Filosofia moderna. Questioni e risposte nelle parole dei filosofi 9788820375928

I filosofi moderni senza interpretazioni e apparati, ma in presa diretta attraverso i loro scritti e le loro parole.

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Filosofia moderna. Questioni e risposte nelle parole dei filosofi
 9788820375928

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),/262),$ 02'(51$ Questioni e risposte nelle parole dei filosofi a cura di Maurizio Pancaldi e Maurizio Villani

EDITORE ULRICO HOEPLI MILANO

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ISBN 978-88-203-7592-8

Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. - Bologna Progetto editoriale: Massimo Manzoni Coordinamento editoriale e redazione: Cinzia Bisognin Progetto grafico: Caterina Manieri Impaginazione: Luciana Baldi

Copertina: mncg S.r.l., Milano

indice

Capitolo  1 

I filosofi del rinascimento 1 Capitolo  2 

I filosofi del primo Seicento 19 Capitolo  3 

I filosofi del secondo Seicento 49 Capitolo  4 

I filosofi empiristi e illuministi inglesi e scozzesi 73 Capitolo  5 

I filosofi dell’età illuministica 97

Capitolo  6 

Kant e il criticismo 119 Capitolo  7 

Romanticismo, idealismo, materialismo, positivismo 139 Capitolo  8 

Le filosofie antirazionalistiche 169

Indice degli autori  187

Capitolo

1 i filosofi del rinascimento Pensare il nuovo attraverso l’antico. Rompere con la tradizione della scolastica medievale recuperando il platonismo, l’epicureismo, il naturalismo, senza rinnegare il cristianesimo. Proporre un’antropologia centrata non più su Dio, ma su un uomo che riacquista dignità, autonomia e libertà. Considerare la condizione umana nella sua finitudine, ma anche nella capacità di aspirare alla felicità e di avere slanci verso l’infinito. Ricercare nella natura i principi che la costituiscono. Rivendicare l’autonomia della sfera politica dalla morale e fare della politica o una scienza rigorosa o il luogo dell’immaginazione utopica. Nell’Europa degli stati nazionali, delle corti signorili, della Ecclesia reformanda, la filosofia del rinascimento si inoltra lungo questi percorsi, aprendo al pensiero occidentale le porte della modernità.

M F, Sopra lo amore o ver’ Convito di Platone E sE DAv vERO L’AMORE NON FOssE UNA PAssIONE COME LE ALTRE, MA UNA vIA vERsO UNA sUPERIORE DIMENsIONE DELLA vITA? Che cosa accade HEZZIVS quando entriamo nella dimensione dell’amore è tema platonico per eccellenza. Ficino non intende elaborare alcuna nuova dottrina, ma commentare il 7MQTSWMS platonico, in cui diversi personaggi della cultura del v secolo a.C. tessono un elogio dell’Eros dandone una rappresentazione via via diversa; nessuna di esse è facilmente conciliabile con le altre. Ficino tratta il testo platonico come se dell’unico oggetto di elogio – il dio o demone Eros – fossero stati da ciascuno messi in luce alcuni aspetti, essendo l’amore una dimensione proteiforme della vita, imprendibile nella sua unità proprio perché lega insieme strati diversi dell’essere. Non è una passione come le altre: è una via per passare dalla materia a una sfera superiore dell’essere, a cui l’anima appartiene. Le “porte” della nostra anima sono i sensi – innanzitutto la vista e l’udito, ed è per questo che gli innamorati non smettono di guardarsi e di ascoltarsi – ma varcata quella soglia si entra in un mondo del tutto diverso: un mondo per il quale non hanno più senso i valori così importanti nel nostro mondo. si diventa dei senza casa, si dorme all’aperto, si è presi nella sfera del desiderio. Del desiderio di cosa? Che cosa davvero desiderano gli amanti che attraversano la porta dei sensi? verso quale dimensione porta il dialogo con il corpo e con l’anima di un’altra persona? Che cosa c’è oltre UYIWXS mondo?

Onde nasce, che ciascuno massime ama, non qualunque è bellissimo, ma ama i suoi: dico quelli che hanno avuta natività consimile: ancora che non fussero così belli come molti altri. E però, siccome abbiamo detto, coloro che sono nati sotto una medesima stella, sono in tal modo disposti, che la immagine del più bello di loro, entrando per gli occhi nell’animo di quello altro, interamente si confà con una certa immagine, formata dal principio di essa generazione, così nel velame celestiale della Anima, come nel seno della anima. L’Animo di costui così percosso, riconosce come cosa sua la immagine di colui che se gli fece innanzi: la quale quasi interamente è tale, quale ab antico egli ha in sè medesimo: e quale già volle scolpire nel corpo suo, ma non potette: e quella subitamente appicca alla sua interiore immagine. E quella riformando megliora, se parte alcuna le manca a la perfetta

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forma del corpo Gioviale. E di poi essa immagine così riformata ama, come sua opera propria. Di qui nasce, che gli Amanti sono tanto ingannati, che giudicano la persona amata essere più bella, che ella non è. Imperocchè in processo di tempo e’ non veggono la cosa amata nella propria immagine presa per i sensi: ma veggono quella nella immagine già formata dalla loro anima a similitudine della loro idea. Desiderano ancora vedere continovamente quel corpo, dal quale ebbono quella tale immagine. Lo amore ha i piedi ignudi. Diotima dipinse lo Amore con i piedi ignudi: perchè gli amanti sono tanto occupati nelle cose amatorie che in tutte le altre loro faccende private e pubbliche, non usano cautela alcuna: ma senza prevedere alcuno pericolo, temerariamente si lasciano trasportare. E però nelli loro processi incorrono in ispessi pericoli, non altrimenti che colui, il quale andando senza scarpette, spesso da’ sassi e da’ pruni è offeso. Senza casa: la casa del pensiero umano è l’Anima: la casa della Anima è lo spirito: la casa dello spirito è il corpo. Tre sono gli abitatori, tre sono le case: ciascuno di costoro per lo Amore esce di casa sua: perchè ogni pensiero dello amante si rivolge più tosto al servizio dello amato, che al suo bene: e l’Anima lascia indietro il ministerio del corpo suo: e sforzasi trapassare nel corpo dello amato. Lo Spirito che è carro della Anima, mentre che la anima attende altrove, ancora egli altrove vola: sicchè di casa sua esce il pensiero, escene l’Anima, escene lo Spirito. Del primo uscire seguita stoltizia e affanno: del secondo seguita debolezza e paura di morte: del terzo seguita dibattimento di cuore e sospiri. E però lo Amore è privato di propria casa, di naturale sedia, il desiderato riposo. Senza letto e coprimento alcuno. Questo vuol dire che Amore non ha dove si riposi, nè con che si cuopra. Perchè con ciò sia che ogni cosa ricorra a la sua origine, il fuoco dello Amore che è acceso nello appetito dello Amato, si sforza rivolare nel corpo medesimo onde si accese: per il quale impeto ne porta seco volando lo appetito e lo appetente. O crudel sorte degli Amanti, o vita più misera che ogni morte! Se già l’animo vostro sendo rapito per la violenzia d’Amore fuor del corpo suo, non disprezzi ancora la figura dello Amato, e vadasene nel tempio dello splendor divino: ove finalmente si riposerà e sazierassi. Senza coprimento. Chi negherà lo Amore essere ignudo? perchè nessuno lo può celare: conciò sia che molti segni scuoprino gli innamorati, cioè il guardare simile al toro e fiso, il parlare interrotto, il colore del viso or giallo, or rosso, gli spessi sospiri, il gittar in qua e in là le membra, i continui rammarichi, il lodar senza modo e fuor di proposito, la subita indegnazione, il vantarsi molto, la improntitudine, la leggerezza lasciva, i sospetti vani, i ministerii vilissimi e servili. Finalmente, come nel Sole e nel fuoco la luce

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del raggio accompagna il caldo: così dello intimo incendio dello Amore, seguitano gli indizii di fuori. Dorme a la porta. Le porte dell’Animo son gli occhi e gli orecchi: perchè per questi molte cose entrano nello Animo: e gli affetti e costumi dell’Animo chiaramente per gli occhi si manifestano. Gli innamorati consumano il più del tempo nel badare con gli occhi e con gli orecchi intorno allo Amato: e rare volte la mente loro in sè si raccoglie, vagando spesso per gli occhi e per gli orecchi: e però si dice che e’ dormono a le porte: dicesi ancora che eglino giaciono nella via. La bellezza del corpo debbe essere in una certa via per la quale cominciamo a salire a più alta bellezza. E però coloro che si rivoltano nel loto delle libidini, o vero più tempo che non conviene consumano nel guatare, pare che si rimanghino nella via, e non aggiunghino al termine. Dicesi ancora che lo Amore dorme al sereno. E meritamente: perchè gli innamorati in una cosa sola s’occupano sì che non considerano le faccende loro. E perchè vivono a caso, sono sottoposti a tutti i pericoli della fortuna: non altrimenti che quelli che vanno ignudi a cielo sereno da ogni distemperanza dell’aria sono offesi. Per la natura della Madre, è sempre bisognoso.

 - Marsilio Ficino (Figline Valdarno 1433 - Careggi 1499) scrisse Sopra lo amore o ver’ Convito di Platone nel 1469. Si tratta della volgarizzazione in lingua italiana del Commentarium in Convivium Platonis de Amore (composto tra il novembre del 1468 e il luglio del 1469). Il testo riportato è tratto da: Marsilio Ficino, Sopra lo amore o ver’ Convito di Platone, a cura di G. Ottaviano, Celuc, Milano 1973, pp. 90 ss.

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P, Discorso sulla dignità dell’uomo sE L’UOMO NON NAsCE BUONO, vIsTO CHE LA sUA NATUR A È INDETERMINATA , CHE COsA LO RENDE BUONO ED È QUINDI DAv vERO DEGNO DELL’UMANITÀ? L’umanesimo fiorentino ha posto a tema il problema dell’uomo: ha ritenuto che ritornare allo studio della cultura classica (in ogni campo: dalla filosofia alle lettere, alla scienza della natura, alla storia) consentisse di formare un’immagine dell’uomo che potesse diventare una guida per una vita migliore, tanto per l’individuo quanto per la comunità. Un po’ tutti gli umanisti, tra la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento, avevano indirizzato l’attenzione verso lo studio dell’LYQERMXEW degli antichi, allo scopo di individuare una nuova antropologia fondata sull’ideale della “formazione dell’uomo buono”. Tra essi, Pico della Mirandola, negli ambienti dell’Accademia Platonica vicina ai Medici, sintetizza molto bene un’immagine dell’uomo che arriva a essere originale. Egli sostiene che la natura umana è indeterminata e può volgersi verso l’alto (la sapienza, la ricerca di Dio, la virtù della mente e dello spirito) tanto quanto verso il basso (gli interessi materiali, le passioni che lo dominano, la violenza). Tutto dipende da una libera scelta, e in questa PMFIVXk sta innanzitutto la HMKRMXk dell’uomo.

Già il sommo Padre ed architetto Iddio avea con leggi d’arcana sapienza costruita questa che noi vediamo casa mondana della divinità. Aveva abbellito l’ultracelestiale regione d’intelligenze, avvivato d’anime eterne gli eterni globi, popolato d’ogni più varia forma d’animali le parti putrescenti e fermentanti del mondo inferiore. Ma, finito il lavoro, l’Artefice desiderava che alcuno ci fosse il quale di tanta opera intendesse la ragione, ne amasse la bellezza, ne ammirasse la grandiosità. Per questo, quando già tutto (come Mosè e Timeo testimoniano) era stato portato a compimento, da ultimo, pensò di crear l’uomo. Non c’era però negli archetipi di che effigiare una nuova progenie, e nei tesori che cosa elargire al nuovo figlio in eredità, e nelle sedi di tutto il mondo non v’era dove, contemplatore dell’universo, potesse, quegli, assidersi. Già ogni spazio pieno: tutto già distribuito ai sommi, ai medi, agli infimi ordini. Ma non sarebbe stato della Potestà del Padre, all’ultimo del generare, quasi per esaurimento, venir meno; non della Sapienza aver esitato per mancanza d’espediente nella necessità; né del beneficante Amore che quegli, chiamato a lodare nelle altre creature la liberalità divina, fosse poi costretto a rammaricarsene al riguardo suo. Statuì quindi alla fine l’ottimo supremo Autore che a quello a cui non I filosofi del rinascimento

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poteva essere dato nulla di proprio, fosse comune tutto ciò che alle singole creature era stato dato in particolare. Prese dunque l’uomo, quest’opera di tipo indefinito, e postolo nel mezzo dell’Universo, così gli parlò: «Né determinata sede, né proprio aspetto né dono veruno speciale ti abbiamo dato, o Adamo, affinché quella sede, quell’aspetto, quei doni che coscientemente tu abbia bramato, quelli, di tua volontà, per tuo sentimento, tu abbia e possegga. L’altrui già definita natura è costretta entro leggi da noi, prescritte. Tu, non costretto entro chiusa veruna, di tuo arbitrio, nel cui potere t’ò posto, la tua natura ti determinerai. T’ò collocato nel mezzo del mondo perché d’intorno più comodamente tu vegga quel che esiste nel mondo. Non ti facemmo né celeste né terreno, né mortale né immortale affinché tu, di te stesso quasi arbitrario e, per così dire, onorario plasmatore ed effigiatore, ti componga in quella forma che avrai preferita. Potrai degenerare in quelle inferiori che sono brute; potrai, per decisione dell’animo tuo, rigenerarti nelle superfici che sono divine». O somma liberalità di Dio Padre, somma e meravigliosa felicità dell’uomo! A cui è dato di aver ciò ch’ei brami, d’essere ciò che voglia. I bruti, appena nascono, traggon seco, come dice Lucilio, dalla vagina materna quello che possederanno. I sommi spiriti fin dal principio o subito dopo furono quello che in eterno saranno. All’uomo, nel nascere, il Padre diè ogni vario seme e i germi di ogni specie di vita. Quali ciascuno avrà coltivato, codesti alligneranno e in lui produrranno i lor frutti. Se vegetali, diventerà pianta; se sensuali, bruto; se razionali, ascenderà anima celeste; se intellettuali, angelo sarà e figlio di Dio.

 - Giovanni Pico della Mirandola (Mirandola 1463 - Firenze 1494) scrisse Discorso sulla dignità dell’uomo nel 1486. Il testo riportato è tratto da: G. Pico della Mirandola, Discorso sulla dignità dell’uomo, a cura di B. Cicognani, Le Monnier, Firenze 1941, p. 13.

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E, Colloqui. L’epicureo CRIsTO NON ER A Né TRIsTE Né MALINCONICO: NON È sTATO FORsE LUI A INDICARE LA vIA vERsO PIACERI AUTENTICI? Erasmo ha studiato attentamente gli uomini, ne è curioso indagatore. Ha fustigato i costumi dell’uomo e ne ha messo in luce con occhio ironico tanto i difetti quanto i pregi, addirittura facendo un elogio a doppio senso della loro pazzia. È un umanista, e pensa che l’uomo possa salire verso i vertici del bene e della felicità o piombare negli abissi della più abietta barbarie e dell’infelicità. Dipende da lui. Importante è allora il compito dell’intellettuale, che deve indirizzare l’uomo sulla via del bene e della felicità. Ora, l’intellettuale è innanzitutto un maestro delle parole, ed è alle parole che bisogna rivolgere per prima cosa l’attenzione. Per esempio, dire che nella vita è cosa ottima che l’uomo tenda verso il piacere, è affermazione coerente con il messaggio evangelico? Certo, a patto di intendersi su che cosa significhi la parola “piacere”. se si mira in basso è un conto; ma, se si mira in alto, si rinuncia a piaceri volgari per ottenerne di più alti. La vita più essere un inferno o può essere bellissima: un uomo ragionevole a cosa tende? C’è da scandalizzarsi che Cristo sia il «maestro adorabile della filosofia cristiana», e che questa sia epicurea? Non indica forse Cristo la via per il piacere e la felicità più alta, la via del Paradiso?

E. ...Cos’è dunque quel volume che tieni in mano? S. I dialoghi di Cicerone su Il fine della felicità. E. Non sarebbe meglio cercarne il principio piuttosto che il fine? S. Ma Cicerone, con il fine della felicità, intende un bene supremo che, una volta raggiunto, non lascia più niente da desiderare. E. È un’opera, quella, d’una scienza e d’una eloquenza rare, ma credi di averne ritratto qualche profitto per la conoscenza della verità?... S. Non posso spiegarmi come, su di un punto così importante tra uomini così grandi, possa regnare una tale confusione di opinioni. E. Il fatto è che, se la verità è una, l’errore è molteplice. Siccome quei filosofi ignorano il fondamento della questione, sono costretti ad affidarsi alle congetture. Ma qual’è, a questo proposito, l’opinione che ti sembra che si avvicini di più alla verità? S. Quando leggo Cicerone che le critica, mi dispiacciono tutte, ma quando egli le sostiene, divengo completamente scettico. Tuttavia gli stoici

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mi sembrano coloro che si allontanano meno dalla verità; dopo di loro verrebbero i peripatetici. E. Per me, la scuola che mi piace di più è quella di Epicuro. S. Eppure tutti sono d’accordo nel ritenerla la peggiore. E. Lasciamo da parte il pregiudizio legato al nome e ai diversi ritratti che hanno voluto imporci, per rifarci soltanto al fondo della questione. Questo filosofo ripone la felicità dell’uomo nel piacere e ritiene che la vita più felice è quella che comporta il maggior piacere e il minor dolore possibile. S. D’accordo! E. Si può enunciare una dottrina più santa? S. Al contrario tutti ravvisano in essa l’ideale di un bruto, e non di un uomo. E. Lo so bene, ma è perché ci s’inganna sul significato delle parole. Se restituiamo loro la loro propria verità, si vedrà che non ci sono epicurei più grandi dei cristiani autentici. S. A prima vista i cristiani si prenderebbero piuttosto per dei cinici: come quelli si macerano nei digiuni e deplorano i loro peccati; nascono poveri o lo divengono per l’eccesso della loro carità; sono oppressi dai potenti e scherniti dalla folla. Se si presume che il piacere debba procurarsi la felicità, questo genere di vita mi sembra il più estraneo ad ogni specie di piacere... Vivono dunque una vita voluttuosa quegli uomini che Cristo chiama «felici, perché piangono»? E. Agli occhi del mondo sembra che piangano, ma in realtà gustano delizie ineffabili e, come si dice, tutti spalmati di miele, vivono così piacevolmente che, a paragone di essi, Sardanapalo, Filosseno, Apicio e tutti gli altri famosi gaudenti hanno pur condotto una vita triste e misera... S. Questa vista, è vero, mi ha stupito spesso. E. Eppure non c’è niente di strano. La gioia regna inalterabile quando vi è Dio, fonte di ogni gioia. [...] Laddove sono i cuori puri, Dio stabilisce la sua dimora; laddove regna Dio c’è il paradiso; laddove è il paradiso risiede la felicità; e laddove risiede la felicità c’è posto solo per la gioia vera e l’allegrezza autentica. S. Eppure questi uomini puri di cuore vivrebbero più piacevolmente se permutassero certi disagi con delle distrazioni che disprezzano o che forse neanche s’immaginano... E. [...] In conclusione, se si dà il nome di epicurei a coloro che conducono un’esistenza dilettevole, nessuno più dei giusti che vivono in maniera santa e pia merita di più questo titolo. E se risaliamo all’etimologia, nessuno è più degno del soprannome d’Epicuro – che in greco significa colui che porta aiuto – del maestro adorabile della filosofia cristiana. Quando la legge naturale era quasi cancellata dai vizi, la legge di Mosè stimolava le passioni più che guarire da queste, e sembrava che Satana estendesse la

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sua tirannia su tutto l’universo. Cristo soltanto venne a portare un aiuto efficace all’umanità in pericolo di morte. È dunque un errore grossolano inventare un Cristo triste e malinconico ed invitarci in suo nome a un’esistenza uggiosa. Tutt’altro, egli solo ci ha mostrato la via più piacevole e più ricca di piaceri autentici...

 - Erasmo da Rotterdam (Rotterdam 1466 o 1469 - Basilea 1536) pubblicò i Colloqui nel 1522. Il testo riportato è tratto da: Erasmo da Rotterdam, Colloqui. L’epicureo, in P. Mesnard, Erasmo, Sansoni, Firenze 1971, pp. 204 ss.

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M, Utopia C’È QUALCOsA DI PIù NATUR ALE CHE DEsIDER ARE IL PIACERE E UNA vITA FELICE? “vivere secondo natura” è un’antica massima della filosofia greca. L’hanno fatta propria un po’ tutte le filosofie etiche dai post-socratici in poi e il tema ricorre anche prima, per esempio nelle riflessioni dei sofisti. Il problema è determinare con sufficiente precisione quale sia la natura umana. È chiaro infatti che se si sceglie di vivere secondo natura, come vogliono i filosofi, tutto cambia a seconda che la natura umana indichi una via o un’altra. si prenda per esempio la questione del piacere e della felicità. Un umanista come Tommaso Moro trova un coro pressoché unanime nella filosofia greca a favore dell’idea che la natura umana richieda, anzi esiga, la ricerca della felicità, mentre i pareri sono molto più sfumati sul piacere. Ma in che cosa consiste la felicità? Quale felicità è richiesta dalla natura? E perché il piacere è spesso visto con sospetto? La natura umana è portata a cercare la virtù, ma tra virtù e piacere può esserci una contraddizione insolubile. se l’uomo ha dei doveri, che la sua stessa natura di essere razionale gli impone, può essere necessario che la ricerca della felicità passi in seconda linea. Tutto però si risolve se si considera la tradizione antica alla luce di un cristianesimo letto in chiave erasmiana, moderato e razionale: virtù, piacere e felicità si conciliano nella natura umana quando questa tende, in serenità di spirito, verso Dio. Moro, amico personale di Erasmo, è sulla sua linea in tema di religione.

Nel campo della filosofia riguardante l’etica quei popoli fanno le stesse dispute che noi, sui beni dell’anima e del corpo e su quelli esteriori, e poi se il nome di beni convenga a tutti questi ovvero alle sole doti dell’anima. Discutono anche sulla virtù e sul piacere, ma il primo e principale problema per essi è in che cosa la felicità umana consiste e se in una ovvero più cose. Nel che veramente mi pare che pieghino troppo dalla parte che rivendica il piacere, in cui ripongono tutta o la maggior parte della felicità umana. E, per vostra maggior meraviglia, è nella religione che cercano il sostegno a una morale così voluttuosa, e sì che quella è grave e severa e quasi burbera e aspra. Mai infatti disputano di felicità senza unire alcuni principi tratti dalla religione con la filosofia che si fonda sulle spiegazioni: senza quelli credono che per la vera ricerca della felicità la ragione di per sé sia manchevole e fiacca. Tali principi sono: l’anima è immortale e nata per bontà di Dio 10

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alla felicità; dopo questa vita per le nostre virtù e buone azioni è assegnato il premio, per le nostre colpe il castigo. E sebbene queste credenze siano proprie della religione, pensano tuttavia che è la ragione quella che ci conduce ad ammetterle ed a crederle; se le leviamo di mezzo, nessun uomo sarebbe sì stupido, sostengono essi arditamente, da non credersi lecita la ricerca del piacere a dritto o a rovescio, badando solo che un piacere minore non ne impedisca uno maggiore, o a non cercarne uno che poi a sua volta abbiamo a ripagar col dolore. Sarebbe poi pretta pazzia, essi pensano, seguire una virtù rigida e difficile, non solo rinunziando a ogni dolcezza della vita, ma abbracciando anche spontaneamente il dolore, se non se ne dovesse aspettare alcun frutto; e quale può essere il frutto, se dopo morto, dopo aver passato cioè tutta la vita senza alcuna dolcezza, il che vuol dire infelicemente, non se ne ottiene nulla? Solo che la felicità, a loro modo di vedere, non è posta in qualsiasi piacere, ma soltanto in quello buono e onesto; alla felicità infatti, come a bene supremo, è spinta la natura umana dalla virtù stessa, alla quale soltanto è data in retaggio la felicità, a detta degli avversari stessi. Definiscono infatti virtù vivere secondo natura, giacché a questo noi siamo stati da Dio conformati; e che poi segue la guida della natura colui che nel bramare o fuggir le cose obbedisce a ragione. La ragione infine accende anzitutto i mortali ad amare e venerare la maestà divina, cui siamo debitori non solo della nostra esistenza, ma anche di poter ottenere la felicità; in secondo luogo ci insegna e ci spinge a vivere quanto meno è possibile in affanno e lietamente nel massimo grado, e ad offrirci a tutti gli altri come collaboratori, conforme ai vincoli di natura, per raggiungere lo stesso scopo. Infatti non è mai esistito un seguace della virtù così duro e rigido, uno spregiatore del piacere tale che t’imponga fatiche, veglie e miserie, senza ordinarti insieme di alleviare, per quanto un uomo può e deve, le miserie e le sventure altrui, e che in nome dell’umanità non creda sommamente lodevole per un uomo esser di salvezza e di sollievo agli altri, visto che è sommamente umano (e non c’è virtù più particolare all’uomo) addolcire le pene altrui e toglier loro ogni amarezza e restituire la vita alla gioia, cioè al piacere. Sarebbe straordinario forse che la natura spingesse qualcuno a rendere lo stesso servigio a se stesso? Giacché o la vita lieta, cioè nei piaceri, non è buona, e in tal caso non solo non devi assistere nessuno per quella, ma ritrarne tutto il meglio che puoi, come da danno mortale; ovvero, se non solo ti è lecito, ma sei in dovere di procurarla agli altri, come buona che è, perché non farlo a te stesso tra i primi, una volta che è conveniente che tu sia favorevole a te non meno che agli altri? Infatti, se la natura ti esorta ad esser buono verso gli altri, non per questo ti comanda di essere con te stesso spietato e inflessibile. Dunque la gioia nella vita, dicono gli Utopiani, cioè il piacere, ci viene imposto dalla natura stessa, come fine

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di tutte le azioni, e vivere secondo i dettati di natura vien definita la virtù. Quando la natura ti sollecita a soccorrere l’altro, affinché la sua vita sia più lieta, è evidente che ti chiede di non ricercare il tuo proprio vantaggio, perché potrebbe procurare danni agli altri. In base a questo principio gli Utopiani ritengono giusto non solo rispettare i patti stipulati tra privati, ma anche osservare le leggi che regolano la distribuzione dei beni, vale a dire le materie prime del piacere, dato che queste stesse leggi sono state, a seconda dei casi, o promulgate con giustizia da un re saggio o sancite dal popolo, con consenso unanime e in totale libertà. Entro questi limiti secondo loro è lecito e saggio ricercare il proprio vantaggio, mentre operare per il bene comune è un preciso dovere morale. È sbagliato privare qualcuno di un piacere per trarne vantaggio, ma privare se stessi di un piacere affinché altri ne abbiano vantaggio è un atto di grande umanità, grazie al quale si guadagna sempre più di quanto si perda, per il fatto stesso che, in primo luogo, si viene immancabilmente ricompensati del bene che si fa e inoltre la coscienza stessa di aver fatto un’opera buona e di aver guadagnato l’affetto e la benevolenza di chi abbiamo aiutato ci procura una soddisfazione interiore tale da superare di molto il piacere fisico cui abbiamo rinunciato. Non da ultimo, come la religione ci insegna, Dio ci premierà per tutti i sacrifici e le rinunzie con il dono di un’eternità perfettamente felice.

 - Tommaso Moro (Londra 1478-1535) scrisse Utopia a partire dal 1515; l’opera fu pubblicata per la prima volta nell’anno successivo. Il testo riportato è tratto da: T. Moro, Utopia, a cura di T. Fiore, Laterza, RomaBari 1993, pp. 176-177.

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B, Canto Circeo CI sONO CAPACITÀ NAsCOsTE DELLA NOsTR A IMMAGINAzIONE CHE POssEDIAMO MA NON sAPPIAMO DI POssEDERE? Il tema dell’immaginazione è trattato da Bruno in contesti molto diversi nelle sue varie opere, perché fra tutte le facoltà dell’uomo è forse la più versatile. Ha infatti la caratteristica di collegare tra loro sfere diverse: la percezione della realtà sensibile, la vita emotiva interiore, la sfera dei concetti. Nel collegarle, stabilisce dei ponti tra loro e delle vie di passaggio da una sfera all’altra. Nei libri in cui mette a tema la mnemotecnica (che non è solo un’arte della memoria, ma è piuttosto una tecnica che ci consente di governare la mente ottenendo da essa risultati molto superiori a quelli abituali), Bruno rivolge verso l’immaginazione un’attenzione particolare, perché la mente è orientata sia verso il mondo esterno (le cose, gli eventi) sia verso il mondo interno (le emozioni, le sensazioni e le idee) sia verso le realtà superiori (la sfera delle realtà al di là del sensibile, che tuttavia operano nel sensibile). L’immaginazione consente alla mente di restituire al mondo la sua unità, stabilendo dei nessi fra tutte queste realtà.

[Alcuni modi di impiegare le immagini per raffigurare cose e parole] Esistono non pochi criteri e modi secondo cui tanto i nomi, tanto le cose stesse possono essere raffigurati mediante un’unica immagine. Per quanto riguarda i modi, questa è la prima distinzione da fare: delle immagini che possono recepire e trattenere su di sé un segno della cosa da rappresentare, alcune hanno similitudine con la cosa, altre invece col nome che la indica. I. Collochiamo dunque in alcuni casi la cosa stessa, qualora si presti ad essere raffigurata dalla fantasia, come avviene quando poniamo nella memoria l’immagine di uno sgabello in luogo dello sgabello reale, l’immagine di un cavallo in luogo del cavallo reale. II. In alcuni casi in luogo di una cosa simile poniamo nella memoria una cosa dal nome simile. Ciò avviene quando poniamo nel luogo mnemonico una cosa figurabile per immagini, la quale col suo stesso nome ci induce a ricordare qualcosa che non può essere rappresentato mediante immagini, ma il cui nome è simile a quello della realtà rappresentata. Poniamo dunque I filosofi del rinascimento

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una figura equina per rappresentare l’equità, mentre l’immagine della vite serve a rappresentare la vita. III. In alcuni casi per via di etimologia andiamo a caccia del concetto da cui deriva l’immagine collocata nella memoria, ovvero da un termine figurabile per immagini andiamo a catturare un termine non figurabile; così muovendo dall’immagine di un romano catturiamo il nome di Roma, o il nome di un monte muovendo dall’immagine di un montanaro. […] VII. In alcuni casi siamo soliti ricordare qualcosa sulla base di un elemento concomitante, come dall’immagine del socio ricordiamo l’altro socio che è sempre in compagnia del primo. Quando dunque un determinato concetto, come «morte», non è figurabile per immagini, può ugualmente essere raffigurato attraverso le immagini concomitanti di una strage o di un cadavere. […] IX. In alcuni casi dall’accidente si giunge a ricordare il sostrato allo stesso modo in cui muovendo dall’immagine di una cosa bianca collocata nella memoria guadagniamo il ricordo della neve, dall’immagine del ballo il ballerino. X. In alcuni casi dal sostrato si giunge a ricordare l’accidente: come dall’immagine di un alveare colmo di miele che abbiamo collocato nella memoria possiamo giungere al ricordo della dolcezza, dall’immagine del leone al ricordo della ferocia, dall’immagine dell’orso al ricordo dell’ira. XI. In alcuni casi dal geroglifico si giunge a ricordare ciò che da questo è designato: così infatti dalla bilancia e dalla stadera è designata la giustizia, dallo specchio la prudenza. XII. In alcuni casi dall’insegna si giunge a ricordare ciò che da questa è insignito: così infatti dalla spada scaturisce il ricordo di Marte, dalla chiave quello di Giano. […] XIV. In alcuni casi da ciò che è contemporaneo si giunge a ricordare il tempo: così dai fiori scaturisce il ricordo dell’aprile, dal torchio quello dell’autunno e così via. XV. In alcuni casi da una circostanza si giunge a ricordare il luogo o la persona cui la circostanza stessa rimanda: così da un determinato costume scaturisce il ricordo di un tedesco o della Germania, di un africano o dell’Africa. XVI. Da un’immagine affine si giunge a ricordare ciò che possiamo assimilare a quella, come dall’immagine di un vasaio intento a modellare l’argilla ci viene offerta l’opportunità di riflettere sull’attività dell’artefice universale che modella l’universo plasmabile. In una grossa pianta di senape si cela questa affermazione: «in un piccolo seme e principio preesistono gli effetti più grandi», per cui «un piccolo errore al principio è un grande errore alla fine». […] XXV. Dallo strumento si giunge a ricordare l’artefice, e in generale colui che se ne serve abitualmente, come dalla sfera e dall’astrolabio posso ricordare l’astrologo.

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XXVI. Da quanto dimostra attitudine a fare qualcosa si giunge a ricordare ciò cui si riferisce l’attitudine stessa e che altrimenti non potrebbe essere figurato per immagini: così dall’immagine di una donna intenta a studiare la grammatica – immagine che rappresenta una sostanza congiunta all’accidente, ovvero un soggetto con la sua qualità – potrei concepire la grammatica stessa, che è, per così dire, qualità non congiunta a un sostrato; così dall’immagine di un musico potrei giungere a concepire la musica. Con un procedimento simile dal possessore si giunge a ricordare la cosa posseduta, come dall’immagine del padrone di un terreno scaturisce il ricordo del terreno stesso, da un principe quello del suo principato, per quanto in questo caso si tratti di un predicato di genere diverso. [...] XXVII. Dalla specie si giunge a ricordare il genere, come dal bue, raffigurabile per immagini e collocato in un luogo mnemonico, posso ricordare il genere degli animali, concetto che non può essere raffigurato per immagini. XXVIII. Dal relativo si giunge a ricordare il correlativo, come dall’immagine del padrone scaturisce il ricordo del servo. […] XXX. Dall’agente si giunge a ricordare l’atto o l’azione: così dall’immagine del ladro scaturisce il ricordo del furto.

 - Giordano Bruno (Nola 1548 - Roma 1600) scrisse il Cantus circaeus (Canto Circeo) nel 1582. Il testo riportato è tratto da: G. Bruno, Canto Circeo, in Opere mnemotecniche, 2 voll., a cura di M. Matteoli, R. Sturlese e M. Tirinnanzi, Adelphi, Milano 2004, vol. I, pp. 705 ss.

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B, L’immenso e gli innumerevoli NON È DAv vERO PENsABILE CHE EsIsTA UN MONDO sOLTANTO, CIOÈ IL NOsTRO: LA PERFEzIONE DELLA NATUR A NON IMPLICA FORsE INFINITI MONDI? L’umanesimo italiano ha guardato al mondo classico come a una fonte primaria di saggezza. Lo sguardo dei filosofi e degli umanisti si è esteso fino ai primordi della civiltà, molto al di là della sapienza prima “pagana” poi “cristiana”. Un esempio è la nozione di natura, che diversi filosofi italiani del Cinquecento intendono in termini affini alla cultura di fondo dei presocratici. Bruno concepisce la natura vivente e perfetta, laddove la perfezione deriva dal fatto che essa è la misura per definire qualitativamente gli esseri che la compongono. In netta polemica con Platone (ma in accordo con alcune filosofie elleniste), Bruno rifiuta l’idea che esistano due realtà qualitativamente diverse. L’unità della natura non rimanda però alla compiutezza di qualcosa di finito: al contrario Bruno concepisce TSWMXMZEQIRXI mondi infiniti. L’uomo vive in un universo che non ha limiti, in nessun senso. Un universo perfetto nella sua reale e compiuta apertura.

[Libro I] Capitolo 1. Il dono degli Dei Capitolo 2. L’abitudine a credere è l’ostacolo maggiore per la conoscenza Capitolo 3. Non esistono cieli, ma un unico etereo spazio che abbraccia tutti gli astri, come la Terra ed il Sole. Vi sono due generi di astri, i Soli e le Terre Capitolo 4. La finitezza dell’universo contrasta con il senso e con la ragione Capitolo 5. Né la Terra, né, di conseguenza, alcun altro pianeta sono al centro dell’universo. Anche le comete sono pianeti e le Terre ossia i mondi sono della stessa specie Capitolo 6. Ne consegue che non esiste l’estrema superficie del mondo Capitolo 7. Lo spazio che è oltre questo mondo non è diverso da quello che lo contiene

[Libro II] Capitolo 9. Nello spazio infinito, infiniti sono i mondi finitamente mobili, infiniti i Soli, cioè le stelle fisse, e le Terre, cioè i pianeti; non è stato de-

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terminato il numero dei pianeti intorno a questo Sole, né quello dei pianeti visibili intorno agli altri Soli Capitolo 13. Si dimostra la perfezione dell’universo dal fatto e con il fatto che esso è infinito

[Libro III] Capitolo 1. Dall’ordine naturale della conoscenza e dell’esperienza risulta più che dimostrata l’omogeneità della sostanza degli altri mondi, ossia delle stelle, rispetto a questo nostro mondo Capitolo 2. La stessa cosa appare necessariamente ai sensi di chi abita gli astri e si spinge nel cielo Capitolo 3. La Terra non è al centro più di qualsiasi altro mondo Capitolo 4. La Terra è un astro con macchie ed è cielo per la Luna come la Luna per la Terra; essa appare a Venere sotto l’aspetto di una stella priva di macchie così come Venere appare alla Terra Capitolo 5. Si esaminano gli argomenti con cui il volgo dei filosofi si convince che la Terra è al centro un corpo grave, denso e pesante più di quanto lo sono gli altri astri. L’elemento del fuoco non è tale quale essi affermano e l’ordine delle sfere degli elementi è completamente artificioso e ridicolo Capitolo 6. Non esiste alcun moto intorno al centro, né v’è in natura alcun cerchio che siano definibili con una esattezza geometrica e non esiste nessun moto che sia in qualche modo regolare per velocità e per lentezza Capitolo 7. Deduciamo che è senza senso la fantastica teoria dell’anno del mondo che, dopo un determinato numero di anni, vuole si ripetano le medesime vicende e che gli astri riassumano medesimi aspetti e formino medesimi sistemi Capitolo 8. È necessario che uno sia lo spazio immenso nel cielo; è necessario che due siano le specie degli astri: le Terre erranti e i Soli fissi

[Libro I – Capitolo I] Alla mente che ha ispirato il mio cuore con arditezza d’immaginazione piacque dotarmi le spalle di ali e condurre il mio cuore verso una meta stabilita da un ordine eccelso: in nome del quale è possibile disprezzare e la fortuna e la morte. Si aprono arcane porte e si spezzano le catene che solo pochi elusero e da cui solo pochi si sciolsero. I secoli, gli anni, i mesi, i giorni, le numerose generazioni, armi del tempo, per le quali non sono duri né il bronzo, né il diamante, hanno voluto che noi rimanessimo immuni dal loro furore. Così, io sorgo impavido a solcare con l’ali l’immensità dello spazio, senza che il pregiudizio mi faccia arrestare contro le sfere celesti, la cui esistenza fu erroneamente dedotta da un falso principio, affinché fossimo come rinchiusi in un fittizio carcere ed il tutto fosse costretto entro adamantine muraglie.

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Ma per me migliore è la mente che ha disperso ovunque quelle nubi e ha distrutto l’Olimpo, che accomuna gli altri in un’unica prigione dal momento che ne ha dissolto l’immagine, per cui da ogni parte liberamente si espande il sottile aere. Mentre mi incammino sicuro, felicemente innalzato da uno studio appassionato, divengo Guida, Legge, Luce, Vate, Padre, Autore e Via: mentre mi sollevo da questo mondo verso altri mondi lucenti e percorro da ogni parte l’etereo spazio, lascio dietro le spalle, lontano, lo stupore degli attoniti. È una convinzione fin troppo trita quella secondo cui tutte le cose tendano allo stesso fine verso cui sono ordinate, secondo la loro essenza. Ogni cosa si orienta in maniera tanto più valida ed efficace verso il Bene, quanto più perfetta è la natura che ha avuto in sorte. Ciò significa che le cose semplici tendono al semplice, quelle corporee al corporeo, quelle divine al divino.

 - Giordano Bruno (Nola 1548 - Roma 1600) pubblicò il De innumerabilibus, immenso et infigurabili (L’immenso e gli innumerevoli) a Francoforte nel 1591. Il testo riportato è tratto da: G. Bruno, L’immenso e gli innumerevoli, in Opere latine, a cura di C. Monti, Utet, Torino 1980, pp. 417 ss., 811 ss.

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Capitolo

2 I filosofi del primo Seicento Nella prima metà del Seicento assistiamo a profondi mutamenti concettuali. Nuovi paradigmi scientifici rivoluzionano la conoscenza del mondo naturale, spiegato ricorrendo non più a principi metafisici ma a osservazioni sperimentali, a ragionamenti induttivi e a dimostrazioni matematiche. Il nuovo metodo scientifico, dopo aspre lotte contro il sapere tradizionale, si afferma come il modello rigoroso di ricerca della verità, applicabile non solamente alle scienze empiriche, ma anche alle conoscenze del mondo umano, della politica e della storia. Anche la metafisica viene riorientata, a iniziare da Cartesio il quale, abbandonato il primato dell’essere, fonda il proprio razionalismo sulla centralità del soggetto pensante che si fa garante dell’identità di certezza soggettiva e verità oggettiva.

B, Novum Organum La mente usa e governa iL Linguaggio o è iL Linguaggio a orientare La mente? il percorso che la mente compie alla ricerca della verità è insidiato da molte difficoltà, alcune delle quali la riguardano dall’interno, perché costituiscono limiti che le sono propri. si prenda il caso delle parole (nel suo linguaggio per immagini Bacone parla di “idoli del mercato”), cioè di uno degli strumenti fondamentali che la mente utilizza per il pensiero discorsivo. Che cosa accade se le parole designano cose che non ci sono? accade che la mente le tratta come se fossero esistenti e teorie del tutto vane che danno credito all’esistenza di qualcosa che non c’è ne traggono forza (per esempio la parola “fuoco” riferita a un elemento specifico, secondo le convinzioni degli antichi che parlavano del fuoco come di uno dei quattro elementi). Che cosa accade se una stessa parola mette insieme, confondendole, realtà diverse? accade che la mente ha poi difficoltà a distinguere la specifica realtà di ciascuna, perché non ha parole specifiche per designarla. La scienza richiede che il linguaggio sia sorvegliato, altrimenti il linguaggio sorveglierà la mente, e la scienza dovrà cedere il posto ai pregiudizi.

LIX. Ma i più molesti di tutti sono gli idoli del mercato che si sono insinuati nell’intelletto per l’associazione delle parole e dei nomi. Gli uomini infatti credono che la loro ragione imperi sulle parole, ma accade anche che le parole ritorcano e riflettano sull’intelletto la loro forza e ciò rende sofistiche e inattive la filosofia e le scienze. Le parole, nella maggior parte dei casi, assumono il loro senso dall’opinione del volgo e delimitano le cose mediante linee ben visibili all’intelletto volgare. Quando poi un intelletto più acuto o una più diligente osservazione vuole spostare quelle linee perché siano più corrispondenti alla natura, le parole si ribellano. Di qui deriva il fatto che le grandi e solenni dispute degli uomini dotti si mutano spesso in controversie sulle parole e sui nomi; proprio da questi (secondo il prudente costume dei matematici) sarebbe più saggio cominciare, riportando ordine nelle controversie mediante definizioni. Tuttavia neppure le definizioni, trattandosi di cose naturali e materiali, possono rimediare a questo male, poiché le stesse definizioni constano di parole e le parole generano altre parole. Pertanto è necessario far ricorso a istanze particolari e a serie e ordini di istanze. Parleremo di quest’argomento trattando del modo e del metodo con cui stabilire le nozioni e gli assiomi.

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LX. Gli idoli che s’impongono all’intelletto per mezzo delle parole sono di due generi: o sono nomi di cose che non esistono (come ci sono cose prive di nome per mancanza di osservazione, così ci sono nomi a cui non corrispondono cose perché derivano da fantastiche supposizioni) o sono nomi di cose che esistono ma confusi, mal definiti e astratti dalle cose in modo affrettato e parziale. Del primo genere sono: la fortuna, il primo mobile, le sfere dei pianeti, l’elemento fuoco e fantasie di questo tipo che derivano da teorie false e vane. Da questo genere di idoli ci si libera più facilmente perché essi possono essere distrutti attraverso un costante rifiuto e abbandono delle teorie. L’altro genere di idoli è invece assai complesso e profondamente radicato perché deriva da una cattiva e inesperta astrazione. Si prenda una parola (per esempio umido) e si veda in qual modo si accordino fra loro le varie cose da questa parola significate; si troverà che la parola umido è solo una nota confusa di azioni diverse che non possono essere ridotte a uno stesso significato. Quel termine significa infatti: ciò che si spande facilmente intorno a un altro corpo; ciò che è privo di consistenza e di coesione; ciò che cede facilmente in tutte le direzioni; ciò che si divide e si disperde facilmente in ogni senso; ciò che si riunisce e si raccoglie facilmente; ciò che facilmente scorre e si mette in moto; ciò che aderisce facilmente a un altro corpo e lo bagna; ciò che passa facilmente allo stato liquido o si scioglie mentre prima era solido. Pertanto, quando si giunge a predicare e a imporre il termine umido, in base alla preferenza per l’uno o l’altro significato, si dovrebbe dire che la fiamma è umida o che l’aria non è umida o che è umida la polvere sottile o che è umido il vetro. Da ciò appare facilmente che questa nozione, è stata astratta superficialmente e senza le dovute verifiche, soltanto dall’acqua e dai liquidi comuni e volgari. Nelle parole esistono diversi gradi di aberrazione e di errore. Il genere meno difettoso è quello dei nomi di alcune sostanze, particolarmente delle specie inferiori e bene dedotte (per esempio la nozione di creta o di fango è buona; quella di terra cattiva); più difettoso è il genere dei nomi di azioni come generare, corrompere, alterare; più difettoso di tutti è il genere dei nomi di qualità (ad eccezione di quelle percepite immediatamente dal senso) come grave, leggero, tenue, denso, ecc. Tuttavia fra tutte queste nozioni se ne possono trovare alcune un po’ migliori di altre, a seconda della quantità di cose che cadono nell’ambito della sensibilità umana.

 - Francesco Bacone (Londra 1561-1626), nome italianizzato di Francis Bacon, pubblicò il Novum Organum nel 1620. Il testo riportato è tratto da: F. Bacone, Novum Organum, in Scritti filosofici, a cura di P. Rossi, Utet, Torino 1975, pp. 552 ss.

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G, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo QuaLi sono Le PossiBiLitÀ ConosCitive DeLL’uomo in r aPPorto aLL’inFinita saPienZa Di Dio? L’uomo ha la capacità di promuovere autonomamente la ricerca scientifica perché possiede in sé le facoltà con cui studiare la natura: i sensi e l’intelletto, che gli sono stati donati da Dio. L’origine divina delle capacità conoscitive dell’uomo – e quindi la garanzia che le conoscenze che ne derivano sono assolutamente affidabili – fa sì che il sapere umano, pur incommensurabilmente inferiore al sapere divino per ampiezza (I\XIRWMZI), può tuttavia nelle “matematiche pure”, applicate alle scienze naturali, eguagliare questo in quanto a validità e grado di certezza (MRXIRWMZI).

Sagredo. Estrema temerità mi è parsa sempre quella di coloro che voglion far la capacità umana misura di quanto possa e sappia operar la natura, dove che, all’incontro, e’ non è effetto alcuno in natura, per minimo che e’ sia, all’intera cognizion del quale possano arrivare i più specolativi ingegni. Questa così vana prosunzione d’intendere il tutto non può aver principio da altro che dal non avere inteso mai nulla, perché, quando altri avesse esperimentato una volta sola a intender perfettamente una sola cosa ed avesse gustato veramente come è fatto il sapere, conoscerebbe come dell’infinità dell’altre conclusioni niuna ne intende. Salviati. Concludentissimo è il vostro discorso; in confermazion del quale abbiamo l’esperienza di quelli che intendono o hanno inteso qualche cosa, i quali quanto più sono sapienti, tanto più conoscono e liberamente confessano di saper poco; ed il sapientissimo della Grecia, e per tale sentenziato dagli oracoli, diceva apertamente conoscer di non saper nulla. […] Salviati. Molto acutamente opponete; e per rispondere all’obbiezione, convien ricorrere a una distinzione filosofica, dicendo che l’intendere si può pigliare in due modi, cioè intensive, o vero extensive: e che extensive, cioè quanto alla moltitudine degli intelligibili, che sono infiniti, l’intender umano è come nullo, quando bene egli intendesse mille proposizioni, perché mille rispetto all’infinità è come un zero; ma pigliando l’intendere intensive, in quanto cotal termine importa intensivamente, cioè perfettamente, alcuna proposizione, dico che l’intelletto umano ne intende alcune così perfettamente, e ne ha così assoluta certezza, quanto se n’abbia l’in-

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tessa natura; e tali sono le scienze matematiche pure, cioè la geometria e l’aritmetica, delle quali l’intelletto divino ne sa bene infinite proposizioni di più, perché le sa tutte, ma di quelle poche intese dall’intelletto umano credo che la cognizione agguagli la divina nella certezza obiettiva, poiché arriva a comprenderne la necessità, sopra la quale non par che possa esser sicurezza maggiore. Simplicio. Questo mi pare un parlar molto resoluto ed ardito. Salviati. Queste son proposizioni comuni e lontane da ogni ombra di temerità o d’ardire e che punto non detraggono di maestà alla divina sapienza, sì come niente diminuisce la Sua onnipotenza il dire che Iddio non può fare che il fatto non sia fatto. Ma dubito, signor Simplicio, che voi pigliate ombra per esser state ricevute da voi le mie parole con qualche equivocazione. Però, per meglio dichiararmi, dico che quanto alla verità di che ci danno cognizione le dimostrazioni matematiche, ella è l’istessa che conosce la sapienza divina; ma vi concederò bene che il modo col quale Iddio conosce le infinite proposizioni, delle quali noi conosciamo alcune poche, è sommamente più eccellente del nostro, il quale procede con discorsi e con passaggi di conclusione in conclusione, dove il Suo è di un semplice intuito: e dove noi, per esempio, per guadagnar la scienza d’alcune passioni del cerchio, che ne ha infinite, cominciando da una delle più semplici e quella pigliando per sua definizione, passiamo con discorso ad un’altra, e da questa alla terza, e poi alla quarta, etc., l’intelletto divino con la semplice apprensione della sua essenza comprende, senza temporaneo discorso, tutta la infinità di quelle passioni; le quali anco poi in effetto virtualmente si comprendono nelle definizioni di tutte le cose, e che poi finalmente, per esser infinite, forse sono una sola nell’essenza loro e nella mente divina. Il che né anco all’intelletto umano è del tutto incognito, ma ben da profonda e densa caligine adombrato, la qual viene in parte assottigliata e chiarificata quando ci siamo fatti padroni di alcune conclusioni fermamente dimostrate e tanto speditamente possedute da noi, che tra esse possiamo velocemente trascorrere: perché in somma, che altro è l’esser nel triangolo il quadrato opposto all’angolo retto eguale a gli altri due che gli sono intorno, se non l’esser i parallelogrammi sopra base comune e tra le parallele, tra loro eguali? e questo non è egli finalmente il medesimo che essere eguali quelle due superficie che adattate insieme non si avanzano, ma si racchiuggono dentro al medesimo termine? Or questi passaggi, che l’intelletto nostro fa con tempo e con moto di passo in passo, l’intelletto divino, a guisa di luce, trascorre in un instante, che è l’istesso che dire, gli ha sempre tutti presenti. Concludo per tanto, l’intender nostro, e quanto al modo e quanto alla moltitudine delle cose intese, esser d’infinito intervallo superato dal divino; ma non però l’avvilisco tanto, ch’io lo reputi assolutamente nullo; anzi, quando io vo considerando quante e

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quanto maravigliose cose hanno intese investigate ed operate gli uomini, purtroppo chiaramente conosco io ed intendo, esser la mente umana opera di Dio, e delle più eccellenti. Sagredo Io son molte volte andato meco medesimo considerando, in proposito di questo che di presente dite, quanto grande sia l’acutezza dell’ingegno umano; e mentre io discorro per tante e tanto maravigliose invenzioni trovate da gli uomini, sì nelle arti come nelle lettere, e poi fo reflessione sopra il saper mio, tanto lontano dal potersi promettere non solo di ritrovarne alcuna di nuovo, ma anco di apprendere delle già ritrovate, confuso dallo stupore ed afflitto dalla disperazione, mi reputo poco meno che infelice. S’io guardo alcuna statua delle eccellenti, dico a me medesimo: «E quando sapresti levare il soverchio da un pezzo di marmo, e scoprire sì bella figura che vi era nascosa? quando mescolare e distendere sopra una tela o parete colori diversi, e con essi rappresentare tutti gli oggetti visibili, come un Michelagnolo, un Raffaello, un Tiziano?». S’io guardo quel che hanno ritrovato gli uomini nel compartir gl’intervalli musici, nello stabilir precetti e regole per potergli maneggiar con diletto mirabile dell’udito, quando potrò io finir di stupire? Che dirò de i tanti e sì diversi strumenti? La lettura de i poeti eccellenti di qual meraviglia riempie chi attentamente considera l’invenzion de’ concetti e la spiegatura loro? Che diremo dell’architettura? che dell’arte navigatoria? Ma sopra tutte le invenzioni stupende, qual eminenza di mente fu quella di colui che s’immaginò di trovar modo di comunicare i suoi più reconditi pensieri a qualsivoglia altra persona, benché distante per lunghissimo intervallo di luogo e di tempo? parlare con quelli che son nell’Indie, parlare a quelli che non sono ancora nati né saranno se non di qua a mille e dieci mila anni? e con qual facilità? con i vari accozzamenti di venti caratteruzzi sopra una carta. Sia questo il sigillo di tutte le ammirande invenzioni umane, e la chiusa de’ nostri ragionamenti di questo giorno.

