Filosofia antica. Questioni e risposte nelle parole dei filosofi

I filosofi greci e romani senza interpretazioni e apparati, ma in presa diretta attraverso i loro scritti e le loro paro

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Filosofia antica. Questioni e risposte nelle parole dei filosofi

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),/262),$ $ 17,&$ Questioni e risposte nelle parole dei filosofi a cura di Maurizio Pancaldi e Maurizio Villani

EDITORE ULRICO HOEPLI MILANO

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ISBN 978-88-203-7589-8

Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. - Bologna Progetto editoriale: Massimo Manzoni Coordinamento editoriale e redazione: Cinzia Bisognin Progetto grafico: Caterina Manieri Impaginazione: Luciana Baldi

Copertina: mncg S.r.l., Milano

indice

capitolo  1 

Gli inizi 1 capitolo  2 

Socrate e Platone 35 capitolo  3 

Aristotele 81 capitolo  4 

Le scuole ellenistiche e romane 109 capitolo  5 

La filosofia tardo antica 143

Indice degli autori  171

capitolo

1 Gli inizi Le colonie greche della Ionia (da Mileto, a Efeso, a Clazomene) e della Magna Grecia (da Elea, ad Agrigento, a Taranto), caratterizzate da un forte dinamismo politico ed economico, sono i luoghi in cui ha origine la ricerca razionale del sapere e del vero. Qui i primi filosofi abbandonano la rappresentazione del mito e si occupano di indagare la natura per individuare il principio o la causa prima da cui tutta la molteplicità degli esseri deriva. Ad Atene, con lo sviluppo della democrazia, l’attenzione dell’indagine filosofica si sposta sull’uomo, sulle norme che per convenzione regolano la sua vita e sul linguaggio come strumento di comunicazione e conoscenza. È l’epoca in cui la ribalta è presa dai sofisti. Grazie a loro la retorica – che insegnano per professione, a pagamento – diviene il mezzo più idoneo nelle mani dell’individuo per esaminare o meglio confutare le opinioni altrui e per persuadere il proprio uditorio.

T, A e A da I Presocratici. Testimonianze e frammenti NEL MONDO CI sONO FORzE CONTR AsTANTI, vITA E MORTE, CICLI DELLE sTAgIONI E DELLE gENER AzIONI, UOMINI E DEI: DA DOvE HA AvUTO ORIgINE TUTTO qUEsTO? Ciò che i filosofi vogliono sapere non è diverso da quello che generazione dopo generazione si sono chiesti gli uomini del mito. C’è il mondo, ci sono uomini e dei (il politeismo greco ha divinizzato le forze della natura e quindi molto a lungo non ha dato luogo a dubbi sull’esistenza degli dei), deve dunque esserci una spiegazione razionale dell’origine di tutto questo. qui “razionale” significa soltanto questo: una spiegazione che la mente umana, con le sue forze, possa comprendere e verificare come corretta. Di diverso rispetto al mito c’è quindi solo questo: è esclusa ogni rivelazione. Non è alle Muse che si chiede la risposta, ma alla forza razionale della mente. si è spesso sottolineato che è nella Ionia del vI secolo che compaiono alcuni concetti cosmologici davvero nuovi: per esempio l’equilibrio tra le parti dell’universo, per spiegare l’immobilità della Terra e il movimento dei cieli (questa è la realtà ETTEVIRXI con cui fare i conti). L’arcaica idea di (MOI come equilibrio e compensazione che troviamo nei poeti ritorna in veste nuova, applicata all’interpretazione della natura.

T [Da Aristotele, Metafisica] DK, II A 12: Dei primi filosofi, i più hanno pensato che vi siano solo princìpi materiali delle cose. Ciò da cui le cose hanno il loro essere e da cui si originano e in cui corrompendosi si risolvono – poiché la sostanza permane pur mutando negli accidenti – dicono sia l’elemento primordiale e, essa sotanza, il principio delle cose; per questo pensano che niente si generi o perisca in assoluto, dato che tale sostanza permane in eterno... Ci dev’essere infatti una qualche sostanza, una o più d’una, da cui si generi il resto pur restando essa immutata. Quanto poi al numero e alla forma di tale principio non hanno tutti la stessa opinione: Talete, l’iniziatore di questa filosofia, dice per parte sua che esso è l’acqua (e per questo sostiene che la terra poggia sull’acqua), e tale opinione gli viene forse dall’aver osservato che il nutrimento di tutte le cose è umido e che perfino il caldo si genera dall’acqua e vive di essa (ma ciò onde tutte le cose si originano è il loro

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principio); da questo era stato indotto a tale opinione e anche dal fatto che ogni germe ha una natura umida; e l’acqua è il principio della natura di ciò che è umido. Vi sono poi alcuni che credono che anche i primi antichissimi teologi, vissuti molto prima del nostro tempo, abbiano avuto la stessa opinione sulla sostanza primordiale perché chiamavano Oceano e Teti i padri della generazione e perché dicevano che gli dèi giurano per l’acqua, che quei poeti chiamavano Stige. Si onora sempre ciò che è più antico e niente è più onorato del giuramento. Non è poi sicuro che quest’opinione sulla sostanza primordiale delle cose sia talmente antica, ma si dice tuttavia che questo fosse il pensiero di Talete sulla causa prima.

T [Da Aristotele, Sull’anima] DK, II A 22: «Sembra che anche Talete abbia considerato l’anima come un principio motore se ha detto, secondo quanto si tramanda di lui, che il magnete ha un’anima perché muove il ferro». «E alcuni affermano che l’anima è mescolata proprio nell’universo, per cui – forse – anche Talete ritenne che tutte le cose sono piene di dèi».

T [Da Aezio, Raccolta di opinioni filosofiche] DK, II A 23: «Per Talete la mente del mondo è il dio e il tutto è animato e pieno di demoni; e la potenza divina, penetrando l’umido elementare, lo muove».

A [Da Simplicio, Commento alla “Fisica” di Aristotele] DK, A 9, 12 B 1: «Tra quanti affermano che [il principio] è uno, in movimento e infinito, Anassimandro, figlio di Prassiade, milesio, successore e discepolo di Talete, ha detto che principio ed elemento degli esseri è l’infinito, avendo introdotto per primo questo nome di principio. E dice che il principio non è né l’acqua né un altro dei cosiddetti elementi, ma un’altra natura infinita, dalla quale tutti i cieli provengono e i mondi che in essi esistono: Da dove infatti gli esseri hanno l’origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo, e l’ha espresso con vocaboli alquanto poetici. È chiaro che, avendo osservato il reciproco mutamento dei quattro elementi, ritenne giusto di non porne nessuno come sostrato, ma qualcos’altro oltre questi. Secondo lui, quindi, la nascita delle cose avviene non in seguito ad alterazione dell’elemento, ma per distacco dei contrari [dall’infinito] a causa dell’eterno movimento. Per ciò Aristotele l’ha collocato accanto ai discepoli di Anassagora».

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A [Frammenti] DK, 12 A 3: «E Anassimandro guidò una colonia da Mileto ad Apollonia [nel Ponto]». DK, 12 A l: «Scoprì per primo lo gnomone [ossia l’asta che con la sua ombra indica l’ora nelle meridiane] e lo pose a Sparta in un luogo sensibile all’ombra [...]: costruì anche degli orologi. E per primo disegnò i contorni della terra e del mare e costruì anche una sfera». DK, 12 A 6: «Anassimandro di Mileto, discepolo di Talete, per primo ardì disegnare su una carta la terra abitata: dopo di lui Ecateo di Mileto, viaggiatore instancabile, la perfezionò sì da farne un’opera mirabile». DK, 12 A 10: «... Dice che la terra ha forma cilindrica e altezza corrispondente a un terzo della larghezza. Dice che quel che dall’eterno produce caldo e freddo si separò alla nascita in questo mondo e che da esso una sfera di fuoco si distese intorno all’aria che avvolgeva la terra, come corteccia intorno all’albero: spaccatasi poi questa sfera e separatasi in taluni cerchi, si formarono il sole, la luna e gli astri. Dice pure che da principio l’uomo fu generato da animali di altra specie...». DK, 12 A 11: «... Secondo lui la terra è librata in alto, non è sostenuta da niente e rimane sospesa perché ha uguale distanza da ogni altra cosa [che la circonda]. Ha la forma ricurva, sferica, simile a una colonna di pietra: delle sue superfici l’una è quella sulla quale noi ci muoviamo, l’altra sta dalla parte opposta. [...] Gli esseri viventi provengono dall’umido fatto evaporare dal sole. All’inizio l’uomo era simile a un animale diverso [da lui] e cioè al pesce». DK, 12 A 30: «Anassimandro di Mileto afferma che, a suo parere, dall’acqua e dalla terra riscaldate, nacquero o dei pesci o degli animali molto simili a pesci; in questi concrebbero gli uomini, e i feti vi rimasero rinchiusi fino alla pubertà. Quando questi si spezzarono, allora finalmente ne uscirono uomini e donne che potevano già nutrirsi». DK, 12 A 18: «Anassimandro sostiene [che gli astri sono] involucri spessi d’aria a forma di ruota, pieni di fuoco, che in una parte delle aperture spirano fiamme». DK, 12 A 21: «Alcuni, tra i quali anche Anassimandro, dicono che [il sole] manda luce e ha forma di ruota. Infatti, come nella ruota il mozzo è incavato ma sostiene i raggi che da esso si dispiegano verso la circonferenza esterna della ruota, così anche il sole, mandando luce da una cavità, dispiega i suoi raggi che risplendono all’esterno in giro. Alcuni affermano che da un luogo cavo e stretto, come da una tromba, il sole manda la luce, a guisa di canna di aulo».

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A [Frammento e testimonianze] 13 B 2: «Come l’anima nostra – egli dice – che è aria, ci tiene insieme, così il soffio e l’aria abbracciano tutto il mondo». 13 A 5: «Anassimene, figlio di Euristrato, milesio, fu amico di Anassimandro. Anch’egli dice che una è la sostanza che fa da sostrato e infinita, come l’altro, ma non indeterminata come quello, bensì determinata – la chiama aria. L’aria differisce nelle sostanze per rarefazione e condensazione. Attenuandosi diventa fuoco, condensandosi vento, e poi nuvola, e, crescendo la condensazione, acqua e poi terra e poi pietre e il resto, poi, da queste. Anch’egli suppone eterno il movimento mediante il quale si ha la trasformazione». 13 A 6: «Dicono che secondo Anassimene l’origine di tutte le cose è l’aria, che l’aria è infinita per grandezza ma definita nelle sue qualità, che tutte le cose sono prodotte per condensazione e poi, di nuovo, per rarefazione dell’aria, e che il movimento esiste dall’eternità. Egli sostiene che, solidificatasi l’aria, per prima si forma la terra la quale è molto piatta – e pertanto a ragione si mantiene sull’aria –: il sole, la luna, le altre stelle hanno il principio della nascita dalla terra. Afferma infatti che il sole è terra, la quale per la rapidità del movimento si è molto infocata ed è divenuta incandescente».

 - Di Talete (Mileto 624 ca. - 546 ca. a.C.), Anassimandro (Mileto 610 ca. - 547 ca. a.C.) e Anassimene (Mileto 585 ca. - 528 ca. a.C.) non ci è giunta alcuna opera. I testi riportati riguardanti Talete sono tratti da: I presocratici. Frammenti e testimonianze, a cura di A. Pasquinelli, Einaudi, Torino 1976, pp. 17 ss.; per quanto riguarda Anassimandro e Anassimene sono invece tratti da: I presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di G. Giannantoni, 2 voll., Laterza, RomaBari 1986, vol. I, pp. 97 ss.

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E da I presocratici. Frammenti e testimonianze sE TUTTO è IN MOvIMENTO, E gR AN PARTE DI qUEsTO CONTINUO AgITARsI DELLE COsE APPARE CAOTICO, NE POssIAMO TR ARRE LA CONCLUsIONE CHE NON C’è LEggE E ORDINE IN NATUR A? In apparenza tutto è caos e disordine. L’uomo che ragiona, invece, vede subito che un ordine c’è. vede che la natura è ciclica, è dominata da un equilibrio che fa sì che la vita fiorisca comunque vadano le cose (è l’arcaica giustizia di zeus, (MOI). vede il conflitto dominare tutte le cose, ma vede anche che è questo conflitto a generare tutti gli esseri e a mantenerli al loro posto nel grande ciclo della natura. L’io non ne è fuori: parte della natura con il suo 0SKSW (il principio d’ordine che rende sensate le cose e ne spiega l’origine e la legge che le domina), l’io non ci è affatto ben noto, come non ci è ben nota la natura. Ma lo spirito razionale non si ferma nella sua indagine.

2: Quindi si deve seguire ciò che è comune. Ma ben che comune sia questa verità che io insegno, i molti vivono come se avessero un proprio pensiero per loro. 8: L’opposto in accordo e dai discordi bellissima armonia e tutto avviene secondo contesa. 10: Congiungimenti: intero e non intero, concorde discorde, armonico disarmonico, e da tutte le cose l’uno dall’uno tutte le cose. 30: Quest’ordine del mondo, che è lo stesso per tutti, non lo fece né uno degli dèi né uno degli uomini, ma è sempre stato ed è e sarà fuoco vivo in eterno, che al tempo dovuto si accende e al tempo dovuto si spegne. 32: L’uno, il solo saggio non vuole e vuole esser chiamato col nome di Zeus. 41: Un’unica cosa è saggezza, intendere come il tutto sia governato attraverso tutto. 43: Bisogna spengere l’eccesso più dell’incendio. 6

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45: Per quanto tu cammini, ed anche percorrendo ogni strada, non potrai raggiungere i confini dell’anima: tanto profonda è la sua vera esssenza (lògos). 49a: Negli stessi fiumi «due volte» entriamo e non entriamo, siamo e non siamo. 50: Non ascoltando me, ma la parola della verità (lògos) è saggio riconoscere che tutto è uno. 51: Non capiscono come con se stesso concordi pur discordando: armonia di tensioni contrastanti come nell’arco e nella lira. 53: Pòlemos di tutte le cose è padre e di tutte il re, e gli uni rivela dèi, gli altri uomini, gli uni fa schiavi, gli altri liberi. 60: La via in su e la via in giù sono un’unica identica via. 61: Il mare è l’acqua più pura e più impura, per i pesci bevibile e salutare, imbevibile e mortale per gli uomini. 67a: Come il ragno stando al centro della tela non appena una mosca ne rompa un qualche filo se ne accorge e svelto vi accorre come se sentisse male per la rottura del filo, così l’anima dell’uomo, quando una parte del corpo è ferita, rapida vi si reca come se non sopportasse la lesione del corpo a cui è congiunta stabilmente e secondo un determinato rapporto. Allo stesso modo dunque che i carboni accostandosi al fuoco diventano incandescenti per mutazione e una volta lontani dal fuoco si spengono, così quella parte del mondo circostante accolta nei nostri corpi, distaccandosi dal resto, diviene quasi incapace d’intendere, mentre ricongiungendosi naturalmente attraverso il maggior numero di pori diventa omogenea al tutto. 80: Si deve sapere che la guerra è comune, e che la giustizia è contesa, e che tutto avviene secondo contesa e necessità. 89: I desti hanno un unico mondo comune, ma nel sonno ognuno si apparta in un mondo a lui proprio. 90: Scambio reciproco di tutte le cose col fuoco e del fuoco con tutte le cose, come delle merci con l’oro e dell’oro con le merci. 94: Elios (il sole) non oltrepasserà le sue misure: se no le Erinni, ministre di Dike, lo troveranno. 102: Per il dio tutto è bello, buono e giusto, gli uomini invece ritengon giusta una cosa, ingiusta l’altra.

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103: Comune è il principio e la fine del cerchio. 112: Il retto pensiero è la massima virtù e la sapienza è dire e far cose vere ascoltando e seguendo l’intima natura delle cose. 114: Coloro che vogliono parlare con intendimento devono fondarsi su ciò che a tutti è comune, come la città sulla legge e con maggior forza ancora. E invero tutte le leggi umane si alimentano dell’unica legge divina, poiché quella impone quanto vuole e basta per tutte le cose e ne avanza. 123: L’intima natura delle cose ama nascondersi.

 - Di Eraclito (Efeso 540 ca. - 480 ca. a.C.) ci sono pervenuti solo frammenti, un centinaio di aforismi che in maniera densa e sintetica accennano e alludono alla sua dottrina. Gli aforismi qui riportati sono tratti da: I presocratici. Frammenti e testimonianze, a cura di A. Pasquinelli, Einaudi, Torino 1976, pp. 176 ss.

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P da I presocratici. Testimonianze e frammenti sE LA NOsTR A MENTE è IN gR ADO DI DEsCRIvERE LA sTRUTTUR A DEL MONDO E LE LEggI CHE LO REgOLANO, qUEsTO sIgNIFICA FORsE CHE CI sONO UNA LOgICA E UN LINgUAggIO IsCRITTI NELLA NATUR A? Decifrare un enigma significa trovare una logica in un insieme di elementi che apparentemente non ne ha nessuna: rendere chiaro alla coscienza quello che è oscuro. Naturalmente, decifrare un enigma è una operazione della mente, perché l’oggetto rimane quello che è. Ma dove prima c’erano solo nuvole e nebbia, ombre confuse, si è adesso in grado di comprendere. La domanda è se in natura c’è un ordine intelligibile; se la natura può essere concepita come un insieme di segni da interpretare. si tratta di imparare a leggere il libro della natura. vedere cose ed eventi e leggerli come se fossero segni da interpretare. I Pitagorici hanno ritenuto di avere capito il linguaggio della natura, che a loro avviso è leggibile in termini matematici.

[Da Aristotele, Metafisica] Contemporanei a questi filosofi, ed anche anteriori a questi, sono i cosiddetti Pitagorici. Essi per primi si applicarono alle matematiche e le fecero progredire e, nutriti delle medesime, credettero che i princìpi di queste fossero princìpi di tutti gli esseri. E, poiché nelle matematiche i numeri sono per loro natura i princìpi primi, e appunto nei numeri essi ritenevano di vedere, più che nel fuoco, nella terra e nell’acqua, molte somiglianze con le cose che sono e che si generano: per esempio ritenevano che una data proprietà dei numeri fosse la giustizia, un’altra invece l’anima e l’intelletto, un’altra ancora il momento e il punto giusto, e similmente, in breve, per ciascuna delle altre; e inoltre, poiché vedevano che le note e gli accordi musicali consistevano nei numeri; e, infine, poiché tutte le altre cose, in tutta la realtà, pareva a loro che fossero fatte a immagine dei numeri e che i numeri fossero ciò che è primo in tutta quanta la realtà, pensarono che gli elementi dei numeri fossero elementi di tutte le cose, e che tutto quanto il cielo fosse armonia e numero. E tutte le concordanze che riuscivano a mostrare fra i numeri e gli accordi musicali e i fenomeni e le parti del cielo e l’intero ordinamento dell’universo, essi le raccoglievano e le sistemavano. E se qualche cosa mancava, essi si ingegnavano a introdurla, in modo da rendere la loro trattazione in tutto coerente. Per esempio: siccome il numero dieci sembra essere perfetto e sembra comprendere in sé tutta la realtà dei gli inizi

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numeri, essi affermavano che anche i corpi che si muovono nel cielo dovevano essere dieci; ma, dal momento che se ne vedono soltanto nove, allora essi ne introducevano di conseguenza un decimo: l’Antiterra. Abbiamo trattato questi argomenti in altre opere con maggiore accuratezza. Qui vi ritorniamo sopra, al fine di vedere, anche presso questi filosofi, quali sono i princìpi che essi pongono e in quale modo questi rientrino nell’ambito delle cause di cui abbiamo detto. Anche costoro sembrano ritenere che il numero sia principio non solo come costitutivo materiale degli esseri, ma anche come costitutivo delle proprietà e degli stati dei medesimi. Essi pongono, poi, come elementi costitutivi del numero il pari e il dispari; di questi, il primo è illimitato, il secondo limitato. L’Uno deriva da entrambi questi elementi, perché è, insieme, e pari e dispari. Dall’Uno, poi, procede il numero; e i numeri, come s’è detto, costituirebbero tutto quanto l’universo. Altri Pitagorici affermarono che i princìpi sono dieci, distinti in serie di : (1) limite-illimite, (2) dispari-pari, (3) uno-molteplice, (4) destro-sinistro, (5) maschio-femmina, (6) fermo-mosso, (7) retto-curvo, (8) luce-tenebra, (9) buono-cattivo, (10) quadrato-rettangolo In questo modo sembra che pensasse anche Alcmeone di Crotone, sia che egli abbia preso tale dottrina dai Pitagorici, sia che questi l’abbiano presa da lui: sta di fatto che Alcmeone fiorì quando Pitagora era vecchio e che professò una dottrina molto simile a quella dei Pitagorici. Egli diceva, infatti, che le molteplici cose umane formano coppie di contrari, che egli però raggruppò non come facevano i Pitagorici in modo ben determinato ma a caso, come ad esempio: bianco-nero, dolce-amaro, buono-cattivo, grande-piccolo. Costui, dunque, fece affermazioni disordinate intorno a tutte le coppie di contrari, mentre i Pitagorici dissero chiaramente quali e quante sono.

[Da Erodoto, Storie – La metempsicosi] DK, 14 A 1: «Anche in questo gli Egiziani furono i primi, nel dire che l’anima dell’uomo è immortale, ed entra, quando il corpo perisce, nel corpo d’un altro animale nascente, e che, quando è passata per tutti gli animali della terra e del mare e dell’aria, entra ancora nel corpo d’un uomo nascente: il giro completo, di-

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cono, lo compie in tremila anni. Questa dottrina fu accolta da alcuni Greci, quali prima e quali dopo; ma costoro la presentarono come loro propria: io conosco i loro nomi, ma non li scrivo».

[Da Isocrate, Discorsi] DK, 14 A 4: «Se non avessi fretta, direi molte meravigliose cose della loro pietà [degli Egiziani]. Né io sono il solo o il primo che la scorga; ma molti l’hanno conosciuta, sia uomini d’oggi che uomini del passato. Tra questi è anche Pitagora di Samo, il quale, andato in Egitto e fattosi loro discepolo, portò in Grecia, per primo, lo studio d’ogni genere di filosofia, e più degli altri si prese cura dei sacrifici e delle cerimonie religiose, giudicando che, se anche non avesse ricevuto per questo alcun bene dagli dèi, avrebbe tuttavia conseguito gloria grandissima tra gli uomini. E così fu».

 - Di Pitagora (Samo 570 ca. - Metaponto 490 ca. a.C.) non ci resta alcun frammento: molte delle dottrine del maestro si confondono con quelle della sua scuola con cui anche la sua persona finisce per identificarsi. Dei “pitagorici” e delle loro idee abbiamo perciò notizie in autori posteriori, di quasi un secolo (Erodoto è stato attivo tra il 484 e il 430 a.C.) o anche più (Isocrate è contemporaneo di Platone, vissuto tra il 436 e il 338 a.C., mentre Aristotele è vissuto tra il 384 e il 322 a.C.). Il testo di Aristotele è tratto da: Metafisica, a cura di G. Reale, Loffredo, Napoli 1968, pp. 116-117; gli altri testi riportati sono tratti da: I presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di G. Giannantoni, 2 voll., Laterza, Roma-Bari 1986, vol. I, pp. 115-116.

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S da I presocratici. Frammenti e testimonianze CHE COsA INTENDIAMO qUANDO DICIAMO LA PAROLA “DIO”? quando la filosofia compare sulla scena della cultura greca, le domande riguardano innanzitutto la struttura e l’origine del mondo, cioè della REXYVE (TL]WMW): è quel complesso di temi che Aristotele nel Iv secolo ha indicato come problema dell’EVGLq, termine che designa tanto l’origine del cosmo quanto il principio che consente di spiegare le leggi che lo governano. Ora, per un greco nella natura ci sono gli dei, che ne incarnano la forza in un determinato aspetto e ambito, e uno sguardo problematico come quello filosofico porta molto presto a porre la domanda su chi siano gli dei, sulla loro natura e sulla loro vera identità. I miti raccontano molte antiche storie, alcune contraddittorie con altre, e la sistemazione dei poeti non è soddisfacente per la razionalità ormai consapevole di sé dei primi filosofi. Nelle colonie greche dell’Italia meridionale nascono così filosofie nuove, che danno del divino e degli dei un’immagine nuova. Al nome di senofane è legata una delle prime critiche all’antropomorfismo in tema di teologia.

[Da Elegie] Omero ed Esiodo hanno attribuito agli dèi tutto ciò che per gli uomini è onta e biasimo: e rubare e fare adulterio e ingannarsi a vicenda. ... i mortali si immaginano che gli dèi sian nati e che abbian vesti, voce e figura come loro Ma se i bovi e i cavalli e i leoni avessero le mani, o potessero disegnare con le mani, e far opere come quelle degli uomini, simili ai cavalli il cavallo raffigurerebbe gli dèi, e simili ai bovi il bove, e farebbero loro dei corpi come quelli che ha ciascuno di loro. Gli Etiopi dicono che i loro dèi hanno il naso camuso e son neri, i Traci che hanno gli occhi azzurri e i capelli rossi.

[Da Perì physeos] E nessun uomo ha mai scorto l’esatta verità, né ci sarà mai chi sappia veramente intorno agli dèi ed a tutte le cose ch’io dico che se anche qualcuno arrivasse ad esprimere una cosa compiuta al più alto

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grado, neppur lui ne avrebbe tuttavia vera conoscenza, poiché di tutto vi è solo un sapere apparente. Un solo dio, il più grande tra uomini e dèi, né per la figura né per i pensieri simile ai mortali. Ma senza fatica scuote tutto con la forza della mente. Rimane sempre nello stesso luogo immobile né gli si addice spostarsi or qui or là.

[Frammento 1] Ora il pavimento è pulito e pure sono le mani di tutti e i calici: qualcuno ci mette intorno al capo ghirlande intrecciate, mentre un altro ci porge in una coppa il profumo odoroso e c’è il cratere pieno di gioia ed altro vino è pronto, che promette di non mancar mai, dolce come miele nei vasi e odoroso di fiori. In mezzo a noi l’incenso esala il suo sacro profumo e c’è acqua fresca e dolce e pura: ci sono biondi pani e la tavola sontuosa si piega sotto il peso del formaggio e del denso miele. Nel mezzo l’altare è tutto ornato di fiori, e il canto e il piacere della festa riempion la casa. Conviene anzitutto ad uomini assennati cantar le lodi del dio con pii racconti e con parole pure. Dopo aver libato e implorato la forza di agir giustamente – ché questo è ciò che più importa – non è eccesso bere tanto che si possa giungere a casa senza l’aiuto del servo, se non si è troppo vecchi. Ma quegli è da lodare che nel vino rivela nobiltà di pensiero così come la memoria e il suo canto s’ispirano alla virtù non per cantare le lotte dei Titani o dei Giganti o dei Centauri – favole dei primordi – e neppur le veementi lotte di parte, tutti argomenti vani; ma rispettar sempre gli dèi è la vera virtù.

 - Non sappiamo né l’epoca né le circostanze in cui Senofane (Colofone 580 ca. 485 ca. a.C.), nel corso della sua vita lunga ed errabonda, ha scritto le sue opere. I testi riportati sono tratti da: I presocratici. Frammenti e testimonianze, a cura di A. Pasquinelli, Einaudi, Torino 1976, pp. 144 ss.

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P, Poema sulla natura CHE COsA PENsIAMO qUANDO PENsIAMO, O DICIAMO DI PENsARE, IL NULLA? La tesi di Parmenide sull’essere è esposta mediante quella che appare come la rivelazione di una dea al giovane filosofo. Ciò non è in contraddizione con il fatto che la filosofia si distingue dal mito perché esamina i problemi posti con la sola forza della mente e non ammette rivelazioni sapienziali, perché la dea in realtà fornisce a Parmenide una sequenza argomentativa razionale, compiuta e stringente: l’ascoltatore può giudicare con la forza della sua sola ragione quanto gli viene rivelato. Il cuore dell’argomentazione è nella impossibilità di pensare il nulla. Ne derivano conseguenze molto nette nel pensare l’essere.

[Frammento 7] Infatti, questo non potrà mai imporsi: che siano le cose che non sono! Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero, né l’abitudine, nata da numerose esperienze, su questa via ti forzi a muovere l’occhio che non vede, l’orecchio che rimbomba e la lingua, ma con la ragione giudica la prova molto discussa che da me ti è stata fornita.

[Frammento 8] Resta solo un discorso della via: che “è”. Su questa via ci sono segni indicatori assai numerosi: che l’essere è ingenerato e imperituro, infatti è un intero nel suo insieme, immobile e senza fine. Né una volta era, né sarà, perché è ora insieme tutto quanto, uno, continuo. Quale origine, infatti, cercherai di esso? Come e da dove sarebbe cresciuto? Dal non-essere non ti concedo né di dirlo né di pensarlo, perché non è possibile né dire né pensare che non è. Quale necessità lo avrebbe mai costretto a nascere, dopo o prima, se derivasse dal nulla? Perciò è necessario che sia per intero, o che non sia per nulla. E neppure dall’essere concederà la forza di una certezza che nasca qualcosa che sia accanto ad esso. Per questa ragione né il nascere né il perire concesse a lui la Giustizia, sciogliendolo dalle catene, ma saldamente lo tiene. La decisione intorno a tali cose sta in questo: “è” o “non è”. Si è quindi deciso, come è necessario,

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che una via si deve lasciare, in quanto è impensabile e inesprimibile, perché non del vero è la via, e invece che l’altra è, ed è vera. E come l’essere potrebbe esistere nel futuro? E come potrebbe essere nato? Infatti, se nacque, non è; e neppure esso è, se mai dovrà essere in futuro. Così la nascita si spegne e la morte rimane ignorata. E neppure è divisibile, perché tutto intero è uguale; né c’è da qualche parte un di più che possa impedirgli di essere unito, né c’è un di meno, ma tutto intero è pieno di essere. Perciò è tutto intero continuo: l’essere, infatti, si stringe con l’essere. Ma immobile, nei limiti di grandi legami è senza un principio e senza una fine, poiché nascita e morte sono state cacciate lontane e le respinse una vera certezza. E rimanendo identico e nell’identico, in sé medesimo giace, e in questo modo rimane là saldo. Infatti, Necessità inflessibile lo tiene nei legami del limite, che lo rinserra tutt’intorno, poiché è stabilito che l’essere non sia senza compimento: infatti non manca di nulla; se, invece, lo fosse, mancherebbe di tutto. Lo stesso è il pensare e ciò a causa del quale è il pensiero, perché senza l’essere nel quale è espresso, non troverai il pensare. Infatti, nient’altro o è o sarà all’infuori dell’essere, poiché la Sorte lo ha vincolato ad essere un intero e immobile. Per esso saranno nomi tutte quelle cose che hanno stabilito i mortali, convinti che fossero vere: nascere e perire, essere e non-essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore. Inoltre, poiché c’è un limite estremo, esso è compiuto da ogni parte, simile a massa di ben rotonda sfera, a partire dal centro uguale in ogni parte: infatti, né in qualche modo più grande né in qualche modo più piccolo è necessario che sia, da una parte o da un’altra. Né, infatti, c’è un non-essere che gli possa impedire di giungere all’uguale, né è possibile che l’essere sia dell’essere più da una parte e meno dall’altra, perché è un tutto inviolabile. Infatti, uguale da ogni parte, in modo uguale sta nei suoi confini.

 - Parmenide (VI-V sec. a.C.) scrisse il Poema sulla natura probabilmente nel pieno della sua maturità (secondo alcuni non oltre il 468 a.C.). Il testo riportato è tratto da: Parmenide, Poema sulla natura, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2003, pp. 97-107.

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Z da I presocratici. Testimonianze e frammenti è DI FATTO DIMOsTR ATA LA vERITà DI UNA TEsI sE sI RIEsCE A DIMOsTR ARE L’AssURDITà DELLA TEsI OPPOsTA? La caratteristica della filosofia di zenone è la mancanza di una propria tesi. zenone ha scritto un libro raccogliendo una serie di argomenti razionali a favore della tesi di Parmenide sull’unicità dell’essere e l’irrealtà del movimento. stando a quanto ci è stato tramandato, è un esponente della scuola di Elea che non modifica in nessun punto la tesi filosofica del maestro. E tuttavia zenone è un filosofo importante non solo per avere fornito alcune argomentazioni sulle quali la filosofia, e la matematica, si eserciteranno per molti secoli, ma anche per avere elaborato un metodo di “ragionamento per assurdo” in cui i filosofi successivi riconosceranno l’inizio della dialettica.

[Da Aristotele, Fisica] DK, 29 A 26: Aristot. phys. Z 9. 239 b 14. Secondo è l’argomento detto Achille. Questo sostiene che il più lento non sarà mai raggiunto nella sua corsa dal più veloce. Infatti è necessario che chi insegue giunga in precedenza là di dove si mosse chi fugge, di modo che necessariamente il più lento avrà sempre un qualche vantaggio. Questo ragionamento è lo stesso di quello della dicotomia, ma ne differisce per il fatto che la grandezza successivamente assunta non viene divisa per due. Dunque il ragionamento ha per conseguenza che il più lento non viene raggiunto ed ha lo stesso fondamento della dicotomia (nell’un ragionamento e nell’altro infatti la conseguenza è che non si arriva al termine, divisa che si sia in qualche modo la grandezza data; ma c’è di più nel secondo che la cosa non può essere realizzata neppure dal più veloce corridore immaginato drammaticamente nell’inseguimento del più lento), di modo che la soluzione sarà, per forza, la stessa. DK, 29 A 27: Aristot. phys. Z 9. 239 b 30. Terzo è questo argomento: che la freccia in moto sta ferma. Esso poggia sull’assunzione che il tempo sia composto di istanti: se infatti non si concede questo il ragionamento non corre.

[Da Simplicio, Fisica] Simplic. phys. 1011, 19. Il ragionamento di Zenone, assumendo che tutto ciò che è lungo uno spazio uguale a sé o si muove o è in quiete, e che nulla

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si muove nell’istante, e che sempre il mosso è lungo uno spazio uguale a sé in ogni istante, pare che proceda così: la freccia che si muove, che è in ogni istante lungo uno spazio uguale a sé, non si muove dal momento che nulla si muove nell’istante; ma ciò che non si muove è in quiete, dal momento che tutto o si muove o è in quiete; allora la freccia che si muove finché si muove è in quiete per tutto il tempo della traslazione. Ma che c’è di più paradossale di una cosa simile? [...]

[Da Aristotele, Fisica] DK, 29 A 28: Aristot. phys. Z 9. 239 b 33. Il quarto ragionamento è quello delle masse uguali che si muovono lungo masse uguali in senso contrario, le une dalla fine dello stadio, e le altre dalla metà con uguale velocità. In esso crede che si provi che sono un tempo uguale il tempo metà e il tempo doppio. Il paralogismo consiste in questo, nel ritenere che con la stessa velocità si percorra nello stesso tempo la stessa grandezza presa in un caso lungo un mosso e nell’altro lungo un immobile. Questo invece è falso. Siano, per esempio, AA le masse uguali fisse di cui si parla, e le altre siano BB che cominciano dal mezzo delle A, pari a queste in numero e grandezza, e le altre ancora , che cominciano dall’estremo, pari a queste in numero e grandezza e dotate della stessa velocità delle B. Avviene che il primo B e il primo  giungano insieme all’estremo, movendosi gli uni lungo gli altri. Avviene inoltre che  abbia trascorso lungo tutti i B e i B invece lungo la metà. Di conseguenza il tempo è metà; infatti ugual tempo sta ciascuno lungo ciascuno. Insieme avviene che i B sono passati lungo tutti i ; infatti saranno insieme il primo  e il primo B agli estremi contrari, stando [] lungo ciascuno dei B ugual tempo quanto lungo ciascuno degli A, come dice, in quanto gli uni e gli altri sono per un tempo uguale lungo gli A.

[Da Simplicio, Fisica] Simplic. phys. 1016, 9 sgg. Il quarto dei ragionamenti di Zenone sul moto, diretto anch’esso a negare il moto, era questo. Se c’è il moto, di grandezze uguali e dotate della stessa velocità l’una si muoverà, nello stesso tempo, di un moto doppio dell’altra e non uguale. E questo è impossibile, ma è anche impossibile la conseguenza che se ne trae, e cioè che lo stesso e ugual tempo è insieme doppio e metà. Fa la dimostrazione assumendo come concesso che grandezze uguali e dotate di uguale velocità percorrano uno spazio uguale in un tempo uguale; inoltre che di grandezze uguali e dotate di uguale velocità, se l’una percorre uno spazio metà e l’altra uno spazio doppio, la metà viene percorsa in un tempo metà e il doppio in un tempo doppio.

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[Da Filopono, Fisica] DK, 29 A 21: Zenone di Elea infatti attaccando coloro che mettevano in ridicolo la dottrina del maestro Parmenide, secondo la quale l’essere è uno, ed intervenendo in sua difesa, cercò di dimostrare che è impossibile che l’essere sia molteplice. Dimostra la stessa cosa partendo dalla considerazione del continuo: supponendo che il continuo sia uno, dato che esso è sempre divisibile, sarà sempre possibile dividere ulteriormente il prodotto della divisione; in questo caso il continuo sarà molteplice. Ma allora la stessa cosa sarà uno e molti, il che è impossibile, tanto che non sarà uno. Ma se nessun continuo è uno, ed è necessario che la molteplicità, se esiste, sia composta di unità, poiché «non è possibile che vi siano unità», la molteplicità non esiste. Zenone, il suo scolaro, dimostrava in difesa del maestro che l’essere è necessariamente uno e immobile, servendosi come prova della dicotomia all’infinito dei continui. Se infatti l’essere non fosse uno e indivisibile, ma potesse esser diviso in una pluralità di parti, non vi sarebbe un uno in senso stretto (il continuo infatti se potesse esser diviso, lo sarebbe all’infinito); ma se non esiste un uno in senso stretto non esisterà neanche la molteplicità, dato che essa è costituita da una pluralità d’unità. È dunque impossibile che l’essere possa esser diviso in una pluralità di parti, e c’è soltanto l’uno. Oppure: se l’uno indivisibile non esistesse – dice – non esisterebbe neppure la molteplicità. La molteplicità è infatti costituita di molte unità. Ora ciascuna unità è o una e indivisibile oppure si divide anch’essa in molte parti. Se ciascuna unità è una e indivisibile, il tutto consterà di grandezze indivisibili, se invece le unità sono anch’esse divisibili solleveremo la stessa questione a proposito di ciascuna unità divisa e così all’infinito. Tanto che il tutto sarebbe infinito infinite volte, se l’essere fosse molteplice. Ma se questo è assurdo, l’essere sarà solo uno, e non sarà possibile che sia molteplice. Sarebbe infatti necessario dividere infinite volte ogni unità, il che è assurdo.

 - Zenone di Elea (490 ca. - 430 ca. a.C.) scrisse il suo libro contro i detrattori delle idee del maestro ovviamente dopo la pubblicazione del Poema sulla natura, presumibilmente attorno al 460 a.C. I primi quattro testi riportati sono tratti da: I presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di G. Giannantoni, 2 voll., Laterza, Roma-Bari 1986, vol. I, pp. 295299; l’ultimo testo è invece tratto da: I presocratici. Frammenti e testimonianze, a cura di A. Pasquinelli, Einaudi, Torino 1976, p. 254.

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M da I presocratici. Frammenti e testimonianze è POssIbILE PENsARE L’INFINITO? Abbiamo solo pochi frammenti di Melisso e qualche testimonianza antica, ma quanto ci rimane è sufficiente per farci intravedere una personalità filosofica tra le più importanti della scuola eleate. è vissuto lontano dall’Italia meridionale, il che costituisce una ulteriore conferma – ne abbiamo moltissime – della capacità di trasmissione delle idee filosofiche in tutta l’area della cultura greca. Melisso introduce nella filosofia greca un tema che fino a quel momento era stato per lo più assente (ed era in generale assente dalla cultura greca): l’idea di infinito. Per i greci la perfezione era legata alla compiutezza, alla completezza, quindi al finito, essendo l’infinito indeterminabile. si pensi all’indeterminatezza della nozione di ETIMVSR in Anassimandro. è Melisso a farne una nozione positiva, legata alla perfezione.

DK, 30 B 1: Sempre era ciò che era e sempre sarà. Perché se fosse nato, sarebbe necessario che prima di nascere fosse nulla. Ma se era nulla, dal nulla non sarebbe potuto nascere nulla in alcun modo. DK, 30 B 2: Ora dunque poiché non è nato è e sempre era e sempre sarà e non ha né principio né fine, ma è infinito. Se fosse nato infatti avrebbe principio (perché avrebbe cominciato a nascere ad un momento determinato) e fine (perché avrebbe finito di nascere ad un momento determinato); ma poiché non ha né cominciato né terminato era sempre e sempre sarà, «e» non ha né principio né fine. Non è possibile infatti che sia sempre ciò che non è tutto. DK, 30 B 3: Ma come è sempre, così bisogna anche che sia sempre infinito in grandezza. DK, 30 B 6: Se fosse, com’è, infinito, dev’esser uno. Se fossero due infatti non potrebbero essere infiniti, ma uno costituirebbe un limite per l’altro. DK, 30 B 7: 1. Così dunque è eterno e infinito e uno e tutto uguale. 2. E non può né perire né diventar più grande «né cambiar la sua natura» né mutare la sua disposizione, né soffrir dolore né provar sofferenza. Che se dovesse esser soggetto a una qualunque di queste cose, non sarebbe più uno. Se infatti cambia la sua natura è necessario che l’essere non sia uguale, ma che perisca ciò che era prima e nasca ciò che non è. Basterebbe dunque che diventasse

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diverso anche di un solo capello in diecimila anni perché si annientasse completamente in tutta la durata del tempo. 3. E neppure è possibile che muti la sua disposizione, perché non si distrugge l’ordinamento che c’era prima e non nasce quello che non c’è. Ma poiché niente si aggiunge o perisce o diventa diverso, come potrebbe mutarsi qualcuno degli esseri? Perché se qualcosa potesse diventare diverso, sarebbe già cambiata anche la sua disposizione. [...] 7. E neppure c’è niente di vuoto: perché il vuoto non è nulla e quindi ciò che non è nulla non può esistere. Né si muove: infatti non ha luogo dove spostarsi, ma è pieno. Ché se il vuoto esistesse, potrebbe spostarsi nel vuoto, ma non essendovi il vuoto non ha dove spostarsi. 8. E non può essere né denso né sottile. Il sottile infatti non è possibile che sia pieno nella stessa misura del denso, ma il sottile è già di per se stesso più vuoto del denso. 9. Questa è la distinzione da fare tra pieno e non pieno: se una cosa fa posto a un’altra o la accoglie in sé non è piena; se non fa posto ad un’altra né l’accoglie in sé è piena. 10. Quindi deve essere pieno se il vuoto non esiste. Ma se è pieno non si muove. DK, 30 B 8: 1. Questo discorso che abbiamo fatto è la massima prova che esiste soltanto l’uno, ma ne son prove anche queste cose che ora diciamo. 2. Se infatti esistessero molti esseri, dovrebbero essere così come io dico che è l’uno. Ché se ci fosse la terra e l’acqua e l’aria e il fuoco e il ferro e l’oro, e il vivo e il morto, e il nero e il bianco e tutte quelle cose che gli uomini dicono esser vere, se dunque queste cose esistono e noi vediamo e udiamo secondo verità, ognuna di esse dovrà essere necessariamente tale quale ci è apparsa la prima volta e non dovrà né cambiare né diventar diversa, ma essere sempre ognuna qual è. Ora noi diciamo di vedere di udire e di intendere secondo verità; 3. e tuttavia ci sembra che il caldo diventi freddo e il freddo caldo e che il duro diventi molle e il molle duro e ci sembra che il vivo muoia e nasca da ciò che non vive e che tutte queste cose mutino nella loro natura e che ciò che era non sia uguale a quel che è ora, ma che per esempio il ferro, che è una cosa dura, si consumi stando a contatto col dito, e così l’oro e la pietra e tutto ciò che sembra solido, e ci sembra che dall’acqua si generino terra e pietra. Da cui risulta che noi non vediamo né conosciamo gli esseri nella loro realtà. 4. Dunque queste cose non concordano tra loro. Infatti benché diciamo che gli esseri sono molti e che hanno forme e forza eterne, ci sembra poi che tutti mutino nella loro natura e divengano diversi da come li vediamo ogni volta.

 - Di Melisso (Samo VI-V secolo a.C.) sappiamo molto poco; l’unica data certa è il 442 a.C. quando comandò vittoriosamente la flotta di Samo contro gli ateniesi. È quindi impossibile datare la sua opera. Il testo riportato è tratto da: I presocratici. Frammenti e testimonianze, a cura di A. Pasquinelli, Einaudi, Torino 1976, pp. 17 ss.

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E, Poema lustrale CHI è vER AMENTE IL NOsTRO IO? Presso alcuni culti misterici e alcune filosofie (e sette filosofiche, come quella dei pitagorici) era familiare l’idea che la nostra TW]GLq (la natura profonda e vitale dell’io) fosse qualcosa di molto diverso dalla materialità dei corpi che conosciamo; che sopravvivesse alla morte e al corpo e vivesse una propria vita indipendente, reincarnandosi in un ciclo cosmico di rinascite. Non sappiamo quali fossero le argomentazioni che convinsero Empedocle, e se argomentazioni razionali siano state proposte nel suo poema. sappiamo soltanto che l’indagine sulla vera natura dell’uomo portò questo filosofo a esiti originali, che ritorneranno per secoli a circolare nella storia della filosofia.

(fr. 114) O amici, so bene che verità alberga negli argomenti che ora voglio esporre; ma assai travagliato e sospettoso è il passaggio della convinzione dentro l’animo umano.

[La legge morale] (fr. 144) ... di ogni malvagità bisogna essere digiuni. (fr. 115) E c’è, come un dato ineluttabile, l’antico decreto degli dèi, sempiterno, suggellato con ampi rescritti giurati, allorché per erramenti un uomo insozzi le proprie mani con il sangue. «Ed è questo»: chi risulta spergiuro per la colpa commessa, dovrà migrare lontano dai beati, che come demoni longevi hanno raggiunto la vita, per tre volte diecimila stagioni, rinascendo attraverso il tempo in molteplici forme di corpi mortali, permutando i procellosi cammini della propria esistenza. Così ora sono esule anch’io per il decreto divino, ed errante affidato all’astio furibondo,... Perché la forza dei venti li insegue fino al mare, e il mare li ributta sul dorso della terra, e la terra contro i raggi del sole possente, e questo li scaglia nel turbine dei venti: ognuno dall’altro li riceve e tutti li aborrono.

[I gradi della purificazione] (fr. 117) perché ci fu anche un tempo che sono stato un giovane e una ragazza, e un virgulto e un uccello e uno squamoso pesce del mare. (fr. 127) e come fiere diventano selvaggi leoni a brado, gli inizi

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e come alberi frondosi diventano piante di alloro. (fr. 140) perciò bisogna assolutamente tenere via le mani da queste fronde. (fr. 146) E alla fine ci sono i veggenti ed i poeti e i medici, e quelli che per gli uomini terrestri sono i capi; donde germogliano gli esseri divini, primi di rango, (fr. 147) conviventi con gli altri immortali; così, sedendo alle stesse tavole, sono affrancati dalle umane angosce, incorruttibili.

[Il veggente] (fr. 129) Fra quelli c’era un uomo di superiore sapienza, che possedeva la più ampia ricchezza dell’animo, ed abile veramente in opere d’ogni genere e sagge; perché, quando si tendeva con tutta la forza dell’animo, egli riusciva a vedere facilmente ognuna di tutte le cose esistenti, anche in dieci e poi venti generazioni di uomini.

[Il prato della cecità] (fr. 121) ... una landa ingrata, dove si trovavano strage e livore, e di altri lutti le stirpi, e morbi brucianti e putredini, e rivoli stagnanti, nella prateria dell’errore, per chi si aggira attraverso le tenebre.

