell’intervento di una forza estranea alla vita, nel modo in cui appaiono nelle mitologiche figurazioni del diavolo tentatore e seduttore; ma sono nella vita stessa, e anzi sono la vita stessa. [...] Ma, come in ogni organismo c’è la tendenza al disorganismo, e la sanità è l’equilibrio dello squilibrio perché domina e rinserra in sé la malattia, così ogni forma speciale, in forza della sua specialità che è la sua individualità, e nell’impeto del suo proprio fare che non può farsi senza impeto, si sforza verso il tutto, e si spinge innanzi quando deve cedere il luogo, avendo raggiunto il proprio fine; e in questo sforzo ed esuberanza distruggerebbe l’unità spirituale e sé medesima, e lo spirito tutto morrebbe, se non fosse da raffrenare e infrenare con le altre che le susseguono e che a lor volta tengono lo stesso metro. Domandarsi perché mai il processo proceda così, o pensare che possa procedere altrimenti senza lotta, senza passaggi faticosi, senza pericoli, senza arresti, senza pencolare verso il male né impigliarvisi, non ha senso, come non ha senso domandarsi perché il «sì» abbia per correlativo il «no», e almanaccare di un puro «sì» scevro di «no» o di una vita che non contenga in sé la morte e non debba sorpassare a ogni istante la morte. Ora, l’azione che mantiene nei loro confini le singole attività, che tutte le eccita ad adempiere unicamente il loro ufficio proprio, che si oppone in tal modo al disgregamento dell’unità spirituale, che garantisce la libertà, è quella che fronteggia e combatte il male in tutte le sue forme e gradazioni, e che si chiama l’attività morale. Per tal via è dato intendere come l’attività morale, che per un verso non fa alcuna opera particolare, per un altro verso le faccia essa tutte, e regga e corregga l’opera dell’artista e del filosofo non meno che quella dell’agricoltore, dell’industriale, del padre di famiglia, del politico, del soldato, rispettandole nella loro autonomia e di tutte convalidando l’autonomia col

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mantenere ciascuna nei suoi confini. Dal che appare l’inetta presuntuosità dei moralisti quando pretendono di moralizzare poesia, scienza ed economia, snaturandole, laddove la moralità le moralizza unicamente col dar loro campo libero a spiegare la loro propria natura. Per la stessa ragione, quel medesimo che l’uomo di gusto sente come brutto, e l’uomo della verità come falso, e l’uomo pratico come discordante dal fine e perciò inutile e dannoso, si ripercuote nella loro coscienza come male. [...] E un altro punto si rischiara: perché mai tra le forme della storiografia si sia sempre mirato ad una che è parsa la storia per eccellenza, una storia sopra le storie; e, considerando storie speciali quella dell’arte, della filosofia e della varia attività economica, si sia additata come la vera e propria storia, la storia sopra le storie, quella dello Stato, inteso come stato etico e regola della vita, o quella della Civiltà, che meno imperfettamente designa la vita morale, traendola fuori dall’angustia politica del concetto di stato. [...] Per ciò stesso, quella storia etico-politica non sta sopra le altre storie né le risolve in sé, ma, tutte compenetrandole, riceve da esse la sua propria concretezza: come, del resto, ciascuna di esse dalle altre tutte.

 - Benedetto Croce (Pescasseroli 1866 - Napoli 1952) pubblicò La storia come pensiero e come azione nel 1938. Il testo riportato è tratto da: B. Croce, La storia come pensiero e come azione, Bari, Laterza 1973, pp. 44-47.

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G, Teoria generale dello spirito come atto puro si tr atta di CaPire Che Cos’è la nostr a vita sPiritUale: siamo QUalCosa al di là del Fatto Che viviamo e ne siamo CosCienti? la risposta dell’idealismo alle domande del titolo, secondo gentile, è necessariamente negativa. se fossimo qualcosa, avremmo una sostanza, e saremmo determinati a essere e ad agire come la nostra natura ci comanda. ma quel che caratterizza la nostra vita spirituale è la libertà, cioè la creatività di noi stessi: poiché non siamo macchine, determiniamo noi stessi a essere ciò che siamo, e lo facciamo liberamente. non è prevedibile, non è previsto, che il nostro spirito sia in un modo o nell’altro. lo spirito vive, non semplicemente è. la fonte della vita non è in una macchina.

Natura e spirito La pietra è, perché essa è già quel che può essere: ha realizzato la sua essenza. E la stessa pianta, lo stesso animale, in quanto tutte le loro determinazioni sono una conseguenza necessaria e preordinata della loro natura, la quale è tutto quello che può essere, e non può liberamente determinarsi in nuove manifestazioni imprevedibili, ossia non derivanti da quella che costituisce già il contenuto della loro natura, e quivi non implicitamente esistenti. Sono processi di realtà logicamente esauriti, quantunque non ancora del tutto attuati nel tempo. La loro esistenza idealmente è attuata; e le manifestazioni empiriche del loro essere vengono perciò concepite come chiuse dentro limiti già prescritti quasi termini invalicabili. Che è una conseguenza della posizione in cui ogni essere vien rappresentato rispetto allo spirito: quale realtà, il cui essere è presupposto dal sorgere dello spirito di fronte ad essa, cioè di quello spirito che la conosce. Lo spirito invece si sottrae, nella sua attualità, a ogni legge prestabilita, e non può essere definito come essere stretto a una natura determinata, in cui si esaurisca e conchiuda il processo della sua vita, senza perdere il suo proprio carattere di realtà spirituale, e confondersi con tutte le altre cose, alle quali egli deve invece contrapporsi; e in quanto spirito, infatti, si contrappone. Nel mondo della natura, tutto è per natura; nel mondo dello spirito, nessuno e nulla è per natura; ma è tutto quello che diviene per opera sua propria. Niente è già fatto, e perciò è, ma tutto è da fare sempre. E tutto quello che si è inteso, è nulla rispetto a quel che si vuole intendere e non s’è ancora inteso; a quel modo che tutti i meriti

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delle azioni più belle già compiute, non ci scemano d’un capello la somma dei doveri da compiere, e nel cui compimento consisterà tutto il valore della nostra condotta, onde noi continueremo a valere come esseri spirituali.

Spirito-sostanza e spirito-atto Il nostro spirito, processo o atto, e non sostanza, non si può quindi confondere con lo spirito di cui parlava il vecchio spiritualismo, che, contrapponendolo alla materia, lo materializzava già quando l’intendeva come sostanza, o, in altri termini, come soggetto di un’attività dalla quale fosse indipendente e che potesse perciò realizzare e non realizzare, senza né perdere né guadagnare del proprio essere. Noi non conosciamo nessuno spirito che sia di là dalle sue manifestazioni; e consideriamo queste manifestazioni come la sua stessa interiore ed essenziale realizzazione. Il nostro spirito, possiamo anche dire, è solo lo spirito della nostra esperienza: badando bensì a non intendere per esperienza (come volgarmente s’intende, per un’interpretazione inesatta), il contenuto suo, ma l’atto stesso dell’esperienza, o la nostra esperienza pura: ciò che v’ha di più vivo, anzi che solamente è vivo e reale, nella nostra esperienza. […]

Per trovare lo spirito Per trovare la realtà spirituale bisogna cercarla: e cercarla significa, non averla dinanzi a sè, ma lavorare, noi che la vogliamo trovare, per trovarla: e se per trovarla bisogna cercarla, e trovarla significa appunto cercarla, noi non l’avremo mai trovata, e l’avremo trovata sempre. Se vogliamo sapere quello che noi siamo, dobbiamo pensare, riflettere su quel che siamo; il trovare dura tanto quanto dura la costruzione dell’oggetto che si trova; tanto si trova quanto si cerca; quando si è cessato di cercare e si dice d’aver trovato, non si è trovato nulla, non si ha più niente! Nolite iudicare, dice il Vangelo; perchè quando avrete giudicato un uomo, voi non lo considerate più come uomo, come spirito, ma vi siete collocati al punto di vista da cui si ravvisa bensì ciò che è materiale e appartiene al mondo naturale, ma non lo spirito che si sta facendo, e che non si può intendere se non guardato nell’atto, che non è atto compiuto, ma atto nel suo prodursi. [...]

L’intuizione dello spirito La conclusione è, che il concetto dello spirito come processo è un concetto difficile. Contro il quale operano di continuo tutte le astrazioni fissate dal pensiero comune e dalla scienza (che per sua natura si muove sempre nell’astratto) affollandosi incessantemente al nostro intelletto e traendolo di qua e di là, e non lasciandogli mantenere senza un’aspra fatica l’esatta intuizione della vita spirituale. Quella intuizione da cui pure si attinge, in tutti i momenti più vivaci di essa, norma e ispirazione verso la scienza e la virtù,

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che tanto più ci riempiono l’animo, quanto più forte fan vibrare le corde tese dai nostri sforzi interiori.

L’unità dello spirito [...] L’unità dello spirito è immoltiplicabile perchè, qualunque sia la psicologia con cui ci sforziamo di analizzare e ricostruire la realtà spirituale, non è possibile mai pensare che questa realtà si scomponga in parti, ciascuna delle quali sia concepibile per sè, come unità chiusa, irrelativa alle altre. La psicologia empirica, mentre distingue vari fatti psichici concorrenti in un complessivo stato di coscienza e annovera elementi diversi come termini ultimi delle sue analisi, bada ad avvertire che tutti gli elementi si fondono in un tutto, e tutti i fatti hanno un centro comune di riferimento, in virtù del quale appunto assumono il loro essenziale carattere psicologico. Anche le vecchie psicologie speculative (anch’esse empiriche nel loro punto di partenza), distinguendo astrattamente le diverse facoltà dell’anima, riaffermavano sempre l’unità impartibile o la semplicità (come si diceva) dello spirito, quale fondamento comune e unica sostanza delle varie facoltà. La vita, la realtà, la concretezza dell’attività spirituale è nell’unità; e non si ha la molteplicità se non uscendo dalla vita, e fissando le morte astrazioni risultanti dall’analisi.

 - Giovanni Gentile (Castelvetrano 1875 - Firenze 1944) pubblicò la Teoria generale dello spirito come atto puro nel 1916. Il testo riportato è tratto da: G. Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro, in Opere filosofiche, a cura di E. Garin, Garzanti, Milano 1991, pp. 476482.

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P, Che cos’è il pragmatismo? Come FormUlare il signiFiCato r aZionale delle Parole? la filosofia si è a lungo impegnata nella ricerca di una teoria del concetto che consenta di stabilire come si possa formulare in modo rigoroso il significato razionale delle parole. Una risposta possibile può rimandare a un’indicazione di un metodo che trasferisca alla filosofia le pratiche sperimentali della conoscenza scientifica. Proprio pensando a questa “inseparabile connessione tra la conoscenza razionale e il proposito razionale” che deve presiedere alle condotte di vita – e nel ricordo della terminologia kantiana – Peirce chiamò la sua prospettiva filosofica 4VEKQEXMWQS.

L’estensore di questo articolo è stato condotto a credere da una larga esperienza che ogni fisico, ogni chimico e, in breve, ogni esperto in qualunque campo della scienza sperimentale ha avuto la sua mente modellata in misura insospettabile dalla vita di laboratorio. Lo stesso sperimentatore può difficilmente esserne consapevole in modo pieno, per la ragione che gli uomini di cui conosce realmente la mentalità sono, sotto questo aspetto, molto simili a lui. Con intelletti addestrati in modo molto diverso dal suo, l’educazione dei quali è stata largamente libresca, egli non diverrà mai intimo completamente, per quanto possano essere familiari i rapporti con quelli; poiché egli e loro sono come l’olio e l’acqua, e per quanto siano mescolati insieme, è notevole come essi riprenderanno prontamente le loro varie vie mentali senza aver guadagnato dalla loro associazione nient’altro che un aroma evanescente. Se anche quegli altri si limitassero a prudenti sondaggi della mente dello sperimentatore – che è proprio quello che essi non sono qualificati a fare, per lo più – scoprirebbero che, forse ad eccezione dei casi in cui la sua mente è ostacolata dal sentimento o dall’educazione ricevuta, la sua disposizione è quella di pensare ad ogni cosa proprio come è pensata in laboratorio, come un problema di sperimentazione. Naturalmente, nessun uomo vivente possiede nella loro pienezza tutti gli attributi caratteristici del suo tipo: non è il dottore tipico quello che vedete ogni giorno andare in carrozzella o in coupé, né è il maestro tipico quello che s’incontra nella prima aula in cui si entra. Ma quando avete trovato, o costruito idealmente in base all’osservazione, lo sperimentatore tipico, troverete che qualunque asserzione possiate rivolgergli, egli o la intenderà nel senso che, se una data prescrizione per un esperimento può mai essere o anche è tradotta in atto, ne risulterà un’esperienza di una data descrizio-

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ne, oppure egli non coglierà assolutamente alcun senso in quello che voi dite. […] La vita di laboratorio non ha impedito allo scrivente (che qui e in quello che segue esemplifica semplicemente il tipo dello sperimentatore) di prendere interesse per i metodi del pensare; e quando giunse a leggere la metafisica, quantunque molto di essa gli sia parso ragionato inesattamente e determinato da pregiudizi occasionali, tuttavia negli scritti di alcuni filosofi, specialmente di Kant, Berkeley e Spinoza, egli talvolta si è imbattuto in tentativi di pensiero che richiamavano i procedimenti di pensiero del laboratorio, cosicché egli sente di poter avere fiducia in essi; tutto ciò si è verificato per altri uomini di laboratorio. Cercando di determinare, come farebbe naturalmente un uomo di questo tipo, che cosa egli così accettava, veniva a formulare la teoria che il concetto, cioè il significato razionale di una parola o di una espressione consiste nelle sue concepibili ripercussioni sulla condotta di vita; così, poiché ciò che non può derivare dall’esperimento non può avere una ripercussione sulla condotta, se uno può definire accuratamente tutti i fenomeni sperimentali concepibili che possono essere impliciti all’affermazione o alla negazione di un concetto, in esso non c’è assolutamente altro. Per questa dottrina egli inventò il nome di pragmatismo. Alcuni suoi amici avrebbero voluto che egli la chiamasse praticismo o praticalismo (forse pensando che in greco pragmaticòs è più corretto di practicòs). Ma per uno che aveva imparato la filosofia da Kant, come lo scrivente, insieme con diciannove su venti sperimentatori che si sono rivolti alla filosofia, e che ancora pensava agevolmente in termini kantiani, praktisch e pragmatisch erano tanto lontani quanto i due poli, poiché il primo appartiene a una regione del pensiero dove la mente di tipo sperimentalista non può mai essere sicura di avere un terreno solido sotto i piedi, mentre il secondo esprime una relazione con un proposito umano definito. Ora, il tratto più caratteristico della nuova teoria era appunto il suo riconoscimento di una inseparabile connessione fra la conoscenza razionale e il proposito razionale; e questa considerazione fu quella che determinò la preferenza per la denominazione pragmatismo.

 - Charles Sanders Peirce (Cambridge nel Massachusetts 1839 - Milford 1914) pubblicò il saggio Che cos’è il pragmatismo? nel 1905 per distinguere la sua posizione da quella di James. Il testo riportato è tratto da: Ch.S. Peirce, Che cos’è il pragmatismo?, trad. it. di G.A. Roggerone, in Grande Antologia Filosofica, vol. XXIV, Marzorati, Milano 1975, p. 227.

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J, Pragmatismo Che Cos’è la verità? non qual è la verità, cioè quale sia la risposta vera a una domanda, o la soluzione corretta a un problema. ma che cosa significa che una risposta o una soluzione sono vere. se ci imbattiamo nella verità, come facciamo a riconoscerla? è l’antica domanda che ricorre nella storia della filosofia; non è nuova. ma dopo le difficoltà teoriche messe in luce dalle filosofie otto-novecentesche sulla nozione di verità (l’hanno messa in sospetto in molti, dai marxisti agli irrazionalisti a Freud, e molti l’hanno radicalmente ripensata, come i positivisti) è necessario elaborare una teoria che risponda a tutte le difficoltà. occorre un’idea di verità che, alla luce del sole, possa rispondere a un criterio facilmente riconoscibile e identificabile. i pragmatisti statunitensi hanno ritenuto che questo criterio possa essere fornito dalle conseguenze pratiche di un concetto che proponiamo come vero. studiamo le conseguenze che ne derivano, e sapremo se una verità è davvero tale.

Il metodo pragmatistico consente anzitutto di risolvere controversie metafisiche che, altrimenti, potrebbero essere interminabili. Il mondo è uno o molteplice? Ammette la fatalità o la libertà? È materiale o spirituale? Ecco concetti che, l’uno o l’altro, potrebbero non essere trovati veri; le discussioni intorno a ciò resterebbero quindi sempre aperte. [...] II pragmatismo volta le spalle decisamente e una volta per tutte a una moltitudine di abitudini inveterate, care ai filosofi di professione. Le volta all’astrazione; a tutto ciò che rende il pensiero inadeguato, cioè alle soluzioni puramente verbali, alle cattive ragioni a priori, ai sistemi chiusi; a tutto quello che pretende di essere un assoluto o un principio, per dirigersi verso il pensiero concreto e adeguato, verso i fatti, verso l’azione efficace. Il pragmatismo si oppone in tal modo tanto all’indirizzo empiristico corrente quanto all’indirizzo razionalista. Un’atmosfera colma di libertà, la natura con tutto il possibile che racchiude in sé: ecco il pragmatismo, il quale prende posizione contro il dogma, contro le teorie artificiose, contro la falsa apparenza del carattere teologico che si presume di scorgere nella verità. Occorre rilevare, nello stesso tempo, che il pragmatismo non si schiera per nessuna soluzione particolare. Esso è soltanto un metodo. […] la reazione al positivismo

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Bisogna che spogliate ogni parola del valore che può avere nell’uso comune e le facciate adempiere la sua funzione nel campo stesso della vostra esperienza. Allora, più che una soluzione, vediamo in essa il programma per un nuovo lavoro da iniziare; e, più particolarmente, vediamo in essa un orientamento su diversi modi in cui è possibile modificare le realtà esistenti. Col pragmatismo, dunque, le teorie diventano strumento di ricerca, invece di essere la risposta a un enigma e la fine di ogni ricerca. [...] Poiché esso non ha in sé niente di nuovo, si accorda con un gran numero di antiche correnti filosofiche. Si accorda, a esempio, col nominalismo, richiamandosi sempre ai fatti particolari; con l’utilitarismo, a causa dell’importanza che attribuisce all’aspetto pratico dei problemi; col positivismo, a causa del suo disprezzo per le soluzioni verbali, per i problemi senza interesse, per le astrazioni metafisiche. [...] Il pragmatismo non possiede dogmi e tutta la sua dottrina si riduce al suo metodo. Come ha detto molto bene il pragmatista italiano Papini, il pragmatismo occupa fra le nostre teorie la posizione di un corridoio in un albergo. Numerose camere si aprono su questo corridoio. In una possiamo trovare un uomo intento a scrivere un trattato a favore dell’ateismo; in quella vicina uno che prega in ginocchio per ottenere la fede e il coraggio; nella terza un chimico; in quella successiva un filosofo che sta elaborando un sistema secondo il metodo idealista; mentre nella quinta uno che è in grado di dimostrare l’impossibilità della metafisica. Tutte queste persone si servono necessariamente dello stesso corridoio: tutte lo devono attraversare per entrare nella propria stanza e per uscirne. Un atteggiamento, un orientamento al di fuori di ogni teoria particolare: ecco, ancora una volta, in che cosa consiste, per ora, il metodo pragmatista. E tale orientamento, tale atteggiamento consiste nel distogliere lo sguardo da tutto ciò che è causa prima, primo principio, categoria, supposta necessità, per volgerlo ai risultati, alle conseguenze, ai fatti.

 - Il Pragmatismo di William James (New York 1842 - Chocorua nel New Hampshire 1910) ha origine da una serie di conferenze tenute al Lowell Institute nel 1906. Il testo riportato è tratto da: W. James, Pragmatismo, trad. it. di G.A. Roggerone, in Aspetti essenziali del pragmatismo, Milella, Lecce 1967, pp. 91 ss.

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J, Principi di psicologia Come Fa la mente a seleZionare gli oggetti da ConosCere? a fronte della grande massa di sensazioni che provengono dal mondo esterno la mente umana procede per via di selezione, come fa lo scultore che toglie dal blocco di marmo il superfluo per liberare la forma della statua che era potenzialmente contenuta in esso. nel corso di queste operazioni selettive la mente si trova davanti sia l’oggettività dei dati d’esperienza sia la soggettività dell’io. tutte le problematiche della psicologia sorgono quando la mente tralascia di assumere come oggetto di ricerca il mondo esterno (il non me nella terminologia di James) per concentrarsi nell’indagine sul me.

La nostra mente, a ogni passo, è il teatro di possibilità simultanee. La coscienza consiste nel confronto di queste fra loro; nello sceglierne alcune e nel sopprimere tutte le altre, mediante il meccanismo inibitore e rafforzatore dell’attenzione. I prodotti mentali più alti e più elaborati sono filtrati attraverso i dati scelti dalla facoltà immediatamente inferiore nella massa offerta dalla facoltà che sta subito dopo di questa, massa che, a sua volta, era stata vagliata da un ammasso ancora maggiore di materiale sempre più semplice, e così via. La mente, insomma, lavora su dati che riceve in modo assai simile a quello con cui lo scultore lavora sul suo blocco di marmo. In certo senso, la statua era lì fin dall’eternità. Ma, oltre a essa, ce n’era un migliaio di altre diverse, e bisogna essere grati al solo scultore di avere liberato questa fra tutte le rimanenti. Proprio così è il mondo interiore di ciascuno di noi: per quanto i nostri modi di considerarlo ci possano sembrare diversi, esso giaceva già sepolto nel caos primitivo delle sensazioni che aveva fornito il materiale greggio indifferentemente al pensiero di ciascuno di noi. Se vogliamo, a forza di ragionamenti, possiamo riportare le cose indietro verso quella continuità oscura e omogenea dello spazio e delle nebbie mobili fatte di atomi dispersi, che la scienza considera l’unico mondo reale. Ma, tuttavia, il mondo che sentiamo e nel quale viviamo sarà quello che i nostri antenati e noi stessi, attraverso scelte accumulate progressivamente e lentamente, abbiamo tratto fuori da quella, come altrettanti scultori, semplicemente scartando certe parti del materiale a nostra disposizione. Se gli scultori fossero altri, con lo stesso marmo si avrebbero altre statue! Altre menti, altri mondi ricavati dallo stesso caos monotono e inespressivo! Il mio mondo è solo uno fra un milione di altri mondi egualmente sepolti, egualmente reali per quelli che

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possono trarli fuori. Quanto dev’essere diverso il mondo rappresentato dalla coscienza dell’ape, della seppia e del granchio! Nella mia mente e nella vostra, però, le parti della sostanza originaria del mondo scartate e quelle accolte sono in gran parte le stesse. La razza umana, considerata globalmente, è generalmente d’accordo su ciò di cui può avere notizia e a cui può dare un nome. E, fra le parti considerate, facciamo la nostra scelta in maniera pressoché eguale sia per l’accentuazione e la preferenza sia per la subordinazione e lo scarto. C’è tuttavia un caso assolutamente straordinario in cui non si trovano due persone che facciano la stessa scelta. Ciascuno di noi divide l’universo intero in due parti e la maggior parte degli interessi di ognuno di noi si riferiscono all’una o all’altra di queste parti; solo che ciascuno traccia una linea di divisione fra esse in un punto diverso. È sufficiente che dica che tutti chiamiamo le due parti con gli stessi nomi, ossia me e non me, rispettivamente, perché si capisca subito quello che voglio dire. Questa specie assolutamente singolare e unica di interesse che ogni mente umana sente per quelle parti del creato che chiama me o mie, può costituire un enigma morale, ma è certo un fatto fondamentale per la psicologia. Nessuna mente può avere per il me del suo vicino lo stesso interesse che ha per il proprio. Il me del vicino si disperde insieme a tutto il rimanente delle cose in una massa estranea, di fronte alla quale il mio me si staglia con sorprendente rilievo. Anche il verme calpestato, come dice Lotze, contrappone le sue pene a tutto il resto dell’universo, quantunque non abbia nessun chiaro concetto di sé e di ciò che l’universo può essere. Esso è per me una semplice parte del mondo; per lui, questa semplice parte sono io. Ciascuno di noi taglia in due il mondo in un punto diverso.

 - William James (New York 1842 - Chocorua nel New Hampshire 1910) scrisse i Principi di psicologia nel 1878. Il testo riportato è tratto da: W. James, Principi di psicologia, trad. it. di G.A. Roggerone, in Aspetti essenziali del pragmatismo, Milella, Lecce 1967, pp. 5759.

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D, Esperienza e natura PerChé è Così diFFiCile imPar are dall’esPerienZa? la risposta pragmatista alla domanda su riportata è molto semplice: perché non valorizziamo l’esperienza in modo sufficiente. non ne teniamo conto in modo adeguato. seguiamo le nostre immaginazioni, le credenze, distacchiamo il sapere dal fare, seguiamo un’idea piuttosto che quello che ci dice la realtà. ma tutto cambia se poniamo l’esperienza al primo posto. la nostra vita interiore si arricchisce, il nostro sapere si consolida. Per farlo dobbiamo avere la disponibilità a imparare dall’esperienza, il che implica la disponibilità a mettere in gioco tutte le nostre conoscenze in ogni momento. la disponibilità a mettere in crisi le nostre certezze.

Il metodo empirico richiede dalla filosofia due cose: in primo luogo che i metodi e gli oggetti rifiniti vengano rinviati alle loro origini nell’esperienza primaria, in tutta la sua eterogeneità e pienezza, in modo tale da identificare i bisogni e i problemi da cui sorgono e che sono chiamati a soddisfare e risolvere. In secondo luogo che i metodi e le conclusioni secondarie vengano ricondotti alle cose dell’esperienza primaria, in tutta la sua generica banalità e rozzezza, per essere verificate. [...] Non posso fare a meno di concludere senza fare riferimento al più vasto valore liberale e umano della filosofia, quando venga perseguita con metodo empirico. Le più serie accuse che si possono muovere alle filosofie non-empiriche è che esse hanno gettato una cappa di oscurità sulle cose dell’esperienza ordinaria. Non si sono accontentate di mettervi ordine. Hanno anzi gettato su di esse diffuso discredito. Gettando disprezzo sulle cose dell’esperienza quotidiana, dell’azione, della vita emotiva e dei rapporti sociali, hanno fatto qualcosa di peggio che non riuscire a dare quella direzione intelligente di cui queste cose hanno tanto bisogno. Non sarebbe stato importante se la filosofia fosse stata riservata a pochi pensatori come lusso esclusivo. Il fatto importante è che le filosofie hanno negato che l’esperienza comune sia capace di sviluppare dal proprio interno metodi che garantiscano direzione per se stessa e che creino modelli intrinsecamente validi di giudizio e di valore. Nessuno sa come molti dei mali e difetti che vengono indicati come ragioni di distacco dall’esperienza siano essi stessi dovuti al discredito in cui viene gettata l’esperienza da quelle filosofie così stranamente impegnate nella riflessione. Allo sciupìo del tempo e dell’energia, con la conseguente disillusione per la vita che accompagna ogni deviazione la reazione al positivismo

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dall’esperienza concreta, deve essere aggiunta la consapevolezza, tragicamente mancata, del valore che la ricerca intelligente rivelerebbe e farebbe maturare all’interno dell’esperienza ordinaria. Non sono in grado di calcolare quanto del corrente cinismo, indifferenza e pessimismo sia dovuto a queste cause e all’abbandono della vita dell’intelligenza che esse hanno comportato. In molti ambienti è diventato un segno di poca sofisticazione immaginare che la vita sia o possa essere una sorgente di bene e di felicità. Le filosofie non meno che le religioni possono essere investite della responsabilità di aver reso possibili questi fenomeni. […] Se ciò che è stato scritto in queste pagine non avrà altro esito che quello di creare e di promuovere il rispetto per la concreta esperienza umana e per le sue potenzialità, sarò soddisfatto.

 - John Dewey (Burlington 1859 - New York 1952) pubblicò Esperienza e natura nel 1925. Il testo riportato è tratto da: J. Dewey, Esperienza e natura, trad. it. di P. Barati, Mursia, Milano 1973, pp. 43-47.

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B, L’azione Posso essere Ciò Che voglio? blondel ha elaborato una complessa filosofia dell’azione, legata alla vasta corrente dello spiritualismo europeo, in complessi rapporti con le tendenze del cattolicesimo francese tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento. ma non è di questa teoria che parla il brano che proponiamo. Parla piuttosto del problema di cui la teoria vuole essere una risposta. ora, il problema è semplicemente questo: chi siamo? Qual è il senso di ciò che siamo? Forse sono sbagliate le domande, perché sono centrate sulla nozione statica di essere. ma noi non WMEQS affatto senza EKMVI. noi agiamo sempre, perché siamo vivi. le frasi che enunciano il problema vanno quindi riscritte: possiamo agire come vogliamo? Possiamo volere indipendentemente dall’agire? Che senso ha l’agire, che è la nostra forma di essere?

Se faccio appello all’evidenza immediata, nella mia vita l’azione appare un fatto, il più generale e consistente dei fatti, l’espressione in me del determinismo universale; essa si compie anche senza di me. Più che un fatto, è una necessità da nessuna dottrina negata, poiché tale negazione richiederebbe uno sforzo supremo, e nessun uomo può evitarlo, dal momento che anche il suicidio è un atto; l’azione si compie anche mio malgrado. Più che una necessità, l’azione mi si rivela spesso come un obbligo; deve compiersi per opera mia, anche quando m’impone una scelta dolorosa, un sacrificio, una morte: non solo in essa consumo la mia vita fisica, ma a ogni istante le sacrifico affetti e desideri ognuno dei quali vorrebbe tutto per sé. Non andiamo avanti, non impariamo, non ci arricchiamo se non precludendoci tutte le strade meno una, se non impoverendoci di tutto quello che avremmo potuto sapere e conquistare in altro modo. C’è rammarico più tormentoso di quello che affligge l’adolescente costretto, per inserirsi nella vita, a limitare coi paraocchi la sua curiosità? Ogni decisione tronca un’infinità di atti possibili. Nessuno sfugge a questa mortificazione naturale. […] Dobbiamo costruire una scienza dell’azione; scienza che non sarà tale se non sarà totale, perché qualunque maniera di pensare e di vivere deliberatamente implica una soluzione completa del problema dell’esistenza; scienza che non sarà tale se non determinerà per tutti una soluzione unica, esclusiva di tutte le altre. Giacché, per essere scientifiche, le mie ragioni non debbono avere per me più valore di quanto non ne abbiano per gli altri, né la reazione al positivismo

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lasciare luogo a conclusioni diverse dalle mie. In questo ancora il metodo diretto di verifica pratica vuole essere completato; rimane da mostrarlo. Personali e incomunicabili, gli insegnamenti dell’esperire morale non sono validi in realtà se non per chi li suscita in sé. Questi può certo aver appreso dove si acquista la vera luce e fondato in sé una certezza profonda che supera, a suo avviso, ogni altra garanzia. Ma ciò che sa per il fatto di farlo, non può rivelare ad altri che non lo fanno: agli occhi altrui ciò apparirà come opinione, credenza o fede; persino ai suoi stessi occhi la sua scienza non assumerà quel carattere universale, impersonale e imperioso che ha la scienza. Ora è bene che, contro i sofismi della passione, ciascuno per sé possa giustificare nel modo più esauriente le ragioni del suo agire; è bene che ciascuno possa comunicare e dimostrare a tutti la soluzione, che egli sa essere quella sicura, del problema imposto a tutti; se la nostra vita dovrà giudicarci con sovrano rigore, è bene che noi la possiamo giudicare subito, se vogliamo, con sufficiente chiarezza. Appare quindi manifesto perché sia legittimo, anzi necessario, porsi il problema speculativo della pratica. Come esso si ponga, dovremo ora indagare. […] Nell’azione dovrà essere portato il centro della filosofia perché qui vi è anche il centro della vita. Se non sono ciò che voglio essere, ciò che voglio non con le labbra soltanto, non in forma di desiderio o di progetto, bensì con tutto il cuore e con tutte le forze, nei miei atti, non sono. Nel profondo del mio essere c’è un volere e un amare l’essere o non v’è nulla. Questa necessità che m’era sembrata costrizione tirannica, quest’obbligo che mi pareva dapprima dispotico, debbo constatare che in ultima analisi manifestano ed esercitano l’azione profonda della mia volontà; altrimenti mi distruggerebbero. La natura intera delle cose e la catena delle necessità che pesano sulla mia vita non sono se non la serie dei mezzi che debbo volere, che voglio infatti per compiere il mio destino. L’essere non volente e coatto non sarebbe più l’essere; prova ne sia che l’ultima parola di tutto è la bontà, e che essere è volere e amare. Nella filosofia della volontà il pessimismo s’è fermato troppo presto: ché a dispetto del dolore e della disperazione, avremo ancora ragione a riconoscere la verità e l’eccellenza dell’essere, se lo vorremo spontaneamente, con sincerità e spontaneità assolute; per patire l’essere, per odiare il mio essere, debbo ammettere e amare l’essere: il male e l’odio sono soltanto diventando un omaggio all’amore. […] Debbo ritrovare in tutti i miei atti proprio questa volontà più intima e più libera e portarla sino a perfetto compimento: l’essenziale è adeguare il movimento riflesso al movimento spontaneo del mio volere. Orbene, proprio nell’azione si determina tale rapporto di consonanza o di dissonanza. Per

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questo, lo studio dell’azione è della massima importanza, perché l’azione manifesta a un tempo la duplice volontà dell’uomo: in lui costruisce, quale un mondo che è la sua opera originale e che deve contenere la spiegazione completa della sua storia, tutto il suo destino. L’estremo sforzo dell’arte è questo: far fare agli uomini ciò che vogliono, come pure far conoscere loro ciò che sanno. Questa è l’ambizione del presente lavoro. Non dico che si possa violare le oscurità tutelari che assicurano il disinteresse dell’amore e il merito del bene. Ma, se salvezza esiste, non dipenderà dalla sapiente soluzione d’un oscuro problema e nemmeno sarà rifiutata alla perseveranza d’una ricerca rigorosa: la salvezza non può non essere offerta chiaramente a tutti. Dobbiamo portare questa luce a tutti coloro che le hanno voltato le spalle, a loro insaputa forse, nella notte che hanno fatto scendere su se stessi, una notte in cui la piena rivelazione del loro oscuro stato non li muterà più se non contribuiranno prima a mutarsi volontariamente. La sola supposizione che non verrà fatta subito è di credere che questi si smarriscono sapendolo e volendolo, che rifiutino la luce pur sentendo che essa li avvolge, che maledicano l’essere pur ammettendone la bontà. Eppure bisognerà giungere proprio a quest’eccesso, poiché non c’è nulla, in tutti i possibili atteggiamenti della volontà e in tutte le illusioni della coscienza, che non debba rientrare nella scienza dell’azione: finzioni e assurdità se si vuole, ma assurdità reali. V’è nell’illusorio, nell’immaginario e persino nel falso, una realtà, qualcosa di vivo e di sostanziale che prende corpo negli atti umani, una creazione di cui nessuna filosofia ha tenuto sufficientemente conto. Questo importa: raccogliere, unire e portare a compimento, quasi membra che, separate, periscono, tante sparse aspirazioni, allo scopo di edificare, attraverso l’infinità degli errori e grazie a essi, l’universale verità, quella che vive nel segreto d’ogni coscienza e dalla quale l’uomo non si separa mai.

 - Maurice Blondel (Digione 1861 - Aix-en-Provence 1949) pubblicò L’azione nel 1893. Il testo riportato è tratto da: M. Blondel, L’azione, a cura di R. Grippa, La Scuola, Brescia 1970, pp. 3 ss.

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B, Saggio sui dati immediati della coscienza PoiChé viviamo in Un Universo FisiCo Che ha leggi Che non Possiamo Contr addire, e di QUesto mondo il nostro CorPo è Parte, siamo dav vero liberi? bergson ha riformulato il classico problema della libertà, inteso come problema della effettiva possibilità per l’uomo di scegliere (è il problema del libero arbitrio). la sua riformulazione parte dalla constatazione che la sede della libertà di cui indaghiamo la vera natura è la coscienza, che non è affatto un mondo determinato da leggi tali da poterne prevedere la vita. al contrario, all’esame dello scienziato essa si mostra caratterizzata da un movimento nel tempo – che bergson chiama “durata” – che rimette in discussione le nozioni stesse di realtà e di essere: la coscienza non è, ma vive, cioè crea se stessa. Questo non vuol dire che crea il mondo, perché l’uomo vive in un mondo che non ha creato. se libertà è vivere al di fuori delle leggi della realtà, l’uomo non è libero. se libertà è la creatività della coscienza, l’uomo è libero. ma la coscienza non è una astrazione. lo stesso uomo vive, nella sua coscienza, l’esperienza del mondo (che ha leggi proprie e a cui la sua libertà non si estende). Che cosa sia questo mondo, è un altro problema.

Non è difficile capire per quale motivo il problema della libertà metta in contrasto fra loro questi due opposti sistemi della natura: il meccanicismo e il dinamismo. Il dinamismo parte dall’idea di attività volontaria, fornita dalla coscienza, e, svuotando un po’ alla volta questa idea, giunge alla rappresentazione dell’inerzia: concepisce quindi senza difficoltà, da una parte una forza libera, e dall’altra una materia governata da leggi. Il meccanicismo segue il cammino inverso. Suppone che i materiali di cui opera la sintesi siano retti da leggi necessarie, e sebbene arrivi a combinazioni sempre più ricche, sempre più difficili da prevedere, e in apparenza sempre più contingenti, non esce dal cerchio stretto della necessità, in cui si era chiuso fin dall’inizio. Approfondendo queste due concezioni della natura, si vedrà che esse implicano due ipotesi abbastanza diverse sul rapporto tra la legge e il fatto governato da essa. Quanto più allarga il suo sguardo tanto più il sostenitore del dinamismo crede di scorgere fatti che si sottraggono alla morsa delle leggi: innalza dunque il fatto a realtà assoluta, e la legge a espressione più

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o meno simbolica di questa realtà. Il meccanicismo, al contrario, distingue nel fatto particolare un certo numero di leggi di cui il fatto stesso costituirebbe in un certo modo, il punto di intersezione; in quest’ipotesi, proprio la legge diventerebbe la realtà fondamentale. E se ora si cercasse di capire per quale motivo gli uni attribuiscano una realtà superiore al fatto, mentre gli altri alla legge, scopriremmo, a nostro avviso, che il meccanicismo e il dinamismo usano la parola semplicità in due sensi molto diversi. Per il primo, è semplice ogni principio i cui effetti vengono previsti e vengono anche calcolati [...]. Ma il dinamismo non cerca tanto di stabilire l’ordine più conveniente tra le nozioni, quanto piuttosto di trovarne la reale filiazione: spesso, infatti quella che si pretende essere la nozione semplice – e che il meccanicista considera primitiva – è stata ottenuta dalla fusione di parecchie nozioni più ricche che sembravano derivare da essa [...]. Considerata da questo nuovo punto di vista, l’idea di spontaneità è incontestabilmente più semplice di quella di inerzia, poiché la seconda potrebbe essere compresa e definita solo grazie alla prima, e poiché quest’ultima basta a se stessa. Ognuno di noi ha infatti il sentimento immediato, reale o illusorio, della sua libera spontaneità, senza che l’idea di inerzia rientri in qualche modo in questa rappresentazione. [...] Possiamo ora formulare la nostra concezione della libertà. Si chiama libertà il rapporto tra l’io concreto e l’atto che compie. Questo rapporto è indefinibile, proprio perché siamo liberi. Infatti, si può analizzare una cosa, ma non un progresso; si può scomporre l’estensione, ma non la durata. Oppure, nel caso in cui ci si ostini comunque ad analizzarla, si trasforma inconsciamente il progresso in cosa, la durata in estensione. Per la sola pretesa di scomporre il tempo concreto, se ne srotolano i momenti nello spazio omogeneo; al fatto che si sta compiendo si sostituisce il fatto compiuto, e poiché si è cominciato col fissare in qualche modo l’attività dell’io, la spontaneità si risolve per noi in inerzia e la libertà in necessità. Perciò ogni definizione della libertà darà ragione al determinismo. Potremo infatti definire l’atto libero dicendo che esso, una volta compiuto, avrebbe potuto non esserlo? Ma questa affermazione – come pure quella contraria – implica l’idea di un’equivalenza assoluta tra la durata concreta e il suo simbolo spaziale: e dal momento che si ammette questa equivalenza, sviluppando la formula stessa che abbiamo appena enunciato, si arriva al determinismo più inflessibile. Oppure potremo definire l’atto libero, «quello che non può essere previsto neppure quando ne siano note in anticipo tutte le condizioni»? Ma pensare che tutte le condizioni siano date, equivale, nella durata concreta, a collocarsi nel momento stesso in cui l’atto si compie. A meno che non si ammetta che la materia della durata psichica può essere rappresentata simbolicamente in anticipo, il che significa, come abbiamo già detto, consi-

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derare nuovamente il tempo come un mezzo omogeneo, e ammettere, sotto una nuova forma, l’equivalenza assoluta tra la durata e il suo simbolo. Così, approfondendo questa seconda definizione della libertà, arriveremo di nuovo al determinismo. Oppure, infine, definiremo l’atto libero dicendo che non è necessariamente determinato dalla sua causa? Ma, o queste parole perdono qualsiasi significato, oppure con ciò si intende che dalle stesse cause interne non conseguiranno sempre gli stessi effetti. Si ammette così che gli antecedenti psichici di un atto libero potranno nuovamente riprodursi, che la libertà si dispiega in una durata i cui momenti si assomigliano, e che il tempo è un mezzo omogeneo, come lo spazio. Con ciò stesso saremo riportati all’idea di un’equivalenza tra la durata e il suo simbolo spaziale; e spremendo la definizione che avremo dato della libertà, ne faremo uscir fuori ancora una volta il determinismo. In sintesi, ogni domanda di chiarimento per quanto concerne la libertà ci porta senza che ce ne accorgiamo alla seguente domanda: «Il tempo può essere rappresentato adeguatamente mediante lo spazio?» – Al che rispondiamo di sì, nel caso in cui si tratti del tempo trascorso, e di no se parlate del tempo che scorre. Ora, l’atto libero si produce nel tempo che scorre, e non in quello trascorso. La libertà è quindi un fatto, ed è il più chiaro tra i fatti che constatiamo. Tutte le difficoltà del problema, e lo stesso problema, nascono dalla pretesa di dare alla durata gli stessi attributi dell’estensione, di interpretare una successione mediante una simultaneità, e di tradurre l’idea di libertà in un linguaggio in cui essa è evidentemente intraducibile.

 - Henri-Louis Bergson (Parigi 1859-1941) presentò il Saggio sui dati immediati della coscienza alla Sorbona, nel 1889, come tesi di dottorato. Il testo riportato è tratto da: H.-L. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, in Opere 1889-1896, a cura di P.A. Rovatti, Mondadori, Milano 1986, pp. 82-83, 100-101.

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B, Saggio sui dati immediati della coscienza Ciò Che noi siamo, è Un essere o Un divenire? Ciò che siamo lo immaginiamo come un essere, ma è un divenire. noi non siamo mai nella nostra coscienza altro che ciò che in ogni istante diveniamo, per il semplice fatto che non siamo mai, ma duriamo per un po’ di tempo. abbiamo sì una identità (altrimenti “chi” durerebbe?) ma questa identità è reale solo nel durare, cioè nella creatività della coscienza che vive producendo se stessa. diveniamo ciò che siamo (nella durata), non semplicemente siamo.

Diviene allora evidente che, al di fuori di ogni rappresentazione simbolica, il tempo non assumerà mai per la nostra coscienza l’aspetto di un mezzo omogeneo, in cui i termini di una successione si esteriorizzano gli uni rispetto agli altri. Ma a questa rappresentazione simbolica perveniamo naturalmente, per il solo fatto che, in una serie di termini identici, ogni termine assume per la nostra coscienza un duplice aspetto: uno sempre identico a se stesso, poiché pensiamo all’identità dell’oggetto esterno, l’altro specifico, perché l’addizione di questo termine dà luogo a una nuova organizzazione dell’insieme. Di qui, la possibilità di dispiegare nello spazio, nella forma di molteplicità numerica, ciò che abbiamo chiamato una molteplicità qualitativa, e di considerare l’una come l’equivalente dell’altra. Ora, da nessuna parte questo doppio processo si compie così facilmente come nella percezione di quel fenomeno esterno, inconoscibile in sé, che assume per noi la forma di un movimento. In questo caso abbiamo proprio una serie di termini identici fra loro, poiché si tratta sempre dello stesso mobile; ma d’altra parte, la sintesi operata dalla nostra coscienza tra la posizione attuale e ciò che la nostra memoria chiama la posizione anteriore, fa sì che queste immagini si compenetrino, si completino e che in qualche modo si prolunghino le une nelle altre. Quindi, è soprattutto attraverso l’intermediario del movimento che la durata assume la forma di un mezzo omogeneo, e che il tempo si proietta nello spazio. Ma, se non ci fosse stato il movimento, ogni ripetizione di un fenomeno esterno ben determinato avrebbe suggerito alla coscienza lo stesso modo di rappresentazione. Così, quando sentiamo una serie di colpi di martello, i suoni, in quanto sensazioni pure, formano una melodia indivisibile, dando ancora luogo a ciò che abbiamo chiamato un progresso dinamico: ma, sapendo che agisce la stessa causa oggettiva, dividiamo questo progresso in fasi che

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da questo momento consideriamo identiche; e poiché questa molteplicità di termini identici non può più essere concepita se non in base a un dispiegamento nello spazio, perveniamo di nuovo e necessariamente all’idea di un tempo omogeneo, immagine simbolica della durata reale. Insomma, con la sua superficie, il nostro io tocca il mondo esterno: e, sebbene si fondino le une nelle altre, le nostre sensazioni successive mantengono qualcosa dell’esteriorità reciproca che caratterizza oggettivamente le loro cause; ed è per questo che la nostra vita psicologica superficiale si svolge in un mezzo omogeneo senza che questa modalità di rappresentazione ci costi un grande sforzo. Ma il carattere simbolico di questa rappresentazione diviene sempre più evidente via via che penetriamo nelle profondità della coscienza: l’io interiore, quello che sente e si appassiona, che delibera e decide, è una forza i cui stati e modificazioni si compenetrano intimamente, subendo una profonda alterazione allorché li si separa per dispiegarli nello spazio. Ma siccome questo io più profondo forma una stessa e unica persona con l’io superficiale, sembra che essi durino nello stesso modo. E siccome la rappresentazione costante di un fenomeno oggettivo identico che si ripete seziona la nostra vita psichica superficiale in parti esterne le une alle altre, a loro volta, i momenti così ottenuti determinano dei segmenti distinti nel progresso dinamico e indiviso dei nostri stati di coscienza più personali. Così, questa esteriorità reciproca che la loro giustapposizione nello spazio omogeneo assicura agli oggetti materiali si ripercuote e si propaga sino alle profondità della coscienza: a poco a poco, le nostre sensazioni si staccano le une dalle altre come le cause esterne che le fecero nascere, e questo accade anche per i sentimenti o per le idee, similmente alle sensazioni di cui sono contemporanei. Che la nostra concezione abituale della durata derivi da una graduale invasione dello spazio nel campo della coscienza pura, lo prova molto bene il fatto che per togliere all’io la facoltà di percepire un tempo omogeneo basta staccare da lui quello strato più superficiale di fatti psichici che egli utilizza come regolatori. Il sogno ci pone proprio questa condizione, poiché il sonno, allentando il gioco delle funzioni organiche, modifica soprattutto la superficie di comunicazione tra l’io e le cose esterne. Allora non misuriamo più la durata, la sentiamo; da quantità, ritorna allo stato di qualità: non c’è più valutazione matematica del tempo trascorso, essa ha lasciato il posto a un istinto confuso che, come tutti gli istinti, può commettere degli errori grossolani ma talvolta anche procedere con una straordinaria sicurezza. Anche allo stato di veglia, l’esperienza quotidiana dovrebbe insegnarci a cogliere la differenza tra la durata-qualità, quella che la coscienza afferra immediatamente, e che probabilmente l’animale percepisce, e il tempo per così dire materializzato, il tempo divenuto quantità a causa di un dispiegamento nello spazio.