 - Galileo Galilei (Pisa 1564 - Arcetri 1642) scrisse il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo nel 1632. Il testo riportato è tratto da: G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, a cura di L. Sosio, Einaudi, Torino 1970, pp. 60-62.

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G, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo è PossiBiLe FonDare La sCienZa DeLLa natur a suLLa r aZionaLitÀ umana? Le leggi della natura individuate dagli antichi sono molto diverse da quelle della scienza moderna, ma tra lo scienziato moderno e l’antico si può stabilire una continuità di lavoro, perché sono disponibili (almeno in parte) le loro opere e sono riproducibili i loro esperimenti, le loro osservazioni, le loro dimostrazioni. La mente dell’uomo di oggi opera in continuità con quella dell’uomo di ieri. Perché allora non intendere le autorità del passato altro che come validissimi ricercatori la cui opera è, semplicemente, da continuare? nello stesso e libero spirito di ricerca. non farebbero così anche loro se vivessero oggi?

Simplicio Aristotile non si è acquistata sì grande autorità se non per la forza delle sue dimostrazioni e della profondità de i suoi discorsi: ma bisogna intenderlo, e non solamente intenderlo, ma aver tanta gran pratica ne’ suoi libri, che se ne sia formata un’idea perfettissima, in modo che ogni suo detto vi sia sempre innanzi alla mente; perché è non ha scritto per il volgo, né si è obligato a infilzare i suoi silogismi col metodo triviale ordinato, anzi, servendosi del perturbato, ha messo talvolta la prova di una proposizione fra testi che par che trattino di ogni altra cosa: e però bisogna aver tutta quella grande idea, e saper combinar questo passo con quello, accozzar questo testo con un altro remotissimo; ch’e’ non è dubbio che chi averà questa pratica, saprà cavar da’ suoi libri le dimostrazioni di ogni scibile, perché in essi è ogni cosa. […] Salviati Il fatto non cammina così, Sig. Simplicio sono alcuni suoi seguaci troppo pusillanimi, che danno occasione, o, per dir meglio, che darebbero occasione, di stimarlo meno, quando noi volessimo applaudere alle loro legereze. E voi, ditemi in grazia, sete così semplice che non intendiate che quando Aristotile fusse stato presente a sentir il dottor che lo voleva far autor del telescopio, si sarebbe molto più alterato contro di lui, che contro quelli che del dottore e delle sue interpretazioni si ridevano? Avete voi forse dubbio che quando Aristotile vedesse le novità scoperte in cielo, e’ non fusse per mutar opinione e per emendar i suoi libri e per accostarsi alle più sensate dottrine, discacciando da sé quei così poveretti di cervello che troppo pusillanimamente s’inducono a voler sostenere ogni suo detto, senza intendere che quando Aristotile fusse tale quale essi se lo figurano, sarebbe un cervello indocile, una mente ostinata, un animo pieno di barbarie, un voi filosofi del primo seicento

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ler tirannico, che, reputando tutti gli altri come pecore stolide, volesse che i suoi decreti fussero anteposti a i sensi, alle esperienze, alla natura istessa? Sono i suoi seguaci che hanno data l’autorità ad Aristotile, e non esso che se le sia usurpata o presa; [...] Io mi son più volte maravigliato come possa esser che questi puntuali mantenitori d’ogni detto d’Aristotile non si accorgano di quanto gran progiudizio e’ sieno alla reputazione ed al credito di quello, e quanto, nel volergli accrescere autorità, gliene detraggano; perché, mentre io gli veggo ostinati in voler sostenere proposizioni le quali io tocchi con mano esser manifestamente false, ed in volermi persuadere che così far convenga al vero filosofo e che così farebbe Aristotile medesimo, molto si diminuisce in me l’opinione che egli abbia rettamente filosofato intorno ad altre conclusioni a me più recondite; ché quando io gli vedessi cedere e mutare opinione per le verità manifeste, io crederei che in quelle dove e’ persistessero, potessero avere salde dimostrazioni, da me non intese o sentite. [...] Simplicio Ma quando si lasci Aristotile, chi ne ha da essere scorta nella filosofia? nominate voi qualche autore. Salviati Ci è bisogno di scorta ne i paesi incogniti e selvaggi, ma ne i luoghi aperti e piani i ciechi solamente hanno bisogno di guida; e chi è tale, è ben che si resti in casa, ma chi ha gli occhi nella fronte e nella mente, di quelli si ha da servire per iscorta. Né perciò dico io che non si deve ascoltare Aristotile, anzi laudo il vederlo e diligentemente studiarlo, e solo biasimo il darsegli in preda in maniera che alla cieca si sottoscriva a ogni suo detto e, senza cercarne altra ragione, si debba avere per decreto inviolabile; il che è un abuso che si tira dietro un altro disordine estremo, ed è che altri non si applica più a cercar d’intender la forza delle sue dimostrazioni. E qual cosa è più vergognosa che ’l sentir nelle pubbliche dispute, mentre si tratta di discussioni dimostrabili, uscir un di traverso con un testo, e bene spesso scritto in ogni altro proposito, e con esso serrar la bocca all’avversario? Ma quando pure voi vogliate continuare in questo modo di studiare, deponete il nome di filosofi, e chiamatevi o istorici o dottori di memoria; ché non conviene che quelli che non filosofano mai, si usurpino l’onorato titolo di filosofo. […] Però Sig. Simplicio, venite pure con le ragioni e con le dimostrazioni, vostre o di Aristotile, e non con testi e nude autorità, perché i discorsi nostri hanno a essere intorno al mondo sensibile, e non sopra un mondo di carta.

 - Galileo Galilei (Pisa 1564 - Arcetri 1642) scrisse il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo nel 1632. Il testo riportato è tratto da: G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, a cura di L. Sosio, Einaudi, Torino 1970, pp. 64-66.

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H, Leviatano Come Diventare, tutti insieme, un soLo CorPo PoLitiCo? La nozione di “contratto sociale” appartiene alla tradizione della filosofia politica. Quando i filosofi del seicento la riprendono, essa ha una lunga storia che risale ai greci. Detto questo, va sottolineato l’aspetto di novità che caratterizza il dibattito seicentesco su questo tema, che rimanda all’origine dello Stato. La novità è innanzitutto nel metodo: un filosofo della politica come Hobbes è interessato a definire una “meccanica” delle azioni degli uomini che possa portare a soluzione l’essenziale questione della convivenza civile nella sicurezza; a questo fine opera seguendo le forze in gioco, come farebbe un fisico in laboratorio, e studiando il modo di comporle. Lo snodo essenziale che definisce la dinamica del contratto è dato dalla reciprocità: cedo il mio diritto a governare me stesso a condizione che tu faccia altrettanto. nell’argomentazione di Hobbes non c’è passionalità politica – scrive da scienziato della stessa, non da protagonista dell’azione che la riguarda; c’è, piuttosto, analisi razionale delle condizioni per raggiungere un fine: quello della sicurezza della vita civile (e della vita in quanto tale). La condizione è che il contratto sociale dia allo stato l’effettivo potere di garantire che questo fine sia raggiunto.

1. Il fine dello stato: la sicurezza individuale L causa finale, il fine o il disegno degli uomini (che per natura amano la libertà e il dominio sugli altri) nell’introdurre ciò che esercita su di loro quel controllo sotto il quale li vediamo vivere negli stati, è la previsione della propria conservazione e, con questo, di una vita più appagante, vale a dire la previsione di sottrarsi a quella miserabile condizione di guerra, che è necessariamente conseguente (come si è mostrato nel tredicesimo capitolo) alle passioni naturali degli uomini, quando non c’è un potere visibile che li tenga in soggezione e che, con la paura della punizione, li vincoli all’adempimento dei loro patti e all’osservanza delle leggi di natura esposte nei capitoli quattordicesimo e quindicesimo.

2. Ciò che non si deve avere dalla legge di natura Infatti, le leggi di natura (come la giustizia, l’equità, la modestia, la pietà e, insomma, fare agli altri quello che vorremmo fosse fatto a noi) in sé, senza il terrore di qualche potere che le faccia osservare, sono contrarie

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alle nostre passioni naturali, che ci conducono alla parzialità, all’orgoglio, alla vendetta e simili. E senza spada i patti non sono che parole, prive di ogni forza di rendere sicuro un uomo. Quindi, nonostante le leggi di natura (che ognuno segue quando ha la volontà di seguirle e quando può farlo con sicurezza), se non viene eretto un potere o se non è abbastanza grande per la nostra sicurezza, ogni uomo vuole e può fare legittimamente affidamento sulla propria forza e sulla propria abilità per premunirsi contro tutti gli altri uomini. E, in tutti i luoghi in cui gli uomini hanno vissuto in piccole famiglie, rubare e saccheggiarsi l’un l’altro è stato un mestiere ben lungi dall’essere stimato contro la legge di natura, perché, più grandi erano i saccheggi che ottenevano, più grande era il loro onore e, nel fare questo, non si osservavano altre leggi che quelle dell’onore, cioè l’astenersi dalla crudeltà, lasciando agli uomini le loro vite e i loro strumenti per coltivare. E, come facevano allora le piccole famiglie, così oggi le città e i regni, che non sono altro che famiglie più grandi, allargano per la propria sicurezza i loro domini ad ogni pretesto di pericolo e di paura d’invasione o di assistenza che può essere data agli invasori, sforzandosi più che possono di assoggettare o indebolire i loro vicini con l’uso aperto della violenza e con arti segrete, facendolo giustamente per la mancanza di altri tipi di garanzia; e per questo vengono ricordati con onore nelle epoche successive.

13. Generazione e definizione dello stato Per erigere un tale potere comune, che sia capace di difenderli dalle invasioni degli stranieri e dai torti reciproci e, quindi, di renderli sicuri in modo che possano nutrirsi con le loro attività e con i frutti della terra e vivere felicemente, l’unica maniera è quella di conferire tutto il loro potere e la loro forza ad un solo uomo o ad una assemblea di uomini, che possa ridurre tutte le loro volontà, con la pluralità di voci, ad un’unica volontà. Questo equivale a nominare un uomo o un’assemblea di uomini per rappresentare la loro persona e significa che ognuno di loro si riconosce e ammette di essere l’autore di tutto ciò che attuerà chi rappresenta la sua persona o ne causerà l’attuazione per quanto riguarda la pace e la sicurezza comune. Così, tutti quanti sottomettono le proprie volontà alla sua volontà e i propri giudizi al suo giudizio. Questo è più che acconsentire o concordare: è l’unità reale di tutti quanti in una ed una stessa persona, compiuta attraverso il patto di ogni uomo con ogni altro uomo, come se ogni uomo dicesse ad ogni altro io autorizzo e cedo il mio diritto ad autogovernarmi a questo uomo o a questa assemblea di uomini, a questa condizione: che tu gli ceda il tuo diritto ed autorizzi tutte le sue azioni in modo simile. Fatto questo, la moltitudine così unita in una persona si chiama , in latino . Questa è la generazione del grande  o piuttosto (per parlare in maniera più riverente) di quel Dio mortale a cui dobbiamo, sotto il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa. Infatti, con l’autorità che gli è stata 28

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data da ogni singolo uomo nello stato, egli detiene l’uso di tutto il potere e di tutta la forza che gli sono stati conferiti, tanto che, con il terrore suscitato da queste cose, è in grado di conformare la volontà di tutti alla pace in patria e all’aiuto reciproco contro i nemici all’estero. E consiste in lui l’essenza dello stato, che (per definirla) è una persona dei cui atti una grande moltitudine si è resa autrice in ogni suo singolo componente, attraverso dei patti reciprocamente stipulati, al fine di metterla in condizione di usare la forza e i mezzi di tutti loro nel modo che riterrà opportuno per la loro pace e la loro difesa comune.

14. Che cosa sono il sovrano e il suddito Chi si fa carico di questa persona si chiama  e si dice che ha il potere sovrano; tutti gli altri sono suoi .

15. [I due modi per ottenere il potere sovrano] Si può ottenere il potere sovrano in due modi. Il primo con la forza naturale, come quando un uomo fa dei figli per sottomettere loro e i loro figli al suo governo, essendo capace di distruggerli se si rifiutano o quando sottomette i suoi nemici alla sua volontà con la guerra, risparmiando loro la vita a questa condizione. Il secondo quando gli uomini sono d’accordo di sottomettersi a un qualche uomo o assemblea di uomini volontariamente, confidando nella sua protezione contro tutti gli altri. Quest’ultimo si può chiamare uno stato politico o uno stato per istituzione e il primo uno stato per acquisizione.

 - Thomas Hobbes (Westport 1588 - Hardwick 1679) pubblicò il Leviatano nel 1651. Il testo riportato è tratto da: T. Hobbes, Leviatano, a cura di R. Santi, Bompiani, Milano 2001, pp. 274 ss.

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H, L’uomo è PossiBiLe FonDare una sCienZa DeLLe Passioni umane e ComPrenDerne r aZionaLmente La natur a? Le passioni appartengono alla sfera della vita interiore meno permeabile da parte della ragione. una consolidata tradizione filosofica che risale a Platone, agli stoici e ad altri filosofi greci, le ha per lo più collocate in posizione contraria alla razionalità umana, perché la ragione fa fatica a contenerle o a dominarle, e persino a non lasciarsene condizionare. è tuttavia evidente che il tentativo di fondare la conoscenza umana su basi razionali perseguito dai filosofi del primo seicento non avrebbe speranze di successo se non riuscisse a dare una spiegazione razionale della natura delle passioni, perché la loro importanza nella vita è decisiva: in fondo esse esprimono la vita stessa, sono REXYVEPM al pari di ogni altra manifestazione delle forze della realtà. esprimono anch’esse la natura. Devono quindi essere comprensibili al pari di qualsiasi altra forza. Lo schema del meccanismo naturale, in Hobbes di impostazione materialista, consente allora di interpretare le passioni come forze e di tentare di identificare le leggi (razionali, cioè comprensibili da parte della mente) che le governano.

Gli affetti o turbamenti dell’animo sono specie di desiderio o di avversione, tenuto conto delle differenze provenienti dalla diversità degli oggetti che desideriamo o verso i quali proviamo avversione, e delle circostanze. […] In quanto il bene che ad uno tocca in sorte si concepisce senza compenso di alcun male conseguente, quello che è il godimento del bene, l’affetto, si chiama gioia. Al contrario, se si concepisce un male incombente senza il concetto del bene che compensi quel male stesso, l’affetto si chiama odio; ed ogni male, in quanto incombe, si dice odioso. Perciò, odiamo i mali che non possiamo né superare né evitare. Ma, quando concepiamo, in una con il male, il mutamento di esso in modo che lo stesso male si eviti, nasce quell’affetto che chiamiamo speranza. Allo stesso modo, se, incombendo il bene, concepiamo un modo in cui si perde, o se immaginiamo che se ne trae un male a quello connesso, si dice che abbiamo paura. Perciò, è chiaro che speranza e paura si alternano tra di loro in modo tale che non c’è quasi uno spazio di tempo così breve che non possa conte-

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nere un loro alterno intervento; e, quindi, speranza e paura devono dirsi turbamenti allorché tutte e due sono contenute in uno spazio di tempo molto breve e prendono semplicemente il nome di speranza e paura, secondo la prevalenza dell’uno o dell’altro affetto. Se, incombendo o incalzando un male, si concepisce la speranza improvvisa che quello stesso male possa superarsi opponendovisi o resistendo, nasce la passione che si chiama ira. E nasce, invero, molto spesso, dal sospetto che si è disprezzati. L’uomo irato, dunque, vuole o spera di poter fare quanto può, per non sembrare idoneo o soggetto al disprezzo degli altri, per l’appunto procurando a colui che lo disprezza un male così grande quanto gli sembrerà sufficiente a fare in modo che si penta del male procuratogli. Ma il sospetto di essere disprezzati non è sempre congiunto con l’ira. Infatti, coloro che avanzano verso un qualunque fine propostosi, quali che siano gli ostacoli che incontrano, anche se non sono ostacoli provocati da esseri animati e dunque tali che non possono disprezzarli, non appena appare la speranza che tali ostacoli possono essere rimossi, fanno intervenire la forza, cioè spiegano l’ira attraverso la quale quelli devono essere rimossi. […] Come la speranza produce l’ira, così la paura la modera, cioè: come, per l’immaginazione gli spiriti animali si diffondono nei nervi per difendersi da un male che incalza, così, per l’immaginazione di un male più grande, si ritraggono verso il cuore o per difendersi o per fuggire. L’oggetto della speranza è un bene apparente; l’oggetto della paura, un male apparente. Infatti, non discerniamo mai abbastanza da dove deve venirci il bene sperato; se lo discernessimo, la cosa sarebbe certa e la nostra attesa non si direbbe più speranza, ma gioia. Alla speranza bastano anche prove molto superficiali. Anzi, se si può dire, si può tuttavia sperare ciò che nell’animo non si concepisce neppure. Allo stesso modo, può temersi qualsiasi cosa, anche se non la si concepisce, purché generalmente si dica che è terribile o la si veda fuggire contemporaneamente da molti: ed invero, pur non conoscendone la causa, la fuggiamo anche noi come nelle forme di terrore che chiamiamo panico. Ed infatti crediamo che quelli che per primi fuggono hanno visto un pericolo, causa della fuga. Perciò, questi affetti han bisogno di essere governati dalla ragione. Ed è in verità la ragione che, misurando e confrontando tanto le nostre forze quanto quelle degli oggetti, stabilisce la misura e della speranza e della paura, affinché o non ci illudiamo sperando o, temendo, perdiamo, senza un giusto motivo, i beni che possediamo. […] La passione contraria all’orgoglio è la vergogna, in cui gli spiriti, agitandosi improvvisamente per la coscienza o il sospetto di aver commesso qualcosa di sconveniente, si turbano e fanno affluire il sangue nei muscoli facciali: e questo è l’arrossire. La vergogna, dunque, è un dispiacere che provano quelli che amano le lodi, allorché sono còlti a fare o a dire ciò che è

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sconveniente fare o dire. L’arrossire, dunque, è il segno che rivela una persona che desidera parlare e fare tutto convenientemente: e, quindi, è lodevole negli adolescenti, non ugualmente negli altri, giacché negli uomini maturi si richiede non solo che aspirino al decoro, ma anche che sappiano possederlo. […] L’amore, se è di notevole entità, si divide quasi in tante passioni quanti sono gli oggetti dell’amore: ad esempio, l’amore del denaro, l’amore della potenza, l’amore della scienza, ecc. L’amore del denaro, se oltrepassa la misura, si chiama avarizia; l’amore della potenza politica, se è smodato, si chiama ambizione: infatti, turbano e corrompono l’animo. Inoltre, l’amore del quale l’uomo ama l’uomo, si intende in due modi; e, nell’uno e nell’altro modo, è implicita la benevolenza. Ma in un modo si definisce l’amore quando vogliamo bene a noi, in un altro quando vogliamo bene agli altri. E così si è soliti amare in un modo il vicino, in un altro la vicina: amando l’uno, cerchiamo il suo bene; amando l’altra, il nostro bene. Allo stesso modo, l’amore della fama, o della celebrità, se è troppo grande, si deve porre tra i turbamenti. Ma la misura, sia nel desiderio della fama che in quello delle altre cose esteriori, è l’utilità, naturalmente perché possono essere di sostegno. Ed invero, anche se pensiamo alla fama dopo. la morte non senza piacere e non senza vantaggio per gli altri, tuttavia ci inganniamo se consideriamo come presente il futuro che noi non siamo in grado di avvertire o siamo in grado di valutare poco.

 - Thomas Hobbes (Westport 1588 - Hardwick 1679) scrisse il De homine (L’uomo) nel 1658. Il testo riportato è tratto da: T. Hobbes, L’uomo, in Elementi di filosofia. Il corpo. L’uomo, a cura di A. Negri, Utet, Torino 1972, pp. 602 ss.

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C, I principi della filosofia se Pensiamo aL nuLLa , Penseremo CHe iL nuLLa non Ha ProPrietÀ; se Pensiamo a un ente PerFetto, QuaLi ProPrietÀ Penseremo CHe avr À? una delle più forti peculiarità della filosofia di Cartesio è l’esigenza di distinguere con la massima cura possibile che cosa appartiene al corpo e che cosa alla mente. Res cogitans e res extensa sono due realtà nettamente distinte, due dimensioni dell’essere che non hanno né possono avere sovrapposizioni, benché certo nell’uomo esse dialoghino. Dunque o un aspetto dell’essere dell’uomo appartiene al corpo oppure appartiene alla mente. non si danno terze possibilità. La dimostrazione dell’esistenza di Dio segue questa linea argomentativa: noi siamo una mente e abbiamo un corpo; la mente ha una migliore conoscenza di sé che del corpo; in sé ha idee, la cui verità è autoevidente, come le verità matematiche; la più importante è l’idea di un ente sommamente perfetto, la cui verità è autoevidente. Come all’idea di triangolo appartiene che «i suoi tre angoli sono uguali a due retti» (questa nozione è quindi parte costitutiva dell’idea di triangolo), così all’idea di un ente sommamente perfetto «appartiene l’esistenza necessaria ed eterna». ne è parte.

Che cosa è pensare Con la parola pensiero io intendo tutto quel che accade in noi in tal modo, che noi lo percepiamo immediatamente per noi stessi; ecco perché non solo intendere, volere, immaginare, ma anche sentire è qui lo stesso che pensare.

Ci sono conoscenze semplicissime e di per sé note, rese più oscure dalle definizioni logiche; queste non possono esser enumerate tra le conoscenze acquisite con lo studio Non spiego qui molti altri termini dei quali mi servo o mi servirò in seguito, perché mi sembrano abbastanza noti di per se stessi. E spesso ho osservato che i filosofi sbagliano nello sforzarsi di spiegare con definizioni logiche cose semplicissime e di per sé conosciute perché così le rendono più oscure. E quando ho detto che questa proposizione, io penso, dunque sono, è la prima e la più certa di quelle che incontra chi filosofa con un certo ordine, non per questo ho negato che sia necessario sapere per prima che cosa sia il pensiero, che cosa l’esistenza, che cosa la certezza; e parimenti che non può accadere che ciò che pensa non esista, e così via; ma poiché

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queste sono nozioni semplicissime e che da sole non offrono conoscenza di alcuna cosa esistente, non ritenni di doverle enumerare.

In quale modo il nostro spirito è più conosciuto del corpo Ma ora per sapere che il nostro spirito è conosciuto non solo prima e in modo più certo, ma anche in modo più evidente del corpo, si deve notare che è notissimo per lume naturale, che il nulla non ha né affezioni né qualità; perciò, dovunque si apprenderanno affezioni e qualità, qui dovrà necessariamente trovarsi una cosa o sostanza alla quale esse appartengono; e quante più ne apprenderemo nella stessa cosa o sostanza, tanto più chiaramente conosceremo quest’ultima. Ma è chiaro che apprendiamo più cose del nostro spirito che di ogni altra cosa, perché tutto ciò che ci porta a conoscere chiaramente qualcosa ci porta anche ad una conoscenza molto più certa del nostro spirito. Se, per esempio, giudico che esiste una terra, dal fatto che la tocco o la vedo, a maggior ragione devo giudicare che il mio spirito esiste: perché, forse, può darsi che io giudichi di toccare la terra, anche se essa non esiste; ma non che io giudichi e che il mio spirito che giudica non esista; e così delle altre cose.

Perché lo spirito non si fa conoscere a tutti nello stesso modo Coloro i quali hanno filosofato senza ordine sono stati di parere diverso solo perché non hanno mai distinto con sufficiente cura lo spirito dal corpo. Pur avendo ritenuto di esistere nel modo più certo di qualunque altra cosa, di esistere per se stessi, non si sono tuttavia mai accorti che per propria esistenza si dovesse intendere appunto lo spirito; al contrario, hanno inteso piuttosto il solo loro corpo che vedevano con gli occhi e toccavano con le mani, ed al quale attribuivano, a torto, la facoltà di sentire; e questo ha impedito loro di conoscere la natura dello spirito.

In qual senso la conoscenza delle altre cose dipende dalla conoscenza di Dio Ma quando lo spirito che conosce se stesso e ancora dubita di tutte le altre cose, osserva con attenzione intorno per estendere ulteriormente la sua conoscenza, senza dubbio trova in sé prima di tutto le idee di molte cose, e finché le contempla solamente e non afferma né nega che esista qualcosa di simile fuori di sé, non può sbagliare. Lo spirito trova anche alcune nozioni comuni e ne compone varie dimostrazioni e si persuade interamente che esse sono vere fintanto che pensa ad esse. Così, per esempio, ha in sé l’idea dei numeri e delle figure, ed ha anche, fra le nozioni comuni, che se a quantità uguali aggiungi altre quantità uguali, le quantità sommate saranno uguali, e simili; dalle quali facilmente si dimostra che tre angoli di un triangolo sono uguali a due retti, eccetera; e perciò si convince che queste e

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altrettali cose sono vere, fino a che lo spirito presta attenzione alle premesse e da queste le deduce. Ma siccome non può sempre prestare attenzione ad esse, quando ricorda di non sapere ancora se per caso sia stato creato di tale natura che si sbagli anche nelle cose che gli paiono evidentissime, si accorge a ragione di dubitare di tali cose, e di non poter avere alcuna scienza prima di aver saputo chi l’ha creato.

Poiché nel nostro concetto di Dio è compresa la necessità della esistenza, è giusto concludere che Dio esiste Considerando poi che, tra le diverse idee che lo spirito ha in sé, c’è quella di un ente sommamente intelligente, potente e perfetto, che è di gran lunga la più importante di tutte, riconosce in essa l’esistenza, non solo come possibile e contingente, come nelle idee di tutte le altre cose che percepisce in modo distinto, ma come assolutamente necessaria ed eterna. E come, ad esempio, lo spirito percepisce che nell’idea di triangolo è necessariamente compreso che i suoi tre angoli sono uguali a due retti, e allo stesso modo chiaramente si convince che il triangolo ha tre angoli uguali a due retti, così percepisce che l’esistenza necessaria ed eterna è compresa nell’idea di un ente sommamente perfetto, e ne deve concludere agevolmente che l’ente sommamente perfetto esiste.

 - René Descartes (La Haye 1596 - Stoccolma 1650), italianizzato in Renato Cartesio, pubblicò I principi della filosofia nel 1644. Il testo riportato è tratto da: R. Descartes, I principi della filosofia, in Opere filosofiche, a cura di B. Widmar, Utet, Torino 1969, pp. 607 ss.

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C, Meditazioni metafisiche Come giustiFiCare La Pretesa vaLiDitÀ oggettiva Dei giuDiZi ConosCitivi neLL’amBito DeLLe sCienZe? La giustificazione dell’oggettività dei giudizi presuppone che si individui un punto di partenza del tutto certo e sicuro; per fare questo occorre mettere in dubbio tutti i giudizi su oggetti reali o ideali, dato che non vi è certezza che le idee che abbiamo nella mente siano immagini fedeli degli oggetti reali. L’ipotesi del genio maligno, del Dio ingannatore, serve metaforicamente a spiegare l’azione del dubbio metodico che investe sia l’esistenza delle cose materiali presenti fuori dalla coscienza, sia la verità dei giudizi matematici.

[Prima e Seconda meditazione] Io supporrò, dunque, che vi sia, non già un vero Dio, che è fonte sovrana di verità, ma un certo cattivo genio, non meno astuto e ingannatore che possente, che abbia impiegato tutta la sua industria ad ingannarmi. Io penserò che il cielo, l’aria, la terra, i colori, le figure, i suoni e tutte le cose esterne che vediamo, non siano che illusioni e inganni, di cui egli si serve per sorprendere la mia credulità. Considererò me stesso come privo affatto di mani, di occhi, di carne, di sangue, come non avente alcun senso, pur credendo falsamente di aver tutte queste cose. Io resterò ostinatamente attaccato a questo pensiero; se, con questo mezzo, non è in mio potere di pervenire alla conoscenza di verità alcuna, almeno è in mio potere di sospendere il mio giudizio. Ecco perché baderò accuratamente a non accogliere alcuna falsità, e preparerò così bene il mio spirito a tutte le astuzie di questo grande ingannatore, che, per potente ed astuto ch’egli sia, non mi potrà mai imporre nulla. Ma questo disegno è penoso e laborioso, ed una certa pigrizia mi riporta insensibilmente nel corso della mia vita ordinaria. E a quel modo che uno schiavo, il quale godeva in sogno d’una libertà immaginaria, quando comincia a sospettare che la sua libertà non è che un sogno, teme d’essere risvegliato, e cospira con quelle illusioni piacevoli, per esserne più lungamente ingannato, così io ricado insensibilmente da me stesso nelle mie antiche opinioni, ed ho paura di risvegliarmi da quest’assopimento, per tema che le veglie laboriose che succederebbero alla tranquillità di questo riposo, invece di portarmi qualche luce e qualche rischiaramento nella conoscenza della verità, non abbiano ad essere insufficienti per illuminare le tenebre delle difficoltà che sono state agitate testé. […]

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La meditazione che feci ieri m’ha riempito lo spirito di tanti dubbi, che, oramai, non è più in mio potere dimenticarli. E tuttavia non vedo in qual maniera potrò risolverli; come se tutt’a un tratto fossi caduto in un’acqua profondissima, sono talmente sorpreso, che non posso né poggiare i piedi sul fondo, né nuotare per sostenermi alla superficie. Nondimeno io mi sforzerò, e seguirò da capo la stessa via in cui ero entrato ieri, allontanandomi da tutto quello in cui potrò immaginare il minimo dubbio, proprio come farei se lo riconoscessi assolutamente falso; e continuerò sempre per questo cammino, fino a che non abbia incontrato qualche cosa di certo, o almeno, se altro non m’è possibile, fino a che abbia appreso con tutta certezza che al mondo non v’è nulla di certo. Archimede, per togliere il globo terrestre dal suo posto e trasportarlo altrove, domandava un sol punto fisso ed immobile. Così io avrò diritto di concepire alte speranze, se sarò abbastanza fortunato da trovare solo una cosa, che sia certa e indubitabile. Io suppongo, dunque, che tutte le cose che vedo siano false; mi pongo bene in mente che nulla c’è mai stato di tutto ciò che la mia memoria, riempita di menzogne, mi rappresenta; penso di non aver senso alcuno; credo che il corpo, la figura, l’estensione, il movimento ed il luogo non siano che finzioni del mio spirito. Che cosa, dunque, potrà essere reputato vero? Forse niente altro, se non che non v’è nulla al mondo di certo.

 - René Descartes (La Haye 1596 - Stoccolma 1650), italianizzato in Renato Cartesio, scrisse le Meditazioni metafisiche tra il 1639 e il 1640. Il testo riportato è tratto da: R. Descartes, Discorso sul metodo. Meditazioni metafisiche, a cura di A. Tilgher, Laterza, Roma-Bari 1978, pp. 75-77.

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C, Discorso sul metodo esiste un’iDea CosÌ eviDente Per La mente Da Poter essere ConsiDer ata assoLutamente ver a? Dal dubbio alla prima certezza. Per andare oltre la constatazione che “non v’è nulla al mondo di certo” Descartes constata che anche nel dubbio più estremo non si può non pensare che si dubiti delle idee che vengono pensate. Ci deve quindi essere necessariamente un io pensante, la cui essenza risiede esclusivamente nella coscienza; un io pensante che nel dubitare mostra la sua finitezza. L’evidenza di questa verità – io penso, dunque sono – poteva allora essere assunta come primo principio della nuova filosofia. una filosofia che intendeva fondarsi non più sul principio dell’essere oggettivo, bensì su quello del pensiero soggettivo.

Per questa ragione, considerato che i nostri sensi talvolta ci ingannano, volli supporre che nessuna cosa esistesse quale i sensi ce la fanno immaginare. E poiché vi sono molti uomini che si ingannano ragionando anche intorno a semplici argomenti di Geometria e cadono in paralogismi, io, stimando di potermi ingannare come qualsiasi altro, rifiutai come falsi tutti i ragionamenti che avevo sin allora accettato come dimostrazioni. Infine, considerando che gli stessi pensieri che abbiamo quando siamo desti possono presentarsi anche durante il sonno, senza che in tal caso ve ne sia alcuno vero, decisi di fingere che tutto ciò che avevo fino allora appreso non fosse più vero dell’illusione dei miei sogni. Subito dopo però m’accorsi che, mentre volevo pensare che tutto fosse falso, era necessario che io, che lo pensavo, fossi qualcosa; e notando che questa verità: io penso, dunque sono, era così salda e certa che tutte le più stravaganti supposizioni degli scettici non avrebbero potuto smuoverla, pensai che avrei potuto accettarla senza timore come primo principio della Filosofia che andavo cercando. Poi, esaminando con attenzione ciò che ero e vedendo che potevo immaginare di non avere nessun corpo e che non esistesse assolutamente il mondo né alcun luogo ove dimorassi ma che per questo non potevo supporre di non esistere e che al contrario, dal fatto stesso che pensavo di dubitare della verità delle altre cose, seguiva molto evidentemente e certamente che io esistevo mentre, sol ch’io avessi cessato di pensare, anche se tutto ciò che sempre avevo immaginato fosse stato vero, non avrei avuto nessuna ragione per credere di essere esistito, da ciò conobbi di essere una sostanza, la cui essenza tutta, o natura, non sta che nel pensare e che, per essere, non neces-

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sita di luogo alcuno‚ dipende da alcuna cosa materiale. In tal modo questo io, cioè quest’anima, per cui sono ciò che sono, è assolutamente distinta dal corpo ed è anche più facile da conoscere di esso, e anche se il corpo non fosse, l’anima non cesserebbe d’essere tutto quel che è. Dopo considerai in generale ciò che si richiede in una proposizione perché sia vera e certa; infatti, dato che ne avevo scoperta una che sapevo esser tale, stimai di poter anche sapere in che consisteva tale certezza. Avendo poi notato che nella proposizione io penso dunque sono ciò che mi fa certo che non mi inganno consiste soltanto nel fatto che intendo con gran chiarezza che per pensare bisogna essere, pensai di poter assumere come regola generale che son tutte vere le nozioni che concepiamo in modo del tutto chiaro e distinto, ma che sorge qualche difficoltà quando si deve determinare quali sono in effetti quelle che concepiamo distintamente. In seguito a ciò, riflettendo sul fatto che dubitavo, e che quindi il mio essere non era del tutto perfetto – dato che notavo chiaramente che era maggiore perfezione conoscere che dubitare – mi proposi di ricercare donde avessi appreso a pensare qualcosa di più perfetto di quello che in realtà io fossi e conobbi con evidenza che doveva trattarsi di qualche natura più perfetta della mia. Non mi preoccupavo poi con altrettanto zelo di sapere donde venissero i pensieri di molte altre cose fuori di me, come il cielo, la terra, la luce, il calore e mille altre perché non ravvisando in questi pensieri nulla che li facesse a me superiori, potevo credere che, se eran veri, dipendessero dalla mia natura in quanto dotata di qualche perfezione e, se non lo erano, che mi venissero dal nulla, cioè che esistessero in me per quel che avevo di imperfetto.

 - René Descartes (La Haye 1596 - Stoccolma 1650), italianizzato in Renato Cartesio, pubblicò il Discorso sul metodo nel 1637. Il testo riportato è tratto da: R. Descartes, Opere filosofiche, a cura di E. Loiacono, Utet, Torino 1994, vol. I, pp. 523-525.

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C, Regole per la guida dell’intelligenza L’oBiettivo è iDentiFiCare regoLe CHe Ci aiutino a Pensare in moDo Corretto: La mente Può governare La mente? sì, la mente TY{ governare se stessa. Questa possibilità dipende dal fatto che essa è libera: lo spirito umano non è un sistema meccanico (il corpo, per Cartesio, lo è: è una macchina). ma poiché è libera, e non è un sistema automatico, c’è anche la possibilità che non governi affatto se stessa. Perché al timone di comando della mente ci sia la mente (e non le passioni o altro), occorre che essa si dia un metodo. se l’obiettivo è cercare la verità delle cose – cioè non ingannarsi e comprendere se stessi, gli altri e il mondo – il metodo che Cartesio suggerisce è nella sua essenza molto semplice: porre ordine tra le proprie idee. La mente ha la possibilità di esercitare «un movimento continuo ed ininterrotto del pensiero» quando passa da una idea concepita con “chiarezza” e “distinzione” a un’altra concepita nello stesso modo, in catena. se il movimento del pensiero si interrompe, perché manca la chiarezza in un certo passaggio, bisogna fermarsi e riflettere. nella riflessione entrano in gioco molte facoltà: MRXIPPIXXS, MQQEKMRE^MSRI, WIRWMFMPMXk, QIQSVME. obiettivo: ridurre l’oscuro e il complesso al semplice, chiaro e distinto. Poi si riparte con il movimento continuo e ininterrotto del pensiero.

R I. Il fine degli studi deve essere la guida dell’intelligenza per poter trarre giudizi genuini e veri su tutti gli argomenti che si presentano. R II. Ci si deve occupare soltanto di quegli oggetti alla cui cognizione certa e sicura sembra sia sufficiente la nostra intelligenza. R III. Degli argomenti proposti si deve cercare, non ciò che gli altri ne hanno opinato o ciò che noi stessi congetturiamo, ma ciò che possiamo intuire con chiarezza e evidenza o possiamo dedurre con certezza; infatti la scienza non si acquista in modo diverso. R IV. È necessario un Metodo per cercare la verità delle cose. R V. Nel suo complesso, il metodo consiste nell’ordine e nella disposizione di quelle cose cui deve esser rivolto l’acume dello spirito per tro-

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vare qualche verità. E osserveremo con esattezza questo metodo se ridurremo gradualmente le proposizioni oscure ed involute alle più semplici, e poi dall’intuizione di tutte le più semplici tenteremo di salire per il medesimo ordine di successione alla conoscenza di tutte le altre. R VI. Per distinguere le cose più semplici da quelle involute e per cercarle con ordine, si deve, in ogni serie di cose in cui abbiamo dedotto un certo numero di verità direttamente da altre, osservare quella più semplice ed in qual modo tutte le altre cose se ne allontanino di più o di meno o in misura uguale. R VII. Per il compimento della scienza è necessario passare in rassegna, con un moto continuo ed ininterrotto del pensiero, una per volta tutte le cose che si riferiscono al nostro scopo e coglierle con una enumerazione sufficiente ed ordinata. R VIII. Se nella serie delle cose da cercare se ne incontra qualcuna che il nostro intelletto non possa intuire abbastanza bene, ci si deve fermare; né si devono esaminare le cose che seguono, ma astenersi in ogni caso da un lavoro del tutto vano. R IX. Si deve volgere tutto l’acume dell’intelligenza alle cose di minore importanza e più facili, e fermarsi su di esse a lungo finché ci abituiamo a intuire la verità in modo chiaro e distinto. R X. Affinché l’intelligenza si faccia acuta si deve esercitarla nella ricerca delle medesime cose che già altri hanno scoperto e passare in rassegna con metodo anche le tecniche meno importanti usate dagli uomini, ma soprattutto quelle che sviluppano o presuppongono un ordine. R XI. Intuito un certo numero di proposizioni semplici, se da queste ne deduciamo un’altra è utile passarle in rassegna con un movimento continuo ed ininterrotto del pensiero, per riflettere sui loro reciproci rapporti e, per quanto è possibile, concepire in modo distinto più cose alla volta: così anche la nostra cognizione sarà più certa e s’accrescerà di molto la capacità dell’intelligenza. R XII. Infine si deve utilizzare ogni aiuto che può venirci dall’intelletto, dall’immaginazione, dal senso e dalla memoria: sia per intuire in modo distinto le proposizioni semplici, sia per confrontare correttamente le cose cercate con quelle conosciute per poterle scoprire, sia per trovare quelle che devono esser collegate tra loro in modo da non trascurare alcuna parte dell’attività umana.

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R XIII. Se comprendiamo perfettamente un argomento, occorre separarlo da ogni concetto superfluo, semplificarlo il più possibile e dividerlo, mediante enumerazione, nelle parti più piccole possibili. [...] R XV. È altresì utile, il più delle volte, disegnare queste figure e presentarle ai sensi esterni, per mantenere più facilmente con questo mezzo l’attenzione del nostro pensiero. R XVI. Quelle cose che non richiedono una attenzione immediata dello spirito, anche se sono necessarie ad una conclusione, è preferibile che vengano rappresentate per mezzo di segni molto brevi piuttosto che per mezzo di figure intere: infatti così la memoria non potrà sbagliare e, per ritenerle, il pensiero non sarà distratto mentre si applica a dedurne altre.

 - René Descartes (La Haye 1596 - Stoccolma 1650), italianizzato in Renato Cartesio, scrisse le Regulae ad directionem ingenii (Regole per la guida dell’intelligenza) durante la sua permanenza a Stoccolma. Il manoscritto fu rinvenuto nel 1650 tra le carte del filosofo improvvisamente deceduto. Il testo riportato è tratto da: R. Descartes, Regole per la guida dell’intelligenza, in Opere filosofiche, a cura di B. Widmar, Utet, Torino 1969, pp. 47 ss.

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C, Le passioni dell’anima è PossiBiLe Costruire una geometria DeLLe Passioni, restanDo LiBeri, uomini e non maCCHine? va subito chiarito che Cartesio segue l’uso seicentesco e intende per “spirito” (nel senso di spirito animale) una delle particelle che compongono il sangue. Qualcosa, quindi, che attiene al corpo, ed esclusivamente al corpo, che è una macchina e quindi è del tutto al di fuori da ogni discorso riguardante la libertà, la conoscenza, e ogni altro carattere della mente. ma gli spiriti animali hanno diretta influenza sulla ghiandola pineale e i loro movimenti esercitano quindi un’influenza sull’anima. Chiamiamo “passione” questa influenza. ora, è evidente che è possibile costruire una “geometria delle passioni”, cioè una descrizione scientifica e meccanica delle forze che, nate nel corpo, influenzano la mente: ma non è possibile dire che la determinano, altrimenti essa non sarebbe libera. La mente subisce le passioni, ma poi agisce su di esse. Quando lo fa, ogni geometria cade, perché cade ogni automatismo. La mente può essere libera.

Articolo LXXIX. Le definizioni dell’Amore e dell’Odio L’Amore è un’emozione dell’anima, causata dal movimento degli spiriti, che la incita a unirsi volontariamente agli oggetti che sembrano esserle convenienti. E l’Odio è un’emozione, causata dagli spiriti, che incita l’anima a voler essere separata dagli oggetti che si presentano ad essa come nocivi. Sostengo che queste emozioni sono causate dagli spiriti, allo scopo di distinguere l’Amore e l’Odio, che sono passioni e dipendono dal corpo, tanto dai giudizi che portano anch’essi l’anima a unirsi volontariamente alle cose ch’essa considera buone, e a separarsi da quelle che considera cattive, quanto dalle emozioni che questi semplici giudizi provocano nell’anima.

Articolo LXXX. Cosa significa unirsi o separarsi volontariamente Del resto, con il termine volontà, io non intendo parlare qui del desiderio, che è una passione a parte e si riferisce all’avvenire, ma del consenso per cui ci si considera già da ora come uniti a ciò che si ama: così che si immagina un tutto, di cui si pensa d’essere solo una parte, e di cui la cosa amata è i filosofi del primo seicento

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l’altra. Mentre, al contrario, nell’Odio ci si considera solo come un intero, totalmente divisi dalla cosa per cui si ha avversione.

Articolo CLXXXV. La Pietà La Pietà è una specie di Tristezza, mista d’Amore o di buona volontà nei confronti di coloro che vediamo soffrire qualche male, di cui li consideriamo indegni. In tal modo essa è contraria all’Invidia, a motivo del suo oggetto, e al Motteggio, dato che lo considera in diverso modo.

Articolo CLXXXVI. Chi sono i più Sensibili Quelli che si sentono molto deboli, e molto soggetti alle avversità della fortuna, sembrano essere più inclini degli altri a questa Passione, perché si rappresentano il male degli altri come possibile che accada loro; e così sono spinti alla Pietà, più per l’Amore che portano a se stessi, che per quello che hanno per gli altri.

Articolo CLXXXVII. Come i più generosi sono toccati da questa Passione Ma nondimeno quelli che sono più generosi, e che hanno l’ingegno più forte, di modo che non temono alcun male per sé, e si ritengono aldilà del potere della fortuna, non sono immuni dalla Compassione, quando vedono la sventura degli altri uomini, e ne odono i pianti. Infatti è un aspetto della Generosità, avere buona volontà per ciascuno. Ma la Tristezza di tale Pietà non è amara; e come quella che causano le azioni funeste che si vedono rappresentare a teatro, essa è più all’esterno e nel senso, che all’interno dell’anima, la quale nel frattempo ha la soddisfazione di pensare, che fa quel che è il proprio dovere, nel fatto che compatisce gli infelici. E in questo c’è una differenza: che mentre l’uomo comune ha compassione di quelli che si compiangono, perché pensa che i mali di cui soffrono, siano molto fastidiosi, il principale oggetto della Pietà dei più grandi uomini è la debolezza di coloro che vedono compiangersi: poiché essi ritengono che nessuna disgrazia possibile, sia un male così grande, qual è la Viltà di coloro che non la possono sopportare con fermezza. E benché odino i vizi, non per questo odiano coloro che vi vedono succubi: per costoro provano solo Pietà.

Articolo CLXXXVIII. Chi sono quelli che non ne sono toccati Ma non ci sono che gli spiriti maligni e invidiosi, che per natura odiano tutti gli uomini, oppure quelli che sono talmente brutali, e talmente ac-

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cecati dalla buona sorte, o disperati per la cattiva, che non pensano possa capitare loro alcun male, che siano insensibili alla Pietà.

Articolo CLXXXIX. Perché questa Passione induce a piangere Del resto, in questa Passione si piange molto facilmente, perché l’Amore, inviando molto sangue verso il cuore, fa sì che esca molto vapore dagli occhi; e il freddo della Tristezza, ritardando l’agitazione di tali vapori, fa sì che essi si trasformino in lacrime, secondo ciò che è stato detto prima.

Articolo CXC. La soddisfazione di se stesso La Soddisfazione, che sempre hanno coloro che seguono costantemente la virtù, è un’abitudine nella loro anima, che si chiama tranquillità e riposo di coscienza. Ma quella che si acquista di nuovo quando si ha appena fatto qualche azione che si ritiene buona, è una Passione, cioè, una specie di Gioia, che credo essere la più dolce di tutte, in quanto la sua causa dipende solo da noi stessi. Tuttavia, quando questa causa non è giusta, cioè quando le azioni da cui traiamo molta soddisfazione non sono di grande importanza o sono addirittura viziose, essa è ridicola, e non serve che a produrre un orgoglio e un’arroganza impertinente. Cosa che si può notare soprattutto in coloro che, convinti d’essere devoti, sono solo bigotti e superstiziosi, cioè che ammantandosi del fatto che vanno spesso in chiesa, che recitano preghiere a tutta forza, che portano i capelli corti, che digiunano, che fanno l’elemosina, pensano d’essere assolutamente perfetti, e immaginano di essere tanto amici di dio, che non saprebbero fare niente che possa dispiacergli, e che tutto ciò ce la loro passione gli detta è giusto zelo: anche se alle volte essa detta loro i crimini più grandi che possano essere commessi da uomini, come tradire città, assassinare principi, sterminare popoli interi, solo per il fatto che non seguono le loro convinzioni.

 - René Descartes (La Haye 1596 - Stoccolma 1650), italianizzato in Renato Cartesio, pubblicò Le passioni dell’anima nel 1649. Il testo riportato è tratto da: R. Descartes, Le passioni dell’anima, a cura di S. Obinu, Bompiani, Milano 2003, pp. 233 ss., 397 ss.

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C, I principi della filosofia va CHiarito se i Pensieri e Le Cose DiPenDono gLi uni DagLi aLtri: Di CHe Cosa Ha Bisogno CiasCun Pensiero e CiasCuna Cosa Per esistere eD essere Ciò CHe è? L’argomentazione cartesiana sulla nozione di sostanza parte da quella che considera una ovvietà, cioè un assioma di per sé evidente: che il nulla non ha proprietà. Dunque, se percepiamo l’esistenza di una proprietà, non siamo in presenza di nulla, ma di qualcosa. Di che cosa? evidentemente di una sostanza, cioè di qualcosa che c’è. ma è possibile attribuire il termine sostanza a ogni cosa che c’è, cioè a ogni pensiero e a ogni corpo? in realtà no, perché nessun pensiero esiste senza qualcuno che pensi e nessuna cosa senza un insieme di relazioni (spaziali) con le altre cose. sicché a meritare pienamente il nome di cosa esistente non è ciascun pensiero e ciascuna cosa, ma il tutto di cui pensiero e cose sono parte. ma pensieri e cose sono irriducibili gli uni agli altri: ciò che esiste o è un pensiero o è una cosa. Dunque il termine “sostanza” va utilizzato per indicare l’insieme dei pensieri e delle menti che le pensano (res cogitans) e l’insieme delle cose materiali (res extensa). Ciascuna delle due sostanze ha una proprietà fondamentale (la prima il “pensiero”, la seconda l’“estensione”) da cui le altre proprietà derivano. una definizione sintetica di sostanza? eccola: «ciò che per esistere non ha bisogno di un’altra cosa».

Le verità eterne non possono essere enumerate nello stesso modo, ma non è neppure necessario E le consideriamo tutte queste come cose, come qualità, cioè modi delle cose. Ma quando conosciamo che non è possibile che dal nulla derivi qualcosa, allora questa proposizione: Dal nulla non deriva nulla, è considerata non come una cosa esistente e neppure come un modo della cosa, ma come una verità eterna, che è nel nostro spirito, e che è chiamata nozione comune, ossia assioma. Di questo genere sono le seguenti verità: È impossibile che la medesima cosa sia e nello stesso tempo non sia; Ciò che è stato fatto non può esser non fatto; chi pensa, non può non esistere mentre pensa; e molte altre ancora, che certamente non possono essere tutte enumerate con facilità, ma neppure possono essere ignorate, quando si presenta l’occasione di pensarle, e non siamo accecati da alcun pregiudizio.

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Quelle verità sono tutte percepite chiaramente, ma non da tutti, a causa dei pregiudizi In riferimento a queste nozioni comuni, non vi è dubbio che esse possono esser percepite chiaramente e distintamente, altrimenti, infatti, non si dovrebbe chiamarle nozioni comuni: ma in verità alcune non sono considerate ugualmente degne di questo nome da tutti perché non sono da tutti percepite allo stesso modo; non perché – come penso – la facoltà di conoscere di un uomo sia più estesa di quella di un altro; ma solo perché, a volte, queste nozioni comuni contrastano con le opinioni pregiudiziali di taluni uomini, che per questo non possono comprenderle facilmente: mentre altri che sono liberi da questi pregiudizi le percepiscono in modo evidentissimo.

Che cosa è la sostanza, e come questo nome non si possa attribuire a Dio e alle creature indifferentemente Quanto poi a quelle che consideriamo come cose o modi delle cose, è necessario prenderle in esame una per volta. Per sostanza possiamo intendere soltanto la cosa che esiste non avendo bisogno, per esistere, di un’altra cosa. Di certo una sostanza che non ha affatto bisogno di un’altra cosa, può essere intesa soltanto come unica, cioè come Dio. Mentre percepiamo che tutte le altre cose possono esistere solamente per l’azione diretta di Dio. Quindi la parola sostanza non si addice a Dio e alle cose in modo univoco, come si usa dire nelle Scuole, cioè se questa parola è comune a Dio e alle creature è impossibile comprenderla come distinta nel suo significato.