 - Empedocle (Agrigento 492 ca. - 432 ca. a.C.) scrisse il Poema lustrale (o Purificazioni) dopo un viaggio a Elea in cui conobbe Parmenide e delle cui idee subì l’influenza: presumibilmente quindi verso la metà del V secolo a.C. Il testo riportato è tratto da: Empedocle, Poema fisico e lustrale, a cura di C. Gallavotti, Fondazione Valla/Mondadori, Milano 1988, pp. 75 ss.

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A da I presocratici. Testimonianze e frammenti IL DIsPIEgARsI DEgLI EvENTI E DEI CORPI NELLO sPAzIO E NEL TEMPO è REgOLATO DA UNA LEggE E gUIDATO DA UNA MENTE O è FRUTTO DEL CAsO? Le tradizioni religiose monoteiste ci hanno abituato a pensare che dietro la natura ci sia una mente, più esattamente una mente creatrice. questa idea non risale ai greci, che non hanno mai elaborato il concetto di creazione e sono sempre rimasti fedeli al principio (parmenideo, ma non solo) che nulla possa nascere dal nulla. Con Anassagora compare una teoria già in qualche modo presente in Eraclito e in altri: che la natura (la TL]WMW) sia regolata da una mente che la governa dall’interno, agendo come una forza che plasma ogni cosa ed è dietro ogni evento, una forza cosciente di sé. Un intelletto, 2SYW. Nulla dunque avviene a caso, ma tutto secondo ordine e legge. Di questo universo ordinato – dunque di questo “cosmo” – Anassagora e molti altri ricercano le leggi.

DK, 59 B 3: In effetti del piccolo non c’è il minimo ma sempre un più piccolo (è impossibile in realtà che ciò che è non sia) – ma anche del grande c’è sempre un più grande: e per quantità è uguale al piccolo e in rapporto a se stessa ogni [cosa] è e grande e piccola. DK, 59 B 4: Stando questo così, bisogna supporre che in tutti gli aggregati ci siano molte [cose] e di ogni genere e semi di tutte le cose aventi forme d’ogni sorta e colori e sapori. E che uomini siano stati composti e le altre creature quante hanno vita, e che questi uomini abbiano città abitate ed opere costruite, come da noi, e abbiano il sole e la luna e tutto il resto, come da noi, e che la terra produca per loro molte [cose] e di ogni genere, che essi usano portando le migliori a casa. Questo io ho detto a proposito della separazione, ma anche altrove. Prima che queste [cose] si separassero, essendo tutte insieme, nessun colore era discernibile: lo proibiva la mescolanza di tutte le cose, dell’umido e del secco, del caldo e del freddo, del luminoso e dell’oscuro, e della terra molta che c’era e dei semi illimiti per quantità e in niente simili l’uno all’altro. Perché neppure delle altre [cose] l’una è simile all’altra. Stando questo così, bisogna supporre che nel tutto ci siano tutte le cose.

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DK, 59 B 5: Divisesi queste [cose] in tal modo, bisogna riconoscere che tutte [le cose] non sono né di meno né di più (perché non è possibile che siano più di tutte) ma tutte sempre uguali. DK, 59 B 6: E poiché uguali parti sono del grande e del piccolo, anche così in ogni [cosa] ci potranno essere tutte [le cose]: non è possibile che alcunché esista disgiuntamente, ma tutte [le cose] hanno parte a tutto. E poiché non può esistere il minimo, niente potrebbe starsene disgiunto né venire a essere in sé ma, come all’inizio, così anche adesso tutte le [cose] insieme. In tutte molte [cose] si trovano e uguali per quantità e nelle più grandi e nelle più piccole delle [cose] che si formano mediante separazione. DK, 59 B 11: In ogni [cosa] c’è parte di ogni [cosa], ad eccezione dell’intelletto [Nous]: ma ci sono [cose] nelle quali c’è anche l’intelletto [Nous]. DK, 59 B 12: Tutte le altre [cose] hanno parte a tutto, mentre l’intelletto è alcunché di illimite e di autocrate e a nessuna cosa è mischiato, ma è solo, lui in se stesso. Se non fosse in se stesso, ma fosse mescolato a qualcos’altro, parteciperebbe di tutte le cose, se fosse mescolato a una qualunque. Perché in ogni [cosa] c’è parte di ogni [cosa], come ho detto in quel che precede [B 11]: le [cose] commiste ad esso l’impedirebbero di modo che non avrebbe potere su nessuna cosa come l’ha quand’è solo in se stesso. Perché è la più sottile di tutte le cose e la più pura: ha cognizione completa di tutto e il più grande dominio e di quante [cose] hanno vita, quelle maggiori e quelle minori, su tutte ha potere l’intelletto. E sull’intera rivoluzione l’intelletto ebbe potere sì da avviarne l’inizio. E dapprima ha dato inizio a tale rivolgimento dal piccolo, poi la rivoluzione diventa più grande e diventerà più grande. E le [cose] che si mescolano insieme e si separano e si dividono, tutte l’intelletto ha conosciuto. E qualunque [cosa] doveva essere e qualunque fu che ora non è, e quante adesso sono e qualunque altra sarà, tutte l’intelletto ha ordinato, anche questa rotazione in cui si rivolgono adesso gli astri, il sole, la luna, l’aria, l’etere che si vengono separando. Proprio questa rivoluzione li ha fatti separare e dal raro per separazione si forma il denso, dal freddo il caldo, dall’oscuro il luminoso, dall’umido il secco. In realtà molte [cose] hanno parte a molte [cose]. Ma nessuna si separa o si divide del tutto, l’una dall’altra, ad eccezione dell’intelletto. L’intelletto è tutto uguale, quello più grande e quello più piccolo. Nessun’altra [cosa] è simile ad altra, ma ognuna è ed era le [cose] più appariscenti che in essa sono in misura massima. DK,59 B 13: Dopoché l’intelletto dette inizio al movimento, dal tutto che era mosso cominciavano a formarsi [le cose] per separazione, e quel che l’intelletto aveva messo in movimento, tutto si divise. E la rotazione di quanto era mosso e separato accresceva di molto il processo di separazione.

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DK, 59 B 14: E l’intelletto, che è sempre, tanto più è anche adesso dove sono tutte le altre [cose], nel molto che avvolge e nelle [cose] che si aggregano e in quelle che si formano per separazione. DK, 59 B 15: Il denso e umido e freddo e l’oscuro si è raccolto qui, dove ora «è la terra», mentre il raro, il caldo e l’asciutto si è allontanato verso le regioni esterne dell’etere. DK, 59 B 16: Da questi che si separano si compagina la terra: dalle nuvole si forma l’acqua, dall’acqua la terra, dalla terra si compaginano i sassi sotto l’azione del freddo e questi tendono a muoversi all’esterno più dell’acqua. DK, 59 B 17: Del nascere e del perire i Greci non hanno una giusta concezione, perché nessuna cosa nasce né perisce, ma da cose esistenti [ogni cosa] si compone e si separa. E così dovrebbero propriamente chiamare il nascere comporsi, il perire separarsi. DK, 59 B 21: Il fisicissimo Anassagora, criticando la debolezza dei sensi dice che a causa della loro opacità non siamo capaci di giudicare il vero. A fede della loro infedeltà egli reca l’impercettibile trasformazione dei colori. Se prendiamo due colori, il nero e il bianco, e li mescoliamo l’un l’altro, a goccia a goccia, la vista non potrà distinguere il mutamento impercettibile, anche se esistente realmente in natura. DK, 59 B 21a: Le parvenze fenomeniche, infatti, sono l’aspetto visibile delle [cose] non appariscenti.

 - Anassagora (Clazomene 500 ca. - Lampsaco 428 ca. a.C.) compose il suo scritto Sulla natura nel periodo in cui frequentò la cerchia di Pericle, quindi (considerando che Socrate la lesse da giovane e che nel 432 subì un processo per empietà) presumibilmente tra il 450 e il 440 a.C. Il testo riportato è tratto da: I presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di G. Giannantoni, 2 voll., Laterza, Roma-Bari 1986, vol. II, pp. 603 ss.

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L  D da I presocratici. Testimonianze e frammenti LA MATERIA DI CUI è FATTO L’UNIvERsO è DIvIsIbILE ALL’INFINITO? Una delle teorie fisiche e filosofiche che nell’antichità è stata a lungo discussa è l’atomismo, il cui principio chiave è questo: il cosmo è regolato da leggi ed è costituito da due soli elementi, il vuoto e il pieno, cioè lo spazio (che non è materia, ma la contiene e non interagisce con essa) e gli atomi (particelle di materia molto piccola e indivisibile). La teoria è molto originale perché per la prima volta al fine della comprensione razionale delle componenti fondamentali del cosmo propone un ragionamento molto astratto per l’elaborazione di una teoria sulle particelle minime di materia, e dunque una riflessione basata in parte sull’esperienza (tutti i corpi appaiono divisibili) in parte indipendente da essa (se fossero divisibili all’infinito non sarebbe possibile la loro aggregazione). Tuttavia la teoria ci è poco nota nei dettagli, perché quasi tutta l’opera di Democrito è andata perduta. In questa filosofia l’ordine del cosmo non è stabilito finalisticamente da alcuna mente, ma è puramente meccanico.

[Da Aristotele, Metafisica] DK, 67 A 6: Leucippo [...] e il suo seguace Democrito pongono come elementi il pieno e il vuoto, e chiamano l’uno essere< e l’altro non-essere; e precisamente chiamano il pieno e il solido essere e il vuoto non-essere; e per questo sostengono che l’essere non ha affatto più realtà del non-essere, in quanto il pieno non ha più realtà del vuoto. E pongono questi elementi come cause materiali degli esseri. E, come quei pensatori che considerano come unica la sostanza che funge da sostrato e spiegano la derivazione di tutte le altre cose mediante la modificazione di essa introducendo il raro e il denso come princìpi di queste modificazioni, così, nello stesso modo, Democrito e Leucippo dicono che le differenze «degli elementi» sono le cause di tutte le altre. Essi inoltre dicono che tre sono queste differenze: la figura, l’ordine e la posizione. L’essere infatti – essi precisano – differisce solamente per proporzione, per contatto e per direzione. La proporzione è la forma, il contatto è l’ordine e la direzione è la posizione. In effetti, A differisce da N, per la forma, AN da NA per l’ordine, mentre H differisce da H per la posizione. Per quanto concerne il movimento, donde esso derivi e come esista negli esseri, anche costoro, analogamente agli altri, hanno sconsideratamente trascurato di indagare.

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[Da Diogene Laerzio, Vite dei filosofi] DK, 67 A 1: Democrito, figlio di Egesistrato, secondo altri invece di Atenocrito, secondo altri ancora di Damasippo, nacque ad Abdera o, stando a certuni, a Mileto. [...] Entrò in rapporti con Leucippo e, a detta di alcuni, anche con Anassagora, avendo quarant’anni meno di lui [...]. Le sue dottrine sono queste: princìpi di tutte le cose sono gli atomi e il vuoto, e tutto il resto è opinione soggettiva; vi sono infiniti mondi, i quali sono generati e corruttibili; nulla viene dal non essere, nulla può perire e dissolversi nel non essere. E gli atomi sono infiniti sotto il rispetto della grandezza e del numero, e si muovono nell’universo aggirandosi vorticosamente e in tal modo generano tutti i composti, fuoco, acqua, aria, terra; poiché anche questi sono dei complessi di certi particolari atomi: i quali invece non sono né scomponibili né alterabili appunto per la loro solidità. Il sole e la luna sono pure composti di tali atomi, [di quelli cioè] lisci e rotondi; e ugualmente l’anima, che è tutt’uno con l’intelletto. Noi vediamo per effetto degli idoli che penetrano nei nostri occhi. Tutto si produce conforme a necessità, poiché la causa della formazione di tutte le cose è quel movimento vorticoso che egli chiama appunto necessità. Il fine supremo della vita è la tranquillità dell’animo, che non è la medesima cosa del piacere, come credevano certuni che avevano frainteso, bensì quello stato in cui l’animo è calmo ed equilibrato, non turbato da paura alcuna. DK, 68 B 6: L’uomo deve rendersi conto, per mezzo del presente criterio, ch’egli è [per effetto delle apparenze sensibili] tenuto lontano dalla verità. DK, 68 B 7: Anche questa considerazione appunto dimostra che noi non sappiamo nulla conforme a verità intorno a nessuna cosa, ma che l’opinione è in ciascuno [una sorta di] nuova configurazione. DK, 68 B 8: E pertanto sarà manifesto che vi è grande difficoltà a conoscere conforme a verità come sia costituito ogni oggetto. DK, 68 B 9: Opinione il dolce, opinione l’amaro, opinione il caldo, opinione il freddo, opinione il colore; verità gli atomi e il vuoto [...]. Noi in realtà non conosciamo nulla che sia invariabile, ma solo aspetti mutevoli secondo la disposizione del nostro corpo e di ciò che penetra in esso o gli resiste. DK, 68 B 11: Vi sono due forme di conoscenza, l’una genuina e l’altra oscura; e a quella oscura appartengono tutti quanti questi oggetti: vista, udito, odorato, gusto e tatto. L’altra forma è la genuina, e gli oggetti di questa sono nascosti [alla conoscenza sensibile od oscura]. Quando la conoscenza oscura non può più spingersi ad oggetto più piccolo né col vedere né

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coll’udire né coll’odorato né col gusto né con la sensazione del tatto, ma «si deve indirizzar la ricerca» a ciò che è ancor più sottile, «allora soccorre la conoscenza genuina, come quella che possiede appunto un organo più fine, appropriato al pensare».

 - Di Leucippo (V sec. a.C.) non sappiamo quasi nulla (forse fu scolaro di Zenone a Elea); anche di Democrito (Abdera 460 ca. - 370 ca. a.C.) ben poco ci è noto, tranne che, oltre a essere scolaro e amico di Leucippo, fu longevo e scrisse molto. Se del primo ci sono giunte solo notizie indirette, i frammenti delle opere del secondo sono difficilmente databili. I testi riportati sono tratti da: I presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di G. Giannantoni, 2 voll., Laterza, Roma-Bari 1986, vol. II, pp. 647, 663, 748.

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P da Platone, Protagora qUALI sONO I FONDAMENTI DELLA DEMOCR AzIA? Protagora è stato uno dei primi tra i sofisti ad acquistare una grande fama nel mondo intellettuale e politico della grecia. Appartenne al circolo di Pericle e quindi visse nel pieno del clima dell’illuminismo greco e della democrazia ateniese: non a caso di questo regime politico (che nella seconda metà del v secolo si era già affermato da alcuni decenni, sia in molte colonie sia nella stessa Atene) fornì una delle prime giustificazioni teoriche, che Platone ci riporta attraverso un racconto mitico. Da questo risulta che la necessità dell’uomo di vivere in modo associato (in quanto povero di strumenti istintuali e dalla scarsa dotazione fisica non potrebbe sopravvivere altrimenti) dipende sia dal possesso delle tecniche meccaniche che gli consentono di dominare gli elementi naturali, sia da quello dell’arte politica. Ma mentre le prime non sono tutte in possesso di tutti (nella città vige il principio della divisione del lavoro), la seconda (consistente nel reciproco rispetto e nella giustizia) deve poter essere accessibile a tutti come patrimonio comune dei cittadini in quanto comunità di uguali ed esperti competenti degli affari che li riguardano.

Ci fu un tempo in cui esistevano gli dei, ma non le stirpi mortali. Quando giunse anche per queste il momento fatale della nascita, gli dei le plasmarono nel cuore della terra, mescolando terra, fuoco e tutto ciò che si amalgama con terra e fuoco. Quando le stirpi mortali stavano per venire alla luce, gli dei ordinarono a Prometeo e a Epimeteo di dare con misura e distribuire in modo opportuno a ciascuno le facoltà naturali. Epimeteo chiese a Prometeo di poter fare da solo la distribuzione: “Dopo che avrò distribuito – disse – tu controllerai”. Così, persuaso Prometeo, iniziò a distribuire. Nella distribuzione, ad alcuni dava forza senza velocità, mentre donava velocità ai più deboli; alcuni forniva di armi, mentre per altri, privi di difese naturali, escogitava diversi espedienti per la sopravvivenza. Ad esempio, agli esseri di piccole dimensioni forniva una possibilità di fuga attraverso il volo o una dimora sotterranea; a quelli di grandi dimensioni, invece, assegnava proprio la grandezza come mezzo di salvezza. Secondo questo stesso criterio distribuiva tutto il resto, con equilibrio. Escogitava mezzi di salvezza in modo tale che nessuna specie potesse estinguersi. Procurò agli esseri viventi possibilità di fuga dalle reciproche minacce e poi escogitò per loro

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facili espedienti contro le intemperie stagionali che provengono da Zeus. Li avvolse, infatti, di folti peli e di dure pelli, per difenderli dal freddo e dal caldo eccessivo. Peli e pelli costituivano inoltre una naturale coperta per ciascuno, al momento di andare a dormire. Sotto i piedi di alcuni mise poi zoccoli, sotto altri unghie e pelli dure e prive di sangue. In seguito procurò agli animali vari tipi di nutrimento, per alcuni erba, per altri frutti degli alberi, per altri radici. Alcuni fece in modo che si nutrissero di altri animali: concesse loro, però, scarsa prolificità, che diede invece in abbondanza alle loro prede, offrendo così un mezzo di sopravvivenza alla specie. Ma Epimeteo non si rivelò bravo fino in fondo: senza accorgersene aveva consumato tutte le facoltà per gli esseri privi di ragione. Il genere umano era rimasto dunque senza mezzi, e lui non sapeva cosa fare. In quel momento giunse Prometeo per controllare la distribuzione, e vide gli altri esseri viventi forniti di tutto il necessario, mentre l’uomo era nudo, scalzo, privo di giaciglio e di armi. Intanto era giunto il giorno fatale, in cui anche l’uomo doveva venire alla luce. Allora Prometeo, non sapendo quale mezzo di salvezza procurare all’uomo, rubò a Efesto e ad Atena la perizia tecnica, insieme al fuoco – infatti era impossibile per chiunque ottenerla o usarla senza fuoco – e li donò all’uomo. All’uomo fu concessa in tal modo la perizia tecnica necessaria per la vita, ma non la virtù politica. Questa si trovava presso Zeus, e a Prometeo non era più possibile accedere all’Acropoli, la dimora di Zeus, protetta da temibili guardie. Entrò allora di nascosto nella casa comune di Atena ed Efesto, dove i due lavoravano insieme. Rubò quindi la scienza del fuoco di Efesto e la perizia tecnica di Atena e le donò all’uomo. Da questo dono derivò all’uomo abbondanza di risorse per la vita, ma, come si narra, in seguito la pena del furto colpì Prometeo, per colpa di Epimeteo. Allorché l’uomo divenne partecipe della sorte divina, in primo luogo, per la parentela con gli dei, unico fra gli esseri viventi, cominciò a credere in loro, e innalzò altari e statue di dei. Poi subito, attraverso la tecnica, articolò la voce con parole, e inventò case, vestiti, calzari, giacigli e l’agricoltura. Con questi mezzi in origine gli uomini vivevano sparsi qua e là, non c’erano città; perciò erano preda di animali selvatici, essendo in tutto più deboli di loro. La perizia pratica era di aiuto sufficiente per procurarsi il cibo, ma era inadeguata alla lotta contro le belve (infatti gli uomini non possedevano ancora l’arte politica, che comprende anche quella bellica). Cercarono allora di unirsi e di salvarsi costruendo città; ogni volta che stavano insieme, però, commettevano ingiustizie gli uni contro gli altri, non conoscendo ancora la politica; perciò, disperdendosi di nuovo, morivano. Zeus dunque, temendo che la nostra specie si estinguesse del tutto, inviò Ermes per portare agli uomini rispetto e giustizia, affinché fossero fondamenti dell’ordine delle città e vincoli d’amicizia. Ermes chiese a Zeus in quale modo dovesse distribuire rispetto e giustizia agli uomini: «Devo distribuirli come sono state distri-

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buite le arti? Per queste, infatti, ci si è regolati così: se uno solo conosce la medicina, basta per molti che non la conoscono, e questo vale anche per gli altri artigiani. Mi devo regolare allo stesso modo per rispetto e giustizia, o posso distribuirli a tutti gli uomini?» «A tutti – rispose Zeus – e tutti ne siano partecipi; infatti non esisterebbero città, se pochi fossero partecipi di rispetto e giustizia, come succede per le arti. Istituisci inoltre a nome mio una legge in base alla quale si uccida, come peste della città, chi non sia partecipe di rispetto e giustizia». Per questo motivo gli Ateniesi e tutti gli altri, quando si discute di architettura o di qualche altra attività artigianale, ritengono che spetti a pochi la facoltà di dare pareri e non tollerano, come tu dici – naturalmente, dico io – se qualche profano vuole intromettersi. Quando invece deliberano sulla virtù politica – che deve basarsi tutta su giustizia e saggezza – ascoltano il parere di chiunque, convinti che tutti siano partecipi di questa virtù, altrimenti non ci sarebbero città.

 - Protagora di Abdera (Abdera 480 ca. - 410 ca. a.C.) è il protagonista di questo dialogo con Socrate scritto da Platone nel periodo giovanile. Il testo riportato è tratto da: Platone, Protagora, trad. it. di M.E. Gabrielli e M. Palma, Il Giardino dei Pensieri, www.ilgiardinodeipensieri.eu

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G, Encomio di Elena sI PUò INCANTARE qUALCUNO CON LE PAROLE? Per esperienza sappiamo che è possibile incantare qualcuno con le parole, che esse possono fare molto male, possono ferire, oppure renderci felici, o essere usate per indurre le più diverse emozioni e per far nascere o spegnere sentimenti importanti, che possono spingere a prendere una decisione diversa da quella che avremmo preso se non le avessimo ascoltate, che sono una guida per l’azione e hanno conseguenze pratiche che possono risultare decisive. I sofisti greci sono stati innanzitutto degli uomini vicini al potere e alla sua gestione: perciò gorgia, consapevole che la parola costituisce una forza prodigiosa, che il suo uso sapiente da parte dell’esperto oratore può produrre l’effetto di controllare e dirigere l’animo umano secondo il fine che egli vuole conseguire, ci propone, con questo Encomio di Elena, una sorta di gioco (o “scherzo”) retorico per invitarci all’attenzione nel suo impiego in modo da poterne calibrare le conseguenze. specialmente l’uomo politico deve sapere che il potere, nella città democratica, si conquista e si amministra attraverso la parola, controllando i sistemi della comunicazione dovunque esso si eserciti (nelle assemblee, nei tribunali ecc.).

Ciò che rende ordinata e perfetta una città è l’abbondanza di uomini valorosi, per un corpo è la bellezza, per un’anima è la sapienza, per un’azione è la virtù, per un discorso è la verità; ciò che è contrario a tutto questo crea disordine e imperfezione. Un uomo, una donna, un discorso, un’azione, una città devono essere onorati con lodi per la loro condizione, se ne sono degni, se viceversa ne sono indegni, devono essere colpiti da biasimo; infatti biasimare ciò che è lodevole è sciocco tanto quanto lodare ciò che è riprovevole. È compito di una stessa persona affermare con forza ciò che è dovuto e controbattere coloro che biasimano Elena, donna che è stata biasimata concordemente tanto dalla testimonianza fedele dei poeti, interpreti della tradizione, quanto dalla fama del nome, divenuto sinonimo di sventure. Io tuttavia, riesaminando con razionalità la leggenda, voglio liberare Elena dall’accusa e dalla sua cattiva fama, mostrando che i suoi detrattori mentono, e chiarendo la verità por fine all’ignoranza. […] Se poi fu la parola che la convinse e le incantò il cuore, neppure in questo caso è difficile difenderla e ribattere l’accusa come segue. Grande tiranno

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è la parola, che pur con un corpo microscopico e del tutto invisibile riesce però a compiere opere assolutamente degne degli dèi: infatti può placare il timore, eliminare il dolore, infondere la gioia, accrescere la pietà. E mostrerò come ciò avvenga. Bisogna infatti renderlo evidente per l’opinione degli ascoltatori. Io considero e definisco tutta la poesia “discorso in metrica”; essa infonde negli ascoltatori brividi di paura, lacrime di compassione, il rimpianto struggente per un lutto, e attraverso le parole riesce a fare sentire come proprie le fortune o le disgrazie relative a fatti e persone estranei. Orsù, bisogna che faccia un ulteriore passaggio. Gli incantesimi di ispirazione divina attraverso le parole inducono il piacere, rimuovono il dolore; infatti diventando una cosa sola con l’opinione dell’anima, con il suo potere l’incantesimo la affascina, la seduce e la trasforma con il suo potere magico. La magia e l’incanto hanno trovato due mezzi per raggiungere il loro scopo: gli errori dell’animo e gli inganni della opinione. E grazie a un falso discorso quanti sono quelli che oggi e un tempo ingannarono e furono ingannati, e su quante cose! Se infatti tutti avessero su tutto ricordo del passato, consapevolezza del presente e previdenza del futuro, il medesimo discorso non ingannerebbe allo stesso modo. Ma ora invero non c’è modo di ricordare il passato né di osservare il presente né di prevedere il futuro; così i più offrono all’anima solo l’opinione come consigliera. Ma l’opinione, essendo incerta e insicura, coinvolge chi se ne serve in vicende dall’esito incerto e insicuro. Dunque quale ragione impedisce che anche Elena sia stata raggiunta in modo analogo da parole incantatrici – lei che non era più giovane – come se fosse stata rapita con la violenza? Infatti la forza della persuasione che determinò il pensiero di costei – certamente era ineluttabile – possiede un potere pari a quello di ciò che accade necessariamente. La parola infatti che persuade la mente, costringe l’animo che ha persuaso a credere alle parole e ad approvare le azioni. Dunque colui che persuase è nell’ingiustizia perché ha esercitato una costrizione, mentre colei che fu persuasa, in quanto costretta dalle parole, a torto viene diffamata. Quanto al fatto poi che la persuasione unita alla parola imprima anche nell’animo ciò che vuole, bisogna osservare in primo luogo i discorsi dei fisiologi, che rendono evidente agli occhi della mente ciò che è incredibile e oscuro, eliminando un’opinione e infondendone un’altra; in secondo luogo le contese oratorie nei dibattiti giudiziari, in cui un solo discorso riesce ad interessare e convincere un’infinità di gente, se è scritto con arte, non se è pronunciato in base alla verità; in terzo luogo i sottili dibattiti dei filosofi, in cui si mostra anche la rapidità del pensiero, giacché cambia rapidamente la fiducia accordata ad un’opinione.

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La potenza della parola poi nei confronti della disposizione dell’animo si comporta in modo analogo alla incidenza dei farmaci sulla natura dei corpi. Come infatti alcuni dei farmaci eliminano dal corpo certi umori, altri fanno cessare la malattia, altri la vita, così anche fra i discorsi gli uni arrecano dolore, altri gioia, gli uni infondono timore negli ascoltatori, gli altri coraggio, altri infine, con un malvagio potere di persuasione, avvelenano e incantano l’anima.

 - Gorgia (Lentini 480-383 ca. a.C.), probabilmente, scrisse l’Encomio di Elena durante il suo soggiorno ad Atene in cui nel 427 a.C. si era recato per un’ambasceria. Il testo riportato è tratto da: Gorgia da Lentini, Encomio di Elena, a cura dell’Archivio “Il Giardino dei Pensieri”, Il Giardino dei pensieri, www.ilgiardinodeipensieri.eu

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Capitolo

2 Socrate e Platone Proprio quando la democrazia ateniese entra in crisi – in seguito alla sconfitta nella guerra del Peloponneso e alla dittatura dei Trenta Tiranni – si affacciano sulla scena culturale ateniese prima Socrate e poi Platone, due figure di estremo valore speculativo. Socrate, che intenzionalmente non ha lasciato nulla di scritto, dedica l’intera esistenza alla ricerca razionale di una verità che ciascuno di noi porta dentro di sé e che attende solo di essere portata alla luce: il suo metodo consiste nel liberare l’anima dagli errori (ironia) e consentirle di partorire la “conoscenza di se stessi” (maieutica). Proseguendo la ricerca del maestro ma andando molto oltre le sue posizioni, Platone, la cui vita fu segnata tanto dalla ricerca filosofica quanto dalla passione politica, sviluppa un’articolata e complessa teoria della conoscenza (teoria delle idee) e dell’anima come fondamento di una teoria politica dello Stato giusto guidato dai sapienti.

S da Platone, Protagora Data una certa situazione, se sappiamo chiar amente che cosa è bene e che cosa è male, c’è qualcuno Di noi che preFerir à scegliere il male? socrate, in perfetto accordo con la cultura greca del suo tempo, esclude che si possa scegliere il male. se siamo posti di fronte a una opzione che ha conseguenze pratiche, scegliamo sempre e invariabilmente quello che in quel momento GVIHMEQS essere il bene. naturalmente questo non significa affatto che lo sia davvero, né che altri ritengano bene quello che noi abbiamo considerato tale. Da qui conflitti, errori, guai d’ogni tipo. è quindi chiaro che cosa ci sia da fare: imparare a distinguere con cura il bene dal male. il vero bene dal vero male. in modo oggettivo se si può (o almeno coerente con la nostra coscienza), in modo condiviso se non si può, seguendo le leggi della GMXXk.

“Forse possiamo chiarire la questione in questo modo. Ad esempio, se qualcuno vuole esaminare una persona in base all’aspetto esteriore e vuole giudicarne lo stato di salute o qualche altra qualità del corpo, dopo aver guardato il volto e le mani dice: «Su, spogliati e mostrami il petto e la schiena, perché io possa esaminarti con più accuratezza». Io voglio fare la stessa cosa per questa ricerca: vedendoti così disposto in relazione al bene e al piacere, come tu affermi, devo dirti: «Su, Protagora, svelami anche questo aspetto del tuo pensiero: che cosa ne pensi della scienza? La pensi come la maggior parte degli uomini o in un altro modo? Ai più la scienza sembra una cosa né forte né adatta a guidare né idonea a comandare; non solo le attribuiscono una natura tale, ma ritengono che spesso la scienza, pur essendo presente in un uomo, non riesca a guidarlo, ma che altre cose prendano il sopravvento: l’ira, il piacere, il dolore, l’amore, spesso la paura. La scienza è per i più come uno schiavo, trascinata qua e là da tutto il resto. Anche per te è così o pensi che la scienza sia qualcosa di bello, che sia capace di guidare l’uomo, e che, se uno conosce il bene e il male, non sia trascinato da niente altro e agisca solo come ordina la scienza? Credi che l’intelletto sia sufficiente a portare aiuto all’uomo?».” “Sembra che sia come tu dici, Socrate. Se è vergognoso per altri, figurati quanto lo è per me affermare che la sapienza e la scienza non sono le più potenti fra tutte le cose umane!”

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“Parli bene e dici la verità. Sai però che la maggior parte degli uomini non crede né a me né a te: dicono che molti, anche se conoscono il bene, non vogliono metterlo in pratica, pur essendo possibile per loro, ma preferiscono agire secondo altri princìpi. Se io chiedo quale sia la causa di questo comportamento, rispondono che quelli che agiscono così lo fanno o perché vinti dal piacere o dal dolore o perché dominati da qualcuna delle passioni di cui parlavo poco fa”. “Socrate, credo che anche in molte altre questioni gli uomini si sbaglino”. “Allora, preparati a convincere gli uomini insieme a me e a insegnare che cosa accade loro quando affermano di essere vinti dai piaceri e di non praticare per questo motivo il bene, benché lo conoscano. Se infatti noi dicessimo: “Non sono giuste le cose che dite, vi sbagliate” ci chiederebbero: “Protagora e Socrate, se quello che ci accade non è essere vinti dal piacere, allora che cosa è mai e che cosa pensate che sia? Ditecelo!»” “Che bisogno c’è, Socrate, di esaminare l’opinione della massa, che parla a vanvera?” “Credo che la ricerca consista nello scoprire in quale relazione si trovi il coraggio con le altre parti della virtù. Se dunque la pensi ancora come prima, cioè che sia io a condurre la ricerca come penso sia meglio, seguimi; se non vuoi, se lo desideri, lascerò stare”. “Va bene; continua come hai cominciato”. “Se ancora una volta ci chiedessero: «Che cosa pensate che sia quello che per noi è essere vinti dai piaceri?» Io risponderei: «Ascoltate: io e Protagora tenteremo di spiegarvelo. Non vi accade forse la stessa cosa quando siete trascinati dai cibi, dalle bevande e dagli amori, che sono piacevoli, e, pur sapendo che sono cose cattive, tuttavia cedete?»” “Direbbero di sì”. “E allora potremmo chiedere ancora: «In che senso affermate che sono cose cattive? Forse perché sul momento procurano piacere e perché ciascuna di loro è piacevole, o perché poi provocano malattie e povertà e molte altre cose simili? Oppure, anche se in futuro non procurano nessuna di queste cose, ma solo godimento, sarebbero pur sempre cattive, poiché, non importa in che modo, fanno godere chi le prova?». Io credo, Protagora, che risponderebbero che queste cose non sono cattive in base al fatto che procurano piacere sul momento, ma per ciò che segue, le malattie e il resto”. “Penso che molti risponderebbero così”. “Essendo causa di malattie e di povertà non sono forse anche causa di dolori? Sarebbero d’accordo, mi pare”. Protagora disse di sì. “«Allora, in base al ragionamento mio e di Protagora, vi sembra che queste cose siano cattive per qualche altro motivo se non perché procurano dolori e ci privano di altri piaceri?». Sarebbero d’accordo?”

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Eravamo entrambi della stessa opinione. “Poi se domandassimo loro il contrario: «Quando affermate che ci sono alcune cose buone che sono anche dolorose, forse intendete gli esercizi ginnici, le campagne militari, le cure mediche, con le loro cauterizzazioni, tagli, medicamenti, diete, che sono tutte cose buone, ma dolorose?» Risponderebbero di sì?”. Era d’accordo. “«Forse allora definite buone queste cose perché sul momento procurano estreme sofferenze e dolori o perché in un momento successivo derivano da loro salute, benessere fisico, salvezza degli stati, dominio su altri e ricchezza?» Sceglierebbero la seconda ipotesi, mi pare”. Era d’accordo. “«E queste cose sono buone per qualche altra ragione se non perché procurano piaceri e ci separano e ci allontanano dai dolori? O avete un altro criterio, in base al quale le considerate buone, che non siano i piaceri (che procurano) e i dolori (che allontanano)?» Direbbero di no, mi sembra”. “Anche secondo me direbbero di no”. “«Perciò inseguite il piacere come un bene e fuggite il dolore come un male»”.

 - Scritto da Platone nel periodo giovanile, Protagora rappresenta la migliore sintesi del pensiero etico di Socrate (Atene 470-399 a.C.) il quale – come ben noto – non lasciò nulla di scritto. Il testo riportato è tratto da: Platone, Protagora, trad. it. di M.E. Gabrielli e M. Palma, Il Giardino dei Pensieri, www.ilgiardinodeipensieri.eu

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S da Platone, Teeteto Da Dove Dobbiamo apprenDere la verità sul bene e sul male: Dagli altri, Dall’esperienza , Dal monDo, o Da noi stessi? eraclito aveva sostenuto che non è possibile raggiungere i “confini dell’anima”, cioè conoscere a fondo se stessi, perché la propria intima natura è troppo “profonda”. tuttavia questa indagine deve essere compiuta, perché distinguere il vero dal falso (cosa che sappiamo essere l’autentico compito di un filosofo, secondo socrate) è l’unica via che può consentirci di seguire davvero il bene ed evitare il male. ora, se nessun altro può insegnarcelo, perché nessuno ha una natura superiore all’umana e tutti siamo nelle stesse condizioni di non-sapere, non rimane altro che cercare la risposta in se stessi. non è lavoro da fare da soli: non ci si riuscirebbe. serve un socrate che ci faccia da guida. è questa l’essenza del metodo dialettico socratico, con cui impariamo a leggere entro noi stessi. ironicamente, socrate non fa poi un mestiere così diverso da quello di sua madre, che era una levatrice.

“Però devi sapere, Socrate, che io ho già intrapreso quest’esame diverse volte, stimolato dalle tue domande la cui eco era arrivata fino a me. Sfortunatamente non posso dirmi soddisfatto delle risposte formulate, e non so trovare in quelle che provo a formulare l’esattezza che tu richiedi, né come suprema risorsa so liberarmi dal desiderio di sapere”. “Il travaglio che tu senti non deriva da un vuoto interiore, ma da una pienezza”. “Non so, Socrate, posso solo dirti ciò che provo”. “E allora, ragazzo mio, non hai sentito dire che sono figlio di Fenarete, la levatrice tra le più note e abili?” “Certo che l’ho sentito dire”. “E che io pratico la stessa arte l’hai sentito dire?” “Questo no”. “Sappi allora che è così, ma non dirlo in giro. Infatti la gente è ben lontana, amico mio, dal pensare che io possegga quest’arte. La gente, che non lo sa non dice questo di me, ma che sono un tipo bizzarro e non creo negli spiriti altro che perplessità. Questo l’hai sentito dire?” “Questo sì”.

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“Ne vuoi sapere il motivo?” “Te ne prego”. “Ricorda quel che sai degli usi e dei costumi delle levatrici e così capirai più facilmente ciò che voglio dirti. Infatti tu sai, immagino, che non sono le donne ancora in grado di concepire e di partorire a far questo mestiere per le altre; lo fanno soltanto quelle che non possono più partorire”. “Certo”. [...] “La mia arte maieutica ha in generale le stesse caratteristiche della loro. La differenza è che la mia arte opera con gli uomini e non con le donne e che è l’anima che essa sorveglia nel travaglio del parto, non il corpo. Ma il più grande privilegio dell’arte che io pratico è di sapere mettere alla prova e distinguere, con grande rigore, se la riflessione di un giovane è gravida di apparenza vana e menzognera o del frutto della vita e della verità. Infatti io ho gli stessi limiti delle levatrici. Non è in mio potere generare nella saggezza e le critiche che nel passato mi sono state rivolte – che pongo domande agli altri ma non dico mai la mia opinione personale su alcuna cosa, e che la causa di questo è che la mia saggezza è cosa da nulla – è un rimprovero che risponde a verità. Eccola la vera causa: far da levatrice agli altri è il compito che il dio mi ha imposto; procreare è un potere che non mi ha dato. Io non sono dunque dentro di me saggio in nessun grado e non ho da parte mia generato nella mia anima proprio nulla. Ma coloro che entrano in rapporto con me all’inizio sembrano non saper nulla – qualcuno anche sembra non saper proprio nulla del tutto –, ma poi a mano a mano che mi stanno vicino e per quel tanto che il dio glielo concede è meravigliosa la velocità con cui progrediscono, sia a loro proprio giudizio sia a quello degli altri. Ed è chiarissimo il fatto che loro non hanno mai imparato nulla da me ed hanno da soli, in se stessi, concepito questa ricchezza di bei pensieri che scoprono e portano alla luce. Però il dio ed io siamo stati le loro levatrici. Ed ecco la prova. Molti non hanno compreso questo ed hanno creduto di avere da sé questo potere e non hanno capito il mio ruolo. Si sono dunque persuasi da soli, o si sono lasciati persuadere da altri, ad allontanarsi da me prima del dovuto: si sono allontanati e così hanno lasciato non soltanto abortire tutti gli altri frutti immaturi nelle altre loro cattive frequentazioni, ma hanno anche dato cattivi alimenti ai frutti già maturati con me, facendoli deperire dando più importanza a menzogne e a vane apparenze che al vero. E così è finita che sia ai propri occhi che a quelli degli altri vanno facendo la figura degli ignoranti. Fra questi c’è Aristide, il figlio di Simaco e molti altri. Talvolta tornano da me chiedendomi di rientrare in rapporti con loro e sono disposti a tutto perché io acconsenta. Con alcuni la saggezza divina che viene a farmi visita mi impedisce di tornare in rapporti con loro; con altri me lo consente ed essi tornano a dar frutto. Ciò che accade a chi

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mi frequenta è simile anche su un altro punto a ciò che accade alle donne nelle doglie del parto: essi provano dolore, sono pieni di perplessità che li tormentano a lungo di notte e di giorno, più delle donne che stanno per partorire. Ora, questi dolori la mia arte ha il potere di risvegliarli come di calmarli. Ecco dunque come vanno le cose con queste persone. Ma ve ne sono altri, Teeteto, che io ritengo non abbiano in gestazione alcun frutto. Capisco allora che non hanno alcun bisogno di me; con grande benevolenza mi occupo di loro e grazie al dio riesco a indovinare molto esattamente da quali frequentazioni essi potranno trarre profitto. Molti li ho spinti a legarsi a Prodico, molti ad altri uomini saggi. Perché, mio caro, mi sono dilungato in tutti questi dettagli? Perché penso, e tu stesso lo pensi, che tu stia sentendo il travaglio di un’intima gestazione. Affidati dunque a me come al figlio di una levatrice che possiede anch’egli l’arte maieutica; sforzati di rispondere alle mie domande più esattamente che puoi; e se, esaminando qualcuna delle tue formule, io ritengo di trovarvi vane apparenze, e non verità, e allora la strappo da te e la getto lontano, non prendertela con me con quel furore selvaggio che prende le giovani donne minacciate dalla perdita del loro primo figlio. Molti si sono comportati così verso di me, mio meraviglioso giovane, e sono arrivati a tal punto di diffidenza da essere realmente pronti a mordere per la prima sciocchezza che io levo loro. Non immaginano affatto che è per il loro bene che io agisco così; sono troppo lontani dal sapere che nessun dio vuole del male agli uomini e che io non è affatto per malvagità che agisco così, ma perché mi è proibito da ogni legge divina dir di sì alle menzogne e oscurare la chiarezza del vero.”

 - Socrate (Atene 470-399 a.C.) è uno dei protagonisti del dialogo dialettico Teeteto, scritto da Platone negli anni della tarda maturità. Il testo riportato è tratto da: Platone, Teeteto, trad. it. di M. Trombino, Il Giardino dei Pensieri, www.ilgiardinodeipensieri.eu

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S da Platone, Apologia di Socrate quanDo sappiamo Di non sapere qualcosa , ne sappiamo comunque Di più Di chi non è cosciente Di non sapere? nella storia della filosofia questa domanda ha assunto un’importanza cruciale. un sapere senza consapevolezza non è un vero sapere. sappiamo veramente qualcosa quando distinguiamo con cura, su quello che riteniamo di sapere, che cosa è vero e che cosa è falso: cioè quando sappiamo che cosa sappiamo e che cosa no. certo, le cose non starebbero così se potessimo avere un sapere pieno e completo sull’argomento che desideriamo conoscere. ma nessun uomo può dire di avere un sapere così completo da essere in grado di rispondere a ogni possibile domanda sull’argomento che ritiene di conoscere; il che è lo stesso che dire che c’è sempre qualcosa che non si sa. Fare filosofia significa per socrate imparare a distinguere ciò che sappiamo e ciò che non sappiamo. e, data la condizione umana, è indispensabile una ricerca continua, che non può avere termine. il criterio definito dall’espressione “so di non sapere” deve esserci secondo socrate sempre presente: “conosci te stesso!”, non pensare di non avere limiti, ma non fermarti per questo nella tua indagine sulla verità. non fermare la tua ricerca.

Voi certamente conoscete Cherofonte. Lui ed io eravamo amici d’infanzia. Era un democratico, un amico di molti di voi, uno che è stato in esilio con voi e con voi è tornato in patria. Era di carattere impetuoso, lo sapete, qualunque cosa facesse ed una volta, trovatosi a Delfi, osò porre al dio questa domanda – non mormorate, vi ripeto, cittadini –: gli chiese se vi fosse qualcuno più sapiente di me. Ebbene, la Pizia riferì che nessuno era più sapiente. Cherofonte è morto, ma suo fratello che è qui tra voi potrà garantirvi che la Pizia dette davvero quest’oracolo. Capite che vi parlo di questo per spiegarvi come è nata la calunnia contro di me. Venuto infatti a conoscenza di questi fatti, dissi a me stesso: «Cosa dice il dio, a cosa allude? So bene di non essere affatto sapiente, né poco né molto. Che cosa intende dicendo che io sono il più sapiente? Certo, infatti, il dio non mente: mentire è contro la legge degli dèi». A lungo rimasi così, senza trovare una via d’uscita. Infine, davvero controvoglia, mi decisi a verificare la cosa nel modo seguente.

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Andai a trovare uno degli uomini che avevano fama di sapienti, pensando che così avrei smentito in qualche modo il responso e avrei potuto dire all’oracolo: «Ecco, questi è più sapiente di me, mentre tu hai detto che io sono il più sapiente di tutti». Esaminai dunque a fondo quest’uomo – inutile citare adesso il suo nome: basti dire che era uno dei nostri uomini politici. Solo che discutendo con lui, ecco l’impressione che ne ricavai, Ateniesi: mi sembrò che costui fosse capace di apparire sapiente a molti, e soprattutto a se stesso, ma che in fondo non lo fosse affatto. Allora cercai di mostrargli che si credeva sapiente, ma non lo era per nulla. E il risultato fu che attirai su di me la sua ostilità, e così quella di molti dei presenti. Alla fine me ne andai, dicendo tra me e me: «Io sono in effetti più sapiente di quest’uomo. Infatti nessuno di noi due sa davvero niente sulla perfezione; lui però non sa e crede di sapere; io che non so niente come lui, almeno non credo di sapere. Sembra dunque che almeno per questo particolare io sia più saggio di quest’uomo, poiché non m’illudo di sapere ciò che non so». In seguito andai da una seconda persona, uno di quelli che apparivano ancora più sapienti di lui. Ma ne ricevetti la stessa impressione. E così ottenni anche il risultato di attirarmi addosso anche l’odio di costui, e di molti altri. In seguito mi recai da uno dopo l’altro, accorgendomi con rammarico ed anzi con una certa inquietudine, che mi stavo facendo dei nemici. Continuai lo stesso, però, perché ritenevo indispensabile considerare più di ogni altra cosa il responso del dio. Bisognava dunque che cercassi coloro che sembravano possedere il sapere, ed in questo modo potessi capire il senso dell’oracolo. Ed ecco – perbacco, Ateniesi, devo pur dirvi la verità! – ecco quello che mi capitò. [...] Bisogna proprio che vi racconti questa mia inchiesta. Sottoporre a verifica l’oracolo è stato davvero come svolgere un duro lavoro. [...] Per finire, andai dagli artigiani. Avevo coscienza di non sapere proprio niente in questo campo, ed ero proprio sicuro di trovare tra essi uomini esperti di molte e belle arti. Su questo punto non mi ingannavo: sapevano in effetti cose che io non sapevo, ed in questo erano più bravi di me. Tuttavia, Ateniesi, anche i buoni artigiani mi sembrava compissero lo stesso errore dei poeti. Poiché compivano bene il loro mestiere, ciascuno di essi credeva di sapere tutto, persino le cose più difficili, e questa illusione faceva passare in secondo piano la sua abilità. E così, nel riflettere sull’oracolo, io finivo col chiedermi se non fosse meglio che mi accettassi così, senza il loro sapere né la loro ignoranza, piuttosto che avere come loro il sapere e l’ignoranza insieme. E così risposi a me stesso e all’oracolo che era meglio per me essere come ero. Proprio questa indagine, Ateniesi, ha fatto nascere tante inimicizie contro di me, le più aspre, le più gravi, origine di tante calunnie, e di questa stessa mia reputazione di sapiente. Ed infatti tutte le volte che dialogando

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finivo col confutare qualcuno, i presenti immaginavano che io sapessi ciò che questi ignorava. In realtà, giudici, probabilmente solo la divinità è sapiente, e con questo oracolo ha voluto dichiarare che il sapere dell’uomo è davvero poca cosa, o niente. E se ha nominato Socrate, è chiaro che si è servito del mio nome portandomi ad esempio. È come se avesse detto: «O uomini, il più sapiente tra voi è colui che sa, come Socrate, che alla fin fine il suo sapere è nulla». Io continuo ancora oggi questa indagine interrogando per la città, secondo il pensiero della divinità, chiunque, cittadino o straniero, credo sia sapiente. E non appena mi appare evidente che egli non lo è, io metto in luce la sua ignoranza, rendendo così giustizia a dio. E a causa di questo impegno finisce che non mi resta tempo per occuparmi seriamente né degli affari della città né dei miei. Vivo quindi in estrema povertà, perché sono al servizio della divinità. Oltre a ciò, poi, c’è il fatto che i giovani si avvicinano a me spontaneamente – quelli che hanno più tempo, i figli delle famiglie ricche – e si divertono a vedere la gente sottoposta a questo mio esame. Spesso vogliono imitarmi, ed a loro volta si sforzano di esaminare altre persone. Ed anche loro, io credo, finiscono col trovare grande abbondanza di uomini che credono di sapere, ed invece sanno poco o nulla.

