Pseudo-saggi. (Ri)Scritture tra critica e letteratura 9788862987127

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Pseudo-saggi. (Ri)Scritture tra critica e letteratura
 9788862987127

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Nella stessa collana: Ce rti confini Sulla letteratura italiana dell’im m igrazione a cura di Lucia Quaquarelli

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a cura di Francesco Cattani e Luca Raimondi

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la te ntazione de l rom anzo

Guido Mattia Gallerani

Storie proprio così Il racconto nell’era della narratività totale Donata Meneghelli

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a cura di Giuliana Benvenuti, Sara Colaone, Lucia Quaquarelli

Ete rolinguism o e Chiara Denti

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Michael Cronin, traduzione di Gaia Ballerini e Chiara Denti

Tracciati Collana diretta da Giuliana Benvenuti, Donata Meneghelli e Lucia Quaquarelli

Pseudo-saggi. (Ri)Scritture tra critica e letteratura Guido Mattia Gallerani

Copyright 2019 © Morellini Editore by Enzimi Srls

Via Carlo Farini, 70 20159 Milano www.morellinieditore.it [email protected] facebook.com/morellinieditore instragram.com/morellinieditore

Art director márGo Impaginazione: Silvia Mussini ISBN: 978-88-6298-712-7 Prima edizione: giugno 2019 Stampa: Rotomail S.p.A. – Vignate (Milano) Tutti i diritti sono riservati a norma di legge e a norma delle convenzioni internazionali.

Indice

Avvertenza e ringraziamenti……………………………………………………… 7 Introduzione………………………………………………………………………… 9 1. Dal saggio allo pseudo-saggio ………………………………………………… 17 1.1. Tipologie generali di saggio ………………………………………………… 17 1.2. La relazione e la forma saggistiche: Montaigne…………………………… 21 1.3. La contraddizione storica, ovvero il modello divergente ………………… 29 1.4. La relazione metatestuale: dal saggio critico allo pseudo-saggio………… 40 1.5. Pseudo-saggio: saggio ibrido?………………………………………………… 46 1.6. Dal romanzo-saggio allo pseudo-saggio …………………………………… 60 2. Pseudo-saggi dialogici: maschere del lettore ………………………………… 67 2.1. Il lettore esteta: Oscar Wilde………………………………………………… 67 2.2. Giacomo Debenedetti: i personaggi della critica…………………………… 75 2.3. Marcel Proust: il dialogo interrotto………………………………………… 85 2.4. Pseudo-saggio dialogico: critica e rappresentazione ……………………… 96 3. Pseudo-saggi, quadri e cornici: l’autoritratto………………………………… 99 3.1. Renato Serra: lo specchio lettoriale ………………………………………… 99 3.2. Danubio, Mississippi: cornici d’acqua……………………………………… 108 4. Il saggio romanzesco…………………………………………………………… 123 4.1. La spirale di Jean-Paul Sartre: totalizzazione di Flaubert ………………… 123 4.2. La critica trans-finzionale: Jean Améry……………………………………… 146 5. Il saggio parallelo: la competizione della riscrittura ………………………… 155 5.1. Indizi di testi fantasma ……………………………………………………… 155

5.2. Roland Barthes, l’intertesto e Sarrasine……………………………………… 165 5.3. Giorgio Manganelli: il commentatore e Pinocchio………………………… 178 6. Pseudo-saggi autobiografici: la cultura letteraria come forma della vita ………………………………… 189 6.1. Pseudo-saggio e non-fiction statunitense…………………………………… 189 6.2. Lo pseudo-saggio autobiografico in Italia…………………………………… 210 Coda: il video essay, ovvero il saggio mediatizzato……………………………… 221 Bibliografia………………………………………………………………………… 231 Pseudo-saggi………………………………………………………………………… 231 Opere citate………………………………………………………………………… 233

Avvertenza e ringraziamenti

Quando le note non indicano il contrario, le traduzioni delle opere letterarie straniere sono mie. Per quanto riguarda i saggi di letteratura secondaria, talvolta ho fatto ricorso a traduzioni italiane. Il presente volume attinge dalle mie ricerche di dottorato e da altre successive. Riprende pertanto alcuni autori e alcune analisi presenti nella tesi discussa all’Università di Firenze nel 2013, sotto la supervisione di Ernestina Pellegrini, benché la struttura, le ipotesi e le conclusioni siano completamente diverse. Altro materiale è stato rielaborato da due articoli, The Hybrid Essay in Europe in the Late Nineteenth and Early Twentieth Century, pubblicato nel numero monografico Narration and Reflection della rivista «Compar(a)ison. An International Journal of Comparative Literature», n. 33, 2015, pp. 109-128, e Libri paralleli: saggi critici e ibridazione narrativa (Barthes, Manganelli, Lavagetto, Deresiewicz), uscito sulla rivista «Ticontre. Teorie Testo Traduzione», n. 5, 2016, pp. 67-88. Altri testi, punti di vista e suggerimenti sono sorti da alcune conferenze e seminari di ricerca, tra cui Hybridization of Critical Essays. Can the Essay and Theory Go Together?, presso l’American Comparative Literature Association, all’Università di Harvard, nel marzo 2016; L’utopie de l’hybridation critique: l’essai américain comme produit de presse, in occasione del seminario L’hybride et la littérature all’Università di Paris-Est Créteil nel marzo 2017, e Hybrid Textuality: the Mediatization of (Two) Metatexts, intervento al seminario Mix and Match. Poéticas do hibridismo all’Università di Aveiro nel novembre 2018. Ringrazio dunque Claude Coste, Vincent Ferré, Irène Langlet, Paulo Pereira, Andy Stafford, Christy Wampole, per i loro suggerimenti e per lo scambio avuto nel corso di queste occasioni. In merito a una riflessione che procede, pur con tante interruzioni, da circa dieci anni, non pos7

Pseudo-saggi

so che dichiarare il mio debito verso altri amici e colleghi sparsi in varie parti del mondo, come Federico Bellini, Mimmo Cangiano, Achille Castaldo, Alberto Comparini, Stefano Ercolino, Marco Gatto, Francesco Giusti, Lorenzo Mari, Beatrice Seligardi. Ringrazio l’amico e collega Riccardo Gasperina Geroni per la sua attenta lettura e le sue preziose osservazioni durante la stesura di questo volume. Il supporto dei miei genitori e la guida intellettuale di Donata Meneghelli hanno consentito ai miei pensieri di trovare questo approdo, sempre in divenire. Elisa Pederzoli ha accolto il mio vasto peregrinare in una nostra comune “casa della vita”.

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Introduzione

Gli pseudobiblia sono libri “presunti, fittizi, immaginari ma che tuttavia esistono, a volte come eredi di lontanissime e più o meno misteriose tradizioni, altre volte come creazione degli scrittori all’interno delle proprie opere”1. Rientrano in questa categoria non solo i libri che sono esistiti e che oggi sono perduti per sempre (ad esempio perché distrutti o censurati), ma anche quelli che potrebbero esistere, e a cui si fa riferimento in altri testi, oppure che vengono annunciati per il futuro e restano, invece, allo stato di progetto2; ancora, sono da classificarsi come pseudobiblia i libri immaginari e finzionali, come quelli evocati nell’espediente del manoscritto ritrovato, e che costituiscono la materia narrativa di altri libri. Due casi sono particolarmente famosi. Il riferimento più antico è quello mitologico del Libro di Thoth, il cui autore sarebbe l’omonimo dio egiziano che ha inventato la scrittura e l’ha trasmessa al genere umano. In campo strettamente letterario, lo pseudobiblion più eclatante è inventato da Howard Phillips Lovecraft con il Necronomicon, che si erge a supporto dei miti che popolano il suo immaginario fantastico e che diviene vero e proprio oggetto di culto, nonché di fantasiose recensioni ed edizioni in più lingue. Nel quadro di questo lavoro, a noi interessa la categoria degli pseudobiblia allorché essa comprende i libri “falsi”. Vediamo di precisarne il senso. Jorge Luis Borges ha fatto invero dei libri stessi, e di alcuni Michele Santoro, Leggere o non leggere (gli pseudobiblia), in «Biblioteche oggi», vol. 31, n. 8, 2013, p. 37. Vedi la ricca bibliografia di Paolo Albani e Paolo Della Bella, Mirabiblia. Catalogo ragionato di libri introvabili, Zanichelli, Bologna 2003. 2 “A ogni svolta del libro, un altro libro, possibile e anche spesso probabile, è stato respinto nel nulla. […] E questi libri dissipati l’uno dopo l’altro, rigettati a milioni nei limbi della letteratura […] questi libri che non hanno visto la luce della scrittura, in un certo modo contano, non sono completamente scomparsi. Per pagine e pagine, per capitoli interi è il loro fantasma che ha trascinato in avanti lo scrittore, e lo ha rimorchiato” (Julien Gracq, Lettrines, Éditions José Corti, Paris 1967, p. 27). 1

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immaginari, i protagonisti di molti suoi testi. L’accostamento ad Almotasim (1936) è costruito attorno a un romanzo inesistente, ma il suo intento non è quello di una creazione narrativa, bensì di una documentata analisi del libro stesso e dei suoi effetti sui lettori. Quando Borges si troverà, nel suo Abbozzo di autobiografia, a commentare quel suo vecchio testo, userà la formula “è uno scherzo e uno pseudo-saggio allo stesso tempo”3. Il prefisso pseudo designa un testo che è un’invenzione a scopo ludico, ma sottoposto a un rigore critico tutt’altro che improvvisato e apparente. Il genere letterario considerato in questo volume preciserà, per pseudo, un significato diverso da quello di un testo fittizio, immaginario o inventato. Gli pseudo-saggi sono scritture saggistiche che commentano testi esistenti, che possono essere anche di natura romanzesca o poetica. Eppure, pur non rinunciando alla responsabilità critica, gli pseudo-saggi sono testi che appaiono falsificando, o meglio camuffando, il saggio critico. Per tale ragione, il primo capitolo si premurerà di indicare i punti in comune tra il genere del saggio e la forma che chiamiamo pseudo-saggio, determinando la possibilità del camuffamento e della trasformazione del saggio critico. Si individuerà così nella relazione critica e metatestuale il nodo nevralgico per comprendere il processo di trasformazione che ci porta dal saggio critico allo pseudo-saggio. Conviene innanzitutto precisare che non si tratta, per lo pseudo-saggio, di una sintesi metaforica condotta al livello del suo nome di genere. Eric Donald Hirsch illustra come per alcuni generi letterari, ad esempio per il poem’s epic di Byron e il genere della tragicommedia, intervenga un meccanismo metaforico nella formazione delle parole che combina due termini diversi per indicare l’apparizione di un nuovo genere4. Si tratta di un’operazione abbastanza diffusa nel discorso teorico letteraJorge Luis Borges, “Abbozzo di autobiografia”, in Id., Elogio dell’ombra, Einaudi, Torino 1998, p. 160. “Finge d’essere la recensione di un libro pubblicato per la prima volta a Bombay tre anni prima. Dotai la falsa seconda edizione di un editore vero, Victor Gollancz, e di una prefazione fatta da uno scrittore vero, Dorothy L. Sayers. Ma tanto l’autore che il libro sono interamente di mia invenzione. […] Forse non ho reso giustizia a quel brano; ora mi sembra che abbia presagito e sia perfino servito da modello per gli altri racconti che in un certo modo mi attendevano, e sui quali si basa la mia fama di scrittore di racconti” (ivi, pp. 160-161). 4 Eric Donald Hirsch, Validity in Interpretation, Yale University Press, New Haven 1967, p. 76. Si veda anche David Fishelov, Metaphors of Genre. The Role of Analogies in Genre Theory, Pennsylvania State University Press, University Park (PA) 1993. 3

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Introduzione

rio e forse non solo in quello, se il nuovo può essere definito solo ricorrendo a ciò che già si riconosce5, quando ci si trova nella necessità di dare un nome a oggetti nuovi e diversi dai precedenti. Se tali definizioni illustrano, già a livello del nome, il procedimento di ibridazione (più precisamente, di contaminazione generica) tra diversi generi letterari6, come risulta evidente ad esempio nel nome generico di romanzo-saggio7, quello di pseudo-saggio si smarca dall’indicare un’uguale sintesi di generi preesistenti. Lo pseudo-saggio rappresenta una possibilità formale che tanto la storia quanto la teoria letterarie hanno reso possibile per la scrittura saggistica. Il saggio è un genere contraddittorio: al pari degli altri generi, il suo sviluppo storico può essere chiarito attraverso i modelli, i prestiti e le evoluzioni nel tempo letterario e nel rapporto tra le diverse tradizioni linguistiche; ma questa stessa storia ci restituisce un modello generale di saggio in cui le possibilità formali non cambiano, non si sostituiscono a vicenda nel corso del tempo, ma restano sempre compresenti. Ciò avviene perché il saggio è il genere della nostra memoria letteraria e culturale. Il saggio costituisce la scrittura intellettuale che interroga lo statuto di ogni forma, di ogni disciplina, di ogni ideologia, perché riconduce la teoria e la storia ad altrettante rappresentazioni, ad altrettante forme di scrittura. Per questo una teoria complessiva del saggio non può darsi se non nella storia della sua funzione teorico-letteraria, nel campo della scrittura, in quanto modalità estrema del meta-discorso, in quanto attività intellettuale che ragiona sulla scrittura tramite la scrittura. Pertanto lo pseudo-saggio rappresenta a propria volta una forma dell’autoriflessione della scrittura saggistica: in particolare, come forma letteraria dei limiti che esso riconosce alla scrittura critica, e non come soluzione metodologica a questi; come iscrizione in un testo letterario della loro crisi immanente, e non del loro superamento prossimo in una nuova filosofia. 5

“Il discorso moderno è ‘catacretico’, perché, da un lato, produce un effetto continuo di metaforizzazione, ma dall’altro, non ha nessun altra possibilità di dire la cosa se non attraverso la metafora” (Roland Barthes, Prétexte: Roland Barthes – Colloque de Cerisy 1977, a cura di Antoine Compagnon, Christian Bourgois, Paris 2003, p. 489). 6 L’ibridazione nel nome è particolarmente evidente nei temi e nei personaggi della letteratura fantastica. William Schnabel conia l’espressione hybridité d’associations per definire la creazione di un sintagma ossimorico che coniuga due aspetti naturali diversi o addirittura agli antipodi (es. morti-viventi). Vedi William Schnabel (a cura di), L’hybride, «Les cahiers du Gerf», n. 7, 2000, p. 9. 7 Stefano Ercolino, Il romanzo-saggio, 1884-1947, Bompiani, Milano 2017.

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Pseudo-saggi

Pertanto, nel primo capitolo, si tratterà di individuare lo pseudo-saggio come forma intanto possibile8 del saggio critico, elaborando quel modello ipotetico e ideale9 che la storia e la teoria consentono di prevedere e precisare entro la poetica del saggio. Gli pseudo-saggi saranno innanzitutto saggi truqué, che se sono stati compresi talvolta come imperfezioni10, ora verranno intesi nel loro valore di potenziamento della scrittura critica attraverso il raccordo e la relazione: saggi che guardano ad altre forme per operare il loro travestimento, e che si allontanano dal saggio critico per inseguire un altro rapporto coi testi che dovrebbero commentare, non più ridotto al solo scopo critico-interpretativo. Bisognerà allora intendere questo prefisso pseudo- come l’indicatore di un cambiamento di tono, di registro: un quasi apposto al genere del saggio critico, che servirà soprattutto a dichiararne la natura falsificatoria, la forma di smarcamento. Nello pseudo-saggio assistiamo al travestimento di un genere sotto l’altro come unica manifestazione concessa a una forma altrimenti impossibile, che non si è autonomamente precisata in una sintesi generica definita: le forme del dialogo, dell’autoritratto, dell’autobiografia e della biografia romanzesca saranno le principali dietro cui la scrittura saggistica si sottrae a se stessa come modalità di presentazione ai lettori, ma soltanto per tornare come produzione di un senso della lettura più vasto di quello critico: un senso che può oscillare dall’appercezione estetica alla personalizzazione dei testi, dal riconoscimento ideologico al conformismo culturale. Lo pseudo-saggio è quel saggio che appare potersi leggere come se fosse altro, di volta in volta variamente codificato e immaginato dagli scrittori. Parafrasando Hans Vaihinger, il nesso come se, preludendo grammaticalmente a un’impossibile unione tra i due termini, annuncia 8

“La poetica è deduttiva e non induttiva, come la letteratura comparata; ciò le consente, come la narratologia, di prendere in considerazione non solo i generi reali, ma anche quelli ‘possibili’ che la logica formale le suggerisce” (Dominique Combe, Les genres littéraires, Hachette, Paris 1992, p. 126). 9 “È la procedura che consiste nel ‘produrre’ la nozione di un genere non a partire da una rete di somiglianze esistenti all’interno di un insieme di testi, ma postulando un testo ideale, di cui i testi reali non sarebbero che i derivati più o meno conformi, proprio come secondo Platone gli oggetti empirici sono solo copie imperfette delle Idee eterne” (Jean-Marie Schaeffer, “Du texte au genre. Notes sur la problématique générique”, in Gérard Genette et al., Théorie des genres, Seuil, Paris 1986, p. 190). 10 Bruno Berger annuncia il rischio dello Pseudo-Essay allorché il saggista non ha la conoscenza completa del proprio oggetto (Bruno Berger, Der Essay. Form und Geschichte, Francke, Bern 1964, p. 178).

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Introduzione

nondimeno una finzione conoscitiva: un’ipotesi sia interpretativa sia formale che mira a uscire dal campo dell’argomentabile e del probabile, per stagliarsi come verità. Anche lo pseudo-saggio è da intendersi come una conscious falsehood introduced for a particular purpose11. Non è insomma il simbolo di un’equivalenza: un saggio che si annuncia come se fosse un romanzo non annuncia nient’altro che tale intenzione. Non è innanzitutto la negazione del saggio o del romanzo. Non è la validazione definitiva della forma del romanzo-saggio o di un saggio-romanzo (i rapporti di forza tra i generi sono gerarchici, e qui non stiamo parlando del potere del romanzo di inglobare altri generi). E non è contemporaneamente l’uno e l’altro. Infine, non è insieme un saggio, un romanzo e qualcos’altro di nuovo e originale. Ma è una forma che, nascondendo sotto un’altra la propria scrittura critica, si presenta ai lettori come se volesse farsi leggere come l’una e l’altra. Per questo, dal punto di vista metodologico, verrà data molta importanza al materiale paratestuale (titoli, introduzioni, altri peritesti e gli epitesti pubblici come le interviste agli autori), in quanto forma di negoziazione da parte dello scrittore dei modi futuri con cui il suo pseudo-saggio verrà letto. Questo studio articola le categorie di tale mascheramento partendo dal rapporto della critica letteraria con le forme letterarie. Tali rapporti di nascondimento, svelamento e contrasto che la critica letteraria imbastisce con altre forme di scrittura attraverso lo pseudo-saggio verranno esplicitati lungo cinque capitoli dedicati ad altrettante forme “concorrenti” della saggistica: nel secondo capitolo il dialogo, come strumento con cui il lettore-critico si rappresenta sulla scena sociale; nel terzo capitolo l’autoritratto, che il lettore-critico inscrive dentro la propria lettura dei testi, attingendo a piene mani dai loro materiali e riattivandoli in una relazione con altro materiale biografico ed enciclopedico; nel quarto capitolo il romanzo, in particolare nella creazione di personaggi romanzeschi da parte della critica; nel quinto capitolo la pratica della riscrittura, come commento condotto sopra un testo “fantasma”, mascherato dall’ipotesto; nel sesto, infine, l’au11 Peter Lamarque e Stein H. Olsen, Truth, Fiction, and Literature. A Philosophical Perspective, Clarendon Press, Oxford 1994, p. 186. Gli autori stanno commentando il concetto di “come se” di Hans Vaihinger, La filosofia del “come se”. Sistema delle finzioni scientifiche, etico-pratiche e religiose del genere umano (1922), Ubaldini Editore, Roma 1967.

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tobiografia, come forma con cui la critica letteraria è assorbita nel più ampio processo di personalizzazione della cultura tipico del tardocapitalismo. Bisogna interrogarsi sui motivi dell’esistenza di una forma particolare, all’apparenza straniante, e sul ruolo che vorrebbe giocare nel campo letterario e nel contesto storico-culturale che attraversa. Le categorie formali individuate sono di poetica, ma si accavallano lungo epoche diverse. Benché non si escluda una storia più antica per lo pseudo-saggio, certamente probabile almeno da metà Settecento e dalla nascita del significato corrente di letteratura, gli pseudo-saggi individuati partono sul finire dell’Ottocento per arrivare a oggi, nel periodo in cui si assiste contemporaneamente alla progressione della divisione specialistica dei discorsi e al riconoscimento immancabile della loro crisi in corrispondenza di mutazioni sociali, culturali e tecnologiche globali. Tre diverse ere mediatiche vengono attraversate in questo studio e, nella loro schematica progressione, ovviamente non si sostituiscono a vicenda, ma convivono l’una nell’altra: quella del giornale (sul finire dell’Ottocento e a inizio Novecento), quella dell’audio-visuale (a metà Novecento) e l’attuale era digitale. Le varie tipologie di pseudo-saggio sono suddivise secondo le forme letterarie usate, che possono essere messe in corrispondenza, dapprima, con la comunicazione dialogica, l’articolo giornalistico e il palinsesto radiofonico; poi, con l’autoritratto come esibizione del critico-lettore sulla scena sociale, secondo una qualità spaziale e visiva della scrittura; infine, con l’autobiografia, performata dallo pseudo-saggio come frammento personale estratto dall’archivio della memoria autobiografica, in cui anche i testi letterari andranno sussunti e inclusi. La questione della meta-testualità digitale come possibile contenitore di un saggio “mediatizzato” verrà, però, trattata in una “coda” al nostro studio. Nondimeno, due fenomeni culturali diversi sono riscontrabili attraverso le varie tipologie e le suddivisioni cronologiche: da un lato, nei confronti della specializzazione dei discorsi, una resistenza che trova nello pseudo-saggio una forma concorrente e oppositiva; dall’altro, la ricerca della totalità come soluzione alla scrittura specialistica della critica, benché tale totalità sia – per le caratteristiche dello pseudo-saggio – nient’altro che un camuffamento a livello formale e generico di un testo in divenire, di una totalizzazione che resta un processo di produzione piuttosto che un prodotto oggettivo. 14

Introduzione

Tentando una prima storicizzazione delle categorie formali dello pseudo-saggio, si può indicare come, nell’epoca della crisi che precede la Prima guerra mondiale, la caduta dei ruoli sociali precostituiti per l’individuo coinvolga anche il compito del critico: l’idea della lettura come una pratica individuale e solitaria si scontra con una comunicazione, anche letteraria, che diventa plurale con i media moderni, tra cui i quotidiani e la stampa periodica. Il letterato è interessato a riconoscere come “superficiali” le scritture critiche e le interpretazioni dei testi e degli eventi che vengono ora divulgate sulla scena pubblica, almeno nel caso di Oscar Wilde, di Marcel Proust e di Renato Serra. Due diverse forme dello pseudo-saggio, l’autoritratto e quello dialogico, formalizzano il contenuto ideologico dell’individualismo moderno nei termini di una risposta elitista del critico-lettore di fronte al cambiamento. Parimenti, di fronte a un rinnovamento del pubblico e della sua estensione nel secondo dopoguerra italiano (considerando la metà degli anni Cinquanta come il vero momento in cui nasce una radio culturale ad ampia diffusione), lo pseudo-saggio è l’esplorazione dei modi con cui uscire – parafrasando Stéphane Mallarmé – dall’“aristocrazia della scrittura”. Un testo radiofonico di Giacomo Debenedetti si può scegliere come indicativo della modificazione storica che subisce la categoria dello pseudo-saggio dialogico precedente: non più la maschera dietro cui si nasconde il lettore-critico, ma una vera e propria persona dialogica, che incarna un ruolo sociale e aggiorna le istanze della comunicazione letteraria entro il medium radiofonico. All’altezza degli anni Ottanta e Novanta, nel caso di Claudio Magris ed Édouard Glissant, l’autoritratto intellettuale esplora uno spazio geografico nuovo, dopo la caduta di barriere politiche, culturali e simboliche ereditate dal passato: lo pseudo-saggio si rivolge alle forme dello scritto di viaggio e del reportage, nel tentativo di montare assieme la rappresentazione del presente storico e l’esigenza di reinterpretare i testi del passato, alla luce di una lettura che ripensa nel suo writing back tanto l’enciclopedismo europeo quanto la critica post-coloniale dell’identità culturale. Con Jean-Paul Sartre la totalizzazione diventa una ricerca di scrittura che porta discorsi eterogenei a un livello sia stilistico che concettuale superiore: potrebbe apparire, all’altezza degli anni Settanta, come un ultimo disperato tentativo di tenere assieme teoria e pratica, filosofia e 15

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letteratura. Invece, resta consustanziale a progetti coevi portati avanti da altre scritture, altri pseudo-saggi, che mostrano di voler farsi leggere come se la sintesi tra romanzo e saggio fosse (di nuovo) una soluzione possibile e auspicabile. Piuttosto, la loro messa in tensione appare ben più produttiva sui piani conoscitivo, simbolico e letterario, se è l’eterogeneità discorsiva a essere preservata ed esposta. Quando infatti parleremo di saggio “parallelo”, dovremo cogliere lo sforzo di quello che è definito il “periodo d’oro” della teoria letteraria per concepire una nuova interpretazione del testo, in concomitanza con i movimenti di contestazione del 1968 e con l’affacciarsi, sulla scena pubblica, di nuovi soggetti politici, sociali e culturali che rivendicano – come ebbe a dire Michel de Certeau – la “presa di parola”, il diritto alla propria opinione. Il saggio parallelo è una categoria ugualmente aperta ad accogliere linguaggi diversi. In Roland Barthes e Giorgio Manganelli lo pseudo-saggio rappresenta l’essenza dell’apertura del testo dal lato della critica. In generale, in questo periodo anche lo pseudo-saggio partecipa a un progetto di de-personalizzazione dell’autorità sociale del testo, cioè l’autore, che se certo non giunge all’ipotesi di una collettivizzazione del soggetto-lettore, immagina e realizza a livello formale una lettura critica che si vuole leggere già come (nuova) produzione di scrittura. Terminato, infine, il passaggio a quello che si può definire neo-individualismo, leggeremo alcune opere scritte dal Duemila in poi come pseudo-saggi autobiografici, in cui il critico-lettore resterà solitario sulla scena, sforzandosi di trarre una verità universale dai testi e proponendosi di condividere, chiudendosi in sé, la forma critico-letteraria della propria autobiografia.

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1. Dal saggio allo pseudo-saggio

1.1. Tipologie generali di saggio Considerato persino l’“anti-genere” per eccellenza12, il saggio è stato travolto da svariate definizioni, che non hanno permesso di precisarne l’autonomia rispetto agli altri generi o l’esatta collocazione nel sistema letterario e nelle relative teorizzazioni13. Alcune definizioni, le più fantasiose, sono state quelle che ne hanno fatto un genere bâtard tra filosofia e letteratura14, tra arte e scienza15, e una forma perennemente in transito16, un discorso “caratterizzato dall’informale”17, cioè una forma informe18, 12 “Questo successo moderno della nozione di saggio è dovuto principalmente alla sua solidarietà con un luogo comune del nostro tempo: l’ostilità ai generi. All’interno di una visione di generi letterari come gabbie, retaggi e rovine, il saggio appare (come il romanzo ma quasi meglio di questo, perché non è ancora massificato) come l’anti-genere per eccellenza, soluzione alle aporie classificatorie, forma fondamentalmente disponibile in cui le rappresentazioni moderne della testualità vengono inghiottite” (Marielle Macé, Le temps de l’essai. Histoire d’un genre en France au XXème siècle, Belin, Paris 2006, p. 226). L’idea di anti-genere era già presente in Édouard Morot-Sir, L’essai, ou l’anti-genre dans la littérature française du XXème siècle, in «French Literature Series», n. 9, 1982, pp. 118-132. 13 Per un campionario delle diverse tipologie, che possono giungere fino a venti tipi di saggi differenti, rimando allo studio completo di Irène Langlet, L’abeille et la balance. Penser l’essai, Classiques Garnier, Paris 2016, in particolare al capitolo “Délimitations externes. L’essai parmi les genres”, pp. 64-80, che analizza le letture teoriche del saggio in rapporto ai generi cui è più frequentemente associato, come il trattato, l’articolo, il frammento, lo scritto autobiografico e il dialogo. 14 Claude Brouillette, L’essai: une frivolité littéraire?, in «Études Littéraires», vol. 5, n. 1, 1972, p. 37. 15 Mischprodukt (Theodor W. Adorno, “Der Essay als Form”, trad. it. “Il saggio come forma”, in Note per la letteratura 1943-1961, Einaudi, Torino 1979, p. 6). 16 Übergang (Dieter Bachmann, Essay und Essayismus, Kohlhammer, Stuttgart 1969, p. 10). 17 Jean-Marcel Paquette (alias Jean Marcel), “Prolégomènes à une théorie de l’essai” (1986), in Laurent Mailhot (a cura di), L’essai québécois depuis 1845. Étude et anthologie, Hurtubise HMH, Montréal 2005, p. 242. 18 Formlessness è la formula di Alexander Butrym (a cura di), Essays on the Essay. Redefining the Genre, University of Georgia Press, Athens (GA)-London 1989, p. 2.

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una distopia formale19. Le tante e complesse definizioni di saggio hanno dato luogo ad altrettante tipologie, che vanno da classificazioni condotte in base alla cronologia letteraria, usando ad esempio il discrimine di antico (Michel de Montaigne, Francis Bacon) e moderno, oppure in base al rapporto con le altre forme letterarie, fino ad arrivare a più libere tipologie declinate secondo gli scopi comunicativi o le attività antropologiche. Tra le tipologie che tentano di comprendere la natura del saggio in rapporto agli altri generi, si può citare quella di Robert Scholes e Carl Klaus che, pur individuando un saggio tout court incentrato sull’argomentazione, arrivano a distinguere tipi di saggio a seconda della loro relazione con archi-generi o macrogeneri; avremo così un saggio narrativo, un saggio dialogico e un saggio poetico20. Le classificazioni condotte sulla base degli scopi comunicativi moltiplicano ulteriormente i vari tipi: saggi descrittivi e narrativi, critici, meditativi e ironici21; intellettuali, polemici, poetici, visionari e moralistici22; teorici, pragmatici (orientati cioè verso il pubblico) e stilistici23. Infine, come esempio di concezioni “antropologiche” del saggio, si possono citare le “attività saggistiche” messe in atto da Graham Good, secondo cui il genere si distingue a seconda dell’attitudine mentale e dell’azione prevalente che vi è manifestata: viaggiare, riflettere, leggere, ricordare sono attività che lo studioso associa a relativi oggetti di studio – luoghi, costumi, libri e memorie – che creano il ventaglio delle possibilità formali previste dal saggio, ridotte a tre tipi: morale, critico e autobiografico24. Da tale campionario di poetiche, il saggio appare sempre come un contenitore vuoto, che può essere riempito di volta in volta da forme estranee che se ne impossessano, ne attraversano la scrittura senza co19 René Audet, Tectonique essaystique: raconter le lieu dans l’essai contemporain, in Id. (a cura di), Dérive de l’essai, in «Études Littéraires», vol. 37, n. 1, 2005, p. 119. 20 Robert Scholes e Carl Klaus, Elements of the Essay, Oxford University Press, New York-London-Toronto 1969, p. 4. 21 Bruno Berger, Der Essay. Form und Geschichte, Francke, Bern 1964, p. 101. 22 Germaine Brée e Édouard Morot-Sir, “L’essayisme du XXème siècle”, in Id., Littérature française. 9. Du surréalisme à l’empire de la critique, Arthaud, Paris 1984, p. 269. 23 Alfonso Berardinelli, “La forma del saggio e le sue dimensioni”, in Giulia Cantarutti, Luisa Avellini e Silvia Albertazzi (a cura di), Il saggio. Forme e funzioni di un genere letterario, Il Mulino, Bologna 2007, pp. 35-44. 24 Graham Good, The Observing Self. Rediscovering the essay, Routledge, London-New York 1988, p. 12.

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strizioni preventive, ma in virtù delle necessità contingenti della letteratura o di un’altra letteratura, da cui il saggio medesimo viene escluso, per assumere talvolta un qualche valore in quanto genere “libero”, o libero poiché “ibrido”. Com’è stato infatti sostenuto, il nome di saggio ha avuto fortuna per la “comodità che consente di riunire sotto uno stesso genere sia diversi sotto-generi, sia altrettante funzioni pragmatiche”25; gli stessi Scholes e Klaus ne hanno sottolineato il carattere di “termine-ombrello per tutti gli scritti di prosa non-finzionale di limitata lunghezza”26. Insomma, il saggio come una nuova (l’ennesima) categoria elastica, la cui utilità diviene soprattutto quella di raccogliere le scritture prosastiche più ai margini del campo letterario, prescindendo dalla loro diversità di forma e di scopi “pragmatici”. È l’idea di un genere camaleontico27 o un puzzling literary genre28, che proviene da una concezione sia moderna che post-moderna del genere letterario: l’offene Form29 libera il saggio stesso dall’appartenenza a un contesto storico o a un campo ideologico preciso30. Lo scopo delle pagine che seguono non è certo quello di fornire una sintesi compilativa delle teorie elaborate a proposito del genere del saggio, né offrire una chiave interpretativa originale sul genere. Il nostro primo obiettivo è precisare le caratteristiche di un genere saggistico specifico, il saggio critico ad argomento letterario, all’interno del saggio in generale. Per fare questo, è necessario ripercorrere velocemente l’orientamento storico che assume il saggio fin dai suoi esordi. Si potrà in seguito costruire attorno ad alcune opere letterarie un oggetto particolare 25 Jérôme Roger, L’essai, point aveugle de la critique?, in René Audet (a cura di), Dérive de l’essai, cit., p. 51. 26 Robert Scholes e Carl Klaus, Elements of the Essay, cit., p. 46. 27 Hans Wolffheim, “Der Essay als Kunstform. Thesen zu einer neuen Forschungsaufgabe”, in Adolf Beck (a cura di), Festgruß für Hans Pyritz, Winter, Heidelberg 1955, p. 28. 28 Richard M. Chadbourne, A Puzzling Literary Genre. Comparative Views of the Essay, in «Comparative Literature Studies», vol. 20, n. 2, 1983, p. 133. 29 Sull’interpretazione del saggio come “forma aperta”, si veda in particolare Silvia Ruzzenenti, «Präzise, doch ungenau» – Tradurre il saggio. Un approccio olistico al poetischer Essay di Durs Grünbein, Frank & Timme, Berlin 2013, pp. 72-79. 30 “Il saggio è una discorsività autoriflessiva, la cui funzione è dichiarare una politica di liberazione individuale dalla storia, generando uno stato verbale, lo stato della verbalità – questo non-genere estremo – che è l’esatto opposto del genere più puro dello stato, la tragedia” (John Snyder, Prospects of Power. Tragedy, Satire, the Essay, and the Theory of Genre, The University Press of Kentucky, Lexington 1991, p. 159).

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che rappresenta al contempo un camuffamento e una trasformazione del saggio critico: lo pseudo-saggio. È utile partire da un brano di Aldous Huxley, estratto proprio dalla prefazione a una sua raccolta di saggi. Lo scrittore si sofferma lungamente su tutte le tipologie che la tradizione letteraria offre al saggista, individuando anch’egli una divisione secondo “poli di riferimento” diversi per il saggio, vale a dire autobiografico, concreto e universale. Dopodiché, Huxley ragiona espressamente sul rapporto tra queste forme e il modello iniziale di Montaigne: I saggi appartengono a una specie letteraria la cui estrema variabilità può essere studiata nel modo più efficace all’interno di un sistema di riferimento a tre poli. C’è il polo del personale e dell’autobiografico; c’è il polo dell’oggettivo, cioè il fatto, il concreto particolare, e c’è il polo dell’astratto-universale. La maggior parte dei saggisti è a proprio agio e dà il meglio all’interno di uno solo dei tre poli saggistici, o al massimo solo nella combinazione di due di loro. Ci sono saggisti prevalentemente personali, che scrivono frammenti di autobiografia riflessiva e che guardano il mondo attraverso il buco della serratura rappresentato da aneddoti e descrizioni. Ci sono saggisti prevalentemente obiettivi, che non parlano direttamente di se stessi, ma rivolgono la loro attenzione a un tema letterario, scientifico o politico […]. In un terzo gruppo troviamo quei saggisti che lavorano nel mondo delle astrazioni più elevate, che mai accondiscendono a usare una forma personale e si degnano a malapena di riportare i casi particolari da cui pure le loro astrazioni sono originariamente derivate […] i saggi più riusciti sono quelli che prendono il meglio non da uno, non da due, ma da tutti e tre i modi in cui il saggio può esistere […]. La perfezione di una forma artistica è raramente raggiunta dal suo primo inventore. Montaigne è la grande e meravigliosa eccezione a questa regola. [Egli] raggiunse già i limiti dell’arte che aveva appena scoperto31.

Huxley è tra i pochi commentatori a rilevare una derivazione storica dei singoli ordini di classificazione del saggio negli Essais di Michel de Montaigne: tutte le forme possibili del saggio, che oggi vengono utilizzate separatamente dai saggisti, erano già presenti nell’iniziatore

31 Aldous Huxley, “Preface”, in Collected Essays, Harper, New York 1960, pp. V-VIII.

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del genere. Huxley pone così non solo il singolo problema dell’evoluzione del genere, improntato a una differenziazione progressiva in tipi diversi, a rigore utilizzabili singolarmente o in sinergia, ma anche una coppia di problemi che rappresenta al meglio il dibattito storico sulla natura del saggio: il problema psicologico e morale della soggettività del saggista (il polo “autobiografico”) e il problema epistemologico che concerne la natura del metodo del pensiero saggistico, che muove dal soggetto all’oggetto, dal saggista all’argomento scelto dalla propria esperienza concreta oppure rivolto all’individuazione delle leggi generali dei fenomeni.

1.2. La relazione e la forma saggistiche: Montaigne Il genere del saggio rappresenta la speciale occasione di ripercorrere il suo sviluppo temporale a partire da una data definibile con singolare precisione nella storia della letteratura. Montaigne è l’autore che ne “inventa” il nome e se ne appropria in quanto definizione32. Il vocabolo francese essai applicato al plurale da Montaigne alla sua opera risale al dodicesimo secolo e al latino volgare exagium: aggettivo dal verbo exigere, che ha tra i suoi significati anche quello di pesare, misurare, commisurare33. L’aggettivo, originariamente un sostantivo indicante uno strumento di misura del peso (una sorta di bilancia), conserverà soprattutto il senso di prova, tentativo, esame, ben mantenuto anche nell’italiano saggio (come “saggio di danza”). Se il termine francese essai nasce in Montaigne da un’analogia con la metrica dei pesi, non possiamo non soffermarci sulla peculiarità di questo calco linguistico. L’esame metrico si trasforma in una prova di sé condotta attraverso la scrittura. Montaigne non volle trovare un 32 Alcuni sottolineano che l’invenzione del genere può essere collocata non solo in un anno preciso, ma addirittura in un mese, quello in cui Montaigne trova il titolo per la sua opera: marzo 1571 (vedi Peter France, “British and French Traditions of the Essay”, in Charles Forsdick e Andrew Stafford (a cura di), The Modern Essay in French. Movement, Instability, Performance, Peter Lang, Oxford 2005, p. 24). Dalla cronologia pubblicata nell’edizione degli Essais della collana «Pléaide» (Michel de Montaigne, Les Essais. Édition de 1595, Gallimard, Paris 2007, p. LXXV), l’idea del titolo andrebbe invece posticipata di qualche settimana, almeno fino a giugno. 33 Non è da escludere una discendenza dal greco ἐξάγιον, ovvero exagion, antica unità di misura del peso. Il sostantivo romanzo essai (formatosi dall’aggettivo tardolatino) specifica quindi un solo senso dei tanti dell’antico verbo exigere (per esempio, non quello del famoso exegi monumentum aere perennius oraziano).

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nominativo per una forma letteraria, ma piuttosto descrivere il proprio modo di procedere nello studio di un oggetto. Eric Auerbach, in un famoso saggio sugli Essais contenuto in Mimesis, spiega bene che Montaigne incominciò il proprio libro come una collezione di note di lettura e di commento a diversi exempla e adagi che spaziavano dall’antichità al Medioevo34. Il concorso di discorsi altrui, frammentati in massime e in detti, non è certo un’originalità. Uno scarto rispetto alle antiche pratiche del commento medioevale o rinascimentale va ricercato in un secondo passaggio. Il discorso commentativo di Montaigne, aggiunge Auerbach, inglobò presto la sua esperienza diretta, il suo passato e le ripercussioni della storia corrente sulla sua vita: “La cornice fu presto infranta, le considerazioni strariparono e come materia e come spunto non servì più soltanto la lettura, ma anche la vita, sia quella vissuta da lui stesso, sia quella ascoltata da altri, sia quella che si svolgeva intorno a lui”35. Gli Essais si ritrovano così a trasferire su un medesimo piano tanto i testi altrui quanto una sorta di testo confessionale di Montaigne. Egli esprime chiaramente questo particolare rapporto con i passi degli auctores nel saggio intitolato Des livres: Chi va in cerca di scienza, la vada a pescare dove si trova: non c’è nulla di cui io faccia meno professione. Queste sono le mie fantasie, con le quali io non cerco affatto di far conoscere le cose, ma me stesso. […] Si veda, in ciò che prendo a prestito, se ho saputo scegliere di che sostenere il mio ragionamento [invention]. Poiché faccio dire agli altri quello che non posso dire altrettanto bene, sia per insufficienza del mio linguaggio sia per insufficienza del mio sentimento. […] Dei ragionamenti [raisonnements] e delle idee [comparaisons, argumens] che trapianto sul mio terreno e confondo ai miei, a volte ho espres34 Vedi anche Claire de Obaldia: “I Saggi sono costruiti come un mosaico di citazioni, in cui le fonti testuali, che sono messe in ‘dialogo’ l’una con l’altra, vengono giustapposte in una maniera che conferma, complica, contraddice la loro rispettiva sostanza e stile, spostandosi continuamente e relativizzando qualsiasi autorità” (Claire de Obaldia, The Essayistic Spirit. Literature, Modern Criticism, and the Essay, Clarendon, Oxford 1995, p. 234). 35 Eric Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale (1946), vol. 2, Einaudi, Torino 2000, p. 40. Commentando il saggio De l’expérience (III: 13), Auerbach intravede nella mescolanza degli stili, a cui giunge l’amalgama di Montaigne, l’eredità del pensiero cristiano-creaturale, ma ormai spogliato della sua originaria concezione (ivi, p. 53).

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samente omesso di indicare l’autore, per tenere a freno la temerarietà di quei giudizi affrettati che si dànno di ogni sorta di scritti (II: 10)36.

Soltanto in ragione dello studio di sé l’autore giustifica la presenza delle massime e delle citazioni dagli antichi. Esse sono sempre sottoposte a un principio funzionale diverso da quello teologico o filologico. All’apparenza rispettoso della pratica medioevale dell’auctor, che espone le proprie idee appoggiandosi su altre autorità, il saggio di Montaigne si comporta diversamente con le sue fonti. Nelle sue citazioni, egli spesso cancella il rimando ai legittimi autori, che nemmeno vengono nominati negli Essais. Nei 107 capitoli, divisi in tre libri, la pratica citazionale fornisce sia il materiale all’invention dell’autore Montaigne, poiché le fonti contengono le tematiche che gli servono come ispirazione e che verranno di volta in volta trattate, sia un sostegno stilistico alle proprie tesi, in virtù della riuscita, del valore e della capacità esemplificativa delle frasi citate dagli antichi. Eppure, la relazione tra questi testi citati e l’argomentazione che scorre nei vari saggi è di tipo originale e diverso. In sostanza – si potrebbe esplicitare – “se l’autorità X dice che…, io, Montaigne, da parte mia sperimento che…”. Montaigne spiega questo nuovo tipo di relazione coi testi antichi in De l’institution des enfans: E accingendomi a parlare indifferentemente di tutto quanto si presenta alla mia fantasia e senza servirmi altro che dei miei mezzi propri e naturali, se mi capita, come spesso accade, d’incontrar per caso nei buoni autori quei medesimi punti che ho preso a trattare, come mi è successo or ora di trovare in Plutarco il suo discorso sulla forza dell’immaginazione, nel riconoscermi, a confronto di quelli, tanto debole e misero, tanto lento e tardo, faccio pietà o sdegno a me stesso. E tuttavia mi compiaccio del fatto che le mie opinioni abbiano l’onore di corrispondere spesso alle loro; e che almeno li seguo da lontano, affermandole vere. Ed anche del fatto di avere quello che non tutti hanno, di riconoscere cioè l’enorme differenza fra loro e me. E nondimeno lascio correre le mie idee così deboli e basse come le ho generate, senza rabberciare e raggiustare i difetti che quel confronto mi ha rivelato.