Come la parola sostanza si addice in modo univoco all’anima e al corpo, e in qual modo si conosce la sostanza Si possono però intendere, sotto questo comune concetto di sostanza, il corpo e lo spirito, cioè la sostanza pensante e la sostanza materiale, in quanto sono cose che, per esistere, hanno bisogno del solo concorso di Dio. Tuttavia, non si può comprendere da principio la sostanza per il solo fatto che è una cosa che esiste, poiché questo solo fatto per sé non è da noi percepito; la conosceremo però facilmente da uno dei suoi attributi, in virtù di quella comune nozione, che il nulla non ha alcun attributo, né alcuna proprietà, né alcuna qualità. Infatti, poiché percepiamo la presenza di qualche attributo, concludiamo che una cosa esiste, ovvero che anche la sostanza, alla quale si può attribuire quell’attributo, necessariamente esiste.

E di questa sostanza uno è l’attributo principale; dello spirito, il pensiero; del corpo, la estensione La sostanza si conosce con certezza da qualche attributo: ma tuttavia, una sola è la principale proprietà di una sostanza, proprietà che costituisce la sua

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natura e la sua essenza, ed alla quale si riferiscono tutte le altre proprietà. Cioè, l’estensione in lunghezza, larghezza e profondità costituisce la natura della sostanza corporea; mentre il pensiero costituisce la natura della sostanza pensante. Infatti, ogni altra proprietà attribuibile al corpo presuppone l’estensione, ed è solamente un modo della cosa estesa; parimenti anche tutto ciò che troviamo nello spirito sono solo i diversi modi di pensare. Per esempio, nessuna figura né movimento si possono intendere se non nello spazio, cioè nell’estensione, né l’immaginazione o la sensazione o la volontà si possono intendere solo nella sostanza pensante. Ma, al contrario, si può intendere l’estensione senza la figura o il movimento, e il pensiero senza l’immaginazione o la sensazione, e così delle altre cose: come è chiaro a chiunque presti attenzione.

Come possiamo avere nozioni chiare e distinte della sostanza pensante, della corporea e parimenti di Dio E così possiamo avere facilmente due nozioni chiare e distinte, cioè due idee, una della sostanza pensante creata, l’altra della sostenza corporea creata, se naturalmente separiamo con cura tutti gli attributi del pensiero dagli attributi dell’estensione. Come possiamo avere anche l’idea chiara e distinta della sostanza pensante increata e indipendente, cioè di Dio? A condizione però che non supponiamo che essa rappresenti in modo adeguato tutte le cose che sono in Dio, e neppure immaginiamo che in essa ci siano certe cose, ma prestiamo attenzione solamente a quelle che sono veramente contenute in essa e che percepiamo in modo evidente esser proprie alla natura dell’ente sommamente perfetto. Né alcuno certamente può negare che tale idea di Dio sia in noi, se non colui che penserà che nessuna nozione di Dio è contenuta affatto nello spirito dell’uomo.

 - René Descartes (La Haye 1596 - Stoccolma 1650), italianizzato in Renato Cartesio, pubblicò I principi della filosofia nel 1644. Il testo riportato è tratto da: R. Descartes, I principi della filosofia, in Opere filosofiche, a cura di B. Widmar, Utet, Torino 1969, pp. 622 ss.

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Capitolo

3 I filosofi del secondo Seicento Quali poteri dobbiamo riconoscere alla ragione? La domanda è al centro della riflessione dei maggiori filosofi del secondo Seicento. Per Pascal – in polemica con Cartesio – la mente umana ha poteri circoscritti, se procede con le inferenze dimostrative della conoscenza scientifica, ma se si affida all’intuizione immediata allora è capace di attingere, pur nella sua fragilità, all’infinito. Di diverso avviso sono Leibniz, fondatore di una logica formale di tipo matematico, e Spinoza, difensore della libertà della coscienza di fronte al potere religioso e politico. Per entrambi il pensiero raggiunge il suo acme se si affida all’uso rigoroso della razionalità che permette di scoprire i principi del reale. Gli esiti sono però opposti nei due pensatori: Leibniz perviene al pluralismo metafisico delle monadi, Spinoza a un panteismo monistico. A sé stante è la prospettiva storicistica di Vico, che fonda una “Scienza nuova”, proponendo una sintesi tra filosofia e filologia.

P, Discorso sulle passioni d’amore Chi ha mai detto Che la r agione e la passione d’amore sono nemiChe? pascal è uno dei grandi scienziati del seicento. È però convinto che vari aspetti della vita dell’uomo e della stessa natura, per non parlare dei temi teologici, sono fuori dalla portata della scienza. il discorso amoroso è un esempio di esercizio razionale che si avvale di forme cognitive extrascienti­ fiche che non sono, per questo, incompatibili con i caratteri della razionali­ tà filosofica. Quando un uomo s’innamora, ama sapendo quello che fa. e lo sa con la sua ragione. e si può sostenere che sia irragionevole innamorarsi? piuttosto, non è ragionevole concepire la ragione solo in termini razionali, essendo lo spirito umano realmente complesso. Bellezza, piacere, sensibi­ lità, tentare di migliorarsi: si può davvero sostenere che tutto questo, così REXYVEPI per l’uomo, sia irragionevole?

Le passioni che più si confanno all’uomo, e ne implicano parecchie altre, sono l’amore e l’ambizione: tra queste non esiste alcun legame. Ciononostante vengono spesso unite: ma si indeboliscono, per non dire che si distruggono, a vicenda. Per quanto vasta sia la nostra mente, non si è capaci che di una sola grande passione: per questo quando l’amore e l’ambizione si trovano insieme, sono grandi solo la metà di quanto ciascuna sarebbe se fosse sola. L’età non determina affatto né l’inizio né la fine di queste due passioni: esse nascono fin dai primi anni e spessissimo durano fino alla tomba. Tuttavia, siccome richiedono molto fuoco, i giovani vi sono più adatti, e pare che esse si rallentino con gli anni: ma questo è assai raro. […] Ci si chiede se bisogna amare. È una cosa che non bisogna chiedere: la si deve sentire. Su questo non si delibera, vi si è portati, e quando ci si pensa sopra si ha il piacere di sbagliarsi. La chiarezza dell’intelligenza produce quindi la chiarezza della passione; per questo una mente grande e chiara ama con ardore e scorge distintamente quello che ama. Vi sono due tipi di intelligenza, l’una geometrica, e l’altra che potrebbe chiamarsi intelligenza fine. La prima ha concezioni lente, dure e inflessibili; invece la seconda ha un’agilità di pensiero la quale permette di applicarsi nello stesso tempo alle diverse parti amabili di ciò che essa ama. Dagli occhi va al cuore, e dal movimento esteriore conosce ciò che avviene nell’intimo.

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Quando si hanno insieme l’una e l’altra intelligenza, quanto piacere dà l’amore! Infatti si posseggono insieme la forza e la flessibilità della mente, che è necessarissima al dialogo eloquente di due persone. Nasciamo avendo nel cuore un carattere amoroso, il quale si sviluppa a mano a mano che la mente si perfeziona, e ci porta ad amare quello che ci sembra bello, senza che ci sia mai stato detto che cos’è. Dopo ciò, chi crederà che noi siamo al mondo per altro che per amare? Di fatto, è inutile nasconderselo: si ama sempre. Persino nelle cose in cui sembra che l’amore sia stato messo da parte, esso vi si trova segretamente e di contrabbando; e non è possibile che l’uomo possa vivere un solo momento senza di esso. L’uomo non ama restare solo con se stesso; tuttavia ama: bisogna dunque che cerchi altrove l’oggetto del suo amore. Non può trovarlo che nella bellezza; ma siccome è egli stesso la più bella creatura che Dio abbia fatto, bisogna che trovi in se stesso il modello di quella bellezza che cerca fuori di sé. […] La bellezza è divisa in mille modi diversi. Il soggetto più adatto a sostenerla è una donna: quando questa è intelligente, anima e mette meravigliosamente in rilievo la sua bellezza. […] L’attaccamento ad un medesimo pensiero stanca e distrugge la mente dell’uomo. Per questo, ai fini della saldezza e della durata del piacere dell’amore, a volte è necessario dimenticare che si ama; e non è commettere infedeltà, perché non se ne amano altre: è ricuperare le forze per amare meglio. Questo avviene senza che ci si pensi; la mente vi è indotta spontaneamente; la natura lo vuole, lo ordina. Bisogna tuttavia confessare che è una misera conseguenza della natura umana, e che si sarebbe più felici se non si fosse costretti a mutare di pensiero; ma non c’è rimedio. […] Si è tolto poco giustamente il nome di «ragione» all’amore, e si sono opposte queste due cose senza fondamento, perché l’amore e la ragione sono la stessa cosa. L’amore è un precipitare di pensieri che vanno tutti dalla medesima parte senza esaminare tutto, ma è tuttavia sempre ragione: e non ci si deve né può augurare che sia diversamente, altrimenti saremmo delle macchine molto noiose. Non escludiamo dunque la ragione dall’amore, dal momento che essa ne è inseparabile. Dunque, i poeti non hanno avuto ragione di dipingere l’amore come cieco; bisogna togliergli la benda e rendergli oramai il godimento dei suoi occhi.

 - Blaise Pascal (Clermont-Ferrand 1623 - Parigi 1662) avrebbe scritto Discorso sulle passioni d’amore tra il 1652 e il 1653. L’attribuzione del breve saggio è però controversa e il manoscritto rimase inedito fino al 1843, quando fu pubblicato da Victor Cousin. Il testo riportato è tratto da: B. Pascal, Discorso sulle passioni d’amore, in Opuscoli e scritti vari, a cura di G. Preti, Laterza, Bari 1959, pp. 12 ss.

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P, Pensieri a volte si pensa e si giudiCa Con il sentimento: Ci si può Fidare e, da FilosoFi, BeFFarsi della FilosoFia? pascal non ha trattato in maniera sistematica il tema delle capacità della mente umana e delle sue facoltà, ma vi è tornato in diverse occasioni. una serie di testi rimandano a una distinzione piuttosto netta tra l’esprit de finesse e l’esprit de géométrie, due espressioni di fatto intraducibili in italiano che indicano attitudini differenti della mente umana: alcune persone tendono a intuire con immediatezza (esprit de finesse), altre a ragionare ponendo ordinatamente un pensiero dopo l’altro (esprit de géométrie). non si può dire a priori quale attitudine sia più adatta alle situazioni in cui ci si trova, perché a volte le situazioni sono sfumate, bisogna saperle percepire prima che capire, mentre altre volte è necessario un rigore del pensiero simile a quello utilizzato nella geometria. anche nella ricerca scientifica, a volte, può essere necessario sapere pensare con finesse. una diversa serie di testi parla delle “ragioni del cuore” che la ragione non comprende. pascal sottolinea che sono ragioni anch’esse, a pieno titolo. non si deve limitare la mente dell’uomo entro rigidi confini: ha una straor­ dinaria flessibilità.

Differenza tra lo spirito di geometria e lo spirito di finezza. Nel primo i principî sono tangibili, ma lontani dal comune modo di pensare, sicché si fa fatica a volger la mente verso di essi, per mancanza di abitudine; ma, per poco che la si volga a essi, si scorgono pienamente; e solo una mente affatto guasta può ragionar male sopra principî così tangibili che è quasi impossibile che sfuggano. Nello spirito di finezza i principî sono, invece, nell’uso comune e dinanzi agli occhi di tutti. Non occorre volgere il capo o farsi violenza: basta aver buona vista, ma buona davvero, perché i principî sono così tenui e così numerosi che è quasi impossibile che non ne sfugga qualcuno. Ora, basta ometterne uno per cadere in errore: occorre, pertanto, una vista molto limpida per scorgerli tutti e una mente retta per non ragionare stortamente sopra principî noti. Tutti i geometri sarebbero, quindi, fini se avessero la vista buona, giacché non ragionano falsamente sui principî che conoscono; e gli spiriti fini sarebbero geometri se potessero piegare lo sguardo verso i principî, a loro non familiari, della geometria.

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Se, dunque, certi spiriti fini non sono geometri, è perché sono del tutto incapaci di volgersi verso i principî della geometria; mentre la ragione per cui certi geometri difettano di finezza è che non scorgono quel che sta dinanzi ai loro occhi e che, essendo usi ai principî netti e tangibili della geometria, e a ragionare solo dopo averli ben veduti e maneggiati, si perdono nelle cose in cui ci vuol finezza, nelle quali i principî non si lascian trattare nella stessa maniera. Infatti, esse si scorgono appena; si sentono più che non si vedano; è molto difficile farle sentire a chi non le senta da sé: sono talmente tenui e in così gran numero che occorre un senso molto perspicuo e molto delicato per sentirle e per giudicarne poi in modo retto e giusto secondo tale sentimento, senza poterle il più delle volte dimostrare con ordine rigoroso, come nella geometria, perché non se ne possiedono nella stessa maniera i principî e volerlo fare sarebbe un’impresa senza fine. Bisogna cogliere la cosa di primo acchito con un solo sguardo, e non per progresso di ragionamento, almeno sino a un certo punto. E così è raro che i geometri siano spiriti fini e gli spiriti fini geometri, perché i primi voglion trattare con metodo geometrico le cose che esigon finezza, e cadono nel ridicolo volendo cominciare dalle definizioni e poi dai principî: metodo fuor di luogo in questa specie di ragionamento. Non che la mente non lo faccia, ma lo fa in modo tacito, naturalmente e senz’arte, perché l’espressione di esse eccede le umane capacità e pochi ne possiedono il sentimento. E gli spiriti fini, per contro, essendo usi a giudicare con una sola occhiata, rimangon talmente stupiti quando si trovano di fronte a proposizioni per loro incomprensibili, e alla cui intelligenza si accede solo attraverso definizioni e principî sterilissimi, che essi non sono avvezzi a esaminare minutamente, che se ne infastidiscono e se ne disgustano. Ma gli spiriti falsi non sono mai né fini né geometrici. […] 4 Geometria, finezza. La vera eloquenza si beffa dell’eloquenza; la vera morale, della morale: ossia, la morale del giudizio si beffa della morale dell’intelletto – che è senza regole. Poiché al giudizio appartiene il sentimento, così come le scienze appartengono all’intelletto. La finezza è propria del giudizio, la geometria dell’intelletto. Beffarsi della filosofia è filosofare davvero. […] 144 Noi conosciamo la verità non soltanto con la ragione, ma anche con il cuore. In quest’ultimo modo conosciamo i principî primi; e invano il ragionamento, che non vi ha parte, cerca d’impugnarne la certezza. I pirroniani, che non mirano ad altro, vi si adoperano inutilmente. Noi, pur essendo incapaci di darne giustificazione razionale, sappiamo di non sognare; e quell’incapacità serve solo a dimostrare la debolezza della nostra ragione, e non come essi pretendono, l’incertezza di tutte le nostre conoscenze. Infat-

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ti, la cognizione dei primi principî – come l’esistenza dello spazio, del tempo, del movimento, dei numeri –, è altrettanto salda di qualsiasi di quelle procurateci dal ragionamento. E su queste conoscenze del cuore e dell’istinto deve appoggiarsi la ragione, e fondarvi tutta la sua attività discorsiva. (Il cuore sente che lo spazio ha tre dimensioni e che i numeri sono infiniti; e la ragione poi dimostra che non ci sono due numeri quadrati l’uno dei quali sia doppio dell’altro. I principî si sentono, le proposizioni si dimostrano, e il tutto con certezza, sebbene per differenti vie). Ed è altrettanto inutile e ridicolo che la ragione domandi al cuore prove dei suoi primi principî, per darvi il proprio consenso, quanto sarebbe ridicolo che il cuore chiedesse alla ragione un sentimento di tutte le proposizioni che essa dimostra, per indursi ad accettarle. […] 146. Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce: lo si osserva in mille cose. Io sostengo che il cuore ama naturalmente l’essere universale, e naturalmente se medesimo, secondo che si volge verso di lui o verso di sé; e che s’indurisce contro l’uno o contro l’altro per propria elezione. Voi avete respinto l’uno e conservato l’altro: amate forse voi stessi per ragione?

 - Blaise Pascal (Clermont-Ferrand 1623 - Parigi 1662) scrisse una vasta opera apologetica del cristianesimo, mai completata, i cui abbozzi furono raccolti dopo la sua morte, nel 1670, con il titolo di Pensieri. Il testo riportato è tratto da: B. Pascal, Pensieri, a cura di P. Serini, Einaudi, Torino 1962, pp. 110-115.

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S, Etica Come potreBBe il tutto non esistere o avere QualCosa al di Fuori di sé? la filosofia di spinoza è caratterizzata da una nozione che viene espressa con tre diversi sostantivi che devono essere considerati come sinonimi, al contrario che in tutte le altre filosofie precedenti: dio, natura, sostanza. in quanto nozione, essa appartiene alla mente, ed è quindi oggetto di tutte le necessarie indagini filosofiche riguardo alla sua verità: e infatti nell’Etica spinoza dimostra che l’ente di cui si parla in questa nozione non è solo un pensiero della mente ma necessariamente esiste. non sarebbe corretto dire: esiste non solo nella mente come pensiero, ma anche nella realtà esterna alla mente come realtà indipendente dal pensiero (così si direbbe, poniamo, dell’idea innata cartesiana di dio), perché non è questa la tesi di spinoza. dio (o la natura, o la sostanza: la si chiami come si vuole) è infatti il tutto di cui la mente stessa è parte. nel pensare questa nozione la mente concepisce la totalità, e dunque se stessa come parte della totalità. ovviamente non si può pensare dio senza pensare (anche) se stessi (quel se stessi che sta pensando dio).

Definizioni I. Intendo per causa di sé ciò la cui essenza implica l’esistenza; ossia ciò la cui natura non si può concepire se non esistente. II. Si dice finita nel suo genere quella cosa che può essere limitata da un’altra della medesima natura. Per esempio, un corpo è detto finito perché ne concepiamo sempre un altro più grande. Così un pensiero è limitato da un altro pensiero. Ma un corpo non è limitato da un pensiero, né un pensiero da un corpo. III. Intendo per sostanza ciò che è in sé e per sé si concepisce: vale a dire ciò il cui concetto non ha bisogno del concetto di un’altra cosa dal quale esso debba essere formato. IV. Intendo per attributo ciò che l’intelletto percepisce della sostanza come costituente la sua essenza. V. Intendo per modo le affezioni della sostanza, ossia ciò che è in altro, per il cui mezzo è pure concepito. VI. Intendo per Dio un essere assolutamente infinito, cioè, una sostanza costituita da un’infinità d’attributi, ciascuno dei quali esprime un’essenza eterna ed infinita. i filosofi del secondo seicento

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S - Dico assolutamente infinito, e non infinito nel suo genere; perché di tutto ciò che è infinito soltanto nel suo genere possiamo negare una infinità di attributi; ma appartiene invece all’essenza di ciò che è assolutamente infinito tutto ciò che esprime un’essenza e non implica alcuna negazione. VII. Si dice libera quella cosa che esiste per sola necessità della sua natura e che è determinata da sé sola ad agire: si dice invece necessaria, o meglio coatta, la cosa che è determinata da altro ad esistere e ad agire in una certa e determinata maniera. VIII. Intendo per eternità l’esistenza stessa, in quanto è concepita come conseguenza necessaria della sola definizione di una cosa eterna. S - Una tale esistenza, infatti, è concepita come una verità eterna alla stessa maniera dell’essenza della cosa, e perciò non si può spiegare per mezzo della durata o del tempo, anche se la durata sia concepita senza principio e senza fine.

Assiomi I. Tutto ciò che è, è o in sé o in altro. II. Ciò che non può essere concepito per mezzo d’altro, dev’essere concepito per sé. III. Da una determinata causa data segue necessariamente un effetto, e, al contrario, se non è data nessuna causa determinata, è impossibile che segua un effetto. IV. La conoscenza dell’effetto dipende dalla coscienza della causa e la implica. Proposizione 14. Oltre Dio non si può dare né si può concepire alcuna sostanza. Proposizione 15. Tutto ciò che è, è in Dio, e nulla può essere, né essere concepito, senza Dio. Proposizione 16. Dalla necessità della natura divina devono seguire infinite cose, in infiniti modi (cioè tutto quello che può cadere sotto un intelletto infinito). Proposizione 17. Dio agisce per le sole leggi della natura e senza essere costretto da nessuno. Proposizione 22. Tutto ciò che segue da un attributo di Dio, in quanto è modificato da una modificazione tale che per la virtù di quell’attributo esista e necessariamente e come infinita, deve pure esistere e necessariamente e come infinito. Proposizione 23. Ogni modo che esiste e necessariamente e come infinito ha dovuto seguire necessariamente o dalla natura assoluta di qualche

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attributo di Dio o da qualche attributo modificato da una modificazione che esiste e necessariamente e come infinita. Proposizione 26. Una cosa che è determinata ad operare alcunché è stata così determinata necessariamente da Dio; e quella che non è determinata da Dio, non può determinare se stessa ad operare. Proposizione 27. Una cosa che è determinata da Dio ad operare alcunché non può rendere indeterminata se stessa. Proposizione 28. Una cosa singolare qualsiasi, ossia qualunque cosa che è finita ed ha un’esistenza determinata, non può esistere né essere determinata ad operare, se non è determinata ad esistere e ad operare da un’altra causa che anch’essa è finita ed ha un’esistenza determinata: ed alla sua volta questa causa non può esistere né essere determinata ad operare se non è determinata ad esistere e operare da un’altra che anch’essa è finita ed ha un’esistenza determinata, e così via all’infinito. Proposizione 29. Nella natura non si dà nulla di contingente, ma tutto è determinato dalla necessità della natura divina ad esistere e ad operare in una certa maniera. Proposizione 33. Le cose non hanno potuto essere prodotte da Dio in nessun’altra maniera né in nessun altro ordine se non nella maniera e nell’ordine in cui sono state prodotte.

 - Baruch Spinoza (Amsterdam 1632 - L’Aia 1677) iniziò a comporre l’Etica nel 1663 e tentò di pubblicarla nel 1675, rinunciandovi a causa delle accuse di ateismo. Il testo riportato è tratto da: B. Spinoza, Ethica, trad. it. di G. Durante, Sansoni, Firenze 1984, pp. 5 ss.

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S, Trattato teologico-politico in Che senso le regole della natur a sono all’origine della genesi della soCietÀ e dei Fondamenti dello stato demoCr atiCo? tutti gli uomini, secondo spinoza, sono determinati per natura a vivere in un certo modo, sia esso dettato dalla ragione o dall’istinto. per evitare che la sottomissione alle leggi di natura porti all’insicurezza e al disordine, oc­ corre che gli uomini volontariamente limitino il diritto naturale. da questo atto deriva lo stato democratico, che assomma in sé i poteri e i diritti degli individui. l’assolutezza dello stato democratico delineato da spinoza si fonda sulla razionalità, che stabilisce che il fine dello stato è la libertà dei cittadini.

Per diritto e istituto naturale non intendo altro, che le regole della natura di ciascun individuo, secondo le quali concepiamo che ciascuno sia naturalmente determinato ad esistere ed operare in un certo modo. Per es. i pesci sono determinati dalla natura a nuotare, i grandi a mangiare i più piccoli, e perciò per sommo diritto di natura i pesci sono padroni dell’acqua e i grandi mangiano i più piccoli. Infatti è certo che la natura assolutamente considerata ha il sommo diritto a tutte le cose che ha in suo potere, cioè il diritto della natura si estende fin dove si estende la sua potenza; infatti la potenza della natura è la stessa potenza di Dio, che ha sommo diritto a tutte le cose: ma poiché l’universale potenza di tutta la natura non è altro che la potenza di tutti gli individui simultaneamente, ne deriva che ciascun individuo ha il massimo diritto a tutte le cose che ha in suo potere, ossia che il diritto di ciascuno si estende fin dove si estende la sua determinata potenza: e poiché la legge suprema della natura è che ciascuna cosa si sforzi per quanto è in sé di perseverare nel suo stato, e questo senza tener conto di altro ma soltanto di sé, ne segue che ciascun individuo ha il massimo diritto a questo, e cioè (come ho detto) ad esistere e operare secondo quanto è naturalmente determinato. Né qui riconosciamo alcuna differenza tra gli uomini e gli altri individui della natura, né tra gli uomini forniti di ragione e quelli che ignorano la vera ragione, né tra i fatui, i folli e i sani. Infatti, qualunque cosa ciascuno fa secondo le leggi della sua natura agisce con pieno diritto, poiché agisce nel modo in cui è stato determinato dalla natura e non può altrimenti. Per cui tra gli uomini, fino a che li consideriamo viventi sotto il dominio della sola natura, ha pieno diritto tanto quello che non conosce ancora la ragione o che non ha ancora acquisito l’abito della virtù e vive secondo le sole leggi dell’istinto, quanto quello che dirige la propria vita secondo le leggi della ragione. Cioè, come il sapiente ha il più ampio diritto

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a tutte le cose che la ragione suggerisce, ossia a vivere secondo le leggi della ragione; così anche l’ignorante e impotente ha il più ampio diritto a tutte le cose che l’appetito suggerisce, ossia a vivere secondo le leggi dell’istinto. E questo è lo stesso di quel che insegna Paolo, che prima della legge, cioè fino a quando gli uomini sono considerati viventi sotto il dominio della natura, non riconosce alcun peccato. Perciò il diritto naturale di ogni uomo non è determinato dalla sana ragione, ma dalla cupidigia e dalla potenza. Non tutti infatti sono naturalmente determinati ad agire secondo le regole e le leggi della ragione, ma al contrario, tutti nascono ignari di tutte le cose e prima di poter conoscere la vera norma di vita e acquistare l’abito della virtù, trascorre una gran parte dell’età, anche se siano stati bene educati; e tuttavia sono tenuti a vivere e, per quanto possono, a conservare se stessi, perciò sotto il solo impulso dell’appetito: poiché la natura non diede loro altro e negò l’attuale potenza di vivere secondo la sana ragione, per cui non sono tenuti a vivere secondo le leggi di una mente sana, più di quanto il gatto non sia tenuto a vivere secondo le leggi della natura leonina. […] Con questo principio, senza alcuna contrarietà del diritto naturale, si può costituire la società, e mantenere perennemente ogni atto in piena buona fede; se cioè ciascuno trasferirà nella società tutto il potere che ha, società che pertanto da sola disporrà del supremo diritto di natura, cioè del sommo potere, al quale ciascuno liberamente o per timore della pena sarà tenuto ad obbedire. In verità tale diritto della società si chiama Democrazia, che pertanto è definita come l’unione di tutti gli uomini che collegialmente ha il sommo diritto a tutte le cose sulle quali ha potere. Da cui segue che la somma potestà non è vincolata da nessuna legge, ma tutti devono obbedirle su tutto: a questo infatti, tacitamente o esplicitamente, hanno dovuto impegnarsi tutti, quando trasferirono nella società tutto il loro potere di difendersi, cioè, tutto il loro diritto. […] In tal modo penso di aver mostrato con sufficiente chiarezza i fondamenti del governo democratico; del quale ho voluto trattare a preferenza di altri, perché mi è parso il più naturale e il più vicino alla libertà che la natura concede a ciascuno. In esso infatti nessuno trasferisce in altri il proprio diritto naturale al punto da non essere più consultato in seguito, ma nella maggioranza della società, di cui egli è una parte. E per questo motivo tutti restano uguali, come prima nello stato naturale.

 - Baruch Spinoza (Amsterdam 1632 - L’Aia 1677) pubblicò il Trattato teologicopolitico in forma anonima, nel 1670. Il testo riportato è tratto da: B. Spinoza, Trattato teologico-politico, a cura di E. Giancotti Boscherini, Torino 1980, cap. XVI, pp. 189 ss.

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S, Epistolario si può essere realmente liBeri, nel privato della propria vita interiore e nella sFer a della vita puBBliCa , in Completa assenza di liBero arBitrio? la nozione spinoziana di libertà è tra le più difficili da mettere a fuoco di quelle che questo filosofo ha elaborato, perché è concepita nel contesto del più radicale rifiuto della nozione di libero arbitrio. la libertà è un tratto essenziale dell’uomo, ma in un senso del tutto diverso dalla libertà di scelta: l’uomo è libero quando comprende che a esprimersi in lui è la realtà pro­ fonda dell’essere (lo stesso essere che si esprime in ogni realtà). la libertà non è una proprietà, un fare o una potenzialità. la libertà è un modo di essere, l’essere che noi siamo: è essere se stessi. avremo quindi capito che siamo liberi quando avremo capito chi siamo: una espressione nel tempo dell’eternità.

Io dico libero ciò che esiste e opera per la sola necessità della sua natura; costretto, invece, ciò che a esistere e a operare è determinato da altro secondo una certa e determinata ragione. Per esempio, Dio, per quanto necessariamente, esiste tuttavia liberamente, perché esiste per la sola necessità della sua natura. E così pure, Dio intende se stesso e tutte le cose in modo assolutamente libero, perché ciò discende dalla sola necessità della sua natura. Vedete, dunque, che io pongo la libertà, non nel libero arbitrio, ma nella libera necessità. Ma veniamo alle cose create, le quali tutte sono determinate a esistere e a operare da cause esterne, secondo una certa e determinata ragione. E per intendere questo chiaramente, pensiamo una cosa semplicissima. Per esempio, una pietra riceve una certa quantità di movimento da una causa esterna che la spinge, per la quale, cessato l’impulso della causa esterna, continua necessariamente ad esser mossa. Dunque, questo persistere della pietra nel movimento è coatto, non perché necessario, ma perché deve essere definito dall’impulso di una causa esterna. E ciò che si dice qui della pietra deve intendersi di qualunque cosa particolare, per quanto complessa e adatta ad una molteplicità di usi, perché ciascuna cosa, cioè, è necessariamente determinata a esistere e a operare da una qualche causa esterna, secondo una certa e determinata ragione. Inoltre, poniamo ora, se vogliamo, che la pietra, mentre continua a muovere, pensi, e sappia di sforzarsi per quanto può di persistere nel movimento. Davvero questa pietra, in quanto è consapevole unicamente del suo sfor-

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zo, al quale non è affatto indifferente, crederà di essere liberissima e di non persistere nel movimento per nessun altro motivo se non perché lo vuole. Proprio questa è quell’umana libertà, che tutti si vantano di possedere e che solo in questo consiste, che gli uomini sono consapevoli del loro istinto e ignari delle cause da cui sono determinati. Così, il bambino crede di desiderare liberamente il latte; il fanciullo rissoso la vendetta, e il timido la fuga. L’ubriaco crede di dire di sua libera spontaneità quelle cose che poi da sobrio preferirebbe di aver taciuto. Cosí il delirante, il chiacchierone e molti altri di simil risma credono di agire di libera iniziativa, anziché di essere trasportati da un impulso. E poiché questo pregiudizio è innato in ogni uomo, è difficile liberarnelo. Infatti, benché l’esperienza insegni a sazietà che gli uomini in nulla riescono meno che nella moderazione dei propri istinti, e che spesso, quando si trovano alle prese con due affetti contrari, vedono il meglio, ma si attengono al peggio, credono tuttavia di essere liberi; e ciò perché l’appetito di certe cose è meno forte e può venir smorzato dal ricordo di qualche altra che abbiamo più di frequente in mente. E con questo, ho spiegato abbastanza, se non erro, qual sia la mia opinione intorno alla necessità libera e coatta e intorno alla finzione della libertà umana. Avrete di che rispondere facilmente alle obiezioni del vostro amico. Infatti, se egli afferma con Cartesio che è libero colui il quale non è costretto da nessuna causa esterna, io ammetto, ove s’intenda per costretto colui che agisce suo malgrado, che noi in alcune cose non siamo affatto costretti, e che sotto questo aspetto godiamo del libero arbitrio. Ma, se per costretto intende colui che agisce necessariamente, sia pure non suo malgrado, allora io nego, come ho già spiegato, che noi siamo liberi in qualche cosa.

 - Baruch Spinoza (Amsterdam 1632 - L’Aia 1677) scrisse le lettere contenute nell’Epistolario in un arco di tempo compreso tra il 1663 e il 1676. Il testo riportato è tratto da: B. Spinoza, Epistolario, a cura di A. Droetto, Einaudi, Torino 1974, pp. 248-250.

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S, Etica la mente può Controllare le passioni, o le passioni possono Controllare la mente? la teoria spinoziana delle passioni deriva nell’essenziale dalla filosofia carte­ siana e dalla linea maestra di tutta la filosofia del primo seicento, che con­ sidera «le azioni e i desideri umani come se si trattasse di linee, di superfici e di corpi». le passioni sono il riflesso nella coscienza di determinate forze naturali che agiscono in noi in quanto parte della natura. non si tratta di una tesi del tutto nuova per la storia della filosofia, essendo stata sostenuta (in forme e modi diversi) dalle filosofie ellenistiche. la novità radicale è nel­ la considerazione del corpo, che in spinoza assume un carattere che devia rispetto alla stessa linea maestra seicentesca: non sappiamo in dettaglio che cosa possa il corpo, ed è lì la sede delle passioni. C’è da aspettarsi di tutto da una ricerca che, con tutta evidenza per spinoza, è ancora da fare. per­ ché meravigliarsi, del resto: non seguono infinite cose dalla natura? non è forse il corpo, come la mente, natura? e la natura non è forse «ovunque e sempre la medesima»?

Parte III. Origine e natura degli affetti – Prefazione La maggior parte di coloro che hanno scritto sugli affetti e sul modo di vivere degli uomini, sembra che trattino non di cose naturali, che seguono le comuni leggi della natura, ma di cose che sono al di fuori della natura. Sembra anzi che concepiscano l’uomo nella natura come un impero nell’impero. Infatti credono che l’uomo sconvolga l’ordine della natura, più che seguirlo, e che abbia sulle proprie azioni un potere assoluto, e che non sia determinato da altro che da se stesso. Attribuiscono poi la causa dell’impotenza e dell’incostanza umana non al comune potere della natura ma a un presunto vizio della natura umana, e perciò la compiangono, la deridono, la disprezzano, o, più comunemente, la detestano; e chi con maggior eloquenza o arguzia sa cogliere l’impotenza della Mente umana passa per uomo divino. Tuttavia non sono mancati uomini assai illustri (alla cui fatica e operosità riconosciamo di dover molto) che hanno scritto cose eccellenti sul giusto modo di vivere e hanno dato ai mortali consigli pieni di saggezza; ma nessuno, che io sappia, ha determinato la natura e le forze degli Affetti, e che cosa possa fare la Mente per dominarli. So bene che il celeberrimo Cartesio, benché anch’egli abbia creduto che la Mente è dotata di un potere assoluto sulle sue azioni, ha cercato tuttavia

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di spiegare gli Affetti umani mediante le loro cause prime e, nello stesso tempo, ha cercato di indicare la via per cui la Mente potesse ottenere il potere assoluto sugli Affetti; ma secondo me non ha dimostrato altro che l’acume del suo grande ingegno, come a suo tempo dimostrerò. Infatti io voglio tornare a coloro che preferiscono detestare e irridere gli Affetti e le azioni degli uomini piuttosto che comprendere. A costoro sembrerà certamente strano che io mi accinga a trattare dei vizi e delle stoltezze umane secondo il metodo Geometrico, e che voglia dimostrare con un ragionamento rigoroso cose che essi proclamano incompatibili con la ragione, vane, assurde, orrende. Ma ecco quale è il mio argomento. Nella natura nulla accade che possa essere attribuito a un suo vizio; infatti la natura è sempre la stessa e la sua virtù e potenza di agire è ovunque una sola e medesima, ossia le leggi e le norme della natura, secondo le quali ogni cosa accade e da una forma si muta in un’altra, sono ovunque e sempre le medesime, e perciò anche il modo d’intendere la natura di tutte le cose, quali che siano, deve essere uno e medesimo, ossia in base alle leggi e alle norme universali della natura. Quindi gli Affetti dell’odio, dell’ira, dell’invidia, ecc., in sé considerati, derivano dalla stessa necessità e virtù della natura [...]. Tratterò dunque della natura e delle forze degli Affetti e del potere della Mente su di essi, con lo stesso Metodo con cui nelle parti precedenti ho trattato di Dio e della Mente, e considererò le azioni e i desideri umani come se si trattasse di linee, di superfici e di corpi.

Parte III. Origine e natura degli affetti. Scolio alla prop. II […] In effetti, che cosa propriamente possa il Corpo, nessuno l’ha ancora determinato, cioè finora l’esperienza non ha ancora insegnato a nessuno che cosa il Corpo possa fare in base alle sole leggi della natura, considerata solo come corporea, e che cosa non possa fare se non sia determinato dalla Mente. Infatti finora nessuno ha conosciuto tanto accuratamente la struttura del Corpo da poterne spiegare tutte le funzioni, per non dire che nei Bruti si osservano moltissime cose che superano di gran lunga la sagacia umana, e che i sonnambuli, nel sonno, compiono un’infinità di cose che da svegli non oserebbero fare; e questo dimostra a sufficienza che lo stesso Corpo, in base alle sole leggi della sua natura, può molte cose di cui la sua stessa Mente si meraviglia. Inoltre nessuno sa in che modo e con quali mezzi la Mente faccia muovere il Corpo, né quanti gradi di moto possa attribuirgli, né con quanta velocità possa muoverlo. Dal che deriva che quando gli uomini dicono che questa o quella azione del Corpo è originata dalla Mente, la quale ha dominio sul Corpo, non sanno quello che dicono e non fanno altro che confermare, con parole speciose, che ignorano la vera causa di quell’azione senza meravigliarsene. Ma diranno che, pur sapendo o ignorando con quali mezzi la Mente muova il Corpo, essi sperimentano tuttavia

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che se la Mente umana non fosse atta ad escogitare, il Corpo sarebbe inerte. Diranno, inoltre, che essi esperimentano che nella sola Mente si trova il potere di parlare, di tacere e di molte altre cose che, perciò, essi credono dipendere dalla decisione della Mente. Ma, per quanto riguarda il primo punto, io domando loro se l’esperienza non insegni anche, al contrario, che quando il Corpo è inerte anche la Mente è incapace di pensare. Infatti quando il Corpo si acquieta nel sonno anche la Mente contemporaneamente si è assopita e non ha il potere di escogitare come quando è sveglia. Inoltre credo che tutti sappiano per esperienza che la Mente non sempre è ugualmente capace di pensare intorno al medesimo oggetto; ma, come il Corpo è più adatto ad essere stimolato dall’immagine di questo o di quell’oggetto, così la Mente è più adatta a considerare questo o quell’oggetto. Ma, diranno che dalle sole leggi della natura, in quanto è considerata solo come corporea, non si possono dedurre le cause degli edifici, delle pitture, e di altre cose simili che sono fatte solo dall’arte umana, e che il Corpo umano, se non fosse determinato e guidato dalla Mente, non sarebbe capace di edificare un tempio. Ma io ho già mostrato che essi non sanno quali siano le possibilità del Corpo, né cosa si possa dedurre dalla sola considerazione della sua natura, e che essi stessi sperimentano che, per le sole leggi della natura, accadono moltissime cose che non avrebbero mai creduto che possano accadere se non con la guida della Mente, come ad esempio le azioni che i sonnambuli compiono nel sonno e di cui essi stessi, quando sono svegli, si meravigliano.

 - Baruch Spinoza (Amsterdam 1632 - L’Aia 1677) iniziò a comporre l’Etica nel 1663 e tentò di pubblicarla nel 1675, rinunciandovi a causa delle accuse di ateismo. Il testo riportato è tratto da: B. Spinoza, Etica, a cura di R. Cantoni e F. Fergnani, Utet, Torino 1972, pp. 187-188, 192-195.

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L, Elaborazioni private se la mente non È una parte o una maniFestazione del Corpo e Quindi della natur a , ma È indipendente, Come possono le sue idee ConosCere il Corpo e la natur a? leibniz pone il problema centrale della conoscenza in questi termini: le idee (di vario tipo) si riferiscono a realtà esterne alla mente che le pensa; se esse hanno la forza di far sì che la mente conosca questo mondo nella sua realtà e verità, esse non possono essere concepite come del tutto indipendenti, come costruzioni libere, perché altrimenti esse potrebbero anche avere una coerenza perfetta nel chiuso mondo della mente, ma non parlerebbero della realtà. deve quindi esistere nella mente una facoltà che consenta la produzione di idee (per leibniz non c’è infatti dubbio che le idee sono prodotte dalla mente, non essendo i movimenti del cervello altro che movimenti fisici, e non idee) in accordo con la natura reale delle cose. dire quindi, con locke, che non esistono idee innate non può significare che la mente non ha la capacità autonoma di produrre idee “vere”. se non avesse questa capacità non riuscirebbe affatto a rappresentare in sé corret­ tamente il mondo. dunque, «nihil est in intellectu quod non fuerit in sensu», ma bisogna aggiungere «nisi ipse intellectus».

Che cos’è l’idea In primo luogo, con il nome di idea intendiamo qualcosa che è nella nostra mente. Pertanto le tracce impresse nel cervello non sono idee: tengo infatti per certo che la mente sia altro dal cervello, o da una sostanza più sottile che faccia parte del cervello. Ma nella nostra mente vi sono molte cose, per esempio i pensieri, le percezioni, gli affetti, che riconosciamo non essere idee, anche se non si hanno senza idee. L’idea infatti non consiste per noi in un atto del pensiero, ma in una facoltà; e diciamo di avere l’idea della cosa anche se non pensiamo ad essa, se solo possiamo pensare ad essa quando ci si offre l’occasione. Anche in questo si nasconde però una difficoltà: abbiamo infatti una facoltà remota di pensare a tutte le cose, anche a quelle di cui magari non abbiamo l’idea, perché abbiamo la facoltà di riceverla; dunque l’idea richiede una qualche facoltà prossima o facilità di pensare alla cosa. Ma neppure ciò basta: infatti, chi possiede un metodo seguendo il quale potrà pervenire alla cosa, non per questo ne ha l’idea. Così, enumerando ordinatamente le sezioni coniche, è certo che giungerei alla conoscenza delle i filosofi del secondo seicento

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iperboli opposte anche se non avessi mai avuto la loro idea. Bisogna dunque che vi sia in me qualcosa che non soltanto conduca alla cosa, ma che altresì la esprima. Si dice dunque esprimere una cosa, ciò in cui vi sono abitudini corrispondenti alle abitudini della cosa da esprimere. Ma le espressioni sono svariate: per esempio, il modello di una macchina esprime la macchina stessa, il disegno scenografico della cosa nel piano esprime il solido, l’orazione esprime pensieri e verità, i caratteri esprimono i numeri, un’equazione algebrica esprime il cerchio o un’altra figura: ciò che è comune a queste espressioni è che, dalla sola contemplazione delle abitudini esprimenti, possiamo giungere alla conoscenza delle proprietà corrispondenti della cosa che è espressa. Donde risulta che non è necessario che ciò che esprime sia simile alla cosa espressa, purché le abitudini conservino una qualche analogia. Risulta anche che talune espressioni hanno un fondamento in natura, altre invece si fondano almeno in parte sull’arbitrio, come sono le espressioni che si fanno mediante vocaboli e caratteri. Quelle che sono fondate in natura richiedono o una qualche similitudine, come si ha tra un cerchio maggiore e uno minore, o tra una regione e la sua carta geografica; oppure senz’altro una connessione quale si trova tra il cerchio e l’ellisse che lo rappresenta nell’ottica: ogni punto dell’ellisse corrisponde secondo una certa legge a un punto del cerchio. Anzi, in tal caso il cerchio sarebbe mal rappresentato da un’altra figura più simile. Analogamente ogni effetto intero rappresenta la causa piena: posso infatti, dalla conoscenza di tale effetto, risalire sempre alla conoscenza della sua causa. Così le azioni di ciascuno rappresentano il suo animo e il mondo stesso rappresenta in qualche modo Dio. Può anche succedere che si esprimano a vicenda quelli che sorgono dalla stessa causa, per esempio gesti e discorso. Così i sordi comprendono chi parla con loro non dal suono, ma dai movimenti della bocca. Che l’idea delle cose sia in noi, dunque, non significa se non che Dio, autore parimenti delle cose e della mente, ha impresso nella mente quella facoltà di pensare, affinché essa possa ricavare dalle sue operazioni quel che corrisponde perfettamente a ciò che segue dalle cose. E se anche l’idea del cerchio non è simile al cerchio, pure se ne possono ricavare delle verità che, senza dubbio, saranno confermate dall’esperienza del vero cerchio.

 - Gottfried Wilhelm von Leibniz (Lipsia 1646 - Hannover 1716) scrisse le Elaborazioni private nel 1677. Il testo riportato è tratto da: G.W. Leibniz, Elaborazioni private, in Scritti filosofici I. Scritti giovanili. Elaborazioni private. Il nuovo sistema, a cura di M. Mugnai ed E. Pasini, Utet, Torino 2000, pp. 193 ss.

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L, Saggi di teodicea se dio È l’autore della natur a e dell’uomo, Come giustiFiCare dio per non averli Creati perFetti, Come l’esperienza del dolore e del male dimostr a? per leibniz dio è la ragione prima tanto delle cose quanto dell’uomo. allo stesso tempo, leibniz ammette la libertà dell’uomo, cioè che esista nella natura una sorgente di azioni (ciascun uomo) che non deriva da dio né è costretto ad agire e a volere in un certo modo dall’ordine universale della natura, e porta quindi la responsabilità delle sue scelte. il “principio di ra­ gion sufficiente” dice sì che c’è sempre una ragione per cui qualcosa accade, ma questa ragione può avere il proprio fondamento in un atto libero della mente dell’uomo. e in ultimo la natura tutta deriva da un atto libero di dio. dunque, se la natura non è perfetta dobbiamo attribuirne la responsabilità a dio? se siamo imperfetti, dobbiamo attribuire la responsabilità di questa cosa a dio? se i nostri istinti ci portano verso il male, e i nostri istinti sono naturali, ne è dio l’autore? la 8ISHMGIE è la risposta di leibniz.

Dio è la ragione prima delle cose, poiché quelle che sono limitate, come tutto ciò che vediamo e sperimentiamo, sono contingenti e non hanno nulla in sé che renda la loro esistenza necessaria, essendo manifesto che il tempo, lo spazio e la materia, uniti e uniformi in se stessi, e indifferenti a tutto, avrebbero potuto accogliere tutt’altri movimenti e figure, e in un ordine completamente diverso. Bisogna dunque cercare la ragione dell’esistenza del mondo, che è la raccolta intera delle cose contingenti: e bisogna cercarla nella sostanza che porta con sé la ragione della propria esistenza e che, di conseguenza, è necessaria ed eterna. Bisogna anche che questa causa sia intelligente. Infatti, dal momento che questo nostro mondo che esiste è contingente e dal momento che un’infinità di altri mondi sono altrettanto possibili e pretendono ugualmente di esistere, per così dire, quanto il nostro, bisogna che la causa del mondo abbia preso in considerazione, o si sia posta in rapporto con, tutti questi mondi possibili, al fine di determinarne uno. E questa considerazione o rapporto di una sostanza esistente con delle semplici possibilità non può esser altro che l’intelletto che ne ha le idee; e determinarne una non può esser altro che l’atto della volontà che sceglie. Ed è la potenza di tale sostanza a renderne la volontà efficace. La potenza si volge all’essere, la saggezza o l’intelletto al vero e la volontà al bene. Questa causa intelligente dev’essere infinita in tutte le i filosofi del secondo seicento

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maniere e assolutamente perfetta riguardo a potenza, saggezza e bontà, poiché si volge a tutto quel che è possibile. E poiché tutto è connesso, non c’è motivo di ammetterne più di una. Il suo intelletto è la fonte delle essenze, mentre la sua volontà è l’origine delle esistenze. Ecco in poche parole la prova di un Dio unico con le sue perfezioni, ed ecco anche per suo mezzo l’origine delle cose. Ora, questa suprema saggezza, unita a una bontà che non è meno infinita di essa, non ha potuto far altro che scegliere il meglio. Poiché, come un male minore è una specie di bene, analogamente un bene minore è una specie di male, se è di ostacolo a un bene maggiore: e ci sarebbe qualche correzione da apportare alle azioni di Dio, se ci fosse modo di fare meglio. E come in matematica, quando non si ha né massimo né minimo, in definitiva niente di distinto, tutto si fa al medesimo modo – oppure, quando non è possibile ciò, non si fa assolutamente nulla – altrettanto si può dire in materia di perfetta saggezza, che non è meno regolata delle matematiche: se non ci fosse il migliore (optimum) fra tutti i mondi possibili, Dio non ne avrebbe prodotto alcuno. Chiamo mondo tutta la serie e tutta la collezione di tutte le cose esistenti, affinché non si dica che più mondi avrebbero potuto esistere in differenti luoghi e in differenti tempi. Bisognerebbe infatti contarli tutti insieme per un unico mondo oppure, se volete, per un universo. E quand’anche si riempissero tutti i tempi e tutti i luoghi, resterebbe sempre vero che li si sarebbe potuti riempire in un’infinità di maniere, e che c’è un’infinità di mondi possibili, dei quali bisogna che Dio abbia scelto il migliore, poiché egli non fa niente senza agire secondo la suprema ragione. Qualche avversario, non potendo rispondere a questo argomento, replicherà forse alla conclusione mediante un argomento contrario, dicendo che il mondo avrebbe potuto essere senza il peccato e senza le sofferenze: ma io nego che allora sarebbe stato migliore. Bisogna infatti sapere che tutto è legato in ciascun mondo possibile: l’universo, quale che possa essere, è tutto d’un pezzo, come un oceano; il minimo movimento vi estende il proprio effetto a qualunque distanza, sebbene tale effetto diventi meno sensibile a proporzione della distanza, in modo che Dio vi ha regolato tutto in anticipo, una volta per tutte, avendo previsto le preghiere, le buone e le cattive azioni e tutto il resto; e ciascuna cosa ha contribuito idealmente, prima di esistere, alla risoluzione che è stata presa riguardo all’esistenza di tutte le cose. Cosicché nulla può esser cambiato nell’universo (non più di quanto si possa in un numero), salvo la sua propria essenza o, se si vuole, salvo la sua individualità numerica. Così, se il minimo male che si verifica nel mondo vi mancasse, non sarebbe più questo mondo, il quale, una volta che si sia tenuto conto di tutto e che tutto sia stato calcolato, è stato trovato il migliore dal Creatore che l’ha scelto. […]

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Se noi fossimo ordinariamente malati e raramente in buona salute, sentiremmo in modo meraviglioso questo bene e sentiremmo meno i nostri mali, ma non vale forse di più, ciò nonostante, che la salute sia ordinaria e la malattia rara? Suppliamo dunque con la nostra riflessione a ciò che manca alla nostra percezione, in modo di rendere più sensibile il bene della salute. Se non avessimo la conoscenza della vita futura, credo che si troverebbero poche persone che, giunte sul punto di morire, non fossero contente di riprendere la vita a condizione di ripassare sui medesimi valori dei beni e dei mali, purché, soprattutto, non fossero della stessa specie. Ci si accontenterebbe di variarli, senza pretendere una condizione migliore di quella nella quale si è stati. Quando si considera la fragilità del corpo umano, si ammira la saggezza e la bontà dell’autore della natura, che l’ha reso così resistente e la sua condizione così sopportabile. Il che mi ha fatto spesso dire che non mi meraviglio che gli uomini qualche volta si ammalino, ma che si ammalino così raramente, anzi che non si ammalino sempre. Ciò ci deve fare stimare ancora di più l’artificio divino del meccanismo degli animali, che il loro Autore ha reso così fragile e così soggetto a corruzione e tuttavia così capace di conservarsi; infatti è la natura che ci guarisce, piuttosto che la medicina. Ora quella stessa fragilità è una conseguenza della natura delle cose, a meno che non si voglia che quella specie di creatura che ragiona ed è rivestita di carne e di ossa, non sia affatto nel mondo. Ma questa sarebbe evidentemente una deficienza di quelle che i filosofi d’altri tempi avrebbe chiamato «vacuum formarum» un vuoto nell’ordine delle specie.

 - Gottfried Wilhelm von Leibniz (Lipsia 1646 - Hannover 1716) pubblicò i Saggi di teodicea in forma anonima, nel 1710. Il testo riportato è tratto da: G.W. Leibniz, Saggi di teodicea, in Scritti filosofici III. Saggi di Teodicea. Ultimi scritti, a cura di M. Mugnai ed E. Pasini, Utet, Torino 2000, pp. 464-465.