 - Platone scrisse l’Apologia di Socrate dopo il 399 a.C., anno del processo a Socrate (Atene 470-399 a.C.). Il testo riportato è tratto da: Platone, Apologia di Socrate, trad. it. di M. Trombino, Il Giardino dei Pensieri, www.ilgiardinodeipensieri.eu

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P, Simposio amore e violenza vanno D’accorDo? le rappresentazioni pre-platoniche del dio eros e della forza dell’amore dipingono questo dio e le conseguenze che la sua azione ha sulle persone (come sugli dei e su tutti gli esseri viventi) in termini inequivocabili: amore e violenza sono tutt’altro che nemici. in amore si fa di tutto e non ci si ferma di fronte a niente. in amore si subisce di tutto. ma nel 7MQTSWMS platonico uno dei personaggi, il poeta tragico agatone, costruisce il suo elogio del dio eros su un concetto molto chiaro e fuori tradizione: nessuna violenza, eros semplicemente non ne ha bisogno. è più forte di ogni violenza, tutte le porte si aprono in sua presenza. è il fondamento del vivere civile, delle relazioni PMFIVI e non violente tra le persone e delle leggi ben fatte: è una forza molto potente perché si fa accettare da tutti.

[Dal discorso di Agatone] Dichiaro dunque che tra tutti gli dèi, esseri felici, Eros – mi sia permesso dirlo senza risvegliare la loro gelosia – è il più felice, perché è il più bello e il migliore. È il più bello perché questa è la sua natura. Infatti, mio caro Fedro, è il più giovane tra gli dèi. Una grande prova dimostra che quel che dico è vero, e ce la offre lui stesso: Eros fugge la vecchiaia, che è rapida, si sa, e ci sorprende prima di quanto dovrebbe. L’Eros, è chiaro, la odia e non le si avvicina nemmeno da lontano. Ma è sempre in compagnia della giovinezza, le resta vicino. Ha ragione il vecchio detto: “Il simile cerca il simile”. [...] Dunque, l’Eros è giovane, e non soltanto è giovane ma anche delicato. A lui è mancato un poeta, un Omero, che ne sapesse far vedere la delicatezza. Omero dice di Ate che essa è una dea e allo stesso tempo che è delicata, o almeno che lo sono i suoi piedi. Dice: “Son delicati i suoi piedi e non sfiorano il suolo, / ella avanza sfiorando le teste degli uomini”. Un chiaro indice della sua delicatezza, ai miei occhi: la dea non posa i piedi sul duro, ma sul morbido. Utilizzeremo anche noi a proposito dell’Eros lo stesso indizio per affermare che è delicato: non cammina infatti sulla terra, né sulle teste, che poi tanto morbide non sono, ma si muove e abita in ciò che è più tenero al mondo. Eros infatti ha stabilito la sua dimora nel cuore e nell’anima degli uomini e degli dèi. Ma non senza distinzione in tutte le anime. Se ne incontra una che abbia un carattere duro, fugge via e va ad abitare in quelle in cui trova dolcezza. È sempre a contatto, coi piedi e con tutto il suo essere,

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con ciò che tra tutte le cose tenere è più tenero, ed è quindi assai delicato, necessariamente. Ecco dunque, l’Eros è il più giovane e il più delicato degli esseri. E inoltre dobbiamo ricordare la flessibilità della sua forma, perché non potrebbe andare dappertutto né passare inosservato quando penetra nelle anime e quando ne esce, se fosse rigido. [...] E che dire della bellezza della sua carnagione? Eros indugia tra i fiori. Su ciò che non fiorisce, sul fiore appassito, nel corpo o nell’anima o in ogni altra cosa, Eros non si posa: ma là dove i fiori e i profumi abbondano, là si posa, là sceglie la sua casa. Sulla bellezza del dio basta così, anche se davvero resta ancora molto da dire. Vorrei adesso parlare delle sue virtù. Ecco la più importante: Eros non fa né subisce ingiustizia, non fa torto a nessuno, uomo o dio, e non ne subisce da nessuno, né uomo né dio. La violenza non ha alcuna parte in ciò che subisce, ammesso che subisca qualcosa, perché la violenza non ha presa sull’Eros; non ne ha bisogno in tutto quel che fa perché tutti in tutto si mettono di buon grado al suo servizio. E gli accordi che si fanno di buon grado sono chiamati giusti dalle “ leggi, le regine della città”. E con la giustizia ecco la più grande temperanza. La temperanza, si sa, è dominare piaceri e desideri. Ora, non c’è piacere più grande dell’Eros: se i piaceri inferiori sono dominati dall’Eros, e s’egli li domina, poiché domina piaceri e desideri, allora l’Eros deve essere temperante in massimo grado. Quanto al coraggio, “Ares stesso non può lottare contro Eros”. Infatti non è Ares che domina su Eros, ma Eros possiede Ares, se è vero che è innamorato di Afrodite, come dicono. Ora colui che si impadronisce di qualcuno, è più forte di lui e chi riesce a possedere un altro che è pieno di coraggio deve avere ancora più coraggio di lui. Fin qui ho parlato della giustizia, della temperanza e del coraggio del dio. Rimane la sua scienza e, nella misura della mie forze, devo proprio completare il mio elogio. Innanzitutto, poiché desidero onorare la mia arte come Erissimaco ha fatto con la sua, dirò che il dio è poeta così sapiente che rende poeti gli altri, a sua volta. Ogni uomo infatti diventa poeta quando l’Eros lo possiede, “anche se prima non conosceva le Muse”. Questo fatto, è chiaro, deve essere per noi una prova che Eros è abilissimo in tutte le arti governate dalle Muse. Infatti ciò che non si ha, o non si sa, non lo si può certo dare o insegnare agli altri. Meglio ancora, nella creazione degli esseri viventi, di tutti, chi oserà negare che l’Eros possiede una scienza grazie a cui nascono e crescono tutti i viventi? Osserviamo d’altra parte la pratica delle arti: non sappiamo forse che l’uomo che ha avuto questo dio come maestro diviene celebre e illustre mentre quello che Eros non ha nemmeno sfiorato non ha alcun successo? E certo: il tiro con l’arco, la medicina, la divinazione sono delle abilità che Apollo deve al desiderio e all’amore che lo guida; così questo dio può dirsi discepolo dell’Eros, come le Muse lo sono per le arti che

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portano il loro nome, Efesto per l’arte di forgiare i metalli, Atena per la tessitura e Zeus infine “per il governo degli dèi e degli uomini”. Così tutti i conflitti tra gli dèi si sono appianati all’apparire di Eros tra loro, dell’amore per la bellezza, certo, perché Eros non si lega mai a ciò che è brutto. [...] Quando [...] nacque questo dio, dall’amore per le cose belle nacque ogni bene, per gli dèi come per gli uomini. Ecco perché, mio caro Fedro, posso dire che l’Eros è pieno di bellezza e bontà al più alto grado ed è quindi, per tutti gli esseri, la fonte dei più alti beni. Vorrei dirlo in versi, questo: Eros è il dio che dà “ la pace agli uomini, la calma al mare, la tregua ai venti, il riposo al dolore”. È lui a liberarci dall’odio, lui a donarci l’amicizia; di tutti i conviti, come il nostro adesso, è il fondatore; nelle feste, nei cori, nei sacrifici, è lui a farci da guida; vi porta la dolcezza, allontana ogni rancore, generosissimo di ogni bene, non sa cosa sia la malvagità, propizio ai buoni, esempio ai saggi, ammirato dagli dèi, è cercato da chi non ha amore, prezioso per chi lo possiede. Il Lusso, la Delicatezza, la Voluttà, le Grazie, la Passione, il Desiderio sono i suoi figli. È pieno di attenzione verso i buoni ma si allontana dai malvagi, e nel dolore, nella paura, nel desiderio, nel discorso, egli è sempre lì, pronto a combattere. È il nostro sostegno, la nostra salvezza per eccellenza. È l’onore di tutti gli dèi, di tutti gli uomini; è la guida più bella, la migliore, e ogni uomo deve seguirlo, celebrare la sua gloria con splendidi inni e cantare con lui quel canto con cui conquista i cuori di tutti gli dèi e di tutti gli uomini. Ecco il mio discorso, carissimo Fedro: che sia la mia offerta al dio! La lieta fantasia e la grave serietà vi hanno avuto ciascuna la sua parte, bilanciate come meglio è stato in mio potere fare.

 - Platone (Atene 427-347 a.C.) scrisse il Simposio tra gli anni ottanta e settanta del IV secolo a.C. Il testo riportato è tratto da: Platone, Simposio, trad. it. di M. Trombino, Il Giardino dei Pensieri, www.ilgiardinodeipensieri.eu

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P, Simposio la bellezza Delle cose e Delle persone è un valore materiale o spirituale? tutto cambia, tutto scorre. in una pagina del 7MQTSWMS dal sapore eracliteo platone lo ricorda con chiarezza attraverso le parole della sacerdotessa Diotima. anche la bellezza fugge via. ma l’uomo è alla ricerca del permanere della vita, l’ultima parola non può essere la decadenza e la morte, o il ciclo perenne delle trasformazioni che tutto distrugge. Da qualche parte deve esistere la perfezione, se ne riconosciamo l’ombra nella bellezza di cui ci innamoriamo.

[Dal discorso di Diotima riferito da Socrate] “ [...] Riflettiamo: quando si dice che ciascun essere vivente rimane se stesso (per esempio che dalla nascita alla vecchiaia permane la sua identità), ebbene questo essere non ha mai in sé le stesse cose. Diciamo sì che è sempre lo stesso, ma in realtà non cessa mai di rinnovarsi ogni momento in certe parti, come i capelli, le ossa, il sangue, insomma in tutto il suo corpo. E questo non è vero soltanto per il suo corpo, ma anche per la sua anima: i sentimenti, il carattere, le opinioni, i desideri, i piaceri, i dolori, i timori, niente di tutto questo rimane costante per ciascuno di noi, ma tutto in noi nasce e muore. E accadono cose più strane ancora. Non solo in generale certe conoscenze nascono in noi mentre altre spariscono – e quindi nel campo della conoscenza noi non rimaniamo mai gli stessi –, ma ciascuna conoscenza in particolare subisce la stessa sorte. Infatti noi dobbiamo esercitarci nello studio proprio perché alcune conoscenze ci sfuggono continuamente: le dimentichiamo, tendono ad andare via, e con lo studio, inversamente, fissando nella memoria ciò che vogliamo ricordare, le conserviamo. È per questo che sembrano le stesse: in realtà le conserviamo rinnovandole. È così che tutti gli esseri mortali si conservano: non sono sempre esattamente se stessi, come l’essere divino. Sembrano conservare la loro identità perché ciò che invecchia e va via è subito sostituito da qualcosa di nuovo, molto simile. Ecco in che modo – Socrate – ciò che è mortale partecipa dell’immortalità, nel suo corpo e in tutto il resto; non c’è altro modo. Non meravigliarti dunque se ciascun essere è dominato dall’amore e si preoccupa tanto dei propri figli, perché questo è nella natura dei viventi: è al servizio dell’immortalità”. [...] “[…] Allora, disse, gli uomini fecondi nel corpo pensano soprattutto alle donne: il loro modo d’amare è tutto nel cercare di generare dei figli e così

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assicurare alla loro persona l’immortalità – questo essi credono – e la memoria di sé e la felicità per tutto il tempo a venire. Altre persone, però, sono feconde nell’anima: c’è infatti una fecondità propria del nostro spirito che a volte è superiore a quella del corpo. Ecco qual è: è la forza creativa della saggezza e delle altre virtù in cui il nostro spirito eccelle. Questa fecondità eccelle nei poeti e in tutte le altre persone che per il loro mestiere devono usare la creatività. Ma dove la saggezza tocca le vette più alte e più belle è nell’ordinamento e nell’amministrazione della città attraverso la prudenza e la giustizia. Quando un uomo fecondo nel suo animo, simile agli dèi, coltiva sin da giovane il proprio spirito, e divenuto adulto sente il desiderio di mettere a frutto le sue capacità, allora cerca in ogni modo la bellezza – perché mai potrà essere creativo nella bruttezza. I suoi sentimenti si dirigono allora verso le cose belle piuttosto che verso le brutte, proprio perché la sua anima è feconda. Se incontra un’anima bella e generosa e sensibile, allora le dà tutto il suo cuore: davanti a lei saprà trovare le parole giuste per esprimere la sua forza interiore, per esaltare i doveri e le azioni di un uomo che vale: così potrà guidarla educandola. E secondo me, attraverso il contatto con la bellezza dell’anima dell’altro, con la sua costante presenza, potrà venire alla luce quanto di meglio portava in sé da tempo: in questo senso la sua anima crea, genera nuova vita. […]” “Ecco, Socrate, le verità sull’amore alle quali tu puoi certamente essere iniziato. [...] Chi inizia il cammino che può portarlo al fine ultimo, sin da giovane deve essere attento alla bellezza fisica. In primo luogo, se chi lo dirige sa indirizzarlo sulla giusta strada, si innamorerà di una sola persona e troverà con lei le parole per i dialoghi più belli. Poi si accorgerà che la bellezza sensibile della persona che ama è sorella della bellezza di tutte le altre persone: se si deve ricercare la bellezza che è propria delle forme sensibili, non si può non capire che essa è una sola, identica per tutti. Capito questo, imparerà a innamorarsi della bellezza di tutte le persone belle e a frenare il suo amore per una sola: dovrà imparare a non valutare molto questa prima forma dell’amore, a giudicarla di minor valore. Poi, imparerà a innamorarsi della bellezza delle anime piuttosto che della bellezza sensibile: a desiderare una persona per la sua anima bella, anche se non è fisicamente attraente. Con lei nasceranno discorsi così belli che potranno elevare i giovani che li ascoltano. E giunto a questo punto, potrà imparare a riconoscere la bellezza in quel che fanno gli uomini e nelle leggi: scoprirà che essa è sempre simile a se stessa, e così la bellezza dei corpi gli apparirà ben piccola al confronto. Dalle azioni degli uomini, poi, sarà portato allo studio delle scienze, per coglierne la bellezza, gli occhi fissi sull’immenso spazio su cui essa domina. Cesserà allora di innamorarsi della bellezza di un solo genere, d’una sola persona o di una sola azione – una forma d’amore che lo lascia ancora schiavo – e rinuncerà così alle limitazioni che lo avviliscono

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e lo impoveriscono. Orientato ormai verso l’oceano infinito della bellezza, che ha imparato a contemplare, le sue parole e i suoi pensieri saranno pieni del fascino che dà l’amore per il sapere. Finché, reso forte e grande per il cammino compiuto, giungerà al punto da fissare i suoi occhi sulla scienza stessa della bellezza perfetta, di cui adesso ti parlerò. [...] Guidato fino a questo punto sul cammino dell’amore, il nostro uomo contemplerà le cose belle nella loro successione e nel loro esatto ordine; raggiungerà il vertice supremo dell’amore e allora improvvisamente gli apparirà la Bellezza nella sua meravigliosa natura [...] eterna, senza nascita né morte. Essa non si accresce né diminuisce, né è più o meno bella se vista da un lato o dall’altro. Essa è senza tempo, sempre egualmente bella, da qualsiasi punto di vista la si osservi. E tutti comprendono che è bella. La Bellezza non ha forme definite: non ha volto, non ha mani, non ha nulla delle immagini sensibili o delle parole. Non è una teoria astratta. Non è uno dei caratteri di qualcosa di esteriore, per esempio di un essere vivente, o della Terra o del cielo, o non importa di cos’altro. No, essa apparirà all’uomo che è giunto sino a lei nella sua perfetta natura, eternamente identica a se stessa per l’unicità della sua forma. Tutte le cose belle sono belle perché partecipano della sua bellezza, ma esse nascono e muoiono – divenendo quindi più o meno belle – senza che questo abbia alcuna influenza su di lei. [...] Credi forse che possa ancora essere vuota la vita di un uomo che abbia fissato sulla Bellezza il suo sguardo, contemplandola pur nei limiti dei mezzi che possiede, ed abbia vissuto in unione con essa?”

 - Platone (Atene 427-347 a.C.) scrisse il Simposio tra gli anni ottanta e settanta del IV secolo a.C. Il testo riportato è tratto da: Platone, Simposio, trad. it. di M. Trombino, Il Giardino dei Pensieri, www.ilgiardinodeipensieri.eu

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P, Simposio nell’esperienza umana e nella verità Delle cose e Dei concetti, la bellezza e il bene sono la stessa cosa? nel 7MQTSWMS platonico l’elogio del dio eros proposto dal poeta tragico agatone è seguito dal discorso di socrate. tra i due discorsi platone ha posto un intermezzo in cui socrate ha un breve dialogo, secondo il suo stile ironico e dialettico, con agatone e ne smonta le tesi costringendolo a dargli ragione. comprendere la natura dell’amore sembra essere una cosa difficile. ma in queste schermaglie dialettiche emerge anche un tema decisivo per la filosofia platonica e per la tradizione culturale dell’occidente: il rapporto tra il buono e il bello, tra il FIRI e la FIPPI^^E. sono forse due nomi per indicare la stessa cosa o sono realtà diverse?

Socrate cominciò pressappoco con queste parole: “Per la verità, mio buon Agatone, io dico che tu hai aperto bene la via dichiarando che bisognava innanzitutto mostrare qual è la natura dell’amore e come agisce: io trovo questo inizio davvero eccellente. Andiamo avanti, però, ti prego; dopo tutto quello che hai detto di bello e di buono sulla natura di Eros, rispondi a questa domanda: è nella natura dell’Eros essere amore di qualche cosa, oppure di niente? Io non ti domando se la sua natura è di essere amore per una madre o un padre, perché sarebbe comico domandare se l’Eros è una forma d’amore che si rivolge a una madre o a un padre. Ma se, a proposito del padre in quanto padre io domandassi: il padre è padre di qualcuno o no?, tu mi risponderesti senza dubbio – se volessi darmi una buona risposta – che il padre è padre di un figlio, o di una figlia. Non è vero?” “Certo”, disse Agatone. “E non dirai la stessa cosa della madre?” – Agatone ne convenne. “Rispondi ancora – disse Socrate – ad alcune domande, per meglio comprendere dove voglio arrivare. Se io domandassi: “Il fratello, in quanto fratello, è fratello di qualcuno o no?” Rispose che lo era. “Dunque è fratello di un fratello o di una sorella?” – Agatone fu d’accordo. “Prova allora – riprese Socrate – a far la stessa domanda per l’Eros: Eros è amore di niente o di qualcosa?” “Di qualcosa, evidentemente.” socrate e platone

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“Tieni bene a mente questo carattere dell’Eros, allora, e dimmi ancora se egli desidera ciò che ama.” “Lo desidera certamente”, disse. “Quando possiede ciò che desidera, è allora che l’ama, o quando non lo possiede?” “Quando non lo possiede: è probabile che sia così” – disse. “Ma pensa bene – disse Socrate – se invece che probabile non è una certezza: non dobbiamo forse dire che desidera ciò che non possiede, e che non desidera affatto ciò che possiede già? Per me, mio caro Agatone, questo è chiarissimo. Tu che ne pensi?” “Sono dello stesso avviso”, disse. “E fai bene ad esserlo. Dunque un uomo che è grande potrà forse desiderare di esser grande? O di esser forte se è forte?” “E impossibile, visto quel che abbiamo detto.” [...] “Se tutto questo è vero, desiderare le cose che non si hanno ancora, che non si possiedono, non è forse volere per l’avvenire che queste cose ci siano conservate?” “Certo”, disse. “Quindi l’uomo che si trova in questa situazione, e cioè chiunque provi un desiderio, desidera ciò che non ha ancora e che non è nel presente. E ciò che egli non ha, ciò che egli stesso non è, quel che gli manca, insomma, ecco l’oggetto del suo desiderio e del suo amore.” “Sicuramente è così” – disse. “Andiamo avanti, allora – disse Socrate. Ricapitoliamo i punti su cui siamo d’accordo. Non è forse vero, innanzitutto, che l’Eros si indirizza verso certe cose e, in secondo luogo, che queste cose sono quelle di cui sente la mancanza?” “Sì”, disse. “E adesso, Agatone, ricordati cosa hai detto nel tuo discorso sulle cose verso cui si indirizza l’Eros. Se vuoi, te lo ricordo io stesso: più o meno, tu ci hai detto, credo, che gli dèi hanno risolto i loro conflitti grazie all’amore per la bellezza, perché non ci può essere amore verso quel che è brutto. Son più o meno le tue parole, non è vero?” “Certo”, disse Agatone. “Tu rispondi come si deve, mio caro – disse Socrate –, e se le cose stanno come tu ci hai detto, l’Eros dovrebbe amare la bellezza, non certo la bruttezza, non è vero?” Agatone fu d’accordo. “Ma non ci siamo trovati d’accordo anche su questo, che si ama ciò di cui si sente la mancanza e che non si possiede?” “Sì”, ammise. “L’Eros manca quindi della bellezza e non la possiede?”

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“Per forza”, disse. “Ma come? Chi manca della bellezza e non la possiede affatto, tu lo chiami bello?” “No di certo.” “E allora, se le cose stanno così, sei ancora dell’avviso che Eros sia bello?” “Temo proprio – disse Agatone – di aver parlato senza sapere quel che dicevo.” “Però il tuo discorso era molto elegante, Agatone. Ma ancora una piccola domanda: le cose buone sono allo stesso tempo belle, secondo te?” “Lo sono, a mio avviso.” “Allora se all’Eros manca la bellezza e se le cose buone sono anche belle, all’Eros deve per forza mancare anche la bontà”. “Di sicuro, Socrate – disse Agatone –, io non sono in grado di contraddirti: ammetto quel che tu dici.” “No, carissimo Agatone – disse Socrate –, non me, ma la verità tu non puoi contraddire: Socrate, lui sì che è facile contraddirlo.

 - Platone (Atene 427-347 a.C.) scrisse il Simposio tra gli anni ottanta e settanta del IV secolo a.C. Il testo riportato è tratto da: Platone, Simposio, trad. it. di M. Trombino, Il Giardino dei Pensieri, www.ilgiardinodeipensieri.eu

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P, Repubblica un bene in sé, un bene che è bene oggettivamente, non per qualcuno o per tutti, ma in se stesso: possiamo sapere se esiste e quinDi sapere qual è e che cos’è? platone propone una sorta di percorso a tappe. chi compie il viaggio è ciascuno di noi, perché chi vuole conoscere che cosa sia il bene deve svolgere questa ricerca in prima persona: nessuno può insegnarci dall’esterno che cosa sia il bene, dobbiamo scoprirlo da soli, perché la risposta alla nostra domanda è chiusa nella nostra mente, dove nessun’altro può entrare. in questo platone rimane fedele alla lezione di socrate. ma socrate non aveva ritenuto possibile conoscere la verità oggettiva sul bene (non una teoria che vede d’accordo molti soggetti, ma una verità che è tale senza bisogno di alcun soggetto). platone ritiene che si possa andare più avanti di quanto aveva ritenuto socrate. il viaggio non lo si compie senza guida: chi è più avanti di noi sul cammino della virtù ci indica la direzione e dà informazioni su come procedere. è il vantaggio offerto dal metodo dialettico: sotto la guida di socrate (si ha motivo di ritenere che il personaggio che porta questo nome e assolve al ruolo di guida dialettica esprima teorie di platone e non del socrate storico), glaucone in quattro tappe compie il suo viaggio.

Socrate: “Ebbene, sappi adesso, ripresi, che è il sole che io chiamo figlio del bene, è il sole ad aver generato a sua propria somiglianza il bene. E quel che il Sole è nel mondo visibile in rapporto alla vista e agli oggetti visibili, lo stesso è il bene nel mondo intelligibile in rapporto all’intelligenza e agli oggetti intelligibili.” Glaucone: “Come, chiese: spiegami bene.” “Tu sai, ripresi, che quando si guardano gli oggetti colorati non illuminati dalla luce del giorno, ma dalla luce della notte, gli occhi vedono a mala pena e sembrano quasi ciechi come se avessero perduto la chiarezza della vista.” “Sì, disse.” “Ma quando si rivolgono verso oggetti illuminati dal sole, vedono distintamente, non è vero? Ed è quindi chiaro che gli stessi occhi hanno una vista buona.” “Senza dubbio.” “E lo stesso accade per l’anima. Quando essa fissa il suo sguardo sugli oggetti illuminati dalla verità e dall’essere, appena li concepisce li conosce e

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sembra essere intelligente, ma quando si rivolge ad oggetti intrisi di oscurità, a ciò che nasce e muore, allora ha soltanto delle opinioni, il suo sguardo è confuso, cambia idea e passa da un estremo all’altro e sembra aver perso ogni intelligenza.” “È proprio così.” “Ciò che comunica la verità agli oggetti conoscibili e dà allo spirito la facoltà di conoscere, stai pur certo che è l’idea del bene; è questa la causa della scienza e della verità, in quanto esse sono conosciute; ma per quanto belle esse siano entrambe, questa scienza e questa verità, stai pur certo che l’idea del bene è distinta da esse e le supera in bellezza. Pensando così non ti sbaglierai. E come nel mondo visibile abbiamo ragione di pensare che la luce e la vista hanno un rapporto con il sole, ma si sbaglierebbe a confonderle col sole, lo stesso accade per il mondo intelligibile: abbiamo ragione di credere che la scienza e la verità sono entrambe simili al bene, ma avremmo torto a credere che l’una o l’altra siano il bene; perché la natura del bene va cercata ancora più in alto.” “Tu parli di una bellezza ben straordinaria, disse, se produce la scienza e la verità ed è ancora più bella di esse; non è certamente il piacere che tu intendi con questo bene.” “Dio me ne guardi, replicai; continua piuttosto a considerare l’immagine del bene seguendo il nostro discorso.” “Come?” “Io penso che tu sappia che il sole dà agli oggetti visibili non soltanto la possibilità di essere visti, ma anche la nascita, la crescita e il nutrimento, pur non essendo esso stesso nascita.” “Non lo è in effetti.” “E lo stesso accade per gli oggetti conoscibili: tu dirai che non soltanto deriva loro dal bene la possibilità di essere conosciuti, ma che al bene devono anche l’esistenza e l’essenza, benché il bene non sia affatto essenza, ma qualcosa che va molto oltre l’essenza in maestà e in potenza. [...] Considera, dissi allora, che vi sono due realtà, come abbiamo già detto, che regnano una sul genere e sul mondo intelligibile, l’altra sul mondo visibile […]. Hai ben capito quali sono queste due forme, il visibile e l’intelligibile?” “Sì.” “Prendi allora una linea divisa in due parti ineguali; dividi ancora ciascuna delle due parti secondo la stessa proporzione, quella del genere visibile e quella dell’intelligibile; e secondo il grado di luminosità o di oscurità relativa delle cose, tu avrai nel mondo visibile una prima sezione, quella delle immagini. Chiamo immagini in primo luogo le ombre, poi i riflessi che si formano sull’acqua e sulla superficie dei corpi opachi, lisci e brillanti, ed ogni altra rappresentazione dello stesso tipo. Mi segui?” “Sì, disse.”

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“Concentriamoci adesso sull’altra sezione di cui la prima è l’immagine: comprede tutti gli esseri viventi e con essi tutte le piante e tutti gli oggetti fabbricati dall’uomo.” “Bene, concentriamoci su questo.” “Dovremo ammettere, ripresi, che il genere visibile si divide in vero e falso e che l’immagine sta al modello come l’oggetto dell’opinione sta all’oggetto della conoscenza?” “Sì, disse, certamente.” “Considera poi in che modo si debba dividere la sezione dell’intelligibile.” “Come?” “Ecco: l’anima, nella prima parte di questa sezione, degli oggetti che nella sezione precedente erano degli originali si serve come se fossero immagini; è costretta a fare delle ricerche partendo da ipotesi e segue un cammino che la porta non al principio ma alla conclusione; invece nella seconda parte l’anima va dall’ipotesi al principio assoluto senza far uso di immagini, come nel caso precedente, e conduce la sua ricerca per mezzo delle sole idee. [...] e adesso alle nostre quattro sezioni applichiamo queste quattro operazioni dello spirito: alla sezione più elevata l’intelligenza, alla seconda la conoscenza discorsiva, alla terza la credenza e all’ultima la congettura e ordiniamole per ordine di chiarezza partendo da questa idea: più i loro oggetti partecipano della verità, più sono chiare.”

 - Platone (Atene 427-347 a.C.) scrisse la Repubblica tra il 380 e il 370 a.C. Il testo riportato è tratto da: Platone, Repubblica, trad. it. di M. Trombino, Il Giardino dei Pensieri, www.ilgiardinodeipensieri.eu

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P, Repubblica come è possibile conoscere il vero (e quinDi anche l’errore) se le cose e il monDo sono ombr a e illusione? platone è stato un grande scrittore, molto vicino in questo al mondo dei poeti comici e tragici. molti suoi dialoghi riprendono forme della commedia e della tragedia, a partire dal fatto che, come filosofo, platone non espone mai direttamente le sue teorie e le sue ricerche ma le fa esporre da diversi personaggi. ha utilizzato a fondo molte risorse del pensiero per immagini: ha costruito metafore, ha disegnato scenari teorici attraverso esempi e analisi di casi concreti, e soprattutto ha elaborato miti, racconti simili a quelli che la tradizione proponeva ma originali, strutturati in modo nuovo, capaci di esprimere in modo semplice e immediato problemi filosofici molto complessi. probabilmente il più celebre è il mito della caverna, una metafora della condizione umana e della vanità di quello che pure ci appare così importante. il mondo è ombra e illusione: è reale, ma solo in parte; la vera realtà è altrove, e la filosofia cerca la strada per accedervi.

[Mito della caverna] “[...] Immagina degli uomini in un’abitazione sotterranea a forma di caverna la cui entrata, aperta alla luce, si estende per tutta la lunghezza della facciata; son lì da bambini, le gambe e il collo legati da catene in modo che non possano lasciare il posto in cui sono, né guardare in altra direzione che davanti, perché le catene impediscono loro di girare la testa; la luce di un fuoco acceso da lontano ad una certa altezza brilla alle loro spalle; tra il fuoco e i prigionieri corre una strada elevata lungo la quale c’è un piccolo muro, simile a quei teli che i burattinai drizzano tra loro e il pubblico e al di sopra dei quali fanno vedere i personaggi dello spettacolo.” “Vedo, disse.” “Immagina adesso che lungo questo piccolo muro degli uomini portino utensili di ogni tipo al di sopra dell’altezza del muro e statuette di uomini e di animali, in pietra, in legno, di tantissime forme; e naturalmente immagina che alcuni di questi uomini parlino tra loro ed altri stiano in silenzio. [...] Se potessero dialogare tra loro non pensi che nominando le ombre che essi vedono crederebbero di stare parlando degli oggetti reali stessi?” socrate e platone

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“Certamente.” “E se vi fosse un’eco che rinvia i suoni al fondo della prigione tutte le volte che uno dei passanti parla, non credi che attribuirebbero questa voce alle ombre che vedono sfilare?” “Sì, per Zeus!” “E non c’è dubbio, riprese, che agli occhi di queste persone la realtà non sarebbe fatta altro che dalle ombre degli oggetti al di là del muro. [...] Poniamo che uno di questi prigionieri fosse costretto ad alzarsi, a girare la testa, a camminare, a levare gli occhi verso la luce: tutti questi movimenti certo lo farebbero soffrire e sarebbe così abbagliato da non riuscir a vedere gli oggetti di cui prima percepiva le ombre. Io ti chiedo che cosa potrebbe rispondere se gli si dicesse che prima non vedeva altro che vane ombre e che adesso è più vicino alla realtà e vede meglio, voltatosi verso oggetti più reali. Che cosa direbbe se gli si facesse vedere ciascuno degli oggetti che sfilano davanti a lui, costringendolo a forza di fargli domande a dire che cosa sono? Non pensi che sarebbe imbarazzato e che gli oggetti che vedeva prima gli sembrerebbero più veri di quelli che gli si mostrano adesso?” “Molto più veri, disse.” [...] “E se, ripresi, lo si costringesse a forza a risalire per la scarpata aspra ed erta e non lo si lasciasse prima di averlo portato alla luce del sole, non pensi che ne soffrirebbe e tenterebbe di ribellarsi, e che una volta arrivato alla luce ne sarebbe abbagliato e non riuscirebbe affatto a vedere gli oggetti che noi adesso chiamiamo veri?” “No, non potrebbe, disse, almeno non subito.” “Deve, ripresi, abituarsi un po’, se vuol vedere il mondo superiore. All’inizio ciò che vedrebbe più facilmente sarebbero le ombre, dopo vedrebbe le immagini degli uomini e degli altri oggetti riflessi sull’acqua, dopo gli oggetti stessi; poi, elevando il suo sguardo verso la luce degli astri e della luna contemplerebbe nella notte le costellazioni e il firmamento stesso più facilmente di quanto non possa durante il giorno contemplare il sole e la luce del sole.” “Senza dubbio.” “Alla fine io credo sarebbe proprio il sole, non riflesso nelle acque o in qualsiasi altro punto, ma il sole stesso nel luogo che gli è proprio che egli potrebbe guardare e contemplare così come esso è. [...] Se il nostro uomo tornasse nella caverna e riprendesse il suo vecchio posto, non avrebbe gli occhi offuscati dalle tenebre tornando bruscamente dalla luce del sole?” “Sì, certo, disse.” “E se dovesse di nuovo ragionare su quelle ombre e gareggiare con i prigionieri che non hanno mai lasciato le loro catene mentre la sua vista è ancora confusa e prima che i suoi occhi si siano rimessi e riadattati all’oscurità, cosa che richiederebbe un tempo molto lungo, non farebbe forse ridere

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e non direbbero di lui che per essere salito di sopra è tornato indietro con gli occhi malati e che non vale certo la pena di tentare la salita? E se qualcuno tentasse di liberarli e di portarli in alto ed essi potessero afferrarlo o ucciderlo, non credi forse che lo ucciderebbero?” “Lo ucciderebbero certamente, disse.” “Mio caro Glaucone, ripresi, adesso bisogna applicare esattamente questo racconto ai discorsi che facevamo prima. Dobbiamo paragonare il mondo visibile alla caverna e l’effetto del sole alla luce del fuoco da cui la caverna è illuminata. Quanto alla salita verso il mondo superiore e alla contemplazione delle sue meraviglie dobbiamo vedervi la salita dell’anima verso il mondo intelligibile. Così tu non mancherai di conoscere il mio pensiero, perché desideri conoscerlo, e Dio sa se è vero. In ogni caso è mia opinione che agli estremi limiti del mondo intelligibile vi sia l’idea del bene, a cui possiamo arrivare con molta fatica ma che non può essere contemplata senza concluderne che si tratta della causa universale di tutto ciò che vi è di bene e di bello; che nel mondo visibile è ad essa che si deve la luce e la fonte della luce; e che nel mondo intelligibile è questa idea a dare verità e intelligenza e che bisogna vederla per comportarsi con saggezza sia nella vita privata che nella vita pubblica.”

 - Platone (Atene 427-347 a.C.) scrisse la Repubblica tra il 380 e il 370 a.C. Il testo riportato è tratto da: Platone, Repubblica, trad. it. di M. Trombino, Il Giardino dei Pensieri, www.ilgiardinodeipensieri.eu

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P, Timeo perché l’universo Fisico ha queste car atteristiche e non altre? il problema dell’origine e della struttura del cosmo è stato al centro dell’attenzione non solo della filosofia, ma anche del mondo del mito. nel 8MQIS platone ha fuso insieme queste due tradizioni e ha presentato in forma mitica una molteplicità di acquisizioni della filosofia precedente, comprese molte idee pitagoriche rivisitate nel contesto della sua visione della vera realtà eterna. un vasto materiale filosofico e mitologico viene fuso insieme nel contesto della filosofia platonica dando ad esso un’unità teorica. centrale risulta quindi la figura dell’artefice, un demiurgo che plasma il cosmo spazio-temporale secondo il modello perfetto delle idee matematiche e dei valori supremi del bene, che non hanno tempo e non sono materiali.

Timeo – [...] Che cos’è ciò che è sempre e non ha generazione? E che cos’è ciò che si genera perennemente e non è mai essere? Il primo è ciò che è concepibile con l’intelligenza mediante il ragionamento, perché è sempre nelle medesime condizioni. Il secondo, al contrario, è ciò che è opinabile mediante la percezione sensoriale irrazionale, perché si genera e perisce, e non è mai pienamente essere. Inoltre, ogni cosa che si genera, di necessità viene generata da qualche causa. Infatti, è impossibile che ogni cosa abbia generazione, senza avere una causa. E quando l’Artefice di qualsivoglia cosa, guardando sempre a ciò che è allo stesso modo e servendosi come di esemplare ne porta in atto l’Idea e la potenza, è necessario che, in questo modo, riesca tutta quanta bella; quella cosa, invece, che l’Artefice porta in atto servendosi di un esemplare generato, non sarà bella. Ora, per quanto concerne tutto il cielo o il mondo, o se si trova qualche altro nome adeguato lo si chiami con questo, bisogna considerare ciò che fin da principio si deve esaminare riguardo ad ogni cosa, ossia se fu sempre, non avendo mai alcun principio di generazione, oppure se fu generato, incominciando da un qualche principio. Esso fu generato. Infatti è visibile e tangibile ed ha un corpo; ma tutte le cose di questo tipo sono sensibili, e le cose sensibili si apprendono con l’opinione mediante la sensazione, ed è risultato che sono generate e sono in divenire. E ciò che è generato abbiamo detto che è necessario che sia generato da una causa. Ma il Fattore e il Padre di questo universo è molto difficile

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trovarlo e, trovatolo, è impossibile parlarne a tutti. E questo si deve indagare dell’universo: guardando a quale degli esemplari chi ha fabbricato l’universo lo abbia realizzato, se all’esemplare che è sempre nello stesso modo e identico o a quello che è generato. Ma se questo mondo è bello e l’Artefice è buono, è evidente che Egli ha guardato all’esemplare eterno; e se, invece, l’Artefice non è tale, ciò che non è neppure permesso a qualcuno di dire, ha guardato all’esemplare generato. Ma è evidente a tutti che Egli guardò all’esemplare eterno: infatti l’universo è la più bella delle cose che sono state generate, e l’Artefice è la migliore delle cause. Se, pertanto, l’Universo è stato generato così, fu realizzato dall’Artefice guardando a ciò che si comprende con la ragione e con l’intelligenza e che è sempre allo stesso modo. Stando così le cose, è assolutamente necessario che questo cosmo sia immagine di qualche cosa. […] Diciamo, allora, per quale causa ha composto la generazione e questo universo Colui che li ha composti. Egli era buono e in un buono non nasce mai nessuna invidia per nessuna cosa. Essendo dunque lungi dall’invidia, Egli volle che tutte le cose diventassero il più possibile simili a lui. E chi ammettesse questo principio della generazione del mondo come principale, accettandolo da uomini saggi, l’ammetterebbe assai rettamente. Infatti, Dio, volendo che tutte le cose fossero buone, e che nulla, nella misura del possibile, fosse cattivo, prendendo quanto era visibile e che non stava in quiete, ma si muoveva confusamente e disordinatamente, lo portò dal disordine all’ordine, giudicando questo totalmente migliore di quello. Infatti non è lecito a chi è ottimo di fare se non ciò che è bellissimo. Ragionando, pertanto, trovò che delle cose che sono per natura visibili nessuna che nel suo complesso manchi di intelligenza avrebbe mai potuto essere più bella di un’altra che nel suo complesso abbia intelligenza; e che, d’altra parte, è impossibile che una intelligenza si trovi in alcuna cosa senza un’anima. Seguendo questo ragionamento, mettendo insieme l’intelligenza nell’anima, e l’anima nel corpo, compose l’universo, affinché l’opera che Egli realizzava fosse per sua natura la più bella possibile e la più buona. Così, secondo un ragionamento probabile, si deve dire che questo mondo è un essere vivente, dotato di anima e di intelligenza, generato ad opera della provvidenza di Dio. E diede ad esso una forma che gli era conveniente ed affine. Infatti, al vivente che deve comprendere in sé tutti i viventi è conveniente quella forma che comprende in sé tutte quante le forme. Perciò lo tornì arrotondato, in forma di sfera che si stende dal centro agli estremi in modo eguale da ogni parte, ossia la più perfetta di tutte le forme e la più simile a se medesima, ritenendo il simile più bello del dissimile. E lo fece perfettamente liscio di

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fuori tutto intorno, per molte ragioni. Infatti, non aveva alcun bisogno di occhi, perché al di fuori non era rimasto nulla che fosse visibile; né aveva bisogno di udito, perché non c’era neppure nulla che fosse udibile. Né c’era aria all’intorno che avesse bisogno di venir respirata. Né, inoltre, aveva bisogno di avere alcun organo con cui ricevesse in sé l’alimento, ed espellesse quello prima digerito. Infatti, nulla poteva staccarsi e nulla aggiungersi da qualche parte ad esso, perché non c’era nulla. Infatti, è stato generato ad arte in modo tale che esso stesso desse a se stesso in nutrimento ciò che di sé periva, e in modo che subisse e facesse in sé e da sé tutte le cose. In effetti, colui che lo costituì pensò che il mondo, con l’essere sufficiente a se stesso, sarebbe stato migliore che non se avesse avuto bisogno di altre cose. Pertanto, non credette di dovere inutilmente attaccare mani, con le quali non c’era alcun bisogno di prendere o respingere qualcosa, né piedi, né, in generale, quanto fornisse un servizio per camminare. In effetti, gli assegnò un movimento conveniente al suo corpo: dei sette movimenti gli assegnò quello che soprattutto conviene all’intelligenza e alla saggezza. Perciò, appunto, facendolo ruotare allo stesso modo e, nello stesso luogo e in sé medesimo, fece sì che si muovesse con movimento circolare, gli tolse tutti gli altri sei movimenti, e lo fece immobile rispetto ad essi. E poiché questo suo girare in tondo non aveva bisogno di piedi, lo generò senza gambe e senza piedi. Tutto questo ragionamento il Dio che sempre è fece attorno al dio che ad un certo momento doveva essere, e produsse un corpo liscio ed omogeneo, da tutte le parti equidistante dal centro, perfetto ed intero, e costituito di corpi perfetti. E posta l’anima nel mezzo di esso, la distese per ogni parte, e con questa stessa avvolse anche al di fuori tutto intorno il corpo di esso, e in questo modo costituì un cielo circolare che gira in cerchio, unico e solitario, ma per virtù sua capace di stare con se stesso, ed esso stesso conoscitore ed amatore di sé medesimo in modo adeguato. Per tutte queste ragioni egli generò questo dio felice.

 - Platone (Atene 427-347 a.C.) scrisse il Timeo attorno alla metà del IV secolo a.C. Il testo riportato è tratto da: Platone, Timeo, in Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1991, pp. 1361-1367.

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P, Settima lettera Fin Dove Deve giungere l’impegno politico Di un intellettuale? platone ha dato una giustificazione teorica della necessità, per il bene della TSPMW, che essa sia governata dai filosofi. ma non si è limitato alla teoria. ha concretamente provato a formare dei filosofi che avessero un ruolo politico centrale. il caso più celebre è quello di Dione, legato da rapporti di parentela al tiranno di siracusa. platone corse anche rischi personali molto seri, e ciononostante decise ugualmente di andare diverse volte da atene a siracusa, lasciando l’accademia persino quando ormai non era più giovane. in una celebre lettera, sulla cui autenticità si è a lungo discusso, platone dà una giustificazione dell’impegno politico dell’intellettuale, un impegno che lo coinvolse, e quasi lo travolse, in prima persona. quanto qui scrive può essere inteso in rapporto alle tesi della 6ITYFFPMGE.

Da giovane, pensavo, come tanti, di dedicarmi alla politica non appena fossi stato padrone di me stesso. La situazione in cui mi venni a trovare era questa: ci fu una rivoluzione, poiché molti erano malcontenti della costituzione, e il governo passò nelle mani di cinquantuno cittadini: undici in città e dieci nel Pireo, con l’incarico di occuparsi dell’agorà e dell’amministrazione civica spicciola, mentre gli altri trenta detenevano il potere assoluto. Alcuni di questi erano miei famigliari e conoscenti che mi fecero subito capire, invitandomi anche esplicitamente ad intraprenderla, che la vita pubblica mi si confaceva. Non c’è da meravigliarsi di quel che provavo: ero giovane, ed ero anche convinto che avrebbero governato la città riportandola da uno stile di vita ingiusto a un modo giusto, e dunque osservavo con attenzione come si muovevano. Non tardai pertanto ad accorgermi che costoro facevano sembrare oro, in confronto, il governo precedente. Fra l’altro, capitò anche che mandarono Socrate (un mio amico, e più vecchio di me, uomo che non mi periterei di proclamare il più giusto fra quelli del suo tempo), ad arrestare, insieme con altri, una persona da mettere a morte, così da renderlo complice, contro la sua volontà, delle loro azioni. Egli però non obbedì, e preferì correre il rischio estremo anzi che partecipare ad azioni disoneste. Osservando questa ed altre cose simili, altrettanto gravi, mi ritrassi con ribrezzo da tutte quelle miserie. Non molto tempo dopo, caddero i Trenta, insieme col loro regime. Di nuovo, anche se con più pacatezza, mi prese il desiderio di occuparmi di politica e degli affari pubblici. Anche in quegli sconvolgimenti si verificarono molti fatti disgustosi,

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né c’era da meravigliarsi che in una situazione rivoluzionaria le vendette personali si moltiplicassero; ma quelli che rientrarono in città furono, sul momento, di una certa moderazione. Caso volle però, in seguito, che alcuni potenti trascinassero in giudizio il nostro amico Socrate, agitando contro di lui un’accusa la più infamante per disonestà, e la più lontana dalla sua indole; lo perseguirono infatti per empietà, lo condannarono, l’uccisero [...]. Indotto di nuovo a riflessione su queste vicende, su chi si occupa di politica, su le leggi, su la morale in genere, quanto più passava il tempo e andavo avanti nell’età facendo di queste considerazioni, tanto più mi sembrava difficile riuscire a far qualcosa con la politica. Senza amici e compagni, impossibile realizzare niente; e non era agevole il trovarne di disponibili, fra quelli che c’erano, dato che la città non veniva più amministrata secondo i costumi e le abitudini dei padri; del tutto impossibile poi arrivare ad acquisirne facilmente di nuovi. La lettera delle leggi e i costumi in generale si andavano corrompendo ad un punto tale che io, pur inizialmente tutto pieno dal desiderio di occuparmi della vita pubblica, guardando a ciò e vedendo come tutto si trascinava sbandando per ogni dove, finii col rimanerne sconcertato. Continuai però ad osservare la situazione, caso mai si verificassero dei miglioramenti, sia in generale, sia sopratutto nel governo, ed aspettando sempre l’occasione buona per entrare in azione. Compresi, infine, che tutte quante le città di allora si trovavano ad essere malamente governate (il loro sistema di leggi era presso che impraticabile, senza una preparazione quasi eccezionale, unita a buona fortuna), e fui costretto a limitarmi a fare gli elogi della retta filosofia, come quella da cui sola può venire la capacità di scorgere ciò che è giusto nella vita pubblica e in quella privata; mai le generazioni degli uomini avrebbero potuto liberarsi dai mali, fino a che o non fossero giunti ai vertici del potere politico i filosofi veri e schietti, o i governanti delle città non diventassero, per un destino divino, filosofi. Ecco quel che pensavo quando venni in Italia e in Sicilia per la prima volta. Come giunsi, però, non mi piacque affatto la vita che qui si diceva felice, tutta impegnata nei famosi banchetti italioti e siracusani, nel riempirsi il ventre di cibo due volte al giorno, e la notte non dormire mai da soli, e tutto ciò, insomma, che è solito accompagnarsi a un tal genere di vita. Nessun uomo di quanti ne vivono sotto la volta del cielo può diventare saggio, se si avvezza fin dall’età più tenera ad abitudini così (sarebbe straordinaria, del resto, una mescolanza naturale del genere), ne esiste alcuno che possa anche solo provare, ad arrivare in questo modo alla temperanza; e per qualunque altra virtù, il discorso potrebbe essere analogo. Non vi è nessuna città, per buone che siano le sue leggi, che possa viversene tranquilla, se i suoi cittadini ritengono giusto scialacquare negli eccessi, e l’ozio quasi un dovere, interrotto solo per mangiare, bere, e dedicarsi alle cure d’amore. È una pura e semplice necessità che in città così non si finisca mai di assistere

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all’avvicendarsi di tirannidi, oligarchie, democrazie, ed è ugualmente inevitabile che chi in esse detiene il potere sia insofferente persino del nome di una costituzione giusta ed equa. Esaminando uno per uno questi e gli altri argomenti, che prima dicevo, venni a Siracusa. [...] Dione, persona molto facile all’apprendere, anche in altri campi, ma sopratutto pronto ad intendere quel che gli veniva detto da me, mi ascoltò con una intensità ed acutezza, come mai ha avuto nessun altro dei giovani in cui mi è capitato d’imbattermi: manifestò senz’altro il proponimento di vivere per il resto della sua vita in modo diverso, [...] dal momento che aveva concepito per la virtù un amore superiore a quello per il piacere e la vita dissoluta. [...] Dione pensò subito che un tale convincimento poteva anche nascere non solo in lui; [...] si guardava intorno e vedeva che nasceva anche in altri: magari non molti, ma in alcuni certamente sì, e pensò che anche Dionisio poteva diventare, concedendolo gli dèi, uno di questi, e certo se ciò fosse accaduto la vita sua e dei siracusani sarebbe diventata di una felicità eccezionale. [...] Convincere un solo uomo era sufficiente per assicurare all’impresa il più felice degli esiti.