36 Michel de Montaigne, Saggi, a cura di Fausta Garavini, Mondadori, Milano 1970, vol. 1, pp. 525-526.

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Bisogna aver le reni ben salde per mettersi a camminare sulla stessa linea di quelli (I: 26)37.

L’atteggiamento di Montaigne non è né quello della continua ricapitolazione dell’antica saggezza, né quello della glossa alla voce delle autorità38. Egli si mette al contempo al di sotto e a latere di essi, secondo un principio di reciproco riconoscimento, innanzitutto della gerarchia stilistica e della differenza tra loro e se stesso, ma anche di una comune verità degli enunciati, che è ora espressa in termini orizzontali, di corrispondenza tra sé e i contenuti della tradizione. La sua scrittura ingloba voci diverse a uno stesso livello di argomentazione, secondo una nuova concezione non solo dell’uomo come soggetto cognitivo, ma anche del testo come forma di relazione con altri testi che si annuncerà predominante nella storia occidentale della modernità. Siamo cioè nell’ambito di un passaggio epocale sottolineato da più interpreti. Se per Jean Starobinski la critica è un’attività che percorre tutte le epoche della storia della letteratura, essa si precisa nondimeno gradualmente. Durante il Rinascimento, l’esigenza di mantenere l’autorità dei testi richiede non solo la restituzione del senso originario (la filologia), ma anche l’assegnazione di altri sensi: “Per perpetuare l’autorità di Omero, dopo la scomparsa della società aristocratica a cui il suo significato letterale corrispondeva, gli stoici proposero una lettura allegorica. Con la Sacra Scrittura successe la stessa cosa. Un nuovo requisito morale ha costretto una lettura obbediente a passare attraverso un’interpretazione figurativa”39. È la nascita, oltre il senso letterale, del senso allegorico (relativo a Cristo e alla Chiesa), tropologico (sui fini da perseguire) e anagogico (escatologico). Ma la prolificazione dei sensi – l’affermazione di un nuovo principio interpretativo – modifica la natura materiale dei testi: se questi vengono ora concepiti come un prodotto umano, la ricerca mira a ricostruire l’atto e i sentimenti che li produssero. La pluralità dei significati che si rendono ora possibili prelude alla nascita

37 Ivi, pp. 191-192. 38 Sulla modernità dell’uso della glossa in Montaigne vedi André Tournon, La glose et l’essai, Presses Universitaires de Lyon, Lyon 1983. Da integrare con il classico Pierre Villey, Les sources et l’évolution des Essais de Montaigne, Hachette, Paris 1908. 39 Jean Starobinski, L’œil vivant II. La relation critique (1970), Gallimard, Paris 2001, p. 25.

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dell’intenzione creativa: il pensiero dell’autore moderno può esprimersi come creatore di significati ulteriori rispetto gli antichi. Come aggiunge Antoine Compagnon, adesso il soggetto deve prendere posizione rispetto alle proprie citazioni, mentre nell’età medievale ci si poteva accontentare di collocare la citazione in un corpo culturale più ampio, all’interno di una topica40. È una nuova forma di relazione tra lettore e testi che suppone una capacità e una funzione critica del soggetto. Certo, Montaigne farebbe parte di un modello ancora “transitorio”, in cui l’autore non sussume completamente il proprio testo come un’unità superiore a quella degli antichi; ma se non giunge già alla piena appropriazione della sententia, Montaigne sembra realizzare – conclude Compagnon – almeno un suo possesso attraverso la propria voce e parola41: un ruolo di giudice commentatore. All’inizio del saggio Du repentir, posto all’inizio del terzo e ultimo libro degli Essais, l’autore convoca ragioni pressoché ontologiche a giustificazione della particolare costruzione del suo discorso, composto di sovrapposizioni di diversi materiali di studio, provenienti dalla vita o tramandati dalla cultura: Gli altri formano l’uomo; io lo descrivo, e ne presento un esemplare assai mal formato, e tale che se dovessi modellarlo di nuovo lo farei in verità molto diverso da quello che è. Ma ormai è fatto. Ora, i segni della mia pittura sono sempre fedeli, benché cambino e varino. Il mondo non è che una continua altalena. Tutte le cose vi oscillano senza posa: la terra, le rocce del Caucaso, le piramidi d’Egitto, e per il movimento generale e per il loro proprio. Io non posso fissare il mio oggetto. […] Non descrivo l’essere. Descrivo il passaggio. […] È una registrazione di diversi e mutevoli eventi e di idee incerte e talvolta contrarie: sia che io stesso sia diverso, sia che io colga gli oggetti secondo altri aspetti e considerazioni. Tant’è che forse mi contraddico, ma la verità, come diceva Demade, non la contraddico mai (III: 2)42.

L’uomo di Montaigne è gettato nel divenire, sottoposto alla tirannia del dubbio e, per questo, reso succube della fuga del proprio essere 40 Antoine Compagnon, La seconde main, ou le travail de la citation, Seuil, Paris 1979, p. 326. 41 Ivi, p. 352. 42 Michel de Montaigne, Saggi, cit., vol. 2, p. 1067.

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nel tempo. Il titolo dell’opera andrà interpretato come l’unico comportamento ritenuto utile per esprimere una tale visione dell’uomo moderno. Intitolare questo lavoro Essais significa assecondare un’incontrastabile mutevolezza, dare nome a uno stile che doveva essere, necessariamente, già mutevole rispetto ai generi preesistenti e diventare durante la scrittura degli Essais perfino modificabile rispetto al presente della sua meditazione. La forma degli Essais di Montaigne si colloca sul crinale di passaggio tra una concezione del mondo al tramonto e una visione dell’uomo nuova nella storia occidentale. Da questa visione discende l’eterogeneità moderna del suo discorso, questa sua relazione saggistica con i testi della tradizione, da estrapolare fuori dal loro contesto e citare come materiale a sostegno di una nuova esplorazione. Una buona conclusione la fornisce uno dei pochi studiosi a soffermarsi su quella che Genette chiamerà la relazione metatestuale, di cui troviamo un’anticipazione in Montaigne. Michel Charles definisce gli Essais “una collezione di enunciati eterogenei e non predeterminati”, la cui forza innovativa è tenere assieme “da un lato (eterogeneità), diverse voci che discorrono di diversi oggetti; dall’altro (unità), una voce omogeneizzante (che assicura i legami e che dà i titoli alle sezioni)”43: una voce riflessiva, capace di garantire la tenuta del discorso argomentativo nelle sue esplorazioni e oscillamenti, nella raccolta e nella scelta degli oggetti e dei riferimenti che cominciano a moltiplicarsi in uno scenario simbolico in movimento; una voce che è l’effetto scritturale di un nuovo homo interpretativo. “Ogni argomento mi è ugualmente fecondo” (III, 5)44 promette d’altronde Montaigne. Molti studiosi hanno osservato che, sul piano formale, la varietà degli argomenti produce negli Essais una presenza ingombrante delle digressioni, che si accavallano a detrimento di una solida argomentazione. Se, come scrive ancora Montaigne, “[i]l mio stile e la mia mente [esprit] vanno vagabondando insieme” (III, 9)45, quella della promenade è potuta diventare, soprattutto grazie a Hugo Friedrich, la metafora principale per descrivere il discorso dell’opera46: 43 Michel Charles, Introduzione allo studio dei testi (1995), La Nuova Italia, Milano 2000, p. 229. 44 Michel de Montaigne, Saggi, cit., p. 1165. 45 Ivi, p. 1327. 46 Hugo Friedrich, Montaigne (1967), trad. fr. Gallimard, Paris 1984, pp. 348-349.

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un viaggio interiore, che però non rinuncia a manifestarsi in scenari narrativi di movimento (come la camminata) e potrebbe trovare, ad esempio, una sua ulteriore manifestazione nelle Promenades di Rousseau. Negli stessi anni di Friedrich, Gerhard Haas scrive un saggio, che partecipa della rinascita delle teorie sul genere negli anni Sessanta, in cui si interpretano le digressioni presenti nei saggi di Montaigne come un momento “spaziale” del saggio lungo il “cammino” del proprio discorso47. Il movimento della forma è, insomma, colto come effetto consustanziale all’idea del movimento dell’uomo propria di Montaigne48. Tale lettura formale innerverà anche le moderne concezioni del saggio, che non mancheranno di sottolineare come diventi tipica, nella tradizione del genere, una forma saggistica discorsiva improntata alle digressioni argomentative. Ad esempio, Pascal Riendeau riconosce come caratteristica del saggio la presenza di una divagazione, di un’erranza, di una deriva49, soprattutto nella sua essenza di ragionamento incompiuto, da non intendersi come “debolezza argomentativa”, ma come una strategia enunciativa e retorica propria, che conferisce un certo dinamismo al saggio tramite digressioni e riprese volte ad accentuare il movimento del pensiero50. Osservando da vicino l’opera di Montaigne, non si può non concludere che gli Essais formano un’opera filologicamente non finita, perché marchiata ovunque dai segni di rinuncia al suo licenziamento: un discorso che sembra disconoscere nelle continue correzioni del suo autore l’esigenza della fine dell’opera letteraria. Non solo perché, fino alla morte, Montaigne ritorna sui propri testi, aggiungendo e glossando le stampe dei suoi Essais, ma soprattutto perché, mentre ragiona, l’autore si vanta di conquistare, immerso nella scrittura, l’unica verità davvero conoscibile: il proprio inarrestabile mutamento interiore. Perciò, se egli utilizza l’io come una lente attendibile da cui osservare i fenomeni, non afferma mai che questi Essais possano innalzare un nuovo sistema di valori dotato di sufficiente certezza da trasformare un tentativo, un essai, in regola, in procedura, in sistema. In sostanza, al pensiero di Montai47 48 49 50

Gerhard Haas, Essay, Metzler, Stuttgart 1969, pp. 47-48. Jean Starobinski, Montaigne en mouvement, Gallimard, Paris 1993. Il titolo del dossier curato da René Audet (vedi alla nota successiva). Pascal Riendeau, La rencontre du savoir et du soi dans l’essai, in René Audet (a cura di), Dérive de l’essai, cit., pp. 92-98.

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gne manca evidentemente ciò che gli consentirebbe di essere una filosofia, oppure una scienza. Ciò viene confermato dalle divergenze osservabili tra il procedimento conoscitivo di Montaigne e quello proposto, con ben altri scopi e linguaggi, da Cartesio, nonostante alcune similarità tra i due pensatori riconosciute, ad esempio, da Graham Good (il quale, tra l’altro, individua nel travel essay una delle forme principali del genere, cui abbiamo già accennato): Il saggio presuppone un osservatore indipendente, un oggetto specifico e un lettore empatico. Presuppone anche un linguaggio capace di rendere e comunicare osservazioni, sia fisiche che mentali. Il suo punto di partenza è lo stesso della filosofia cartesiana: un sé isolato di fronte a un mondo di cui nulla è certo. Ma le due forme di scrittura divergono immediatamente: Cartesio cerca una certa conoscenza e un metodo per trovarla. Lo scetticismo del saggio assume una forma diversa. È spontaneo e asistematico, e accetta la propria natura occasionale, persino accidentale. Come la filosofia cartesiana e la scienza baconiana, le sue osservazioni sono libere e non cercano autorità dalla tradizione e dalla dottrina. Ma a differenza di loro, il saggio non tenta di organizzare una nuova disciplina su questa nuova base51.

È chiaro che la sicurezza conferita da Cartesio alla capacità della coscienza di volgere in risultati oggettivi l’incertezza iniziale non può essere sottoscritta dalla filosofia a cui più si è avvicinato Montaigne: lo scetticismo52. Soltanto con Cartesio l’individualismo moderno otterrà un metodo che, al contrario di quello di Montaigne, si pone in grado di fornire leggi e classificazioni delle cose osservate: quelle che saranno chiamate d’ora in poi i fenomeni53. Il problema della soggettività del 51 Graham Good, The Observing Self, cit., p. 4. 52 “Il saggio non raffigura un risultato definitivo, ma un processo che si scrive, proprio come il pensiero che giunge, nello scriversi, a una realizzazione spontanea. Il carattere particolare di questo pensiero, lo scetticismo, ha trovato in Montaigne la maniera di diventare una prosa artistica moderna in lingua volgare […]. Come lo scetticismo evita di giudicare e di classificare, la forma del saggio evita la totalità, il progetto articolato, la tendenza dogmatica” (Hugo Friedrich, Montaigne, cit., p. 362). 53 “Il dibattito moderno sulla soggettività […] deriva da Cartesio; ciò significa che, in qualche modo, con Cartesio, dovremmo essere in grado di assistere all’emergere del soggetto, o in altre parole, del soggetto occidentale, vale a dire, il soggetto moderno come tale, il soggetto della modernità” (Fredric Jameson, A Singular Modernity, Verso, London-New York 2002, p. 43).

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saggista, la cui modalità contraddittoria di apprendimento dall’esperienza dà una forma specifica alla sua parola – la digressione discorsiva –, pare impedire la tensione alla classificazione, all’ordinamento dell’esperienza stessa in argomenti conchiusi ed esauriti. È il non-metodo di cui parlano molti dei commentatori, che costituirebbe il principio stesso di “emergenza” del genere del saggio, di originalità e conseguente apertura di un nuovo spazio del discorso all’interno del dominio letterario. Nel corso dei secoli successivi, tale originalità verrà riassorbita dalle nuove coordinate culturali e filosofiche. Anche il saggio si adeguerà all’evolversi di vari metodi di investigazione degli argomenti, tra cui la filosofia cartesiana e la scienza baconiana segnalate da Good e già in azione nella cultura al tempo di Montaigne. Il problema epistemologico del metodo del pensiero saggistico riguarda dunque non solo la filosofia abbracciata dall’autore o la scelta personale dei suoi argomenti, ma anche la modalità con cui l’argomentazione ne struttura la presentazione, ne dispiega l’analisi e ne ricava qualche conclusione, che oscilla da essere occasionale ad aspirare a una validità astratta e durevole. Non sarà insomma l’argomento, l’oggetto culturale o meno, a poter determinare la specificità del saggio in quanto genere; piuttosto, la relazione che s’istituisce tra argomenti, testi, stili eterogenei e il discorso argomentativo del saggista imprime orientamenti diversi al saggio, tanto dal punto di vista formale quanto da quello degli obiettivi conoscitivi.

1.3. La contraddizione storica, ovvero il modello divergente La ricezione tutt’altro che semplice degli Essais appare come l’indizio più palese di un allontanamento del genere del saggio dal modello del suo inventore. D’altronde, dietro il titolo degli Essais, s’intravede la ricerca di un sostantivo che definisca non una categoria letteraria, per associare a quanto Montaigne ha composto un’etichetta di genere, ma soltanto il proprio innovativo sistema di pensiero54. Per questo, gli Es54 La dimostrazione di Friedrich poggia su verifiche stilistiche e filologiche: “A differenza di coloro che riprenderanno questo titolo in seguito, egli non vi associa una categoria letteraria, ma una nozione di metodo […]. Quando vuole parlare del suo libro come produzione letteraria, scrive ‘il mio libro, i miei scritti, i miei pezzi, queste memorie’, a meno che non dica sdegnosamente ‘questo cencio, questa fricassea, questa rapsodia, i miei frammenti’, ecc. Al contrario, usa volentieri ‘saggio’ (e ‘saggiare’) per indicare il proprio metodo intellettuale, il proprio stile di vita, l’esperienza di se stesso” (Hugo Friedrich, Montaigne, cit., pp. 353-354).

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sais sembrerebbero rimasti, come scrive Marielle Macé, “una sorta di hapax: libro unico, ricco di eredi spirituali ma senza una discendenza in quanto genere letterario”55. La storia della diffusione del termine “saggio” è conferma di un suo immediato rimodellamento, attraverso la proposizione di forme diverse da parte di altri saggisti. Possiamo ripercorrere cosa avviene a partire dagli anni immediatamente successivi alla pubblicazione degli Essais (si può prendere a riferimento l’edizione postuma del 1595: quella con le integrazioni a mano di Montaigne e da cui verranno ristampate per lungo tempo quelle successive)56. Innanzitutto, i tentativi di divulgazione degli Essais presso la comunità dei lettori e degli interpreti mostrano le difficoltà di una traduzione in altre lingue; soltanto nell’Ottocento si stabilizzeranno titoli come Saggi, Ensayos o Versuche57. Gli Essais vengono tradotti intanto nella lingua franca della “repubblica delle lettere”, il latino, con titoli come gustus, a sottolineare il loro senso di prova e “assaggio”, o conatus, termine che si sbilancia più dal lato del tentativo ludico-creativo; l’oscillazione tra i due significati espressa dalle traduzioni latine può però essere annullata da una terza opzione, assai più neutra, rappresentata dall’etichetta più generica di Miscellaneorum libri. In un secondo momento, il genere vero e proprio troverà invece una traduzione latina di una certa diffusione, soprattutto in campo scientifico, con il termine Tentamina: “esperimenti”, “esperienze”58. Ma soprattutto, la stessa paternità del saggio viene contestata a Montaigne sulla base di una lettura retrospettiva, per la quale il genere del saggio si evolve non riprendendo, ma tradendo il modello iniziale. Secondo Douglas Atkins, “un’importante de-familiarizzazione ha caratterizzato il

55 Marielle Macé, Le temps de l’essai, cit., p. 12. 56 Vedi un altro classico, Olivier Millet, La première réception des Essais de Montaigne (1580-1640), Honoré Champion, Paris 1995. 57 La matrice linguistica latina non è ovviamente mantenuta nelle lingue germaniche, per esempio quella tedesca e quella inglese, dacché la prima possiede la parola Versuch, saggio proprio in quanto prova (per restare sul fronte letterario, Abhandlung indica il trattato e Aufsatz l’articolo universitario), mentre la seconda conia dal francese essai il termine essay e addirittura un verbo, to assay, dall’antico francese assaier, che significa appunto “saggiare”. Per la ricezione degli Essais di Montaigne in Germania, vedi Victor Bouillier, La renommée de Montaigne en Allemagne, Honoré Champion, Paris 1921. 58 Hugo Friedrich, Montaigne, cit., p. 356.

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saggio da sempre, fin dai suoi inizi in Montaigne”59. In Unfathering the Essay, Joel Haefner contesta decisamente la presunta paternità del genere attribuibile agli Essais di Montaigne60, che avrebbe anche favorito una concezione del saggio (e non solo della sua opera iniziale) troppo sbilanciata verso l’accentuazione dei caratteri soggettivi dell’autore. Tale interpretazione è stata fornita dai critici a seguito dell’analisi del saggio nel Novecento, il quale rispetto ai saggi dei secoli precedenti sarebbe colpevole di riprendere e accentuare i caratteri espressivi dell’originaria forma di Montaigne61. In realtà, l’evoluzione del genere dimostra la presenza concomitante di due (o più) modelli contraddittori, per i quali una differenza da stabilirsi sulla base del “polo autobiografico” risulta meno efficace che quella condotta in base al metodo. Basta guardare alle prime fasi dello sviluppo generico per rendersi conto che le innovazioni formali comportano un allargamento delle attribuzioni dell’etichetta di saggio a un insieme di opere sempre più esteso62. Il filtro più importante intervenuto nella sua trasmissione e responsabile del suo repentino allontanamento da Montaigne riguarda la codifica che se ne fece in Inghilterra63, tanto che alcuni si sono domandati se il saggio non fosse piuttosto un genere “inglese”64. Qui il genere del saggio appare prodotto ancor prima di essere recepito tramite Montaigne, anche se la prima traduzione in inglese degli Essais esce dalla penna di John Florio già nel 1603. Costituiscono infatti un secondo, importante momento di determinazione del genere saggistico gli Essayes, Religious Meditations. Places of Perswasion and Disswasion. Seene and Allowed (1597) di Francis Bacon, apparsi appena due anni dopo l’edi59 Douglas G. Atkins, Estranging the familiar. Toward a Revitalized Critical Writing, University of Georgia Press, Athens (GA) 1992, p. X. 60 Joel Haefner, Unfathering the Essay. Resistance and Intergenreality in the Essay Genre, in «Prose Studies: History, Theory, Criticism», vol. 12, n. 3, 1989, p. 263. 61 Nel Novecento, studi come quello di Routh hanno contribuito a restaurare questa interpretazione. Vedi Harold V. Routh, The Origins of the Essay Compared in French and English Literatures, in «Modern Language Review», vol. 15, n. 1, 1920, p. 31. 62 Per un’enciclopedia dei saggi e dei saggisti si veda, tra i tanti esempi, quella curata da Tracy Chevalier, Encyclopedia of the Essay, Fitzroy Dearborn Publishers, Chicago-London 1997. 63 Sulla fortuna di Montaigne in Inghilterra, vedi Charles Dédéyan, Montaigne chez ses amis anglo-saxons: Montaigne dans le romantisme anglais et ses prolongements victoriens, 2 voll., Boivin, Paris 1943. 64 Voisine Jacques, L’essai littéraire est-il un genre anglais?, in «Revue de littérature comparée», vol. 72, n. 1, 1998, pp. 5-21.

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zione (quella postuma) degli Essais di Montaigne. I saggi di Bacon si differenziano a tal punto da quelli di Montaigne da potersi porre a matrice di un’altra, seconda tradizione, che si sviluppa all’interno del campo letterario dell’Inghilterra del tempo e successivamente si dimostra capace di diffondersi anche oltre la letteratura anglofona. Pur mantenendo la declinazione plurale nel titolo, l’autore inglese mostra di prendere una direzione diversa, dichiarando implicitamente l’insufficienza del solo nome di genere che gli giunge da Montaigne a significare quella forma da lui ricercata. Nell’edizione del 1625, assieme a un aumento dei saggi stessi, il titolo verrà modificato tramite un’aggiunta indirizzata a puntualizzare gli scopi dell’opera e a mutarne l’orizzonte generico. Il titolo completo scelto da Bacon sarà Essays or Counsels, Civil and Moral. L’equivalenza con la moralistica e la precettistica approfondisce certamente il carattere pratico del genere del saggio in rapporto ai costumi contemporanei, ma modifica soprattutto la struttura vigente in Montaigne tra il piano del contenuto e quello dell’espressione. Bacon piega la forma del saggio alla propria filosofia, trasformandolo in un ragionamento induttivo a seguito dell’osservazione di certi fenomeni. I suoi Essays discutono sul mondo portando argomenti già strutturati in un sistema di significati autonomo, in particolare un sistema morale prescrittivo che mira a stabilire leggi precise di condotta civile e sociale. L’individualismo moderno non trova più nel saggio soltanto una forma, una “voce” unificatrice del discorso, ma inventa ora un mezzo logico di produzione di concetti, verificabile dai lettori e praticabile nella vita quotidiana. Bacon opterebbe per l’accumulazione di esempi e opinioni, al fine di illustrare “come la doxa pensa la morale” e collocandosi quindi, più che sul piano della ricerca individuale, su quello di un’epistemologia generale65, situata a un livello sociale e collettivo. La differenza è così radicale che l’opera di Bacon duplica il genere saggistico in due forme distinte: Il saggio montaigniano era personale, familiare, solipsistico, associativo, riflessivo, aneddotico, disorganizzato, spontaneo e meditativo;

65 Michel Beaujour, Miroirs d’encre. Rhétorique de l’autoportait, Seuil, Paris 1980, pp. 190-191.

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il saggio baconiano era oggettivo, impersonale, interessato a grandi questioni sociali e morali, razionale, autorevole, metodico, equilibrato e argomentativo66.

È chiaro il vantaggio di una simile interpretazione. In quanto disponibile a riconoscere una duplice genesi, essa evita la ricaduta nel paradigma essenzialistico utilizzato spesso dalla teoria dei generi letterari: cioè l’idea che vi sia una famiglia del saggio in cui Montaigne giochi il ruolo del padre. Pur seguendo un approccio sincronico e non storico, Claire de Obaldia giunge alle stesse conclusioni, risolvendo questa dicotomia formale tramite una collocazione degli Essais di Montaigne e degli Essays di Bacon in due regimi letterari diversi: Questa opposizione è stata, infatti, interpretata nei termini di un modo che si oppone al genere: il modo “saggistico” come attitudine (la dimensione aperta della forma) attribuita a Montaigne e il saggio stesso come forma artistica chiusa individuato in Bacon67.

A un’apertura della forma in Montaigne, corrisponderebbe la proposta non di un genere, ma di un modo “saggistico” da aggiungere ai ben noti modi narrativo, epico, drammatico… La struttura chiusa e compiuta del ragionamento e della retorica di Bacon, invece, permetterebbe al genere di adattarsi e reduplicarsi presso altri scrittori. È certamente vero che gli Essays di Bacon avanzano verso il progetto di una totalità e un sistema autosufficienti, perfettamente in linea con la sua restante opera, ad esempio il Novum Organum. Tuttavia, la sistematicità della sua tipologia saggistica non andrà ravvisata tanto in procedimenti logici particolarmente diversi da quelli di Montaigne, che restano ugualmente argomentativi. Il saggio di Bacon è sistematico per la particolare aderenza del suo discorso al proprio oggetto di studio. Privo di confidenze intime, Bacon non rifugge una retorica metodica nell’argomentazione. Remo Ceserani illustra così le differenze tra i due, in una voce enciclopedica dedicata al saggio, collegando le due forme complementari a diverse tradizioni letterarie di riferimento:

66 Joel Haefner, Unfathering the Essay, cit., p. 260. 67 Claire de Obaldia, The Essayistic Spirit, cit., p. 37.

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Va precisato che Montaigne e Bacone, che per primi hanno usato il termine saggio, si sono richiamati a due tradizioni diverse: Montaigne alle lettere dei classici e degli umanisti, alle raccolte di proverbi e aforismi e ai dialoghi di Platone e Luciano, ripresi dagli umanisti italiani, interpretandoli come una specie di “dialogo con se stesso”; Bacone espressamente alle epistole di Seneca a Lucilio, interpretate come “meditazioni sparse”. Ciascuno dei due autori ha usato il termine in un senso particolare e così ha inaugurato una storia diversa del genere: quella dell’esplorazione rapsodica e concreta della propria esperienza vitale e delle proprie impressioni in Montaigne; quella dell’analisi razionale, fredda e particolareggiata, di scorcio e impersonale in Bacone68.

Eppure, anche un’altra opera può contribuire a dotare il genere di una terza “paternità”: l’Essay concerning Human Understanding (1689) di John Locke, che annuncerà programmaticamente di voler affermare, difendere e divulgare grazie al genere saggistico idee nuove e interpretazioni originali di problemi controversi. Dal punto di vista concettuale, Locke conferma il legame tra un modo di scrittura e l’orientazione filosofica dell’empirismo69, conferendo al saggio il ruolo di esposizione correttamente argomentata di ipotesi e di teorie all’indirizzo della comunità70. Soprattutto, grazie a Locke, il nome di genere subisce un cambio di numero del sostantivo “saggio” dal plurale al singolare. Nel titolo al singolare di Locke, l’Essay passa da indicare un insieme indistinto di prove a introdurre un oggetto di discussione specifico. La declinazione infatti è subito accompagnata dal nesso di specificazione: l’essai di Montaigne è ora saggio di qualcosa. Non si “saggia” più un’idea, un’opinione, un’inquietudine; ma si scrive un saggio che esamina qualcosa, un argomento, una convinzione, un comportamento. La modalità dell’atto nominale è cambiata perché si è modificato il regime intellettuale del genere. La declinazione del saggio passa da intransitiva a transitiva; vale a dire che l’etichetta di genere assume una funzione “passiva” di definizione che necessita di un oggetto per completare il 68 Remo Ceserani, “Il saggio”, in Pietro Boitani e Massimo Fusillo (a cura di), Letteratura europea 2: generi letterari, UTET, Roma 2016, p. 372. 69 Pierre Glaudes e Jean-François Louette, L’Essai, Hachette, Paris 1999, p. 66. 70 Jean Starobinski, “Peut-on-définir l’essai?”, in Pour un temps/Jean Starobinski, Centre Georges Pompidou, Paris 1985, p. 186.

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proprio senso di termine: il saggio non è più, come in Montaigne, libertà dello stile per affermazione dell’individuo, ma sottomette lo stile a una trattazione filosofica di un argomento specifico. La conseguenza sul piano formale corrisponde alla costituzione di una forma accentratrice dell’argomentazione, soprattutto orientata a esaurire i punti di vista sul proprio oggetto. Se le premesse del sistema cartesiano erano annullate dallo stile personale di Montaigne e dalla sua concezione ancora umanista dell’uomo, il saggio di derivazione inglese è posto durante il Seicento e il Settecento sotto la dipendenza del metodo sperimentale. Nel Settecento, più precisamente, il saggio si fissa nel sistema dei generi della letteratura anglosassone invadendo spazi occupati precedentemente dalla trattatistica filosofica, moralistica e letteraria. Si ricordino almeno gli Essays Moral and Political (1742) dello scozzese David Hume. Costui, nel saggio Of Essay Writing, ragiona sul ruolo sociale di divulgazione del genere saggistico come pratica di “conversazione”: affermandosi, il saggio inizia anche a ragionare sulla sua funzione nel sistema storico-culturale e approfondisce ulteriormente la propria posizione come discorso intellettuale. Dal canto loro, i saggi di Alexander Pope, a partire da An Essay on Criticism (1711) fino a quelli degli anni Trenta, descrivono un primo tentativo di contaminazione del genere saggistico con altre forme, in questo caso poetiche, provenienti dall’antico genere didascalico scritto in versi. Non è strano che mentre il genere tenta di circoscrivere le proprie peculiarità inizi, lungo una parabola che non avrà fine in questo periodo, un processo di interazione con altre forme e altri generi. Nemmeno sorprende che la contaminazione avvenga non con il nascente romanzo, ma con la forma tradizionale della poesia, per molti versi ancora al centro (assieme al teatro) del campo letterario. Parallelamente, non si pensi che in Francia l’esempio di Montaigne sia destinato a restare in primo piano rispetto alla declinazione inglese della forma del saggio71. Nel suo studio, Marielle Macé ripercorre i momenti più caratteristici di divulgazione del genere in Francia, evidenziando in particolare come il Dictionnaire de l’Académie non registri il nome di sag71 Maturin Dreano, La renommée de Montaigne en France au 18e siécle: 1677-1802, Éditions de l’Ouest, Angers 1952.

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gio nell’edizione del 1694, ma soltanto in quella del 1718: “Prime produzioni della mente o dell’arte, che si fanno riguardo a una materia, per verificarne la possibilità di riuscita”72. Alla prova dei fatti, un riconoscimento del saggio come genere in Francia ci sarà proprio nel Settecento73. L’Essai sur les mœurs et l’esprit des nations (1756) di Voltaire riprende da Locke tanto il valore semantico del termine al singolare quanto la specificazione di una topica moralistica e civile inaugurata da Bacon. Possono far parte della medesima produzione francese della forma del saggio anglosassone anche l’Essai sur l’origine des connaissances humaines (1746) di Étienne Bonnot de Condillac e l’Essai sur la peinture (1766) – di argomento stavolta propriamente estetico – di Denis Diderot, nella cui Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers (1751) il nome “saggio” era d’altronde già presente come voce autonoma. Nello stesso periodo, la cultura inglese è artefice anche di un’altra evoluzione all’interno del genere saggistico. L’invenzione da parte di Joseph Addison e Richard Steele del personaggio fittizio di Mr Spectator sul quotidiano dal titolo omonimo, “The Spectator” (uscito dal 1° marzo 1711 al 6 dicembre 1712), imprimerà una declinazione del genere saggistico verso il giornalismo, il periodical essay74, che tuttavia abbandonerà ben presto l’etichetta generica di saggio per assumere denominazioni più proprie, come “articolo”. Mr Spectator, in visita a Londra, rappresenta, come dice il nome, un osservatore attento della società del tempo, entro un club di personaggi pittoreschi presi come esempio di alcune figure sociali; egli si fa così narratore della vita e della cultura cittadina della nascente civiltà industriale. Nell’Ottocento, la fortuna del genere conosce un picco di popolarità con gli Essays of Elia (1823-1833) di Charles Lamb, in cui il portato autobiografico è preponderante e in parte già derivato dalla contaminazione con il modo narrativo75. Sotto un medesimo pa72 “Premières productions de l’esprit ou de l’art qui se font sur quelque sujet, sur quelque matière, pour voir si l’on y réussira” (cit. da Marielle Macé, Le temps de l’essai, cit., p. 27). 73 L’opera di Locke cui abbiamo accennato viene tradotta in francese proprio nel 1700 da Pierre Coste, con il titolo Essai sur l’entendement humain. 74 Da ricordare in questa prospettiva anche il quotidiano “The Tatler”, fondato dallo stesso Steele e uscito dal 12 aprile 1709 al 2 gennaio 1711. 75 Sul saggismo di Lamb, si veda Paolo Bugliani, Le voci del saggista: Charles Lamb fra modernità e tradizione, Carocci, Roma 2019.

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radigma “privato” si possono annoverare anche i saggi letterari di William Hazlitt negli anni Dieci e Venti e parte di quelli di Robert Louis Stevenson negli anni Settanta e Ottanta del secolo76. Nel saggio di lingua inglese la presenza di una topica culturale si conferma, ad esempio, negli Essays in Criticism (1865-1888) di Matthew Arnold, mentre in Francia il genere finisce per ritrovarsi spesso sul crinale di confine che lo divide dal trattato filosofico, approfondendone così la sua variante analitica: come casi esemplari si possono ricordare titoli quali Essai sur les fondements de la psychologie et sur ses rapports avec l’étude de la nature (1812) di Maine de Biran, Essai sur l’indifférence en matière de religion (1817) di Félicité de Lamennais, Essais de critique et d’histoire (1857) di Hyppolite Taine e, alle soglie del Novecento, Essai sur les données immédiates de la conscience (1889) di Henri Bergson. Nei secoli centrali del suo sviluppo, letterature come quella italiana hanno contribuito innegabilmente a conferire una dimensione internazionale al genere. La traduzione in italiano degli Essais di Montaigne fu pronta addirittura nel 1590, quindi ancora prima dell’edizione postuma del 1595, e fu redatta da Girolamo Naselli, il quale scelse un titolo che esprime le medesime difficoltà di traduzione incontrate da altre lingue: Discorsi morali, politici et militari del molto illustre Sig. Michiel di Montagna (Ferrara, stampatore Benedetto Mamarello). Solo nel 1633, a Venezia, Girolamo Canini li tradurrà in Saggi, decretando il nome di genere ormai acquisito anche nel lessico letterario italiano. Anche in Italia il genere consente al pensiero scientifico moderno di compiere un importante passo in avanti con Il saggiatore77 (1623) di Galileo Galilei, mentre nel filone del saggio analitico, prima di Locke, Lorenzo Magalotti dà alle stampe Saggi di naturali esperienze (1667). Infine, nemmeno sul fronte storico mancano opere come La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859. Saggio comparativo (1889) di 76 “L’Ottocento ha visto molte altre trasformazioni elegiache, sia in prosa che in poesia. Il tipo di saggio familiare scritto da Lamb, Hazlitt o Stevenson era incomparabilmente più espressivo – e più auto-espressivo – di quello di Bacon” (Alastair Fowler, Kinds of Literature. An Introduction to the Theory of Genres and Modes, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1982, p. 210). 77 Si osservi come il titolo insista sul senso di esame del nome di genere, dacché il saggiatore, al pari dell’exagium tardolatino, era una bilancia di precisione. Va rimarcata tuttavia la forma epistolare al suo interno.

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Alessandro Manzoni. Tuttavia, per la letteratura italiana del Novecento studiosi come Berardinelli hanno sottolineato l’importante fioritura di saggi78, dimostrando che se una disattenzione da parte della critica poteva essere ancora accettabile all’inizio degli anni Venti79, oggigiorno trova minori giustificazioni. In Francia, il secolo scorso è stato considerato come il periodo di sua più ampia diffusione: “il Novecento costituirà la finestra storica, non di esistenza, ma di rilevanza, cioè di visibilità culturale del genere”80 sostiene Macé, che identifica quattro forme prevalenti in corrispondenza di periodi storici precisi. Se nella Francia pre-novecentesca prevaleva il saggio-memoria, negli anni Venti del Novecento la modalità lirica sembra essere la più diffusa, mentre negli anni Quaranta si afferma l’idea di un saggio-situazione, di argomento strettamente contemporaneo e, infine, il saggio teorico segna il passo alla volta degli anni Sessanta81. Insomma, la ricchezza di soluzioni formali del saggio manifesta nel Novecento tutto il suo potenziale, ampiamente sfruttato dalle varie lingue e letterature82. Le indagini teoriche hanno soprattutto collegato l’affermazione del genere a quella delle identità nazionali, etniche o di gender che si sono accavallate nel secolo scorso. Ad esempio, se dopo la ricezione tardiva del genere in Spagna83 si vaglia l’incredibile proliferazione nel campo culturale della lingua spagnola, si vedrà come nell’America Latina il saggio sia stato recentemente concepito come discurso situado rispetto alla storia delle rivendicazioni sociali84. 78 Alfonso Berardinelli, La forma del saggio. Definizione e attualità di un genere letterario, Marsilio, Venezia 2002. 79 Come, ad esempio, ancora Harold V. Routh, The Origins of the Essay, cit., che nel 1920 limita il suo studio comparativo del genere alle sole produzioni inglesi e francesi. 80 Marielle Macé, Le temps de l’essai, cit., p. 19. 81 Ivi, p. 289. 82 La maggior parte dei lavori critici sul saggio è stata scritta nel Novecento: più precisamente negli anni Cinquanta e negli Ottanta in Spagna, tra gli anni Cinquanta e Sessanta in Germania, in area anglofona tra i Venti e i Trenta e di nuovo tra i Cinquanta e i Settanta (Alexander J. Butrym (a cura di), Essays on the Essay, cit., p. 5). 83 In Spagna, la prima traduzione completa degli Essais di Montaigne data soltanto 1898 a opera di Constantino Román y Salamero. Il primo libro era però già stato tradotto nel 1634-36 da Diego de Cisneros, ex-carmelitano, con il titolo Esperiencias y varios discursos de Miguel Señor de Montaña, rimasto però allo stato di manoscritto (Juan Marichal, Teoría e historia del ensayismo hispánico, Alianza, Madrid 1984, p. 63). 84 Liliana Weinberg, El ensayo, entre el paraíso y el infierno, Universidad Nacional Autónoma de México, México 2001, pp. 34 ss e Ead., Situación del ensayo, Universidad Nacional Autónoma de México, México 2006, p. 197.

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Nell’America Settentrionale, contemporaneamente alla sua affermazione politica, economica e culturale, avviene qualcosa di analogo. Più di ogni altro nel secondo Novecento, il Québec è stato il contesto ancor oggi di riferimento per lo studio del genere saggistico. La formazione del genere in Québec ha assimilato la discussione delle istanze laiche della società emerse durante gli anni Sessanta (quelli della Révolution tranquille), per essere successivamente investito, a partire degli anni Ottanta, da quelle del pensiero femminista e delle minoranze etniche85. Agli sforzi di documentazione e d’archiviazione del panorama saggistico nazionale, seguirono non soltanto antologie ma anche formulazioni critiche che provarono a trascendere i ristretti confini nazionali per assurgere a vera e propria teoria formale di un genere saggistico internazionale86. Tentando di dare un senso alla proliferazione e alla tradizione storica del saggio, la storia letteraria permette di prendere in esame pratiche letterarie molto diverse, suggerendo una permanenza almeno di entrambi i modelli nella storia della letteratura europea dal Settecento fino a oggi: essi possono essere riassunti – secondo la proposta di Marc Angenot – in saggio meditativo e saggio diagnostico-cognitivo87. La storia 85 Anne Caumartin e Martine-Emmanuelle Lapointe, Parcours de l’essai québécois (1980-2000), Nota bene, Québec 2004, pp. 9 ss. Per il saggio specificamente femminile in Québec, vedi Laurent Mailhot, Ouvrir le livre. Essais, L’Hexagone, Montréal 1992, pp. 211-224. Per il saggio nel quadro della scrittura delle donne afroamericane e latino americane, vedi Ruth-Ellen Boetcher Joeres e Elizabeth Mittman (a cura di), The Politics of the Essay: Feminist Perspectives, Indiana University Press, Bloomington 1993. 86 Per una storia del saggio in Québec si veda Paul Wyczynski, François Gallays e Sylvain Simard (a cura di), L’Essai et la prose d’idées au Québec, Fides, Montréal 1985, soprattutto per l’analisi del saggio come veicolo di sentimenti nazionalisti, ma necessariamente da aggiornare con repertori più recenti, come Laurent Mailhot (a cura di), Essais québécois 1837-1983. Anthologie littéraire, Hurtubise HMH, Montréal 1984 e Ead. (a cura di), L’essai québécois depuis 1845, cit. 87 Il saggio meditativo sarebbe “un pensiero nel suo farsi”, un “genere deliberativo interiore”; “[l]a struttura generale del discorso è azzardata, zigzagante; il passaggio da una proposizione all’altra si fa non tramite l’essenziale, ma attraverso l’accessorio: l’immagine intuitiva ha qui più forza che il sillogismo” (Marc Angenot, La parole pamphlétaire: contribution à la typologie des discours modernes, Payot, Paris 1982, pp. 56-57).“Il saggio diagnostico cerca di radunare una serie di fenomeni per estrarne delle leggi, costituendosi in un tutto chiuso e completo. Un tale discorso è solo in parte dimostrativo: descrive, appiattisce l’evidenza […]; tutto è dato dall’inizio e le ultime pagine ritrovano le proposizioni di partenza. Le dimostrazioni hanno una funzione didattica […]. Il saggio cognitivo tenta di posizionarsi in una prospettiva universale e neutra. È parola istituzionale” (ivi, pp. 47, 49).

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del nome di genere “saggio” è, insomma, anche la storia della sua applicabilità spesso contraddittoria a opere molto diverse, non solo nella scelta degli argomenti (letterari, filosofici, antropologici e politici), ma anche negli scopi cognitivi inseguiti dal soggetto enunciatore, coadiuvato dalla presenza o meno di digressioni, da procedimenti dialogici di confronto o da analisi empiriche dedotte secondo certi principi mentali ed esperimenti concreti e ripetibili. In virtù di questa divergenza formale e cognitiva che possiamo descrivere all’interno del genere, la nostra trattazione può ricavare uno spazio letterario all’interno del campo generico per quella forma di critica letteraria, al crocevia di esperienza contingente e personale e ambizione analitica, che chiameremo “pseudo-saggio”. Ma la storia del genere illumina anche il processo attraverso cui il saggio tenta di occupare un ruolo sociale, assorbendo e rispondendo alle sollecitazioni del tempo storico in cui si trova a operare. La teorizzazione sul saggio non può che ritornare a essere la storia del suo compromesso formale ed epistemologico con le teorie ideologicamente dominanti: un compromesso che, a un certo punto, anche il saggio critico si trova ad affrontare, nascondere o superare attraverso la forma dello pseudo-saggio.

1.4. La relazione metatestuale: dal saggio critico allo pseudo-saggio Per Max Bense, il saggio può essere considerato come una forma intermedia o “neutrale” tra letteratura e scienza; esso combina entrambe, in una forma di sperimentazione88, secondo un paradigma che, forse, già José Ortega y Gasset aveva espresso efficacemente in un famoso passo delle Meditaciones del Quijote (1914): “Il saggio è la scienza, meno la prova esplicita”89. Per questa sua posizione di compromesso, il saggio è la forma della categoria critica del nostro spirito, perché permette per Bense di sperimentare variando tutti i punti di vista90. Se accogliamo tale definizione, il genere che descrive meglio questa funzione nei confronti della letteratura porta il nome di saggio critico. 88 Max Bense, “Über den Essay und seine Prosa” (1947), trad. it. “Sulla prosa del saggio”, in Stefano Benassi e Paolo Pullega (a cura di), Il saggio nella cultura tedesca del Novecento, Cappelli, Bologna 1989, p. 180. 89 José Ortega y Gasset, Meditaciones del Quijote (1914), Revista de Occidente, Madrid 1957, p. 45. 90 Max Bense, “Sulla prosa del saggio”, cit., p. 187.