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V, Principi di scienza nuova il Corso delle nazioni il corso eterno della storia, scrive vico nel quarto libro dei Principi di scienza nuova, si muove passando attraverso tre età: l’età degli dèi, degli eroi e degli uomini, che corrispondono a tre momenti della vita dell’uomo (il senso, la fantasia e la ragione). gli uomini, infatti, «prima sentono senz’avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflet­ tono con mente pura». Come vi sono tre specie di nature (divina, eroica, umana) così vi sono tre specie di costumi (religiosi, puntigliosi, officiosi), di diritti, di lingue (muta, simbolica, articolata), di caratteri, di governi (teo­ cratici o familiari, aristocratici, democratici), di autorità, di ragioni e di giu­ dizi (divini, straordinari, ordinari).

[Le tre età della storia: l’età degli dèi, degli eroi, degli uomini] In questo libro quarto soggiugniamo il corso che fanno le nazioni, con costante uniformità procedendo in tutti i loro tanto vari e sì diversi costumi sopra la divisione delle tre età, che dicevano gli egizi essere scorse innanzi nel loro mondo, degli dèi, degli eroi e degli uomini. Perché sopra di essa si vedranno reggere con costante e non mai interrotto ordine di cagioni e d’effetti, sempre andante nelle nazioni, per tre spezie di nature; e da esse nature uscite tre spezie di costumi; da essi costumi osservate tre spezie di diritti naturali delle genti; e, ’n conseguenza di essi diritti, ordinate tre spezie di Stati civili o sia di repubbliche; e, per comunicare tra loro gli uomini venuti all’umana società tutte queste già dette tre spezie di cose massime, essersi formate tre spezie di lingue ed altrettante di caratteri; e, per giustificarle, tre spezie di giurisprudenze, assistite da tre spezie d’autorità e da altrettante di ragioni in altrettante spezie di giudizi; le quali giurisprudenze si celebrarono per tre sètte de’ tempi che professano in tutto il corso della lor vita le nazioni. Le quali tre speziali unità, con altre molte che loro vanno di séguito e saranno in questo libro pur noverate, tutte mettono capo in una unità generale, ch’è l’unità della religione d’una divinità provvedente, la qual è l’unità dello spirito, che informa e dà vita a questo mondo di nazioni. Le quali cose sopra sparsamente essendosi ragionate, qui si dimostra l’ordine del lor corso.

[Tre spezie di nature] La prima natura, per forte inganno di fantasia, la qual è robustissima ne’ debolissimi di raziocinio, fu una natura poetica o sia creatrice, lecito ci sia dire divina, la qual a’ corpi diede l’essere di sostanze animate di dèi, e gliele

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diede dalla sua idea. La qual natura fu quella de’ poeti teologi, che furono gli più antichi sappienti di tutte le nazioni gentili, quando tutte le gentili nazioni si fondarono sulla credenza, ch’ebbe ogniuna, di certi suoi propi dèi. Altronde era natura tutta fiera ed immane; ma, per quello stesso lor errore di fantasia, eglino temevano spaventosamente gli dèi ch’essi si avevano finti. Di che restarono queste due eterne propietà: una, che la religione è l’unico mezzo potente a raffrenare la fierezza de’ popoli; l’altra, ch’allora vanno bene le religioni, ove coloro che vi presiedono essi stessi internamente le riveriscano. La seconda fu natura eroica, creduta da essi eroi di divina origine; perché, credendo che tutto facessero i dèi, si tenevano esser figliuoli di Giove, siccome quelli ch’erano stati generati con gli auspici di Giove: nel qual eroismo essi, con giusto senso, riponevano la natural nobiltà: – perocché fussero della spezie umana; – per la qual essi furono i prìncipi dell’umana generazione. La quale natural nobiltà essi vantavano sopra quelli che dall’infame comunion bestiale, per salvarsi nelle risse ch’essa comunion produceva, s’erano dappoi riparati a di lor asili: i quali, venutivi senza dèi, tenevano per bestie, siccome l’una e l’altra natura sopra si è ragionata. La terza fu natura umana, intelligente, e quindi modesta, benigna e ragionevole, la quale riconosce per leggi la coscienza, la ragione, il dovere.

[Tre spezie di costumi] I primi costumi [furono] tutti aspersi di religione e pietà, quali ci si narrano quelli di Deucalione e Pirra, venuti di fresco dopo il diluvio. I secondi furono collerici e puntigliosi, quali sono narrati di Achille. I terzi sono officiosi, insegnati dal propio punto de’ civili doveri.

[Tre spezie di diritti naturali] II primo diritto fu divino, per lo quale credevano e sé e le loro cose essere tutte in ragion degli dèi, sull’oppenione che tutto fussero o facessero i dèi. Il secondo fu eroico, ovvero della forza, ma però prevenuta già dalla religione, che sola può tenere in dovere la forza, ove non sono, o , se vi sono, non vagliono, le umane leggi per raffrenarla. Perciò la provvedenza dispose che le prime genti, per natura feroci, fussero persuase di sì fatta loro religione, acciocché si acquetassero naturalmente alla forza, e che, non essendo capaci ancor di ragione, estimassero la ragione dalla fortuna, per la quale si consigliavano con la divinazion degli auspici. Tal diritto della forza è ’1 diritto di Achille, che pone tutta la ragione nella punta dell’asta. Il terzo è ’1 diritto umano dettato dalla ragion umana tutta spiegata.

[Tre spezie di governi] I primi furono divini, che i greci direbbono «teocratici», ne’ quali gli uomini credettero ogni cosa comandare gli dèi: che fu l’età degli oracoli, che sono la più antica delle cose che si leggono sulla storia. i filosofi del secondo seicento

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I secondi furono governi eroici ovvero aristocratici, ch’è tanto dire quanto «governi d’ottimati», in significazion di «fortissimi»; ed anco, in greco, «governi d’Eraclidi» o usciti da razza erculea, in sentimento di «nobili», quali furono sparsi per tutta l’antichissima Grecia, e poi restò lo spartano; ed eziandio «governi di cureti», ch’i greci osservarono sparsi nella Saturnia, o sia antica Italia, in Creta ed in Asia; e quindi «governo di quiriti» ai romani, o sieno di sacerdoti armati in pubblica ragunanza. Ne’ quali, per distinzion di natura più nobile, perché creduta di divina origine, ch’abbiam sopra detto, tutte le ragioni civili erano chiuse dentro gli ordini regnanti de’ medesimi eroi, ed a’ plebei, come riputati d’origine bestiale, si permettevano i soli usi della vita e della natural libertà. I terzi sono governi umani, ne’ quali, per l’ugualità di essa intelligente natura, la qual è la propia natura dell’uomo, tutti si uguagliano con le leggi, perocché tutti sien nati liberi nelle loro città, così libere popolari, ove tutti o la maggior parte sono esse forze giuste della città, per le quali forze giuste son essi i signori della libertà popolare; o nelle monarchie, nelle qual’i monarchi uguagliano tutti i soggetti con le lor leggi, e, avendo essi soli in lor mano tutta la forza dell’armi, essi vi sono solamente distinti in civil natura.

[Tre spezie di lingue] Tre spezie di lingue. Delle quali la prima fu una lingua divina mentale per atti muti religiosi, o sieno divine cerimonie; onde restaron in ragion civile a’ romani gli «atti legittimi», co’ quali celebravano tutte le faccende delle loro civili utilità. Qual lingua si conviene alle religioni per tal propietà: che più importa loro essere riverite che ragionate; e fu necessaria ne’ primi tempi, che gli uomini gentili non sapevano ancora articolar la favella. La seconda fu per imprese eroiche, con le quali parlano l’armi; la qual favella, come abbiam sopra detto, restò alla militar disciplina. La terza è per parlari, che per tutte le nazioni oggi s’usano, articolati.

 - Gianbattista Vico (Napoli 1668-1744) pubblicò la prima edizione dei Principj di una scienza nuova d’intorno alla natura delle nazioni, nel 1725; la versione definitiva uscì nel 1744. Il testo riportato è tratto da: G. Vico, Principj di una scienza nuova, a cura di F. Nicolini, Einaudi, Torino 1976, pp. 405-409.

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Capitolo

4 I filosofi empiristi e illuministi inglesi e scozzesi I filosofi anglosassoni, forti di una tradizione empirista che risale al XIII secolo, tra Seicento e Settecento polemizzano contro ogni dogmatismo metafisico in nome di una gnoseologia che fa derivare tutte le nostre conoscenze dai sensi e respinge l’innatismo delle idee, il sostanzialismo e il principio di causalità. Con Locke le idee perdono ogni caratteristica metafisica e diventano o immagini mentali delle percezioni o prodotti dell’elaborazione della mente. Con Hume la radicalizzazione dell’empirismo perviene a esiti scettici, che coinvolgono sia la metafisica sia la scienza: tutte le conoscenze sono ridotte a semplici credenze psicologiche dettate dall’abitudine. Alla polemica antidogmatica in filosofia corrisponde quella contro l’assolutismo in politica, condotta in nome dei principi liberali affermatisi in Inghilterra dopo la vittoria della monarchia parlamentare.

L, Secondo trattato A quAli condizioni un essere rAzionAle è più libero nello stAto che in nAtur A? quando locke pubblica i suoi due Trattati sul governo sono ormai decenni che riflette sulle questioni politiche. questi testi sono quindi il frutto di lunghe meditazioni. una delle fonti di queste meditazioni sono i saggi che, un quarantennio prima, al tempo della rivoluzione inglese di cromwell, aveva pubblicato hobbes. la ragione per cui per locke è importante confrontarsi con questo filosofo è che perseguono entrambi l’obiettivo di una fondazione razionale della filosofia politica: locke si comporta come uno degli scienziati del suo tempo che lavora proseguendo le ricerche dei suoi predecessori. ora, c’è un punto dell’edificio hobbesiano, costruito in modo impeccabile dal punto di vista della coerenza logica, che locke non ritiene sia razionalmente accettabile: anche nello stato di natura egli vede all’opera i principi razionali del rispetto degli altri. la natura umana è infatti razionale e la razionalità impone il rispetto di altri esseri razionali, in qualsiasi condizione di potere. la libertà di ciascuno è un valore tanto naturale quanto razionale. il contratto sociale nasce per difendere e rendere concreta questa libertà.

Dello stato di natura Per ben intendere il potere politico e derivarlo dalla sua origine, si deve considerare in quale stato si trovino naturalmente tutti gli uomini, e questo è uno stato di perfetta libertà di regolare le proprie azioni e disporre dei propri possessi e delle proprie persone come si crede meglio, entro i limiti della legge di natura, senza chiedere permesso o dipendere dalla volontà di nessun altro. È anche uno stato di eguaglianza, in cui ogni potere e ogni giurisdizione è reciproca, nessuno avendone più di un altro, poiché non vi è nulla di più evidente di questo, che creature della stessa specie e dello stesso grado, nate, senza distinzione, agli stessi vantaggi della natura, e all’uso delle stesse facoltà, debbano anche essere eguali fra di loro, senza subordinazione o soggezione. [...] Ma sebbene questo sia uno stato di libertà, tuttavia non è uno stato di licenza: sebbene in questo stato si abbia la libertà incontrollabile di disporre della propria persona e dei propri averi, tuttavia non si ha la libertà di distruggere né se stessi né qualsiasi creatura in proprio possesso, se non

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quando lo richieda un qualche uso più nobile, che quello della sua pura e semplice conservazione. Lo stato di natura è governato dalla legge di natura, che obbliga tutti: e la ragione, ch’è questa legge, insegna a tutti gli uomini, purché vogliano consultarla, che, essendo tutti eguali e indipendenti, nessuno deve recar danno ad altri nella vita, nella salute, nella libertà o nei possessi, perché tutti gli uomini, essendo fattura di un solo creatore onnipotente e infinitamente saggio, tutti servitori di un unico padrone sovrano, inviati nel mondo per suo ordine e per i suoi intenti, sono proprietà di colui di cui sono fattura, creati per durare fin tanto che piaccia a lui, e non ad altri; e, poiché siamo forniti delle stesse facoltà e partecipiamo tutti d’una sola comune natura, non è possibile supporre fra di noi una subordinazione tale che ci possa autorizzare a distruggerci a vicenda, quasi fossimo tutti gli uni per uso degli altri, come gli ordini inferiori delle creature sono fatti per noi. Come ciascuno è tenuto a conservare se stesso e non abbandonare volontariamente il suo posto, così, per la medesima ragione, quando non sia in gioco la sua stessa conservazione, deve, per quanto può, conservare gli altri, e non può, se non nel caso di far giustizia d’un offensore, sopprimere o menomare a un altro la vita o quanto contribuisce alla conservazione della vita, come la libertà, la salute, le membra del corpo o i beni. [...]

Dell’origine delle società politiche L’unico modo con cui uno si spoglia della sua libertà naturale e s’investe dei vincoli della società civile, consiste nell’accordarsi con altri uomini per congiungersi e riunirsi in una comunità, per vivere gli uni con gli altri con comodità, sicurezza e pace, nel sicuro possesso delle proprie proprietà, e con una garanzia maggiore contro chi non vi appartenga. Ciò può esser fatto da un gruppo di uomini, in quanto non viola la libertà degli altri, i quali rimangono, com’erano, nella libertà dello stato di natura. Quando un gruppo di uomini hanno così consentito a costituire un’unica comunità o governo, sono con ciò senz’altro incorporati, e costituiscono un unico corpo politico, in cui la maggioranza ha diritto di deliberare e decidere per il resto. A questo modo ognuno, col consentire con altri a costituire un solo corpo politico, sotto un solo governo, si sottopone, nei riguardi di ciascun membro di quella società, all’obbligazione di sottomettersi alla decisione della maggioranza, e ad attenersi alle sue decisioni, altrimenti questo contratto originario, con cui si è incorporato con altri in una sola società, non avrebbe senso, e non sarebbe contratto, se egli rimanesse libero e sotto nessun altro vincolo che quelli che aveva prima nello stato di natura. [...] Infatti, se ragionevolmente il consenso della maggioranza non può accogliersi come la deliberazione della totalità, né decidere per ogni individuo, si dovrà necessariamente dire ch’è il consenso di ogni individuo che fa di qualcosa una deliberazione della totalità; ma tale consenso è presso che

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impossibile ad avere, se si considerano le infermità di salute e gl’impegni d’affari, che, in un gruppo e tanto più in una società politica, necessariamente impediranno a molti d’intervenire alla pubblica assemblea. Se a ciò si aggiungono la varietà di opinioni e il contrasto d’interessi, che inevitabilmente han luogo in ogni collettività, l’entrare in società a tali condizioni equivarrebbe all’entrata di Catone a teatro, che vi entrava soltanto per uscirne. Una costituzione come questa renderebbe il potente Leviatano di durata più breve che le più deboli creature, e non lo lascerebbe sopravvivere al giorno in cui è nato [...]. Perciò coloro che, uscendo dallo stato di natura, si riuniscono in comunità, si deve intendere che rimettano tutto il potere, necessario agli scopi per cui si riuniscono in società, alla maggioranza della comunità, a meno che abbiano espressamente convenuto un numero maggiore che la maggioranza. E ciò è contenuto nello stesso accordo a riunirsi in una sola società politica, il quale non è altro che il contratto che vi è o vi dev’esser fra gl’individui ch’entrano in un corpo politico o lo costituiscono. E così, ciò che dà origine e attualmente costituisce una società politica, non è nient’altro che il consenso di un gruppo di uomini liberi, capaci di una maggioranza, a riunirsi e incorporarsi in tale società. Ed è questo, e questo soltanto, che ha dato o può aver dato origine a ogni governo legittimo di questo mondo.

 - John Locke (Wrington 1632 - Oates 1704) pubblicò i Due trattati sul governo nel 1690. Il testo riportato è tratto da: J. Locke, Secondo trattato, in Due trattati sul governo e altri scritti politici, a cura di L. Pareyson, Utet, Torino 1982, pp. 229 ss., 297 ss.

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L, Saggio sull’intelletto umano lA mente può conoscere le cose stesse o conosce solo le proprie idee, quAlunque siA lA corrispondenzA tr A le idee e le cose? il percorso che locke ha seguito nel mostrare la genesi delle nostre idee parte dalla constatazione che qualsiasi idea, per complessa, astratta e generale che sia, è comunque basata su percezioni, quindi su idee semplici. la mente forma queste idee in se stessa, non al di fuori di sé, per quanto le riferisca alla realtà esterna. la mente conosce solo idee, ma il suo interesse è molto spesso rivolto verso l’esterno di cui le idee devono dare informazioni le più esatte possibili. locke ritiene che: – la mente ha la capacità di formare idee semplici effettivamente corrispondenti alla realtà che, attraverso l’esperienza sensibile, le hanno prodotte; – a parte quella di sostanza, la mente elabora le idee complesse in modo realmente indipendente dalla realtà esterna, come proprio strumento di conoscenza e di interpretazione della realtà. ogni ancoraggio dell’idea alla “verità” della cosa risiede quindi nell’esperienza sensibile.

Della realtà della conoscenza Non dubito che a questo punto il lettore sarà incline a pensare che ho costruito finora solo un castello in aria; e sarà pronto a dirmi: A quale scopo darsi tanto da fare? La conoscenza, voi dite, è solo la percezione dell’accordo o disaccordo tra le nostre idee: ma chissà che cosa queste idee possono essere? C’è nulla di così stravagante come le immaginazioni del cervello umano? Dov’è una testa che non abbia chimere? O, se c’è un uomo sobrio e saggio, quale differenza ci sarà, in base alle vostre regole, fra la sua conoscenza e quella della più stravagante fantasia che c’è al mondo? Entrambi avranno le loro idee e percepiranno l’accordo o il disaccordo dell’una con l’altra. Se fra essi c’è una differenza, il vantaggio sarà dalla parte dell’uomo che ha la testa calda, che avrà più idee e più vivaci. E così, in base alle vostre regole, egli conoscerà di più. Se è vero che tutta la conoscenza consiste solo nella percezione dell’accordo o disaccordo fra le nostre idee, le visioni di un entusiasta e i ragionamenti di un uomo sobrio saranno egualmente certi. Non importa come stiano le cose; se un uomo osserva solo l’accordo delle sue immaginazioni e parla in modo conforme, c’è tutta verità, tutta certezza.

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I castelli in aria saranno capisaldi della verità, come le dimostrazioni di Euclide. Che un’arpia non è un centauro è, per questa via, una conoscenza certa e una verità, esattamente come la proposizione che il quadrato non è un circolo. Ma quale utilità questa conoscenza esatta che gli uomini hanno delle proprie immaginazioni ha per chi indaga la realtà delle cose? Non importa quali siano le fantasie umane, è la conoscenza delle cose che deve essere apprezzata; questa sola dà un valore ai nostri ragionamenti e fa preferire la conoscenza dell’uno a quella dell’altro cioè la conoscenza delle cose quali realmente sono ai sogni e alle fantasie. A questa obiezione rispondo che se la conoscenza delle nostre idee terminasse in esse e non andasse oltre, dove c’è qualcos’altro da intendere, i nostri pensieri più seri avrebbero la stessa utilità dei sogni di un cervello pazzo; e le verità costruite su di essi non avrebbero maggior peso dei discorsi di un uomo che vede chiaramente le cose in un sogno e le enuncia con grande sicumera. Ma io spero, prima di finire, di rendere evidente che la via della certezza che passa per la conoscenza delle nostre idee va un po’ oltre la semplice immaginazione; e credo che sarà manifesto che tutta la certezza delle verità generali che gli uomini hanno non consiste in altro. È evidente che lo spirito non conosce le cose immediatamente ma solo per l’intervento delle idee che ha di esse. La nostra conoscenza, perciò, è reale solo in quanto c’è conformità fra le nostre idee e la realtà delle cose. Ma quale sarà qui il criterio? Come farà lo spirito, che percepisce solo le sue idee, a conoscere che esse concordano con le cose stesse? Per quanto ciò non manchi di difficoltà, credo tuttavia che ci siano due specie di idee di cui possiamo essere sicuri che concordano con le cose. Primo. La prima è quella delle idee semplici che lo spirito, come è stato mostrato, non può creare da sé e devono necessariamente essere il prodotto di cose che agiscono sullo spirito in modo naturale, producendo in esso le percezioni che dalla saggezza e volontà del nostro Creatore sono ordinate e adattate alle cose stesse. Di qui segue che le idee semplici non sono finzioni della nostra fantasia ma produzioni naturali e regolari delle cose fuori di noi, che realmente agiscono su di noi; e sono così dotate della conformità cui sono dirette o che il nostro stato esige: perché ci rappresentano le cose sotto quelle apparenze che sono adatte a produrre in noi e per cui possiamo distinguere le specie delle sostanze particolari, discernere gli stati in cui sono, quindi adoperarle per i nostri bisogni e applicarle ai nostri usi. Così l’idea di bianchezza o di amarezza, come è nello spirito, corrisponde esattamente al potere che è in un corpo di produrvela, perciò ha tutta la conformità reale che può e deve avere con le cose fuori di noi. Questa conformità fra le nostre idee semplici e l’esistenza delle cose è sufficiente per la conoscenza reale.

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In secondo luogo, tutte le nostre idee complesse, eccetto quelle delle sostanze, essendo archetipi che lo spirito costruisce per suo conto e non riferendosi all’esistenza di qualcosa come al loro originale, non hanno bisogno della conformità necessaria alla conoscenza reale. Infatti ciò che non intende rappresentare altro che se stesso non può essere capace di una rappresentazione sbagliata né deviarci dalla vera apprensione di una cosa con la sua dissomiglianza da essa; e tali, eccetto quelle di sostanze, sono tutte le nostre idee complesse. Esse, come ho mostrato altrove, sono combinazioni di idee che lo spirito pone insieme di sua libera scelta, senza considerare se hanno o non hanno connessione in natura. Quindi, in questa specie, le idee stesse sono considerate come archetipi e le cose sono considerate solo in quanto si possono conformare ad esse. Perciò siamo infallibilmente certi che tutta la conoscenza che concerne queste idee è reale e raggiunge le cose stesse.

 - John Locke (Wrington 1632 - Oates 1704) pubblicò il Saggio sull’intelletto umano nel 1690. Il testo riportato è tratto da: J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, a cura di M. e N. Abbagnano, Utet, Torino 1971, pp. 646 ss.

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L, Estratto del saggio sull’intelletto umano che cosA sono le cose, che cosA sono gli eventi? il termine “sostanza” ha una lunga storia e nel seicento è stato utilizzato dai filosofi in modo molto diverso che in precedenza. si pensi alle definizioni che cartesio e spinoza ne hanno dato. di che cosa si parla è quindi, nel momento in cui locke pone la domanda sull’origine delle idee di sostanza, molto chiaro. ora, il percorso di ricerca che porta alla risposta empirista a questa domanda ne impone un’altra: poiché è un’idea complessa, e nasce quindi dal lavorio della nostra mente piuttosto che dal diretto contatto con le sostanze, che validità ha? esistono davvero le sostanze? locke non dubita che esistano, ma quanto a dire che cosa sono al di fuori della nostra mente, questo è oltre le possibilità dell’uomo. tutto quello che possiamo dire, è che ricostruiamo le informazioni elementari che provengono dal mondo esterno (le idee semplici) organizzandole nella nostra mente fino a formare vari tipi di idee: e le idee di sostanza sono uno di questi tipi.

Le idee complesse delle sostanze Nessuno dubita che vi sia al mondo una grande varietà di sostanze. Vediamo dunque quali idee noi abbiamo di quelle particolari sostanze che il nostro spirito talora prende in considerazione. Partiamo dalle più generali, come sono quelle di corpo o di spirito. Mi chiedo se qualcuno veda qualcos’altro nell’idea che egli ha del corpo al di fuori della composizione delle idee di solidità, estensione e mobilità, le quali non sono altro che idee semplici che ci pervengono dai sensi. Può darsi che qualcuno dica che per avere un’idea completa del corpo sia necessario aggiungere l’idea della sostanza a quelle della solidità, della mobilità e della estensione. Ma io domando a coloro che potrebbero fare questa obiezione, che cosa sia l’idea di sostanza che essi hanno e se essi posseggano un’idea chiara della sostanza dei corpi, distinta dalla solidità, dall’estensione e dalla mobilità. L’idea che noi abbiamo dello spirito è quella di un essere che ha la potenza di pensare e di muovere il corpo, per cui in breve concludo che possediamo un’idea altrettanto chiara di spirito e di corpo. In un caso noi abbiamo idee chiare della solidità, dell’estensione, della mobilità, benché noi ignoriamo quale sia la sua sostanza; nell’altro noi vediamo con uguale chiarezza due idee, cioè il pensiero e il potere di muovere, senza che possiamo sapere

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anche qui nulla della sua sostanza. Infatti la sostanza è, nell’un caso come nell’altro, il soggetto nel quale si suppone che vi siano queste qualità; in altri termini, un non so che a noi sconosciuto, che le sorregge e nel quale esse sussistono; di modo che l’idea che noi possediamo della sostanza è un’idea oscura di ciò che essa opera e non di ciò che essa è. Così, poiché la nostra idea della sostanza di una cosa, sia questa spirituale che corporea, è allo stesso modo oscura, mentre le nostre idee di mobilità e del potere di muovere sono entrambe ugualmente chiare, non resta altro da fare che confrontare tra loro l’estensione e il pensiero. Queste due idee sono entrambe molto chiare. L’unica difficoltà che qualcuno ha mosso contro il concetto di spirito riguarda la possibilità di concepire una cosa pensante, senza che sia estesa. Al contrario, io sostengo che si possa con altrettanta facilità concepire una cosa che pensa, senza che sia estesa, come concepire un corpo solido esteso. Per concepire un corpo solido esteso, bisogna possedere un’idea della coesione delle parti: ora non c’è maggiore difficoltà nel concepire il modo in cui lo spirito pensa, di quella che c’è nel concepire come le parti solide stiano vicine e legate le une alle altre, cioè come un corpo sia esteso. Infatti, laddove non vi sono parti tra di loro collegate, non vi sono, come si dice, parti extra partes, e conseguentemente non vi è estensione. Se il corpo è divisibile, bisogna che vi siano delle parti unite le une alle altre; se invece non ci fosse alcuna unione tra di esse, il corpo sarebbe completamente distrutto e cesserebbe di esistere. Colui che sarà in grado di scoprire ciò che tiene unite tra di loro le parti del ferro o del diamante, scioglierà una difficoltà fondamentale della fisica. Bernoulli, che ha tentato di spiegare la coesione delle particelle di tutti i corpi con la pressione dell’etere, non ha tenuto presenti due cose di grande importanza: 1) che per quanto possa essere grande la pressione di un ambiente fluido, se non ci fosse qualche altra forza che tiene unite le particelle dei corpi, benché esse non possano venir disgiunte in direzione verticale, tuttavia si potrebbe dimostrare che potrebbero venir fatte scorrere l’una sull’altra con tanta facilità, come se non ci fosse alcuna pressione. L’esperienza fatta con due blocchi di marmo levigato, sovrapposti l’uno all’altro, e tenuti in questa posizione dalla pressione atmosferica, rende evidente quanto io sostengo: infatti si potrà separare con grande facilità questi due blocchi di marmo spingendoli lateralmente, cosa che non si potrebbe invece fare applicando una forza in direzione verticale; 2) che non sono considerate per nulla le particelle dell’etere, le quali, essendo esse pure corpi formati da altre particelle, devono pur avere qualcosa che le tiene unite, cosa che non deriva da esse. È infatti ugualmente difficile concepire come le parti della più piccola porzione di materia restino unite le une alle altre, come le parti delle più grosse masse. Ora, senza di ciò, risulta

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ugualmente difficile concepire sia il corpo che lo spirito, sia una cosa estesa che una cosa pensante. A parte il grado di maggiore o minore oscurità dell’idea di spirito nei confronti di quella di corpo, è certo che noi non possiamo riceverla per altra via che non sia quella dalla quale noi riceviamo l’idea di corpo. Come infatti noi ci formiamo l’idea di corpo dopo aver ricevuto con i nostri sensi le idee di solidità, di estensione, di movimento, di quiete, supponendo che queste quattro cose ineriscano in una sostanza sconosciuta, così, unendo insieme le idee semplici che ci siamo formati riflettendo sulle operazioni che il nostro spirito compie ogni giorno – quali il pensare, il comprendere, il volere, il conoscere, il potere di muovere i corpi –, e supponendo che queste operazioni del nostro spirito e tutte le altre che esso compie coesistano in una certa sostanza, essa pure a noi sconosciuta, noi veniamo a formarci l’idea di quegli esseri che noi chiamiamo spiriti. Le idee che noi abbiamo dell’intelletto e della potenza, formate dalla riflessione su ciò che avviene in noi stessi, unite alla durata, e potenziate dall’idea che noi abbiamo di infinito, ci forniscono l’idea dell’Essere supremo che noi chiamiamo Dio.

 - John Locke (Wrington 1632 - Oates 1704) pubblicò il Saggio sull’intelletto umano nel 1690. Il testo riportato è tratto da: J. Locke, Estratto del saggio sull’intelletto umano, in Scritti etico-religiosi, a cura di M. Sina, Utet, Torino 2000, pp. 236-238.

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L, Lettera sulla tolleranza chi è il vero cristiAno? le ragioni di fondo per cui locke difende la tolleranza come pratica razionale in una società ben regolata sono due, una generale, l’altra specifica per i cristiani. la prima si basa sulla distinzione tra la fede e la ragione, cioè sul fatto che la prima ritiene di poter accedere a una sfera della realtà che è preclusa alla seconda. ciascuna confessione religiosa pensa di essere nella verità e considera le altre nell’errore, ma poiché nessun uomo di fronte alla propria e all’altrui ragione ha un sapere superiore a quello reso possibile dalla ragione universale, non è possibile elevare la ragione a giudice su questioni di fede. dunque non c’è la possibilità né di ottenere un consenso razionale universale per la propria fede né di dimostrare l’errore degli altri. comportamenti diversi dalla tolleranza, cioè dall’accettare che altri seguano altre credenze, non sono quindi razionali. questa argomentazione ha valore in tutte le società in cui ha valore la ragionevolezza dei comportamenti. quanto al cristianesimo in particolare, locke rileva la più stridente contraddizione tra il fatto che è una religione dell’amore e il comportamento di chi usa la violenza e dà la morte per imporla agli altri. da questa contraddizione trae, come conseguenza logica, la tesi che chi si comporta così, semplicemente non è cristiano.

Che un uomo voglia far sì che un’anima, la cui salvezza egli vivamente desidera, spiri fra i tormenti – e per di più in istato di peccato – ciò altamente mi meraviglia; e come me, credo, altri se ne stupiranno. Ma certo nessuno potrà supporre che tale condotta possa essere ispirata da amore, benevolenza o carità. Chi sia convinto che gli uomini debbono essere costretti col fuoco e col ferro a professare determinate dottrine e conformarsi a questo o quel culto esteriore senza alcun riguardo alla loro condotta; chi si sforzi di convertire a una fede uomini che vivono nell’errore, costringendoli a professare cose in cui non credono e lasciando nel frattempo ch’essi compiano atti che il Vangelo non consente: costui, non c’è dubbio, mira a crearsi attorno un gran numero di gente che professi la sua stessa fede; ma che con questi mezzi egli voglia costituire una chiesa cristiana non è possibile credere. Non è dunque da stupirsi, se coloro che, malgrado ogni ostentazione, non militano per la vera religione e la chiesa di Cristo usano armi che non sono proprie della milizia cristiana. Se, come il duce della nostra salvezza, desiderassero sinceramente il bene delle anime, essi ripeterebbero le orme e seguirebbero l’esempio perfetto di quel Re della Pace, che inviò i suoi soldati i filosofi empiristi e illuministi inglesi e scozzesi

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alla conquista delle nazioni e all’unificazione di esse nella sua chiesa, non armati della spada o d’altro strumento di forza, ma muniti del Vangelo della pace e d’esemplare santità di vita. [...] La tolleranza verso coloro che dissentono dagli altri in fatto di religione è cosa talmente consona al Vangelo e alla ragione, che è mostruoso vi siano uomini ciechi a tanta luce. Non voglio qui bollare l’orgoglio e l’ambizione di alcuni, il fanatismo e lo spietato e incaritatevole zelo di altri: son queste, forse, pecche da cui le azioni umane non saranno mai emendate; ma sono, tuttavia, tali che non c’è nessuno che ne accetti la chiara imputazione; nessuno che, coprendole d’una speciosa coloritura, non accampi con ciò diritto ad elogi. Ma perché non possano alcuni mascherare il loro spirito di persecuzione e la loro crudeltà, per nulla cristiana, con una falsa sollecitudine del pubblico bene e del rispetto delle leggi, ed altri cercare nel nome della religione pretesto alla loro vita licenziosa e impunità per i loro delitti – in breve, perché nessuno possa ingannare sé o gli altri con ostentazione di lealtà e d’obbedienza al sovrano, o di sincera adorazione verso il Signore – io ritengo sia soprattutto necessario distinguere la competenza dell’autorità civile da quella religiosa, e fissare il giusto limite fra stato e chiesa. Finché ciò non sia fatto, non vi sarà mai termine alle controversie, che sempre insorgeranno tra coloro che hanno – o almeno ostentano di avere – a cuore l’interesse delle anime, da una parte, e quelli cui premono le sorti dello stato, dall’altra.

 - John Locke (Wrington 1632 - Oates 1704) scrisse la Lettera sulla tolleranza nel 1685, ma questa fu pubblicata anonima solo nel 1689. Il testo riportato è tratto da: J. Locke, Lettera sulla tolleranza, trad. it. di L. Formigari, La Nuova Italia, Firenze 1984, pp. 8 ss.

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B, Trattato sui principi della conoscenza umana sensAzioni e idee esistono se quAlcuno le pensA; le cose, che conosciAmo solo Attr Averso le sensAzioni e le idee che ne AbbiAmo, esistono se nessuno le pensA? un tratto caratteristico dei libri in cui berkeley ha esposto le sue teorie filosofiche sulla conoscenza umana è il fatto che in essi la tesi di fondo è esposta come se fosse evidente e del tutto pacifica. gli storici della filosofia sottolineano invece che si tratta di una posizione radicale e molto sorprendente. di fatto della sua tesi, espressa sul fondamento della filosofia di locke, si discute da oltre due secoli. berkeley fa osservare che se tutte le nostre conoscenze sono sensazioni, esse non possono dirci nulla se non come sensazioni, che in quanto tali appartengono alla mente e non alla realtà esterna. l’idea che possa esistere un ente del tutto indipendente dalla mente come fonte esterna alla sensazione è frutto di una astrazione della mente: nella concretezza dell’esperienza o conosciamo qualcosa con la mente (e quindi questa conoscenza ha un carattere mentale) o non conosciamo nulla. Esse (per gli enti che diciamo materiali ed esistenti nella realtà esterna) est percipi. naturalmente non qualsiasi essere consiste soltanto nell’essere percepito, dato che esiste la mente che percepisce; e poiché questa mente non crea le proprie percezioni, ma le subisce, deve esistere uno spirito assoluto e creatore che le pensi in modo permanente. berkeley assume quindi la sua tesi empirista e idealista come base per la dimostrazione dell’esistenza di dio.

I principi della conoscenza umana A chiunque esamini gli oggetti della conoscenza umana, risulta evidente che si tratta o di idee effettivamente impresse ai sensi, o di idee percepite prestando attenzione alle passioni e alle operazioni della mente, o infine, di idee formate con l’aiuto della memoria e dell’immaginazione, componendo, separando o semplicemente rappresentando le idee percepite originariamente nei due modi suddetti. [...] Oltre, poi, all’infinita varietà delle idee o oggetti della conoscenza, c’è qualcosa che li conosce o li percepisce, e vi esercita diverse operazioni, come il volere, l’immaginare, il ricordare. Questo essere attivo e percipiente

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è ciò che chiamo mente, spirito, anima o me stesso. Con queste parole non denoto nessuna delle mie idee, ma una cosa completamente diversa, nella quale esse esistono, o, che è lo stesso, dalla quale sono percepite: infatti l’esistenza di un’idea consiste nel venir percepita. Chiunque sarà disposto a riconoscere che né i pensieri, né le passioni, né le idee formate dall’immaginazione esistono al di fuori della mente. Sembra egualmente evidente che le varie sensazioni o idee impresse ai sensi, comunque siano mescolate o combinate insieme (vale a dire, qualsiasi oggetto esse compongano), non possono esistere, se non in una mente che le percepisce. Credo che di questo si possa avere una conoscenza intuitiva, ove si consideri cosa significa il termine esistere quando viene applicato alle cose sensibili. Dico che il tavolo su cui scrivo esiste, cioè lo vedo e posso toccarlo; se uscissi dallo studio, potrei dire che esiste, intendendo che, se fossi nello studio, potrei percepirlo, o che qualche altro spirito lo percepisce effettivamente. C’era un odore, cioè era sentito; c’era un suono, vale a dire che era udito; c’erano un colore o una figura, cioè erano percepiti dalla vista o dal tatto: questo è il significato che attribuisco a simili espressioni, e ad altre analoghe. Mi sembra assolutamente incomprensibile ciò che si dice riguardo all’esistenza assoluta di cose non pensanti, senza nessuna relazione con il fatto che siano percepite. Il loro esse è un percipi: non è possibile che esistano al di fuori delle menti o delle cose pensanti che le percepiscono. [...] Ove si esamini a fondo questo principio, si scoprirà, forse, che dipende dalla dottrina delle idee astratte. Infatti, può forse esistere uno sforzo astrattivo più sottile di quello che serve a distinguere l’esistenza degli oggetti sensibili dal loro essere percepiti, così da immaginare che esistano non percepiti? Cos’altro sono la luce e i colori, il caldo e il freddo, l’estensione e le figure, in una parola tutto ciò che vediamo e sentiamo con il tatto, se non sensazioni, nozioni, idee o impressioni dei sensi? È forse possibile separare, anche solo con il pensiero, una qualunque di esse dalla percezione? Per quanto mi riguarda, non sarebbe più difficile separare una cosa da sé stessa. Posso, è vero, dividere con il pensiero o immaginare separate l’una dall’altra cose che forse non ho mai percepito divise. Ad esempio, riesco a immaginare il busto di un uomo senza gli arti, o l’odore di una rosa senza la rosa. [...] Ma il potere della mia immaginazione non va oltre la possibilità dell’esistenza reale o della percezione: dunque, visto che mi è impossibile vedere o sentire qualcosa con il tatto senza una sensazione effettiva di quella cosa, mi è impossibile anche concepire un oggetto sensibile distinto dalla sensazione o dalla percezione di esso. Ci sono verità così immediate e ovvie per la mente, che basta aprire gli occhi per vederle. Tra queste, ce n’è una importante: quella, cioè, secondo la quale il coro dei cieli, la terra e quanto essa contiene, insomma tutti i corpi

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che compongono l’imponente struttura del mondo, non possono sussistere senza una mente: il loro essere consiste nell’essere percepiti o conosciuti. Di conseguenza, quando non vengono effettivamente percepiti da me, e non esistono né nella mia mente, né in quella di qualsiasi altro spirito creato, o non esistono affatto, oppure sussistono nella mente di uno spirito eterno. Infatti, è assolutamente incomprensibile – e comporta tutte le assurdità proprie della dottrina dell’astrazione – attribuire a una parte qualsiasi dell’universo un’esistenza indipendente da ogni spirito. Per convincersi di questo, il lettore deve soltanto riflettere, e provare a separare nel pensiero l’essere di una cosa sensibile dal suo essere percepita. Da quanto ho detto, segue che non vi è altra sostanza al di fuori dello spirito, o ciò che percepisce. Per una dimostrazione più completa di questo punto, si osservi che le qualità sensibili sono il colore, la figura, il movimento, l’odore, il sapore e così via, vale a dire le idee percepite con i sensi. Ora, è una contraddizione palese, per un’idea, esistere in una cosa non percipiente; infatti, avere un’idea è lo stesso che percepire: dunque, ciò in cui il colore, la figura e le altre qualità esistono, deve anche percepirli. È evidente, quindi, che una sostanza non pensante non può essere il substratum di quelle idee.

 - George Berkeley (Thomastown 1685 - Oxford 1753) pubblicò il Trattato sui principi della conoscenza umana nel 1710. Il testo riportato è tratto da: G. Berkeley, Trattato sui principi della conoscenza umana, in Opere filosofiche, a cura di S. Parigi, Utet, Torino 1996, pp. 198-201.

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H, Saggi morali, politici e letterari è possibile e desider Abile l’AmiciziA tr A persone innAmor Ate, o AmiciziA e Amore sono incompAtibili? nella sua maturità hume ha svolto molte indagini di carattere etico su temi specifici, e alcune volte si è addentrato in questioni storico-sociali portandovi il punto di vista filosofico che aveva messo a punto negli anni della giovinezza e lo spirito curioso e aperto tipico del mondo illuminista a cui appartiene. uno di questi temi riguarda il matrimonio, e l’amore nel suo contesto. in questa analisi entrano attente considerazioni sull’amicizia.

Sulla poligamia e il divorzio Quanto spesso, dopo il matrimonio, dalle vicende più banali o da una incompatibilità di carattere, sorgono disgusto e avversione! Il tempo, invece di curare le ferite che sorgono dalle offese reciproche, le avvelena ogni giorno di più con nuove liti e rimproveri. Consentite di separare cuori che non erano adatti ad essere uniti; ognuno di essi potrà forse trovarne un altro che gli è più adatto. In definitiva nulla è più crudele che difendere con la violenza un’unione che, prima, si sorreggeva sull’amore reciproco e ora è di fatto sciolta a causa dell’odio reciproco. Ma la libertà di divorziare non costituisce solo una cura per l’odio e le liti familiari: rappresenta anche una mirabile precauzione contro di essi e l’unico segreto per mantenere in vita quell’amore che ha unito inizialmente la coppia sposata. Il cuore dell’uomo gode della libertà; il solo pensare ad una costrizione gli è penoso; quando cercate di costringerlo con la violenza a ciò che in caso contrario egli avrebbe in definitiva scelto, l’inclinazione cambierà immediatamente ed il desiderio si tramuterà in avversione. Se l’interesse pubblico non ci permette di godere con la poligamia quella varietà tanto gradevole in amore, che almeno non ci privi di questa tanto necessaria libertà di divorziare! Invano mi direte che potevo scegliere la persona con cui unirmi; è vero, spettava a me la scelta della mia prigione, ma il conforto è minimo, perché si tratta pur sempre di una prigione. Questi sono gli argomenti che possono essere avanzati a favore del divorzio, ma contro di essi sembra che sussistano queste tre inconfutabili obiezioni. In primo luogo, quale sarà la sorte dei figli dopo la separazione dei loro genitori? Dovranno essere affidati ad una matrigna e provare, in luogo delle attenzioni e delle tenere cure della madre, l’indifferenza o l’odio di una estranea o di una nemica? Riscontriamo già abbastanza questi inconvenienti in quei casi in cui la natura, con la morte, rende inevitabile il divorzio per

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tutti i mortali; dovremo, forse, cercare di moltiplicare questi inconvenienti, moltiplicando i divorzi e dando la possibilità ai genitori di rendere infelice la loro prole per un qualsiasi capriccio? In secondo luogo, è vero, da una parte, che il cuore degli uomini gode naturalmente della libertà e odia tutto ciò a cui è costretto; ma, d’altra parte, è anche vero che naturalmente esso si rassegna alle necessità e perde subito un’inclinazione quando risulta che è assolutamente impossibile soddisfarla. Direte che questi princìpi della natura umana sono contraddittori; ma che cosa è l’uomo se non un cumulo di contraddizioni? Bisogna tuttavia notare che quando troviamo princìpi contrari nella loro azione, non sempre tali princìpi si distruggono l’un l’altro, ma l’uno o l’altro riesce ad avere la meglio in una particolare occasione a seconda che le circostanze lo favoriscano o meno. Per esempio, l’amore è una passione inquieta e impaziente, piena di capricci e di mutamenti, che sorge in un attimo, da un particolare, da un’atmosfera, da un nulla, e che con la stessa rapidità si estingue. Questa passione richiede soprattutto libertà e perciò Eloisa aveva ragione quando, al fine di conservare questa passione, si rifiutava di sposare l’amato Abelardo. Quante volte, richiesta di sposarti ho detto: Maledette le leggi tutte, tranne che dell’amore; L’amore, libero come aria, se vede i lacci umani, Spiega le ali leggere e in un attimo vola. L’amicizia invece costituisce un affetto calmo e tranquillo, guidato dalla ragione e rafforzato dall’abitudine; affetto che sorge da una lunga familiarità e da obblighi reciproci, senza gelosie o timori e senza quelle febbrili esplosioni di caldo e di freddo che nella passione dell’amore provocano un tormento tanto gradevole. Le costrizioni rafforzano quindi un affetto tanto sobrio come l’amicizia, ed esso giunge alla sua massima intensità quando qualche forte interesse o qualche bisogno unisce due persone indirizzandole verso un unico oggetto. Perciò non dobbiamo temere di presentare come strettissimo un vincolo matrimoniale che si regga principalmente sull’amicizia. L’amicizia tra le persone, quando è solida e sincera, avrà piuttosto da guadagnare da tale vincolo; e se è vacillante ed incerta, questo è il modo migliore per consolidarla. Quante liti e ostilità inutili la gente di buon senso si sforza di dimenticare, quando è costretta a passare insieme la vita! Mentre si trasformerebbero rapidamente nell’odio più profondo se fossero spinte all’estremo dalla prospettiva di una facile separazione. In terzo luogo dobbiamo tener presente che nulla è più pericoloso che unire due persone tanto strettamente in tutti i loro interessi e le loro preoccupazioni, come accade nel caso di un marito e di una moglie, senza rendere l’unione completa e totale. La minima possibilità di un interesse

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distinto sarebbe fonte di sospetti e di interminabili liti; la moglie, non sicura della sua posizione, continuerebbe a perseguire i propri scopi o fini, e l’egoismo del marito, unito a un maggiore potere, potrebbe essere ancora più pericoloso.

 - David Hume (Edimburgo 1711-1776) pubblicò Saggi morali, politici e letterari tra il 1741 e il 1742. Il testo riportato è tratto da: D. Hume, Opere filosofiche III. Saggi morali, politici e letterari. L’immortalità dell’anima. Sul suicidio, a cura di E. Leocaldano ed E. Mistretta, Laterza, Roma-Bari 1987, pp. 198-201.

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H, Trattato sulla natura umana lA memoriA è legAtA All’esperienzA , l’immAginAzione è liber A: lA mente per conoscere può o deve servirsi dell’unA o dell’Altr A? nella visione humeana della conoscenza umana l’immaginazione occupa un posto tanto importante quanto quello occupato dalla memoria, ma molto diverso. la seconda è la facoltà che consente all’uomo di tenere ferma nella mente (quindi nel presente) un’idea legata a una vivida impressione di cui ha fatto esperienza, ed è tanto più rigorosa quanto più è fedele all’impressione originaria (e poiché l’impressione non è mai isolata, diremo meglio: al loro ordine e alla loro posizione); la seconda è la facoltà che consente alla mente di legare in maniera “libera” le idee, indipendentemente dall’ordine e dalla posizione con cui sono state acquisite attraverso l’esperienza. l’immaginazione è quindi una faco,ltà importante perché la potenzialità progettuale dell’uomo, l’organizzazione delle idee, la capacità di ragionare, dipendono dalla sua capacità di articolare le idee associandole in maniera originale. Anche l’immaginazione può generare abitudine, ed essere quindi legata al passato in un modo che la vincola, limitandola. essa ha poi un ruolo importante anche nella formazione dell’idea complessa di sostanza.

Origine delle nostre idee Tutte le percezioni della mente umana si possono dividere in due classi, che chiamerò  e . La differenza fra esse consiste nel grado diverso di forza e vivacità con cui colpiscono la nostra mente e penetrano nel pensiero ovvero nella coscienza. [...] Per  intendo le immagini illanguidite delle impressioni, sia nel pensare che nel ragionare: ad esempio le percezioni suscitate dal presente discorso, eccettuate quelle dipendenti dalla vista e dal tatto e il piacere o il dolore immediato ch’esso può causare. [...] In generale è facile distinguere la loro diversità di grado, anche se in certi casi particolari è però possibile che si trovino estremamente vicini l’uno all’altro. Così nel sonno, nella febbre, nella pazzia o in qualsiasi violenta emozione dell’anima, le idee possono avvicinarsi alle impressioni; e, dall’altra parte, talvolta accade che queste siano così deboli e tenui da non poterle distinguere dalle idee. Ma malgrado questa stretta rassomiglianza che troviamo in alcuni casi, esse sono in

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generale tanto diverse che nessuno può farsi scrupolo di classificarle separatamente e assegnare a ciascuna un nome speciale per metterne in rilievo la differenza.

Idee della memoria e dell’immaginazione L’esperienza ci dimostra che quando una qualsiasi impressione si è presentata alla mente, vi ritorna poi in forma di idea. Questo può accadere in due modi diversi: o nel suo nuovo modo di apparire conserva un grado considerevole della sua vivacità originaria, ed è qualcosa di intermedio tra un’impressione e un’idea; oppure perde completamente quella vivacità, ed è allora una idea vera e propria. La facoltà, per cui le impressioni si ripetono alla prima maniera, si chiama , quell’altra . È evidente a prima vista che le idee della memoria sono molto più vivaci e forti di quelle dell’immaginazione, e che quella facoltà rappresenta gli oggetti con tinte più vivaci di questa. Quando ricordiamo eventi passati, la loro idea si presenta con forza alla mente; nell’immaginazione, invece, la percezione è debole ed evanescente, e solo con difficoltà la mente può mantenerla salda e uniforme a lungo. C’è, dunque, una sensibile differenza tra le due specie di idee. Ma questo verrà trattato più dettagliatamente in seguito. Esiste un’altra differenza non meno evidente tra queste due classi di idee: che, sebbene né le idee della memoria né quelle dell’immaginazione, né le idee vivaci né quelle deboli possano presentarsi alla mente senza che le loro impressioni corrispondenti le abbiano precedute e abbiano preparato loro la via, tuttavia l’immaginazione non deve seguire per forza il medesimo ordine e la medesima forma delle impressioni originarie; la memoria, invece, si trova in certo modo in condizione di inferiorità, senza alcun potere di operare cambiamenti. È evidente che la memoria conserva la forma originale, in cui le si presentarono i suoi oggetti; e che, se talora ce ne allontaniamo nel ricordare qualcosa, ciò deriva da qualche difetto o imperfezione di questa facoltà. Uno storico, per la miglior scorrevolezza della sua narrazione, potrebbe forse presentare un evento prima di quello a cui in realtà fu posteriore; ma, per essere esatto, dovrebbe avvertire di questa inesattezza, in modo da rimettere l’idea nella sua posizione corretta. Accade lo stesso quando ricordiamo i luoghi o le persone che una volta abbiamo conosciuto. La funzione principale della memoria consiste nel conservare non le idee semplici, ma il loro ordine e la loro posizione. In breve, questo principio si fonda su un numero di fenomeni comuni e banali, tanto che possiamo evitare il disturbo di insistere ulteriormente. È altrettanto evidente il secondo principio: la libertà dell’immaginazione di trasporre e cambiare le sue idee. Le favole, che incontriamo nei poemi o nei romanzi, lo pongono totalmente fuori questione. In loro la na-

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tura è completamente stravolta: si fa menzione solo di cavalli alati, draghi fiammeggianti e giganti mostruosi. Questa libertà della fantasia non sembrerà neppure strana, se consideriamo che tutte le nostre idee riproducono le nostre impressioni, e che non ci sono due impressioni che siano perfettamente inseparabili. Per non dire che questa è un’evidente conseguenza della divisione delle idee in semplici e complesse: dovunque l’immaginazione percepisca una differenza tra le idee, può agevolmente separarle.

 - David Hume (Edimburgo 1711-1776) concepì il Trattato sulla natura umana appena ventunenne; l’opera fu però realizzata durante un soggiorno di due anni a La Flèche e pubblicata tra il 1739 e il 1740. Il testo riportato è tratto da: D. Hume, Trattato sulla natura umana, a cura di P. Guglielmoni, Bompiani, Milano 2001, pp. 41 ss.