 - Platone (Atene 427-347 a.C.) scrisse la Settima lettera nel 354-353 a.C. Il testo riportato è tratto da: Platone, Settima lettera, in Platone, Lettere, a cura di P. Innocenti, Rizzoli, Milano 1986, pp. 26 ss.

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P, Repubblica a chi aFFiDare la guiDa Della società? platone non ha alcun dubbio: la guida della società va affidata ai filosofi, perché sono gli unici tra gli uomini che hanno una ragionevole idea (almeno nei limiti delle possibilità umane) di che cosa sia il bene e che cosa il male. gli altri non ne sanno nulla e, ciò che è peggio, credono di saperlo. il risultato sono lotte, conflitti, guerre, tensioni sociali e politiche, governo degli incompetenti (che cos’altro sono i cittadini riuniti in assemblea? Degli esperti?). platone (qui in aperta polemica con le posizioni espresse da protagora, vedi p. 29) non è a favore di un regime politico democratico. i cittadini riuniti in assemblea non sanno quello che fanno.

“Ogni anima ha in se stessa una certa capacità di apprendere e un organo che glielo consente, e che come un occhio non potrebbe rivolgersi dall’oscurità alla luce se tutto il corpo non vi si rivolgesse, allo stesso modo quest’organo deve essere distolto dalle cose mortali insieme con l’anima tutta intera, finché non diventi capace di reggere la vista dell’essere e della parte più brillante dell’essere, che è quella che noi chiamiamo il bene. Non è così?” “Certo.” “L’educazione, ripresi, è quindi l’arte di ben dirigere quest’organo e di trovare il metodo più facile e più efficace per farlo; essa non consiste nel mettere la vista nell’organo, perché questo la possiede già. Ma mentre prima era mal diretto e guardava altrove rispetto a dove avrebbe dovuto, adesso si è verificata una conversione.” “Così sembra, disse.” [...] “E non è anche verosimile, ripresi, e non segue forse necessariamente da quello che abbiamo detto che né le persone senza educazione e senza conoscenza della verità, né quelle che hanno passato tutta la loro vita negli studi sono adatti al governo degli Stati? I primi perché non hanno nella loro vita alcun ideale a cui possano rapportare tutti i loro atti, privati e pubblici; gli altri perché non acconsentiranno ad occuparsene, loro che in vita ritengono di essere già presso le isole beate.” “È vero.” “Sta dunque a noi, fondatori dello Stato, obbligare gli uomini migliori a dirigersi verso la scienza che abbiamo riconosciuto prima come la più subli-

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me di tutte, e cioè la visione del bene, e a compiere l’ascesa di cui abbiamo prima parlato. Ma quando, pervenuti a questa regione superiore, essi avranno a sufficienza contemplato il bene, guardiamoci dal consentir loro quel che oggi è loro concesso.” “Di che si tratta?” “Di restare lassù, risposi, e di non voler più tornare verso voi prigionieri; di non farci prender parte al loro lavoro e ai loro onori, piccoli o grandi che siano.” “Ma allora, disse, non lederemo i loro diritti costringendoli a vivere una vita meschina quando potrebbero godere di una condizione più felice?” “Amico mio, tu dimentichi una cosa, ripresi, che la legge non ha l’obiettivo di assicurare una felicità eccezionale a una sola classe di cittadini, ma di cercare di realizzare la felicità per la città tutta intera, unendo i cittadini sia con la persuasione sia con la costrizione e guidandoli a mettersi gli uni al servizio degli altri per quel che ciascuna classe è capace di fare per la comunità. Se la legge intende formare nello Stato simili cittadini, non è perché possano orientare la loro attività dove più piace, ma perché insieme possano concorrere a rendere forti i legami dello stato.” “Hai ragione, l’avevo dimenticato.” “Ora, Glaucone, ripresi, osserva anche il fatto che non saremmo ingiusti verso i filosofi che si sono formati presso di noi e che avremmo buone ragioni per obbligarli a farsi carico della condotta e della difesa degli altri. Infatti potremmo dire loro: ‘Negli altri Stati è naturale che coloro che si elevano fino alla filosofia non prendano parte alle seccature della politica, perché essi si formano da sé senza l’intervento dei loro rispettivi governi; ora quando ci si forma da sé e non si deve a nessun altro il proprio nutrimento, è giusto che non si debba nessun risarcimento a nessuno. Ma voi siete stati formati nell’interesse dello Stato così come nel vostro per essere i capi e i re, come avviene negli alveari, e noi vi abbiamo dato un’educazione migliore e più completa di quella dei filosofi stranieri e vi abbiamo reso più capaci degli altri di legare la filosofia alla politica. Voi dovete dunque, ciascuno a un suo turno, ridiscendere nella dimora comune a tutti e abituarvi nuovamente a guardare verso le ombre oscure perché, una volta abituati all’oscurità, diverrete mille volte migliori degli altri e riconoscerete ciascuna immagine e ciò che essa rappresenta perché avete già visto veri esemplari del bello, del giusto e del bene. Così la nostra Costituzione diventerà una realtà per voi e per noi, e non un sogno, come nella maggior parte degli Stati di oggi in cui i capi combattono tra loro per delle ombre e lottano per il potere come se fosse un gran bene. Ecco invece qual è la verità: lo Stato in cui il potere è riservato a coloro che sono meno interessati a ottenerlo è necessariamente il migliore e quello governato più saggiamente. Accade il contrario negli Stati regolati in maniera opposta.’”

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“È proprio vero, disse.” “Ebbene, secondo te i nostri allievi rifiuteranno di arrendersi a questi ragionamenti? Non acconsentiranno a prender parte al lavoro politico quando toccherà a loro, passando per il resto la maggior parte del loro tempo gli uni con gli altri nel mondo delle pure idee?” “Non si rifiuteranno di certo, disse. Queste persone sono giuste e noi non domandiamo loro nient’altro che il giusto. Certo però ciascuno di loro non prenderà il comando che per dovere, al contrario di quelli che oggi governano negli Stati.” “Questa è la verità, mio caro amico, replicai. Se tu scopri per coloro che devono comandare una condizione migliore del possesso del potere, avrai trovato il mezzo per avere uno Stato ben governato. Infatti soltanto in questo Stato comanderanno coloro che sono veramente ricchi, non in oro ma in virtù e in saggezza, che sono le ricchezze davvero necessarie alla felicità; ma là dove dei pezzenti e delle persone avide di ricchezza personale ottengono il controllo degli affari pubblici, finiranno per fare i loro interessi. E allora, non è possibile avere un buon governo perché combatteranno fra loro per il potere e questa guerra tra cittadini, una guerra interna, perderà tutti: sia loro sia lo Stato.” “Niente di più vero, disse.” [...] “Ora è certamente bene che non si cerchi il potere con passione; altrimenti ne nasceranno rivalità e conflitti.” “Senza dubbio.” “E a chi daremo il compito di dirigere lo Stato se non a coloro che, meglio istruiti degli altri sui mezzi per rendere stabile un governo buono, hanno altri onori ed una vita che preferiscono a quella dell’uomo di Stato?” “Ad essi soli, rispose.”

 - Platone (Atene 427-347 a.C.) scrisse la Repubblica tra il 380 e il 370 a.C. Il testo riportato è tratto da: Platone, Repubblica, trad. it. di M. Trombino, Il Giardino dei Pensieri, www.ilgiardinodeipensieri.eu

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P, Fedro quale Deve essere il r apporto tr a r agione e passioni, se entr ambe appartengono all’anima? platone è un grande scrittore che re-interpreta nella sua opera moltissimo materiale della tradizione, ma noi identifichiamo questi apporti solo quando ci è possibile. così non sappiamo quali tradizioni ci siano dietro la rappresentazione mitica dell’anima come una biga con un auriga e due cavalli e dietro l’idea di fondo che esprime: la difficile unità della nostra vita interiore. ma è tema antico, che è possibile seguire nei testi pre-platonici rimasti, almeno come questione problematica e aperta.

Socrate: Si immagini l’anima simile a una forza costituita per sua natura da una biga alata e da un auriga. I cavalli e gli aurighi degli dèi sono tutti buoni e nati da buoni, quelli degli altri sono misti. E innanzi tutto l’auriga che è in noi guida un carro a due, poi dei due cavalli uno è bello, buono e nato da cavalli d’ugual specie, l’altro è contrario e nato da stirpe contraria; perciò la guida, per quanto ci riguarda, è di necessità difficile e molesta. Zeus, il grande sovrano che è in cielo, procede per primo alla guida del carro alato, dà ordine a tutto e di tutto si prende cura; lo segue un esercito di dèi e di demoni, ordinato in undici schiere. La sola Estìa resta nella dimora degli dèi; quanto agli altri dèi, quelli che in numero di dodici sono stati posti come capi guidano ciascuno la propria schiera secondo l’ordine assegnato. Molte e beate sono le visioni e i percorsi entro il cielo, per i quali si volge la stirpe degli dèi eternamente felici, adempiendo ciascuno il proprio compito. E tiene dietro a loro chi sempre lo vuole e lo può; infatti l’invidia sta fuori del coro divino. Quando poi vanno a banchetto per nutrirsi, procedono in ardua salita verso la sommità della volta celeste, dove i carri degli dèi, ben equilibrati e agili da guidare, procedono facilmente, gli altri invece a fatica; infatti il cavallo che partecipa del male si inclina, e piegando verso terra grava col suo peso l’auriga che non l’ha allevato bene. Qui all’anima si presenta la fatica e la prova suprema. Infatti quelle che sono chiamate immortali, una volta giunte alla sommità, procedono al di fuori posandosi sul dorso del cielo, la cui rotazione le trasporta in questa posa, mentre esse contemplano ciò che sta fuori del cielo. Nessuno dei poeti di quaggiù ha mai cantato né mai canterà in modo degno il luogo iperuranio. socrate e platone

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La cosa sta in questo modo (bisogna infatti avere il coraggio di dire il vero, tanto più se si parla della verità): l’essere che realmente è, senza colore, senza forma e invisibile, che può essere contemplato solo dall’intelletto timoniere dell’anima e intorno al quale verte il genere della vera conoscenza, occupa questo luogo. Poiché dunque la mente di un dio è nutrita da un intelletto e da una scienza pura, anche quella di ogni anima cui preme di ricevere ciò che conviene si appaga di vedere dopo un certo tempo l’essere, e contemplando il vero se ne nutre e ne gode, finché la rotazione ciclica del cielo non l’abbia riportata allo stesso punto. Nel giro che essa compie vede la giustizia stessa, vede la temperanza, vede la scienza, non quella cui è connesso il divenire, e neppure quella che in certo modo è altra perché si fonda su altre cose da quelle che ora noi chiamiamo esseri, ma quella scienza che si fonda su ciò che è realmente essere; e dopo che ha contemplato allo stesso modo gli altri esseri che realmente sono e se ne è saziata, si immerge nuovamente all’interno del cielo e fa ritorno alla sua dimora. Una volta arrivata l’auriga, condotti i cavalli alla mangiatoia, mette innanzi a loro ambrosia e in più dà loro da bere del nettare. Questa è la vita degli dèi. Quanto alle altre anime, l’una, seguendo nel migliore dei modi il dio e rendendosi simile a lui, solleva il capo dell’auriga verso il luogo fuori del cielo e viene trasportata nella sua rotazione, ma essendo turbata dai cavalli vede a fatica gli esseri; l’altra ora solleva il capo, ora piega verso il basso, e poiché i cavalli la costringono a forza riesce a vedere alcuni esseri, altri no. Seguono le altre anime, che aspirano tutte quante a salire in alto, ma non essendone capaci vengono sommerse e trasportate tutt’intorno, calpestandosi tra loro, accalcandosi e cercando di arrivare una prima dell’altra. Nasce così una confusione e una lotta condita del massimo sudore, nella quale per lo scarso valore degli aurighi molte anime restano azzoppate, e a molte altre si spezzano molte penne; tutte, data la grande fatica, se ne partono senza aver raggiunto la contemplazione dell’essere e una volta tornate indietro si nutrono del cibo dell’opinione. [...] L’anima che, divenuta seguace del dio, abbia visto qualcuna delle verità, non subisce danno fino al giro successivo, e se riesce a fare ciò ogni volta, resta intatta per sempre; qualora invece, non riuscendo a tenere dietro al dio, non abbia visto, e per qualche accidente, riempitasi di oblio e di ignavia, sia appesantita e a causa del suo peso perda le ali e cada sulla terra, allora è legge che essa non si trapianti in alcuna natura animale nella prima generazione. Invece l’anima che ha visto il maggior numero di esseri si trapianterà nel seme di un uomo destinato a diventare filosofo o amante del bello o seguace delle Muse o incline all’amore. [...] Al millesimo anno le une e le altre, giunte al sorteggio e alla scelta della seconda vita, scelgono quella che

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ciascuna vuole: qui un’anima umana può anche finire in una vita animale, e chi una volta era stato uomo può ritornare da bestia uomo, poiché l’anima che non ha mai visto la verità non giungerà mai a tale forma. L’uomo infatti deve comprendere in funzione di ciò che viene detto idea, e che muovendo da una molteplicità di sensazioni viene raccolto dal pensiero in unità; questa è la reminiscenza delle cose che un tempo la nostra anima vide nel suo procedere assieme al dio, quando guardò dall’alto ciò che ora definiamo essere e levò il capo verso ciò che realmente è. Perciò giustamente solo l’anima del filosofo mette le ali, poiché grazie al ricordo, secondo le sue facoltà, la sua mente è sempre rivolta alle entità in virtù delle quali un dio è divino. Quindi l’uomo che si avvale rettamente di tali reminiscenze, essendo sempre iniziato a misteri perfetti, diventa lui solo realmente perfetto; dato però che si distacca dalle occupazioni degli uomini e si fa accosto al divino, è ripreso dai più come se delirasse, ma sfugge ai più che è invasato da un dio.

 - Platone (Atene 427-347 a.C.) scrisse il Fedro tra il 370 e il 360 a.C. Il testo riportato è tratto da: Platone, Fedro, trad. it. di M. Trombino, Il Giardino dei Pensieri, www.ilgiardinodeipensieri.eu

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P, Repubblica quale criterio Dobbiamo cercare per capire se una società è organizzata seconDo giustizia? un tratto caratteristico della filosofia politica di platone è il suo legame con la dottrina dell’anima. nell’affrontare infatti la questione centrale della “giustizia”, sforzandosi di scovare la vera natura di questo difficile concetto, platone rileva che vi è un parallelismo tra la struttura dell’anima e quella della società giusta. non si tratta di una similitudine, di una semplice somiglianza di composizione, ma di qualcosa di più profondo: l’organismo della società risponde agli stessi principi a cui risponde l’organismo della psiche. il principio chiave in entrambe le strutture è che si tratta di unità nate dall’assemblaggio di forze diverse, che devono essere guidate ponendo ordine tra gli elementi che le compongono. al vertice del sistema-psiche, come del sistema-società, deve esserci il pensiero razionale dell’uomo.

Socrate: – Credi che per lo Stato sarebbe un gran danno se un falegname s’impicciasse nel mestiere del calzolaio, o viceversa, scambiandosi strumenti e prerogative, o se lo stesso individuo si mettesse in testa di fare ad un tempo i due mestieri, se ciascuno si scambiasse con l’altro il proprio lavoro? Glaucone: – Non grave – disse. – Ma se a un operaio, io credo, o ad un altro qualsiasi, che per natura è destinato ad un mestiere lucrativo, imbaldanzito per la sua ricchezza o per gran numero di amici, per la sua potenza o qualsiasi altra cosa del genere, passasse per il capo di entrare a far parte della classe dei guerrieri, o a un guerriero di entrare fra coloro che consigliano e difendono lo Stato, pur essendone indegno, e scambiassero fra loro strumenti e prerogative, o se lo stesso individuo volesse ad un sol tempo ricoprire tutti questi uffici, allora, io credo sembrerà anche che questi reciproci scambi e questo molteplice affaccendarsi di ciascuno sarebbero la rovina dello Stato. – Assolutamente. – L’immischiarsi dunque negli interessi altrui e l’inserirsi delle tre classi l’una nell’altra sarebbero per lo Stato gravissimo danno, e si avrebbe ragione a dirlo un vero e proprio delitto. – Evidentemente. – Ma il delitto più grande contro il proprio Stato non dirai che è l’ingiustizia? – Certo.

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– E questa è l’ingiustizia. Torniamo allora a dire che quando invece le tre classi, quella dei mercanti, degli ausiliari e dei difensori si mantengono nelle proprie specifiche funzioni e ciascuna di esse compie nello Stato ciò che le è proprio, questo, che è il caso contrarlo a quello, sarebbe la giustizia e farebbe giusto lo Stato ? – Non mi sembra che possa essere altrimenti – disse. – Non lo si dica ancora con tanta sicurezza – seguitai – ma se riferendo questa specie di virtù a ciascun uomo, riconosceremo anche nel singolo che questa è la giustizia, allora senz’altro dovremo ammetterla per tale – quale altra obbiezione potrebbe esservi ancora ? – altrimenti la cercheremo altrove. Terminiamo intanto quell’indagine per cui avevamo pensato che se prima avessimo tentato di scoprire la giustizia in un soggetto che ha maggiore estensione e che la possiede, ci sarebbe stato più facile rintracciarla poi nell’uomo singolo. A noi sembrò che l’oggetto di una tale ricerca fosse uno Stato, e, quindi, ne abbiamo costruito uno il più perfetto possibile, sapendo bene che la giustizia si sarebbe trovata sì, ma in uno Stato buono. Trasferiamo ora all’individuo ciò che ivi abbiamo scoperto e se anche nell’individuo concorda, va bene: ma se nell’individuo ci appare in altro modo, torneremo allo Stato, per approfondire la nostra ricerca: e forse esaminando e sfregando l’un con l’altro, come dagli acciarini (il fuoco), faremo sprizzar fuori la giustizia, e quando ci si mostrerà in piena evidenza, la fisseremo solidamente in noi. – Questo sì che è un procedere per ordine! – esclamò – e così sia. – Ebbene – seguitai –, quando di due cose, sia pur l’una più grande, l’altra più piccola, si afferma che son la stessa, son esse diverse in ciò per cui si dice che son la stessa cosa, o è proprio per questo che sono uguali? – Uguali – disse. – L’uomo giusto, dunque, quanto all’idea della giustizia, non differirà affatto dallo Stato giusto, ma sarà uguale. – Uguale – affermò. – D’altra parte, lo Stato ci è apparso giusto quando ciascuno di quei tre aspetti naturali che lo compongono compie ciò che gli è proprio; mentre ci è sembrato temperante, coraggioso e prudente, in virtù di determinate disposizioni e qualità proprie a questi medesimi aspetti. – Vero – disse. – E, dunque, amico mio, quando ciascun uomo abbia nell’anima questi stessi aspetti, meriterà con ragione i medesimi nomi che diamo allo Stato, se quei tali aspetti ne assumono le stesse disposizioni. – Necessariamente – affermò. – E così, caro mio, ci siamo nuovamente imbattuti – io dissi – in quel facile problema che consiste nel sapere se l’anima abbia o non abbia in sé queste tre qualità. […]

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– Puoi, dunque, essere ancora in dubbio che altro non sia la giustizia se non questa forza che attua uomini e Stati quali abbiamo detto? – Ah no, per Zeus – esclamò –, io no! – Si è cosi pienamente compiuto quel nostro sogno che dicevamo d’intravedere, e cioè che sùbito, fin da quando iniziammo a fondare il nostro Stato, con l’aiuto di un dio si sarebbe davvero potuto trovare un principio e quasi un modello della giustizia. – Precisamente. – Quella era, infatti, come un’immagine della giustizia, o Glaucone, donde la sua utilità, per cui si assomigliava la giustizia a questo, che colui il quale è nato calzolaio deve fare scarpe e non altro, chi falegname il falegname e cosi via. – È chiaro. – Ed in effetto la giustizia mi pare sia un qualcosa del genere, soltanto che non si riferisce alle azioni esterne dell’uomo, ma alla sua azione interiore, a ciò che veramente lo riguarda, e a quegli elementi che lo costituiscono, sì che l’uomo giusto non permette che in sé nulla compia altra funzione dalla propria, né che a vicenda s’intralcino i tre principi dell’anima sua, stabilendo invece interiormente una vera misura, padrone di sé, disciplinato, amico di se stesso; pone in perfetta armonia le tre parti dell’anima, come i tre toni della scala musicale, l’alto, il basso, il medio, e tutti gli altri possibili toni intermedi, accordando insieme tutti questi elementi, facendosi uno da molti che era: temperante così e in armonia perfetta; e appunto, giustamente agisce, sia che lavori per arricchirsi, sia che curi il corpo, si occupi di politica, o tratti con privati, quando giudichi e chiami sempre giusta e bella l’azione che conserva ed incrementa questo interiore ordine, e prudenza quel sapere che consiglia simile azione: ingiusta chiamerà, invece, l’azione, che dissolva quest’ordine ed ignoranza l’opinione che al contrario consigli una simile azione. – Quello che dici, o Socrate, è assolutamente vero! – esclamò. – Ecco – dissi –, se affermassimo di aver trovato l’uomo giusto e lo Stato giusto, che cosa nell’uno e nell’altro sia la giustizia, non credo che ci potranno dare di bugiardi.

 - Platone (Atene 427-347 a.C.) scrisse la Repubblica tra il 380 e il 370 a.C. Il testo riportato è tratto da: Platone, Repubblica, in Opere politiche, vol. I, a cura di F. Adorno, Utet, Torino 1958, pp. 78 ss.

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P, Fedone siamo solo corpo o in noi è presente anche un’altra realtà , più proFonDa eD essenziale? nel *IHSRI, il dialogo che mette in scena le ultime ore della vita di socrate e la comune ricerca della vera natura dell’uomo, platone enuncia diverse “prove” dell’immortalità dell’anima. sono prove dialettiche, via di una ricerca che non può concludersi e non si concluderà: in questa come in altre opere il discorso rimane aperto, la ricerca continua, giungendo anche a esiti parzialmente diversi. al centro della questione è il rapporto tra l’anima e il corpo, e la natura di ciò che più conta: l’anima. in essa infatti risiede la più profonda natura dell’uomo.

[Breve intermezzo: il fanciullino di Cebete] «Però, mi pare che tu e Simmia volentieri approfondireste questo argomento, e che abbiate paura, come i fanciulli, che davvero il vento, non appena l’anima esca dal corpo, se la porti via e la disperda: specialmente se ad uno toccherà di morire non quando il vento sia in quiete, ma quando soffi una forte bufera». E Cebete ridendo disse: «O Socrate, cerca di persuaderci, come se noi avessimo davvero paura. O meglio, non come se avessimo paura noi, ma come se ci fosse un fanciullino dentro di noi e che avesse tali paure. Cerca, dunque, di persuadere questo fanciullino a non aver paura della morte come degli spauracchi». «Ma bisogna fargli gli incantesimi tutti i giorni, – disse Socrate – fino a che non lo si sia placato con tali incantesimi!». «E un buon incantatore di queste paure, dove lo potremo prendere, dopo che tu ci avrai abbandonati?». «L’Ellade – rispose Socrate – è grande, o Cebete; e nell’Ellade ci sono molti uomini capaci. E molti sono anche i popoli barbari. Dunque, dovrete cercare di scoprire fra tutti costoro un incantatore, senza risparmiare ricchezze né fatiche, perché non c’è nulla per cui potreste spendere meglio il vostro denaro. Ma dovrete cercare, anche fra di voi, gli uni con gli altri, perché, forse, non troverete persone che sappiano fare questo meglio di voi». «Lo faremo senz’ altro – disse Cebete –; ma riprendiamo il filo del nostro discorso, se ti fa piacere». «Certo che mi fa piacere! E come non potrebbe?». «Bene», disse. […] socrate e platone

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[L’anima corrisponde all’essere intelligibile e il corpo al sensibile] «Ebbene, che altro c’è in noi – riprese Socrate – se non, da un lato, il corpo e, dall’altro, l’anima?». «Non c’è altro», disse. «E il corpo a quale delle due forme di essere diremo che è più simile e più affine?». «È chiaro a tutti – rispose – che è più simile e affine a quella visibile». «E l’anima è visibile o invisibile?». «Agli uomini, almeno, o Socrate, non è visibile», disse. «Ma noi non stiamo ora parlando di cose visibili o invisibili alla natura degli uomini? O tu pensi a qualche altra natura?». «Sì, alla natura degli uomini». «Che cosa diciamo, dunque, dell’anima? Che è visibile o che non è visibile?». «Che non è visibile». «Allora è invisibile». «Sì». «Dunque, l’anima è più simile all’invisibile che non il corpo; questo, invece, al visibile». «Di necessità, o Socrate».

[L’anima è affine all’incorruttibile e il corpo al corruttibile] «E non dicevamo poco fa anche questo, ossia che, quando l’anima si avvale del suo corpo per fare qualche indagine, servendosi della vista o dell’udito o di altro organo sensoriale – infatti far ricerca per mezzo del corpo significa far ricerca per mezzo dei sensi –, allora essa è tratta dal corpo verso le cose che non permangono mai identiche, ed erra e si confonde e barcolla come ubriaca, perché tali sono appunto le cose cui si attacca?». «Certamente». «Ma quando l’anima, restando in sé sola e per sé sola, svolge la sua ricerca, allora si eleva a ciò che è puro, eterno, immortale, immutabile, e, in quanto è ad esso congenere, rimane sempre con quello, ogni volta che le riesca essere in sé e per sé sola; e, allora, cessa di errare e in relazione a quelle cose rimane sempre nella medesima condizione, perché immutabili sono quelle cose alle quali si attacca. E questo stato dell’anima si chiama intelligenza». «Perfetto! Ciò che tu dici è bello e vero, o Socrate», rispose. «Ora, in base alle cose dette prima e a quelle che abbiamo dette ora, a quale delle due forme di essere ti pare che l’anima assomigli di più?». «A me pare, o Socrate, che chiunque, anche il più duro di mente debba

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ammettere, messo così sulla strada della ricerca, che l’anima, sotto ogni rispetto, è più simile a ciò che è immutabile che non a ciò che non è immutabile». «E il corpo?». «All’altra».

[L’anima domina e il corpo è dominato] «Considera ora la questione anche da quest’altro punto di vista. Quando anima e corpo sono uniti insieme, la natura impone al corpo di servire e di lasciarsi governare, all’anima, invece, di dominare e di governare. Orbene, anche per questo rispetto, quale dei due ti pare simile a ciò che è divino e quale a ciò che è mortale? O non ti pare che ciò che è divino debba governare e comandare, e ciò che è mortale debba invece essere governato e servire?». «A me pare». «Dunque, l’anima a quale dei due assomiglia?». «È chiaro, o Socrate, che l’anima assomiglia a ciò che è divino e il corpo a ciò che è mortale».

[Conclusione: l’anima è in sommo grado affine al divino] «E ora osserva, o Cebete, se da tutte le cose che abbiamo dette non ne consegua che l’anima sia in sommo grado simile a ciò che è divino, immortale, intelligibile, uniforme, indissolubile, sempre identico a sé medesimo, mentre il corpo è in sommo grado simile a ciò che è umano, mortale, multiforme, inintelligibile, dissolubile e mai identico a sé medesimo. Abbiamo qualcosa da dire contro queste conclusioni, caro Cebete? O non è così?». «No, non abbiamo nulla da dire».

 - Platone (Atene 427-347 a.C.) scrisse il Fedone tra il 385 e il 378 a.C. Il testo riportato è tratto da: Platone, Fedone, in Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1991, pp. 372 ss.

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P, Fedone possiamo conoscere la verità? il filosofo è tutt’altro che un sapiente: è soltanto un amico della verità. questo significa che non possiede la verità, ed è quindi del tutto legittimo il dubbio che non la si possa conoscere. ma è un dubbio che va respinto, perché la nostra anima appartiene alla verità, in quanto la sua natura è affine a quella delle idee eterne: l’anima è intelligibile. ma è malata, ha subito un processo di caduta nel corpo, la sua visione si è offuscata in un certo grado. questa immagine dell’uomo, che rimanda a tradizioni mitiche e poetiche (per esempio orfico-pitagoriche), è utilizzata come via dialettica di ricerca. la tesi è: nessuna sfiducia nelle possibilità della mente. ma anche nessuna ingenuità sul fatto che si sia in grado di raggiungere facilmente la verità. la ricerca è possibile, ma deve essere continua e restare aperta.

Socrate: «Ma innanzi tutto, guardiamoci dal cadere vittime di un inconveniente». Fedone: «Quale?», domandai. «Di prendere in odio i ragionamenti come coloro che prendono in odio gli uomini, in quanto non esiste male maggiore che un uomo possa patire, cioè prendere in odio i ragionamenti. E l’odio contro i ragionamenti e quello contro gli uomini nascono nella stessa maniera. Infatti, l’odio contro gli uomini sorge in noi dall’avere posto troppa fiducia in qualcuno senza adeguata considerazione, credendo costui assolutamente verace, schietto e fedele, e poi dall’averlo scoperto, di lì a non molto, malvagio e infido, e poi daccapo diverso. Ora, quando ad uno capita di essere più volte vittima di questa esperienza, specialmente nei confronti di quelli che riteneva amicissimi e intimissimi, finisce, per i molti disinganni, con l’odiare tutti quanti e col credere che non ci sia assolutamente nulla di sano in nessuno. O non ti sei mai accorto che succede così?». «Certo», dissi io. «E allora – riprese Socrate –, non è forse una brutta cosa questa, e non è forse evidente che costui, senza avere alcuna conoscenza degli uomini, vuole tuttavia praticare gli uomini? Perché, se egli praticasse gli uomini avendo conoscenza di essi, giudicherebbe le cose come sono, ossia che gli uomini buoni e i malvagi sono molto pochi, sia gli uni come gli altri, e che i più stanno nel mezzo fra gli uni e gli altri». «Come dici?», domandai io. «Come si verifica – rispose Socrate – per le cose molto piccole e molto

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grandi. Credi tu che ci sia qualcosa di più raro che trovare un uomo o un cane o qualcos’altro che sia molto grande o molto piccolo, oppure che sia molto lento o molto veloce, molto bello o molto brutto, molto bianco o molto nero? Non ti sei mai accorto che in tutte queste cose sono rari e scarsi di numero gli estremi, e che, invece, ciò che sta nel mezzo è abbondante e numeroso?». «Certamente», dissi. «E non credi tu – disse – che, se mai si bandisse una gara di malvagità, pochissimi risulterebbero, anche qui, primi?». «È naturale», dissi io. «Certo, è naturale – rispose –. Tuttavia, non è sotto questo rispetto che i ragionamenti assomigliano agli uomini – tu mi hai sviato e io sono venuto dietro a te –, ma in quest’altro: che, cioè, quando qualcuno, senza avere conoscenza dell’arte dei ragionamenti, crede che un ragionamento sia vero e, poco dopo, gli pare falso – e a volte è davvero falso e a volte no –, e poi ancora gli pare diverso, e poi ancora diverso... E tu sai benissimo che specialmente coloro che passano il loro tempo a ragionare pro e contro ogni cosa, finiscono col convincersi di essere diventati i più sapienti di tutti e di avere essi soli compreso che non esiste alcuna cosa né alcun ragionamento sicuro e saldo, ma che tutti gli esseri si rivoltano in su e in giù, così come avviene nell’Euripo, e in nessun momento e in nessun luogo rimangono mai fermi». «Certo – risposi –, è vero». «E allora, o Pedone – egli disse –, non sarebbe deplorevole che ci capitasse questo, e cioè che, pur essendoci ragionamenti veri e saldi e che si possono riconoscere come tali, per esserci trovati di fronte a ragionamenti che a volte ci parvero veri e a volte no, invece di dare la colpa a sé e alla propria mancanza di conoscenza, si finisse, perché angustiati, col dar la colpa volentieri ai ragionamenti medesimi e così si continuasse a odiarli e a biasimarli per tutta la vita, e così si restasse privi della conoscenza della verità e degli esseri?». «Per Zeus – dissi –, sarebbe davvero cosa deplorevole!». «Dunque, in primo luogo dobbiamo guardarci da questo – disse Socrate – e non lasciare entrare nell’anima la convinzione che non esiste alcun ragionamento sano, ma dobbiamo convincerci piuttosto che noi non siamo ancora sani, e che dobbiamo farci forza e preoccuparci di essere sani in tutti i modi: tu e gli altri per tutta la vita che vi resta, io, invece, per la morte. Infatti anch’io corro il pericolo, in questa circostanza, di non comportarmi da filosofo rispetto alla morte, ma come coloro che, privi di spirituale educazione, vogliono sempre vincere ad ogni costo. Costoro, infatti, quando discutono di qualche cosa, non si preoccupano di sapere come stiano veramente le cose su cui verte la loro discussione, ma desiderano unicamente che ciò che essi affermano essere vero sembri tale anche a quelli che sono presenti.

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E io credo di differire da costoro, in questo momento, solo in questo: che io non mi preoccupo che ciò che io dico sembri vero a coloro che qui sono presenti – se mi riuscisse, tanto meglio! –,ma mi preoccupo che paia vero soprattutto a me. Infatti, o amico, io faccio un calcolo – e guarda se io non ne ricavi vantaggio –, cioè che, se sono vere le cose che affermo, è bene che me ne persuada; se, invece, non c’è più nulla per chi è morto, allora, in questo tempo che precede la morte, non sarò stato, almeno, tedioso con i miei lamenti a coloro che sono presenti. Ma questa ignoranza non durerà a lungo – sarebbe davvero un gran male! –, ma finirà fra poco. Dunque, o Simmia e Cebete, con l’ animo disposto in questa maniera, io ricomincio il mio ragionamento. E se voi mi date retta, vi preoccuperete poco di Socrate e molto più della verità. E, se poi vi sembrerà che io dica il vero, mi darete ragione; altrimenti, dovrete opporvi con ogni vostro argomento, facendo bene attenzione che io, per troppo zelo, ingannando me e voi insieme con me, non fugga via come fa l’ape, lasciando infitto il pungiglione».

 - Platone (Atene 427-347 a.C.) scrisse il Fedone tra il 385 e il 378 a.C. Il testo riportato è tratto da: Platone, Fedone, in Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1991, pp. 386 ss.

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Aristotele Vissuto nell’Atene sottoposta al dominio macedone nonché precettore del futuro Alessandro Magno, Aristotele imprime una svolta decisiva alla ricerca filosofica, concependola in senso puramente teoretico senza implicazioni di carattere politico. Con un più marcato taglio naturalistico rispetto a Platone, egli organizza nella sua scuola (il Liceo) un ampio gruppo di ricercatori che indagano, sotto la sua direzione, i vari campi dello scibile: a suo nome ci è giunta una gran mole di scritti concernenti le scienze teoretiche (metafisica, fisica, psicologia, biologia, cosmologia), pratiche (etica, politica, economia), poietiche (retorica e poetica). A queste va aggiunto il cosiddetto 3VKERSR, cioè un complesso di scritti di logica, concepita come strumento metodologico per la ricerca mirata alla dimostrazione scientifica. Questo GSVTYW di scritti ha costituito la struttura del sapere medievale (cristiano, islamico ed ebraico) fino alle soglie dell’età moderna.

A, Etica nicomachea C’è un Criterio Chiaro per dire Che una Certa azione o una Certa sCelta sono buone e altre non lo sono? sui temi del bene e del male aristotele abbandona completamente l’impostazione platonica, che puntava tutte le carte sulla ricerca del bene come valore supremo e assoluto, al di fuori del tempo e dello spazio, eterno. è una conseguenza dell’abbandono della teoria platonica delle idee: se quest’ipotesi cade, e per aristotele lo fa, il criterio per identificare il bene e il male non dovrà più essere cercato in valori assoluti, ma dovrà consentire di identificare nel concreto delle possibilità reali quali comportamenti perseguire e quali respingere. aristotele identifica questo criterio nella medietà tra due estremi: osserva che le passioni umane, e i comportamenti che ne conseguono, possono essere dannosi e portare a effetti negativi tanto per eccesso quanto per difetto. la via di mezzo che evita gli eccessi è la ricetta aristotelica per identificare concretamente il bene. e, come ovvia conseguenza, per evitare guai ed essere felici.

Per quanto concerne l’ambito del vero, dunque, colui che si pone nella via di mezzo sia chiamato veridico e la via di mezzo, veridicità; la finzione tendente ad esagerare, borioso chi la possiede, mentre quella tendente a sminuire, dissimulazione e dissimulatore (colui che la possiede). Riguardo al piacere che risiede nel gioco, la persona che si trova nella via di mezzo è faceta e urbanità è la disposizione rispettiva; l’eccesso è la buffoneria e chi la possiede è il buffone, mentre chi ne difetta è un rozzo e rozzezza la sua disposizione. [...] Anche nelle affezioni ed in ciò che concerne le affezioni ci sono delle vie di mezzo: il pudore non è una virtù, ma anche chi è pudico viene lodato. In effetti anche in queste cose si dice che uno si trova nel mezzo, un altro eccede è, per esempio, il timido che si vergogna di ogni cosa, mentre chi difetta, ossia non ha vergogna di nulla, è impudente e colui che sta nel mezzo si dice pudico. [...] Poiché dunque le disposizioni sono tre, ossia due vizi, l’uno in base all’eccesso e l’altro in base al difetto, ed una sola virtù che è la medietà, tutte in qualche modo sono in opposizione a tutte: le disposizioni estreme sono opposte a quella intermedia e fra di loro, mentre quella intermedia è opposta a quelle estreme; come l’uguale è più grande in rapporto al più piccolo e più

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piccolo in rapporto al più grande, così le disposizioni intermedie eccedono rispetto ai difetti, mentre difettano rispetto agli eccessi, sia nelle affezioni che nelle azioni. Infatti è evidente che l’uomo coraggioso è temerario rispetto al vile, ma vile rispetto al temerario. Nello stesso modo: anche l’uomo moderato è incontinente rispetto all’insensibile, mentre è insensibile rispetto all’incontinente; e l’uomo generoso è prodigo rispetto all’avaro, mentre è avaro rispetto al prodigo. Perciò coloro che sono agli estremi respingono, ciascuno verso l’altro estremo, chi osserva la medietà: così il vile chiama temerario il coraggioso, mentre il temerario lo chiama vile; e similmente anche negli altri casi. Opponendosi così queste disposizioni le une alle altre, la contrapposizione massima è quella che gli estremi hanno fra di loro, piuttosto che rispetto alla via di mezzo: quelli infatti distano tra di loro più che rispetto al mezzo, come il grande dista dal piccolo ed il piccolo dal grande più che entrambi dall’uguale. Inoltre esiste evidentemente, per certi estremi, una certa somiglianza con il medio: per esempio, la temerarietà somiglia al coraggio e la prodigalità alla generosità. La dissimiglianza massima è quella degli estremi fra di loro: le cose che distano fra loro nella maggior misura si definiscono contrarie, cosicché quelle che maggiormente distano sono anche maggiormente contrarie. A ciò che è intermedio si contrappone di più in alcuni casi il difetto, in alcuni altri l’eccesso: per esempio, al coraggio si contrappone non la temerarietà, che è un eccesso, ma la viltà, che è un difetto; mentre alla moderazione si oppone non l’insensibilità, che è una carenza, ma l’incontinenza, che è un eccesso. E questo accade per due motivi, uno dei quali deriva dalla cosa stessa: per il fatto che uno dei due estremi è più vicino e più simile al medio, al medio opponiamo maggiormente non questo estremo, ma il suo contrario. Per esempio, poiché è opinione comune che la temerarietà sia più simile e più vicina al coraggio e più dissimile invece la viltà, è quest’ultima che contrapponiamo in misura maggiore al coraggio: si ritiene comunemente che le cose che distano di più dal medio siano maggiormente contrarie. Una causa dunque è questa, derivante dalla cosa stessa. L’altra dipende proprio da noi, perché le cose alle quali siamo in qualche modo più inclini per natura appaiono più contrarie alla via di mezzo. Per esempio per natura siamo più portati verso i piaceri; per questo siamo più proclivi all’incontinenza che ad una condotta regolata. Dunque diciamo maggiormente contrarie le cose verso le quali siamo più predisposti; e per questo motivo l’incontinenza, che è un eccesso, è più contraria alla moderazione.

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È dunque sufficiente avere detto che la virtù etica è la via di mezzo e come lo è; che è la via intermedia tra due vizi, l’uno per eccesso, l’altro per difetto, e che tale è per il fatto di mirare alla via di mezzo sia nelle affezioni che nelle azioni. Perciò essere virtuosi non è cosa da poco. È arduo infatti cogliere la via di mezzo in ogni cosa, come trovare il centro di un cerchio non è cosa da persona qualunque, ma da persona che sa; così è proprio di chiunque e facile anche adirarsi, donare denaro e spendere; ma sapere a chi, in quale quantità, in quale momento, in vista di che cosa e in quale modo non è cosa né da chiunque né facile; e per questo appunto il bene è cosa rara, lodevole e bella. Perciò bisogna che colui che mira alla medietà si allontani da ciò che è maggiormente contrario, come anche Calipso esorta: Fuori da questo fumo e da quest’onda tieni la tua nave...

 - Aristotele (Stagira 384 - Calcide 322 a.C.) scrisse l’Etica nicomachea negli anni della maturità, dopo il 334 a.C. Il testo riportato è tratto da: Aristotele, Etica nicomachea, in Etiche, a cura di L. Caiani, Utet, Torino 1996, pp. 236-239.

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A, Primi analitici Quale metodo possiamo utilizzare per Costruire r agionamenti ben Fondati? è chiaro che è necessario un metodo per costruire ragionamenti. noi ragioniamo infatti in molti modi, non tutti corretti, come ben si vede dal fatto che sbagliamo facilmente. è cosa del tutto comune osservare che nei ragionamenti di chi cerca di convincerci di qualcosa c’è un errore; ed è altrettanto comune accorgersi che un nostro ragionamento è sbagliato. se vogliamo costruire un ragionamento scientifico, abbiamo bisogno di identificare dei criteri che ci consentano di controllare che il ragionamento sia corretto. aristotele nella sua logica ha individuato diverse forme di ragionamento (con termine di derivazione greca: di “sillogismi”) e ha studiato le condizioni in cui possiamo considerarli affidabili, almeno nei casi (tutto sommato non molti) in cui sia possibile costruire ragionamenti scientificamente ben fondati, in quanto si hanno solidi e sicuri punti di partenza.

Occorre dire, anzitutto, quale oggetto riguardi ed a quale disciplina spetti la presente indagine, che essa cioè riguarda la dimostrazione e spetta alla scienza dimostrativa; in seguito, bisogna precisare che cosa sia la premessa, cosa sia il termine, cosa sia il sillogismo, quale sillogismo sia perfetto e quale imperfetto; dopo di ciò, si deve definire che cosa sia, per un qualcosa, l’essere contenuto o il non essere contenuto nella totalità di un qualcos’altro, e che cosa intendiamo per venir predicato di ogni oggetto, oppure di nessun oggetto. La premessa, ordunque, è un discorso che afferma o che nega qualcosa rispetto a qualcosa. Tale discorso, poi, è universale, o particolare, o indefinito. Con discorso universale, intendo quello che esprime l’appartenenza ad ogni oggetto o a nessun oggetto; con discorso particolare, intendo quello che esprime l’appartenenza a qualche oggetto, o la non appartenenza ad ogni oggetto; con discorso indefinito, intendo quello che esprime l’appartenenza o la non appartenenza, a prescindere dalla forma universale o dalla forma particolare, per esempio il discorso, secondo cui i contrari sono oggetto della medesima scienza, oppure il discorso, secondo cui il piacere non è bene. D’altro canto, la premessa dimostrativa differisce da quella dialettica, in quanto la premessa dimostrativa è l’assunzione di una delle due parti della contraddizione (chi dimostra infatti non interroga, bensì assume), mentre quella dialettica è la domanda che presenta la contraddizione come un’alternativa. Non vi sarà tuttavia alcuna differenza tra i due casi, aristotele

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per quanto riguarda la costruzione del sillogismo: in effetti, sia chi dimostra sia chi interroga deducono il sillogismo, stabilendo che qualcosa appartiene oppure non appartiene a qualcosa. Di conseguenza, la premessa sillogistica, semplicemente come tale, sarà l’affermazione o la negazione di qualcosa rispetto a qualcosa, nel modo che si è detto. Per altro la premessa è dimostrativa, se è vera e risulta assunta attraverso le ipotesi stabilite inizialmente; la premessa dialettica, invece, riguardo a chi interroga è la domanda che presenta la contraddizione come un’alternativa, e riguardo a chi sviluppa un sillogismo è l’assunzione di ciò che pare accettabile ed è fondato sull’opinione, come appunto si è detto nei libri topici. Orbene, che cosa sia la premessa ed in che cosa differiscano la premessa sillogistica, quella dimostrativa e quella dialettica, si dirà in modo approfondito nella trattazione seguente; per quanto può servire presentemente, ci bastino tuttavia le suddette precisazioni. Chiamo termine, d’altro canto, l’elemento cui si riduce la premessa, ossia tanto il predicato quanto ciò di cui si predica il predicato [...]. Il sillogismo, inoltre, è un discorso in cui, posti taluni oggetti, alcunché di diverso dagli oggetti stabiliti risulta necessariamente, per il fatto che questi oggetti sussistono. Con l’espressione «per il fatto che questi oggetti sussistono» intendo dire che per mezzo di questi oggetti discende qualcosa, e d’altra parte, con l’espressione «per mezzo di questi oggetti discende qualcosa» intendo dire che non occorre aggiungere alcun termine esterno per sviluppare la deduzione necessaria. Chiamo dunque sillogismo perfetto quello che oltre a quanto è stato assunto non ha bisogno di null’altro, affinché si riveli la necessità della deduzione [...]. Infine, il dire che un termine è contenuto nella totalità di un altro termine equivale al dire che il secondo termine si predica di ogni oggetto indicato dal primo. [...] Orbene, quando tre termini stanno tra di essi in rapporti tali, che il minore sia contenuto nella totalità del medio, ed il medio sia contenuto, o non sia contenuto, nella totalità del primo, è necessario che tra gli estremi sussista un sillogismo perfetto. Da un lato, chiamo «medio» il termine che tanto è contenuto esso stesso in un altro termine, quanto contiene in sé un altro termine, e che si presenta come medio anche per la posizione; d’altro lato, chiamo «estremi» sia il termine che è contenuto esso stesso in un altro termine, sia il termine in cui un altro termine è contenuto. In effetti, se A si predica di ogni B, e se B si predica di ogni C, è necessario che A venga predicato di ogni C. Già prima infatti si è detto in che modo intendiamo il venir predicato di ogni oggetto. Similmente poi, se A non si predica di nessun B, e se B si predica di ogni C, A non apparterrà a nessun C. Per contro, se il primo termine appartiene ad ogni oggetto che può essere indicato dal termine medio, e se il medio non appartiene a nessuno degli oggetti che possono venir indicati dal termine minore, tra gli estremi non sussisterà

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sillogismo, poiché non risulta nulla di necessario per il fatto che si diano queste premesse. In effetti, può accadere che il primo termine appartenga ad ogni oggetto ed a nessun oggetto, tra quelli che possono venir indicati dal termine minore, cosicché non diventa necessaria né una conclusione particolare, né una conclusione universale. Non sussistendo così alcuna conclusione necessaria, attraverso queste premesse non si darà sillogismo. Una conclusione, in cui risulti l’appartenenza ad ogni oggetto, può fondarsi ad esempio sui seguenti termini: «animale-uomo-cavallo»; una conclusione, in cui risulti l’appartenenza a nessun oggetto, può fondarsi sui seguenti termini: «animale-uomo-pietra». Quando poi il primo termine non appartiene a nessuno degli oggetti che possono venire indicati dal medio, ed il medio non appartiene a nessuno degli oggetti che possono venir indicati dal termine minore, anche allora non vi sarà sillogismo. Una conclusione, in cui risulti l’appartenenza, può fondarsi sui seguenti termini: «scienza-linea-arte medica»; una conclusione, in cui risulti la non appartenenza, può fondarsi sui seguenti termini: «scienza-linea-unità».