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Il saggio critico è una delle forme di comunicazione della critica letteraria. Le altre sono quelle dello studio letterario, della tesi, della critica militante e delle varie produzioni didattiche. In particolare, il saggio critico s’impegna nell’interpretazione critica dei testi letterari, “un’attività metalinguistica che mira a descrivere e a spiegare per quali ragioni formali un dato testo produce una data risposta”91. Tale interpretazione, a differenza della falsificabilità propria degli enunciati scientifici, si fonda sulla capacità argomentativa dispiegata dal saggio92. Per Pedro Aullón de Haro, il saggio è appunto tale in virtù del discorso argomentativo93. Dal punto di vista discorsivo, possiamo intendere l’argomentazione come quella funzione del discorso volta a condividere certe opinioni o “rappresentazioni” relative a un determinato tema e a persuadere un interlocutore94. Si tratta di un tipo di struttura sostanzialmente diversa da quella che conduce a verità certe e scientificamente dimostrabili e descrivibili. Nel saggio critico, l’argomentazione veicola opinioni sui testi letterari, che compaiono nell’argomentazione sotto forma di citazioni. I testi citati rappresentano gli estremi fondamentali entro cui si forma lo scritto del critico. Si stabilisce dunque un’interazione tra il discorso citant e il discorso citato, tra il commentaire e il testo commentato95. Gérard Genette integrerà questa interazione tra le categorie della trascendenza testuale in Palimpsestes e le darà il nome, più preciso rispetto a quello di relazione critica, di metatestualità: La relazione, detta comunemente di “commento”, che unisce un testo a un altro testo di cui il primo parla, ma senza necessariamente citarlo (convocarlo) e anche, al limite, senza nominarlo […]. È, per eccellenza, la relazione critica. Ci sono, naturalmente, molti studi (meta-me-

91 Umberto Eco, I limiti dell’interpretazione, Bompiani, Milano 1990, p. 207. 92 “Contrariamente alla spiegazione dell’oggetto strettamente scientifico, sottoposto al verdetto della verifica sperimentale, l’interpretazione dell’oggetto significativo […] non avrà altro criterio che la propria coerenza, la non contraddizione, la menzione di tutti i fatti rilevanti, il rigore della sua formalizzazione” (Jean Starobinski, L’œil vivant II. La relation critique, cit., p. 201). 93 Pedro Aullón de Haro, Teoría del Ensayo como categoría polémica y programática en el marco de un sistema global de géneros, Verbum, Madrid 1992, pp. 127-128. 94 Questa è la definizione data da Jean-Michel Adam, Les texte: types et prototypes. Récit, description, argumentation, explication et dialogue, Nathan, Poitiers 1992, p. 103. 95 Michel Charles, La lecture critique, in «Poétique», n. 34, 1978, p. 131.

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tatesti) su certi metatesti critici e sulla storia della critica come genere; ma non sono sicuro che sia stato considerato con tutta l’attenzione che merita il fatto stesso e lo stato della relazione metatestuale96.

Notiamo che Genette, cautamente, indica come il testo commentato non debba necessariamente anche essere citato. Sembra dunque limitare la relazione metatestuale alla presenza del commento, ma non a quella della citazione, escludendo così la pratica della parafrasi o del riassunto, in cui lo statuto citazionale è nondimeno presente attraverso l’impiego di altre pratiche ipertestuali, come la condensazione97. Un’operazione di interpretazione ovviamente avviene anche nella parafrasi e nel riassunto, ma non si stabilisce in essi una relazione tra testo e ipotesto di tipo metatestuale, cioè commentativo. Una relazione metatestuale è certamente alla base del saggio critico, laddove il discorso è impegnato in un commento continuo e progressivo del testo letterario, senza essere costretto a citarne necessariamente ampie parti, ma potendo piuttosto rimandare a esso tramite espedienti di vario tipo, come i riferimenti bibliografici. Nel saggio critico non c’è insomma solo l’argomentazione e l’interpretazione dei testi, ma anche una relazione metatestuale, da cui l’argomentazione stessa si sviluppa e da cui l’interpretazione ricava la sua forza retorica e persuasiva. Come scrive Theodor W. Adorno: “astutamente il saggio si fortifica nei testi, come se essi esistessero sic et simpliciter e possedessero autorità. In tal modo, senza ricorrere alla menzogna di una realtà prima, il saggio si garantisce un terreno, seppur incerto, sul quale poggiare”98. Dal punto di vista dello pseudo-saggio, ciò che avviene riguarda innanzitutto una modificazione della relazione tra commento e testo letterario. Lo pseudo-saggio poggia ancora sulla realtà dei testi di cui parla Adorno, ma questa realtà viene contraffatta. La metatestualità interagisce con un’altra relazione testuale, una relazione di trasformazione che modifica la natura stessa dei testi che dovrebbero essere commentati. 96 Gérard Genette, Palimpsestes. La littérature au second degré, Seuil, Paris 1982, pp. 11-12. Vedi anche Laurent Lepaludier (a cura di), Métatextualité et métafiction. Théorie et analyses, Presses universitaires de Rennes, Rennes 2003, in cui, al contrario, la metatestualità è affrontata dal punto di vista delle meta-finzioni nel loro portato “critico” rispetto ai testi. 97 Gérard Genette, Palimpsestes, cit., pp. 341-351. 98 Theodor W. Adorno, “Il saggio come forma”, cit., pp. 25-26.

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Una buona definizione di questo trucco potrebbe trovarsi in un aforisma di Graham Good, quando egli definisce il saggio: “un commento che si è liberato dal suo stesso ‘testo’”99. Questo “trucco” dello pseudo-saggio dipende da un camuffamento del testo commentato100. O meglio, nelle diverse tipologie degli pseudo-saggi incontreremo un commento che agisce al contempo su un testo citato (ipotesto) – nel nostro caso di natura letteraria, romanzesca o poetica – e su una rappresentazione altra, di materiale biografico, autobiografico, oppure prettamente finzionale elaborata dal critico, il cui confine con il testo letterario da commentare non viene nemmeno segnalato, come succede abitualmente nel saggio critico tra metatesto e ipotesto, tramite qualche interruzione, separazione o espediente tipografico. Tale camuffamento del testo da commentare inscrive una doppiezza nello pseudo-saggio, il quale contiene dunque due (o più) discorsi eterogenei. Da un punto di vista ancora generico – su cui per ora ci arrestiamo – il conflitto tra relazione metatestuale e altra rappresentazione impatta sull’orientamento dello pseudo-saggio all’interno del campo letterario. Seguendo ancora Genette, sappiamo che la letterarietà del saggio può essere solo condizionale: considerare un saggio come opera letteraria (gli Essais di Montaigne) non dipenderà dai suoi contenuti semantici-tematici, come per la finzione (“un brutto romanzo è pur sempre un romanzo”), ma dipenderà dalle singole opere secondo un processo di interpretazione. Come riconosce la stessa Langlet, possiamo cogliere nel genere del saggio l’occasione per studiare a fondo la questione del regime condizionale dei generi101. Se una poetica condizionale può essere compresa soltanto interrogando la valutazione estetica da parte del lettore, gli pseudo-saggi permettono come pochi di esplorare il regime condizionale. Anche se gli elementi paratestuali agiranno spesso come ci si aspetta, cioè subendo il conformismo del campo – includendo gli pseudo-saggi nel regime della letterarietà tramite segnalatori “tematici”102, come l’indicazione “romanzo” in copertina 99 Graham Good, The Observing Self, cit., p. 3. 100 Riguardo al momento in cui Borges camuffa ancora la finzione in critica letteraria, Genette usa le categorie di “pseudo-riassunto” e di “metatestualità fittizia” (Gérard Genette, Palimpsestes, cit., pp. 359-363). 101 Irène Langlet, L’abeille et la balance, cit., p. 144. 102 Gérard Genette, Fiction et diction, Seuil, Paris 2004, p. 19.

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o come l’indicazione “dialogo” dopo il titolo – a un livello testuale più profondo gli pseudo-saggi amplificheranno la poetica condizionale con cui il saggio critico negozia la propria dimensione letteraria. In altre parole, la questione della letterarietà del saggio critico è al centro dello pseudo-saggio. Gli pseudo-saggi non cercheranno tanto di entrare nel regime costitutivo della finzione, ad esempio tramite un’ibridazione con questa, ma di portare al loro interno la rappresentazione dell’attività lettoriale come ragione d’essere dello pseudo-saggio, come processo di valutazione dei suoi ipotesti e anche come occasione di un’auto-valutazione della forma critica103. In sostanza, gli pseudo-saggi ospiteranno la rappresentazione non solo di un personaggio-lettore (più o meno autobiografico) fittizio, ma anche della sua lettura, dell’esperienza estetica che egli ha fatto di quei testi. Ciò non toglie che anche lo pseudo-saggio sia un oggetto destinato a un impiego non estetico, ma critico e didattico; nondimeno la sua funzione, come per ogni altro saggio, può essere pur sempre quella di produrre un piacere nel suo svolgimento104. Per lo pseudo-saggio, la rappresentazione dell’attività lettoriale – da intendersi in quanto non riducibile alla sola attività critica – è anche una riproduzione, una riattivazione del piacere della lettura in una scrittura. Lo pseudo-saggio non elude certo il problema della sua destinazione didattica, come ogni saggio critico. Le elaborazioni teoriche del saggio scontano un rapporto talvolta morboso con alcuni pionieri di tale ricerca, soprattutto Adorno, che pensa sostanzialmente a una forma aforistica, frammentaria, nietzschiana di saggio. Secondo Adorno, il saggio rifiuterebbe tutti i metodi: empirismo, idealismo, e quello cartesiano soprattutto, origine del pensiero moderno105. Il saggio per Adorno si configura così come anti-scolastico e anti-convenzionale. La contestazione da parte di Adorno dell’industria culturale lo portava inevitabilmente a privilegiare tale forma “eretica”. Eppure, l’industria scolastica reintegrerà a propria volta il saggio critico all’interno del processo di103 “Si tratta di determinare i processi di fattualizzazione, vale a dire il modo retorico, narrativo e stilistico ma anche non-testuale con cui uno scienziato, un filosofo, un critico […] certificano la validità di ciò che propongono e, allo stesso tempo, producono la convinzione particolare che ogni modello letterario insegue” (Jean-Louis Jeannelle, Histoire littéraire et genres factuels, in «Fabula-LhT», n. 0, Théorie et histoire littéraire, febbraio 2005, URL: www.fabula.org/lht/0/jeannelle.html). 104 Irène Langlet, L’abeille et la balance, cit., p. 300. 105 Theodor W. Adorno, “Il saggio come forma”, cit., pp. 17-19.

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dattico che coinvolge l’apprendimento delle discipline letterarie. Anzi, il saggio critico si nutre di metodi diversi106, senza per questo cessare di essere un saggio, e partecipa all’educazione letteraria non solo nelle sue forme più “metodiche”, ma anche in quelle più “creative”. Ad esempio, Essay è adottato per la composizione accademica e per la scrittura creativa nei college americani, mentre i manuali europei eliminano le tendenze antimetodiche (specialmente in Francia, in favore della dissertazione)107. Già in piena Rivoluzione industriale, il saggio si preoccupa di controbilanciare la chiusura delle discipline scientifiche e tecniche, permettendo allo scrittore, allo scienziato o all’intellettuale di generalizzare i problemi, collegandoli alle nuove preoccupazioni sociali e culturali, sottraendoli a un protocollo scientifico percepito sempre più come insufficiente108. Pur considerando ogni differenza tra critica e volgarizzazione, è particolarmente significativo che, quando la teoria ha cercato di pensare il saggio come un genere ampio ed elastico, si sia rivolta proprio al paradigma didattico, finendo persino (è il caso di Antonio García Berrio, Javier Huerta Calvo, John A. McCarthy) per proporre un quarto genere oltre l’epica, la lirica e il dramma della tripartizione hegeliana109. Ne consegue che l’arte e la critica, la creazione e la didattica non potranno più essere unite? Più che di una realtà verificata, si tratta di un presupposto tutto teorico, o tutt’al più sociale (relegato 106 “Si tratta di sfruttare al massimo queste discipline, di godere di tutto ciò che sono in grado di offrire, quindi di superarle di un passo, in una fase di riflessione e libertà, per la loro propria difesa e per la nostra” (Jean Starobinski, “Peut-on-définir l’essai?”, cit., p. 196). “Mentre Montaigne scrisse con un occhio sul mondo e con l’altro su se stesso, il saggista moderno, sub specie accademico, lavora con un occhio sull’oggetto di studio mentre con l’altro esamina nervosamente i metodi con cui è autorizzato a conoscere o interpretare” (Lane R. Kauffmann, “The Skewed Path: Essaying as Unmethodical Method”, in Alexander J. Butrym (a cura di), Essays on the Essay, cit., p. 223). 107 Irène Langlet, L’abeille et la balance, cit., p. 196. 108 Ivi, p. 44. 109 Antonio García Berrio e Javier Huerta Calvo, Los géneros literarios: sistema e historia (Una introducción), Cátedra, Madrid 1992, p. 148; John A. McCarthy, Crossing Boundaries: A Theory and History of Essay Writing in German, 1680-1815, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1989, p. 19. Ben prima, anche Hans Hennecke ha parlato del saggio come del quarto genere da aggiungere alla lirica, all’epica e al dramma (vedi Hans Hennecke, “Die vierte literarische Gattung. Reflexionen über den Essay”, in Id., Kritik. Gesammelte Essays zur modernen Literatur, Bertelsmann, Gütersloh 1958, pp. 7-10).

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specialmente all’ambiente accademico110), dacché, se sembra che il genere del saggio ponga tale problema all’interno delle scienze umane, lo fa perché lo statuto problematico di queste stesse discipline (“scientifiche” o “umanistiche”) non è stato opportunamente chiarito a livello epistemologico e sociale. Lo pseudo-saggio, nelle sue varianti formali, dimostra di essere la negazione di questa frattura111, a patto di istituirsi come genere di compromesso, pseudo-disciplinare e pseudo-creativo, e non di sintesi o sincrasi creativa-disciplinare, perché non vuole né abbracciare completamente l’immaginazione letteraria né abbandonare il campo della didattica e della persuasione, ma rappresentare la loro tensione come un risultato al contempo dialettico e letterario, che conduce dall’una all’altra senza presentarsi come scrittura egemonizzata dalla finzione o come verità precostituita dall’ideologia.

1.5. Pseudo-saggio: saggio ibrido? Si considerino “casi in cui un testo, un’opera si compone di più atti intenzionali diversi, riferibili a diversi nomi di generi”112. La categoria in cui includere testi, od opere, che corrispondano a tale definizione è quella dell’ibrido letterario. La definizione più semplice che si può dare è quella di una mescolanza generica, come si ritrova ad esempio in Alastair Fowler: “Il tipo più ovvio di mescolanza generica è l’ibrido fondamentale, in cui due o più repertori generici completi sono presenti in proporzioni tali che nessuno di essi domina. I generi componenti un ibrido saranno necessariamente della stessa scala: sono infatti tipi vicini o contrastanti che hanno in comune alcune forme esteriori”113. Affinché questo rapporto orizzontale, affatto gerarchico, si compia, serve che l’ibrido letterario nasca proprio a partire da generi vicini, in qualche modo simili o che almeno condividano strutture 110 “Dal punto di vista della vita universitaria, se valutato dalla commissione di una tesi, il saggista è un amabile dilettante che va ad unirsi al critico impressionista nella zona sospetta della non-scientificità” (Jean Starobinski, “Peut-on-définir l’essai?”, cit., p. 187). 111 “[N]on si serve adeguatamente la causa del saggio se si mantiene un’opposizione fittizia tra il momento della spontaneità metodologica della scrittura e il suo momento di applicazione critica o metodica: perché è solo nell’impegno a mantenere costante la tensione tra i due poli che il saggista può evitare di impantanarsi nel semplice luogo comune o nel dogmatismo” (Lane R. Kauffmann, La voie diagonal de l’essai: une méthode sans méthode, in «Diogène», n. 143, 1988, p. 90). 112 Jean-Marie Schaeffer, Che cos’è un genere letterario?, Pratiche, Parma 1992, p. 144. 113 Alastair Fowler, Kinds of Literature, cit., p. 183.

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analoghe, gli stessi ordini del discorso e i medesimi scopi. Il saggio è stato interpretato come ibrido proprio per la sua vicinanza ad altri generi, appartenenti al discorso memoriale e autobiografico. Se il problema da parte della teoria è stato stabilire il corretto apporto delle diverse forme letterarie al genere del saggio, si comprende dunque come proprio la nozione di ibrido letterario sia la più idonea, da un lato, per circoscrivere il problema di una forma “irrisolta” per il saggio e, dall’altro, per offrire anche qualche aiuto all’ipotesi dello pseudo-saggio, il cui modello che stiamo delineando prevede una “collaborazione” tra generi letterari, senza risolverne la molteplicità in uno soltanto tra quelli esistenti. Secondo Irène Langlet, si possono raggruppare tre grandi filoni teorici di interpretazione del saggio: come “mosaico” di altre forme – le mixte – in cui si privilegia l’eterogeneità e l’ibridismo del saggio; come intersezione di altre forme – l’entre-deux – che valorizza la tensione verso un’identità specifica del saggio; e un ultimo, infine, che lo considera un oggetto letterario al di fuori delle forme – l’en deçà – e conduce a una concezione del saggio come anti-genere o non-genere114. La visione del saggio come forma “mista” presenta una relazione con la concezione teorica più immediata di ibrido letterario: una compartecipazione generica che giustappone, piuttosto che incastrare in una scala di diverse funzioni, le forme letterarie implicate. Eppure, vedremo che dalla nozione di ibrido letterario possono discendere anche altre strade interpretative, che permettono di collegare all’ibrido anche le altre due tipologie di Langlet, vale a dire il saggio come intersezione di forme e come oggetto al di fuori dei generi. In definitiva, si tenterà di dimostrare che la concezione del saggio come genere ibrido non poggia su qualche sua identità specifica, ma viene piuttosto dedotta dalla concezione stessa dell’ibrido letterario: una questione estetica posta fin dagli esordi dalla filosofia occidentale. Converrà innanzitutto ricostruire il significato che assume l’ibrido letterario, al fine di comprendere cosa significhi parlare di ibridazione letteraria e, nello specifico, in relazione alle opere letterarie. Il primo problema che sorge in uno studio di questo tipo riguarda proprio la concezione che la storia del pensiero occidentale ha riservato all’idea di ibridazione. Se nella storia estetica l’ibrido assume un valore tutt’altro che neutro, l’atto intenzionale che lo vuole riferire a un testo 114 Irène Langlet, L’abeille et la balance, cit., pp. 81-82.

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letterario riversa su questo un deposito di connotazioni particolari, di ordine filosofico, sociale ed etico. Le denunce contro l’ibridazione si radicano in profondità nella storia del pensiero occidentale. Fin dalla filosofia antica, la poetica ha contrastato le mescolanze di ritmi e temi per poter dare avvio al suo programma normativo e tassonomico. Fin dal principio, il termine hybrida è stato connotato da un senso di fallimento. In relazione alle opere artistiche, troviamo già in Platone un’indicazione in questo senso, quando per primo condannò i “poeti” impegnati in questa mescolanza di forme musicali diverse: Così la massa dei cittadini era disposta a lasciarsi guidare con disciplina e non osava giudicare con gli strepiti; poi però, col passare del tempo, i poeti finirono col diventare i promotori delle trasgressioni contro la musica: persone dotate di talento poetico naturale ma ignare dei diritti e delle norme della Musa, pronte a baccheggiare e a lasciarsi possedere dal piacere più del dovuto e a mescolare treni con inni e peani con ditirambi, e a imitare le aulodie con le citarodie e a confondere tutto con tutto mentendo pur senza volerlo, per ignoranza, sulla musica col dire che la musica non soggiace ad alcuna norma e che ognuno, competente o meno, è in grado di giudicare il valore in base al piacere che ne ricava. Componendo simili brani e facendo commenti di tal genere instillarono nei più l’arbitrio in campo musicale e l’audacia di emettere giudizi come se ne fossero all’altezza115.

L’accusa rivolta all’ibridazione da Platone è diretta: corrompere l’educazione dei cittadini in materia intellettuale, e da lì impedire la capacità del giusto discernimento, lasciando campo libero all’anarchia prima artistica, poi politica (come preciserà nei capitoli successivi). Ma l’attenzione di Platone si rivolge a un fatto determinante dell’ibrido: la liberazione dalle regole e dai precetti artistici conduce a un maggiore “piacere” negli ascoltatori. Il carattere “repressivo” delle varie poetiche occidentali, almeno percepito come tale dagli artisti che opereranno dal Romanticismo fino alle avanguardie e alle neo-avanguardie, si manifesta, fin da subito, come un’azione rivolta contro la pratica dell’ibridazione in quanto liberatoria degli istinti e delle passioni meno intellet115 Platone, Leggi, III, 700 d-e (trad. it. di Franco Ferrari e Silvia Poli, BUR, Milano 2005, p. 315).

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tuali: dei piaceri “corporali” del testo. Questa caratteristica dell’ibrido sarà ripresa dal Romanticismo e verrà assunta a paradigma di molta teoria letteraria novecentesca. Ma per la filosofia platonica, e dopo per la Poetica aristotelica, la divisione degli stili consente di evitare, innanzitutto, la “confusione” e l’“ignoranza” estetica; permette di elevarsi a un livello di consapevolezza superiore di cui i generi stessi sono viatico formale e conoscitivo. In latino, l’aggettivo hybrida116 nel significato di “bastardo”, usato in italiano riguardo agli incroci di razza canina, verrà impiegato per indicare l’unione di un animale selvatico con uno domestico; oppure, tramite una traslazione d’ambito, di un cittadino liberus con una schiava. Nella poetica latina, all’ibrido viene attribuita un’apparenza mostruosa e anche l’ibrido letterario viene ritratto secondo le fattezze del mostro estetico, prodotto di un’anomalia incoerente e disarmonica delle sue componenti. Ricordiamo l’inizio dell’Ars poetica di Orazio, dove le ibridazioni tra essere umano e animale appaiono ridicole nella loro resa artistica: Se mai sotto un capo umano un pittore ponesse un collo equino e rivestisse di penne d’ogni colore delle membra prese a casaccio sì che la bella donna di sopra finisse in un’orrenda coda di pesce, e poi v’invitasse ad ammirare il dipinto, sapreste non ridere, amici? Eppure, o Pisoni, è a questo dipinto che è simile un libro in cui non ci siano che vane visioni, simili in tutto ai sogni d’un uomo malato e dove né piedi né testa rispondono a una figura soltanto […]117.

L’ibrido letterario è oggetto risibile, non piacevole; non conduce più a un sorriso compiacente negli ascoltatori, quando il poeta offre al proprio pubblico invenzioni troppo ardite. L’ibrido interrompe un patto tra artisti e fruitori, provocando un effetto di disturbo: la percezione di un’opera non più all’altezza della grande arte che in quel patto trova la propria giustificazione e la propria popolarità. Sono preoccupazioni 116 Il latino classico ibrida (“di sangue misto”) diviene forse hybrida per calco dal greco ὔβρις, ovvero hybris (“eccesso”), acquistando così in parte la sua sfumatura di degenerazione morale, come apparirà dai suoi futuri sviluppi semantici. 117 Orazio, Ars poetica, in Epistole, a cura di Ugo Dotti, Feltrinelli, Milano 2008, p. 167.

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condivise da altri autori latini, come Terenzio, che però introduce un altro termine rispetto a hybrida per indicare non tanto le singolari teratologie contro cui si scaglierà Orazio, ma il vero e proprio fenomeno di contaminazione di forme e temi diversi, provenienti da altri generi o tradizioni, all’interno di un’opera letteraria. Si deve infatti al commediografo Terenzio l’introduzione di un termine che avrà meno fortuna nella nostra storia letteraria, almeno fino ai tempi recenti. Nei prologhi dell’Andria (v. 16)118 e dell’Hauton Timorumenos (v. 17)119, Terenzio impiega il verbo contaminare nell’originario senso di “sciupare, deturpare, profanare un originale antico, traendone, anzi rubandone a piacimento singole parti”120. Terenzio precisa però che la sua nuova creazione non deturpa gli originali antichi: due commedie di Menandro diverse, che se presentavano già una trama alquanto somigliante possono ora essere unite per dar vita a una nuova opera. Ritroviamo la concezione collaborativa, orizzontale dell’ibridazione espressa da Fowler nei termini di una mescolanza di elementi diversi. Contaminare indica in Terenzio una pratica testuale rivolta al livello delle forme, al processo del loro inserimento in un discorso organico, all’aggregazione di elementi plurimi a un progetto che riguarda l’opera intera. Non è un caso che Gérard Genette collochi all’interno delle pratiche di estensione testuale del suo Palimpsestes (1982) anche la contaminazione, segnalando il termine come derivato da Terenzio: “questa mescolanza a dosi variabili di due (o più) ipotesti è una pratica tradizionale e che la poetica conosce precisamente sotto il termine di contaminazione”121. Genette crea una distinzione particolarmente importante all’interno del significato di contaminazione. La contamina118 “Il poeta confessa che ha trasposto dalla Perinzia all’Andria, e ha usato come suoi, gli elementi che gli servivano. È questo che gli rinfacciano, loro, che stanno a disputare come e qualmente non sia lecito contaminare delle commedie” (Terenzio, Andria, in Le commedie, trad. di Ferruccio Bertini e Vico Faggi, Garzanti, Milano 2001, vol. 1, p. 11). 119 “[I] malevoli spargono la voce che l’autore, contaminando tante commedie greche, ne fa così poche di latine. Be’, lui mica lo nega e tanto meno se ne vergogna” (Id., Hauton Timorumenos, ivi, p. 139). 120 Pietro Ferrarino, La cosiddetta contaminazione nell’antica commedia romana (1947), ed. a cura di Lucio Cristante, Claudio Marangoni e Romeo Schievenin, Hakkert, Amsterdam 2003, p. 40. 121 Gérard Genette, Palimpsestes, cit., p. 370.

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zione generica andrà intesa come il processo di contaminazione di due generi in un’opera, che prelude alla creazione di un genere nuovo già al livello dell’atto di definizione del nome: ad esempio, il poema cavalleresco in Boiardo e Ariosto, che combina epopea carolingia e romanzo cavalleresco di materia arturiana122. Tale contaminazione generica dovrà essere tenuta distinta dalla contaminazione di due ipotesti, due commedie greche nel caso di Terenzio, fenomeno che per Genette andrà riferito piuttosto al processo di extension ipertestuale123. L’attenzione alla contaminazione come pratica di formazione di nuovi generi letterari dalle scorie del passato si sovrappone alla concezione della contaminazione latina, cioè pratica di mescolanza di testi dal repertorio della tradizione in una nuova opera, apparentemente originale e irripetibile. L’ibridazione nella storia dei generi e l’ibridazione nelle opere appaiono così fenomeni di valore e importanza diversi. Sappiamo infatti che, rispetto alla ripartizione inaugurata dalla Poetica di Aristotele, già a partire dal Medioevo la contaminazione generica interviene al livello stesso dei generi, soprattutto in casi che riguardano la novella e la satira124. Il sistema dei generi si arricchisce e si sbilancia, tramite l’invenzione di nuovi moduli combinati dalla lirica, dalla satira o da altre forme di narrazione non epica, tra cui l’agiografia, benché ci si riadoperi in pieno classicismo ad assimilare ai prototipi antichi alcune delle forme evolute: la chanson de geste viene così riportata all’epica, come anche il poema eroico del Tasso. Nel Rinascimento italiano il principio regolatore del canone consentirà soprattutto a Bembo di fondare le tradizioni del modello petrarchesco per la lirica e di quello boccacciano per la prosa, mentre secoli attraversati da una “forte carica di turbolenza generica” come il Seicento e Settecento esploreranno il connubio di forme ulteriori scavate nel solco dei generi tradizionali125. 122 Sui generi misti nel Rinascimento, si veda Rosalie L. Colie, The Resources of Kind. Genre-Theory in the Renaissance, University of California Press, Berkeley 1973. 123 Gérard Genette, Palimpsestes, cit., pp. 364-372. 124 Hans Robert Jauss, Theorie der Gattungen und Literatur des Mittelalters (1972), trad. fr. “Littérature médiévale et théorie des genres”, in Gérard Genette et al., Théorie des genres, Seuil, Paris 1986, pp. 44-55. 125 Alberto Destro e Annamaria Sportelli (a cura di), Ai confini dei generi: casi di ibridismo letterario, Graphis, Bari 1999, p. XII. Vedi anche Annamaria Sportelli (a cura di), Generi letterari: ibridismo e contaminazione, Laterza, Roma 2001.

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Quando la contaminazione si indirizza alla sfera del particolare, e indica l’opera “contaminata”, l’ibrido letterario riprende la stessa connotazione estetica espressa dalla filosofia e dalla poetica antiche: un significato che partecipa semanticamente del campo del “pericolo” e che è attivo ancor’oggi, depositato in una memoria “antropologica” che regola il rapporto dell’individuo con l’esterno, con l’ambiente o con le culture a sé estranee126. Questa connotazione aggettivale, l’“ibrido” e il “contaminato”, è tornata in auge in campo estetico e letterario tra Settecento e Ottocento, subendo al contempo un’inversione di valore sotto la spinta del Romanticismo. Ancora in pieno Ottocento, Hegel condanna l’ibridismo all’interno della sua teoria dei generi, accomunando i generi letterari intermedi alle specie anfibie presenti in natura. Nell’introduzione alla terza parte della sua Estetica (1835-38), dedicata al Sistema delle singole arti, Hegel elabora il più ambizioso quadro di organizzazione e classificazione di tutta la letteratura dai tempi di Aristotele e lo fa riconducendo alle categorie di poesia epica, lirica e drammatica tutti i generi esistiti ed esistenti dall’antichità al proprio tempo. Per rispondere a un progetto così complesso, i Mittelgattungen (“generi misti”) devono essere giudicati alla stregua di aborti letterari. Per Hegel diviene così di fondamentale importanza che i generi ibridi non contaminino i generi espressione della perfezione della natura dello spirito, benché riconosca – sulla scorta dell’estetica antica – che possano ugualmente “rallegrare” alla lettura127. Se i generi intermedi sono per Hegel “impotenti”, sarà il nono capitolo, dal titolo Hybridism, dell’opera fondante di Charles Darwin, On the 126 Mary Douglas, Purezza e pericolo. Un’analisi dei concetti di contaminazione e tabù, il Mulino, Bologna 1975. La traduzione italiana enfatizza la correlazione tra inquinamento e contaminazione. Si veda, per una lettura più socio-culturale che antropologica, Claudia Madeira, Híbrido. Do Mito ao Paradigma Invasor?, Mundos Sociais, Lisboa 2010. 127 “La natura e la realtà in generale non si arrestano, è vero, a queste delimitazioni determinate, ma se ne distaccano in più ampia libertà, cosicché a questo riguardo spesso si ode proclamare che le produzioni geniali debbano innalzarsi al di sopra di queste separazioni. Ma, come nella natura i generi ibridi, gli anfibi e le fasi di transizione testimoniano non l’eccellenza e la libertà della natura, ma solo la sua impotenza a fissare le differenze essenziali, basate sulla cosa stessa […] così anche per l’arte vale la medesima cosa nei riguardi di tali generi intermedi, sebbene questi possano ancora offrire numerosi lati di grazia e piacevolezza ed abbiano dei meriti, anche se non sono assolutamente in grado di raggiungere un grado di compiutezza” (Georg W.F. Hegel, Estetica, a cura di Nicolao Merker, vol. 2., Einaudi, Torino 1997, p. 703).

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Origin of Species (1859), a illuminare sulla diffusione all’interno delle scienze esatte e di quelle umanistiche del termine “ibrido” nel senso di “sterile”. Conservando l’antico significato latino, Darwin sintetizza infatti negli ibridi la classe naturale di tutti gli individui sterili128. L’ibrido si prospetta allora come organismo originalissimo, creato dalla fusione di due alterità, ma cui non riesce, a causa dell’irripetibilità del risultato, la preservazione del proprio patrimonio genetico lungo l’evoluzione della specie. Si può rintracciare almeno una tangenza diretta tra il concetto scientifico di ibrido e l’uso antecedente che ne fa in letteratura Gotthold Lessing, secondo un paradigma che si affermerà compiutamente nel Romanticismo e vedrà, invece, assegnata all’ibrido una parvenza positiva, propria dell’artista geniale. In Hamburgische Dramaturgie (1769), alla fine del quarantottesimo “pezzo”, datato 13 ottobre 1767, Lessing fa un paragone tra l’opera drammatica, designata dall’aggettivo “ibrido” (Zwitter), e il mulo, né asino né cavallo, ma ugualmente utile ai compiti dell’uomo. Lessing introduce così un paragone tra ibrido biologico e opera letteraria; l’inappartenenza dell’opera a una poetica – il fatto cioè di non essere pienamente ascrivibile né a un genere né a un altro – non rende quell’opera improduttiva come forma letteraria, ma anzi le conferisce una funzione di “istruzione” e di “diletto”129. Come caso particolare, l’ibrido letterario farà il proprio dovere nella sovversione delle categorie tradizionali durante il Novecento. Ma la traslazione del significato, sbilanciato sempre più verso un 128 In quel capitolo Darwin documenta i problemi di fecondità degli ibridi (L’origine delle specie, Boringhieri, Torino 1967, pp. 339-370). Si segnala il saggio di Minton Warren, che insiste proprio sulla fortuna riscontrata dal termine latino nei testi scientifici dell’Ottocento (On the Etymology of Hybrida, in «The American Journal of Philology», vol. 5, 1884, pp. 501-502). Invece, per la circolazione culturale e scientifica del termine già nella cultura settecentesca, vedi Marwan M. Kraidy, Hybridity, or the Cultural Logic of Globalization, Temple University Press, Philadelphia 2005, pp. 46 ss. Sul fronte della critica postcoloniale, vedi Anjali Prabhu, Hybridity. Limits, Transformations, Prospects, State University of New York Press, Albany 2007. 129 “E finalmente, che significa la mescolanza dei generi? I trattati di precettistica letteraria li distinguano pure con la maggior esattezza possibile; ma se un genio, per raggiungere più alti scopi, mescola in una sola opera alcuni di essi, dimentichiamo il trattato e indaghiamo, piuttosto, se questi più alti scopi sono stati raggiunti. Cosa mi importa se un lavoro di Euripide non è né tutto racconto né tutto azione drammatica? Chiamiamolo un ibrido: a me basta che questo ibrido mi diletti e istruisca più di tutte le regolarissime produzioni dei vostri impeccabili Racine […]. Il mulo, pur essendo un incrocio fra il cavallo e l’asino, non è forse uno dei più utili animali da soma?” (Gotthold E. Lessing, Drammaturgia d’Amburgo, a cura di Paolo Chiarini, Bulzoni, Roma 1975, pp. 226-227).

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valore positivo, porterà l’ibrido ad assumere anche il valore di categoria generale, e non più soltanto di carattere singolare di un’opera. L’ibrido rappresenta così tanto un valore dell’opera che s’oppone alla spinta definitoria delle tassonomie letterarie – ibrido è ciò che non appartiene a nessun genere – quanto una categoria a parte, utilizzata invece per definire tutte le opere che, pur non essendo riconducibili alle forme prescritte da una poetica, sono nondimeno esistenti e s’impongono sulla scena letteraria130. Nel Novecento, l’ibridazione è ora considerata come un fenomeno positivo in campo etnografico, sociologico ed estetico: “La modernità culturale è fatta di incroci, di intersezioni, di mescolanze tra il tradizionale e il nuovo. La modernità è ibrida” scrive Amalia Signorelli nella prefazione a un titolo del 1990 che avrà una pronta fortuna, Culturas híbridas, di Nestor García Canclini131. La scelta del termine “ibridazione” da parte di García Canclini ha innescato una reazione a catena che ne ha diffuso l’utilizzo e l’elevazione a lessico alla moda, sulla base della convinzione teorica “per cui le culture sarebbero accumulazioni continuamente arricchite da pratiche trasformatrici”132 fin tanto da abbracciare ambiti diversi come gli intrecci razziali, altrimenti definibili come meticciato, fino ai più svariati mescolamenti interculturali133. L’ibridazione è così diventata pure il sintomo di un modo di proliferazione “rizomatico”, in cui identità complesse vengono congiunte assieme in un continuo divenire esistenziale e ontologico134. 130 “Gli effetti dell’ibridità nei testi sono, per alcuni teorici, la manifestazione di una ‘decostruzione’ dei generi, che rimangono nondimeno percepibili; altri critici, al contrario, vedono l’ibridazione come un processo di rinnovamento formale dell’espressione letteraria allorché questa si trova di fronte a una dispersione del senso” (Anne Moiroux e Kristen Wolfs, “Éléments de bibliographie raisonnée”, in Dominique Budor, Walter Geerts (a cura di), Le texte hybride, cit., p. 139). 131 “I termini ‘ibrido’, ‘ibridazione’, ‘cultura ibrida’, fino a poco tempo fa presenti solo sporadicamente nella letteratura antropologica e sociologica italiana, negli ultimissimi anni sono divenuti frequenti. Quest’uso che si va diffondendo è un segno, credo, dell’influenza che il libro di Nestor García Canclini sta esercitando, a scala internazionale, dentro e fuori dei recinti accademici delle scienze sociali” (dalla prefazione di Amalia Signorelli, in Néstor García Canclini, Culture ibride. Strategie per entrare e uscire dalla modernità, Guerini e Associati, Milano 1998, p. 7). 132 Come riconosce Peter Burke, hybridity è un termine “elastico in modo esasperante” (Peter Burke, Cultural Hybridity, Polity, Cambridge 2009, p. 256). 133 Ivi, p. 34. 134 “[G]li ibridi, essi stessi sterili, nati da un’unione sessuale che non genererà nulla, ma che ricomincia ogni volta […]. Siamo lontani dalla produzione filativa, dalla ripro-

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Negli studi letterari più recenti, il livello di sistematizzazione è ancora vago e abbondano per lo più definizioni trasversali e generiche135. In pochi hanno segnalato la modalità analogica con cui il termine “ibridazione”, derivato dalla biologia e dall’archeologia, entra nelle definizioni contemporanee in campo letterario. In particolare, Martina Allen sottolinea il rischio di perdere nell’uso del termine di ibridazione il “potenziale intrinseco” del genere letterario a funzionare come categoria di interpretazione della realtà e come visione “politica” di una comunità136. Questo rischio mi pare ravvisabile anche nelle teorizzazioni più contemporanee, quando l’idea di contaminazione è rivolta allo statuto della singola opera rispetto ai generi. Le interpretazioni avanguardiste, neo-avanguardiste e postmoderne si nutrono di un’originale concezione di testo letterario, cui la poetica della contaminazione contribuisce largamente, fornendo il presupposto per un testo che i generi stessi attraversano senza che identifichino un rapporto univoco con questo. Già Benedetto Croce non ammetteva per il genere letterario che un’utilità duzione ereditaria, che conserva come differenze solo una semplice dualità dei sessi all’interno della stessa specie […]. Per noi, al contrario, ci sono tanti sessi e altrettanti termini in simbiosi, tante differenze quanti sono gli elementi coinvolti in un processo di contagio. Sappiamo che tra un uomo e una donna passano molte persone, che provengono da altri mondi, portate dal vento, che fanno rizoma attorno alle radici e non si lasciano comprendere in termini di produzione, ma solo di divenire” (Gilles Deleuze e Félix Guattari, Mille plateaux: capitalisme et schizophrénie, Minuit, Paris 1980, pp. 292-296). 135 Alcuni riferimenti bibliografici generali, che non verranno commentati esplicitamente nelle pagine che seguono: Jean Bessière (a cura di), Hybrides romanesques: fiction 1960-1985, Presses universitaires de France, Paris 1988; William Schnabel (a cura di), L’hybride, in «Les cahiers du Gerf», n. 7, 2000; Christian Doumet et al. (a cura di), L’art et l’hybride, Presses universitaires de Vincennes, Saint-Denis 2001; Dominique Budor e Walter Geerts (a cura di), Le texte hybride, Presses Sorbonne Nouvelle, Paris 2004; Paolo Zanotti (a cura di), Contaminazioni. Quaderni di Synapsis IV, Le Monnier, Firenze 2005; Alfonso De Toro et al. (a cura di), Estrategias de la hibridez en América latina: del descubrimiento al siglo XXI, Peter Lang, Frankfurt am Main 2007. 136 Martina Allen, Against ‘Hybridity’ in Genre Studies. Blending as an Alternative Approach to Generic Experimentation, in «Trespassing Journal: an online journal of trespassing art, science, and philosophy», n. 2, 2013. Vedi anche Monica Fludernik, “The Constitution of Hybridity: Postcolonial Interventions” in Ead. (a cura di), Hybridity and Postcolonialism, Stauffenberg, Tübingen 1998, pp. 19-54, e Stephen W. Silliman, A Requiem for Hybridity? The Problem with Frankensteins, Purées, and Mules, in «Journal of Social Archaeology», vol. 15, n. 3, 2015, pp. 277-298, che fornisce un resoconto storiografico dell’introduzione del termine “ibrido” all’interno degli studi archeologici.

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speculativa, nient’affatto creativa. Il servizio offerto dal genere letterario si riduce a una funzione meramente pratica e mnemonica: Chi poi discorre di tragedie, commedie, drammi, romanzi, quadri di genere, quadri di battaglie, paesaggi, marine, poemi, poemetti, liriche e così via, tanto per farsi intendere accennando alla buona e approssimativamente ad alcuni gruppi di opere sui quali vuole, per una ragione o per l’altra, richiamare l’attenzione, certo non dice nulla di scientificamente erroneo, perché egli adopera vocaboli e frasi, non stabilisce definizioni e leggi137.

La teorizzazione più incisiva per gli anni a noi vicini è però quella di Jacques Derrida, allorché egli fa, in un suo celebre articolo del 1980, della contaminazione dei generi in un’opera una “legge della legge del genere”138. Il genere viene concepito da Derrida nei modi di una prigione formale che erige i propri confini al pari di leggi e interdizioni normative, le quali espungono le opere “ribelli” quando possiedono geni ibridi e mostruosi. [Un] testo non può appartenere a un genere. Ogni testo partecipa a uno o più generi, non c’è testo senza genere, c’è sempre del genere e dei generi ma questa partecipazione non è mai un’appartenenza. E questo non avviene a causa di un eccesso di ricchezza o di una produttività libera, anarchica e inclassificabile, ma a causa della caratteristica stessa della partecipazione, dell’effetto del codice e del marchio generico. Marchiandosi di un genere, un testo se ne smarca139.

Per contrastare l’atteggiamento repressivo del genere, l’opera mette in campo una propria contro-legge: un “principio di contaminazione”, una 137 Benedetto Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale. Teoria e storia (1902), Laterza, Bari 1965, p. 44. “Pur mantenendo costante la negazione del concetto di genere come parte integrante dell’estetica, Croce non poteva fare a meno di ammettere l’uso empirico del concetto nella prassi critica […] nel corso del tempo egli va allargando lo spazio riservato ai generi nel campo ‘empirico’. I riferimenti ai generi in senso ‘pratico-mnemonico’ oppure in senso storico-culturale, acquistano così una posizione ‘regolare’ (ma sempre ‘empirica’) all’interno della metodologia crociana” (Linda Pennings, I generi letterari nella critica italiana del primo Novecento, Cesati, Firenze 1999, p. 57). 138 Jacques Derrida, “La loi du genre”, in Id., Parages, Galilée, Paris 1986, pp. 249-287. 139 Ivi, p. 264.

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“legge d’impurità” e “di straripamento, di partecipazione senza appartenenza”140. I generi fungerebbero da viatico tramite cui le opere esprimono una legge a loro superiore; la contaminazione, annullando il rapporto tra genere e opere, affrancherebbe quest’ultime da ogni relazione univoca con le categorie testuali, esprimendo al contempo il proprio potere concettuale di definire un nuovo contratto tra generi e testi, il quale conduce verso una rinnovata visione della scrittura. Da questa idea di contaminazione derridiana derivano certi proclami del post-modernismo, come l’idea di una completa cancellazione o frantumazione dei generi, che può estendersi fino alla loro morte141. Quando si parla del saggio come anti-genere, è evidente la dipendenza di questa sua teorizzazione dal modello decostruzionista, dacché l’anti-genere consente di sormontare le difficoltà incontrate dalla teoria nei tentativi di una sua classificazione formale. Tuttavia, un’ultima concezione permette di riportare la contaminazione generica al suo valore più propriamente produttivo di fenomeno creativo dei generi. Con Michail Bachtin, il fenomeno di combinazione di differenti generi in uno stesso testo ottiene credito teorico, nel momento in cui la forma del romanzo moderno valorizza retroattivamente una grande varietà di forme espunte dal sistema classico per la loro irregolarità142. Sulla scorta di quella che egli chiama la “romanzizzazione” dei generi letterari, Bachtin riconosce un primato al romanzo in virtù della sua capacità di costituirsi a enciclopedia degli altri generi. Esso si affermerebbe grazie a un potere adesivo che lo rende un genere sostanzialmente ibrido, in quanto assimilatore di generi passati o in decadimento. Parte dei generi cosiddetti “secondi” (o complessi)143, il romanzo saprebbe assorbire i generi “primi” (propriamente, i generi del

140 Ivi, pp. 256, 262. 141 Rispettivamente Bernard Ramé, “L’effacement des genres: une propédeutique au syncrétisme”, in Edmond Nogacki (a cura di), L’effacement des genres dans les lettres et les arts, Presses Universitaires de Valenciennes, Valenciennes 1994, pp. 243252; Marc Dambre e Monique Gosselin-Noat (a cura di), L’Éclatement des genres au XXème siècle, Presses de la Sorbonne Nouvelle, Paris 2001; Caroline Bayard et al., La Mort du Genre. Actes du colloque tenu à Montréal en octobre 1987, vol. 2, in «La nouvelle barre du jour», n. 216-217, 1989. 142 Michail Bachtin, Estetica e romanzo. Un contributo fondamentale alla “scienza della letteratura”, Einaudi, Torino 1979, p. 168. 143 “Le opere strutturalmente complesse e specializzate dei vari generi scientifici e letterari […] per loro natura non sono altro che unità della comunicazione verbale” (Id., L’autore e l’eroe. Teoria letteraria e scienze umane, Einaudi, Torino 1988, p. 262).