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H, Trattato sulla natura umana in unA visione empiristA dellA conoscenzA è possibile FAre esperienzA di unA sostAnzA? dopo aver chiarito la dottrina dell’origine delle idee, hume si chiede se l’idea di sostanza – sia riferita agli oggetti corporei, sia al soggetto spirituale – può essere un’idea GLMEVE, perché non è mai possibile indicare la sensazione o la riflessione a cui essa farebbe riferimento. i filosofi chiamano infatti con il nome di “sostanza” qualcosa che ritengono appartenga in modo indipendente dalla mente al mondo esterno (la mente stessa è spesso concepita come sostanza tra sostanze), ma hume mostra che essa è solo un’idea che appartiene in maniera esclusiva all’universo della mente, essendo null’altro che un insieme di idee semplici legate dall’immaginazione. c’è un dettaglio non secondario: nella genesi delle idee di sostanza ha un ruolo l’attribuzione di un RSQI, cosa che contribuisce a rendere unitario, concreto e apparentemente chiaro un insieme di idee che invece non hanno alcun elemento di concretezza e la cui chiarezza è un frutto dell’immaginazione. questo ci dice una cosa importante sul linguaggio: non è in grado di creare una cosa, ma contribuisce a far sembrare esistente qualcosa che è invece solo un prodotto libero della mente. nulla in realtà sappiamo della corrispondenza tra l’idea di una sostanza e la sua realtà al di fuori della mente. nulla: non è neppure possibile dire che le sostanze non esistono nella realtà. di quel che non sappiamo non possiamo parlare se non per dire che non sappiamo. la posizione di hume è quindi coerentemente scettica, non nichilista.

I modi e le sostanze Mi piacerebbe chiedere a quei filosofi che fondano la maggior parte dei loro ragionamenti sulla distinzione di sostanza e accidente, e che s’immaginano di avere idee chiare dell’una e dell’altro, se l’idea di sostanza derivi dalle impressioni di sensazione o da quelle di riflessione. Nel caso che ci sia trasmessa dai sensi, chiedo: da quale di essi, e in che modo? Se è percepita dagli occhi, deve essere un colore; se ci è trasmessa attraverso le orecchie, deve essere un suono; se la percepiamo attraverso il palato, deve essere un sapore; e così per gli altri sensi. Naturalmente, ritengo che nessuno potrà sostenere che la sostanza sia o un colore, o un suono, o un sapore. L’idea di sostanza, ammesso che esista, deve perciò derivare da un’impressione di riflessione. Ma le impressioni di riflessione si risolvono in nostre passioni e in nostre emozioni: nessuna di queste è possibile che rappresenti la sostan-

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za. Dunque, non abbiamo nessun’idea di sostanza, distinta da quella di una raccolta di qualità particolari, né possiamo attribuirle alcun altro significato quando ne parliamo o ne ragioniamo. L’idea di sostanza, così come quella di modo, non è che una raccolta di idee semplici, riunite dall’immaginazione, e che possiedono un nome particolare assegnato loro col quale possiamo richiamarle [la collezione di idee] in noi stessi o negli altri. La differenza tra queste idee consiste nel fatto che le particolari proprietà che formano una sostanza si riferiscono, comunemente, a un qualcosa di sconosciuto, al quale dovrebbero inerire; oppure, se si riconosce che questa finzione non può sussistere, si suppone che, almeno, siano indissolubilmente unite dalle relazioni di contiguità e di causalità. Per questo motivo qualunque nuova qualità semplice scopriamo avere la medesima connessione con le altre, noi ve la includiamo immediatamente, anche se non rientrava nel primo concetto di quella sostanza. Per esempio, la nostra idea dell’oro può essere all’inizio quella di un colore giallo, di un certo peso, di una certa malleabilità e fusibilità; ma, dopo averne scoperto la solubilità in aqua regia, aggiungiamo questa qualità alle altre, supponendo che appartenga alla sostanza dell’oro come se la sua idea partecipasse fin dal principio di quell’idea complessa. Il principio d’unione, che viene considerato la parte principale dell’idea complessa, permette l’aggiunta di qualunque qualità che compaia in seguito: essa viene in tal modo compresa in quella [l’idea complessa] come le altre che si presentarono per prime. Che ciò non avvenga per i modi risulta evidente considerando la loro natura. Le idee semplici, dalle quali sono formati i modi, o rappresentano qualità che, essendo disperse in differenti oggetti, non sono unite da contiguità e causalità; ovvero, se vanno unite insieme, il principio che le unisce non è considerato come il fondamento dell’idea complessa. L’idea di un ballo è un esempio della prima specie di modi; quella di bellezza, della seconda. La ragione per cui tali idee complesse non possono ricevere una nuova idea senza cambiare il nome che distingue il modo è ovvia. Non possiamo che osservare i colori, i suoni, i gusti, le figure, e le altre proprietà dei corpi, come fossero esistenze che non sussistono separatamente, ma che richiedono invece un soggetto a cui inerire, in grado di sostenerle e fornire loro un supporto. Non abbiamo mai scoperto una di queste qualità sensibili senza fantasticare insieme, per le ragioni sopraddette, che una simile sostanza debba esistere: dunque, la stessa abitudine che ci induce a inferire una connessione tra causa ed effetto è responsabile anche della dipendenza che noi qui inferiamo tra una qualsiasi qualità e una sostanza sconosciuta. L’abitudine di immaginare una simile dipendenza produce il medesimo effetto che provocherebbe l’averla osservata. […] Da che impressione potrebbe derivare quest’idea [del sé]? Non è possibile rispondere a questa questione, senza una evidente contraddizione e

i filosofi empiristi e illuministi inglesi e scozzesi

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assurdità; e tuttavia è questa una questione a cui è necessario rispondere, se vogliamo che l’idea del sé passi per chiara e intelligibile. Deve sempre esserci una qualche impressione che dia origine a ogni idea reale. Ma il sé o la persona non è affatto un’impressione, bensì ciò a cui si suppone che le nostre varie impressioni e idee si riferiscano. Se un’impressione produce l’idea del sé, quell’impressione deve continuare a essere invariabilmente la stessa, attraverso l’intero corso delle nostre vite; poiché il sé è supposto esistere in quel modo. Ma nessuna impressione è costante e invariabile. Dolore e piacere, angoscia e gioia, passioni e sensazioni si susseguono le une alle altre, e non esistono mai allo stesso modo. L’idea dell’io non può quindi derivare da nessuna di queste impressioni, né da qualunque altra: quindi non esiste un’idea simile. […] Ma, fatta eccezione per alcuni metafìsici [...], io azzardo affermare che il resto del genere umano non è altro che un fascio o collezione di percezioni differenti, susseguenti le une alle altre con rapidità inconcepibile, e si trovano in perpetuo flusso e movimento. I nostri occhi non possono ruotare nelle loro orbite senza variare le nostre percezioni. Il nostro pensiero è ancora più variabile della nostra vista; e tutti i nostri sensi e facoltà contribuiscono a questo cambiamento; né esiste nell’anima una singola potenza, che rimanga invariabilmente identica, anche per un momento. La mente è una sorta di teatro, in cui diverse percezioni appaiono in successione; passano, ripassano, scivolano via, combinandosi in un’infinita varietà di posizioni e situazioni. Non esiste propriamente in esso alcuna semplicità in un dato tempo, né identità in tempi differenti; qualunque sia la nostra propensione naturale per immaginare quella semplicità e identità.

 - David Hume (Edimburgo 1711-1776) concepì il Trattato sulla natura umana appena ventunenne; l’opera fu però realizzata durante un soggiorno di due anni a La Flèche e pubblicata tra il 1739 e il 1740. Il testo riportato è tratto da: D. Hume, Trattato sulla natura umana, a cura di P. Guglielmoni, Bompiani, Milano 2001, pp. 53 ss.

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Capitolo

5 I filosofi dell’età illuministica In un mondo occidentale in cui si preannunciano grandi rivoluzioni – quella americana, quella francese e quella industriale – i filosofi dell’età illuministica, pur appartenendo a contesti diversi, sono accumunati dalla convinzione che la ragione possa guidare l’umanità in un processo di emancipazione dall’oscurantismo culturale e dall’assolutismo politico. È la scienza che dice la verità sul mondo, non più la religione o la metafisica; sono i diritti dell’uomo che fondano un ordine sociale basato sui principi di giustizia, di libertà e di uguaglianza. In Francia acquistano rilievo sia le tematiche filosofiche volte a sconfiggere il pensiero metafisico in nome del metodo scientifico, sia le problematiche etico-politiche, che denunciano i mali della società, richiamandosi agli ideali che ispireranno la rivoluzione del 1789.

M, Lettere persiane Per un bambino che viene a l mondo è meglio nascere in una società liber a o disPotica , in una società basata sull’eguaglianza o sulla disParità delle Fortune? le riflessioni sociopolitiche di montesquieu seguono per lo più il doppio binario della natura e dell’organizzazione sociale, mostrando come le conseguenze di quest’ultima possano portare lontano rispetto ai dati naturali di partenza. si prenda il caso della libertà. Questa genera eguaglianza, perché in una società libera le condizioni di base devono essere vicine all’eguaglianza, come montesquieu ritiene avvenga in paesi europei come l’olanda e la svizzera. l’eguaglianza dei cittadini, cioè la loro libertà resa concreta di fronte alla legge, favorisce l’eguaglianza delle fortune e questa a sua volta favorisce il benessere complessivo della società. ne deriva una società più sana, in cui le probabilità che la popolazione cresca in salute sono molto più alte che in una società dispotica, che è caratterizzata dalla estrema disparità delle fortune. Qui manca la libertà, dunque l’eguaglianza, e a fronte di pochi che detengono tutte le ricchezze si stende la massa della popolazione che geme in un’estrema povertà. i bambini ne pagano un prezzo altissimo, in termini di mortalità infantile, o di crescita difficile. alla fine tutto il corpo sociale si indebolisce.

Usbek a Redi, a Venezia Se c’è un Dio, caro Redi, deve necessariamente essere giusto, perché se non lo fosse sarebbe il più malvagio ed imperfetto di tutti gli esseri. La giustizia è un rapporto di convenienza che si trova realmente tra le cose; tale rapporto è sempre il medesimo, qualunque sia l’essere che lo considera, sia Dio, sia un angelo, sia infine un uomo. È vero che gli uomini non scorgono sempre questi rapporti; spesso anzi, quando li vedono, se ne allontanano, e ciò che vedono meglio è sempre il loro interesse. La giustizia alza la propria voce, ma stenta a farsi sentire nel tumulto delle passioni. Gli uomini possono fare delle ingiustizie perché hanno interesse a commetterle e perché preferiscono la propria soddisfazione a quella degli altri. È sempre con riferimento a se stessi che essi agiscono, nessuno è gratuitamente cattivo: occorre che ci sia una ragione determinante, e tale ragione è sempre una ragione d’interesse. […]

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Siamo circondati da uomini più forti di noi, che possono nuocerci in mille modi diversi e per tre quarti del tempo possono farlo impunemente: che tranquillità per noi sapere che nel cuore di tutti questi uomini c’è un principio interiore che combatte in nostro favore e ci mette al riparo dai loro assalti! Senza di ciò, dovremmo continuamente vivere nel terrore, passeremmo davanti agli uomini come davanti a leoni e non saremmo sicuri della nostra vita neanche per un momento, né dei nostri beni, né del nostro onore. […] Quando un uomo esamina se stesso, che soddisfazione per lui trovare che il suo cuore è giusto! Questo piacere, per quanto austero, deve colmarlo di gioia; egli vede l’essere che egli è tanto al di sopra di coloro che non hanno un cuore giusto quanto si vede al di sopra delle tigri e degli orsi. Sì, Redi, se fossi sicuro di seguir sempre quell’equità che ho dinanzi agli occhi, mi crederei il primo degli uomini. Da Parigi, il 1o della luna di Gemmadi 1, 1715

Usbek allo stesso La mitezza del governo contribuisce meravigliosamente alla propagazione della specie. Tutte le repubbliche ne sono una prova costante e soprattutto la Svizzera e l’Olanda, che, se si considera la natura del terreno, sono i due peggiori paesi dell’Europa, e che sono tuttavia i più popolati. Nulla attira di piú gli stranieri della libertà, e della ricchezza che sempre ne consegue; una si fa ricercare di per sé, e le necessità attirano nei paesi in cui si trova l’altra. La specie si moltiplica in paesi in cui l’abbondanza provvede ai figli, senza diminuire per nulla le sostanze dei padri. L’eguaglianza stessa dei cittadini, che di solito produce l’eguaglianza nelle fortune, porta l’abbondanza e la vita in tutte le parti dell’organismo politico, e la diffonde dappertutto. Non lo stesso accade nei paesi sottoposti al potere arbitrario: il principe, i cortigiani e qualche privato possiedono tutte le ricchezze, mentre tutti gli altri gemono in un’estrema povertà. Se uno non ha alcun agio e si accorge che farà dei figli più poveri di lui, non si sposerà, o, se si sposerà, avrà timore di aver un numero troppo grande di figli, che potrebbero completare la distruzione della sua fortuna e si troverebbero in condizioni inferiori a quelle del padre. Ammetto che i rurali o contadini, una volta sposati, popoleranno indifferentemente, siano ricchi o poveri: questa considerazione non li riguarda, essi hanno sempre un’eredità sicura da lasciare ai loro figli, la loro vanga, e nulla impedisce loro di seguire ciecamente l’istinto naturale. Ma a che serve in uno Stato questo numero di bambini che languiscono nella miseria? Quasi tutti periscono di mano in mano che nascono, non

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prosperano mai; deboli e malaticci, muoiono uno a uno in mille modi, mentre se ne vanno in mucchio per le frequenti malattie epidemiche, che sono sempre prodotte dalla miseria e dal cattivo nutrimento; quelli che vi sfuggono raggiungono l’età virile senza possederne le forze e languiscono per tutto il resto della loro vita. Gli uomini sono come gli alberi, che non crescono mai bene se non sono ben curati: fra i popoli miserabili la specie scade e talvolta persino degenera. La Francia può fornire un grande esempio di tutto ciò. Durante le guerre del passato, il timore che tutti i figli di famiglia avevano che li si arruolasse nella milizia li costringeva a sposarsi, e per giunta in età troppo tenera e in condizioni di povertà. Da tanti matrimoni nascevano molti bambini, che oggi ancora si desiderano in Francia e che la miseria, la carestia e le malattie han fatto scomparire. Ora, se sotto un cielo così felice, in un regno così civile come la Francia, si fanno osservazioni del genere, che sarà negli altri stati? Da Parigi, il 23 della luna di Ramazan, 1718

 - Charles-Luis de Montesquieu (Bordeaux 1689 - Parigi 1755) pubblicò in forma anomina le Lettere persiane nel 1721. Il testo riportato è tratto da: C.L. de Montesquieu, Lettere persiane, a cura di C. Agostini, Feltrinelli, Milano 1981, pp. 204 ss.

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D e D’A, Discorso preliminare sulla base di Quali PrinciPi è Possibile stabilire una r azionale genealogia delle conoscenze e risalire alla genesi delle nostre idee? i curatori dell’Encyclopédie si trovarono di fronte a un compito arduo, anche perché si trovavano davanti a una carenza di modelli cui ispirarsi: il loro obiettivo era diverso dalla compilazione di una summa del sapere, secondo la tradizione medioevale, e diverso anche dai vari tentativi di sistemazione unitaria delle conoscenze umane che molti filosofi fino a quel momento avevano tentato. Quel che volevano proporre al pubblico colto della Francia e del mondo, nello spirito universale e cosmopolita del loro tempo, era qualcosa di profondamente nuovo: una sintesi ordinata del sapere umano in tutti i campi delle lettere, delle scienze e delle arti (dunque il sapere teorico accanto al sapere pratico-professionale), una sintesi che fosse perfettibile, potesse essere la base per nuove ricerche. ai loro occhi non si trattava di chiudere in un sistema il sapere, ma di porre ordine su un sistema aperto: il sistema delle conoscenze umane. sulla base di quali principi identificare l’unità del sapere, se il sapere è aperto e quindi in grado di porre, in piena coerenza con se stesso, in crisi la propria unità? la difficoltà è evidente, e venne risolta con il richiamo alla tradizione inglese (baconiana, lockiana, newtoniana), cioè ai modelli di razionalità elaborati dalle generazioni precedenti.

Basta appena riflettere sui reciproci nessi che sussistono tra le invenzioni umane per rendersi conto che scienze e arti si aiutano le une con le altre, e che v’è una catena che le unisce. Ma molto spesso è arduo ridurre una singola scienza o arte a poche regole o nozioni generali; non meno arduo è saldare in un solo sistema i rami infinitamente molteplici della scienza umana. Il primo passo da fare in tale ricerca è esaminare, ci si passi il termine, la genealogia o filiazione delle conoscenze, le loro cause, i loro caratteri distintivi; risalire, in breve, all’origine ed alla genesi stessa delle nostre idee. Esame – a parte l’utilità che ne trarremo per l’enumerazione enciclopedica delle scienze o arti – non certo fuor di luogo all’inizio di un dizionario ragionato delle conoscenze umane. Possiamo distinguere tutte le nostre conoscenze in dirette e riflesse. Dirette sono quelle che riceviamo immediatamente senza intervento della volontà e che, trovando aperte, se così si può dire, tutte le porte della nostra i f i l o s o f i d e l l ’e t à i l l u m i n i s t i c a

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anima, vi entrano senza sforzo e senza incontrare resistenza. Riflesse sono le conoscenze che lo spirito ottiene operando su quelle dirette, unificandole e combinandole. Tutte le nostre conoscenze dirette si riducono a quelle che riceviamo attraverso i sensi: ne consegue che tutte le nostre idee provengono dalle sensazioni. Questo principio degli antichi filosofi è stato a lungo considerato un assioma dagli scolastici; bastava, perché lo onorassero così, che fosse antico, e avrebbero difeso con lo stesso ardore le forme sostanziali e le qualità occulte. Onde alla rinascenza della filosofia questa verità fu trattata come le opinioni assurde, dalle quali la si sarebbe dovuta distinguere. Fu proscritta con esse, poiché nulla è tanto rischioso per la verità o la espone a così grave fraintendimento, quanto la mescolanza o vicinanza dell’errore. Il sistema delle idee innate, attraente per vari motivi, e forse tanto più seducente quanto meno noto, prese il posto dell’assioma degli scolastici; e, dopo aver regnato a lungo, conta ancora qualche adepto. Tanta fatica dura la verità per farsi riconoscere, quanto i pregiudizi o il sofisma l’hanno occultata. Finalmente, e non da molto tempo, si riconosce quasi concordemente che gli antichi avevano ragione; né è questa la sola questione circa la quale cominciamo a riaccostarci a loro. Non c’è nulla di più indiscutibile della esistenza delle nostre sensazioni; per provare che sono il principio di tutte le nostre conoscenze, è sufficiente dimostrare che possono esserlo. Infatti in buona filosofia ogni deduzione che parta da fatti o verità ben note è preferibile a un discorso che si fondi su mere ipotesi, anche se geniali. Perché supporre che possediamo pure nozioni intellettuali innate, se per formarle è sufficiente riflettere sulle nostre sensazioni? I particolari che ora esporremo dimostreranno che queste nozioni non hanno effettivamente altra origine. La prima cosa che le nostre sensazioni ci insegnano, e che neppure si distingue da esse, è la nostra esistenza. Ne segue che le nostre prime idee riflesse riguardano noi, ossia il principio pensante che costituisce la nostra natura, e che non si distingue da noi stessi. La seconda conoscenza che dobbiamo alle nostre sensazioni è l’esistenza degli oggetti esterni, tra i quali va compreso anche il nostro corpo, giacché esso resta, per così dire, esteriore a noi, anche prima che ci si renda conto della natura del principio pensante. Tali oggetti innumerevoli producono su di noi un effetto così possente e continuo, e noi ci immedesimiamo talmente in essi che, se in un primo tempo le idee riflesse ci fanno rientrare in noi stessi, subito le sensazioni che ci assediano da tutte le parti [...], ci obbligano a uscire di nuovo fuori di noi. La molteplicità di tali sensazioni, l’accordo che possiamo notare tra le loro testimonianze, le sfumature che vi cogliamo, le affezioni involontarie che esse ci fanno provare, paragonate con l’atto di volontà che presiede alle nostre idee riflesse ed opera soltanto sulle nostre sensazioni; tutto ciò determina in noi una tendenza irresistibile ad asserire l’esistenza degli oggetti

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ai quali riferiamo tali sensazioni e che ci appaiono esserne causa. Molti filosofi hanno attribuito siffatta tendenza all’influsso di un essere superiore, stimandola la prova più convincente dell’esistenza degli oggetti stessi. In effetti, non essendovi rapporto alcuno tra una sensazione e l’oggetto che la genera – o, almeno, al quale noi la riferiamo – non sembra che si possa trovare con il ragionamento alcuna possibile mediazione tra l’uno e l’altra: solo una sorta di istinto, più sicuro della ragione medesima, può farci compiere un passo così lungo. E tale istinto è così forte in noi che supponendo per un momento che, annullati gli oggetti esterni, esso continui a sussistere, l’improvvisa ricomparsa di quei medesimi oggetti non potrebbe renderlo più forte. Possiamo dunque stabilire senza incertezze che le nostre sensazioni hanno effettivamente fuori di noi la causa che attribuiamo loro; poiché l’effetto che può derivare dall’esistenza reale di siffatta causa non potrebbe essere in nessun modo diverso da quello che proviamo. E non imitiamo quei filosofi di cui parla Montaigne, i quali, interrogati circa il principio delle azioni umane si domandano se gli uomini esistano. Lungi dal voler addensare nubi sopra una verità riconosciuta dagli scettici anche quando non stanno discettando, lasciamo ai metafisici illuminati la cura di svilupparne il principio: a loro tocca determinare, se ciò è possibile, la misura del primo passo che fa la nostra anima, quando esce da se stessa, sospinta e insieme trattenuta – per così dire – da una quantità di percezioni, che se da un lato la sospingono verso gli oggetti esteriori, d’altro lato appartengono esclusivamente ad essa e paiono obbligarla entro un ristretto spazio, donde non le consentono di uscire.

 - Denis Diderot (Langres 1713 - Parigi 1784) e Jean Baptiste d’Alembert (Parigi 1717-1783) furono i curatori dell’Encyclopédie, il cui primo volume fu pubblicatò nel 1751. Il testo riportato è tratto da: D. Diderot e J.B. d’Alembert, Discorso preliminare, in Enciclopedia o dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri ordinato da Diderot e D’Alembert, a cura di P. Casini, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 3 ss.

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V, Dizionario filosofico bene l’eguaglianza; ma se è dav vero un valore Perché c’è tanta ineguaglianza nel mondo? nel clima illuminista l’eguaglianza è una sorta di bandiera ideale per la quale non ha molto senso perdersi in complesse argomentazioni filosofiche: è percezione comune che gli uomini siano uguali, perché di fronte alla ragione ogni ineguaglianza sfuma. la battaglia (la loro ricerca in merito è QMPMXERXI) teorica degli illuministi è piuttosto tutta nel tentativo di mostrare che cosa determina, storicamente e socialmente, l’ineguaglianza. così rousseau e così voltaire in questa celebre pagina del suo (M^MSREVMS. Ferme restando le disuguaglianze naturali, che non contraddicono il concetto di eguaglianza come valore perché non riguardano mai i valori.

Eguaglianza Quali obblighi ha un cane o un cavallo verso un altro? Nessuno: perché nessun animale dipende dal suo simile. Ma l’uomo, che ha ricevuto il raggio della Divinità che si chiama «ragione», quale frutto ne trae? Quello di essere schiavo in quasi tutta la Terra. Se questa fosse quale sembra dovrebbe essere, ossia se l’uomo vi trovasse dappertutto mezzi d’esistenza facili e sicuri e un clima adatto alla propria costituzione, è chiaro che a un uomo sarebbe stato impossibile asservirne un altro. Fate che il nostro globo sia coperto di frutti salutari; che l’aria, destinata a contribuire alla nostra vita, non ci dia malattie e morte; che l’uomo non abbia bisogno di altra casa o letto di quello dei daini e dei caprioli; e vedrete che i Gengiz Khan e i Tamerlani non avranno per servitori che i loro figli, abbastanza umani da aiutarli nella vecchiaia. Nello stato naturale di cui godono tutti i quadrupedi, gli uccelli e i rettili, l’uomo sarebbe felice quanto loro; e il predominio sarebbe una chimera, un’assurdità, cui nessuno penserebbe: perché cercare dei servitori quando non si ha bisogno di nessun servigio? Se poi passasse per il capo di qualche individuo dallo spirito tirannico e dalle braccia nerborute di asservire il vicino meno forte di lui, la cosa sarebbe impossibile: l’oppresso sarebbe cento leghe lontano prima che l’oppressore avesse preso le proprie disposizioni. Tutti gli uomini sarebbero dunque di necessità eguali, se non avessero bisogni. Sono le miserie connesse alle nostre specie a subordinare un uomo a un altro: la vera disgrazia non è la diseguaglianza, ma la dipendenza. Importa ben poco che uno si faccia chiamare Sua Altezza e un altro Sua Santità, ma è duro servire l’uno o l’altro.

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Una famiglia numerosa ha coltivato un bel podere; due piccole famiglie lì vicino hanno campi ingrati e ribelli: è inevitabile che le due famiglie povere finiscano col servire quella facoltosa. Una delle due va a offrire a quest’ultima le proprie braccia per averne pane; l’altra va invece ad aggredirla, e ne è sconfitta. La famiglia che offre i propri servigi dà origine ai domestici e ai braccianti; quella sconfitta, agli schiavi. Nel nostro sventurato pianeta, è impossibile che gli uomini viventi in società non siano divisi in due classi: quella dei ricchi che comandano e quella dei poveri che servono; due classi che si suddividono a loro volta in mille categorie, ciascuna delle quali ha poi differenti sfumature. Non tutti i poveri sono assolutamente infelici. La maggior parte sono nati in tale stato, e il lavoro continuo gl’impedisce di sentir troppo la miseria della loro condizione. Ma, quando se ne rendono conto, ecco guerre come quella del partito popolare contro il partito senatoriale a Roma o dei contadini in Germania, in Inghilterra, in Francia. Tutte finiscono, prima o poi, con l’asservimento del popolo, perché i potenti hanno il denaro, e il denaro è padrone di tutto in uno Stato. Dico in uno Stato, perché nei rapporti tra nazione e nazione non accade lo stesso: la nazione che sa usar meglio il ferro soggiogherà sempre quella che abbia più oro e meno coraggio. Ogni uomo nasce con un’inclinazione abbastanza violenta per il predominio, la ricchezza e i piaceri e con una notevole propensione verso la pigrizia; e vorrebbe, quindi, avere il denaro e le mogli o le figlie degli altri, esserne il padrone, assoggettarli a tutti i suoi capricci, e non far nulla o, per lo meno, far solo quel che gli piace. Vedete chiaramente che, con queste belle disposizioni, è altrettanto impossibile che gli uomini siano eguali quanto che due predicatori o due professori di teologia non siano gelosi l’uno dell’altro. Il genere umano, qual è, non può sussistere senza che ci sia un gran numero di uomini utili che non posseggono niente. È certo, infatti, che nessun uomo agiato lascerà la sua terra per venir a lavorare la vostra; e che, se avete bisogno d’un paio di scarpe, non sarà un referendario a farvele. L’eguaglianza è, dunque, a un tempo la cosa più naturale e la più chimerica. Siccome gli uomini sono eccessivi in tutto, quando lo possono, si è spinta all’estremo tale diseguaglianza: e in parecchi paesi si è giunti a pretendere che non sia permesso a un cittadino uscire dalla contrada dove il caso lo ha fatto nascere. Il senso d’una tal legge è, evidentemente, questo: «Questo paese è così odioso e mal governato che noi vietiamo a chiunque di uscirne, per paura che tutti se ne vadano». Cercate di condurvi meglio: date a tutti i vostri amministrati il desiderio di restare nel vostro paese e agli stranieri di venirci. Ogni uomo, nel suo intimo, ha il diritto di credersi interamente eguale agli altri. Non ne consegue però che il cuoco d’un cardinale debba ordinare al suo padrone di cucinargli il desinare. Tuttavia, il cuoco può dire: «Sono uomo come il mio padrone; sono nato come lui nel pianto; egli morrà come

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me tra le stesse angosce e con le stesse cerimonie. Tutti e due compiamo le stesse funzioni animali. Se i Turchi dovessero impadronirsi di Roma, e io diventare cardinale e il mio padrone cuoco, lo piglierò al mio servizio». Discorso ragionevole e giusto; ma, in attesa che il Gran Turco s’impadronisca di Roma, il cuoco deve fare il proprio dovere: altrimenti, qualsiasi società umana sarebbe sovvertita. E un uomo che non sia né cuoco d’un cardinale né investito di nessun pubblico ufficio; un privato che non dipenda da nessuno, ma che s’irriti di essere ricevuto dappertutto con un’aria di protezione o di disprezzo; che veda chiaramente che molti «monsignori» non hanno né più dottrina né più ingegno né più virtù di lui e che si annoi di dover qualche volta starsene nelle loro anticamere, qual partito dovrà pigliare? Quello di andarsene.

 - Voltaire (Parigi 1694-1778) scrisse il Dizionario filosofico nel 1764. Il testo riportato è tratto da: Voltaire, Dizionario filosofico. Eguaglianza, in Scritti filosofici, 2 voll., a cura di P. Serini, Laterza, Bari 1962, vol. II, pp. 219222.

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C, Saggio sull’origine delle conoscenze umane se una nostr a sensazione è chiar a e PercePita secondo verità , Questo è suFFiciente alla mente Per esPrimere giudizi certamente non sbagliati? condillac pone una distinzione molto chiara, ma sottile (è necessaria molta attenzione per seguirlo su questo punto), tra la sensazione che ci dà informazioni sul mondo esterno e il giudizio che la mente dà dopo avere formulato un’idea sulla base della sensazione percepita. la distinzione riguarda: – la sensazione come percezione che la mente prova in sé e porta alla formazione di un’idea; – la sensazione come rapporto tra l’idea prodotta e una realtà esterna a cui la mente la riferisce; – la sensazione come fonte del giudizio che la mente fa sulla reale natura della realtà esterna che è stata percepita. Per quanto chiare e vere siano la percezione, l’idea prodotta e il riferimento al mondo esterno, da esse non segue MQQIHMEXEQIRXI un possibile giudizio su quest’ultimo. in questo giudizio, infatti, è possibile si annidi l’errore. la sensazione è dunque la fonte di ogni nostra conoscenza e quindi di ogni verità. ma può essere anche la fonte di ogni nostro errore, se si pretende che da essa segua immediatamente un giudizio; e anche, nota condillac, se si pretende di avere sensazioni che in realtà non si sono avute affatto e sono il frutto dell’azione della nostra immaginazione.

Innanzi tutto è certissimo che nulla è più chiaro e più distinto della nostra percezione, quando proviamo qualche sensazione. Che cosa è più chiaro delle percezioni di suono e di colore! Che cosa è più distinto! Ci è mai capitato di confondere due di queste cose? Ma se ne vogliamo cercare la natura e sapere come esse si producano in noi, non occorre dire che i sensi ci ingannano o che ci danno idee oscure e confuse: la più piccola riflessione fa vedere che non ne producono nessuna. Tuttavia, quale che sia la natura di queste percezioni, e in qualunque modo si producano, se vi cerchiamo l’idea dell’estensione, quella di una linea, d’un angolo e di qualche figura, è certo che ve la troveremo molto chiaramente e molto distintamente. Se vi cerchiamo inoltre a che cosa riferire questa estensione e queste figure, ci accorgeremo altrettanto chiaramente e distintamente che le riferiamo non a noi, o a ciò che è in noi il soggetto del pensiero, ma a qualche cosa che è fuori di noi.

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Ma se vi vogliamo cercare l’idea della grandezza assoluta di certi corpi, o anche quella della loro grandezza relativa, e della loro propria figura, vi troveremo solo giudizi molto sospetti. Secondo che un oggetto sarà più vicino o più lontano, saranno del tutto diverse le grandezze e le figure apparenti sotto le quali si presenterà. Ci sono dunque tre cose da distinguere nelle nostre sensazioni: 1) la percezione che noi proviamo; 2) il riferimento che ne facciamo a qualche cosa fuori di noi; 3) il giudizio che ciò che riferiamo alle cose appartiene effettivamente a esse. In ciò che avviene in noi non c’è più errore, oscurità e confusione di quanta ce ne sia nel rapporto che istituiamo tra ciò che avviene in noi e ciò che è fuori di noi. Se riflettessimo, per esempio, che abbiamo idee di una certa grandezza e di una certa figura e che le riferiamo a un corpo determinato, non c’è niente che non sia vero, chiaro e distinto. Ecco la fonte di tutte le verità. Se sopravviene l’errore, è solo in quanto giudichiamo che quella grandezza e quella figura appartengono effettivamente a quel corpo determinato. Se, per esempio, vedo da lontano un edificio quadrato, mi sembrerà rotondo. C’è dunque oscurità e confusione nell’idea di rotondità o nel riferimento che io ne faccio ? No, ma io giudico rotonda quella costruzione: ecco l’errore. Quando dico che tutte le nostre conoscenze derivano dai sensi, non bisogna dimenticare che questo avviene solo in quanto quelle conoscenze si ricavano dalle idee chiare e distinte che i sensi racchiudono. Quanto ai giudizi che le accompagnano, possono esserci utili solo in base a un’esperienza accompagnata da una buona riflessione che ne abbia corretto i difetti. Ciò che abbiamo detto a proposito dell’estensione e delle figure si applica benissimo alle altre idee di sensazione e può risolvere il problema dei cartesiani: sapere se i colori, gli odori ecc., sono negli oggetti. Non c’è dubbio che non si sbaglia ad ammettere nei corpi qualità che danno occasione alle impressioni che essi provocano sui nostri sensi. La difficoltà che si pretende di sollevare è di sapere se queste qualità sono simili a ciò che proviamo. Senza dubbio ciò che c’imbarazza è che, scorgendo in noi l’idea dell’estensione e non vedendo nessun inconveniente a supporre nei corpi qualcosa di simile, ci si immagina che vi si trovi anche qualcosa che rassomigli alle percezioni di colore, di odore ecc. Questo è un giudizio precipitoso, che è fondato solo su questo confronto e del quale non si ha in realtà nessuna idea. La nozione di estensione, spogliata da ogni sua difficoltà e presa nell’aspetto più chiaro, è solo l’idea di più esseri che ci appaiono gli uni esterni agli altri. Perciò, supponendo che esista al di fuori dell’idea qualcosa di conforme a questa idea, noi ce lo rappresentiamo sempre in modo altrettanto chiaro che se lo considerassimo interno all’idea stessa. Tutt’al-

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tra cosa per colori, odori ecc. Finché, riflettendo su queste sensazioni, le consideriamo come nostre, come qualcosa che ci è proprio, ne abbiamo idee chiarissime. Ma se vogliamo, per così dire, staccarle dal nostro essere e arricchirne gli oggetti, facciamo una cosa di cui non abbiamo più idea. Noi siamo portati a attribuirle agli oggetti solo perché, da un lato, siamo costretti a supporre negli oggetti qualcosa che dia ad essi l’occasione di esistere e, dall’altro, questa causa è per noi del tutto nascosta. Sarebbe vano fare ricorso a idee o a sensazioni oscure e confuse. Questo linguaggio non deve essere usato tra filosofi, i quali non devono temere di usare espressioni troppo esatte. Se trovate che un ritratto somiglia oscuramente e confusamente, sviluppate questo pensiero e vedrete che esso è, per alcune parti, conforme all’originale e, per altre, non lo è per niente. La stessa cosa capita per tutte le nostre percezioni: ciò che racchiudono è chiaro e distinto, ciò che si suppone in esse d’oscuro e di confuso non appartiene in nessun modo alle percezioni. Non si può dire di esse, come di un ritratto, che sono somiglianti solo in parte. Ciascuna percezione è talmente semplice che tutto ciò che avesse con esse un certo rapporto d’uguaglianza, sarebbe uguale ad esse in tutto. Perciò avverto che, nel mio linguaggio, avere idee chiare e distinte sarà, per esprimermi più succintamente, avere idee, e avere idee oscure e confuse sarà non averne per niente. Ciò che ci fa credere che le nostre idee possono essere oscure è che non le distinguiamo abbastanza dalle espressioni in uso. Noi diciamo, per esempio, che la neve è bianca; formuliamo inoltre mille altri giudizi senza pensare a eliminare l’equivoco contenuto nelle parole. Così, poiché i nostri giudizi sono espressi oscuramente, ci immaginiamo che questa oscurità ricada sugli stessi giudizi e sulle idee che li compongono. Una definizione può correggere tutto. La neve è bianca, se si intende per bianchezza la causa fisica della nostra percezione. Essa non lo è, se si intende per bianchezza qualcosa di simile alla stessa percezione. Questi giudizi non sono quindi oscuri, sono piuttosto veri o falsi secondo il senso in cui si prendono i termini. Un motivo ci spinge ancora ad ammettere idee oscure e confuse: la smania di sapere troppo. Pare che sia un ripiego per la nostra curiosità conoscere per lo meno oscuramente e confusamente. Perciò talvolta fatichiamo ad accorgerci che siamo senza idee.

 - Étienne Bonnot de Condillac (Grenoble 1715 - Beaugency 1780) pubblicò il Saggio sull’origine delle conoscenze umane nel 1746. Il testo riportato è tratto da: E.B. de Condillac, Saggio sull’origine delle conoscenze umane, in Opere, a cura di G. Viano, Utet, Torino 1976, pp. 91 ss.

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R, Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza Per costruire una società liber a dovremo iniziare con il chiederci come è cominciata Questa storia di diseguaglianze: è dav vero inevitabile che la società sia di ineguali? nel pensiero di rousseau la disuguaglianza è l’altro volto della non libertà. una società di persone libere è anche una società di persone che si riconoscono reciprocamente in condizioni di uguaglianza e, viceversa, una società che garantisca il rispetto dell’eguaglianza genera condizioni di libertà per tutti. la disuguaglianza è infatti il frutto di uno sbilanciamento delle volontà dei singoli: tutte le persone vogliono qualcosa, ma poi nella società accade che qualcuno comanda mentre qualcun’altro deve obbedire. le volontà individuali non tendono all’eguaglianza. la società rende gli uomini schiavi perché li rende ineguali, costringendoli a obbedire alla volontà di altri. Per questa ragione è così importante che la società sia costruita sulla volontà generale: questa non ammette altro che volontà a pari livello. nessuno obbedisce alla volontà di un altro, ma solo alla propria (che è anche la volontà degli altri) e tutti sono, insieme, liberi ed eguali. nelle società attuali, secondo rousseau, non sono eguali, e per conseguenza neppure liberi.

Nella specie umana concepisco due specie di disuguaglianza: l’una, che chiamo naturale o fisica, perché è stabilità dalla natura, e consiste nella differenza di età, di salute, di forze del corpo e di qualità spirituali o dell’anima; l’altra, che può dirsi morale o politica, perché dipende da una specie di convenzione, ed è stabilita o almeno permessa dal consenso degli uomini. Questa consiste nei vari privilegi di cui alcuni godono a danno degli altri, come d’esser più ricchi, più onorati, più potenti di loro, o anche di farsene obbedire. [...] Di che dunque si tratta precisamente in questo discorso? Di segnare nel corso delle cose il momento in cui, succedendo il diritto alla violenza, la natura fu sottomessa alla legge; per spiegare per qual concatenazione di prodigi il forte abbia potuto risolversi a servir il debole, e il popolo a comperare una quiete immaginaria a prezzo d’una felicità reale. […] Il primo che, avendo cinto un terreno, pensò di affermare: questo è mio, e trovò persone abbastanza semplici per crederlo, fu il vero fondatore della

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società civile. Quanti delitti, guerre, omicidi, quante miserie ed orrori non avrebbe risparmiato al genere umano colui che, strappando i piuoli e colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: «Guardatevi dall’ascoltare questo impostore; siete perduti se dimenticate che i frutti sono di tutti, e che la terra non è di nessuno!». […] Quanto all’agricoltura, il principio ne fu conosciuto ben prima che la pratica ne fosse stabilita; e non è possibile che gli uomini, occupati senza posa a trar alimenti dagli alberi e dalle piante, non avessero abbastanza prontamente l’idea delle vie che la natura impiega per la generazione dei vegetali; ma la loro industria non si volse probabilmente che ben tardi a questo lato, sia perché gli alberi che, con la caccia e la pesca, provvedevano al loro nutrimento, non avevan bisogno delle loro cure, sia per mancanza di conoscenza dell’uso del grano o di strumenti per coltivarlo o di previdenza per i bisogni avvenire, o infine di mezzi per impedire agli altri di appropriarsi i frutti del loro lavoro. Divenuti più industriosi, si può credere che con pietre aguzze e bastoni appuntiti abbian cominciato a coltivare alcuni legumi o radici attorno alle loro capanne, gran tempo innanzi di saper preparare il grano e d’aver gli strumenti necessari per la coltura in grande; senza contare che, per darsi a tale occupazione e seminar le terre, bisogna decidersi a perder qualcosa da principio per guadagnar molto in seguito; precauzione ben lontana dalla forma mentale dell’uomo selvaggio, che, come ho detto, fa gran fatica a pensare la mattina ai suoi bisogni della sera. L’invenzione delle altre arti fu dunque necessaria per costringere il genere umano ad applicarsi a quella dell’agricoltura. Da che bisognarono uomini per fondere e forgiare il ferro, occorsero altri uomini per nutrir quelli. Più il numero degli operai venne a moltiplicarsi, meno furono le mani occupate a fornire la sussistenza comune, senza che fossero meno le bocche a consumarla; e come bisognarono agli uni derrate in cambio del ferro, gli altri trovaron infine il segreto d’impiegar il ferro per la moltiplicazione delle derrate. Quindi nacquero da una parte l’aratura e l’agricoltura, dall’altra l’arte di lavorar i metalli e di moltiplicarne gli usi. Dalla cultura delle terre derivò necessariamente la loro partizione; e dalla proprietà, una volta riconosciuta, le prime regole della giustizia: giacché, per rendere a ciascuno il suo, bisogna che ciascuno possa aver qualcosa; di più, cominciando gli uomini a considerar l’avvenire, e trovandosi ognuno qualche bene soggetto a perdersi, non ve n’era uno, che non avesse a temere per sé la rappresaglia dei torti che potesse fare ad altri. Quest’origine è tanto più naturale, in quanto è impossibile concepir l’idea della proprietà nascente da altro che dal lavoro; giacché non si vede che, per appropriarsi le cose non fatte da lui, l’uomo possa mettervi più che il suo lavoro. Solo il lavoro, dando diritto al coltivatore sul prodotto della terra da lui arata, gliene dà per

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conseguenza sul terreno, almeno sino al raccolto, e così di anno in anno; il che, facendo un possesso continuo, si trasforma facilmente in proprietà. […] Le cose in tale stato avrebbero potuto restar uguali, se gli ingegni fossero stati uguali, e, per esempio, l’uso del ferro e la consumazione delle derrate si fossero sempre esattamente bilanciate: ma la proporzione, che nulla manteneva, fu presto rotta; il più forte faceva più lavoro; il più destro traeva miglior partito dal suo; il più ingegnoso trovava mezzi d’abbreviar la fatica; l’agricoltore aveva più bisogno di ferro o il fabbro più bisogno di grano; e, lavorando ugualmente, uno guadagnava di più, mentre l’altro stentava a vivere. Così la disuguaglianza naturale si svolge insensibilmente con quella di combinazione; e le differenze degli uomini, sviluppate da quelle delle circostanze, si rendono più sensibili, più permanenti nei loro effetti, e cominciano a influire nella stessa proporzione sulla sorte dei singoli. […] Tale fu o dovette essere l’origine della società e delle leggi, che diedero nuove pastoie al debole e nuove forze al ricco [...], distrussero senza scampo la libertà naturale, fissarono per sempre la legge della proprietà e della disuguaglianza, d’una accorta usurpazione fecero un diritto irrevocabile, e, per il vantaggio di qualche ambizioso, assoggettarono ormai tutto il genere umano al lavoro, alla servitù e alla miseria.

 - Jean-Jacques Rousseau (Ginevra 1712 - Ermenonville 1778) pubblicò il Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza per un concorso dell’Accademia di Digione nel 1754. Il testo riportato è tratto da: J.J. Rousseau, Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza, in Opere, a cura di P. Rossi, Sansoni, Firenze 1972, pp. 42, 60, 64-65, 66-67.

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R, Del contratto sociale la libertà è una liber a scelta? la nozione di “libertà” in rousseau è tra le più complesse, perché riguarda la più radicale delle caratteristiche dell’uomo. l’uomo è libero perché ha una volontà che si accorda con la sua ragione e non c’è alcuna autorità superiore a cui la volontà e la ragione debbano sottostare. Per rousseau neppure dio è una autorità di questa natura, perché a dio l’uomo si rivolge con la spontaneità del suo cuore e niente di quel che trova accostandosi a lui con cuore puro è in contrasto con la sua volontà quando questa è in accordo con la ragione. libertà è quindi essere se stessi, cioè essere uomini. Poiché la società rende gli uomini schiavi, nega loro ciò che di più importante essi hanno: la loro umanità.

Del patto sociale Suppongo che gli uomini siano giunti al punto, in cui gli ostacoli, che nuocciano alla loro conservazione nello stato di natura, prendano con la loro resistenza il sopravvento sulle forze che ciascun individuo possa impiegare per mantenersi in tale stato. Allora quello stato originario non può più sussistere; e il genere umano perirebbe, se non cambiasse la sua maniera d’essere. Ora, siccome gli uomini non possono generare nuove forze, ma solo unire e dirigere quelle esistenti, essi non hanno più altro mezzo di conservarsi, se non di formare per aggregazione una somma di forze, che possa prevalere sulla resistenza, metterle in moto per un solo scopo, e farle operare in accordo. Questa somma di forze non può nascere che dal concorso di parecchi uomini; ma, essendo la forza e la libertà di ogni uomo i primi strumenti della sua conservazione, come potrà egli impegnarli senza nuocersi e senza trascurare le cure che deve a se stesso? Questa difficoltà, ricondotta al mio argomento, può enunciarsi in questi termini: «Trovare una forma di associazione, che difenda e protegga con tutta la forza comune la persona ed i beni di ciascun associato; e per la quale ognuno, unendosi a tutti, non obbedisca tuttavia che a se stesso, e resti altrettanto libero di prima». Tale è il problema fondamentale, di cui il contratto sociale dà la soluzione. Le clausole di questo contratto sono talmente determinate dalla natura dell’atto che la minima modificazione le renderebbe vane e di effetto nullo; in modo che, per quanto forse non siano state mai enunciate formalmente, sono ovunque le stesse, ovunque tacitamente ammesse e riconosciute, fino

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a che, essendo violato il patto sociale, ciascuno rientri nei suoi diritti primieri e riprenda la sua libertà naturale, perdendo la libertà convenzionale per la quale vi rinunciò. Queste clausole, bene intese, si riducono tutte a una sola: cioè l’alienazione totale di ciascun associato, con tutti i suoi diritti, a tutta la comunità; perché, in primo luogo, se ciascuno si dà tutto intiero, la condizione è uguale per tutti; e se la condizione è uguale per tutti, nessuno ha interesse a renderla onerosa per gli altri. Di più, facendosi l’alienazione senza riserve, l’unione è perfetta per quanto può essere, e nessun associato ha più niente da rivendicare; perché, se restasse qualche diritto ai singoli, non essendoci alcun superiore comune, che potesse pronunciarsi fra loro e il pubblico, ciascuno, essendo su qualche punto il proprio giudice, pretenderebbe ben presto di esser tale su tutti; sicché lo stato di natura persisterebbe, e l’occasione diverrebbe necessariamente tirannica o vana. Infine ciascuno, dandosi a tutti, non si dà a nessuno; e siccome non c’è associato, sul quale non si acquisti lo stesso diritto che gli si cede su noi stessi, si guadagna l’equivalente intiero di ciò che si perde, e più forza per conservare ciò che si ha. Se dunque si escluda dal patto sociale ciò che non fa parte della sua essenza, si troverà ch’esso si riduce ai termini seguenti: «Ciascuno di noi mette in comune la sua persona e tutto il suo potere, sotto la suprema direzione della volontà generale; e noi tutti in corpo riceviamo ciascun membro come parte indivisibile del tutto». Immediatamente, in cambio della persona privata di ciascun contraente, quest’atto di associazione produce un corpo morale e collettivo, composto di tanti membri quanti voti ha l’assemblea; il quale riceve da questo stesso atto la sua unità, il suo io comune, la sua vita e la sua volontà. Questa persona pubblica, che si forma così dall’unione di tutte le altre, prendeva altra volta il nome di città e prende ora quello di repubblica o di corpo politico, il quale è chiamato dai suoi membri Stato, in quanto è passivo, sovrano in quanto è attivo, potenza nel confronto coi suoi simili. Riguardo agli associati, essi prendono collettivamente il nome di popolo, e si chiamano particolarmente cittadini in quanto partecipi dell’autorità sovrana, e sudditi in quanto sottomessi alle leggi dello Stato. [...]

Del sovrano […] Ora il sovrano, non essendo formato che degli individui che lo compongono, non ha né può avere interesse contrario al loro; per conseguenza il potere sovrano non ha affatto bisogno di un garante verso i sudditi, perché è impossibile che il corpo voglia nuocere a tutti i suoi membri; e noi vedremo più oltre che nemmeno può nuocere ad alcuno in particolare. Il sovrano, per il solo fatto che è, è sempre tutto ciò che deve essere. 114

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Ma non è così dei sudditi verso il sovrano, al quale, nonostante il comune interesse, nulla risponderebbe dei loro obblighi, se egli non trovasse mezzi di assicurarsi della loro fedeltà. In realtà ogni individuo può, come uomo, avere una volontà particolare contraria o dissimile dalla volontà generale, che egli ha come cittadino; il suo interesse privato può parlargli in modo del tutto diverso dall’interesse comune; la sua esistenza assoluta, e naturalmente indipendente, può fargli considerare ciò che deve alla causa comune, come una contribuzione gratuita, la cui perdita sarebbe meno dannosa agli altri, di quanto il pagamento ne sia gravoso a lui; e considerando la persona morale, che costituisce lo Stato come un ente di ragione, poiché questo non è un uomo, egli godrebbe dei diritti di cittadino senza voler compiere i doveri di suddito; ingiustizia, il cui progresso cagionerebbe la rovina del corpo politico. Affinché dunque il patto sociale non sia una vana formula, esso deve racchiudere tacitamente questo impegno, il quale solo può dar forza agli altri: che chiunque rifiuterà di obbedire alla volontà generale, vi sarà costretto da tutto il corpo; ciò che non significa altro, se non che lo si costringerà ad esser libero; perché tale è la condizione che, dando ogni cittadino alla patria, lo garantisce da ogni dipendenza personale; condizione che forma il meccanismo e il funzionamento della macchina politica, che sola rende legittime le obbligazioni civili, le quali senza di ciò sarebbero assurde, tiranniche, e soggette ai più enormi abusi.

 - Jean-Jacques Rousseau (Ginevra 1712 - Ermenonville 1778) pubblicò il Contratto sociale nel 1762. Il testo riportato è tratto da: J.J. Rousseau, Del contratto sociale, in Opere, a cura di P. Rossi, Sansoni, Firenze 1972, pp. 279, 285-286.

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R, Emilio la natur a umana , corrotta da una civiltà che ha deviato dalla via indicata dalla natur a , Può essere salvata da Questa corruzione? la natura ha fatto sì che l’uomo abbia istinti e sensibilità, ma anche che questi possano essere indirizzati e sviluppati attraverso l’educazione. non c’è quindi alcun uomo di natura da contrapporre a un uomo civilizzato: l’uomo naturale in quanto sente in tanto crea una cultura, attraverso l’abitudine, l’immaginazione, le facoltà superiori che si vanno sviluppando in modo armonioso o distorto. il problema di fondo è GSQI sviluppare istinti e sensibilità in modo che la natura dell’uomo non sia tradita, ma sia realizzata. l’uomo è un prodotto della cultura, e la cultura è un prodotto storico, che la natura stessa richiede. si tratta di scegliere se obbedirle o se ribellarsi a essa. le società sviluppatesi nella storia hanno prodotto un uomo la cui sensibilità e i cui istinti sono ammalati. la libertà non c’entra: un uomo libero è un uomo sano. la libertà autentica che rende l’uomo padrone di sé è un prodotto finale, non è un dato originario.

Ciascuno di noi è dunque educato da tre specie di maestri. Il discepolo, nel quale le loro diverse lezioni si contraddicono, è male educato e non si troverà mai d’accordo con se stesso: colui invece nel quale tali insegnamenti cadono tutti sugli stessi punti e tendono ai medesimi fini, è il solo che proceda verso il suo scopo e viva coerente a se stesso. Quegli solo è educato bene. Ora, di queste tre differenti educazioni, quella della natura non dipende da noi, e quella delle cose ne dipende solo sotto certi rispetti. Quella degli uomini è la sola di cui noi siamo veramente i padroni, benché non lo siamo che per supposizione; poiché chi può sperare di dirigere interamente i discorsi e le azioni di tutti coloro che circondano un fanciullo? Se dunque l’educazione è un’arte, è quasi impossibile che essa riesca, poiché il concorso necessario al suo buon successo non dipende da nessuno. Ciò che si può fare a forza di cure è di avvicinarsi più o meno alla meta; ma occorre una certa fortuna per raggiungerla. Qual è questo scopo? è quello stesso della natura, come è stato già provato. Poiché il concorso delle tre educazioni è necessario alla loro perfezione, occorre dirigere, su quella sulla quale non abbiamo alcun potere, gli sforzi delle altre due. Ma forse questa parola natura ha un senso troppo vago, e noi cercheremo di ben determinarlo.