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Quindi, per concludere, distinguiamo, due forme di molteplicità, due valutazioni molto diverse della durata, due aspetti della vita cosciente. Al di sotto della durata omogenea, simbolo estensivo della vera durata, una psicologia attenta riesce a districare una durata i cui momenti eterogenei si compenetrano al di sotto della molteplicità numerica degli stati di coscienza, una molteplicità qualitativa; al di sotto di un io dagli stati ben definiti, un io in cui la successione implica fusione e organizzazione. Ma la maggior parte delle volte noi ci limitiamo al primo di essi, e cioè all’ombra dell’io proiettata nello spazio omogeneo. La coscienza, tormentata da un insaziabile desiderio di distinguere, sostituisce il simbolo alla realtà, oppure scorge quest’ultima solo attraverso il primo. E siccome l’io così rifratto, e per ciò stesso suddiviso, si presta infinitamente meglio alle esigenze della vita sociale in generale e del linguaggio in particolare, essa lo preferisce, e perde di vista a poco a poco l’io fondamentale. Per ritrovare questo io fondamentale, così come verrebbe percepito da una coscienza inalterata, è necessario un vigoroso sforzo d’analisi, attraverso il quale i fatti psicologici interni e vivi verranno isolati dalle loro immagini dapprima rifratte, e poi solidificate nello spazio omogeneo. In altri termini le nostre percezioni, sensazioni, emozioni e idee si presentano sotto un duplice aspetto: l’uno netto, preciso, ma impersonale; l’altro confuso, infinitamente mobile e inesprimibile, poiché il linguaggio non potrebbe coglierlo senza fissarne la mobilità, e nemmeno adattarlo alla sua forma banale senza farlo cadere nel dominio comune.

 - Henri-Louis Bergson (Parigi 1859-1941) presentò il Saggio sui dati immediati della coscienza alla Sorbona, nel 1889, come tesi di dottorato. Il testo riportato è tratto da: H.-L. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, in Opere 1889-1896, a cura di P.A. Rovatti, Mondadori, Milano 1986, pp. 127-128, 285-286.

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M, Distinguere per unire Che diFFerenZa C’è tr a l’essere e l’esistere, tr a Una Cosa e Un Pensiero, tr a il vero e il Falso? i termini metafisici che abbiamo contrapposto in queste domande d’apertura devono essere compresi al di fuori del semplice piano linguistico: non basta una definizione astratta, perché parlano del reale e con il reale devono misurarsi. ora, il reale è oggetto d’esperienza, d’intuizione, di ragionamento, perché possiede diversi volti, e non è affatto sufficiente una sola facoltà della mente per “comprenderlo”. analizzare ciascuno dei termini indicati e il loro rapporto, così come richiedono le domande che abbiamo posto, significa quindi costruire una indagine che passi dalla sfera della mente a quella della realtà e viceversa. il pensiero deve essere in grado di comprendere in sé una sfera del reale che gli è estranea. la tradizione tomista, richiamata da maritain, mostra come questo passaggio sia possibile, tanto nella direzione della materia quanto in quella delle realtà spirituali affini al pensiero umano, ma ugualmente diverse dalla mente individuale di ciascuno di noi. la verità è intesa come corrispondenza tra la cosa e la mente.

Vi sono per le cose due esse diversi, due piani di esistenza: l’esistenza propria di cui godono per mantenersi esse stesse fuori del nulla, e l’esistenza che loro sopraggiunge nell’apprensione dell’anima, per essere conosciute. Per poter entrare nel senso della vista, il convolvolo e la mela abbandonano la loro propria materia in cui sussistono; per poter entrare nell’intelligenza e nel ragionamento, essi abbandonano la loro individualità. Nel mondo interiore della nostra intelligenza vi sono innumerevoli visioni distinte o concetti distinti riferiti a cose che nel mondo della natura esistono indivise, e che conducono in quest’ultimo mondo una vita del tutto diversa che non in quello. Nel mondo della natura il leone divora l’antilope, in quello interiore il leone riceve, per mezzo della copula il predicato carnivoro. E la possibilità dell’errore proviene semplicemente dalla disparità .del modo di esistere delle cose in quei due mondi. Tutto ciò significa che il pensiero rispetto alla cosa non è come una riproduzione materialmente decalcata coincidente con un modello: vi è un abisso tra le condizioni o il modo del pensiero e le condizioni o il modo della cosa. Ma ciò significa inoltre che vi è tra la cosa e il pensiero, dico il pensiero in atto, un’unità infinitamente più profonda che non tra un modello e una riproduzione decalcata. Poiché se le cose fossero in qualche modo modificate o cambiate, non dico nelle loro condizioni di esistenza, nel loro modo di

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esistere, dico in ciò che le costituisce precipuamente, in ciò che esse sono, con la sensazione o l’intelligenza in atto, non vi sarebbe più né verità né conoscenza, e il teorico della conoscenza non potrebbe nemmeno esprimersi muovendo il dito, poiché in tal caso rimarrebbero soltanto due risorse egualmente impossibili: o dire che la conoscenza implica una relazione a cose ma che essa deforma queste cose, le quali di conseguenza non sono mai conosciute; oppure dire che la conoscenza non implica alcuna relazione a cose, e che essa è uno svolgimento assoluto del pensiero che non ha che se stesso come oggetto, posizione incompatibile con il fatto dell’errore e con il fatto delle idee negative, e che per di più appare come self-refuting, poiché non si può affermare che la conoscenza stessa sia questo o quello se non prendendola come una cosa distinta dall’atto con il quale la si pensa. […] La relazione di conoscenza è precisamente una relazione non deformante, che non altera né modifica il suo termine [...]. Questa esigenza, immanente alla conoscenza, di lasciare intatta e inalterata la cosa conosciuta, nella misura in cui è conosciuta, questa esigenza è tanto grande da non ammettere che nell’atto del conoscere la cosa e il pensiero siano separate: poiché allora vi sarebbe una qualche differenza tra il pensiero e la cosa; la cosa, per il fatto che è pensiero, non sarebbe puramente ciò che è. Nell’atto del conoscere, la cosa (nella misura stessa in cui è conosciuta) e il pensiero non sono soltanto uniti, ma sono strettamente uno: l’intelligenza in atto, secondo l’espressione di Aristotele, è l’intelligibile in atto. Ragion per cui dicevamo poc’anzi che la nozione della conoscenza come copia o riproduzione decalcata è del tutto insoddisfacente, non solo dal punto di vista della disparità tra le condizioni del pensiero e quelle della cosa, ma anche dal punto di vista dell’unità tra la cosa e il pensiero. Si vede quindi in quale senso occorre comprendere la definizione della verità che S. Tommaso ha reso classica: adaequatio rei et intellectus, adeguamento o conformità tra l’intelligenza e la cosa. Questo adeguamento o conformità non ha nulla a che vedere con una copia, o con una riproduzione materialmente decalcata. Dato che le nostre conoscenze provengono originariamente dai sensi, tutti i nostri vocaboli, lo ricordavamo poc’anzi, sono tratti dalla sfera del visibile e del tangibile: le parole adeguamento e conformità non fanno eccezione; ma ciò che indicano in questo caso deve essere pensato in un’assoluta purificazione dal visibile e dal tangibile. Si tratta di una certa corrispondenza del tutto unica nel suo genere tra la maniera in cui il pensiero si pronuncia sulla cosa e la pone nell’esistenza nel suo atto interiore di giudizio, e la maniera in cui la cosa esiste: corrispondenza che è un’identità sotto il rapporto, non del modo di esistere nella cosa e nella mente, ma dell’esistere della cosa preso nel suo puro valore di oggetto intelligibile, e che in questo caso è effettuato (o effettuabile) fuori della mente, mentre in quello è vissuto nella mente dalla mente come effettuato (o effet-

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tuabile) fuori della mente. Poiché il giudizio è come un’imitazione dell’atto creatore incapace di creare, esso porta il contenuto della mente all’esistenza fuori della mente, non per creazione ad extra, bensí per affermazione ad intra. «La verità, dice San Tommaso dopo Aristotele, è la conformità della mente con l’essere, secondo che affermi l’esistenza di ciò che è oppure la non esistenza di ciò che non è». È nell’essere posseduto dalla cosa e affermato dalla mente che si stabilisce questa conformità. Quando l’atto della mente, in ragione del quale le cose sono dentro di essa riferite all’esistenza in un determinato modo, concorda con il modo in cui le cose si comportano nell’esistenza (attuale o possibile) – più particolarmente, quando l’identificazione operata dalla mente tra i due termini di una proposizione corrisponde ad un’identità nella cosa, allora la mente è vera. E che questo si verifichi o no, non abbiamo in ogni caso nessun altro modo di saperlo se non riducendo il nostro pensiero nelle asserzioni immediate dell’esperienza sensibile e nei primi principi dell’intelligenza, in cui la nostra conoscenza non può essere falsa dato che è intuitivamente e immediatamente regolata da ciò che è. Ma ciò che a noi importa per il momento ricordare di queste osservazioni, è che la verità si assume rispetto all’esistenza, attuale o possibile, posseduta dalla cosa: verum sequitur  rerum.

 - Jacques Maritain (Parigi 1882 - Tolosa 1973) pubblicò Distinguere per unire nel 1932. Il testo riportato è tratto da: J. Maritain, Distinguere per unire, trad. it. di G. Giannini, in Grande antologia filosofica, vol. XXVII, Marzorati, Milano 1977, pp. 511-514

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H, Ricerche logiche Possiamo essere CosCienti senZa avere CosCienZa di QUalCosa? no, non possiamo. Questa semplice constatazione – è un fatto d’esperienza, si provi a essere coscienti senza coscienza di qualcosa e si osservi se ci si riesce – è il punto di partenza di un lungo percorso filosofico di indagine sulla conoscenza umana svolta da husserl nell’arco di molti decenni, una ricerca condotta con un metodo rigoroso, il metodo fenomenologico. il punto di partenza è la constatazione che abbiamo sottolineato, elaborata filosoficamente prima di husserl da brentano nella nozione di “intenzionalità”, che sottolinea come la coscienza sia sempre rivolta verso l’esterno: verso un mondo di cui vuole essere cosciente (la realtà dell’esperienza, la coscienza di altri, dio e così via).

È ora tempo di definire la natura della classificazione brentaniana, quindi quella del concetto di coscienza intesa come atto psichico. Guidato dall’interesse classificatorio a cui abbiamo accennato, Brentano stesso conduce la propria indagine distinguendo le due classi di «fenomeni» – quelli fisici e psichici – che egli assume come fondamentali. Egli ottiene così sei definizioni, di cui solo due sono per noi interessanti, in quanto in tutte le altre svolgono una funzione deleteria certi equivoci ingannevoli che rendono insostenibili i concetti di fenomeno, in particolare di fenomeno fisico, e quindi anche di percezione interna ed esterna. Delle due definizioni da noi privilegiate, la prima indica direttamente l’essenza degli atti o dei fenomeni psichici. Essa si impone in modo inconfondibile considerando esempi qualsiasi. Nella percezione viene percepito qualcosa, nella rappresentazione immaginativa qualcosa viene rappresentato in immagine, nell’enunciazione qualcosa viene enunciato, nell’amore qualcosa viene amato, nell’odio qualcosa viene odiato, nel desiderio qualcosa viene desiderato ecc. Brentano pensa ciò che si può cogliere di comune in questi esempi, quando dice: «Ogni fenomeno psichico è caratterizzato da ciò che gli scolastici del medioevo hanno chiamato in-esistenza intenzionale (o anche mentale) di un oggetto e che noi chiameremmo, non senza qualche ambiguità, riferimento a un contenuto, direzione verso un oggetto (e ciò non vuol dire che si tratti di una realtà) oppure oggettualità immanente. Ogni fenomeno psichico contiene in sé qualcosa come oggetto, benché non sempre in egual modo». Questa «modalità di riferimento della coscienza a un contenuto» (come Brentano spesso si esprime in altri passi) è appunto,

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nella rappresentazione, la modalità del rappresentare, nel giudizio, la modalità del giudicare ecc. Come è noto, il tentativo brentaniano di classificare i fenomeni psichici in rappresentazioni, giudizi e movimenti affettivi («fenomeni dell’amore e dell’odio») si basa su questa modalità di riferimento, che Brentano distingue appunto in tre tipi fondamentalmente diversi (a loro volta ulteriormente specificabili). Il fatto che si ritenga la classificazione brentaniana dei «fenomeni psichici» più o meno adeguata, oppure che si arrivi a riconoscere che essa ha per l’intera psicologia quella fondamentale importanza che il suo geniale autore pensava dovesse esserle attribuito, non è qui molto rilevante. Solo una cosa va sottolineata per l’importanza che essa detiene per noi: vi sono diverse modalità specifiche essenziali del riferimento intenzionale o, in breve, dell’intenzione (che rappresenta il carattere descrittivo generico dell’«atto»). La modalità in cui una «mera rappresentazione» di uno stato di cose «intende» questo suo oggetto, è diversa dalla modalità del giudizio che assume questo stato di cose come vero o falso. E diversa da entrambe è anche la modalità della presunzione e del dubbio, della speranza o del timore, della soddisfazione o dell’insoddisfazione, del desiderio o della ripugnanza; della decisione di un dubbio teoretico (decisione giudicativa) o di un dubbio pratico (decisione volitiva nel caso di una scelta i cui termini si equivalgono); della conferma di un’opinione teoretica (riempimento di un’intenzione giudicativa) o di una intenzione volitiva (riempimento dell’intenzione volitiva), e così via. Certo, se non tutti, almeno la maggior parte di questi atti sono vissuti complessi, e molto spesso le stesse intenzioni sono multiple. Le intenzioni affettive si basano su intenzioni rappresentazionali o giudicative ecc. Ma è indubbio che, dissolvendo questi complessi, perveniamo sempre a caratteri intenzionali primitivi che, nella loro essenza descrittiva, non possono essere ridotti a vissuti psichici di altro genere; ed è inoltre indubbio che l’unità del genere descrittivo «intenzione» («carattere d’atto») esibisce diversità specifiche che si fondano nell’essenza pura di questo genere, precedendo così, come un a priori, la fattualità empirico-psicologica. Vi sono specie e sottospecie di intenzioni essenzialmente diverse. In particolare è impossibile ridurre tutte le differenze tra gli atti di un tessuto di rappresentazione e di giudizi, ricorrendo semplicemente a elementi che non appartengono al genere «intenzione». [...] Il riferimento intenzionale, inteso in sede puramente descrittiva come peculiarità interna di certi vissuti, rappresenta per noi la determinazione essenziale dei «fenomeni psichici» o degli «atti», cosicché consideriamo la definizione di Brentano, secondo cui essi sono «fenomeni che tengono in sé intenzionalmente un oggetto», come una definizione essenziale, la cui «realtà» (nel senso di una volta) è naturalmente assicurata dagli esempi. In altri termini, al tempo stesso in una formulazione puramente fenomenolo-

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gica: l’ideazione effettuata sui casi particolari esemplificativi di tali vissuti – ed effettuata in modo tale da escludere qualsiasi posizione esistenziale e qualsiasi interpretazione empirico-psicologica, tenendo conto solo dello statuto fenomenologico reale di questi vissuti – ci presenta l’idea generica, puramente fenomenologica, di vissuto intenzionale o atto, nonché le sue specificazioni pure. Che non tutti i vissuti siano intenzionali è dimostrato dalle sensazioni e dalle complessioni sensoriali. Una frazione qualsiasi del campo visivo dato alla sensazione, comunque possa essere riempita da contenuti visuali, è un vissuto che può comprendere in sé contenuti parziali di varia specie, ma questi contenuti non sono in qualunque modo intenzionati dall’intero, non sono degli oggetti intenzionali.

 - Edmund Husserl (Prossnitz 1859 - Friburgo 1938) pubblicò le Ricerche logiche nel 1900-1901. Il testo riportato è tratto da: E. Husserl, Ricerche logiche, 2 voll., a cura di G. Piana, Il Saggiatore, Milano 1968, vol. II, pp. 158-161.

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H, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica Che Cosa aCCade nella mia mente se metto Fr a Parentesi il mondo? husserl ha elaborato un metodo rigoroso per l’analisi della mente. la decisione di studiare la mente e non la realtà deriva dalla constatazione che non conosciamo nulla della realtà senza averne coscienza, e quindi lo studio della mente è preliminare. husserl così facendo rimette al primo posto l’esigenza di Cartesio di un metodo che consenta di fare ordine nella mente che studia la realtà. ora, la coscienza è intenzionale, cioè ha come oggetto qualcosa che è sempre nella realtà (una cosa) o è supposto essere nella realtà (dio), o è possibile che sia nella realtà (per esempio quando temiamo qualcosa) o è concepito come se lo fosse (per esempio quando facciamo un progetto). se si vuole studiare la coscienza, e non tutti questi oggetti, bisogna metterli tra parentesi, fare come se non ci fossero (ma non possono non esserci: non avremmo più coscienza). il “come se” è espresso da husserl mediante l’espressione greca ITSGLq, che significa appunto “messo tra parentesi”.

L’epoché fenomenologico-trascendentale Al tentativo cartesiano di un dubbio universale potremmo ora sostituire l’universale epoché nel nostro nuovo e ben determinato senso. Ma a ragion veduta noi limitiamo l’universalità di questa epoché. Poiché, se le concediamo tutta l’ampiezza che può avere, non rimarrebbe più alcun campo per giudizi non modificati e tanto meno per una scienza: infatti ogni tesi e ogni giudizio potrebbero venir modificati in piena libertà e ogni oggetto di giudizio potrebbe venir messo in parentesi. Ma noi miriamo alla scoperta di un nuovo territorio scientifico, e vogliamo conquistarlo proprio col metodo della messa in parentesi, limitato però in un certo modo. Dobbiamo indicare questa limitazione. Noi mettiamo fuori azione la tesi generale inerente all’essenza dell’atteggiamento naturale, mettiamo di colpo in parentesi quanto essa abbraccia sotto l’aspetto ontico: dunque l’intero mondo naturale, che è costantemente «qui per noi», «alla mano», e che continuerà a permanere come «realtà» per la coscienza, anche se a noi talenta di metterlo in parentesi. Facendo questo, come è in mia piena libertà di farlo, io non nego questo mondo, quasi fossi un sofista, non revoco in dubbio il suo esserci, quasi fossi

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uno scettico; ma esercito in senso proprio l’epoché fenomenologica, cioè: io non assumo il mondo che mi è costantemente già dato in quanto essente, come faccio, direttamente, nella vita pratico-naturale ma anche nelle scienze positive, come un mondo preliminarmente essente e, in definitiva, come un mondo che non è un terreno universale d’essere per una conoscenza che procede attraverso l’esperienza e il pensiero. Io non attuo più alcuna esperienza del reale in un senso ingenuo e diretto. Io non assumo ciò che essa mi propone in quanto essente simpliciter, in quanto presuntivamente o probabilmente essente. I modi di validità operanti nell’esperire ingenuo, il cui compimento ingenuo è costituito dallo «stare sul terreno dell’esperienza» (senza peraltro che ci si ponga mai, attraverso una particolare iniziativa e attraverso una particolare decisione, su quel terreno), nell’ambito di questa esperienza, io li pongo fuori validità, mi vieto questo terreno. Ciò non investe le esperienze del mondano nella loro singolarità soltanto. Già ogni singola esperienza ha, per essenza, «il proprio» orizzonte universale di esperienza, il quale, benché non esplicito, comporta la costante convalidità della totalità aperta e infinita del mondo essente. Proprio questo valere preliminarmente, che mi porta attualmente e abitualmente nella vita naturale e che fonda la mia intera vita pratica e teoretica, proprio questo preliminare essere-per-me «del» mondo, io mi inibisco; gli tolgo quella forza che finora mi proponeva il terreno del mondo dell’esperienza, e tuttavia il vecchio andamento dell’esperienza continua come prima, salvo il fatto che questa esperienza, modificata attraverso questo nuovo atteggiamento, non mi fornisce più il «terreno» sul quale io fino a questo momento stavo. Così attuo l’epoché fenomenologica, la quale, dunque, eo ipso, mi vieta anche l’attuazione di qualsiasi giudizio, di qualsiasi presa di posizione predicativa nei confronti dell’essere e dell’essere-così e di tutte le modalità d’essere dell’esistenza spazio temporale del «reale». Così io neutralizzo tutte le scienze riferentesi al mondo naturale e, per quanto mi sembrino solide, per quanto le ammiri, per quanto poco io pensi ad accusarle di alcunché, non ne faccio assolutamente alcun uso. Non mi approprio di nemmeno una delle loro posizioni, anche se sono di perfetta evidenza, non ne assumo nessuna e da nessuna di esse ricavo alcun fondamento – beninteso, fintanto che esse vengono concepite, come avviene appunto in queste scienze, quali verità concernenti la realtà di questo mondo. Le posso assumere soltanto dopo aver loro applicato le parentesi, in conseguenza del fatto che io ho già sottoposto alla modificazione della messa in parentesi qualunque esperienza naturale, alla quale in definitiva rimanda ogni fondazione scientifica, come a un’esperienza che manifesta l’esistenza. Vale a dire: soltanto nella modificazione di coscienza della messa in parentesi del giudizio, dunque non come quelle proposizioni che sono

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nella scienza, dove reclamo una validità che del resto io stesso riconosco e utilizzo. Non si deve confondere l’epoché ora in questione con quella richiesta dal positivismo (contro la quale, come dobbiamo esserci persuasi, urta il positivismo comtiano stesso). Per noi non si tratta della neutralizzazione di tutti i pregiudizi che turbano la pura effettualità dell’indagine, né della costituzione di una scienza «libera da teorie», «libera dalla metafisica», facendo retrocedere ogni fondazione alle datità immediate della esperienza obiettiva, e nemmeno del mezzo per raggiungere tali fini, del cui valore non si fa questione. Quello che noi cerchiamo sta in tutt’altra direzione. Per noi il mondo intero, quale viene posto nell’atteggiamento naturale, quale effettivamente ci si offre del tutto «libero da giudizio» e chiaramente si annuncia alla connessione delle esperienze previa eliminazione delle apparenze, sia ora posto fuori della validità: non provato, ma anche non contestato, esso va messo in parentesi. Egualmente tutte le teorie e le scienze, per buone che siano, fondate positivamente o altrimenti, in quanto si riferiscono a questo mondo, soggiacciono al medesimo destino.

 - Edmund Husserl (Prossnitz 1859 - Friburgo 1938) pubblicò il primo volume di Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica nel 1913, mentre il secondo e terzo volume furono pubblicati postumi nel 1952. Il testo riportato è tratto da: E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, I, a cura di E. Filippini, Einaudi, Torino 1965, pp. 65-67.

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Capitolo

3 Logica, scienza, linguaggio Tra Ottocento e Novecento avviene una seconda rivoluzione scientifica che mette in crisi i fondamenti sia della matematica (scoperta delle geometrie non euclidee, paradossi dell’insiemistica), sia della fisica classica (relatività e meccanica quantistica). La filosofia è costretta a riflettere su questi mutamenti profondi, ripensando alle relazioni tra logica e matematica (Frege e Russell), alla rifondazione dell’assiomatica (Gödel), ai rapporti tra linguaggio, pensiero e realtà (Wittgenstein), alla ridefinizione del metodo scientifico stesso. La scienza perde il suo alone di conoscenza oggettiva e viene riconsiderata o come un sistema di congetture destinate alla confutazione (il falsificazionismo popperiano) o come una serie di teorie in conflitto (i paradigmi di Kuhn) o come una ricerca che rifiuta ogni rigore normativo in nome di un anarchismo epistemologico (Feyerabend).

F, I principi dell’aritmetica Il pensIero e la mente sono regolatI da leggI Interne che cI possono guIdare alla verItà? la questione è la seguente: noi pensiamo, e molto spesso l’oggetto del nostro pensiero è il mondo esterno al pensiero; nel pensare, dobbiamo seguire regole rigorose e interne al pensiero? si osservi che nella misura in cui la mente pensa il mondo esterno, essa sembrerebbe piuttosto doversi plasmare sul mondo esterno, per riprodurlo in sé. ma il mondo esterno non è pensiero. la verità sarà trovata seguendo le leggi del pensiero indipendentemente dalla realtà esterna (come quando diciamo “è logico che…”, e con ciò riteniamo di avere enunciato un principio che ci porta alla verità: la verità può non essere “logica”?) oppure si dovrà ricorrere all’esperienza come fonte indipendente dalla logica? È possibile una fondazione esclusivamente logica della verità? Frege risponde positivamente alla domanda e contrappone le verità della logica e quelle della psicologia, rivendicando il valore universale delle leggi logiche che “debbano costituire le norme del pensiero nella ricerca della verità”.

Per l’elaborazione della logica deve palesemente essere decisivo il modo con cui vengono concepite le sue leggi, e questo a sua volta dipende dal modo con cui viene inteso il termine «vero». Che le leggi logiche debbano costituire le norme del pensiero nella ricerca della verità, viene per certo ammesso anticipatamente da tutti; ciò non impedisce però che lo si dimentichi poi troppo facilmente. È qui fatale il doppio senso della parola «legge». Nel primo, essa enuncia ciò che è; nel secondo, ciò che deve essere. Solo in quest’ultimo senso le leggi logiche possono dirsi leggi del pensiero, in quanto stabiliscono come si debba pensare. Però anche ogni legge, la quale enuncia ciò che è, può venir interpretata come se ci prescrivesse di pensare in accordo con ciò che è; e costituisce perciò, in questo senso, una legge del pensiero. Questo avviene per le leggi geometriche e fisiche non meno che per quelle logiche. Le leggi logiche meritano, a maggior diritto delle altre, il nome di leggi del pensiero, solo allorché si voglia dire con ciò che esse sono leggi più generali, le quali prescrivono come si debba pensare ovunque, in generale, si pensi. Ma la parola «legge del pensiero» induce a ritenere che queste leggi reggano il pensiero allo stesso modo come le leggi della natura reggono il mondo esterno. Se così fosse, esse non potrebbero risultare che leggi psicologiche, poiché il pensiero è un processo della psiche. Però, se la logica avesse a che

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fare con queste leggi psicologiche, essa sarebbe una parte della psicologia: e così viene di fatto oggi interpretata. Accettato questo punto di vista, le leggi del pensiero possono venir concepite quali norme, pel fatto che indicano il modo comune, intermedio, di pensare; alla stessa maniera come potrebbe venir indicato in che modo proceda nell’uomo la digestione sana, o in che modo si parli in forma grammaticalmente esatta, o in che modo si vesta modernamente. Allora si può dire soltanto: a queste leggi si conforma, in complesso, il criterio di verità accettato oggi comunemente dagli uomini, per quanto almeno a noi conosciuti; se dunque si vuole restare d’accordo con la media, ci si regoli secondo esse. Ma, come ciò che oggi è moderno potrà forse fra qualche tempo non esserlo più e forse non lo è oggi stesso fra i cinesi, così – secondo un tal modo di vedere – anche le leggi logiche vanno accolte come decisive solo con qualche restrizione. Sì, anche noi potremmo condividere questo punto di vista, se nella logica si trattasse soltanto di ciò che noi stimiamo per vero, non di ciò che è vero. Queste due cose, per l’appunto, confondono i logici della scuola psicologica.

 - Gottlob Frege (Rostock 1848-1925) pubblicò I principi dell’aritmetica in due volumi, editi rispettivamente nel 1902 e nel 1903. Il testo riportato è tratto da: G. Frege, I principi dell’aritmetica, in Logica e aritmetica, a cura di A. Bonomi, Boringhieri, Torino 1965, pp. 485-486.

logica, scienza, linguaggio

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R, I principi della matematica QualI tIpI dI r agIonamentI deduttIvI sono possIBIlI? la logica ha sempre insegnato che le inferenze del pensiero possono procedere o per via induttiva (dal particolare al generale) o per via deduttiva (dal generale al particolare). nella logica aristotelica, per esempio, il modello di ragionamento deduttivo era il sillogismo e per duemila anni si è ritenuto che esso fosse l’unico tipo di dimostrazione deduttiva. come osserva russell, la logica moderna nasce quando, da leibniz in poi, si scoprono inferenze deduttive non sillogistiche, quali, per esempio, quelle della matematica. la logica formale, o simbolica, insegue il sogno di leibniz e di Frege, di costituire una scienza universale in cui si possa dare una fondazione logica alla matematica.

La logica simbolica o formale, userò questi termini come sinonimi, è lo studio dei vari tipi generali di deduzione. La parola simbolica designa il soggetto per mezzo di una caratteristica accidentale, perché l’uso dei simboli matematici, qui come altrove, è semplicemente una comodità, teoreticamente non essenziale. Il sillogismo, in tutte le sue figure, appartiene alla logica simbolica e se tutta la deduzione fosse sillogistica, come la tradizione scolastica supponeva, esso ne sarebbe l’unico argomento. È dalla scoperta delle inferenze non sillogistiche che la logica simbolica moderna, da Leibniz in poi, ha derivato il motivo a progredire. [...] La logica simbolica si occupa essenzialmente della inferenza in generale, e si distingue dai vari rami speciali della matematica soprattutto per la sua generalità. Né la matematica né la logica simbolica studieranno relazioni speciali come, per esempio, la priorità temporale, ma la matematica tratterà esplicitamente della classe di relazioni che posseggono le proprietà formali della priorità temporale: proprietà che si sommano nella nozione di continuità. Si definiscono come proprietà formali di una relazione quelle proprietà che possono essere espresse in termini di costanti logiche, o ancora quelle che, finché sono conservate, permettono che si vari detta relazione senza invalidare alcuna inferenza in cui essa relazione sia considerata nella luce di variabile. Ma la logica simbolica, nel suo senso più stretto, non investigherà quali inferenze possano ricavarsi rispetto alle relazioni continue (cioè, alle relazioni generanti serie continue); questa è una ricerca che appartiene alla matematica, essendo ancora troppo particolare per la logica simbolica. Ciò che la logica simbolica effettivamente studia sono le regole

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generali in base a cui si fanno le inferenze, e questo richiede una classificazione delle relazioni o proposizioni, solo in quanto tali regole generali introducano nozioni particolari. Le nozioni particolari che compaiono nelle proposizioni della logica simbolica, e tutte le altre definibili in termini di queste nozioni, sono le costanti logiche. Il numero delle costanti logiche indefinibili non è grande: in realtà sembra che esse siano otto o nove. Queste nozioni da sole formano l’oggetto di studio di tutta la matematica: in nessun punto dell’aritmetica, della geometria o della dinamica razionale ne appaiono altre, eccetto quelle che sono definibili in termini delle otto o nove originali. Per lo studio tecnico della logica simbolica, conviene prendere come uno degli indefinibili la nozione di implicazione formale, cioè la nozione di proposizioni sul tipo di «x è un uomo implica per tutti i valori di x che x sia un mortale». [...] Oltre all’implicazione formale assumiamo poi come indefinibili le seguenti nozioni: implicazione tra proposizioni che non contengono variabili, relazione fra un termine e una classe di cui esso è elemento, nozione di tale che, nozione di relazione, e verità. Tutte le proposizioni della logica simbolica possono essere enunciate mediante queste nozioni.

 - Bertrand Arthur William Russell (Trelleck 1872 - Penrhyndeudraeth 1970) pubblicò I principi della matematica nel 1903. Il testo riportato è tratto da: B. Russell, I principi della matematica, trad. it. di L. Geymonat, Longanesi, Milano 1963, pp. 44-46.

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R, Logica matematica se I par adossI non sono apparentI, cI sono verItà che sFuggono alle leggI della logIca? Il problema è se è possibile una fondazione logica della logica: cioè se la mente può pensare secondo verità seguendo esclusivamente i propri principi. se ci si trova davanti a paradossi, è evidente che questo non è possibile, e la razionalità umana scopre un suo limite molto serio. e tuttavia nei paradossi ci imbattiamo. Il problema è se esiste una via logica per uscirne.

[Paradossi logici] 1) La più antica antinomia della specie considerata è l’Epimenide. Epimenide il Cretese diceva che tutti i Cretesi erano bugiardi, e che tutte le affermazioni fatte dai Cretesi erano di sicuro bugie. Era la sua una bugia? La forma più semplice di quest’antinomia è offerta dall’uomo che dice «sto mentendo»; se mente, sta dicendo la verità, e viceversa. 2) Sia w la classe di tutte quelle classi che non sono membri di se stesse. Allora qualsiasi classe x si scelga, «x è una w» è equivalente ... a «x non è una x». Quindi, assegnando a x il valore w, «w è una w» è equivalente a «w non è una w». […] Nelle antinomie sopra ricordate – che sono soltanto una possibile scelta in mezzo a un numero indefinito – vi è una caratteristica comune, che possiamo descrivere come auto-riferimento o riflessività. L’osservazione di Epimenide deve includere se stessa nel proprio argomento. Se tutte le classi – supposto che non siano elementi di se stesse – sono elementi di w, ciò deve applicarsi anche a w; e in modo simile per l’analoga antinomia riguardante le relazioni. Nel caso dei nomi e delle definizioni, i paradossi risultano dal considerare la non-nominabilità e la non-definibilità come elementi dei nomi e delle definizioni. [...] In ogni antinomia si predica qualcosa di tutti i casi di qualche specie, e da ciò che viene detto sembra generarsi un nuovo caso che nello stesso tempo è, e non è, della stessa specie dei casi, ciascuno dei quali era coinvolto in ciò che si predicava. Esaminiamo le antinomie una per una, e vediamo come ciò succeda. 1) Quando un uomo dice «sto mentendo», possiamo interpretare la sua affermazione come «c’è una proposizione che io sto asserendo e che è falsa». Tutte le affermazioni che «esiste qualcosa così-e-così» possono considerarsi negazioni della verità del loro opposto; così «sto mentendo» diventa «non è vero di tutte le proposizioni che o io non le affermo oppure che esse

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sono vere»; in altri termini «non è vero di tutte le proposizioni p, che se io affermo p, p è vera». Il paradosso risulta dal considerare questa asserzione come se affermasse una proposizione, che deve perciò rientrare nell’ambito dell’asserzione. Ciò rende comunque evidente che la nozione di «tutte le proposizioni» è illegittima; poiché altrimenti devono esistere proposizioni (come quella sopra) che riguardano tutte le proposizioni, e che non possono però essere incluse senza contraddizione tra le proposizioni di cui esse trattano. Qualsiasi ipotesi si faccia sulla totalità delle proposizioni, asserzioni su questa totalità generano nuove proposizioni che, pena la contraddizione, debbono giacere al di fuori della totalità. È inutile estendere la totalità, poiché ciò amplia egualmente il raggio delle asserzioni sulla totalità. Dunque non dev’esserci la totalità delle proposizioni, e «tutte le proposizioni» dev’essere una frase priva di significato. 2) In questo caso la classe w è definita facendo riferimento a «tutte le classi», e risulta essere una delle classi. Se cerchiamo aiuto stipulando che nessuna classe è elemento di se stessa, allora w diventa la classe di tutte le classi, e dobbiamo stipulare che questa non è elemento di se stessa, cioè non è una classe. Ciò è possibile soltanto se non vi è niente di simile alla classe di tutte le classi nel senso richiesto dal paradosso. Che non vi è nessuna classe siffatta risulta dal fatto che, se supponiamo che vi sia, la supposizione dà immediatamente luogo (come nell’antinomia sopra) a nuove classi che stanno fuori della supposta totalità di tutte le classi.

 - Bertrand Arthur William Russell (Trelleck 1872 - Penrhyndeudraeth 1970) pubblicò Mathematical Logic as Based on the Theory of Types nel 1908. Il testo riportato è tratto da: B. Russell, Mathematical Logic as Based on the Theory of Types, in La logica del Novecento, a cura di E. Casari, Loescher, Torino 1981, pp. 266-268.

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G, La logica matematica di Russell sono super aBIlI I lImItI della r aZIonalItà , evIdenZIatI daI par adossI logIcI? Il problema se sia possibile superare i limiti della razionalità, evidenziati dall’esistenza dei paradossi logici, impegna molti studiosi, che avanzano soluzioni diverse. tra queste, le due proposte che hanno suscitato il maggior interesse sono quella di russell – che presenta nel 1908 la teoria dei tipi logici – e quella formulata da Zermelo – che affina l’assiomatizzazione della teoria degli insiemi di derivazione hilbertiana. una svolta decisa nei rapporti tra queste due impostazioni è data negli anni trenta-quaranta da gödel, il quale dimostra la compatibilità della teoria assiomatica di Zermelo-Fraenkel con alcuni fondamenti dell’ipotesi insiemistica.

Che valore hanno i tentativi di Russell di trovare soluzione ai paradossi logici? Le più importanti ricerche di Russell nel campo dell’analisi dei concetti della logica formale riguardano i paradossi logici e la loro soluzione. [...] Russell ha [...] indagato se e come queste assunzioni della logica dettate dal senso comune debbano essere corrette, giungendo alla conclusione che l’errore consiste nell’assumere come assioma che per ogni funzione proposizionale esiste la classe degli oggetti che la soddisfa, o che ogni funzione proposizionale esiste come «entità separata»; dove per «entità separata» si intende qualcosa di separabile dall’argomento (l’idea è che le funzioni proposizionali si ottengano per astrazione da proposizioni già date) e anche qualcosa di distinto dalla combinazione dei simboli che esprime la funzione proposizionale, dunque ciò che si potrebbe chiamare la nozione o il concetto che essa definisce. L’esistenza di tale concetto è già sufficiente per dar luogo ai paradossi nella loro forma «intensionale», dove il concetto di «non applicabile a se stesso» prende il posto della classe paradossale di Russell. Respingendo l’esistenza in generale di una classe o di un concetto, rimane da determinare sotto quali altre condizioni (riguardanti le funzioni proposizionali) tali entità esistono. Russell richiamò l’attenzione su due possibili vie per la ricerca di tale criterio, che chiamò rispettivamente la teoria zig-zag e la teoria della limitazione di grandezza, e che forse potrebbero essere chiamate più significativamente la teoria intensionale e la teoria estensionale. La seconda fa dipendere l’esistenza di una classe o di un con-

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cetto dall’estensione della funzione proposizionale (richiedendo che non sia troppo grande), la prima dal suo contenuto o senso (richiedendo un certo tipo di «semplicità» che andrebbe formulato con precisione). L’aspetto più caratteristico della seconda (in quanto opposta alla prima) consiste nella non-esistenza della classe universale o (nell’interpretazione intensionale) della nozione di «qualcosa» in senso non ristretto. La teoria assiomatica degli insiemi che è stata sviluppata in seguito […] può essere considerata un’elaborazione di questa idea per quanto riguarda le classi. In particolare si può precisare la frase «non troppo grande» […] come «non equivalente all’universo degli oggetti»; o, per essere più esatti, si può assumere che una funzione preposizionale determini una classe se e solo se non esiste alcuna relazione (cioè, intensionalmente, alcuna funzione proposizionale con due variabili) che associ biunivocamente a ogni oggetto un oggetto che soddisfa la funzione proposizionale e viceversa. Questo criterio non costituisce comunque la base della teoria, ma è una conseguenza degli assiomi e, viceversa, può sostituire due degli assiomi (l’assioma di rimpiazzamento e quello di scelta). Anche per il secondo suggerimento di Russell, cioè per la teoria zig-zag, è stato costruito recentemente un sistema logico che presenta alcune caratteristiche essenziali di questo schema, cioè il sistema di Quine. Inoltre non è improbabile che ci siano altre possibilità interessanti in questa direzione.

 - Kurt Gödel (Brno 1906 - Princeton 1978) scrisse La logica matematica di Russell nel 1944. Il testo riportato è tratto da: K. Gödel, La logica matematica di Russell, in La logica del Novecento, a cura di E. Casari, Loescher, Torino 1981, pp. 268-270.

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P, La scienza e l’ipotesi le geometrIe non euclIdee sono Fondate su prIncIpI dIversI da QuellI dI euclIde; dI QualI verItà parlano, e come Fanno a essere vere entr amBe? le geometrie non euclidee rappresentarono nel corso dell’ottocento e poi del primo novecento un banco di prova per i matematici e i logici, soprattutto per coloro che tentavano di trovare un insieme di leggi del pensiero che consentisse di identificare la verità di un qualsiasi enunciato linguistico (in ultima analisi: la verità di quello che pensiamo e diciamo) ricorrendo alle sole leggi del pensiero. ci si trovava di fronte a un caso in cui, partendo da enunciati non compatibili fra loro, veniva mostrata la possibilità di costruire geometrie molto diverse e tutte logicamente corrette. ma incompatibili fra loro. vere o false? o forse questa domanda è mal posta e di fronte a tali nuovi campi della matematica va ridefinita la nozione di verità?

Per lungo tempo si è cercato invano di dimostrare il [...] postulato di Euclide. Gli sforzi fatti in questa chimerica speranza sono veramente inimmaginabili. Finalmente, al principio del secolo, e all’incirca nello stesso tempo, due scienziati, un russo e un ungherese, Lobacˇevskij e Bolyai, stabilirono in maniera irrefutabile che tale dimostrazione è impossibile; essi ci hanno quasi liberati dagli inventori di geometrie senza postulati. [...] Se fosse possibile dedurre il postulato di Euclide dagli altri assiomi, avverrebbe evidentemente che, negando il postulato e ammettendo altri assiomi, si arriverebbe a conseguenze contraddittorie; sarebbe dunque impossibile fondare su tali premesse una geometria coerente. Ora ciò è precisamente quello che ha fatto Lobacˇevskij. Egli suppone al principio che: si possono per un punto condurre più parallele a una retta data, e conserva, invece, tutti gli altri assiomi di Euclide. Da questa ipotesi deduce una serie di teoremi, tra i quali è impossibile rilevare alcuna contraddizione, e costruisce una geometria, la cui logica impeccabile non cede in nulla a quella della geometria euclidea. I teoremi di tale geometria sono, si capisce, molto differenti da quelli a cui siamo abituati, ed essi in sul principio ci disorientano un poco. Per esempio, la somma degli angoli di un triangolo è sempre minore di due retti, e la differenza tra questa somma e due retti è proporzionale alla superficie del triangolo. [...]

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La maggior parte dei matematici non considera la geometria di Lobacˇevskij se non come una semplice curiosità logica; alcuni di essi sono andati tuttavia più lontano. Poiché parecchie geometrie sono possibili, è proprio certo che la nostra è la vera? L’esperienza c’insegna, senza dubbio, che la somma degli angoli di un triangolo è uguale a due retti; ma perché noi non operiamo che su triangoli troppo piccoli; la differenza, secondo Lobacˇevskij, è proporzionale alla superficie del triangolo; non potrebbe diventar sensibile se operassimo su triangoli più grandi, o se le nostre misure divenissero più precise? La geometria euclidea sarebbe in tal caso non altro che una geometria provvisoria. Per discutere questa opinione dobbiamo prima domandarci qual sia la natura degli assiomi geometrici. Sono giudizi sintetici a priori, come diceva Kant? Ci si imporrebbero allora con tal forza, che non potremmo concepire la proposizione contraria, né costruire su di questa un edificio teorico. La geometria non euclidea non sarebbe possibile. Per convincersene, si prenda un vero giudizio sintetico a priori, per esempio questo...: se un teorema è vero per il numero 1, e se si dimostra che esso è vero per n + 1, purché lo sia anche per n, sarà vero per tutti i numeri interi positivi. Si provi poi di farne a meno, e di fondare, negando questa proposizione, una falsa aritmetica, analoga alla geometria non euclidea, – non vi si potrà riuscire; si è anzi tentati, a prima vista, di considerare questi giudizi come analitici. [...] Dobbiamo dunque concludere che gli assiomi della geometria sono verità sperimentali? Ma non si esperimenta su rette o su circonferenze ideali; non si può farlo che su oggetti materiali. A che porterebbero dunque le esperienze fatte al fine di fondare la geometria? È facile la risposta. Abbiamo visto... che si ragiona costantemente come se le figure geometriche si comportassero alla maniera dei corpi solidi. Ciò che la geometria prende in prestito dall’esperienza, sono dunque le proprietà di questi corpi. Le proprietà della luce e la sua propagazione rettilinea hanno dato così l’occasione, da cui sono sorte alcune proposizioni della geometria, e in particolare quelle della geometria proiettiva; da questo punto di vista, quindi, si sarebbe tentati di dire che la geometria metrica è lo studio dei solidi e che la geometria proiettiva è quello della luce. Ma una difficoltà sussiste, ed è insormontabile. Se la geometria fosse una scienza sperimentale, non sarebbe una scienza esatta, e andrebbe soggetta a una continua revisione. Che dico? Essa sarebbe fin d’ora riconosciuta erronea, poiché sappiamo che non esiste solido rigorosamente invariabile. Gli assiomi non sono dunque né giudizi sintetici a priori né fatti sperimentali: sono convenzioni. La nostra scelta fra tutte le convenzioni possibili è guidata da fatti sperimentali; ma essa resta libera ed è limitata solo dalla necessità di evitare ogni contraddizione. In tal modo i postulati possono rimanere rigorosamente veri, anche quando le leggi sperimentali, che ne hanno suggerita l’adozione, sono approssimative. In altri logica, scienza, linguaggio

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termini, gli assiomi della geometria (non parlo qui di quelli dell’aritmetica) sono semplici definizioni mascherate. Che si deve quindi pensare della questione circa la verità della geometria? Essa non ha alcun senso. Sarebbe come domandare se il sistema metrico sia vero e false le antiche misure; se siano vere le coordinate cartesiane e false quelle polari. Una geometria non può essere più vera di un’altra; essa può essere soltanto più comoda. Ora la geometria euclidea è e resterà la più comoda: 1o Perché è la più semplice; e lo è, non solo in rapporto alle nostre abitudini intellettuali, o per non so quale intuizione diretta che noi avremmo dello spazio euclideo; ma anche essa è la più semplice in sé, come un polinomio di primo grado è più semplice di un polinomio di secondo grado, e come le formule della trigonometria sferica sono più complicate di quelle della geometria rettilinea, e tali ancora sembrerebbero a un analista che ne ignorasse il significato geometrico. 2o Perché la geometria si accorda assai bene con le proprietà dei solidi naturali di questi corpi che noi tocchiamo e vediamo, e coi quali facciamo i nostri strumenti di misura.