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discorso144) e li reindirizzerebbe verso un nuovo atto stilistico, sottraendoli alla loro origine generica e cristallizzandone assieme le peculiari forze espressive. Questa visione dei generi ci interessa perché è stata fatta propria anche dalle teorie del saggio: l’intergenreality con cui Joel Haefner concepisce il saggio non è altro che il bachtiniano dialogo di generi dentro un testo145. Più specificamente, il saggio è stato interpretato come un genere sorto dall’assembramento di forme precedenti: dal genere epistolare (Seneca) fino ai dialoghi di Platone, per continuare con le razos in commento ai testi della lirica provenzale e proseguire con Guicciardini e Machiavelli146; un genere nato dall’assembramento di altri generi pedagogici147; il genere “mosaico” di cui parla Langlet. Una buona definizione del saggio come genere “federatore” viene da Dominique Combe, che pone un particolare accento sul ruolo che il saggio può giocare nell’attirare a sé le forme irriducibili al contemporaneo regime dei generi: Il saggio è probabilmente il genere meno chiaramente percepito […]. Tra i saggi, in definitiva, ci sono i testi che non possono distinguersi né dalla fiction, né dalla poesia, né dal teatro. Oggi, il saggio interpreta il ruolo che il romanzo è stato in grado di interpretare alle sue origini – come un genere federatore degli esclusi dai “grandi generi”, genere “ripostiglio”148.

Lo scopo non è qui discutere la validità di una tale concezione del saggio, in quanto veicolo di una vera e propria contaminazione generica al pari di quella attuata storicamente dal romanzo per Bachtin. Ci interes-

144 Ivi, p. 246. 145 Joel Haefner, Unfathering the Essay, cit., p. 265. 146 Per la genesi che porta alla forma originale del saggio di Montaigne, ci allineiamo a quanto scrive Hugo Friedrich: “La lettera e il dialogo, al di là dell’apparente diatriba, erano i mezzi essenziali di espressione della filosofia morale dell’ellenismo. Montaigne non usa questi generi, ma ha simpatia per loro, perché sente che questi si collocano rispetto alla letteratura universale, specialmente nella loro forma antica, come uno stadio preliminare del suo saggio” (Hugo Friedrich, Montaigne, cit., p. 368). 147 “Il saggio assemblava elementi del trattato, del colloquio, dell’adagio, delle raccolte di exempla o di sententia, dell’enciclopedia delle autorità e della letteratura umanistica” (Alastair Fowler, Kinds of Literature, cit., p. 157). 148 Dominique Combe, Les genres littéraires, Hachette, Paris 1992, p. 16.

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sa invece intendere un terzo aspetto dell’ibridazione: superando le idee di un “mosaico” di forme molteplici e di un anti-genere, crediamo più pertinente al modello dello pseudo-saggio una contaminazione generica tra due forme letterarie esistenti, la stessa che Irène Langlet riconosce nella teoria saggistica dell’intersezione delle forme, dell’entre-deux. Lo pseudo-saggio sperimenta tale eterogeneità discorsiva, presentandosi come una forma tensiva per due generi tra loro “vicini” – come il saggio e il dialogo, il saggio e l’autoritratto, il saggio e la biografia e l’autobiografia letterarie – e che nondimeno si collocano su orizzonti letterari diversi, divisi per ricerca creativa e scrittura critica. Studi recenti tentano di allargare lo spettro con cui si può concepire la “ricerca artistica”, superando i confini del piacere estetico e quelli che dividono, nello specifico, arte e conoscenza, esperienza estetica e filosofia. Interrogandosi sulla separazione tra scrittura creativa e scrittura “accademica”, Jan Baetens individua nella definizione di montaggio la possibile strategia per giungere a una concezione più ampia di quella offerta dalla nozione di scrittura eterogenea: Il montaggio è, naturalmente, una nozione multiforme, e dovrebbe essere chiaro che il tipo di montaggio in questione non è quello del montaggio continuo di Hollywood, che cerca di fare del montaggio un ordine “invisibile” e neutralizzare e rendere impercettibili i dispositivi tecnici di narrazione. Invece, un punto di riferimento potrebbe essere il montaggio intellettuale di Sergej Ėjzenštejn, in cui gli effetti significanti derivano dallo scontro visibile tra elementi eterogenei. In letteratura, un buon esempio di tale montaggio è il concetto di misto […]. Il misto non è solo il montaggio di diverse forme e stili del discorso, è fondamentalmente la strategia che si basa sulla combinazione di queste forme per esplorare la tensione tra la “scrittura” e il “testo”, o se si preferisce tra rappresentazione e meta-rappresentazione. […] Nel misto, le due forze, che non possono essere sostituite in una riconciliazione sintetica, appaiono in opposizione e una accanto all’altra. In tal modo, il misto non abolisce le differenze tra la scrittura creativa e l’analisi critica, ma non esclude nemmeno la possibilità del loro reciproco arricchimento149.

149 Jan Baetens, “Writing Cannot Tell Everything”, in Corina Caduff e Tan Wälchli (a cura di), Artistic Research and Literature, Wilhelm Fink, Paderborn 2019, pp. 19-20.

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Il montaggio mantiene in opposizione i due discorsi eterogenei all’interno di una forma “mista” (che – vale la pena di precisare – non corrisponde al “mosaico”, ma all’entre-deux). Prediligendo un montaggio testuale che non giunga alla sintesi estetica, riscontrabile in alcune letture riguardo la collaborazione tra saggio e romanzo che analizzeremo nel prossimo paragrafo, lo pseudo-saggio preserva le differenze di entrambi i suoi generi. Infatti, il camuffamento è un nascondimento, non una cancellazione: le due forme si scontrano nella scrittura conservando entrambe le specificità – una lettura critica e una lettura immaginativa, un meta-testo e una rappresentazione. Potremmo anche parlare di una “ricerca estetica”150 che mira a tenere assieme ricerca critica e ricerca letteraria.

1.6. Dal romanzo-saggio allo pseudo-saggio Commentando la rivoluzione romantica, Tzvetan Todorov collega la nascita di una nuova forma di critica letteraria alle soglie del Settecento: “il commento è diventato anch’esso immanente: in assenza di una comune trascendenza, ogni testo farà di se stesso la propria cornice di riferimento, e il compito del critico sarà esaurito nella chiarificazione del suo senso, nella descrizione delle forme e delle funzioni testuali”151. Il saggio critico partecipa dunque a questa nuova funzione di commento “immanente” al testo stesso: la relazione metatestuale nasce come modalità di individuazione specifica dei significati dei testi, nel periodo storico in cui il romanzo esplora il medesimo paradigma culturale sul fronte della rappresentazione dei destini e del “sensibile” individuale152. D’altronde, si è già rilevato come esista una coincidenza temporale tra l’apparizione del saggio e quella del romanzo sulla scena letteraria, cioè 150 Dieter Mersch, ad esempio, pure difendendo un’inconciliabilità tra ricerca artistica e ricerca scientifica, trova uno spazio per il saggio come processo di conoscenza estetica in fieri (Epistemologies of Aesthetics, diaphanes, Zurich 2015, pp. 20, 124). 151 Tzvetan Todorov, Critique de la critique. Un roman d’apprentissage, Seuil, Paris 1984, p. 13. 152 “Il ‘principio di individuazione’ accettato da Locke è quello dell’esistenza in un particolare luogo nello spazio e nel tempo. Poiché, come egli scrive, ‘le idee diventano generali separando da esse le circostanze del tempo e del luogo’, così tali idee diventano particolari solo quando entrambe queste circostanze sono specificate. Allo stesso modo i personaggi del romanzo possono essere individualizzati solo se sono ambientati in un contesto di tempo e luogo particolare” (Ian Watt, The Rise of the Novel. Studies in Defoe, Richardson and Fielding (1957), Pimlico, London 2000, p. 21).

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la concomitanza tra la pubblicazione degli Essais di Montaigne negli anni Ottanta del Cinquecento e l’elaborazione del Don Chisciotte di Cervantes tra il 1605 e il 1615153. Sulla scorta di questa alleanza, la critica ha investigato il rapporto tra saggio e romanzo in due direzioni. Da un lato, ci si è concentrati soprattutto sulla presenza di una componente saggistica dentro il romanzo154. Dall’altro, il saggio è stato letto sempre di più come una forma di narrazione dell’individuo: ad esempio, riscontrando la vicinanza generica tra il saggio e i generi dell’autoportrait, dell’autobiografia e dell’autofiction in una sorta di comune “letteratura intima” a matrice narrativa155. Sia che venga chiamato romanzo-saggio, sia essayistic novel156, la critica ha tentato di individuare un genere narrativo ben definibile in cui l’ibridazione tra saggio e romanzo si realizzi pienamente. Si è concentrato l’ambito d’indagine al Novecento, soprattutto a partire dalla celebre definizione dell’“utopia del saggismo” data da Robert Musil nell’Uomo senza qualità: il narratore novecentesco non è più capace di interpretare il mondo allineando i segni e i frammenti desunti dalla realtà in una sequenza di eventi lineare e progressiva, e cerca dunque nel saggismo un equilibrio morale, una modalità soprattutto esistenziale di affrontare la vita157. Il genere del saggio che ha fatto proprio 153 Vincent Ferré, L’Essai fictionnel. Essai et roman chez Proust, Broch, Dos Passos, Honoré Champion, Paris 2013, p. 49. 154 Si vedano volumi collettivi come quelli di Gilles Philippe (a cura di), Récits de la pensée: études sur le roman et l’essai, Sedes, Paris 2000, e di Stefano Ercolino e Christy Wampole (a cura di), Narration and Reflection, in «Compar(a)ison: An International Journal of Comparative Literature», vol. 33, n. 1-2, 2015. 155 Vedi Pascal Riendeau, Méditation et vision de l’essai: Roland Barthes, Milan Kundera et Jacques Brault, Nota bene, Québec 2012. Per quanto riguarda l’autoportrait studiato da Michel Beaujour, Miroirs d’encre, cit., esso verrà discusso approfonditamente nel capitolo terzo e ripreso nel sesto. 156 Claire de Obaldia, The Essayistic Spirit. Literature, Modern Criticism, and the Essay, Clarendon, Oxford 1995, pp. 193-205. 157 “Quel che ci tranquillizza è la successione semplice […] infilare un filo, quel famoso filo del racconto, di cui è fatto anche il filo della vita, attraverso tutto ciò che è avvenuto nel tempo e nello spazio! […] E Ulrich si accorse di aver smarrito quell’epica primitiva a cui la vita privata ancora si tien salda, benché pubblicamente tutto sia già diventato non narrativo e non segua più un ‘filo’ ma si allarghi in una superficie sterminata” (Robert Musil, L’uomo senza qualità (1930-1942), Einaudi, Torino 1996, p. 739). All’utopia del saggismo è dedicato il capitolo 62 del romanzo. Vedi sull’origine del termine in Musil, Thomas Harrison, The Essayistic Novel and Mode of Life. Robert Musil’s The Man without Qualities, in «Republics of Letters», vol. 4, n. 1, 2014, URL: arcade.stanford.edu.

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il pensiero dogmatico, e che con Marc Angenot abbiamo definito di tipo “diagnostico”, cancella sotto il suo approccio scientista la dialettica originaria interna al genere, cioè la sua originale contraddizione, che ha reso gli Essais di Montaigne una risposta agli stimoli dell’epoca moderna. Questa dinamica imperfetta e contemplativa del saggio, espulsa dall’epistemologia dominante, viene recuperata nel Novecento come essenza nell’idea del saggismo: non è più, cioè, concepita come forma, ma come corrente di pensiero. Parafrasando Fredric Jameson, se i generi sono la forma sublimata con cui una classe sociale risolve i conflitti sul piano dell’immaginario158, potremmo dire che il saggismo è l’ideologema159 della società intellettuale europea nel suo momento di crisi, perché si colloca come esperienza intermedia tra quella di una forma collettiva di sapere, frutto di una mentalità predisposta all’elogio del razionale e del simbolico, e quella del singolo individuo, che riconosce la crisi di questa forma di conoscenza ed esce dal cammino della comunità, senza comunque rinunciare alla produzione simbolica, in grado nuovamente di articolare il proprio pensiero in un significato individuale. Saggio meditativo e saggio diagnostico corrispondono a due facce della contraddittoria identità della classe intellettuale moderna: la sua difesa della libertà dell’intelletto di operare nella contingenza e immediatezza sensibile, al contatto con la “storica” vita, e al contempo la pretesa universalizzante delle elaborazioni simboliche, 158 “Tutta la letteratura, non importa quanto debolmente, deve essere conformata da ciò che abbiamo chiamato un inconscio politico. Tutta la letteratura deve essere letta come una meditazione simbolica riguardo il destino della comunità […] la narrativa individuale, o la struttura formale individuale, deve essere colta come la risoluzione immaginaria di una contraddizione reale […]. Il valore strategico dei concetti generici risiede per il marxismo chiaramente nella funzione mediatrice della nozione di genere, che consente di coordinare un’analisi formale immanente del testo individuale con la doppia prospettiva diacronica della storia delle forme e dell’evoluzione della vita sociale” (Fredric Jameson, The Political Unconscious. Narrative as a Socially Symbolic Act (1981), Routledge, London 1996, p. 73, 80, 110). 159 “L’ideologema è una formazione anfibia, la cui caratteristica strutturale essenziale può essere descritta come la sua possibilità di manifestarsi sia come una pseudo-idea – un sistema concettuale o di credenze, un valore astratto, un’opinione o un pregiudizio – o come una proto-narrativa, una specie di estrema fantasia di classe riguardo quei ‘personaggi collettivi’ che sono le classi in opposizione […]: come costrutto deve essere suscettibile sia di una descrizione concettuale che di una manifestazione narrativa” (ivi, p. 90). “Sembrerebbe possibile eseguire questa operazione in un modo diverso, afferrando l’ideologema non come un semplice riflesso o una reduplicazione del suo contesto situazionale, ma come la risoluzione immaginaria delle contraddizioni oggettive a cui esso offre quindi una risposta attiva” (ivi, p. 122).

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che si propongono di estendere a tutti i nuovi lettori i contenuti delle astrazioni. Studiando la “letteratura della crisi”, Stefano Ercolino s’impegna nella ricostruzione di un genere storico, il romanzo-saggio, che si propone come forma narrativa della crisi durante la modernità e che vi riesce proprio inglobando al suo interno la componente saggistica, secondo una lettura da condursi primariamente su Robert Musil, ma che si dipana da À rebours (1884) e Là-bas (1891) di Joris-Karl Huysmans fino al Doktor Faustus (1947) di Thomas Mann. Ercolino argomenta come il romanzo-saggio rappresenti la disgregazione del romanzo di formazione ottocentesco, nell’elaborazione (che è anche un recupero della lezione di Montaigne160) di una versione alternativa della modernità: “il romanzo-saggio fu la forma della crisi irreversibile della civiltà moderna, mentre il romanzo di formazione e il romanzo storico furono le forme del consolidamento ideologico della modernità e della rivoluzione borghese”161. Da un altro punto di vista, Vincent Ferré si concentra, nell’analisi del corpus narrativo e saggistico di tre autori novecenteschi, sulle modalità con cui il saggio entra nei romanzi, interrogando la possibilità di un essai fictionnel. Lo studioso lo distingue dal “romanzo a tesi”, pur presente all’epoca (ad esempio nelle opere di Maurice Barrès e Paul Bourget), e che si fa portatore di una dottrina politica, filosofica, scientifica o religiosa, secondo una modalità prettamente didattica e anti-moderna162. Per Ferré, l’essai fictionnel diventa piuttosto una mimesis del saggio dentro la forma del romanzo, che mantiene il controllo strutturale grazie allo statuto finzionale dell’“io” enunciatore163. Sono pochi gli studi che stabiliscono invece una linea complementare all’inserzione narrativa nel saggio. Tra tutti, Douglas Hesse ha mostrato come l’inserimento di storie nei saggi destabilizzi il riconoscimento generico e richieda al lettore una decisione su come leggere un “saggio romanzesco”164. Il saggio romanzesco di Hesse si distingue quindi sia 160 Stefano Ercolino, Il romanzo-saggio, cit., p. 151. Cfr. sul romanzo-saggio anche il volume precedente di Valentina De Angelis, La forma dell’improbabile. Teoria del romanzo-saggio, Bulzoni, Roma 1990. 161 Stefano Ercolino, Il romanzo-saggio, cit., p. 239. 162 Vincent Ferré, L’Essai fictionnel, cit., p. 407. 163 Ivi, p. 346. 164 Douglas D. Hesse, The story in the essay, PhD dissertation, University of Iowa, 1986; Id., “A Boundary Zone. First Person Short Stories and Narrative Essays”, in

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Pseudo-saggi

da quello che è stato chiamato da Vincent Ferré “saggio finzionale”, da intendersi come saggio fittizio, perché incluso in un romanzo e sussunto nella concatenazione narrativa e nel discorso di un personaggio, sia da quello chiamato da Lorenzo Marchese “saggio narrativo”165, che fa uso di aneddoti per rafforzare l’argomentazione e la diffusione dei concetti. La nostra concezione dello pseudo-saggio non poggia, invece, esclusivamente su una comparazione con la narrativa e non è interessata a identificarlo come una forma di sintesi tra modo saggistico e scrittura romanzesca. Comunque, ai nostri occhi, un’importante suggestione per precisare la possibile presenza nello pseudo-saggio di una scrittura narrativa può giungere da Marc Angenot, quando nel suo La parole pamphletaire si sofferma sul discorso entimematico, desunto da quel sillogismo aristotelico che si fonda sul “probabile”: il discorso entimematico è composto da enunciati lacunari che mettono in relazione il particolare e l’“universale” e presuppongono una coerenza relazionale dell’universo del discorso. Se compaiono elementi narrativi, questi non sono direttamente funzionali nell’insieme del testo. Sono subordinati alla produzione di un entimema e, attraverso di esso, di una sequenza vettoriale di tipo entimematico. L’entimema, infatti, è un collegamento in una “catena di pensieri” più o meno dispiegata in tutti i suoi elementi, una catena la cui organizzazione non è né aleatoria né reversibile, ma organizzata secondo una strategia generale di ordine cognitivo166.

Il discorso entimematico permette l’inserimento di elementi narrativi, poiché tale discorso, nella sua frammentarietà lacunaria, lascia apparire brani eterogenei: essi possono essere quelle digressioni di natura personale all’inSusan Loafer e Jo Ellyn Clarey (a cura di), Short Story Theory at a Crossroads, Louisiana State University Press, Baton Rouge 1989, pp. 95-105; Id., “Stories in Essays, Essays in Stories”, in Chris Anderson (a cura di), Literary Nonfictions: Theory, Criticism, Pedagogy, Southern Illinois University Press, Carbondale 1989, pp. 176-196. 165 “Il saggio narrativo si serve di stratagemmi e dispositivi della fiction per dare forza a un discorso teorico che viene percepito come inerte e distante da un pubblico di massa: lo storytelling e il coinvolgimento mimetico (dato per esempio dalla massiccia inserzione della cronaca e dalla continua sovrapposizione autobiografica) servono a controbilanciare la percepita astrattezza del saggio” (Lorenzo Marchese, È ancora possibile il romanzo-saggio?, in «Ticontre. Teoria Testo Traduzione», n. 9, 2018, p. 154). 166 Marc Angenot, La parole pamphlétaire, cit., p. 31.

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1. Dal saggio allo pseudo-saggio

terno della catena argomentativa, le quali restano localizzabili nel discorso del saggio; oppure, possono diventare una forma ben più estensiva della digressione e creare un secondo discorso che si sovrappone alla sequenza dell’argomentazione. Siano essi di tipo autobiografico, dialogico, descrittivo, finzionale, tali elementi eterogenei partecipano alla relazione tra particolare e universale che si crea nello pseudo-saggio. Questo raggiunge non una sintesi di mimesi e di filosofia167, ma quella tensione massima possibile verso la rappresentazione che viene concessa a un testo che non può uscire, per la sua funzione interpretativa, dal campo del probabile. Se un saggio critico si considera compiuto quando ha trovato la propria interpretazione dei testi, uno pseudo-saggio aggiunge al commento e all’argomentazione un’intenzione estetica168. L’intenzione estetica non coincide con la scrittura romanzesca, ma è un fenomeno artistico più ampio, che si può cogliere ad esempio nelle performance. Anche nello pseudo-saggio, il critico ci offre una propria performance rappresentativa: un’esibizione ed esposizione del critico-lettore, o meglio del momento in cui la sua lettura si rappresenta non solo come commento, ma pure come scrittura creativa, di una produzione anche frutto della propria immaginazione169. Come vedremo nei prossimi capitoli, lo pseudo-saggio è la performance di un discorso del lettore proiettato a “esibire” anche altre modalità di scrittura oltre a quella critico-interpretativa.

167 D’altronde, è sempre esistita, come spiega Donata Meneghelli, una modalità anti-cartesiana presente nell’atto di raccontare: “il racconto è rilevante, dal punto di vista epistemologico, perché incrina il modello cartesiano e/o positivista: introducendo da una parte una dialettica molto più flessibile tra caso singolo e legge generale […] e, dall’altra, mettendo in gioco la dimensione soggettiva nella cognizione” (Donata Meneghelli, Storie proprio così. Il racconto nell’era della narratività totale, Morellini Editore, Milano 2012, p. 124). 168 Gérard Genette, “La relation esthétique”, in Id., L’Œuvre de l’art. Immanence et transcendence, Seuil, Paris 2010. Sulla intenzione estetica come espressione del distanziamento nel campo sociale vedi Pierre Bourdieu, La Distinction. Critique sociale du jugement, Éditions du Minuit, Paris 2016. 169 Sulla rappresentazione del lettore nei testi, vedi Bruno Clement, Le lecteur et son modèle. Voltaire, Pascal, Hugo, Shakespeare, Sartre, Flaubert, PUF, Paris 1999; Giovanna Rizzarelli e Cristina Savettieri (a cura di), C’è un lettore in questo testo. Rappresentazioni della lettura nella letteratura italiana, il Mulino, Bologna 2017. Sulle teorie della ricezione vedi Federico Bertoni, Il testo a quattro mani. Per una teoria della lettura (1996), 2. ed. riveduta e corretta, Ledizioni, Milano 2011.

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2.1. Il lettore esteta: Oscar Wilde Il paratesto teatrale preposto in apertura di The Critic as Artist. With Some Remarks upon the Importance of Doing Nothing (1890) designa il testo come la prima parte di un “dialogo”. Inoltre, fornisce alcune indicazioni scenografiche: l’autore, Oscar Wilde, colloca il dialogo entro un ambiente domestico, la biblioteca di una casa in Piccadilly, le cui finestre affacciano su Green Park. Relegate al paratesto, queste informazioni non costituiranno una cornice a cui si farà riferimento durante il dialogo170. Pure i personaggi vengono esplicitati dalla soglia: Gilbert ed Ernest. La prima parte inizia in medias res, con Gilbert che interrompe il suo esercizio al piano, disturbato dal riso sarcastico di Ernest che sta leggendo: Gilbert (al pianoforte) Mio caro Ernest, di cosa stai ridendo? Ernest (alza lo sguardo) Di una storia eccellente in cui mi sono imbattuto sfogliando questo libro di memorie che ho trovato sul tuo tavolo. […] Be’, mentre tu suonavi, l’ho leggiucchiato qua e là con un certo divertimento, benché, di regola, non gradisca i libri moderni di ricordi. Di solito sono opera di gente che ha perso completamente la memoria o che non ha mai fatto nulla meritevole di essere ricordato; il che, d’altronde, è indubbiamente l’esatta spiegazione della loro popolarità: il pubblico inglese si sente perfettamente a proprio agio quando a parlargli è una mediocrità. 170 Oscar Wilde, Il critico come artista, trad. it. di Alessandro Ceni, Feltrinelli, Milano 1995, p. 19. Benché la traduzione italiana utilizzata riporti a fronte l’originale inglese, si forniscono, tra parentesi quadre, anche i riferimenti di pagina dell’edizione ufficiale: Oscar Wilde, “The Critic as Artist” (1890), in Complete Works of Oscar Wilde, a cura di Vyvyan Holland, Collins, London 1966, pp. 1009-1059. Il sottotitolo subisce alcune modificazioni nella sua storia editoriale, dall’apparizione in rivista nel 1890 all’inclusione, assieme ad altri dialoghi e saggi critici, nella raccolta Intentions dell’anno seguente; ma la definizione “dialogo” nel paratesto rimane.

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Pseudo-saggi

Gilbert Sì, un pubblico di una indulgenza straordinaria. Perdona tutto, eccetto il genio. Ma debbo confessarti che a me le memorie piacciono tutte. Mi piacciono sia per la forma che per il contenuto. In letteratura il puro egotismo è incantevole. […] Le opinioni, il carattere, le imprese dell’uomo valgono ben poco. Sia pure egli uno scettico come il gentile signore di Montaigne […]; ma quand’egli ci racconta [tell] i suoi personali segreti riesce sempre a incantare le nostre orecchie e ad ammutolire le nostre labbra171.

Si tratta di una scena narrativa che, appunto, viene abbandonata immediatamente. Il dialogo incomincia tratteggiando un principio cui resterà fedele: le impressioni di lettura di Gilbert. Il suo dispregio per la popolarizzazione della cultura lo rivela come alter-ego di Wilde. La postura del personaggio davanti ai testi reduplica quella del dandy, votatosi a quella “aristocrazia dell’intelligenza” che, come ha notato in un libro capitale José-Luis Diaz, si indirizza particolarmente contro il giornalismo e l’attività di journaliser, la quale immobilizza i pregiudizi dell’universo borghese172. Anche Gilbert si scaglia contro il giornalismo moderno: “[i]l giornalismo è illeggibile e la letteratura non è letta”173. Il riferimento a Montaigne serve a Gilbert per esprimere un giudizio estetico preciso, che trova negli Essais la vera forma del telling: questo è un vero “libro di memorie”, non la letteratura intima diffusa nei libri “moderni” coevi, come quello sotto gli occhi di Ernest. Lo spirito elitario del personaggio non traspare soltanto dal riferimento a Montaigne o dalla sua difesa dell’originario “spirito critico” degli antichi Greci, ma anche dai timidi tentativi di rifuggire la conversazione stessa, vale a dire la discussione letteraria appena aperta, in quanto discorso tipico di una pratica sociale comune e codificata: Gilbert […] La conversazione erudita [Learned conversation] o è l’affettazione dell’ignorante o la professione dei disoccupati mentali. […]

171 Ivi, pp. 19-21 [pp. 1009-1010]. 172 “Mentre lo scrittore si era da tempo definito in un rapporto controverso con la nobiltà, la quale lo sostentava ma lo disprezzava, egli si prende ora per un aristocratico, anzi l’unico aristocratico degno dei tempi moderni” (José-Luis Diaz, L’écrivain imaginaire. Scénographies auctoriales à l’époque romantique, Honoré Champion, Paris 2007, p. 510). 173 Oscar Wilde, Il critico come artista, cit., p. 35 [p. 1015].

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No; lascia che ti suoni qualche folle pezzo scarlatto di Dvořák. Le sbiadite figure degli arazzi ci sorridono e le pesanti palpebre del mio Narciso bronzeo cedono al sonno. Non facciamo discussioni formali [Don’t let us discuss anythin solemnly]. Sono anche troppo consapevole del fatto che siamo nati in un’epoca nella quale soltanto gli ottusi son presi sul serio e vivo nel terrore di non essere frainteso. […] Ernest Sei terribilmente ostinato. Insisto perché tu discuta questa questione con me. Hai detto che i greci erano un popolo di critici d’arte. Che critica d’arte ci hanno lasciato? Gilbert […] qual è il nostro principale debito nei confronti dei greci? Proprio lo spirito critico. E, questo spirito, che essi esercitarono su argomenti religiosi e scientifici, etici e metafisici, di politica e di educazione, lo esercitarono anche su questioni d’arte174.

La potenziale ripresa della scena pianistica è negata dallo stesso dialogo, in cui alla proposta di interrompere la conversazione da parte di Gilbert segue il diniego di Ernest, che si precisa prontamente come quel personaggio la cui funzione è fàtica: tenere aperto il dialogo, sorvegliare con le sue riprese al mantenimento della struttura dialogica. Al contrario, il personaggio sprezzante di Gilbert incarna un contro-discorso del dialogo, il cui compito è impedire che esso prenda la forma di una conversazione erudita, formale e comune. Non si tratta, cioè, di personaggi romanzeschi dotati di una funzione narrativa. Piuttosto, nell’avanzare del dialogo, il personaggio di Gilbert paleserà la propria dimensione pseudo-saggistica, conferendo al dialogo stesso non solo un indubbio valore critico, di illustrazione della poetica di Wilde attraverso abbondanti riferimenti letterari, artistici e musicali (vera e propria antologia personale del gusto letterario), ma anche l’espressione di un differente sentimento estetico da assumere verso le stesse opere artistiche che vengono citate e convocate: un lettore, insomma, che si rappresenta compiutamente come esteta. Come si evince dall’ultima citazione, la questione dell’arte nell’Antica Grecia, della tragedia classica e di quella moderna (Shakespeare) occuperanno gran parte della prima parte del dialogo. Si mantiene ciò che è stato promesso, argomentando sulla validità creativa dello “spirito critico” attraverso vari esempi testuali, al fine di dimostrare che il “critico come artista” è esistito nel passato: 174 Ivi, pp. 35-37 [pp. 1015-1016].

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Gilbert […] Davvero, io vorrei definire la critica una creazione dentro la creazione. Perché proprio come i grandi artisti, da Omero a Eschilo, fino a Shakespeare e Keats, non si rivolsero direttamente alla vita per i loro soggetti ma li cercarono nel mito, nella leggenda, nelle antiche narrazioni, così il critico tratta materiali che altri gli hanno, diciamo, purificato e a cui son già stati aggiunti forma e colore dell’immaginazione. Anzi, di più, vorrei dire che la critica più elevata, essendo la forma più pura di impressione personale, è a suo modo più creativa della creazione, poiché ha minor rimando a qualsiasi modello a sé esterno. […] Il resoconto di un’anima, questa è veramente la critica più elevata. È più affascinante della storia, poiché riguarda semplicemente se stessi. E più piacevole della filosofia, poiché il suo soggetto è concreto e non astratto, reale e non vago. È l’unica forma civile di autobiografia, poiché non si occupa degli avvenimenti bensì dei pensieri di vita; non si occupa degli accadimenti fisici legati ai fatti o alle circostanze della vita bensì degli umori spirituali [spiritual moods] e delle passioni immaginose [imaginative passions] della mente175.

Gilbert ha dedotto da certi esempi del passato il tipo di critica che, secondo lui, ha più valore, in sé e rispetto ad altri generi, come la storia, la filosofia e l’autobiografia. Tale critica sarebbe superiore perché in connessione con le “passioni della mente” e non vincolata a nessun “modello esterno” come gli altri generi intellettuali. Nelle prove antiche c’era un’unità di critica e arte. Ma quale sarà il modello analogo per l’epoca corrente di Wilde? Per ora, pur investita del compito di far emergere lo spirito individualista, la critica è stata contrapposta alle contemporanee scritture memoriali e biografiche176. Il dialogo ha risposto alla domanda iniziale – se è esistito uno spirito critico creativo – ma non ha ancora detto nulla su come esercitare tale critica nell’epoca contemporanea. Nondimeno, Gilbert si è già distinto per quel carattere individuale che ne fa uno spirito critico ed elitario, mentre procede tramite una 175 Ivi, p. 67 [p. 1027]. 176 Per comprendere bene quali fossero gli oggetti della critica di Wilde, e il suo confronto con Appreciations (1889) di Pater, si veda Lauren Brake, “The Discourses of Journalism: Authorship, Publishers and Periodicals”, in Ead., Subjugated Knowledges: Journalism, Gender and Literature, in the Nineteenth Century, Macmillan, London 1994, pp. 63-82. Da ricordare, anche, la scrittura giornalistica di Wilde, vedi John Stokes, “Wilde the Journalist”, in Peter Raby (a cura di), The Cambridge Companion to Oscar Wilde, Cambridge University Press, Cambrigde (UK) 1997, pp. 69-79.

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relazione metatestuale coi testi antichi ad argomentare le proprie opinioni sulle forme contemporanee della critica. La seconda parte del dialogo ricomincia dopo una sorta di pausa, un intermezzo in cui Wilde drammatizza nuovamente il discorso saggistico con un’allusione alla cena ormai finita e consumata a base di ortolani e Chambertin. Il paratesto ricompare nuovamente a segnalare il genere del dialogo, introducendo un secondo atto, in cui personaggi e scena non cambiano. La scena iniziale viene anch’essa duplicata. Nonostante Gilbert voglia fermare la conversazione dopo la cena, annunciata in chiusura della prima parte, Ernest ribatte: “No; io voglio discutere del critico e della critica” 177. La conversazione ricomincia subito in tono serio e, come nella prima parte, i riferimenti e le citazioni abbondano; le parti saggistiche più importanti riguardano la Divina Commedia, la pittura impressionista e quella critica contemporanea che si può definire davvero “artistica”, nell’opinione di Gilbert; il dialogo terminerà poi con l’auspicio del futuro ruolo di tale critica in una società che sarà rinnovata e cosmopolita. Ma a un certo punto Gilbert si sofferma sulla forma con cui ottenere quello che la critica artistica si propone in ultima istanza: un individualismo “integrale”. Secondo l’alter-ego di Wilde, “la forma oggettiva è la più soggettiva nella sostanza. L’uomo è meno se stesso quando parla in prima persona. Dagli una maschera [mask] e ti dirà la verità”178. La modalità di espressione individuale richiederebbe quindi un occultamento dell’io, e in particolare dell’io che “parla in prima persona”, dell’io dell’autobiografia, o di quello del genere delle memorie, nonché di quello della saggistica contemporanea. Poiché la prima persona resta alla superficie di se stessa, si richiede una forma idonea per il suo svelamento, che deve avvenire – come dice Gilbert – tramite un’intensificazione: è soltanto intensificando la propria personalità che il critico può interpretare la personalità e l’opera di altri, e più fortemente questa personalità entra nell’interpretazione più reale diviene l’interpretazione, più soddisfacente, più convincente e più vera. […] Se desideri comprendere gli altri devi intensificare il tuo individualismo [individualism]179. 177 Oscar Wilde, Il critico come artista, cit., p. 81 [p. 1032]. 178 Ivi, p. 115 [p. 1045]. 179 Ivi, p. 83 [p. 1033].

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A differenza dello “spirito greco”, non è più possibile la sintesi di una forma che unisca la creazione all’io, poiché l’io moderno non è più integralmente autentico e creativo. Piuttosto rischia di addensarsi soltanto in superficie, mancando la propria verità. C’è quindi una forma “doppia” dell’io anche in questi personaggi – Wilde sotto Gilbert – come in ogni altro critico che si vuole creatore e che, per poter emergere, deve uscire da sé, sperimentare le forme estetiche, per potervi tornare in una forma autentica nel commento dei testi. La lettura e il commento dei testi divengono una modalità di performance con cui il lettore non si esibisce soltanto in critico, ma in artista compiuto. La rappresentazione di questa postura estetica del lettore è ovviamente data dal solo personaggio di Gilbert, contro la figura interlocutiva (voce della doxa e del pensiero comune) di Ernest. Sappiamo che il genere del dialogo ha svolto una funzione importante nella filosofia, nonché nell’estetica occidentale dai tempi di Platone e, come nel caso di Galileo Galilei già segnalato, ha contribuito allo sviluppo del pensiero scientifico nel suo momento cruciale, se consideriamo che il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632) appare qualche anno prima del Discorso sul metodo (1637) di Cartesio. Il dialogo si dimostra, inoltre, anche una tecnica all’interno del saggio, almeno secondo quanto scrive Hugo Friedrich riguardo gli Essais di Montaigne180, che riprendono dal dialogo la struttura enunciativa che consente di articolare opinioni contrastanti e provenienti da un unico individuo, il proprio autore. Si è anche evidenziato il valore allegorico dei personaggi dialogici, che mostrano il movimento e la ricerca del pensiero incerto tra le diverse opinioni181. Ma allorché si 180 “Mentre la lettera preparava i mezzi espressivi atti alla soggettività dell’autore e alla diffusione dei più svariati argomenti, il dialogo offriva alla mente scettica una tecnica di esposizione che rispondeva all’equivoca molteplicità della materia attraverso i propri cambiamenti di prospettiva […]. Montaigne abbandona la dispersione letteraria, la conversazione comunque fittizia tra diverse persone, per evidenziare ciò che la finzione aveva finora mascherato, lo spirito che conversava con se stesso” (Hugo Friedrich, Montaigne, cit., p. 375). 181 “Non si tratta solamente di osservare che, qui, il saggio […] ammette tutti i tipi di inclusione narrativa, perché è abbastanza flessibile da incorporare aneddoti, ricordi o apologhi ad libitum. Nemmeno si tratta di notare che molto spesso i saggisti, sull’esempio di Platone, propongono dialoghi che non sono in alcun modo tratti dalla vita reale, e che non si possono riferire, se non finzionalmente, a esseri in carne e ossa: spesso identificativi di una forma di pensiero o di una postura ideologica, i loro personaggi hanno un semplice valore allegorico […]. È soprattutto da tenere in conside-

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consideri il saggio stesso come una forma “dialogica”, impegnata in un’avventura picaresca delle idee, la stessa scoperta euristica si muta in processo fortemente drammatico, che procede tramite una narrazione interna del pensiero. Ogni idea deve infatti sottostare a un processo di verifica, entro cui altre proposte si affacciano sulla prima elaborazione e ne misurano la tenuta. La dialettica inerente al saggio è concepita come una rappresentazione di idee che “si comportano sullo sfondo come personaggi di finzione” e “alimentano tra loro rapporti di amore, d’odio, d’opposizione, d’aiuto”; si produce così “una vera drammatizzazione del mondo culturale” in cui escono, alla fine, “idee vincenti e idee perdenti”182. Il dialogismo della scrittura porta al confronto e all’eventuale pluralità dei punti di vista, nonché delle interpretazioni dei testi quando si tratta di un saggio critico. Ma tale dialogismo può anche essere concepito come il prodotto di una razionalità che ricerca continuamente il predominio delle proprie idee su altre (che le appartengono o che sono assorbite dall’esterno). Tale concezione dialogica del saggio nega – si vede bene – uno stato di equilibrio, di conciliazione tra le opinioni e i punti di vista convocati, perché si propone come forma di un dibattito, letterario o meno. Questo è il caso dell’opera di Wilde, in cui il movimento dialogico permette la “vittoria” della rappresentazione di Gilbert; ma non si tratta (soltanto) della difesa di una determinata interpretazione dei testi. Il personaggio si dilunga, durante uno scambio, anche sulla forma con cui prevalere nel dibattito letterario, cioè sulle modalità dell’espressione critica che permetterebbero di riattivare il passato oggettivato nei testi e nella memoria culturale in una nuova creazione soggettiva: Gilbert […] Né, ancora, il critico è realmente limitato alla forma di espressione soggettiva. […] Può impiegare il dialogo, come colui che fece conversare Milton e Marvell sulla natura della commedia e della tragedia […]. Il dialogo, certo, quella meravigliosa forma letteraria che da Platone a Luciano e da Luciano a Giordano Bruno e da Bruno razione che la ricerca della verità viene generalmente presentata nel saggio come una sorta di romanzo formativo in cui il saggista dà vita al contempo al narratore, all’eroe e a tutti gli altri personaggi” (Pierre Glaudes (a cura di), L’essai: métamorphoses d’un genre, Presses Universitaire du Mirail, Toulouse 2002, p. XXII). 182 André Belleau, “Petite Essayistique” (1986), in Laurent Mailhot (a cura di), L’essai québécois depuis 1845, cit., p. 184.

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a quel gran vecchio pagano col quale Carlyle tanto si deliziò, i critici creativi del mondo hanno sempre adoperato, per il pensatore non perde mai la sua attrazione come modo di espressione. Per suo tramite egli può sia rivelare che celare se stesso […]. Per suo tramite egli può mostrare l’oggetto da ogni punto di vista e farcelo vedere a tutto tondo183.

Il dialogo diventa quindi una delle forme possibili della critica “artistica” per Wilde, nonché la sua forma di pseudo-saggio dialogico. La scrittura dialogica si fa auto-rappresentazione del metodo di lettura difeso dall’interpretazione; la relazione metatestuale è già una rappresentazione metatestuale della lettura. Se il dialogo continuerà, anche dopo Wilde nel Novecento, ad esprimere una “concezione dialettica della persona”184, in The Critic as Artist esso diventa una forma particolare della soggettività non conciliata, che insegue una relazione estetica improntata alla nostalgia per l’unità perduta. L’anima sensibile sente di dover andare oltre la specializzazione dei discorsi, quel giornalismo letterario e quella critica biografica che costituiscono l’altra faccia del suo “io” sociale. L’individualismo integrale comporta che l’esperienza estetica – l’esteticizzazione di tutto il mondo sensibile – debba essere riattivata anche nella lettura critica per poter approdare alla critica artistica che Wilde ha in mente e, conseguentemente, alla sua funzione “utopica”. Questa forma dialogica non fornisce un autoritratto di Gilbert in quanto personaggio, ma il personaggio è la rappresentazione proiettiva e immaginaria di un lettore, impegnato nel processo di relazionarsi coi testi in un regime estetico particolare, alternativo a quello corrente. L’emersione dell’individualità si realizza in una relazione coi testi della cultura che non mira soltanto a interpretarli, ma a rappresentare una doppiezza tra superficie contingente e profondità della creazione, tra vita e arte in quanto separate, ma ancora riunibili: è insomma la relazione metatestuale di un lettore, ma dietro la maschera del dandy.

183 Oscar Wilde, Il critico come artista, cit., pp. 117-119 [p. 1046]. 184 Alberto Comparini, Un genere letterario in diacronia. Forme e metamorfosi del dialogo nel Novecento, Fiorini, Verona 2018, p. 55.

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2.2. Giacomo Debenedetti: i personaggi della critica I tre volumi di Saggi critici di Giacomo Debenedetti mostrano dal titolo scelto la loro iscrizione nel genere del saggio critico185, mentre in Wilde la raccolta Intentions, in cui è incluso il dialogo analizzato, indirizza il lettore verso la ricezione di un nuovo dominio estetico a cui il suo pseudo-saggio dialogico ambisce. Eppure, nei Saggi critici anche Debenedetti impiega modalità propriamente dialogiche. D’altronde, la radio rappresenta un medium di lavoro nella redazione di “testi parlati” per il cinegiornale La Settimana Incom, che impegna Debenedetti dal 1946 al 1956186, arco temporale in cui si situano anche i suoi due pseudo-saggi dialogici: l’inizio di una Probabile autobiografia di una generazione e la Radiorecita su Jean Santeuil. Probabile autobiografia di una generazione diviene la seconda introduzione ai Saggi critici (Prima serie). Il titolo andrebbe discusso all’interno del resto della produzione di Debenedetti, se gran parte dei recensori ha notato il formarsi, parallelamente alla scrittura critica, di un racconto autobiografico dell’autore187. La prefazione esordisce con un dialogo a due voci, di calco teatrale, in cui compaiono due personaggi: 185 Per una ricognizione completa di tutti i saggi di Debenedetti si veda Angela Borghesi, La lotta con l’angelo. Giacomo Debenedetti critico letterario, Marsilio, Venezia 1989, e Francesco Mattesini, La critica letteraria di Giacomo Debenedetti, Vita e pensiero, Milano 1969. 186 Paolo Gervasi, La voce come metodo. Pratica dei media e scrittura orale in Debenedetti, in «Ermeneutica letteraria», n. 13, 2017, p. 118. 187 “L’autobiografia non precede la critica né la segue, la rende possibile e si costruisce insieme ad essa, se ne alimenta, si manifesta e si nasconde nella critica, evitando di costituirsi come racconto autonomo” (Alfonso Berardinelli, Debenedetti e il Novecento, in «Nuovi argomenti», Giacomo Debenedetti e il secolo della critica, n. 15, 2001, p. 35). Da ricordare, la fortunata definizione di Edoardo Sanguineti: “Tentiamo una definizione, e diciamo allora, se vogliamo, un critico narratore […] un critico che nel tessuto del proprio discorso pone, come momenti essenziali (almeno strutturalmente), in assoluto rilievo, quegli stacchi drammatici che l’arte narrativa gli ha appresi e per i quali può additare, maestro indiscutibile (almeno secondo la sua interpretazione), un De Sanctis […] il ‘racconto’ è rimasto pur sempre, nella metamorfosi critica di Debenedetti, la struttura dominante della sua oratio soluta, il suo genere letterario” (Edoardo Sanguineti, “Cauto omaggio a Debenedetti” (1956), in Id., Tra Liberty e crepuscolarismo, Mursia, Milano 1961, pp. 184-185). Emanuele Zinato trova in Debenedetti “un significativo esempio di critica narrativizzata: si sta parlando di Tozzi e di Pirandello ed ecco che all’improvviso si constata che, in modo inconsapevole rispetto alla stessa volontà degli autori, molti dei loro personaggi cominciano a imbruttire, a vedere i lineamenti del proprio volto deformati da una forza che agisce in modo autonomo dal loro interno e ne devasta la fisionomia” (Emanuele Zinato, Le idee e le forme. La critica letteraria in Italia dal 1900 ai nostri giorni, Roma, Carocci 2010, p. 113).