 - Aristotele (Stagira 384 - Calcide 322 a.C.) scrisse i Primi analitici probabilmente ad Atene nella prima metà degli anni cinquanta del IV secolo a.C., quando era ancora nell’Accademia platonica. Il testo riportato è tratto da: Aristotele, Primi analitici, trad. it. di G. Colli, in Organon I, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 85 ss.

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A, Metafisica Che Cosa dobbiamo intendere Quando diCiamo la parola “dio”? il ragionamento di aristotele sulla divinità è strettamente legato alla spiegazione del movimento, cioè delle forze fondamentali che troviamo in natura: che origine hanno? perché l’universo è in incessante movimento e qual è la fonte di questa immane energia che fa muovere il cosmo? aristotele nota che nella nostra esperienza ci sono due tipi di movimento molto diversi: quelli che osserviamo sulla terra, che hanno un andamento irregolare, e quelli che osserviamo nei cieli, che hanno un andamento ciclico e del tutto regolare. il primo tipo di movimento si genera e poi ha termine sulla base di forze osservabili e identificabili, almeno fino a un certo punto (oltre no, perché la nostra conoscenza della natura è limitata nel tempo e nello spazio); il movimento dei cieli è invece costante: appare eterno, nel senso di perenne, sempre uguale nel tempo. aristotele ne trae la conclusione che è qualcosa di radicalmente diverso, per natura. dato che il movimento deve avere una causa, altrimenti non si spiegherebbe perché c’è, costruisce una teoria fisica sulla base della quale deve esistere una origine del movimento che non sia essa stessa in movimento (altrimenti il ragionamento proseguirebbe all’infinito). Quando diciamo la parola “dio” intendiamo riferirci a questo essere immobile ed eterno, che tuttavia è causa del movimento.

[Motore immobile] Dobbiamo dimostrare che necessariamente esiste una sostanza eterna ed immobile. Le sostanze, infatti, hanno priorità rispetto a tutti gli altri modi di essere, e, se fossero tutte corruttibili, allora sarebbe corruttibile tutto quanto esiste. Ma è impossibile che il movimento si generi o si corrompa, perché esso è sempre stato; né è possibile che si generi o si corrompa il tempo, perché non potrebbero esserci il «prima» e il «poi» se non esistesse il tempo. Dunque, anche il movimento è continuo come il tempo: infatti il tempo o è la stessa cosa che il movimento o una caratteristica del medesimo. [...] C’è qualcosa che sempre si muove di moto continuo, e questo è il moto circolare (e ciò è evidente non solo col ragionamento ma anche come dato di fatto); cosicché, il primo cielo deve essere eterno. Pertanto c’è anche qual-

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cosa che muove. E, poiché ciò che è mosso e muove è un termine intermedio, deve esserci, per conseguenza, qualcosa che muova senza essere mosso e che sia sostanza eterna ed atto. E in questo modo muovono l’oggetto del desiderio e dell’intelligenza: muovono senza essere mossi. Ora, l’oggetto primo del desiderio e l’oggetto primo dell’intelligenza coincidono: infatti oggetto del desiderio è ciò che appare a noi bello e oggetto primo della volontà razionale è ciò che è oggettivamente bello: e noi desideriamo qualcosa perché lo crediamo bello, e non, viceversa, lo crediamo bello perché lo desideriamo; infatti è il pensiero il principio della volontà razionale. E l’intelletto è mosso dall’intelligibile, e la serie positiva degli opposti è per se stessa intelligibile; e in questa serie la sostanza ha il primo posto, e, ulteriormente, nell’ambito della sostanza, ha il primo posto la sostanza che è semplice ed è in atto (l’uno ed il semplice non sono la stessa cosa: l’unità significa una misura, invece la semplicità significa il modo di essere della cosa); ora, anche il bello e ciò che è per sé desiderabile sono nella medesima serie, e ciò che vien primo nella serie è sempre l’ottimo o ciò che equivale all’ottimo. Che, poi, il fine si trovi fra gli esseri immobili, lo dimostra la distinzione «dei suoi significati»: fine significa: a) qualcosa a vantaggio di cui e b) lo scopo stesso di qualcosa; nel secondo di questi significati il fine può trovarsi fra gli esseri immobili, nel primo significato no. Dunque il primo motore muove come oggetto di amore, mentre tutte le altre cose muovono essendo mosse. Ora, se qualcosa si muove, può anche essere diverso da come è. Pertanto il primo movimento di traslazione, anche se è in atto, può tuttavia essere diverso da come è, almeno in quanto è movimento: evidentemente diverso secondo il luogo, anche se non secondo la sostanza. Ma, poiché esiste qualcosa che muove essendo, esso medesimo, immobile ed in atto, non può essere in modo diverso da come è in nessun senso. Il movimento di traslazione, infatti, è la prima forma di mutazione, e la prima forma di traslazione è quella circolare: e tale è il movimento che il primo motore produce. Dunque, questo è un essere che esiste di necessità; e in quanto esiste di necessità, esiste come bene, ed in questo modo è Principio. (Infatti, il «necessario» ha i seguenti significati: a) ciò che si fa per costrizione contro l’inclinazione, b) ciò senza cui non esiste il bene, e, infine, c) ciò che non può assolutamente essere diverso da come è.) Da un tale Principio, dunque, dipendono il cielo e la natura. Ed il suo modo di vivere è il più eccellente: è quel modo di vivere che a noi è concesso solo per breve tempo. E in quello stato Egli è sempre. A noi questo è impossibile, ma a Lui non è impossibile, poiché l’atto del suo vivere è piacere. E anche per noi veglia, sensazione e conoscenza sono in sommo grado piacevoli, proprio perché sono atto, e, in virtù di questi, anche speranze e ricordi.

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Ora, il pensiero che è pensiero per sé, ha come oggetto ciò che è di per sé più eccellente, e il pensiero che è tale in massimo grado ha per oggetto ciò che è eccellente in massimo grado. L’intelligenza pensa se stessa, cogliendosi come intelligibile: infatti, essa diventa intelligibile intuendo e pensando sé, cosicché intelligenza ed intelligibile coincidono. L’intelligenza è, infatti, ciò che è capace di cogliere l’intelligibile e la sostanza, ed è in atto quando li possiede. Pertanto, più ancora che quella capacità, è questo possesso ciò che di divino ha l’intelligenza; e l’attività contemplativa è ciò che c’è di più piacevole e di più eccellente. Se, dunque, in questa felice condizione in cui noi ci troviamo talvolta, Dio si trova perennemente, è meraviglioso; e se Egli si trova in una condizione superiore, è ancor più meraviglioso. E in questa condizione Egli effettivamente si trova. Ed Egli è anche vita, perché l’attività dell’intelligenza è vita, ed Egli è appunto quell’attività. E la sua attività, che sussiste di per sé, è vita ottima ed eterna. Diciamo, infatti, che Dio è vivente, eterno e ottimo; cosicché a Dio appartiene una vita perennemente continua ed eterna: questo è, dunque, Dio. [...] È evidente, dunque, da quello che è stato detto, che esiste una sostanza immobile, eterna e separata dalle cose sensibili. E risulta pure che questa sostanza non può avere alcuna grandezza, ma che è senza parti e indivisibile. [...] Risulta, inoltre, che essa è impassibile e inalterabile: infatti tutti gli altri movimenti sono posteriori al movimento locale.

 - Aristotele (Stagira 384 - Calcide 322 a.C.) in realtà non scrisse mai un’opera con questo titolo. Fu Andronico di Rodi nel I secolo a.C. a raggruppare vari scritti nei 14 libri che formano il testo attualmente conosciuto. Il testo riportato è tratto da: Aristotele, Metafisica, a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1978, pp. 500 ss.

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A, Metafisica Che Cosa signiFiCa Che QualCosa C’è, e più in gener ale, Che Cosa signiFiCano termini Come “esserCi” ed “essere”? aristotele affronta in modo diverso da platone la questione dell’essere che era stata posta da parmenide con la sua celebre tesi sull’impossibilità di pensare il nulla, cosa che determinava a suo avviso l’impossibilità di pensare il movimento e la pluralità degli esseri. pone innanzitutto una questione linguistica, osservando che la parola “essere” utilizzata tanto come sostantivo quanto come verbo ha in realtà diversi significati e non uno solo. Questa osservazione apre la via a ricerche molto diverse a seconda di UYEPI essere si stia parlando. una via di ricerca riguarda quello che aristotele chiama “l’essere in quanto essere”, cioè quella nozione che applichiamo a qualsiasi cosa che c’è e che parmenide ha ritenuto non potesse essere molteplice. è questo l’oggetto di quella scienza che da aristotele in poi si definisce “metafisica” (il termine però è posteriore: aristotele parla piuttosto di “filosofia prima”, ma il concetto è già fissato nella sua filosofia).

C’è una scienza che considera l’essere in quanto essere e le proprietà che gli competono in quanto tale. Essa non si identifica con nessuna delle scienze particolari: infatti nessuna delle altre scienze considera l’essere in quanto essere in universale, ma, dopo aver delimitato una parte di esso, ciascuna studia le caratteristiche di questa parte. Così fanno, ad esempio, le matematiche. Orbene, poiché ricerchiamo le cause e i princìpi supremi, è evidente che questi devono essere cause e princìpi di una realtà che è per sé. Se, dunque, anche coloro che ricercavano gli elementi degli esseri, ricercavano questi princìpi «supremi», necessariamente quegli elementi non erano elementi dell’essere accidentale, ma dell’essere come essere. Dunque, anche noi dobbiamo ricercare le cause prime dell’essere in quanto essere. L’essere si dice in molteplici significati, ma sempre in riferimento ad una unità e ad una realtà determinata. L’essere, quindi, non si dice per mera omonimia, ma nello stesso modo in cui diciamo «sano» tutto ciò che si riferisce alla salute: o in quanto la conserva, o in quanto la produce, o in quanto ne è sintomo, o in quanto è in grado di riceverla; o anche nel modo in cui diciamo «medico» tutto ciò che si riferisce alla medicina: o in quanto possiede la medicina, o in quanto ad essa è per natura ben disposto, o in quanto è opera della medicina; e potremmo addurre ancora altri esempi di cose che

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si dicono nello stesso modo di queste. Così, dunque, anche l’essere si dice in molti sensi, ma tutti in riferimento ad un unico principio: alcune cose sono dette esseri perché sono sostanza, altre perché affezioni della sostanza, altre perché vie che portano alla sostanza, oppure perché corruzioni, o privazioni, o qualità, o cause produttrici o generatrici sia della sostanza, sia di ciò che si riferisce alla sostanza, o perché negazioni di qualcuna di queste, ovvero della sostanza medesima. (Per questo, anche il non-essere diciamo che è non-essere.) [...] Ci sono tante parti della filosofia quante sono le sostanze; di conseguenza è necessario che, fra queste parti della filosofia, ce ne sia una che è «prima» ed una che è «seconda». Infatti, l’essere è originariamente distinto in generi, e le scienze si distinguono secondo la distinzione di questi generi. Il filosofo è come il matematico: infatti, anche la matematica ha parti e, di queste, l’una è prima e l’altra è seconda e le restanti seguono, in serie, l’una dopo l’altra. E poiché ad una scienza unica compete lo studio dei contrari, e poiché all’uno si oppone il molteplice, e, ancora, poiché ad una scienza unica compete lo studio della negazione e della privazione, per il fatto che, in ambedue i casi, si studia l’uno, di cui, appunto, si dà negazione e privazione [...]; ne viene di conseguenza che anche i contrari delle nozioni su menzionate, come: il diverso, il dissimile e l’ineguale, e tutti gli altri che derivano da queste, oppure dal molteplice e dall’uno, rientrano nell’ambito di indagine della scienza di cui abbiamo detto. Fra queste va inclusa anche la contrarietà, perché la contrarietà è una certa differenza e la differenza è una diversità. E, dal momento che l’uno si dice in molteplici significati, di conseguenza, anche questi termini, a loro volta, si diranno in molteplici significati; tuttavia, tutti quanti saranno oggetto di conoscenza di un’unica scienza. [...] È evidente, dunque, [...] che è compito di un’unica scienza occuparsi di queste nozioni e della sostanza [...]. E coloro che indagano queste proprietà, non errano perché non fanno indagine filosofica, ma perché la sostanza ha priorità su queste, e della sostanza essi non dicono nulla. Infatti, come ci sono proprietà che sono peculiari del numero in quanto numero, ad esempio parità, disparità, commensurabilità, eguaglianza, eccesso e difetto, e queste appartengono ai numeri, sia considerati singolarmente sia in reciproca relazione; e come ci sono altre proprietà che sono peculiari del solido, dell’immobile, del mobile, di ciò che non ha peso e di ciò che ha peso: ebbene, così ci sono proprietà peculiari anche dell’essere in quanto essere, ed è intorno a queste che il filosofo deve cercare il vero. Quasi tutti i filosofi sono d’accordo nel ritenere che gli esseri e la sostanza siano costituiti da contrari: infatti tutti pongono come princìpi i contrari.

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Alcuni pongono come princìpi dispari e pari, altri caldo e freddo, altri ancora limite e illimite, altri infine, amicizia e discordia. E anche tutti gli altri contrari si riducono manifestamente all’uno e ai molti [...]; quindi anche i princìpi degli altri filosofi si riducono interamente a questi due generi. Anche da questo, dunque, risulta evidente che è compito di un’unica scienza lo studio dell’essere in quanto essere. Infatti, tutte le cose sono o contrarie o derivanti da contrari, e dei contrari sono princìpi l’uno e i molti. Ora questi appartengono a un’unica scienza, sia che si predichino in senso univoco, sia che non si predichino in senso univoco (come, certo, è in realtà); tuttavia, anche se l’uno si dice in molti sensi, tutti i diversi sensi si dicono in riferimento al senso originario (e, similmente, anche gli altri contrari); e anche se l’essere, così come l’uno, non è qualcosa di universale e identico in tutte le cose, o qualcosa di separato (come, certo, non è), tuttavia alcune cose son dette «esseri» o «uno» per riferimento ad un unico termine, altre perché sono consecutive l’una all’altra. Perciò non è compito del geometra studiare che cosa sia il contrario o il perfetto o l’essere o l’uno o l’identico o il diverso, o lo è a puro titolo di ipotesi. È evidente, dunque, che a un’unica scienza appartiene lo studio dell’essere in quanto essere e delle proprietà che ad esso si riferiscono, e che la medesima scienza non solo deve studiare le sostanze, ma anche le loro proprietà, i contrari di cui s’è detto, e altresì l’anteriore e il posteriore e il genere e la specie, il tutto e la parte e le altre nozioni di questo tipo.

 - Aristotele (Stagira 384 - Calcide 322 a.C.) in realtà non scrisse mai un’opera con questo titolo. Fu Andronico di Rodi nel I secolo a.C. a raggruppare vari scritti nei 14 libri che formano il testo attualmente conosciuto. Il testo riportato è tratto da: Aristotele, Metafisica, a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1978, pp. 175 ss.

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A, Metafisica se le Cose, gli esseri viventi, le persone, sono soggetti a Continue tr asFormazioni e Cambiamenti, Come possiamo identiFiCarli? se una cosa cambia, è ancora se stessa? Quello che era prima non lo è più: negli esseri viventi ciò è particolarmente evidente, perché un bambino che cresce diventa una persona adulta e non è più un bambino, tuttavia è sempre la stessa persona. se la trasformazione è più radicale l’identità si perde. Come possiamo comprendere con esattezza quando l’identità rimane e quando si perde? e cosa consente di mantenere l’identità nel continuo corso delle trasformazioni? la risposta a queste domande è resa difficile dal fatto che tutti gli enti che conosciamo sono soggetti al tempo, e quindi non c’è un momento in cui non si trasformino, perché il tempo non si ferma mai. è pertanto indispensabile un criterio per comprendere che cosa sia qualcosa QIRXVI cambia. un solo concetto non è sufficiente per fare questo; aristotele propone di utilizzarne due, entrambi astratti se presi in sé (in quasi tutti i casi: per la materia originaria e per dio non è esattamente così), concreti se applicati insieme: sono le nozioni di “atto” e di “potenza”.

L’atto è l’esistere della cosa, non però nel senso in cui diciamo che è in potenza: e diciamo in potenza, per esempio, un Ermete nel legno, la semiretta nell’intera retta, perché li si potrebbe ricavare, e diciamo pensatore anche colui che non sta speculando, se ha capacità di speculare; diciamo invece in atto l’altro modo di essere della cosa. Ciò che vogliamo dire diventa chiaro per induzione nei casi particolari: infatti, non bisogna cercare definizione di tutto, ma bisogna accontentarsi di comprendere intuitivamente certe cose mediante l’analogia. E l’atto sta alla potenza come ad esempio chi costruisce sta a chi può costruire, chi è desto a chi dorme, chi vede a chi ha gli occhi chiusi ma ha la vista, e ciò che è ricavato dalla materia alla materia e ciò che è elaborato a ciò che non è elaborato. Al primo membro di queste differenti relazioni si attribuisca la qualifica di atto e al secondo quella di potenza. [...] Dobbiamo definire, inoltre, quando ciascuna cosa sia in potenza e quando no; infatti non in qualsiasi tempo è in potenza. Per esempio, la terra è già in potenza l’uomo? Oppure non lo è, e lo è solo quando sia già divenuta sperma, e anzi forse neppure allora? Si ha, qui, lo stesso caso della guarigione: non tutto può essere guarito dall’arte medica oppure dal caso, ma può

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essere guarito solo ciò che è in grado di essere guarito, e, questo, è ciò che ha la salute in potenza. (1) Per quanto concerne le cose che dipendono dalla ragione, la questione può così definirsi: esse passano dall’essere in potenza all’essere in atto, quando siano volute e non intervengano ostacoli dal di fuori; nel caso, poi, di colui che deve essere guarito, quando non ci siano impedimenti interni. E diremo che anche una casa è in potenza allo stesso modo: quando negli elementi materiali non ci sia nulla che ad essi impedisca di diventare casa, e quando non vi sia più nulla che ad essi si debba ulteriormente aggiungere o togliere o mutare, allora si ha la casa in potenza. Così dovrà dirsi per tutti gli altri casi, in cui il principio della generazione proviene dal di fuori. (2) Le cose, invece, che hanno in sé il principio della generazione saranno in potenza per virtù propria, quando non vi siano impedimenti provenienti dall’esterno. Lo sperma, ad esempio, non è ancora l’uomo in potenza perché deve essere deposto in altro essere e subire mutamento; invece quando, in virtù del principio suo proprio, sia già passato in tale stadio, allora esso sarà l’uomo in potenza: nel precedente stadio esso ha bisogno di un altro principio. Così, per esempio, la terra non è ancora la statua in potenza, essa deve, prima, mutare per diventare bronzo. Quando diciamo che un essere non è una determinata cosa ma «fatto di una certa cosa» (per esempio, l’armadio non è legno, ma è fatto di legno, né il legno è terra, ma fatto di terra, e, a sua volta, la terra, se deriva in questo modo da altro, non è quest’altro, ma fatta di quest’altro), appare evidente che quest’ultimo termine è sempre in potenza, in senso proprio, quello che immediatamente segue. Per esempio, l’armadio non è fatto di terra, né è terra, ma è di legno; il legno è, infatti, armadio in potenza, e come tale è materia dell’armadio, ed il legno in generale è materia dell’armadio in generale, mentre di questo dato armadio è materia questo dato legno. E se c’è qualcosa di originario che non possa più riferirsi ad altro come fatto di quest’altro, allora questo sarà la materia prima [...] risulta evidente che l’atto è anteriore alla potenza. Intendo parlare non solamente della potenza nel significato sopra precisato di principio di mutamento in altro o nella cosa stessa in quanto altro, ma, in generale, di ogni principio di movimento o di inerzia. Infatti, anche la natura appartiene allo stesso genere cui appartiene la potenza, perché anch’essa è principio di movimento, ma non in altro, bensì nella cosa stessa in quanto tale. Ora, di ogni potenza intesa a questo modo l’atto è anteriore secondo la nozione e secondo la sostanza [...]. Che l’atto, dunque, sia anteriore quanto alla nozione, è evidente. Infatti in potenza (nel senso primario del termine) è ciò che ha capacità di passare all’atto: chiamo, per esempio, costruttore colui che ha la capacità di costruire, veggente chi ha la capacità di vedere, e visibile ciò che può essere veduto.

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Lo stesso discorso vale anche per tutto il resto. Sicché la nozione di atto, di necessità, precede il concetto di potenza e la conoscenza dell’atto precede la conoscenza della potenza. L’atto, poi, è anteriore quanto al tempo, in questo senso: se l’essere in atto è considerato come identico specificamente ad un altro essere in potenza della medesima specie, è anteriore a questo; se invece l’essere in atto e l’essere in potenza son considerati nel medesimo individuo, l’essere in atto non è anteriore. Faccio alcuni esempi: di questo particolare uomo che già esiste in atto, e di questo particolare frumento e di questo particolare occhio che sta vedendo, in ordine al tempo è prima la materia, il seme e la possibilità di vedere, che sono uomo e grano veggente in potenza e non ancora in atto. Ma a questi, sempre in ordine al tempo, sono anteriori altri esseri già in atto, dai quali questi sono derivati: infatti, l’essere in atto deriva dall’essere in potenza sempre ad opera di un altro essere già in atto. Per esempio, l’uomo deriva da un uomo in atto, e il musico da un musico in atto; c’è sempre, insomma, un motore che precede, e il motore deve essere già in atto. Infatti [...] tutto ciò che diviene, deriva da qualcosa, diviene qualcosa e ad opera di qualcosa, e che l’agente è specificamente identico a ciò che è prodotto.

 - Aristotele (Stagira 384 - Calcide 322 a.C.) in realtà non scrisse mai un’opera con questo titolo. Fu Andronico di Rodi nel I secolo a.C. a raggruppare vari scritti nei 14 libri che formano il testo attualmente conosciuto. Il testo riportato è tratto da: Aristotele, Metafisica, a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1978, pp. 378 ss.

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A, Topici Come si possono Costruire r agionamenti ben Fondati su argomenti di Cui Ci manCano le ConosCenze di base? nell’esposizione della scienza attraverso i sillogismi è di fondamentale importanza costruire i propri ragionamenti su conoscenze sicure e da lì muovere per derivarne ulteriori conoscenze sicure. nella maggior parte dei casi, però, la vita ci mette nella necessità di costruire ragionamenti che non possono basarsi su conoscenze sicure, perché non le abbiamo. d’altra parte non possiamo aspettare di averle, perché le esigenze della vita impongono che si prendano decisioni, si assumano posizioni, si agisca. e un essere razionale sceglie e agisce dopo avere ragionato. ma come fare in mancanza di conoscenze di base sicure? aristotele dice che è questa l’arte della “dialettica”, fondata dai suoi predecessori. per costruire i propri ragionamenti (cioè i “sillogismi dialettici”) un punto di partenza c’è: sono le “opinioni ben fondate”, quelle di cui gli uomini più saggi si fidano. sono certamente vere? no, altrimenti non sarebbero “opinioni” ma conoscenze e il sillogismo non sarebbe “dialettico” ma “scientifico”. ma non sono opinioni qualsiasi (HS\E), sono ben fondate (IRHS\E) e i ragionamenti che ne derivano sono il massimo a cui in certi campi si può arrivare. per esempio di fronte alla necessità di compiere le scelte pratiche della vita o in molte ricerche scientifiche su cui manchino dati fondamentali.

[Il sillogismo dialettico] Il fine che questo trattato si propone è di trovare un metodo, onde poter costituire, attorno ad ogni formulazione proposta di una ricerca, dei sillogismi che partano da elementi fondati sull’opinione, e onde non dir nulla di contraddittorio rispetto alla tesi che noi stessi difendiamo. Anzitutto occorre allora dire che cos’è un sillogismo e quali differenze distinguano la sua sfera, affinché possa venir assunto il sillogismo dialettico: nel presente trattato indaghiamo infatti quest’ultimo. «Sillogismo» è propriamente un discorso in cui, posti alcuni elementi, risulta per necessità, attraverso gli elementi stabiliti, alcunché di differente da essi. Si ha così da un lato dimostrazione, quando il sillogismo è costituito e deriva da elementi veri e primi, oppure da elementi siffatti che assumano il principio della conoscenza che li riguarda attraverso certi elementi veri e primi. Dialettico è d’altro lato il sillogismo che conclude da elementi fon-

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dati sull’opinione. Elementi veri e primi sono inoltre quelli che traggono la loro credibilità non da altri elementi, ma da se stessi: di fronte ai princìpi delle scienze, non bisogna infatti cercare ulteriormente il perché, e occorre invece che ogni principio sia per se stesso degno di fede. Fondati sull’opinione (endoxa) per contro sono gli elementi che appaiono accettabili a tutti, oppure alla grande maggioranza, oppure ai sapienti, e tra questi o a tutti, o alla grande maggioranza, o a quelli oltremodo noti ed illustri. Eristico è poi il sillogismo costituito da elementi che sembrano fondati sull’opinione, pur non essendolo, e anche quello che all’apparenza deriva da elementi fondati sull’opinione o presentatisi come tali: invero, non tutto ciò che sembra fondato sull’opinione lo è anche. In effetti, nessuno degli elementi che si dicono fondati sull’opinione possiede nella sua rappresentazione immediata una perfetta evidenza, come avviene rispetto ai presupposti dei discorsi eristici: subito e quasi sempre infatti, per coloro in grado di dominare e scorgere anche le piccolezze, risulta manifesta in tali discorsi la radice della falsità. Il primo dei suddetti sillogismi eristici si può così chiamare anche sillogismo; l’altro invece si può certo dire sillogismo eristico, non già però sillogismo, poiché ha l’apparenza di concludere, ma non conclude. A tutti i suddetti sillogismi si aggiungono i paralogismi, che sorgono dagli elementi propri di alcune scienze, come avviene per la geometria e per le scienze ad essa affini. Questa figura infatti risulta differente dai sillogismi già nominati: chi disegna in modo errato, nella costruzione geometrica, non conclude né da elementi veri e primi, né da elementi fondati sull’opinione. Costui in effetti non si muove entro la definizione di questi ultimi, poiché non assume né gli elementi che appaiono accettabili a tutti, né quelli che sembrano tali alla grande maggioranza, né quelli che sembrano tali ai sapienti, intendendosi tra questi o tutti, o la grande maggioranza, oppure i più illustri, ma si costruisce il sillogismo partendo dalle assunzioni proprie di quella scienza, per altro non vere. Con il descrivere le semicirconferenze in modo indebito, o con il tracciare certe linee non come dovevano esserlo, egli difatti porta a termine il paralogismo. [...] Ciò che è stato detto dev’essere ora seguito da un accenno a quante e a quali cose sia utile questo trattato. Propriamente esso lo è sotto tre rispetti, per esercizio, per le conversazioni, per le scienze connesse alla filosofia. Che da un lato sia utile per esercizio, risulta evidente già da quanto si è detto: con il possesso del metodo saremo infatti più facilmente in grado di disputare intorno all’argomento proposto. D’altro canto esso è utile per le conversazioni, poiché una volta passate in rassegna le opinioni della gran massa degli uomini, verremo in rapporto con essi non già sulla base dei punti di vista loro estranei, bensì su quella delle loro opinioni particolari, respingendo quanto risulterà che essi ci dicono in modo non corretto. E infine utile per le scienze connesse alla filosofia, poiché potendo sollevare delle difficoltà

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riguardo ad entrambi gli aspetti della questione, scorgeremo più facilmente in ogni aspetto il vero e il falso. Questo trattato è poi utile altresì rispetto ai primi tra gli elementi riguardanti ciascuna scienza. Partendo infatti dai princìpi propri della scienza in esame, è impossibile dire alcunché intorno ai princìpi stessi, poiché essi sono i primi tra tutti gli elementi, ed è così necessario penetrarli attraverso gli elementi fondati sull’opinione, che riguardano ciascun oggetto. Questa per altro è l’attività propria della dialettica, o comunque quella che più le si addice: essendo infatti impiegata nell’indagine, essa indirizza verso i princìpi di tutte le scienze.

 - Aristotele (Stagira 384 - Calcide 322 a.C.) scrisse i Topici nel corso della prima metà degli anni cinquanta del IV secolo a.C. Il testo riportato è tratto da: Aristotele, Topici, trad. it. di G. Colli, in Organon II, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 5 ss.

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A, Anima Che Cosa sono l’anima e l’intelletto dell’uomo? per aristotele al fine di costruire una conoscenza ben fondata è indispensabile poter comprendere che cosa sia l’oggetto studiato, cioè quale sia la sostanza di un qualsiasi oggetto di ricerca. l’anima umana non fa eccezione. da allievo di platone, deve misurarsi con una tradizione che ha distinto in modo molto radicale l’anima dal corpo, ma da biologo ha bisogno di capire come la psiche e il corpo interagiscano. benché i termini siano vicini, dell’apparato concettuale platonico nella concezione aristotelica dell’anima non rimane molto. la direzione di ricerca è diversa.

[Che cos’è l’anima] Per ciò che riguarda le dottrine sull’anima tramandateci dai nostri predecessori può bastare quanto si è detto. Riprendiamo ora di nuovo la strada come dall’inizio, cercando di determinare che cos’è l’anima e qual è il suo concetto più generale. Noi chiamiamo un certo genere di esseri sostanza, e diciamo sostanza in un primo senso la materia, la quale di per sé non è qualcosa di determinato; in un secondo la forma e la specie, in virtù della quale precisamente si parla di qualcosa di determinato; e in un terzo senso il composto di queste due. La materia poi è potenza e la forma atto, e l’atto si dice in due sensi: o come la conoscenza, o come l’uso di essa. Ora sostanze sembrano essere soprattutto i corpi e tra essi specialmente quelli naturali, giacché questi sono i principi di tutti gli altri. Tra i corpi naturali, poi, alcuni possiedono la vita ed altri no; chiamiamo vita la capacità di nutrirsi da sé, di crescere e di deperire. Di conseguenza ogni corpo naturale dotato di vita sarà sostanza, e lo sarà precisamente nel senso di sostanza composta. Ma poiché si tratta proprio di un corpo di una determinata specie, e cioè che ha la vita, l’anima non è il corpo, giacché il corpo non è una delle determinazioni di un soggetto, ma piuttosto è esso stesso soggetto e materia. Necessariamente dunque l’anima è sostanza, nel senso che è forma di un corpo naturale che ha la vita in potenza. Ora tale sostanza è atto, e pertanto l’anima è atto del corpo che s’è detto. Atto, poi, si dice in due sensi, o come la conoscenza o come l’esercizio di essa, ed è chiaro che l’anima è atto nel senso in cui lo è la conoscenza. Difatti l’esistenza sia del sonno che della veglia implica quella dell’anima. Ora la veglia è analoga all’uso della conoscenza, mentre il sonno al suo possesso e non all’uso, e primo nell’ordine del divenire rispetto al medesimo individuo è il possesso della conoscenza. Perciò l’anima è l’atto primo di un corpo naturale che ha

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la vita in potenza. Ma tale corpo è quello che è dotato di organi. (Organi sono anche le parti delle piante, ma estremamente semplici. Ad esempio la foglia è la protezione del pericarpo e il pericarpo del frutto, mentre le radici corrispondono alla bocca, in quanto l’una e le altre prendono il nutrimento.) Se dunque si deve indicare una caratteristica comune ad ogni specie di anima, si dirà che essa è l’atto primo di un corpo naturale dotato di organi. Pertanto non c’è bisogno di cercare se l’anima e il corpo formano un’unità, allo stesso modo che non v’è da chiedersi se formano un’unità la cera e la figura né, in generale, la materia di una data cosa e ciò che ha per sostrato tale materia. Se infatti l’uno e l’essere hanno molti significati, quello principale è l’atto. S’è dunque detto, in generale, che cos’è l’anima: essa è sostanza nel senso di forma, ovvero è l’essenza di un determinato corpo.

[In che modo il pensiero si produce] Riguardo alla parte dell’anima con cui essa conosce e pensa (sia questa parte separabile, sia non separabile secondo la grandezza, ma soltanto logicamente) si deve ricercare quale sia la sua caratteristica specifica ed in qual modo il pensiero si produca. Ora se il pensare è analogo al percepire, consisterà in un subire l’azione dell’intelligibile o in qualcos’altro di simile. Questa parte dell’anima deve dunque essere impassibile, ma ricettiva della forma, e dev’essere in potenza tale qual è la forma, ma non identica ad essa; e nello stesso rapporto in cui la facoltà sensitiva si trova rispetto agli oggetti sensibili, l’intelletto si trova rispetto agli intelligibili. […] Di conseguenza la sua natura non è altro che questa: di essere in potenza. Dunque il cosiddetto intelletto che appartiene all’anima (chiamo intelletto ciò con cui l’anima pensa ed apprende) non è in atto nessuno degli enti prima di pensarli. Perciò non è ragionevole ammettere che sia mescolato al corpo, perché assumerebbe una data qualità, e sarebbe freddo o caldo, ed anche avrebbe un organo come la facoltà sensitiva, mentre non ne ha alcuno. Quindi si esprimono bene coloro i quali affermano che l’anima è il luogo delle forme, solo che tale non è l’intera anima, ma quella intellettiva, ed essa non è in atto, ma in potenza le forme. […] Poiché sono diverse la grandezza e l’essenza della grandezza, come l’acqua e l’essenza dell’acqua (e ciò vale per molti altri casi, benché non per tutti, giacché in alcuni esse s’identificano), il soggetto giudica l’essenza della carne e la carne o con qualcosa di diverso o con qualcosa che si trova in una diversa condizione. Infatti la carne non esiste senza la materia, ma, come il camuso, è una determinata forma in una determinata materia. Pertanto con la facoltà sensitiva il soggetto distingue il caldo, il freddo e le altre qualità di cui la carne costituisce una data proporzione; e con un’altra facoltà – o separata da quella o in relazione ad essa al modo in cui la linea spezzata sta

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a se stessa, quand’è estesa – distingue l’essenza della carne. […] Il soggetto perciò distingue tale essenza o con qualcosa di diverso o con qualcosa che si trova in una diversa condizione. In generale, dunque, come gli oggetti sono separati dalla materia, così viene a trovarsi l’intelletto.

[L’intelletto in potenza e l’intelletto attivo] Poiché, come nell’intera natura c’è qualcosa che costituisce la materia per ciascun genere di cose (e ciò è potenzialmente tutte quelle cose), e qualcos’altro che è la causa e il principio produttivo, perché le produce tutte, allo stesso modo che l’arte si rapporta alla sua materia, necessariamente queste differenze si trovano anche nell’anima. E c’è un intelletto analogo alla materia perché diviene tutte le cose, ed un altro che corrisponde alla causa efficiente perché le produce tutte, come una disposizione del tipo della luce, poiché in certo modo anche la luce rende i colori che sono in potenza colori in atto. E questo intelletto è separabile, impassibile e non mescolato, essendo atto per essenza, poiché sempre ciò che fa è superiore a ciò che subisce, ed il principio è superiore alla materia. Ora la conoscenza in atto è identica all’oggetto, mentre quella in potenza è anteriore per il tempo dell’individuo, ma, da un punto di vista generale, non è anteriore neppure per il tempo; e non è che questo intelletto talora pensi e talora non pensi. Quando è separato, è soltanto quello che è veramente, e questo solo è immortale ed eterno (ma non ricordiamo, perché questo intelletto è impassibile, mentre l’intelletto passivo è corruttibile), e senza questo non c’è nulla che pensi.

 - Aristotele (Stagira 384 - Calcide 322 a.C.) scrisse il trattato sull’Anima nella piena maturità, tra il 347 e la fuga da Atene nel 334 a.C., dal momento che le tesi sostenute sono caratterizzate da una marcata impronta naturalistica (anche se secondo alcuni il libro III è precedente). Il testo riportato è tratto da: Aristotele, Anima, a cura di G. Movia, Rusconi, Milano 1996, pp. 165-166.

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A, Le Categorie se poniamo la domanda “Che Cos’è?” una Certa Cosa , Quale metodo possiamo usare per impar are a darne una deFinizione esatta? la realtà intorno a noi appare fatta di cose: corpi, enti, entità isolate che esistono e hanno certi rapporti tra di loro. Questo è quanto ci appare. noi stessi siamo una cosa di questo tipo, cosa fra cose, corpo tra corpi. siamo viventi, ma non siamo gli unici viventi. abbiamo una TW]GLq, ma non siamo gli unici ad averla, perché anche gli animali hanno un principio di vita, essendo viventi. ma ciascun ente ha particolarità solo sue, e così anche l’uomo ha caratteri che sono solo suoi. peraltro questo è vero per ciascuna cosa, perché tutto ci appare ben identificato: le cose sono individuali. Comprendere le cose significa darne una definizione: rispondere alla domanda “che cos’è?” dicendo appunto che cos’è la cosa di cui stiamo parlando. aristotele ha individuato una non piccola serie di indicatori che consentono una buona definizione di ciascuna cosa e quindi permettono di definire che cosa sia. sono le cosiddette “categorie” e ciò che viene definito è in questo modo compreso per quello che è o, il che è lo stesso, nella sua WSWXER^E.

[La categoria di sostanza] Delle cose che vengono dette secondo nessuna connessione ciascuna significa o sostanza o quantità, o qualità, o relazione, o dove, o quando, o giacere, o avere, o agire, o patire. Per dirlo in un abbozzo, sostanza è, ad esempio, uomo, cavallo; quantità, ad esempio, di due cubiti, di tre cubiti; qualità, ad esempio, bianco, grammatico; relazione, ad esempio, doppio, mezzo, maggiore; dove, ad esempio, nel Liceo, in piazza; quando, ad esempio, ieri, l’anno scorso; giacere, ad esempio, è sdraiato, è seduto; avere, ad esempio, ha i calzari, è armato; agire, ad esempio, tagliare, bruciare; patire, ad esempio, essere tagliato, essere bruciato. [...] Sostanza è quella detta nel senso più proprio e in senso primario e principalmente, la quale né si dice di qualche soggetto né è in qualche soggetto: ad esempio, un certo uomo o un certo cavallo. Invece sono dette sostanze seconde le specie nelle quali esistono quelle che vengono dette sostanze in senso primario; queste ed i generi di queste aristotele

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specie. Ad esempio, un certo uomo esiste nella specie uomo, e il genere di questa specie è animale. Pertanto sono queste che son dette sostanze seconde: ad esempio uomo e animale. Tutte le altre cose o sono dette delle sostanze prime assunte come soggetti o sono in esse come in soggetti. Questo è chiaro dai singoli casi che ci si presentano. Ad esempio, animale si predica di uomo, dunque anche di un certo uomo – se infatti non si predicasse di nessuno degli uomini, non si predicherebbe neppure di uomo in generale –; ancora: il colore è in un corpo, dunque anche in un certo corpo; che, se non fosse in qualcuno dei singoli corpi, non sarebbe neppure in un corpo in generale. [...] Se dunque non esistessero le sostanze prime, sarebbe impossibile che esistesse qualcuna delle altre cose. [...] Delle sostanze seconde, la specie è maggiormente sostanza del genere, giacché è più vicina alla sostanza prima. Se infatti si esplicasse che cos’è la sostanza prima, se ne darà una nozione più precisa e più propria esplicando la specie piuttosto che il genere. Ad esempio, si darebbe una conoscenza più precisa di un certo uomo esplicando che è uomo piuttosto che animale – la prima cosa infatti è maggiormente propria di un certo uomo, la seconda è più comune –, ed esplicando un certo albero si darà una nozione più precisa esplicando che è albero piuttosto che pianta. Inoltre le sostanze prime, per il fatto di essere sostrato a tutte le altre cose e che tutte le altre si predicano di esse o sono in esse, per questo sono dette sostanze in senso principale. Ma come le sostanze prime si rapportano alle altre cose, così anche la specie si rapporta al genere: infatti la specie è sostrato al genere: ché, i generi sono predicati delle specie, mentre le specie non sono a loro volta predicate dei generi. Di conseguenza anche da queste considerazioni la specie (risulta essere) sostanza maggiormente del genere. Ma delle stesse specie, tutte quelle che non sono generi non sono in nulla l’una maggiormente sostanza di un’altra. Infatti, esplicando che è uomo, non si darà per nulla una nozione più propria di un certo uomo di quella che si darà di un certo cavallo esplicando che è cavallo. Parimenti anche delle sostanze prime l’una non è in nulla maggiormente sostanza di un’altra, giacché in nulla un certo uomo è maggiormente sostanza di un certo bue. A giusta ragione dopo le sostanze prime soltanto le specie, tra le altre cose, e i generi sono detti sostanze seconde, giacché sono i soli, tra le cose predicate, che manifestano la sostanza prima. [...] Ogni sostanza sembra significare un certo questo. Ora, nel caso delle sostanze prime è indiscutibilmente vero che significa un certo questo, giacché ciò che è manifestato è una cosa individuale e numericamente una. Invece, nel caso delle sostanze seconde, appare sì, per la forma dell’espressione, significare, similmente (alle precedenti), un certo questo: quando si

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dica uomo o animale; ma certamente non è vero, bensì significa un certo quale: infatti il soggetto non è uno come la sostanza prima, ma uomo si dice di molte cose, ed anche animale. Però non è in senso assoluto che significa un certo quale, come bianco. Infatti bianco non significa nient’altro che una qualità; invece la specie ed il genere definiscono la qualità riguardo alla sostanza – infatti significano una sostanza che ha una certa qualità. Però con il genere si rende la determinazione maggiormente estesa che con la specie, giacché chi dice animale abbraccia un numero maggiore di casi di chi dice uomo. Appartiene alle sostanze anche il non avere nessun contrario. Infatti alla sostanza prima che cosa potrebbe essere contrario? Per esempio, ad un certo uomo nulla è contrario, ne in verità a uomo o ad animale nulla è contrario. [...] La sostanza sembra non accogliere il più e il meno. Intendo dire non che una sostanza non è maggiormente sostanza di una sostanza – questo infatti si è detto che è –, ma che ciascuna sostanza non è detta ciò che è in misura maggiore o minore. Ad esempio, se questa sostanza è un uomo, non sarà uomo in misura maggiore o minore, né un (uomo) di se stesso né un (uomo) di un altro (uomo). Ché uno non è maggiormente uomo di un altro, come il bianco è l’uno più bianco di un altro ed il bello lo è l’uno più di un altro. Ed una cosa è detta più o meno di se stessa: ad esempio, il corpo che è bianco è detto adesso più bianco di prima, ed il corpo che è caldo è detto caldo in misura maggiore o minore. Invece la sostanza non lo è detta per nulla: né infatti un uomo è detto adesso più uomo di prima, né alcuna di tutte le altre cose che sono sostanza. Di conseguenza la sostanza non può accogliere il più e il meno. Intorno alla sostanza restino dunque dette tutte queste cose.

 - Aristotele (Stagira 384 - Calcide 322 a.C.) scrisse Le Categorie nel periodo giovanile, nella prima metà degli anni cinquanta del IV secolo a.C. Il testo riportato è tratto da: Aristotele, Le Categorie, a cura di M. Zanatta, Rizzoli, Milano 1989, pp. 305 ss.

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A, Riproduzione degli animali Come av viene la riproduzione degli esseri viventi? platone non aveva dedicato studi specifici alla biologia. in molte occasioni aveva trattato il tema della vita, studiando (per esempio nel 7MQTSWMS) la ragione spirituale che spinge i viventi e l’uomo alla riproduzione, ma non aveva condotto ricerche in campo biologico. aristotele, invece, è innanzitutto un biologo, erede della lunga tradizione naturalistica della prima filosofia e della professione medica del padre, e i suoi libri su questi temi (un GSVTYW di notevole ampiezza) lasciano pensare a una continua attività di ricerca, condotta sia personalmente sia con gli studiosi intorno a lui, fino ai temi del liceo. del resto non è la TL]WMW l’oggetto dell’indagine filosofica sin dal tempo dei primi filosofi?

Occorre però comprendere con quale mirabile ordine la natura disponga la riproduzione. Gli animali più compiuti e più caldi danno alla luce il figlio qualitativamente compiuto (quantitativamente nessun animale, perché tutti i nati sono soggetti ad accrescimento) e questi animali lo generano direttamente in sé. I secondi non generano direttamente in sé prole compiuta (sono infatti vivipari dopo aver deposto uova internamente), esternamente tuttavia sono vivipari. Poi vi sono quelli che non generano un animale compiuto, ma depongono un uovo e questo uovo è compiuto. Poi quelli che hanno la natura ancor più fredda di questi: depongono un uovo, non tuttavia un uovo compiuto, ma che giunge a compimento esternamente, come il genere dei pesci a squame, i crostacei e i cefalopodi. Un quinto e più freddo genere non depone neppure uova da sé ma anche siffatto processo ha luogo esternamente, come si è detto. Gli insetti infatti dapprima depongono larve, la larva quindi sviluppatasi diventa simile a un uovo (la cosiddetta crisalide ha infatti le proprietà dell’uovo), in seguito da questa si produce l’animale, raggiungendo nella terza trasformazione il compimento del processo di formazione. Alcuni animali dunque non nascono da un seme, come si è già detto, mentre tutti gli animali sanguigni che nascono da un accoppiamento nascono da un seme, per l’emissione dello sperma del maschio nella femmina; penetrato tale liquido, gli animali si compongono e acquistano la forma appropriata, tutti i vivipari negli stessi animali, gli altri nelle uova, o nei semi o in siffatte altre secrezioni.