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La natura, ci si dice, non è che l’abitudine. Cosa significa ciò? Non vi sono abitudini che si contraggono per forza e che non vincono mai la natura? Tale è, per esempio, l’abitudine delle piante di cui si disturba la direzione verticale. La pianta, messa in libertà, conserva l’inclinazione che fu forzata a prendere; ma la linfa non ha cambiato per questo la sua direzione primitiva, e se la pianta continua a vegetare, il suo prolungamento ridiventa verticale. Lo stesso avviene per le inclinazioni degli uomini. Fino a quando si rimane nel medesimo stato, si possono conservare quelle che risultano dall’abitudine e che ci sono meno naturali; ma, appena la situazione cambia, l’abitudine si logora e ritorna lo stato naturale. L’educazione non è certamente che un’abitudine. Ora, non vi sono delle persone che dimenticano e perdono la loro educazione, ed altre che la conservano? Donde nasce questa differenza? Se dobbiamo circoscrivere la parola natura alle abitudini conformi alla natura, ci si potrebbe anche risparmiare questo discorso sconclusionato. Noi nasciamo sensibili, e fin dalla nascita siamo colpiti in diversi modi dagli oggetti che ci circondano. Appena abbiamo, per così dire, la coscienza delle nostre sensazioni, siamo disposti a ricercare o a fuggire gli oggetti che le producono [...]. È quindi a queste disposizioni primitive che bisognerebbe riferire ogni cosa; e ciò potrebbe farsi, ove le nostre tre educazioni fossero solo differenti: ma che fare quando esse sono opposte, quando invece di educare un uomo per se stesso lo si vuole educare per gli altri? L’accordo, in tal caso, è impossibile. Obbligato a combattere la natura o le istituzioni sociali, bisogna decidersi a fare o un uomo o un cittadino; poiché non si può fare l’uno e l’altro nello stesso tempo. Ogni società parziale, quando è intimamente unita, si aliena dalla grande. Ogni patriotta è rigido cogli stranieri: essi non sono che uomini e non sono niente agli occhi suoi. Questo inconveniente è inevitabile, ma è debole. L’essenziale è di essere buoni verso quelli coi quali viviamo. Lo Spartano all’esterno era ambizioso, avaro, iniquo, ma nelle sue mura regnavano il disinteresse, l’equità, la concordia. Diffidate di quei cosmopoliti che vanno a cercare, lontano, nei loro libri, dei doveri che sdegnano di compiere intorno a loro. Sono come quel filosofo che ama i Tartari, per essere dispensato dall’amare i suoi vicini. [...] Le buone istituzioni sociali sono quelle che sanno meglio snaturare l’uomo, togliendogli la sua esistenza assoluta per dargliene una relativa e per trasportare l’io nell’unità comune; in modo che ogni particolare non si creda più uno, ma parte dell’unità, e non sia più sensibile se non nel tutto. Un cittadino di Roma non era né Caio né Lucio; era un Romano; egli amava, perfino, la patria come esclusivamente sua. Regolo si dichiarava Cartaginese per essere diventato proprietà dei suoi padroni. Nella sua qualità di stra-

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niero rifiutava di sedere nel Senato di Roma; bisognò che un Cartaginese glielo ordinasse. Egli s’indignava che si volesse salvargli la vita. E vinse, e se ne ritornò trionfante a morire fra i supplizi. Ciò non ha una grande relazione, mi pare, con gli uomini che noi conosciamo. Il Lacedemone Pedarete si presenta per essere ammesso al Consiglio dei trecento e ne è respinto: egli se ne ritorna tutto contento, poiché ha trovato a Sparta trecento uomini che valgono più di lui. Io suppongo questa sua manifestazione sincera; e c’è motivo di crederla tale: ecco il cittadino. Una donna di Sparta aveva cinque figli sotto le armi e aspettava notizie della battaglia. Arriva un Ilota ed ella gliene chiede tremando. «I vostri cinque figliuoli sono stati uccisi». «Vile schiavo, t’ho forse domandato ciò?». «Noi abbiamo riportato la vittoria!». La madre corre al tempio a rendere grazie agli Dei. Ecco la cittadina. Colui che nell’ordine civile vuol conservare la prevalenza ai sentimenti della natura non sa quello che vuole. Sempre in contradizione con se stesso, sempre titubante fra le sue inclinazioni e i suoi doveri, egli non sarà mai né uomo né cittadino; egli non sarà buono né per sé né per gli altri. Sarà uno di quegli uomini dei nostri giorni, un Francese, un Inglese, un borghese, cioè nulla. Per essere qualche cosa, per essere se stesso e sempre uno, bisogna agire come si parla; bisogna essere sempre deciso sul partito che si deve prendere, prenderlo arditamente e seguirlo sempre.

 - Jean-Jacques Rousseau (Ginevra 1712 - Ermenonville 1778) pubblicò l’Emilio nel 1762. Il testo riportato è tratto da: J.J. Rousseau, Emilio, in Opere, a cura di P. Rossi, Sansoni, Firenze 1972, pp. 352-353.

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Capitolo

6 Kant e il criticismo Figura dominante dell’illuminismo tedesco, Kant porta a compimento il processo di fondazione razionale della filosofia moderna, compiendo quella che lui stesso chiama la “rivoluzione copernicana”. Si tratta di far dipendere l’universalità e la necessità del nostro sapere dalle forme soggettive con cui opera la mente. Kant porta la conoscenza davanti al giudizio del tribunale della ragione per valutarne possibilità e limiti. La sentenza è positiva per le scienze, che hanno una sicura fondazione trascendentale; è invece negativa per la metafisica, che si rivela essere una conoscenza illusoria. Sul piano dell’agire il criticismo affida alla ragion pratica il compito di determinare la volontà secondo principi per fare dell’uomo un soggetto libero e capace di scelte autenticamente morali. Nella terza 'VMXMGE, infine, la ragione riflette sui dati dell’esperienza formulando giudizi estetici e valutazioni sui fini della natura.

K, Critica della ragion pura PERCHé la RaGIONE NON È IN GRaDO DI DIMOSTRaRE l’ESISTENZa DI DIO Ma aVVERTE l’ESIGENZa MORalE CHE ESISTE? l’esito a cui la Critica della ragion pura perviene nella Dialettica trascendentale mostra che non è possibile una teologia razionale: l’esistenza e la realtà di Dio sono semplicemente un oggetto di indagine al di fuori della portata delle strutture della nostra mente, che pure ne forma l’idea, corrispondente a quella di un essere assolutamente necessario. la ragione non è in grado né di dimostrare che Dio esiste, né di dimostrare che non esiste, ma avverte l’insopprimibile esigenza morale che esiste.

La critica di ogni teologia basata sui principi speculativi della ragione Se con teologia intendo la conoscenza dell’essere originario, allora essa o è basata sulla semplice ragione (theologia rationalis), oppure sulla rivelazione (revelata). A sua volta il primo tipo di teologia pensa il suo oggetto o semplicemente mediante la ragion pura, per mezzo di meri concetti trascendentali (ens originarium, realissimum, ens entìum) e si chiama teologia t r a s c e n d e n t a l e , oppure mediante un concetto che essa deriva dalla natura (della nostra anima), come è quello di somma intelligenza, e dovrebbe essere chiamata teologia n a t u r a l e . Colui che dunque ammette soltanto una teologia trascendentale viene chiamato d e i s t a , colui che ammette anche una teologia naturale viene chiamato t e i s t a . Il primo ammette che, in ogni caso, noi possiamo conoscere l’esistenza di un essere originario mediante la semplice ragione, anche se di esso noi abbiamo un concetto semplicemente trascendentale, cioè solo quello di un essere che possiede ogni realtà, la quale però non può essere determinata più precisamente. Il secondo afferma che la ragione è in grado di determinare più precisamente l’oggetto secondo l’analogia con la natura, cioè come un essere che contiene in sé, mediante intelletto e libertà, il fondamento originario di tutte le altre cose. Dunque, con il concetto di essere originario il deista si rappresenta semplicemente una c a u s a d e l m o n d o (senza poter decidere se mediante la necessità della sua natura o mediante la libertà); il teista invece un c r e a t o r e d e l m o n d o . […] Ora, io sostengo che tutti i tentativi di un uso puramente speculativo della ragione sono del tutto infruttuosi rispetto alla teologia, e considerati nella loro costituzione interna, risultano nulli e vani; ma sostengo anche

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che i principi dell’uso naturale della ragione non conducono affatto ad una teologia: se dunque non si pongono come fondamento, o non si assumono come filo conduttore le leggi morali, non potrà darsi in generale alcuna teologia della ragione. Infatti, tutti i principi sintetici dell’intelletto sono di uso immanente; ma per la conoscenza di un essere sommo si richiede un uso trascendente della ragione, cosa per la quale il nostro intelletto non è affatto predisposto. Se la legge empiricamente valida della causalità volesse condurci all’essere originario, quest’ultimo dovrebbe appartenere anch’esso alla catena degli oggetti dell’esperienza: in tal caso, però, esso stesso sarebbe a sua volta condizionato come tutti i fenomeni. Ma se pure ci fosse concesso il salto al di là del confine dell’esperienza, tramite la legge dinamica del riferimento degli effetti alle loro cause, quale concetto potrà esserci fornito da un tale procedimento? Di certo nessun concetto di un essere sommo, poiché un’esperienza non ci offre mai il più grande di tutti gli effetti possibili (che in quanto tale dovrebbe dare testimonianza della sua causa). Se mai possa esserci concesso di colmare questo difetto della determinazione completa tramite una semplice idea della somma perfezione e dell’originaria necessità – semplicemente per non lasciare nulla di vuoto nella nostra ragione –, lo si potrà ammettere per un favore, ma non lo si potrà esigere in base al diritto di una dimostrazione irrefutabile. La prova fisicoteologica potrebbe forse rafforzare altre prove (se mai ne esistessero), in quanto connette la speculazione con l’intuizione; ma, considerata per se stessa, tale prova prepara l’intelletto per la conoscenza teologica e gli dà una direzione retta e naturale, piuttosto che assolvere d a s o l a a questo compito.

 - Immanuel Kant (Königsberg 1724-1804) pubblicò Critica della ragion pura in due edizioni, nel 1781 e nel 1787. Il testo riportato è tratto da: I. Kant, Critica della ragion pura, a cura di C. Esposito, Bompiani, Milano 2004, pp. 911-919.

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K, Critica della ragion pratica È POSSIBIlE la PERFETTa CONCORDaNZa TRa FElICITÀ E MORalITÀ? la ragion pratica è in grado di rivendicare l’esistenza di realtà oggettive che la ragione teoretica non poteva dimostrare e che sono le condizioni senza le quali la moralità non sarebbe possibile. Questi concetti speculativi sono posti dai postulati della ragion pratica: la libertà, l’immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio. Questi due ultimi concetti sono necessari per dar conto di come sia possibile la realizzazione del sommo bene e della perfetta concordanza tra felicità e moralità.

Dei postulali della ragion pura pratica in generale Essi muovono tutti dal principio fondamentale della moralità che non è un postulato ma una legge mediante la quale la ragione determina immediatamente la volontà. La volontà, essendo così determinata in quanto volontà pura, esige queste condizioni necessarie all’osservanza dei propri precetti. Questi postulati non sono dogmi teoretici, ma p r e s u p p o s i z i o n i necessarie dal punto di vista pratico; perciò non ampliano la conoscenza speculativa, ma conferiscono realtà oggettiva alle idee della ragione speculativa i n g e n e r a l e (attraverso il loro rapporto con ciò che è pratico), giustificandole come concetti di cui essa altrimenti non potrebbe neppure pretendere di affermare la possibilità. Si tratta dei postulati dell’i m m o r t a l i t à , della l i b e r t à considerata positivamente (come causalità di un essere appartenente al mondo intelligibile) e dell’e s i s t e n z a d i D i o . Il p r i m o deriva dalla condizione praticamente necessaria di una durata proporzionata alla esecuzione integrale della legge morale; il s e c o n d o deriva dalla necessaria presupposizione dell’indipendenza dal mondo sensibile e del potere di autodeterminazione della volontà in base alla legge di un mondo intelligibile, cioè della libertà; il t e r z o deriva dalla condizione necessaria di un mondo intelligibile in vista del sommo bene, attraverso la supposizione del sommo bene indipendente, cioè dell’esistenza di Dio. L’aspirazione necessaria al sommo bene derivante dal rispetto della legge morale e la conseguente presupposizione della realtà oggettiva di questo bene, ci porta quindi, attraverso i postulati della ragion pratica, a concetti che la ragione speculativa poteva magari presentare come problemi, ma non risolvere. Dunque: 1) essa conduce a un concetto (quello dell’immortalità) per la soluzione del quale la ragione speculativa poteva dar luogo solo a p a r a l o g i s m i , perché essa era priva del carattere della permanenza per com-

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pletare, in vista della rappresentazione reale di una sostanza, il concetto psicologico di un soggetto ultimo che è attribuito necessariamente all’anima nella coscienza di sé; cosa, questa, che la ragion pratica fa per mezzo del postulato di una durata necessaria alla conformità con la legge morale nel sommo bene quale fine totale della ragion pratica; 2) essa conduce al concetto nei confronti del quale la ragione speculativa non contiene che un’antinomia la cui soluzione essa non poteva fondare che su un concetto che, per quanto fosse pensabile problematicamente, non poteva essere dimostrato o determinato nella sua realtà oggettiva, cioè sull’idea cosmologica di un mondo intelligibile e sulla coscienza della nostra esistenza in esso, mediante il postulato della libertà (di cui essa dimostra la realtà mediante la legge morale e, contemporaneamente ad essa, dimostra la legge di un mondo intelligibile che la ragione speculativa poteva soltanto indicare, ma non determinare nel concetto); 3) essa conduce al concetto che la ragione speculativa poteva, sì, pensare, ma era costretta a lasciare indeterminato come semplice ideale trascendentale, cioè al concetto teologico dell’essere originario, un significato (dal punto di vista pratico, cioè come una condizione della possibilità dell’oggetto di una volontà determinata da questa legge) quale principio supremo del sommo bene in un mondo intelligibile, per mezzo di una legislazione morale onnipotente in quel mondo. Ma così procedendo la ragion pura pratica estende veramente la nostra conoscenza, e ciò che era t r a s c e n d e n t e per la ragione speculativa è i m m a n e n t e per la pratica? Certamente sì, ma s o l t a n t o d a l p u n t o d i v i s t a p r a t i c o . Infatti questi concetti non ci fanno conoscere né la natura della nostra anima, né il mondo intelligibile, né l’essere supremo in ciò che essi sono in se stessi, perché non abbiamo fatto altro che raccogliere questi concetti nel concetto p r a t i c o d e l s o m m o b e n e come oggetto della nostra volontà e del tutto a priori, mediante la ragion pura, ma soltanto per mezzo della legge morale ed esclusivamente in riferimento a questa [...]. Ma in qual modo la libertà sia possibile e in qual modo questo genere di causalità debba essere rappresentato teoreticamente e positivamente, non è conoscibile mediante questi concetti, che ci permettono soltanto di postulare tale causalità attraverso la legge morale e in vista di essa.

 - Immanuel Kant (Königsberg 1724-1804) pubblicò Critica della ragion pratica nel 1788. Il testo riportato è tratto da: I. Kant, Critica della ragion pratica, in Scritti morali, a cura di P. Chiodi, Utet, Torino 1967, pp. 279.

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K, Critica della ragion pura NON SI Può PENSaRE SENZa PENSaRE QualCOSa . SE SI PENSa QualCOSa , Il QualCOSa PENSaTO È NECESSaRIaMENTE uN PENSIERO: Ma allOR a POSSIaMO PENSaRE lE COSE? Kant dà al termine “idea” un significato tecnico molto specifico trattandone in sede di Dialettica trascendentale. Ma a noi interessa la possibilità di confrontare la nozione kantiana di idea con quella dei filosofi razionalisti ed empiristi, e quindi proponiamo qui un brano in cui Kant parla di “intuizioni” e “concetti”, due nozioni che le filosofie seicentesche raccoglievano sotto il termine “idea”. l’analisi trascendentale mostra che le tesi razionaliste ed empiriste sull’origine delle nostre idee (innata, dall’esperienza) sono carenti su punti essenziali. C’è qualcosa di innato (la forma a priori), c’è qualcosa di desunto dall’esperienza (i fenomeni). la conoscenza non è però in ciascuno di questi elementi, ma soltanto nella loro sintesi.

Logica trascendentale – Intorno alla logica in generale La nostra conoscenza trae origine da due sorgenti fondamentali dell’animo, di cui la prima consiste nel ricevere le rappresentazioni (la recettività delle impressioni), e la seconda è la facoltà di conoscere un oggetto per mezzo di queste rappresentazioni (spontaneità dei concetti). Attraverso la prima, un oggetto ci è d a t o , attraverso la seconda esso viene p e n s a t o in rapporto a quella rappresentazione (come semplice determinazione dell’animo). Intuizione e concetti costituiscono pertanto gli elementi di ogni nostra conoscenza; non ci può dunque esser data la conoscenza né dai concetti senza un’intuizione che corrisponda ad essi in qualche modo, né dall’intuizione senza concetti. Entrambi gli elementi sono puri o empirici. Sono e m p i r i c i quando è contenuta in essi una sensazione (che presuppone la presenza reale dell’oggetto); sono p u r i , invece, quando alla rappresentazione non si mescola alcuna sensazione. La sensazione può esser detta materia della conoscenza sensibile. L’intuizione pura contiene quindi esclusivamente la forma in cui qualcosa è intuita, mentre il concetto puro contiene esclusivamente la forma del pensiero di un oggetto in generale. Ma soltanto intuizioni pure o concetti puri sono possibili a priori; intuizioni e concetti empirici, solo a posteriori. Se vogliamo chiamare s e n s i b i l i t à la r e c e t t i v i t à del nostro animo nel ricevere le rappresentazioni, in quanto ne venga in qualche modo colpito, daremo invece il nome di i n t e l l e t t o alla capacità di produrre spon12 4

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taneamente rappresentazioni, ossia alla s p o n t a n e i t à della conoscenza. La nostra natura è tale che l’i n t u i z i o n e non può mai essere che s e n s i b i l e , ossia tale da non contenere che il modo in cui veniamo colpiti dagli oggetti. Per contro, la facoltà di pensare l’oggetto dell’intuizione sensibile, è l’i n t e l l e t t o . Nessuna di queste due facoltà è da anteporsi all’altra. Senza sensibilità, nessun oggetto ci verrebbe dato e senza intelletto nessun oggetto verrebbe pensato. I pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche. È quindi egualmente necessario rendere sensibili i propri concetti (ossia aggiungere loro l’oggetto nell’intuizione), e rendere intelligibili le proprie intuizioni (ossia sottoporle a concetti). Queste due facoltà o capacità non possono scambiarsi l’un l’altra le loro funzioni. L’intelletto non può intuire nulla, e i sensi nulla pensare. Solo dalla loro unione può scaturire la conoscenza. Ma non v’è per questo ragione di mescolare le parti che rispettivamente vi hanno; al contrario, è di grande momento separarle accuratamente l’una dall’altra e conservarle distinte. Per questo scindiamo la scienza delle regole della sensibilità in generale, cioè l’Estetica, dalla scienza delle regole dell’intelletto in generale, cioè dalla Logica.

Divisione della logica trascendentale in Analitica e Dialettica trascendentale In una logica trascendentale noi isoliamo l’intelletto (come sopra, nell’Estetica trascendentale, la sensibilità), e riveliamo, di tutta la nostra conoscenza, soltanto la parte del pensiero, che ha la sua origine unicamente nell’intelletto. Ma l’uso di questa conoscenza pura si fonda su ciò, come sua condizione: che ci vengano dati nell’intuizione oggetti, ai quali possa essere applicata. Giacché senza intuizione ad ogni nostra conoscenza manca l’oggetto, ed essa allora rimane affatto vuota. La parte, dunque, della logica trascendentale che espone gli elementi della conoscenza pura dell’intelletto e i principi senza i quali nessun oggetto può assolutamente essere pensato, è l’analitica trascendentale, e insieme una logica della verità.

Analitica trascendentale Questa analitica è la risoluzione dell’intera nostra conoscenza a priori negli elementi della conoscenza pura dell’intelletto. Al qual proposito sono importanti i seguenti punti: 1) Che i concetti siano puri e non empirici; 2) Che siano propri non dell’intuizione e della sensibilità, ma del pensiero e dell’intelletto; 3) Che si tratti di concetti elementari e siano tenuti ben distinti dai derivati e da quelli risultanti da composizione; 4) Che la loro tavola sia completa e copra senza residuo l’intero campo dell’intelletto puro. Ora, questa compiutezza di una scienza non può essere accreditata fiduciosamente sulla scorta della considerazione approssimativa d’un aggregato, frutto di semplici tentativi; essa è quindi possibile solo mediante un’i d e a

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d e l l a t o t a l i t à della conoscenza intellettuale a priori e attraverso la suddivisione dei concetti che la costituiscono, stabilita in base a questa idea; cioè solo mediante la c o n c a t e n a z i o n e u n i t a r i a e s i s t e m a t i c a di questi concetti. L’intelletto puro si distingue radicalmente, non soltanto da tutto ciò che è empirico, ma anche da ogni sorta di sensibilità. Esso è dunque un’unità per sé stante, autosufficiente, non accrescibile per aggiunte esterne. Il complesso della sua conoscenza formerà quindi un sistema, tale da dover esser compreso e definito secondo un’unica idea e la cui compiutezza ed articolazione possono al tempo stesso fornire una pietra di paragone per provare l’esattezza e la purezza di tutti gli elementi conoscitivi che vi rientrano. Tutta questa parte della logica trascendentale risulta suddivisa in due libri, uno dei quali tratta dei c o n c e t t i e l’altro dei p r i n c ì p i dell’intelletto puro.

 - Immanuel Kant (Königsberg 1724-1804) pubblicò Critica della ragion pura in due edizioni, nel 1781 e nel 1787. Il testo riportato è tratto da: I. Kant, Critica della ragion pura, a cura di P. Chiodi, Utet, Torino 2005, pp. 125 ss., 135.

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K, Critica della ragion pratica SIaMO DaV VERO lIBERI E la lIBERTÀ uMaNa Ha CONTENuTO CONCRETO: Ma SI Può ESSERE lIBERI SENZa DOMINaRE ED ESSERE DOMINaTI? È chiaro che se il contenuto concreto della libertà è togliere la libertà agli altri o subirne la volontà cercando di condizionarla, di vera libertà non è il caso di parlare. la domanda è se sia possibile una forma di libertà che realizzi la natura umana in modo così pieno che, essendo la natura umana universale, tutti siano liberi. Ora, ben prima della filosofia (che tuttavia spiega perché accada questo) gli uomini sanno bene che «è assolutamente impossibile trovare una legge che raccolga tutte le inclinazioni in un accordo universale». la libertà non è nella soddisfazione delle inclinazioni. Kant indica piuttosto la concretezza della libertà umana (possibile in linea di principio, se non attuabile di fatto) nell’essere se stessi sino in fondo, e dunque nell’agire di conseguenza. la legge del dovere è la soluzione.

Benché il desiderio della felicità, quindi la massima con cui ognuno fa di essa il motivo determinante della sua volontà, sia universale, è tuttavia strano che uomini intelligenti abbiano potuto pensare di far valere questa massima come l e g g e p r a t i c a universale. Infatti, mentre negli altri casi una legge universale della natura produce un accordo generale, qui la pretesa di conferire alla massima l’universalità di una legge produrrebbe l’effetto opposto della concordia, la contraddizione più grave e la distruzione della massima stessa e del fine che essa si prefigge. Infatti il volere di tutti non ha in questo caso un solo e identico oggetto, ma ognuno ha il suo (il benessere personale) che può certamente anche trovarsi casualmente in accordo con le intenzioni che altri rivolgono parimente a se stessi, ma non è affatto idoneo a costituire una legge, perché le eccezioni che all’occasione si è autorizzati a fare sono infinite e non potrebbero in alcun modo esser contenute in modo determinato in una regola universale. Ne risulta allora un’armonia simile a quella che una satira descrive a proposito della concordia fra due sposi che si rovinano: O s t u p e n d a a r m o n i a , c i ò c h e l u i v u o l e l o v u o l e a n c h e l e i , ecc.; o simile anche a ciò che si dice di un impegno preso dal re F r a n c e s c o I nei confronti dell’imperatore C a r l o V: ciò che vuole mio fratello C a r l o (Milano), lo voglio anch’io. I motivi determinanti empirici non sono idonei a nessuna legislazione universale esterna e neppure a una legislazione universale interna, perché a base dell’inclinazione uno pone un Kant e il criticismo

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soggetto, un altro un soggetto diverso, e nello stesso soggetto l’inclinazione che più influisce varia continuamente. È assolutamente impossibile trovare una legge che raccolga tutte le inclinazioni in un accordo universale.

Problema I Supposto che la semplice forma legislativa delle massime sia il motivo sufficiente di determinazione di una volontà, trovare la natura della volontà così determinata. Poiché la semplice forma della legge può esser rappresentata esclusivamente dalla ragione, e non è quindi un oggetto dei sensi, e non fa neppur parte dei fenomeni, la rappresentazione di tale forma come motivo determinante della volontà differisce da tutti i motivi che determinano gli eventi naturali in base alla legge di causalità, perché in questo caso i motivi determinanti devono essere anch’essi fenomeni. Ma se nessun altro motivo determinante della volontà può servire da legge a questa all’infuori di tale forma legislativa universale, una volontà siffatta deve essere pensata come del tutto indipendente dalla legge naturale dei fenomeni nei loro rapporti reciproci, cioè dalla legge di causalità. Ma una indipendenza di questo genere prende il nome di l i b e r t à nel senso più rigoroso, cioè trascendentale. Dunque una volontà a cui soltanto la semplice forma legislativa della massima può servire di legge, è una volontà libera.

Problema II Supposto che una volontà sia libera, trovare la legge che sola è idonea a determinarla necessariamente. Poiché la materia della legge pratica, cioè l’oggetto della massima, non può mai esser data che empiricamente, ma la volontà libera, in quanto indipendente dalle condizioni empiriche (ossia appartenente al mondo sensibile), deve tuttavia poter esser determinata, la volontà libera deve trovare un motivo determinante nella legge, indipendentemente dalla m a t e r i a di essa. Ma nella legge, oltre la materia, non c’è altro che la forma legislativa. Dunque la forma legislativa, in quanto racchiusa nella massima, è l’unica cosa che possa costituire il motivo determinante della volontà libera.

Scolio La libertà e la legge pratica incondizionata risultano dunque reciprocamente connesse. […] Supponiamo che qualcuno affermi della propria inclinazione al piacere che si tratta di qualcosa di invincibile quando gli si offrono l’oggetto amato e l’occasione favorevole; domandategli ora se, nel caso che fosse eretta una forca davanti alla casa in cui egli trova l’occasione, per impiccarvelo tosto che abbia goduto il piacere, vincerebbe o meno la propria inclinazione. Non è difficile indovinare la risposta che darebbe. Ma domandategli se, supposto che

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il suo sovrano, sotto minaccia della medesima pena di morte immediata, esigesse da lui una falsa testimonianza ai danni di un uomo retto che il sovrano si propone di mandare in rovina ricorrendo a pretesti, crederebbe o meno possibile vincere il suo amore per la vita, per grande che esso sia. Forse non oserà garantire di poterlo vincere, ma che sia possibile farlo, lo concederà senz’altro. Dunque egli ritiene di poter fare qualcosa perché è consapevole di doverlo fare e riconosce così in sé la libertà che altrimenti, senza la legge morale, gli sarebbe rimasta ignota.

Legge fondamentale della ragion pura pratica Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere nello stesso tempo come principio di una legislazione universale.

Scolio [...] Qui la regola dice che si deve assolutamente operare in un certo modo. La regola pratica è dunque incondizionata, e quindi rappresentata a priori come una proposizione pratica categorica, mediante la quale la volontà viene assolutamente e immediatamente (per la regola pratica stessa, la quale è qui dunque legge) determinata oggettivamente. Poiché qui la ragione pura pratica è in sé immediatamente legislativa. La volontà è concepita come indipendente dalle condizioni empiriche, e quindi come volontà pura, determinata mediante la semplice forma della legge; e questo motivo determinante è considerato come la condizione suprema di tutte le massime.

 - Immanuel Kant (Königsberg 1724-1804) pubblicò Critica della ragion pratica nel 1788. Il testo riportato è tratto da: I. Kant, Critica della ragion pratica, in Scritti morali, a cura di P. Chiodi, Utet, Torino 1967, pp. 164 ss.

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K, Critica della ragion pura aTTR aVERSO Il PENSIERO, È POSSIBIlE CHE la MENTE COMPRENDa lE lEGGI CHE GOVERNaNO Il MONDO ESTERNO alla MENTE? all’inizio della Critica della ragion pura Kant pone alcune celebri domande sulla possibilità di una matematica, di una fisica, di una metafisica come scienze, dunque pure, comprese secondo verità entro i confini della mente e riferite al mondo esterno. la questione è legata alla possibilità dei giudizi sintetici a priori, possibilità che non è per nulla scontata prima dell’analisi della mente che è descritta nella Critica.

Problema generale della ragion pura Si ottiene già non poco quando un gran numero di ricerche può essere raccolto sotto forma di un unico problema. In tal modo, infatti, non solo si agevola il nostro lavoro, dandogli una esatta delimitazione, ma si reca giovamento anche a chiunque altro voglia prenderlo in esame per stabilire se siamo riusciti o meno nel nostro intento. Il vero e proprio problema della ragion pura è pertanto contenuto nella domanda: C      ? Che la metafisica sia finora rimasta in uno stato così oscillante di incertezza e di contraddizioni, non ha altra causa se non il fatto che questo problema, e forse addirittura la differenza fra giudizi s i n t e t i c i e a n a l i t i c i , non sono stati finora presi in esame. La vita o la morte della metafisica dipendono in realtà dalla soluzione di questo problema o da una dimostrazione fondata che la possibilità di cui richiede la giustificazione è priva di consistenza. D a v i d H u m e , che si avvicinò più di ogni altro filosofo a questo problema, anche se fu ben lontano dal pensarlo con sufficiente determinatezza e nella sua universalità, essendosi fermato semplicemente alla proposizione sintetica della connessione dell’effetto con le sue cause (principium causalitatis), credette di poterne trarre la conclusione che un tale principio a priori è del tutto impossibile. Stando alle sue conclusioni, tutto ciò che chiamiamo metafisica si risolverebbe nella semplice illusione di conoscere razionalmente ciò che, in realtà, ci proviene dall’esperienza, traendo dall’abitudine l’apparenza della necessità. Mai egli sarebbe scivolato in una affermazione del genere, distruttrice di ogni filosofia, se avesse avuto innanzi agli occhi il nostro problema nella sua universalità; in tal caso, infatti, avrebbe visto che, stando al suo argomento, non potrebbe esistere neppure la matematica pura, dato che essa include certamente princìpi sintetici

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a priori: affermazione, questa, dalla quale il suo buon senso lo avrebbe senza dubbio tenuto lontano. Nella soluzione del suddetto problema è racchiusa senz’altro la possibilità dell’uso puro della ragione nel fondare e nell’edificare tutte le scienze che contengono una conoscenza teoretica a priori di oggetti, ossia la risposta alle domande: Come è possibile la matematica pura? Come è possibile la fisica pura? Poiché queste scienze sono effettivamente date, conviene di certo domandarsi come siano possibili; infatti, che esse siano possibili è dimostrato dalla loro realtà. Quanto alla m e t a f i s i c a , il suo cattivo andamento fino ad oggi, unito al fatto che nessuna delle metafisiche fin qui offerte si può dire che realmente sussista rispetto al suo scopo essenziale, fa dubitare chiunque, a ragione, della sua possibilità. Tuttavia, anche questa specie di c o n o s c e n z a deve in certo senso esser considerata come data, e la metafisica, anche se non come scienza, è tuttavia reale come disposizione naturale (metaphysica naturalis). Infatti la ragione umana, anche senza il pungolo della semplice vanità dell’omniscienza, è perpetuamente sospinta da un proprio bisogno verso quei problemi che non possono in nessun modo esser risolti da un uso empirico della ragione o in base ai princìpi su cui esso riposa; e così in tutti gli uomini una qualche metafisica è sempre esistita e sempre esisterà, appena che la loro ragione si innalzi alla speculazione. Dunque, anche per essa vale la questione: Come è possibile la metafisica in quanto disposizione naturale? Ossia: come scaturiscono dalla natura della ragione umana universale i problemi che la ragion pura affronta e a rispondere ai quali, meglio che può, essa è sospinta da un proprio bisogno? Ma poiché si sono sempre riscontrate inevitabili contraddizioni nel rispondere a tali domande naturali – come, ad esempio, a quella se il mondo abbia avuto un cominciamento o esista dall’eternità – non è possibile accontentarsi della semplice disposizione naturale alla metafisica, ossia della pura facoltà della ragione come tale, da cui nasce sempre una qualche metafisica (qualunque essa sia), ma devesi poter giungere sulla sua base a una certezza, o quanto al conoscere e al non conoscere gli oggetti – cioè ad una decisione nei riguardi degli oggetti delle sue questioni –, o quanto a un giudizio sulla capacità o incapacità della ragione nei loro riguardi; e pertanto o ad allargare con sicurezza la nostra ragion pura o a fissarle confini precisi e sicuri. Quest’ultima domanda, scaturente dal suddetto problema generale, sarebbe a buon diritto la seguente: Come è possibile la metafisica come scienza? La critica della ragione, alla fine, conduce dunque necessariamente alla scienza; mentre il suo uso dogmatico, privo di critica, conduce ad affermazioni prive di fondamento, alle quali sarà sempre possibile contrapporne altre parimenti fornite di falsa apparenza, sfociando così nello s c e t t i c i s m o .

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Questa scienza, d’altra parte, non potrà avere un’ampiezza eccessiva e scoraggiante, poiché non ha a che fare con oggetti della ragione, il cui numero è senza confini, ma solo con la ragione stessa, cioè con problemi che sorgono esclusivamente dal suo seno, e sono presentati non dalla natura delle cose, da essa differente, ma dalla natura della ragione stessa; così una volta che essa abbia, prima di tutto, imparato a conoscere completamente le proprie capacità conoscitive rispetto agli oggetti che possono presentarlesi nell’esperienza, potrà agevolmente procedere alla determinazione completa e sicura dell’àmbito e dei limiti del proprio uso, quando tenti di oltrepassare i confini dell’esperienza. Si possono e si devono quindi considerare inesistenti tutti i tentativi finora fatti per costruire d o g m a t i c a m e n t e una metafisica; infatti quanto vi è nell’una o nell’altra metafisica di analitico, ossia la mera scomposizione dei concetti giacenti a priori nella nostra ragione, non è per nulla ancora lo scopo, bensì solo un preparativo, per l’autentica metafisica, cioè per l’estensione sintetica a priori della sua conoscenza; a tale estensione, la scomposizione non basta, perché si limita a mostrare quanto è già contenuto nei concetti e non il modo in cui noi giungiamo a priori in possesso di tali concetti.

 - Immanuel Kant (Königsberg 1724-1804) pubblicò Critica della ragion pura in due edizioni, nel 1781 e nel 1787. Il testo riportato è tratto da: I. Kant, Critica della ragion pura, a cura di P. Chiodi, Utet, Torino 2005, pp. 86 ss.

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K, Critica della ragion pura SE CONOSCERE aTTR aVERSO I SENSI SIGNIFICa PENSaRE, COME POSSIaMO PENSaRE lE COSE al DI FuORI DEl PENSIERO? Se quanto conosciamo attraverso i sensi fosse soltanto un pensiero, ci darebbe informazioni sui nostri pensieri. Ma attraverso i sensi cerchiamo informazioni sul mondo esterno. le otteniamo perché le sensazioni – le “intuizioni sensibili” – non sono solo frutto di una attività del pensare, ma dell’incontro tra le forme della mente e la realtà esterna. C’è un contatto tra il mentale e il fisico. Ma la mente può conoscere solo ciò che le è affine, ciò che le sue forme le consentono di conoscere. Il resto è perduto. Si resta ai fenomeni, che tuttavia ci parlano realmente del mondo esterno.

Estetica trascendentale In qualunque modo e con qualunque mezzo una conoscenza possa riferirsi ad oggetti, certo il modo in cui vi si riferisce immediatamente, ed a cui ogni pensiero tende, come suo mezzo, è l’ i n t u i z i o n e . Ma questa si riscontra soltanto quando l’oggetto sia dato; il che è, a sua volta, possibile, per noi uomini almeno, solo se l’oggetto agisce, in qualche modo, sul nostro animo. La capacità di ricevere (recettività) rappresentazioni, mediante il modo in cui siamo affetti dagli oggetti, si chiama s e n s i b i l i t à . Quindi gli oggetti ci sono dati per mezzo della sensibilità ed essa soltanto ci fornisce intuizioni; ma è attraverso l’intelletto che essi sono pensati, e da esso provengono i c o n c e t t i . Tuttavia, ogni pensiero, mediante certe note, deve, direttamente o indirettamente, riferirsi, infine, a intuizioni, e quindi, in noi, alla sensibilità perché, diversamente, non ci può esser dato oggetto alcuno. L’effetto di un oggetto sulla capacità rappresentativa, in quanto noi ne veniamo affetti, è la s e n s a z i o n e . L’intuizione che si riferisce all’oggetto mediante una sensazione, dicesi e m p i r i c a . L’oggetto indeterminato d’una intuizione empirica prende il nome di f e n o m e n o . Nel fenomeno chiamo m a t e r i a ciò che corrisponde alla sensazione; ciò che, invece, fa sì che il molteplice del fenomeno possa essere ordinato in precisi rapporti, chiamo f o r m a del fenomeno. Poiché ciò in cui soltanto le sensazioni si ordinano e possono esser poste in una determinata forma, non può, a sua volta, esser sensazione, ne viene che la materia di ogni fenomeno ci è di certo data soltanto a posteriori, ma la forma relativa deve trovarsi per tutti i fenomeni già a priori nell’animo e deve pertanto poter essere considerata separatamente da ogni sensazione. Kant e il criticismo

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Chiamo pure (in senso trascendentale) tutte le rappresentazioni in cui nulla è riscontrabile che appartenga alla sensazione. Di conseguenza, la forma pura delle intuizioni sensibili in generale si troverà a priori nell’animo, ed in essa verrà intuìto, in precisi rapporti, tutto il molteplice dei fenomeni. Questa forma pura della sensibilità prenderà anch’essa il nome di i n t u i z i o n e p u r a . Quindi, allorché dalla rappresentazione di un corpo tolgo via ciò che l’intelletto vi mette in fatto di pensiero, e cioè la sostanza, la forza, la divisibilità, ecc., e parimenti ciò che appartiene invece alla sensazione, come la impenetrabilità, la durezza, il colore, ecc., qualcosa mi rimarrà ancora di questa intuizione empirica, cioè l’estensione e la figura. Queste appartengono all’intuizione pura, la quale ha luogo a priori, nell’animo, come una semplice forma della sensibilità, anche senza la presenza di un oggetto dei sensi o di una sensazione. Chiamo e s t e t i c a t r a s c e n d e n t a l e la scienza di tutti i princìpi a priori della sensibilità. Deve pertanto esserci una scienza tale da costituire la prima parte della dottrina trascendentale degli elementi, di contro a quella che contiene invece i princìpi del pensiero puro e prende il nome di logica trascendentale. Nell’estetica trascendentale, pertanto, i s o l e r e m o prima di tutto la sensibilità, separando tutto ciò che vi pensa l’intelletto coi suoi concetti, affinché non rimanga altro che l’intuizione empirica. In secondo luogo, da questa separeremo ulteriormente tutto ciò che appartiene alla sensazione, onde null’altro rimanga se non l’intuizione pura e la semplice forma dei fenomeni, ossia l’unica cosa che la sensibilità possa fornire a priori. In questa indagine si troverà che esistono due forme pure dell’intuizione sensibile, quali princìpi della conoscenza a priori, ossia lo spazio e il tempo, che ora ci accingiamo ad esaminare.

Osservazioni generali sull’estetica trascendentale [...] Ogni nostra intuizione non è se non la rappresentazione di un fenomeno; che le cose, che noi intuiamo, non sono in se stesse quello per cui noi le intuiamo, né i loro rapporti sono cosiffatti come ci appaiono, e che, se sopprimessimo il nostro soggetto, o anche solo la natura subbiettiva dei sensi in generale, tutta la natura, tutti i rapporti degli oggetti, nello spazio e nel tempo, anzi lo spazio stesso e il tempo sparirebbero, e come fenomeni non possono esistere in sé ma soltanto in noi. Quel che ci possa essere negli oggetti in sé a separarli dalla recettività dei nostri sensi ci rimane interamente ignoto. Noi non conosciamo se non il nostro modo di percepirli, che ci è peculiare, e che non è né anche necessario a tutti gli uomini. Noi abbiamo da fare solo con esso. Spazio e tempo sono le forme pure di esso; la sensazione, in generale, la materia. Quella possiamo conoscerla solo a priori, ossia prima di ogni reale percezione, e perciò la chiamiamo i n t u i z i o n e pura: questa invece è nella no-

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stra conoscenza ciò che fa sì che la si dica conoscenza a posteriori, cioè intuizione empirica. Quelli appartengono assolutamente alla nostra sensibilità, qualunque sia la specie delle nostre sensazioni; queste possono essere molto diverse. Anche se portassimo questa nostra intuizione al più alto grado della chiarezza, non ci accosteremmo perciò di più alla natura degli oggetti in sé. Giacché in ogni caso noi non potremmo conoscere compiutamente se non il nostro modo di intuizione, cioè la nostra sensibilità, e questa sempre nelle condizioni originariamente inerenti al soggetto, di spazio e di tempo; ma che cosa possano essere gli oggetti in se stessi, per illuminata che sia la conoscenza dei loro fenomeni, che soltanto ce n’è data, non ci sarebbe mai noto.

 - Immanuel Kant (Königsberg 1724-1804) pubblicò Critica della ragion pura in due edizioni, nel 1781 e nel 1787. Il testo riportato è tratto da: I. Kant, Critica della ragion pura, a cura di P. Chiodi, Utet, Torino 2005, pp. 97 ss.

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K, Critica della ragion pura la PERFETTa COERENZa INTERNa DI uN CONCETTO, O DI uNa CONCaTENaZIONE DI CONCETTI, È SuFFICIENTE a DaRCI la SICuREZZa DI ESSERE NElla VERITÀ? l’argomentazione di Kant sul tema delle verità come carattere proprio di un concetto è molto lineare: ci si trova in presenza della verità se e solo se esso si accorda con il suo oggetto. Ma la materia del pensare è empirica, non può essere prodotta da parte del pensiero se riguarda la realtà oggetto dell’atto del pensare; per conseguenza una logica della verità è in sé vuota. Importantissima, certo, perché la logica della verità definisce le condizioni interne per cui un pensiero è corretto, e non un vano perdersi del pensiero in se stesso; ma in sé nulla ci dice del mondo. la forma della verità (l’insieme delle regole del corretto pensare) non è ancora la verità (nulla dice sulla corrispondenza tra pensiero e cosa).

Intorno alla divisione della logica generale in Analitica e Dialettica [...] C h e c o s ’ è l a v e r i t à ? La definizione nominale della verità, per cui essa risulta dall’accordo della conoscenza col suo oggetto, è qui concessa e presupposta; ciò che si desidera sapere è quale sia il criterio generale e sicuro della verità di una conoscenza qualsiasi. […] Se la verità consiste nell’accordo di una conoscenza col suo oggetto, occorre che questo oggetto risulti distinto dagli altri oggetti; una conoscenza è infatti falsa quando non si accorda con l’oggetto a cui viene riferita, anche se contiene qualcosa che potrebbe certo valere rispetto ad altri oggetti. Orbene, un criterio generale della verità dovrebbe esser tale da risultar valido per tutte le conoscenze, senza tener conto dei loro oggetti. Ma è chiaro che, facendo in esso astrazione da qualsiasi contenuto della conoscenza (relazione col suo oggetto), mentre la verità concerne proprio questo contenuto, è totalmente impossibile e privo di senso andare alla ricerca di un contrassegno per la verità di tale contenuto della conoscenza; risulta così chiaramente la impossibilità di esibire un carattere sufficientemente individuante, e nello stesso tempo generale, della verità. Poiché sopra abbiamo già designato il contenuto di una conoscenza come materia di essa, si dovrà ora dire: non è lecito richiedere un carattere generale della verità della conoscenza quanto alla sua materia, perché la cosa è in se stessa contraddittoria. Ma per ciò che concerne semplicemente la forma della conoscenza (tra-

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lasciando ogni contenuto), è non meno chiaro che una logica, in quanto esibisce le regole universali e necessarie dell’intelletto, deve, proprio in tali regole, dare i criteri della verità. Ciò che contraddice ad esse risulta infatti falso, perché in tal caso l’intelletto entra in contrasto con le regole generali del pensiero e quindi con se stesso. Questi criteri non concernono tuttavia che la forma della verità, cioè del pensiero in generale e risultano così esattissimi ma non sufficienti. Una conoscenza potrebbe infatti essere in pieno accordo con la forma logica, cioè non contraddittoria in se stessa, ma esser tuttavia in contraddizione con l’oggetto. Pertanto, il criterio semplicemente logico della verità, ossia l’accordo di una conoscenza con le leggi generali e formali dell’intelletto e della ragione, è certamente la conditio sine qua non e come tale la condizione negativa di ogni verità; ma la logica non può andare oltre e non ha alcun termine di riferimento con cui sia in grado di svelare un errore che concerna non la forma, ma il contenuto. […] Poiché la sola forma della conoscenza – si accordi quanto vuole con le leggi logiche – è pur sempre di gran lunga insufficiente a determinare la verità materiale (oggettiva) della conoscenza, ne segue che nessuno può arrischiarsi, per mezzo della logica, a formulare giudizi su oggetti o ad affermare qualsiasi cosa intorno ad essi, salvo che non abbia prima proceduto, al di fuori della logica, a procurarsi una precisa informazione intorno agli oggetti stessi, limitandosi poi a tentarne, in base a leggi logiche, la semplice utilizzazione e la riduzione a connessione coerente, o, meglio ancora, ad esaminarli esclusivamente secondo queste leggi. C’è tuttavia qualcosa di così seducente nel possesso di un’arte tanto vistosa qual è quella di dare a tutte le nostre conoscenze la forma dell’intelletto, senza tener conto dell’estrema povertà e vuotezza in cui si resta in fatto di contenuto, che quella logica generale, che è semplicemente un canone di valutazione, viene usata come un organo di effettiva produzione di conoscenze oggettive, mentre non lo è che di illusioni; così, in realtà, non si è dato luogo che a un semplice abuso. Ora la logica generale, come tale presunto organo, si chiama d i a l e t t i c a . Per mutevole che sia il significato in cui gli antichi si servirono di questa denominazione di una scienza o arte, si può tuttavia sicuramente desumere [...] che la dialettica, per loro, altro non fosse che la logica della p a r v e n z a . Arte sofistica di dare alla propria ignoranza, anzi alle proprie volute illusioni, l’aspetto della verità, contraffacendo il metodo del pensare fondato, che la logica generale prescrive, e servendosi della sua topica per mascherare ogni vuoto procedimento. [...]

Intorno alla divisione della logica trascendentale in Analitica e Dialettica trascendentale In una logica trascendentale, noi isoliamo l’intelletto (come sopra, nell’Estetica trascendentale, già facemmo per la sensibilità), e di tutta la no-

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stra conoscenza prendiamo in esame la sola parte del pensiero che trae la sua origine esclusivamente dall’intelletto. Ma l’uso di questa conoscenza pura implica, come sua condizione, che nell’intuizione ci siano dati oggetti a cui possa essere applicata. Infatti senza intuizione l’intera nostra conoscenza viene a mancare di oggetti, rimanendo allora del tutto vuota. Pertanto la parte della logica trascendentale che tratta degli elementi della conoscenza pura dell’intelletto e dei princìpi senza i quali nessun oggetto può in alcun modo esser pensato, è l’analitica trascendentale [...]. Poiché è molto seducente e attraente servirsi di queste conoscenze pure dell’intelletto e dei princìpi puri presi isolatamente, senza curarsi dei limiti dell’esperienza, [...] l’intelletto va incontro al pericolo di fare, con vuoti sofismi, un uso materiale dei princìpi semplicemente formali dell’intelletto puro, formulando giudizi indiscriminati su oggetti che non ci sono dati, anzi, con ogni probabilità, che non possono esserci dati in alcun modo. Dunque, poiché la logica trascendentale non può propriamente esser altro che un canone di giudizio dell’uso empirico, se ne fa un uso distorcente allorché la si impiega come organo di uso generale e illimitato, avventurandosi, col solo intelletto puro, in giudizi sintetici e in affermazioni e decisioni sugli oggetti in generale. In questo caso l’uso dell’intelletto puro diverrebbe senz’altro dialettico. Quindi la seconda parte della logica trascendentale deve prendere la forma di una critica di questa parvenza dialettica.

 - Immanuel Kant (Königsberg 1724-1804) pubblicò Critica della ragion pura in due edizioni, nel 1781 e nel 1787. Il testo riportato è tratto da: I. Kant, Critica della ragion pura, a cura di P. Chiodi, Utet, Torino 2005, pp. 130 ss.

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Capitolo

7 Romanticismo, idealismo, materialismo, positivismo Nella prima metà dell’Ottocento tre filosofie sistematiche – idealismo, marxismo, positivismo – pretendono di scoprire le leggi di sviluppo di tutta la realtà, materiale, spirituale e storica. Nel clima romantico, all’idea illuministica di una ragione finita si contrappone quella di una ragione capace di infinito. Su queste basi Hegel indaga il processo di sviluppo della realtà, avvalendosi del potere della dialettica, capace di cogliere le contraddizioni del reale e di superarle nell’ultima grande sintesi totalizzante del pensiero occidentale. Marx eredita da Hegel lo strumento dialettico, ma – rovesciandone la prospettiva idealistica – lo applica materialisticamente alla prassi storica e ai rapporti economico-sociali secondo un modello conflittuale. In ambito francese, Comte si affida al metodo delle scienze per scoprire le leggi che spiegano la natura e per interpretare il mondo sociale secondo un modello organicistico.

F, La destinazione dell’uomo NoN c’è libertà più auteNtica , iN FoNdo, che essere se stessi: ma NoN è Forse questo uN compito, prima che uNa realtà? una radicata tendenza della nostra mente ci porta a giustificarci di fronte a noi stessi e agli altri per i nostri limiti (gli errori che commettiamo, le azioni e i pensieri dei quali non andiamo per nulla fieri) attribuendo ampie responsabilità agli altri o alle situazioni oggettive. ora, in questo nostro non accettare la realtà dei nostri limiti c’è un aspetto positivo (da conservare) e uno negativo (da respingere): ci aiuta a essere consapevoli di noi stessi, imponendoci di misurare sempre la distanza che separa la realtà dai nostri ideali; ci danneggia perché allontana da noi il centro delle nostre azioni, denunciandone la causa e i motivi che le hanno determinate in altri e in altro. essere liberi, in questo contesto, significa essere padroni delle proprie azioni e dei propri pensieri (laddove il pensiero è una forma d’azione, e l’azione cosciente implica sempre il pensiero): qualunque ne sia la causa, assumersene il carico e la responsabilità. i limiti? sì, la natura ci ha fatto limitati, ma ha anche fatto in modo che la sua forza creativa si esprima nel superarli. l’uomo saggio accetta i propri limiti, e da lì muove per agire e pensare. che cos’altro sono l’azione e il pensiero se non il superamento dei propri limiti nel fare e nel pensare?