 - Jules-Henri Poincaré (Nancy 1854 - Parigi 1912) pubblicò La scienza e l’ipotesi nel 1902. Il testo riportato è tratto da: H. Poincaré, La scienza e l’ipotesi, trad. it. di F. Albergamo, La Nuova Italia, Firenze 1949, pp. 46-50, 57-59.

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W, Tractatus logico-philosophicus possIamo pensare senZa un lInguaggIo? Quando pensiamo, molto spesso commettiamo errori: siamo illogici. pensieri che sono contraddittori sono pensati come veri. ora, se cerchiamo di identificare la verità dei nostri pensieri questa situazione deve essere superata, perché il mondo è uno solo e non è possibile che due pensieri sul mondo siano entrambi veri se sono in contraddizione. a condizione che parlino dello stesso mondo, naturalmente. ma di mondi di cui parlare ce n’è uno solo, per il solo fatto che, se fossero due, sarebbero unificati dal fatto che una sola mente li sta pensando. per tentare di pensare pensieri veri dobbiamo trovare un criterio. potrà essere un criterio non linguistico? no, dovrà essere necessariamente un criterio interno al linguaggio, perché non pensiamo affatto senza un linguaggio. la verità del pensiero è la verità del linguaggio che lo esprime. ma che differenza c’è allora tra il pensiero e il linguaggio?

Questo libro, forse, lo comprenderà solo colui che già a sua volta abbia pensato i pensieri ivi espressi – o, almeno, pensieri simili –. Esso non è, dunque, un manuale –. Conseguirebbe il suo fine se piacesse ad uno che lo legga comprendendolo. Il libro tratta i problemi filosofici e mostra – credo – che la formulazione di questi problemi si fonda sul fraintendimento della logica del nostro linguaggio. Tutto il senso del libro si potrebbe riassumere nelle parole: Tutto ciò che può essere detto si può dire chiaramente; e su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere. Il libro vuole, dunque, tracciare al pensiero un limite, o piuttosto – non al pensiero stesso, ma all’espressione dei pensieri: Ché, per tracciare un limite al pensiero, noi dovremmo poter pensare ambo i lati di questo limite (dovremmo, dunque, poter pensare quel che pensare non si può). Il limite non potrà, dunque, venire tracciato che nel linguaggio, e ciò che è oltre il limite non sarà che nonsenso. […] Se quest’opera ha un valore, il suo valore consiste in due cose. In primo luogo, pensieri son qui espressi; e questo valore sarà tanto maggiore quanto meglio i pensieri siano espressi. Quanto più si sia còlto nel segno. – Qui so d’essere rimasto ben sotto il possibile. Semplicemente poiché la mia forza è ímpari al cómpito. – Possa altri venire e far ciò meglio. logica, scienza, linguaggio

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Invece, la verità dei pensieri qui comunicati mi sembra intangibile ed irreversibile. Io ritengo, dunque, d’avere definitivamente risolto nell’essenziale i problemi. E, se qui non erro, il valore di quest’opera consiste allora, in secondo luogo, nel mostrare a quanto poco valga l’avere risolto questi problemi. 1 1.1 1.11 1.12 1.13 1.2 1.21 2 2.01 2.03 2.031 2.032 2.033 2.034 2.04 2.05 2.06 2.063 2.1 2.11 2.21 2.22 2.221 2.222 2.223

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Il mondo è tutto ciò che accade. Il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose. Il mondo è determinato dai fatti e dall’essere essi tutti i fatti. Ché la totalità dei fatti determina ciò che accade, ed anche tutto ciò che non accade. I fatti nello spazio logico sono il mondo. Il mondo si divide in fatti. Qualcosa può accadere o non accadere e tutto il resto rimanere eguale. Ciò che accade, il fatto, è il sussistere di stati di cose. Lo stato di cose è un nesso d’oggetti (entità, cose). Nello stato di cose gli oggetti sono interconnessi, come le maglie d’una catena. Nello stato di cose gli oggetti sono in una determinata relazione l’uno con l’altro. Il modo, nel quale gli oggetti ineriscono l’uno all’altro nello stato di cose, è la struttura dello stato di cose. La forma è la possibilità della struttura. La struttura del fatto consta delle strutture degli stati di cose. La totalità degli stati di cose sussistenti è il mondo. La totalità degli stati di cose sussistenti determina anche quali stati di cose non sussistono. Il sussistere e non sussistere di stati di cose è la realtà. (Il sussistere di stati di cose lo chiamiamo anche un fatto positivo; il non sussistere, un fatto negativo.) La realtà tutta è il mondo. Noi ci facciamo immagini dei fatti. L’immagine presenta la situazione nello spazio logico, il sussistere e non sussistere di stati di cose. L’immagine concorda o non concorda con la realtà; essa è corretta o scorretta, vera o falsa. L’immagine rappresenta ciò che rappresenta, indipendentemente dalla propria verità o falsità, mediante la forma di raffigurazione. Ciò che l’immagine rappresenta è il proprio senso. Nella concordanza o non-concordanza del senso dell’immagine con la realtà consiste la verità o falsità dell’immagine. Per riconoscere se l’immagine sia vera o falsa noi dobbiamo confrontarla con la realtà.

Filosofia contemporanea

2.224 2.225 3 3.001 3.01 3.02 3.03

Dall’immagine soltanto non può riconoscersi se essa sia vera o falsa. Un’immagine vera a priori non v’è. L’immagine logica dei fatti è il pensiero. «Uno stato di cose è pensabile» vuol dire: Noi possiamo farci un’immagine di esso. La totalità dei pensieri veri è un’immagine del mondo. Il pensiero contiene la possibilità della situazione che esso pensa. Ciò che è pensabile è anche possibile. Noi non possiamo pensare nulla d’illogico, poiché altrimenti dovremmo pensare illogicamente.

 - Ludwig Wittgenstein (Vienna 1889 - Cambridge 1951) durante la prima guerra mondiale fu fatto prigioniero dagli italiani e trascorse un anno a Cassino; qui elaborò il materiale, già steso in precedenza, che verrà pubblicato, dopo averlo discusso con Russell, con il titolo di Tractatus logico-philosophicus (1921). Il testo riportato è tratto da: L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, a cura di A.G. Conte, Einaudi, Torino 1989, pp. 3-5, 13 ss.

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W, Tractatus logico-philosophicus la teologIa negatIva , che rItIene non sI possa parlare dI dIo In termInI posItIvI, ha r agIone o Il lInguaggIo ha Questa possIBIlItà? Il linguaggio non ha la possibilità di parlare di dio in termini positivi: la teologia negativa ha ragione. e poiché noi pensiamo attraverso il linguaggio, e non pensiamo affatto se non linguisticamente, questo significa che non possiamo per nulla parlare di dio sapendo che cosa diciamo, e non possiamo pensarlo sapendo cosa pensiamo. ma questo non significa affatto che non si possa rivolgere il nostro pensiero a dio. Il mistico, con il suo silenzio, lo fa tutti i momenti. ma non può né dire né pensare il dio a cui tutta la sua anima è rivolta.

6.4 6.41

6.42 6.421 6.422

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Tutte le proposizioni sono di pari valore. Il senso del mondo dev’essere fuori di esso. Nel mondo tutto è come è, e tutto avviene come avviene; non v’è in esso alcun valore – né, se vi fosse, avrebbe un valore. Se un valore che abbia valore v’è, esso dev’esser fuori d’ogni avvenire ed essere-così. Infatti, ogni avvenire ed essere-così è accidentale. Ciò che li rende non-accidentali non può essere nel mondo, ché altrimenti sarebbe, a sua volta, accidentale. Dev’essere fuori del mondo. Né, quindi, vi possono essere proposizioni dell’etica. Le proposizioni non possono esprimere nulla di ciò che è più alto. È chiaro che l’etica non può formularsi. L’etica è trascendentale. (Etica ed estetica sono tutt’uno.) Il primo pensiero, nell’atto che è posta una legge etica della forma «Tu devi...», è: E se non lo faccio? Ma è chiaro che nulla l’etica ha a che fare con pena e premio, nel senso ordinario di questi termini. Dunque, questo problema delle conseguenze di un’azione non può non essere irrilevante. – O almeno, queste conseguenze non devono essere degli eventi. Infatti, in quella domanda qualcosa deve pur essere corretto. Dev’esservi sì una specie di premio etico e di pena etica, ma questi non possono non essere nell’azione stessa. (Ed è anche chiaro che il premio dev’essere qualcosa di grato; la pena, di ingrato.) Filosofia contemporanea

6.423

Della volontà quale portatore dell’etico non può parlarsi. E la volontà quale fenomeno interessa solo la psicologia. 6.43 Se il volere buono o cattivo àltera il mondo, esso può alterare solo i limiti del mondo, non i fatti, non ciò che può essere espresso dal linguaggio. In breve, il mondo allora deve perciò divenire un altro mondo. Esso deve, per così dire, decrescere o crescere in toto. Il mondo del felice è un altro mondo che quello dell’infelice. 6.431 Come pure alla morte il mondo non si àltera, ma termina. 6.4311 La morte non è evento della vita. La morte non si vive. Se, per eternità, s’intende non infinita durata nel tempo, ma intemporalità, vive eterno colui che vive nel presente. La nostra vita è cosí senza fine, come il nostro campo visivo è senza limiti. 6.4312 L’immortalità temporale dell’anima dell’uomo, dunque l’eterno suo sopravvivere anche dopo la morte, non solo non è per nulla garantita, ma, a supporla, non si consegue affatto ciò che, supponendola, si è sempre perseguíto. Forse è sciolto un enigma perciò che io sopravviva in eterno? Non è forse questa vita eterna cosí enigmatica come la presente? La risoluzione dell’enigma della vita nello spazio e nel tempo è fuori dello spazio e del tempo. (I problemi da risolvere qui non sono problemi della scienza naturale.) 6.432 Come il mondo è, è affatto indifferente per ciò che è più alto. Dio non rivela sé nel mondo. 6.4321 I fatti appartengono tutti soltanto al problema, non alla risoluzione. 6.44 Non come il mondo è, è il Mistico, ma che esso è. 6.45 La visione del mondo sub specie aeterni è la visione di esso come una totàlità – delimitata –.

6.5

6.51

6.52

Il sentimento del mondo come una totalità delimitata è il sentimento mistico. D’una risposta che non si può formulare non può formularsi neppure la domanda. L’enigma non v’è. Se una domanda può porsi, può anche avere una risposta. Lo scetticismo è non inconfutabile, ma apertamente insensato, se vuol mettere in dubbio ove non si può domandare. Ché dubbio può sussistere solo ove sussista una domanda; domanda, solo ove sussista una risposta; risposta, solo ove qualcosa possa essere detto. Noi sentiamo che, persino nell’ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto risposta, i nostri problemi vitali non logica, scienza, linguaggio

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6.521

6.522 6.53

6.54

7

sono ancora neppure sfiorati. Certo, allora non resta più domanda alcuna; e appunto questa è la risposta. La risoluzione del problema della vita si scorge allo sparire di esso. (Non è forse per questo che degli uomini ai quali il senso della vita divenne, dopo lunghi dubbi, chiaro, non seppero poi dire in che cosa consistesse questo senso?) Ma v’è dell’ineffabile. Esso mostra sé, è il Mistico. Il metodo corretto della filosofia sarebbe propriamente questo: Nulla dire se non ciò che può dirsi; dunque, proposizioni della scienza naturale – dunque, qualcosa che con la filosofia nulla ha a che fare –, e poi, ogni volta che altri voglia dire qualcosa di metafisico, mostrargli che, a certi segni nelle sue proposizioni, egli non ha dato significato alcuno. Questo metodo sarebbe insoddisfacente per l’altro – egli non avrebbe la sensazione che noi gli insegniamo filosofia –, eppure esso sarebbe l’unico metodo rigorosamente corretto. Le mie proposizioni sono chiarificazioni le quali illuminano in questo senso: Colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è asceso per esse – su esse – oltre esse. (Egli deve, per cosí dire, gettar via la scala dopo che v’è salito.) Egli deve superare queste proposizioni; è allora che egli vede rettamente il mondo. Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere.

 - Ludwig Wittgenstein (Vienna 1889 - Cambridge 1951) durante la prima guerra mondiale fu fatto prigioniero dagli italiani e trascorse un anno a Cassino; qui elaborò il materiale, già steso in precedenza, che verrà pubblicato, dopo averlo discusso con Russell, con il titolo di Tractatus logico-philosophicus (1921). Il testo riportato è tratto da: L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, a cura di A.G. Conte, Einaudi, Torino 1989, pp. 169 ss.

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W, Ricerche filosofiche perché pensIamo? certo, è utile farlo. ma lo facciamo anche quando non è utile, o è dannoso. Il fatto è che la parola “pensare” significa molte cose, e per ciascuna dovremmo dare una risposta diversa. per esempio il pensiero implica la coscienza di attese, sofferenze, emozioni, e così via; cioè di tutta una sfera della vita che porta a riformulare in questo modo la domanda che abbiamo fatto: perché viviamo? Il pensiero, infatti, non è per nulla al di fuori della vita. non nella nostra esperienza, almeno.

422. A che cosa credo, quando credo che nell’uomo ci sia un’anima? A che cosa credo, quando credo che questa sostanza contenga due anelli di atomi di carbonio? In entrambi i casi c’è un’immagine in primo piano, ma il senso si trova lontano, sullo sfondo; cioè, l’applicazione dell’immagine non è facile da cogliere chiaramente. 423. Certo, in te accadono tutte queste cose. – E ora fammi solo capire l’espressione che usiamo. – L’immagine c’è. E nel caso particolare non ne contesto la validità. – Soltanto, fammi anche capire l’applicazione dell’immagine. 424. L’immagine c’è, e non contesto la sua correttezza. Ma che cos’è la sua applicazione? Pensa all’immagine della cecità come a una oscurità nell’anima o nella testa del cieco. 432. Ogni segno, da solo, sembra morto. Che cosa gli dà vita? – Nell’uso, esso vive. Ha in sé l’alito vitale? – O l’uso è il suo respiro? 439. In che senso si possono chiamare «insoddisfatti» il desiderio, l’aspettazione, la credenza, ecc.? Qual è il nostro archetipo dell’insoddisfazione? Uno spazio vuoto? E di un tale spazio diremmo che è insoddisfatto? Non sarebbe anche questa una metafora? – Ciò che chiamiamo insoddisfazione non è forse un sentimento – per esempio, la fame? In un determinato sistema di espressioni possiamo descrivere un oggetto per mezzo delle parole «soddisfatto» e «insoddisfatto». Per esempio, se stabiliamo di chiamare il cilindro vuoto un «cilindro insoddisfatto» e il cilindro solido, che lo riempie, «la sua soddisfazione». 440. Dire «Ho voglia di una mela» non significa: Credo che una mela calmerà il mio sentimento di insoddisfazione. Questa proposizione non è un’espressione di desiderio, ma di insoddisfazione. logica, scienza, linguaggio

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448. «Se dico che stanotte non ho sognato, devo pur sapere dove cercare il sogno; vale a dire: se applicata alla situazione di fatto, la proposizione ‘ho sognato’ può essere falsa, ma non può essere insensata». – Vuol dire che hai pur avvertito qualche cosa, per così dire l’indizio di un sogno, che ti ha reso consapevole del luogo in cui si sarebbe trovato un sogno? Oppure: se dico «Non ho alcun dolore al braccio», questo vuol dire che ho un’ombra della sensazione di dolore, che accenna, per così dire, al posto in cui il dolore potrebbe sopraggiungere? In che senso lo stato presente di assenza di dolore contiene la possibilità del dolore? Se qualcuno dice: «Perché la parola ‘dolore’ abbia significato, è necessario che il dolore, quando capita, sia riconosciuto come tale» – si può rispondere: «Non è più necessario di quanto lo sia il riconoscere l’assenza del dolore». 449. «Ma non devo forse sapere come sarebbe se provassi dolore?» – Non riusciamo a liberarci dall’idea che usare una proposizione consiste nell’immaginare qualche cosa ad ogni parola. Non teniamo conto che con le parole calcoliamo, operiamo, e col tempo le trasferiamo in questa o in quell’immagine. – È come se credessimo che, per esempio, un buono per una mucca che qualcuno deve consegnarmi debba essere sempre accompagnato dall’immagine di una mucca, per non perdere il proprio senso. 454. «C’è già tutto in...» Com’è che la freccia A indica? Non sembra che, oltre se stessa, porti in sé qualcosa? – «No, non il morto segno; solo lo psichico, il significato, può farlo». – Questo è vero e falso. La freccia indica soltanto nell’applicazione che l’essere vivente ne fa. Questo indicare non è una stregoneria che solo l’anima può compiere. 466. A che scopo l’uomo pensa? A che gli serve? – Perché costruisce le caldaie in base a calcoli e non affida al caso la resistenza delle loro pareti? Dopo tutto è soltanto un fatto di esperienza che le caldaie, così calcolate, non esplodano tanto spesso! Ma come, una volta scottato, l’uomo farebbe di tutto piuttosto che mettere la mano nel fuoco, così farà qualsiasi cosa piuttosto che non calcolare la caldaia. – Però siccome le cause non ci interessano, – diremo: Sta di fatto che gli uomini pensano; per esempio, quando costruiscono una caldaia procedono in questo modo. – È impossibile che una caldaia, costruita in questo modo, esploda? Oh, sì. 467. Dunque l’uomo pensa perché il pensare ha dato buoni risultati? Perché pensa che sia vantaggioso pensare? (Educa i figli perché ciò ha dato buoni risultati)?

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469. E tuttavia si può dire che il pensare ha dato buoni risultati. Che da quando lo spessore delle pareti non viene più determinato al tatto, ma calcolato in questo modo così e così, o da quando ciascun calcolo fatto da un ingegnere viene controllato da un secondo ingegnere – le caldaie esplodono meno di prima. 470. Allora qualche volta si pensa perché la cosa ha dato buoni risultati. 472. La natura della credenza nell’uniformità degli avvenimenti apparirà forse più chiaramente nel caso in cui abbiamo timore di quello che ci aspettiamo. Niente mi potrebbe indurre a mettere la mano tra le fiamme, – per quanto solo nel passato mi sia bruciato. 473. La credenza che il fuoco mi brucerà è dello stesso genere del timore che mi brucerà. 479. La domanda: «Per quali ragioni lo credi?» potrebbe significare: «Da quali ragioni lo deduci, ora (l’hai dedotto, ora)?». Ma anche: «Quali altre ragioni puoi portarmi in favore di questa supposizione?».

 - Le Ricerche filosofiche di Ludwig Wittgenstein (Vienna 1889 - Cambridge 1951) furono pubblicate postume nel 1953. Il testo riportato è tratto da: L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, trad. it. di R. Piovesan e M. Trinchero, Einaudi, Torino 1967, pp. 97 ss.

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P, Logica della scoperta scientifica possIamo tr arre dall’esperIenZa conclusIonI dI portata unIversale? sarebbe molto utile farlo, perché l’esperienza può essere accumulata non solo da una singola persona, ma dall’umanità intera, e anzi una parte considerevole della cultura dell’uomo deriva dalla sedimentazione di esperienze. tuttavia, dopo la filosofia di hume non è più possibile sostenere che a partire dall’esperienza si può passare all’elaborazione di teorie universali ben fondate, secondo quel processo che nella storia della filosofia si è chiamato “induzione”. Questo metodo non ha validità scientifica, secondo popper.

Secondo un punto di vista largamente accettato – a cui mi opporrò in questo libro – le scienze empiriche possono essere caratterizzate dal fatto di usare i cosiddetti «metodi induttivi». Stando a questo punto di vista la logica della scoperta scientifica sarebbe identica alla logica induttiva, cioè all’analisi logica di questi metodi induttivi. Si è soliti dire che un’inferenza è «induttiva» quando procede da asserzioni singolari (qualche volta chiamate anche asserzioni «particolari») quali i resoconti dei risultati di osservazioni o di esperimenti, ad asserzioni universali, quali ipotesi o teorie. Ora, da un punto di vista logico, è tutt’altro che ovvio che si sia giustificati nell’inferire asserzioni universali da asserzioni singolari, per quanto numerose siano queste ultime; infatti qualsiasi conclusione tratta in questo modo può sempre rivelarsi falsa: per quanto numerosi siano i casi di cigni bianchi che possiamo aver osservato, ciò non giustifica la conclusione che tutti i cigni sono bianchi. La questione, se le inferenze induttive siano giustificate, o in quali condizioni lo siano, è nota come il problema dell’induzione. [...] Se vogliamo trovare un modo per giustificare le inferenze induttive, dobbiamo prima di tutto tentare di stabilire un principio di induzione. Un principio d’induzione sarebbe un’asserzione con l’aiuto della quale fosse possibile mettere le inferenze induttive in una forma logicamente accettabile. Agli occhi dei sostenitori della logica induttiva il principio d’induzione riveste un’estrema importanza per il metodo scientifico: «... questo principio – dice Reichenbach – determina la verità delle teorie scientifiche. Eliminarlo dalla scienza significherebbe nientemeno che privare la scienza del potere di decidere la verità o la falsità delle sue teorie. È chiaro che senza

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di esso la scienza non avrebbe più il diritto di distinguere le sue teorie dalle creazioni fantastiche e arbitrarie della mente del poeta». [...] Già dall’opera di Hume si sarebbe dovuto vedere chiaramente che in relazione al principio d’induzione possono facilmente sorgere contraddizioni; e si sarebbe anche dovuto vedere che esse possono venire evitate, ammesso che lo possano, soltanto con difficoltà. [...] Per conto mio, ritengo che le varie difficoltà della logica induttiva qui delineate siano insormontabili. Così pure, temo, sono insormontabili quelle inerenti alla dottrina, oggi tanto di moda, che l’inferenza induttiva, pur non essendo «rigorosamente valida», possa raggiungere qualche grado di «credibilità» o di «probabilità». Secondo questa dottrina le inferenze induttive sono «inferenze probabili». Abbiamo descritto – dice Reichenbach – il principio d’induzione come il mezzo grazie al quale la scienza decide sulla verità. Per essere più esatti dovremmo dire che esso serve a decidere sulla probabilità. Infatti alla scienza non è dato di raggiungere la verità o la falsità... ma le asserzioni scientifiche possono soltanto raggiungere gradi continui di probabilità i cui limiti superiore e inferiore, peraltro irraggiungibili, sono la verità e la falsità». A questo punto posso anche non tener conto del fatto che coloro i quali credono nella logica induttiva hanno un’idea della probabilità che invece io respingerò più tardi come altamente inadatta per i loro stessi scopi. Posso farlo perché le difficoltà che ho menzionato non vengono neppure sfiorate dall’appello alla probabilità. Infatti, se alle asserzioni basate sull’inferenza induttiva si deve assegnare un certo grado di probabilità, questo dovrà essere giustificato invocando un nuovo principio d’induzione opportunamente modificato, e questo principio dovrà essere esso stesso giustificato, e così via. Per di più, se a sua volta si considera il principio d’induzione non come «vero», ma soltanto come «probabile», non si guadagna proprio nulla.

 - Karl Raimund Popper (Vienna 1902 - Londra 1994) pubblicò la Logica della scoperta scientifica nel 1934. Il testo riportato è tratto da: K.R. Popper, Logica della scoperta scientifica, trad. it. di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1970, pp. 13-15.

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P, Logica della scoperta scientifica È possIBIle dIstInguere In modo rIgoroso le dIscIplIne scIentIFIche da Quelle che non lo sono, cIoÈ dIstInguere la scIenZa dalle altre Forme del sapere? la domanda su esposta è di particolare importanza perché l’uomo ha elaborato nella sua cultura moltissime forme di sapere e a esse ha prestato e presta fede in modo condizionato o incondizionato. le conseguenze pratiche sono di grande rilievo: si pensi al fatto che l’intera vita di una persona credente è orientata dalla sua fede. esistono quindi forme del sapere molto diverse. come distinguerle in modo rigoroso? come evitare di cadere in errore confondendo la loro natura? popper ha elaborato un criterio molto preciso, che parte dalla nozione di falsificazione. ecco un brano di sintesi che illustra la sua proposta.

Il criterio di demarcazione inerente alla logica induttiva – cioè il dogma positivistico del significato – è equivalente alla richiesta che tutte le asserzioni della scienza empirica (ovvero tutte le asserzioni «significanti») debbano essere passibili di una decisione conclusiva riguardo la loro verità e falsità; diremo che devono essere deducibili in modo conclusivo. Ciò significa che la loro forma dev’essere tale che sia il verificarle sia il falsificarle debbano essere logicamente possibili. Così Schlick dice: «[...] un’asserzione autentica deve essere passibile di verificazione conclusiva»; e Waismann afferma ancor più chiaramente: «Se non è in alcun modo possibile determinare se un’asserzione è vera, allora l’asserzione non ha alcun significato. Infatti il significato di un’asserzione è il metodo della sua verificazione». Ora, secondo me, non esiste nulla di simile all’induzione. È pertanto logicamente inammissibile l’inferenza da asserzioni singolari «verificate dall’esperienza» (qualunque cosa ciò possa significare) a teorie. Dunque le teorie non sono mai verificabili empiricamente. Se vogliamo evitare l’errore positivistico, consistente nell’eliminare per mezzo del nostro criterio di demarcazione i sistemi di teorie delle scienze della natura, dobbiamo scegliere un criterio che ci consenta di ammettere, nel dominio della scienza empirica, anche asserzioni che non possono essere verificate. Ma io ammetterò certamente come empirico, o scientifico, soltanto un sistema che possa essere controllato dall’esperienza. Queste considerazioni suggeriscono che, come criterio di demarcazione, non si deve prendere la verificabilità, ma la falsificabilità di un sistema. In altre parole: da un

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sistema scientifico non esigerò che sia capace di esser scelto, in senso positivo, una volta per tutte; ma esigerò che la sua forma logica sia tale che possa essere messo in evidenza, per mezzo di controlli empirici, in senso negativo: un sistema empirico deve poter essere confutato dall’esperienza. (Così l’asserzione «Domani qui pioverà o non pioverà» non sarà considerata un’asserzione empirica, semplicemente perché non può essere confutata, mentre l’asserzione «Qui domani pioverà» sarà considerata empirica.) Contro il criterio di demarcazione che ho proposto qui si possono sollevare diverse obiezioni. [...] si potrebbe tentare di rivolgere contro me stesso le critiche che ho rivolto al criterio di demarcazione induttivistico: potrebbe infatti sembrare che contro la falsificabilità come criterio di demarcazione sia possibile sollevare critiche simili a quelle che io, per parte mia, ho sollevato contro la verificabilità. Questo attacco non può darmi noia. La mia proposta si basa su un’a simmetria tra verificabilità e falsificabilità, asimmetria che risulta dalla forma logica delle asserzioni universali. Queste, infatti, non possono mai essere derivate da asserzioni singolari, ma possono venir contraddette da asserzioni singolari. Di conseguenza è possibile, per mezzo di inferenze puramente deduttive (con l’aiuto del modus tollens della logica classica), concludere dalla verità di asserzioni singolari alla falsità di asserzioni universali. Un tale ragionamento, che conclude alla falsità di asserzioni universali, è il solo tipo di inferenza strettamente deduttiva che proceda, per così dire, nella «direzione induttiva»; cioè da asserzioni singolari ad asserzioni universali. [...] Si può dire che, anche ammettendo l’asimmetria, è ancora impossibile, per varie ragioni, che un qualsiasi sistema teorico possa mai essere falsificato in modo conclusivo. Infatti è sempre possibile trovare qualche scappatoia per sfuggire alla falsificazione: per esempio, introducendo ad hoc un’ipotesi ausiliaria oppure trasformando, ad hoc, una definizione. È anche possibile adottare la posizione che consiste, semplicemente, nel respingere qualsiasi esperienza falsificante, senza che ciò conduca a contraddizioni. È vero che di solito gli scienziati non procedono in questo modo, ma tale procedimento è logicamente possibile; e il meno che si possa sostenere è che questo fatto rende dubbio il valore del criterio di demarcazione che ho proposto. Devo ammettere che questa critica è giusta; ma non per questo è necessario che io ritiri la mia proposta di adottare la falsificabilità come criterio di demarcazione. [...] il metodo empirico [...] esclude precisamente quei modi di sfuggire alla falsificazione che, come giustamente insiste il mio critico immaginario, sono logicamente ammissibili. Secondo la mia proposta, ciò che caratterizza il metodo empirico è la maniera in cui esso espone alla falsificazione, in ogni modo concepibile, il sistema che si deve controllare. Il logica, scienza, linguaggio

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suo scopo non è quello di salvare la vita a sistemi insostenibili, ma, al contrario, quello di scegliere il sistema che al paragone si rivela più adatto, dopo averli esposti tutti alla più feroce lotta per la sopravvivenza. Il criterio di demarcazione che ho proposto conduce anche a una soluzione del problema dell’induzione di Hume; del problema, cioè, della validità delle leggi di natura. La radice di questo problema è l’apparente contraddizione tra quella che può essere chiamata «la tesi fondamentale dell’empirismo» – la tesi secondo cui soltanto l’esperienza può decidere della verità o della falsità delle asserzioni della scienza – e la realizzazione humeana dell’inammissibilità delle argomentazioni induttive. Questa contraddizione nasce soltanto se si assume che tutte le asserzioni empiriche della scienza debbano essere «decidibili in modo conclusivo»; se cioè si assume che tanto la loro verificazione quanto la loro falsificazione debbano essere entrambe possibili in linea di principio. Se rinunciamo a questa esigenza e ammettiamo come empiriche soltanto quelle asserzioni che sono decidibili in un unico senso – [...] e, più specificamente, falsificabili – e possono essere controllate per mezzo di tentativi sistematici di falsificarle, allora la contraddizione svanisce.

 - Karl Raimund Popper (Vienna 1902 - Londra 1994) pubblicò la Logica della scoperta scientifica nel 1934. Il testo riportato è tratto da: K.R. Popper, Logica della scoperta scientifica, trad. it. di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1970, pp. 21-25.

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K, La struttura delle rivoluzioni scientifiche la scIenZa , rImanendo scIenZa , deve essere sempre dIsposta ad aBBandonare teorIe accettate; ma , se È così, che valIdItà hanno le teorIe scIentIFIche? la risposta alla prima delle nostre domande è storica. la scienza ha effettivamente rinunciato a teorie precedentemente accolte. teorie consolidate, accettate da decenni, secoli e perfino millenni, sono state a un tratto abbandonate a favore di altre (si pensi alla teoria eliocentrica). di colpo, ma non senza resistenza: una teoria è difesa finché è possibile adattarla alle nuove scoperte; viene abbandonata quando il proseguimento delle ricerche mette in luce dati che non possono essere spiegati se non cambiando teoria. chi decide? uno o molti propongono, ma è la comunità scientifica internazionale ad accettare o meno un cambio globale di teoria (che Kuhn chiama “paradigma”).

In questo saggio, «scienza normale» significa una ricerca stabilmente fondata su uno o più risultati raggiunti dalla scienza del passato, ai quali una particolare comunità scientifica, per un certo periodo di tempo, riconosce la capacità di costruire il fondamento della sua prassi ulteriore. Oggi tali punti fermi sono elencati, seppure raramente nella loro forma originale, dai manuali scientifici sia elementari che superiori. Questi manuali espongono il corpo della teoria riconosciuta come valida, illustrano molte o tutte le sue applicazioni coronate da successo e confrontano queste applicazioni con osservazioni ed esperimenti esemplari. [...] D’ora in avanti, per indicare i risultati che hanno in comune queste due caratteristiche, userò il termine «paradigmi» che ha una precisa relazione col termine «scienza normale». Con la scelta di questo termine ho voluto far presente il fatto che alcuni esempi di effettiva prassi scientifica riconosciuti come validi – esempi che comprendono globalmente leggi, teorie, applicazioni e strumenti – forniscono modelli che danno origine a particolari tradizioni di ricerca scientifica con una loro coerenza. Queste sono le tradizioni che lo storico descrive con etichette quali «astronomia tolemaica» (o «copernicana»), «dinamica aristotelica» (o «newtoniana»), «ottica corpuscolare» (o «ottica ondulatoria»), e così via. Lo studio dei paradigmi, inclusi molti che sono ampiamente più specializzati di quelli che abbiamo citati poco fa come esempi illustralogica, scienza, linguaggio

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tivi, è ciò che principalmente prepara lo studente a diventare membro della particolare comunità scientifica con la quale più tardi dovrà collaborare. Dal momento che in tale comunità egli incontra scienziati che appresero i fondamenti della loro disciplina dagli stessi modelli concreti, la sua attività successiva raramente susciterà un aperto disaccordo riguardo ai principî fondamentali. Coloro la cui ricerca si basa sui paradigmi condivisi dalla comunità scientifica si impegnano a osservare le stesse regole e gli stessi modelli nella loro attività scientifica. Questo impegno, e l’evidente consenso che esso produce, sono requisiti indispensabili per una scienza normale, ossia per la genesi e per il mantenimento di una particolare tradizione di ricerca. […] Quale è allora la natura di quel genere di ricerca più specializzata ed esoterica che è resa possibile dalla accettazione di un unico paradigma da parte di un gruppo? Se il paradigma rappresenta un lavoro che è stato realizzato una volta per tutte, quali ulteriori problemi vengono lasciati aperti da esso, perché il gruppo così unificato li risolva? Queste domande appariranno ancor più urgenti, se rivolgiamo ora l’attenzione su un particolare aspetto sotto il quale i termini fin qui usati possono risultare fuorvianti. Nell’uso corrente, per paradigma si intende un modello o uno schema accettato, e questo aspetto del suo significato mi ha permesso qui, in mancanza di uno migliore, di appropriarmi del termine di «paradigma». Ma ben presto apparirà chiaramente che il significato di «modello» e di «schema» che permette tale appropriazione non è propriamente quello abituale nella definizione di «paradigma». In grammatica, per esempio, «amo, amas, amat» è un paradigma, perché mostra lo schema da usare nel coniugare numerosi altri verbi latini, per esempio nell’ottenere «laudo, laudas, laudat». In questa applicazione convenzionale, la funzione del paradigma è quella di permettere la riproduzione di esempi, ciascuno dei quali potrebbe servire in linea di principio a sostituirlo. In una scienza, però, un paradigma è raramente uno strumento di riproduzione. Invece, analogamente a un verdetto giuridico accettato nel diritto comune, è lo strumento per una ulteriore articolazione e determinazione sotto nuove o più restrittive condizioni. Per vedere come ciò funziona, dobbiamo riconoscere quanto limitato possa essere sia l’ambito che la precisione di un paradigma, allorché esso appare in scena per la prima volta. I paradigmi raggiungono la loro posizione perché riescono meglio dei loro competitori a risolvere alcuni problemi che il gruppo degli specialisti ha riconosciuto come urgenti. Riuscire meglio, però, non significa riuscire completamente per quanto riguarda un unico problema o riuscire abbastanza bene per moltissimi problemi. Il successo di un paradigma [...] è all’inizio, in gran parte, una promessa di successo che si può intravedere in alcuni esempi scelti e ancora incompleti. La scienza normale consiste nella realizzazione di quella promessa, una realizzazio-

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ne ottenuta estendendo la conoscenza di quei fatti che il paradigma indica come particolarmente rivelatori, accrescendo la misura in cui questi fatti si accordano con le previsioni del paradigma, e articolando ulteriormente il paradigma stesso. Pochi tra coloro che non siano effettivamente impegnati nell’attività di una scienza matura si rendono conto di quanto lavoro di ripulitura di tal genere resti da fare dopo l’accettazione di un paradigma, o di quanto affascinante possa essere l’esecuzione di un simile lavoro. E questi punti devono essere chiaramente capiti. Le operazioni di ripulitura costituiscono l’attività che impegna la maggior parte degli scienziati nel corso di tutta la loro carriera. Esse costituiscono quella che qui chiamo la scienza normale. Una attività di tal genere, se esaminata da vicino, sia come è stata fatta nel corso della storia, sia come è condotta nei laboratori contemporanei, si presenta come un tentativo di forzare la natura entro le caselle prefabbricate e relativamente rigide fornite dal paradigma. Il compito della scienza normale non è affatto quello di scoprire nuovi generi di fenomeni; anzi, spesso sfuggono completamente quelli che non si potrebbero adattare all’incasellamento. Gli scienziati non mirano neanche, di norma, a inventare nuove teorie, e anzi si mostrano spesso intolleranti verso quelle inventate da altri. La ricerca nell’ambito della scienza normale è invece rivolta all’articolazione di quei fenomeni e di quelle teorie che sono già fornite dal paradigma.

 - Thomas Samuel Kuhn (Cincinnati 1922 - Cambridge nel Massachusetts 1996) pubblicò La struttura delle rivoluzioni scientifiche nel 1962. Il testo riportato è tratto da: T.S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, trad. it. di A. Carugo, Einaudi, Torino 1978, pp. 29-30, 43-44.

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F, Contro il metodo la rIcerca scIentIFIca È condotta secondo metodI; ne possono esIstere moltI, anche non compatIBIlI Fr a loro? la risposta alla questione presentata è storica: l’analisi del modo in cui le scoperte scientifiche sono state fatte mostra che non è stato usato un solo metodo, ma i più diversi, anche incompatibili tra loro. ci si trova in presenza di un vero e proprio anarchismo metodologico. la fecondità delle vie di ricerca non è predeterminabile.

Il saggio che segue è scritto nella convinzione che l’anarchismo, pur non essendo forse la filosofia politica più attraente, è senza dubbio una eccellente medicina per l’epistemologia e per la filosofia della scienza. Non è difficile trovarne la ragione. «La storia in generale, la storia delle rivoluzioni in particolare, è sempre più ricca di contenuto, più varia, più multilaterale, più viva, più “astuta”» di quanto possano immaginare anche il migliore storico e il miglior metodologo. La storia è ricca di «casi e congiunture e curiose giustapposizioni di eventi» e ci dimostra la «complessità del mutamento umano e il carattere impredicibile delle conseguenze ultime di ogni dato atto o decisione di esseri umani». Dobbiamo credere veramente che le regole ingenue e semplicistiche che i metodologi prendono come loro guida possano rendere ragione di un tale «labirinto di interazioni»? E non è chiaro che può partecipare con successo a un processo di questo genere solo un opportunista senza scrupoli che non sia legato ad alcuna particolare filosofia e che adotti in ogni caso il procedimento che gli sembra il più opportuno nella particolare circostanza? È questa in effetti la conclusione a cui sono pervenuti osservatori intelligenti e profondi. «Di qui [da questo carattere del processo storico] discendono due importantissime conclusioni pratiche», scrive Lenin alcune righe dopo il passo che abbiamo appena citato: «la prima è che la classe rivoluzionaria [cioè la classe che vuole o cambiare una parte della società, quale può essere la scienza, o la società nel suo complesso], per adempiere al suo compito, deve sapersi rendere padrona di tutte le forme o di tutti i lati, senza la minima eccezione, dell’attività sociale [dev’essere in grado di capire, e di applicare, non soltanto una metodologia particolare, ma qualsiasi metodologia, e qualsiasi variazione riesca a immaginarne]...; la seconda è che la classe rivoluzionaria dev’essere pronta alla sostituzione più rapida ed

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inattesa di una forma con l’altra». «Le condizioni esterne», scrive Einstein, «che per lui (per lo scienziato) sono date dai fatti dell’esperienza, non gli permettono di accettare condizioni troppo restrittive nella costruzione del suo mondo concettuale, in base all’autorità di un sistema epistemologico. È inevitabile, quindi, che appaia all’epistemologo sistematico come una specie di opportunista senza scrupoli...». Un mezzo complesso, comprendente sviluppi sorprendenti e imprevisti, richiede procedimenti complessi e presenta difficoltà insuperabili a un’analisi la quale operi sulla base di regole che siano state costituite in anticipo e senza tener conto delle condizioni sempre mutevoli della storia. […] Così stando le cose, la storia della scienza sarà altrettanto complessa, caotica, piena di errori e divertente quanto le idee che contiene, e queste idee a loro volta saranno altrettanto complesse, caotiche, piene di errori e divertenti quanto la mente di coloro che le inventarono. Inversamente, un po’ di lavaggio del cervello avrà l’effetto di rendere la storia della scienza più opaca, più semplice, più uniforme, più «obiettiva» e più facilmente accessibile a un trattamento che si fondi su regole rigide e immutabili. L’istruzione scientifica quale la conosciamo oggi ha precisamente questo scopo. Essa semplifica la «scienza» semplificandone i partecipanti: prima di tutto si definisce un settore di ricerca. Questo settore viene separato dal resto della storia (si separa per esempio la fisica dalla metafisica e dalla teologia) e riceve una «logica» propria. Una preparazione approfondita in tale «logica» condiziona quindi coloro che lavorano nel settore; essa rende le loro azioni più uniformi e congela gran parte del processo storico. Accade così che «fatti» stabili emergano e persistano nonostante le vicissitudini della storia. Una parte essenziale della formazione scolastica che fa emergere tali fatti consiste nel tentativo di inibire intuizioni che potrebbero condurre a confondere i confini fra un settore e l’altro. La religione di un individuo, per esempio, o la sua metafisica, o il suo senso dell’umorismo (il suo senso dell’umorismo naturale e non quella sorta di comicità acquisita e quasi sempre sgradevole che si trova in talune professioni specializzate) non devono avere la minima connessione con la sua attività scientifica. La sua immaginazione viene repressa, e anche il suo linguaggio cessa di essere un linguaggio personale. Questo atteggiamento si riflette poi nuovamente nella natura di «fatti» scientifici che sono sperimentati come indipendenti da opinioni e convinzioni e dallo sfondo culturale. È possibile in questo modo creare una tradizione che venga mantenuta in vita dall’osservanza di norme rigorose e che entro certi limiti ottenga anche risultati importanti. Ma è desiderabile sostenere una tale tradizione a esclusione di qualsiasi altra cosa? Dovremmo trasferire ad essa i diritti esclusivi di occuparsi della conoscenza, così da escludere immediatamente qualsiasi risultato sia stato ottenuto con altri metodi? È questa la domanda logica, scienza, linguaggio

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che intendo esaminare nel presente saggio. E la mia risposta a tale domanda sarà un fermo e sonante NO. Ci sono due ragioni per cui una tale risposta sembra appropriata. La prima ragione è che il mondo che desideriamo esplorare è un’entità in gran parte sconosciuta. Dobbiamo perciò mantenere aperte le nostre scelte e non dobbiamo fissarci limiti in anticipo. Taluni precetti epistemologici possono apparire meravigliosi quando vengano confrontati con altri precetti epistemologici, o con princìpi di carattere generale, ma chi può garantire che essi siano il modo migliore per scoprire, non soltanto alcuni «fatti» isolati, ma anche segreti di natura profondi? La seconda ragione è che una formazione scientifica come quella descritta sopra (e qual è praticata nelle nostre scuole) non può essere riconciliata con un atteggiamento umanitario. Essa è in conflitto con quella «educazione dell’individualità, la quale sola produce, o può produrre, esseri umani ben sviluppati»; essa «storpia per compressione, come il piede di una dama cinese, ogni parte della natura umana che presenti un rilievo spiccato e tenda a rendere una persona marcatamente diversa» dagli ideali di razionalità che si trovano a essere di moda nella scienza [...]. Il desiderio di accrescere la libertà, di condurre a una vita piena e gratificante, e il corrispondente tentativo di scoprire i segreti della natura e dell’uomo, comportano quindi il rifiuto di ogni norma universale e di ogni tradizione rigida. (Essi comportano, naturalmente, anche il rifiuto di gran parte della scienza contemporanea.)

 - Paul Karl Feyerabend (Vienna 1924 - Genolier 1994) pubblicò Contro il metodo nel 1975. Il testo riportato è tratto da: P.K. Feyerabend, Contro il metodo, trad. it. di L. Sosio, Feltrinelli, Milano 1979, pp. 15-17.

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4 Essere ed esistere Nel Novecento la ricerca del senso dell’esistenza e dell’essere accomuna varie correnti filosofiche. Riferimento chiave è Heidegger, che nell’analitica esistenziale indaga i modi di essere dell’esserci e si pone poi le domande sul perché c’è l’essere e non il nulla e su come il linguaggio disveli la verità. Più legati alle tematiche esistenziali sono Jaspers, che vede oltre lo scacco dell’esistenza un’apertura verso il trascendente, e Sartre, che nega la trascendenza e concepisce l’esistenza come vuoto d’essere, come esperienza angosciante di fronte alla libertà. Nel secondo Novecento l’ermeneutica filosofica riceve contributi fondamentali da Gadamer e da Ricœur: il primo mostra come la struttura ontologica del circolo ermeneutico condizioni attraverso la precomprensione ogni interpretazione del mondo; il secondo propone un’ermeneutica demistificante, già presente nei tre “maestri del sospetto”: Marx, Nietzsche e Freud.

H, Essere e tempo La domanda è se si può conoscere oggettivamente, senza interpretazioni inevitabiLmente soggettive; come Facciamo a comprendere queLLo che conosciamo? è quello che i logici chiamano un “circolo”: nel conoscere, implicitamente interpreto. L’oggettività è intrisa di soggettività. per rendersene conto si osservi un qualsiasi oggetto intorno: sappiamo cos’è, ma questo significa che abbiamo interpretato le informazioni che ci giungono attraverso i sensi mentre le acquisiamo. vediamo sedie, tavoli, finestre, prati fuori dalla finestra, quando ai nostri occhi giungono solo forme e colori. possiamo non farlo? non conosceremmo affatto se lo facessimo (e in realtà non possiamo non farlo, anche se possiamo comprendere ciò che la mente fa). e la verità allora, nella sua pura oggettività? è possibile accedervi?