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A proposito di questi fatti vi è un problema più grave: come dal seme si formi la pianta o qualsiasi animale. Ora, ciò che si forma deve necessariamente formarsi da qualche cosa, per azione di qualche cosa e diventare qualche cosa. Ciò da cui si forma consiste nella materia che alcuni animali, come quelli che non sono vivipari, ma ovipari e larvipari, dopo aver preso dalla madre posseggono in sé, altri invece la prendono dalla madre fino a tardi grazie al poppare, come i vivipari non solamente esterni ma anche interni. È dunque di questo tipo la materia dalla quale avviene il processo di formazione. Ora però si sta indagando non da che cosa, ma per effetto di che cosa si formano le parti: se l’agente sia qualche cosa di esterno oppure qualche cosa contenuto nello sperma e nel seme, e se questo sia una parte dell’anima, l’anima stessa o qualcosa che possegga un’anima. Ora, sarebbe assurdo credere che qualcuna delle cose esterne produca ciascuno dei visceri e delle altre parti, perché è impossibile imprimere un movimento senza venire a contatto ed è anche impossibile, senza imprimere un movimento, produrre un effetto su qualcosa. Esso dunque si trova già nello stesso prodotto del concepimento o come parte di questo o con una propria esistenza separata. Ma che qualcosa d’altro abbia una propria esistenza separata è assurdo; quando l’animale si sia formato, esso infatti si perde o si conserva? Non appare tuttavia esserci dentro nulla di siffatto che non sia parte del tutto, pianta o animale che sia. Per contro sarebbe anche assurdo che perisse ciò che ha prodotto tutte le parti o qualcuna di esse. Che cosa produrrebbe il resto? Se infatti esso formasse il cuore e poi scomparisse, e il cuore un’altra parte, con lo stesso criterio o tutte le parti perirebbero o tutte rimarrebbero. Dunque esso si conserva ed è parte di ciò che è presente subito nel seme. Ma se veramente non può esserci alcuna parte dell’anima se non è posta in una parte del corpo, ci deve essere subito anche una parte animata. Le altre parti dunque come si formano? O le parti come il cuore, il polmone, il fegato, l’occhio e ciascuna delle altre si formano tutte insieme oppure successivamente come si dice nei cosiddetti canti orfici; in essi infatti si afferma che l’animale si forma in modo simile all’intreccio della rete. [...] Se tutto poi si produce dallo sperma e dal seme, è impossibile che nel seme sia subito presente una parte già formata dell’animale o della pianta, che questa sia o non sia in grado di formare le altre. Perché se è presente subito è chiaro che proveniva da colui che ha prodotto il seme. Ma il seme deve essersi formato precedentemente e questo è funzione del genitore. Non è dunque possibile che vi sia alcuna parte, non ha dunque in sé ciò che produce le parti. D’altronde non vi è neppure un agente esterno, eppure una di queste due cose deve necessariamente esserci. Occorre dunque tentare di risolvere questa difficoltà, perché probabilmente qualcuna delle cose dette non ha una validità assoluta, come per

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esempio in che modo non può esserci un processo di formazione per effetto di un agente esterno. Per un verso infatti ciò è possibile, per un altro no. Dire dunque lo sperma o ciò da cui ha origine lo sperma non presenta alcuna differenza, in quanto il primo serba in sé l’impulso che il secondo ha impresso. È possibile che l’uno dia impulso all’altro, questo a un terzo e capiti come per le macchine. [...] Si deve comprendere ora come ciascun essere si formi, partendo dal principio che tutto ciò che si produce per natura o per arte si produce per effetto di ciò che è in atto a partire da ciò che è siffatto in potenza. Un seme dunque è siffatto e possiede un impulso e un principio tali che, pur finito l’impulso, ciascuna delle parti si forma e si anima. Perché ciò che è inanimato non è né viso né carne, ma una volta morti si dirà l’uno viso l’altra carne per omonimia, come anche se diventassero oggetti di pietra o di legno. [...] Lo sperma ha un’anima o no? Lo stesso discorso vale anche per le parti, perché né alcun’anima ci potrà essere se non in ciò in cui per appunto è l’anima, né ci sarà una parte che non partecipi dell’anima se non quelle che si considerano parti per omonimia, come l’occhio di un morto. È perciò chiaro che il seme possiede un’anima e che è potenzialmente anima. .

 - Aristotele (Stagira 384 - Calcide 322 a.C.) scrisse (probabilmente sulla base di abbozzi più antichi) la Riproduzione degli animali nell’ultima fase della sua vita, tra il 334 e il 322 a.C. Il testo riportato è tratto da: Aristotele, Riproduzione degli animali, in Opere biologiche, a cura di D. Lanza e M. Vegetti, Torino, Utet, 1971, pp. 883-889.

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Capitolo

4 Le scuole ellenistiche e romane La fine dell’esperienza della TSPMW, l’affiancamento della Grecia ad altre civiltà (egizia, caldaica, persiana), tutte inglobate nel grande impero macedone, non furono senza conseguenze sulla ricerca filosofica: privato del sostegno della sua comunità, ridotto a suddito costretto a subire le decisioni di un governo assoluto e lontano, il singolo deve affrontare con urgenza il problema di trovare con le proprie forze le risorse per affrontare la vita nei suoi caratteri di precarietà e finitezza. Le scuole filosofiche ellenistiche (stoicismo, epicureismo, scetticismo) – anche quando affrontavano lo studio di altre discipline (fra tutte logica e linguistica) – si preoccupano soprattutto di impartire insegnamenti di etica, prospettando il fine della felicità e i modi per ottenerla. La situazione non muta con la conquista romana: i grandi filosofi latini (Seneca, Epitteto, Marco Aurelio) sono soprattutto maestri di vita, che insegnano “esercizi spirituali” per condurre degnamente l’esistenza.

E da Sentenze e frammenti Al di là del FAtto che quAlcuno ne tr AggA per sé o per Altri piAcere o dolore, quAlcosA di positivo o negAtivo, hAnno un senso le pArole “bene” e “mAle”? epicuro ritiene che i termini “bene” e “male” non abbiano alcun senso. non potrebbe esservi posizione più lontana da quella di platone. il bene e il male in se stessi non esistono affatto: in un mondo in cui a esistere sono soltanto gli atomi in movimento e lo spazio vuoto che li contiene, non c’è alcuna base oggettiva per sostenere che esistano valori, di qualsiasi tipo essi siano. ma gli atomi aggregati formano corpi, alcuni dei quali hanno sensazioni. l’uomo ne ha di particolarmente varie e complesse, una vastissima gamma che, in ultima analisi, ne comprende di piacevoli o dolorose, secondo scale e modalità molto diverse. ma, appunto, piacere e dolore. il bene è un altro modo per dire piacere, il male è un altro modo per dire dolore. e il piacere è cosa comunissima, se non ci si fa male da soli, e il dolore facile da evitare, se non si fanno sciocchezze. serenità e ottimismo sono il tratto tipico dell’epicureo.

[Il piacere e il bene] 29. Io non so in verità che idea farmi del bene, se ne tolgo i piaceri del gusto, se ne tolgo quelli della venere, se ne tolgo quelli dell’udito, se ne tolgo i piacevoli moti provocati negli occhi dalle forme, e tutti gli altri piaceri di cui il corpo dell’uomo può godere con qualunque dei suoi sensi. Né certo si può dire che solo la letizia dell’anima sia da porre tra i beni. Perché l’anima, per quel ch’io so, non si allieta se non nella speranza di tutte le cose che ho dette, e precisamente che la natura ne goda libera da dolore. 30. Domandai spesso a quelli che hanno nome di sapienti che cosa avessero da lasciare nel novero dei beni, ove ne togliessero quelli (che in precedenza ho enumerati), a meno che non volessero lanciare parole vuote di senso, ma non ne potei sapere nulla. [...] 31. Bello e virtù e le altre cose del genere vanno onorate se valgono a procurare piacere, se no, si mandino in pace. 32. Sputo su tutte le virtù e su quelli che vanamente le ammirano, se non valgono a produrre nessun piacere. 33. La gioia più alta di cui infatti si possa godere è quella che si ha nell’at-

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to stesso in cui si è sfuggiti a un gran male; e questa è la natura del bene, chi rettamente lo consideri e poi si fermi e non continui vanamente a passeggiare cianciando di esso. 35. La voce della carne è: non aver fame, non aver sete, non aver freddo. Chi queste cose abbia o si sospetti di avere può gareggiare in felicità anche con Zeus. 36. Principio e radice di ogni bene è il piacere del ventre, e al ventre si riporta ogni superfluità e ogni ingegnoso ritrovato degli uomini. 37. L’assenza di turbamento e l’assenza di dolore sono piaceri catastematici: la letizia e la gioia si rivelano per l’attività loro piaceri in moto.

[Il dolore e il male] 40. Facile a disprezzare è ogni dolore: giacché quello che ha intenso il travaglio, ha breve la durata, e quello che nella carne perdura, ha temperato il travaglio. 41. I dolori estremi non possono durare: o levano rapidamente di vita e con essa si estinguono, o perdono di forza e non sono più estremi. 42. I dolori se sono gravi, portano subito via: se sono lunghi, non sono gravi. 43. Dolore che eccede avrà approdo nella morte. 44. Il gridare oimé e accompagnare coi gemiti il dolore è cosa a cui la natura stessa ci costringe, ma che si pianga perché non è possibile godere insieme con quelli che sono sani e stan bene, di questo è causa la vanità dell’opinione. 46. Noi allora abbiamo bisogno del piacere, quando per non essere esso presente abbiamo dolore; ma, quando questo non ci accade e siamo nel pieno uso dei nostri sensi, nessun bisogno abbiamo allora del piacere. Giacché non è il bisogno della natura che è causa dell’ingiustizia di cui ci si rende colpevoli verso gli altri, ma la brama che nasce dalle opinioni vane. 47. Val meglio sopportare questi e questi altri dolori per avere e godere di piaceri maggiori; giova astenersi da questi e da quest’altri piaceri, per non avere a soffrire dolori più gravi.

[Delle leggi e della giustizia] 113. Le leggi sono poste per i saggi: non perché non commettano ingiustizia, ma perché non la subiscano. 114. Farà nulla il saggio di quanto è vietato dalle leggi, ove sappia di poter rimanere occulto? – Non è senza difficoltà dire senz’altro sì o no. 115. Chi commette ingiustizia, se anche riesce a rimanere occulto, è impossibile ne abbia la certezza: per modo che il timore ch’egli ha sempre del futuro non gli permette di avere piacere né fiducia del presente. 116. Massimo frutto della giustizia l’assenza di turbamento.

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118. Non far nulla nella tua vita di cui tu possa temere che non abbia a essere conosciuto dal vicino. 119. Non può vivere senza timore chi è causa di timore. 120. Chi non è causa di turbamento a se stesso non dà noia neanche agli altri.

 - Epicuro (Samo 341 ca. - Atene 270 a.C.) scrisse questi testi (forse non tutti suoi) in una data difficilmente definibile, presumibilmente una volta costituita la sua scuola dopo il 306 a.C. Il testo riportato è tratto da: Epicuro, Sentenze e frammenti, a cura di C. Diano, in Epicuro. Scritti morali, Rizzoli, Milano 1987, pp. 77 ss.

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E da Sentenze e frammenti chi siAmo dAv vero e di che cosA AbbiAmo bisogno? la nostra natura richiede pochissimo. noi invece desideriamo molte cose e siamo sempre preda di desideri incontrollabili e di passioni che ci dominano. È chiaro che c’è qualcosa che non va, perché noi WMEQS natura. da dove derivano questi desideri e queste passioni? dalla nostra natura no, perché richiede da noi pochissimo: di che vivere, la lieta compagnia dei nostri amici e delle persone che ci sono care, e poco più. siamo noi stessi la fonte dei nostri guai: è la nostra mente a vivere d’opinioni e a coltivare sogni vani. non sono altra cosa il desiderio di successo, di denaro, e le passioni che ci spingono gli uni contro gli altri. in natura ciascuno cerca solo il piacere, che è facile da raggiungere perché abbiamo bisogno di poco per essere felici e di questo poco fanno parte gli amici, che ci sono tanto indispensabili quanto il cibo. tutto il contrario dei conflitti e delle rivalità. la filosofia guida la mente a restare fedele alla natura di se stessa e del corpo.

[Del limite da porre ai desideri] 51. La natura non va forzata, ma persuasa, e la persuaderemo soddisfacendo i desideri necessari sempre, e quelli naturali, ove non portino danno, quando invece sian nocivi, aspramente confutandoli. 52. Frugalità non vuol dire sordidezza, e chi non ne tiene conto si trova pressappoco nella condizione di chi trasmoda per eccesso. 53. Non il ventre è insaziabile, come dicono i più, ma la falsa opinione che a riempire il ventre non ci sia limite. 55. Non facciamo responsabile la carne dei grandi mali che ci colpiscono, e non rigettiamo sulle circostanze esterne la colpa delle nostre impazienze: cerchiamo piuttosto nell’anima la causa di tutte queste cose, e sradicandone ogni vana brama e speranza di beni che hanno la durata di un giorno, riduciamoci interi in potere di noi stessi. 56. Grazie alla natura beata; che le cose necessarie fece agevoli ad acquistare, e le disagevoli non necessarie. 64. Se ad alcuno ciò che ha non gli sembra più che abbondante, sia pure il signore del mondo, è un infelice. 67. Chi segue la natura e non le opinioni vane basta in tutto a se stesso. Per quello di cui la natura si contenta, ogni possesso è, di fatti, ricchezza, ma per le brame che non hanno limite definito, la più grande ricchezza è povertà. le scuole ellenistiche e romane

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68. Se vivi sulla norma della natura, non sarai mai povero; su quella delle opinioni, non sarai mai ricco. 69. Povertà misurata al fine che è proprio della natura, è gran ricchezza; ricchezza che non ha limite a cui riportarsi, è gran povertà. 70. La più grande ricchezza è nel bastare a se stessi. 73. Il saggio lo fa ricco la natura. 74. Credi a me: le tue parole suoneranno, più solenni tra miseri panni e povero giaciglio: non saranno soltanto dette, ma provate. 75. Meglio per te giacere sicuro sulla paglia che trepidare su letto d’oro e tra laute mense.

[Regole di vita] 83. Ira immoderata genera insania. 85. Timori e vanità di desideri illimitati sono le cause dell’infelicità umana: solo tenendoli in freno si arriva a fare della ragione quell’uso che a vivere beati è richiesto. 86. Tutte le volte che ti trovi in angustie, ciò è perché tu ti dimentichi della natura; crei infatti a te stesso timori e desideri che non hanno limite. 89. Nulla vale tanto a dare serenità all’animo come il non darsi troppo da fare, il non cacciarsi in imprese di difficile esito, e il non sforzarsi al di là delle proprie capacità, tutte cose che ad altro non servono se non a mettere il disordine nella nostra natura. 90. La felicità non dipende infine da altro se non dalla scelta di quella condizione di vita di cui si possa essere interamente padroni. Dura è la vita del soldato e sottoposta al comando d’altri, in continua tensione e trepida quella dell’oratore non mai certo del successo. Perché dunque correre dietro a cose il cui esito è sempre in potere di altri? 91. Con più piacere va incontro al domani chi meno ha bisogno del domani. 92. Siamo nati una volta, due non è possibile nascere, dovremo eternamente non essere: tu, che non disponi del domani, rinvii l’occasione dell’oggi: e intanto la vita ci sfugge, e ciascuno di noi senza essere mai padrone di un’ora si muore. 95. Non intorbidare il bene presente col desiderio di quello che ti manca, ma considera che anche questo lo hai desiderato. 96. La vita dello stolto è ingrata e trepida: sempre è volta al futuro. 97. Non è piacevole ricominciare sempre la vita. 98. Tra gli altri mali la stoltezza ha anche questo: ricomincia sempre a vivere. 99. Ti sia medicina nelle sventure la memoria grata dei beni perduti e il riconoscere che non è possibile fare che ciò che è stato non sia stato.

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101. D’animo assai meschino è colui che ha molte fondate ragioni per uscir dalla vita. 102. Tanta è l’imprevidenza, e, per meglio dire, la demenza degli uomini, che taluni sono spinti alla morte dal timore della morte. 103. E ridicolo correre alla morte per non potere sopportare la vita, quando è per la vita che hai vissuta che ti sei messo in condizione di dover ricorrere alla morte. 104. Quale cosa è più ridicola che cercare la morte, quando è con lo stesso timore della morte che ti sei resa impossibile la vita? 107. L’aver cognizione del proprio errore è già inizio di salute. 108. Non il giovane dev’essere stimato beato, ma il vecchio che bene ha vissuto: perché il giovane, che dalla pienezza delle sue forze è portato in tutto ad eccedere, è sbattuto qua e là con animo sempre diverso dal vento della fortuna: laddove il vecchio ha trovato nella vecchiezza il suo porto e i beni nella speranza dei quali un tempo ha trepidato, tiene ormai saldi nella sicura custodia della gratitudine e del ricordo.

 - Epicuro (Samo 341 ca. - Atene 270 a.C.) scrisse questi testi (forse non tutti suoi) in una data difficilmente definibile, presumibilmente una volta costituita la sua scuola dopo il 306 a.C. Il testo riportato è tratto da: Epicuro, Sentenze e frammenti, a cura di C. Diano, in Epicuro. Scritti morali, Rizzoli, Milano 1987, pp. 77 ss.

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E, Lettera a Meneceo esiste unA ricettA per lA Felicità? una ricetta per la felicità esiste, ed è molto semplice secondo epicuro. ci si deve sempre ricordare di che cosa siamo fatti: un aggregato di atomi in perenne movimento, frutto dell’evoluzione dominata da un misto di leggi naturali e di caso (anch’esso naturale). nulla meno e nulla più. viviamo in un universo in cui esistono gli dei, felici e totalmente indifferenti a noi; non abbiamo doveri né obblighi di alcun tipo verso niente e nessuno. siamo liberi e abbiamo bisogno di pochissimo. sì, moriremo, ma sarà esattamente come prima di essere nati. la vita è un regalo bellissimo e passeggero della natura universale a cui apparteniamo e in cui torniamo. se siamo infelici, è perché ci roviniamo la vita da soli. la ricetta per essere felici? non avere paura né degli dei né della morte; cercare sempre il piacere in ogni frangente della vita fuggendo da tutte le situazioni a rischio (per esempio inventandosi desideri che in natura non ci sono, inevitabilmente difficili da soddisfare); cercare sempre di sfuggire al dolore. saremo felici come gli dei, per tutto il tempo della nostra vita: non prima né dopo.

L’uomo cominci da giovane a far filosofia e da vecchio non sia mai stanco di filosofare. Per la buona salute dell’animo, infatti, nessun uomo è mai troppo giovane o troppo vecchio. Chi dice che il giovane non ha ancora l’età per far filosofia, e che il vecchio l’ha ormai passata, è come se dicesse che non è ancora giunta, o è già passata, l’età per essere felici. Quindi sia l’uomo giovane che il vecchio devono far filosofia: il vecchio perché invecchiando rimanga giovane per i bei ricordi del passato; il giovane perché, pur restando giovane d’età, sia maturo per affrontare con coraggio l’avvenire. È bene riflettere sulle cose che possono farci felici: infatti, se siamo felici abbiamo tutto ciò che occorre; se non lo siamo, facciamo di tutto per esserlo. Metti in pratica le cose che ti ho sempre raccomandato e rifletti su di esse, perché sono i princìpi necessari fondamentali per una vita felice. Per prima cosa tu devi considerare la divinità come un essere indistruttibile e felice, così come comunemente gli uomini pensano degli dèi; non attribuire quindi nulla alla divinità che contrasti con la sua immortalità e la sua beatitudine, e ritieni vero invece tutto ciò che ben si accorda con la sua felice immortalità. Gli dèi infatti esistono, ed è del tutto evidente la conoscenza che ne abbiamo; ma gli uomini attribuiscono agli dèi caratteristiche contrarie alla stessa idea che se ne fanno. Negare gli dèi in cui credono gli uomini, non è

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quindi empietà. Empietà è piuttosto attribuire agli dèi le idee che gli uomini comunemente se ne fanno, perché non sono idee corrette, ma gravi errori. Dall’idea che si fa degli dèi l’uomo trae i più gravi danni e vantaggi. Infatti gli dèi, che di continuo sono dediti alle loro virtù, accolgono i loro simili, mentre considerano estraneo tutto ciò che non è simile ad essi. Abìtuati a pensare che per noi uomini la morte è nulla, perché ogni bene e ogni male consiste nella sensazione, e la morte è assenza di sensazioni. Quindi il capir bene che la morte è niente per noi rende felice la vita mortale, non perché questo aggiunga infinito tempo alla vita, ma perché toglie il desiderio dell’immortalità. Infatti non c’è nulla da temere nella vita se si è veramente convinti che non c’è niente da temere nel non vivere più. Ed è sciocco anche temere la morte perché è doloroso attenderla, anche se poi non porta dolore. La morte infatti quando sarà presente non ci darà dolore, ed è quindi sciocco lasciare che la morte ci porti dolore mentre l’attendiamo. Quindi il più temibile dei mali, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte non ci siamo più noi. La morte quindi è nulla, per i vivi come per i morti: perché per i vivi essa non c’è ancora, mentre per quanto riguarda i morti, sono essi stessi a non esserci. La maggior parte delle persone, però, fugge la morte considerandola come il più grande dei mali, oppure la cercano come una liberazione dai mali della vita. Il saggio invece non rifiuta la vita e non ha paura della morte, perché non è contro la vita ed allo stesso tempo non considera un male il non vivere più. [...] Dobbiamo inoltre ricordarci che il futuro non è interamente nelle nostre mani, ma in qualche modo lo è, anche se in parte. Quindi non dobbiamo aspettarci che si avveri del tutto, ma non dobbiamo neppure disperare che esso non si avveri affatto. Dobbiamo poi pensare che alcuni dei nostri desideri sono naturali, altri vani. E di quelli naturali alcuni sono necessari, altri non lo sono. E di quelli naturali e necessari, alcuni sono necessari per essere felici, altri per la buona salute del corpo, altri per la vita stessa. Una sicura conoscenza dei desideri naturali necessari guida le scelte della nostra vita al fine della buona salute del corpo e della tranquillità dell’animo, perché queste cose sono necessarie per vivere una vita felice. Infatti noi compiamo tutte le nostre azioni al fine di non soffrire e di non avere l’animo turbato. Ottenuto questo, ogni tempesta interiore si placherà, perché il nostro animo non desidera nulla che gli manchi, né ha altro da cercare perché sia completo il bene dell’anima e del corpo. Abbiamo infatti bisogno del piacere quando soffriamo perché esso non c’è. Quando non soffriamo, non abbiamo neppure bisogno del piacere. Per questo motivo noi diciamo che il piacere è il principio ed il fine di una vita felice. Noi sappiamo che esso è il bene primo, connaturato con noi

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stessi, e da esso prende l’avvio ogni nostra scelta e in base ad esso giudichiamo ogni bene, ponendo come norma le nostre affezioni. Ma proprio perché esso è il bene primo ed è a noi connaturato, noi non ci lasciamo attrarre da tutti i piaceri; al contrario, ne allontaniamo molti da noi quando da essi seguano dei fastidi più grandi del piacere stesso. Allo stesso modo consideriamo molti dolori preferibili ai piaceri quando la scelta di sopportare il dolore porta con sé come conseguenza dei piaceri maggiori. Tutti i piaceri quindi che per loro natura sono a noi congeniali sono certamente un bene; tuttavia non dobbiamo accettarli tutti. Allo stesso modo tutti i dolori sono un male, ma non dobbiamo cercare di sfuggire a tutti loro. Queste scelte vanno fatte in base al calcolo ed alla valutazione degli utili. Per esperienza sappiamo infatti che a volte il bene è per noi un male ed al contrario il male è un bene. Consideriamo un grande bene l’indipendenza dai desideri non perché sia necessario avere sempre soltanto poco, ma perché se non abbiamo molto sappiamo accontentarci del poco. [...] L’abituarsi ai cibi semplici ed ai pasti frugali da un lato è un bene per la salute, dall’altro rende l’uomo attento alle autentiche esigenze della vita; e così quando di tanto in tanto ci capita di trovarci nell’abbondanza, sappiamo valutarla nel suo giusto valore e sappiamo essere forti nei confronti della fortuna. Quando dunque diciamo che il piacere è il bene completo e perfetto, non ci riferiamo affatto ai piaceri dei dissoluti, come credono alcuni che non conoscono o non condividono o interpretano male la nostra dottrina; il piacere per noi è invece non avere dolore nel corpo né turbamento nell’anima.

 - Epicuro (Samo 341 ca. - Atene 270 a.C.) scrisse la Lettera a Meneceo in data difficilmente definibile, molto probabilmente già in età matura dopo il 306 a.C. Il testo riportato è tratto da: Epicuro, Lettera a Meneceo, trad. it. di M. Trombino, Il Giardino dei Pensieri, www.ilgiardinodeipensieri.eu

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E da Sentenze e frammenti esistono tecniche per diventAre sAggi ed essere dAv vero liberi e pAdroni di se stessi? se la saggezza è un dono di pochi, nessuna tecnica può consentire a chi non ha questo dono di diventare saggio. se invece è una possibilità concreta insita nella natura umana, poiché quest’ultima è comune a tutti, allora è possibile diventare saggi, e seguire precise regole – una ricetta, una tecnica – è cosa utile ed efficace. epicuro è convinto, sulla base della sua concezione teorica della natura delle cose e dell’uomo (qualsiasi realtà, uomo compreso, va ricondotta all’atomismo), che la saggezza sia a portata di mano; sia non solo possibile, ma facile. basta seguire alcune precise regole che vanno tenute sempre a mente. eccole.

[Della saggezza e del saggio] 1. Fatti servo della filosofia se vuoi avere libertà vera. 2. Vana è la parola di quel filosofo dalla quale nessuna passione umana viene curata. Come non v’è nessuna utilità d’un’arte medica che non liberi il corpo dai suoi mali, così neppure della filosofia se non libera l’anima dalle sue passioni. 3. Non far finta di filosofare, ma filosofa sul serio: perché non di parer sani abbiamo bisogno, ma d’essere veramente sani. 4. In tutte le altre forme di attività solo alla fine se ne coglie il frutto ed a stento; nella filosofia conoscenza e diletto vanno insieme: giacché non prima s’impara e poi si gode, ma nel medesimo tempo s’impara e si gode. 5. Nell’amore della vera filosofia si scioglie ogni ansia e trepidazione di brama. 7. Non artefici di vanti e di parole né ostentatori di quella dottrina intorno a cui il volgo si affanna, forma la scienza della natura, ma uomini scevri di iattanza e a sé bastanti, superbi dei beni propri, non di quelli del mondo.

[Degli dèi] 15. Per ciò che riguarda i fenomeni del cielo: moti, ritorni, eclissi, sorgere e tramontare di astri, e quant’altro è del genere, non bisogna credere che essi si compiano sotto la direzione di un qualche essere che soprastia a mettere ordine al presente o intervenga in futuro, e che nel medesimo tempo conservi intera insieme con l’incorruttibilità la beatitudine. Ocle scuole ellenistiche e romane

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cupazioni e pensieri, ire e grazie, non sono cose che s’accordino con la beatitudine, ma nascono da debolezza e timore e dal bisogno che si ha del prossimo. E neanche è da credere che fatti di fuoco conglobato i corpi celesti godano in pari tempo della beatitudine e assumano di loro volontà codesti moti. [...] 16. Bisogna convincersi che il più grave turbamento da cui le anime degli uomini possano essere prese, è quello che, primo, si ha nel credere che quelle medesime nature, che pur si pensano beate e incorruttibili, possano in pari tempo avere volontà e compiere azioni ed esercitare funzioni di causa che a tali loro attributi sono assolutamente contrarie; secondo, quando seguendo i miti si sta in attesa o in sospetto di alcunché d’eterno, o si ha paura della stessa insensibilità della morte, quasi essa potesse avere relazione col nostro essere, e ciò non sulla base di una qualunque opinione, ma per una specie d’irragionevole trasposizione della coscienza, la quale fa che lasciando l’oggetto del timore assolutamente indefinito si cada in un turbamento pari o ancora più vasto di quello che si avrebbe se tutto codesto fosse fondato su una ragionata opinione. L’imperturbabilità si ottiene invece con l’essersi liberati da tutti codesti errori... Di conseguenza è necessario stare attenti alle affezioni in atto e alle sensazioni – tenendo conto del loro carattere comune per quelle comuni, e del loro carattere particolare per quelle particolari –, e (in una parola) per ciascuno dei criteri all’evidenza immediata. Giacché se ad essi ci atterremo, avremo modo di determinare rettamente nelle sue cause e rimuovere spiegandolo tutto ciò che è motivo di turbamento e di timore, determinando le cause e dei fenomeni celesti e di tutte le altre difficoltà in cui di volta in volta ci s’imbatta, quante al resto degli uomini sogliono procurare i massimi timori. 17. È da sciocco chiedere agli dèi quello che uno è in condizione di procurarsi da se stesso. 18. Se gli dèi tenessero dietro alle preghiere degli uomini, la razza umana s’estinguerebbe tutta, tanti sono i mali ch’essi si invocano gli uni contro gli altri. 23. Chi dice che tutto è per necessità non ha nulla da rimproverare a chi dice che non tutto è per necessità: una tale proporzione è, in base a quello ch’egli dice, essa stessa per necessità. 24. La necessità è un male, ma non v’è nessuna necessità di vivere nella necessità. 25. Nulla di nuovo si compie nell’universo rispetto all’infinito tempo già trascorso. 26. (La scienza della natura) insegna a far minor conto delle cose della fortuna, e quando s’ha fortuna a ritenere di non averne avuta; quando non se n’ha, a non considerare come una gran cosa l’averne, ed accogliere senza agitarsi i beni che da essa provengono, a stare in armi contro tutto ciò che

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da lei largito vien ritenuto come male, e a convincersi che non più che la durata d’un giorno hanno il bene e il male dei più, laddove la saggezza nulla ha di comune con la fortuna.

[Degli onori e della gloria] 122. Bisogna liberarsi dal carcere degli affari e della politica. 123. S’ha da dire in che modo ci si può mantenere meglio fedeli al fine che è proprio della nostra natura, e che cosa si deve fare per non aver mai di propria volontà ad accedere alle cariche pubbliche ambite dalle folle. 124. Non sciolgono il turbamento dell’anima e neppure valgono a dare gioia di cui si possa far conto né le più grandi ricchezze, né gli onori e l’ammirazione delle folle, né altro di quanto dipende da causa indefinita. 125. La felicità e la beatitudine non sono date né da abbondanza di ricchezza o splendore di fortuna, né da alcuna forma di potere o facoltà di nessuna sorta che l’uomo abbia, ma da assenza di tristezza, mitezza di passioni, e da conformazione dell’animo atta a far vedere i limiti di quanto è secondo natura. 129. Allora soprattutto devi ritrarti in te stesso quando sei costretto a star tra la folla. 130. Nessuno s’accorga che tu sei vissuto.

 - Epicuro (Samo 341 ca. - Atene 270 a.C.) scrisse questi testi (forse non tutti suoi) in una data difficilmente definibile, presumibilmente una volta costituita la sua scuola dopo il 306 a.C. Il testo riportato è tratto da: Epicuro, Sentenze e frammenti, a cura di C. Diano, in Epicuro. Scritti morali, Rizzoli, Milano 1987, pp. 77 ss.

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S da Diogene Laerzio, Vite dei filosofi lA verità – che cos’È lA verità? la verità è un’illusione della mente. quale che sia la definizione che proponiamo di verità, quale che sia la verità in cui crediamo, l’unica cosa che i filosofi possono correttamente fare è dubitare. non possediamo certezza alcuna che quello che riteniamo vero lo sia di fatto. per conseguenza, il saggio è l’uomo che tiene conto della incertezza di ogni convinzione e vive libero da ogni opinione. libertà è essere se stessi, e l’uomo è libero perché non ha ragione di servire nessuna verità: non ne conosce nessuna. gli scettici hanno argomentato queste tesi radunando in dieci punti le loro obiezioni alle altre scuole filosofiche, che chiamavano “dogmatiche” perché ritenevano che l’uomo potesse conoscere la verità delle cose. per gli scettici queste verità sono dogmi: indimostrabili. Forse veri forse no. gli scettici sospendevano il giudizio e vivevano liberi.

I dieci tropi sono i seguenti. Il primo si riferisce alla differenza degli esseri viventi riguardo al piacere e al dolore, al danno e all’utilità. Da esso si deduce che essi non ricevono le medesime impressioni dai medesimi oggetti e che perciò un tale conflitto genera necessariamente la sospensione del giudizio. Degli esseri viventi alcuni si generano senza mistione, come quelli che vivono nel fuoco e l’araba fenice ed i vermi; altri con l’unione dei corpi, come gli uomini e il resto. Poiché alcuni sono costituiti in un modo, altri in modo diverso, anche le loro sensazioni differiscono. Così, per esempio, i falchi hanno gli occhi acutissimi, i cani hanno finissimo l’olfatto. È logico dunque che alla differenza della facoltà visiva corrisponda la differenza delle impressioni. E se il tallo è mangiabile per la capra, per l’uomo è amaro; e se della cicuta si nutre la quaglia, essa è mortale per l’uomo; e se il maiale mangia gli escrementi, il cavallo non li mangia. Il secondo tropo si riferisce alle nature e alle idiosincrasie degli uomini. Per esempio, Demofonte, maggiordomo di Alessandro, si riscaldava all’ombra, mentre al sole aveva freddo. Androne di Argo, come riferisce Aristotele, attraverso gli aridi deserti della Libia, viaggiava senza bere. Inoltre chi preferisce coltivare la medicina, chi i campi, chi si dedica al commercio; e la medesima professione ad alcuni apporta danno, ad altri vantaggio; ne deriva conseguentemente la necessità di sospendere il giudizio.

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Il terzo tropo è determinato dalla differenza dei pori che trasmettono le sensazioni. Così la mela dà l’impressione di essere pallida alla vista, dolce al gusto, fragrante all’odorato. E la stessa figura si vede ora in un modo ora in un altro, secondo le differenze degli specchi. Ne consegue che a ciò che appare non corrisponde una tale forma più che un’altra diversa. Il quarto tropo riguarda le disposizioni individuali e, in generale, il mutamento di condizioni, quali salute, malattia, sonno, veglia, gioia, dolore, giovinezza, vecchiaia, coraggio, paura, bisogno, abbondanza, odio, amore, calore, raffreddamento, oltre che la facilità o difficoltà del respiro. La diversità delle impressioni è condizionata dalla diversa condizione delle disposizioni individuali. [...] Il quinto tropo è relativo all’educazione, alle leggi, alle credenze nella tradizione mitica, ai patti tra i popoli e alle concezioni dogmatiche. Esso abbraccia i punti di vista su ciò che è bello e brutto, vero e falso, buono e cattivo, sugli dèi e sulla formazione e corruzione del mondo fenomenico. La stessa cosa per alcuni è giusta, per altri è ingiusta, o anche per alcuni è buona, per altri è cattiva. [...] Ogni popolo crede nei suoi dèi e c’è chi crede alla provvidenza e c’è chi non crede. Gli Egizi imbalsamano i loro morti prima di seppellirli, i Romani li cremano; i Peonii li gettano nelle paludi. La conseguenza è la sospensione del giudizio sulla verità. Il sesto tropo è relativo alle mescolanze e alle unioni, secondo cui nulla appare in purezza e in sé e per sé, ma congiunto all’aria, alla luce, all’umido, al solido, al caldo, al freddo, al movimento, alle esalazioni o soggetto ad altri influssi particolari. La porpora mostra un colore diverso alla luce del sole, della luna e di una lampada da notte. [...] Il settimo si riferisce alle distanze e alle diverse posizioni e ai luoghi e alle cose che sono nei luoghi. Secondo questo tropo, ciò che si crede sia grande appare piccolo, il quadrato appare tondo, il liscio appare sporgente, il diritto appare obliquo, il pallido appare di altro colore. Il sole, a causa della distanza, appare piccolo; e i monti, guardati in lontananza, appaiono avvolti nell’aria e lisci; visti da vicino, appaiono ineguali e pieni di crepacci. Inoltre, il sole quando si leva ha un aspetto diverso che quando è nel mezzo del cielo. E il medesimo corpo appare diverso, secondo che si trovi in un bosco o in un campo aperto. Anche l’immagine varia col variare della posizione dell’oggetto, ed il collo della colomba appare diverso, secondo che è volto in una posizione piuttosto che in un’altra. Poiché, dunque, la conoscenza di queste cose dipende dalle relazioni di spazio e di posizione, la loro propria natura ci sfugge completamente. L’ottavo tropo si riferisce alle quantità e qualità delle cose, alla molteplicità delle loro condizioni determinate dal caldo o dal freddo, dalla velocità

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o dalla lentezza, dall’assenza o dalla varietà dei colori. Così il vino, bevuto moderatamente, rafforza l’organismo; bevuto in quantità eccessiva, lo indebolisce; così pure il cibo e simili. Il nono tropo riguarda la continuità o la stranezza o rarità dei fenomeni. Così i terremoti non destano meraviglia in quelli presso i quali avvengono continuamente, e neppure il sole, perché si vede ogni giorno. [...] Il decimo tropo si basa sul rapporto comparativo che intercorre, per esempio, tra il leggero e il pesante, tra il forte e il debole, tra maggiore e minore, tra alto e basso. Ciò che si trova a destra, non è a destra per natura, ma è inteso come tale, secondo la posizione che ha rispetto ad un altro oggetto; mutata la posizione, non si trova più a destra. Questi dunque sono i dieci tropi. […] Gli Scettici eliminavano ogni dimostrazione e non ammettevano un criterio, un segno, una causa, né il movimento né l’istruzione né il divenire né il principio che vi fosse qualcosa di bene o di male per natura. Essi affermavano che ogni dimostrazione consiste di cose dimostrate o di cose indimostrate. Se consiste di cose dimostrate, anche queste cose avranno bisogno di una dimostrazione e così via all’infinito; se consta di cose indimostrate, basta che tutte le cose o alcune o anche una sola suscitino dubbio, perché tutto l’insieme rimanga indimostrato. Ed essi aggiungono che coloro che ammettono che vi sono alcune cose che non hanno bisogno di alcuna dimostrazione, mostrano meravigliosamente la loro intelligenza se non capiscono che appunto questo deve essere dimostrato, cioè che esistono delle cose che hanno da sé la facoltà di essere credute degne di fede.

 - Diogene Laerzio (III sec. d.C.) scrisse le Vite dei filosofi (una delle principali fonti per conoscere gli autori antichi) in una data imprecisata, così come quasi nulla sappiamo di lui. Il testo riportato è tratto da: Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, a cura di M. Gigante, Tea, Milano 1991, pp. 384 ss.

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C, Discussioni tusculane hAnno r Agione le scuole ellenistiche A sottolineAre lA gr Avità delle mAlAttie dell’AnimA e A proporre lA FilosoFiA come cur A? sì, hanno ragione. cicerone ne è convinto, perché è vero che il corpo si ammala ed è nata una disciplina specifica, la medicina, per tentare di guarire l’uomo da questi mali; ma è anche vero che quelle che rendono infelice la vita sono più le malattie dell’anima che quelle del corpo. e solo la filosofia ne è la cura. la radice di tutti i problemi è stata chiaramente e concordemente indicata dalle scuole ellenistiche, anche se poi ciascuna di loro ha proposto una via diversa per risolvere il problema: la base di tutto è nel fatto che la mente si nutre di STMRMSRM e vi presta fede. e vive di sogni e illusioni non con la leggerezza di chi li riconosce come tali, ma con tutti i problemi di chi, in assoluta serietà, li scambia per la verità.

Noi risultiamo costituiti di anima e di corpo: eppure per curare e mantenere in salute il corpo è stata creata un’arte e per la sua utilità ne è stata attribuita la scoperta agli dèi immortali, mentre invece una medicina dell’anima non è stata né altrettanto ricercata prima di essere scoperta né altrettanto coltivata dopo che fu conosciuta né altrettanto gradita e simpatica a molta gente, anzi a più ancora anche sospetta e odiosa. A che debbo imputare la causa di questo fatto, o Bruto? forse perché con l’anima giudichiamo il malessere e il dolore del corpo, ma con il corpo non sentiamo la malattia dell’anima? Ne consegue che l’anima esprime un giudizio su se stessa proprio quando è ammalata la facoltà stessa di giudicare. Se la natura ci avesse generati in grado di poterla guardare e considerare bene e compiere il cammino della vita sotto la sua ottima guida, certo non ci sarebbe stato motivo per nessuno di mettersi in cerca di un metodo e di un insegnamento. Orbene essa ci ha dato minuscole fiammelle, e noi, ben presto guastati da cattivi costumi e da false opinioni, le spegniamo, sì da far scomparire totalmente la luce della natura. Ed invero nella nostra indole sono innati i germi delle virtù, e se fosse ad essi possibile svilupparsi, la natura stessa ci guiderebbe ad una vita felice. Ora invece, appena veniamo alla luce e siamo riconosciuti dal padre, subito ci troviamo immersi in un ambiente falso e in un mare di opinioni erronee; cosicché sembra quasi che insieme con il latte della nutrice abbiamo succhiato l’errore.

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Quando poi siamo restituiti ai genitori e quindi affidati ai maestri, allora ci impregniamo di varie specie di errori, al punto che la verità cede a vane credenze e la natura stessa ad un’opinione radicata. Si aggiungono anche i poeti, che, preceduti da uno spettacolare apparato di dottrina e di sapienza, si fanno ascoltare, leggere, studiare a memoria, e s’imprimono profondamente nello spirito. Quando poi vi si è aggiunto anche il popolo in veste di sommo maestro e tutta la folla in pieno accordo con il vizio, allora siamo completamente rovinati dalle false opinioni e ci scostiamo da natura, tanto che ci sembra abbiano riconosciuto perfettamente l’essenza della natura coloro che giudicarono che per l’uomo non esiste nulla di meglio, nulla di più desiderabile, nulla superiore alle cariche politiche, ai comandi militari, al favore popolare. Vi sono attratti tutti i migliori, e mentre ricercano la vera bellezza morale, la sola cui la natura sommamente aspira, brancolano nel vuoto più assoluto ed inseguono non già una forma insigne di virtù, ma una vaga ombra della gloria. La gloria è una realtà direi quasi concreta e plastica, non un’ombra: essa è l’elogio concorde dei buoni, la voce genuina di quelli che sanno ben giudicare di una insigne virtù, essa risponde alla virtù come un’eco; e poiché essa è per lo più compagna delle azioni rette, gli uomini dabbene non devono respingerla. La popolarità, invece, quella che si atteggia a imitatrice della gloria, che avventata e sconsiderata per lo più loda la colpa e il vizio, sotto la falsa apparenza della onestà, ne guasta la figura e lo splendore. Da essa accecati, degli uomini che avevano aspirazioni anche eccellenti, senza però sapere né dove né quali esse fossero, alcuni rovinarono completamente la loro patria, altri perirono essi stessi. Per lo meno questi, che hanno ottimi propositi, errano non per l’intenzione, ma piuttosto perché sbagliano strada. Ma, e quelli che si lasciano trasportare dalla cupidigia del danaro, dalla brama dei piaceri? il loro animo è sconvolto a tal punto da rasentare la pazzia (sorte comune a tutti gli stolti). Per costoro non è possibile nessuna cura? Perché le malattie dell’anima sono meno perniciose di quelle del corpo, o perché il corpo si può curare, mentre per l’anima non esiste rimedio alcuno? Ma sono più pericolose e più numerose le malattie dell’anima che quelle del corpo. Esse infatti sono moleste perché influiscono sull’anima e la tormentano, e, come dice Ennio, l’anima afflitta va sempre errando: non può soffrire ne sopportare, non cessa mai di desiderare. E per non parlare di altre, quali malattie nel corpo possono essere più gravi di queste due, l’afflizione e la cupidigia? D’altra parte com’è possibile provare che l’anima non può curare se stessa, dal momento che proprio la cura del corpo è stata scoperta dall’anima e che alla guarigione del corpo contribuiscono molto lo stesso corpo e la sua natura, e non tutti coloro che

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si sono lasciati curare senz’altro si rimettono anche in salute, mentre l’anima che ha voluto guarire ed ha seguito i precetti dei sapienti guarisce senza dubbio alcuno? Esiste certamente una medicina dell’anima, ed è la filosofia. Non bisogna cercare il suo aiuto dall’esterno, come per le malattie del corpo, ma dobbiamo applicarci con tutte le nostre risorse, con tutte le nostre energie, per poter curarci da noi stessi. Per altro, in merito alla filosofia in generale, con quanto impegno la si deva ricercare e coltivare, si è già detto a sufficienza, credo, nell’Ortensio. Dei più importanti problemi in seguito non ho tralasciato quasi nessun punto sia nelle discussioni sia negli scritti. Nella presente opera sono esposte le discussioni che abbiamo tenuto nella villa di Tuscolo con dei nostri amici: nelle due giornate precedenti si è parlato della morte e del dolore, il terzo giorno della discussione fornirà la materia a questo terzo volume.

 - Marco Tullio Cicerone (Arpino 106 - Gaeta 43 a.C.) presenta le Tusculanae disputationes (Discussioni tusculane o di Tuscolo) come avvenute nel 45 a.C. in casa sua: quindi se non in quella data la composizione è di poco dopo. Il testo riportato è tratto da: Cicerone, Discussioni Tusculane, in Opere politiche e filosofiche, a cura di N. Marinone, Utet, Torino 1977, pp. 624-627.

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S, Lettere a Lucilio come si riconosce unA ver A AmiciziA tr A due persone? tra le filosofie ellenistiche fu soprattutto la scuola epicurea a sottolineare l’esigenza umana dell’amicizia come necessità primaria dell’anima e fonte di felicità. A parte alcune sentenze e frammenti, i testi in cui epicuro descrive la sua filosofia dell’amicizia sono andati perduti. nel mondo romano sia cicerone che gli stoici dedicarono studi importanti a questo tema, che evidentemente era sentito come decisivo per una vita felice. nelle lettere che qui riportiamo è seneca a discuterne, da una prospettiva stoica, ma aperta agli apporti dell’epicureismo e tendente a riconoscere gli elementi comuni alle due scuole.

Lettera 3 [Il significato della vera amicizia] Hai affidato a un tuo amico delle lettere da consegnarmi, mi scrivi; poi mi raccomandi di non parlare con lui di nulla che ti riguardi, poiché tu stesso non hai l’abitudine di farlo: così nella medesima lettera hai affermato e hai negato che costui sia tuo amico. Perciò, se hai usato quel termine non nel suo senso stretto, ma in quello comune, e lo hai chiamato amico così come chiamiamo «onorevoli» tutti gli aspiranti a una carica pubblica, o salutiamo con «signori» coloro che incontriamo per strada se non ne ricordiamo il nome, passi. Ma se consideri amico uno di cui non ti fidi quanto di te stesso, sbagli di grosso e non conosci realmente il significato della vera amicizia. Decidi qualsiasi cosa con l’amico, ma prima decidi su di lui, se egli meriti la tua amicizia: una volta stretta un’amicizia, bisogna fidarsi, ma, prima di stringerla, bisogna giudicare. Capovolgono l’ordine dei rapporti coloro che, contro l’insegnamento di Teofrasto, giudicano dopo essersi affezionati, invece di affezionarsi dopo aver giudicato. Rifletti a lungo se sia il caso di accogliere qualcuno come tuo amico. Ma, quando avrai deciso di farlo, accoglilo con tutto il cuore; e parla con lui apertamente come con te stesso. Tu poi vivi in modo da non confidare a te stesso nulla che tu non possa confidare anche al tuo nemico; ma, poiché accadono cose che è consuetudine tener segrete, condividi con l’amico tutte le tue preoccupazioni e tutti i tuoi pensieri. Se lo giudicherai fidato, lo renderai tale; infatti, alcuni, proprio temendo di essere ingannati, finirono per insegnare a ingannare, e con i loro sospetti autorizzarono ad agire disonestamente. Che motivo c’è

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perché io soppesi le parole di fronte all’amico? Che motivo c’è perché io in sua presenza non mi senta come se fossi solo? Certi raccontano al primo che incontrano ciò che si deve confidare solo agli amici e scaricano in qualsiasi orecchio tutto ciò che li tormenta; altri, al contrario, hanno paura persino che le persone più care vengano a conoscenza delle loro cose, e si nascondono dentro ogni segreto, perché, se potessero, non si fiderebbero neppure di se stessi. Bisogna evitare entrambi questi comportamenti, perché è un errore sia credere a tutti sia non credere a nessuno, il primo errore direi che è più nobile, il secondo più sicuro. Allo stesso modo biasimerai sia chi è sempre in agitazione sia chi è sempre inattivo. Infatti, non è operosità quella che si compiace della confusione, ma concitazione di una mente irrequieta, come non è quiete giudicare molesta ogni attività, ma fiacchezza e torpore. Teniamo bene in mente questa frase di Pomponio: «alcuni si sono ritirati in nascondigli tanto profondi da ritenere che sia nell’oscurità quanto, invece, è in piena luce». Bisogna contemperare questi due opposti: chi è ozioso agisca, e chi agisce si riposi. Consigliati con la natura: essa ti dirà che ha fatto il giorno e la notte. Stammi bene.