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“Professore” e “Critico”. Prima che si sollevi il sipario e la recita abbia inizio, l’autore fa precedere al suo pezzo una pagina introduttiva alla prefazione stessa, che agisce come orientamento paratestuale interno. Si tratta di un’introduzione che illustra un “abbozzo di scena”, come avviene normalmente nel teatro o nelle interviste su carta stampata: È scritto che ognuno si deva imbattere in un personaggio che antagonista non può dirsi e neppure demone, quantunque dell’uno tenga la natura provocatoria e dell’altro quella influitiva e parente. Si tratta della propria ombra […]. Tra gli incontri fatali, c’è anche quello del Critico col Professore di Belle Lettere. Supponiamo, per fissare le idee, che il critico sia quello che avete sott’occhio188.

Se il Critico è “quello che avete sott’occhio”, al Professore andrà dato “un nome preferibilmente immaginario”189. Il Critico, definito poi anche “Giovanotto”190, deve difendersi per aver ridato alle stampe la prima edizione dei suoi Saggi critici. Il Professore, in quanto “ombra” della figura del Critico, si palesa nelle pagine seguenti come la voce ben riconoscibile di un’egemonia culturale: Benedetto Croce191. Perché dunque la necessità di una maschera per Croce, se essa è solo di facciata? Debenedetti scrive che il Professore ha assunto “la parte di chi non capisce”192. Costui risponde che “Narciso ha fatto i capelli bianchi” ed è arrivato il momento di fare i conti col passato, con la “giovanile raccolta dei Saggi critici” per verificare se il Critico è stato all’altezza delle 188 Giacomo Debenedetti, “Probabile autobiografia di una generazione”, in Id., Saggi, a cura di Alfonso Berardinelli, Mondadori, Milano 1999 (I Meridiani), p. 97. Conferenza al congresso internazionale del Pen Club nel 1949, viene poi pubblicata in forma ridotta come articolo: “Per una critica della filosofia crociana”, in «Il socialista moderno», vol. 1, n. 6, dicembre 1949, pp. 2-3. 189 Ibidem. “Il Professore riassume le accuse proverbiali mosse a Debenedetti: dilettantismo, dispersione, isolamento, titanismo malinconico, estetismo, romanticismo attardato. Si tratta anche di auto-accuse: e con il testo che sta pronunciando Debenedetti liquida la stagione che lo ha fatto assomigliare a quel ritratto” (Paolo Gervasi, La voce come metodo, cit., p. 121). 190 Giacomo Debenedetti, “Probabile autobiografia di una generazione”, cit., p. 98. 191 Per Vanessa Pietrantonio, il sistema crociano è ciò contro cui Debenedetti oppone un’alternativa discorsiva con il proprio modello saggistico. L’autore opererebbe in questo senso quando disgrega in saggi l’unica monografia da lui approntata, quella su Alfieri (Vanessa Pietrantonio, Debenedetti e il suo doppio. Una traversata con Marcel Proust, Il Mulino, Bologna 2003, p. 37). 192 Giacomo Debenedetti, “Probabile autobiografia di una generazione”, cit., p. 97.

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aspettative dei professori. L’accusa che segue è di timidezza “organica”, di una “intelligenza ‘amara e solitaria’”193. Dal canto suo, il Critico si spende in “furbesc[hi] ammiccament[i]” con il pubblico, suggerendo che il giudizio del Professore gli fa della “propaganda”194; spinge infine per la chiusura di questo colloquio: “Professore, se dessimo un’occhiata all’orologio?”; allorché il suo interlocutore risponde indispettito e cattedratico che “[i]l finis, per sua norma, non me lo lascio dare che dal bidello”195 e vorrebbe riportarlo alla serietà (“lei mi lascia sperare che nella sessione di ottobre… Professore: sia serio una buona volta, le ripeto…”196). Questo dialogo è improntato all’ironia e al sarcasmo; anzi, appare come il travestimento in parodia della stessa “tragedia greca” che rappresenterebbe la critica italiana “negli ultimi trent’anni”, la quale recita un “copione di accertata autorità”197, sempre secondo Debenedetti. Il dialogo viene definito dunque una farsa, una commedia accademica: “duetto […] arrogante e sofisticato” traboccante di “turgori scioperati e civetteria da pachiderma”198. Tale farsa ha una funzione paratestuale rispetto al resto della “Prefazione” e al complesso stesso dei Saggi critici. Dopo la seconda “Prefazione”, Debenedetti colloca immediatamente il saggio Sullo “stile” di Benedetto Croce (apparso inizialmente su «Primo tempo» nel lontano 1922). L’autore vi descrive l’opera di Croce come un “romanzo cosmico che trova, nell’ininterrotto svolgersi della vita, la materia per sempre nuovi episodi”199. Come scrive György Lukács, il saggio deve “dare corpo allo spirito vitale che qualcuno ha creduto d’intuire in un uomo, in un’epoca, in una forma”200. Ma se Croce è al centro del proscenio critico italiano, come colui che dà corpo allo spirito vitale, anche Debenedetti rappresenta in questo saggio dialogico una figura dotata di valore collettivo. Si tratta ovviamente di una lettura retrospettiva, di un fare i 193 Ivi, pp. 99-100. 194 Ivi, p. 99. 195 Ivi, p. 100. 196 Ivi, p. 101. 197 Ivi, p. 102. 198 Ivi, p. 103. 199 Giacomo Debenedetti, “Sullo ‘stile’ di Benedetto Croce”, in Saggi, cit., pp. 131-132. 200 György Lukács, “Essenza e forma del saggio. Una lettera a Leo Popper” (1911), in Id., L’anima e le forme, trad. it. di Sergio Bologna, SE, Milano 1991, p. 28.

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conti col proprio passato: un auto-bilancio critico, un’auto-ricognizione che prende la forma dialogica di un’auto-rappresentazione. La rilettura dei propri Saggi critici, del rapporto della sua scrittura con Croce, comporta in Debenendetti una rappresentazione in grado di costruire un’identità per quel giovane critico che si affacciava sul panorama italiano; al contempo, consente anche di riattivare una rappresentazione di Croce diversa da quella subita durante la giovinezza, in cui l’antico rispetto verso la figura “cosmica” del filosofo trova ora nel personaggio del Professore le forme della parodia. In chiusura dello scambio, il Critico confessa: [Q]uesta mia storia, questo mio dialogo con lei, questa nuova prefazione ai miei vecchi Saggi sono puri pretesti per un altro discorso, che potrebbe eventualmente intitolarsi: probabile autobiografia di una generazione. Nella quale io non debbo apparire se non come la figura approssimativa, sfrangiata di gesso, che il geometra disegna sulla lavagna per dimostrare il teorema: il povero quadrato un po’ fortuito che per un attimo si trova a riassumere le proprietà di tutti i quadrati come lui e meglio riusciti di lui, a confessare che purtroppo non sono nati per risolvere la quadratura del circolo201.

La trasformazione dal “cosmico” al burlesco coinvolge tanto Croce quanto Debenedetti, che giudica altrettanto duramente – dietro al sarcasmo – il rapporto della propria generazione con le forme passate dell’egemonia critica. Il dialogo ironico opera un’inversione rispetto al dibattito generazionale di un tempo: dalla soggezione conduce al distanziamento, dalla recitazione di un copione che si voleva serio giunge alla rivisitazione di quel copione in senso critico. Debenedetti suppone insomma un rovesciamento di un’altra scena iniziale in cui, assieme alla propria generazione, accettava l’egemonia crociana: un superamento, concesso dalla distanza temporale, di uno scenario giovanile fantasmatico, che si rivela soltanto nei suoi effetti successivi, e tramite una lettura posteriore. Il critico come adulto deve andare oltre le sue passate e sintomatiche auto-rappresentazioni, oltre il tempo in cui era “sotto i portici del cortile […]. Chi ora con la macchina del tempo potesse tornare a quei mattini sentirebbe di che cosa si discorreva. Croce e Genti201 Giacomo Debenedetti, “Probabile autobiografia di una generazione”, cit., p. 102.

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le, Gentile e Croce, il grande duello”202. Se i Saggi critici permettono di “contrastare la circolarità della Filosofia dello Spirito”203 – cioè la chiusura del romanzo cosmico che impedisce di “evadere lungo la direzione di qualsiasi raggio”204 – il dialogo distanzia Debenedetti dalla propria identità passata, per usare il suo esempio come rappresentazione collettiva di un’abiura generazionale. Veniamo ora alla Radiorecita su Jean Santeuil, che rappresenta la massima espressione del fascino che non solo la radio, ma anche il teatro hanno esercitato su Debenedetti205. Nella terza serie dei Saggi critici, la quinta parte s’intitola Due capitoli su Proust, il cui primo, Confronto col diavolo, pubblicato lo stesso anno della trasmissione radiofonica (1952), contiene un importante annuncio per leggere il capitolo successivo, poiché ne illustra i motivi ispiratori: L’insorgere della critica complicata significa anche che si erano perduti il calore, la passione da cui erano animati i primi lettori di Proust; perché un discorso critico, mosso da vero entusiasmo, finisce sempre col trovare accenti semplici; le sue idee diventano visibili e profilate come personaggi206.

La Radiorecita su Jean Santeuil costituisce il tentativo di trasferire la critica proustiana all’interno di un’aggiornata cornice sociale; anzi, di riattivare la lettura dei testi proustiani (non solo la Recherche, ma appunto le “scoperte” postume del Jean Santeuil) presso nuovi lettori. Per riportare le “idee” del discorso critico “perduto” all’originario potenziale comu202 Ivi, p. 108. 203 Ivi, p. 110. 204 Ibidem. 205 Si può inoltre ricordare che Debenedetti tradurrà la pièce di Sartre Le Diable et le bon Dieu per la regia di Luigi Squarzina nell’estate del 1962; la prima sarà a Genova il successivo 8 dicembre; la traduzione verrà stampata nel 1963 sulla rivista «Il Dramma» (cfr. Luigi Squarzina, Giacomo Debenedetti e il teatro, in «Nuovi argomenti», Giacomo Debenedetti e il secolo della critica, vol. 15, 2001, pp. 253-266). Per quanto riguarda i rapporti con Sartre, altro saggista qui in esame, costui pubblicò una traduzione del racconto documentario 16 ottobre 1943 di Debenedetti sulla sua rivista «Temps Modernes» nel 1947, all’interno di una rubrica intitolata “Guerra”, parte di un numero monografico dedicato all’Italia, ma il testo originale ne risultava amputato. 206 Giacomo Debenedetti, “Confronto col diavolo”, in Saggi, cit., p. 926. Già pubblicato come Marcel Proust a patti con il diavolo in «Il pensiero critico», vol. 2, n. 6, novembre 1952, pp. 13-29.

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nicativo ed emotivo, bisogna per Debenedetti operare una loro trasformazione in “personaggi”, renderle “visibili” al pubblico, in altre parole rappresentarle davanti ai nuovi lettori. Il testo della Radiorecita fu espressamente concepito per una grande diffusione e, incluso nel palinsesto del terzo programma della Rai, venne trasmesso il primo ottobre 1952. In questo dialogo radiofonico, il discorso critico che attraversa lo stesso dialogo teatrale comporta, a differenza di Wilde, il principio dialogico di confronto tra le diverse opinioni, soprattutto per discutere, problematizzare o confutare quella del professionista. Il critico premette una “Giustificazione” alla recita dove ne illustra la struttura: È un tentativo di dare forma dialogata ad alcune tesi di critica su Marcel Proust, precedute dalle notizie utili ad agevolarne la comprensione da parte del pubblico che, in genere, si ha il torto di supporre assai meno al corrente di quanto sia […]. Ho semplicemente cercato se sia possibile valersi dei mezzi radiofonici – voci invisibili e suggerimenti musicali – per incorporare in personaggi abbastanza evidenti e, per così dire, antropomorfici, le istanze che vengono a contrasto durante il lavoro di un critico. La necessità, o la speranza, di essere capito a volo mi hanno costretto a contrarre in profili bruschi, senza sfumature, punti di vista, che in un normale discorso critico avrebbero richiesto dimostrazioni laboriose207.

La Radiorecita funziona meno come una semplificazione che una esemplificazione, la quale inquadra il discorso e le dinamiche dell’interpretazione critica in una struttura comunicativa nuova, che veicola le stesse interpretazioni di un saggio critico, ma rende visibile all’esterno il suo coinvolgimento in un comune processo di conoscenza. Se non è certo una semplificazione dell’interpretazione – anzi, il pubblico non è totalmente sprovveduto208 – è una esemplificazione dialogica del lavoro intellettuale della critica: un aggiornamento del contenitore, non del 207 Id., “Radiorecita su Jean Santeuil”, in Saggi, cit., p. 951. Col titolo Radiorecita su Marcel Proust pubblicata in volumetto da Macchia, Roma 1952. 208 Come dirà il Pubblico, Proust è comunque un argomento di conversazione che fornisce all’individuo sociale (piuttosto colto) un capitale simbolico e relazionale notevole: “Che si vuol di più? Uno scrittore grande per i critici, e accessibile anche per noi profani. Un romanzo lungo e complicato, che si riassume con semplicità. Un riassunto che è anche una spiegazione e che, a raccontarlo, ancora adesso, si fa bella figura, di persone informate…” (Ivi, p. 953).

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contenuto. Lo pseudo-saggio dà una forma esplicita alle dinamiche dialogiche, ai “punti di vista”, che il saggio critico considera implicitamente durante l’argomentazione e restituisce alla scrittura solo sotto forme specializzate del discorso, come i rimandi (con note, o senza) a letture diverse, altrui e precedenti e, in generale, allo stato dell’arte. Porsi l’obiettivo di un’“aderenza al secolo”, dare una parola critica che ha fatto proprie le regole della comunicazione borghese209 non cancella dalla scrittura le proprie dimostrazioni laboriose, ma rappresenta le letture altrui di cui la scrittura critica fa astrazione quando le supera ponendo, in quanto originale, la propria interpretazione. Nella Radiorecita, invece, tutte le letture hanno uguale dignità rappresentativa, sotto forma di “interlocutori”, veri e propri personaggi più o meno antropomorfi: un “Prologo”, un “Critico”, una “Donna”, due “Lettori” e il “Pubblico”. Leggiamo l’avvio da parte del Prologo: prologo Lasciatelo dire al prologo, che è nato guasta-mestieri: un critico è come una mela, sempre in pericolo di essere spaccato in due. Da una parte lo tira il pubblico, che gli dice: pubblico Parla come parliamo tutti quanti, chiama pane il pane. Sarà, anche per te, il miglior collaudo che sei nel vero210.

L’imprinting comunicativo è chiaro. Il pregiudizio sulla critica è confermato, secondo un’ottica borghese in cui il vero sta nel semplice, in uno stile, ancorché critico, che dev’essere popolare. Se la nuova situazione comunicativa s’impone al critico, Debenedetti moltiplica i punti di appoggio, creando personaggi di supporto, in una sequenza orizzontale di discorsi diversi, attinenti a tipologie sociali ideali, ma riconducibili ai gradi intermedi che vanno dalla pura specializzazione linguistica e disciplinare fino alla voce della doxa popolare. Questa stratificazione delle voci consente appunto di non semplificare l’argomento, il commento ai testi, l’uso di metodi d’interpretazione biografica e intertestuale; ma permette l’esemplificazione nel dialogo di tutto il lavoro necessario a presentare adeguatamente Proust al grande pubblico. A contraltare, l’inclusione di brani musicali, segnalata dal paratesto teatrale, produce digressioni funzionali che interrompono il discorso al momento opportuno, nel rispetto della durata media di ascol209 Paolo Gervasi, La voce come metodo, cit., p. 120. 210 Giacomo Debenedetti, “Radiorecita su Jean Santeuil”, cit., p. 952.

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to per una trasmissione di questo tipo. Intelligentemente, Debenedetti trova il modo di ricondurre al proprio discorso anche le inserzioni musicali e di neutralizzarne l’eterogeneità semiotica, commentando che il tema della musica in Proust è al centro della sua poetica211. Quando il Pubblico inizia a narrare la vita di Proust (“Marcel Proust nasce a Parigi nel 1871…”) soffermandosi sulla sua infanzia, il primo lettore interviene a leggere a titolo esemplare l’apertura della Recherche. Il Critico, annunciata voce della competenza, lo interrompe con una riflessione sulla struttura del romanzo. La reazione del Pubblico è segnalata dall’indicazione di regia tra parentesi, mentre riprende il proprio discorso attorno al ritratto biografico di Proust: Come insiste sulla parola tempo: è quella che apre il primo volume, sarà l’ultima dell’ultimo. Proust fa subito come una magia musicale col nome del tempo, per fascinarlo, lui che va alla ricerca del più imprendibile dei tempi: quello che non è più, il tempo perduto. pubblico (spazientito) Abbiamo lasciato Marcel, mentre appena incominciava a perderlo. Scolaro, scriveva componimenti inaccettabili, veri modelli del “fuori tema”212.

Il contrasto tra le posizioni ideologiche e tra le diverse letture fa uso, insomma, delle risorse del dialogo radiofonico, le cui voci nella dicitura degli attori modulano timbri espressivi che allertano il pubblico rispetto alle connotazioni emotive dei vari personaggi. Riportate nel testo scritto, queste indicazioni di tono fungono da paratesto che indirizza i lettori a prendere in conto le medesime connotazioni dei personaggi, originariamente espresse dalla voce. Il personaggio del Pubblico appare interessato soprattutto alla vicenda biografica dell’autore Proust e a rintracciare nella sua opera i rimandi alla sua vita: un “biografismo”213 critico che potrebbe rappresentare 211 Indicazioni scenografico-musicali del paratesto: “(Frase di Jardin sous la pluie di Debussy, interrotta da rumori secchi come di piatti che vadano in frantumi.)” (ivi, p. 952). “Era fatale che Proust desse alla musica questa situazione privilegiata. Perché lui stesso è stato l’ultimo dei grandi artisti a tentare l’identificazione tra materia e suono, tra le parole e il cuore delle cose” (ivi, p. 983). Si veda anche “Proust e la musica” (1928), in Saggi, cit., pp. 283-299. 212 Giacomo Debenedetti, “Radiorecita su Jean Santeuil”, cit., pp. 954-955. 213 “La leggenda di Proust, come ce l’ha raccontata l’ambasciatore del pubblico è tutta vera. Però ha il difetto della sua perfezione. Chiarisce troppe cose, e troppo bene. Questo potrebbe far nascere qualche diffidenza” (ivi, p. 962).

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un’alternativa all’analisi del Jean Santeuil portata avanti dal Critico. Il Pubblico contrappone infatti l’esercizio del riassunto, “[u]n riassunto che è anche una spiegazione”214, al commento testuale vero e proprio, che segue attraverso le voci i brani riportati dai Lettori e commentati primariamente dal Critico, che infatti sostiene: critico Dico che non è indispensabile tanta biografia, per spiegare Proust. Si può spiegarlo dall’interno dei sentimenti che generano la sua opera, parole e musica. Anzi, dall’interno di un sentimento fondamentale, a cui tutti siamo esposti. Capire un poeta è sentirlo fraterno alla nostra sorte. La Ricerca del tempo perduto è un immenso interrogatorio della gelosia215.

Il personaggio femminile funziona come una sorta di aiutante per il Critico, “distributore automatico di soluzioni”216. Alla battuta del Pubblico: “[v]a bene, compreremo il libro. Ma quello che vogliamo sapere, qui da voi, è il modo di usarlo”, la Donna risponde: donna (scattando) Voglio prendermi una rivincita. Mi avete presentata come una fabbricatrice di imbarazzi. Ma sono anche una donna. La donna è la depositaria del coraggio dell’uomo. So dove il critico vuole arrivare. So che vorrebbe arrivarci coi piedi di piombo. E invece, proprio io, la maestra degli scrupoli, stavolta gli dico: “salta a piè pari sulla conclusione. Se ti romperai le gambe, dopo le ingesseremo. E se invece hai trovato qualcosa di utile, ne prendiamo subito il brevetto”. pubblico In televisione, risulterebbe che adesso il rappresentante del pubblico sta parlando tra sé. (Effetto di voce “a parte”.) Mi pare che quei due drammatizzino un po’ le cose, come se stessero per farci una rivelazione. Speriamo che ne valga la pena217.

Se queste figure sono tutte “rappresentanti” di una voce sociale, la Donna, “fabbricante di imbarazzi”, è operatore della mediazione tra le diver214 Ivi, p. 953. 215 Ivi, p. 979. 216 Ivi, p. 980. 217 Ivi, p. 974.

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se letture e posizioni. Riesce a mediare insinuando il dubbio sulle prospettive che si collocano agli estremi, tra il bisogno di romanzesco del Pubblico e la volontà del Critico di mettere in rapporto il Jean Santeuil con la Recherche. Dal canto suo, il Critico utilizza metafore fortemente debenedettiane218, desunte dal discorso volgarizzato della scienza: “la Ricerca di Proust […] [h]a fatto quello che gli scienziati moderni progettano per i viaggi interstellari […]. Si è fabbricata uno speciale proiettile-razzo, un missile, come lo chiamano, per chiudervisi dentro, e passare. Questo missile è appunto la leggenda biografica, a cui l’opera è affidata”219. Nella Radiorecita la scrittura saggistica di Debenedetti si sottopone volontariamente alle pressioni di una situazione comunicativa in cui i suoi destinatari collettivi vengono direttamente rappresentati. Il saggio critico si fa ora dialogismo funzionale, che non deve rinegoziare il posizionamento del critico stesso, come nell’Autobiografia. Il saggista si è sdoppiato nei suoi personaggi, non più pallide “ombre” come Croce, ma forme di rappresentazione, di posture lettoriali tipiche della situazione sociale all’epoca della comunicazione di massa. Con questo pseudo-saggio dialogico, Debenedetti riattiva il proprio commento di Proust su una scena diversa da quella del saggio stampato, estendendo il dominio di pertinenza della critica letteraria praticata in precedenza in una scena borghese, in cui i lettori gli si raccolgono idealmente intorno ad ascoltarlo, attraverso il primo medium di massa che collega individui distanti e diversi, come sono gli stessi personaggi della Radiorecita: la radio. Si possono infine rilevare alcuni residui di dialogo nella Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo (1965). Quando “assistiamo alla metamorfosi del personaggio-uomo nel personaggio-particella”220, compare un lacerto di dialogo, l’ennesimo attribuito a due voci, le quali, stavolta, non contengono alcun nome di persona o ruolo sociale ma vengono connotate da una X e una Y. Sembrano anonime, ma si capisce che provengono dalla fisica e dalla narrativa contemporanee221: 218 Vedi Arrigo Stara, Debenedetti e la metafora, in «Paragone-Letteratura», vol. 39, n. 10, agosto 1988, pp. 49-70. 219 Giacomo Debenedetti, “Radiorecita su Jean Santeuil”, cit., pp. 962-963. 220 Id., “Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo”, in Saggi, cit., p. 1295. Conferenza tenuta alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1965 e pubblicata in versione ridotta in «Cinema nuovo», vol. 14, n. 177, settembre-ottobre 1965. 221 Debenedetti stesso ci informa però che le citazioni sono rispettivamente tratte dal libro Fisica delle particelle di Kenneth W. Ford e da Il Nouveau Roman di Alain Robbe-Grillet, pubblicati entrambi nel 1963.

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“[a]l punto che un immaginario dialogo sui rispettivi personaggi, tra un fisico e un romanziere degli anni Sessanta, rischierebbe di creare i più deplorevoli equivoci sui nomi degli interlocutori”222. X e Y assurgono a voci diverse dentro la coscienza del personaggio-particella. La perdita del nome proprio si prospetta come la sua distinzione più evidente rispetto al personaggio-uomo. La sua identità narrativa perde di rappresentazione antropomorfica, cancella le proprie fattezze più umane, il suo riconoscimento civile e si annuncia come una creatura senza carta d’identità: una natura metaforica, crepuscolare e minuscola perché apparentata da Debenedetti alle particelle della fisica. Il dialogo ha abbandonato lo pseudo-saggio per riguadagnare i confini del saggio critico e i suoi modelli di personaggio si riavvicinano al ruolo di esempi, “immagini mentali” e metafore vive, che esemplificano in un aforisma riuscito le conclusioni dell’analisi e dell’interpretazione.

2.3. Marcel Proust: il dialogo interrotto Un altro tipo di pseudo-saggio utilizza il dialogo in forma indiretta: l’eterogeneità dei discorsi non dà forma a personaggi distinti, ma a riferimenti di natura diversa che, attraversando un unico testo, combinano rappresentazioni a più livelli sotto il nascondimento di un’unica forma e un unico testo. Sentiments filiaux d’un parricide223, un articolo di Marcel Proust apparso su “Le Figaro” all’inizio del 1907, usa la forma dell’articolo giornalistico in un montaggio di rappresentazioni di discorsi personali, come la corrispondenza espitolare, e di materiale pubblico, come il resoconto giornalistico, per produrre un’attualizzazione di certi testi letterari alla luce di un evento presente della cronaca. D’altronde, in Journée de lecture, Proust aveva già concepito la lettura come pratica “solitaria”, non riconducibile a una conversazione: “la lettura, contrariamente alla conversazione, […] consiste per ognuno di noi nel ricevere comunicazioni da un altro pensiero, pur restando soli, vale a dire continuando a godere 222 Ivi, p. 1304. 223 Marcel Proust, “Sentiments filiaux d’un parricide”, in “Le Figaro”, 1 febbraio 1907; ora in Id., Contre Sainte-Beuve, précéde de Pastiches et mélanges, et suivi de Essais et articles, a cura di Pierre Clarac e Yves Sandre, Gallimard, Paris 1971 (La Pléiade), pp. 150-159. La traduzione italiana utilizzata è di Mario Lavagetto: col titolo “Sentimenti filiali di un parricida” è inclusa in Quel Marcel! Frammenti dalla biografia di Proust, Einaudi, Torino 2011, pp. 165-187. Tra parentesi quadre si conservano i riferimenti all’edizione della Pléiade.

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del potere intellettuale che conserviamo nella solitudine e che la conversazione dissipa immediatamente, e che ci lascia continuare a essere ispirati, a rimanere nel fecondo lavoro fruttuoso dello spirito su se stesso”224. Tale concezione impedisce, pertanto, la rappresentazione esplicita di un dialogo tra vari personaggi, preferendo Proust – come d’altronde riuscirà a fare nel romanzo della Recherche con le inserzioni saggistiche – includere discorsi diversi in un’unica forma personale di un genere letterario: nei Sentiments filiaux d’un parricide l’articolo giornalistico, o meglio la lettura di tale articolo, in particolare di uno su “Le Matin”. Tre discorsi attraversano l’articolo di Proust: dialogo autobiografico ed epistolare tra l’autore e il matricida Henri Van Blarenberghe, con lettere riportate e commenti di Proust; commenti alle ricostruzioni giornalistiche del delitto; commento del matricida alla luce di una comparazione con gli eroi della tragedia greca, shakespeariana e del romanzo moderno. Il primo ad apparire è appunto il discorso riferito delle lettere scambiate tra Proust ed Henri, che si apre con una scena autobiografica: Quando M. Van Blarenberghe padre morì alcuni mesi or sono, mi ricordai che mia madre aveva conosciuto molto bene sua moglie. Dopo la morte dei miei genitori io sono (in un senso che non è qui il luogo di precisare) meno me stesso, più loro figlio. Senza abbandonare i miei amici, più volentieri mi rivolgo ai loro. E le lettere che ora scrivo sono per la maggior parte quelle che, credo, essi avrebbero scritto, quelle che non possono più scrivere e che io scrivo in vece loro, felicitazioni, condoglianze soprattutto, a loro amici che spesso quasi non conosco225.

Proust riporta di aver scritto al figlio di Van Blarenberghe, Henri – conoscenza occasionale –, per esprimere le proprie condoglianze, come spinto da un dovere filiale, da un imprimatur del destino che lo rende responsabile una volta rimasto solo. Come sarà chiaro nel finale, il de-

224 “[L]a lecture, au rebours de la conversation, consistant pour chacun de nous à recevoir communication d’une autre pensée, mais tout en restant seul, c’est-à-dire en continuant à jouir de la puissance intellectuelle qu’on a dans la solitude et que la conversation dissipe immédiatement, en continuant à pouvoir être inspiré, à rester en plein travail fécond de l’esprit sur lui-même” (Marcel Proust, “Journée de lecture” (1905), in Id., Pastiches et mélanges (1919), Gallimard, Paris 2013, p. 257). 225 Id., “Sentimenti filiali di un parricida”, cit., p. 167 [p. 150].

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stino familiare appare come una forza tangenziale alla vita presente: si compie alla morte dei genitori e continua ad agire dopo questa. Proust riproduce quindi la lettera, datata 24 settembre 1906, ricevuta in risposta da Henri: oltre i ringraziamenti per le condoglianze espresse, la missiva è “improntata a un così grande amore filiale”226 che porta Proust a tratteggiare il ritratto di Henri sotto uno sguardo benevolo: Questa lettera fu per me molto toccante, compiangevo chi soffriva in tal modo; lo compiangevo, lo invidiavo: aveva ancora sua madre per consolarsi consolandola. […] Ma questa lettera modificò soprattutto, in un senso più simpatico, il ricordo che avevo conservato di lui. Le buone relazioni, a cui aveva alluso nella sua lettera, erano in realtà delle banalissime relazioni mondane. Non avevo avuto occasione di parlare con lui in casa degli amici che qualche volta ci invitavano entrambi a cena, ma l’estrema distinzione intellettuale dei padroni di casa era, ed è rimasta, per me una garanzia che Henri Van Blarenberghe, sotto apparenze un po’ convenzionali e forse più rappresentative dell’ambiente in cui viveva che significative della sua personalità, nascondeva una natura più originale e vivace227.

Proust non condivide con Henri una conoscenza reciproca e approfondita, ma vi ritrova una situazione sentimentale simile, di un figlio che ha perso uno dei genitori e che, senza una famiglia propria, attraversa l’esperienza del lutto. Il padre di Henri era morto l’anno precedente, 1906. Proust ha perduto il padre nel 1903 e la madre nel 1905. L’identificazione s’imbastisce sotto una comune prospettiva filiale. Solo dopo aver riprodotto una seconda lettera di Henri, datata il 12 gennaio dell’anno seguente, Proust imprime un cambio di tono all’articolo: Cinque o sei giorni dopo aver ricevuto questa lettera, mi ricordai, svegliandomi, che volevo rispondervi. […] Svegliandomi mi accingevo a rispondere a Henri Van Blarenberghe. Ma, prima di farlo, volli gettare uno sguardo sul «Figaro», procedere a quell’atto abominevole e voluttuoso che si chiama leggere il giornale, grazie al quale tutte le disgrazie e i cataclismi dell’universo durante le ultime ventiquattro ore, le battaglie che sono costate la vita a cinquantami226 Ibidem. 227 Ivi, p. 169 [p. 151].

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la uomini, i crimini, gli scioperi, le bancarotte, gli incendi, gli avvelenamenti, i suicidi, i divorzi, le crudeli emozioni dell’uomo di stato e dell’attore, tramutati per noi, che non siamo parte in causa, in un dono mattutino, si associano in modo perfetto, e particolarmente eccitate e tonico, alla raccomandata ingestione di alcune sorsate di caffelatte228.

A differenza di Wilde, Proust confessa la propria fascinazione verso l’esercizio mattutino della lettura del giornale, quella sorta di cerimoniale, “la preghiera del mattino dell’uomo moderno” che, secondo Hegel, ci consente di “situarci quotidianamente nel nostro mondo storico”229. Il dialogo epistolare è così interrotto dalla rappresentazione che Proust ci fornisce di tale rito. Al materiale autobiografico fornito dalle lettere di Henri segue dunque un altro materiale, proveniente dalla scrittura giornalistica che entra, in modo ovattato, nella scena domestica del risveglio proustiano230 e rappresenterebbe l’occasione di riconnettersi al mondo, alle vicende storico-mondane correnti. Lettura e pratica della corrispondenza e lettura del giornale afferiscono a due modalità divergenti del contatto comunicativo con l’esterno: una dimensione pubblica, sociale, e la corrispondenza di Proust, che egli sbriga verso destinatari più o meno intimi o estranei. Entrambe, tuttavia, si sovrappongono nella rappresentazione di una scena “mattutina”. Il matricidio di Henri van Blarenberghe suscita ampia risonanza sulla stampa dell’epoca e nella comunità aristocratica parigina. Quotidiani come “Le Matin”, “Le Figaro”, “Le Temps”, “Gil Blas”, “L’Éclair”, “Gaulois”, “Journal des Débats”, “Écho de Paris” gli dedicano articoli nei giorni successivi al 24 gennaio 1907, quando il figlio quarantenne dell’ex presidente della compagnia ferroviaria dell’Est si dà la morte 228 Ivi, pp. 173-175 [pp. 153-154]. 229 Georg W. F. Hegel, Aforismi Jenesi. Hegels Wastebook 1803-1806, a cura di Carlo Vittone, Feltrinelli, Milano 1981, p. 63. 230 Conviene ricordare che nel testo ricostruito del Contre Sainte-Beuve e pubblicato postumo, nel 1954 a cura di Bernard de Fallois e nel 1971 a cura di Pierre Clarac in una versione meno narrativa, compare un capitolo “L’article dans ‘Le Figaro’”, in cui il narratore attende trepidante al risveglio il giornale del mattino, per mostrare alla madre un articolo che, invece, non troverà sulle pagine del quotidiano (Marcel Proust, Contre Sainte-Beuve, a cura di Bernard de Fallois, Gallimard, Paris 2008, pp. 84-94). La stesura del Contre Sainte-Beuve risale comunque a un tempo successivo a quello di Sentiments filiaux d’un parricide e occupa Proust dall’autunno del 1908 alla primavera del 1909.

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dopo aver ucciso la propria madre, con cui viveva in un elegante palazzo del Seicento in rue de la Bienfaisance. Ricapitolando le rappresentazioni, anche contraddittorie, che gli articoli di cronaca nera restituiscono del matricida, Mario Lavagetto sottolinea tuttavia un elemento comune: per spiegare quel delitto alla comunità dei lettori bisogna chiamare in causa la follia, per assolverlo e giustificarlo in qualche modo, per garantire un margine di immunità ai lettori231. Henri non costituisce però solo l’oggetto temporaneo e l’occasione attorno cui si consuma il rito sociale e si esorcizza la violenza domestica, ma è anche un corrispondente, pur saltuario, di Proust, che si è premurato di fornircene una descrizione che lo rende un suo referente autobiografico; l’Henri che lui ricorda, nell’immagine risorta dalle due lettere, si scontra con l’immagine pubblica, marchiata sulle pagine di “Le Matin”: Avevo scorso con uno sguardo compiaciuto le eruzioni vulcaniche, le crisi ministeriali e i duelli dei teppisti e cominciavo con calma a leggere una notizia di cronaca […] quando di colpo vidi che la vittima era Mme Van Blarenberghe, che l’assassino, suicidatosi in seguito, era suo figlio, Henri Van Blarenberghe, di cui avevo accanto a me la lettera per rispondergli. «Bisogna sperare sempre… Non so cosa mi riserva il 1907, ma auguriamoci che ci porti un sollievo, ecc.». Bisogna sperare sempre! La vita non aveva impiegato molto tempo a rispondergli. Il 1907 […] gli aveva portato il suo presente: fucile, rivoltella e pugnale, e, sulla sua intelligenza, la benda che Atena aveva steso sull’intelligenza di Aiace perché massacrasse pastori e greggi nei campi greci senza sapere cosa faceva […]. Ma una volta che l’accesso è finito, davanti ad Henri Van Blarenberghe non ci sono greggi e pastori sgozzati. Il dolore non uccide sul colpo dal momento che egli non è morto vedendo davanti a sé la madre assassinata, dal momento che non è morto sentendo sua madre morente dirgli come la principessa Lisa in Tolstoj: «Henri cosa hai fatto di me! Cosa hai fatto di me!» […] dice «Le Ma231 “[L]a diagnosi di ‘follia’ funziona come una valvola di sicurezza: intorno alla norma viene istituita una cintura di difesa, perfettamente immunizzata. Il delitto – un simile delitto – presuppone l’alterità del colpevole. Van Blarenberghe […] ‘non era uno di noi’, non era coperto dall’ombrello rassicurante di un codice non scritto e tuttavia riconoscibile perché, in ogni caso, ‘non siamo tutti degenerati’ e nessuno di noi (noi cronisti e noi lettori) avrebbe mai potuto commettere un simile delitto. A meno che… a meno che la follia non lo avesse travolto e sradicato portandolo oltre i confini della norma, nel regno vasto e indeterminato dell’anormalità” (Mario Lavagetto, Quel Marcel! Frammenti dalla biografia di Proust, cit., p. 158).

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tin» – essi (i domestici[)] videro Mma Van Blarenberghe, col viso stravolto dalla paura, scendere due o tre scalini gridando: “Henri! Henri, che cosa hai fatto!”232.

Proust monta una citazione dai diversi versi dell’Aiace di Sofocle e un episodio da Guerra e pace inserendoli tra il riferimento epistolare – la lettera in attesa di risposta – e la cronaca del quotidiano “Le Matin”. L’immagine intima di Henri nel ricordo e quella criminale codificata secondo i moduli della cronaca nera vengono compresse ed assorbite da una terza immagine. Usando il personaggio della principessa Lisa, moglie del principe Andrej, Proust inserisce un riferimento “emblematico del quotidiano, simbolo, morendo di parto, di tutte le madri, indistintamente uccise – giorno per giorno – dai figli che hanno dato alla luce”233. Ma il riferimento ad Aiace conferisce ad Henri tutto un altro potenziale: una transvalorizzazione234 della sua figura che lo trasforma, da referente autobiografico e caso giornalistico, a eroe tragico. Se lo pseudo-saggio non è una forma sintetica e conciliante, anche Sentiments filiaux d’un parricide lascia che le immagini di Henri creino una tensione discorsiva tra le varie rappresentazioni: la lettura autobiografica di Henri da parte di Proust non sussume quella giornalistica data da “Le Matin”; Henri non è un semplice alter-ego di Aiace o di Lisa, ma è quel criminale di cui il quotidiano riporta le azioni del giorno prima. Le relazioni tra le rappresentazioni si compiono sui piani dei testi citati: le parole riportate di Henri dal cronachista entrano in associazione tanto coi ricordi di Proust, ora riferiti e precisati attraverso le citazioni epistolari, quanto con la memoria letteraria dello stesso Proust, la quale, alquanto selettiva e deformante, ritrova un certo modello di espressione tragico. In sostanza, nello pseudo-saggio dialogico la transvalorizzazione di Henri non avviene tramite un cambiamento di genere o di modo dell’ipotesto (sia esso epistolare o cronachistico), ma dal cambiamento dei referenti della relazione metatestuale con cui Proust intesse il proprio commento, che passa dalle lettere al giornale fino ai personaggi della tragedia greca. In altre parole, Proust non riscrive l’episodio del matricidio, ma conferisce ad Henri una nuova modulazione tragica, una valorizzazio232 Marcel Proust, “Sentimenti filiali di un parricida”, cit., p. 177-181 [pp. 155-156]. 233 Mario Lavagetto, Quel Marcel! Frammenti dalla biografia di Proust, cit., p. 198. 234 Gérard Genette, Palimpsestes, cit., p. 514.

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ne che, proprio grazie al montaggio orizzontale, mira contemporaneamente all’approfondimento del destino individuale di Henri, andando ben oltre le ricostruzioni tipicizzanti del giornale, e alla riattivazione di antiche rappresentazioni tragiche nel quadro di una scena moderna: la società borghese. Per conferire maggiore capacità rappresentativa all’operazione di transvalorizzazione, Proust si concentra su un dettaglio della scena del crimine: l’occhio di Henri, che secondo l’articolo di “Le Matin” “penzolava sul guanciale”235. Proust collega la descrizione giornalistica con un passaggio dell’Edipo re di Sofocle che l’autore monta liberamente con tagli e manipolazioni, in cui Edipo si acceca dopo il suicidio di Giocasta. Ma tale dettaglio appariva anche all’inizio dello pseudo-saggio, quando Proust cercava di ritrovare nella memoria il viso di Henri, dopo la lettura della prima lettera. Proust rievoca Henri “sorridente nello sguardo” e argomenta la capacità di rivelare dagli occhi una “esplorazione attiva del passato che si chiama il ricordo”; essi diventano – aggiunge Proust, alludendo al romanzo di H. G. Wells – “‘macchine per esplorare il Tempo’, telescopi dell’invisibile, la cui portata aumenta man mano che si invecchia”, come gli occhi della principessa Mathilde, che davano a Proust “un’impressione di sovrannaturale [surnaturel]”, “un’attività di risurrezione” che “congiungeva il presente e il passato” 236. Un dettaglio, inserito all’inizio come riferimento autobiografico, diventa in seguito una porta attraverso cui si giunge, dall’occhio del morto, all’essenza tragica dello stesso Henri: una soglia che allora non tiene assieme solo il tempo, come Proust scrive all’inizio dell’articolo, ma anche la percezione sentimentale del ritratto autobiografico, il realismo della rappresentazione giornalistica e il sublime tragico. L’occhio di Henri e quello di Edipo appaiono adesso simili. Lo stesso autore, dopo il montaggio di quelle citazioni, spiega: Se ho ripetuto con insistenza questi grandi nomi tragici, soprattutto quelli di Aiace e di Edipo, il lettore deve capire il perché e anche perché ho pubblicato queste lettere e scritto queste pagine. Ho voluto mostrare in quale pura, in quale religiosa atmosfera di bellezza morale ebbe luogo questa esplosione di follia e di sangue che l’inzacchera, 235 Marcel Proust, “Sentimenti filiali di un parricida”, cit., p. 181 [p. 156]. 236 Ivi, p. 171 [p. 152].

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senza riuscire a insudiciarla. Ho voluto […] mostrare che questo fatto di cronaca era esattamente uno di quei drammi greci la cui rappresentazione era quasi una cerimonia religiosa e che il povero matricida non era un bruto criminale, un essere al di fuori dell’umanità, ma un nobile esemplare di umanità, un uomo di spirito illuminato, un figlio tenero e pio che la più ineluttabile fatalità – patologica, per usare il linguaggio di tutti – ha gettato – lui, il più infelice tra i mortali – in un crimine e in una espiazione degni di restare illustri237.

Di cosa sarebbe esempio la figura di Henri? Figlio pietoso e uomo illuminato, certo, deviato però dal “fato”, che nel “linguaggio di tutti”, cioè dei giornali, è la patologia, diagnosticata secondo un’interpretazione che si fonda su un modello epistemologico corrente. Il destino patologico colpisce solo gli individui “mortali”, gli individui borghesi che leggono i giornali parigini – come sarà capitato allo stesso Henri – e infine i personaggi romanzeschi moderni separati dall’ordine trascendente fornito dal mito tragico. In quei particolari mortali che sono Proust e Henri, l’individualità ha perso il proprio nucleo originario in un momento che Proust ha già precisato nell’incipit. Qualcosa si è spezzato in quel nucleo che sorregge l’individuo borghese: la famiglia. Sul fronte epistolare e privato, anche Proust parla da una famiglia ridotta a brandelli, che impedisce, ora e nella Recherche, la costruzione di un romanzo familiare. Nel corso del Novecento, la figura del figlio unico diventa sempre più protagonista della narrazione. Non esiste più l’affresco familiare dell’Ottocento, quello che dipingeva ancora alla fine del secolo le grandi famiglie dei Malavoglia o, a cavallo del Novecento, dei Buddenbrook238. In Sentiments filiaux d’un parricide, Proust e Henri rappresentano le estremità di un ramo genealogico che si è interrotto con loro. Come figli unici sono gli eredi terminali che non possono più prendere su di sé il destino della cellula borghese. Non stupisce che il finale dell’articolo di Proust sia stato tagliato dalla redazione di “Le Figaro”. Il caporedattore Cardane vi scorgeva 237 Ivi, p. 183 [p. 157]. 238 Sul romanzo familiare nel Novecento, si veda Elisabetta Abignente ed Emanuele Canzaniello (a cura di), Il romanzo di famiglia oggi/Le roman de famille aujourd’hui, «Enthymema», n. 20, 2017, URL: riviste.unimi.it/index.php/enthymema/article/ view/9415.