Comprensione e interpretazione L’Esserci, in quanto comprensione, progetta il suo essere in possibilità. Questo comprendente essere-per le possibilità, a causa del contraccolpo che le possibilità, in quanto aperte, hanno sull’Esserci, è un poter-essere. […] Nel progetto della comprensione, l’ente è aperto nella sua possibilità. Il carattere della possibilità corrisponde, di volta in volta, ai modi di essere dell’ente compreso. L’ente intramondano è progettato nel mondo, cioè in quella totalità di significatività ai cui rapporti di rimando il prendersi cura, in quanto essere-nel-mondo, si è già anticipatamente legato. Quando l’ente intramondano è scoperto a partire dall’essere dell’Esserci, quando cioè è portato a comprensione, diciamo che ha un senso. A rigor di termini, ciò che è compreso non è il senso, ma l’ente o l’essere. Senso è ciò in cui si mantiene la comprensibilità di qualcosa. Il senso è l’articolabile dell’aprire comprendente. Il concetto di senso abbraccia la struttura formale di ciò che appartiene necessariamente al contenuto articolabile dell’interpretazione comprendente. Il senso è il «rispetto-a-che» del progetto in base a cui qualcosa diviene comprensibile in quanto qualcosa; tale «rispetto-ache» è strutturato secondo la pre-disponibilità, la pre-visione e la precognizione. Poiché comprensione e interpretazione rappresentano la costituzione dell’essere del Ci, il senso deve essere concepito come la struttura formale-esistenziale dell’apertura propria della comprensione. Il senso è un

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esistenziale dell’Esserci e non una proprietà che inerisce all’ente o che gli sta «dietro» o che vaga in qualche «inter-mondo». Solo l’Esserci «ha» senso, e ciò perché l’apertura dell’essere-nel-mondo non è «riempibile» che attraverso l’ente in essa scoperto. Solo l’Esserci, quindi, può essere fornito di senso [sinnvoll] o sfornito di senso [sinnlos]; il che viene a significare che l’essere dell’Esserci e l’ente aperto con esso possono o essere afferrati nella comprensione o sfuggire nell’incomprensione. [...] Anche la comprensione, in quanto apertura del Ci, riguarda sempre l’essere-nel-mondo nella sua totalità. In ogni comprensione del mondo è con-compresa l’esistenza, e viceversa. Ogni interpretazione si muove nella struttura del «pre» che abbiamo descritta. L’interpretazione, che è promotrice di nuova comprensione, deve aver già compreso l’interpretando. Si tratta di un fatto già notato da tempo, benché solo nell’ambito di forme derivate di comprensione e di interpretazione come l’interpretazione filologica. Questa cade nel dominio della conoscenza scientifica. Un tal genere di conoscenza richiede la rigorosa giustificazione dei propri asserti. Il procedimento dimostrativo scientifico non può incominciare col presupporre ciò che si propone di dimostrare. Ma se l’interpretazione deve sempre muoversi nel compreso e nutrirsi di esso, come potrà condurre a risultati scientifici senza avvolgersi in un circolo, tanto più che la comprensione presupposta è costituita dalle convinzioni ordinarie degli uomini e del mondo in cui vivono? Le regole più elementari della logica ci insegnano che il circolo è circulus vitiosus. Ne deriva la rimozione a priori dell’interpretazione storiografica dal dominio del conoscere rigoroso. Poiché il costituirsi del circolo è un fatto che non può essere eliminato, la storiografia finisce per doversi accontentare di procedimenti conoscitivi meno rigorosi. Si crede di poter in qualche modo ovviare a questa mancanza di rigore facendo appello al «significato spirituale» dei suoi «oggetti». Anche secondo l’opinione dello storiografo, l’ideale sarebbe, certo, che il circolo potesse essere evitato e trovasse fondamento la speranza di poter un giorno costruire una storiografia indipendente dall’autore, come si presume lo sia la scienza della natura. Ma se si vede in questo circolo un circolo vizioso e se si mira ad evitarlo o semplicemente lo si «sente» come un’irrimediabile imperfezione, si fraintende la comprensione da capo a fondo. Non è il caso di modellare comprensione e interpretazione su un particolare ideale conoscitivo, che, in ultima analisi, è pur sempre una forma derivata di conoscere, smarritasi nel compito in sé legittimo della conoscenza della semplice-presenza nella sua incomprensibilità essenziale. Il chiarimento delle condizioni fondamentali della possibilità dell’interpretazione richiede, in primo luogo, che non si disconosca in partenza l’interpretare stesso quanto alle condizioni essenziali della sua possibilità. L’importante non sta nell’uscir fuori del circolo, ma nello starvi dentro nella maniera giusta. Il circolo della

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comprensione non è un semplice cerchio in cui si muova qualsiasi forma di conoscere, ma l’espressione della pre-struttura propria dell’Esserci stesso. Il circolo non deve essere degradato a circolo vitiosus e neppure ritenuto un inconveniente ineliminabile. In esso si nasconde una possibilità positiva del conoscere più originario, possibilità che è afferrata in modo genuino solo se l’interpretazione ha compreso che il suo compito primo, durevole e ultimo, è quello di non lasciarsi mai imporre pre-disponibilità, pre-veggenza e pre-cognizione dal caso o dalle opinioni comuni, ma di farle emergere dalle cose stesse, garantendosi così la scientificità del proprio tema. Poiché la comprensione, per il suo senso esistenziale stesso, è il poter-essere dell’Esserci, le presupposizioni ontologiche del conoscere storiografico trascendono in modo essenziale l’idea di rigore delle scienze esatte. La matematica non è più rigorosa della storiografia, ma semplicemente più ristretta quanto all’ambito dei fondamenti esistenziali per essa rilevanti. Il «circolo» del conoscere appartiene alla struttura del senso, che è un fenomeno radicato nella costituzione esistenziale dell’Esserci, nella comprensione interpretante. L’ente per cui, in quanto esser-nel-mondo, ne va del suo essere stesso, ha una struttura circolare di carattere ontologico.

 - Martin Heidegger (Messkirch 1889 - Friburgo 1976) pubblicò Essere e tempo nel 1927 a Marburgo, dove fu professore dal 1923 al 1928. Il testo riportato è tratto da: M. Heidegger, Essere e tempo, trad. it. di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1976, pp. 188-195.

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H, Che cos’è la metafisica se si pensa aL nuLLa , non si sa bene che cosa pensare; ma è dav vero possibiLe non pensarci? no, non è possibile. heidegger sottolinea il tema della morte come componente della vita, suo elemento essenziale. il nulla non è senza significato per noi, perché ci avvolge da ogni lato, nel tempo e nello spazio, per la semplice ragione che siamo finiti, limitati e mortali. ma quando pensiamo al nulla pensiamo qualcosa? come fare ad afferrare con la mente questo nonqualcosa così importante per noi?

L’elaborazione della domanda relativa al niente deve portarci in quella situazione dalla quale è possibile scorgere la risposta oppure l’impossibilità della risposta. Il niente è ammesso. La scienza, con superiore indifferenza nei suoi confronti, lo abbandona come ciò che «non c’è». Noi tuttavia tentiamo di interrogarci a proposito del niente. Che cos’è il niente? Già al primo contatto la domanda mostra qualcosa di insolito. Nel porcela, infatti, noi già all’inizio assumiamo il niente come qualcosa che «è» così e così, cioè lo trattiamo come un ente. Eppure il niente differisce proprio da esso in modo assoluto. Domandare del niente, chiedere che cos’è, e come è, significa tradurre l’oggetto della domanda nel suo contrario. La domanda si priva essa stessa del suo oggetto proprio. Ne consegue che anche ogni risposta a questa domanda è per principio impossibile, perché inevitabilmente si articola nella forma secondo cui il niente «è» questo o quello. Rispetto al niente, domanda e risposta sono nello stesso modo un controsenso. [...] Dove cerchiamo il niente? Come lo troviamo? Per trovare qualcosa, non dobbiamo forse già sapere in generale che c’è? Certamente! Innanzitutto e per lo più l’uomo è in grado di cercare solo se presuppone la presenza di quel che cerca. Ora, però, quel che cerca è il niente. Ma c’è in fondo un cercare senza quella presupposizione, un cercare cui corrisponda un puro trovare? Comunque sia, noi conosciamo il niente, anche se soltanto per il fatto che in un modo o nell’altro quotidianamente ne parliamo. Questo niente comune, sbiadito, che, con tutto il pallore dell’ovvietà, vaga inavvertitamente nei nostri discorsi, noi possiamo addirittura sistemarlo subito in una «definizione». Il niente è la negazione completa della totalità dell’ente. Questa caratterizzazione del niente non punta l’indice nella direzione da cui solamente esso può venirci incontro? essere ed esistere

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Occorre che sia prima data la totalità dell’ente, affinché, semplicemente come tale, questa possa cadere sotto la negazione, nella quale poi il niente stesso dovrebbe annunciarsi. Ma anche se prescindiamo dalla problematicità del rapporto tra la negazione e il niente, come possiamo noi, esseri finiti, rendere accessibile in sé, e soprattutto per noi, la totalità dell’ente nella sua universalità? Al massimo noi possiamo pensare la totalità dell’ente nell’«idea», e poi negare nel pensiero e «pensare» come negato ciò che abbiamo così immaginato. Certo, per questa strada acquisiamo il concetto formale del niente così immaginato, ma mai il niente stesso. Eppure il niente è niente, e tra il niente immaginato e il niente «vero e proprio» non può sussistere differenza, se è vero che il niente rappresenta invece l’assoluta indifferenza. E tuttavia lo stesso niente «vero e proprio» non è di nuovo quel concetto surrettizio, ma contradditorio, di un niente che è? Per l’ultima volta le obiezioni dell’intelletto hanno trattenuto ora il nostro cercare, la cui legittimità può essere provata solo attraverso un’esperienza fondamentale del niente. [...] Accade nell’esserci dell’uomo un simile stato d’animo in grado di portarlo dinanzi al niente stesso? Questo accadere è possibile e, benché assai di rado, è pure reale, solo per degli attimi, nello stato d’animo fondamentale dell’angoscia (Angst). Col termine angoscia non intendiamo quell’ansietà (Ängstlichkeit) assai frequente che in fondo fa parte di quel senso di paura che insorge fin troppo facilmente. L’angoscia è fondamentalmente diversa dalla paura. [...] L’angoscia non fa più insorgere un simile perturbamento. È attraversata piuttosto da una quiete singolare. Certo, l’angoscia è sempre angoscia di..., ma non di questo o di quello. L’angoscia di... è sempre angoscia per..., ma non per questo o per quello. Tuttavia, l’indeterminatezza di ciò di cui e per cui noi ci angosciamo non è un vero difetto di determinatezza, bensì l’essenziale impossibilità della determinatezza. Essa appare nella seguente, ben nota interpretazione. Nell’angoscia, noi diciamo, «uno è spaesato». Ma dinanzi a che cosa v’è lo spaesamento e cosa vuol dire quell’«uno»? Non possiamo dire dinanzi a che cosa uno è spaesato, perché lo è nell’insieme. Tutte le cose e noi stessi affondiamo in una sorta di indifferenza. Questo, tuttavia, non nel senso che le cose si dileguino, ma nel senso che nel loro allontanarsi come tali le cose si rivolgono a noi. Questo allontanarsi dell’ente nella sua totalità, che nell’angoscia ci assedia, ci opprime. Non rimane nessun sostegno. Nel dileguarsi dell’ente, rimane soltanto e ci soprassale questo «nessuno». L’angoscia rivela il niente. Noi «siamo sospesi» nell’angoscia. O meglio, è l’angoscia che ci lascia sospesi, perché fa dileguare l’ente nella sua totalità. Qui è la ragione per cui noi stessi, questi esseri umani che siamo, nel mezzo dell’ente ci sentiamo di-

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leguare con esso. Per questo, in fondo non «tu» o «io» ci sentiamo spaesati, ma «uno» si sente spaesato. Resta solo il puro esser-ci che, nel travaglio di questo essere sospeso, non può tenersi a niente. [...] Che l’angoscia sveli il niente, l’uomo stesso lo attesta non appena l’angoscia se n’è andata. Nella luminosità dello sguardo sorretto dal ricordo ancora fresco, dobbiamo dire: ciò di cui e per cui ci angosciavamo non era «propriamente» – niente. In effetti il niente stesso, in quanto tale, era presente. Nello stato d’animo fondamentale dell’angoscia noi abbiamo raggiunto quell’accadere dell’esserci nel quale il niente è manifesto, e dal quale si deve partire per interrogarlo. [...] La domanda del niente mette in questione noi stessi che poniamo la domanda. Si tratta di una domanda metafisica. L’esserci umano può comportarsi in rapporto all’ente solo se si tiene immerso nel niente. L’andare oltre l’ente accade nell’essenza dell’esserci. Ma questo andare oltre è la metafisica. Ciò implica che la metafisica faccia parte della «natura dell’uomo». Essa non è un settore della filosofia universitaria, né un campo di escogitazioni arbitrarie. La metafisica è l’accadimento fondamentale nell’esserci. Essa è l’esserci stesso. E poiché la verità della metafisica dimora in questo fondo abissale, essa è costantemente insidiata da vicino dalla possibilità dell’errore più radicale. Questa è la ragione per cui non c’è rigore scientifico che eguagli la serietà della metafisica. La filosofia non può mai essere misurata col parametro dell’idea della scienza.

 - Martin Heidegger (Messkirch 1889 - Friburgo 1976) pubblicò Che cos’è la metafisica nel 1929. Il testo riportato è tratto da: M. Heidegger, Che cos’è la metafisica, trad. it. di F. Volpi, in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, pp. 62-68, 76-77.

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H, Essere e tempo ci chiediamo quaLe sia La ver a natur a umana; chi siamo dav vero? se poniamo, come fa heidegger, il problema dell’essere e del senso dell’essere al centro dell’attenzione, necessariamente lo facciamo dal nostro punto di vista. siamo uomini, e il problema che stiamo esaminando non è un problema come gli altri, perché ci coinvolge: siamo parte dell’oggetto che studiamo (l’essere). non possiamo che studiarlo in noi. se partiamo dal nostro esserci – qui e ora, in un certo momento del tempo, in un certo luogo dello spazio, in una situazione determinata, in breve in un QSRHS che è il RSWXVS mondo –, ovviamente dobbiamo chiederci chi siamo, qual è la nostra natura. La domanda è quindi sulla nostra essenza, e da qui possiamo partire nel tentativo di comprendere qualcosa dell’essere stesso. L’essere, certo, non ci è estraneo, visto che esistiamo e siamo caratterizzati dal fatto che ci siamo, dal fatto di “esserci”.

Esposizione del compito dell’analisi dell’esserci nel suo momento preparatorio L’ che ci siamo proposti di esaminare è il medesimo che noi stessi siamo. L’essere di questo ente è sempre mio. Nell’essere che è proprio di esso, questo ente si rapporta sempre al proprio essere. Come ente di questo essere, esso è rimesso al suo aver-da-essere. L’essere è ciò di cui ne va sempre per questo ente. Da questa caratterizzazione dell’Esserci derivano due ordini di conseguenze: 1 L’«essenza» di questo ente consiste nel suo aver-da-essere. L’essenza (essentia) di questo ente, per quanto in generale si può parlare di essa, dev’essere intesa a partire dal suo essere (existentia). Ecco perché l’ontologia ha il compito di mostrare che, se noi scegliamo per l’essere di questo ente la designazione di esistenza, questo termine non ha e non può avere il significato ontologico del termine tradizionale existentia. Esistenza significa, per l’ontologia tradizionale, qualcosa come la semplice-presenza, modo di essere, questo, essenzialmente estraneo a un ente che ha il carattere dell’Esserci. A scanso di equivoci: per dire existentia useremo sempre l’espressione interpretativa semplice-presenza, mentre attribuiremo l’esistenza, come determinazione d’essere, esclusivamente all’Esserci. L’essenza dell’Esserci consiste nella sua esistenza. I caratteri che risulteranno propri di questo ente non hanno quindi nulla a che fare con le «proprietà» semplicemente-presenti di un ente semplicemente-presente, «aven-

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te l’aspetto» di essere così o così, ma sono sempre e solo possibili maniere di essere dell’Esserci, e null’altro. Ogni esser-così, proprio di questo ente, è primariamente essere. Perciò il termine «Esserci», con cui indichiamo tale ente, esprime l’essere e non il che cosa, come accade invece quando si dice pane, casa, albero. 2 L’Essere di cui ne va per questo ente nel suo essere, è sempre mio. L’Esserci non è perciò da intendersi ontologicamente come un caso o un esemplare di un genere dell’ente inteso come semplice-presenza. Per l’ente così inteso il suo essere è «indifferente» o, meglio ancora, «è» tale che ad esso, nel suo essere, non può risultare né indifferente né non indifferente. Il discorso rivolto all’Esserci deve, in conformità alla struttura dell’essersempre-mio, propria di questo ente, far ricorso costantemente al pronome personale: «io sono», «tu sei». E di nuovo l’Esserci è sempre mio in questa o quella maniera di essere. L’Esserci ha già sempre in qualche modo deciso in quale maniera sia sempre mio. L’ente a cui nel suo essere ne va di questo essere stesso, si rapporta al suo essere come alla sua possibilità più propria. L’Esserci è sempre la sua possibilità, ed esso non l’«ha» semplicemente a titolo di proprietà posseduta da parte di una semplice-presenza. Appunto perché l’Esserci è essenzialmente la sua possibilità, questo ente può, nel suo essere, o «scegliersi», conquistarsi, oppure perdersi e non conquistarsi affatto o conquistarsi solo «apparentemente». Ma esso può aver perso se stesso o non essersi ancora conquistato solo perché la sua essenza comporta la possibilità dell’autenticità, cioè dell’appropriazione di sé. Autenticità e inautenticità (queste espressioni sono state scelte nel loro senso terminologico stretto), sono modi di essere che si fondano nell’esser l’Esserci determinato, in linea generale, dall’esser-sempre-mio. L’inautenticità dell’Esserci non importa però un «minor» essere o un grado «inferiore» di essere. L’inautenticità può invece determinare l’Esserci, con concretezza più piena, nella operosità e nella vivacità, nella capacità di interessarsi e di godere. Questi due caratteri dell’Esserci, il primato dell’exsistentia sull’essentia e l’esser-sempre-mio, bastano a far vedere che un’analitica di questo ente si trova innanzi a un campo fenomenico del tutto particolare. Questo ente non ha e non può avere il modo di essere proprio di ciò che è semplicemente-presente dentro il mondo. Perciò anche la esibizione tematica di esso non può essere quella adatta all’incontro con ciò che ha il modo di essere della semplice-presenza. L’approntamento della via di accesso idonea è un’operazione così poco ovvia, che la sua determinazione rappresenta una parte essenziale dell’analitica ontologica di questo ente. Dall’approntamento della via di accesso adeguata a questo ente, dipende la possibilità di arrivare o no alla comprensione dell’essere che gli è proprio. Anche se l’analisi è provvisoria, essa esige l’assicurazione dell’esattezza della sua impostazione.

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L’Esserci si determina come ente sempre a partire da una possibilità che egli stesso è e che, nel suo essere, in qualche modo comprende. Questo è il senso formale della costituzione dell’esistenza dell’Esserci. E qui si fonda, per l’interpretazione ontologica di questo ente, l’indicazione di svolgere la problematica del proprio essere a partire dall’esistenzialità della sua esistenza. Ma ciò non significa la costruzione dell’Esserci in base a una possibile concreta idea di esistenza. L’interpretazione dell’Esserci non deve prendere le mosse da ciò che differenzia un modo di esistere particolare, ma deve disvelare l’Esserci nel suo indifferente innanzi tutto e per lo più. Questa indifferenza della quotidianità dell’Esserci non è nulla, ma un carattere fenomenico positivo di questo ente. Ogni esistere è quello che è a partire da questo modo di essere e ritornando ad esso. A questa indifferenza dell’Esserci diamo il nome di medietà. […] Tutti gli esplicati dell’analitica dell’esserci sono ottenuti in riferimento alla sua struttura esistenziale. Poiché essi si determinano in base alla esistenzialità, diamo ai caratteri d’essere dell’esserci il nome di esistenziali. Essi sono ben diversi dalle categorie, che sono determinazioni d’essere degli enti non conformi all’esserci. Quest’ultima espressione è scelta e mantenuta nel suo significato ontologico primario. L’ontologia antica ha assunto come terreno esemplare della sua interpretazione dell’essere l’ente che si incontra all’interno del mondo. Quale modo di accesso a questo ente essa fa valere il noein o il logos. È in essi che si incontra l’ente. Ma l’essere di questo ente deve rendersi accessibile in un legein (lasciar vedere) particolare, in modo che questo essere si renda anticipatamente comprensibile in ciò che esso è come è già in ogni ente. Il kategoreisthai è l’interpellanza preliminare dell’essere nella discussione (logos) dell’ente. Esso significa innanzi tutto: accusare apertamente, dire qualcosa in faccia a qualcuno davanti a tutti. Impiegato ontologicamente, il termine significa: dire in faccia all’ente ciò che esso, in quanto ente, già sempre è, farlo vedere a tutti nel suo essere. Ciò che in questo vedere è visto e visibile sono le kategoriai. Esse abbracciano le determinazioni a priori dell’ente che nel logos è interpellato e discusso in modi diversi. Esistenziali e categorie sono due possibilità fondamentali dei caratteri dell’essere. L’ente che corrisponde agli uni e alle altre richiede una corrispondente modificazione originaria della ricerca che lo concerne: l’ente può essere un Chi (esistenza) o un che cosa (semplice-presenza nel significato più largo). L’esame della connessione fra queste due modalità dei caratteri dell’essere è possibile solo a partire dalla delucidazione dell’orizzonte del problema dell’essere. Nell’introduzione abbiamo già posto in evidenza come l’analitica esistenziale dell’esserci comporti anche un’esigenza la cui perentorietà è a mala pena inferiore a quella del problema dell’essere stesso: lo scoprimento dello a priori che rende possibile la discussione filosofica del seguente

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problema: «Che cos’è l’uomo?». L’analitica esistenziale dell’esserci precede ogni psicologia, ogni antropologia, e soprattutto ogni biologia. Dalla sua delimitazione rispetto a queste ricerche possibili intorno all’esserci, il tema dell’analitica non potrà che acquistare una determinazione ancora maggiore. Con ciò la sua necessità risulterà ancora più rigorosamente dimostrata.

 - Martin Heidegger (Messkirch 1889 - Friburgo 1976) pubblicò Essere e tempo nel 1927 a Marburgo, dove fu professore dal 1923 al 1928. Il testo riportato è tratto da: M. Heidegger, Essere e tempo, trad. it. di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1976, pp. 64-68.

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H, Essere e tempo che atteggiamento assumere di Fronte aLLa morte? La morte è una possibilità in ogni momento della vita, come è ovvio per il fatto che la vita non è illimitata nel tempo. Lo sappiamo, e questo fa sì che non si possa non pensare alla morte se non allontanando il pensiero. La coscienza della nostra finitezza non può non segnare la vita, poiché siamo coscienti di essa. non sarebbe così se non ne avessimo coscienza. e tuttavia, che cos’è la morte? non può essere senza significato per la vita, e non sapremo mai che cos’è la vita se non comprenderemo la morte, perché ne è parte. e tutti noi nella vita ci siamo. ma che significa vivere? domanda che è un altro modo per chiedere: chi siamo veramente?

La possibilità di essere-un-tutto da parte dell’esserci e l’essere-alla-morte Quanto siamo venuti osservando circa la mancanza, la fine e la totalità ha mostrato la necessità di interpretare il fenomeno dell’essere-alla-fine a partire dalla costituzione fondamentale dell’esserci. Solo così è possibile chiarire i limiti e le modalità secondo cui l’esserci, conformemente alla sua struttura, può costituire una totalità mediante l’essere-alla-fine. La cura ci è apparsa come la costituzione fondamentale dell’esserci. Il significato ontologico di questa espressione fu reso esplicito nella «definizione»: esser-giàavanti-a-sé-nel (mondo) come esser-presso l’ente che viene incontro (come intramondano). Sono qui raccolti i caratteri fondamentali dell’essere dell’esserci: nell’avanti-a-sé l’esistenza; nell’esser-già-in... la fatticità; lo scadimento nell’esser-presso... Se la morte appartiene all’essere dell’esserci in un senso specifico, sarà necessario che essa (cioè l’essere-alla-fine) risulti determinabile mediante questi caratteri. È quindi venuto il momento di far vedere una buona volta come nel fenomeno della morte si rivelino l’esistenza, la fatticità e lo scadimento dell’esserci. 1) [...] Essere alla fine significa esistenzialmente: essere-alla-fine. L’estremo «non-ancora» ha il carattere di qualcosa cui l’esserci si rapporta. La morte sovrasta l’esserci. La morte non è affatto una semplice-presenza non ancora attuatasi, non è un mancare ultimo ridotto ad minimum, ma è, prima di tutto, un’imminenza che sovrasta. Ma all’esserci, come essere-nel-mondo, sovrastano molte cose; [...] può sovrastare all’esserci, ad esempio, anche un viaggio, una spiegazione con al-

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tri, la rinuncia a qualcosa che l’esserci stesso può essere: possibilità, queste, che appartengono all’esserci e che si fondano nel con-essere con gli altri. La morte è una possibilità di essere che l’esserci stesso deve sempre assumersi da sé. Nella mente l’esserci sovrasta a se stesso nel suo poter-essere più proprio. In questa possibilità ne va per l’esserci puramente e semplicemente del suo esser-nel-mondo. La morte è per l’esserci la possibilità di nonpoter-più-esserci. Poiché in questa possibilità l’esserci sovrasta a se stesso, esso viene completamente rimandato al proprio poter-essere più proprio. In questo sovrastare dell’esserci a se stesso, dileguano tutti i rapporti con gli altri esserci. Questa possibilità assolutamente propria e incondizionata è, nel contempo, l’estrema. Nella sua qualità di poter-essere, l’esserci non può superare la possibilità della morte. La morte è la possibilità della pura e semplice impossibilità dell’esserci. Così la morte si rivela come la possibilità più propria, incondizionata e insuperabile [...] e si fonda nel fatto che l’esserci è in se stesso essenzialmente schiuso nel modo dell’«avanti-a-sé». Questo momento della struttura della cura ha la sua concrezione più originaria nell’essere-alla-morte [Sein zum Tode]. [...] 2) Questa possibilità più propria incondizionata e insuperabile, l’esserci non se la crea accessoriamente e occasionalmente nel corso del suo essere. Se l’esserci esiste, è anche già gettato (deietto) in questa possibilità. [...] 3) [...] La constatazione che in linea di fatto molti uomini, innanzi tutto e per lo più, non sanno nulla della morte, non può essere addotta a prova che l’essere-alla-morte non appartiene «universalmente» all’esserci, ma vale piuttosto come prova del fatto che l’esserci, innanzi tutto e per lo più, copre il più proprio essere-alla-morte fuggendo davanti ad esso. [...] La diversione quotidiana di scadimento davanti alla morte è l’esserealla-morte inautentico. Ma l’inautenticità ha alla sua base l’autenticità possibile. L’inautenticità caratterizza un modo di essere in cui l’esserci può disperdersi e per lo più si è disperso, ma in cui non è costretto a disperdersi necessariamente e constantemente. Poiché l’esserci esiste, si determina come quell’ente che esso è, sempre a partire da una possibilità che esso stesso è e comprende. È possibile per l’esserci comprendere autenticamente la possibilità più propria, incondizionata, insuperabile, certa e come tale indeterminata? È possibile, cioè, che esso si mantenga in un essere-alla-fine autentico? [...] L’essere-alla-morte autentico significa una possibilità esistentiva dell’esserci. […] L’essere-alla-morte non concerne la «realizzazione» della morte; tuttavia non consiste neppure nel sostare dinanzi ad essa come semplice possibilità. Un tale atteggiamento si risolverebbe nel «pensare alla morte». [...] Al

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contrario, nell’essere-alla-morte, quand’esso, comprendendo, abbia posto in chiaro questa possibilità come tale, la possibilità deve esser compresa proprio come possibilità, deve esser posta in atto come possibilità e in ogni comportamento verso di essa deve essere sopportata come possibilità. Ma l’esserci si rapporta al possibile nella sua possibilità nell’attesa. [...] La morte è la possibilità più propria dell’esserci. L’essere per essa schiude all’esserci il poter-essere più proprio, nel quale ne va pienamente dell’essere dell’esserci. In essa si fa chiaro all’esserci che esso, nella più specifica delle sue possibilità, è sottratto al si; cioè che, precorrendo, si può già sempre sottrarre ad esso. [...] [...] Nel precorrimento della morte, indeterminatamente certa, l’esserci si apre a una minaccia continua proveniente dal suo stesso ci. [...] Com’è esistenzialmente possibile la schiusura genuina di questa costante minaccia? Ogni comprensione è emotivamente situata. La tonalità emotiva porta l’esserci dinanzi alla deiezione del suo «che c’è». Ma la situazione emotiva che può tener aperta la costante e radicale minaccia incombente sul sestesso, minaccia che proviene dal più proprio e isolato essere dell’esserci, è l’angoscia. In essa l’esserci si trova di fronte al nulla della possibile impossibilità della propria esistenza. L’angoscia si angoscia per il poter-essere dell’ente così costituito e ne dischiude in tal modo la possibilità estrema. Poiché il precorrimento isola totalmente l’esserci e in questo isolamento fa sì che esso divenga certo della totalità del suo poter-essere, la situazione emotiva fondamentale dell’angoscia appartiene a questa autocomprensione dell’esserci nel suo fondamento stesso. L’essere-alla-morte è essenzialmente angoscia.

 - Martin Heidegger (Messkirch 1889 - Friburgo 1976) pubblicò Essere e tempo nel 1927 a Marburgo, dove fu professore dal 1923 al 1928. Il testo riportato è tratto da: M. Heidegger, Essere e tempo, trad. it. di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1976, pp. 304-316.

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J, La fede filosofica se un FiLosoFo può credere e restare FiLosoFo, un uomo di Fede può Fare FiLosoFia e restare uomo di Fede? La risposta a entrambe le domande del titolo è affermativa, ma a patto di impegnarsi in un notevole sforzo di chiarezza intellettuale. un filosofo deve dubitare e non può credere senza un fondamento che sia accettato dalla ragione (universale: la sua come quella di tutti gli altri uomini). L’uomo di fede ha una sorgente d’esperienza della verità del tutto diversa da quella del filosofo. mai mischiare i piani. storicamente non è accaduto che si siano mischiati, anche se il monoteismo greco e quello ebraico sono confluiti nella cultura (religiosa e filosofica) della cristianità medievale. entrambi parlano di un dio unico, ma su fondamenti del tutto diversi.

Da millenni filosofia e religione sono in un rapporto di reciproca alleanza o di ostile opposizione. All’origine esse procedono insieme nei miti e nelle cosmogonie, più tardi nella teologia, in quanto la filosofia ne assume talvolta le vesti, così come spesso assume quelle della poesia e più ancora quelle della scienza. Ma quando si separano, la religione diventa per la filosofia il mistero più grande che in nessun modo essa riesce a concepire. Il culto, la pretesa di una comunità religiosa di fondarsi sulla Rivelazione e di aver quindi diritto al potere, la sua organizzazione, la sua politica, il significato che la religione attribuisce a se stessa, sono per la filosofia oggetto di studio. In questo atteggiamento di ricerca è già presente il germe del conflitto. Dal punto di vista filosofico, la lotta è solo un conflitto che si combatte, coi mezzi dello spirito, per la verità. [...] Non c’è alcun punto di vista che sia estraneo all’alternativa: filosofia e religione. Ognuno di noi si trova già in una delle due parti della polarità, e, in un punto che è decisivo, parla dell’altra, senza una vera e propria esperienza. Pertanto non vi dovete meravigliare se troverete in me una certa cecità o incomprensione su qualche punto, anzi proprio da qui nasce la mia esitazione, che però non mi consente di abbandonare il discorso. Parlare di religione senza parteciparvi col proprio essere è problematico, ma non ci si può dispensare dal farlo, se non altro per esprimere un’evidente lacuna personale, per cercare la verità, e anche per consentire alla fede religiosa di mettere alla prova se stessa e affermarsi tra i problemi che andranno

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via via sorgendo. Per la filosofia, la religione non è un nemico, ma qualcosa che le appartiene per essenza, qualcosa che la mantiene in un’inquietudine necessaria. [...] Enumeriamo alcuni tratti che caratterizzano la differenza tra religione e filosofia. La religione implica un culto che la lega a quella particolare comunità di uomini che lo praticano; è strettamente legata a un mito; alla sua essenza appartiene quel reale rapporto che si instaura tra gli uomini e la Trascendenza; si tratta di un rapporto che nel mondo si presenta nella forma del sacro, completamente separato da ogni realtà profana. Se il sacro non esiste o viene rifiutato, svanisce il tratto caratteristico della religione. Per lontano che si spinga la nostra memoria storica, non possiamo non constatare che l’umanità intera vive ed è vissuta religiosamente; questo fatto è un indizio non trascurabile della verità e dell’essenzialità presente nella religione. La filosofia, invece, non conosce come tale alcun culto, alcuna comunità diretta da preti, alcuna santità che nel mondo sia in grado di distinguersi da ogni altra realtà del mondo. [...] La filosofia non ha riti e non dispone di miti intesi come originariamente reali. A trasmetterla, onde consentirne l’appropriazione, è una libera tradizione che di volta in volta si trasforma. [...] La religione tende ad incarnarsi, la filosofia tende solo a una certezza efficace. Per la religione il Dio dei filosofi è povero, scolorito, vuoto, con disprezzo essa chiama l’atteggiamento filosofico «deismo»; per la filosofia le incarnazioni religiose occultano ingannevolmente la divinità e danno la falsa impressione di avvicinarla. La religione considera il Dio della filosofia una mera astrazione, la filosofia diffida delle seducenti immagini religiose di Dio, essa teme l’idolatria per grandiosi che siano gli dei. [...] Gli esempi dell’idea di Dio, della preghiera e della rivelazione mostrano come il contenuto della filosofia e quello della religione si toccano e addirittura sembrano coincidere, nonostante l’opposizione delle forme che li caratterizzano. L’idea di Dio. In Occidente l’idea di Dio è nata nella filosofia greca e nell’Antico Testamento. In entrambi i casi si è giunti a un livello straordinario di astrazione, ma in modi del tutto differenti. Nella filosofia greca il monoteismo nasce dapprima in termini intellettuali, quindi è richiesto da un’esigenza morale, e infine diventa certezza nella quiete della contemplazione. Non si impone alle masse, ma ai singoli. Suscita figure di alta umanità, anima una libera filosofia, ma non determina strutture sociali efficaci. Nell’Antico Testamento, invece, il monoteismo nasce nella lotta appassionata per l’unico vero Dio. [...] A generare questo monoteismo non è stata la forza di un pensiero, ma la potenza della realtà di Dio, presente nella

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coscienza di queste esistenze profetiche. Desta meraviglia constatare che il monoteismo dei greci e dei giudei dell’Antico Testamento possiede lo stesso contenuto intellettuale, mentre la forma in cui si esprime la presenza di Dio è radicalmente diversa. È questa la differenza tra la filosofia e la religione, da cui in seguito dipenderà la differenza tra divinità e Dio, tra Trascendenza pensata e Dio vivente; l’Uno della filosofia non è l’Uno della Bibbia. Quando domina la chiarezza filosofica, sorge inevitabilmente la domanda che chiede se alle volte questa incomparabile certezza della fede, che ancora oggi ci trascina, era possibile solo in questa forma ai profeti che, vivendo prima di ogni filosofia, con un pensiero filosoficamente non ancora condizionato, non ebbero modo di osservare che nella «parola» di Dio, rivolta a tutti direttamente, c’era ancora una traccia di realtà materiale, c’era ancora un residuo di quelle immagini e rappresentazioni che essi per principio, avevano combattuto. Il monoteismo greco e quello dell’Antico Testamento hanno ispirato insieme l’idea occidentale di Dio. Essi si sono reciprocamente interpretati, e ciò è stato possibile perché la fede dei profeti aveva compiuto un’astrazione analoga a quella filosofica. La fede profetica ha una forza maggiore della fede filosofica, perché deriva dall’esperienza diretta di Dio, ma non dispone di una chiarezza di pensiero pari a quella della filosofia; per questo, nelle formulazioni successive, e già nella Bibbia stessa, si smarrisce e si perde.

 - Karl Jaspers (Oldemburg 1883 - Basilea 1969) pubblicò La fede filosofica nel 1948. Il testo riportato è tratto da: K. Jaspers, La fede filosofica, trad. it. di U. Galimberti, Marietti, Torino 1973, pp. 108-112.

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S, L’essere e il nulla è ben Fondata La reazione psicoLogica deLL’angoscia di Fronte aL nuLLa? un esempio chiarirà il problema. siamo in montagna, su un sentiero sull’orlo dell’abisso, in situazione di relativa sicurezza, se tutto va come deve. ma può non andare come deve e soffro di vertigini. che possa andare diversamente da come deve è una possibilità da non escludere e devo stare molto attento. è irrazionale la vertigine? è irrazionale la coscienza della possibilità del pericolo? sono due domande molto diverse, ma questa possibilità c’è, non c’è dubbio. posso decidere quanto e come stare attento, e posso anche decidere di non farlo. ho buone ragioni – ho ragioni decisive, che annullano la mia libertà – per stare attento o per rischiare? sono libero. posso decidere. deciderò a ogni passo. a ogni passo mi vedrò decidere. è irrazionale se in queste condizioni reagisco con l’angoscia?

Bisogna anzitutto dar ragione a Kierkegaard: l’angoscia si distingue dalla paura, perché la paura è paura degli esseri del mondo, e l’angoscia è angoscia di fronte a me stesso. La vertigine è angoscia in quanto temo non di cadere nel precipizio, ma di gettarmici io stesso. Una situazione, che provoca la paura in quanto rischia di modificare dal di fuori la mia vita e il mio essere, provoca l’angoscia se e in quanto diffido delle mie reazioni di fronte a tale situazione. [...] La maggior parte delle volte le situazioni pericolose o minacciose sono poliedriche: saranno percepite attraverso un sentimento di paura o di angoscia, a seconda che si considererà la situazione agire sull’uomo o l’uomo agire sulla situazione. L’uomo che ha ricevuto «un duro colpo», la perdita in un crollo finanziario di gran parte delle sue risorse, può aver paura della povertà che lo minaccia. Ma si angoscerà l’istante dopo, quando, torcendosi nervosamente le mani (reazione simbolica all’azione che si impone, ma ancora completamente indeterminata), griderà: «Che cosa devo fare? Ma che cosa devo fare?». [...] Che significa l’angoscia nei differenti esempi che ho dato? Riprendiamo l’esempio della vertigine. La vertigine si annunzia con la paura: sono su un sentiero stretto e senza parapetto che costeggia un precipizio. Il precipizio mi si presenta come qualcosa da evitare, costituisce un pericolo di morte. Nello stesso tempo concepisco un certo numero di cause derivanti dal determinismo universale che possono trasformare questa minaccia di morte in realtà: posso scivolare su una pietra e cadere nell’abisso, la terra friabile del sentiero può

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franare sotto i miei passi. Attraverso le differenti previsioni mi presento a me stesso come una cosa, sono passivo in rapporto alle possibilità che vengono a me dal di fuori, in quanto sono anche un oggetto del mondo, soggetto all’attrazione universale, esse non sono possibilità mie. In questo momento appare la paura che è percezione di me in base alla situazione come trascendente distruttibile fra i trascendenti, come oggetto che non ha in sé l’origine della sua futura scomparsa. La reazione sarà d’ordine riflessivo: «starò attento» alle pietre del sentiero, mi terrò il più lontano possibile dall’orlo del sentiero. Mi realizzo come respingente con tutte le mie forze la situazione minacciosa e mi prospetto un certo numero di comportamenti futuri, destinati ad allontanare da me le minacce del mondo. Questi comportamenti sono possibilità mie. Sfuggo alla paura per il fatto stesso che mi pongo su un piano dove le mie possibilità si sostituiscono a probabilità trascendenti, in cui l’attività umana non ha alcun posto. Ma questi comportamenti, precisamente perché sono mie possibilità, non mi appaiono come determinati da cause esterne. Non solamente non è del tutto certo che saranno efficaci, ma soprattutto non è certo che saranno adottati, perché non hanno esistenza sufficiente per sé; si potrà dire, abusando di una espressione di Berkeley, che il loro «essere è un essere-adottato» e che la loro «possibilità d’essere non è che un dover-essere-adottato». Per questo fatto la loro possibilità ha per condizione necessaria la possibilità di comportamenti contraddittori (non fare attenzione alle pietre del sentiero, correre, pensare ad altro) e la possibilità di condotte contrarie (andare a gettarmi nel precipizio). Il possibile, che faccio mio possibile concreto, non può presentarsi come mio possibile, se non si delinea sullo sfondo dell’insieme dei possibili logici che comporta la situazione. Ma i possibili rifiutati, a loro volta, non hanno altro essere che il loro «essere-adottato», sono io che li mantengo nell’essere, e, inversamente, il loro non-essere presente è un «non dover essere-adottato». Nessuna causa esteriore li escluderà. Io solo sono la sorgente permanente del loro essere, mi impegno in essi; per fare apparire il mio possibile, pongo gli altri possibili per annullarli. [...] mi angoscio proprio perché i miei comportamenti non sono che possibili, il che significa precisamente che, pur sussistendo un insieme di motivi per respingere la situazione, tali motivi io li percepisco come insufficientemente efficaci. Nello stesso momento in cui mi colgo come orrore del precipizio, ho coscienza di questo orrore come non determinante in rapporto al mio possibile comportamento. Da una parte questo orrore richiede una condotta di prudenza, un abbozzo di questa condotta, e dall’altra pone sviluppi ulteriori di questa condotta, solo come possibili, precisamente perché non lo percepisco come causa di questi sviluppi ulteriori, ma come esigenza, richiamo ecc. Ora, come si è visto, la coscienza d’essere è l’essere della coscienza. Qui non si tratta dunque di una contemplazione, posteriore al verificarsi del fenomeno, di un orrore già costituito: l’essere stesso dell’orrore è costituito dal fatto di presentarsi a se

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stesso come non essente causa del comportamento che richiede. [...] Ciò vuol dire che nel porre una certa condotta come possibile, e precisamente perché è il mio possibile, mi rendo conto che niente mi può obbligare a tenere tale condotta. E tuttavia io sono proprio là, nell’avvenire, è proprio verso colui che sarò fra poco alla svolta del sentiero che tendo con tutte le forze, e in questo senso vi è già un rapporto fra il mio essere futuro e il mio essere presente. Ma nell’intimo di questo rapporto si è infiltrato un nulla: io non sono colui che sarò. Anzitutto non lo sono, perché del tempo me ne separa. Poi, perché ciò che sono non è il fondamento di ciò che sarò. Infine, perché nessun esistente attuale può determinare rigorosamente ciò che sta per essere. [...] Per mezzo del mio orrore sono trascinato verso l’avvenire, e l’orrore si annulla in quanto costituisce l’avvenire come possibile. La coscienza d’essere il proprio avvenire al modo del non-essere, la chiameremo angoscia. E l’annullamento dell’orrore come motivo, che ha per effetto di rinforzare l’orrore come stato, ha per contrapposto positivo l’apparizione degli altri comportamenti (in particolare di quello che consiste nel gettarsi nel precipizio) come miei possibili possibili. Se niente mi costringe a salvare la mia vita, niente mi impedisce di precipitarmi nell’abisso. Il comportamento decisivo emanerà da un io che non sono ancora. Così l’io che sono dipende intrinsecamente dall’io che non sono ancora, nell’esatta proporzione in cui l’io che non sono ancora non dipende dall’io che sono. E la vertigine appare come percezione di questa dipendenza.

 - Jean-Paul Sartre (Parigi 1905-1980) pubblicò L’essere e il nulla nel 1943. Il testo riportato è tratto da: J.P. Sartre, L’essere e il nulla, trad. it. di G. Del Bo, Il Saggiatore, Milano 1972, pp. 66-69.

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G, Verità e metodo possiamo sper are di avere una comprensione deLLe cose Liber a da ogni pregiudizio? non possiamo comprendere senza pregiudizi, per la semplice ragione che non comprenderemmo affatto. che significa infatti comprendere qualcosa? significa interpretare ciò che conosciamo. alla luce di che? di qualcosa che è nostro, che appartiene alla mente e non alla cosa. per comprendere questo punto, si pensi al linguaggio. noi pensiamo attraverso il linguaggio, il che è lo stesso che dire che il nostro pensiero ha una struttura linguistica. che le cose ne abbiano una o no, noi comunque le comprendiamo attraverso il pensiero, quindi attraverso un linguaggio, che si sovrappone alle cose per “leggerle” e capirle. senza, non capiremmo nulla. comprendiamo attraverso le regole del linguaggio e non della cosa. non se ne esce, e bisogna saperlo per non autoingannarsi.