Libro primo. Dubbio Credo ormai di conoscere una buona parte del mondo che mi circonda; e in realtà ho speso in questo compito non poca fatica e attenzione. Ho prestato fede soltanto alle testimonianze concordi dei miei sensi, a ciò che mi veniva confermato dall’esperienza; ho toccato ciò che ho visto, ho scomposto ciò che ho toccato; ho ripetuto le mie osservazioni e le ho ripetute più volte; ho paragonato tra loro i diversi fenomeni; e solo dopo essermi reso conto del loro preciso contesto, dopo essere stato in grado di spiegarli e derivarli uno dall’altro, di calcolarne anticipatamente l’esito, e dopo essermi reso conto che il risultato percepito corrispondeva al mio calcolo, solo allora mi sono placato. Per quel che riguarda questa parte delle mie conoscenze, ne sono dunque sicuro come della mia propria esistenza, e mi inoltro con passo fermo in quella sfera del mio mondo che conosco, e in ogni attimo metto in gioco la mia esistenza e il mio benessere, fondandomi sulla infallibilità delle mie convinzioni. Ma, – cosa sono io stesso, e quale è la mia destinazione?

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Domanda vana! Già da molto tempo si è concluso il mio apprendere riguardo a questo oggetto, e ci vorrebbe del tempo perch’io ripetessi a me tutto quello che, punto per punto, ho inteso, imparato, creduto, a questo proposito. E per quale via sono arrivato, infine, a queste conoscenze, che mi ricordo oscuramente di possedere? Spinto da un’ardente bramosia di sapere, ho forse conquistato faticosamente la mia strada, attraverso l’incertezza, il dubbio e le contraddizioni? Non appena mi si presentava qualcosa di credibile, ho forse trattenuto la mia approvazione, vagliate le probabilità, fatta opera di nuovo vaglio, di nuova analisi e confronto, – finché una voce interna, certa e irresistibile, mi gridasse: è così, solo così, quanto è vero che tu vivi ed esisti? – No, non mi ricordo di essermi mai trovato in un simile stato. Quegli insegnamenti mi furon appioppati prima ch’io li desiderassi; mi fu risposto prima ch’io avessi formulato la domanda. Ascoltavo, perché non potevo farne a meno; quel sapere rimaneva sospeso nella mia memoria, per quel tanto che disponeva il caso; senza esame e senza partecipazione lasciavo ogni cosa al posto in cui si trovava. Come potrei, di conseguenza, persuadermi di possedere realmente delle conoscenze su questo oggetto della riflessione? [...] Finora, quindi, mentre ho indagato io stesso con scrupolosa attenzione ciò che è meno importante, mi sono fidato della buona fede e del discernimento degli altri per quel che riguarda la cosa più importante. Ho attribuito fiduciosamente agli altri, per quel che riguarda i problemi più elevati dell’umanità, un interesse, una serietà, una scrupolosità, che non avevo in nessun modo trovato in me stesso. Li ho stimati infinitamente più di me stesso. Quel che di vero essi sanno, di dove lo possono sapere, se non mediante la loro riflessione? E perché non dovrei io, con la stessa riflessione, trovare la stessa verità [...]? Come mi sono sottovalutato e disprezzato finora! Voglio che questo non avvenga più! In questo attimo voglio riprendere i miei diritti, e prender possesso della dignità che mi spetta. Rinunciamo a tutto ciò che è estraneo. Io stesso voglio indagare. E se si destano in me segreti desideri circa l’esito della mia indagine, e se sorge in me una predilezione per certe affermazioni, voglio dimenticarla e rinnegarla, e non permetterò ad essa di esercitare alcuna influenza sulla direzione dei miei pensieri. Voglio mettermi all’opera con rigore e scrupolo. Voglio confessare a me stesso ogni cosa sinceramente. – Quello ch’io trovo come verità, sia quel che sia, deve esser per me il benvenuto. Voglio sapere. Colla stessa certezza, colla quale sono sicuro che questo terreno mi sosterrà, se ci metto il piede sopra, che questo fuoco mi scotterà, se mi ci avvicino, voglio poter essere sicuro di quel che sono e di quello che diventerò. E se non sarà possibile, voglio almeno sapere che non si può. E mi assoggetterò anche a questa conclusione della mia indagine, se mi risulterà come vera.

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Libro terzo. Fede [...] Io devo perfezionare il mio intelletto e acquistarmi delle conoscenze, per quanto mi è possibile, ma coll’unico proposito di preparare in me un più grande ambito e una più larga sfera d’azione al dovere; devo voler avere molto perché molto si possa richiedere da me. Devo esercitare la mia forza e la mia destrezza sotto ogni aspetto, ma solo per procurarmi uno strumento più efficace e più adatto per compiere il dovere; perché fino a che il comando non si trasmetta da tutta la mia persona nel mondo esterno, io ne sono responsabile di fronte alla mia coscienza. […] Sofferenze corporee, dolori e malattia, quando mi colpiscono, io non posso fare a meno di sentirli, poiché sono eventi della mia natura ed io sono e rimango, qui in terra, natura; però essi non mi devono turbare. Essi colpiscono solo la natura, colla quale io sono in rapporto in un prodigioso modo, non me stesso, non l’essere che è al di sopra di ogni natura. La fine sicura di ogni dolore e di ogni sensibilità per il dolore è la morte; e, tra tutti quelli che l’uomo naturale suole ritenere un male, questo è quello che mi turba meno. lo non morirò per me, ma soltanto per gli altri – per quelli che rimangono, dal cui legame io vengo strappato; per me stesso, l’ora della morte è l’ora della nascita ad una nuova vita più splendida. Dopo che il mio cuore si è chiuso a ogni brama di cose terrene, dopo che io, di fatto, non possiedo più un cuore per ciò che è passeggero, al mio occhio l’universo appare in una forma trasfigurata. La massa morta pesante, che si limitava a riempire lo spazio è svanita, e al suo posto scorre e fluttua e mormora la corrente eterna della vita, della forza e dell’azione – della vita originaria: della tua vita, o Infinito, perché ogni vita è la tua vita, e solo l’occhio religioso penetra nel regno della vera bellezza.

 - Johann Gottlieb Fichte (Rammenau 1762 - Berlino 1814) pubblicò La destinazione dell’uomo nel 1800. Il testo riportato è tratto da: J.G. Fichte, La destinazione dell’uomo, a cura di C. Cesa, Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 5-7, 128-133.

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S, Sistema dell’idealismo trascendentale la Natur a è bella , ma com’è possibile che lo sia , se è composta da Forze meccaNiche e la bellezza è uN valore spirituale? ci sono pochi dubbi sul fatto che la bellezza sia un valore spirituale: suscita emozioni e sentimenti, è legata a valori etici, estetici, persino economici, a realtà spirituali sentite come importanti, e anzi primarie; è legata a un mondo interiore ricco di tali aperture verso l’infinito che la religione l’ha sempre usata (nell’arte figurativa, nella musica) come strumento per elevare verso dio. ma la fisica, dal seicento in poi, dipinge la natura come un sistema meccanico del tutto privo di valori di qualsiasi tipo, men che meno spirituali. ma la natura è bella, la fisica non può non tenerne conto. Nelle sue equazioni dà conto solo di una parte di essa. e il resto? Non è forse REXYVEPI anche la bellezza? ma è nello spirito che la comprendiamo ed entriamo in relazione con essa. è nello spirito che si crea una dimensione estetica, capace di comprendere in unità l’io (spirito) e la natura bella (materia). è attraverso lo spirito che ci si manifesta lo spirituale nella natura. che non può non esserci, se la natura è bella. è questa la via per trovare un punto d’unità.

Il prodotto artistico si distingue [...] dal prodotto organico della natura principalmente per il fatto che la produzione organica non procede dalla coscienza, né conseguentemente dalla contraddizione infinita che è condizione della produzione estetica. Il prodotto organico della natura non sarà quindi neanche necessariamente bello, e se è bello, la bellezza, la cui condizione non può venir pensata come esistente in natura, apparirà puramente e semplicemente casuale; di qui si spiega l’interesse affatto peculiare per la bellezza naturale, non in quanto bellezza in generale, bensì in quanto è determinatamente bellezza della natura. Si rende automaticamente evidente di per sé in qual conto sia da tenere l’imitazione della natura in quanto principio dell’arte, perché, ben lungi dall’essere la natura, che è bella per puro caso, a fornire la regola all’arte, è al contrario ciò che l’arte produce nella sua perfezione a fornire il principio e la norma per giudicare la bellezza naturale. È facile giudicare in cosa il prodotto estetico si distingua dal comune prodotto artistico, giacché ogni produzione estetica è, nel suo principio, assolutamente libera, l’artista potendo venirvi, spinto bensì da una contraddizione, ma solo da una contraddizione che risieda in ciò che vi è di più elevato della

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sua propria natura, mentre ogni altra produzione è suscitata da una contraddizione situata al di fuori di colui che, propriamente, produce e ha pertanto altresì ogni scopo fuori di sé. Da quell’indipendenza da fini estrinseci scaturisce quella sacertà e purezza dell’arte che va così lontano da ripudiare non soltanto ogni affinità con ciò che è mero piacere dei sensi (esigere quest’ultimo dall’arte è il carattere proprio della barbarie) o con l’utile (il quale può esser richiesto all’arte soltanto da un’epoca che pone gli sforzi più elevati dello spirito umano in invenzioni economiche), ma persino l’affinità con tutto quel che appartiene alla moralità. La sacertà dell’arte lascia dietro di sé, staccandola considerevolmente, persino la scienza la quale, al riguardo del suo carattere disinteressato, confina assai da vicino con l’arte, e ciò per la sola ragione che la scienza persegue sempre un fine esterno a essa e che, in fondo, deve servire soltanto quale mezzo per quel che vi è di più elevato (l’arte). Per quel che concerne, in particolare, il rapporto dell’arte alla scienza, nel loro orientamento sono entrambe talmente contrapposte l’un l’altra che, se la scienza avesse mai risolto ogni suo problema, come l’ha sempre risolto l’arte, dovrebbero coincidere e fondersi in una sola, il che è la prova delle direzioni diametralmente contrapposte. Infatti benché la scienza nella sua funzione più alta abbia quell’unico e medesimo compito in comune con l’arte, questo compito tuttavia, in ragione del modo di risolverlo, è per la scienza un compito infinito, sicché si può concludere che l’arte sia il modello della scienza […]. Se l’intuizione estetica è unicamente quella trascendentale divenuta oggettiva, è evidente che l’arte sia l’unico vero ed eterno organo della filosofia e insieme l’unico documento che rende testimonianza sempre e incessantemente a ciò che la filosofia non può esporre esternamente, e cioè il privo di coscienza nell’agire e nel produrre, e la sua identità originaria con il conscio. [...] Per l’artista la natura non è più di quel che è per il filosofo, cioè solamente il mondo ideale che appare tra permanenti limitazioni, soltanto il riflesso imperfetto di un mondo che esiste non fuori di lui, ma in lui. Quanto a sapere da dove venga tale affinità della filosofia e dell’arte, nonostante la loro opposizione, hanno già sufficientemente risposto le considerazioni svolte in precedenza. Concluderemo pertanto con le osservazioni seguenti. Un sistema è compiuto quando è ricondotto al suo punto d’avvio. E questo è esattamente il caso del nostro sistema. Infatti proprio quel fondamento originario di ogni armonia fra il soggettivo e l’oggettivo, fondamento il quale poteva venir esposto nella sua originaria identità unicamente tramite l’intuizione intellettuale, grazie all’opera d’arte è stato tratto completamente fuori dal soggettivo ed è divenuto del tutto oggettivo, dimodoché abbiamo progressivamente condotto il nostro oggetto, l’io stesso, sino al punto in cui noi stessi stavamo quando iniziammo a filosofare.

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Ora, se soltanto l’arte riesce a rendere oggettivo, con valore universale, quel che il filosofo può esporre unicamente in modo soggettivo, c’è da attendersi – per trarre qui ancora questa conclusione – che la filosofia, così com’è scaturita ed è stata nutrita dalla poesia nell’infanzia del sapere, e con essa tutte quelle scienze che per mezzo suo vengono recate a perfezione, una volta giunte alla loro pienezza, come altrettanti singoli fiumi riconfluiranno in quell’universale oceano della poesia da cui erano uscite. Quale poi sarà il tramite del ritorno della scienza alla poesia, non è in generale difficile a dirsi, questo termine intermedio essendo esistito nella mitologia, prima che fosse avvenuta questa separazione la quale ora sembra insuperabile. Ma come possa nascere una nuova mitologia, che non sia invenzione del singolo poeta ma di una generazione nuova che quasi rappresenti, per dir così, un unico poeta, ciò è un problema la cui soluzione si può attendere solamente dai futuri destini del mondo e dal corso ulteriore della storia.

 - Friedrich Wilhelm Joseph Schelling (Leonberg 1775 - Ragaz 1854) pubblicò Sistema dell’idealismo trascendentale nel 1800. Il testo riportato è tratto da: F.W.J. Schelling, Sistema dell’idealismo trascendentale, a cura di G. Boffi, Bompiani, Milano 2005, pp. 567-581.

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H, Filosofia dello Spirito perché la religioNe usa l’arte per r appreseNtare il diviNo e il sacro? evidentemente c’è un legame fra arte e religione: se da turisti visitiamo musei e luoghi di culto di una qualsiasi civiltà e di una qualsiasi religione, vediamo ovunque che il sacro e il divino sono stati espressi, nei modi più diversi, in forme belle. la bellezza ci parla di dio o del divino? Non è però della bellezza naturale che qui si fa discorso, ma di quella dell’opera d’arte, che è una espressione dell’uomo, del suo spirito e della civiltà a cui appartiene, che ne plasma le forme. qual è l’esatta dinamica che porta l’uomo di fede e le civiltà a usare la bellezza dell’arte per esprimere un sentimento religioso? la risposta va cercata in una precisa area: quella dello spirito, cioè dei valori universali, cosmici, che si esprimono tanto nel tutto, quanto nell’individualità: nell’uomo singolo si tratta dell’infinito nel finito, ma consapevole di sé. l’arte e la religione sono due forme di questa consapevolezza, peraltro per hegel solo parziale (soltanto la filosofia lo è in modo compiuto).

L’arte La figura di questo sapere, in quanto figura immediata, è il momento della finitezza dell’arte. In tal senso, essa da un lato è un frammentarsi in un’opera di essere determinato esteriore e comune, in colui che la produce e nel soggetto che la intuisce e la venera. D’altro lato, essa è l’intuizione concreta e la rappresentazione dello spirito in sé assoluto in quanto ideale; è rappresentazione della figura concreta nata dallo spirito soggettivo, nella quale l’immediatezza naturale non è che segno dell’idea, per esprimere la quale è trasfigurata dallo spirito che la plasma, a tal punto che la figura non mostra in sé nient’altro che l’idea. Tale è la figura della bellezza. L’arte non ha soltanto bisogno, in vista delle intuizioni che deve produrre, di un materiale esteriore dato (nel quale rientrano anche le immagini e le rappresentazioni soggettive), ma, per l’espressione del contenuto spirituale, anche delle forme date della natura, secondo il loro significato, che l’arte deve presentire e possedere dentro di sé [...]. Tra le figure, quella umana è la più alta e la più vera, poiché solo in essa lo spirito può avere la sua corporeità, e quindi la sua espressione intuibile. In tal modo ci si sbarazza del principio dell’imitazione della natura nell’arte. Infatti, finché l’elemento naturale è preso soltanto nella sua esterio-

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rità, non come forma naturale che rimanda allo spirito, caratteristica e ricca di senso, non è possibile nessun accordo su un’opposizione tanto astratta. [...] Al di là della perfezione [...] della bellezza nell’arte classica, si situa l’arte della sublimità, l’arte simbolica, nella quale non è ancora stata trovata la configurazione adeguata all’idea, o piuttosto il pensiero è presentato come oltrepassante la figura ed in lotta con essa, in un rapporto negativo nei confronti della figura, nella quale pure si sforza di imprimersi. In tal modo il significato, il contenuto, mostra appunto di non avere ancora raggiunto la forma infinita, di non essere ancora saputo e di non sapersi come spirito libero. A proposito della stretta connessione tra arte e religione, bisogna osservare più in particolare che l’arte bella può appartenere soltanto a quelle religioni il cui principio è la spiritualità concreta divenuta libera in se stessa, ma non ancora assoluta. Nelle religioni in cui l’idea non si è ancora rivelata e saputa nella sua libera determinatezza, il bisogno dell’arte emerge in primo piano, per portare alla coscienza, nell’intuizione e nella fantasia, la rappresentazione dell’essenza; anzi l’arte è l’unico organo nel quale il contenuto astratto, entro sé confuso e misto di elementi naturali e spirituali, può sforzarsi di accedere alla coscienza. Quest’arte è però manchevole. Essendo tale il contenuto, tale è anche la forma; il contenuto infatti è tale perché non ha entro se stesso la forma immanente. L’esposizione conserva un aspetto di mancanza di gusto e di spirito, poiché l’interno stesso è ancora manchevole di spirito, e quindi non ha la forza di compenetrare l’esterno liberamente, conferendogli significato e figura. L’arte bella al contrario presuppone come condizione l’autocoscienza dello spirito libero, quindi la coscienza della non-indipendenza nei suoi confronti dell’elemento sensibile e puramente naturale. Di tale elemento essa fa la pura e semplice espressione dello spirito; lo spirito libero è la forma interna che non manifesta che se stessa. A ciò si connette l’ulteriore e più elevata considerazione secondo la quale l’apparizione dell’arte segna il declino d’una religione ancora legata all’esteriorità sensibile. Proprio mentre essa sembra conferire alla religione la suprema trasfigurazione, espressione e splendore, essa l’ha innalzata al disopra della sua limitatezza. Nella sublime divinità che l’opera d’arte riesce ad esprimere, il genio dell’artista e degli spettatori si trova nel proprio elemento con la sua propria sensibilità e sensazione, soddisfatto e liberato; l’intuizione e la coscienza dello spirito libero è ottenuta e garantita. Dal canto suo, l’arte bella ha ottenuto la stessa cosa della filosofia: la purificazione dello spirito dalla non libertà. Quella religione, nella quale per prima si genera il bisogno dell’arte bella (e si genera appunto per questo), ha nel suo principio un al di là privo di pensiero e sensibile. Le immagini devotamente venerate sono idoli privi di bellezza, talismani miracolosi che si riferiscono ad un’oggettività oltremon-

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dana priva di spirito; delle ossa fanno lo stesso servizio di queste immagini, od anche un servizio migliore. L’arte bella è tuttavia soltanto un grado della liberazione, non la liberazione suprema in se stessa. La vera oggettività, che si ha soltanto nell’elemento del pensiero – l’unico nel quale il puro spirito è per lo spirito, e la liberazione si accompagna alla reverenza –, fa difetto anche nel bello sensibile dell’opera d’arte; tanto più dunque in quella sensibilità esteriore e priva di bellezza. L’arte bella (come la religione che le è propria) ha il proprio avvenire nella religione vera. Il contenuto limitato dell’idea trapassa in sé e per sé nell’universalità che è identica con la forma infinita; l’intuizione, il sapere immediato legato alla sensibilità, trapassa nel sapere che si media entro sé, in un essere determinato che è esso stesso il sapere: nella rivelazione. Così, il contenuto dell’idea ha come principio la determinazione della libera intelligenza, e, in quanto spirito assoluto, è per lo spirito.

 - Georg Wilhelm Friedrich Hegel (Stoccarda 1770 - Berlino 1831) pubblicò l’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio in tre edizioni (1817, 1827, 1830). La versione del 1830 è quella da cui è tratta la Filosofia dello Spirito, che ne costituisce la terza parte. Il testo riportato è tratto da: G.W.F. Hegel, Filosofia dello Spirito, a cura di A. Bosi, Utet, Torino 2000, pp. 415-418.

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H, La scienza della logica si puÒ peNsare il Nulla? la domanda riprende l’antico tema di parmenide: se penso, penso qualcosa, e non posso affatto pensare il nulla senza tramutarlo per ciò stesso in qualcosa; quindi il nulla non è pensabile; ne segue l’impossibilità logica di pensare l’essere al plurale, perché dovrei pensare due esseri, e l’uno sarebbe diverso dall’altro, cioè dall’essere; lo penserei quindi come nonessere, e quest’ultima cosa è impossibile da pensare. hegel respinge questa conclusione e afferma la possibilità di pensare il nulla. ecco il celebre passo hegeliano che mostra come si fa a pensare il nulla rispettando le regole della logica dialettica.

A. ESSERE E s s e r e , p u r o e s s e r e , – senza nessun’altra determinazione. Nella sua indeterminata immediatezza esso è simile soltanto a se stesso, ed anche non dissimile di fronte ad altro; non ha alcuna diversità né dentro di sé, né all’esterno. Con qualche determinazione o contenuto, che fosse diverso in lui, o per cui esso fosse posto come diverso da un altro, l’essere non sarebbe fissato nella sua purezza. Esso è la pura indeterminatezza e il puro vuoto. – Nell’essere non v’è n u l l a da intuire, se qui si può parlar d’intuire, ovvero esso è questo puro, vuoto intuire stesso. Così non vi è nemmeno qualcosa da pensare, ovvero l’essere non è, anche qui, che questo vuoto pensare. L’essere, l’indeterminato Immediato, nel fatto è n u l l a , né più né meno che nulla.

B. NULLA N u l l a , il p u r o n u l l a . È semplice simiglianza con sé, completa vuotezza, assenza di determinazione e di contenuto; indistinzione in se stesso. – Per quanto si può qui parlare di un intuire o di un pensare, si considera come differente, che s’intuisca o si pensi qualcosa oppur n u l l a . Intuire o pensar nulla, ha dunque un significato. I due si distinguono; dunque il nulla è (esiste) nel nostro intuire o pensare, o piuttosto è lo stesso vuoto intuire e pensare, quel medesimo vuoto intuire e pensare ch’era il puro essere. – Il nulla è cosi la stessa determinazione o meglio assenza di determinazione, epperò in generale lo stesso, che il puro e s s e r e .

C. DIVENIRE Il p u r o e s s e r e e i l p u r o n u l l a s o n d u n q u e l o s t e s s o . Il vero non è né l’essere né il nulla, ma che l’essere, – non passa, – ma è pas-

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sato, nel nulla, e il nulla nell’essere. In pari tempo però il vero non è la loro indifferenza, la loro indistinzione, ma è anzi ch’e s s i n o n s o n l o s t e s s o , ch’essi sono a s s o l u t a m e n t e d i v e r s i , ma insieme anche inseparati e inseparabili, e che immediatamente c i a s c u n o d i e s s i s p a r i s c e n e l s u o o p p o s t o . La verità dell’essere e del nulla è pertanto questo m o v i m e n t o consistente nell’immediato sparire dell’uno di essi nell’altro: i l d i v e n i r e ; movimento in cui l’essere e il nulla son differenti, ma di una differenza, che si è in pari tempo immediatamente risoluta. L’equilibrio, in cui si pongono il nascere e il perire, è dapprima il divenire stesso. Ma questo si raccoglie eziandio in unità quieta. L’essere e il nulla stanno nel divenire solo come dileguantisi; ma il divenire, come tale, non è che in forza della loro diversità. Il loro dileguarsi è quindi il dileguarsi del divenire, o il dileguarsi del dileguarsi stesso. Il divenire è una sfrenata inquietudine, che precipita in un resultato calmo. Ciò si potrebbe esprimere anche così: Il divenire è lo sparire dell’essere nel nulla, e del nulla nell’essere, e lo sparire, in generale, dell’essere e del nulla; ma nello stesso tempo riposa sulla loro differenza. Il divenire si contraddice dunque in se stesso, poiché unisce in sé quello che è contrapposto a se stesso; ma una tale unione si distrugge. Questo resultato è l’essere sparito, ma non come n u l l a . Così sarebbe soltanto un ricadere nell’una delle determinazioni già tolte, non un resultato del nulla e d e l l ’e s s e r e . Esso è l’unità dell’essere e del nulla, in quanto è divenuta una quieta semplicità. Ora la quieta semplicità è e s s e r e , però non più per sé, ma come determinazione dell’intiero. Il divenire, il passare così in quell’unità dell’essere e del nulla, che ha la determinazione dell’e s s e r e , ossia ha la forma dell’i m m e d i a t a unilaterale unità dei due momenti, è l’e s s e r d e t e r m i n a t o .

 - Georg Wilhelm Friedrich Hegel (Stoccarda 1770 - Berlino 1831) pubblicò La scienza della logica tra il 1812 e il 1816. Il testo riportato è tratto da: G.W.F. Hegel, La scienza della logica, a cura di V. Verra, Utet, Torino 1981, pp. 70-71, 98-102.

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H, Lineamenti di filosofia del diritto se l’iNdividuo è libero Nello stato, è coNcepibile che sia libero aNche seNza lo stato o diFeNda la sua libertà coNtro lo stato? hegel negli scritti della maturità ha studiato la struttura razionale dello stato. ha cioè studiato la posizione dialettica dello stato nell’ordine del tutto, il che è lo stesso che dire che ha studiato la natura spirituale dello stato, perché il tutto è spirito (cioè vita universale cosciente di sé attraverso l’uomo e la sua ragione). la sua tesi è che lo stato è realtà spirituale anche se nessun uomo (e quindi nessuna ragione cosciente di sé) lo incarna: anche frasi simboliche come l’etat c’est moi sono metafore, neppure luigi Xiv o qualsiasi sovrano assolutista può “incarnare” lo stato, non perché sia astratto (al contrario, è del tutto concreto, come si vede bene dal fatto, da tutti constatabile, che è dotato di forza e anzi ne detiene il monopolio), ma perché è oggettivo e non soggettivo, e qualsiasi uomo è un soggetto. è la sua oggettività che consente ai soggetti di essere se stessi. la risposta alla domanda che abbiamo posto è implicita in questa considerazione.

Lo Stato Lo Stato è la realtà dell’Idea etica. Esso è lo Spirito etico in quanto volontà sostanziale, manifesta, evidente a se stessa, volontà che si pensa e si sa, e che porta a compimento ciò che sa e nella misura in cui lo sa. Nell’ethos, lo Stato ha la propria esistenza immediata. Nell’autocoscienza del singolo, nel sapere e nell’attività del singolo, lo Stato ha invece la propria esistenza mediata. Da parte sua, mediante la predisposizione spirituale, l’autocoscienza ha la propria Libertà sostanziale nello Stato come nella propria Essenza, come nel fine e nel prodotto della propria attività. L’eticità della famiglia e l’eticità del popolo. – I Penati sono gli dèi interni, inferi, mentre lo spirito del popolo (Atena) è il Divino che sa e vuole se stesso. La pietas è il sentimento e l’eticità il cui comportamento è sentimentale; la virtù politica, invece, è il volere rivolto al fine pensato, al fine essente-in-sé-e-per-sé. Lo Stato, in quanto è la realtà della volontà sostanziale, ha questa realtà nell’autocoscienza particolare che si è elevata fino alla propria universalità. In tal senso, lo Stato è il Razionale in sé e per sé. romanticismo, idealismo, materialismo, positivismo

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Ora, questa unità sostanziale è autofinalità assoluta e immobile nella quale la Libertà perviene al suo diritto supremo; analogamente, questo fine ultimo ha il supremo diritto nei confronti dei singoli. I singoli, a loro volta, hanno il dovere supremo di essere membri dello Stato. Inadeguatezza della concezione liberalistica dello Stato. – Se lo Stato viene scambiato per la società civile, e se quindi la sua destinazione viene posta nella sicurezza e nella protezione della proprietà e della libertà personale, allora l’interesse dei singoli in quanto tali diviene il fine ultimo per cui essi sono uniti, e, a un tempo, il fatto di essere membro dello Stato finisce col dipendere dal capriccio individuale. Lo Stato come Spirito oggettivo. – Lo Stato ha invece un rapporto completamente diverso con l’individuo. Lo Stato, infatti, è Spirito oggettivo, e l’individuo stesso ha oggettività, verità ed eticità solo in quanto è un membro dello Stato. L’unione in quanto tale [degli individui nello Stato] è essa stessa l’autentico contenuto e fine, e la destinazione degli individui consiste nel condurre una vita universale: ogni loro ulteriore appagamento, attività, modo di comportarsi, ha per suo punto di partenza e risultato questo elemento sostanziale e universalmente valido. La concezione rousseauiana dello Stato e la Rivoluzione francese. – La considerazione filosofica ha a che fare soltanto con ciò che è interno a tutto questo, cioè con il Concetto pensato. Rispetto all’indagine su questo Concetto, Rousseau ha avuto il merito di aver stabilito come principio dello Stato un principio – cioè, la volontà – che è pensiero, e precisamente l’atto stesso di pensare, non soltanto secondo la sua forma (come, per esempio, l’impulso alla socialità, l’autorità divina), ma anche secondo il contenuto. Rousseau, tuttavia, ha colto la volontà soltanto nella forma determinata della volontà singolare [...], e ha inteso la volontà universale non come il Razionale in sé e per sé della volontà stessa, bensì soltanto come ciò che è comune e che deriverebbe da questa volontà singolare come da una volontà cosciente. Qui, pertanto l’unione dei singoli nello Stato diviene un contratto, il quale ha quindi per fondamento il loro arbitrio [...] e il loro consenso esplicito, dato a piacimento; e a ciò fanno seguito le ulteriori conseguenze meramente intellettualistiche, le quali distruggono il Divino essente-in-sée-per sé e la sua assoluta autorità e maestà. Una volta cresciute fino a diventare potere, di conseguenza, queste astrazioni, da un lato, hanno prodotto il formidabile spettacolo – il primo, a quanto sappiamo, offerto dal genere umano – di iniziare completamente da capo e dal pensiero la costituzione di un grande Stato reale sovvertendo

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ogni cosa sussistente e data, e di voler dare per base a tale costituzione meramente il supposto Razionale; dall’altro lato, poiché si tratta soltanto di astrazioni prive di idee, esse hanno trasformato tale tentativo nell’avvenimento più orribile e allucinante. L’unilateralità dell’impostazione di Rousseau. – Contro il principio della volontà singolare, va ricordato il concetto fondamentale per cui la volontà oggettiva è ciò che, nel proprio Concetto, è in sé razionale – venga poi esso conosciuto dai singoli e voluto dal loro capriccio oppure no. Va anche ricordato che l’opposto di questo Concetto – cioè, la soggettività della Libertà (il volere e sapere) che in quel principio è l’unica cosa tenuta ferma – contiene soltanto uno dei momenti dell’Idea della volontà razionale, ed è perciò unilaterale. L’Idea della volontà razionale è tale unicamente perché essa è tanto in sé quanto anche per sé.

 - Georg Wilhelm Friedrich Hegel (Stoccarda 1770 - Berlino 1831) pubblicò Lineamenti di filosofia del diritto nel 1821. Il testo riportato è tratto da: G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di V. Cicero, Bompiani, Milano 2006, pp. 417-421.

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F, L’essenza della religione di chi, o di quale realtà , parliamo quaNdo diciamo la parola “dio”? la tesi di Feuerbach è che quando diciamo “dio” parliamo dell’uomo: della sua essenza spirituale. se non si è coscienti di questo, è perché si è smarrita la coscienza della vera natura spirituale dell’uomo e della vera origine dell’idea di dio. quello che la filosofia può fare è indirizzare lo sguardo nella direzione giusta e leggere in dio, come in controluce, l’uomo stesso. ciò aiuterà a comprendere la vera essenza dell’uomo, a rispondere alla domanda su chi veramente sia. questa domanda non ha ottenuto piena risposta, perché l’uomo è stato portato dalla propria stessa cultura (la cosa non è dovuta a fattori esterni o alla volontà di qualcuno, ma alla natura umana stessa, alla sua essenza) a estraniarsi e a smarrirsi in dio. quando diciamo la parola “dio”, è in realtà dell’uomo che parliamo; e tuttavia: chi è l’uomo?

Generazione e conservazione sono inseparabili. Se dunque siamo stati creati da un essere distinto dalla natura, da un dio, sarà anche lui a conservarci, non sarà la forza dell’aria, del calore, dell’acqua, del pane che ci mantiene in vita, ma la forza di Dio. «In lui viviamo, ci muoviamo e siamo». «Non il pane – dice Lutero – ma la parola di Dio è anche il nutrimento naturale del corpo, così come crea e mantiene tutte le cose» (Ebr. I). «Quando è presente il pane, egli (Dio) nutre attraverso e sotto di esso, così che non si vede, e si crede che sia il pane a farlo. Ma dove non c’è il pane, egli nutre senza di esso, con la sola parola, come fa attraverso il pane». «Insomma, tutte le creature sono larve e maschere di Dio, a cui egli vuol permettere di operare con lui e di aiutarlo in tutta la sua opera di creazione; ma egli può operare, e opera di fatto, anche senza la loro collaborazione». Ma se non è la natura che ci mantiene, ma Dio, la natura è solo un mascheramento della divinità, e di conseguenza un’apparenza superflua, così come, viceversa, Dio è un’apparenza superflua se siamo mantenuti dalla natura. Ora, però, è evidente e innegabile che noi dobbiamo la nostra conservazione esclusivamente alle azioni, alle qualità e alle forze caratteristiche degli esseri naturali; non solo, quindi, possiamo, ma dobbiamo concludere che andiamo debitori alla natura anche della nostra nascita. Siamo posti nel seno della natura, eppure il nostro inizio, la nostra origine dovrebbe trovarsi fuori della natura? Viviamo nella natura, con la natura, della natura, eppure non deriveremmo da essa? Che contraddizione! [...]

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La nascita della vita organica non va [...] pensata come un atto isolato, come un atto successivo alla genesi delle condizioni vitali, ma piuttosto, secondo natura, come l’atto, il momento in cui la temperatura, l’aria, l’acqua, la terra hanno assunto certe caratteristiche, in cui ossigeno, idrogeno, carbonio, azoto sono entrati in certe combinazioni che condizionano l’esistenza della vita organica; e va pensata, anche, come il momento in cui questi elementi si unirono contemporaneamente fra loro per formare corpi organici. Se pertanto, nel corso del tempo, la terra ha potuto svilupparsi e coltivarsi, in virtù della propria natura, fino ad assumere un carattere compatibile con l’esistenza dell’uomo, conforme alla natura umana, un carattere umano, se così si può dire, ha anche potuto produrre l’uomo per forza propria. [...] L’essere spirituale che l’uomo pone al di sopra della natura come quello che la fonda e la crea non è altro che l’essenza spirituale dell’uomo stesso, che gli appare tuttavia come un altro essere, diverso e non confrontabile con se stesso, in quanto ne fa la causa della natura, la causa di tutti gli effetti che la mente, la volontà e l’intelletto umano non è capace di produrre, in quanto, dunque, a questo essere spirituale e umano egli congiunge nello stesso tempo l’essere della natura, ben distinto dall’essere umano. È lo spirito divino che fa crescere l’erba, che forma il bambino nel seno materno, che muove il sole e lo mantiene nella sua orbita, che erige le montagne, comanda ai venti, chiude il mare nei suoi confini. Che cos’è mai, in confronto a questo spirito, lo spirito umano! com’è piccolo, limitato, insignificante! Se, quindi, il razionalista respinge l’incarnazione di Dio, l’unione della natura divina e di quella umana, ciò dipende soprattutto dal fatto che dietro al suo dio non c’è altro, nella sua testa, che la natura, e la natura così come è stata rivelata all’occhio umano dall’astronomia, dal telescopio. Come potrebbe – esclama scandalizzato – quell’essere grande, infinito, universale, che solo nel grande, infinito universo ha la sua espressione e il suo effetto adeguato, venire, per amore dell’uomo, sulla terra, che scompare letteralmente nel nulla di fronte all’infinita grandezza e profusione del cosmo? Che idea sconveniente, meschina, «umana»! Ridurre Dio alla terra, calare Dio nell’uomo, è lo stesso che voler raccogliere l’oceano in una goccia, l’anello di Saturno nell’anello di un dito. Ed è certo una concezione limitata, pensare che l’essenza del mondo sia solo limitata alla terra e all’uomo, che la natura esista solo per lui e il sole splenda soltanto per l’occhio umano. Ma tu non vedi, miope razionalista, che ciò che si ribella, in te, all’unione di Dio con l’uomo, e che ti fa apparire questa unione come una contraddizione priva di senso, non è l’idea di Dio, ma quella della natura o del mondo; non vedi che il punto di congiunzione, la relazione concettuale fra Dio e l’uomo non è l’essere a cui attribuisci – mediatamente o immediatamente – la potenza e gli effetti della natura, ma piuttosto l’essere che vede e ode perché tu vedi e odi, che

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ha coscienza, intelletto e volontà perché tu li hai, l’essere, insomma, che tu distingui dalla natura perché e nel modo in cui distingui da essa te stesso. Che cosa puoi dunque obiettare, se questa essenza umana ti si presenta infine davanti agli occhi come un uomo reale? come puoi respingere le conseguenze, se tieni fermo il principio? come ripudiare il figlio, se riconosci il padre? Se il Dio-uomo è per te una creazione della fantasia umana, un prodotto dell’autodivinizzazione dell’uomo, allora devi riconoscere anche nel creatore della natura una creatura dell’immaginazione dell’uomo e della sua tendenza a elevarsi al di sopra della natura. Se vuoi un essere senza antropomorfismi, senza aggiunte umane – siano esse dell’intelletto, del cuore o della fantasia –, devi essere così coraggioso e coerente da rinunciare a Dio in generale, e da riporre nella sola natura, nuda e atea, la base e il principio della tua esistenza. Finché lasci sussistere una differenza tra Dio e la natura, si tratta di una differenza umana, e tu incarni, in Dio, nient’altro che la tua propria differenza, divinizzi, nell’essere primo, solo la tua propria essenza.

 - Ludwig Feuerbach (Landshut 1804 - Norimberga 1872) pubblicò L’essenza della religione nel 1846. Il testo riportato è tratto da: L. Feuerbach, L’essenza della religione, a cura di A. Marietti Solmi, Einaudi, Torino 1972, pp. 27-29, 60-62.

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M  E, Il capitale tutti sappiamo che cosa sigNiFica aNdare a Fare shoppiNg, ma… che cos’è uNa merce, e perché vale quaNto vale? marx ed engels sottolineano che viviamo in un mondo fatto di merci, in quantità immani e in qualità estremamente diverse. tutte, però, ugualmente merci: qualcosa da produrre e scambiare nel mercato. la nostra civiltà è davvero fondata sullo scambio delle merci, e da questo non siamo esclusi neppure noi personalmente, perché anche noi apparteniamo in qualche modo al mondo delle merci, dal momento che il lavoro lo è. il problema di che cosa sia una merce, e soprattutto di quale sia la ragione per cui vale quello che vale, non è stato posto per la prima volta da marx. appartiene all’economia classica, ed è già chiaro in smith, che scrive nell’ultimo quarto del settecento, tre generazioni prima di marx. la soluzione che a questi problemi dà marx è però largamente originale, ed è basata su una diversa visione del valore-lavoro. si tratta di una complessa teoria economica. ecco la sua tesi.

[Valore d’uso e valore di scambio della merce – La merce] La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una «immane raccolta di merci» e la merce singola si presenta come sua forma elementare. Perciò la nostra indagine comincia con l’analisi della merce. La merce è in primo luogo un oggetto esterno, una cosa che mediante le sue qualità soddisfa bisogni umani di un qualsiasi tipo. La natura di questi bisogni, p. es. il fatto che essi provengano dallo stomaco o che provengano dalla fantasia non cambia nulla. Qui non si tratta neppure del modo in cui la cosa soddisfa il bisogno umano: se immediatamente, come mezzo di sussistenza, cioè come oggetto di godimento o per via indiretta, come mezzo di produzione. Ogni cosa utile, come il ferro, la carta, ecc., dev’essere considerata da un duplice punto di vista, secondo la qualità e secondo la quantità. Ognuna di tali cose è un complesso di molte qualità e quindi può essere utile da diversi lati. [...]

[Il valore d’uso] L’utilità di una cosa ne fa un valore d’uso. Ma questa utilità non aleggia nell’aria. È un portato delle qualità del corpo della merce e non esiste senza

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di esso. II corpo della merce stesso, come il ferro, il grano, il diamante, ecc., è quindi un valore d’uso, ossia un bene. Questo suo carattere non dipende dal fatto che l’appropriazione delle sue qualità utili costi all’uomo molto o poco lavoro. Quando si considerano i valori d’uso si presuppone che siano determinati quantitativamente, come una dozzina di orologi, un braccio di tela di lino, una tonnellata di ferro, ecc. [...] Il valore d’uso si realizza soltanto nell’uso, ossia nel consumo. I valori d’uso costituiscono il contenuto materiale della ricchezza, qualunque sia la forma sociale di questa. Nella forma di società che noi dobbiamo considerare i valori d’uso costituiscono insieme i depositari materiali del valore di scambio.

[Il valore di scambio] Il valore di scambio si presenta in un primo momento come il rapporto quantitativo, la proporzione nella quale valori d’uso d’un tipo sono scambiati con valori d’uso di altro tipo; tale rapporto cambia continuamente coi tempi e coi luoghi. Perciò si presenta come qualcosa di casuale e puramente relativo, come un valore di scambio interno, immanente alla merce.

[La forza-lavoro come merce – La forza-lavoro è «fonte di valore»] Il cambiamento di valore del denaro che si deve trasformare in capitale non può avvenire in questo stesso denaro, poichè esso, come mezzo di acquisto e come mezzo di pagamento, non fa che realizzare il prezzo della merce che compera o paga, mentre, permanendo nella sua propria forma, s’irrigidisce in pietrificazione di grandezza di valore immutabile. Il cambiamento non può neppure scaturire dal secondo atto della circolazione, la rivendita della merce, poiché questo atto fa ritornare la merce soltanto dalla forma naturale alla forma di denaro. Dunque il cambiamento deve verificarsi nella merce che viene comprata nel primo atto, D-M, ma non nel valore di essa, poiché vengono scambiati equivalenti, cioè la merce vien pagata al suo valore. Il cambiamento può derivare dunque soltanto dal valore d’uso della merce come tale, cioè dal suo consumo. Per estrarre valore dal consumo d’una merce, il nostro possessore di denaro dovrebbe esser tanto fortunato da scoprire, all’interno della sfera della circolazione, cioè sul mercato, una merce il cui valore d’uso stesso possedesse la peculiare qualità d’esser fonte di valore; tale dunque che il suo consumo reale fosse, esso stesso, oggettivazione di lavoro, e quindi creazione di valore. E il possessore di denaro trova sul mercato tale merce specifica: è la capacità di lavoro, ossia la forza-lavoro.

[La forza-lavoro è una merce] Per forza-lavoro o capacità di lavoro intendiamo l’insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella per15 8

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sonalità vivente d’un uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che produce valori d’uso di qualsiasi genere. Tuttavia, affinché il possessore di denaro incontri sul mercato la forza-lavoro come merce debbono essere soddisfatte diverse condizioni. In sé e per sé, lo scambio delle merci non include altri rapporti di dipendenza fuori di quelli derivanti dalla sua propria natura. Se si parte da questo presupposto, la forza-lavoro come merce può apparire sul mercato soltanto in quanto e perché viene offerta o venduta come merce dal proprio possessore, dalla persona della quale essa è la forza-lavoro. Affinché il possessore della forzalavoro la venda come merce, egli deve poterne disporre, quindi essere libero proprietario della propria capacità di lavoro, della propria persona. Egli si incontra sul mercato con il possessore di denaro e i due entrano in rapporto reciproco come possessori di merci, di pari diritti, distinti solo per essere l’uno compratore, l’altro venditore, persone dunque giuridicamente eguali.

 - Karl Marx (Treviri 1818 - Londra 1883) pubblicò il Libro I del Capitale nel 1867; il Libro II e III uscirono postumi, a cura di Friedrich Engels (Barmen 1820 - Londra 1895), rispettivamente nel 1885 e nel 1894. Il testo riportato è tratto da: K. Marx, Il capitale, a cura di D. Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1964, pp. 67-70, 199-201.

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M  E, Manifesto del partito comunista c’è uNa legge dietro la storia dell’uomo che Ne spieghi il seNso e iNdichi la direzioNe del cammiNo? se ci si domanda se può esistere una società senza conflitti, la risposta marxiana per l’immediato è negativa, come lo era la risposta hegeliana. ma marx ritiene che non sarà sempre così. la ragione è nella dialettica e nella matrice che ne determina il movimento, una matrice molto diversa da quella che hegel aveva identificato. marx pensa infatti che la logica della opposizione dialettica, immanente nella società e nella storia dell’uomo fino a essere un tutt’uno con essa, dipenda dalla dinamica delle forze produttive. ritiene che questa dinamica possa essere modificata in un punto strutturale e che sarà una rivoluzione a farlo, nata dalla stessa forza vincente della borghesia industriale, una forza che crescendo fa crescere anche l’arma che la ucciderà. in nome della società senza conflitti del futuro, marx enuncia la necessità oggettiva di una violenza di classe gestita dal proletariato. ma solo come fase di passaggio.

[L’antagonismo tra borghesia e proletariato – Nella nostra epoca si sono semplificati gli antagonismi di classe] La società civile moderna, sorta dal tramonto della società feudale, non ha eliminato gli antagonismi fra le classi. Essa ha soltanto sostituito alle antiche, nuove classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta. La nostra epoca, l’epoca della borghesia, si distingue però dalle altre per aver semplificato gli antagonismi di classe. L’intera società si va scindendo sempre più in due grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente contrapposte l’una all’altra: borghesia e proletariato.

[La borghesia] La borghesia ha avuto nella storia una parte sommamente rivoluzionaria. Dove ha raggiunto il dominio, la borghesia ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliche. Ha lacerato spietatamente tutti i variopinti vincoli feudali che legavano l’uomo al suo superiore naturale, e non ha lasciato fra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, il freddo «pagamento in contanti». Ha affogato nell’acqua gelida del calcolo egoistico i sacri brividi dell’esaltazione devota, dell’entusiasmo cavalleresco, della

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malinconia filistea. Ha disciolto la dignità personale nel valore di scambio e al posto delle innumerevoli libertà patentate e onestamente conquistate, ha messo, unica, la libertà di commercio priva di scrupoli. In una parola: ha messo lo sfruttamento aperto, spudorato, diretto e arido al posto dello sfruttamento mascherato d’illusioni religiose e politiche. La borghesia ha spogliato della loro aureola tutte le attività che fino allora erano venerate e considerate con pio timore. Ha tramutato il medico, il giurista, il prete, il poeta, l’uomo della scienza, in salariati ai suoi stipendi. La borghesia ha strappato il commovente velo sentimentale al rapporto familiare e lo ha ricondotto a un puro rapporto di denaro. […] Il bisogno di uno smercio sempre più esteso per i suoi prodotti sospinge la borghesia a percorrere tutto il globo terrestre. Dappertutto deve annidarsi, dappertutto deve costruire le sue basi, dappertutto deve creare relazioni. Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato un’impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi. Ha tolto di sotto i piedi all’industria il suo terreno nazionale, con gran rammarico dei reazionari. Le antichissime industrie nazionali sono state distrutte, e ancora adesso vengono distrutte ogni giorno. […] La borghesia ha assoggettato la campagna al dominio della città. Ha creato città enormi, ha accresciuto su grande scala la cifra della popolazione urbana in confronto di quella rurale, strappando in tal modo una parte notevole della popolazione all’idiotismo della vita rurale. Come ha reso la campagna dipendente dalla città, la borghesia ha reso i paesi barbari e semibarbari dipendenti da quelli inciviliti, i popoli di contadini da quelli di borghesi, l’Oriente dall’Occidente. [...]

[La società senza classi] Il primo passo sulla strada della rivoluzione operaia consiste nel fatto che il proletariato s’eleva a classe dominante, cioè nella conquista della democrazia. Il proletariato adoprerà il suo dominio politico per strappare a poco a poco alla borghesia tutto il capitale, per accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato, cioè del proletariato organizzato come classe dominante, e per moltiplicare al più presto possibile la massa delle forze produttive. Naturalmente, ciò può avvenire, in un primo momento, solo mediante interventi despotici nel diritto di proprietà e nei rapporti borghesi di produzione, cioè per mezzo di misure che appaiono insufficienti e poco consistenti dal punto di vista dell’economia; ma che nel corso del movimento si spingono al di là dei propri limiti e sono inevitabili come mezzi per il rivolgimento dell’intero sistema di produzione. [...]

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Quando le differenze di classe saranno scomparse nel corso dell’evoluzione, e tutta la produzione sarà concentrata in mano agli individui associati, il pubblico potere perderà il suo carattere politico. In senso proprio, il potere politico è il potere di una classe organizzato per opprimerne un’altra. Il proletariato, unendosi di necessità in classe nella lotta contro la borghesia, facendosi classe dominante attraverso una rivoluzione, ed abolendo con la forza, come classe dominante, gli antichi rapporti di produzione, abolisce insieme a quei rapporti di produzione le condizioni di esistenza dell’antagonismo di classe, cioè abolisce le condizioni d’esistenza delle classi in genere, e così anche il suo proprio dominio in quanto classe. Alla vecchia società borghese con le sue classi e i suoi antagonismi fra le classi subentra una associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti.

 - Karl Marx (Treviri 1818 - Londra 1883) e Friedrich Engels (Barmen 1820 - Londra 1895) scrissero il Manifesto del partito comunista nel 1848. Il testo riportato è tratto da: K. Marx e F. Engels, Manifesto del partito comunista, a cura di E. Cantimori Mezzomonti, Laterza, Bari 1964, pp. 59-60, 62-66, 70-71, 77-81, 98-101.

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C, Corso di filosofia positiva c’è uNa legge dietro la storia dell’uomo che Ne spieghi il seNso e iNdichi la direzioNe del cammiNo? abbiamo posto la stessa domanda del titolo in apertura nel testo a p. 160, dedicato alla visione marxiana della recente storia dell’occidente, tra borghesia e proletariato. questa storia è letta negli stessi anni da comte in un’ottica molto diversa – lontanissima da hegel e vicina piuttosto alla tradizione illuminista francese – con esiti che hanno in comune una sola cosa: l’enfasi nella accentuazione della irreversibilità del processo di sviluppo dell’industria capitalistica moderna. comte riprende l’idea illuminista del progresso in una chiave nuova, legata alla convinzione che sia possibile interpretare tutta la storia umana alla luce di una nuova scienza, la sociologia, e di un nuovo metodo, definito nel contesto di una concezione filosofica che comte stesso chiamò “positivismo”.

Legge storica fondamentale: la legge dei tre stadi Per esprimere convenientemente la vera natura e il carattere proprio della filosofia positiva, è indispensabile dare uno sguardo generale sul cammino progressivo dello spirito umano, colto nel suo insieme; una concezione qualsiasi non può in effetti essere ben valutata che attraverso l’esame della sua storia. Così analizzando lo svolgimento dell’intelligenza umana nelle sue diverse sfere d’attività, dal suo primitivo moto ai nostri giorni, credo d’aver scoperto una grande legge fondamentale, alla quale l’intelligenza è soggetta in virtù d’un’invariabile necessità, e che mi sembra poter essere solidamente stabilita sia attraverso prove razionali, fornite dalla conoscenza della nostra organizzazione e sia attraverso attente verifiche storiche risultanti dall’esame del passato. Questa legge consiste nel fatto che ogni nostra fondamentale concezione, e che ogni settore delle nostre conoscenze, passano successivamente attraverso tre diversi stadi teorici: lo stadio teologico o fittizio; lo stadio metafisico o astratto; e lo stadio scientifico o positivo. [...] Nello stadio teologico, lo spirito umano, mirando essenzialmente, mediante le ricerche, allo scoprimento dell’intima natura degli esseri, delle cause prime e ultime dei fenomeni che lo colpiscono, in una parola alle conoscenze assolute, si rappresenta i fenomeni come prodotti dall’azione diretta e continua di agenti soprannaturali, più o meno numerosi, il cui intervento arbitrario spiega le apparenti anomalie dell’universo. romanticismo, idealismo, materialismo, positivismo

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Nello stadio metafisico, che nella sua sostanza è una modificazione del primo, gli agenti soprannaturali sono sostituiti da forze astratte, vere entità (= astrazioni personificate) inerenti ai diversi esseri del mondo, e concepite come capaci di produrre tutti i fenomeni che cadono sotto la nostra osservazione, la cui spiegazione consiste allora nell’assegnare a ciascuno l’entità corrispondente. Infine, nello stadio positivo, lo spirito umano, riconoscendo l’impossibilità di avere delle nozioni assolute, rinuncia ad indagare sull’origine e sul destino dell’universo, e a conoscere le intime cause dei fenomeni, per tentare di scoprire unicamente, mediante l’uso ben combinato della ragione e dell’esperienza, le loro leggi effettive, ossia le loro relazioni invariabili di somiglianza e di successione. La spiegazione dei fatti, ridotta allora in termini reali, altro non è che il legame stabilito tra i diversi fenomeni particolari e qualche fatto generale, il cui numero tende via via a diminuire in seguito al progresso della scienza. Il sistema teologico ha toccato la più alta perfezione, di cui era suscettibile, quando ha sostituito l’azione provvidenziale di un unico essere al gioco delle numerose divinità indipendenti, che erano state immaginate in principio. Allo stesso modo l’ultima fase del sistema metafisico consiste nel concepire, al posto delle differenti entità particolari, una sola grande entità generale, la «natura» considerata come l’unico fondamento di tutti i fenomeni. Analogamente, la perfezione del sistema positivo, verso il quale la filosofia tende costantemente pur senza pretesa di mai raggiungerlo, consiste nella possibilità di rappresentare tutti i fenomeni osservati come casi particolari di un solo fatto generale, come ad esempio la gravitazione generale.