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un’insufficiente riprovazione per l’atto matricida239, forse vi riconosceva un mancato inquadramento nelle coordinate morali che solitamente il giornale utilizzava nei commenti di questi eventi, mentre, nell’articolo di Proust, tutto è interessato ad approfondire la natura di Henri, a riflettere sull’interruzione di quel destino, per come appariva inizialmente nelle lettere da lui spedite all’autore. Già la scelta del titolo, che recita parricida, mentre Henri è propriamente un matricida, corrisponde, al di là del significato esteso che assume in francese parricide, riferibile a entrambe le tipologie di delitto, alla necessità di ampliare i riferimenti oltre l’evento cronachistico, verso il campo della letteratura. Anche questo cambiamento giustifica la libertà di innesto delle fonti, dall’Aiace di Sofocle a Guerra e pace, da re Lear “un altro infelicissimo folle […] che stringe a sé il cadavere di sua figlia Cordelia”240 all’Edipo re. Se il brano di Proust non fosse stato tagliato, nel finale dell’articolo si sarebbe letto: Ricordiamoci che per gli Antichi non c’era altare più sacro, circondato di una venerazione, di una superstizione più profonde, pegno di maggiore grandezza e di gloria per la terra che le accoglieva e le aveva accanitamente disputate, della tomba di Edipo a Colono e della tomba di Oreste a Sparta, quell’Oreste che le Furie avevano perseguitato fino ai piedi dello stesso Apollo e di Atene dicendo: “Scacciamo dagli altari il figlio parricida”241.

Henri torna a essere uno di noi, ma nel senso di un personaggio attorno cui si regola un rito collettivo diverso da quello della giustificazione tramite la follia. Henri non è figura di un esorcismo; non è più l’individuo particolare su cui la cronaca nera ha sovrapposto l’identità criminale. Bisogna seppellire Henri come un re della tragedia greca, costruirgli un “monumento funebre” attraverso la scrittura, ancorché saggistica, e interpretarne il destino come ultimo erede di quello degli eroi dell’epica e della tragedia. La lettura del suo matricidio è sospinta, mescolandola con i riferimenti letterari, verso una dimensione sublime e trascendente 239 Mario Lavagetto, Quel Marcel! Frammenti dalla biografia di Proust, cit., pp. 188191. 240 Marcel Proust, “Sentimenti filiali di un parricida”, cit., p. 181 [p. 156]. 241 Ivi, p. 197 [p. 786].

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il piano del “cerimoniale” quotidiano offerto dalle pagine di cronaca nera. Sappiamo che Aristotele ha indicato tra le situazioni migliori per la rappresentazione tragica quelle che si svolgono all’interno di una ristretta cerchia di affetti242. Proust coglie l’occasione per rappresentare, tramite una comparazione tra il matricida e gli eroi della tragedia greca, un’alterità che non è più riconducibile alla dimensione sociale della “follia”, né proiettata al riconoscimento personale dei due figli attorno al sentimento del lutto, ma a una forma di rappresentazione tragica la quale “obiettivizza” – il termine è di Lukács – la perdita per noi di un ordine trascendente l’individuo243: il nucleo familiare come garante dell’ordine borghese, la cellula in cui si compie il destino di ogni soggetto borghese appartenente a tale classe. La resurrezione del tragico greco in Henri diventa anche la resurrezione di un non detto, che già anima Proust e che diventerà appunto colonna portante della Recherche. Come nella Recherche244, anche in Sentiments filiaux d’un parricide Proust si dipinge come figlio unico. Il rapporto genitori-figli deve apparire in primo piano, al punto da impedire la citazione 242 “Consideriamo dunque quali fatti risultino terribili e quali pietosi. Azioni simili non possono svolgersi che tra persone care, o nemiche, o tra persone che non sono né care né nemiche. Ma se si svolgono tra nemici, nulla che si compia o che si mediti di compiere verso un nemico suscita pietà […]. Ma quando invece le sciagure si producono all’interno dei rapporti affettivi, come se un fratello uccide o medita di uccidere un fratello, o il figlio il padre, o la madre il figlio, o il figlio la madre, o compie altre azioni dello stesso genere, questo è ciò che bisogna perseguire” (Aristotele, Poetica, Laterza, Bari 1998, pp. 29-30 [1453b]). 243 “[I] confini che separano il crimine dall’asserito eroismo, la follia dalla saggezza maestra di vita, sono confini mobili, puramente psicologici […]. In questo senso, epopea e tragedia non conoscono nessun crimine, nessuna follia. Per esse il crimine, nel senso ordinario del termine, o non esiste affatto o è solo un punto fissato simbolicamente […]: è il punto in cui il rapporto dell’anima al suo destino, cioè all’anelito che la sprona alla sua patria metafisica, diventa visibile. […] Crimine e follia obiettivizzano con ciò la perdita della patria trascendentale; tale perdita investe l’atto e l’anima, ossia, rispettivamente, l’ordine umano dei nessi sociali e l’ordine imperativo di un sistema di valori sovrapersonali” (György Lukács, Teoria del romanzo, SE, Milano 1999, pp. 53-54). 244 Non c’è traccia del fratello Robert nella Recherche di Proust, semmai Robert SaintLoup, sorta di doppio per relazioni e avventure, prende il suo posto, dacché il narratore lo definisce “fratello”: “In uno dei suoi ruoli, egli m’amava profondamente, agiva nei miei confronti come se fosse mio fratello; mio fratello, l’era stato, lo era ridiventato” (Marcel Proust, Le Coté de Guermantes I, in La recherche du temps perdu, a cura di Pierre Clarac e André Ferré, Gallimard, Paris 1954, vol. 2 (La Pléiade), p. 176). “Robert Proust, questo sconosciuto nell’opera del fratello, sebbene questi, nel Santeuil come nella Ricerca, scriva anche un romanzo di famiglia. Cerchino gli innamorati del pettegolezzo psicanalitico che cosa significhi questa omissione del fratello minore” (Giacomo Debenedetti, “Radiorecita su Jean Santeuil”, cit., p. 964).

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degli altri membri della famiglia. La connotazione tragica del figlio “unico” rimasto solo deve costituire un elemento portante di questa auto-rappresentazione. La morte della madre, di ogni madre, appare anch’essa un evento necessario, “una visione dolorosa” che può condurre al “Vero”, ultima parola del finale pubblicato dell’articolo, che anche riprendeva quel grido interrotto apparso per la prima volta su “Le Matin”: “Che cosa hai fatto di me! Che cosa hai fatto di me!” A pensarci bene, non c’è forse madre veramente amorosa che, giunta al suo ultimo giorno, e spesso molto prima, non potrebbe rivolgere un simile rimprovero al proprio figlio. In fondo noi invecchiamo, noi uccidiamo tutti quelli che ci amano con le preoccupazioni che diamo loro, con la stessa inquieta tenerezza che ispiriamo e mettiamo continuamente in allarme. Se sapessimo vedere in un corpo amato il lento lavoro di distruzione […] se potessimo vedere gli occhi abbattuti, i capelli restati per lungo tempo indomitamente neri e poi vinti come tutto il resto e incanutiti, […] forse quel qualcuno, come Henri Van Blarenberghe quando ebbe finito la propria madre a colpi di pugnale, arretrerebbe di fronte all’orrore della propria vita e si getterebbe su un fucile, per morire subito245.

Mario Lavagetto ricorda, a proposito dei capelli “incanutiti” dall’approssimarsi della morte, la scena del bacio notturno all’inizio di Du côté de chez Swann quando un “primo capello bianco” sembra apparire sul volto materno246. C’è un legame tra morte della famiglia e la forma di una (nuova) scrittura, come esiste un legame tra il crimine e la sua tentata rappresentazione tragica. Questo pseudo-saggio dialogico – per come combina frammenti autobiografici e citazioni di provenienza eterogenea – costituisce non solo una sorta di risposta postuma alle missive di Henri, ridefinendo il suo destino e collocandolo entro il dominio del tragico, 245 Marcel Proust, “Sentimenti filiali di un parricida”, cit., p. 185 [pp. 158-159]. 246 “Certo il bel volto di mia madre brillava ancora di giovinezza quella sera in cui mi teneva con tanta dolcezza le mani e cercava di bloccare le mie lacrime; ma era proprio ciò che mi sembrava non avrebbe dovuto accadere, la sua collera sarebbe stata per me meno triste di questa nuova dolcezza che la mia infanzia non aveva conosciuto; mi sembrava che, con mano empia e segreta, io avessi appena tracciato una prima ruga nella sua anima e vi avessi fatto apparire un primo capello bianco” (Lavagetto cita dalla traduzione di Giovanni Raboni, Quel Marcel! Frammenti dalla biografia di Proust, cit., p. 187; originale in Marcel Proust, Du côté de chez Swann, in La recherche du temps perdu, cit., vol. 1, pp. 38-39).

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ma apre anche a una riattivazione degli esempi tragici in una forma che resta, per destinazione e intenzione, quella dell’articolo giornalistico.

2.4. Pseudo-saggio dialogico: critica e rappresentazione I testi affrontati sono considerabili come pseudo-saggi critici perché, innanzitutto, sono sotto forma di dialogo (filosofico, teatrale, radiofonico, epistolare247) e perché tutti commentano altri testi, di natura diversa, al fine di darne un’interpretazione. La forma dialogica permette agli pseudo-saggi non solo di commentare tali testi (Sofocle, Tolstoj, Croce, Proust, e l’articolo del giornale “Le Matin”), ma anche di rappresentare il commento stesso nel suo farsi. La forma dialogica non obbliga all’invenzione di un’identità narrativa e nemmeno di scene descrittive che contengano tali rappresentazioni: essa può essere allusa, nel dialogo di matrice teatrale di Wilde o nella scena autobiografica dove i materiali testuali convergono, sulla scrivania di Proust, o può essere totalmente assente, nelle pure voci radiofoniche di Debenedetti. Ciò non toglie che la rappresentazione della lettura avvenga su un piano altro da quello metatestuale: una trasformazione finzionale della metatestualità nella forma del dialogo, il quale non riporta soltanto voci, punti di vista, commenti e interpretazioni degli ipotesti, ma proprio i soggetti che ne compiono la lettura. L’interpretazione come risultato metatestuale e la lettura come forma rappresentativa e creativa del discorso convivono nello pseudo-saggio come implicate vicendevolmente, ma comunque distinte da due regimi del discorso eterogenei: argomentazione e rappresentazione. Affiancano così il commento testuale dello pseudo-saggio la lettura come modo d’espressione dell’individualismo del lettore esteta (Wilde); del critico professionista in contatto con un consesso accademico particolare e infine con la massa degli ascoltatori (Debenedetti); di un lettore che rilegge lettere e giornali alla luce dei testi letterari (Proust). Allorché si consideri il processo di lettura come atto enunciativo dell’interpretazione e del saggio critico, qualsiasi trasferimento 247 Un altro pseudo-saggio, in cui sono incluse lettere indirizzate dallo scrittore al critico e che permettono di costruire un profilo biografico all’insegna dell’“amicizia” e della “famigliarità”, è la prefazione che Cesare Garboli scrisse nel 1981 per i Diari di Antonio Delfini (Cesare Garboli, Storie di seduzione, Einaudi, Torino 2005, pp. 9-49).

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del commento fuori dal dominio del metatesto comporta la nascita di una figura concreta e particolare: un personaggio lettore. Perché tali scrittori sono stati spinti verso forme che sono pseudo-saggi? Per quanto riguarda Wilde e Proust, perché devono compiere un superamento di una forma “critica” di lettura che è socialmente insoddisfacente per l’espressione di un individualismo e di una “solitudine” dell’attività intellettuale: l’episteme dell’epoca moderna forma modelli di lettura dei testi contro cui tanto Wilde quanto Proust si scagliano, da un lato contro la memorialistica, dall’altro contro la critica di Charles Augustin de Sainte-Beuve. Nella società borghese agisce anche una popolarizzazione di quelle forme epistemologiche nella comunicazione giornalistica, che è materiale di commento per entrambi gli autori. Non è un caso che Adorno individui proprio in Sante-Beuve l’origine della critica biografica in quanto forma “degenerata” del saggio moderno: Le biografie romanzate, e quanto a esse si aggancia nella letteratura “introduttiva” che a quelle è affine, non sono una semplice degenerazione, ma la continua tentazione di una forma che ha bensì in sospetto la falsa profondità, ma al tempo stesso non possiede nulla che la immunizzi dal pericolo di ribaltarsi in versatile superficialità. Tale tendenza al ribaltamento si viene precisando già in Sainte-Beuve, da cui indubbiamente discende il genere del saggio moderno248.

Per quanto riguarda Debenedetti, l’“ombra” lunga di teorie egemoni, come Croce, va defraudata dal suo potenziale non solo teorico, ma anche sociale, attraverso una parodia che fa tabula rasa del contesto intellettuale da cui l’interpretazione e la critica dei testi attingevano i loro modelli. Se la situazione storico-culturale è cambiata, lo pseudo-saggio gli consente di fare i conti non solo con l’aggiornamento dei propri metodi, precisati mano a mano nel tempo, ma anche con quel nuovo panorama culturale di cui il critico vuole mostrare il condizionamento storico diverso rispetto a quello subito nel passato. La rappresentazione della lettura è, insomma, anche una memoria delle rappresentazioni mentali, storiche e socio-culturali in cui il criti-

248 Theodor W. Adorno, “Il saggio come forma”, cit., p. 8.

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co ha operato o si trova ora a operare. Così, il critico aggiornato, nel momento in cui il dopoguerra italiano prelude alla nascita, anche nel nostro Paese, della comunicazione di massa249, è conscio di dover fondare il proprio operato entro una nuova cornice sociale della comunicazione, come quella radiofonica, ugualmente rappresentabile se accetta di esibirsi, di non nascondere il potere e la forza ideologica del contesto, se accetta di ricorrere alla forma “imperfetta” e alla “maschera” dello pseudo-saggio.

249 Si può prendere come punto di svolta l’anno 1954, quando debutta il canale televisivo nazionale. Si aprirà un periodo particolarmente fecondo anche per la radio, che continuerà ad avere il primato di medium di massa fino agli anni Novanta, benché il rapporto tra radio e scrittori abbia il suo periodo d’oro dalla metà degli anni Cinquanta fino alla metà dei Settanta. Si vedano i dati riportati in Fausto Colombo, La cultura sottile. Media e industria culturale in Italia dall’Ottocento agli anni Novanta, Bompiani, Milano 1998 (“Lo sviluppo dell’industria culturale nazionale: dati di sintesi”, a cura di Barbara Scifo, pp. 300-320).

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3. Pseudo-saggi, quadri e cornici: l’autoritratto

3.1. Renato Serra: lo specchio lettoriale Renato Serra scrive il Ringraziamento a una ballata di Paul Fort250 nell’aprile del 1914 rientrando da un viaggio a Firenze. Il testo, che sarà pubblicato nel numero di giugno della «Voce», è ritenuto esemplare della scrittura critica di Serra251. Si è evidenziata una divisione, tra il racconto di apertura e la parte critica vera e propria252, che ha per oggetto la ballata Connaissance matinale de la ville (1912), contenuta nel volume Vivre en Dieu della raccolta completa Ballades Françaises del poeta francese Paul Fort (1872-1960), benché spostata in altri tomi nelle edizioni successive253. Il tema centrale del componimento è lo stesso dell’intera sezione Naissance du printemps à La Ferté-Milon (1912): la cittadina di La Ferté-Milon, patria di Racine, situata tra Parigi e la città natale dello stesso Fort, Reims. L’io lirico vi racconta la sua passeggiata alle prime luci dell’alba: partendo dalla fontana con la statua di Racine segue la riva dell’Ourcq, passando accanto al mulino (i cui resti sono ancor oggi visibili), per raggiungere il punto più alto della città, da dove ode le prime 250 Renato Serra, “Ringraziamento a una ballata di Paul Fort”, in Id., Scritti letterari, morali e politici. Saggi e articoli dal 1900 al 1915, a cura di Mario Isnenghi, Einaudi, Torino 1974, pp. 483-510. 251 Vittorio Lugli, “Paul Fort e Renato Serra”, in Id., Bovary italiane e altri saggi, Sciascia, Caltanissetta-Roma 1959, pp. 87-91. 252 Sandro Briosi ha optato per una divisione del testo in due parti: “una novella autobiografica, all’inizio, seguita poi da un saggio di lettura poetica, avente ad argomento la ballata di Paul Fort” (Sandro Briosi, Renato Serra, Mursia, Milano 1968, p. 149). 253 Renato Turci sostiene che Serra non avrebbe potuto leggere questa ballata nell’edizione disponibile a suo tempo alla Biblioteca Malatestiana di Cesena, poiché in deposito Serra avrebbe potuto reperire soltanto i primi otto volumi delle Ballades françaises, mentre la Connaissance matinale de la ville si troverebbe nel quindicesimo (Renato Turci, Più approfondite considerazioni legate al saggio serriano Ringraziamento a una ballata di Paul Fort, in «Il Lettore di provincia», vol. 32, n. 112, 2001, p. 102).

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campane della chiesa di Notre-Dame e contempla il panorama urbano, coi suoi camini, i tetti d’ardesia, i fiori alle finestre, e quello della zona rurale, rivedendo la strada appena percorsa, il mulino e la statua di Racine. La frase d’inizio è un’interrogativa rivolta a se stesso: “Che cosa cercavo nel volume nuovo arrivato, Choix de ballades françaises? Penso a quello che ci trovai; e non lo so distaccare da ciò che recavo prima con me e che deposi sfogliando le pagine”254. L’autore appare come un lettore particolarmente affaticato e appesantito da un prima che precede l’incontro con l’ipotesto; il suo vissuto è subito trascinato nel saggio stesso255 ed esercita un’uguale pressione sulla lettura, prendendo una forma nel discorso, un’auto-rappresentazione che ci consegna un individuo sovraccarico di pensieri e di sentimenti difficili da esprimere e che egli porterà dentro la lettura, non riuscendo più a staccare il testo dal suo umore pregresso e a leggerlo con mente sgombra e spirito leggero: Noia della domenica mattina, aprile scialbo e freddoloso sotto la pioggia. La ghiaia del giardinetto scolastico, che bisogna attraversare per giungere alla casa dei libri, sgrigliola e geme tenace sotto i passi […]. Mi fermo per abitudine, quasi a cercare qualche cosa, prima d’entrare; qualche cosa ch’io possa portarmi dentro, fra le mura chiuse256.

Un’atmosfera malinconica caratterizza il contesto con cui Serra descrive questa situazione che prelude alla lettura. È una soglia, in cui la sua interiorità e la sua anteriorità (prima) si descrivono in riflessi dell’esteriorità257, plagiata dalle proprie percezioni: il cortile di quella che sarà la destinazione di Serra, la Biblioteca Malatestiana, “casa dei libri” di cui egli era al tempo direttore e che promette di custodire la ballata stessa, per diventare infine, tra le chiuse mura di una finzione, il luogo in cui scrivere il suo saggio. Dal dentro al fuori, dall’ammasso affettivo che questo lettore contiene in sé alla sua rappresentazione ombrosa, e di nuovo dal fuori di questo cortile al dentro della biblioteca, calpestata 254 Renato Serra, “Ringraziamento a una ballata di Paul Fort”, cit., p. 485. 255 D’altronde, Baldacci parla del Riconoscimento come del “massimo sforzo per far nascere la critica dalla confessione autobiografica” (Luigi Baldacci, I critici italiani del Novecento, Garzanti, Milano 1969, p. 33). 256 Renato Serra, “Ringraziamento a una ballata di Paul Fort”, cit., p. 485. 257 Secondo Michel Beaujour, l’autoritratto è una “spazializzazione che dispiega tanto l’interiore che l’anteriore in un’esteriorità topica” (Miroirs d’encre, cit., p. 349).

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la ghiaia e varcato il portone d’accesso: una breve promenade258, di cui i rumori dei passi segnano il breve cammino e la quale, una volta scoperta la ballata della Connaissance, preciserà il valore di mise en abyme di tutta questa scena iniziale, dotando di un senso interpretativo, per il commento e per la lettura, la noia che Serra si trascina dalla mattina. Già da queste prime righe, il Ringraziamento potrebbe certo essere incluso nel genere dell’autoritratto, quella forma di auto-rappresentazione dell’autore di cui ha scritto Michel Beaujour. Se la titolazione della prima edizione del 1597 dei saggi di Bacon è Essayes: Religious Meditations, è evidente che la pratica della meditazione è indissolubilmente legata al genere del saggio. Sul finire del Settecento, la meditazione assume una conformazione anche di raffigurazione spaziale: il modello di meditazione offerto dalle Rêveries du promeneur solitaire di Jean-Jacques Rousseau porta la riflessione a intraprendere un cammino lungo le “stazioni” del passato individuale. Benché la meditazione metafisica e religiosa, che si sviluppa dal Seicento, mantenga come scopo la ricerca di un accesso a verità universali e permanenti, Rousseau trova nella promenade un movimento di spazializzazione dentro la scrittura259, che non si oppone alla rêverie o alla meditazione, ma può integrarne l’esplorazione interiore, dei “luoghi” della memoria. Anche il Ringraziamento formalizza il rapporto tra meditazione e promenade, ma l’io che cammina verso la porta della biblioteca non è figlio di Rousseau, ma di Montaigne, e procede, forse con maggior timore e incertezza, assumendo come punto di partenza non i dati definiti della propria memoria ed esperienza, ma un qualche cosa d’inarticolabile e per ora inesprimibile dal linguaggio. Serviranno per questo, per estrarre dei segni particolari da se stesso e comunicarli in una scrittura – come forse per chiunque che è solo critico, e non poeta o romanziere – il libro e il testo della Connaissance. A differenza di quanto avviene per le dimore scenografiche in Wilde e Proust, la Biblioteca Malatestiana è allora un luogo strategico per il testo, e non solo per la vaga apparizione nell’incipit. Poco dopo la scena mattutina, compare nel Ringraziamento un oscuro riferimento a “tre donne”: 258 Le due passeggiate risponderebbero al topos del flâneur ottocentesco secondo Alba Pellegrino Ceccarelli, Il Paul Fort di Renato Serra: una filiazione misconosciuta, in «Il Lettore di provincia», vol. 10, n. 38, 1979, p. 62. 259 Michel Beaujour, Miroirs d’encre, cit., pp. 66-67.

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Scorreva il mondo sulle pupille intente quasi per obbligo, e il pensiero si profondava nella sua finzione. Una e un’altra, e un’altra, e le tre sono solo una […] e a ogni tremar delle palpebre si disperdono in tremole lame dentro la trasparenza […]. Quella che aspetto o quella che ho scordato, quella che è ritornata improvvisa attraverso il buio del sonno? Passano a una a una, e ognuna è la prima e la sola […]. Il pensiero si attacca a quel punto unico, come la bocca alla bocca; guarda la faccia e ode le parole, ripete l’incontro e ricomincia il dialogo, lo ripete e lo ricomincia, lo tenta e lo moltiplica, lo abbandona e lo sopprime e poi lo ritrova e lo rinnova tante volte, fin che l’incanto è esaurito260.

Quelle donne identificano altrettante sequenze di un possibile racconto: forme fantasmatiche di certe “finzioni” che potrebbero, ognuna autonomamente oppure tutte assieme, apparire in un testo narrativo, se solo queste immagini prendessero la forma di ritratti e non si ritirassero subito – pronte a ripiombare nel buio appena sorte dal sogno – dal pensiero del saggista. La possibilità dell’immaginario di trovare in sé, nel suo deposito psichico e memoriale, quel qualche cosa da portare “dentro” a una scena ancora da descriversi (in una vera finzione) si scontra con un’impotenza del pensiero stesso: perché è un pensiero che Serra non rinuncia a dotare della funzione critica, della facoltà di risolvere quella confusione tra i diversi piani della realtà, quella interiore e quella esteriore, e così discernere intellettualmente le parti di un problema dell’io per infine astrarre, scrutando nel concreto in cui la vaghezza sceglie i suoi dettagli, una soluzione al suo problema. D’altronde, Serra giustifica questa impossibilità in una lettera a Giuseppe De Robertis, datata 7 aprile 1914, in cui si commenta proprio questo passo del Ringraziamento: la fantasticheria che precede la lettura, infestando il soggetto con i propri “piccoli drammi” e demoni, incontra nel testo finalmente un’apertura. La lettura “apre” Serra261. Ma verso dove? 260 Renato Serra, “Ringraziamento a una ballata di Paul Fort”, cit., p. 487. 261 “Ecco, io vorrei fare della critica come in un saggio che buttai giù l’altra mattina su una ballata di Paul Fort – era tanto che aspettavo di rileggerla. Andai nel mio studio, domenica mattina, mi aprì; nella mia testa erano ore e ore che si annodavano e scioglievano dei piccoli drammi, tre e una persona; due donne vicine, e un’altra lontana, e io: col mio […] desiderio di sognare prima un sogno, e poi l’altro; e tutti insieme, di sognarli fino alla fine, per aver pace dopo; no, per ricominciare, appena arrivato, alla fine; per fingere un incontro, un altro dialogo, un’altra fine” (Id., Epistolario di

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3. Pseudo-saggi, quadri e cornici: l’autoritratto

Quando si considera Serra come seguace della “religione delle lettere”, dell’esperienza iniziatica262 concessa dalla letteratura e che si somministra come una “medicina” alla propria anima263, si presuppone che scendere in un testo significhi trovare l’io astraendolo dal suo contesto: si semplifica la percezione, si limita lo sguardo al suo contingente, cogliendolo nella sua natura essenzialmente spirituale ed esoterica. Ma nel Ringraziamento il rifugio eretto dalla letteratura non è la meta di una fuga, ma lo sfondo – la cornice della tela – in cui dipingere il proprio autoritratto: “Passano le ore, i giorni, gli anni: non so più da quando. Ci devono essere tante cose dietro di me, che mi aspettano forse; pendono e ondeggiano nella memoria come i brandelli di una tela non compiuta”264. Proclamare l’insufficienza della memoria è una strategia retorica dell’autoritratto, è usare la scrittura per scrivere l’oblio di sé, la propria morte e resurrezione sulla carta: è il miroir d’encre di Michel Beaujour. È anche il saggio, secondo Lukács: un saggista è veramente “moderno” se è in grado di “ritrovare se stesso e costruire qualcosa di suo con materiale proprio”, perché, ormai, il saggio moderno “[s]i trova troppo in alto, abbraccia e si riallaccia a troppe cose, per poter essere la rappresentazione o la spiegazione di un’opera; ogni saggio reca scritto a lettere invisibili accanto al titolo: come pretesto a… È diventato troppo ricco e indipendente insomma per servire umilmente, troppo rarefatto e multiforme per trarre da se stesso una forma”. Il saggio diventa una rappresentazione propria del saggista e non la traduzione dell’opera in un’altra scrittura: si fa realizzazione concreta della propria immagine nella scrittura. È la rappresentazione della Sehnsucht, l’intima vocazione della scrittura saggistica265, che usa i testi, i materiali della cultura soltanto come “pretesti a…” cosa? Se si avvicina Lukács alla concezione del saggismo (di cui abbiamo Renato Serra, a cura di Luigi Ambrosini, Giuseppe De Robertis e Alfredo Grilli, Le Monnier, Firenze 1934, pp. 491-492). 262 Per la figura del critico “appartato” in rapporto con Carducci, vedi Emanuele Zinato, Le idee e le forme, cit., pp. 40-41. 263 “Medicina che è nelle immagini dell’inchiostro, medicina un po’ vile…” (Renato Serra, “Ringraziamento a una ballata di Paul Fort”, cit., p. 497). 264 Ivi, p. 488. 265 György Lukács, “Essenza e forma del saggio”, cit., p. 33. Sehnsucht è difficilmente traducibile, se non parzialmente come nostalgia e aspirazione, struggimento o, sulla scorta della filosofia romantica, “dipendenza dal desiderio”. Sehnsucht è l’elemento fondamentale del saggio per Lukács (vedi Eva L. Corredor, György Luckács and the Literary Pretext, Peter Lang, New York 1987, p. 51).

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parlato nel primo capitolo), si perde di vista che non è la sintesi di narrazione e scrittura saggistica che egli ha in mente, ma l’uso della scrittura (altrui) come materiale di scrittura; raccogliere gli ipotesti sulla carta da scrivere e fare delle loro parole, dei loro contenuti e invenzioni stilistiche, l’inchiostro a cui Beaujour ha associato intelligentemente il termine di “specchio”. Gli ipotesti come la Connaissance sono pretesti all’autoritratto del critico. Lo pseudo-saggio ne è la forma letteraria e pretestuosa. E gli occhi che si son provati per un momento a interrogare l’universo, tornano con meccanica rassegnazione alla strada di tutti […] e ogni cosa riprende il suo posto, un passo dietro l’altro, fin che il giardino è finito di traversare, e tutte le incertezze si quetano davanti alla porta. Alta, pesante, scura; con l’aria deserta che hanno le vecchie porte nelle mattine di domenica […]. L’imposta cede lenta alla mano e si apre sul silenzio vuoto, nel buio. Si apre con un lungo e consolato sospiro, finalmente, sulla mattina della mia volontà […]. È il mio luogo, il mio carcere, il mio destino. […] Non penso a niente di preciso: ci sono dei libri che mi aspettano […] basterà ch’io mi sieda per ritrovare nell’impressione del punto in cui mi son fermato il motivo di riprendere, come una macchina che si rimette in moto quando si tocca la leva […]. Posso concedermi anche un po’ di pigrizia, con tanto tempo davanti, tutto per me e per un lavoro che importa così poco, alla fine. Ed eccomi col libro in mano, col libro nuovo arrivato, Choix de ballades françaises266.

Durante la lettura della raccolta, Serra attende speranzoso che un’epifania sorga dalle ballate di Fort. Solo quando incontra Connaissance matinale de la ville, “Paul Fort è reale e vicino”267. All’incontro, l’attenzione analitica del critico si concentra più sugli effetti che la poesia produce sul lettore che sulla ballata stessa. La lettura è descritta come un’esperienza sensoriale del corpo di Serra268. L’ipotesto non risalta come un oggetto testuale, ma come un corpo sensibile in cui risuonano le “impressioni” della lettura: “[n]ulla si è staccato per forza propria e definitiva dalle strofe che mi son passate sotto gli occhi; fuor che delle 266 Id., “Ringraziamento a una ballata di Paul Fort”, cit., pp. 488-489. 267 Ivi, p. 490. 268 La ballata “non bisogna analizzarla; ma ricantarsela, col suo sospiro che sale e che scende” (ivi, p. 505).

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impressioni un po’ generiche, per quanto non banali, di malinconia, di musica, di leggerezza […]. Due versi mi si sono stampati nella memoria”. Sono i versi iniziali del componimento Le Bonheur che precede la Connaissance e incorniciano la lettura stessa: segnano il punto del libro in cui Serra viene attratto da quella singola ballata e verranno citati anche nel congedo del Ringraziamento269. La Connaissance risalta dalle altre ballate nella sua “qualità vaga, rimasta dalle altre letture nel mio animo, come un vuoto che può essere riempito”270. Essa si precisa come la meta descrittiva dell’autoritratto, la materia con cui redimere la meditazione insufficiente di Serra. Se la promenade mattutina era l’esemplificazione spaziale di un’inquietudine imprecisabile in un ambiente esterno, dentro la lettura il “moto” abbandona l’incertezza e prende avvio, sprofondando nel proprio lavoro di interpretazione della coscienza secondo un cammino verticale, che lo spinge dalla “sedia” verso il “fondo” del testo, trascinando con sé tutto, anche le prime e private “ombre” malinconiche271: Leggo: un pezzo qui, un pezzo là; avanti, indietro, senza regola. Il corpo è immobile sulla sedia e gli occhi scorrono sulla pagina; ma la mente è ancora lontana, attratta dalle cose che le hanno fatto compagnia tutta mattina, e se ne sono andate e non sono perdute ancora, come resta un’ombra di noia dopo che il male è scordato […]. E poi quella stampa è così minuta, nericcia; le righe ballano davanti agli occhi e si disfanno. Poche parole semplici sui “nomi belli” intorno a Mortcerf, mi pare, son le prime che si facciano leggere distintamente […]. Dopo, c’è la foresta di Crécy. Ecco qualche cosa che comincio a sentire, a travedere; tunnel di verzura, odor di mente calpestate, la coda dello scoiattolo che frulla, il martellino dei picchi nel bosco, dei conigli in un lago di margherite, e Mortcerf a mezzacosta, brillante nei vapori del mezzogiorno…272 269 Ivi, p. 495. I versi sono: “Tout mon corps est poreux au vent frais du printemps./ Partout je m’infinise et partout suis content”. 270 Id., Epistolario di Renato Serra, cit., p. 492. 271 “Malgrado tutte le riserve e lo scetticismo, sento bene che c’è qualche cosa in questo poeta, anzi in ognuna delle strofe chiuse nel volume, il cui valore non è affatto esaurito dalla mia impressione generica. Mi figuro che cosa possa essere, ma solo fino a un certo punto. Ciò mi stimola a entrare più avanti, fino a trovare, almeno quanto è il mio potere, il fondo” (Id., “Ringraziamento a una ballata di Paul Fort”, cit., p. 496). 272 Ivi, pp. 497-498.

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Il carattere situato della lettura si vede anche da questo: non solo i contenuti della poesia, le parole “belle”, le immagini paesaggistiche, le sinestesie evocate dai versi di Fort; ma anche la forma materiale della “stampa” e delle “righe” localizzano la lettura in un punto della materia testuale. La ballata è al contempo contenitore e contenuto dell’autoritratto di Serra. Non si può, cioè, parlare di vera e propria riscrittura per il Ringraziamento. Sono presenti brani, isolati tipograficamente dalle parentesi tonde, in cui Serra tenta una prosificazione della Connaissance, in cui il “leggere” si fa compiutamente un “vedere” descrittivo273. Ma i confini materiali del testo circoscrivono l’esperienza rappresentativa della lettura: non è pratica di scrittura autonoma, ma rappresentazione dell’esperienza della lettura come se fosse un commento metatestuale. Non è dunque una rappresentazione della lettura nei termini di un processo sociale, come quella con cui lo pseudo-saggio dialogico tenta di rinegoziare il posizionamento del critico in un determinato quadro di riferimenti culturali storicizzabili, nei testi di Wilde, Proust o Debenedetti. In Serra, la lettura è la via e la forma con cui consegnare l’autoritratto di un soggetto nuovamente persuaso alla vita, che dalla noia giunge alla “gioia”, e approda finalmente alla “verità”, come scrive nel finale: La passeggiata è finita, anche per me. Sento che dovrò tornarla a fare un’altra volta, passo passo, con più curiosità, con più minuzia. Ma per adesso son contento […]. Io mi contento oggi della mia ballata. Questa è stata il principio e a questa dovevo tornare. Questa mi ha lavato, mi ha liberato gli occhi e l’anima della stanchezza, mi ha lasciato quasi nella gioia. La quale sospirava dentro, mentre già attendevo ad altro, e cresceva e fluiva da me come un bisogno di ringraziare. Così ho fatto, dunque. 273 “(Sapete bene di che sia composta: esce, soffiandosi sulle dita per il freddo dell’aria: s’avvia, in mezzo alla calma dell’aurora. La città pare che debba essere offerta agli angeli… Rumor di fontana, e l’ombra di Racine che vi si specchia. Si vede il canale, il ponte; un falcetto di luna ancor sospeso nel cielo. Le strade vuote, senza ombre; anche l’ombra del poeta è così tenue! Che sia un’anima solo? no, perché ecco, sternuta […]. Cammina sui ciottoli ben lavati, della strada che sale a dominar la città: una campanella; la chiesa, il campanile che sale verso il cielo; i tetti che sfilano in fondo alla strada in discesa; i camini, le banderuole; gli alberghi colle loro insegne […]. Ecco improvvisa addosso l’ombra del castello che intercetta la luce e sveglia di soprassalto le case: sotto, tutte le imposte si aprono, sbattono contro il muro, e il poeta anche lui batte le mani)” (ivi, pp. 501-502).

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Tanto umilmente da conservare alle mie parole la loro ingenuità superficiale e sentimentale. Non come un ornamento: come una verità, come una mortificazione274.

Il risveglio rappresentato nella scena descrittiva iniziale è stato finalmente trasportato al vero risveglio interiore: “il risveglio è compiuto”275. In Un europeo di provincia, Ezio Raimondi instaura un parallelismo tra Serra e Montaigne ritrovandone l’origine nella tendenza del primo a cercare “nel commercio con i suoi autori un ‘plaisir’, un ‘secours’ per il suo viaggio umano, come un esercizio dello spirito senz’altro frutto che quello di imparare a conoscersi, di coltivare, di conversazione in conversazione, d’incontro in incontro, la gentilezza di un’anima ‘ben nata’”276. Si manifesterebbe così una comune visione dell’uomo: Montaigne trasmette al falso umanista di Cesena la certezza irriducibile del molteplice, la diffidenza verso ogni sintesi finale della totalità che falsifichi e violenti la finitudine unica dell’individuo […]. Lo stile, allora, non è altro che una scelta morale, un costume, un modo di esprimere e vivere la propria verità imperfetta277.

Si ritorna, insomma, a quella critica del gusto, osteggiata da Gianfranco Contini e guardata con benevolenza da Giacomo Debenedetti, e che attraversa tutto il Novecento italiano278: quel valore dello stile che riporterebbe i testi a relazionarsi con un individuo “unico” e con le sue idiosincrasie di lettura, con i suoi umori e i suoi pregiudizi interiori. Si potrebbero applicare a Serra le conclusioni di Mimmo Cangiano riguardo il modernismo italiano come tentativo di autorigenerazione dell’intellettuale (particolarmente visibile nell’ambiente della «Voce») a fronte 274 Ivi, pp. 509-510. 275 Dopo l’ultimo verso della ballata (ce bruit sur des murs blancs de tant de volets bleus!), Serra commenta: “il risveglio è compiuto […] con questo fracasso di persiane che sbattono giù giù lungo i muri, con questo riflesso di verde e di turchino sulla calce che dà così bene la luce fra le sei e le sette!” (Ivi, p. 509). 276 Ezio Raimondi, Un europeo di provincia: Renato Serra, il Mulino, Bologna 1993, p. 65. 277 Ivi, p. 229. 278 Marino Biondi, Critica e biografia. Tre studi, Fara Editore, Santarcangelo di Romagna 1997, pp. 10-11. Si veda anche, dello stesso autore, Renato Serra. La critica, la vita, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2012.

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dell’avvento delle “filosofie della crisi”, quelle che Cangiano racchiude sotto l’etichetta di “Morte di Dio”: la fine del primato dell’oggettività, l’avvento di un soggetto non più unitario e la crisi linguistica del nesso tra referente e significato279. Lo pseudo-saggio, che usa gli ipotesti come cornice per scrivere l’autoritratto del lettore, vuole ancora restituire il mito della letteratura come salvezza contro la disgregazione dell’io e del suo rapporto col mondo. Ma è una soluzione di compromesso che lo pseudo-saggio e la cornice dell’autoritratto consentono, allargando le maglie dello stile saggistico (come scrive Raimondi) a detrimento dell’analisi formale e tematica. Il saggio critico come rapporto interpretativo e commento ai testi si nasconde dietro una scrittura che si esibisce come coincidenza, contro ogni materiale separazione, tra un esterno lacerato – un cortile che “geme” e che comprime l’io dai quattro lati e la lettura dell’ipotesto che, come Serra scrive a metà del Ringraziamento, è anch’essa il suo “carcere” e “destino”. Raimondi ha ragione nell’indicare la critica di Serra come una mancata “sintesi finale della totalità”; questa può funzionare anche come definizione per questo tipo di pseudo-saggio, in cui lo sforzo della coscienza è proiettato non più oggettivamente all’incontro interpretativo con l’ipotesto, ma soggettivamente a darci una rappresentazione di un lettore che cerca un rifugio nella memoria letteraria e un riparo dal tempo presente, dalla struttura storica e dalla durata dell’ordine microcosmico e quotidiano. La spazializzazione dell’autoritratto è la risorsa intellettuale con cui il lettore borghese riesce a mostrare se stesso accorciando le interrelazioni e le connessioni tra materia oggettiva e materia psicologica fino a un punto di contatto, in cui l’io e il suo testo si proiettano e danzano (“ballano”) assieme sulla pagina stampata in una raffigurazione che è contesa, in realtà, dalla materia inchiostrata, “minuta, nericcia”, in un’esibizione di segni sulla carta.

3.2. Danubio, Mississippi: cornici d’acqua Come può succedere al poeta secondo Vittorio Sereni, anche il critico letterario può sentire l’esigenza di una narrazione, può avvertire la tentazione della prosa: “[s]ignifica qualcosa nello sviluppo d’un lavoro, avvertire un 279 Mimmo Cangiano, La nascita del modernismo italiano. Filosofie della crisi, storia e letteratura. 1903-1922, Quodlibet, Macerata 2018, pp. 11-29.

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3. Pseudo-saggi, quadri e cornici: l’autoritratto

bisogno di figure, di elementi narrativi, di strutture: ritagliarsi un milieu socialmente e storicamente, oltre che geograficamente e persino topograficamente, identificabile, in cui trasporre brani e stimoli di vita emotiva individuale”280. Claudio Magris ed Édouard Glissant hanno avvertito questa necessità di collocare il loro esercizio critico in un contesto, sia geografico che topografico, con cui integrare un piano di rappresentazione, in cui la lettura di certe opere incontra i luoghi che in esse sono descritti o immaginati. Due opere possono essere agevolmente confrontate proprio perché lo spazio della figurazione prescelto è simile: quello del grande fiume, il Danubio e il Mississippi. Il modello del reportage letterario di viaggio281 è per entrambi il genere letterario che si combina alla scrittura critica. Un “luogo” particolare per la forma continua che assume nello spazio – il grande fiume – funge da cornice rappresentativa per il viaggio dello scrittore. Da un lato, la rappresentazione dello spazio nei termini del percorso fluviale permette al critico di commentare diversi testi che sono in stretto rapporto con i luoghi e i Paesi attraversati dal fiume. Il reportage di viaggio nasconde così al proprio interno il saggio critico, o diversi saggi critici nel caso di Magris. Dall’altro, essendo il percorso dei commenti legato da una rappresentazione continua come quella del fiume, tale cornice offre al critico l’occasione per rappresentarsi in movimento lungo il suo itinerario. Il saggio critico si trasforma così anche in un autoritratto intellettuale, perfezionato lungo un viaggio al contempo testuale e geografico. Abbiamo ora a che fare con testi voluminosi, non più apparentabili all’idea del saggio come “frammento” difesa da Adorno. Danubio 280 Vittorio Sereni, “Il silenzio creativo” (1962), in Id., Poesie e prose, a cura di Giulia Raboni, Mondadori, Milano 2013, p. 627. 281 In area italiana, si può citare Compagni segreti. Storie di viaggi, bombe e scrittori di Eraldo Affinati come esempio del genere del reportage letterario di viaggio: “Se la letteratura è, come è, un’intensificazione della vita” (Fandango, Roma 2006, p. 64), la letteratura diventa per Affinati un’intensificazione dei suoi viaggi, tramite una giustapposizione di reportage di viaggio in zone post-belliche (che fungono da cornice) e singoli ritratti di scrittori, con particolare attenzione all’area russa, slava e balcanica. Si tratta di articoli pubblicati per lo più su quotidiani tra il 1997 e il 2005. Tra i massimi esempi contemporanei della letteratura di viaggio, e in cui i testi letterari e gli autori costituiscono uno dei fulcri principali delle peregrinazioni dell’autore, si veda la raccolta di saggi dell’olandese Cees Nooteboom, Cerchi infiniti. Viaggi in Giappone, trad. it. di Laura Pignatti, Iperborea, Milano 2017 e, dello stesso autore, Tumbas. Tombe di poeti e pensatori (2006), trad. it. di Fulvio Ferrari, Iperborea, Milano 2015. Quest’ultimo meriterebbe la qualifica di pseudo-saggio, per il percorso nella memoria letteraria sotto forma di visite alle tombe degli scrittori: una museificazione particolare della scrittura letteraria.