Anche rispetto al fenomeno ermeneutico si è rivelato come una chiusura ingiustificata l’atteggiamento di chi intende il comprendere solo come lo sforzo di una coscienza puramente filologica, che sarebbe indifferente alla «verità» dei testi con cui ha da fare. D’altro lato è apparso anche chiaro che la comprensione di un testo non può presupporre come già risolto, dal punto di vista di una superiore conoscenza obiettiva, il problema della verità, sicché la comprensione si risolva nel compiacersi di questa nostra superiorità di conoscenza rispetto al testo. Tutta la dignità dell’esperienza ermeneutica – e anche il significato della storia per la conoscenza umana in generale – ci è apparsa invece risiedere nel fatto che in essa non c’è un dato che si tratti semplicemente di coordinare con il resto della nostra conoscenza, ma che ciò che ci viene incontro dal passato ci dice qualcosa. La comprensione non realizza dunque la sua perfezione in una virtuosità tecnica capace di «comprendere» qualsiasi scritto. È invece autentica esperienza, cioè incontro con qualcosa che si fa valere come verità. Il fatto che tale incontro, per le ragioni che abbiamo chiarito, si compia nell’attuarsi dell’interpretazione nel linguaggio, e che così il fenomeno del linguaggio e del comprendere si presenti come universale modello dell’essere e della conoscenza, permette ora di determinare più precisamente il senso della verità che è in gioco nel comprendere. Abbiamo visto che anche le parole che portano ad espressione un contenuto sono un evento speculativo. La loro verità risiede infatti in ciò che con esse vien detto, e non invece nell’impotente soggettiva particolarità di un opinare. Si ricordi che, come essere ed esistere

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si è visto, la comprensione di ciò che qualcuno ci dice non è un’operazione di penetrazione del suo stato d’animo, che ci riveli la vita interiore del parlante. È bensì vero che, in ogni atto di comprensione, l’oggetto acquista la sua piena determinatezza di senso in rapporto ai caratteri contingenti della situazione. Ma questo determinarsi in base alla situazione e al contesto, che fa di un discorso una vera totalità di senso e in virtù di cui il detto è detto, non è qualcosa che appartenga al parlante, ma alla cosa espressa. Conformemente a ciò, il dire poetico ci è apparso come un caso particolare caratterizzato dal fatto che il senso, in esso, è totalmente calato e incarnato nell’espressione. Nella poesia, il venire all’espressione è come un entrare in certi rapporti di ordine, dai quali la «verità» del detto è sorretta e garantita. Ogni venire all’espressione nel linguaggio, e non solo il dire poetico, ha un po’ questo carattere di attestazione. «Non c’è cosa, dove vien meno il linguaggio.» Il parlare, come abbiamo sottolineato, non è mai solo la sussunzione del particolare sotto concetti generali. Nell’uso delle parole non accade solo che il dato intuitivo venga reso dominabile come caso particolare di un universale; esso diventa invece presente nella parola stessa – allo stesso modo in cui l’idea del bello è presente in ciò che è bello. Ciò che in questa prospettiva si intende per verità si può definire ancora meglio attraverso il concetto di gioco: il modo in cui il peso delle cose che incontriamo nella comprensione si mette in gioco è esso stesso un processo linguistico, è – per così dire – un gioco di parole le quali giocano intorno a ciò che viene inteso. Giochi linguistici sono quelli con cui impariamo – e di imparare non cessiamo mai – a capire il mondo. Possiamo qui richiamarci ai risultati della nostra analisi del gioco, in base ai quali si è visto che l’atteggiamento del giocatore non può essere inteso come un atteggiamento della soggettività, giacché è piuttosto il gioco stesso che gioca, includendo in sé i giocatori e facendosi esso stesso l’autentico subjectum del gioco. Conformemente a ciò, anche qui non si deve parlare tanto di un giocare con il linguaggio o con i contenuti dell’esperienza o della trasmissione storica, bensì del gioco che gioca il linguaggio stesso, il quale ci si rivolge, ci si offre e si sottrae, pone domande e si dà esso stesso le risposte, acquietandosi. Il comprendere non è dunque un gioco nel senso che chi comprende mantenga un atteggiamento di ludico disimpegno e rifiuti di prendere una precisa posizione rispetto all’appello che gli viene rivolto. Questa libertà di riserva e di disimpegno non è qui possibile, ed è questo che si voleva appunto dire con l’applicazione del concetto di gioco al comprendere. Chi comprende è già sempre in un accadere in cui un determinato senso si fa valere. È così pienamente giustificato che per il fenomeno ermeneutico si adoperi lo stesso concetto di gioco che si è usato per l’esperienza del bello. Quando comprendiamo un testo, il significato di esso ci si impone esattamente come ci avvince il bello. Esso si fa valere e si impone già sempre,

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prima che noi, per così dire, ce ne accorgiamo e siamo in grado di verificare esplicitamente la legittimità della sua pretesa di significare. Ciò che ci viene incontro nell’esperienza del bello e nella comprensione del senso del dato storico trasmesso ha davvero qualcosa della verità del gioco. Nel comprendere siamo inclusi entro un accadere di verità e arriviamo in un certo senso troppo tardi se vogliamo sapere ciò che dobbiamo o non dobbiamo credere. Così non esiste certamente alcuna comprensione che sia libera da ogni pregiudizio, per quanto la nostra volontà possa proporsi di sottrarsi, nella conoscenza, al dominio dei nostri pregiudizi. Dall’insieme della nostra ricerca è risultato chiaro che la sicurezza fornita dall’impiego di metodi scientifici non basta a garantire la verità. Ciò vale in particolare per le scienze dello spirito, ma non significa una diminuzione della loro scientificità, bensì invece la legittimazione della pretesa di particolare significato umano che da sempre esse avanzano. Che nella conoscenza propria di esse entri in gioco l’essere stesso del soggetto conoscente è un fatto che indica in realtà i limiti del «metodo», ma non quelli della scienza. Ciò che non è dato dallo strumento del metodo, deve invece e può effettivamente essere realizzato attraverso una disciplina del domandare e del ricercare, che garantisce la verità.

 - Hans Georg Gadamer (Marburgo 1900 - Heidelberg 2002) pubblicò Verità e metodo nel 1960, durante gli anni di insegnamento a Heidelberg, dove prese la cattedra che fu di Jaspers. Il testo riportato è tratto da: H.G. Gadamer, Verità e metodo, trad. it. di G. Vattimo, Bompiani, Milano 2001, pp. 993-997.

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R, Della interpretazione. Saggio su Freud È necessario chiedersi cosa ci sia dietro le nostre convinzioni, se siamo liberi di credere in quello che crediamo e di pensare quello che pensiamo: siamo liberi nei nostri giudizi? la tradizione filosofica otto-novecentesca ci mette in guardia. marx ci ricorda che dietro i nostri pensieri (sovrastruttura) ci sono interessi in conflitto (struttura); nietzsche ci mostra il nostro mondo di valori puri (per esempio etici) inquinati da una molteplicità di pulsioni vitali, di sentimenti non sempre limpidi; Freud ci mostra l’agire e il pensare sotto l’effetto di forze inconsce, di cui nulla si sapeva prima della psicoanalisi. siamo liberi di pensare quello che pensiamo? questi tre maestri del sospetto ci mettono in guardia.

I «Maestri del sospetto» Completeremo la collocazione di Freud assegnandogli non solo una contrapposizione ma anche una compagnia. All’interpretazione come restaurazione del senso opporremo in modo globale l’interpretazione secondo ciò che chiamerò collettivamente la scuola del sospetto. Una teoria dell’interpretazione si troverebbe così di fronte al compito di render conto non solo dell’opposizione tra due interpretazioni dell’interpretazione, la prima come meditazione del senso, l’altra come riduzione delle illusioni e delle menzogne della coscienza – ma pure della frammentazione e dispersione di ognuna di queste due grandi «scuole» dell’interpretazione in «teorie» differenti e persino mutuamente estranee. Più che per la scuola della reminiscenza, questo fatto è indubbiamente vero per la scuola del sospetto. La dominano tre maestri che in apparenza si escludono a vicenda, Marx, Nietzsche e Freud. È più facile mettere in mostra la loro comune opposizione a una fenomenologia del sacro, intesa come propedeutica alla «rivelazione» del senso, che non il loro articolarsi all’interno di un unico metodo di demistificazione. Relativamente facile è constatare che queste tre imprese hanno in comune la contestazione del primato dell’«oggetto» nella nostra rappresentazione del sacro, nonché del «riempimento» della mira intenzionale del sacro tramite una sorta di analogia entis che ci inserirebbe nell’essere in virtù di una intenzione assimilatrice. Facile è anche riconoscere che si tratta di un esercizio del sospetto che per ogni singolo caso è diffe-

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rente. Sotto la formula negativa, «la verità come menzogna», si potrebbero porre questi tre esercizi del sospetto. Ma il senso positivo di queste imprese siamo ancora lontani dall’averlo assimilato, siamo ancora troppo attenti alle loro differenze e alle limitazioni che i pregiudizi del loro tempo fanno subire ai loro epigoni ancor più che alle imprese stesse. Si relega ancora Marx nell’economicismo e nell’assurda teoria della coscienza-riflesso; si riporta Nietzsche a un biologismo e a un prospettivismo incapace di enunciare se stesso senza contraddirsi; e Freud è accantonato nella psichiatria e gli si affibbia un pansessualismo semplicistico. Se risaliamo alla loro intenzione comune, troviamo in essa la decisione di considerare innanzitutto la coscienza nel suo insieme come coscienza «falsa». Con ciò essi riprendono, ognuno in un diverso registro, il problema del dubbio cartesiano, ma lo portano nel cuore stesso della fortezza cartesiana. Il filosofo educato alla scuola di Cartesio sa che le cose sono dubbie, che non sono come appaiono; ma non dubita che la coscienza non sia così come appare a se stessa; in essa, senso e coscienza del senso coincidono; di questo, dopo Marx, Nietzsche e Freud, noi dubitiamo. Dopo il dubbio sulla cosa, è la volta per noi del dubbio sulla coscienza. Ma questi tre maestri del sospetto non sono altrettanti maestri di scetticismo; indubbiamente sono tre grandi «distruttori»; e tuttavia anche questo fatto non deve ingannarci; la distruzione, afferma Heidegger in Essere e tempo, è un momento di ogni nuova fondazione, compresa la distruzione della religione, nella misura in cui essa è, secondo Nietzsche, un «platonismo per il popolo». È oltre la «distruzione» che si pone il problema di sapere ciò che ancora significano pensiero, ragione e persino fede. [...] Ciò che distingue [...] Marx, Freud e Nietzsche è l’ipotesi generale riguardante insieme il processo della «falsa» coscienza e il metodo di decifrazione. Le due cose vanno insieme, in quanto l’uomo che sospetta compie in senso inverso il lavoro di falsificazione dell’uomo che giuoca d’astuzia. Freud è penetrato nel problema della falsa coscienza attraverso il doppio atrio del sogno e del sintomo nevrotico; la sua ipotesi di lavoro implica gli stessi limiti dell’angolatura di attacco: si tratterà, come diremo più ampiamente in seguito, di un’economia degli istinti. Marx affronta il problema delle ideologie nei limiti dell’alienazione economica, nel senso questa volta dell’economia politica. Nietzsche, il cui interesse è imperniato sul problema del «valore» – della valutazione e della transvalutazione –, cerca nell’aspetto della «forza» e della «debolezza» della Volontà di potenza la chiave delle menzogne e delle maschere. In fondo, la Genealogia della morale nel senso di Nietzsche, la teoria delle ideologie nel senso marxiano, la teoria degli ideali e delle illusioni nel senso di Freud, rappresentano altrettante convergenti procedure della demistificazione.

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Questo forse non è ancora la cosa più forte che hanno in comune; la loro parentela sotterranea procede più lontano; tutti e tre iniziano col sospetto sulle illusioni della coscienza e continuano con l’astuzia della decifrazione, e, infine, anziché essere dei detrattori della «coscienza», mirano a una sua estensione. Ciò che Marx vuole è liberare la praxis mediante la conoscenza della necessità; ma questa liberazione è inseparabile da una «presa di coscienza» che replichi vittoriosamente alle mistificazioni della falsa coscienza. Ciò che Nietzsche vuole è l’aumento della potenza dell’uomo, la restaurazione della sua forza; ma quel che vuol dire «Volontà di potenza» deve essere recuperato dalla meditazione delle «cifre» del «superuomo», dell’«eterno ritorno» e di «Dioniso» [...]. Ciò che Freud vuole è che l’analizzato, appropriandosi del senso che gli era estraneo, allarghi il proprio campo di coscienza, viva in migliori condizioni e sia infine un po’ più libero e, se possibile, un po’ più felice. Uno dei primi omaggi resi alla psicoanalisi parla di «guarigione a opera della coscienza». L’espressione è esatta. A patto di dire che l’analisi intende sostituire a una coscienza immediata e dissimulante una coscienza mediata e istruita dal principio della realtà. Così, proprio quel dubitante che raffigura l’Io come un «infelice» sottomesso a tre padroni, l’Es, il super-Io e la realtà o necessità, è anche l’esegeta che ritrova la logica del regno dell’illogico.

 - Paul Ricœur (Valence 1913 - Parigi 2005) pubblicò Della interpretazione. Saggio su Freud nel 1965. Il testo riportato è tratto da: P. Ricœur, Della interpretazione. Saggio su Freud, trad. it. di E. Renzi, Il Saggiatore, Milano 1967, pp. 46-50.

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Capitolo

5 Il marxismo critico Il marxismo occidentale novecentesco si misura con l’ortodossia dell’ideologia sovietica e ne critica l’involuzione dogmatica, recuperando la funzione euristica della dialettica. Nella prima metà del secolo esempi di questa prospettiva sono Lukács e Gramsci. Il filosofo ungherese ritorna a Hegel e propone una visione totalizzante della storia in cui la coscienza di classe del proletariato realizza l’unità di teoria e prassi. Il pensatore e politico italiano si misura con lo storicismo crociano, cogliendo nella società contemporanea il rapporto di interdipendenza tra la struttura economica e la soprastruttura ideologico-culturale. Fra gli anni trenta e gli anni sessanta la Scuola di Francoforte elabora una teoria critica della società, combinando la dialettica negativa di derivazione hegeliana, la nozione marxiana di alienazione economica e quella freudiana sul carattere repressivo di ogni società.

L, Storia e coscienza di classe Se tentiamo di comprendere che coSa accade, occorre cercare i principi con cui dobbiamo leggere i Fatti che accadono: c’è un SenSo “leggibile” nella Storia dell’uomo? lukács è un marxista e ritiene che alle domande di cui sopra si sia già risposto con la teoria marxiana della storia. Quanto accade è parte di un processo globale – la storia appunto: un tutto – le cui regole sono riconoscibili. il materialismo storico e dialettico marxiano le ha enunciate con chiarezza. è dunque falso: – che la libertà individuale dell’uomo faccia diventare vano ogni tentativo di rendere leggibile il senso della storia; – che la storia risponda a principi non storici, eterni e trascendenti. la storia deve essere letta in chiave storica, come un tutto unitario. Questa “chiave” va cercata in marx.

Se la nostra esposizione non ha altra pretesa che quella di essere un’interpretazione della teoria di Marx nel senso di Marx, questa “ortodossia” non significa affatto che si voglia preservare […] “l’integrità estetica” del sistema marxiano. Lo scopo che ci siamo proposti è determinato invece dall’idea che nella teoria e nel metodo di Marx sia stato infine scoperto il giusto metodo per la conoscenza della società e della storia. Nella sua intima natura, questo metodo è storico. È naturale perciò che esso debba essere applicato di continuo a se stesso, ed è questo uno dei punti essenziali di questi saggi. Ma ciò comporta al tempo stesso una presa di posizione concernente i contenuti concreti rispetto ai problemi attuali del presente, poiché secondo questo modo di intendere il metodo marxista il suo scopo preminente è la conoscenza del presente. […] Se si vogliono comprendere correttamente i fatti, si deve anzitutto cogliere con chiarezza e precisione questa differenza tra la loro esistenza reale e il loro nucleo strutturale interno, tra le rappresentazioni che si formano in rapporto ad essi e i loro concetti. Questa distinzione è il primo presupposto di una considerazione realmente scientifica che, secondo le parole di Marx, «sarebbe superflua se l’essenza delle cose e la loro forma fenomenica coincidessero direttamente». Ciò che importa è dunque, da un lato, liberare i fenomeni da questa forma immediata di datità, trovare le mediazioni me-

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diante le quali essi possono essere riferiti al loro nucleo, alla loro essenza e colti nella loro stessa essenza, e, d’altro lato, ottenere la comprensione di questo loro carattere di fenomeno, del loro apparire come loro necessaria forma fenomenica. Questa forma è necessaria a causa della loro essenza storica; per il fatto che essi si sono sviluppati sul terreno della società capitalistica. Il rapporto dialettico consiste appunto in questa doppia determinazione, in questo contemporaneo riconoscimento e superamento dell’essere immediato. Proprio qui la struttura concettuale interna del Capitale presenta le maggiori difficoltà per i lettori superficiali, che sono acriticamente prigionieri delle forme di pensiero dello sviluppo capitalistico. Infatti, l’esposizione spinge proprio il carattere capitalistico di tutte le forme economiche alle sue punte piú estreme, crea un milieu concettuale in cui queste forme si sviluppano in tutta la loro purezza, mentre la società viene descritta come «corrispondente alla teoria», quindi interamente attraversata dal capitale e costituita soltanto da capitalisti e proletari. D’altro lato, non appena questa impostazione produce qualche risultato, non appena questo mondo fenomenico sembra coagularsi nella teoria, il risultato cosí ottenuto viene immediatamente dissolto come mera apparenza come riflesso rovesciato di rapporti rovesciati, riflesso che è «soltanto l’espressione cosciente del movimento apparente». Solo operando questa connessione nella quale i fatti singoli della vita sociale vengono integrati in una totalità come momenti dello sviluppo storico, diventa possibile una conoscenza dei fatti come conoscenza della realtà. Questa conoscenza prende le mosse dalle determinazioni ora ora caratterizzate, semplici e pure, che sono – nel mondo capitalistico – immediate e naturali, per procedere, a partire da esse, alla conoscenza della totalità concreta, come riproduzione nel pensiero della realtà. Questa totalità concreta non è data affatto immediatamente al pensiero. «Il concreto è concreto – dice Marx – perché è la sintesi di molte determinazioni, quindi unità del molteplice». L’idealismo soggiace qui ad un’illusione, scambiando questo processo di riproduzione nel pensiero della realtà con il processo in cui si struttura la realtà stessa. Infatti, «nel pensiero esso appare come processo di sintesi, come risultato, non come punto di partenza, benché esso sia il vero punto di partenza e perciò il punto di partenza dell’intuizione e della rappresentazione». Il materialismo volgare invece – per quanto possa assumere una maschera di modernità, come nel caso di Bernstein e di altri – resta prigioniero della riproduzione delle determinazioni, immediate, delle determinazioni semplici della vita sociale. Esso crede di essere particolarmente «esatto» quando le assume semplicemente senza analisi ulteriore, senza sintesi nella totalità concreta, quando le mantiene nel loro astratto isolamento e le spiega unicamente mediante leggi astratte, non riferite alla totalità concreta. «La rozzezza e l’assenza del concetto – dice Marx – sta proprio nel fatto di porre in relazione tra loro in modo ac-

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cidentale, di inserire in un contesto meramente riflessivo, cose che sono organicamente connesse». La rozzezza e l’assenza del concetto di tali contesti della riflessione consiste anzitutto nel fatto che esse occultano il carattere storico e transitorio della società capitalistica e queste determinazioni appaiono come categorie atemporali, eterne, comuni a tutte le forme sociali. Benché ciò abbia la sua manifestazione piú evidente nell’economia borghese, ben presto anche il marxismo volgare ha seguito la stessa strada. Non appena si è minata la validità del metodo dialettico e quindi scosso il dominio metodologico della totalità sui momenti singoli; non appena le parti non hanno piú trovato nell’interno il loro concetto e la loro verità, e l’intero è stato invece allontanato come privo di carattere scientifico dall’ambito della considerazione oppure ridotto a mera «idea» o «somma» delle parti, il contesto riflessivo delle parti isolate si è necessariamente presentato come legge atemporale di ogni società umana. Infatti, l’asserzione di Marx secondo la quale «i rapporti di produzione di ogni società formano un intero», è la premessa metodologica e la chiave della conoscenza storica delle relazioni sociali. Ogni categoria singola isolata può infatti essere pensata e trattata in questo isolamento, come se fosse sempre presente nell’intero sviluppo sociale (e qualora non fosse reperita in una data società, si tratterebbe appunto di un’«eccezione» che conferma la regola).

 - György Lukács (Budapest 1885-1971) pubblicò Storia e coscienza di classe nel 1923. Il testo riportato è tratto da: G. Lukács, Storia e coscienza di classe, trad. it. di G. Piana, SugarCo, Milano 1967, pp. 11-12.

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G, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce Qual è il ruolo degli intellettuali nella vita politica? gli intellettuali, come indicato da marx, hanno il compito di elevare la coscienza delle masse: di renderle consapevoli dei loro interessi come classe contrapposta ad altre classi, nel quadro di quella che la teoria marxiana chiama “lotta di classe” e considera l’elemento caratterizzante di ogni epoca storica. va però precisato che il soggetto storico non è affatto il ceto degli intellettuali, ma la classe. il ruolo degli intellettuali non è di guida dall’esterno, ma di elevazione della coscienza di sé.

La filosofia della prassi aveva due compiti: combattere le ideologie moderne nella loro forma più raffinata, per poter costituire il proprio gruppo di intellettuali indipendenti, ed educare le masse popolari, la cui cultura era medioevale. Questo secondo compito che era fondamentale, dato il carattere della nuova filosofia, ha assorbito tutte le forze, non solo quantitativamente ma anche qualitativamente; per ragioni «didattiche», la nuova filosofia si è combinata in una forma di cultura che era un po’ superiore a quella media popolare (che era molto bassa), ma assolutamente inadeguata per combattere le ideologie delle classi colte, mentre la nuova filosofia era proprio nata per superare la più alta manifestazione culturale del tempo, la filosofia classica tedesca, e per suscitare un gruppo di intellettuali propri del nuovo gruppo sociale di cui era la concezione del mondo. D’altra parte la cultura moderna, specialmente idealista, non riesce a elaborare una cultura popolare e non riesce a dare un contenuto morale e scientifico ai propri programmi scolastici, che rimangono schemi astratti e teorici; essa rimane la cultura di una ristretta aristocrazia intellettuale, che talvolta ha presa sulla gioventù solo in quanto diventa politica immediata e occasionale. […] La filosofia della prassi presuppone tutto questo passato culturale, la Rinascita e la Riforma, la filosofia tedesca e la rivoluzione francese, il calvinismo e l’economia classica inglese, il liberalismo laico e lo storicismo che è alla base di tutta la concezione moderna della vita. La filosofia della prassi è il coronamento di tutto questo movimento di riforma intellettuale e morale, dialettizzato nel contrasto tra cultura popolare e alta cultura. Corrisponde al nesso Riforma protestante piú Rivoluzione francese: è una filosofia che è anche una politica e una politica che è anche filosofia. Attraversa ancora il marxismo critico

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la sua fase popolaresca: suscitare un gruppo di intellettuali indipendenti non è cosa facile, domanda un lungo processo, con azioni e reazioni, con adesioni e dissoluzioni e nuove formazioni molto numerose e complesse: è la concezione di un gruppo sociale subalterno, senza iniziativa storica, che si amplia continuamente, ma disorganicamente, e senza poter oltrepassare un certo grado qualitativo che è sempre al di qua del possesso dello Stato, dell’esercizio reale dell’egemonia su l’intera società che solo permette un certo equilibrio organico nello sviluppo del gruppo intellettuale. La filosofia della prassi è diventata anch’essa «pregiudizio» e «superstizione»: così come è, è l’aspetto popolare dello storicismo moderno ma contiene in sé un principio di superamento di questo storicismo. Nella storia della cultura, che è molto piú larga della storia della filosofia, ogni volta che la cultura popolare è affiorata, perché si attraversava una fase di rivolgimento e dalla ganga popolare si selezionava il metallo di una nuova classe, si è avuta una fioritura di «materialismo»; viceversa nello stesso momento le classi tradizionali si aggrappavano allo spiritualismo. Hegel, a cavallo della Rivoluzione francese e della Restaurazione, ha dialettizzato i due momenti della vita del pensiero, materialismo e spiritualismo, ma la sintesi fu «un uomo che cammina sulla testa». I continuatori di Hegel hanno distrutto questa unità e si è ritornati ai sistemi materialistici da una parte e a quelli spiritualistici dall’altra. La filosofia della prassi, nel suo fondatore, ha rivissuto tutta questa esperienza, di hegelismo, feuerbacchismo, materialismo francese, per ricostruire la sintesi dell’unità dialettica: «l’uomo che cammina sulle gambe». Il laceramento avvenuto per l’hegelismo si è ripetuto per la filosofia della prassi, cioè dall’unità dialettica si è ritornati da una parte al materialismo filosofico, mentre l’alta cultura moderna idealistica ha cercato di incorporare ciò che della filosofia della prassi le era indispensabile per trovare qualche nuovo elisir. «Politicamente» la concezione materialistica è vicina al popolo, al senso comune; essa è strettamente legata a molte credenze e pregiudizi, a quasi tutte le superstizioni popolari (stregonerie. spiriti, ecc.). Ciò si vede nel cattolicesimo popolare e specialmente nell’ortodossia bizantina. La religione è crassamente materialistica, tuttavia la religione ufficiale degli intellettuali cerca di impedire che si formino due religioni distinte, due strati separati, per non staccarsi dalle masse, per non diventare anche ufficialmente, come è realmente, un’ideologia di ristretti gruppi. Ma da questo punto di vista, non bisogna far confusione fra l’atteggiamento della filosofia della prassi e quello del cattolicesimo. Mentre quella mantiene un contatto dinamico e tende a sollevare continuamente nuovi strati di massa ad una vita culturale superiore, l’altro tende a mantenere un contatto puramente meccanico, un’unità esteriore, basata specialmente sulla liturgia e sul culto piú appariscentemente suggestivo sulle grandi folle. Molti tentativi ereticali furono manifestazioni di forze popolari per riformare la chiesa e avvicinarla al

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popolo, innalzando il popolo. La chiesa ha reagito spesso in forma violentissima, ha creato la Compagnia di Gesù, si è catafratta con le decisioni del Concilio di Trento, quantunque abbia organizzato un meraviglioso meccanismo di selezione «democratica» dei suoi intellettuali, ma come singoli individui, non come espressione rappresentativa di gruppi popolari. Nella storia degli sviluppi culturali, occorre tenere uno speciale conto dell’organizzazione della cultura e del personale in cui tale organizzazione prende forma concreta. Nel volume di G. De Ruggiero su Rinascimento e Riforma si può vedere quale sia stato l’atteggiamento di moltissimi intellettuali, con a capo Erasmo: essi piegarono dinanzi alle persecuzioni e ai roghi. Il portatore della Riforma è stato perciò proprio il popolo tedesco nel suo complesso, come popolo indistinto, non gli intellettuali. Appunto questa diserzione degli intellettuali dinanzi al nemico spiega la «sterilità» della Riforma nella sfera immediata dell’alta cultura, finché dalla massa popolare, rimasta fedele, non si seleziona lentamente un nuovo gruppo di intellettuali che culmina nella filosofia classica. Qualcosa di simile è avvenuto finora per la filosofia della prassi; i grandi intellettuali formatisi nel suo terreno, oltre ad essere poco numerosi, non erano legati al popolo, non sbocciarono dal popolo, ma furono l’espressione di classi intermedie tradizionali, alle quali ritornarono nelle grandi «svolte» storiche; altri rimasero, ma per sottoporre la nuova concezione ad una sistematica revisione, non per procurarne lo sviluppo autonomo. L’affermazione che la filosofia della prassi è una concezione nuova, indipendente, originale, pur essendo un momento dello sviluppo storico mondiale, è l’affermazione dell’indipendenza e originalità di una nuova cultura in incubazione, che si svilupperà con lo svilupparsi dei rapporti sociali.

 - Antonio Gramsci (Cagliari 1891 - Roma 1937) scrisse durante gli anni della prigionia (1928-1937) i saggi raccolti ed editi nel 1948 con il titolo Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce. Il testo riportato è tratto da: A. Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Einaudi, Torino 1955, pp. 86-90.

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H e A, Dialettica dell’illuminismo il cinema , la muSica , le arti che tutti i giorni entr ano nella noStr a vita ci rendono più o meno liberi? Se si pone la domanda del titolo, inevitabilmente ci si dividerà. Si dovrà comunque partire dal fatto che si tratta di prodotti industriali: chi produce film, chi ci propone della musica (e oggi possiamo aggiungere: chi programma la politica culturale di una televisione) opera nell’ambito di quella che horkheimer e adorno hanno chiamato “industria culturale”. un’industria che ci vuole consumatori, che ci vuole fruitori paganti e ben felici di farlo. ci vuole anche più liberi? o ci condiziona per renderci docili consumatori? va chiarito se le due cose necessariamente si escludono.

L’industria culturale Il mondo intero viene passato al setaccio dell’industria culturale. La vecchia esperienza dello spettatore cinematografico, a cui la strada fuori sembra la continuazione dello spettacolo appena lasciato, poiché questo vuole appunto riprodurre esattamente il mondo percettivo di tutti i giorni, è divenuta il criterio della produzione. Quanto più fitta e integrale la duplicazione degli oggetti empirici da parte delle sue tecniche, ed è tanto più facile far credere che il mondo di fuori sia il semplice prolungamento di quello che si viene a conoscere al cinema. [...] L’atrofia dell’immaginazione e spontaneità del consumatore culturale odierno non ha bisogno di essere ricondotta a meccanismi psicologici. I prodotti stessi, a partire dal più tipico, il film sonoro, paralizzano quelle facoltà per la loro stessa costituzione oggettiva. Essi sono fatti in modo che la loro apprensione adeguata esige bensì prontezza d’intuito, doti di osservazione, competenza specifica, ma anche da vietare addirittura l’attività mentale dello spettatore, se questi non vuol perdere i fatti che gli passano rapidamente davanti. È una tensione così automatica che, nei singoli casi, non ha neppure bisogno di essere attualizzata per rimuovere l’immaginazione. Chi è talmente assorbito dall’universo del film, gesti immagini e parole, da non essere in grado di aggiungergli ciò per cui solo diverrebbe tale, non sarà perciò necessariamente, all’atto della rappresentazione, tutto preso e occupato dagli effetti particolari del macchinario. Di tutti gli altri film e prodotti culturali che deve necessariamente conoscere, le prove di attenzione richieste gli sono così familiari da avvenire

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automaticamente. La violenza della società industriale opera negli uomini una volta per tutte. I prodotti dell’industria culturale possono contare di essere consumati alacremente anche in stato di distrazione. Ma ciascuno di essi è un modello del gigantesco meccanismo economico che tiene tutti sotto pressione fin dall’inizio, nel lavoro e nel riposo che gli assomiglia. Da ogni film sonoro, da ogni trasmissione radio, si può desumere ciò che non si potrebbe ascrivere ad effetto di ciascuno di essi singolarmente, ma solo di tutti insieme nella società. Immancabilmente ogni singola manifestazione dell’industria culturale riproduce gli uomini come ciò che li ha già resi l’industria culturale intera. E a che il processo della riproduzione semplice dello spirito non conduca a quella allargata, vegliano tutti i suoi agenti, dal produttore fino alle associazioni femminili. Le lamentele degli storici dell’arte e degli avvocati della cultura sull’estinzione dell’energia stilistica in Occidente sono paurosamente infondate. [...] Nessun costruttore di chiese del Medioevo avrebbe passato in rassegna i soggetti delle vetrate e delle sculture con la diffidenza con cui la gerarchia degli studi cinematografici esamina un soggetto di Balzac o di Victor Hugo prima che questo ottenga l’imprimatur di ciò che può andare. Nessun capitolo avrebbe assegnato ai ceffi diabolici e alle pene dei dannati il loro giusto posto nell’ordine del sommo amore con lo scrupolo con cui la direzione della produzione lo assegna alla tortura dell’eroe o alla gonna succinta della leading lady nella litania del film di successo. Il catalogo esplicito e implicito, essoterico ed esoterico del proibito e del tollerato, non si limita a circoscrivere un settore libero, ma lo domina e controlla da cima a fondo. Anche i minimi particolari vengono modellati alla sua stregua. L’industria culturale, attraverso i suoi divieti, fissa positivamente – come la sua antitesi, l’arte avanzata – un suo linguaggio, con una sintassi e un lessico propri. La necessità permanente di nuovi effetti, che restano tuttavia legati al vecchio schema, non fa che accrescere, come regola suppletiva, l’autorità del tramandato, a cui ogni singolo effetto vorrebbe sottrarsi. Tutto ciò che appare è sottoposto a un marchio così profondo che, alla fine, non appare più nulla che non rechi in anticipo il segno del gergo, e non si dimostri, a prima vista, approvato e riconosciuto. [...] Il paradosso della routine travestita da natura si avverte in tutte le manifestazioni dell’industria culturale, e in molte si lascia toccare con mano. Un jazzista che deve eseguire un pezzo di musica seria, il più semplice minuetto di Beethoven, lo sincopa involontariamente e solo con un sorriso di superiorità acconsente ad attaccare con la battuta preliminare. Questa «natura», complicata dalle istanze sempre presenti e spinte fino all’eccesso del mezzo specifico, costituisce il nuovo stile, vale a dire «un sistema di non-cultura, a cui si potrebbe riconoscere una certa “unità stilistica”, ammesso che abbia ancora un senso parlare di una barbarie stilizzata».

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La forza universalmente vincolante di questa stilizzazione supera già quella dei divieti e delle prescrizioni ufficiose [...]. Tutte le violazioni degli usi del mestiere commesse da Orson Welles gli vengono perdonate, perché – scorrettezze calcolate – non fanno che confermare e rafforzare la validità del sistema. L’obbligo dell’idioma tecnicamente condizionato che attori e registi devono produrre come natura, perché la nazione possa farlo proprio, si riferisce a sfumature così sottili da raggiungere quasi la raffinatezza di mezzi di un’opera d’avanguardia, con cui peraltro quest’ultima, al contrario di quelle, serve alla verità. La rara capacità di ottemperare minuziosamente alle esigenze dell’idioma della naturalezza in tutti i settori dell’industria culturale, diventa il criterio dell’abilità e della competenza. Tutto ciò che essi dicono, e il modo in cui lo dicono, deve poter essere controllato sul linguaggio quotidiano, come nel positivismo logico. I produttori sono degli esperti. L’idioma esige una forza produttiva eccezionale, che assorbe e consuma interamente: e ha satanicamente superato la distinzione – cara alla teoria conservatrice della cultura – di stile genuino e artificiale. Artificiale potrebbe essere definito uno stile impresso dall’esterno sugli impulsi riluttanti della figura. Ma nell’industria culturale la materia, fin nei suoi ultimi elementi, ha origine dallo stesso apparato che produce il gergo in cui si risolve. Ed ecco perché lo stile dell’industria culturale, che non deve più affermarsi sulla resistenza del materiale, è – nello stesso tempo – la negazione dello stile. La conciliazione di universale e particolare, regola e istanza specifica dell’oggetto, solo attuando la quale lo stile acquista peso e sostanza, è senza valore, perché non si determina più alcuna tensione fra i due poli: gli estremi che si toccano sono trapassati in una torbida identità, l’universale può sostituire il particolare e viceversa. Eppure questa caricatura dello stile dice qualcosa sullo stile autentico del passato. Il concetto di stile autentico si smaschera, nell’industria culturale, come equivalente estetico del dominio. L’idea dello stile come coerenza puramente estetica è una proiezione retrospettiva dei romantici. Nell’unità dello stile, non solo del Medioevo cristiano, ma anche del Rinascimento, si esprime la struttura di volta in volta diversa della violenza sociale, e non l’oscura esperienza dei dominati, in cui era racchiuso l’universale. I grandi artisti non furono mai quelli che incarnarono lo stile nel modo più puro e più perfetto, ma quelli che accolsero nella propria opera lo stile come rigore verso l’espressione caotica della sofferenza, come verità negativa. Nello stile delle opere la espressione acquistava la forza senza cui l’esistenza si perde inascoltata. Anche le opere che passano per classiche, come la musica di Mozart, contengono tendenze oggettive che sono in contrasto col loro stile. Fino a Schónberg e a Picasso, i grandi artisti hanno conservato la diffidenza verso lo stile, e – in tutto ciò che è decisivo – si sono tenuti meno allo stile che alla logica dell’oggetto. Ciò che espressionisti e dadaisti affermavano

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polemicamente, la falsità dello stile come tale, trionfa oggi nel gergo canoro del crooner, nella grazia colta a puntino della star, e – infine – nel magistrale colpo fotografico sulla capanna miserabile del bracciante. In ogni opera d’arte, lo stile è una promessa. In quanto ciò che è espresso entra – attraverso lo stile – nelle forme dominanti dell’universalità, nel linguaggio musicale, pittorico, verbale, dovrebbe riconciliarsi con l’idea della vera universalità. Questa promessa dell’opera d’arte di fondare la verità attraverso l’inserzione della figura nelle forme socialmente tramandate, è necessaria e ipocrita a un tempo. Essa pone come assolute le forme reali dell’esistente, pretendendo di anticipare l’adempimento nei loro derivati estetici. In questo senso, la pretesa dell’arte è anche sempre ideologica. D’altra parte, è solo nel confronto con la tradizione che si deposita nello stile, che l’arte può trovare un’espressione per la sofferenza. Il momento – nell’opera d’arte – per cui essa trascende la realtà, è, in effetti, inseparabile dallo stile: ma non consiste nell’armonia realizzata, nella problematica unità di forma e contenuto, interno ed esterno, individuo e società, ma nei tratti in cui affiora la discrepanza, nel necessario fallimento della tensione appassionata verso l’identità. Anziché esporsi a questo fallimento, in cui lo stile della grande opera d’arte si è negato da sempre, l’opera mediocre si è sempre tenuta alla somiglianza con altre, al surrogato dell’identità.

 - Max Horkheimer (Stoccarda 1895 - Norinberga 1973) e Theodor Wiesengrund Adorno (Francoforte sul Meno 1903 - Visp 1969), esponenti di spicco della Scuola di Francoforte, elaborarono la Dialettica dell’illuminismo tra il 1942 e il 1944; il volume fu pubblicato per la prima volta ad Amsterdam nel 1947. Il testo riportato è tratto da: H. Horkheimer e T.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, trad. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1966, pp. 136-141.

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H e A, Dialettica dell’illuminismo l’idea moderna , illuminiSta , che la realtà Sia comprenSibile e dominabile laScia ancor a Spazio per la libertà di chi riFiuta di eSSere dominato e vuole SFuggire alle regole Sociali? no, la risposta alla questione presentata è che non lascia alcuno spazio. nella società contemporanea il cittadino ha mille libertà: tutte quelle che il “sistema” (sociale, culturale, politico e così via) prevede e contempla nei suoi schemi di governo. Sapere è potere, e chi governa deve quindi sapere tutto in anticipo. la creatività autentica della vita non è quindi ammissibile. l’illuminismo, che parte dall’equiparazione tra sapere e potere, è totalitario. non va abbandonato per tornare all’“oscurantismo” contro cui la “luce” è nata: va piuttosto reso trasparente a se stesso, consapevole di quanto sta accadendo. il pensiero può, e deve, pensare contro se stesso, se vogliamo essere liberi. non deve mai abdicare.

Non abbiamo il minimo dubbio – ed è la nostra petizione di principio – che la libertà nella società è inseparabile dal pensiero illuministico. Ma riteniamo di aver compreso, con altrettanta chiarezza, che il concetto stesso di questo pensiero, non meno delle forme storiche concrete, delle istituzioni sociali a cui è strettamente legato, implicano già il germe di quella regressione che oggi si verifica ovunque. Se l’illuminismo non accoglie in sé la coscienza di questo momento regressivo, firma la propria condanna. Se la riflessione sull’aspetto distruttivo del progresso è lasciata ai suoi nemici, il pensiero ciecamente pragmatizzato perde il suo carattere superante e conservante insieme, e quindi anche il suo rapporto alla verità. [...] Ciò che non si piega al criterio del calcolo e dell’utilità, è, agli occhi dell’illuminismo, sospetto. E quando l’illuminismo può svilupparsi indisturbato da ogni oppressione esterna, non c’è più freno. Alle sue stesse idee sui diritti degli uomini finisce per toccare la sorte dei vecchi universali. Ad ogni resistenza spirituale che esso incontra, la sua forza non fa che aumentare. Ciò deriva dal fatto che l’illuminismo riconosce se stesso anche nei miti. Quali che siano i miti a cui ricorre la resistenza, per il solo fatto di diventare, in questo conflitto, argomenti, rendono omaggio al principio della razionalità analitica che essi rimproverano all’illuminismo. L’illuminismo è totalitario.

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Alla base del mito esso ha sempre visto l’antropomorfismo, la proiezione del soggettivo nella natura. Il soprannaturale, spiriti e demoni, sarebbero immagini riflesse degli uomini, che si lasciano spaventare dalla natura. Le varie figure mitiche sono tutte riducibili, secondo l’illuminismo, allo stesso denominatore, e cioè al soggetto. [...] L’illuminismo riconosce a priori, come essere ed accadere, solo ciò che si lascia ridurre a unità; il suo ideale è il sistema, da cui si deduce tutto e ogni cosa. In ciò non si distinguono le sue versioni razionalistica ed empiristica. Anche se le varie scuole potevano interpretare diversamente gli assiomi, la struttura della scienza unitaria era sempre la stessa. Il postulato baconiano dell’una scientia universalis è – nonostante il pluralismo dei campi d’indagine – altrettanto ostile a ciò che non si può collegare che la mathesis universalis leibniziana al salto. La molteplicità delle figure è ridotta alla posizione e all’ordinamento, la storia al fatto, le cose a materia. [...] La logica formale è stata la grande scuola dell’unificazione. Essa offriva agli illuministi lo schema della calcolabilità dell’universo. L’equiparazione di sapore mitologico delle idee ai numeri negli ultimi scritti di Platone, esprime l’anelito di ogni demitizzazione: il numero divenne il canone dell’illuminismo. Le stesse equazioni dominano la giustizia borghese e lo scambio di merci. [...] La società borghese è dominata dall’equivalente. Essa rende comparabile l’eterogeneo riducendolo a grandezze astratte. Tutto ciò che non si risolve in numeri, e in definitiva nell’uno, diventa, per l’illuminismo, apparenza; e il positivismo moderno lo confina nella letteratura. Unità rimane la parola d’ordine, da Parmenide a Russell. Si continua a esigere la distruzione degli dèi e delle qualità. [...] L’illuminismo è totalitario più di qualunque sistema. Non in ciò che gli hanno sempre rimproverato i suoi nemici romantici – metodo analitico, riduzione agli elementi, riflessione dissolvente – è la sua falsità, ma in ciò che per esso il processo è deciso in anticipo. Quando, nell’operare matematico, l’ignoto diventa l’incognita di un’equazione, è già bollato come arcinoto prima ancora che ne venga determinato il valore. La natura è, prima e dopo la teoria dei quanti, ciò che bisogna concepire in termini matematici; anche ciò che non torna perfettamente, l’irrisolvibile e l’irrazionale, è stretto davvicino da teoremi matematici. Identificando in anticipo il mondo matematizzato fino in fondo con la verità, l’illuminismo si crede al sicuro dal ritorno del mito. Esso identifica il pensiero con la matematica. Essa viene, per così dire, emancipata, elevata ad istanza assoluta. [...] Il pensiero si reifica in un processo automatico che si svolge per conto proprio, gareggiando con la macchina che esso stesso produce perché lo possa finalmente sostituire. [...] Nella riduzione del pensiero ad apparato matematico è implicita la consacrazione del mondo a misura di se medesimo. Ciò che appare un trionfo della razionalità soggettiva, la sottomissione di tutto ciò che è al formalismo logico, è pagato con la docile sottomissione della ragione a ciò che è dato

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senz’altro. Comprendere il dato come tale, non limitarsi a leggere, nei dati, le loro astratte relazioni spaziotemporali per cui si possono prendere e maneggiare, ma intenderli invece come la superficie, come momenti mediati del concetto, che si adempiono solo nell’esplicazione del loro significato sociale, storico e umano – ogni pretesa della conoscenza viene abbandonata. Poiché essa non consiste solo nella percezione, nella classificazione e nel calcolo, ma proprio nella negazione determinante di ciò che è via via immediato. Mentre il formalismo matematico, che ha per mezzo il numero, la forma più astratta dell’immediato, fissa il pensiero alla pura immediatezza. Si dà ragione a ciò che è di fatto, la conoscenza si limita alla sua ripetizione, il pensiero si riduce a tautologia. [...] Così l’illuminismo ricade nella mitologia da cui non ha mai saputo liberarsi. Poiché la mitologia aveva riprodotto come verità, nelle sue configurazioni, l’essenza dell’esistente (ciclo, destino, dominio del mondo), e abdicato alla speranza. Nella pregnanza dell’immagine mitica, come nella chiarezza della formula scientifica, è confermata l’eternità di ciò che è di fatto, e la bruta realtà è proclamata il significato che essa occlude. [...] La sussunzione di ciò che è di fatto, vuoi sotto la preistoria favolosa, vuoi sotto il formalismo matematico, la relazione simbolica dell’attuale all’evento mitico nel rito o alla categoria astratta nella scienza, fa apparire il nuovo come predeterminato, che è così – in realtà – il vecchio. Senza speranza non è la realtà, ma il sapere che – nel simbolo fantastico o matematico – si appropria la realtà come schema e così la perpetua.

 - Max Horkheimer (Stoccarda 1895 - Norinberga 1973) e Theodor Wiesengrund Adorno (Francoforte sul Meno 1903 - Visp 1969), esponenti di spicco della Scuola di Francoforte, elaborarono la Dialettica dell’illuminismo tra il 1942 e il 1944; il volume fu pubblicato per la prima volta ad Amsterdam nel 1947. Il testo riportato è tratto da: H. Horkheimer e T.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, trad. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1966, pp. 3-36.

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M, Eros e civiltà la libertà individuale e la ricerca della Felicità Si poSSono conciliare con le neceSSità oggettive della vita Sociale e con le culture che governano la Società? proviamo a leggere in chiave freudiana la domanda del titolo. dobbiamo chiederci se il “principio del piacere” e il “principio di realtà” possono conciliarsi nella attuale forma di organizzazione della società, che ci rende tutti liberi a patto di incasellarci in determinati comportamenti socialmente accettati (altrimenti fa di noi degli emarginati e dei perdenti). la risposta è che la vita sociale richiede una repressione degli impulsi vitali profondi. eros e civiltà sono in lotta fra loro, e vince la civiltà. come fare non per far vincere eros, ma per GSRGMPMEVI eros e civiltà?