Lettera 6 [L’amicizia e la comunione di vita] Mi rendo conto, Lucilio, che non solo mi sto correggendo, ma mi sto anche trasformando; non che io prometta o speri che in me non rimanga più nulla da mutare. Come potrei non avere molte cose da ridimensionare, da attenuare o da potenziare? Ed il fatto che l’animo veda i propri difetti che prima ignorava è una prova del suo miglioramento; con certi ammalati ci si congratula quando riconoscono di essere ammalati. Desidererei, dunque, renderti partecipe di questo mio così improvviso cambiamento; allora comincerei a essere più sicuro della nostra amicizia, di quella vera, che né la speranza, né il timore, né la ricerca del proprio interesse può spezzare, di quella che dura fino alla morte, per la quale si è pronti a morire. Ti potrei citare molti cui non è mancato un amico, ma la vera amicizia: ciò non può accadere quando a indurre gli animi a unirsi è un’identica volontà e un identico desiderio del bene. E perché non può accadere? Perché essi sanno di avere tutto in comune, e soprattutto le avversità. Tu non puoi immaginare quanto profitto mi sembra che ogni giorno mi porti. «Manda anche a me», dirai, «questo metodo che hai sperimentato essere così efficace». Io certo desidero trasfondere tutto in te, e sono lieto di imparare una cosa proprio per insegnarla; e nessuna mi darà piacere, per quanto straordinaria e salutare sia, se la saprò solo per me. Se mi fosse concessa la saggezza a condizione di tenerla chiusa dentro di me e non annunciarla, la

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rifiuterei: non c’è gioia nel possesso di alcun bene, se non lo si può condividere con altri. Ti manderò, dunque, dei libri, e, perché tu non faccia molta fatica a cercare i passi che possono giovare, metterò dei segni, perché tu arrivi subito ai passi che approvo e ammiro. Però, più che un discorso scritto, ti gioverà la mia voce e il vivere insieme; bisognerebbe che tu venissi sul posto, prima di tutto perché gli uomini credono più ai loro occhi che alle loro orecchie, poi perché il cammino è lungo attraverso i precetti, breve ed efficace attraverso gli esempi. Cleante non avrebbe potuto esporre compiutamente l’insegnamento di Zenone se avesse soltanto ascoltato le sue lezioni: partecipò alla sua vita, ne penetrò i segreti, osservò se viveva secondo i suoi insegnamenti. Platone e Aristotele, e tutta la moltitudine dei filosofi che avrebbero poi seguito strade diverse, impararono più dalla condotta che dalle parole di Socrate; non la scuola di Epicuro, ma il vivere con lui rese grandi Metrodoro ed Ermarco e Polieno. E non ti faccio venire soltanto perché tu ne tragga giovamento, ma anche perché tu mi dia giovamento; ci gioveremo moltissimo a vicenda. Intanto, poiché devo darti ogni giorno un piccolo compenso, ti dirò che cosa ho trovato di bello oggi in Ecatone: «Chiedi», dice, «quali progressi abbia fatto? Ho iniziato a essere amico di me stesso». Ha fatto un grande progresso: non sarà mai solo. Sappi che tutti possono avere questo amico. Stammi bene.

 - Lucio Anneo Seneca (Cordoba 4 ca. a.C. - Roma 65 d.C.) scrisse le 124 Epistulae ad Lucilium (Lettere a Lucilio) tra il 62 e il 65 d.C. Il testo riportato è tratto da: Seneca, Lettere a Lucilio, in Tutte le opere, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2000, pp. 696-697, 700-701.

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S, Lettere a Lucilio esiste unA ricettA per lA Felicità? conosciamo già la risposta epicurea alla domanda formulata sopra (chiaramente definita nella celebre Lettera a Meneceo, vedi pag. 116, e in molte sentenze). la risposta stoica è diversa, anche se per entrambe le scuole la chiave di tutto è “seguire la propria natura”: a risultare molto differente è la concezione della natura umana, che per gli stoici non è solo materiale e frutto di una fortuita combinazione di atomi nell’evoluzione eterna dell’universo, ma è invece il prodotto di una precisa struttura razionale del mondo che ha tratti spirituali (logos) che innervano e vivificano (pneuma) la materia. l’uomo deve rimanere fedele a questo suo destino, che è un destino di felicità, se usiamo la ragione: tutta la vita è una festa.

Lettera 5 [Come debba comportarsi il vero filosofo] Che tu ti adoperi con impegno lasciando da parte tutto il resto, unicamente a migliorarti ogni giorno, l’approvo e mi fa piacere, e non solo ti esorto a perseverare, ma te ne prego. Ti avverto, però, di non fare nulla di stravagante rispetto al tuo stile di vita, come quelli che desiderano non progredire, ma farsi notare; evita l’abbigliamento trasandato, i capelli lunghi e la barba incolta, evita di dichiarare odio all’argenteria e di dormire sulla nuda terra; evita tutto ciò che con procedimento capovolto mira solo ad attirare l’attenzione. Il nome di «filosofia» è già di per sé abbastanza impopolare, anche se la si pratica con discrezione: che sarà poi se cominceremo a sottrarci alle comuni abitudini degli uomini? Nel nostro intimo siamo in tutto dissimili, ma il nostro aspetto esteriore si accordi con quello della gente. La toga non sia splendente, ma nemmeno sudicia, cerchiamo di non avere argenteria cesellata in oro massiccio, ma nemmeno consideriamo segno di frugalità non avere affatto oro o argento. [...] La filosofia promette buon senso, umanità e socievolezza; ma, se ci differenzieremo troppo dagli altri nel modo di vita, come potremo darne prova? Badiamo che i comportamenti con cui vogliamo suscitare ammirazione non provochino il riso e il disprezzo. Certamente il nostro proposito è vivere secondo natura: ma è contro natura tormentare il proprio corpo, aborrire le più elementari cure igieniche, ricercare un aspetto orrido e nutrirsi di cibi non solo poveri, ma disgustosi e ripugnanti. Come è da gaudenti desiderare cose troppo raffinate, così è da pazzi rifuggire da quelle comuni e di poco prezzo. La filosofia richiede frugalità, le scuole ellenistiche e romane

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non sofferenza; la frugalità, d’altra parte, può essere accompagnata da un certo decoro. Mi sembra giusto questo criterio di misura: la vita combini nelle giuste proporzioni i costumi dei saggi e quelli della gente comune. Che tutti ammirino il nostro modo di vivere, ma che possano anche capirlo. «E allora? Ci comporteremo come gli altri? Non ci sarà nessuna differenza fra noi e loro?». Ce ne sarà molta: chi ci osserva più da vicino comprenderà che siamo diversi dalla massa; chi entrerà in casa nostra ammirerà noi più che l’arredamento. È grande chi sa servirsi di stoviglie di terracotta come se fossero d’argento, né certo è da meno chi sa servirsi di stoviglie d’argento come se fossero di terracotta; è proprio di un animo debole il non saper sopportare la ricchezza. Ma voglio condividere con te anche il piccolo guadagno di questa giornata; ho letto nel nostro Ecatone che smettere di avere desideri è un buon rimedio contro il timore. «Cesserai», dice, «di temere, se cesserai di sperare». Tu mi dirai: «Come è possibile che cose tanto diverse stiano insieme?». Eppure è così, Lucilio mio: sembrano in contrasto, e, invece, sono strettamente connesse. Come la medesima catena tiene legato tanto il prigioniero quanto il suo guardiano, così queste cose che sono tanto diverse procedono di pari passo: il timore tiene dietro alla speranza. E non mi meraviglio che le cose vadano così: entrambi questi sentimenti sono propri di un animo incerto e ansioso nell’attesa del futuro. Causa prima di entrambi è che non ci adattiamo al presente, ma anticipiamo col pensiero ciò che è ancora lontano; così la capacità di fare previsioni, che è bene supremo della condizione umana, si trasforma in un male. Gli animali fuggono dai pericoli che vedono, e, una volta fuggiti, si sentono al sicuro: noi ci tormentiamo e per il futuro e per il passato. [...] nessun uomo è infelice solo per i mali presenti. Stammi bene.

Lettera 8 [La vita ritirata e la vera libertà] «Mi raccomandi», dici, «di evitare la folla, di ritirarmi in disparte e di essere pago della mia coscienza? E allora che ne è di quei vostri precetti che impongono di essere attivi fino alla morte?» Ma come? Ti sembra che io inviti all’inattività? Mi sono ritirato e ho sbarrato le porte per poter giovare a molti. Nemmeno una mia giornata trascorre nell’ozio; agli studi rivendico anche una parte delle mie notti; al sonno non mi lascio andare, ma soccombo, e costringo al lavoro gli occhi che si chiudono, affaticati dalla veglia. Mi sono allontanato non tanto dagli uomini quanto piuttosto dalle cose, e soprattutto dai miei affari: mi occupo degli affari dei posteri. Scrivo cose che possano loro giovare; affido agli scritti consigli salutari, come se fossero ricette di medicine utili; ne ho sperimentato l’efficacia sulle mie ferite, che, pur non essendo completamente guarite, tuttavia hanno cessato di estendersi.

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Mostro agli altri la retta via, che ho conosciuto tardi e ormai stanco per il lungo errare. Grido: «Evitate tutto ciò che piace al volgo, che è assegnato dal caso; fermatevi con sospetto e timore davanti a ogni bene fortuito: anche le fiere e i pesci sono tratti in inganno da speranze allettanti. Ritenete che questi beni siano doni della fortuna? Sono tranelli. Chi di voi vuole vivere una vita sicura eviti il più possibile questi beni vischiosi, che traggono in inganno noi sventurati anche in questo: noi crediamo di possederli, e, invece, ne siamo come invischiati». Questa corsa ci conduce al precipizio; la fine della vita di chi è salito in alto è il cadere. E poi, quando la buona sorte comincia a farci deviare dalla retta via, non è possibile far resistenza, o, quanto meno, procedere in linea retta o colare a picco una volta per sempre. La sorte non solo travolge, ma sbatte con la faccia a terra e schianta. Seguite questa sana e salutare forma di vita: concedete al corpo solo quanto basta perché goda di buona salute. Bisogna trattarlo con durezza, perché non si rifiuti di obbedire all’animo: il cibo plachi la fame e la bevanda spenga la sete, le vesti proteggano dal freddo, la casa sia un riparo contro le intemperie. Non c’è nessuna differenza se è stata costruita con zolle o con esotici marmi variegati: sappiate che l’uomo si ripara ugualmente bene con un tetto di canne che con un tetto d’oro. Disprezzate tutto ciò che con inutili fatiche si fa per il lusso o per il prestigio; pensate che nulla è degno di ammirazione tranne l’anima, e all’anima, quando è grande, nulla appare grande

 - Lucio Anneo Seneca (Cordoba 4 ca. a.C. - Roma 65 d.C.) scrisse le 124 Epistulae ad Lucilium (Lettere a Lucilio) tra il 62 e il 65 d.C. Il testo riportato è tratto da: Seneca, Lettere a Lucilio, in Tutte le opere, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2000, pp. 699-700, 703-704.

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S, Lettere a Lucilio il sAggio può AmAre e restAre libero? l’etica stoica già nell’antichità era accusata di puntare al rifiuto dei sentimenti: il saggio stoico, con il suo ideale di perfetta razionalità e libertà, secondo questa accusa sarebbe freddo, incapace di amare e di vivere una vita affettiva. seneca respinge le accuse: il saggio stoico non nega nulla della vita e non va contro la propria natura, e i sentimenti sono parte della vita e della natura umane. ma vive distaccato dai sentimenti che conosce e prova, il suo io attinge a una fonte più alta di perfezione e indipendenza. poiché è padrone di sé, può amare, senza essere schiavo di questa o di altre passioni. resta pertanto libero.

Lettera 9 [Il saggio basta a se stesso, ma vuole degli amici] Desideri sapere se Epicuro abbia ragione a criticare in una sua lettera quanti affermano che il saggio basta a se stesso e che, pertanto, non ha bisogno di amici. […] Tra noi e loro questa è la differenza: il nostro saggio vince ogni affanno, ma lo sente, il loro non lo sente nemmeno. In comune noi e loro abbiamo la convinzione che il saggio basti a se stesso; e, tuttavia, anche se basta a se stesso, egli vuole avere un amico, un vicino, un compagno. […] Così il saggio basta a se stesso non nel senso che vuole stare senza amici, ma nel senso che può stare senza amici; e questo può significa che ne sopporta con serenità la perdita. Ma non rimarrà mai senza amici: è in suo potere farsi al più presto nuovi amici. Come Fidia, se avesse perso una statua, ne avrebbe fatta subito un’altra, così questo artefice di amicizie, se perderà un amico, lo sostituirà subito con un altro. Mi chiedi come farà a stringere in fretta un’amicizia? Te lo dirò se sarai d’accordo che io saldi subito il mio debito e, per quanto riguarda questa lettera, consideriamo chiuso il nostro conto. Dice Ecatone: «Ti indicherò un filtro amoroso senza veleni, senza erbe, senza formule magiche: se vuoi essere amato, ama». Si ricava grande piacere non soltanto dalle amicizie sicure e di vecchia data, ma anche dall’iniziarne e dal procurarsene di nuove. […] Se il saggio trova in se stesso il proprio appagamento, vuole, tuttavia, avere un amico, se non altro per esercitare l’amicizia, per non lasciare inoperosa una virtù così importante, e non allo scopo indicato da Epicuro nella lettera summenzionata, «per avere qualcuno che lo assista se ammalato, lo soccorra se rinchiuso in prigione o caduto in miseria», ma per

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avere qualcuno da assistere se è malato, da liberare se è fatto prigioniero dai nemici. Chi guarda solo al proprio interesse e proprio per questo va in cerca di amicizie, è fuori strada. Come inizia, così finirà: si è procurato un amico perché gli portasse aiuto in caso di prigionia; al primo sferragliare di catene sparirà. Queste sono le amicizie che il popolo chiama opportunistiche: chi è stato scelto in vista di un vantaggio sarà gradito solo finché sarà utile. Per questo una folla di amici assedia i benestanti, intorno a chi è caduto in disgrazia c’è il deserto, e gli amici fuggono dal luogo ove sono messi alla prova; per questo ci sono tanti esempi scellerati di amici che per paura abbandonano, di amici che per paura tradiscono. È inevitabile che gli inizi e la conclusione siano dello stesso genere: chi è diventato amico per convenienza, accetterà di rinnegare l’amicizia per qualche guadagno, se in essa ha cercato qualcosa di diverso dall’amicizia stessa. «A che scopo ti procuri un amico?». Per avere qualcuno per il quale io possa dare la vita, per avere qualcuno da seguire in esilio, da difendere dalla morte anche a costo della mia vita: quella che tu descrivi non è un’amicizia, è un commercio, che mira al tornaconto e guarda a quanto potrà ottenere. Senza dubbio, qualche somiglianza con l’amicizia ha il rapporto d’amore; si potrebbe dire che è un’amicizia folle. Forse c’è qualcuno che ama per denaro o per ambizione o per gloria? L’amore di per sé, dimentico di tutto il resto, accende nell’animo il desiderio della bellezza, certamente con la speranza di essere ricambiato. E allora? È possibile che da una causa più nobile nasca un sentimento ignobile? […] «Il saggio basta a se stesso». I più, Lucilio mio, interpretano male queste parole: allontanano il saggio da ogni luogo e lo fanno rientrare dentro il suo guscio. Bisogna chiarire che cosa significhi questa frase ed entro quali limiti: il saggio basta a se stesso per vivere felice, non per vivere; per far questo, infatti, ha bisogno di molte cose, mentre per essere felice ha bisogno soltanto di un animo onesto, impavido e incurante della sorte. Voglio indicarti anche la distinzione fatta da Crisippo. Egli dice che il saggio non sente la mancanza di nulla, e, tuttavia, ha bisogno di molte cose: «al contrario, lo stolto non ha bisogno di nulla (perché non sa usare nulla), ma sente la mancanza di tutto». Il saggio ha bisogno delle mani, degli occhi e di molte altre cose necessarie all’attività di ogni giorno, ma non sente la mancanza di nessuna; infatti, si sente la mancanza di ciò che è indispensabile, e nulla è indispensabile al saggio. Quindi, anche se basta a se stesso, ha bisogno di amici; desidera averne quanti più possibile, ma non per essere felice, perché è felice anche senza amici. Il sommo bene per realizzarsi non cerca mezzi esterni; si coltiva in casa, dipende solo da se stesso; diventa soggetto alla sorte se cerca una parte di sé all’esterno.

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«Ma quale sarà la vita del saggio, se, gettato in prigione o abbandonato fra gente straniera o costretto a una lunga navigazione o sbattuto su un lido deserto, sarà lasciato senza amici?». Sarà qual è quella di Giove quando, dissoltosi il mondo nei suoi elementi e fusi insieme gli dèi in un tutt’uno, cessata per qualche tempo l’attività della natura, riposa in se stesso, abbandonandosi ai suoi pensieri. Qualcosa di simile fa il saggio: si ritira in se stesso, sta con se stesso. Ma, finche gli è possibile disporre le sue faccende a suo piacimento, basta a se stesso e prende moglie; basta a se stesso e alleva figli; basta a se stesso e, tuttavia, non vivrebbe senza nessuno. All’amicizia non è portato da interessi personali, ma da un’inclinazione naturale; perché, come è innato in noi il piacere di altre cose, così lo è quello dell’amicizia. Come c’è avversione per la solitudine e propensione per la vita in società, come la natura fa simpatizzare l’uomo con l’uomo, così anche in ciò c’è in noi un impulso che ci fa desiderare e ricercare le amicizie. Ma, sebbene il saggio ami moltissimo gli amici, se li procuri e sovente li anteponga a se stesso, egli circoscriverà in se stesso ogni suo bene, e dirà ciò che disse il famoso Stilpone, quello stesso che Epicuro critica nella sua lettera. [...] Ma, perché tu sappia che queste sono nozioni comuni, quelle evidentemente dettate dalla natura, leggerai in un poeta comico: non è felice chi non ritiene di esserlo. Che importa, infatti quale sia la tua condizione, se a te sembra cattiva? «Ma come!», ribatti. «Se affermerà di essere felice uno arricchito disonestamente oppure uno che è padrone di molti, ma schiavo di molti più ancora, diventerà felice solo per averlo detto?». Non importa ciò che dice, ma ciò che sente, e non ciò che sente un giorno, ma ciò che sente sempre. Non devi temere che un così gran bene tocchi a un uomo indegno: nessuno che non sia saggio sa godere di ciò che ha; la stoltezza si tormenta per il disgusto di se stessa. Stammi bene.

 - Lucio Anneo Seneca (Cordoba 4 ca. a.C. - Roma 65 d.C.) scrisse le 124 Epistulae ad Lucilium (Lettere a Lucilio) tra il 62 e il 65 d.C. Il testo riportato è tratto da: Seneca, Lettere a Lucilio, in Tutte le opere, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2000, pp. 704-707.

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M A, Pensieri quAl È il nostro posto nel mondo? per uno stoico è decisivo vivere rispettando la propria natura. si tratta di intendersi sui termini: la natura di ciascun uomo è un frammento della natura universale e nessuno è diverso da come dovrebbe essere. la natura universale è buona, razionale, perfetta. l’uomo fa molto male a non riflettere su questa perfezione, che è difficile da scorgere solo perché vediamo le cose da un’angolazione visuale molto angusta, chiusi come siamo in un briciolo di tempo e in un piccolo posto nell’universo, un frammento dello spazio cosmico. non sarebbe così se, come fanno i filosofi, ci abituassimo a guardare il mondo con gli occhi della razionalità, che è di ciascuno di noi come di tutti, e fa vivere in noi la scintilla del 0SKSW universale, a cui siamo tutti collegati, come frammenti di un tutto. quale è il nostro posto nel mondo? quello necessario perché l’ordine universale sia perfetto.

Se riguardo a me e al mio destino hanno deciso gli dèi, hanno deciso bene; perché è difficile immaginare un dio sconsiderato. E poi per quale motivo dovrebbero farmi del male? Che vantaggio ne trarrebbero per sé o per il bene comune, provvedere al quale è loro cura particolare? Se poi, riguardo a me in quanto individuo, non hanno preso decisioni speciali, le hanno certo prese per il bene comune, le cui conseguenze sono tenuto ad accettare e a gradire. Se invece non prFovvedono a nulla (cosa che è un’empietà credere, perché in tal caso non dovremmo neppure più far sacrifici, rivolgere loro preghiere, giurare, né compiere tutti quei riti che compiamo, convinti della loro esistenza e della loro presenza tra noi), se, quindi, non provvedono a nulla di ciò che ci riguarda, resta pur sempre a me la possibilità di decidere su me stesso e di ricercare ciò che mi sia veramente vantaggioso. Ma, per ogni individuo, vantaggioso è ciò che è conforme alla sua costituzione e alla sua natura, e la mia natura è quella di un essere razionale e socievole. In quanto Antonino, Roma è mia città e mia patria; in quanto uomo, il mondo. Unico bene per me è quindi soltanto ciò che giova a queste due città. Tutte le cose sono collegate le une con le altre, e sacra è la loro connessione; nessuna, si può ben dire, è estranea all’uomo. Perché tutte sono organicamente coordinate e insieme concorrono a formare l’ordine stesso dell’universo. Unico è infatti il mondo costituito dall’ordine di tutte le cose, e unico il dio che le pervade, unica la sostanza, unica la legge, unica la rale scuole ellenistiche e romane

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gione comune a tutti gli esseri pensanti, e unica la verità, se è vero che unica è la perfezione di tutti gli esseri della stessa specie e che partecipano alla stessa ragione. Come mai gli dèi, pur avendo ordinato tutto così bene e con tanto amore per gli uomini, hanno trascurato quest’unica cosa: alcuni uomini, e in particolare i migliori, che hanno avuto, per così dire, un più stretto rapporto con la divinità, e che, grazie alla santità delle loro azioni e alla solennità dei loro riti, le sono divenuti familiari quanto più è possibile, questi uomini, dunque, una volta morti, com’è possibile che non tornino più a vivere, ma siano estinti per sempre? Supposto che le cose stiano proprio così, sta’ certo che, se fossero dovute andare in altro modo, gli dèi in altro modo le avrebbero fatte andare; perché se fosse stato giusto, sarebbe stato anche possibile, e se fosse stato secondo natura, la natura sarebbe intervenuta. Dal fatto che le cose non stiano in altro modo, e posto che veramente non stiano in altro modo, ricava quindi la certezza che in altro modo proprio non dovevano andare. Vedi anche tu che, con questioni tanto assurde, stai intentando un processo contro Dio. Ma non potremmo neppure metterci a discutere con gli dèi, se non fossero assolutamente buoni e giusti; e, se questo è vero, certo non avrebbero permesso che rimanesse trascurata in modo ingiusto e irragionevole qualche parte dell’universo che essi stessi hanno ordinato. Ricordati che come è assurdo stupirsi che il fico produca fichi, lo stesso vale per i frutti che è naturale che produca il mondo. Ugualmente assurdo sarebbe per un medico o per chi governa una nave stupirsi che uno abbia la febbre o che soffi un vento contrario. Alcuni vanno alla ricerca di luoghi in cui ritirarsi, in campagna, al mare o sui monti, e anche tu hai l’abitudine di desiderare ardentemente tutto questo. Però è quanto mai sciocco, dato che puoi, in qualunque momento tu lo voglia, ritirarti in te stesso. Perché in nessun luogo più tranquillo e calmo della propria anima ci si può ritirare; soprattutto se si hanno dentro di sé principi tali, che, al solo contemplarli, si acquista una perfetta serenità. E per serenità non intendo altro che ordine interiore. Concediti quindi costantemente questo ritiro e in esso rinnovati. Brevi e fondamentali siano però le considerazioni che farai, tali da bastare, appena si presenteranno al tuo spirito, a cancellare ogni dolore e a rimandarti senza disgusto alla vita a cui devi tornare. Considera allora la rapidità con cui l’oblio avvolge tutte le cose; l’abisso del tempo infinito, del prima e del poi; la vanità della fama, l’incostanza e la leggerezza di chi ha l’aria d’applaudirti; lo spazio angusto in cui è confinata

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la tua fama. Perché la terra intera non è che un punto, di cui il luogo che tu abiti non è che una frazione; e anche qui quanti, e di che genere, saranno quelli che canteranno le tue lodi? Ricordati perciò di ritirarti in questo campicello che è tuo, e soprattutto non affannarti, non eccitarti, ma sii libero e guarda alle cose da vero uomo, da essere umano, da cittadino, da creatura mortale. E tra i principi da tenere bene a mente e a cui dovrai rivolgerti, vi siano questi due: primo, le cose esteriori non arrivano a toccare l’anima, ma ne restano sempre al di fuori immobili, mentre ogni turbamento proviene solo dalla nostra opinione interiore; secondo, tutte le cose che ora vedi muteranno in men che non si dica e non esisteranno più.

 - Marco Aurelio (Roma 121 - Vindobona, l’odierna Vienna, 180) scrisse questi Pensieri (ma sarebbe meglio dire A se stesso vista la natura privata, non destinata alla pubblicazione, di queste riflessioni) nel corso di tutta la sua vita. Il testo riportato è tratto da: Marco Aurelio, Pensieri, a cura dell’Archivio “Il Giardino dei Pensieri”, Il Giardino dei Pensieri, www.ilgiardinodeipensieri.eu

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S da Opere varie chi siAmo, come uomini, di Fronte AllA divinità e Al tutto? gli uomini hanno assegnato molti nomi alla divinità. Ai nomi corrispondono immagini diverse, molti riti, molte fedi, molte credenze. ma l’universo è uno solo ed è regolato da una sola legge, e per gli stoici ha tutte le ragioni eraclito nel sostenere che un’unica legge governa il tutto, dalla sfera del divino a quella dell’umano (politica compresa). i molti nomi di dio sono soltanto nomi. dio lo si intende comprendendo la natura di cui siamo parte e il nostro posto nel mondo. perché di questa natura, di questo dio, siamo tutti un frammento. per questo la vita è una festa, qualunque cosa accada; per questo siamo cittadini del mondo, qualsiasi sia la città in cui viviamo, la religione che professiamo, la lingua e la cultura che diciamo nostre. tale messaggio ci hanno tramandato gli antichi stoici, con un ottimismo che risulta tanto più netto quanto più difficile appare la vita.

[Da Stoicorum veterum fragmenta – Dio dai molti nomi] Sommo onnipotente dio dai molti nomi, Zeus, signore della natura, tu che governi il tutto con la legge, salve! La tua lode si addice agli uomini mortali. Poiché noi tutti siamo nati da te e dotati di linguaggio siamo noi soli fra quante cose vivono e si muovono sulla terra. Perciò io voglio celebrarti e cantare sempre la tua potenza. Tuo è il cosmo che si volge intorno alla terra, te segue dove tu lo conduci, si piega spontaneamente al tuo volere […]. Tutti (gli uomini) aspirano al bene, ma occhi e orecchi sono chiusi alla legge di Dio. Se la seguissero con la ragione, avrebbero una vita beata. Ma sono senza ragione, una vana parvenza li attrae chi qui e chi là. […] Nessun ufficio più alto fu dato agli dèi e agli uomini che celebrare la legge che gli uni e gli altri nel giusto unisce.

[Da Epitteto, Manuale – Sulla scena della vita] Ricorda che tu sei l’attore di un dramma quale lo vuole l’autore. Dramma breve, se lo vuol breve; lungo, se lo vuol lungo. Se l’autore vuole che tu reciti la parte del mendico, studiati di recitarla bene; e così pure, se vuole che

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tu reciti quella dello zoppo, del magistrato o quella del privato cittadino. Compito tuo è quello di recitare degnamente la parte che ti viene assegnata; sceglierla, invece, è compito di un altro.

[Da Filone di Alessandria, Sulle leggi particolari – Tutta la vita una festa] Tutti coloro che tra i Greci e tra i Barbari si esercitano nella saggezza, conducendo una vita immune da biasimo e rimprovero, astenendosi volontariamente dal commettere l’ingiustizia e dal restituirla ad altri, evitano le relazioni con la gente intrigante e condannano i luoghi che frequentano questi individui, tribunali, consigli, pubbliche piazze, assemblee, tutte le riunioni e i gruppi di gente sconsiderata. Aspirando a una vita di pace e di serenità, contemplano la natura e tutto ciò che si trova in essa, esplorano attentamente la terra, il mare, l’aria, il cielo e tutte le nature che vi si trovano, accompagnano col pensiero la luna, il sole, le evoluzioni degli astri erranti o fissi, e, se i loro corpi restano sulla terra, danno ali alle loro anime affinché, elevandosi nell’etere, osservino le potenze che vi si trovino, come si addice a coloro che, divenuti realmente cittadini del mondo, considerano il mondo come la loro città ai cui cittadini è familiare la saggezza, che hanno ricevuto i loro diritti civili dalla virtù, la quale è incaricata di presiedere al governo dell’Universo. Così, colmi di perfetta eccellenza, abituati a non tenere più conto dei mali del corpo e dei mali esterni, esercitandosi ad essere indifferenti alle cose indifferenti, armati contro i piaceri e i desideri, insomma sempre ansiosi di tenersi al di sopra delle passioni […] senza piegarsi sotto i colpi della sorte poiché ne hanno calcolato in anticipo gli attacchi (giacché fra le cose che accadono senza che le si vogliano, persino le più penose sono alleviate dalla previsione, quando il pensiero non trova più nulla di inatteso negli eventi, ma smussa la percezione come se si trattasse di cose vecchie e logore), è ovvio che per uomini siffatti, che trovano il piacere nella virtù, tutta la vita sia una festa. Sono certamente un piccolo numero, tizzone di saggezza mantenuto nelle città affinché la virtù non si estingua del tutto e non sia strappata alla nostra specie. Ma se ovunque gli uomini avessero gli stessi sentimenti di questo piccolo numero, se diventassero veramente tali quali la natura vuole che siano, immuni da biasimo e rimprovero, innamorati della saggezza, lieti del bene perché è il bene e convinti che il bene morale sia l’unico bene […], allora le città sarebbero colme di felicità, liberate da ogni causa di afflizione e di timore, colme di tutto ciò che costituisce la gioia e il piacere spirituale, di modo che nessun momento sarebbe privo di vita lieta e che tutto il ciclo dell’anno sarebbe una festa.

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[Da Epitteto, Diatribe – Cittadini del mondo] Se è vero che esiste una parentela tra Dio e gli uomini, come sostengono i filosofi, che cos’altro devono fare gli uomini, se non imitare Socrate, ossia non rispondere mai a chi domanda loro di che paese siano: «Sono cittadino di Atene o di Coi» ma «Sono cittadino del mondo»? Se ci si è resi conto dell’organizzazione dell’universo, se abbiamo capito che ciò che supera, domina e ingloba tutte le cose è il “Tutto” formato da Dio e dagli uomini, che da lì vengono i semi generatori non solo di mio padre o di mio nonno, ma di tutto ciò che vive e cresce sulla terra, soprattutto degli esseri razionali, perché essi soli, per natura, partecipano della società divina, legati come sono a Dio per mezzo della ragione, perché non dovrebbe dirsi cittadino del mondo? perché non dovrebbe dirsi figlio di Dio?

 - Gli autori riportati in questa sezione sono vari e di epoche diverse. Il primo brano è tratto dall’Inno a Zeus di Cleante (304-232 a.C.), uno dei fondatori della scuola stoica, che lo compose in data imprecisabile. Il secondo e quarto brano sono tratti dal Manuale di Epitteto (Gerapoli 50 - Nicopoli 138 ca.), una raccolta di suoi detti redatta dal discepolo Arriano che frequentò le sue lezioni nella scuola di Nicopoli, aperta dopo il 93. Il terzo brano è tratto da Sulle leggi particolari di Filone di Alessandria (Alessandria d’Egitto 20 ca. a.C. - 50 d.C.), composto presumibilmente in età matura. I testi riportati sono tratti da: “Passi scelti”, in Stoicismo, a cura di M. Trombino, Il Giardino dei Pensieri, www.ilgiardinodeipensieri.eu

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Capitolo

5 La filosofia tardo antica La crisi della civiltà antica si esprime soprattutto nell’esigenza di accesso al divino che i vari culti orientali (e tra essi il cristianesimo) promettono, venendo incontro a un’ansia di salvezza e rigenerazione sempre più diffusa. Così anche la filosofia non si sottrae a questo compito, anche se con la sua personalità più eminente – Plotino – lo fa non lasciando mai i vincoli della razionalità, ma anzi combattendo le derive fideistiche e irrazionalistiche. Il cristianesimo, da parte sua, dopo una prima fase conflittuale con la cultura pagana, si presenta sempre più come l’erede della civiltà antica, anche se da un lato vi introduce sue tematiche specifiche (personalità di Dio, creazione, necessità della fede nella rivelazione) e dall’altro ne piega i caratteri alle proprie esigenze di evangelizzazione e catechizzazione. In Occidente la figura più prestigiosa è sicuramente quella di Agostino che ha improntato di sé tutta la cultura monastica medievale fino alla riscoperta di Aristotele nel XII secolo.

P, Enneadi Ha r agione Platone nel ritenere cHe nelle emozioni degli amanti si nasconda una via Per accedere a un mondo Più vero, al di là del temPo e dello sPazio? Plotino utilizza una terminologia spaziale per parlare della situazione esistenziale in cui, secondo la sua teoria, ci troviamo: da un lato apparteniamo a una realtà sensibile spazio-temporale (il mondo di “quaggiù”), dall’altro una parte di noi è in contatto spirituale (lo spirito è una forma di IRIVKME a fondamento della materia) con la realtà eterna della vita dell’uno (il mondo di “lassù”). l’eros secondo Plotino lega questi due mondi, è una via di passaggio. nelle emozioni degli amanti un intero mondo di energia spirituale si fa strada, consentendo loro di accedere a una superiore forma dell’essere. Questo Plotino legge in Platone.

Anche gli altri, non solo noi siamo gli esseri di lassù; siamo dunque tutti gli esseri di lassù. Mentre siamo in comunione con tutti gli altri, siamo insieme a loro gli esseri di lassù. Siamo in definitiva Tutto e Uno. Ma, guardando verso l’esterno, in direzione opposta a quella dell’origine cui siamo sospesi, ignoriamo di essere una unità, come dei volti rivolti verso l’esterno che, all’interno, si riconnettono a un unico vertice. Ma se uno potesse torcersi, o spontaneamente, o perché ha la ventura di venire tirato per i capelli da Atena, vedrebbe Dio e se stesso e il Tutto (VI 5, 7, 9-13). In che modo la Natura Prima [ossia lo Spirito divino che contiene il mondo delle Forme] è presente in tutte le cose? Come una Vita unica. Perché la vita, in un essere vivente, non si ferma in un punto al di là del quale non è più capace di estendersi al tutto, ma è dappertutto in lui. [...] Se vuoi cogliere l’infinitudine che sgorga eternamente in essa, la sua natura instancabile, indefessa, che non si esaurisce mai, che, per così dire, ribolle in se stessa di vita, se concentri la tua attenzione in un luogo o se fissi il tuo sguardo in un punto, non la troverai lì. Ti accadrà piuttosto il contrario (VI 5, 11, 37-39; 12, 1-3; 7-11). Ne è testimonianza il turbamento provato dagli amanti. Finché questo turbamento si trova in chi si ferma alla forma sensibile, questi non prova ancora l’amore. L’amore nasce invece quando, a partire da tale forma sensibile, egli genera autonomamente dentro di sé una forma non sensibile nella

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parte indivisibile della propria anima. E se l’amante desidera vedere l’oggetto amato, è solo per irrorare quella forma non sensibile, che rischia di seccare. Se prendesse però coscienza del fatto che si deve andare sempre al di là, verso ciò che è più “privo di forma”, desidererebbe il Bene in sé. Poiché ciò che ha sentito fin dall’inizio era, a partire da un fievole barlume, l’amore per questa immensa luce (VI 7, 33, 22-29). Solo quando l’anima accoglie in sé l’“effluvio” che viene dal Bene si commuove: è presa allora da un impeto bacchico ed è piena di stimoli che la trafiggono. A questo punto nasce l’amore. Prima, non prova alcuna emozione che la attragga verso lo Spirito, per quanto bello esso sia. La bellezza dello Spirito rimane infatti inerte e inefficace finché non è stata illuminata dal Bene [...]. Ma quando è giunto fino all’anima, in qualche maniera, il “calore” che deriva dal Bene, essa si rinvigorisce, si desta, si fa davvero alata e, anche se in preda alla passione per quanto le sta vicino in quel momento, si innalza, leggera, guidata dal “ricordo”. Finché vi è qualcosa al di là dell’oggetto che le è vicino in quel dato istante, l’anima viene portata in alto, sollevata da colui che le instilla l’Amore. E si innalza al di sopra dello Spirito, ma non può correre al di là del Bene, perché al di sopra di esso non vi è nulla (VI 7, 22, 8-21). Chi non conosce questa condizione, immagini sulla base degli amori di quaggiù cosa debba voler dire incontrare l’essere più amato; che gli oggetti d’amore di questo mondo sono mortali e funesti; che gli amori terreni hanno per oggetto solo riflessi e che sono instabili, perché non si tratta di ciò che amiamo veramente, né del nostro bene, né di quello che andiamo cercando. È lassù, invece, che si trova il vero oggetto d’amore, con il quale è possibile unirsi partecipando di Lui e possedendoLo realmente, non solo circondandoLo dall’esterno con le nostre braccia di carne (VI 9, 9, 40-48). In quel momento ha la possibilità di valutare e conoscere con certezza che “è Lui” che desiderava e di affermare che non Gli si può preferire nulla, perché lassù non è possibile alcun inganno: dove si potrebbe trovare qualcosa di più vero del vero? Ciò che ella dunque dice: a Lui, lo esprime in realtà più tardi, ora è il suo silenzio a parlare: piena di gioia, non si inganna, proprio perché è piena di gioia e non lo dice a causa di un piacere che le faccia vibrare il corpo, ma perché è diventata quello che era un tempo, quando era felice. Ma anche tutto quanto la dilettava prima: la dignità, il potere, le ricchezze, le cose belle, le scienze, dice di disprezzarlo tutto; lo direbbe se non avesse incontrato qualcosa di preferibile a tutto ciò? E non teme più che le possa accadere qualcosa, perché quando è con Lui, non vede assolutamente nulla. Se tutto quanto la circonda venisse distrutto, accadrebbe proprio ciò che lei desidera, a patto solo di essere con Lui: tanto grande è la gioia che ha raggiunto (VI 7, 34, 25-39).

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Il Bene è pieno di dolcezza, di benevolenza e di delicatezza, sempre a disposizione di chi lo desideri. Il Bello, invece, suscita terrore, smarrimento, e piacere misto a dolore. Porta lontano dal bene quanti non sanno che cosa sia il bene, come l’oggetto amato può trascinare lontano dal Padre (V 5, 12, 33-37). Prima non prova alcuna emozione che lo attragga verso lo Spirito, per bello che sia; perché la bellezza dello Spirito non produce alcun effetto, finché non ha ricevuto la luce del Bene; allora, lasciata alle sue proprie forze, l’anima “resta riversa”, indif ferente; è del tutto inattiva e anche quando lo Spirito le è presente essa è, rispetto a lui, inebetita (VI 7, 22, 10-14).

 - Plotino (Licopoli, Egitto, 205 - Minturno 270) scrisse i trattati che compongono le Enneadi in diversi periodi: tra il 253 e il 263 compose 21 trattati; tra il 263 e il 267 ne compose altri 24; 5 trattati li inviò al discepolo Porfirio durante la sua assenza in Sicilia e infine scrisse gli ultimi 4 poco prima della sua morte. Il testo riportato è tratto da: Plotino, Enneadi, passi scelti a cura di M. Trombino, in Plotino e il neoplatonismo, Il Giardino dei Pensieri, www.ilgiardinodeipensieri.eu

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P, Enneadi Quale realtà e Quale verità ci sono nell’essere dell’uomo, cHe si cHiude nei conFini del temPo e dello sPazio? Plotino ha espressioni durissime: quella che chiamiamo realtà è simile a quella che si trova a teatro, dove ci sono attori che recitano. solo che il teatro è la vita, e a recitare non sono attori, ma uomini che credono di vivere una vita pienamente reale. non stanno comprendendo che lo è solo in parte. Persino il dolore e la morte (Plotino evoca scene di battaglia) sono una recita. la realtà completa è altrove, ma è da questa nostra che dobbiamo muovere per accedervi.

La parte inferiore dell’anima sarà simile a un uomo che vive accanto a un saggio e che trae vantaggio da questa vicinanza: o diviene simile a lui o lo rispetta al punto che non fa nulla di quanto quell’uomo buono non vuole che faccia. Non ci saranno dunque conflitti interiori. Basta che ci sia la Ragione; la parte inferiore la rispetterà così che, se qualcosa la turberà, sarà lei stessa a irritarsi per non essersi tenuta tranquilla in presenza del suo maestro e si rimprovererà da sola per la propria debolezza (I 2, 5, 25-31). La felicità è di chi vive con la più grande intensità […]. Ora, la vita completa, la virtù autentica, che è veramente vita, si ha nello Spirito. Le altre forme di vita sono imperfette, sono solo riproduzioni della vita, non sono vita, né nella sua pienezza, né la sua purezza. […] La vita umana è completa quando non prende solo la vita sensibile, ma la ragione e lo Spirito vero. È felice chi è effettivamente, in atto, questa vita dello Spirito, chi è arrivato a identificarsi con essa. Tutto quanto in lui non è la vita dello Spirito, ogni altra cosa è per lui solo un abito esteriore: non possono neppure più essere considerate sue parti, perché non vorrebbe esserne rivestito: gli apparterrebbero solo se gli venissero attribuite per volontà sua. – Che cosa è allora il bene per quest’uomo? – È per lui il Bene di cui è in possesso. È il Bene trascendente che è causa del Bene che è in lui [...] In tale condizione non cerca più nulla. Che cosa potrebbe mai cercare? Cose che gli sono inferiori? Certamente no. E quanto vi è di meglio già lo possiede (I 4, 3, 24-25; 33-36 e I 4, 4, 6-8; 14-23). Che cosa vi è tra le cose umane di grande al punto da non venire disdegnato da chi le ha superate per andare verso quanto è al di sopra di tutte

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e che non ha più relazione alcuna con le cose di questo mondo? E se egli ritiene che la buona sorte, per quanto grande, non sia gran cosa: neppure regnare, governare città o genti, fondare colonie o città, pur se questa buona sorte è la propria, perché dovrebbe dare grande importanza alle cadute di imperi o ai rivolgimenti della sua patria? Se li considerasse grandi mali, infatti, o anche molto semplicemente un male, sarebbe ridicolo ad avere un’opinione del genere, e chi reputasse grandi cose il bosco, la terra e, Dio mio, la morte di esseri mortali, non sarebbe più un saggio perché questi deve, riguardo alla morte, tenere come principio che essa è preferibile alla vita con il corpo (I 4, 71 14-26). La vita, che sovrabbonda nell’universo, crea ogni cosa e vanta forme di vita diverse, senza mai cessare di produrre giocattoli viventi, belli e graziosi. Quegli eserciti che si fronteggiano, i cui uomini, quei mortali! avanzano in bell’ordine di attacco […] ci dimostrano che i grandi scontri degli uomini sono solo giochi […]. Sì, tutto ciò accade come in palcoscenico. Quelle uccisioni e tutte quelle morti, e le città saccheggiate! Tutto questo non è altro che cambio di costume o di atteggiamento, lamenti e gemiti d’attore. E in effetti, quaggiù, in ognuno di questi avvenimenti della vita, non è l’anima che è all’interno, ma è solo l’ombra esteriore dell’uomo che piange, si affligge, assume ogni sorta di atteggiamento e gli uomini, da quel teatro che è la terra intera, recitano il loro ruolo su più palcoscenici. Poiché tali sono le azioni dell’uomo che sa vivere solo le cose di questo mondo e quelle esteriori: non sa che, pur versando lacrime, e anche prendendole sul serio, gioca. Solo quello che vi è di serio nell’uomo può applicarsi seriamente ad azioni serie. Ciò che resta dell’uomo non è che giocattolo. Chi non sa essere serio e non sa di essere lui stesso giocattolo, prende sul serio i propri giocattoli. Se, nel giocare con essi, si provano le stesse sventure, si deve sapere, deponendo la maschera da gioco che si era rivestita, che si era caduti in un gioco infantile. E se Socrate gioca, certo gioca solo con il Socrate esteriore (III 2, 15, 31-36; 43-59). Nel dramma autentico, di cui le opere degli uomini dotati del dono della poesia non sono che frammentarie imitazioni, l’attrice è l’anima. Riceve il suo ruolo dal poeta dell’universo, come gli attori ricevono la loro maschera, il loro costume: che si tratti di abiti rilucenti o di stracci, l’anima riceve il proprio destino non a caso, ma secondo il piano dell’universo. Se si adatta al suo destino è in armonia e si inserisce nell’ordine del dramma che è il piano dell’universo (III 2, 17, 32-39). Le anime si trovano in posti diversi le une rispetto alle altre ognuna, a seconda di dove si trova, fa intendere un canto in armonia sia con il posto in cui è, sia con il Tutto; il loro canto, se dissonante, sarà bello, se considerato

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dal punto di vista del Tutto; ciò che sembra contro natura sarà, per il Tutto, conforme la natura; nondimeno, si tratta di una sonorità inferiore. Ma l’anima, cantando in questo modo, non altera la bellezza del Tutto come, per fare un altro esempio, un malvagio carnefice non corrompe una città retta da buone leggi. Nella città c’è bisogno di uno come lui, è un bene che egli vi sia e lì egli si trova al posto che gli spetta (III 2, 17, 81-89). Deriverebbero dagli astri, si dice, i nostri caratteri e, in conformità con i nostri caratteri, le nostre azioni; quanto alle nostre passioni, scaturirebbero da una disposizione passionale. – Ma allora cosa rimane di “noi”? – Non si deve forse dire che rimane ciò che “noi” siamo in verità, “noi” a cui la natura ha dato appunto la possibilità di essere padroni delle nostre passioni. E in effetti, tra tutti i mali che ci vengono inflitti dal corpo, Dio ci ha dato la “Virtù che nessun maestro domina”. Perché non è nella calma che abbiamo bisogno della virtù, ma quando rischiamo di cadere nel male, se non c’è la virtù. Ecco perché dobbiamo “fuggire da qui” e “separarci” da tutto ciò che si è aggiunto a noi. Non dobbiamo essere il “composto”: un corpo animato, in cui domina la natura del corpo [...]. Ma è all’altra anima, quella che è estranea a questa vita del corpo, che appartiene l’ascesa verso l’alto, verso il bello, verso il divino. Su cui non domina nessuno (II 3, 9, 12-26).

 - Plotino (Licopoli, Egitto, 205 - Minturno 270) scrisse i trattati che compongono le Enneadi in diversi periodi: tra il 253 e il 263 compose 21 trattati; tra il 263 e il 267 ne compose altri 24; 5 trattati li inviò al discepolo Porfirio durante la sua assenza in Sicilia e infine scrisse gli ultimi 4 poco prima della sua morte. Il testo riportato è tratto da: Plotino, Enneadi, passi scelti a cura di M. Trombino, in Plotino e il neoplatonismo, Il Giardino dei Pensieri, www.ilgiardinodeipensieri.eu

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P Enneadi se la bellezza è un car attere ProPrio dell’essere ed è Quindi in tutte le cose, come si Fa ad acQuisire la caPacità di vederla? nelle sue lezioni Plotino commentava testi platonici, interpretandoli alla luce di tutta la tradizione filosofica antica. molto spesso vi trovava riferimenti alla bellezza, e più esattamente a una teoria che ai suoi occhi dovette apparire a un certo momento dei suoi studi molto chiara: i termini “essere”, “bellezza”, “bene” sono soltanto modi umani di indicare la stessa realtà. se non abbiamo occhi buoni per vedere dove sia la bellezza, è perché non sappiamo guardare. gli occhi, del corpo e della mente, li abbiamo, perché apparteniamo al regno dell’essere e non è altro che l’essere quello che cerchiamo quando siamo così colpiti dal brillare della bellezza. che è sempre, in quanto bellezza, buona. ma l’essere non è cosa morta, ma vita. non è immobile, ma è creatività. non c’è quindi differenza tra l’imparare a vedere la bellezza là dove essa è e imparare a creare nella bellezza. la difficoltà sta nel fatto che il nostro sguardo è offuscato perché non possediamo interamente l’essere. ma un frammento è in noi. non siamo forse viventi? non vive in noi la vita dell’uno?