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(1986) di Claudio Magris conta 474 pagine, “tremila chilometri di pellicola”282 che vorrebbero replicare quella del fiume. Faulkner, Mississippi (1996) di Édouard Glissant ha 358 pagine e una suddivisione in sette capitoli (più i riferimenti bibliografici283). La dimensione stessa di queste opere è il fattore più visibile ed esibito, il quale permette alla cornice geografica di svilupparsi e contenere le parti saggistiche. Tale cornice non va intesa, però, come una struttura narrativa, poiché in entrambe le opere la “spazializzazione” del fiume, in cui il testo saggistico prende la propria forma continua, non contiene tanto un racconto del viaggio dello scrittore, strutturato temporalmente, quanto una nuova interpretazione delle rappresentazioni dei testi letterari, i quali hanno già reso in forma narrativa, poetica, saggistica i luoghi del fiume. Oltretutto, se queste opere contengono elementi autobiografici, relativi all’identità dell’autore, essi appaiono soltanto in forma di aneddoti, che non strutturano una vera e propria identità narrativa, rappresentata nel progressivo precisarsi in un tempo e un destino biografici. Piuttosto, in questi pseudo-saggi l’individuo resta tale in virtù del suo ruolo particolare di interprete dei testi: materiali letterari che partecipano all’immagine del suo autoritratto, in quanto immagine da altre immagini. Il fiume è cioè uno specchio molteplice, che restituisce al critico viaggiatore sia le immagini di sé, dei propri ricordi già codificati in scrittura sotto forma di aneddoti, sia le immagini che i testi letterari forniscono dei luoghi di cui egli fa ora esperienza diretta, irrimediabilmente compromessa dall’esperienza, per lui ben più significante, della lettura. 282 Claudio Magris, Danubio (1986), Garzani, Milano 2006, p. 474. Sulla saggistica di Magris, si veda almeno Ernestina Pellegrini, Epica sull’acqua. L’opera letteraria di Claudio Magris, Moretti & Vitali, Bergamo 1997, da integrare con, della stessa autrice, “La via obliqua di Claudio Magris. Strategie e forme del racconto critico”, in Anna Dolfi (a cura di), La saggistica degli scrittori, Bulzoni, Roma 2012, pp. 279-301. 283 Édouard Glissant, Faulkner, Mississippi, Stock, Paris 1996. Sul rapporto Glissant e Faulkner si veda Michel Wiedorn, “Go Slow Now: Saying the Unsayable in Édouard Glissant’s Reading of Faulkner”, in Martin Munro e Celia Britton (a cura di), American Creoles. The Francophone Caribbean and the American South, Liverpool University Press, Liverpool 2012, pp. 183-196, e, nello stesso volume, Hugues Azérad, “Édouard Glissant and the Test of Faulkner’s Modernism” (pp. 197-215). Rimando anche al mio “Cattivo sangue non mente: Faulkner, Édouard Glissant e la negritudine del métissage”, in Donatella Pini e Maria Grazia Profeti (a cura di), Leyendas Negras e leggende auree, Alinea, Firenze 2011, pp. 447-458.

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3. Pseudo-saggi, quadri e cornici: l’autoritratto

In particolare, Claudio Magris è ritenuto uno specialista nell’uso dell’aneddoto autobiografico all’interno del saggio critico284. In senso storico-letterario, possiamo intendere l’aneddoto come un’evoluzione dell’exemplum, a sua volta derivato dal paradeigma della retorica antica, il quale indicava l’incastro di una narrazione in un’argomentazione. L’exemplum possedeva già nell’oratoria basso-medioevale una forte componente narrativa, improntata a rafforzare il discorso persuasivo del sermone con un “esempio” di vita storicamente situato285. A differenza dell’exemplum, nel contesto moderno l’aneddoto diventerà un “avvenimento sprovvisto ormai di valore esemplare”286, subendo nel Novecento una nuova valorizzazione “generica” in quanto forma di eventi particolari, che si prestano a essere inseriti dentro altri discorsi, non necessariamente narrativi, ma anche puramente argomentativi e dimostrativi. Nel genere del saggio – sostiene infatti Jean Marcel – la vita ritorna tramite aneddoti, analoghi alle citazioni con cui vi entrano l’arte e la letteratura287. Nel caso di Danubio, gli aneddoti conservano il ruolo discreto di incontri che l’autore fa durante il viaggio o di ricordi sorti dalla memoria personale di Magris288. In quanto tali, gli aneddoti non articolano tra loro nessuna sequenza temporale e narrativa, né altra di tipo tematico, ma acquisiscono valore singolarmente, come autoritratti parziali, che partecipano alla più generale autorappresentazione del lettore. Gli aneddoti non negano, ma confermano la dislocazione dell’autoritratto lettoriale lungo tutto lo spazio geografico occupato dal fiume e descritto nelle tappe del 284 “[R]icordi di lettura e di scuola, situazioni di lavoro (viaggi, convegni, conferenze) e, soprattutto, frammenti memoriali riguardanti scrittori italiani ed europei” (Emanuele Zinato, Le idee e le forme, cit., p. 174). 285 In uno studio collettivo sull’exemplum, se ne dà questa definizione: “un breve racconto dato come veritiero e destinato ad essere inserito in un discorso (generalmente un sermone) per convincere l’uditorio attraverso un insegnamento salutare” (Claude Bremond, Jacques Le Goff, Jean-Claude Schmitt, L’exemplum, Brepols, Turnhout 1982, pp. 37-38). Il paradeigma aristotelico verrà tradotto in latino proprio con exemplum, che inizialmente, al pari di quello antico incentrato sugli eroi, trasferisce il medesimo ruolo ai martiri e santi cristiani agli inizi del Duecento. 286 Marie-Pascal Huglo, Métamorphoses de l’insignifiant: essai sur l’anecdote dans la modernité, Balzac-Le Griot, Montréal 1997, p. 126. 287 Jean-Marcel Paquette (alias Jean Marcel), “Prolégomènes à une théorie de l’essai”, cit., p. 245. 288 I più importanti: Claudio Magris, Danubio, cit., pp. 102, 120, 192, 215, 222, 268271, 290-295, 364-366, 422 e (riguardanti il lavoro da professore, le conferenze) pp. 434-436.

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viaggio: i nove capitoli del libro attraversano sette Paesi seguendo il corso del Danubio, dalle sorgenti fino alla foce. In questa composizione lineare del volume, che rispetta l’ordine della geografia fluviale, l’autore Magris appare dall’inizio. Eppure, non si ritrae come in procinto di intraprendere il viaggio: è un viaggiatore tornato a casa, che si accinge piuttosto a scrivere del viaggio appena concluso, mobilitando il lavoro convergente della propria enciclopedica memoria artistico-letteraria e dei ricordi autobiografici. In altre parole, l’inizio di Danubio non è, come nel reportage, la presa in diretta del momento in cui il viaggio incomincia, ma banalmente l’inizio della sua scrittura, o meglio il momento preliminare in cui l’autore si siede al proprio tavolo di lavoro, per riordinare quel materiale disorganico e occasionale raccolto lungo l’itinerario: Il germanista […] si porta dietro il suo bagaglio di citazioni e di fisime; se il poeta si affida al battello ebbro, il suo supplente cerca […] di raccogliere per strada e annotare immagini, vecchie prefazioni, locandine di teatro, chiacchiere in stazione, poemi e battaglie, scritte funebri, metafisiche, ritagli di giornale, avvisi nelle osterie e nelle parrocchie […]. Fra un viaggio e l’altro, tornati a casa, si cerca di stendere le gonfie cartelle di appunti sulla piana superficie della carta, di trasferire plichi, bloc-notes, dépliants e cataloghi su fogli battuti a macchina. Letteratura come trasloco; qualcosa, come in ogni trasloco, va perso e qualcosa salta fuori da ripostigli dimenticati289.

Il lavoro della memoria, dunque, è ciò che seleziona il materiale per la scrittura e opera al contempo un riordino delle immagini, delle rappresentazioni già trasferite in maniera impressionistica sulle carte del viaggio, e riscoperta di “altro”, da “ripostigli dimenticati”: altre scritture, altre memorie. Danubio – dichiara Magris dalle prime pagine – compilerà un montaggio di discorsi recuperati anche da altri luoghi rispetto al viaggio: un’eterogeneità delle scritture che non può che dare del viaggio trascorso un’immagine ingrandita, popolata da altri incontri e da altre vite passate, dell’autore e non solo, nonché visitata da alcune figure ossessive del suo immaginario. Magris ammette l’esistenza di una “struttura circolare del libro”, quando risponde a Lidia De Federicis in un’intervista di qualche anno 289 Ivi, p. 15.

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3. Pseudo-saggi, quadri e cornici: l’autoritratto

dopo (Danubio è stato ormai tradotto in molte lingue ed è divenuto un bestseller della saggistica in molti Paesi). L’intervistatrice suggerisce l’idea di una “curvatura narrativa” descritta dal libro di Magris che va “[d]al saggio-romanzo al romanzo-saggio”290. Tralasciando un attimo le definizioni di genere, questa “curvatura” non definisce soltanto la circolarità dell’opera: da un lato, l’inizio della scrittura che coincide con il ritorno a casa, dall’altro, la fine del viaggio, nel Delta in Romania, che imprime una nuova “rigenerazione” vegetale e animale291, una nuova “sorgente” di vita. La “curvatura” – risponde Magris – è una rappresentazione che funziona bene anche per descrivere la deformazione che la scrittura imprime al paesaggio topografico: “come quando si stende un pezzo di mappamondo sul tavolo – si alterano proporzioni, cambiano angoli, distanze, rapporti, prospettive, con effetti di raccorciamento, lontananza, caricatura”292. Il fiume è dunque una rappresentazione spaziale alterata rispetto a quella geografica, innanzitutto perché modello di un mondo plurimo e a molte dimensioni, coacervo di civiltà e contraddizioni culturali, complesso di avvenimenti insignificanti e di incontri rivelatori per l’esperienza del viaggiatore: “un coro di molte voci, di molte realtà diverse, proprio perché il Danubio è la quintessenza delle diversità”293. E a maggior ragione, una volta reso scrivibile, il fiume diventa irrimediabilmente altro da sé. In Danubio ciò avviene perché la scrittura imprime un ritmo più veloce a quello con cui scorre il fiume, e che il reportage o il racconto di viaggio scandiscono con più aderenza alla sua linea geografica, rispettando le lunghe pause e le variazioni insite nei suoi passaggi e cambiamenti. Se gli aneddoti rappresentano il depotenziamento del materiale personale, cioè il rimpicciolimento dell’io pachidermico della scrittura autobiografica, il ritmo sviluppato dal moltiplicarsi e dal succedersi delle citazioni comprime la materia del fiume e dell’itinerario del viaggio, sopprime il suo potere di “narrazione” geografico, e lo sottomet290 Claudio Magris e Lidia De Federicis, A proposito di Danubio: “Un’ironica, tenace resistenza”. Claudio Magris risponde a Lidia De Federicis, in «L’Asino d’oro», n. 5, maggio 1994, p. 183. Sull’ibridazione generica di Danubio, si veda soprattutto Natalie Dupré, Per un’epica del quotidiano. La frontiera in Danubio di Claudio Magris, Franco Cesati, Firenze 2009. 291 Claudio Magris, Danubio, cit., p. 461. 292 Claudio Magris e Lidia De Federicis, A proposito di Danubio, cit., p. 15. 293 Ivi, p. 187.

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te all’incontro fatale con il grande bacino della memoria letteraria. In particolare, in Danubio Magris utilizza dentro la sua scrittura un ritmo veloce nel montaggio di tutti gli elementi eterogenei, tra cui i riferimenti letterari e le citazioni, ma anche i ricordi del vissuto: tutti vengono sintetizzati in aneddoti e nelle forme essenziali della scrittura saggistica – la citazione e il suo commento nell’aforisma – attraverso procedimenti di parafrasi e di esemplificazione alla luce dell’interpretazione complessiva; l’effetto non è quello del collasso, ma appunto dell’“incurvatura” di un reale molteplice nel più o meno breve spazio del capitolo e dell’atto della scrittura. Rispondendo alla domanda su come il libro possa tenere assieme una tale quantità di discorsi, reperti, riferimenti diversi, Magris sostiene che essi sono confluiti nella “voce del viaggiatore-narratore, così come i rumori diversi del fiume si fondono nel canto del fiume medesimo”294. Danubio ha abbandonato tanto il “noi” impersonale del saggio critico295 quanto l’io meditativo del saggio personale. Magris aggiunge che “questa voce narrante non è la mia, ma è piuttosto un’altra, nella quale, in sordina, echeggia spesso la mia”296. Eppure, non è una “voce narrante” la propria storia: l’opera non reclama l’identificazione di Magris con un personaggio autobiografico (o autofinzionale)297. Conviene intendere questa voce – entità proiettata, performata dalla scrittura – come l’autoritratto di un lettore “enciclopedico”. Il tono prescelto da questa voce è quello dell’ironia: “il fiume è già un sinuoso maestro d’ironia, di quell’ironia che ha reso grande la civiltà mitteleuropea e che era l’arte di aggirare obliquamente la propria aridità e dar scacco alla propria de294 Ibidem. 295 “Oltre al ‘noi’ detto di ‘modestia’, dovremmo distinguere un ‘noi’ pedagogico, un ‘noi’ della partecipazione, che riduce idealmente qualsiasi distanza tra l’enunciatore e il destinatario, rendendo la lettura un accompagnamento” (Marc Angenot, La parole pamphlétaire, cit., p. 54). 296 Claudio Magris e Lidia De Federicis, A proposito di Danubio, cit., p. 189. Ad esempio, si chiede l’io di Danubio: “Chi sta camminando, in questa sera irripetibile, verso Dillingen, seguendo non il solco del sentiero, ma il percorso che la penna traccia ora sulla carta?” (Claudio Magris, Danubio, cit., p. 101). 297 Nel complesso dibattito sull’autofinzione letteraria, ci preme solo indicare che l’autofinzione – come scrive giustamente Giacomo Tinelli – è la combinazione di una “corrispondenza onomastica tra autore, narratore e personaggio alla base del meccanismo autobiografico, e di un patto romanzesco, che cioè spinge il lettore a considerare il testo frutto di invenzione” (“Il carnaio di ora”: autofiction, desiderio e ideologia nell’opera di Walter Siti, tesi di dottorato, Università di Bologna, 2017, p. 19).

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3. Pseudo-saggi, quadri e cornici: l’autoritratto

bolezza; era il senso della duplicità delle cose e insieme della loro verità, celata ma una”298. Quest’ironia è il modo del saggismo299, che risponde alle possibilità di autenticità dell’essere nel mondo. In Danubio, ci sono aneddoti che introducono situazioni leggere e ironiche, impedendo l’addensarsi di un io sempre tragico o “serio”, che pure appare oscurare la scrittura nell’incontro con le rovine della storia europea; allo stesso modo, l’ironia impedisce ogni possibilità di sintesi teorica, cioè la creazione di un sistema astratto e filosofico. È l’ironia conscia dell’impossibilità della totalità, come scrive l’autore a proposito di Hegel e Heidegger: “ogni pensiero veramente grande deve aspirare alla totalità e questa tensione comporta sempre, nella sua grandezza, anche un elemento caricaturale, una punta di autoparodia”300. Magris scrive che per Danubio “[s]i può parlare di autobiografia in senso oggettivo, nel senso della parabola di Borges, in cui si racconta del pittore che, descrivendo monti, mari e fiumi, ossia il suo modo di sentire il mondo, fa il proprio autoritratto”301. Il fiume è una cornice che dona al ritratto una leggerezza retorica, che tramuta in riso l’apparizione di una maschera filosofica non più credibile sul volto del lettore: “[l]’io che viaggia è un maniaco intellettuale, che ha la testa e le tasche piene di grottesche citazioni con cui cerca di fare ordine nel caos della realtà, di difendersi dai mutamenti della vita e della storia con dei castelli di carta, con delle barricate di erudizione che la vita fa presto a travolgere”302. L’enciclopedia europea è riletta non come origine e destinazione della lettura di Magris, a cui ricondurre le molteplici verità incontrate, ma come rete da gettare sull’anarchia simbolica delle differenze, a cui l’io debole, ma attrezzato con il pensiero saggistico, contrappone non 298 Claudio Magris, Danubio, cit., p. 64. 299 Natalie Dupré individua nell’Uomo senza qualità di Robert Musil l’ipotesto di Danubio e, conseguentemente, della teoria del saggismo (Natalie Dupré, Per un’epica del quotidiano, cit., p. 89). Si veda infatti un passo come questo, nel momento in cui l’autore rievoca l’avanguardia artistica e musicale ungherese, una volta giunto a Budapest. “Il saggismo è la peripezia, struggente e insieme ironica, dell’intelligenza che avverte l’inautenticità dell’immediatezza e il divario fra la vita e il suo significato e tuttavia punta, sia pure obliquamente, a quella trascendenza del significato che resta inattingibile nella realtà, ma che balena nella consapevolezza della sua assenza e nella sua nostalgia” (Claudio Magris, Danubio, cit., p. 308). 300 Claudio Magris, Danubio, cit., p. 68. 301 Claudio Magris e Lidia De Federicis, A proposito di Danubio, cit., p. 191. 302 Ivi, p. 185.

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più la voce di un’unità astratta e superiore, di una totalità universale, ma quella di una scrittura che camuffa la sintesi filosofica in una forma antitetica e critica, come quella ironica e parodica. La tentazione moderna e post-moderna di una forma totalizzante, attiva ancora oggi ad esempio nel romanzo massimalista303, può ormai essere approcciata solo obliquamente in un contesto storico e culturale che preclude alle possibilità di totalizzazione di regole universali e rappresentazioni particolari. Se lo pseudo-saggio come autoritratto non è un “saggio tradizionale”, non è nemmeno qualcosa di più304, cioè una forma di sintesi formale di generi diversi, impressa dalla spinta della totalizzazione. Cerca piuttosto la “persuasione, ossia la vita vera, il presente pieno di senso e vissuto fino in fondo”, nella consapevolezza che la scrittura – e quindi anche l’autoritratto come cornice retorica di questa voce – rappresenta al contempo una soluzione e un limite inaggirabile: “un impedimento, un accanimento ossessivo che finisce per bruciare il presente, sacrificandolo a qualcosa che sempre è da raggiungere”305. In Faulkner, Mississippi abbiamo invece un unico referente letterario letto da Édouard Glissant nel corso del suo viaggio: l’opera di William Faulkner306. Ma anche il riferimento a un unico universo narrativo può essere il luogo di un’ambizione enciclopedica, o meglio della relazione tra letteratura e mondo. Il titolo segnala già tale relazione tra Faulkner e il luogo, Mississippi. Da un lato, Mississippi indicherebbe lo stato in cui visse Faulkner e così, il primo emistichio del titolo – il cognome – acquisirebbe uno statuto somigliante a quello di un toponimo, che negli Stati Uniti si indica solitamente facendogli seguire il nome dello stato amministrativo da cui dipende. Dall’altro, il fiume Mississippi si precisa nell’opera di Glissant anche come una figura della scrittura di Faulkner

303 Vedi Stefano Ercolino, Il romanzo massimalista, Bompiani, Milano 2015. 304 Claudio Magris e Lidia De Federicis, A proposito di Danubio, cit., p. 186. 305 Ivi, p. 189. 306 In dialogo con Glissant, ma nella sua volontà letteraria enciclopedica più simile a Magris, Patrick Chamoiseau compone con Écrire en pays dominé (Gallimard, Paris 1997) uno pseudo-saggio piuttosto autobiografico, in cui una pluralità non gerarchica di vari riferimenti letterari, provenienti dalla letteratura francese e francofona – una Sentimenthèque – attraversa la parabola di vita dello scrittore come “sedimenti della presenza degli scrittori in me” (ivi, p. 314), dando luogo a “[u]na ripercussione lenta, paziente, senza fine, che ogni rilettura attiva (e conferma, e rivela)” (ivi, p. 94).

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e come una metafora che, descrivendo la conformazione della geografia fluviale, finisce per illustrare la stessa interpretazione critica. Il viaggio inizia per Glissant nella casa di Faulkner. La casa dello scrittore è un luogo già codificato da una rappresentazione spaziale istituzionalizzata: anche Magris si sofferma spesso sulle dimore degli scrittori e sui luoghi più importanti che ne recano memoria, come il rifugio di Martin Heidegger nella Foresta Nera, il castello dove riparò Louis-Ferdinand Céline in fuga dietro il governo di Vichy e i luoghi attraversati da György Lukács, del quale si discorre più volte, a Vienna e altrove307 (come d’altronde avviene anche per Elias Canetti). Queste case-museo sono colte in entrambe le opere come operazioni di museificazione del corpo dell’autore e della sua scrittura, secondo una strategia che riprende modelli antichi e collaudati308. Ma se nel libro di Magris la memoria letteraria, quella personale e quelle del viaggio irrompono senza indugi all’interno delle rappresentazioni codificate, Faulkner, Mississippi mostra un comportamento inverso, sia perché Faulkner è il centro dell’attenzione critica di Glissant, sia perché la visita di Glissant alla casa-museo di Faulkner è già viziata da una prospettiva ideologica. Glissant ammette subito che il proprio viaggio nei luoghi dove l’autore ha vissuto comporta un movimento di esitazione: una “esitazione a comprendere” che manda in “deriva” la stessa lettura dell’opera309. Tale esitazione appare ad esempio nell’interrogativo posto subito da Glissant in merito all’opportunità di visitare una dimora, come quella di Faulkner, costruita in evidente stile coloniale: “[c] he pregiudizio, ereditato dalla norma degli oppressori, è quello di fingere che un’opera non possa sorgere dalla casa del padrone come dalla capanna dell’oppresso. […] Domande che mandano alla deriva la vera questione importante della Relazione, il rapporto della letteratura al suo più alto scopo, la totalità-mondo”310. Si tratta di un’esitazione che può essere 307 In particolare, vedi Claudio Magris, Danubio, cit., pp. 220-221, 319-324. 308 Per un autoritratto dello scrittore all’interno della propria casa-museo, si veda quello che possiamo considerare un altro pseudo-saggio: Mario Praz, La casa della vita (1958), Adelphi, Milano 1979, libro costruito sul modello della Maison d’un artiste (1881) di Edmond de Goncourt e del Voyage autour de ma chambre (1794) di Xavier de Maistre. 309 Édouard Glissant, Faulkner, Mississippi, cit., p. 46. 310 “Quel préjugé, hérité de la norme des oppresseurs, que de prétendre qu’une œuvre ne puisse pas surgir de la maison du maitre tout autant que de la case de l’opprimé. […] Questions qui laissent à la dérive le vrai important questionnement de la Relation, du rapport de la littérature à son plus haut objet, la totalité-monde” (ivi, p. 29). Si

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superata soltanto collocando la propria lettura e il proprio commento di Faulkner in una cornice ideologica nuova, quella di una totalità-mondo di cui anche i romanzi dello scrittore americano devono divenire manifestazione. Questa posizione ideologica di Glissant comporterà anche una speciale rappresentazione dei luoghi abitati da Faulkner e da costui trasformati nella contea immaginaria di Yoknapatawpha. Dovrà dare di questa un’interpretazione personale, osservando quei luoghi con i propri occhi e registrare una realtà cambiata, di cui non può non tenere conto. Se vorrà soddisfare le premesse del saggista – leggere Faulkner come uno scrittore che apre all’interpretazione di una totalità-mondo –, questa realtà dovrà essere resa in un’immagine abbastanza elastica per essere significativa non solo del presente, ma anche del passato: un’immagine seconda, capace di mostrare questo presente come già contenuto, celato in quel mondo passato, benché entrambi appaiano, a una prima lettura, tra loro respingenti. Nel quarto capitolo, Glissant torna sull’immagine della casa coloniale. L’autore compara proustianamente l’odore delle magnolie311 all’“odore di vezou che ha bagnato la campagna della mia infanzia e che posso ancora ricreare a volontà, o quasi […]. I due aromi si uniscono fino a sovrapporsi, uno nella memoria (il vezou), l’altro nell’immaginazione, senza tuttavia confondersi”312. Glissant instaura così un movimento sensoriale tra il proprio passato nella ex-colonia francese della Martinica e il paesaggio dei romanzi di Faulkner. Nel finale di Faulkner, Mississippi, Glissant licenzierà la propria opera con

veda, ovviamente, per la nozione di totalité-monde di Glissant, Id. Introduction à une poétique du divers, Gallimard, Paris 1996 (uscita lo stesso anno di Faulkner, Mississippi). 311 “Nei saloni che replicano alla rinfusa le sontuosità europee, o all’ombra torrida delle verande, l’odore della verbena assorbe le maledizioni, prolunga la malinconia. Fuori, ‘nel calore della notte’, le magnolie (o i gelsomini) finiscono di bruciare segretamente” (“Aux salons répliquant en vrac les somptuosités européennes, ou à l’ombre torpide des vérandas, l’odeur de verveine assoupit les malédictions, prolonge la mélancolie. Dehors, ‘dans la chaleur de la nuit’, les magnolias (ou les jasmins) achèvent de brûler secrètement”, Id., Faulkner, Mississippi, cit., p. 204). 312 “[O]deur de vezou qui a baigné la campagne de mon enfance et que je peux encore recréer à volonté ou presque […]. Les deux aromes se rapprochent jusqu’à se superposer, l’un en mémoire (le vezou), l’autre en imagination, sans se confondre pourtant” (ivi, p. 148).

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3. Pseudo-saggi, quadri e cornici: l’autoritratto

l’immagine di un incontro dei “fiori” di tutti i Paesi313. Anche questa strategia retorica è finalizzata al superamento della particolarità della visione dei luoghi lungo il viaggio: pur mantenendo una distanza tra l’interpretazione e il testo, pur preservando nei confronti dello spazio la differenza tra la rappresentazione scaturita dalla propria immaginazione e quella fornita da Faulkner nei suoi romanzi, il movimento della scrittura deve riuscire in una “sovrapposizione” capace di mettere in relazione l’esperienza letteraria, culturale e politica di Glissant con l’immaginario che i luoghi faulkneriani evocano. Sfidare un’opera testuale come quella di Faulkner che resta incardinata, pur rappresentandone tutte le contraddizioni, in un contesto storico-culturale fortemente razziale, si rivela particolarmente stimolante per Glissant: ripercorrerla nella sua interezza, analizzarla nei personaggi, nelle tematiche e nelle soluzioni stilistiche, per poi immetterla come totalità finita in una cornice ideologica nuova, aperta alla pluralità delle identità e alle relazioni tra le differenze culturali. Non sorprende che il viaggio di Glissant non venga ricostruito lungo precise tappe e sequenze narrative, perché si tratta di un’esplorazione critica della letteratura, in cui la geografia funge soltanto da rappresentazione di supporto, metaforica, all’astrazione interpretativa. La divisione del libro lo testimonia. Su sette capitoli di Faulkner, Mississippi, solo un paio contengono scene narrative relative al viaggio compiuto da Glissant: a parte il primo (“Errant vers Rowan Oak”) e il quarto (“La Trace”) da cui abbiamo ricavato i brani precedenti, solo nel terzo (“En noir-et-blanc”) viene citata una conferenza tenuta negli Stati Uniti da Glissant, che viene introdotta all’inizio e ripresa alla fine del capitolo sotto forma di aneddoto. Per il resto, si tratta di pura saggistica letteraria. Il secondo capitolo (“La Notice Faulkner”) è un saggio biografico sull’autore, che presenta una schematizzazione dei romanzi e un riassunto delle trame314. Il quinto, il sesto e il settimo capitolo riprendono e sviluppano le tematiche dei romanzi in dettaglio, analizzando i personaggi (in “Le réel, le différé”), i procedimenti stilistici (divisi per accumulazione, ripetizione e circolarità in “Le différé, la parole”) e la tematizzazione della frontiera nelle tipologie di personaggio, soprattutto i meticci, “che, nel fallimento e tramite il 313 Ivi, pp. 346-347. 314 Ivi, p. 58.

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rifiuto, hanno rotto la diga, forte quanto il Fiume […] e aperto la molteplicità”315 (in “La Frontière, Les Lointains, la Trace encore”). Come si evince dall’ultima citazione, il fiume Mississippi del libro non è tanto un elemento del paesaggio che Glissant osserva, quanto un’immagine mentale, in cui si depositano la cultura locale, la narrativa faulkneriana e l’interpretazione del critico: Un paese che è un fiume, un fiume abitato come un paese. Tanto quanto il Nilo, il Gange, il Congo, il Fiume Azzurro o il Rio delle Amazzoni, il Mississippi mescola il mito alle sue acque. Mito atavico delle civiltà amerindie […]; ma devi solo prendere un modesto traghetto, ad esempio vicino a Saint-Francisville, in Louisiana, passando prosaicamente da una riva all’altra, nel bel mezzo dei 4x4 degli agricoltori o delle auto a noleggio dei turisti, per sentire mescolarsi il vento di un passato di sofferenza, d’odio e d’avventura al tuo viso nel fumo rilasciato dalla macchina […] il fiume ti dice allo stesso tempo che tutto è diverso e nulla è cambiato316.

A una prima rappresentazione mitica, in cui appare il rispecchiamento tra il fiume e il suo territorio, si aggiunge una rappresentazione in cui il moderno fa la propria entrata e lascia emergere un altro passato, più recente e compromesso con la storia, dove le sofferenze (specialmente quelle della schiavitù) impregnano l’atmosfera stessa del Mississippi. In questa duplice prospettiva, il fiume è il luogo in cui possono coesistere la permanenza e la differenza, l’eternità e la storia: Il fiume non procede linearmente […]. Se lo osserviamo quando sorvoliamo in aereo le regioni che attraversa, egli procede non per anelli che si srotolano, ma per una circolarità che si cerca e si riscopre incessantemente. Va e viene nel tempo, sviandolo e riavvolgendolo, in

315 Ivi, p. 326. 316 “Un pays qui est un fleuve, un fleuve habité comme un pays. Autant que le Nil, le Gange, le Congo, le Yang Tsé ou le fleuve Amazone, le Mississippi mêle le mythe à ses eaux. Mythe atavique des civilisations amérindiennes […] ; mais il suffit de prendre un modeste bac, aux alentours de Saint-Francisville par exemple, en Louisiane, passant prosaïquement d’une rive à l’autre, au milieu des 4 x 4 fermiers ou des voitures de location des visiteurs, pour sentir le vent d’on sait quel passé de souffrances, de haines et d’aventures se mêler sur votre visage à la fumée dégagée par la machine […] le fleuve vous dit en même temps que tout est différent et que rien n’a changé” (ivi, p. 209).

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una deriva immobile. Impressione confermata ad esempio dalla figura fantomatica delle fabbriche a gas di Baton Rouge, che non suggeriscono qualcosa di moderno che sia, ma riflettono in uno specchio reliquie decorate a nuovo, apparizioni illuminate nello splendore umido del mezzogiorno della Louisiana317.

Dall’osservazione dall’alto, per Glissant, il fiume appare assumere una strana forma “circolare”, impegnata in una ricerca continua attorno al proprio alveo. Allo stesso modo, il testo non seguirà una spazializzazione “lineare”, dalle sorgenti alla foce, come Magris fa con il Danubio. Piuttosto, userà il fiume come un’altra metafora della “deriva”, quella forma del discorso tra “meandri” e digressioni che anche il saggio fa propria. Nello pseudo-saggio essa diviene una meta-scrittura che incorpora quella di Faulkner e la guida fuori dal suo mondo originario; la manda alla deriva, verso la totalità in divenire della Relazione tra i mondi e le culture, assieme a tutto l’universo faulkneriano. Il fiume non sarà quindi uno spazio da attraversare, da raccontare in un viaggio che segue la linea del Mississippi, ma la figura dell’interpretazione: la metafora del rizoma (“Faulkner scrive in rizoma”318) individuata nella conformazione reticolare del Mississippi; un vortice d’acqua che attira a sé i depositi locali, le diverse linee del tempo, e si fa “risonanza delle culture”319. Faulkner, sostiene Glissant, costruisce “l’intera opera come un architetto che abbia ammassato tutto in un monumento, attorno a un segreto da svelare, ma indicandolo e sottraendolo al contempo”320. Pertanto, l’interpretazione deve imprimere un nuovo vitalismo a questo luogo “mitico”, per costringerlo a uscire da una memoria immobile e riattivare i propri contenuti al contatto con essa: “il Fiume non vi è de317 “Le fleuve ne régit pas de linéarité […]. Tel qu’on l’admire quand on survole en avion les régions qu’il traverse, il procède non par boucles déroulées mais comme par une circularité qui se cherche et se redécouvre sans cesse. Il va et vient dans le temps, détournant et retournant celui-ci, en une dérive immobile. Impression confirmée par le caractère fantomatique des usines à gaz des alentours de Baton Rouge, par exemple, qui ne suggèrent pas quelque modernité que ce soit, mais réfléchissent en miroir des reliques décorées à neuf, apparitions illuminées dans l’éclat humide du midi louisianais” (ibidem). 318 Ivi, p. 244. 319 Id., Introduction à une poétique du divers, cit., p. 83. 320 “[L]’œuvre entière, comme d’un architecte qui eût massé tout un monument autour d’un secret à connaître, mais l’indiquant et le dérobant tout ensemble” (Id., Faulkner, Mississippi, cit., p. 14).

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scritto come oggetto, come un contenitore o un bello spettacolo; è un personaggio, un corpo vivente, è debordante, vorticoso, rompe le dighe, entra nel tormento di altre persone di questa storia, come se facesse parte anche di coloro che si battono contro di lui”321. Come il Mississippi, anche la scrittura di Glissant aspira a trascendere i limiti storici della rappresentazione di quegli stessi luoghi da parte di Faulkner ed evitare, come quest’ultimo, di “dire l’impossibile del Sud senza doverlo veramente dire”322. Il fiume è scelto da Glissant come quell’elemento geografico che, benché discreto e poco appariscente, sarebbe già pronto dentro la narrativa di Faulkner a giustificare e sorreggere il proprio principio interpretativo: diventa così lo specchio comune con cui la lettura restituisce lo sguardo del critico e quello del romanziere in un’immagine concorde del paesaggio del Mississippi.

321 “Le Fleuve n’y est pas décrit en objet, comme un réceptacle ou un beau spectacle, c’est un personnage, un corps vivant, il est là débordant, tourbillonnant, rompant les digues, il entre dans le tourment des autres personnes de cette histoire, comme s’il faisait partie d’eux qui se battent contre lui” (ivi, p. 210). 322 Ivi, p. 207.

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4.1. La spirale di Jean-Paul Sartre: totalizzazione di Flaubert Nel 1971, annunciando il suo prossimo libro L’Idiot de la famille, Jean-Paul Sartre cerca in un’intervista al quotidiano “Le Monde” di preparare i suoi futuri lettori ad accettare una doppia categoria generica per il proprio studio su Gustave Flaubert: Mi piacerebbe che il mio studio si leggesse come un romanzo perché è la storia, in effetti, di un apprendistato che porta al fallimento di una vita. Vorrei allo stesso tempo che venga letto pensando che è la verità, che è un romanzo vero. In tutto questo libro, è Flaubert come lo immagino ma, avendo metodi che mi sembrano rigorosi, penso allo stesso tempo che è il Flaubert così com’è, com’è stato. In questo studio, ho bisogno d’immaginazione in ogni momento323.

Il comme un roman è l’indice della dimensione dello pseudo-saggio: pensare una forma in una soluzione dialettica che non decide e non si risolve nelle convenzioni di un genere, ma mira alla tensione tra le forme, all’eterogeneità dei discorsi. La formula di uno “studio” come un “romanzo” non può, però, esser facilmente ribaltata nell’altra speculare: il “romanzo” come uno “studio”. Hans Vaihinger, nella Filosofia del “come se”, spiega bene il senso di questo operatore logico della frase: “in questa formula è chiaramente espresso che il reale dato, che è un singolo elemento, viene comparato con un altro, di cui è espressa nel contempo l’impossibilità o l’irrealtà”324. Leggere uno studio come se fosse un romanzo non è un’espressione reversibile. Una lettura dell’I323 Jean-Paul Sartre, Sur L’Idiot de la famille, in “Le Monde”, 14 maggio 1971; poi in Id., Situations, X. Politique et autobiographie, Gallimard, Paris 1976, p. 94. 324 Hans Vaihinger, La filosofia del “come se”, cit., p. 99.

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diot come romanzo esprime piuttosto un’illusione, cui Sartre si attacca nel momento di negoziare la ricezione della propria opera, imprimendo al testo una personale intenzione di lettura: una forza illocutoria che è tipica di ogni intervista, qualora essa assuma una vera funzione paratestuale325. Se lo pseudo-saggio è, in generale, il travestimento di un saggio critico sotto un altro genere, in Sartre il secondo termine si confessa come un romanzo impossibile. Lo scopo di tale camuffamento è ancora quello di raggiungere il libro “totale”, l’opera-mondo, ma che in questo caso si fa tentativo di scrittura di un saggio totale. In sostanza, le indicazioni di Sartre portano l’opera al centro della possibile congiunzione tra filosofia e storia, come ricerca del vero, e letteratura come generale discorso dell’immaginazione. Il fatto che L’Idiot de la famille appare nella collana di filosofia di Gallimard, a cui Sartre riconoscerà, qualche anno dopo, la piena appartenenza del suo libro, è indicativo: opera di “filosofia” e non di “critica letteraria”326. Invece, la proposta di un termine di sintesi generica, nell’intervista citata – un romanzo vrai – attraverso cui l’immaginazione del saggista restituirebbe la verità storica dell’uomo Flaubert, non pare convincerlo fino in fondo nella distanza. Quando Sartre ritorna sulle sue prime dichiarazioni, nel novembre del 1976, indietreggia e conferma piuttosto un carattere ambivalente del libro. Al di là della contraddizione, dovuta anche al tempo intercorso tra le sue aspettative verso la ricezione dell’opera e la ricezione effettiva, questo ripensamento è utile per precisare come la categoria della totalità agisca nell’opera: Forse ho esagerato un po’ quando ho detto che era un romanzo. Non l’ho mai considerato come tale quando lo stavo scrivendo e la parte dell’immaginazione [imagination], che è in realtà una parte della messa in libertà dell’immaginario [imaginaire], è tuttavia ripresa da una verità che c’è nell’immaginario […]. Questo romanzo non è in realtà un romanzo: ha cercato per un po’ di lasciar andare l’immaginario, ma questo è ripreso e trasformato in un certo senso della realtà […] questo romanzo era solo un fatto soggettivo, il fatto di

325 Gérard Genette, Seuils, Seuil, Paris 1987, p. 16. 326 Jean-Paul Sartre, Sartre parle de Flaubert, intervista di Michel Sicard (1976), in Michel Sicard, Essais sur Sartre. Entretiens avec Sartre (1975-1979), Galilée, Paris 1989, p. 153.

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lanciarsi nell’immaginazione romanzesca [romanesque] prima di sapere sulla base di quali dati avrei potuto distinguere l’immaginazione romanzesca dall’immaginazione re-trascrittiva [retranscriptive] […]. C’è un’immaginazione interamente fittizia, ma questa stessa immaginazione contiene già notevoli elementi di verità […]. C’è qualcosa, qui dentro, che è una verità, che non è quella dell’immagine in quanto tale, ma che è inserita nell’immagine327.

La preoccupazione di Sartre riguarda innanzitutto l’immaginario. Distingue un doppio senso: l’immaginazione romanzesca e l’immaginazione retranscriptive, che possiamo meglio comprendere riferendola alla de-realizzazione: un atto di produzione simbolica del reale, presentatosi in forma caotica e frammentaria328. In questa seconda immaginazione verrà “inserita” la prima per guadagnare il discorso della “verità”. La costruzione romanzesca dell’Idiot, dunque, è da intendersi come un atto finzionale che va ricompreso in un discorso più ampio che lo ritrascrive alla luce del processo di totalizzazione fornito dalla particolare funzione dell’immaginazione sartriana. Immaginare una persona storica come un personaggio romanzesco, ricostruito immaginativamente nell’astrazione dal proprio reale storico, è strategia comune in altre opere di Sartre. La critica ha definito saggi al contempo finzionali e filosofici anche il Baudelaire (1946) e il Saint-Genet: comédien et martyre (1952) di Sartre, oltre che L’Idiot de la famille: Gustave Flaubert de 1821 à 1857329, i cui due primi volumi escono nel 1971 e il terzo nel 1972, mentre un quarto annunciato, che avrebbe dovuto riguardare interamente Madame Bovary, è rimasto allo stato preparatorio a causa della cecità progressiva dell’autore330. Per tutte e 327 Jean-Paul Sartre, Sartre parle de Flaubert, cit., pp. 148-149. 328 Riguardo alla de-realizzazione in Sartre, Fredric Jameson segnala giustamente la sua funzione anche in un’altra “monografia” di Sartre che andiamo a considerare, il Saint-Genet: comédien et martyre (Fredric Jameson, The Political Unconscious, cit., p. 280, nota 28). 329 Michel Sicard, “L’instance romanesque”, in Pierre Verstraeten (a cura di), Autour de Jean-Paul Sartre. Littérature et philosophie, Gallimard, Paris 1981, p. 163. 330 L’edizione del 1988 (quella postuma e definitiva) dell’Idiot de la famille ha 2810 pagine (escluse quelle dedicate agli schemi per il quarto volume mai scritto). Per una bibliografia critica completa si combinino quelle in calce a due studi sulla filosofia dell’Idiot, vedi Gabriella Farina e Raoul Kirchmayr (a cura di), Il soggetto e l’immaginario. Percorsi nel Flaubert di Sartre, Edizioni Associate & Editrice Internazionale, Roma 2001 e Id. (a cura di), Soggettivazione e destino. Saggi intorno al Flaubert di Sartre, Bruno Mondadori, Milano-Torino 2009.

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tre le opere, Michael Scriven ha proposto la definizione di existential biographies331. Se può essere vero che la biografia si pone come strumento di una comprensione esistenzialista dell’individuo fin dalla Nausée332, queste tre biografie “esistenziali” sarebbero accomunate, però, da una cesura sul piano cronologico che marca l’abbandono da parte di Sartre del genere del romanzo, il quale verrebbe appunto “sostituito” da questo tipo particolare di scrittura critica e biografica. Vero è che, più o meno all’altezza del 1949, lasciando incompiuto La Dernière Chance, Sartre termina la propria carriera di romanziere per concentrarsi su altri generi, tra cui la monografia critica su Genet, con cui debutterebbe nel nuovo genere, mentre il Baudelaire era stato composto tra il 1944 e il 1946, quindi in mezzo ai tre romanzi riuniti sotto il titolo di Les Chemins de la liberté: L’Âge de raison, Le Sursis – pubblicati entrambi nel 1945 – e La Mort dans l’âme, uscito nel 1949. Pur tuttavia, dal punto di vista dei contenuti, le existential biographies di Sartre si eguaglierebbero nella scelta di demistificare l’apparenza “eroica” di una delle figure più rappresentative della cultura borghese: lo scrittore333. Dalla prospettiva della totalità, le differenze tra le tre opere sono quantomeno rilevanti. Il Baudelaire nasce come prefazione agli Écrits intimes dello scrittore, da cui il carattere più breve rispetto ai due la331 “La prospettiva marxista è davvero visibile solo nell’ultima biografia su Flaubert. Allo stesso modo, il termine ‘letterario’ non riesce a comunicare adeguatamente, ritengo, l’elemento potenzialmente sovversivo nel pensiero di Sartre. La biografia critica è un’opzione credibile anche se non riesce a mettere in evidenza la natura ideologica e particolarmente metodologica delle biografie. Nonostante le sue carenze, quindi, e in particolare le connotazioni piuttosto pretenziose con cui il termine è stato associato in alcuni ambienti, ‘esistenziale’ mi sembra la designazione che riflette più accuratamente l’itinerario intellettuale di Sartre nel corso di più di trent’anni, nonché la prospettiva teorica delle biografie stesse” (Michael Scriven, Sartre’s Existential Biographies, Macmillan, London 1984, p. 29). 332 “Più in generale, vediamo come il biografico si collochi al centro del pensiero sartriano già con La Nausea: viene rievocato sia come modello di racconto, sia come modo di conoscenza del sé, sia come strumento per comprendere il mondo – fatto che sottolinea il ruolo centrale che avrà tanto nel suo lavoro filosofico quanto nella sua opera romanzesca, e alla convergenza di questi generi si porrà L’Idiot de la famille” (Julie Anselmini e Julie Aucagne (a cura di), L’idiot de la famille de Jean-Paul Sartre, cit., p. 10). 333 “Sartre ha prodotto una forma ibrida in cui le vite dei grandi eroi della tradizione culturale borghese sono, da un lato, descritte con la verve e il brio di un romanziere di talento e, dall’altro, sono senza pietà sezionate e scrutate con l’incisività di un abile chirurgo metodologico […]. Le biografie esistenziali di Sartre sono, insomma, un caso testuale di rilievo in cui l’alienazione del moderno scrittore francese viene sondata, scrutata e diagnosticata” (Michael Scriven, Sartre’s Existential Biographies, cit., p. 44).