Il principio di repressione addizionale Il principio della realtà sorregge l’organismo nel mondo esterno. Nel caso dell’organismo umano, questo è un mondo storico. Il mondo esterno che si trova di fronte all’Io che sta crescendo, è in ogni sua fase una specifica organizzazione storico-sociale della realtà, che influisce sulla struttura psichica per mezzo di istituzioni societarie specifiche. [...] un’organizzazione repressiva degli istinti si trova alla base di tutte le forme storiche del principio della realtà nella società civile. Se spiega l’organizzazione repressiva degli istinti adducendo l’inconciliabilità esistente fra il principio primario del piacere e il principio della realtà, egli esprime il fatto storico che la civiltà è progredita come dominio organizzato. La consapevolezza di questo fatto indirizza tutta la costruzione filogenetica di Freud, secondo cui la civiltà nasce nel momento in cui il dispotismo interiorizzato del clan fraterno si sostituisce al dispotismo patriarcale dell’orda primitiva. Proprio perché ogni civiltà è stata dominio organizzato, lo sviluppo storico assume la dignità e la necessità di uno sviluppo biologico universale. [...] I termini freudiani che non distinguono adeguatamente tra le vicissitudini biologiche degli istinti e le vicissitudini storico-sociali, devono venire accompagnati da termini corrispondenti atti a designare la componente storico-sociale specifica. A questo punto introduciamo due di questi termini: a) Repressione addizionale: le restrizioni rese necessarie dal potere sociale, o dominio sociale. Essa si distingue dalla repressione fondamentale, o di

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base, cioè dalle «modificazioni» agli istinti strettamente necessarie per il perpetuarsi della razza umana nella civiltà. b) Principio di prestazione: la forma storica prevalente del principio della realtà. Dietro il principio della realtà sta il fatto fondamentale dell’Ananke o penuria (Lebensnot), e ciò significa che la lotta per l’esistenza si svolge in un mondo troppo povero per poter soddisfare i bisogni umani senza continue limitazioni, rinunce e differimenti. In altri termini quel tanto di soddisfazione che è possibile raggiungere necessita lavoro, un adattamento più o meno doloroso, e attività per procurare i mezzi atti a soddisfare i bisogni. Per tutta la durata del lavoro, che praticamente occupa l’intera esistenza dell’individuo maturo, il piacere è «sospeso» e predomina la pena. E poiché gli istinti fondamentali lottano per il predominio del piacere e per l’abolizione del dolore e della pena, il principio del piacere è incompatibile con la realtà, e gli istinti devono sottomettersi a un regime repressivo. [...] Durante tutto il corso della civiltà il bisogno prevalente fu sempre organizzato (anche se in forme molto diverse) in modo tale da non distribuire mai collettivamente la penuria a seconda delle necessità individuali, così come la conquista dei beni necessari alla soddisfazione dei bisogni non fu organizzata con l’obiettivo di soddisfare nel modo migliore le necessità degli individui, man mano che esse si sviluppano. Al contrario la distribuzione della penuria come anche lo sforzo di superarla con il lavoro, sono stati imposti agli individui – dapprima con la violenza pura, più tardi con un’utilizzazione più razionale del potere. Ma per quanto utile possa essere stata questa razionalità per il progresso dell’insieme, essa rimase una razionalità del dominio, e la graduale vittoria sulla penuria fu indissolubilmente legata agli interessi degli individui dominanti, e forgiata nei modi scelti da questi ultimi. Il dominio è ben diverso dall’esercizio razionale dell’autorità. [...] Durante tutta la storia della civiltà che ci è nota, le restrizioni istintuali imposte dalla penuria sono state intensificate dalle restrizioni imposte dalla distribuzione gerarchica della penuria e del lavoro; gli interessi del dominio imposero repressioni addizionali all’organizzazione degli istinti sotto il principio della realtà. Il principio del piacere fu detronizzato non soltanto perché esso militava contro il progresso della civiltà, ma anche perché militava contro una civiltà il cui progresso perpetua la dominazione e la fatica del lavoro. Freud sembra prendere atto di questo fatto quando paragona l’atteggiamento della civiltà verso la sessualità a quello di una tribù o di una parte della popolazione «che abbia conquistato il sopravvento, e sfrutti gli altri a proprio vantaggio. La paura di una ribellione degli oppressi diventa in questo caso motivo di regolamenti ancora più rigidi».

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La modifica degli istinti sotto il principio della realtà incide tanto sull’istinto di vita come su quello di morte; ma per comprendere fino in fondo lo sviluppo di quest’ultimo, è indispensabile contrapporlo allo sviluppo dell’istinto di vita, cioè all’organizzazione repressiva della sessualità. Gli istinti sessuali subiscono l’urto del principio della realtà. La loro organizzazione culmina nella sottomissione degli istinti sessuali parziali al primato della genitalità, cioè nella loro subordinazione alla funzione procreativa. Il processo implica la deviazione della libido dal proprio corpo verso un oggetto estraneo di sesso opposto (la facoltà di dominare il narcisismo primario e secondario). La soddisfazione degli istinti parziali e della genitalità non procreativa viene repressa come perversione, o a seconda del loro grado di indipendenza, sublimata, o anche trasformata in elementi sussidiari della sessualità procreativa. Inoltre, nella maggior parte delle civiltà, quest’ultima viene incanalata in istituzioni monogamiche. Questa organizzazione porta a una restrizione quantitativa e qualitativa della sessualità: l’unificazione degli istinti parziali e il loro soggiogamento da parte della funzione procreativa, alterano la natura stessa della sessualità: da un «principio» autonomo che governa l’intero organismo, essa si trasforma in una funzione temporanea specializzata, in un mezzo per raggiungere un fine.

 - Herbert Marcuse (Berlino 1898 - Starnberg 1979), uno dei maggiori esponenti della Scuola di Francoforte, pubblicò Eros e civiltà nel 1955. Il testo riportato è tratto da: H. Marcuse, Eros e civiltà, trad. it. di L. Bassi, Einaudi, Torino 1964, pp. 64-67.

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B, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica il cinema , la pubblicità , la gr aFica cambiano la noStr a percezione del mondo? la risposta alla domanda del titolo è affermativa: quelle forme mutano la nostra percezione del mondo molto più di qualsiasi altra arte precedente. Questo dipende anche dal fatto che sono arti di massa: si rivolgono, come l’architettura e alcune altre arti del passato, a moltissime persone, ma lo fanno in modi del tutto diversi. oggi siamo nell’epoca della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, che non ha più un originale (come un quadro o un monumento), ma si moltiplica fino a raggiungere nella sua vita quotidiana ognuno di noi. l’occhio della cinepresa entra per noi dove non saremmo mai entrati, vede e mostra cose che noi non osserviamo. ci condiziona moltissimo, ma allo stesso tempo amplia le nostre possibilità percettive e la nostra conoscenza della realtà. orientandoci, ci rende più o meno liberi?

La riproducibilità tecnica dell’opera d’arte modifica il rapporto delle masse con l’arte. Da un rapporto estremamente retrivo, per esempio nei confronti di un Picasso, si rovescia in un rapporto estremamente progressivo, per esempio nei confronti di un Chaplin. Ove l’atteggiamento progressivo è contrassegnato dal fatto che il gusto del vedere e del rivivere si connette in lui immediatamente con l’atteggiamento del giudice competente. Questa connessione è un importante indizio sociale. Infatti, quanto più il significato sociale di un’arte diminuisce, tanto più contegno critico e quello della mera fruizione da parte del pubblico divergono. Il convenzionale viene goduto senza alcuna critica, ciò che è veramente nuovo viene criticato con ripugnanza. Al cinema l’atteggiamento critico e quello del piacere del pubblico coincidono. Dove il fatto decisivo è questo: in nessun luogo più che nel cinema le reazioni dei singoli, la cui somma costituisce la reazione di massa del pubblico, si rivela preliminarmente condizionata dalla loro immediata massificazione. Appena si manifestano, si controllano. Anche qui il confronto con la pittura continua a rivelarsi utile. Il dipinto ha sempre affacciato la pretesa peculiare di venir osservato da uno o da pochi. L’osservazione simultanea da parte di un vasto pubblico, quale si delinea nel secolo XIX, è un primo sintomo della crisi della pittura, crisi che non è stata affatto suscitata dalla fotografia soltanto, bensì, in modo

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relativamente autonomo, attraverso la pretesa dell’opera d’arte di trovare un accesso alle masse. Il fatto è appunto questo, che la pittura non è in grado di proporre l’oggetto alla ricezione collettiva simultanea, cosa che invece è sempre riuscita all’architettura, che riusciva un tempo all’epopea, che riesce oggi al film. E per quanto, in sé, da questa circostanza non vadano tratte conclusioni riguardanti il ruolo sociale della pittura, nel momento in cui, in seguito a particolari circostanze e in certo modo contro la sua natura, la pittura viene messa a diretto confronto con le masse, precisamente quella circostanza agisce come una grave limitazione. Nelle chiese e nei chiostri del Medioevo e alle corti principesche fin verso la fine del secolo XVIII, la ricezione collettiva di dipinti non avveniva simultaneamente, bensì mediatamente, secondo una complessa gradualità e secondo una gerarchia. Se questa situazione si è trasformata, in tale mutamento si esprime il particolare conflitto in cui la pittura è stata coinvolta attraverso la riproducibilità tecnica del quadro. Ma benché si cercasse di portarla di fronte alle masse, mediante le gallerie e i salon, non esisteva una via lungo la quale le masse potessero organizzare e controllare se stesse in vista di una simile ricezione. Perciò lo stesso pubblico che di fronte a un film grottesco reagisce in modo progressivo, di fronte al surrealismo deve per forza diventare un pubblico retrivo. Il cinema non trova le sue caratteristiche soltanto nel modo in cui l’uomo si rappresenta di fronte all’apparecchiatura necessaria alla ripresa, ma anche nel modo in cui esso rappresenta, con l’aiuto di quest’ultima, il mondo circostante. [...] Rispetto alla pittura, la maggior analizzabilità della prestazione rappresentata nel film è determinata dalla resa incomparabilmente più precisa della situazione. Rispetto al palcoscenico, la maggiore analizzabilità della prestazione rappresentata nel film è condizionata dalla maggiore isolabilità. Questa circostanza, e precisamente in ciò sta il suo significato principale, comporta una tendenza a promuovere la vicendevole compenetrazione tra l’arte e la scienza. Infatti, di un atteggiamento chiaramente circoscritto nell’ambito di una determinata situazione – come di un muscolo in un corpo – è difficile dire che cosa sia più affascinante: il suo valore artistico o la sua applicabilità scientifica. Una delle funzioni rivoluzionarie del cinema sarà quella di far riconoscere l’identità dell’utilizzazione artistica e dell’utilizzazione scientifica della fotografia, che prima in genere divergevano. Mentre il cinema, mediante i primi piani di certi elementi dell’inventario, mediante l’accentuazione di certi particolari nascosti di sfondi per noi abituali, mediante l’analisi di ambienti banali, grazie alla guida geniale dell’obiettivo, aumenta da un lato la comprensione degli elementi costrittivi che governano la nostra esistenza, riesce dall’altro anche a garantirci un margine di libertà enorme e imprevisto. Le nostre bettole e le vie delle nostre metropoli, i nostri uffici e le nostre camere ammobiliate, le nostre

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stazioni e le nostre fabbriche sembravano chiuderci irrimediabilmente. Poi è venuto il cinema e con la dinamite dei decimi di secondo ha fatto saltare questo mondo simile a un carcere; così noi siamo ormai in grado di intraprendere tranquillamente avventurosi viaggi in mezzo alle sue sparse rovine. Col primo piano si dilata lo spazio, con la ripresa al rallentatore si dilata il movimento. E come l’ingrandimento non costituisce semplicemente chiarificazione di ciò che si vede comunque, benché indistintamente, poiché esso porta in luce formazioni strutturali della materia completamente nuove, così il rallentatore non fa apparire soltanto motivi del movimento già noti: in questi motivi noti ne scopre di completamente ignoti, che non fanno affatto l’effetto di un rallentamento di movimenti più rapidi, bensì quello di movimenti propriamente scivolanti, planati, sovrannaturali. Si capisce così come la natura che parla alla cinepresa sia diversa da quella che parla all’occhio. Diversa specialmente per il fatto che al posto di uno spazio elaborato dalla coscienza dell’uomo interviene uno spazio elaborato inconsciamente. Se al solito ci si rende conto, sia pure approssimativamente, dell’andatura della gente, certamente non si sa nulla del suo comportamento nel frammento di secondo in cui affretta il passo. Se siamo più o meno abituati al gesto di afferrare l’accendisigari o il cucchiaio, non sappiamo pressoché nulla di ciò che effettivamente avviene tra la mano e il metallo, per non dire poi del modo in cui varia in relazione agli stati d’animo in cui noi ci troviamo. Qui interviene la cinepresa coi suoi ausiliari, col suo scendere e salire, col suo interrompere e isolare, col suo ampliare e contrarre il processo, col suo ingrandire e ridurre. Dell’inconscio ottico sappiamo qualche cosa soltanto grazie a essa, come dell’inconscio istintivo grazie alla psicanalisi.

 - Walter Benjamin (Berlino 1892 - Port Bou 1940) pubblicò L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica nel 1936. Il testo riportato è tratto da: W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa, trad. it. di E. Filippini, Einaudi, Torino 1966, pp. 38-42.

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Capitolo

6 Linguaggio e comunicazione Se la caratteristica più propria della filosofia novecentesca consiste nella svolta linguistica impressale nella prima metà del secolo da Wittgenstein e da Heidegger, nel secondo Novecento l’analisi del linguaggio si arricchisce di nuove prospettive, che integrano gli aspetti puramente sintattici e semantici – così bene indagati dalla grammatica generativotrasformazionale di Chomsky – e che si estendono alla dimensione pragmatica della comunicazione. All’interno delle pratiche comunicative troviamo molte prospettive critiche: la ricerca della pluralità di sensi possibili compiuta da Barthes, la discussione delle regole linguistiche compatibili con quelle sociali sviluppate da Foucault, le forme dell’argomentazione corretta e persuasiva indicate da Perelman, il condizionamento che il tipo di mezzo di comunicazione esercita sul messaggio secondo la lezione di McLuhan.

C, Alcune costanti della linguistica Se tutti i linguaggi umani hanno una Struttur a Simile, è poSSibile enunciarne le regole? Se esiste la struttura richiamata dal titolo, dietro tutti i linguaggi c’è un sostrato comune: dietro tutti i linguaggi umani si trova la mente dell’uomo. cercare le regole di una “grammatica” che sorregga i singoli linguaggi e le loro regole significa investigare le regole generali del pensiero, nonché costruire, per questa via, una logica.

Per spiegare i fenomeni linguistici è necessario stabilire i principi generali da cui essi derivano. La grammatica, dunque, dev’essere «generale» e «ragionata» a un tempo. Tali principi generali costituiscono di fatto una ipotesi, empiricamente verificabile, sulla classe dei linguaggi umani possibili. La verifica dell’ipotesi può esser fatta in due modi: da un lato, dimostrando che essa è compatibile con la diversità delle lingue umane; dall’altro, dimostrando che essa è abbastanza efficace da render conto dei fenomeni particolari. Tale ricerca di una grammatica universale fu condotta con la preoccupazione di apportare una prova dimostrativa dell’uno e dell’altro punto ma, beninteso, nei limiti delle conoscenze disponibili a quell’epoca e delle tecniche allora praticate. Nel corso di tali studi, i grammatici del tempo misero in evidenza un certo numero di proposte precise, relative alla struttura del linguaggio e all’uso che ne vien fatto. Si ritiene generalmente che queste proposte siano state confutate, o che il successivo sviluppo della linguistica abbia messo in luce la loro mancanza di portata pratica. Ch’io sappia, ciò non è affatto vero. O meglio, esse sono semplicemente cadute in dimenticanza, in quanto l’attenzione dei linguisti si è rivolta ad altri oggetti e in quanto, in modo particolare nella generazione che ci ha immediatamente preceduti, il campo della linguistica generale si è ridotto al punto di escludere i problemi che interessavano i promotori della grammatica universale, perlomeno in linea di principio. La grammatica di Port-Royal stabilisce una distinzione tra ciò che volentieri chiameremmo la «struttura superficiale» di una frase e la sua «struttura profonda». La prima concerne la organizzazione della frase in quanto fenomeno fisico. La seconda interessa il sostrato strutturale astratto che ne determina il contenuto semantico, e che è presente allo spirito allorché la frase viene emessa o percepita. In tal modo, la struttura superficiale della frase tipo Dio invisibile ha creato il mondo visibile ci indica che abbiamo a che fare con una forma del tipo soggetto-predicato, con un soggetto com-

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plesso e un predicato anch’esso formato da più termini. La sua struttura profonda rivela invece un sistema di tre giudizi, e precisamente: che Dio ha creato il mondo (proposizione principale), che Dio è invisibile e che il mondo è visibile (proposizioni incidentali alla proposizione principale). La struttura intima, il sostrato, che racchiude il contenuto semantico, è dunque un sistema di tre proposizioni, sistema che è presente alla mente quando la frase reale viene emessa e compresa. Ognuna delle tre proposizioni elementari che compongono il sostrato è, come la struttura superficiale della frase completa, del tipo soggettopredicato. Una struttura profonda che comporti un certo numero di proposizioni elementari, organizzate secondo determinati rapporti in vista di un determinato senso, è convertibile in una struttura superficiale mediante una serie di operazioni formali che possiamo chiamare «trasformazioni grammaticali». [...] L’interesse manifestato per l’aspetto creativo del linguaggio e le diverse interpretazioni proposte per le strutture superficiali o profonde delle lingue, all’alba della riflessione linguistica moderna, si inseriscono nel quadro delle teorie razionaliste della conoscenza e della percezione che videro la luce, in Inghilterra e in Europa, durante il diciassettesimo secolo. Il rinnovamento di interesse che si è venuto manifestando in questi ultimi anni per questioni di questo genere ha in parte coinciso, se non lo ha provocato, con il ridestarsi delle discussioni attorno alle teorie della conoscenza, anch’esse fortemente improntate al razionalismo. Le ragioni di questo sono chiare. Se è vero che le strutture sono totalmente astratte e non sono collegate alle strutture apparenti che in virtù di un complicato gioco di regole trasformazionali, è vano sperar d’isolare dei modelli percettuali ricorrendo al semplice mezzo della dissezione e dell’analisi, accontentandosi di operazioni di segmentazione e di classificazione e di procedimenti analoghi. In compenso, diventa più fecondo ricercare dei modelli che contengano il codice genetico della lingua, le regole di una grammatica generativa, e utilizzare tale informazione per interpretare un segno percepito mettendolo a confronto con i dati raccolti preventivamente per campionatura. [...] Per di più, se è vero che le grammatiche delle lingue naturali non sono solamente complesse e astratte ma anche estremamente limitate nella loro varietà, in modo particolare al livello della massima astrazione, conviene rimettere in questione il problema se esse siano realmente frutto della cultura in un senso accettabile del termine, come generalmente si pensa. Potrebbe anche darsi che una grammatica particolare venisse acquisita mediante la semplice differenziazione di uno schema innato fisso piuttosto che mediante l’acquisizione progressiva di dati, di sequenze, di concatenamenti e di nuove associazioni. La scelta tra le due ipotesi, delimitabile in modo assai preciso, deriva da una questione di fatto, e il poco che si conosce sulla struttura del

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linguaggio in generale farebbe piuttosto credere che l’ipotesi razionalista abbia maggiori probabilità di rivelarsi feconda e fondamentalmente corretta nelle sue grandi linee. [...] La teoria linguistica moderna di ispirazione «razionalista» differisce dalle varianti più antiche in molti punti, ma in particolare nell’utilizzazione di tecniche delicate, che solo da poco abbiamo imparato a maneggiare. Oggi è possibile fare con esattezza ciò che un tempo non si poteva che intravedere in modo vago e allusivo: ovverosia costruire delle grammatiche generative precise, capaci ben presto di stabilire dei collegamenti tra semantemi e fonemi in un’infinità di combinazioni possibili; il che soddisfa almeno una delle condizioni necessarie all’elaborazione di qualunque progetto di modello avente un’applicazione linguistica pratica. Siamo anche in grado di affrontare il problema che consiste nel precisare lo schema strutturale le cui caratteristiche determinano la classe delle grammatiche possibili e costituiscono, verosimilmente, una tappa preliminare indispensabile all’acquisizione di ogni lingua, per poi passare allo studio delle proprietà formali delle lingue che rispondono all’insieme delle condizioni generali così definite.

 - Noam Chomsky (Filadelfia 1928) ha pubblicato il saggio Alcune costanti della linguistica nel 1966 in “Problèmes du Langage”, Diogène 51 (Gallimard, Paris). Il testo riportato è tratto da: N. Chomsky, Alcune costanti della linguistica, trad. it. di L. Del Grosso Destreri, in I problemi attuali della linguistica, Bompiani, Milano 1968, pp. 18-24.

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B, Il brusio della lingua poiché eSiStono molti modi di leggere un teSto, è legittimo chiederSi Se Siano tutti validi? perché si dia un testo, occorre qualcosa di più di un testo: occorre un lettore. ora, che cosa fa un lettore? interpreta, cioè legge alla luce di propri criteri quanto trova nel testo. dunque, inevitabilmente, tante interpretazioni quanti lettori. ed è il testo stesso a richiederlo perché esso è in se stesso una realtà plurale, in quanto rimanda a una molteplicità di sensi possibili tra i quali scegliere. Questi sono già in lui, almeno virtualmente. è il lettore a scegliere.

Il Testo è plurale. Ciò non significa soltanto che ha molti sensi, ma che dà adempimento al plurale stesso del senso: un plurale irriducibile (e non solo accettabile). Il Testo non è coesistenza di sensi, bensì passaggio, attraversamento; non può perciò dipendere da un’interpretazione, sia pur liberale, ma da un’esplosione, da una disseminazione. Il plurale del Testo attiene, infatti, non all’ambiguità del suoi contenuti, ma a quella che potremmo chiamare la pluralità stereografica dei significanti di cui è intessuto (etimologicamente, il testo è un tessuto): il lettore del Testo potrebbe essere paragonato a un soggetto inoperoso (che avrebbe dispiegato in sé ogni immaginario); tale soggetto relativamente vuoto passeggia (proprio questo è accaduto all’autore di quanto state leggendo, ed è così che è stato colpito da una visione pregnante del Testo), costeggiando una valle sul cui fondo scorre uno uadi (lo uadi è introdotto per dare l’idea di un certo spaesamento); quel che percepisce è molteplice, irriducibile, proveniente da sostanze e da piani eterogenei, staccati: luce, colori, vegetazione, calore, aria, esplosioni attutite di rumori, vaghi cinguettii d’uccelli, voci di bambini dall’altra parte della vallata, passaggi, gesti, vestiti di abitanti da vicino o in lontananza; tutti questi elementi sono identificabili solo per metà: provengono da codici noti, ma la loro combinatoria è unica, fonda la passeggiata come differenza che potrà ripetersi soltanto in quanto differenza. È proprio quel che accade per il Testo: può essere sé soltanto nella sua differenza (che non vuol dire individualità); la sua lettura è semel-fattiva (il che rende illusoria qualsiasi scienza induttivadeduttiva dei testi: non è data una «grammatica» dei testi), e tuttavia tutta intessuta di citazioni, di riferimenti, di echi: linguaggi culturali (quale linguaggio non lo è?), anteriori o contemporanei, che lo attraversano da un capo all’altro in una vasta stereofonia. L’intertestualità nella quale è situato ogni testo, dal momento che è a sua volta l’infratesto di un altro testo, non linguaggio e comunicazione

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può essere confusa con una qualche origine del testo stesso: ricercare le «fonti», gli «influssi» di un’opera significa rispettare il mito della filiazione; le citazioni di cui è fatto un testo sono anonime, irreperibili e tuttavia già lette: sono citazioni senza virgolette. [...] L’opera si inscrive in un processo di filiazione. Vi si postula una determinazione del mondo (della razza, poi della Storia) sull’opera, una consecuzione delle opere l’una rispetto all’altra e un’appropriazione dell’opera da parte del suo autore. L’autore è considerato il padre e il proprietario della sua opera; la scienza letteraria apprende perciò a rispettare il manoscritto e le intenzioni dichiarate dell’autore, e la società postula un rapporto legale tra autore e opera (cioè i «diritti d’autore», recenti a dire il vero, dal momento che sono stati effettivamente legalizzati soltanto con la Rivoluzione francese). Il Testo, invece, si legge senza l’inscrizione del Padre. [...] la metafora del Testo è quella del reticolo; se il Testo si estende è per effetto di una combinatoria, di una sistematica (immagine, d’altronde, vicina alle prospettive della biologia contemporanea sul vivente); al Testo non è dunque dovuto alcun «rispetto» vitale: esso può essere frantumato (come d’altra parte faceva il Medioevo con due testi dotati peraltro di grande autorità: le Sacre Scritture e Aristotele); il Testo può essere letto senza la garanzia del padre; la restituzione dell’inter-testo ne abolisce paradossalmente l’eredità. Non che l’Autore non possa «ritornare» nel Testo, nel suo testo; ma lo farà allora, per così dire, in qualità di invitato; se è romanziere, vi si inscrive come uno dei suoi personaggi, come disegnato sul tappeto, sullo sfondo; la sua inscrizione non è più privilegiata, paterna, aletica, bensì ludica: egli diviene, per così dire, un autore di carta; la sua vita non è più all’origine dei suoi racconti, ma un racconto in concorrenza con la sua opera; l’opera si riversa sulla vita (e non più il contrario), come accade in Proust o in Genet, consentendo di leggere la vita dell’autore come un testo: il termine «bio-grafia» recupera un senso forte, etimologico; contemporaneamente, la sincerità dell’enunciazione, vera e propria «croce» della morale letteraria, diventa un falso problema: l’io che scrive il testo è anch’esso sempre e soltanto un io di carta. [...] Il Testo (non foss’altro per la sua frequente «illeggibilità») decanta l’opera (se quest’ultima lo consente) dal suo consumo e la recupera come gioco, lavoro, produzione, pratica. Ciò significa che il Testo chiede che si tenti di abolire (o almeno di attenuare) la distanza tra scrittura e lettura, certo non intensificando la proiezione del lettore sull’opera, ma collegandoli entrambi in una stessa pratica significante. La distanza che separa la lettura dalla scrittura è storica. All’epoca della più forte divisione sociale (prima che si instaurassero le culture democratiche), leggere e scrivere erano in egual misura privilegi di classe: la Retorica, grande codice letterario di quei tempi, insegnava a scrivere (anche se allora si producevano di solito discorsi e non

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testi); è significativo che l’avvento della democrazia abbia rovesciato la parola d’ordine: la Scuola (superiore) va orgogliosa del fatto che insegna a leggere (come si deve), e non più a scrivere (il senso di questa carenza ritorna oggi di moda: all’insegnante si chiede che insegni allo studente a «esprimersi», il che è come sostituire una censura con un controsenso). In realtà, leggere, nel senso di consumare, non significa giocare con il testo. «Giocare» dev’essere preso qui in tutta la polisemia del termine: il testo stesso gioca (come una porta o un meccanismo hanno un certo «gioco»); e il lettore, dal canto suo, gioca due volte: gioca con il Testo (nel senso ludico), cercando una pratica che lo ri-produca; ma, affinché tale pratica non si riduca a una mimesis passiva, interna (il Testo è proprio ciò che resiste a tale riduzione), egli gioca il Testo; non si dimentichi che «giocare» (jouer) in francese è anche un termine musicale; la storia della musica (come pratica, non come «arte») è d’altro canto relativamente parallela a quella del Testo; vi fu un’epoca in cui, essendo numerosi gli appassionati attivi della musica (almeno all’interno di una certa classe), «suonare» (jouer) e «ascoltare» costituivano un’attività poco differenziata; in seguito sono apparsi, in successione, due ruoli: innanzitutto quello dell’interprete, al quale il pubblico borghese (benché a sua volta in grado di suonare un po’: si pensi alla storia del pianoforte) delegava il proprio «gioco»; poi quello dell’amatore (passivo), che ascolta la musica senza saperla eseguire (e il disco ha effettivamente soppiantato il piano).

 - Roland Barthes (Cherbourg 1915 - Parigi 1980) scrisse Il brusio della lingua, IV volume dei Saggi critici, nel 1984. Il testo riportato è tratto da: R. Barthes, Il brusio della lingua, trad. it. di B. Bellotto, Einaudi, Torino 1988, pp. 57-64.

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F, Storia della follia nell’età classica eSiStono linguaggi Senza limiti e divieti, eSiSte una cultur a in cui Sia lecito tutto, in cui Sia accettata anche la Follia? una delle caratteristiche di tutte le civiltà umane è che si esprimono attraverso linguaggi e generano linguaggi dotati di senso. un’altra caratteristica è che non esistono culture e linguaggi in cui sia permesso tutto: la civiltà riposa sulla esclusione – e sulla definizione dell’errore. la follia è, nelle società di ogni tempo, il luogo della diversità, dei linguaggi non compatibili con l’ordine sociale. ma dopo Freud tutto va rivisto, perché la psicoanalisi mostra quali conflitti e quali pulsioni vi siano dietro l’ordine sociale. nozioni ben consolidate vanno rimesse in discussione.

Dire che la follia è oggi scomparsa significa dire che scompare quella implicazione che la racchiudeva insieme nel sapere psichiatrico e in una riflessione di tipo antropologico. Ma non significa dire che con ciò scompaia la forma generale di trasgressione il cui volto visibile era stato per secoli la follia. Né che questa trasgressione non sia sul punto, nel momento stesso in cui noi chiediamo che cos’è la follia, di dar luogo a un’esperienza nuova. Non esiste una sola cultura al mondo in cui sia permesso di fare tutto. E da molto tempo si sa bene che l’uomo non comincia con la libertà ma con il limite e con la linea dell’invalicabile. Si conoscono i sistemi ai quali obbediscono le azioni interdette; è stato possibile distinguere per ogni cultura il regime delle proibizioni dell’incesto. Ma è ancora mal nota la organizzazione delle interdizioni del linguaggio. Il fatto è che i due sistemi di restrizione non si sovrappongono, come se l’uno fosse la versione verbale dell’altro: ciò che non deve apparire a livello di parola non è necessariamente proscritto nella sfera del gesto. I Zuñi, che lo proibiscono, narrano l’incesto del fratello e della sorella; i Greci la leggenda di Edipo. Inversamente il Codice del 1808 ha abolito le vecchie leggi penali contro la sodomia; ma il linguaggio del XIX secolo è stato molto più intollerante nei confronti dell’omosessualità (quanto meno nella sua forma maschile) di quanto non lo siano state le età precedenti. Ed è probabile che i concetti psicologici di compensazione e di espressione simbolica, non possano in alcun modo spiegare un simile fenomeno. Sarà necessario un giorno studiare questo ambito delle interdizioni di linguaggio nella sua autonomia. È senz’altro troppo presto per sapere esat-

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tamente come farne l’analisi. Si potranno utilizzare le divisioni attualmente ammesse del linguaggio? E riconoscere innanzitutto, al limite dell’interdizione e dell’impossibilità, le leggi che concernono il codice linguistico (ciò che chiaramente si chiama errore di lingua – faute de langue); poi all’interno del codice e fra le parole o espressioni esistenti, quelle che sono colpite da un interdetto di articolazione (tutta la serie religiosa, sessuale, magica delle parole blasfeme); quindi gli enunciati che sarebbero autorizzati dal codice, permessi nell’atto della parola, ma il cui significato è intollerabile, per una determinata cultura a un certo momento: qui la deviazione metaforica non è più possibile, perché è il senso stesso che è oggetto di censura. Infine, esiste pure una quarta forma di linguaggio escluso: consiste nel sottomettere una parola conforme al codice riconosciuto, a un altro codice la cui chiave è data da questa stessa parola: dimodoché questa è sdoppiata al proprio interno: dice ciò che dice, ma aggiunge un surplus muto che enuncia silenziosamente ciò che dice e il codice in base al quale lo dice. Non si tratta in questo caso di un linguaggio cifrato, ma di un linguaggio strutturalmente esoterico. In altri termini non comunica, nascondendolo, un significato interdetto; si installa sin dal primo istante in una piega essenziale della parola. Piega che scava la parola dall’interno, forse sino all’infinito. Poco importano allora ciò che si dice in un simile linguaggio e i significati che ne vengono liberati. È questa liberazione oscura e centrale della parola nel cuore di se stessa, la sua fuga incontrollabile verso una dimora sempre senza luce, che nessuna cultura può accettare immediatamente. Una tale parola è trasgressiva non nel suo senso, non nella sua materia verbale, ma nel suo gioco. [...] Nella storia occidentale, l’esperienza della follia si è disposta lungo questa scala. In verità, essa ha per lungo tempo occupato una regione incerta, per noi difficile da precisare, tra l’interdizione dell’azione e quella del linguaggio: da qui l’importanza esemplare della coppia furor-inanitas che ha praticamente organizzato, secondo i registri del gesto e della parola, il mondo della follia sino al termine del Rinascimento. L’epoca della reclusione (gli Hôpitaux Généraux, Charenton, Saint-Lazare, istituiti nel XVII secolo) segna una migrazione della follia verso la regione dell’insensato; la follia non conserva con gli atti interdetti che una parentela morale (resta essenzialmente legata alle interdizioni sessuali), ma è inclusa nell’universo delle interdizioni di linguaggio; la reclusione classica racchiude con la follia, il libertinaggio di pensiero e di parola, l’ostinazione nell’empietà e nell’eterodossia, la bestemmia, la stregoneria, l’alchimia – in breve tutto ciò che caratterizza il mondo parlato e interdetto nella sragione; la follia è il linguaggio escluso – quello che contro il codice della lingua pronuncia parole senza significato (gli «insensati», gli «imbecilli», i «dementi»), o quello che pronuncia parole sacralizzate (i «violenti», i «furiosi»), o ancora quello che fa passare significati interdetti (i «libertini», i «testardi»). Di questa repres-

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sione della follia come parola interdetta, la riforma di Pinel è molto più un compimento visibile che una modificazione. La modificazione non si produsse realmente se non con Freud, quando l’esperienza della follia si è spostata verso l’ultima forma di interdizione del linguaggio di cui parlavamo più sopra. Ha cessato allora di essere errore di linguaggio, bestemmia proferita, o significato intollerabile (e in questo senso la psicanalisi è veramente la grande rimozione delle interdizioni, come diceva lo stesso Freud); è apparsa come una parola che si avvolge su se stessa, dicendo, al di sotto di ciò che dice, altre cose delle quali è al tempo stesso il solo codice possibile: linguaggio esoterico, se si vuole, poiché trattiene la sua lingua all’interno di una parola che alla fin fine non dice altre cose che questa implicazione. Occorre dunque prendere l’opera di Freud per quel che è; essa non scopre il fatto che la follia è presa in una rete di significati comuni con il linguaggio di tutti i giorni, autorizzando così a parlarne nella piattezza quotidiana del vocabolario psicologico. Essa disloca l’esperienza europea della follia per situarla in quella regione pericolosa, trasgressiva sempre (dunque ancora interdetta, ma in una modalità particolare) che è quella dei linguaggi che si implicano essi stessi, enunciando cioè nel loro enunciato la lingua nella quale lo enunciano.

 - Michel Foucault (Poitiers 1926 - Parigi 1984) pubblicò la Storia della follia nell’età classica nel 1961. Il testo riportato è tratto da: M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, trad. it. di F. Ferrucci, Rizzoli, Milano 1977, pp. 630-633.

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P, Dominio retorico. Retorica e argomentazione come Si Fa a coStruire una argomentazione corretta e vincente, tale Quindi da conSentire di perSuadere? il problema è stato impostato in modo molto lucido dalla tradizione filosofica greca, che ha studiato sia la retorica come arte della persuasione sia la filosofia come ricerca di una verità oggettiva. la differenza è radicale perché con la retorica si cerca di convincere gli altri della bontà della propria tesi e della propria opinione (qualunque sia la verità, nota o non nota che sia), mentre con la filosofia si ha di mira la verità e non la persuasione. ma già aristotele notava che in molti campi la verità non può essere scientificamente fondata ed è dunque necessario usare la retorica non per persuadere a qualsiasi costo, ma per corroborare le proprie tesi con argomentazioni ragionevoli che gli altri possano valutare. è quindi possibile elaborare una teoria della argomentazione come strumento della filosofia proseguendo gli studi, in chiave moderna, della retorica antica.

A decidere il destino della retorica sono stati essenziali i suoi rapporti con la filosofia: mentre la retorica si sforza di far prevalere certe opinioni su altre concorrenti, la filosofia, che primitivamente includeva le scienze particolari, è alla ricerca di verità impersonali. Contrapponendo, nel suo celebre poema, la via della verità, garantita dalla divinità, alla via dell’opinione, che è quella degli uomini, Parmenide dà inizio alla competizione fra filosofi e maestri di retorica. La risposta di Gorgia non si è fatta attendere: con una triplice argomentazione egli dimostra che l’Essere non è; che, se esistesse, sarebbe inconoscibile e che, se lo si conoscesse, tale conoscenza sarebbe incomunicabile; donde l’importanza della retorica, della tecnica psicologica che agisce sulla volontà dell’ascoltatore per ottenerne l’adesione. Analogamente, mostrando che a proposito di ogni cosa, esistono due discorsi opposti, i dissoi logoi, Protagora nega l’esistenza di una verità unica. Poiché ogni proposizione è oggetto di controversia, in quanto si può sempre sostenere il pro e il contro, bisogna accordare la supremazia al retore, maestro dell’opinione. Al contrario Platone, credendo nell’esistenza, in ogni campo, di una verità che il filosofo ha il dovere di perseguire prima di ogni altra cosa, annette un ruolo di purificazione alla dialettica, che è una tecnica usata da Socrate

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per confutare le opinioni dell’avversario nella misura in cui è possibile metterne in evidenza le contraddizioni. Dal momento che si contraddicono, le opinioni non possono essere ammesse contemporaneamente e una di esse, almeno, deve essere abbandonata in nome della verità. In tal modo Socrate prepara la via all’intuizione della verità. Una volta afferratala, il filosofo potrà servirsi della tecnica retorica per comunicarla e farla ammettere al suo uditorio. [...] Se l’intuizione garantisce la verità dei principi nelle scienze, il ricorso alla deliberazione e alla discussione conferisce una razionalità alle attività pratiche, quelle in cui bisogna decidere e scegliere, in seguito a riflessione, fra le diverse possibilità e contingenze. Grazie ai ragionamenti dialettici e alla retorica, si potrà influenzare il giudizio e orientarlo verso prese di posizione ragionevoli. Secondo Aristotele, ogni uditorio è un giudice che deve, in fin dei conti, pronunciarsi sulla superiorità dell’una o dell’altra tesi in discussione, quando nessuna di esse si impone in modo evidente. Proprio perché l’ambito dell’azione è quello del contingente, che non può essere governato da verità scientifiche, l’impiego dei ragionamenti dialettici e dei discorsi retorici è inevitabile per introdurre una certa razionalità nell’esercizio della volontà individuale e collettiva. [...] L’ambito per eccellenza dell’argomentazione, della dialettica e della retorica, è quello dei valori. Platone nel suo dialogo sulla pietà aveva ben dimostrato che l’ambito privilegiato della dialettica è quello che sfugge al calcolo, al sistema di pesi e misure, quello in cui si discute del giusto e dell’ingiusto, del bello e del brutto, del buono e del cattivo e, in generale, di ciò che è preferibile. La concezione moderna della filosofia, che la distingue dalle scienze, adotta quale proprio specifico metodo il ricorso all’argomentazione sotto tutte le sue forme. La filosofia in effetti non può limitarsi a ciò che viene percepito in quanto essa deve separare l’importante dal secondario, l’essenziale dall’accidentale, ciò che è costruito da ciò che è dato, e questo in funzione di una prospettiva la cui pertinenza e superiorità non si impongono a tutti. Di qui l’obbligo di difendere la prospettiva scelta grazie a una argomentazione, grazie ad analogie e metafore di cui si mostrerà il carattere adeguato e la superiorità sulle prospettive concorrenti. È chiaro che le forme di ragionamento del filosofo non possono limitarsi alla deduzione e all’induzione. Nella misura in cui i filosofi rivolgono un appello alla ragione e utilizzano, per convincere, tutto un arsenale di argomenti che dovrebbero essere accettati da tutti, essi debbono allargare il loro concetto di ragione, in modo da mostrare la razionalità delle tecniche argomentative e della retorica in quanto teoria del discorso persuasivo.

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In questa impresa, oggi inevitabile, verremo aiutati dall’esperienza secolare dei giuristi che, dopo aver fatto dipendere le istituzioni umane da un diritto naturale di ispirazione divina – si tratti della Provvidenza degli stoici, del Dio vivente delle religioni rivelate o del Dio Razionale dei filosofi – sono giunti a elaborare la teoria di un diritto ragionevole, oggetto del consensus di una comunità organizzata. Non a caso i trattati di retorica degli antichi erano opere essenzialmente destinate ai giuristi; non bisogna tuttavia dimenticare, a questo proposito, che il diritto, contrariamente alla filosofia per esempio, si propone come scopo di dirimere le controversie e che, pertanto, queste ultime non possono prolungarsi indefinitamente. Nel campo del diritto è necessario pervenire a una decisione che deve beneficiare dell’autorità della cosa giudicata. L’argomentazione filosofica, come quella giuridica, costituisce l’applicazione a un ambito particolare di una teoria generale dell’argomentazione che consideriamo come nuova retorica. Identificando quest’ultima con la teoria generale del discorso persuasivo, che tende a suscitare l’adesione, sia intellettuale che emotiva, di un uditorio, qualunque esso sia, affermiamo che ogni discorso che non aspiri a una validità impersonale appartiene all’ambito della retorica. Allorché una comunicazione tende a influenzare una o più persone, a orientare il loro pensiero, a suscitare o placare le emozioni, a dirigere un’azione, essa fa parte del campo della retorica. Quest’ultima comprende, come caso particolare, la dialettica, tecnica della controversia.

 - Chaim Perelman (Varsavia 1912 - Bruxelles 1984) scrisse Dominio retorico. Retorica e argomentazione nel 1977. Il testo riportato è tratto da: Ch. Perelman, Dominio retorico. Retorica e argomentazione, trad. it. di M. Botto e D. Gibelli, Einaudi, Torino 1981, pp. 164-172.

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ML, Gli strumenti del comunicare che inFluenza ha il mezzo utilizzato per la comunicazione Sulla comunicazione SteSSa? il mezzo per comunicare per mcluhan ha un’influenza molto alta sulla comunicazione. Questo dipende dal fatto che ogni mezzo possiede determinati caratteri che consentono certe forme di comunicazione e non altre. per esempio, sia il telefono che la radio permettono la comunicazione attraverso la voce, ma il telefono nel privato e in maniera interattiva, mentre la radio non è interattiva e consente la comunicazione di musica e parole a una grande massa di persone. ne deriva il fatto che i due mezzi non possono veicolare nello stesso modo lo stesso messaggio. esiste dunque una logica particolare di ogni specifico mezzo, che si serve di linguaggi propri. poiché la mente umana utilizza logiche e linguaggi propri, ma deve comunicare con altre menti anche attraverso logiche e linguaggi condivisi, il mezzo assume un’importanza decisiva non solo nella comunicazione ma, di riflesso, sulla formazione stessa del pensiero che viene comunicato.

Media caldi e freddi C’è un principio base che distingue un medium «caldo» come la radio o il cinema, da un medium «freddo» come il telefono o la TV. È caldo il medium che estende un unico senso fino a un’«alta definizione»: fino allo stato, cioè, in cui si è abbondantemente colmi di dati. Dal punto di vista visivo, una fotografia è un fattore di «alta definizione», mentre un cartoon comporta una «bassa definizione», in quanto contiene una quantità limitata di informazioni visive. Il telefono è un medium freddo, o a bassa definizione, perché attraverso l’orecchio si riceve una scarsa quantità di informazioni, e altrettanto dicasi, ovviamente, di ogni espressione orale rientrante nel discorso in genere perché offre poco ed esige un grosso contributo da parte dell’ascoltatore. Viceversa i media caldi non lasciano molto spazio che il pubblico debba colmare o completare; comportano perciò una limitata partecipazione, mentre i media freddi implicano un alto grado di partecipazione o di completamento da parte del pubblico. È naturale quindi che un medium caldo come la radio abbia sull’utente effetti molto diversi da quelli di un medium freddo come il telefono. Un medium freddo, quale il geroglifico o l’ideogramma, ha effetti ben diversi da quelli di un medium caldo ed esplosivo come l’alfabeto fonetico, il quale, portato a un alto livello di astratta intensità visiva, divenne poi tipo-

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grafia. La parola stampata, con la sua intensità specialistica, spezzò i legami delle corporazioni e dei monasteri medievali, creando modelli intensamente individualistici di iniziativa e di monopolio. Ma un tipico capovolgimento si verificò quando gli eccessi del monopolio risuscitarono una forma di corporazione, la società anonima che esercita un controllo impersonale su tante vite. Il riscaldamento del medium scrittura mediante l’intensità ripetibile della stampa portò al nazionalismo e alle guerre religiose del Cinquecento. I media pesanti e ingombranti, come la pietra, hanno sul tempo un potere frenante. Usati per la scrittura sono effettivamente freddissimi e servono a unificare le epoche, mentre la carta è un medium caldo che serve a unificare orizzontalmente gli spazi, sia nel regno della politica sia in quello dello svago. Un medium caldo permette meno partecipazione di un medium freddo; una conferenza meno di un seminario, un libro meno di un dialogo. Con la stampa molte forme precedenti vennero escluse dalla vita e dall’arte e molte altre acquistarono una nuova intensità. Ma la nostra epoca è piena di casi che confermano il principio secondo il quale la forma calda esclude e la forma fredda include. Quando, un secolo fa, le ballerine incominciarono a danzare sulle punte, si pensò che l’arte del balletto avesse raggiunto una sua «spiritualità». [...] Un altro fenomeno di rilievo si poté riscontrare nella condizione femminile, intensamente frammentata dall’avvento della specializzazione industriale e dall’esplosione delle funzioni domestiche in lavanderie, forni e ospedali situati alla periferia della comunità. L’intensità, o alta definizione, genera specializzazione e frammentazione, nella vita come nello svago, e ciò spiega perché qualunque esperienza intensa, per poter essere «appresa» o assimilata, debba prima essere «dimenticata», «censurata» e ridotta a condizione freddissima. Il «censore» freudiano non è tanto una funzione morale quanto una condizione indispensabile per l’apprendimento. Se dovessimo accettare pienamente e direttamente qualsiasi attacco alle diverse strutture della nostra consapevolezza, diventeremmo ben presto relitti nervosi che a ogni minuto sobbalzano o premono un campanello d’allarme. Il «censore» protegge il nostro sistema centrale di valori, come il nostro sistema nervoso fisico, «raffreddando» in modo considerevole l’assalto dell’esperienza. Per molte persone questo sistema di raffreddamento produce uno stato perenne [...] di sonnambulismo, che diviene particolarmente palese nei periodi in cui si afferma una nuova tecnologia. [...] La TV è un medium freddo, partecipazionale. Se riscaldata dalla drammatizzazione e da altri stimoli funziona meno bene perché offre minori possibilità di partecipazione. La radio è invece un medium caldo e funziona meglio se se ne accentua l’intensità. Non richiede a chi ne fa uso lo stesso livello di partecipazione. Può servire come rumore di fondo o come controllo dei rumori, come quando l’ingegnoso teenager l’adopera per ga-

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rantire la propria privacy. La TV non può essere uno sfondo. Ci impegna. Ci assorbe. [...] Il turbamento psichico e sociale creato dall’immagine televisiva, e non dai programmi della TV, provoca continui commenti giornalistici. Raymond Burr, l’interprete di Perry Mason, parlando all’Associazione nazionale dei giudici municipali, ricorda che: «Senza la comprensione e l’adesione dei non competenti, le leggi che voi applicate e i tribunali che voi presiedete non potrebbero più esistere». Burr ha trascurato di dire che la serie televisiva di Perry Mason, nella quale egli interpreta la parte del protagonista, è tipica di quel carattere intensamente partecipazionale dell’esperienza televisiva che ha modificato i nostri rapporti con le leggi e i tribunali. L’immagine televisiva non ha nulla in comune con il cinema o con la fotografia, se non il fatto di offrire una Gestalt, o una disposizione di forme, non verbale. Con la TV lo spettatore è lo schermo. Esso viene bombardato da impulsi leggeri che James Joyce definiva la «Carica della brigata leggera» e che imbevono la «pelle della sua anima di sospetti sobconscious» [gioco di parole tra subconscious, «subconscio» e sob, «singhiozzo»]. L’immagine televisiva è visivamente scarsa di dati. Non è un fotogramma immobile. Non è neanche una fotografia ma un profilo in continua formazione di cose dipinte da un pennello elettronico. L’immagine televisiva offre allo spettatore circa tre milioni di puntini al secondo, ma egli ne accetta soltanto qualche dozzina per volta e con esse costruisce un’immagine.