Motivi generali che confermano l’esattezza della legge fondamentale Di questa legge fondamentale mi limito a dare una rapida indicazione dei motivi generali più appariscenti che possono offrire una conferma della sua esattezza. Anzitutto mi sembra sufficiente enunciare una tale legge, perché la sua esattezza possa essere immediatamente verificata da ognuno che possegga una qualche conoscenza approfondita della storia generale delle scienze. Inoltre, questa generale rivoluzione dello spirito umano può essere agevolmente riscontrata, al giorno d’oggi, in maniera molto evidente anche se per via indiretta, considerando lo svolgimento dell’intelligenza individuale. Tuttavia, oltre all’osservazione diretta generale o individuale, che comprova l’esattezza di tale legge, devo soprattutto, in questa indicazione sommaria, sottolineare le considerazioni teoriche che ne palesano la necessità. La più importante di queste considerazioni, attinte dalla natura stessa del soggetto, consiste nel bisogno, sentito in ogni epoca, d’una qualunque teoria capace di collegare i fatti, e al tempo stesso nell’evidente impossibilità, per lo 16 4

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spirito umano alle sue origini, di formulare una qualsiasi teoria dopo le osservazioni. Alla medesima convinzione si giunge considerando dal punto di vista pratico la natura delle ricerche che occupano originariamente lo spirito umano. Da questo punto di vista, esse offrono all’uomo la forte attrattiva di un dominio illimitato da esercitare sul mondo esterno, concepito come interamente destinato al nostro uso e come costituito, in tutti i suoi fenomeni, da una serie di relazioni intime e continue con la nostra esistenza. Ora, tutte queste chimeriche speranze, tutte queste esagerazioni sulla importanza dell’uomo nell’universo, che danno origine alla filosofia teologica e che distruggono sul nascere ogni possibilità di filosofia positiva, sono, all’origine, uno stimolo indispensabile, senza il quale lo spirito non si sarebbe inutilmente sottoposto a lavori penosi. Da questo insieme di considerazioni si vede che la filosofia positiva è lo stadio vero e definitivo dell’intelligenza umana, quello verso cui essa si è andata via via avvicinando; non ha potuto per questo fare a meno di impiegare da principio e per tanti secoli, sia come metodo, sia come dottrina provvisoria, la filosofia teologica: una filosofia il cui carattere è d’essere spontanea, e che perciò agli inizi si presenta come la sola possibile e capace di suscitare un qualche interesse nel nostro spirito all’età della sua infanzia. È ora facile capire che per passare da questa filosofia provvisoria alla filosofia definitiva, lo spirito umano ha dovuto naturalmente adottare, come filosofia di transizione, i metodi e le dottrine metafisiche. Quest’ultima considerazione è necessaria per completare l’orizzonte generale della grande legge che abbiamo indicato.

 - Auguste Comte (Montpellier 1798 - Parigi 1857) pubblicò il primo dei sei volumi del Corso di filosofia positiva nel 1830; i successivi cinque volumi furono pubblicati tra il 1835 e il 1842. Il testo riportato è tratto da: A. Comte, Corso di filosofia positiva, a cura di A. Lunardon, La Scuola, Brescia 1974, pp. 47 ss.

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S, Lo studio della sociologia coNcepire la società umaNa come uN orgaNismo viveNte, dà dei vaNtaggi o è uNa astr azioNe vuota? per intendere la posizione di spencer sui temi sociali, e la sua risposta alle domande che abbiamo posto nel titolo, vanno ricordate due cose: – innanzitutto il fatto che spencer elabora la sua filosofia dell’evoluzione qualche decennio dopo la prima proposta di comte sulla classificazione delle scienze, e opera in un contesto culturale in cui è dominante l’idea che le scienze formino una unità in qualche modo integrabile, se non integrata, e che vi possano essere feconde osmosi tra esse (l’esperienza di darwin, del resto, lo conferma); – in secondo luogo il fatto che spencer intende elaborare concetti che descrivano i fenomeni e li interpretino, tenendo ben presente che la struttura profonda del reale rimane, secondo la sua espressine, “inconoscibile”. che la società sia un organismo vivente e una nozione biologica sia applicata alla scienza sociale non è quindi una semplice metafora, ma un elaborato concetto costruito al fine di interpretare dei dati, mutuandolo da altre scienze.

La società come organismo biologico in evoluzione Le scienze sono collegate in due modi distinti ed ugualmente importanti. In primo luogo, essendo tutte le azioni sociali determinate dalle azioni degli individui, e tutte le azioni degli individui essendo azioni vitali che si uniformano alle leggi della vita in generale, l’interpretazione razionale delle azioni sociali implica la cognizione delle leggi della vita. In secondo luogo, la società considerata nel suo insieme e indipendentemente dalle sue unità viventi, presenta dei fenomeni di accrescimento, struttura e funzione, analoghi a quelli che presenta un animale; questi ultimi sono la chiave indispensabile per comprendere i primi. Cominceremo dall’esaminare questa connessione che risulta dall’analogia. Le figure del discorso che spesso ingannano facendo supporre una identità completa ove esiste soltanto leggera somiglianza, ingannano anche facendo sembrare una mera fantasia quello che realmente è correlazione. Una metafora quando viene adoperata ad indicare una somiglianza reale suscita il sospetto che la somiglianza sia soltanto immaginaria, e così offusca la percezione della relazione intrinseca. Così accade per le espressioni «corpo politico», «organizzazione politica», ed altre che tacitamente rassomigliano una società ad una creatura vivente [...]. Eppure in questo caso le metafore sono più che metafore nel senso ordinario della parola. [...]

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Quello che inizia e dirige ogni genere di organizzazione è la reciproca dipendenza delle parti. Finché, in una massa di materia vivente, tutte le parti sono uguali e tutte vivono e crescono senza l’aiuto l’una dell’altra, non v’è organizzazione: l’aggregato di protoplasma, caratterizzato da questa mancanza di differenziazione, appartiene al grado più basso degli esseri viventi. Privo di facoltà distinte, è capace soltanto di debolissimi movimenti; non può adattarsi alle circostanze, ed è in balia delle azioni distruttrici che lo circondano. I mutamenti che trasformano questa massa in un organismo dotato di struttura, sono tali che le sue parti perdono la loro somiglianza originale, ed acquistano quelle attività variate alle quali le rende adatte la loro posizione rispettiva. Queste diversità di funzione, e le diversità di struttura che ne conseguono, sono sul principio appena distinte, e poche in specie, ma divengono, a misura che progredisce l’organizzazione, definite e numerose, ed in proporzione corrispondono meglio allo scopo a cui sono destinate. Con lo stesso linguaggio si possono esprimere quelle caratteristiche di struttura che distinguono le società più basse da quelle più elevate, e distinguono altresì gli stadi primitivi di ogni società da quelli più avanzati. Nelle tribù primitive i contrasti tra le parti non sono stabili, costanti. Sul principio gli uomini si dedicano allo stesso genere di attività, senza dipendere l’uno dall’altro; o la dipendenza è tutta occasionale. Non è neppure stabilita la supremazia del capo; e solo in tempo di guerra nasce spontanea e provvisoria la subordinazione a quelli che si mostrano più degni. Il progresso trasforma questi piccoli aggregati sociali, privi di coesione, in aggregati sociali più grandi, dei quali le parti acquistano delle disuguaglianze che divengono sempre maggiori, più definite e più numerose. A misura che la società si sviluppa, le sue unità si dispongono in diversi ordini di attività, determinati dalle diversità delle loro condizioni locali o delle loro facoltà individuali; lentamente ne risultano delle strutture sociali permanenti; le primarie si determinano mentre vengono complicate dalle secondarie, che a loro volta si determinano, e così di seguito. Anche se ciò fosse tutto, l’analogia avrebbe molto significato; ma vi è ben altro. Queste due metamorfosi hanno una causa comune. [...] Una parte dell’organismo vivente non può dedicarsi esclusivamente a compiere la funzione della respirazione, cessando di procurarsi il nutrimento che le abbisogna, se altre porzioni esclusivamente occupate ad assorbire il nutrimento non lo procurano anche a lei. Vale a dire, che occorre uno scambio di servizi. In un individuo l’organizzazione non è possibile se il tutto non dipende da ogni parte ed ogni parte dal tutto. Questo è vero ugualmente per l’organizzazione sociale. Un membro di una società primitiva non può consacrarsi tutto ad un’attività la quale soddisfi uno soltanto dei suoi bisogni personali, trascurando quelle attività richieste dagli altri suoi bisogni, se coloro i quali godono dell’eccedente della

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sua attività speciale, non gli porgono in contraccambio i benefizi delle loro. Se fabbrica le armi invece di seguitare ad occuparsi della caccia, bisognerà che gli sia data una parte del prodotto di questa, a condizione che egli dal canto suo provveda le armi ai cacciatori. Se diviene coltivatore del suolo, e cessa di pensare alla propria difesa, bisogna bene che pensino a tutelarlo quelli che son divenuti difensori speciali. Insomma la reciproca dipendenza delle parti è necessaria tanto all’organizzazione sociale che a quella individuale. È chiaro dunque che in questo caso non si tratta di una somiglianza immaginaria, ma di un parallelismo fondamentale; più l’osserviamo e più ci appare stretto. Che significa la reciproca dipendenza, lo scambio di servizi? Implica qualche sistema di comunicazione tra le parti. Quelle che sono chiamate a compiere delle funzioni a beneficio d’altre, devono aver modo di trasmettersi l’una all’altra il prodotto delle loro rispettive funzioni o (quando non si tratti di prodotti materiali) di porgersi l’una all’altra il sussidio che proviene dal compimento delle funzioni stesse. Ed è ovvio che più diventa elevata l’organizzazione, e più devono farsi complicati i mezzi di comunicazione e di trasmissione. Questo si verifica in entrambi i casi. […] È chiaro che non si può giungere a comprendere razionalmente le verità della sociologia se prima non abbiamo comprese razionalmente quelle della biologia. Le due scienze si rendono in realtà dei servizi reciproci.

 - Herbert Spencer (Derby 1820 - Brighton 1903) pubblicò Lo studio della sociologia nel 1873. Il testo riportato è tratto da: H. Spencer, Lo studio della sociologia, in Antologia degli scritti, a cura di M. Toscano, Il Mulino, Bologna 1982, pp. 52 ss.

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Capitolo

8 Le filosofie antirazionalistiche Contrapponendosi alla tesi della razionalità del reale, le filosofie antirazionalistiche, presenti nel corso di tutto il pensiero ottocentesco, sostengono che il mondo è retto da forze inconsce e irrazionali e che, conseguentemente, tutta la realtà, sia quella naturale sia quella umana, è priva di senso. Ne conseguono sia una visione nichilistica del mondo sia una concezione radicalmente pessimistica della condizione esistenziale dell’uomo, condannato alla disperazione, all’angoscia e alla noia. Le vie per sfuggire all’insensatezza e al male di vivere sono individuate o nell’ascetica rinuncia alla dipendenza dalla volontà (Schopenhauer) o nell’affidarsi al paradosso della fede (Kierkegaard) o nella profezia di un oltrepassamento dell’uomo, conseguente al crollo di tutti i valori e all’affermarsi della volontà di potenza (Nietzsche).

S, Il mondo come volontà e rappresentazione Quella umana non è l’unica specie soggetta alla Forza dell’amore; ma gli uomini s’innamor ano: che cosa accade dunQue dav vero Quando ci si innamor a? schopenhauer riconosce nell’amore un principio di vita ma, considerando la vita individuale pura illusione (nel senso tecnico di realtà immaginata e priva di realtà nella forma in cui appare), considera l’amore nel suo aspetto sessuale (cioè nella sua base biologica) come puramente illusorio. come un vero inganno che la natura (cioè la volontà) tende all’uomo. il tema è espresso in forme coerenti con la filosofia schopenhaueriana: è trattato in termini originali e, per alcuni versi, sorprendenti; tuttavia, che nell’amore vi sia un elemento illusorio legato all’inganno è tema ricorrente nella storia della filosofia, già presente in platone e quindi in contesti filosofici diversi, ma sulla base di esperienze comuni.

Ogni innamoramento infatti, per quanto etereo possa apparire, è radicato esclusivamente nell’istinto sessuale, anzi non è nient’altro che istinto sessuale più determinato, più specializzato, meglio individuato, nel senso più rigoroso del termine. […] L’impulso che, nella coscienza individuale, si manifesta come istinto sessuale in generale e non si indirizza verso un determinato individuo dell’altro sesso, tale impulso è, in se stesso e fuori dal fenomeno, la semplice volontà di vivere. [...] È infatti la generazione futura, in tutta la sua determinatezza e individualità che, attraverso quel gran daffare, si fa strada verso la vita. Anzi, tale generazione è già attiva nella scelta accorta, decisa e caparbia dell’oggetto capace di soddisfare l’impulso sessuale, scelta che chiamiamo amore. L’attrazione crescente dei due innamorati è già, di fatto, la volontà di vivere del nuovo individuo, che essi possono e vogliono generare; anzi, già nell’incontrarsi dei loro sguardi pieni di desiderio, si accende la nuova vita di quell’essere, e si annuncia come promessa di un’individualità armonica e ben organizzata. Essi aspirano a unirsi e a fondersi in un unico essere, nel quale soltanto continuare poi a vivere: questa aspirazione viene realizzata con il figlio che essi generano, poiché in lui continuano a vivere, fuse e unite in un unico essere,

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le qualità ereditarie di entrambi. [...] Ora, quanto più perfetta sarà la corrispondenza reciproca tra due individui, da tutti gli svariati punti di vista che più avanti prenderemo in considerazione, tanto più forte sarà la passione che essi proveranno l’uno per l’altro. Giacché non esistono due esseri assolutamente uguali, ci sarà un solo uomo – sempre dal punto di vista del figlio che deve nascere – che corrisponderà perfettamente ad una determinata donna. L’amore veramente appassionato è altrettanto raro, quanto l’eventualità del loro incontro. Ma, in ognuno di noi c’è la possibilità di un simile amore: per questo la sua rappresentazione nelle opere poetiche ci è comprensibile. Proprio perché la passione amorosa ha, di fatto, come fine e come essenza, il figlio che verrà generato e le sue qualità, tra due giovani di buona cultura e di sesso diverso può esserci amicizia, in virtù delle affinità di sentimento, di carattere e di spiritualità, senza che però si mescoli l’amore sessuale: anzi, da questo punto di vista, tra loro può esserci perfino una certa avversione. Il motivo è che un figlio, da loro generato, avrebbe qualità fisiche e psichiche disarmoniche, per farla breve, la sua esistenza e la sua costituzione non corrisponderebbero agli scopi della volontà di vivere, come essa si presenta nella specie. Nel caso opposto, quando abbiamo eterogeneità di sentimenti, di carattere e di spiritualità, nonché l’avversione, anzi l’ostilità che ne deriva, l’amore sessuale può tuttavia nascere e sussistere, laddove esso rende ciechi su tutto il resto: ma un matrimonio su queste basi sarà molto infelice. […] È negli animali che noi possiamo osservare meglio le manifestazioni esteriori dell’istinto, poiché è in essi che quest’ultimo ha il ruolo più rilevante: ma il suo procedere interiore, come tutto ciò che è interiore, possiamo conoscerlo solo in noi stessi. Quantunque si ritenga che l’uomo sia quasi completamente privo di istinti, ad eccezione di quello del neonato, che cerca e afferra il seno materno, noi in realtà siamo dotati di un istinto, che è ben definito, molto netto e perfino assai complicato: è la scelta dell’individuo, con il quale soddisfare il nostro bisogno sessuale, una scelta molto accurata, seria e caparbia. […] Qui l’individuo è dunque realmente guidato da un istinto, istinto che lavora nell’interesse della specie, mentre l’uomo, per parte sua, crede di ricercare unicamente il supremo piacere personale. Abbiamo così una spiegazione molto istruttiva dell’intima essenza di ogni istinto, il quale, come accade qui, fa quasi sempre agire l’individuo nell’interesse della specie. È infatti evidente che la cura, con la quale un insetto va alla ricerca di un determinato fiore, o frutto, o letame, o carne, oppure, come gli icneumoni, di una larva di un altro insetto, per deporre soltanto lì le sue uova, senza scansare a tal fine né fatica né pericolo, è profondamente analoga alla cura, con la quale un uomo, per soddisfare il suo bisogno sessuale, sceglie attentamente una determinata donna, le cui caratteristiche sono da lui apprezza-

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te dal punto di vista individuale, e cerca con tanto ardore di possederla, da perdere per lei la ragione [...]. L’istinto infatti agisce ovunque come se fosse guidato da un concetto di fine, mentre in realtà non lo è affatto. […]. Qui, come in ogni istinto, la verità assume dunque la forma dell’illusione, per agire sulla volontà. È un’illusione di voluttà che inganna l’uomo, facendogli credere che troverà tra le braccia di una donna, dalla bellezza corrispondente ai suoi ideali, un piacere più grande, che non in quelle di una qualsiasi altra; ed è la stessa illusione che, indirizzata esclusivamente su un’unica donna, lo convince fermamente che il possederla gli procurerebbe un’immensa felicità. Pertanto, egli crede di darsi da fare e di sacrificarsi per il proprio piacere, mentre in realtà tutto accade esclusivamente al fine di conservare il tipo normale della specie, o per dare la vita ad un ben determinato individuo, che può nascere soltanto da questi genitori. […] Stando così le cose, ogni innamorato, dopo aver finalmente ottenuto il piacere, proverà una strana delusione e si stupirà, perché ciò che ha desiderato con tanto ardore non gli offre niente di più che una qualsiasi altra soddisfazione dell’istinto sessuale [...]. Ogni innamorato si ritrova dunque ingannato, dopo che ha finalmente portato a termine la grande opera.

 - Arthur Schopenhauer (Danzica 1788 - Francoforte sul Meno 1860) pubblicò Il mondo come volontà e rappresentazione nel 1819. Il testo riportato è tratto da: A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione. Supplementi, a cura di A. Vigliani, Mondadori, Milano 1995, pp. 1432 ss.

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S, Il mondo come volontà e rappresentazione vanità delle vanità: la vita stessa è Forse vanità? la vita è vanità al massimo grado, secondo schopenhauer, perché così come la conosciamo non è reale: non c’è affatto una vita individuale, non è reale la nostra vita, perché non è reale il nostro io. e tuttavia è una illusione che dà noia e dolore, e una felicità a volte intensa, a volte molto intensa, abbastanza da costringerci a cercarla, ma del tutto passeggera. il mondo non può trarre da se stesso la propria ragione. la vita ancora meno. ma attenzione: stiamo parlando della vita individuale. se invece si parla della vita della volontà, va ricordato che la volontà consiste nel voler vivere. è l’unica realtà che esiste, l’unica forza a cui possiamo dare il nome di realtà. è quindi la vita in quanto mia a essere illusione, non la vita in sé. l’illusione non consiste nel fatto di sentirmi vivere, ma nel pensare che a vivere sia davvero io. a vivere è la vita stessa e ha un nome: volontà. per questo non si può uccidere la vita e la morte è tanto illusoria quanto l’individualità. mai temerla, mai desiderarla. non esiste: cosa desidereremmo?

Il mondo è un problema irrisolvibile Se la vita, in se stessa, fosse un bene prezioso e incontestabilmente preferibile al non essere, non sarebbe necessario che la porta d’uscita fosse presidiata da guardiani tanto terribili, come la morte con i suoi terrori. Ma chi resisterebbe nella vita, così come essa è, se la morte fosse meno spaventosa? E chi potrebbe anche solo sopportare il pensiero della morte, se la vita fosse una gioia? Poiché invece le cose stanno così, la morte ha almeno questo di buono, di essere la fine della vita, e noi ci consoliamo dei dolori della vita con la morte e della morte con i dolori della vita. La verità è che le due cose si appartengono reciprocamente, costituendo esse un errore, dal quale è tanto difficile, quanto auspicabile liberarsi. Se il mondo non fosse qualcosa che, dal punto di vista pratico, non dovrebbe esistere, allora esso non sarebbe un problema nemmeno in teoria: e questo o perché la sua esistenza non avrebbe bisogno di spiegazioni, in quanto talmente ovvia, che a nessuno verrebbe in mente di stupirsene o di domandarsene il perché, oppure perché lo scopo di tale esistenza sarebbe palese. Ma le cose non stanno così: il mondo è addirittura un problema irrisolvibile, in quanto perfino la filosofia più perfetta conterrà sempre un le filosofie antirazionalistiche

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elemento inspiegato, simile a un precipitato insolubile, o al resto lasciato dal rapporto irrazionale di due grandezze. Perciò, se qualcuno prova a domandare perché non esiste nulla piuttosto che questo mondo, il mondo non può trarre da se stesso la propria giustificazione, né trovare in sé una ragione, una causa finale della propria esistenza, né dimostrare che esiste per causa propria, ossia per il proprio bene. La mia teoria, invece, riesce a spiegare tutto questo, mostrando che il principio dell’esistenza del mondo è espressamente privo di fondamento: è infatti cieca volontà di vivere che, come cosa in sé, non può essere sottomessa al principio di ragion sufficiente, il quale è la mera forma dei fenomeni e attraverso il quale soltanto ogni perché è autorizzato. E questo si accorda anche con le caratteristiche del mondo, poiché solo una volontà cieca, non una volontà dotata di vista, poteva mettersi nella condizione, nella quale noi ci ritroviamo. Una volontà dotata di vista, invece, non ci avrebbe messo molto a calcolare che l’affare non copre le spese, in quanto tanti sforzi e tante lotte, con l’impiego di tante forze, in una situazione di preoccupazione, di angoscia e di bisogno costanti e nella prospettiva dell’inevitabile distruzione di ogni vita individuale non trovano alcun risarcimento nell’esistenza conquistata a tale prezzo, un’esistenza effimera e destinata ad annientarsi nelle nostre mani. Proprio per questo la spiegazione del mondo sulla base del Noús di Anassagora, ossia di una volontà guidata dalla conoscenza, esige necessariamente l’ottimismo per essere giustificata, ottimismo che viene così sostenuto e difeso, nonostante la testimonianza stridente di un mondo pieno di miseria.

Della vanità e dei dolori della vita Uscita dalla notte dell’incoscienza per aprirsi alla vita, la volontà si ritrova, come individuo, in un mondo senza fine e senza confini, tra innumerevoli individui, tutti pieni di aspirazioni, di sofferenze e di errori, e, come se stesse attraversando un brutto sogno, cerca di ritornare in fretta all’antica incoscienza. Ma, finché non giunge a destinazione, i suoi desideri sono senza confini, le sue pretese inesauribili, e ogni desiderio soddisfatto ne genera uno nuovo. Nessuna soddisfazione al mondo basterebbe a tacitare il suo desiderio, a porre un termine definitivo alla sua brama e a colmare l’abisso senza fondo del suo cuore. Si consideri poi che cosa, di regola, l’uomo ricava da questo genere di soddisfazione: non è normalmente niente di più che la mera conservazione di questa stessa esistenza, ottenuta giorno per giorno nella lotta contro il bisogno, al prezzo di incessanti fatiche, di continue preoccupazioni e con la prospettiva della morte. Tutto nella vita rivela che la felicità terrena è destinata ad essere annientata o ad essere riconosciuta come un’illusione. [...] La vita si presenta come un eterno inganno [...]. Quando promette, non mantiene la promessa, se non per mostrare com’era poco desiderabile ciò che si era desiderato: siamo dunque sempre ingannati, ora dalla speranza ora da ciò che si era sperato. Quando dà, lo fa solo 174

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per prendere. La magia della lontananza ci mostra paradisi, che spariscono come illusioni ottiche, dopo che ci siamo lasciati ingannare. Perciò la felicità è sempre nel futuro, oppure nel passato, mentre il presente è come una piccola nuvola scura, che il vento spinge sulla pianura soleggiata: davanti e dietro tutto è chiaro, solo quella nuvola getta sempre un’ombra. Il presente quindi non soddisfa mai, mentre il futuro è incerto e il passato è irrevocabile. La vita, con le sue piccole, grandi e grandissime avversità di ogni ora, di ogni giorno, di ogni settimana e di ogni anno, con le sue speranze deluse e con i suoi imprevisti che rendono vano qualsiasi calcolo, porta così chiaramente impresso su di sé il marchio di un qualcosa destinato a rovinarci, che è difficile capire come abbiamo potuto lasciarci ingannare e persuadere che essa ci è stata data, affinché la godiamo con gratitudine, e che l’uomo esiste per essere felice. Quelle continue illusioni e delusioni, come anche le caratteristiche generali della vita, si presentano piuttosto come se fossero state pensate e calcolate per convincerci che nulla è degno dei nostri sforzi, del nostro lavoro e delle nostre lotte, che tutti i beni sono vani, che il mondo fa dappertutto bancarotta e che la vita è un affare che non copre le spese: tutto ciò al fine di distogliere da essa la volontà.

 - Arthur Schopenhauer (Danzica 1788 - Francoforte sul Meno 1860) pubblicò Il mondo come volontà e rappresentazione nel 1819. Il testo riportato è tratto da: A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione. Supplementi, a cura di A. Vigliani, Mondadori, Milano 1995, pp. 1486 ss.

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K, Enten-Eller che sensazione si prova a correre r apido sopr a un abisso? le forme della vita vanno vissute. parlarne non è cosa vana, perché qualcosa se ne capisce, ma la vita è un’altra cosa. bisogna vivere la vita estetica descritta da mozart e interpretata filosoficamente da Kierkegaard per sapere davvero di che vita si tratta. l’esperienza e la vita non sono concetti, benché possano essere espressi in concetti. Qual è allora il ruolo dell’arte? rappresentare esperienza e vita, darne una rappresentazione efficace, perché l’arte permette, su un piano parallelo d’esistenza, di vivere forme della vita che nella vita reale non ci sono proprie. la leggerezza estetica non è di tutti.

L’apparizione del Don Giovanni nell’ouverture di Mozart [...] l’ouverture del Don Giovanni, da sempre ammirata, è e resta un perfetto capolavoro, così che, se non si potesse addurre alcun’altra prova della classicità del Don Giovanni, sarebbe sufficiente far valere questa soltanto: come sia inconcepibile che colui che possiede il centro non sia in possesso anche del periferico. Questa ouverture non è una mescolanza di temi, non è un labirintico intrecciarsi di associazioni di idee, essa è concisa, precisa, saldamente costruita e, soprattutto, è pervasa dall’essenza di tutta l’opera. Essa è vigorosa come il pensiero di un Dio, tempestosa come la vita di un mondo, commovente nella sua gravità, vibrante nel suo piacere, schiacciante nella sua terribile collera, entusiasmante nella sua gioia di vivere; essa è cupa nel suo giudizio di condanna, urlante nel suo desiderio, essa è maestosamente lenta nella sua imponente dignità, essa è mossa, ondeggiante, danzante nella sua estasi. E questo non l’ha ottenuto succhiando il sangue dell’opera, anzi in rapporto ad essa, è una profezia. Nell’ouverture la musica dispiega tutta la sua estensione, con un paio di poderosi colpi d’ala s’innalza, per così dire, al di sopra di se stessa, s’innalza oltre il luogo nel quale si stabilirà. Essa è una lotta, una lotta nelle regioni supreme dell’aria. Chi, dopo essersi fatto una cognizione più precisa dell’opera, ascolta l’ouverture, allora forse avrà l’impressione di inoltrarsi fin nel laboratorio segreto dove le potenze, di cui ha fatto conoscenza nell’opera, si agitano nella loro forza primigenia, dove esse con tutta violenza cozzano l’una contro l’altra. Tuttavia, la lotta è troppo impari; una delle potenze è vincitrice già

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prima della battaglia, anzi essa fugge ed evade, ma questa fuga è proprio la sua passione, la sua bruciante inquietudine nella sua breve gioia di vivere, il polso batte rapido nel suo ardore appassionato. Così mette in movimento l’altra potenza e la trascina con sé. Questa, che in un primo momento si mostrava tanto imperturbabilmente sicura da esser quasi immobile, adesso non si trattiene più e ben presto il movimento è così rapido, che sembra un’autentica lotta. Esporre questo più dettagliatamente non è possibile; qui bisogna ascoltare la musica, poiché il conflitto non è una schermaglia di parole, ma un infuriare di forze elementari. [...] L’ouverture perciò, mentre sotto un certo aspetto è autonoma, sotto un altro aspetto è da considerare come uno slancio verso l’opera. È quel che già in precedenza ho cercato di far notare, richiamando su ciò la memoria del lettore, quando una delle potenze, in un progressivo decrescere, si approssima all’inizio del brano. La stessa cosa si manifesta quando si osserva l’altra potenza: essa infatti aumenta in progressione crescente, inizia nell’ouverture, cresce ed aumenta. Particolarmente degno di ammirazione è il modo in cui è espresso questo suo cominciare. Lo si sente così debolmente, così misteriosamente accennato, lo si sente, ma poi rapidamente scompare, così si ha proprio l’impressione di aver udito e però non udito qualcosa. Ci vuole un orecchio attento, un orecchio erotico, quando per la prima volta nell’ouverture si avverte un cenno di questo gioco leggero del desiderio, che più avanti si offrirà così riccamente in tutta la sua prodiga sovrabbondanza. Io non sono in grado di indicare esattamente dove sia questo punto, poiché non sono esperto di musica, ma scrivo solo per gli innamorati, ed essi mi capiranno di sicuro, qualcuno di loro meglio di quanto io comprenda me stesso. Io sono tuttavia soddisfatto della sorte che mi è stata assegnata, di questo enigmatico innamoramento; e sebbene, per altro verso, ringrazi gli dèi di essere nato uomo e non donna, pure la musica di Mozart mi ha insegnato che è bello e confortante e magnifico amare come una donna. Non sono affatto amico del parlare per immagini: la recente letteratura me ne ha fatto totalmente passare la voglia, da essere quasi arrivato al punto che, ogni qualvolta m’imbatto in un’immagine, mi assale un involontario timore che il suo vero scopo possa essere di nascondere un’oscurità di pensieri. Non mi avventurerò quindi nel tentativo dissennato o infruttuoso di tradurre la vigorosa e concisa brevità dell’ouverture in un prolisso e insignificante linguaggio figurato; solo un punto dell’ouverture voglio sottolineare e per attirarvi l’attenzione del lettore mi servirò di un’immagine, che è l’unico mezzo che io ho per mettermi in comunicazione con lui. Questo punto è, naturalmente, null’altro che il primo affiorare del Don Giovanni, il primo presentimento di lui, di quella potenza con cui più tardi irromperà. [...] Così nella natura si vede a volte l’orizzonte fosco, coperto di nubi; troppo pesante per sostenersi, si posa sulla terra e avvolge ogni cosa nella sua oscu-

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ra notte; si sente qualche suono sordo, non però in movimento, piuttosto come un brontolio profondo fra sé e sé – allora al confine estremo del cielo, lontano nell’orizzonte, si vede un improvviso bagliore; esso corre veloce rasente la terra e nello stesso istante scompare, – ma subito lampeggia di nuovo, cresce d’intensità e illumina per un momento tutto il cielo con la sua fia mma; un istante dopo l’orizzonte appare ancora più buio, ma più veloce, ancora più infuocato esso fiammeggia di nuovo, ed è come se l’oscurità stessa perdesse la sua quiete e si mettesse in movimento. Come l’occhio qui, in questo primo bagliore, presagisce l’incendio, così l’orecchio presagisce, in quel colpo d’archetto che va morendo, l’intera passione. C’è un’angoscia in quel bagliore, è come se esso fosse nato in angoscia dalle tenebre profonde, – così è la vita di Don Giovanni. C’è un’angoscia in lui, ma quest’angoscia è la sua energia. Essa non è in lui un’angoscia soggettivamente riflessa, è un’angoscia sostanziale. Nell’ouverture non si ha, come comunemente si dice senza sapere quel che si dice, disperazione; la vita di Don Giovanni non è disperazione, essa è piuttosto tutta la potenza della sensualità che nasce nell’angoscia, e Don Giovanni stesso è quest’angoscia, ma questa angoscia è proprio il demoniaco desiderio di vivere. Dopo che Mozart ha così fatto nascere il Don Giovanni, la sua vita si dispiega ora dinanzi a noi nelle note danzanti dei violini, nelle quali egli, leggero, corre rapido sopra l’abisso. Come quando si lancia un sasso in modo che sfiori la superficie dell’acqua, esso per qualche tempo può rimbalzarvi sopra leggermente, mentre, appena esso cessa di saltellare, all’istante sprofonda nell’abisso, così egli danza sopra l’abisso, esultante nel suo breve attimo.

 - Søren Kierkegaard (Copenhagen 1813-1855) pubblicò Enten-Eller (tradotto in italiano con Aut-aut) nel 1843. Il testo riportato è tratto da: S. Kierkegaard, Enten-Eller, 5 voll., a cura di A. Cortese, Adelphi, Milano 1978, vol. I, pp. 122-126.

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Kierkegaard, La malattia mortale come va ricercato il senso della Fede in dio? nell’opera intitolata La malattia mortale. Saggio psicologico-cristiano per edificazione e risveglio Kierkegaard prende in esame il fenomeno della disperazione in quanto costitutiva dell’esistenza umana. vista in rapporto con l’esperienza della fede, essa si presenta come peccato. al fondo della coscienza della disperazione l’uomo – sintesi di finito e infinito – si trova di fronte a dio e prova lo scandalo o di non voler essere se stesso o di voler essere se stesso.

Dal fatto che c’è la differenza infinita di qualità fra Dio e l’uomo, nasce la possibilità dello scandalo che non può essere eliminata. Per amore Dio diventa uomo, dicendo: Vedi che cosa vuol dire essere uomo! – ma, Egli aggiunge, guarda bene, perché io sono nello stesso tempo Dio — beato chi non si scandalizza di me! – Egli, come uomo, assume la forma di un povero servo; Egli esprime ciò che è; essere un pover’uomo e con ciò nessun uomo deve credersi escluso né pensare che sia la considerazione umana e la considerazione fra gli uomini che porta qualcuno più vicino a Dio. No, egli è l’uomo povero. Guarda qua, egli dice; accerta che cosa vuol dire essere uomo perché io sono nello stesso tempo Dio – beato chi non si scandalizza in me! Oppure viceversa: “Il Padre ed io siamo una cosa sola” (Gv. 16, 30); eppure io sono questo singolo pover’uomo, bisognoso, abbandonato, lasciato in balìa agli uomini – beato chi non si scandalizza di me. Io, questo pover’uomo, sono colui che fa udire i sordi, vedere i ciechi, camminare gli zoppi, che monda i lebbrosi e fa risorgere i morti – beato chi non si scandalizza di me (Mt. 11, 6). […] Infatti, chi non si scandalizza adora credendo. Ma l’adorazione, ch’è l’espressione della fede, esprime quell’abisso infinitamente profondo e stabilito fra chi adora e chi è adorato. Perché nella fede, di nuovo, la possibilità dello scandalo è il momento dialettico. […] La forma più bassa dello scandalo, che umanamente parlando è la più innocente, è lasciare senza risoluzione tutto il problema intorno a Cristo, giudicando così: io non mi permetto di giudicare in alcun modo di questo, io non credo ma non giudico per niente. Che questa sia una forma di scandalo, sfugge ai più. La verità è che è stato completamente dimenticato quell’imperativo cristiano: “tu devi”. Da ciò deriva che non si vede ch’è scandalo lasciare il Cristo nell’indifferenza. Il fatto che il Cristianesimo ti è stato annunziato significa che tu devi farti un’opinione intorno a Cristo;

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Egli, ovvero il fatto ch’Egli esiste e ch’Egli è esistito, è la decisione di tutta l’esistenza. Se Cristo ti è stato annunziato, è scandalo dire: non ne voglio avere opinione alcuna. […] La prossima forma dello scandalo è negativa, ma passiva. L’uomo sente bene che non può ignorare Cristo, che non è capace di lasciar stare la questione dell’esistenza di Cristo e abbandonarsi ad una vita affaccendata. Ma non può neppur credere; e così continua a fissare lo sguardo sempre nello stesso punto, sul paradosso. In questo modo egli pure rende onore al cristianesimo, esprimendo che questa domanda: che cosa ti sembra di Cristo? è realmente la più decisiva. Un tale individuo scandalizzato passa la vita come un’ombra; la sua vita si consuma, perché nel suo interno si occupa continuamente di questa decisione. Così egli (come la passione dell’amore infelice rispetto all’amore) esprime quale realtà ha il cristianesimo. L’ultima forma dello scandalo è quella di cui parliamo qui, cioè quella positiva. Essa dichiara che il cristianesimo è falsità e menzogna, essa nega Cristo (nega ch’è esistito e ch’è stato colui che diceva di essere) o nel senso del docetismo o nel senso del razionalismo; in modo che Cristo o non è un singolo uomo, ma ne ha soltanto l’apparenza, o non è altro che un singolo uomo, diventando così o secondo il docetismo una figura poetica, mitologica che non pretende di essere reale, o secondo il razionalismo una realtà che non pretende di essere divina. Questa negazione del Cristo come paradosso implica naturalmente la negazione di tutti gli elementi del cristianesimo: il peccato, la remissione del peccato, ecc. Questa forma di scandalo è il peccato contro lo Spirito Santo. Come i giudei dicevano che Cristo scacciava il diavolo con l’aiuto del diavolo (Mt., 17, 24), così questa forma di scandalo fa del Cristo un’invenzione del diavolo. Questa forma di scandalo è la più alta potenziazione del peccato, ciò che di solito si trascura perché non si vede; secondo il punto di vista cristiano il contrasto è: peccato-fede. Questo contrasto, invece, è stato affermato in tutto questo scritto dove subito, nella prima parte fu stabilita la formula per lo stato in cui non c’è nessuna disperazione: cioè nel rapportarsi a se stesso e volendo essere se stesso l’io si fonda, trasparente, nella potenza che l’ha posto. E questa formula, come spesso si è ricordato, è la definizione della fede.

 - Søren Kierkegaard (Copenhagen 1813-1855) pubblicò La malattia mortale nel 1849. Il testo riportato è tratto da: S. Kierkegaard, La malattia mortale, in Opere, a cura di C. Fabro, Sansoni, Firenze 1972, pp. 690-692.

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Nietzsche, Così parlò Zarathustra capire gli uomini è dav vero un problema: perché l’uomo è tanto diFFicile da scoprire? l’uomo sfugge a se stesso, innanzitutto, e la sua coscienza è altalenante. scoprirsi è un’impresa difficile. la sua vera natura resta nascosta, e a nasconderla contribuisce la cultura, la tradizione, il “questo si fa questo non si fa” delle buone maniere, la negazione degli istinti naturali. la natura umana non si scopre perché la si nega. si prenda la leggerezza della vita e lo spirito sereno della fanciullezza: rimane sepolto sotto un mondo di doveri e di regole. spirito di gravità. ma cosa c’è di così grave, di così pesante, nella vita? perché non si riesce a vivere con leggerezza?

Dello spirito di gravità La mia bocca – è del popolo: io parlo troppo rude e sincero per coniglietti dal serio pelo. E ancor più estranea suona la mia parola alle seppie imbrattacarte. La mia mano – è la mano di un folle: guai ai tavoli e alle pareti e a tutte le cose che hanno posto per arabeschi di un folle, per scarabocchi di un folle! Il mio piede – è un piede equino; con esso scalpito e trotto su per siepi e macigni, in lungo e largo per le praterie, e il correr lesto mi procura un piacere del diavolo. Il mio stomaco – è uno stomaco d’aquila? Esso infatti ama più di ogni altra cosa carne d’agnello. Di sicuro è lo stomaco di un uccello. Nutrito di cose innocenti con poco, sempre pronto e impaziente di volare, di volar via – questa è la mia specie: come potrebbe non esservi qualcosa degli uccelli! Tanto più che io sono nemico dello spirito di gravità, come lo sono gli uccelli: e ne sono nemico mortale, arcinemico, nemico da sempre! A quanti voli errabondi già non si è abbandonata la mia inimicizia! Tutto questo io lo so già per prova, da cantarne una canzone – che voglio cantare: anche se sono solo nella casa vuota e devo cantarla per le mie sole orecchie. Certo vi sono altri cantanti, ai quali solo un teatro pieno rende l’ugola tenera, la mano eloquente, l’occhio espressivo, il cuore desto: – io non somiglio a costoro.

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Colui che un giorno insegnerà il volo agli uomini, avrà spostato tutte le pietre di confine; esse tutte voleranno in aria per lui, ed egli darà un nuovo nome alla terra, battezzandola – “la leggera”. Lo struzzo corre più veloce del più veloce dei cavalli, ma anche lui ficca ancora pesantemente la testa nella terra pesante: cosi pure l’uomo, che ancora non sa volare. Pesante è per lui la terra e la vita; e cosi vuole che sia lo spirito di gravità! Ma chi vuol divenire leggero e un uccello, non può non amare se stesso: – questo è il mio insegnamento. Certo, non dell’amore di infermi corrosi dal male: giacché presso costoro anche l’amore di sé emana cattivo odore! Bisogna imparare ad amare se stessi – questa è la mia dottrina – di un amore sano e salutare: tanto da sopportare di rimanere presso se stessi e non andare vagando in giro. Questo vagolare si battezza col nome di “amore del prossimo”: con questa parola finora sono state dette le maggiori menzogne e commesse le peggiori ipocrisie, e specialmente da parte di coloro che riuscivano pesanti al mondo tutto. E, in verità, quello di imparare ad amare se stessi non è un comandamento per oggi e domani. Piuttosto è questa, di tutte le arti, la più sottile, ingegnosa, lontana e paziente. Ciò che uno ha è, proprio per chi lo ha, molto ben nascosto; e tra tutte le miniere la propria è quella che viene scavata per ultima, – e questo è opera dello spirito di gravità. Quasi ancora nella culla ci vengono date queste pesanti parole e valori: “bene” e “male” – così si chiama la dote che ci è assegnata. Grazie ad essa ci vien perdonato di vivere. [...] E noi – noi ci trasciniamo dietro, obbedienti, sulle spalle incallite e su per montagne impervie, ciò che ci è stato assegnato! E, se ci inzuppiamo di sudore, allora ci dicono: «Eh già, la vita è un grave fardello!». Invece è l’uomo che è per se stesso un grave fardello! E questo perché si trascina dietro sulle spalle troppe cose estranee. Simile al cammello, egli piega le ginocchia e si lascia caricare ben bene. Specialmente l’uomo robusto e paziente, nel quale abita la venerazione: troppe parole e valori estranei e grevi ha caricato su di sé, – e ora la vita gli sembra un deserto E in verità! Anche certe cose che sono sue proprie sono un grave fardello! E molto di ciò che risiede nell’intimo dell’uomo è simile all’ostrica: nauseante e viscido e difficilmente afferrabile –, tanto che è necessario un nobile guscio con nobile ornato per scusarlo. Ma anche quest’arte bisogna imparare: avere un guscio e una bella parvenza e una cecità intelligente. D’altra parte, la meschinità, la tristizia del guscio, il suo essere troppo

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guscio inganna su molte cose dell’uomo. Molta bontà e forza nascoste non vengono mai indovinate; i bocconi più prelibati non trovano chi li sappia gustare! Le donne lo sanno, loro che sono il boccone più prelibato: un po’ più grasse, un po’ più magre – così poco basta a decidere la sorte! L’uomo è difficile da scoprire, ed egli è per se stesso [...] una scelta: diventare bestie malvagie o cattivi domatori: presso costoro io non alzerei le mie tende. Disgraziati io dico anche coloro che debbono sempre aspettare, – sono contrari al mio gusto tutti questi pubblicani e mercantucoli e re e altrettali custodi di paesi e di negozi. In verità, anche io ho imparato a fondo l’arte di attendere, – ma soltanto di attendere me stesso. E sopra ogni altra cosa ho imparato a stare e andare e camminare esaltare e arrampicarmi e danzare. Ma questa è la mia dottrina: chi vuole imparare un giorno a volare, deve prima di tutto imparare a stare e andare e camminare e arrampicarsi e danzare: – il volo non s’impara a volo! Io ho imparato ad arrampicarmi con scale di corda fino a più di una finestra, a gamba lesta mi sono inerpicato su per alti alberi di nave: star seduto sugli alberi alti della nave della conoscenza, mi parve non piccola beatitudine, palpitare come le fiammelle su alti alberi di nave: una piccola luce, è vero, purtuttavia un grande conforto per naviganti e naufraghi sperduti! Per vie di molte specie e in molti modi, sono giunto alla mia verità; non fu una sola scala, quella su cui salii per giungere alla vetta, dove il mio occhio dilaga nelle mie remote lontananze. [...] Così parlò Zarathustra

 - Friedrich Wilhelm Nietzsche (Röcken 1844 - Weimar 1900) pubblicò le quattro parti di Così parlò Zarathustra tra il 1883 e il 1885. Il testo riportato è tratto da: F.W. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, trad. it. di M. Costa, Mursia, Milano 1963, pp. 168 ss.

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Nietzsche, Così parlò Zarathustra si può vivere senza avere alcuna volontà di potenza? nietzsche la riconosce ovunque. in questo passo del suo >EVEXLYWXVE non c’è angolo dell’esperienza e della vita verso cui rivolga l’attenzione che non ne sia caratterizzato. in che rapporto sta con la volontà di verità? il sospetto è che la stessa volontà di verità, da cui scaturisce l’impulso alla ricerca filosofica, non sia altro che una manifestazione della volontà di potenza. che la purezza e il disinteresse della ricerca della verità celi qualcosa di completamente diverso.

Del superamento di se stessi «Volontà di verità» voi chiamaste, o saggi tra i saggi, ciò che v’ispira e vi fa ardenti? Volontà di concepire tutto ciò che è: così chiamo io la vostra volontà! Volete soltanto rendere concepibile tutto ciò che è: giacché voi dubitate, con giusta diffidenza, che già sia concepibile. Ma deve sottomettersi e piegarsi a voi! Ecco che cosa volete! Esso deve divenir liscio e sottomesso allo spirito, come a specchio che ne rifletta l’immagine. Questa è tutta la vostra volontà, o saggi tra i saggi, come volontà di potenza; e finanche quando parlate del bene e del male e date giudizi di valore. Volete creare un mondo dinanzi al quale piegar le ginocchia: ecco l’ultima vostra speranza, l’ultima ebbrezza vostra. L’ignorante e il popolo – certo – sono simili al fiume sul quale scorre una barca: e sulla barca seggono solenni e camuffati i giudizi di valore. La vostra volontà e i vostri valori li posaste sul fiume del divenire; un’antica volontà di potenza mi rivela ciò che dal popolo è ritenuto bene e male. Foste voi, o saggi tra i saggi, ad accogliere tali ospiti nella barca, a dar loro splendore e nomi altisonanti, – voi e la vostra volontà dominatrice! Ora il fiume trasporta la vostra barca: deve trasportarla. Poco importa se l’onda infranta schiumi e irosa opponga resistenza alla chiglia! Non è il fiume il vostro pericolo e la fine del vostro bene e del vostro male, o voi più sapienti: ma quella stessa volontà, la volontà di potenza, – la volontà inesausta e creatrice della vita. [...] Dovunque trovai viventi sentii parlar d’obbedienza. Tutto ciò che vive obbedisce. Ed ecco il secondo punto: si comanda a colui che non sa obbedire a se stesso. Tale è la natura di ogni cosa vivente.

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E questo è la terza cosa che udii: che il comandare è più difficile che l’obbedire. E non soltanto che chi comanda porta la responsabilità di tutti quelli che obbediscono, e che tale responsabilità facilmente lo schiaccia. Ma pure un rischio e un pericolo m’apparve ogni comando; e sempre quando ciò che è vivente comanda, pone a repentaglio se stesso. E ancora, quando comanda a se stesso, deve sopportarne la pena. Egli dev’essere giudice e vindice e vittima della sua legge. Come può ciò avvenire? chiesi a me stesso. Che cosa può indurre il vivente ad obbedire, a comandare, e ad obbedire pur comandando? Udite ora la mia parola, o saggi tra i saggi! Esaminate se io son giunto a penetrare nel cuore della vita, e fin nelle radici di questo cuore! Dove trovai la vita, ivi trovai la volontà di potenza: ed anche nella volontà del servo trovai la volontà d’esser padrone. Ciò che persuade il più debole a star soggetto al più forte, è la sua volontà che vuol dominare su ciò ch’è ancor più debole di lui; è l’unica gioia a cui non può rinunziare. E come il piccolo si dona al grande per potere a sua volta dominare e godere ciò ch’è di lui più piccolo: così anche il più grande si concede, e per amore di potenza rischia la propria vita. È questo l’abbandono del più grande: è rischio e pericolo e un giocar di dadi per la morte. E dove sono sacrificio e servitù e sguardi amorosi, là è anche la volontà d’esser padrone. Per vie recondite il più debole s’insinua nel castello e nel cuore del potente, e vi ruba potenza. E questo segreto confidò a me la stessa vita: «Vedi – mi disse –, io son quella cosa che sempre deve superare se stessa. «Certamente voi la chiamate volontà di generare, o istinto del fine, del sublime, del lontano, del molteplice: ma tutto ciò non è che la stessa cosa e un unico mistero. [...] «Che io debba essere una lotta e un divenire, e un fine e un contrasto di fini; ah, chi indovina la mia volontà, indovina anche per quali oblique vie sia costretta ad avanzare! «Di tutte le cose che creo e per quanto io le ami, subito devo farmene l’avversario, e l’avversario del mio amore: così vuole la mia volontà. «E anche tu che vuoi conoscere, sei soltanto un sentiero e un’orma della mia volontà: in verità la mia volontà di potenza cammina coi piedi della tua volontà di verità! «Non incontrò certamente la verità colui che proclamò «la volontà di essere»: questa volontà – non esiste! «Giacché: ciò che non è non può volere; ma come potrebbe ciò che già è volere anche essere?

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«Soltanto dov’è vita è pur volontà: ma non volontà di vita, bensì – ciò che insegno – volontà di potenza! «Molte cose han per chi vive più valore che la stessa vita; ma questa stessa sua preferenza rivela la volontà di potenza!». Così m’insegnò un giorno la vita; e con ciò, o saggi tra i saggi, io sciolgo l’enigma del vostro cuore. In verità io vi dico: un bene e un male eterni non esistono! Essi continuamente, per impulso proprio, devono superar se stessi. Coi vostri valori e con le vostre parole di bene e di male voi esercitate il vostro potere, o giudici di valori; ed è questo il vostro amore nascosto e lo splendore e il tramare e il traboccare dell’anima vostra. Ma una forza maggiore scaturisce dai vostri valori e un nuovo superamento: e contro quella si spezza l’uovo e il suo guscio. E chi deve essere un creatore nel bene e nel male in verità deve essere prima di tutto un distruttore di valori. [...] Così parlò Zarathustra.

 - Friedrich Wilhelm Nietzsche (Röcken 1844 - Weimar 1900) pubblicò le quattro parti di Così parlò Zarathustra tra il 1883 e il 1885. Il testo riportato è tratto da: F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, trad. it. di M. Costa, Mursia, Milano 1963, pp. 103 ss.

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Indice degli autori Bacone, 20

Leibniz, 65, 67

Berkeley, 85

Locke, 74, 77, 80, 83

Bruno, 13, 16

Marsilio Ficino, 2

Cartesio, 33, 36, 38, 40, 43, 46

Marx ed Engels, 157, 160

Comte, 163

Montesquieu, 98

Condillac, 107

Moro, 10

Diderot e D’Alembert, 101

Nietzsche, 181, 184

Erasmo, 7 Feuerbach, 154 Fichte, 140 Galilei, 22, 25 Hegel, 146, 149, 151 Hobbes, 27, 30 Hume, 88, 91, 94 Kant, 120, 122, 124, 127, 130, 133, 136 Kierkegaard, 176, 179

Pascal, 50, 52 Pico, 5 Rousseau, 110, 113, 116 Schelling, 143 Schopenhauer, 170, 173 Spencer, 166 Spinoza, 55, 58, 60, 62 Vico, 70 Voltaire, 104

indice degli autori

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