Se è vero che quanti rimirano con i loro occhi le opere d’arte non vedono, nei dipinti, gli stessi oggetti nello stesso modo e che, invece, se riconoscono nel sensibile l’imitazione di qualcosa che si trova nel Pensiero, vengono come scossi dallo stupore e indotti a ricordarsi della vera realtà – e certamente a partire da questa emozione si destano anche i sentimenti d’amore –, sì, se è vero che vi è chi, nel vedere la Bellezza mirabilmente rappresentata in un viso, viene trasportato nel mondo trascendente, vi potrà essere qualcuno torpido di pensiero a tal punto e incapace di commuoversi per qualunque cosa che, nel vedere tutte le bellezze del mondo sensibile, tutta quell’armonia, quel maestoso ordine, quello splendore della forma che si manifesta negli astri, pur essendo essi lontani da noi, non venga indotto a riflettere e a concepire per questo mondo sensibile un rispetto religioso, dicendo a se stesso: «Che meraviglie! e da quali meraviglie devono derivare tali meraviglie!» (II 9, 16, 43-55). Questo mondo sensibile, con tutte le sue parti che restano ciascuna ciò che è senza confondersi con un’altra, abbracciamolo con il pensiero, per

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quanto è possibile, come una unità nella quale tut to è connesso, in modo che, se ci appare una qualunque delle sue parti (ad esempio la sfera che avvolge esternamente il cielo), seguano immediatamente la rappresentazione del sole e insieme quella degli altri astri e che divengano visibili anche la terra, il mare e tutti gli esseri viventi, come sarebbe possibile che tutte le cose, all’interno di una sfera trasparente, divenissero effettivamente visibili. Vi sia dunque nell’anima una rappresentazione luminosa di questa sfera, che contiene tutto in sé [...]. Conservando dentro di te tale rappresentazione, creane in te un’altra, eliminando stavolta la massa; elimina anche lo spazio e l’idea della materia, senza cercare di concepire una sfera più piccola di quella fatta con la massa (V 8, 9, 1-12; cfr. anche II 9, 17, 4). Da dove è venuto allora il fulgore della bellezza di quella Elena tanto contesa o di tutte quelle donne che, per la loro bellezza, somigliano ad Afrodite? [...] [Questa fonte della bellezza] non è sempre la forma? Ma se la stessa forma, che si trovi in una massa piccola o grande, commuove allo stesso modo e, per la facoltà che le è propria, mette in una stessa disposizione di spirito l’anima di chi la contempla, vuol dire che non si deve porre la Bellezza in relazione con la grandezza della massa. Eccone la prova: fintantoché la forma è all’esterno, non la vediamo ancora: è quando è arrivata all’interno che esercita un’influenza su di noi. Solo in quanto forma può, in effetti, penetrare negli occhi (V 8, 2, 9-26). [In questo mondo delle Forme] ogni cosa sovrabbonda e, in qualche maniera, ribolle. Vi è come un flusso di queste realtà ribollenti di vita, un flusso che sgorga da una fonte unica, eppure non come se esse derivassero da un soffio o da un calore unici, ma piuttosto come se esistesse una determinata qualità unica che possedesse e custodisse in sé tutte le qualità: quella della dolcezza mescolata con quella del profumo, e il sapore del vino insieme alle proprietà di tutti i succhi e alle visioni dei colori e a tutto ciò che le sensazioni tattili insegnano a conoscere; vi si troverebbero anche tutte le sensazioni uditive, tutte le melodie, tutti i ritmi (VI 7, 12, 22-30). Tutto è trasparente; non vi è nulla di oscuro o che opponga resistenza; ogni cosa è visibile per tutte le altre fino nell’intimo, perché la luce è trasparente alla luce; e, del resto, ogni cosa le racchiude in sé tutte e vede in ciascuna tutte le altre, in modo che in qualunque luogo ci sono tutte le cose, ognuna è tutte e tutte sono ciascuna cosa e lo splendore non ha limiti (V 8, 4, 4-8). Questa Bellezza risplende su tutte le cose e riempie tutti coloro che sono lassù, in modo che divengano belli anch’essi, come spesso uomini che sono saliti in luoghi elevati, dove la terra ha una colorazione ocra, sono completamente colorati con questa tinta, perché sono diventati simili al suolo

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sul quale camminano. Ma lassù il colore che copre la superficie di tutto, è la Bellezza, o piuttosto è tutto colore e bellezza, sin dal profondo (V 8, 10, 26-30). Guardate l’arte che produce meraviglie di forme diverse negli animali più umili, fino alle stesse piante: la bellezza dei loro frutti e del fogliame, la generosa profusione di fiori, con la loro delicatezza e varietà (III 2, 13, 22-25). Questo Mondo ben ordinato è conforme allo Spirito: si fa realtà senza il concorso della riflessione razionale, ma in maniera tale che, se qualcuno potesse servirsi di essa alla perfezione, si stupirebbe nel vedere che tutto è stato disposto in modo tale che quella riflessione non avrebbe potuto trovare come fare altrimenti (III 2, 14, 1-4).

 - Plotino (Licopoli, Egitto, 205 - Minturno 270) scrisse i trattati che compongono le Enneadi in diversi periodi: tra il 253 e il 263 compose 21 trattati; tra il 263 e il 267 ne compose altri 24; 5 trattati li inviò al discepolo Porfirio durante la sua assenza in Sicilia e infine scrisse gli ultimi 4 poco prima della sua morte. Il testo riportato è tratto da: Plotino, Enneadi, passi scelti a cura di M. Trombino, in Plotino e il neoplatonismo, Il Giardino dei Pensieri, www.ilgiardinodeipensieri.eu

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P, Enneadi la Felicità è di Questo mondo? Plotino è erede di una lunga tradizione di “ottimismo metafisico”: da aristotele in poi, un po’ tutte le scuole filosofiche dell’antichità (ma non tutte le religioni, né tutte le sette) hanno ritenuto che le strutture fondamentali dell’essere su cui riposa ogni realtà – e quindi la vita umana – siano caratterizzate dal bene, siano buone in se stesse. Per quanto difficile sia la condizione umana, la mente può riuscire senza vere e insormontabili difficoltà a guidare l’uomo verso la saggezza, ed essere saggi significa sempre essere felici. Plotino, per ragioni notevolmente diverse da aristotele, dagli epicurei e dagli stoici, è convinto che questa impostazione sia corretta. tutti possiamo essere felici (e la lettura dei suoi testi chiarisce qual è la ricetta plotiniana per la felicità).

[Possono essere felici tutti gli esseri viventi?] Ponendo che viver bene sia la stessa cosa che esser felici, accorderemo a viventi diversi dall’uomo? Certo, perché se essi possono passar la loro vita in conformità alla loro natura e senza ostacolo, che cosa impedisce di dire che anche essi vivono bene? Se si mette dunque il viver bene allo stesso livello della felicità, e se esso consiste nel compimento della propria funzione, esso appartiene anche agli altri viventi. I quali possono infatti esser felici in quanto agiscano conforme alla loro natura: così, gli uccelli cantori, pur felici in altre cose, lo sono anche nel cantare secondo il loro istinto naturale e in questo modo conseguono la vita per loro piacevole. E se poniamo che la felicità sia un fine, cioè l’ultimo termine di una tendenza naturale, noi accorderemo loro anche in questo caso la felicità, ov’essi raggiungano questo termine; e quando vi sono giunti la natura si ferma, dopo aver svolto ogni loro capacità di vita e aver compiuto tutto dal principio alla fine. Ma se non si è contenti di attribuire la felicità agli altri viventi e la si accorderà alle bestie più vili ed anche alle piante, sì anche ad esse, poiché anche in esse la vita scorre verso un fine, non è anzitutto assurdo credere che gli altri viventi non possono viver bene solo perché essi ci sembrano di poco valore? Né si è forzati di accordare la felicità alle piante come la si accorda a tutti i viventi, poiché esse non hanno sentimenti. Forse la si accorderà anche alle piante, poiché esse posseggono la vita, perché ogni essere vivente può viver bene o male: e così anche le piante potrebbero essere in buone o cattive disposizioni, fare o non fare frutti. Dunque, se il piacere è il fine e se in quello consiste

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il viver bene, è assurdo negare ai viventi diversi la possibilità di ben vivere. [...]

[La felicità risiede nell’anima razionale?] [...] È chiaro che quelli che non accordano la felicità alle piante e l’accordano invece all’essere che sente cercano, senza saperlo, un bene superiore alla sensazione e lo pongono in una vita più chiara. E coloro che dicono essere nell’ anima razionale, e non semplicemente nell’anima, anche se sensitiva, forse parlano bene. Ma siccome essi accordano la felicità soltanto all’anima razionale, è necessario chieder loro: «Aggiungete forse la ragione, perché essa è capace di ricercare e procurare facilmente gli oggetti che soddisfano i nostri primi naturali, o perché essa non può né ricercarli né ottenerli? Ma se per il suo potere superiore d’acquisto, la felicità apparterrà anche agli esseri che non hanno la ragione, poi che essi potrebbero acquistarsi quegli oggetti senza di lei e per istinto. La ragione varrebbe allora per i nostri bisogni e non per se stessa, nemmeno se diventasse quella ragione perfetta che noi diciamo virtù. E se direte che il suo valore non deriva dal fatto che essa soddisfa i nostri bisogni primitivi, ma che essa è amabile per sé, dovrete dire quale altra funzione essa abbia, quale sia la sua natura, e che cosa la faccia perfetta». Difatti non è la contemplazione degli oggetti che la fa perfetta, ma essa ha un’altra perfezione e un’altra natura [...]. Sino a che essi non abbiano trovato nature superiori a quelle in cui s’arrestano ora, siano pure lasciati là dove vogliono rimanere col pensiero rivolto al modo di arrivare alla felicità e a quegli esseri che possono .

[La vita perfetta sussiste nell’Intelligenza] Ma noi nuovamente diciamo in che consista la felicità. Ponendo la felicità nella vita e facendo della vita un sinonimo, noi accorderemmo a tutti i viventi la tendenza alla felicità e diremmo che sono felici in atto quegli esseri cui appartiene questo carattere identico che tutti gli esseri viventi naturalmente son atti a possedere e non accorderemmo ai viventi ragionevoli questa attitudine per rifiutarla agli irragionevoli: difatti la vita sarebbe un carattere comune che renderebbe ognuno atto alla felicità, poiché in una certa vita consisterebbe la felicità. Perciò, io credo, coloro che pongono la felicità nella vita razionale e non nella vita in generale, ignorano di non porre più la felicità nella vita; infatti sono costretti a dire che la felicità esiste soltanto nella facoltà razionale, che è qualità. Ma, per essi, il soggetto di questa è la vita razionale: e in questo tutto esiste la felicità, la quale esiste perciò in una delle specie di vita. E di queste specie io parlo, non come di suddivisioni , ma nel senso adoperato da noi di anteriore e posteriore.

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Ora, siccome vita si dice in molti modi, vita cioè di primo e secondo grado e così via, ed essendo essa un termine omonimo che significa diversamente e per la pianta e per l’essere irrazionale, e consistendo la sua differenza nella sua chiarezza o nella sua oscurità, è evidente che anche la felicità possiede gli stessi gradi. Se è l’immagine di un’altra, è chiaro che la felicità dell’una è immagine della felicità dell’altra. E se un essere possiede una vita intensa – un essere cioè in cui la vita non sia in nulla deficiente – ad esso soltanto appartiene la felicità reale: esso infatti ha la perfezione, poiché negli esseri la perfezione consiste essenzialmente nella vita ed è la vita perfetta; e così il bene non è avventizio ; ne un’altra cosa venuta da altro luogo concederebbe a questo soggetto di essere nel bene. Ma ad una vita che sia completa, che si dovrebbe aggiungere per farla perfetta? E se qualcuno dirà di aggiungere la natura del bene – ed è questa certo la mia teoria –, chiederemo che però non come causa, ma come attributo . S’è detto spesso che la vita perfetta, vera e reale esiste in questa natura intellettuale, che le altre vite sono imperfette ed immagini della vita perfetta e non già la vita nella sua pienezza e purezza, e che piuttosto sono il contrario della vita; ed ora, riassumendo, diciamo che, derivando tutti gli esseri viventi da un principio unico e non possedendo la vita a uno stesso grado, è necessario che questo principio sia la vita prima e perfettissima.

 - Plotino (Licopoli, Egitto, 205 - Minturno 270) scrisse i trattati che compongono le Enneadi in diversi periodi: tra il 253 e il 263 compose 21 trattati; tra il 263 e il 267 ne compose altri 24; 5 trattati li inviò al discepolo Porfirio durante la sua assenza in Sicilia e infine scrisse gli ultimi 4 poco prima della sua morte. Il testo riportato è tratto da: Plotino, Enneadi, a cura di G. Faggin, Rusconi, Milano 1992, pp. 95-100.

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P, Enneadi cHi siamo ver amente? Plotino non ritiene di dire nulla di nuovo nel sostenere che non siamo quello che sembriamo: esseri viventi appartenenti al ciclo della natura. ritiene di interpretare una sapienza antica, che risale a Platone e può essere compresa a fondo con gli apporti dell’aristotelismo, dello stoicismo e di altre tradizioni greche. non siamo interamente nello spazio e nel tempo. una parte di noi non ha mai abbandonato la piena realtà dell’essere che è alla radice dello spazio e del tempo, ma ne è al di là. Possiamo, dentro di noi, ritrovare la via che ci porta a quella realtà perché non si tratta di uscire fuori di noi e accedere a un mondo diverso: questo mondo è ancora in noi. dobbiamo rientrare in noi stessi per capire chi veramente siamo.

I nostri discorsi non hanno nulla di nuovo e non sono di oggi; anzi, sono stati fatti già molto tempo fa, anche se non sono stati sviluppati, e i nostri discorsi di oggi non sono altro che interpretazioni di quegli antichi discorsi; sono gli scritti dello stesso Platone ad attestarci l’antichità di queste teorie (V 1, 8, 10-14). Spesso ridestandomi dal mio corpo a me stesso, eccomi diventato estraneo a tutto il resto e intimo solo a me stesso, contemplo allora una bellezza meravigliosa e sono sicuro di appartenere in sommo grado al mondo superiore; ho vissuto la più nobile forma di vita, sono diventato identico al divino, mi sono basato sul suo fondamento, sono pervenuto a quella suprema forma di attività e mi sono stabilito al di sopra di ogni altra realtà spirituale; quando, dopo questa quiete in seno al divino, ricado dall’Intelletto al ragionamento, mi domando come abbia potuto mai, e ora di nuovo, scendere così, come la mia anima abbia potuto entrare all’interno di un corpo se già quando si trova all’interno di un corpo è quale ella mi è apparsa (IV 8, 1, 1-11). E se devo avere il coraggio di dire più chiaramente ciò che mi sembra giusto contro l’opinione altrui, neanche la nostra anima si è inabissata tutta quanta nel sensibile: vi è qualcosa di essa, invece, che dimora eternamente nel mondo spirituale (IV 8, 8, 1-3). Se custodiamo dentro di noi cose così preziose, perché non ne abbiamo coscienza, perché restiamo la maggior parte del tempo senza esercitare queste attività superiori? Perché certi uomini non le esercitano mai? (V 1, 12, 1-3).

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Il fatto è che tutto ciò che si trova nell’anima non è per questo cosciente e giunge a “noi” solo nel momento in cui perviene alla coscienza. Se un’attività dell’anima si esercita senza trasmettere nulla alla coscienza, quell’attività non perviene all’anima nella sua totalità. Ne consegue dunque che “noi” non sappiamo nulla di quell’attività, in quanto “noi” siamo vincolati alla coscienza, e che “noi” non siamo una parte dell’anima, ma l’anima nella sua totalità (V 1, 12, 5-8). Ma noi... Chi “noi”? Siamo la parte dell’anima che dimora sempre nello Spirito oppure siamo ciò che si è aggiunto ad essa ed è soggetto al divenire del tempo? Non dobbiamo forse dire che prima che si producesse la nascita attuale noi eravamo, nel mondo trascendente, altri uomini – alcuni di noi, addirittura, dèi –, eravamo anime pure, eravamo Spirito, congiunti alla totalità dell’essere, parti del mondo spirituale, senza separazione, senza divisione: facevamo parte del Tutto (e ancora oggi non ne siamo separati). È vero però che adesso a quell’uomo se ne è aggiunto un altro: voleva esistere e avendoci trovati [...] si è attribuito a noi e si è aggiunto all’uomo che eravamo in origine [...] e così siamo diventati due e in più di un caso non siamo più chi eravamo in passato e siamo quello che ci siamo aggiunti in seguito: l’uomo che eravamo smette di agire e in qualche modo di essere presente (VI 4, 14, 16-31). L’attività di lassù esercita la sua influenza su di noi solo quando giunge fino alla parte centrale dell’anima [= la coscienza]. E che? Non siamo anche ciò che si trova a un livello superiore rispetto a questa parte centrale? Sì, ma dobbiamo averne coscienza. Perché noi non facciamo sempre uso di ciò che possediamo, ma solo quando orientiamo la parte centrale dell’anima o verso l’alto o nella direzione opposta, o quando facciamo passare al l’atto ciò che esisteva in noi solo allo stato di potenza o di attitudine (I 1, 11, 2-8). Dobbiamo smettere di guardare; dobbiamo, chiudendo gli occhi, sostituire questa maniera di vedere con un’altra e risvegliare quella facoltà che tutti possiedono, ma che pochi usano (I 6, 8, 25-27). Sembra proprio che la coscienza esista e si realizzi quando l’attività dello Spirito si rifrange e anche quando l’attività del pensiero che si esercita al livello della vita propria dell’anima [= la ragione discorsiva] rimbalza in qualche modo, come accade in uno specchio sulla superficie levigata e nitida, se questa è immobile. Ora, come in tutti i casi di riflessione, l’immagine si produce qualora sia presente lo specchio; ma se lo specchio non c’è ovvero non è nella condizione atta a riflettere le immagini, è comunque presente in atto ciò di cui avrebbe potuto esserci l’immagine; allo stesso modo, nell’anima, se ciò che esiste in noi è analogo allo specchio [cioè la coscienza], se ciò in cui compaiono i riflessi della ragione e dello Spirito non è turbato, vi si

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possono vedere e riconoscere i riflessi attraverso una sorta di percezione, sapendo in anticipo che si tratta dell’attività della ragione discorsiva e dello Spirito. Ma se la coscienza è simile a uno specchio rotto perché l’armonia fisica è turbata, ragione discorsiva e Spirito esercitano la loro attività senza riflesso e vi è allora un’attività dello Spirito priva di rappresentazione immaginativa (phantasia) (I 4, 10, 6-18).

 - Plotino (Licopoli, Egitto, 205 - Minturno 270) scrisse i trattati che compongono le Enneadi in diversi periodi: tra il 253 e il 263 compose 21 trattati; tra il 263 e il 267 ne compose altri 24; 5 trattati li inviò al discepolo Porfirio durante la sua assenza in Sicilia e infine scrisse gli ultimi 4 poco prima della sua morte. Il testo riportato è tratto da: Plotino, Enneadi, passi scelti a cura di M. Trombino, in Plotino e il neoplatonismo, Il Giardino dei Pensieri, www.ilgiardinodeipensieri.eu

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A, Confessioni cHe cos’è e PercHé esiste il male? agostino ha posto la domanda di cui sopra, ma un lungo percorso di ricerca, che nelle 'SRJIWWMSRM è descritto come molto travagliato, lo ha portato a ritenere che il male non esiste affatto, nel senso che quello che chiamiamo “male” è il limite dell’essere: tutto quello che esiste – che ha essere – è bene, ma viviamo in un universo finito, ne abbiamo una conoscenza molto limitata e interpretiamo come male soltanto quello che in realtà è la necessaria limitazione delle cose.

[Origine del male] Ma anch’io ormai sostenevo e credevo fermamente la tua intangibilità, inalterabilità e immutabilità totale, Dio nostro, Dio vero, creatore non solo delle nostre anime ma altresì dei nostri corpi, né soltanto delle nostre anime e corpi, ma di tutti gli esseri e di tutte le cose. Non mi era invece chiara e palese l’origine del male [...]. Mi chiedevo: «Chi mi ha creato? Il mio Dio, vero? che non è soltanto buono, ma la bontà in persona. Da chi mi viene dunque il consenso che dò al male e il rifiuto che oppongo al bene? Accade così per farmi scontare giusti castighi? Ma chi ha piantato e innestato in me questo, virgulto d’infelicità, se sono integralmente opera del mio dolcissimo Dio? E se fossi creatura del diavolo, donde viene a sua volta il diavolo? [...]».

[L’esistenza del male e la bontà di Dio] Dicevo: «Ecco Dio, ed ecco le creature di Dio. Dio è buono, potentissimamente e larghissimamente superiore ad esse. Ma in quanto buono creò cose buone e così le avvolge e riempie. Allora dov’è il male, da dove e per dove è penetrato qui dentro? Qual è la sua radice, quale il suo seme? O forse non esiste affatto? Perché allora temere ed evitare una cosa inesistente? Se lo temiamo senza ragione, è certamente male il nostro stesso timore, che punge e tormenta invano il nostro cuore, e un male tanto più grave, in quanto non c’è nulla da temere, eppure noi temiamo. Quindi o esiste un male oggetto del nostro timore, o il male è il nostro stesso timore. Ma da dove proviene il male, se Dio ha fatto, lui buono, buone tutte queste cose? Certamente egli è un bene più grande, il sommo bene, e meno buone sono le cose che fece; tuttavia e creatore e creature tutto è bene. Da dove viene dunque il male? Forse da dove le fece, perché nella materia c’era del male, e Dio nel darle una forma, un ordine, vi lasciò qualche parte che non mutò in bene? Ma anche questo, perché? Era forse impotente l’onnipotente a convertirla la filosofia tardo antica

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e trasformarla tutta, in modo che non vi rimanesse nulla di male? Infine, perché volle trarne qualcosa e non impiegò piuttosto la sua onnipotenza per annientarla del tutto? O forse la materia poteva esistere contro il suo volere? O, se la materia era eterna, perché la lasciò sussistere in questo stato così a lungo, attraverso gli spazi su su infiniti dei tempi, e dopo tanto decise di trarne qualcosa? O ancora, se gli venne un desiderio improvviso di agire, perché con la sua onnipotenza non agì piuttosto nel senso di annientare la materia e rimanere lui solo, bene integralmente vero, sommo, infinito? O, se non era ben fatto che chi era buono non edificasse, anche, qualcosa di buono, non avrebbe dovuto eliminare e annientare la materia cattiva, per istituirne da capo una buona, da cui trarre ogni cosa? Quale onnipotenza infatti era la sua, se non poteva creare alcun bene senza l’aiuto di una materia non creata da lui?». [...]

[Luci e ombre nei trattati neoplatonici] Anzitutto volesti mostrarmi come tu resista ai superbi, mentre agli umili accordi favore; e con quanta misericordia tu abbia indicato agli uomini la via dell’umiltà, dal momento che il tuo Verbo si è fatto carne e abitò in mezzo agli uomini. Per il tramite dunque di un uomo gonfio d’orgoglio smisurato mi provvedesti alcuni libri dei filosofi platonici tradotti dal greco in latino. Vi trovai scritto, se non con le stesse parole, con senso assolutamente uguale e col sostegno di molte e svariate ragioni, che al principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio; egli era al principio presso Dio, tutto fu fatto per mezzo suo e senza di lui nulla fu fatto; ciò che fu fatto è vita in lui, e la vita era la luce degli uomini, e la luce nelle tenebre, e le tenebre non la compresero; poi, che l’anima dell’uomo, sebbene renda testimonianza del lume, non è tuttavia essa il lume, ma il Verbo, Dio, è il lume vero, il quale illumina ogni uomo che viene in questo mondo; e che era in questo mondo, e il mondo fu fatto per mezzo suo, e il mondo non lo conobbe. Che però egli venne a casa sua senza che i suoi lo accogliessero, ma a quanti lo accolsero diede il potere di divenire figli di Dio, poiché credettero nel suo nome, non trovai scritto in quei libri. [...]

[La luce della verità nell’uomo interiore] Ammonito da quegli scritti a tornare in me stesso, entrai nell’intimo del mio cuore sotto la tua guida; e lo potei, perché divenisti il mio soccorritore. Vi entrai e scorsi con l’occhio della mia anima, per quanto torbido fosse, sopra l’occhio medesimo della mia anima, sopra la mia intelligenza, una luce immutabile. Non questa luce comune, visibile a ogni carne, né della stessa specie ma di potenza superiore, quale sarebbe la luce comune se splendesse molto, molto più splendida e penetrasse con la sua grandezza l’universo. Non così era quella, ma cosa diversa, molto diversa da tutte le luci di questa

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terra. Neppure sovrastava la mia intelligenza al modo che l’olio sovrasta l’acqua, e il cielo la terra, bensì era più in alto di me, poiché fu lei a crearmi, e io più in basso, poiché fui da lei creato. Chi conosce la verità, la conosce, e chi la conosce, conosce l’eternità. [...] Chiesi: «La verità è dunque un nulla, poiché non si estende nello spazio sia finito sia infinito?»; e tu mi gridasti da lontano: «Anzi, io sono colui che sono». Queste parole udii con l’udito del cuore. Ora non avevo più motivo di dubitare. Mi sarebbe stato più facile dubitare della mia esistenza, che dell’esistenza della verità, la quale si scorge comprendendola attraverso il creato.

[Bontà ed esistenza delle cose] Mi si rivelò anche nettamente la bontà delle cose corruttibili, che non potrebbero corrompersi né se fossero beni sommi, né se non fossero beni. Essendo beni sommi, sarebbero incorruttibili; essendo nessun bene, non avrebbero nulla in se stesse di corruttibile. La corruzione è infatti un danno, ma non vi è danno senza una diminuzione di bene. Dunque o la corruzione non è danno, il che non può essere, o, com’è invece certissimo, tutte le cose che si corrompono subiscono una privazione di bene. Private però di tutto il bene non esisteranno del tutto. Infatti, se sussisteranno senza potersi più corrompere, saranno migliori di prima, permanendo senza corruzione; ma può esservi asserzione più mostruosa di questa, che una cosa è divenuta migliore dopo la perdita di tutto il bene? Dunque, private di tutto il bene, non esisteranno del tutto; dunque, finché sono, sono bene. Dunque tutto ciò che esiste è bene, e il male, di cui cercavo l’origine, non è una sostanza.

 - Aurelio Agostino (Tagaste 354 - Ippona 430) scrisse i 13 libri che compongono le Confessiones (Confessioni) nel 397-401. Il testo riportato è tratto da: Agostino, Confessioni, libro settimo (Verso la verità), www.augustinus.it

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A, Confessioni cHe cosa signiFica Quello cHe dice la tr adizione biblica , cHe dio Ha creato il cielo e la terr a? la nozione di creazione presenta molti problemi di fronte all’analisi razionale e agostino non si sottrae al confronto razionale, anzi lo cerca. la particolarità del suo approccio da filosofo alle verità del cristianesimo consiste proprio nell’uso delle risorse della tradizione filosofica dell’occidente (essenzialmente della filosofia greca, quindi) per la comprensione di verità che la tradizione biblica presenta con un linguaggio e un apparato concettuale molto diversi. innanzitutto il quando. il tempo non può che essere creatura esso stesso, altrimenti dovremmo concepire dio medesimo soggetto al tempo; dunque dio ha creato il tempo nell’eternità: ma che cosa significa questa frase? che il tempo c’è sempre stato non ha senso, altrimenti non sarebbe stato creato. in secondo luogo la parola creatrice di dio ha tratto le cose dal nulla. ma il nulla non esiste, la filosofia greca è concorde nel mantenere ferma la tesi parmenidea della impossibilità che l’essere si generi dal nulla. dunque la creazione va concepita concettualmente in modo molto diverso dalla generazione. in che modo?

[Ricorso a Dio per comprendere le Scritture] Fammi udire e capire come in principio creasti il cielo e la terra. Così scrisse Mosè, così scrisse, per poi andarsene, per passare da questo mondo, da te a te. Ora non mi sta innanzi. Se così fosse, lo tratterrei, lo pregherei, lo scongiurerei nel tuo nome di spiegarmi queste parole, presterei le orecchie del mio corpo ai suoni sgorganti dalla sua bocca. [...]

[Esistenza e creazione del mondo] Ecco che il cielo e la terra esistono, proclamano con i loro mutamenti e variazioni la propria creazione. Ma tutto ciò che non è stato creato e tuttavia esiste, nulla ha in sé che non esistesse anche prima, poiché questo sarebbe un mutamento e una variazione. Ancora proclamano di non essersi creati da sé: «Esistiamo, per essere stati creati. Dunque non esistevamo prima di esistere, per poterci creare da noi». La voce con cui parlano è la loro stessa evidenza. Tu dunque, Signore, li creasti, tu che sei bello, poiché sono belli; che sei buono, poiché sono buoni; che sei, poiché sono. Non sono così belli, né sono così buoni, né sono così come tu, loro creatore, al cui confronto non

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sono belli, né son buoni, né sono. Lo sappiamo, e ne siano rese grazie a te, sebbene il nostro sapere paragonato al tuo sia un ignorare.

[Attività umana e creazione divina] Ma come creasti il cielo e la terra? quale strumento impiegasti per un’operazione così grande? Non ti accadde certamente come a un uomo, che, artista, riproduce in un corpo le forme di un altro corpo seguendo i cenni dello spirito, capace d’imporre entro certi limiti le immagini che vede dentro di sé con l’occhio interiore: e come sarebbe capace di tanto, se non per essere stato creato da te? Lo spirito impone le sue immagini su qualcosa che già esiste e possiede quanto basta per esistere, come la terra o la pietra o il legno o l’oro o qualsiasi altro materiale di tale genere. Ora, fuori dalla tua azione, da dove potrebbero derivare queste materie? [...] Non certo in cielo e in terra creasti il cielo e la terra; nemmeno nell’aria o nell’acqua, che pure appartengono al cielo e alla terra. Nemmeno creasti l’universo nell’universo, non esistendo lo spazio ove crearlo, prima di crearlo perché esistesse. Né avevi fra mano un elemento da cui trarre cielo e terra: perché da dove lo avresti preso, se non fosse stato creato da te, per crearne altri? ed esiste qualcosa, se non perché esisti tu? Dunque tu parlasti, e le cose furono create; con la tua parola le creasti.

[Parola umana e Verbo divino] Ma come parlasti? Forse così, come uscì la voce dalla nube e disse: «Questo è il Figlio mio diletto»? Fu, quella, una voce che si produsse e svanì, ebbe un principio e una fine; le sue sillabe risuonarono e trapassarono, la seconda dopo la prima, la terza dopo la seconda e così via, ordinatamente, fino all’ultima dopo tutte le altre, e al silenzio dopo l’ultima. Ne risulta chiaramente che venne prodotta dal moto di una cosa creata, ministra temporale della tua verità eterna; e queste tue parole formate temporaneamente furono trasmesse dall’orecchio esteriore alla ragione intelligente, il cui orecchio interiore è accostato alla tua parola eterna. Ma la ragione, confrontando queste parole risuonate nel tempo, con la tua parola silenziosa nell’eternità, disse: «È cosa assai diversa, assai diversa. Queste parole sono assai più in basso di me, anzi neppure sono, poiché fuggono e passano. La parola del mio Dio invece permane sopra di me eternamente». [...]

[Eternità del Verbo] Così ci chiami a comprendere il Verbo, Dio presso te Dio, proclamato per tutta l’eternità e con cui tutte le cose sono proclamate per tutta l’eternità. In esso non finiscono i suoni pronunciati, né altri se ne pronunciano perché tutti possano essere pronunciati, ma tutti insieme ed eternamente sono pronunciati. In caso diverso vi si troverebbe già il tempo, e mutamenti,

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e non vi sarebbe vera eternità né vera immortalità. [...] Nulla dunque nella tua parola scompare o appare, poiché davvero è immortale ed eterna. Con questa parola coeterna con te enunci tutto assieme e per tutta l’eternità ciò che dici, e si crea tutto ciò di cui enunci la creazione. Non in altro modo, se non con la parola, tu crei; ma non per questo si creano tutte assieme e per tutta l’eternità le cose che con la parola crei. [...]

[Esistenza di Dio prima di tutti i tempi] Allora mi stabilizzerò e consoliderò in te nella mia forma, la tua verità. Non subirò più le domande di chi, per una malattia condannabile desideroso di bere più di quanto non comprenda, chiede: «Cosa faceva Dio prima di fare il cielo e la terra?», oppure: «Come gli venne l’idea di fare qualcosa, mentre prima non aveva fatto mai nulla?». Concedi loro, Signore, di riflettere bene a come parlano, e di scoprire che non si parla di un mai là dove non esiste tempo. Dire: «Non aveva fatto mai nulla», non equivale forse a dire che non aveva fatto nulla in nessun tempo? Comprendano quindi che non esiste alcun tempo senza creato, e cessino di dire vanità come queste. Volgano la loro attenzione anche verso le cose che stanno innanzi, e capiscano che tu sei prima di tutti i tempi, eterno creatore di tutti i tempi; che nessun tempo è coeterno con te, come anche nessuna creatura, sebbene ve ne siano di superiori al tempo.

 - Aurelio Agostino (Tagaste 354 - Ippona 430) scrisse i 13 libri che compongono le Confessiones (Confessioni) nel 397-401. Il testo riportato è tratto da: Agostino, Confessioni, libro undicesimo (Meditazione sul primo versetto della Genesi: “In principio Dio creò...”), www.augustinus.it

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A, Confessioni cHe cos’è il temPo? agostino non è il primo filosofo che pone questa domanda. la riflessione sulla temporalità delle cose è antica quanto la filosofia stessa, essendo questo tema esplicitamente presente già con eraclito, e la riflessione sulla esistenza di realtà al di fuori del tempo, e sulla logica del tempo e la legge che lo governa, hanno dominato la filosofia classica ed ellenistica. è anche comparso, ma incidentalmente, il problema della identità del tempo (la risposta alla domanda: che cos’è?), per esempio in aristotele. agostino non è quindi il primo filosofo che ne tratta, ed è portato a disquisirne non da considerazioni di tipo fisico o metafisico, ma dalla necessità di comprendere con l’intelligenza (utilizzando l’apparato di concetti della filosofia greca) la nozione biblica di creazione.

[Un’obiezione] Non sono forse pieni della loro vecchiezza quanti ci dicono: «Cosa faceva Dio prima di fare il cielo e la terra? Se infatti, continuano, stava ozioso senza operare, perché anche dopo non rimase sempre nello stato primitivo, sempre astenendosi dall’operare? Se si sviluppò davvero in Dio un impulso e una volontà nuova di stabilire una creazione che prima non aveva mai stabilito, sarebbe ancora un’eternità vera quella in cui nasce una volontà prima inesistente? La volontà di Dio non è una creatura, bensì anteriore a ogni creatura, perché nulla si creerebbe senza la volontà preesistente di un creatore. Dunque la volontà di Dio è una cosa sola con la sua sostanza. E se nella sostanza di Dio qualcosa sorse che prima non v’era, quella sostanza viene chiamata erroneamente eterna. Che se poi era volontà eterna di Dio che esistesse la creatura, come non sarebbe eterna anche la creatura?». [...]

[Il concetto di tempo] Cos’è il tempo? Chi saprebbe spiegarlo in forma piana e breve? Chi saprebbe formarsene anche solo il concetto nella mente, per poi esprimerlo a parole? Eppure, quale parola più familiare e nota del tempo ritorna nelle nostre conversazioni? Quando siamo noi a parlarne, certo intendiamo, e intendiamo anche quando ne udiamo parlare altri. Cos’è dunque il tempo? Se nessuno m’interroga, lo so; se volessi spiegarlo a chi m’interroga, non lo so. Questo però posso dire con fiducia di sapere: senza nulla che passi, non esisterebbe un tempo passato; senza nulla che venga, non esisterebbe un

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tempo futuro; senza nulla che esista, non esisterebbe un tempo presente. Due, dunque, di questi tempi, il passato e il futuro, come esistono, dal momento che il primo non è più, il secondo non è ancora? E quanto al presente, se fosse sempre presente, senza tradursi in passato, non sarebbe più tempo, ma eternità. Se dunque il presente, per essere tempo, deve tradursi in passato, come possiamo dire anche di esso che esiste, se la ragione per cui esiste è che non esisterà? Quindi non possiamo parlare con verità di esistenza del tempo, se non in quanto tende a non esistere. [...]

[La durata del passato e del futuro] Eppure parliamo di tempi lunghi e tempi brevi riferendoci soltanto al passato o al futuro. Un tempo passato si chiama lungo se è, ad esempio, di cento anni prima; e così uno futuro è lungo se è di cento anni dopo; breve poi è il passato quando è, supponi, di dieci giorni prima, e breve il futuro di dieci giorni dopo. Ma come può essere lungo o breve ciò che non è? Il passato non è più, il futuro non è ancora. Dunque non dovremmo dire di un tempo che è lungo, ma dovremmo dire del passato che fu lungo, del futuro che sarà lungo. Signore mio, luce mia, la tua verità non deriderà l’uomo anche qui? Perché, questo tempo passato, che fu lungo, lo fu quando era già passato, o quando era ancora presente? Poteva essere lungo solo nel momento in cui era una cosa che potesse essere lunga. Una volta passato, non era più, e dunque non poteva nemmeno essere lungo, perché non era affatto. Quindi non dovremmo dire del tempo passato che fu lungo: poiché non troveremo nulla, che sia stato lungo, dal momento che non è, in quanto è passato. [...]

[La durata del presente] Consideriamo dunque, anima umana, essendoti dato di percepire e misurare le more del tempo, se il tempo presente può essere lungo. Che mi risponderai? Cento anni presenti sono un tempo lungo? Considera prima se possano essere presenti cento anni. Se è in corso il primo di questi cento anni, esso è presente, ma gli altri novantanove sono futuri, quindi non sono ancora. Se invece è in corso il secondo anno, il primo è ormai passato, il secondo presente, tutti gli altri futuri. Così per qualsiasi anno intermedio nel numero dei cento, che si supponga presente: gli anteriori saranno passati, i posteriori futuri. Perciò cento anni non potranno essere tutti presenti. Considera ora se almeno quell’unico che è in corso sia presente. Se è in corso il primo dei suoi mesi, tutti gli altri sono futuri; se il secondo, il primo è ormai passato, gli altri non sono ancora. Dunque neppure l’anno in corso è presente tutto, e se non è presente tutto, un anno non è presente, perché un anno si compone di dodici mesi, e ciascuno di essi, qualunque sia, è presente quando è in corso, mentre tutti gli altri sono passati o futuri. Ma poi, neppure il mese in corso è presente: è presente un giorno

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solo, e se il primo, tutti gli altri sono futuri; se l’ultimo, tutti gli altri sono passati; se uno qualunque degli intermedi, sta fra giorni passati e futuri. Ecco cos’è il tempo presente, l’unico che trovavamo possibile chiamare lungo: ridotto stentatamente alla durata di un giorno solo. Ma scrutiamo per bene anche questo giorno, perché neppure un giorno solo è presente tutto. Le ore della notte e del giorno assommano complessivamente a ventiquattro. Per la prima di esse tutte le altre sono future, per l’ultima passate, per qualunque delle intermedie passate le precedenti, future le seguenti. Ma quest’unica ora si svolge essa stessa attraverso fugaci particelle: quanto ne volò via, è passato; quanto le resta, futuro. Solo se si concepisce un periodo di tempo che non sia più possibile suddividere in parti anche minutissime di momenti, lo si può dire presente. Ma esso trapassa così furtivamente dal futuro al passato, che non ha una pur minima durata. Qualunque durata avesse, diventerebbe divisibile in passato e futuro; ma il presente non ha nessuna estensione.

[La misurazione del tempo] Eppure, Signore, noi percepiamo gli intervalli del tempo, li confrontiamo tra loro, definiamo questi più lunghi, quelli più brevi, misuriamo addirittura quanto l’uno è più lungo o più breve di un altro, rispondendo che questo è doppio o triplo, quello è semplice, oppure questo è lungo quanto quello. Ma si fa tale misurazione durante il passaggio del tempo; essa è legata a una nostra percezione. I tempi passati invece, ormai inesistenti, o i futuri, non ancora esistenti, chi può misurarli? Forse chi osasse dire di poter misurare l’inesistente. Insomma, il tempo può essere percepito e misurato al suo passare; passato, non può, perché non è.

 - Aurelio Agostino (Tagaste 354 - Ippona 430) scrisse i 13 libri che compongono le Confessiones (Confessioni) nel 397-401. Il testo riportato è tratto da: Agostino, Confessioni, libro undicesimo (Meditazione sul primo versetto della Genesi: “In principio Dio creò...”), www.augustinus.it

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A, Soliloqui dove dobbiamo cercare, se dav vero vogliamo trovare la verità? agostino ha scritto diversi dialoghi, seguendo in questo l’antica tradizione platonica. ma rispetto a Platone, e in genere alla tradizione dialettica, ha introdotto alcune particolarità: innanzitutto ha reso più omogenea la sequenza argomentativa; in secondo luogo ha introdotto il dialogo con se stesso, il soliloquio. dialogare con se stessi significa riflettere facendo interagire tutte le proprie facoltà, costruendo dentro di sé una sorta di scena teatrale in cui tutte le componenti della persona si confrontano. è quindi molto importante quale aspetto della personalità – e quale facoltà della mente – sostenga una certa tesi. nel brano che stiamo per leggere è la “ragione” a sostenere, di fronte a un “agostino” che al di là della sua ragione non sembra avere molte frecce al suo arco, che la verità non può essere cercata nel mondo. la ragione di agostino è dunque tutta dalla parte di Platone. la ricerca razionale di dio di un uomo che si accosta al cristianesimo da uomo di fede ma anche, e parallelamente, da filosofo, non può dunque restare al cosmo sensibile. le prospettive materialiste degli epicurei, quelle immanentiste degli stoici, e anche quelle neoplatoniche (almeno su questo punto, mentre su altri agostino è un buon lettore dei testi neoplatonici) vengono abbandonate. è la filosofia dualista di Platone la via regia per la ricerca della verità. ma, come in Platone, un riflesso del mondo superiore deve essere manifesto in questo.

R – Anzitutto dunque esaminiamo quest’asserto: verità e vero sono due parole distinte; ti pare che queste parole significhino due realtà distinte o una sola? A – Due, a quanto mi sembra. Infatti come altro è castità, altro è casto e molti altri casi in questa maniera. Ritengo pertanto che altro è la verità e altro è ciò che si dice vero. R – Quale di questi pensi che sia più importante? A – La verità, io penso. Infatti non è l’essere casto che fa la castità, ma la castità che fa l’essere casto. Parimenti quando una cosa è vera, lo è in forza della verità. R – E quando muore una persona casta, pensi che muoia anche la castità?

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A – Per nulla. R – Dunque quando perisce qualcosa ch’è vero, non per questo perisce la verità. A – Ma come può perire qualcosa di vero? Non lo capisco. R – Mi stupisco di questa tua domanda: non vediamo forse perire sotto i nostri occhi migliaia di cose? A meno che tu non ritenga che quest’albero o sia un albero, ma non vero, oppure che non possa venire meno in nessun caso. E quand’anche tu non credessi alla testimonianza dei sensi ed anche se tu potessi rispondermi di ignorare affatto se è un albero, non potrai negare almeno questo, a quanto penso: che è un vero albero, se è un albero. [...] A – Lo ammetto. R – Altra osservazione: l’albero è di natura tale che nasce e muore. Lo ammetti? A – Non posso negarlo. R – Si può dunque concludere che una cosa, che pure è vera, muore. A – Non contraddico. R – E allora? Non ti è forse evidente che, anche se periscono cose vere, la verità non perisce, così come, morto un uomo casto, la castità non muore? A – Anche questo ammetto e attendo con grande ansietà dove vuoi arrivare. R – Allora fai bene attenzione. A – Eccomi. R – Ti sembra vera questa proposizione: Tutto ciò che esiste, è necessariamente in qualche luogo? A – Nulla s’impone maggiormente al mio consenso. R – E ammetti sempre che la verità esiste? A – L’ammetto. R – Dunque è necessario che cerchiamo dove sia. Non è certamente in alcun spazio, a meno che non si ammetta che nello spazio esiste qualcosa che non sia un corpo, oppure si ammetta che la verità è un corpo. A – Respingo entrambe queste affermazioni. R – Allora dove pensi che sia la verità? Poiché ammettiamo la sua esistenza, bisogna ben che sia da qualche parte. A – Se sapessi dov’è, forse non continuerei a cercare. R – Ma puoi sapere almeno dove non è? A – Se mi aiuti a ricordarlo, forse lo potrò. R – Non si trova certo tra le cose mortali. Infatti tutto ciò che esiste non può persistere, se non rimane il soggetto in cui esso è; ora che la verità persista, anche quando periscono delle cose vere, lo abbiamo ammesso

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poco fa; dunque la verità non esiste nelle cose mortali. Però la verità esiste e deve ben esistere da qualche parte. Esistono dunque delle cose immortali. Ora nulla è vero, se non c’è la verità; ne consegue che sono vere solamente le cose immortali. Un albero falso, non è un albero; e un legno falso non è un legno; dell’argento falso non è dell’argento e, per dirla in una sola parola, tutto ciò che è falso, non è. Ebbene tutto ciò che non è vero, è falso. A dire il vero, nulla dunque si può dire che esiste, se non ciò che è immortale. Considera diligentemente tra te e te questo piccolo ragionamento, per vedere se ci sia qualche riserva da fare. Se infatti tu l’approvi, abbiamo quasi esaurito tutto il problema, che forse meglio si chiarirà nel libro seguente. A – Ti ringrazio. Queste idee tra me e me e soprattutto con te esaminerò con diligenza e cautela, quando saremo in silenzio, purché le tenebre non si frappongano e, ciò che io temo fortemente, non mi facciano sperimentare la loro seduzione. R – Credi in Dio con perseveranza e affidati tutto a lui, per quanto puoi. Non voler essere come tuo e pienamente in tuo potere; professati piuttosto schiavo di quel Signore pieno di clemenza e bontà; così egli non cesserà di elevarti a sé e non permetterà che ti accada se non quanto ti può giovare, anche a tua insaputa. A – Ascolto, credo e obbedisco per quanto è in mio potere; inoltre prego molto Dio perché moltiplichi le mie forze. Desideri forse qualcosa d’altro da me? R – Per il momento basta. Farai in seguito, dopo averlo visto, tutto ciò che egli stesso ti comanderà.

 - Agostino (Tagaste 354 - Ippona 430) scrisse i Soliloquia (Soliloqui) nel 387, durante il periodo di ritiro a Cassiciaco presso Milano, subito dopo la conversione. Il testo riportato è tratto da: Agostino, Soliloqui, in Soliloqui e Confessioni, a cura di A. Moda, Utet, Torino 1997, pp. 110-112.

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Indice degli autori Agostino, 159, 162, 165, 168

Melisso, 19

Anassagora, 23

Parmenide, 14

Anassimandro, 2

Pitagorici, 9

Anassimene, 2

Platone, 29, 36, 39, 42, 45, 48, 51, 54, 57, 60, 63, 66, 69, 72, 75, 78

Aristotele, 82, 85, 88, 91, 94, 97, 100, 103, 106 Cicerone, 125

Plotino 144, 147, 150, 153, 156

Democrito, 26

Protagora, 29, 36

Diogene Laerzio, 122

Scettici, 122

Empedocle, 21

Seneca, 128, 131, 134

Epicuro, 110, 113, 116, 119

Senofane, 12

Eraclito, 6

Socrate, 36, 39, 42

Gorgia, 32

Stoici, 140

Leucippo, 26

Talete, 2

Marco Aurelio, 137

Zenone, 16

indice degli autori

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