 - Herbert Marchall McLuhan (Edmonton 1911 - Toronto 1980) pubblicò Gli strumenti del comunicare nel 1964. Il testo riportato è tratto da: H.M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, trad. it. di E. Capriolo, Il Saggiatore, Milano 1967, pp. 31-32, 331-332.

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Capitolo

7 Politica ed etica La filosofia pratica si è sempre interrogata sui principi che regolano la vita degli uomini, intesi sia come singoli sia come appartenenti alla comunità politica. Nella riflessione contemporanea si ritrovano entrambi questi aspetti. La dimensione politica è prevalente in autori che indagano la natura del potere (Arendt), i meccanismi della democrazia (Dewey) o la possibilità di una società giusta (Rawls); quella etico-privata si impone in pensatori che si misurano con i mutamenti antropologici, valoriali e di costume della contemporaneità. Così l’ambientalismo e l’ecologismo pongono il tema della responsabilità verso la natura e le nuove generazioni (Jonas). La rivoluzione sessuale e il femminismo cambiano i criteri di giudizio sui rapporti di genere (Irigaray). I progressi della genetica e della biologia problematizzano in termini nuovi i contenuti dell’etica di fronte alle scelte di disporre della propria vita (Lecaldano).

A, Vita activa Potere è sinonimo di Forza? Potere non è per nulla sinonimo di forza. esistono poteri del tutto indipendenti dalla forza. e la forza può non riuscire a garantire il potere, come mostra il fatto che stati dotati di forze soverchianti possono perdere guerre contro realtà politiche che possono contare su forze molto inferiori. il fatto è che il potere ha una logica propria, relativa alla vita in comune degli uomini, nella quale entra in gioco una grande molteplicità di fattori. La filosofia politica deve identificarli e studiare con cura il loro intreccio.

Il potere e lo spazio della presenza Ciò che mina dapprima e poi distrugge le comunità politiche è la perdita di potere e la finale impotenza; e il potere non può essere accumulato e tenuto in serbo per i casi di emergenza, come gli strumenti di violenza, ma esiste solo nella sua attualità. [...] Il potere è ciò che mantiene in vita il dominio pubblico, lo spazio potenziale della presenza fra gli uomini agenti e parlanti. La parola stessa, il suo equivalente greco dùnamis, come la potentia latina con i suoi derivati moderni o il tedesco Macht (che deriva da mögen e möglich, non da machen), indica il suo carattere «potenziale». Il potere è sempre, vorremmo dire, un potere potenziale e non un’entità immutabile, misurabile e sicura come la forza o il vigore. Mentre il vigore è la qualità naturale di un individuo separatamente preso, il potere scaturisce fra gli uomini quando agiscono assieme e svanisce appena si disperdono. Per questa peculiarità, che condivide con tutte le potenzialità che possono solo essere attuate ma mai pienamente materializzate, il potere è straordinariamente indipendente da fattori materiali, sia di numero che di mezzi. Un gruppo relativamente piccolo ma ben organizzato di uomini può dominare quasi indefinitamente su vari e popolosi imperi, e non è infrequente nella storia che paesi piccoli e poveri abbiano la meglio su grandi e ricche nazioni. La rivolta popolare contro governanti materialmente forti, d’altra parte, può generare una potenza quasi irresistibile, anche se rinuncia all’uso della violenza di fronte a forze materialmente troppo forti. Chiamare questa «resistenza passiva» è certamente un bon mot; si tratta in realtà del modo d’azione più attivo ed efficiente che sia mai stato escogitato, perché non può essere contrastato dal combattimento, dove vi è disfatta o vittoria, ma solo dal massacro di massa,

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nel quale anche la vittoria è disfatta, giocata dal suo prezzo, dal momento che nessuno può regnare su uomini morti. Il solo fattore materiale indispensabile alla generazione di potenza è il vivere insieme delle persone. Solo dove gli uomini vivono in così stretta unione che le potenzialità dell’azione sono sempre presenti, il potere può restare con loro, e la fondazione di città, che come città-stato sono rimaste paradigmatiche per tutta la organizzazione politica occidentale, è quindi il requisito materiale più importante perché vi sia potenza. Ciò che tiene unite le persone dopo che il momento fuggevole dell’azione è passato (quella che oggi chiamiamo «organizzazione»), e ciò che, nello stesso tempo, le persone mantengono in vita stando insieme, è il potere. E chiunque, per qualsiasi ragione, si isola e non partecipa a quest’essere-insieme perde potere e rimane impotente, per grande che fosse la sua forza e valide le sue ragioni. [...] Nelle condizioni della vita umana, la sola alternativa alla potenza non è il vigore – che non ha scampo di fronte alla potenza – ma la forza, che un uomo può esercitare da solo contro i suoi simili e di cui uno o più uomini possono ottenere il monopolio procurandosi i mezzi di violenza. Ma mentre la violenza può distruggere la potenza, non può mai sostituirla. Da questo deriva la combinazione politica niente affatto rara di forza e mancanza di potere, una parata di forze impotenti che si consumano spettacolarmente e velleitariamente, non lasciando dietro di sé monumenti né storie. Nell’esperienza storica e nella teoria tradizionale, questa esperienza, anche se non riconosciuta per tale, è nota come tirannia, e l’antico timore per questa forma di governo non è esclusivamente ispirato dalla sua crudeltà, che – come attesta la lunga serie di tiranni benevoli e di despoti illuminati – non è tra le sue conseguenze inevitabili, ma dall’impotenza e dalla futilità cui condanna i governanti altrettanto che i governati. Più importante è una scoperta fatta, per quanto ne so, solo da Montesquieu, l’ultimo pensatore politico che si occupò seriamente del problema delle forme di governo. Montesquieu comprese che la caratteristica precipua della tirannia era quella di riposare sull’isolamento – sull’isolamento del tiranno dai suoi soggetti e dei soggetti fra di loro per effetto del reciproco timore e sospetto – e quindi che la tirannia non era una forma di governo fra le altre, ma contraddiceva la condizione umana essenziale della pluralità, dell’agire e parlare insieme, che è la condizione di tutte le forme di organizzazione politica. La tirannia impedisce lo sviluppo del potere, non solo in un settore particolare del dominio pubblico ma nella sua integrità; genera, in altre parole, impotenza come altri corpi politici generano potenza. Si rende così necessario, secondo Montesquieu, assegnarle una posizione speciale nella teoria delle forme politiche: essa sola è incapace di sviluppare abbastanza potere da rimanere nello spazio della «presenza», il

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dominio pubblico, al contrario, sviluppa i germi della propria distruzione dal momento in cui comincia a esistere. Il potere preserva il dominio pubblico e lo spazio della presenza, ed è quindi la linfa vitale del mondo artificiale umano, il quale se non è scena di azione e discorso, della trama delle cose e delle relazioni umane e delle storie da esse generate, manca della sua ultima ragion d’essere. Se non entrasse nei discorsi degli uomini e non costituisse il loro orizzonte, il mondo non sarebbe un artificio umano ma un ammasso di cose irrelazionate, libero restando ogni individuo isolato di aggiungervi un oggetto di più; senza un mondo dell’artificio umano, le faccende umane sarebbero fluttuanti, futili e vane come il vagabondare di tribù nomadi. La saggezza malinconica dell’Ecclesiaste – «Vanità delle vanità; tutto è vanità... Non c’è nulla di nuovo sotto il sole... non resta memoria delle cose antiche, ma neppure di quelle che sono per accadere vi sarà ricordo presso quelli che verranno più tardi» – non scaturisce di necessità da un’esperienza specificamente religiosa; ma è certamente inevitabile ovunque e ogni volta che sia cessata la fiducia nel mondo come luogo adatto alla presenza umana, all’azione e al discorso. Senza l’azione di inserire nel gioco del mondo il nuovo inizio di cui ogni uomo è capace per virtù d’esser nato, «non c’è nulla di nuovo sotto il sole»; senza il discorso volto a materializzare e tramandare, o a tentare di farlo, le «cose nuove» che appaiono e risplendono, «non c’è memoria»; senza le persistente durata di un mondo artificiale umano, non può esserci nessun ricordo «delle cose che sono per accadere presso quelli che verranno più tardi». E senza potere, lo spazio della presenza prodotto dall’azione e dal discorso in pubblico svanirà rapidamente come il gesto e la parola viventi.

 - Hannah Arendt (Hannover 1906 - New York 1975) pubblicò Vita activa nel 1958. Il testo riportato è tratto da: H. Arendt, Vita activa, trad. it. di S. Finzi, Bompiani, Milano 1964, pp. 211-218.

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D, Liberalismo e azione sociale Può esistere una società reaLmente Fondata su PrinciPi di Libertà ed eFFettivamente democratica? il liberalismo, cioè una visione politica della vita collettiva che pone l’accento sulle libertà individuali, è una sfida continua perché esistono forze che tendono, per varie ragioni, a comprimere queste libertà. è un ideale che richiede molta determinazione ed energia, non un piano inclinato in cui la storia si muove senza scosse. né è facilmente conciliabile con l’uguaglianza, richiesta dalla democrazia, perché l’esaltazione delle libertà individuali può generare disuguaglianze. conciliare liberalismo e democrazia è un compito che può fallire.

Il posto finale dell’organizzazione economica nella vita umana è di assicurare delle salde basi per una ordinata espressione delle individuali capacità e per la soddisfazione dei bisogni umani secondo un indirizzo non-economico. Lo sforzo dell’umanità in connessione con la produzione materiale riguarda, come ho detto prima, interessi e attività che sono, relativamente parlando, di carattere pratico, una routine cioè, come si usa definirla, la quale, senza assorbire energia e attenzione, fornisce una base costante per la liberazione dei valori intellettuali, estetici e della vita socievole. Qualsiasi eminente maestro o profeta della morale e della religione ha asserito che i fatti materiali sono strumentali per il conseguimento di una vita buona; almeno nominalmente, questa idea è accettata da ogni comunità civile. Il passaggio del peso della produzione materiale dai muscoli umani e dal cervello, al vapore, alla elettricità e ai processi chimici, ora rende possibile l’effettiva realizzazione di questo ideale. Bisogni, necessità e desideri, sono sempre la spinta per generare un’azione creativa; quando queste necessità sono costrette dalla forza delle condizioni a dirigersi, per il più della massa umana, al conseguimento dei mezzi di sussistenza, ciò che dovrebbe essere un mezzo diventa un fine in se stesso. Al presente le nuove forze meccaniche di produzione, che sono i mezzi di emancipazione da questo stato di cose, sono state impiegate per intensificare ed esasperare il capovolgimento della vera relazione fra mezzi e fini. Umanamente parlando, io non vedo come sarebbe stato possibile evitare un’epoca con questa caratteristica: ma il suo perpetuarsi è la causa del disordine continuamente crescente e delle discordie sociali. D’altra parte essa non potrà essere superata col predicare agli individui che essi dovrebbero collocare i fini spirituali al di sopra dei mezzi materiali. Essa può essere efPolitica ed etica

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fettuata da una ricostruzione sociale organizzata, la quale ponga i risultati del suo meccanismo dell’abbondanza alla libera disposizione degli individui. Il «materialismo» corrosivo dei nostri tempi non procede dalla scienza; esso sorge dalla nozione, sediziosamente coltivata dalla classe al potere, che le capacità creative degli individui possano essere risvegliate e sviluppate soltanto nella lotta per il possesso materiale e per il guadagno materiale. E allora ci si pone questa alternativa, o rinunciare alla nostra professione di fede nella supremazia dei valori ideali e spirituali, accomodando così le nostre credenze al predominante orientamento, oppure, attraverso uno sforzo organizzato, istituire una economia socializzata di sicurezza e di abbondanza materiale che liberi l’energia umana per il conseguimento di valori più alti. Finché la liberazione delle capacità individuali per una spontanea autonoma espressione, è una parte essenziale del credo del liberalismo, un liberalismo sincero deve pretendere i mezzi che sono la condizione per il raggiungimento dei suoi fini; e la reggimentazione delle forze materiali e meccaniche è la sola via per cui la massa può essere affrancata dalla reggimentazione e dalla conseguente soppressione delle sue possibilità culturali. L’eclissi del liberalismo è dovuta al fatto che esso non ha affrontato le alternative e non ha adottato i mezzi da cui dipende la realizzazione dei fini professati. Il liberalismo può essere fedele ai suoi ideali solo se persegue la via che conduce al conseguimento di essi. L’opinione che il controllo sociale organizzato delle forze economiche risiede fuori della linea storica del liberalismo, mostra che il liberalismo è ancora impedito dai residui della sua prima fase del laissez faire, con la sua opposizione di società e individuo. Ciò che ora scoraggia l’entusiasmo liberale e ne paralizza gli sforzi, è la concezione che la libertà e lo sviluppo della individualità come fini, escludono l’uso dello sforzo sociale organizzato come mezzi. Il primo liberalismo considerò l’azione economica individuale separata e gareggiante come il mezzo per il benessere sociale come fine; ma noi invece dobbiamo rovesciare la prospettiva e vedere che l’economia socializzata è il mezzo per il libero sviluppo individuale come fine. È un luogo comune che i liberali si dividano fra coloro che sono prudenti e coloro che amano i tentativi, mentre i reazionari sarebbero legati da una comunanza d’interessi e di costumi. Ma è vero che un accordo fra tesi e credo liberale può essere raggiunto solo con una unità di sforzi; una unità organizzata d’azione accompagnata dal consenso dottrinale progredirà nel grado in cui il controllo sociale delle forze economiche sarà fatto l’obiettivo dell’azione liberale. Il maggiore potere educativo, la maggior forza nel formar le disposizioni e le attitudini degli individui, è il medium sociale in cui essi vivono; e il medium che al presente ci sta più vicino è quello dell’azione unificata per il fine inclusivo di una economia socializzata.

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Ma il conseguimento di uno stato sociale in cui una base di sicurezza materiale liberi le possibilità culturali degli individui non è un lavoro di un giorno; tuttavia un modo c’è di stringere in effettiva unità le presenti attività dei liberali, ora disperse e spesso in conflitto; è quello di concentrarsi sul compito di assicurare una economia socializzata come fondamento e medium per lo sviluppo degli impulsi e delle capacità, che gli uomini sono d’accordo nel chiamare ideali. Non fa parte di questo lavoro, delineare con dettagli un programma per un liberalismo rinascente; ma la domanda «cosa si deve fare», non può essere passata sotto silenzio. Le idee devono essere organizzate e questa organizzazione implica un gruppo di persone che sostenga queste idee e la cui fede sia pronta a tradursi in azione. E tradurre in azione significa formulare il credo generale del liberalismo come un programma concreto d’attività. È nell’organizzarsi in azione che i liberali sono deboli, e senza questa organizzazione c’è il pericolo che gli ideali democratici possano andare falliti. La democrazia è stata una fede di combattenti; quando i suoi ideali saranno rinsaldati da quelli del metodo scientifico e d’intelligenza sperimentale, non può darsi che essa sia incapace di risvegliare disciplina, ardore, organizzazione. Restringere l’esito per il futuro a un conflitto fra fascismo e comunismo significa chiamare una catastrofe che può trascinarsi dietro, nella lotta, la civiltà stessa. Un vitale e coraggioso liberalismo democratico è la sola forza che può sicuramente evitare un tale disastroso restringimento della questione dibattuta. [...] E questo, lo ripeto, richiede organizzazione.

 - John Dewey (Burlington 1859 - New York 1952) compose Liberalismo e azione sociale nel 1935. Il testo riportato è tratto da: J. Dewey, Liberalismo e azione sociale, trad. it. di R. Cresti, La Nuova Italia, Firenze 1946, pp. 110-114.

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R, Una teoria della giustizia Può esistere una concezione deLLa giustizia accettata da tutti, in cui che cosa sia giusto non sia oggetto continuo di discussioni? chiunque “sente” che una società ingiusta è una società da riformare. Persino chi da questa ingiustizia ci guadagna, e tende perciò a perpetuarla, manifesta la propensione ad ammantare la propria ingiustizia con principi che la giustifichino in qualche modo. dunque le istituzioni e le leggi devono soddisfare alcuni principi di giustizia da tutti accettati e condivisi. Questo però è un ideale, e non accade. della giustizia e ingiustizia di una legge, di una istituzione, di una decisione pubblica, si discute continuamente non per verificarne la sua adeguazione ai principi (il che non metterebbe in discussione i principi stessi di giustizia), ma per la mancanza di principi universalmente condivisi. obiettivo della filosofia è proporli.

Giustizia come equità In questo capitolo introduttivo illustrerò alcune idee fondamentali della teoria della giustizia che intendo sviluppare. [...] Esporrò [...] l’idea centrale della giustizia come equità, una teoria della giustizia che generalizza e porta a un più alto livello di astrazione la tradizionale concezione del contratto sociale. Il patto di società è sostituito da una situazione iniziale che incorpora determinati vincoli procedurali su argomenti il cui scopo è di condurre a un accordo originario sui principi di giustizia. Prenderò anche in esame [...] concezioni della giustizia contrapposte, come quelle dell’utilitarismo classico e dell’intuizionismo [...]. Il mio scopo principale è la costruzione di una teoria della giustizia che costituisca una alternativa praticabile a queste dottrine che hanno a lungo dominato la nostra tradizione filosofica. La giustizia è il primo requisito delle istituzioni sociali, così come la verità lo è dei sistemi di pensiero. Una teoria, per quanto semplice ed elegante, deve essere abbandonata o modificata se non è vera. Allo stesso modo, leggi e istituzioni, non importa quanto efficienti e ben congegnate, devono essere riformate o abolite se sono ingiuste. Ogni persona possiede un’inviolabilità fondata sulla giustizia su cui neppure il benessere della società nel suo complesso può prevalere. Per questa ragione la giustizia nega che la perdita della libertà per qualcuno possa essere giustificata da maggiori benefici goduti da altri. Non permette che i sacrifici imposti a pochi vengano controbilanciati da una maggior quantità di vantaggi goduti da molti. Di conseguenza, in una

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società giusta sono date per scontate eguali libertà di cittadinanza; i diritti garantiti dalla giustizia non possono essere oggetto né della contrattazione politica, né del calcolo degli interessi sociali. L’unico motivo che ci permette di conservare una teoria erronea è la mancanza di una teoria migliore; analogamente, un’ingiustizia è tollerabile solo quando è necessaria per evitarne una ancora maggiore. Poiché la verità e la giustizia sono le virtù principali delle attività umane, esse non possono essere soggette a compromessi. Queste proposizioni sembrano esprimere le nostre convinzioni intuitive sul primato della giustizia. Senza dubbio sono state espresse in modo troppo radicale. In ogni caso intendo vedere se queste affermazioni, o altre simili a esse, sono valide e, in questo caso, in che modo se ne può tentare una ricostruzione razionale. Per questo scopo è necessaria la costruzione di una teoria della giustizia, alla luce della quale si possano interpretare e valutare queste affermazioni. Inizierò da una analisi del ruolo dei principi di giustizia. Per chiarire questo punto, assumiamo che la società è un’associazione più o meno autosufficiente di persone che, nelle loro relazioni reciproche, riconoscono come vincolanti certe norme di comportamento e che, per la maggior parte, agiscono in accordo con esse. Supponiamo poi che queste norme specifichino un sistema di cooperazione teso ad avvantaggiare coloro che vi partecipano. Quindi, nonostante la società sia un’impresa cooperativa per il reciproco vantaggio, essa è normalmente caratterizzata sia da conflitto sia da identità di interessi. Esiste un’identità di interessi poiché la cooperazione sociale rende possibile per tutti una vita migliore di quella che chiunque potrebbe avere se ciascuno dovesse vivere unicamente in base ai propri sforzi. Esiste un conflitto di interessi dal momento che le persone non sono indifferenti rispetto al modo in cui vengono distribuiti i maggiori benefici prodotti dalla loro collaborazione: ognuno di essi infatti, allo scopo di perseguire i propri obiettivi, ne preferisce una quota maggiore piuttosto che minore. Un insieme di principi serve così per scegliere tra i vari assetti sociali che determinano questa divisione dei vantaggi e per sottoscrivere un accordo sulla corretta distribuzione delle quote. Questi principi sono i principi della giustizia sociale: essi forniscono un metodo per assegnare diritti e doveri nelle istituzioni fondamentali della società, e definiscono la distribuzione appropriata dei benefici e degli oneri della cooperazione sociale. Diciamo così che una società è bene-ordinata quando non soltanto è tesa a promuovere il benessere dei propri membri, ma è anche regolata in modo effettivo da una concezione pubblica della giustizia. Ciò significa che si tratta di una società in cui 1) ognuno accetta e sa che gli altri accettano i medesimi principi di giustizia e 2) le istituzioni fondamentali della società soddisfano generalmente, e in modo generalmente riconosciuto, questi principi. In questo caso, anche se gli uomini possono avanzare richieste eccessive verso i propri simili, riconoscono nondimeno un punto di vista comune in

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base al quale possono venire giudicate le loro pretese. Se la tendenza degli uomini verso il proprio interesse rende necessaria la vigilanza reciproca, il loro senso pubblico di giustizia rende possibile una stabile associazione. In mezzo a individui che hanno scopi e finalità diverse, una concezione condivisa di giustizia stabilisce legami di convivenza civile; il generale desiderio di giustizia limita la ricerca di altri obiettivi. Si può pensare che una pubblica concezione di giustizia costituisca lo statuto fondamentale di un’associazione umana bene-ordinata. Naturalmente le società esistenti sono raramente bene-ordinate in questo senso, perché ciò che è giusto o ingiusto è generalmente in discussione. Gli uomini sono in disaccordo rispetto a quali principi devono definire i termini fondamentali della loro associazione. Nonostante questo disaccordo, è ancora possibile dire che ognuno di essi possiede una concezione della giustizia. Ciò significa che essi sono pronti a riconoscere e ad affermare la necessità di uno specifico insieme di principi che assegnino diritti e doveri fondamentali, e determinino quella che essi considerano la corretta distribuzione dei benefici e degli oneri della cooperazione sociale.

 - John Rawls (Baltimora 1921 - Lexington 2002) pubblicò la prima edizione di Una teoria della giustizia nel 1971 e una seconda edizione rivista nel 1975. Il testo riportato è tratto da: J. Rawls, Una teoria della giustizia, a cura di S. Maffettone, Feltrinelli, Milano 1989, pp. 21-23.

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I, Speculum. L’altra donna Presa coscienza deLLa diFFerenza sessuaLe neL genere umano, ne segue QuaLcosa neLLa concezione ontoLogica ed etica deL mondo, o tutto rimane come Prima? La storia della civiltà occidentale è segnata dalla presenza preponderante dell’immaginario maschile che assume i caratteri dell’universalità: vale per tutti. ma che cosa accade se si dà spazio a un pensiero al femminile? La differenza di genere provoca nell’etica, nella considerazione dell’uomo, modifiche sostanziali?

La soggettività denegata alla donna, questa è indubbiamente l’ipoteca con cui si garantisce ogni costituzione irriducibile dell’oggetto: oggetto di rappresentazione, di discorso, di desiderio. Immaginate che la donna immagini, e l’oggetto perderebbe la sua caratteristica (d’idea) fissa. Non sarebbe più il punto di riferimento estremo, più elementare del soggetto stesso, in fin dei conti, poiché il soggetto si regge soltanto in forza d’un effetto di rimando che gli viene da una qualche oggettività, da un qualche obiettivo. Se non ci fosse più “terra” da (ri)muovere, su cui muoversi, da rappresentar(si), ed anche da desiderare (di) possedere, una materia opaca senza consapevolezza di sé, che fondamento potrebbe darsi il “soggetto” per esistere? Se la terra girasse, soprattutto se girasse intorno a se stessa, l’erezione del soggetto rischierebbe di non riuscire nella propria elevazione e penetrazione. Infatti, a partire da che cosa potrebbe alzarsi e su che cosa potrebbe esercitare il suo potere? In che cosa? La rivoluzione copernicana non ha ancora prodotto tutti i suoi effetti sull’immaginario maschile. Ne è derivata una eccentricità del soggetto rispetto a se stesso, ma questa è anzitutto la sua e-stasi nel (soggetto) trascendentale. Si è innalzato ad una prospettiva che dovrebbe dominare il tutto, il punto di vista più potente, separandosi dalla sua base materiale e dal suo rapporto empirico con la matrice, che adesso pretende tenere sott’occhio. Speculazione, speculare. Emigrando sempre più lontano, verso il luogo in cui consisterebbe il massimo potere, diventa il “sole” nel senso che è attorno a lui che le cose girano, un polo d’attrazione più forte della “terra”. L’eccezione a questo fascino universale è costituita dal fatto che “essa” gira anche su se stessa, che conosce il ritorno (su di sé), senza star fuori della ricerca d’identità nell’altro: natura, sole, Dio... (donna). Qui l’uomo emigra, per mantenere la portata, il valore della sua rappresentazione. Politica ed etica

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La donna gli oppone la permanenza d’un ricordo che non si conosce in quanto tale. Il potere ri-produttivo della madre, il sesso della donna: sono le due poste in gioco per cui proliferano i sistemi, i luoghi chiusi del “soggetto”, si moltiplicano le parole feticcio, gli oggetti segno che con i loro titoli di verità tentano di parare il rischio d’una rifusione dei valori nell’altro e da parte sua. Ma di fatto non c’è nessun enunciato per quanto chiaro e univoco che possa togliere questa ipoteca: tutti sono presi ed intrappolati nello stesso regime di credito. Ritirabili appena emessi dal discorso significante in vigore. Tanto vale parlare per equivoci, allusioni, sottintesi, parabole... Anche se viene richiesta una certa precisione e vi si dice che non ci si capisce niente. Comunque non ci si è mai capito niente. Allora, perché non rinforzare, fino all’esasperazione, il malinteso? Fino a quando l’orecchio non si sarà abituato ad un’altra musica, e la voce non si sarà messa a cantare e lo sguardo avrà smesso di spalancarsi unicamente davanti ai segni della sua autorappresentazione e la (ri)produzione non toccherà più al medesimo (ai medesimi) e nelle stesse forme, figura più figura meno.

 - Luce Irigaray (Blaton 1930) ha pubblicato Speculum. L’altra donna, la sua tesi di dottorato, nel 1974. Il testo riportato è tratto da: L. Irigaray, Speculum. L’altra donna, trad. it. di L. Muraro, Feltrinelli, Milano 1975, pp. 129-138.

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I, L’etica della differenza sessuale come Può La diFFerenza tr a uomo e donna diventare, da dato anatomico, QuaLcosa di Pensato e di Pensante? heidegger ha detto che ogni epoca ha una sola cosa da pensare. La differenza sessuale è – per Luce irigaray – quella del nostro tempo. a partire da una riflessione sull’amore – amore di sé, amore dell’altro, amore materno – occorre ripensare filosoficamente la differenza irriducibile tra essere uomo ed essere donna, non solo per ridefinire il contenuto della differenza di genere, ma con l’obiettivo di modificare le modalità costitutive del pensiero e del linguaggio di una nuova cultura umana.

Quanto alla nostra storia, bisogna tornare a interrogarla da parte a parte per comprendere perché la differenza sessuale non abbia avuto modo di essere ciò che le toccava essere. Né empirica né trascendentale. Perché essa abbia mancato la sua etica, la sua estetica, la sua logica, la sua religione, la realizzazione micro e macrocosmica della sua comparsa o del suo destino. C’entra sicuramente la dissociazione del corpo e dell’anima, della sessualità e della spiritualità, il difetto di passaggio dello spirito, del dio, tra il dentro e il fuori, il fuori e il dentro, e la loro spartizione tra i sessi nell’atto sessuale. Tutto è congegnato perché queste realtà restino separate o addirittura opposte. Perché non facciano lega, non si mescolino, non si sposino. Le loro nozze sempre rimandate al di là, in una vita futura, o svalorizzate, sentite o considerate poco nobili, al confronto delle nozze tra lo spirito e il Dio in un trascendentale che avrebbe tagliato i ponti con il sensibile. […] Una socialità delle donne è necessaria perché possano avere luogo l’amore e la sua fecondità culturale. Il che non significa l’entrata delle donne, pari pari come uomini, negli attuali sistemi di potere, ma l’instaurazione, a opera delle donne, di nuovi valori corrispondenti alle loro capacità creatrici. La società, la cultura essendo allora riconosciute come sessuate e non come il monopolio di valore universale, di un sesso che misconosce le impronte del corpo e della sua morfologia sulle creazioni immaginarie e simboliche. […] L’interiorità, l’intimità con sé, per una donna, non può stabilirsi, ristabilirsi, se non tramite il rapporto madre-figlia, figlia-madre, che lei stessa tornerebbe a impersonare. Lei con se stessa, prima di qualsiasi procreazione. Diventando così capace di rispettarsi nella sua infanzia e nella sua funzione creatrice materna. […] La parola stessa di dea, d’altronde, pare sempre imPolitica ed etica

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plicare una molteplicità, mai l’unicità. L’Uno essendo, da secoli, affidato a Dio, quando invece la nostalgia dell’unico è una nostalgia prevalentemente maschile per la prima dimora materna perduta. Il Dio padre dovendo supplire all’impossibile ritorno della e nella madre. […] Gli interrogativi premono, o possono essere posti, da un fuori, da un luogo in cui il soggetto non ha ancora o ha appena cominciato a dirsi. Fuori dell’altro versante della differenza sessuale, che, se è servito alla riproduzione dell’infrastruttura dell’ordine sociale, è stato però condannato a restare chiuso e muto dalla e nella società. Tuttavia il femminile, nel e con il suo linguaggio, oggi può porre delle questioni la cui fecondità è ancora inaudita. Purché gli si lasci la parola e lo si ascolti. Il che può evitare due errori etici, per rifarmi a Hegel: la sottomissione delle donne al destino senza accesso allo spirito, alla coscienza di sé e per sé. […] In altre parole, in questa scissione dei due versanti della differenza sessuale, una parte del mondo domanderebbe come poter trovare e dire il proprio senso, il proprio versante della significazione, mentre l’altra s’interrogherebbe sul senso che può avere ancora il linguaggio, i valori, e la vita. Questo interrogativo alquanto disperato della nostra epoca è legato a una ingiustizia, a un errore etico, un debito non pagato verso la “legge naturale”, verso i suoi dèi. Se, nella derelizione del femminile, la questione è pressante, questa si dice anche in quella del maschile, alla ricerca del suo senso. L’umanità, l’umanesimo, hanno dimostrato che la loro etica regge difficilmente oltre certi limiti di tolleranza. Il mondo non essendo indifferenziato, né neutro, anche sessualmente. Il senso da ritrovare, dalla parte del maschile, potrebbe essere quello del debito nei confronti di chi gli ha dato e gli rida la vita, anche attraverso il linguaggio. Il linguaggio, per quanto formale, si è nutrito di sangue, di carne, di elementi materiali. Chi e che cosa lo ha nutrito? Come pagare questo debito? Dobbiamo produrre meccanismi sempre più formali, tecnici, che si rivoltano contro l’uomo, quale contropartita finale per quella madre che gli ha dato un corpo vivente? E che egli teme nella misura del debito che non le ha pagato. Ricordarci che dobbiamo restare vivi e creatori di mondi, questo è il nostro compito. Ma non si può assolverlo se non con l’opera di due metà del mondo: maschile e femminile.

 - Luce Irigaray (Blaton 1930) ha pubblicato L’etica della differenza sessuale nel 1984. Il testo riportato è tratto da: L. Irigaray, L’etica della differenza sessuale, trad. it. di L. Muraro e A. Leoni, Feltrinelli, Milano 1985, pp. 18-20, 57, 98-99.

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J, Il principio responsabilità L’uomo ha una resPonsabiLità etica verso La natur a e verso Le gener azioni Future? il problema può essere espresso in questi termini: le tecnologie hanno dato all’uomo la possibilità di intervenire sui processi naturali (compresi quelli che riguardano la sua stessa vita) in modi non comparabili con il passato; il campo di possibilità di intervento si è esteso enormemente; questo implica una responsabilità morale? La questione va vista da una duplice prospettiva: quella della natura stessa, essendo molte delle azioni dell’uomo irreversibili (come quando si distruggono specie viventi); quella delle generazioni future, che dipendono fortemente dalle scelte di quelle precedenti. L’intero campo di questioni etiche di questo tipo non esisteva prima dello sviluppo delle tecnologie moderne. Poiché oggi queste tecnologie esistono, i principi elaborati dalla nostra civiltà sono sufficienti alla sfida etica posta dalla nuova situazione?

Il Prometeo irresistibilmente scatenato, al quale la scienza conferisce forze senza precedenti e l’economia imprime un impulso incessante, esige un’etica che mediante auto-restrizioni impedisca alla sua potenza di diventare una sventura per l’uomo. La consapevolezza che le promesse della tecnica moderna si sono trasformate in minaccia, o che questa si è indissolubilmente congiunta a quelle, costituisce la tesi da cui prende le mosse questo volume. Essa va al di là della constatazione della minaccia fisica. La sottomissione della natura finalizzata alla felicità umana ha lanciato con il suo smisurato successo, che coinvolge ora anche la natura stessa dell’uomo, la più grande sfida che sia mai venuta all’essere umano dal suo stesso agire. Tutto è qui nuovo, dissimile dal passato sia nel genere che nelle dimensioni: ciò che l’uomo è oggi in grado di fare e, nell’irresistibile esercizio di tale facoltà, è costretto a continuare a fare, non ha eguali nell’esperienza passata, alla quale tutta la saggezza tradizionale sul comportamento giusto era improntata. Nessuna etica tradizionale ci ammaestra quindi sulle norme del «bene» e del «male» alle quali vanno subordinate le modalità interamente nuove del potere e delle sue possibili creazioni. La terra vergine della prassi collettiva, in cui ci siamo addentrati con l’alta tecnologia, è per la teoria etica ancora terra di nessuno. In questo vuoto (che è nel contempo anche il vuoto dell’odierno relativismo dei valori) si colloca l’indagine qui presentata. Che cosa può fornire un criterio? Lo Politica ed etica

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stesso pericolo prefigurato dal pensiero! In questo suo balenarci incontro dal futuro, nella prefigurazione delle sue estensioni planetarie e delle sue durevoli conseguenze sull’uomo, è possibile scoprire alfine i principî etici da cui sono desumibili i nuovi doveri del nuovo potere. Definisco ciò «euristica della paura». Soltanto il previsto stravolgimento dell’uomo ci aiuta a cogliere il concetto di umanità che va preservato da quel pericolo. Sappiamo ciò che è in gioco soltanto se sappiamo che esso è in gioco. Poiché qui non si tratta soltanto del destino umano, ma anche dell’immagine dell’uomo, non soltanto di sopravvivenza fisica, ma anche di integrità dell’essere, l’etica che ha la funzione di salvaguardarle entrambe dev’essere, al di là della dimensione della prudenza, quella del rispetto. La fondazione di una tale etica, non più legata alla sfera direttamente interpersonale del presente, deve estendersi alla metafisica, a partire dalla quale soltanto si potrà porre la questione del perché gli uomini debbano esistere nel mondo, del perché quindi valga l’imperativo incondizionato di assicurare la loro esistenza futura. L’avventura della tecnologia con le sue imprese arrischiate fino all’estremo costringe ad assumersi il rischio di una riflessione spinta all’estremo. [...] Nell’ambito dell’ontologia verranno risollevate le antiche questioni concernenti il rapporto fra essere e dover essere, causa e scopo, natura e valore, per ancorare nell’essere, al di là del soggettivismo dei valori, il nuovo obbligo dell’uomo. Tuttavia il tema vero e proprio è costituito dalla comparsa stessa di questo nuovo obbligo, sintetizzato nel concetto di responsabilità. Pur non essendo certo un fenomeno nuovo in ambito morale, la responsabilità non ha mai avuto un tale oggetto e finora anche la teoria etica se ne è occupata poco. Sia il sapere che il potere erano troppo limitati per includere il futuro più lontano nelle previsioni e addirittura il globo terrestre nella coscienza della propria causalità. Anziché interrogarsi oziosamente sulle remote conseguenze in un destino ignoto, l’etica si è concentrata sulla qualità morale dell’atto momentaneo stesso, nel quale il diritto del prossimo che condivide la nostra sorte ha da essere rispettato. Nel segno della tecnologia, però, l’etica ha a che vedere con azioni (sia pure non più del soggetto singolo) che hanno una portata causale senza eguali, accompagnate da una conoscenza del futuro che, per quanto incompleta, va egualmente al di là di ogni sapere precedente. A ciò si aggiunge la scala delle conseguenze a lungo termine e spesso anche la loro irreversibilità. Tutto ciò pone la responsabilità al centro dell’etica, con orizzonti temporali e spaziali corrispondenti appunto a quelli delle azioni. Per questo la teoria della responsabilità, a tutt’oggi una lacuna, costituisce il centro dell’opera. Dall’ampliamento della dimensione futura della responsabilità attuale consegue il tema conclusivo: l’utopia. La dinamica del progresso tecnologico mondiale in quanto tale racchiude in sé, tendenzialmente se non pro-

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grammaticamente, un utopismo implicito. E la sola etica caratterizzata da una visione globale del futuro che già esista, il marxismo, ha elevato appunto, nel suo legame con la tecnica, l’utopia a fine esplicito. Questo impone una critica approfondita dell’ideale utopico. Poiché esso ha dalla sua i più antichi sogni dell’umanità e ora sembra trovare nella tecnica anche i mezzi per tradurre in pratica il sogno, l’utopismo un tempo innocuo è diventato la tentazione più pericolosa – proprio perché idealistica – per l’umanità odierna. All’immodestia dei suoi obiettivi, che mancano il bersaglio sotto il profilo sia ecologico che antropologico (com’è dimostrabile per l’uno e argomentabile filosoficamente per l’altro), il principio responsabilità contrappone il compito più modesto, dettato dalla paura e dal rispetto, di preservare all’uomo, nella residua ambiguità della sua libertà, che nessun mutamento delle circostanze può mai sopprimere, l’integrità del suo mondo e del suo essere contro gli abusi del suo potere. Un «Tractatus technologico-ethicus», quale si tenta di presentare qui, avanza pretese di rigore che coinvolgono il lettore non meno dell’autore. Quel che deve rendere, nella misura del possibile, giustizia al tema, deve essere come l’acciaio e non come l’ovatta. Infatti dell’ovatta delle buone intenzioni e dei propositi irreprensibili, della dichiarazione che si sta dalla parte degli angeli e contro il peccato, a favore della prosperità e contro lo sfacelo, ce n’è abbastanza nella riflessione etica dei nostri giorni.

 - Hans Jonas (Mönchengladbach 1903 - New York 1993) pubblicò Il principio responsabilità nel 1979. Il testo riportato è tratto da: H. Jonas, Il principio responsabilità, a cura di P.P. Portinaro, Einaudi, Torino 1990, pp. XXVII-XXIX.

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L, Bioetica QuaLi sono i camPi di indagine deLLa bioetica e come si reLaziona con Le scienze e con L’etica FiLosoFica? un problema etico si pone quando ci si trova di fronte a situazioni in cui la scelta individuale o collettiva può alterare lo stato del mondo e portare a conseguenze che dipendono da noi. se non dipendono da noi si possono porre problemi di altro tipo, ma non etici. nel campo della biologia le possibilità di intervento dell’uomo erano in passato assai limitate, mentre oggi sono cresciute a dismisura. Questo ha esteso alla biologia una molteplicità di problemi etici, ed è nata una disciplina – la “bioetica” – al confine tra la filosofia e diverse scienze. anche le religioni, naturalmente, sono intervenute nell’esame di questi problemi. La filosofia ne è implicata perché va alla ricerca dei principi che scienziati, medici e operatori del settore (ma anche politici) applicano poi nel concreto delle loro scelte professionali.

Con molta probabilità il termine bioetica fu coniato dal biologo statunitense Van Rensselaer Potter che, nel 1970, se ne servì nel titolo di un suo articolo […] per indicare «una scienza della sopravvivenza» nel senso ecologico che più propriamente egli stesso, alcuni anni dopo, chiamerà «bioetica globale». Con questa nozione, quindi, Potter faceva riferimento ad un interscambio tra moralità ed ecologia, ovvero alla necessità di costruire un’etica scientifica, che sapesse fare tesoro delle componenti di innovazione presenti nella biologia. Ma negli ultimi venticinque anni la nozione è stata usata con i più diversi significati e con riferimento ad una serie molto ampia e differenziata di questioni. Il lettore avrà senz’altro ascoltato interventi di persone che facevano rientrare nell’ambito della bioetica pressoché tutto ciò di cui si può occupare una persona moralmente scrupolosa, e dunque nella discussione pubblica il nome «bioetica» è spesso usato senza più nessun significato preciso e solo per fare riferimento a un soggetto di cui non ci si può non occupare (o viceversa ad un campo del tutto privo di rigore e di chiacchiere senza fine). […] Una presentazione sistematica della bioetica potrebbe essere realizzata, anche, privilegiando un punto di vista diverso da quello dell’etica filosofica. La bioetica è sicuramente un campo del sapere di natura interdisciplinare e molte competenze sono state coinvolte nei dibattiti più recenti. Sembra però difficile introdurre qualcuno al campo dei problemi propri della bioe-

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tica senza occuparsi in modo più o meno ampio dell’etica. Come ha spiegato Scarpelli: «la bioetica non può essere caratterizzata quale disciplina autonoma né con riguardo all’oggetto né con riguardo al metodo. Per l’oggetto, non c’è atto relativo alla macchina (il corpo) che non investa anche lo spettro nella macchina (lo spirito): la stessa contrapposizione fra la macchina e lo spettro è fallace e va abbandonata. Per il metodo la bioetica essendo parte dell’etica ne condivide il metodo o la mancanza di metodo». Risulta in realtà incomprensibile la pretesa di coloro che vogliono occuparsi di bioetica senza affrontare le questioni che si è posta o si sta ponendo l’etica. Dietro questo atteggiamento c’è forse una insofferenza, anche giustificata, nei confronti di alcuni eccessi a cui si può spingere una trattazione filosofica molto astratta e generale delle questioni dell’etica. L’irritante inconcludenza di alcune chiarificazioni filosofiche è certamente da evitare. Fatto ciò dovremo però riconoscere che in quanto la bioetica è una riflessione su ciò che è bene, giusto, doveroso compiere in certe situazioni, chi è interessato ai suoi problemi non può non prendere in considerazione quello che molti filosofi hanno già scritto a proposito del significato di questi concetti e dei modi in cui si argomenta intorno ad essi. Proprio perciò dovremo dedicare una qualche attenzione alle principali nozioni dell’etica. […] Numerosi scienziati e ricercatori si sono occupati sia dei problemi connessi con la creazione e con il perfezionamento di nuove tecniche mediche, sia delle questioni legate al mutamento e all’incremento delle conoscenze biologiche, spingendosi a elaborare riflessioni generali sulla natura della scienza e sull’articolazione di una nuova epistemologia adeguata alle situazioni realizzate con le pratiche di pertinenza della bioetica. Ricercatori come Renato Dulbecco, Robert Edwards, Carlo Flamigni e Jacques Testart, per esempio, hanno dato un notevole contributo non solo alla conoscenza delle nuove pratiche nella fecondazione assistita o nell’ingegneria genetica, ma anche ad un approccio etico verso di esse. Non c’è poi area delle cosiddette scienze umane o sociali, dalla sociologia alla psicologia, all’economia che non abbia fornito un contributo per la comprensione e l’approfondimento delle questioni al centro della bioetica. Tutta l’enciclopedia delle scienze legate in qualche modo con la vita dell’uomo e le sue oggettivazioni nella cultura è stata chiamata in causa in modo del tutto ovvio e pertinente. E questo non è affatto strano, data la profondità delle relazioni che con i vari aspetti della natura umana indagati da queste scienze hanno i fenomeni del nascere, curarsi e morire che sono al centro della bioetica. Adottando su tali questioni la prospettiva dell’etica filosofica propriamente detta non si vuole dunque escludere qualche altra competenza, né tantomeno rivendicare un antistorico primato della filosofia. Al contrario si tratta di mostrare con chiarezza portata e limiti della ricerca filosofica per una comprensione e soluzione delle questioni bioetiche. Seguire il filo rosso

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dell’etica, della sua natura, delle concezioni che si confrontano richiamandosi a diversi principi e fondamenti, delle argomentazioni con cui si sostengono le alternative contrapposte, significa non perdere di vista il contributo che i filosofi del passato e quelli di questo secolo danno all’elaborazione culturale. Ancora una volta, in luogo di una via sintetica che pretenda di rivisitare la bioetica cercando una filosofia in grado di tenere insieme tutti i vari piani di discorso coinvolti (una via non più percorribile da un singolo autore e che non può non affidarsi a intuizioni confuse e non verificabili), si privilegia qui una via analitica che segue un unico ordine di problemi. Sullo sfondo della nostra ricerca si pongono tutti i grandi interrogativi tradizionalmente affrontati dalla riflessione filosofica sulla morale e dunque ricordiamo al lettore quali sono i problemi che principalmente ci interessano. Vi sono dei principi (o con altra terminologia criteri, regole ecc.) morali da cui dobbiamo fare derivare le nostre decisioni sul nascere, curarsi e morire? Quali sono, e fino a che punto possono guidare la nostra condotta? Quali sono le ragioni che ci spingono a privilegiarli, rispetto a quelli raccomandati da altre concezioni etiche? Fino a che punto possiamo spingerci nella nostra pretesa che anche tutti gli altri regolino le loro condotte con gli stessi nostri principi? È possibile immaginare delle procedure che permettano la coesistenza ordinata e pacifica di persone che hanno principi morali diversi? Da quali principi giuridici dovrebbero essere regolate quelle situazioni in cui persone con principi morali diversi si trovano ad interagire?

 - Eugenio Lecaldano (Treviso 1940) ha pubblicato la prima edizione di Bioetica. Le scelte morali, nel 1999. Il testo riportato è tratto da: E. Lecaldano, Bioetica, Laterza, Roma-Bari 2004, pp. 3-11.

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Capitolo

8 Filosofia e religione Il rapporto tra filosofia e religione può essere visto o da una prospettiva filosofica, che mette a tema l’esperienza religiosa ricercandone i caratteri essenziali, o da una prospettiva teologica che, nel riflettere su Dio e sull’esperienza di fede, mutua dalla filosofia metodi, linguaggi e impostazioni teoretiche. Qui si è optato per questo secondo approccio al fine di documentare la svolta antropologica che ha caratterizzato la teologia protestante e cattolica nel Novecento. Ponendosi in sintonia con le tematiche delle filosofie esistenzialiste, teologi come Barth o Rahner partono dall’analisi della condizione di sradicamento dell’uomo contemporaneo per indicargli una possibile via di salvezza nell’apertura alla rivelazione divina. Una rivelazione che – secondo Bultmann – per essere comprensibile alla razionalità moderna va sottoposta a un rigoroso processo di demitizzazione.

B, L’Epistola ai Romani Di che cosa parla il messaggio cristiano su Dio, se Dio è al Di là Della possibilità umana Di conoscenza? se Dio fosse entro i limiti della capacità umana di conoscenza – e questi limiti esistono – non sarebbe Dio. l’annuncio evangelico parla di Dio, quindi parla di qualcosa che né il linguaggio umano può dire, né la mente comprendere. Dio è totalmente al di là dei limiti dell’uomo. per la fede occorre andare al di là dell’uomo. ed è l’uomo stesso a doverlo fare, di fronte alla “parola di Dio”.

«Paolo, servo del Cristo Gesù, chiamato a essere apostolo prescelto per l’Evangelo di Dio», (Rom. 1,1). «Non l’uomo geniale acceso di entusiasmo per l’opera creativa» (Zündel), ma un messaggero vincolato al suo incarico: tale è colui che prende qui la parola. Non un signore, ma un servo, il ministro del suo Re. Paolo sia chi vuole o quel che vuole, il contenuto della sua missione, in ultima istanza, non è in lui, ma in una insuperabile alterità al di sopra di lui. Egli non può prendere coscienza della sua vocazione di apostolo come di un momento del suo sviluppo biografico. «La vocazione di un apostolo è un fatto paradossale, che nel primo e nell’ultimo istante della sua vita sta all’infuori della identità personale con se stesso» (Kierkegaard). Egli è e rimane se stesso; ogni uomo gli è per essenza ugualmente vicino. Ma in contraddizione con se stesso, e a differenza di ogni altro uomo, egli è anche chiamato e inviato da Dio. Un Fariseo, dunque? Sì, un Fariseo, se pure d’un ordine superiore, un uomo prescelto, isolato, diverso. In linea con ognuno, pietra tra pietre in ogni relazione; soltanto nella sua relazione con Dio un fatto a sé. Appunto come apostolo, privo di un rapporto regolare con una comunità umana nella sua realtà storica; e da questo punto di vista, un fenomeno possibile soltanto come eccezione, anzi, impossibile. Il buon diritto di questa sua posizione e la credibilità del suo discorso risiedono in Dio. Non possono essere compresi come non è possibile vedere Dio stesso. Ma appunto da questo fatto egli riceve il coraggio di presentarsi agli altri, chiedendo di essere ascoltato senza timore di innalzarsi troppo o di urtare la loro suscettibilità. Appunto questo gli dà autorità: il fatto che può e vuole appellarsi soltanto all’autorità di Dio stesso. «L’Evangelo di Dio». Ecco quello che Paolo deve annunziare: consegnare agli uomini la interamente nuova, la indicibilmente buona e lieta verità di Dio. Ma appunto: di Dio! Non un messaggio religioso, dunque, non istru-

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zioni o notizie sulla divinità o sulla deificazione dell’uomo, ma l’ambasciata di un Dio, che è del tutto diverso, del quale l’uomo, come uomo, non saprà e non avrà mai nulla, e dal quale appunto per questo gli viene la salvezza. Non dunque cosa tra cose, che possa comprendersi direttamente, che possa essere afferrata una volta per sempre, ma la parola dell’origine di tutte le cose, che deve essere percepita con sempre nuovo timore e tremore, perché pronunciata sempre di nuovo. Non dunque esperienze o sensazioni, fossero pure del rango più elevato, ma la semplice, oggettiva conoscenza di ciò che nessun occhio ha veduto, nessun orecchio ha udito. Ma appunto per questo: una comunicazione di cui non si deve soltanto prendere la notizia, ma che va accolta con viva partecipazione, che non domanda soltanto di essere intesa, ma compresa, che non richiede soltanto assenso, ma collaborazione, una comunicazione che presuppone la fede in Dio stesso, e che al tempo stesso la produce. [...] «Gesù Cristo nostro Signore»: ecco l’Evangelo, ecco il significato della storia. In questo nome si toccano e si dividono due mondi, si tagliano due piani, uno sconosciuto e uno conosciuto. Quello conosciuto è il mondo della «carne», creato da Dio ma decaduto dalla sua originaria unità con Dio, e perciò bisognevole di salvezza; il mondo dell’uomo, del tempo e delle cose, il nostro mondo. Questo piano conosciuto viene tagliato da un altro sconosciuto, il mondo del Padre, il mondo della creazione originaria e della redenzione finale. Ma questa relazione tra noi e Dio, tra questo mondo e il mondo di Dio, ha da essere conosciuta. Vedere la linea di intersezione tra i due mondi non è una cosa che va da sé. Il punto della linea di intersezione, nel quale questa può essere veduta, ed è effettivamente veduta, è Gesù. [...] Gli anni 1-30 sono dunque il tempo della rivelazione e della scoperta. Sono il tempo in cui, come è dimostrato dall’accenno a Davide, la nuova diversa determinazione divina di ogni tempo è veduta; e che, con questo stesso fatto, sopprime la propria particolarità nei riguardi di altri tempi, aprendo la possibilità che ogni tempo possa diventare tempo di rivelazione e di scoperta. Ma quel punto stesso della linea di intersezione, come tutto il piano sconosciuto, di cui annunzia la presenza, non ha alcuna estensione sul piano a noi conosciuto. [...] Gesù, in quanto è il Cristo all’interno dell’intuizione storica, può essere compreso soltanto come problema, soltanto come mito. Gesù, in quanto è il Cristo, porta con sé il mondo del Padre, di cui noi, all’interno della intuizione storica, non sappiamo nulla e non sapremo mai nulla. Ma la risurrezione dai morti è la svolta, l’atto con cui questo punto è «stabilito» dall’alto e veduto dal basso. La risurrezione è la rivelazione, la scoperta di Gesù come il Cristo, l’apparizione di Dio e il riconoscimento di Dio in lui [...], di riconoscere Gesù come la fine del tempo, il paradosso, la storia originaria, il vincitore. Nella risurrezione, il nuovo mondo dello Spiri-

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to Santo viene in contatto col vecchio mondo della carne. Ma esso lo tocca come la tangente tocca il cerchio, senza toccarlo, e appunto in quanto non lo tocca, lo tocca come la sua limitazione, come mondo nuovo. [...] Nessun connubio, nessuna confusione tra Dio e l’uomo, nessuna ascesa dell’uomo nel divino e nessuna infusione di Dio nella essenza umana si compiono qui, ma quello che in Gesù Cristo tocca l’uomo, in quanto non lo tocca, è il Regno di Dio, creatore e redentore. Esso è diventato attuale. Esso si è avvicinato a noi. Questo Gesù Cristo è il «nostro Signore». Per mezzo della sua presenza nel mondo e nella nostra vita, noi siamo negati come uomini e fondati in Dio, guardando a lui siamo fermati e posti in movimento, come coloro che aspettano e si affrettano. Egli sta, come il Signore, al disopra di Paolo e dei Romani: perciò, Dio, nella lettera ai Romani, non è una vana parola.

 - Karl Barth (Basilea 1886-1968) pubblicò L’Epistola ai Romani nel 1922. Il testo riportato è tratto da: K. Barth, L’Epistola ai Romani, trad. it. di G. Miegge, Feltrinelli, Milano 1969, pp. 3-7.

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B, Nuovo Testamento e mitologia se la scrittur a narr a Dei miti, qual è la loro corretta interpretazione? per interpretare i miti della scrittura occorre ovviamente demitizzarli, cioè intenderli nel loro significato, come peraltro si fa con qualsiasi linguaggio espresso in un determinato genere letterario. e il mito è un genere letterario, un “linguaggio”: attraverso questa forma linguistica l’aldilà può essere espresso nelle forme dell’aldiquà. se si ritiene di potere interpretare queste forme come la diretta espressione della verità si commette un errore ermeneutico. la domanda è: essendo miti, di che cosa in realtà ci parlano? che cosa ci dicono? Dati i temi di cui questi “miti” trattano si tratta di decidere se comprendere può essere qualcosa di diverso dall’intendere razionalmente, e in che cosa esattamente consiste questo comprendere.

Tra i problemi di maggior rilievo non annovero quello relativo al concetto di mito. Discuterlo, anzi, mi sembrerebbe lasciarsi fuorviare da quello di cui si tratta in senso vero e proprio, nel problema della demitizzazione. Se qualcuno dichiara discutibile la nozione che ho io del mito, e con questa parola vuole intendere qualcos’altro, faccia pure. Per «mito», io intendo un fenomeno storico ben determinato, e per «mitologia», un ben determinato modo di pensare. Si tratta di discutere tale fenomeno e tale modo di pensare. Adopero il concetto di mito secondo l’accezione in uso nelle scienze storiche e religiose. Mito è il racconto d’un fatto o d’un evento, in cui intervengono forze o persone soprannaturali, sovrumane (e spesso, quindi, il racconto viene definito semplicemente come storia di dèi [Göttergeschichte]). Pensiero mitico è il concetto opposto a quello di pensiero scientifico. Il pensiero mitico attribuisce certi fenomeni ed eventi a potenze soprannaturali, «divine», siano esse pensate in termini di dinamismo o animismo, ovvero rappresentate come spiriti o dèi personali. Confina così determinati fenomeni ed eventi, ma anche certi ambiti e territori, al di fuori delle entità e degli avvenimenti noti e familiari, intuibili e padroneggiabili nel mondo. Il pensiero scientifico è già preformato nel pensiero tecnico, che ha a che fare con un nesso chiuso di cause ed effetti, e di tale pensiero, in fondo, è il compimento radicale, presupponendo l’unità del mondo e un ordine, una legge a cui obbedisca quanto esiste e avviene in esso. Come pensiero scientifico vero e proprio, nasce con la questione sull’arché, cioè sull’origine unificante della molteplicità del mondo. La differenza tra il pensiero mitico Filosofia e religione

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e il pensiero scientifico è evidente proprio nel fatto che quest’ultimo non ricerca l’origine del mondo, come fa il pensiero mitico, in una potenza o divinità extramondana (e quindi non concepisce il mondo presente come presituato nel tempo), ma la pensa come un’origine immanente e sempre presente al mondo medesimo. Nel pensiero scientifico, all’unità del mondo corrisponde l’unità del pensiero scientifico stesso, che, grazie al logos didonai, alla giustificazione razionale, che può essere data a ogni tesi, si distingue nettamente dall’incoerenza delle narrazioni mitiche. Quando Esiodo stabilisce un nesso tra gli antichi miti, non fa altro che mostrare come il pensiero scientifico greco elabora il mito. […] Il mito pertanto è l’espressione d’un preciso modo di comprendere l’esistenza umana. Esso conosce – e sta a documentarlo la coesione originaria tra mito e culto – una realtà come realtà del mondo diversa da quella considerata dalla scienza. Esso sa, che il mondo e la vita umana hanno il loro fondamento e i loro confini in una potenza, che risiede al di là di quanto si trova nella sfera dei calcoli e delle disposizioni umani, in una potenza trascendente. [...] In breve: il mito oggettivizza l’aldilà nell’aldiquà, e quindi anche nel disponibile; e la cosa si fa evidente nel fatto che il culto diventa sempre più un’attività intesa a influire sulla condotta della divinità, a stornarne le ire, a ottenerne i favori. La demitizzazione vuol mettere in risalto l’autentica intenzione del mito, cioè quella di parlare dell’esistenza umana, del suo essere fondata e limitata da una potenza dell’aldilà non mondana, una potenza che non è percepibile dal pensiero oggettivante. In senso negativo, quindi, la demitizzazione è una critica dell’immagine del mondo propria del mito, nella misura in cui essa nasconde la vera intenzione del mito stesso. In senso positivo è un’interpretazione esistenziale, con cui si vuol chiarificare l’intenzione del mito, che è precisamente quella di parlare dell’esistenza dell’uomo. [...] È proprio l’interpretazione demitizzante a voler valorizzare criticamente l’autentica intenzione delle Scritture bibliche. Grazie a essa riconosciamo di non poter dire nulla su quanto sta aldilà del mondo, né di Dio, su quel che l’aldilà e il mondo sono «in sé», poiché così l’aldilà e Dio sarebbero oggettivizzati in un fenomeno mondano, in un fenomeno dell’aldiquà. […] La paura di fronte alla demitizzazione può esser motivata per un verso dal fatto che si presume come incontestato l’aut-aut fra mitologia e scienza, mentre per «scienza» s’intende quella che oggettivizza l’esistenza facendone un modo di essere adeguato al mondo. Ma non si dà proprio altro linguaggio che quello scientifico o quello mitico? Frasi come «ti amo» o «ti prego,

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scusami» sono forse pronunciate in linguaggio scientifico? O, altrimenti, in quello mitologico? Vi è dunque un linguaggio in cui l’esistenza si esprime ingenuamente e a esso corrisponde una scienza che parla dell’esistenza senza oggettivarla facendone un modo di essere adeguato al mondo. Ormai dovrebbe esser chiaro che la demitizzazione, in quanto interpretazione esistenziale, nell’interpretare criticamente l’immagine mitica del mondo che risulta dalla Scrittura intende valorizzare il senso dei testi biblici liberandoli dal concettualismo d’un pensiero oggettivante, cioè dal pensiero oggettivante del mito; ma evidentemente non lo fa certo per trasferirli nel concettualismo del pensiero oggettivante che è proprio della scienza. Della Scrittura, piuttosto, la demitizzazione intende raggiungere una comprensione che sia libera da ogni immagine del mondo, quale viene escogitata dal pensiero oggettivante, sia del mito sia della scienza. […] La fede, intesa come rinuncia alla sicurezza di se stessi e come superamento della disperazione che nasce proprio dal tendere alla sicurezza, [...] può esser concepita e conservata solo in un nonostante (dennoch) di fronte a un mondo, in cui non è possibile scorgere né Dio né la sua azione, volto com’esso è a ricercare incessantemente la sua sicurezza, e quindi il suo rapporto esistenziale con tutti coloro con cui ha a che fare, col suo solito modo oggettivante d’osservazione. Ogni parlare mitologico su Dio può quindi servire solo a esternare il «nonostante». […] Lo scopo della demitizzazione, intesa come interpretazione esistenziale, consiste precisamente nel chiarire, nel rendere comprensibile il reale mistero di Dio in quel che esso ha di peculiarmente inconcettualizzabile. Comprendere è qualcosa di diverso dallo spiegare razionalmente.

 - Rudolf Bultmann (Wiefeldstele 1884 - Marburgo 1976) pubblicò Nuovo Testamento e mitologia nel 1941. Il testo riportato è tratto da: R. Bultmann, Nuovo Testamento e mitologia, a cura di I. Mancini, Queriniana, Brescia 1973, pp. 180-200.

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R, Uditori della parola Forse l’uomo può aprirsi all’ascolto Di Dio; ma come si Fa aD ascoltare Dio? certo, quando si parla di ascolto di Dio si tratta di metafore: che significa ascoltare chi non parla con le voci dell’uomo e della natura? è chiaro che occorre andare al di là della realtà fisica e dell’esperienza. ma noi siamo realtà fisiche e d’esperienza. Dobbiamo forse uscire al di fuori del nostro essere? se il nostro essere fosse solo questo sarebbe impossibile farlo. ma l’uomo è una realtà spirituale e lo spirito può aprirsi al di là di sé. su questa natura spirituale aperta all’altro è fondata la possibilità della fede.

Abbiamo cominciato col domandarci che cosa possa dirci il primo aspetto del nostro primo problema metafisico dell’essere circa la natura dell’uomo in quanto possibile soggetto di una rivelazione. Abbiamo risposto ora dicendo che l’uomo «è» del tutto aperto all’essere in genere in una differenza ontologica incompiuta. L’uomo è il primo degli esseri finiti e dotati d’intelligenza, che sono di loro natura aperti all’assoluta autotrasparenza dell’essere, tanto che questa apertura condiziona e rende possibile ogni singola conoscenza. Non esiste, quindi, settore dell’essere, che possa stare del tutto al di fuori di quell’orizzonte, in cui l’uomo conosce i suoi oggetti. [...] Questa costituzione fondamentale dell’uomo, ch’egli afferma implicitamente in ognuna delle sue conoscenze ed azioni, noi con una parola la chiamiamo la sua spiritualità. L’uomo è spirituale, cioè vive la sua vita in una continua tensione verso l’Assoluto, in una apertura a Dio. Questo non è un fatto che può, per dir così, verificarsi o meno qua e là nell’uomo a suo beneplacito. È la condizione che fa essere l’uomo ciò che è e dev’essere ed è presente sempre anche nelle azioni banali della vita quotidiana. Egli è uomo solo perché è in cammino verso Dio, lo sappia o no espressamente, lo voglia o no. Egli è sempre l’essere finito totalmente aperto a Dio. Ora una rivelazione di Dio è possibile solo quando il soggetto, a cui si deve dirigere, offre da se stesso a tale possibile rivelazione una legge e un limite circa il suo possibile contenuto. Una rivelazione, che deve scoprire gli abissi della divinità ed in fondo è l’oggettivazione riflessa della chiamata rivolta all’uomo a partecipare della vita dello stesso Dio trascendente, può essere concepita possibile solo quando l’uomo è considerato come spirito, che coglie in pieno la trascendenza dell’essere e necessariamente la tematizza anche come già realizzata da sempre. Un orizzonte più ristretto della conoscenza umana farebbe cadere immediatamente e a priori i possibili

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contenuti di una rivelazione trascendenti quell’orizzonte, ed escluderebbe la possibilità della loro rivelazione attraverso la parola. La trascendenza della conoscenza dell’essere in genere, che è necessariamente tematizzata e costituisce essenzialmente l’uomo in quanto spirito, è la prima affermazione di una antropologia metafisica, tendente a una filosofia della religione capace di fondare la possibilità di una rivelazione orale. La tematizzazione metodica e riflessa di questa trascendenza, che l’afferma o la prova non solo come «una» proprietà dell’uomo, ma come condizione della possibilità del suo conoscere e del suo agire sulla terra, è il primo aspetto di un’ontologia della potentia oboedientialis di fronte ad una possibile rivelazione. Perciò costituisce il nucleo più intimo di una filosofia cristiana della religione. L’essere è illuminato, è «logos» e può essere rivelato mediante la parola; era questa l’idea del terzo capitolo. L’uomo però è dotato dello spirito, che lo plasma interamente, perciò ha l’orecchio teso a qualunque parola che possa venire dalla bocca dell’eterno. [...] Avevamo già detto che l’uomo è quell’ente che si trova di fronte a un Dio libero e alle possibilità non ancora esaurite della sua libertà, quindi di fronte al Dio di una possibile rivelazione nel senso già precedentemente meglio precisato. Ora abbiamo dimostrato che l’apertura cosciente dell’uomo a questo Dio della possibile rivelazione, che fa parte della costituzione fondamentale dell’uomo, è nello stesso tempo ed è per essenza sempre determinata nella sua intima struttura concreta dal libero atteggiamento dell’uomo. L’apertura a Dio è apparsa un problema della autodeterminazione morale dell’uomo. La conoscenza di Dio, se indagata come un fenomeno reale nell’uomo reale, ha un intrinseco carattere morale o meglio religioso, poiché si tratta di una decisione di fronte a Dio. Possiamo quindi formulare la seconda proposizione della nostra antropologia metafisica filosofico-religiosa affermando che l’uomo è l’ente che, amando liberamente, si trova di fronte al Dio di una possibile rivelazione. L’uomo è in ascolto della parola o del silenzio di Dio nella misura in cui si apre, amando liberamente, a questo messaggio della parola o del silenzio del Dio della rivelazione. Ascolta poi questo messaggio del Dio libero, se non ha delimitato con un falso amore l’orizzonte assoluto della sua apertura all’essere in genere e non ha tolto così in partenza alla parola di Dio la possibilità di esprimere ciò che aggrada al Dio libero e dirci in quale veste ci vuol incontrare. [...] Così, per essere spirito, l’uomo è orientato alla storia essenzialmente in forza della sua natura. Egli si trova di fronte al Dio di una libera rivelazione che deve inserirsi nella storia umana, nel caso che si realizzi. Se non si realizzasse, la cosa più essenziale della storia umana sarebbe il silenzio di Dio, in essa percepibile. L’uomo è orientato a priori verso la storia, entro cui presumibilmente deve verificarsi questa rivelazione. Perciò egli è veramente

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nella sua essenza l’ente che fin nella sua realtà più intima è in grado di ascoltare una possibile rivelazione di Dio nella storia umana attraverso la parola. Solo chi ascolta così, e nella misura in cui lo fa, è ciò che per sé dev’essere: uomo. Un’antropologia metafisica diventa così ontologia della potentia oboedientialis rispetto a una possibile rivelazione libera. La filosofia della religione è di conseguenza l’analisi dell’ascolto, da parte dell’uomo, di una eventuale rivelazione. Ogni religione naturale però, che potrebbe essere costruita con l’aiuto di tale antropologia e di tale metafisica, ha colto la sua propria essenza solo se si concepisce essa stessa come ascolto e tien conto di una possibile rivelazione di Dio nella storia dell’uomo. [...] Giunti al termine, possiamo ora anche formulare la terza proposizione della nostra antropologia metafisico-filosofico-religiosa: l’uomo è l’ente che nella sua storia deve tendere l’orecchio a un’eventuale rivelazione storica di Dio attraverso la parola umana. [...] l’uomo è l’ente, che è dotato di una spiritualità recettiva aperta sempre alla storia e nella sua libertà in quanto tale si trova di fronte al Dio libero di una possibile rivelazione, la quale, nel caso che si verifichi, si effettua sempre mediante «la parola» nella sua storia, di cui costituisce la più alta realizzazione. L’uomo è colui che ascolta nella storia la parola del Dio libero. Solo così egli è quello che deve essere.

 - Karl Rahner (Friburgo in Brisgovia 1904 - Innsbruck 1984) pubblicò Uditori della parola nel 1941. Il testo riportato è tratto da: K. Rahner, Uditori della parola, trad. it. di A. Belardinelli, Borla, Torino 1967, pp. 97-99, 144-145, 208-209.

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Capitolo

9 Filosofia e mente Il tema della natura della mente umana – e del suo rapporto con il corpo – ha interessato la filosofia sin dalle origini. In età contemporanea, venuta meno la prospettiva metafisica che tende a identificare la mente con l’anima, la linea di ricerca prevalente è quella di cercare di spiegare l’attività pensante della mente attraverso analogie funzionali con macchine calcolanti. Questo programma scientifico ha guidato gli studi del fondatore della cibernetica, Wiener, e quelli del padre dell’intelligenza artificiale, Alan Turing, nella progettazione di calcolatori in grado di riprodurre le operazioni logiche della mente umana. Ammessa questa possibilità, si pone il problema, discusso da von Neumann e Searle, se il calcolatore debba essere programmato dall’esterno o se abbia la capacità di autoprogrammarsi, fino al punto da acquisire una sorta di autocoscienza.

W, La cibernetica. Controllo e comunicazione nell’animale e nella macchina Il problema è se una macchIna possa pensare: quale relazIone esIste tr a la logIca dI un calcolatore e quella della mente umana? alla metà degli anni cinquanta l’antica disputa sulla natura del pensiero umano si arricchì di nuovi elementi di discussione con l’introduzione dei primi calcolatori. benché fossero molto meno potenti degli attuali, era già chiaro che l’umanità si era avviata su una nuova strada nel rapporto con le macchine, perché i calcolatori stavano riproducendo alcuni dei caratteri del pensiero umano. non la coscienza, certo, ma altri sì. ora, che cos’è il pensiero, se è riproducibile in parte da una macchina? una macchina può pensare? la questione è importante al fine di progettare macchine simili all’uomo, ma è importante soprattutto perché la risposta a questa domanda può gettare nuova luce sulla natura umana.

Abbiamo già parlato della macchina calcolatrice, e quindi del cervello, come di una macchina logica. Non è affatto questione di poco conto considerare la luce fatta sulla logica da queste macchine, sia naturali che artificiali. A questo proposito il lavoro più importante è quello di Turing, Sui numeri computabili, con un’applicazione al problema della decisione. Abbiamo in precedenza detto che la machina ratiocinatrix non è altro che il calculus ratiocinator di Leibniz con in più un meccanismo; e così come la moderna logica matematica ha inizio con questo calcolo, è inevitabile che i suoi attuali sviluppi tecnici gettino sulla logica una nuova luce. La scienza odierna è operativa; ovvero, considera ogni asserzione come riguardante essenzialmente possibili esperimenti o processi osservabili. Coerentemente, lo studio della logica deve ridursi allo studio della macchina logica, sia nervosa che meccanica, con tutte le sue inevitabili limitazioni e imperfezioni. Qualche lettore potrà dire che così si riduce la logica a psicologia, e che le due scienze sono, dal punto di vista dell’osservazione e della dimostrazione, diverse. Questo è vero nel senso che molti stati psicologici e molte sequenze di pensiero non sono conformi ai canoni della logica. La psicologia contiene molto di estraneo alla logica, ma – e questo è l’importante – una logica che abbia per noi qualche significato non può contenere alcunché che la mente umana, e quindi il sistema nervoso umano, non sia in grado di comprende-

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re. Ogni logica è limitata dai limiti della mente umana, quando essa è impegnata in quell’attività nota come pensiero logico [...]. Vediamo così che la logica della macchina assomiglia alla logica umana, e, seguendo Turing, possiamo servirci della prima per far luce sulla seconda. [...] Una grossa macchina calcolatrice, sia che si tratti di un apparato meccanico o elettrico sia del cervello stesso, impiega una considerevole quantità di energia, che viene completamente dissipata in calore. Il sangue che lascia il cervello è di una frazione di grado più caldo di quello che vi entra. Nessun’altra macchina calcolatrice si avvicina all’economia di energia del cervello. In un grosso apparato come l’Eniac o l’Edvac, i filamenti dei tubi consumano una quantità di energia misurabile in kilowatts, e senza un adeguato dispositivo di ventilazione e raffreddamento, il sistema soffrirebbe di ciò che rappresenta l’equivalente meccanico della piressia, il calore modificherebbe le costanti della macchina, e questa cesserebbe di funzionare. Nondimeno, l’energia consumata per ogni singola operazione è quasi nulla, e non giunge neppure a costituire un’adeguata misura del funzionamento della macchina. Il cervello meccanico non secerne pensiero «come il fegato la bile», come pretendevano i vecchi materialisti, né lo produce sotto forma di energia, come fanno i muscoli per la loro attività. L’informazione è informazione, non materia o energia. Al giorno d’oggi, nessun materialismo che non ammetta questo può sopravvivere.

 - Norbert Wiener (Columbia 1894 - Stoccolma 1964) scrisse La cibernetica. Controllo e comunicazione nell’animale e nella macchina nel 1962. Il testo riportato è tratto da: N. Wiener, La cibernetica. Controllo e comunicazione nell’animale e nella macchina, trad. it. di G. Barosso, Il Saggiatore, Milano 1968, pp. 27 ss.

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T, Sui numeri computabili, con un’applicazione al problema della decisione qualI oper azIonI suI sImbolI accomunano Il laVoro dI una macchIna e le azIonI della mente? la macchina di turing è costituita da un nastro infinito suddiviso in caselle in cui può essere scritto o cancellato un simbolo. la macchina, applicando le regole della computazione, è in grado di risolvere il problema che le era stato sottoposto nella forma dei simboli scritti sul nastro. si può affermare che questa macchina sia pensante? secondo il “test di turing” lo si potrebbe dire solo nel caso in cui un essere umano non fosse in grado di distinguere se sia il calcolatore oppure un altro essere umano a riprodurre funzioni cognitive, concatenazioni di idee ed espressioni significanti. Fino a ora nessuna macchina ha compiutamente superato il test.

Normalmente un calcolo viene effettuato scrivendo certi simboli sulla carta. Possiamo supporre che la carta sia suddivisa in caselle, come nei quaderni di aritmetica. In aritmetica elementare si fa uso talvolta della bidimensionalità della carta. Tuttavia, è sempre possibile farne a meno, e credo si converrà che non si tratta di una caratteristica essenziale della computazione. Assumerò dunque che la computazione venga effettuata su carta unidimensionale, cioè su un nastro suddiviso in caselle. Inoltre supporrò che il numero dei simboli che si possono stampare sia finito. Se arrivassimo ad ammettere una infinità di simboli, ce ne sarebbero certi che si differenzierebbero in misura arbitrariamente piccola. L’effetto di questa restrizione sul numero dei simboli non è molto grave. È sempre possibile usare successioni di simboli in luogo di singoli simboli. Per esempio una cifra araba come 17 o come 999999999999999 viene normalmente considerata un unico simbolo. Analogamente, in qualunque lingua europea le parole vengono trattate come singoli simboli (il cinese, tuttavia, rappresenta un tentativo di disporre di un’infinità numerabile di simboli). Dal nostro punto di vista la differenza tra simboli semplici e simboli composti è che questi ultimi, se troppo lunghi, non possono essere afferrati con un solo sguardo. L’esperienza lo conferma: noi non siamo in grado di dire a colpo d’occhio se 9999999999999999 e 999999999999999 sono uno stesso simbolo.

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Il comportamento del computante [computer] è determinato in ogni momento dai simboli che osserva e dallo «stato mentale» [state of mind] in cui si trova in quel momento. Possiamo supporre che ci sia un limite B al numero dei simboli o delle caselle che egli può osservare in ciascun momento. Se ne vuole osservare di più, deve fare ulteriori osservazioni. Supporremo anche che il numero degli stati mentali che occorre prendere in considerazione sia finito. La ragione non si differenzia da quella invocata per limitare il numero dei simboli. Se ammettessimo un numero infinito di stati mentali, alcuni di essi risulterebbero «arbitrariamente vicini» tra loro, e si confonderebbero. Anche in questo caso si tratta di una restrizione che non ha serie conseguenze sulla computazione, dal momento che è possibile evitare l’uso di stati mentali più complicati scrivendo più simboli sul nastro. Immaginiamo di suddividere le operazioni effettuate dal computante in «operazioni semplici», elementari al punto che risulterebbe difficile pensare come suddividerle ulteriormente. Ogni operazione del genere consiste in un cambiamento del sistema fisico comprendente il computante e il nastro. Lo stato del sistema è noto se conosciamo: la successione dei simboli sul nastro, quali di questi sono osservati dal computante (eventualmente in un ordine particolare) e il suo stato mentale. Possiamo supporre che nel corso di un’operazione semplice non venga modificato più di un simbolo. Ogni altro cambiamento può essere suddiviso in cambiamenti semplici di questo tipo. Quanto alle caselle i cui simboli possono essere modificati in questo modo, la situazione non cambia rispetto alle caselle osservate. Possiamo dunque assumere senza perdere in generalità che le caselle i cui simboli vengono cambiati sono sempre caselle «osservate». [...] Possiamo ora costruire una macchina [machine] che faccia il lavoro del computante [computer]. A ogni stato mentale di quest’ultimo corrisponde una «m-configurazione» della macchina. [...] Questa macchina non è in sostanza molto diversa dalle macchine calcolatrici [computing machines] già definite, e per ogni macchina di questo tipo si può costruire una macchina calcolatrice per calcolare la stessa successione, vale a dire la successione calcolata dal computante.

 - Alan Mathison Turing (Londra 1912 - Wilmslow 1954) scrisse Sui numeri computabili, con un’applicazione al problema della decisione ancora studente a Cambridge, nel 1936. Il testo riportato è tratto da: A.M. Turing, Sui numeri computabili, con un’applicazione al problema della decisione, trad. it. di R. Cordeschi, in Novecento filosofico e scientifico, vol. V, a cura di A. Negri, Marzorati, Milano 1991, pp. 439-440.

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V N, La filosofia degli automi è possIbIle progettare macchIne che, come glI esserI VIVentI, producano autonomamente altre macchIne? perché questo possa accadere, le macchine devono avere la possibilità di autoprogrammarsi. per quanto tecnologicamente complesso sia il problema, è in linea di principio risolvibile secondo von neumann. la questione ha un rilievo filosofico, perché implica una autonomia della macchina che la rende simile su un punto importante all’essere vivente (riprodursi) e simula una delle caratteristiche del pensiero (la capacità di programmare). la prospettiva è quella di una intelligenza artificiale.

La teoria di Turing delle macchine calcolatrici. Verso il 1936, Turing affrontò il seguente problema. Egli desiderava dare una definizione generale di ciò che s’intende per macchina calcolatrice. [...] Turing analizzò accuratamente quali processi matematici possano essere effettuati da una macchina di questo tipo. In relazione a ciò dimostrò vari teoremi concernenti il classico problema logico della decisione; ma non mi occuperò qui di ciò. Egli introdusse e analizzò peraltro il concetto di «macchina universale», che nel presente contesto è interessante. Una delle entità fondamentali della matematica è una successione infinita di cifre e (e = 0, 1). Considerata come uno sviluppo binario, essa equivale essenzialmente al concetto di numero reale. Turing perciò basò le sue considerazioni su queste successioni. Egli si occupò della questione di quali macchine potessero costruire tali successioni. Cioè, data una legge fissata per la formazione di una successione di questo tipo, indagò quali macchine potessero essere adoperate per formare la successione basata su tale legge. Il processo di formazione di una successione si interpreta in questo modo. Una macchina può formare una certa successione se si può determinare una lunghezza finita del nastro, opportunamente marcata, in modo che, se il nastro è introdotto nella macchina, questa scriva la successione sulla parte libera rimanente (infinita) del nastro. Naturalmente il processo dello scrivere la successione infinita è un processo che prosegue indefinitamente, vale a dire la macchina continuerà a funzionare indefinitamente e, dato un periodo di tempo sufficientemente lungo, potrà inscrivere qualsiasi parte (naturalmente finita) della successione (infinita). La parte finita, premarcata, del nastro costituisce l’istruzione della macchina per questo problema.

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Filosofia contemporanea

Una macchina si dice universale se essa è in grado di elaborare qualsiasi successione prodotta da una qualsiasi macchina. Naturalmente a questo scopo essa richiederà in generale un’istruzione differente. Il risultato principale della teoria di Turing. Si potrebbe credere a priori che ciò sia impossibile. Come può esistere una macchina che compia lo stesso lavoro di una qualsiasi altra possibile macchina, per esempio di una macchina che abbia il doppio delle sue dimensioni e della sua complessità? Turing tuttavia provò che ciò e possibile. Mentre la costruzione da lui ideata è piuttosto complicata, il principio base è molto semplice. Turing osservò che si può dare con un numero finito di parole una descrizione del tutto generale di ogni possibile macchina (nel senso della definizione precedente). Questa descrizione conterrà dei passaggi vuoti, cioè quelli che si riferiscono alle funzioni sopra menzionate [...] che precisano l’effettivo funzionamento della macchina. Quando questi passaggi vengono colmati, si ottiene una particolare macchina. Finché essi sono lasciati vuoti, questo schema rappresenta la definizione generale della macchina generale. Diventa ora possibile descrivere una macchina che abbia la capacità di interpretare tale definizione, una macchina che cioè, quando è fornita delle funzioni che, nel senso già precisato, definiscono una particolare macchina, funzioni come l’oggetto descritto. La capacità di fare ciò non è più misteriosa di quella di leggere un dizionario e una grammatica e di seguire le loro istruzioni circa gli usi e i principi di combinazione delle parole. Questa macchina, che è costruita per leggere una descrizione e per imitare l’oggetto descritto, è allora la macchina universale nel senso di Turing. Per far sì che essa ripeta le operazioni che può compiere una qualsiasi altra macchina, basta fornirle una descrizione della macchina in questione e, in più, le istruzioni che questa avrebbe richiesto per le operazioni. Ampliamento del programma per trattare automi che producono automi. Per la questione che qui mi interessa, quella dell’autoriproduzione degli automi, il procedimento di Turing è troppo ristretto solo in un punto. I suoi automi sono solo macchine calcolatrici. La loro uscita è un pezzo di nastro che porta impressi degli zero e degli uno. Ciò che occorre per la costruzione cui mi riferivo è un automa la cui uscita sia costituita da altri automi. Non v’è tuttavia alcuna difficoltà di principio a trattare questo concetto più ampio e a derivare da esso l’equivalente del risultato di Turing. Le definizioni di base. Come nel caso precedente, anche qui è d’importanza essenziale dare una definizione rigorosa di automa per gli scopi della nostra indagine. Occorre anzitutto fare una lista completa delle parti elementari da usare. Questa lista deve contenere non solo un’enumerazione completa, ma anche una definizione operativa completa di ogni parte ele-

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mentare. È relativamente facile fare tale lista, cioè scrivere un catalogo delle parti della macchina, che sia abbastanza ampio da permettere l’ampia varietà di meccanismi qui necessari, e che abbia il rigore assiomatico necessario per questo tipo di considerazioni. Non occorre neppure che questa lista sia lunga. Naturalmente può essere fatta arbitrariamente lunga o arbitrariamente corta: può essere allungata includendo in essa come parti elementari oggetti che si sarebbero potuti ottenere per combinazione di altri, e può essere accorciata (fino a farla consistere di una singola unità) dotando ogni parte elementare di una molteplicità di attributi e di funzioni. Ogni asserzione sul numero di parti elementari occorrenti rappresenterà perciò un sensato compromesso in cui da nessuna parte elementare ci si aspetta nulla di troppo complicato, e nessuna parte elementare è fatta per assolvere a più funzioni, s’intende distinte. In questo senso si può mostrare che è sufficiente una dozzina circa di parti elementari. Il problema dell’autoriproduzione può essere allora messo in questi termini: è possibile costruire mediante questi elementi un aggregato tale che, introdotto in un ambiente in cui tali elementi abbondano, cominci a costruire altri aggregati, ciascuno dei quali risulterà alla fine perfettamente identico all’originale? La risposta è «sì», e il principio in base al quale l’automa può essere realizzato è in stretta relazione col principio di Turing precedentemente illustrato.

 - John von Neumann (Budapest 1903 - Washington 1957) scrisse il saggio The General and Logical Theory of Automata, da cui è tratto il brano citato, nel 1951. Il testo riportato è tratto da: J. von Neumann, La filosofia degli automi, a cura di V. Somenzi, Boringhieri, Torino 1965, pp. 176 ss.

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Filosofia contemporanea

S, La mente è un programma è possIbIle una IntellIgenza artIFIcIale, cIoè una macchIna che possa pensare In analogIa con Il pensIero umano? la domanda che pone searle all’inizio di questo brano è diversa da quelle che abbiamo finora valutato. non si tratta di comprendere se le macchine possano simulare forme di pensiero tipiche dell’uomo, bensì se possano acquisire l’elemento fondamentale che caratterizza l’uomo come essere dotato di vita spirituale: la coscienza di pensare, la coscienza di sé. si tratta di capire che cosa sia una mente. si produce una mente quando si sviluppano programmi e tecnologie per quella che oggi è nota come Intelligenza artificiale? pensare significa “calcolare”?

Può una macchina pensare? Può avere pensieri coscienti esattamente nello stesso senso in cui li abbiamo noi? Se per «macchina» s’intende un sistema fisico capace di compiere certe funzioni (e che altro si potrebbe intendere?), allora gli esseri umani sono particolari macchine di tipo biologico e gli esseri umani sono in grado di pensare: quindi, ovviamente, le macchine sono in grado di pensare. […] Negli ultimi decenni, tuttavia, il quesito se una macchina possa pensare ha ricevuto un’interpretazione del tutto diversa, anzi è stato sostituito dal quesito seguente: una macchina può pensare semplicemente in virtù del fatto che esegue un programma di calcolatore? Il programma è di per sé una componente del pensiero? Questo è un problema del tutto diverso, perché non riguarda le proprietà fisiche e causali di sistemi fisici attuali o potenziali, ma riguarda invece le proprietà computazionali astratte dei programmi formali di calcolatore che possono essere eseguiti in un qualunque supporto materiale, purché questo supporto sia in grado di svolgere il programma. Un buon numero di ricercatori che si occupano di intelligenza artificiale (IA) crede che la risposta al secondo quesito sia affermativa; essi credono, cioè, di creare letteralmente delle menti allorquando scrivono i programmi giusti con gli ingressi giusti e le uscite giuste. Credono inoltre di possedere un criterio scientifico per stabilire il successo o il fallimento dell’impresa: il cosiddetto «test di Turing» ideato dal padre fondatore dell’intelligenza artificiale, Alan M. Turing. Il criterio di Turing, secondo l’interpretazione corrente, è semplicemente questo: se un calcolatore riesce a comportarsi in modo tale che un esperto non sia in grado di distinguere il suo comportaFilosofia e mente

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mento da quello di un essere umano che possegga una certa capacità cognitiva – per esempio la capacità di fare le addizioni o di capire la lingua cinese – allora anche il calcolatore possiede questa capacità. Il fine è quindi quello di scrivere programmi capaci di simulare le capacità cognitive dell’uomo, in modo da superare il test di Turing. E, cosa più importante, un programma del genere non sarebbe solo un modello della mente: sarebbe una vera e propria mente, nello stesso senso in cui lo è la mente dell’uomo. Certamente non tutti i ricercatori che si occupano di intelligenza artificiale condividono questa posizione estremistica. Un modo più moderato di avvicinarsi al problema consiste nel ritenere che i modelli basati sul calcolatore siano utili per studiare la mente così come sono utili per studiare le condizioni meteorologiche, i processi economici o i meccanismi della biologia molecolare. Per distinguere queste due impostazioni, chiamerò «IA forte» la prima e «IA debole» la seconda. È importante rendersi conto di quanto la posizione espressa dall’IA forte sia audace. Secondo l’IA forte il pensiero non è altro che la manipolazione di simboli formali, e questo è proprio quanto fa il calcolatore: manipola simboli formali. Questa posizione viene spesso riassunta con la frase: «la mente sta al cervello come il programma sta al calcolatore». L’IA forte si discosta dalle altre teorie della mente sotto almeno due aspetti: può essere espressa in modo chiaro ed è soggetta a una confutazione semplice e decisiva. Questa confutazione può essere applicata da chiunque in prima persona. Eccola. Si consideri una lingua che l’individuo in questione non conosce. Io, per esempio, non conosco il cinese: ai miei occhi la scrittura cinese si presenta come una serie di scarabocchi senza significato. Supponiamo ora che io mi trovi in una stanza contenente scatole piene di ideogrammi cinesi e supponiamo che mi venga fornito un manuale di regole (scritto nella mia lingua) in base alle quali associare ideogrammi cinesi ad altri ideogrammi cinesi. Le regole specificano senza ambiguità gli ideogrammi in base alla loro forma e non richiedono che io li capisca. Le regole potrebbero essere di questo tipo: «Prendi uno scarabocchio dalla prima scatola e mettilo accanto a uno scarabocchio preso dalla seconda scatola». Supponiamo che fuori dalla stanza vi siano delle persone che capiscono il cinese e che introducano gruppetti di ideogrammi e che, in risposta, io manipoli questi ideogrammi secondo le regole del manuale e restituisca loro altri gruppetti di ideogrammi. Ora il manuale con le regole è il «programma di calcolatore», le persone che l’hanno scritto sono i «programmatori» e io sono il «calcolatore». Le scatole piene di ideogrammi sono la «base di dati», i gruppetti di ideogrammi che mi vengono forniti sono le «domande» e quelli che io restituisco sono le «risposte». Supponiamo ora che le regole del manuale siano scritte in modo tale che le mie «risposte» alle «domande» non si possano distinguere da quelle di una persona di lingua madre cine-

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se. Per esempio, gli individui situati al di fuori della stanza mi potrebbero passare degli ideogrammi il cui significato, a me sconosciuto, sia «Qual è il colore che preferisci?» e, seguendo le regole, io potrei restituire loro degli ideogrammi il cui significato, a me del pari sconosciuto, sia: «Il colore che preferisco è l’azzurro, ma mi piace molto anche il verde». Io supero così il test di Turing per la comprensione del cinese, eppure ignoro completamente questa lingua. E, nel sistema che ho descritto, non potrei in nessun modo giungere a capire il cinese, perché non avrei la possibilità di apprendere il significato di alcun simbolo. Come un calcolatore, io manipolo simboli, ma non annetto a questi simboli alcun significato. Questo esperimento concettuale dimostra che se io non capisco il cinese per il solo fatto di eseguire un programma per la comprensione del cinese, allora non ci riesce alcun altro calcolatore digitale che si limiti a far girare un programma del genere. I calcolatori digitali si limitano a manipolare simboli formali secondo le regole contenute nel programma. Ciò che vale per il cinese vale anche per altre attività cognitive. La sola manipolazione dei simboli non basta di per sé a garantire l’intelligenza, la percezione, la comprensione, il pensiero e così via. E poiché i calcolatori sono per loro natura dispositivi per operare sui simboli, la semplice operazione di far girare il programma non è garanzia sufficiente di attività cognitive. Questo semplice argomento confuta in modo radicale le pretese dell’IA forte.

 - John Searle (Denver 1932) ha scritto La mente è un programma nel 1980. Il testo riportato è tratto da: J. Searle, La mente è un programma, in Mente e macchine, “Le Scienze quaderni”, n. 66, Milano, giugno 1984.

Filosofia e mente

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Indice degli autori Adorno, 116, 120

Jaspers, 97

Arendt, 146

Jonas, 159

Barth, 166

Kuhn, 77

Barthes, 133

Lecaldano, 162

Benjamin, 126

Lukács, 110

Bergson, 36, 39

Marcuse, 123

Blondel, 33

Maritain, 42

Bultmann, 169

McLuhan, 142

Chomsky, 130

Peirce, 25

Croce, 16, 19

Perelman, 139

Dewey, 31, 149

Poincaré, 60

Feyerabend, 80

Popper, 72, 74

Foucault, 136

Rahner, 172

Frege, 52

Rawls, 152

Freud, 5, 8, 11

Ricœur, 106

Gadamer, 103

Russell, 54, 56

Gentile, 22

Sartre, 100

Gödel, 58

Searle, 183

Gramsci, 113

Turing, 178

Heidegger, 84, 87, 90, 94

Von Neumann, 180

Horkheimer, 116, 120

Weber, 2

Husserl, 45, 48 Irigaray, 155, 157 James, 27, 29

Wiener, 176 Wittgenstein, 63, 66, 69

Indice degli autori

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