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vori successivi; anche il Saint-Genet sarà la prefazione, ma di ben 573 pagine, al primo volume delle opere complete di Jean Genet. Oltre ai pochi anni che le separano, rispetto alla distanza tra queste e l’Idiot, il legame tra le prime due monografie è rafforzato dalla dedica del Baudelaire proprio a Genet. Nel Baudelaire, Sartre non si allontana da una costruzione biografica che ha attivato, nella critica, il facile paragone con Sainte-Beuve e con le forme biografico-superficiali del saggio moderno contro cui si scagliava già Adorno. Niente di più falso. La saggistica biografica di Sartre è sorretta dalla dialettica materialista334 e resta finalizzata a una critica di tipo sociale, in particolare – come aggiunge Michel Sicard – verso una “famiglia d’ideologia ancora feudale, in un mondo diventato fondamentalmente borghese”335. Il Saint-Genet: comédien et martyr (1952) è una monografia di maggiore spessore rispetto alla precedente e, pertanto, la componente biografica occupa un volume superiore336. Sartre vi sperimenta con più decisione la costruzione di un discorso saggistico moderno337; per di più, l’opera intrattiene già qualche rapporto con la monografia su Flaubert, soprattutto con la sua prima parte338. Ad esempio, l’infanzia di Genet 334 “Mentre il critico ottocentesco concepisce il rapporto dell’uomo al suo prodotto secondo lo schema di un passaggio dalla potenza all’atto, Sartre sostituisce all’aristotelismo inconscio e grezzo del ‘causeur du lundi’ e dei suoi epigoni il nesso dialettico tra uomo e opera” (Claude Ambroise, L’Idiot de la famille: una critica letteraria antistrutturalista, in «Aut Aut», n. 136-137, 1973, p. 88). 335 Michel Sicard, “L’instance romanesque”, cit., p. 170. 336 Glas (1974) di Jacques Derrida può essere interpretato come un contro-saggio in risposta a Sartre, ma anche come uno pseudo-saggio in cui il discorso critico su Genet si mescola alla critica filosofica di Hegel. Vedi il primo paragrafo del prossimo capitolo. Sulle scritture di Sartre e Derrida su Genet vedi Juliette Simont, Bel effet d’où jaillissent les roses… (à propos du Saint Genet de Sartre et du Glas de Derrida), in «Les Temps Modernes», vol. 44, n. 510, gennaio 1989, pp. 113-137. 337 “Saint Genet non è che un libro di critica, eppure la sua lettura è un’avventura: ecco il mistero […] questo ponte tra la ‘prosa’ e la ‘critica’ […] è certo che, per l’influenza, spesso clandestina, che i libri di Sartre hanno esercitato (e non tanto le sue idee), tutta la nostra immagine di critica è stata profondamente modificata” (Tzvetan Todorov, Critique de la critique. Un roman d’apprentissage, Seuil, Paris 1984, p. 66). Vedi anche Susan Sontag, “Sartre’s Saint Genet” (1963), in Ead., Against interpretation, and other essays, Farrar, Straus and Giroux, New York 1966, pp. 93-99. 338 Nell’Idiot de la famille, Sartre parlerà a riguardo di Flaubert di una “illuminazione che lo sconvolge nel dicembre 1838: io sono l’Artista, pensa. Come Jean Genet dirà: io sono il Ladro” (Jean-Paul Sartre, L’Idiot de la famille: Gustave Flaubert de 1821 à 1857, vol. 3, Gallimard, Paris 1972, p. 1606). Per i primi due tomi, si cita dalla traduzione italiana (L’idiota della famiglia. Gustave Flaubert dal 1821 al 1867, Il Saggiatore, Milano 1977), riportando tra parentesi quadre le pagine corrispondenti

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conta per Sartre non tanto come inizio del racconto biografico, quanto come elemento da cogliere in una prospettiva filosofica che si vuole già alternativa al marxismo volgare e si pone in polemica a una visione della persona ridotta al lavoratore, al membro sociale di una classe produttiva determinata dal sistema economico339. Sartre considera la famiglia come nucleo di mediazione tra l’inconscio, oggetto dell’analisi freudiana, e la classe collettiva, oggetto di quella marxista, che verrà portato fino a un vero e proprio tentativo di totalizzazione340 soltanto nell’Idiot de la famille. Rispetto a quest’ultima opera, il Saint-Genet è stato infatti letto da diversi critici come un esempio ancora limitato dell’applicazione della filosofia sartriana all’analisi dell’individuo dello scrittore341. Certamente L’Idiot de la famille può essere ricondotto ai precedenti lavori su Baudelaire e Genet in virtù del generale movimento dialettico dell’analisi degli scrittori come totalità individuali: studio del condizionamento del contesto, verifica della reazione d’introversione, individuazione della successiva sintesi oggettiva nella scrittura. Eppure, lo stesso Sartre spiega nell’intervista rilasciata per il lancio del suo monumentale libro su Flaubert che non avrebbe mai potuto impiegare su Genet lo stesso metodo totalizzante: mentre Genet era ancora in vita e impegnato nel proprio lavoro creativo durante la scrittura del Saint-Genet, la vita di Flaubert si offre a Sartre nella propria finitudine342. dell’edizione francese utilizzata. Le traduzioni dal terzo tomo, non pubblicato in italiano, e che si divide tra il secondo e terzo volume dell’edizione originale, sono di mia mano. Gli originali sono riprodotti in nota. 339 Per Jacques Leenhardt ciò costituisce un primo limite: “Reinstallando, contro i marxisti, l’infanzia al centro del processo di spiegazione, Sartre rischia di non essere più in grado di pensare la storia” (Jacques Leenhardt, L’homme et/ou l’œuvre. La fonction du ‘social’ dans L’Idiot de la famille, in «Cahiers de Sémiotique Textuelle», n. 5-6, 1986, p. 273). 340 “Anche nella pratica di Sartre […] la tipica considerazione dell’istituzione della famiglia come mediazione di base tra l’esperienza del bambino (oggetto della psicoanalisi) e la struttura di classe della società in generale (oggetto di un’analisi marxista) in nessun caso ha per risultato di ridurre queste tre realtà distinte a un denominatore comune o di assimilarle in modo tale da perdere le specificità del tutto diverse del destino del soggetto individuale, della storia della cellula della famiglia borghese e della ‘congiuntura’ delle relazioni di classe, ottenute in quel particolare momento nello sviluppo del capitalismo nazionale” (Fredric Jameson, The Political Unconscious, cit., p. 44). 341 “Sartre non ha fatto alcun serio tentativo per vedere Genet come ‘un singolare universale’ […]. Saint Genet non rappresenta […] una pietra miliare nello sviluppo della teoria filosofica di Sartre” (Hazel E. Barnes, Sartre & Flaubert, The University of Chicago Press, Chicago 1981, p. 414). 342 Jean-Paul Sartre, Sur L’Idiot de la famille, cit., p. 105.

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Soprattutto in Germania, l’Idiot de la famille è stato accolto come un importante contributo filosofico per lo studio dell’individuo, portato a termine anche grazie alla forma biografica utilizzata da Sartre343, mentre, da un altro fronte, il volume si è attirato le critiche degli specialisti di Flaubert344. Anche nell’ambito dell’impegno militante, Sartre venne criticato per aver dedicato un così ampio saggio a uno scrittore dell’Ottocento; chi se l’era immaginato scrittore di volantini maoisti manifestò apertamente il proprio sbigottimento345, cui Sartre non rimase indifferente, se così rispose nell’intervista sull’Idiot del maggio 1971: Poiché il Flaubert è un romanzo, è in accordo con ciò che ho scritto prima, ma nella misura in cui cerco di dare un metodo più o meno rivolu343 Si veda Monika Schulten, Jean-Paul Sartres L’idiot de la famille. Ein methodisches Modell der Dichterbiographie. Ein Vergleich zwischen Wilhelm Diltheys verstehender und Jean-Paul Sartres dialektischer Konzeption der Biographie, Peter Lang, Frankfurt am Main 1991, che studia come l’Idiot de la famille dimostri la reciprocità tra individuo e storia (attraverso un paragone con il pensiero di Dilthey) e Rainer Wannicke, Sartres Flaubert. Zur Misanthropie der Einbildungskraft, Dietrich Reimer, Berlin 1990, che presenta il saggio su Flaubert come uno studio dell’individuo inserito nel dibattito sociologico contemporaneo. Interessante soprattutto il libro anteriore di Adelheid Müller-Lissner, Sartre als Biograph Flauberts. Zu Zielen und Methoden von L’Idiot de la famille, Bouvier, Bonn 1977, il cui contributo tenta una filiazione con il Bildungsroman (ivi, p. 76). 344 Per una panoramica sulla ricezione dell’Idiot vedi Diana Knight, Sartre for Flaubertians: the case for L’Idiot de la famille, in «Neophilologus», vol. 49, n. 1, 1985, pp. 46-58. Bruneau discute le conclusioni di Sartre su Flaubert a partire da premesse documentarie a suo dire incomplete: “Sartre ha colmato le lacune della documentazione sull’infanzia di Flaubert con la propria” (Bernard Bruneau, “Jean-Paul Sartre, biographe de Flaubert”, in Claude Burgelin (a cura di), Lectures de Sartre, Presses Universitaires de Lyon, Lyon 1986, p. 172) e, allo stesso tempo, critica il suo appoggio alla teoria di Daumesnil per la diagnosi di nevrosi in Flaubert, contro una più corretta – a suo dire – diagnosi di epilessia (ivi, pp. 174 ss.). Riguardo la prognosi medica, vale la pena di segnalare che Sartre risponde indirettamente a Bruneau già nell’Idiot: “Malgrado la dimostrazione – assai convincente – di Daumesnil, si discute ancora sulla natura dei disturbi che hanno colpito Flaubert a partire dal 1844: sono isteriformi od epilettici? Ma si ammette oggigiorno che certe epilessie hanno per origine l’isteria” (Jean-Paul Sartre, L’idiot de la famille, cit., vol. 3, p. 1796). Per la ricostruzione arbitraria di Sartre della vita di Flaubert (e altre imprecisioni nelle citazioni) vedi Young-Rae Ji, “La reconstruction sartrienne de la vie de Flaubert”, in Julie Anselmini e Julie Aucagne (a cura di), L’idiot de la famille de Jean-Paul Sartre, Université Stendhal-Grenoble 3, Grenoble 2007, pp. 49-64. 345 In particolare, uno dei dirigenti della “Gauche prolétairenne”, Benny Lévy (alias Pierre Victor), a cui Sartre s’apparentò durante il suo periodo di collaborazione col giornale maoista La Cause du peuple. Lévy, che diviene segretario di Sartre nel 1973 e gli resta vicino fino alla morte (per poi subire una conversione all’ebraismo), aveva manifestato il desiderio che l’intellettuale abbandonasse l’Idiot per scrivere un romanzo “per il popolo” (vedi la biografia di Annie Cohen-Solal, Sartre, Gallimard, Paris 1985, p. 608).

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zionario perché marxista, il libro è connesso con i miei nuovi problemi […] da un lato, compiere una ricerca su qualcuno dell’Ottocento e poi occuparsi di ciò che fece il 18 giugno 1838, si può definire una fuga; ma dall’altro, il mio obiettivo è proporre un metodo su cui si possa poi costruire un altro metodo e questo, secondo me, è contemporaneo346.

Secondo Sartre, la contemporaneità del libro risiede in una ricerca metodologica estendibile ad altri oggetti e ad altri ambiti: un metodo proiettato non solo alla definizione dell’individuo nella propria costituzione sociale e individuale; un’opera non solo rivolta all’elaborazione filosofica e all’applicazione del metodo su un singolo oggetto; ma un lavoro che s’imparenta anche al campo della militanza marxista. Siamo di fronte a un’altra giustificazione con cui l’autore consegna al pubblico l’ipotesi di un saggio “totale”, da intendersi, marxianamente, come una totalizzazione sempre in atto nel divenire della vita e non una totalità data, che tenta di occultarsi tramite la raffigurazione simbolica in un ordine rappacificato come quello borghese, privo della violenza dei rapporti tra gli individui. Anzi, la conflittualità è chiave di interpretazione per Sartre. Riguardo all’oggetto del libro, Flaubert, come occasione per mettere a punto un “metodo”, risulta ovvio il rimando a Questions de méthode (1957), di cui si annunciava già come momento applicativo privilegiato: [U]na vita si svolge a spirali; ripassa sempre per gli stessi punti ma a livelli diversi d’integrazione e di complessità. Da bambino, Flaubert si sente privato della tenerezza paterna da parte del fratello maggiore: Achille rassomiglia a Flaubert padre; per piacere a questi, bisognerebbe imitare Achille; il fanciullo si rifiuta con risentimento imbronciato. Entrato in collegio, Gustave trova la situazione immutata: per piacere al medico-capo che fu un brillante alunno, Achille, nove anni prima, ha conquistato i primi posti. […] Questa seconda situazione non è nient’altro che la prima ridotta dal nuovo fatto che è il collegio. […] Il terzo momento (Flaubert accetta di fare giurisprudenza: per essere più sicuro di essere diverso da Achille, decide di essergli inferiore […]) è un arricchimento e una riduzione delle condizioni iniziali. Ogni fase, isolata, sembra ripetizione; il movimento che va dall’infanzia alle crisi nervose è invece un superamento continuo di questi dati; dà luogo,

346 Jean-Paul Sartre, Sur L’Idiot de la famille, cit., p. 115.

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infatti, all’impegno letterario di Gustave Flaubert. Ma, oltre ad essere passato-superato, nello stesso tempo essi ci appaiono, attraverso tutta l’operazione, come passato-superante, cioè come avvenire347.

Siamo dinnanzi a una sintesi del futuro L’Idiot de la famille composta già quattordici anni prima: la continuità temporale testimonia la concentrazione investita per lungo tempo da Sartre nello studio di Flaubert. Se, come ha scritto Jameson, “Questioni di metodo ci ha insegnato a leggere la situazione familiare come mediazione delle relazioni di classe nella società in generale e a cogliere le funzioni genitoriali come posizioni socialmente codificate e simboliche”348, L’Idiot ne può essere considerato il caso applicativo. Soprattutto, l’obiettivo “Flaubert” appare come un’occasione irripetibile: riunire alcuni dei più importanti linguaggi delle scienze umane approntati nel corso dell’Ottocento e del Novecento e sottoporli a una prova dei fatti il più possibile complessa e unitaria, dove tutti saranno impiegati contemporaneamente: “Considero che conoscere un uomo richiede oggi l’uso di tutti i metodi. Il vero problema è situarli in relazione l’uno con l’altro in una totalità che sarebbe la totalità Flaubert”349. Sartre si servirà così di strumenti critico-letterari, psicoanalitici, marxisti e prelevati direttamente dalla filosofia del proprio esistenzialismo350. Eppure, questa convergenza di metodi e linguaggi in un solo progetto si realizza tramite una forma della scrittura che, ugualmente, Sartre aveva già modellizzato in un’immagine all’inizio del passo citato da Questioni di metodo. La “spirale” è concetto chiave per comprendere il movimento interno del pensiero di Sartre come quello della sua scrittura351. L’immagine 347 Id., “Questioni di metodo”, in Id., Critica della ragione dialettica I. Teoria degli insiemi pratici, trad. it. di Paolo Caruso, Il Saggiatore, Milano 1990, pp. 85-86. 348 Fredric Jameson, The Political Unconscious, cit., p. 184. 349 Jean-Paul Sartre, Sartre parle de Flaubert, cit., p. 140. 350 “Tutti i linguaggi critici sono qui riuniti dal filosofo in un grande piano unificante: linguaggi esistenziali, ontologici, fenomenologici, marxisti, psicoanalitici, letterari, filologici, perfino linguistici” (Jacques Lecarme, Sartre et son double, cit., p. 84); “L’approccio a un individuo deve essere collocato nel contesto della realtà storico-sociale della società contemporanea nel suo insieme. Il metodo in ciascun caso sarà caratterizzato da un alto grado di riflessività. Ciò che alla fine distingue questo da altri metodi è, naturalmente, il fatto che l’approccio sociologico è anche marxista e che sia quello marxista che quello psicoanalitico sono considerevolmente trasformati dall’esistenzialismo sartriano” (Hazel E. Barnes, Sartre & Flaubert, cit., p. 4). 351 “Questo è anche ciò che Sartre fa nei suoi saggi biografici, subordinando la sua interpretazione di una vita alla nozione dialettica di ‘progetto’, che trova anche nei suoi

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della spirale definisce sul piano saggistico della scrittura il movimento filosofico della sintesi di Sartre, attraverso i passaggi, gli strappi compiuti da Flaubert nel percorso verso la sua completa realizzazione: dall’analisi “regressiva” dell’infanzia, cioè l’individuazione delle determinazioni storiche, psicologiche, culturali e sociali subite dall’individuo, alla sintesi “progressiva”, che valuta la risposta a questi condizionamenti una volta che li ha interiorizzati; fino alla ricostruzione regressiva e progressiva della risposta di Flaubert alle “determinazioni obiettive” (la situazione storico-culturale delle poetiche) della letteratura nella Francia post-romantica: un ritorno a valutare altri condizionamenti esterni, ma concepito come superamento a un livello superiore della spirale grazie alla de-realizzazione di questi nella scrittura di Flaubert. La spirale, cioè, non designa soltanto il movimento dialettico dell’analisi, la relazione tra i piani dell’esistenza e della sua temporalità, ma non può che diventare anche una forma di scrittura, in cui gli elementi subiscono una progressiva re-significazione: in questa visione, i prodotti dell’immaginazione di Sartre riguardo a Flaubert vengono ricompresi entro un orizzonte filosofico, che conduce alla verità storica dell’uomo Flaubert solo tramite un superamento dell’immaginazione infusa dal saggista. In sostanza, la totalizzazione dell’individuo nasconde un mascheramento della costruzione romanzesca di Flaubert, che viene riassorbita e sussunta a un livello superiore in cui essa è già un passato reintepretato, un “passato superato”, un “avvenire” che è la realtà del soggetto. La spirale dunque è l’innovazione più autentica dello pseudo-saggio sartriano: pseudo-saggio perché condotto da dati di partenza critico-filologici che subiscono una trasformazione romanzesca prima di venire sottoposti all’analisi filosofica. Ma che posto ha la critica letteraria in questa spiralizzazione della scrittura? Il primo movimento della spirale – la constitution – permette di affrontare il tema della costruzione biografica di Flaubert proprio a partire dai dati mancanti, che vanno colmati con le risorse dell’immaginazione. L’analisi delle scritture non letterarie di Flaubert rappresenta una prima tappa, che va condotta verso una generale interpretazione del testi la sua buona immagine: la spirale, la ‘logica temporale’ come suggerisce Sartre, che rende possibile l’integrazione del futuro con l’accumulo degli esempi, consolidando sempre di più l’idea generale forgiata dal saggio” (Marielle Macé, Figures de savoir et tempo de l’essai, in «Études littéraires», vol. 37, n. 1, 2005, p. 41).

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linguaggio a cui l’infante Flaubert si relaziona con una passività inerme. Il problema principale di Sartre riguarda inizialmente la ricostruzione di un’organicità del suo immaginario infantile, le cui lacune, lasciate dalle testimonianze storiche, devono venire subito colmate. Dai risultati di questa ricostruzione prima filologica, poi psicoanalitica della “macchina” famigliare che imprigiona la realizzazione di Flaubert, il saggista potrà completare la propria descrizione iniziale di lui bambino, ma dal punto di vista di una totalità in divenire: Bisogna avanzare con prudenza allorché si tratta di una protostoria e quando le testimonianze sono rare e truccate. Tenteremo, con una descrizione, seguita da un’analisi regressiva, di stabilire quel che manca. E, se ci riusciamo, cercheremo, con una sintesi progressiva, di trovare il perché di una simile carenza. Non sarà tempo perduto; poiché nel futuro scrittore codesta tenace ingenuità esprime un errato rapporto iniziale col linguaggio, la nostra descrizione non mirerà dapprima che a precisare codesto rapporto352.

L’unica risorsa materiale sembra poter essere rappresentata solo dai documenti riguardanti Flaubert, come le lettere altrui. Se quelle immagini non devono considerarsi autentiche, sono nondimeno le più interessanti, perché permettono a Sartre di intervenire annunciando la propria scrittura come l’unico mezzo per restituire l’autenticità. Il presupposto è quindi non tanto indiziario, rispetto a dati esistenziali irrisolti e da allineare in una spiegazione, quanto ancora di una costruzione simbolica, di una maschera immaginaria, ricostruita dai condizionamenti infantili e che il saggista fa indossare a Flaubert: “Flaubert, quando dice Io, non è mai sincero, recita, arrangia, si arrangia; […] se dice il vero, lo fa a sua insaputa; quel che non è detto e che manca è assai più rivelatore della confessione pubblica o della confidenza privata. Al contrario, quando parla d’un personaggio estraneo – anche quello di cui in seguito dice: sono io – tutto si manifesta; garantita dallo status dell’immaginazione, la verità s’installa, impregna a poco a poco la creatura”353. È evidente che i doppi letterari consegnati dallo scrittore nei suoi romanzi costituiscono il materiale per le maschere dell’uomo Flaubert. 352 Jean-Paul Sartre, L’idiota della famiglia, cit., vol. 1, p. 20 [vol. 1, p. 18]. 353 Ivi, p. 177 [p. 174].

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Il Flaubert di Sartre è romanzesco innanzitutto perché composto dai personaggi romanzeschi dello scrittore. Inoltre l’operazione di completamento prevede lo studio critico-letterario degli scritti futuri per fissare lo scenario presente dell’infanzia. L’interpretazione di un segmento della vita di Flaubert è assicurato dall’analisi di testi letterari successivi. In questa ricostruzione dell’individuo e del suo sviluppo, l’Idiot recupererebbe un modello di scrittura che Sartre ha già utilizzato nella sua autobiografia Les Mots (1964). Philippe Lejeune, che dedica un capitolo dal titolo “L’ordre du récit dans Les Mots de Sartre” nel suo Le pacte autobiographique, afferma che l’ordine cronologico è solo apparente nell’autobiografia di Sartre, perché sostituito da un altro ordine, di tipo logico, che sostiene tutto il racconto di Sartre della propria infanzia: “dove si credeva di leggere una storia, si stava seguendo un’analisi in cui i collegamenti logici sono mascherati da un vocabolario cronologico. L’ordine del libro è quello di una dialettica camuffata in una suite narrativa”354. Non solo Sartre mostrerà di far propria quest’interpretazione in un’intervista dell’anno successivo allo studio di Lejeune, ma confermerà che quelle conclusioni possono venire tranquillamente rivolte anche all’Idiot de la famille: “l’ordine delle Parole non è veramente cronologico; l’ordine del Flaubert lo è molto di più, ma non completamente… perché l’ordine cronologico è insufficiente – sempre – quando abbiamo a che fare con problemi profondi”355. I “collegamenti logici” che sarebbero “mascherati” nei Mots dalla forma cronologica tipica dell’autobiografia, nell’Idiot corrispondono a una forma romanzesca conferita ai dati critici e camuffata in una dialettica dell’individuo: risultati pre354 Philippe Lejeune, Le pacte autobiographique, Seuil, Paris 1975, p. 204. 355 Jean-Paul Sartre, Sartre parle de Flaubert, cit., p. 152. Da diversi commentatori, il volume su Flaubert è stato letto anche come un’altra autobiografia (nascosta) di Sartre. Ad esempio, Josette Pacaly rilegge tutte le sue monografie critiche alla luce delle rivelazioni personali sulla sua infanzia contenute in Les Mots. Secondo l’autrice, se l’autobiografia permetterebbe assieme al Baudelaire e al Genet di ripercorrere la nevrosi di Sartre, il Flaubert rappresenterebbe invece il campo della sua psicosi (Sartre au miroir. Une lecture psychanalytique de ses écrits biographiques, Klincksieck, Paris 1980, p. 443). Vedi anche altre interpretazioni autobiografiche del Flaubert di Sartre: Jacques Lecarme, Sartre et son double, in «La Nouvelle Revue Française», n. 232, aprile 1972, pp. 85-88; Dominik LaCapra, “Autobiography and Biography: Self and Other”, in Id., A Preface to Sartre, Cornell University Press, Ithaca 1978, pp. 169-218; e Nao Sawada, “Biographe malgré lui. L’Idiot de la famille dans le miroir des Mots”, in Julie Anselmini e Julie Aucagne (a cura di), L’idiot de la famille de Jean-Paul Sartre, cit., pp. 65-77. In generale, anche Les Mots rappresentano il racconto dell’approdo alla scrittura da parte di Sartre, come L’idiot racconta quello di Flaubert.

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sentati logicamente sono in realtà derivati da una ricostruzione immaginaria consapevole, la quale è superata, assieme alla questione del loro carattere fittizio, dalla spirale della dialettica. Sartre produce un ritratto ideale di Flaubert dietro i vari “segni” lasciati dallo scrittore. Ad esempio, quando Sartre convoca l’episodio centrale della difficoltà di apprendimento di Flaubert, la sua creazione immaginaria – il padre, personaggio della famiglia Flaubert, desunto da un testo di finzione posteriore – è introdotto come maschera romanzesca del condizionamento che subisce Flaubert: Lui, Achille-Cléophas, professore di medicina generale e di chirurgia, avrebbe insegnato a leggere al suo secondogenito: guidato da una volontà di ferro e da un’intelligenza senza confronti, il bambino avrebbe riguadagnato il suo ritardo in pochi mesi. Si mise all’opera e sciupò ogni cosa: umiliato da suo figlio, lo umiliò per tutta la sua vita. Si domanderà come so tutto questo. Ebbene, ho letto Flaubert: il ragazzo ha serbato un tal ricordo di quelle lezioni, che non ha potuto trattenersi dal farcene parte. In Un parfum à sentir, scritto a quindici anni, il saltimbanco Pedrillo si fa professore dei suoi figli: insegna loro a danzare sulla corda tesa356.

Personaggi e fantasmi romanzeschi vengono prelevati dalle prove di scrittura di Flaubert per costituirsi a suoi doppi ed essere recuperati come caratterizzazioni del personaggio biografico preparato da Sartre. Ancora, se il personaggio Julietta di Passion et vertu (1837) si dimena per la disperazione di essere stata respinta da Almaroës, Sartre descrive la lotta psicologica dello scrittore con una figura psichica di opposizione interiore, rappresentata sulla base della sua analisi tematica di Julietta. Osservato all’interno della propria camera, il personaggio Flaubert traduce le azioni della sua protagonista; i sospiri di Julietta diventano gli urli del bambino: “cade, si dibatte, sobbalza, getta le braccia e le gambe da tutte le parti, urla, se è sicuro di non essere udito, e altrimenti prende a prestito gli aneliti di Satana o i sospiri di Julietta”357. Se Flaubert si crea come persona nella finzione, una finzione crea il Flaubert in Sartre: la prima riguarda i personaggi inventati dalla penna di Flaubert, mentre gli antagonisti della 356 Jean-Paul Sartre, L’idiota della famiglia, cit., vol. 1, p. 371 [p. 366]. 357 Ivi, p. 283 [p. 279].

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sua formazione psicologica sono creazioni narrative di una seconda finzione del testo di Sartre358. Per di più, Sartre non ha remore nemmeno a inserire, nella sua personale rappresentazione della società “natale” di Flaubert, alcuni dialoghi tra quei personaggi359; ad esempio, quando il padre rimprovera nuovamente il ritardo d’apprendimento del figlio360: Decidendo di aprirgli la mente, il medico-filosofo si condannava a condividere la comune condizione dei padri-professori. Costoro sono degli esecrabili pedagoghi: “Se tu mi amassi, se tu avessi il minimo sentimento dei tuoi doveri verso di me, verso tua madre, se, in mancanza di tutto ciò, tu conservassi almeno un po’ di riconoscenza verso coloro che ti hanno fatto e nutrito, da gran tempo sapresti leggere, conosceresti le province francesi, la tavola pitagorica. Ecco, ti faccio una sola domanda: chi ha vinto la battaglia di Poitiers? Non vuoi rispondere? Ingrato!”361.

Eppure, la rappresentazione romanzesca di Flaubert non impedisce a Sartre di spingere il movimento dialettico fino all’esterno e connettere la sua creazione con i rapporti materiali della società del tempo. La fase della costituzione di Flaubert concluderà che al giovane manca cioè il tipico razionalismo scientifico borghese: “finalmente la Stupidità è la Ragione decapitata, è l’operazione intellettuale privata della sua unità, ossia del suo potere di unificazione”362.

358 “Questi personaggi reali, nella loro funzione romanzesca, sono trattati allo stesso modo dei personaggi del romanzo […]. In quanto parte dell’immaginazione, il personaggio sta già lavorando a livello delle strutture e consente questo incastro della critica nel romanzo” (Michel Sicard, “L’instance romanesque”, cit., p. 165). 359 Sartre diventa perfino Flaubert, parlando dalla sbarra del tribunale che giudica il padre, come farà anche Jean Améry: “[i]o sono prima di tutto il figlio di un’idea. Mio padre mi ha inventato assai prima di generarmi. Non mi ha concepito per me stesso, per la felicità, per darmi il suo amore: non sono stato, nella sua mente, un fine, ma un mezzo per realizzare i suoi piani, uno strumento del suo arrivismo familiare […] lo accuso di avermi voluto” (Jean-Paul Sartre, L’Idiota della famiglia, cit., p. 217 [p. 214]). 360 L’idiozia di Flaubert, da cui il titolo del saggio, è appunto effetto della costituzione della sua personalità e si rivela per Sartre proprio nelle sue difficoltà pratiche: “Leggere non sarà solamente, per Gustave, un’operazione che si esige da lui, senza avergli dato i mezzi per iniziarla; sarà soprattutto un esilio: davanti all’abbecedario sente che si sta per scacciarlo dal dolce mondo servile dell’infanzia” (ivi, p. 50 [p. 48]). 361 Ivi, p. 373 [p. 368]. 362 Ivi, p. 647 [p. 647].

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Il secondo movimento dell’Idiot, la personnalisation363, affronta l’auto-rappresentazione del bambino come attore, poi poeta, quindi artista, per poi mutarsi definitivamente in genio: nella loro successione, i primi sono tutti parziali tentativi di risposta alle determinazioni del condizionamento familiare. Il periodo passato da Flaubert in collegio costituisce la più ampia trattazione compiuta nella monografia, sia per estensione, sia per approfondimento delle testimonianze. In collegio, Flaubert interpreterebbe una sorta di ruolo sociale identificandosi in una figura che lo accompagna, un po’ come una caricatura burlesca, in quegli anni (e anche dopo): il Garçon, “universale singolare che non si comprende che all’interno di una temporalizzazione, riemersa al sapere nozionale […] conservato nel progetto che lo trascende, egli illumina dal di dentro il movimento per cui un ladro, assumendo se stesso, si fa il ladro. Il Ragazzo, lui, non è un oggetto di conoscenza”364. Garçon s’inserisce apposta come personaggio combattant365 creato da Sartre sulla base di alcune allusioni nelle lettere di Flaubert; precisamente su di un’interruzione dell’epistolario, un’altra mancanza che il critico deve riempire. Flaubert interpreta questo personaggio del Garçon assieme ai suoi compagni di scuola in un periodo che va dal 1835 al 1938. Ma a differenza della costituzione interiore di Genet, in cui il divenire ladro è un processo formativo che prelude alla scrittura, Garçon rappresenta nella vita di Flaubert soltanto un’altra maschera, dietro cui si nasconderà perfino la scrittura stessa. Il personaggio di Garçon entrerà infatti anche nella composizione delle sue narrazioni. Sartre lo riconoscerà nascosto non tanto dietro i personaggi, quanto dentro lo stile caratteristico di Flaubert: la perfezione della frase. Questa figura si muove quindi attraverso la spirale, indipendentemente dalla sua collocazione cronologica nel periodo del collegio. Svolge la propria funzione totalizzante nella dialettica, superando i confini del prima e del dopo, della sua “nascita” e della sua “morte”:

363 I primi due “libri” della personalizzazione sono una sintesi progressiva dell’adolescente Flaubert sulla base dei condizionamenti della sua infanzia; il terzo libro è un’analisi regressiva dei suoi anni 1838-43; subentrano poi nel capitolo “L’ultima spirale” uno studio regressivo della nevrosi e in quello “La crisi” una sua analisi progressiva: qui la nevrosi da essere una reazione diventa compiutamente progetto. 364 Id., L’Idiot de la famille, cit., vol. 2, p. 1224. 365 Ivi, p. 1219.

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Sappiamo che ci sono state delle “ragazzate” in cui questo personaggio non compariva; per esempio, questa processione di scheletri di cui Flaubert si fa l’ordinatore: il Ragazzo avrebbe adorato questa derisione della vita tramite la morte e della morte tramite la vita; alcun dubbio che avrebbe preso parte alla cerimonia se non avesse avuto questo impedimento maggiore: non era nato366.

Sartre ne rintraccia la presenza perfino nel tardo epistolario di Flaubert, quando egli, scrittore ormai famoso, ricorda il gioco del Garçon e oppone la sua (la propria) audacia alla molle tempra imputata al giovane Maupassant, suo destinatario: “[i]mpossibile sbagliarsi: il Ragazzo rimpiazza un io che Gustave non vuole o non può dire. Il senso è chiaro: ‘Quando avevo la tua età, ero più coraggioso di te’ […] l’uomo forte è innanzitutto un ruolo, io mi sono limitato a interpretarlo, ho fatto il Ragazzo – perché l’uomo che ride è forte tra i forti”367. Ancora, Sartre intravede in un passaggio di Madame Bovary quella stessa risata, quell’irrisoria condotta distintiva del Garçon e rivelatrice, per il critico, della de-realizzazione che Flaubert compie del suo mondo oggettivo attraverso le sue invenzioni stilistiche. Per la scena dell’adulterio tra Madame Bovary e Léon Dupuis, in cui l’amplesso si consuma durante un viaggio in carrozza, Sartre annota dapprima la comicità della trasfigurazione dell’atto sessuale in quella furiosa corsa per Rouen, dove più volte il vetturino compie il giro della città a vuoto, venendo perfino insultato da Léon a ogni accenno di sosta. Poi, nello scombussolamento rappresentato e imitato dalla lingua del racconto il critico ritrova lo stesso riso del Garçon: Il lettore perplesso sente improvvisamente una risata: lo si invita a condividerla; deve solo alzarsi sopra di sé, prendersi la briga di interpretare il Ragazzo a sua volta […]. In Madame Bovary, in diverse 366 “Nous savons qu’il y eut des «Garçonnades» où ce personnage ne figurait point; par exemple, cette procession de squelettes dont Flaubert s’est fait l’ordonnateur: le Garçon eût adoré cette dérision de la vie par la mort et de la mort par la vie; nul doute qu’il eût pris part à la cérémonie sans cet empêchement majeur: il n’était pas né” (ivi, pp. 1221-22). 367 “Impossible de s’y tromper: le Garçon remplace un Je que Gustave ne veut ou ne peut pas dire. Le sens est clair: ‘Quand j’avais votre âge, j’étais plus crâne que vous n’êtes’ […] l’homme fort est d’abord un rôle, je me suis contraint à le jouer, j’ai fait le Garçon – car l’homme qui rit est fort parmi les forts” (ivi, p. 1228).

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occasioni, è il Ragazzo che tiene la penna, rompendo ogni volta l’illusione. Mai così apertamente come in questo episodio368.

Anche quando penetra criticamente nel tessuto narrativo della letteratura, e per di più in quello del suo capolavoro, Madame Bovary, Sartre utilizza una sequenza finzionale che si pone come iterativa e itinerante lungo la spirale di Flaubert. Nella terza e ultima fase della spirale, l’immagine termina il suo percorso, come dichiarato anche dal titolo: “Elbenhon, ovvero l’ultima spirale”369. L’evento della crisi di Flaubert, con lo svenimento e la conseguente caduta dal calesse su cui viaggiava, rappresentano l’episodio culminante che condurrà Flaubert ad assumere il suo ruolo di scrittore e superare i condizionamenti precedenti, scavalcando l’adolescenza e l’infanzia: Una sera del gennaio 1844, Achille e Gustave tornano da Deauville dove hanno lo chalet. È buio pesto, Gustave stesso guida la carrozza. All’improvviso, vicino a Pont-l’Évêque, mentre una carretta passa a destra della carrozza, Gustave abbandona le redini e cade ai piedi di suo fratello, fulminato. Come di fronte a un cadavere immobile, Achille lo crede morto o morente. In lontananza, si vedono le luci di una casa. Il fratello maggiore vi trasporta il cadetto d’urgenza e si prende cura di lui. Gustave rimane diversi minuti in questo stato catalettico; è, tuttavia, rimasto cosciente. Quando apre gli occhi, ha delle convulsioni o no? È difficile saperlo. In ogni caso, suo fratello lo riporta a Rouen nella notte370. 368 “Le lecteur déconcerté entend tout à coup le rire: ce rire, on l’invite à le partager; il n’a qu’à se hausser au-dessus de lui-même, qu’à prendre la peine de jouer à son tour le Garçon […]. Dans Madame Bovary, à plusieurs reprises, c’est le Garçon qui tient la plume, brisant chaque fois l’illusion. Jamais si ouvertement que dans cet episode” (ivi, p. 1292). 369 Il termine Elbenhon è un’errata traslitterazione di Elbehnon, che compare nel titolo dell’incompiuto racconto Igitur, ou la Folie di Elbehnon (1869) di Stéphane Mallarmé. 370 “Un soir de janvier 44, Achille et Gustave reviennent de Deauville où ils ont été voir le chalet. Il fait noir comme dans un four, Gustave conduit lui-même le cabriolet. Tout à coup, aux environs de Pont-l’Évêque, comme un roulier passe à droite de la voiture, Gustave lâche les rênes et tombe aux pieds de son frère, foudroyé. Devant son immobilité de cadavre, Achille le croit mort ou mourant. On voit, au loin, les lumières d’une maison. L’aîné y transporte son cadet et le soigne d’urgence. Gustave reste plusieurs minutes dans cet état cataleptique; il a cependant gardé toute sa conscience. Quand il ouvre les yeux, a-t-il ou non des convulsions? Il est difficile de le sa-

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Ma tale crisi di Flaubert diventa anche per Sartre l’occasione di una riscrittura. Se qui la scena viene riassunta in un breve stralcio narrativo371, pagine dopo Sartre non s’accontenterà di aggiungere qualche postilla, ma deciderà di riscrivere interamente l’episodio sintetizzato velocemente a vantaggio dell’argomentazione. La nuova rappresentazione si afferma allora non solo come necessaria al commento; subentra ora come un’interpretazione compiuta durante la riscrittura. Il critico si inserisce a osservatore di quella scena; ne esamina l’accaduto e ne indaga le prove, rallentando a piacimento anche il tempo dell’azione; infine penetra nei pensieri del suo protagonista e capisce come leggere il suo crollo imminente: Questo significa che l’attacco – o la somatizzazione radicale – deve venire da questa lenta preparazione come conclusione logica e suo completamento, senza l’aiuto di circostanze esterne? Per decidere, accompagniamo i due fratelli sulla strada da Deauville a Pont-l’Évêque e tentiamo di descrivere la situazione in cui si trova il più giovane quando si verifica la crisi. Gustave ritorna a Rouen, tiene le redini, è buio, Achille è al suo fianco: tante circostanze da esaminare. La prima è capitale: Gustave è caduto sulla via del ritorno […] oltre, c’è il mare, bisogna imbarcarsi per l’America, così come ha fatto Chateaubriand, come farà Henry, alla fine della prima Educazione, oppure tornare […] [Flaubert] deve aver sognato il Nuovo Mondo ai bordi dell’acqua […] Parigi lo attende e il diritto […]. Ora si sta facendo tardi, bisogna tornare indietro […]. Dunque, quando sale sulla carrozza, è a Parigi che sta andando; non può dubitarne […]. Loro [i genitori] lo congederanno, lo rimanderanno a scuola; li odia; a ogni giro della ruota, sente crescere la paura e il disgusto, sente fisicamente la necessità e l’impossibilità di questo ritorno372. voir. En tout cas son frère le ramène à Rouen dans la nuit” (Jean-Paul Sartre, L’Idiot de la famille, cit., vol. 2, p. 1781). 371 La traduttrice inglese dell’Idiot si sofferma sullo stile narrativo dei tempi verbali di questo passo (Carol Cosman, Translating The Family Idiot, in «Sartre Studies International», vol. 1, n. 1-2, 1995, p. 38). 372 “Est-ce à dire que l’attaque – ou somatisation radicale – doit découler de cette lente préparation comme conclusion logique et son achèvement, sans le concours de circonstances extérieures? Pour en décider, accompagnons les deux frères sur la route de Deauville à Pont-l’Évêque et tentons de décrire la situation dans laquelle se trouve le cadet quand la crise se produit. Gustave revient à Rouen, il tient les rênes, il fait nuit, Achille est à ses côtes: autant de circonstances à examiner. La première est capitale: Gustave est tombé sur le chemin de retour […] au-delà, c’est la mer, il faut s’embarquer pour l’Amérique, comme a fait Chateaubriand, comme fera Henry, à la

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La crisi rappresenta il culmine irrisolto di un percorso di costruzione della personalità che porterà Flaubert alla scelta di dedicare la propria vita alla scrittura, raggiungendo così l’affermazione della propria libertà. Eppure, in misura maggiore rispetto forse all’Essere e il nulla, tale libertà non appare più come incondizionata, ma si trova imprigionata dalla presenza di essenze storiche che la precedono, influenzandola inevitabilmente. La crisi medesima diventa anche la sequenza di arrivo di quel racconto di formazione che porta il bambino a inventarsi scrittore; soltanto ora può iniziare un’altra storia, quella del Flaubert maturo in quanto romanziere di successo. Conferendo alla crisi un’interpretazione determinista, Sartre ha stabilito la natura di effetto di quell’evento, mentre ne rappresenta le cause sul piano dell’immaginazione. Eppure, nel movimento del superamento verso la totalizzazione dell’individuo, il personaggio della rappresentazione di Sartre si vede restituita la propria libera totalità nel mondo immaginario che lui stesso ha creato: il mondo finzionale gli è restituito affinché egli possa apparire, alla fine della spirale, nella verità del suo essere scrittore, nella de-realizzazione del mondo e dei suoi condizionamenti in un fraseggio che assume la forma definitiva e perfetta. In altre parole, la letteratura e il mondo di finzione divengono oggetti prodotti materialmente dal lavoro dello scrittore e non più soltanto oggettivazione del suo processo psichico. L’Idiot de la famille non può però concludersi qui, se si vuole completare la totalizzazione. Nel terzo tomo, Sartre compie una ricapitolazione storica della letteratura ai tempi di Flaubert in relazione al pubblico borghese. Il saggista tenterà di riaprire anche l’individuo Flaubert alla realtà oggettiva, dopo aver valorizzato precedentemente lo studio della sua interiorizzazione: “[i]n ogni società storica in cui un individuo prende la decisione di essere scrittore – qualsiasi cosa succederà – la letteratura gli è fornita, innanzitutto, come una totalità in cui ha scelto di entrare”373. La poetica di Flaubert diventa il sommo risultato del profin de la première Éducation, ou bien revenir […] il a dû rêver du Nouveau Monde au bord de l’eau […] Paris l’attend et le droit […]. À présent, il se fait tard, il faut rentrer […]. Donc, quand il monte dans le cabriolet, c’est à Paris qu’il va; il n’en peut douter […]. Ils [les parents] vont l’éconduire, le renvoyer à ses études; il les déteste; à chaque tour de roue, il sent croître la peur et le dégoût, il ressent physiquement la nécessité et l’impossibilité de ce retour” (Jean-Paul Sartre, L’Idiot de la famille, cit., vol. 2, pp. 1830-1831). 373 Ivi, vol. 3, p. 57.

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cesso di sintesi progressiva della sua personalità: la perfezione della frase redime la sua imperfezione originale rispetto al mondo e rappresenta la sua soluzione simbolica al totale letterario del suo tempo. Sartre ha stabilito che l’arte per Flaubert è al contempo una risposta esistenziale e il superamento nella libertà dei condizionamenti subìti dallo scrittore nel passato. Ora si domanda quale sia il modo in cui Flaubert supera un’altra nevrosi, quella sociale e collettiva, attraverso la scrittura di Madame Bovary, che avrebbe poi dovuto essere al centro del quarto volume mai realizzato, e di altri testi, parzialmente considerati in questo volume, relativamente al periodo del Secondo Impero francese. Dopo la sconfitta dell’Impero da parte della Prussia, assistiamo alla risurrezione dell’antagonista di Flaubert, ben molto tempo dopo la sua morte. Nelle lettere scritte in quel periodo, Sartre osserva che Flaubert lamenta una deficienza di conoscenze scientifiche nella classe dirigente francese: una delle cause che, a suo dire, avrebbero impedito di arrestare la macchina bellica prussiana. Dentro quest’idea, Sartre legge il rifiuto del suo umanesimo da parte del romanziere. La rimozione non viene però solo argomentata. Quelle parole di Flaubert permettono il riaffiorare nella sua coscienza di un turbamento psichico mai scomparso, non ancora superato veramente; un biasimo, che visita il protagonista nelle vesti di un’antica rappresentazione: Sedan è bastata a invertire la situazione, vale a dire a ripristinare la scena primitiva: il chirurgo-capo risorto si appoggia al braccio del figlio maggiore e considera con spaventato disprezzo il bambino scarsamente equipaggiato che aveva condannato fin dalla nascita a essere il cadetto; la Scienza vince […] l’inutilità dell’Arte è stata, negli anni Quaranta e, infine, fino al 1870, il suo titolo di nobiltà; al risveglio, è il suo difetto originale: questa brutale transizione dal positivo al negativo non è la prova migliore che un Altro si è stabilito, trionfante, in Flaubert? Aveva desiderato acquisire la gloria contro il suo ingiusto padre, di deporla ai piedi di Achille-Cléophas e di portarlo alle lacrime per rimorso. La gloria, ce l’ha; Achille-Cléophas, risorto, la contempla, ma invece di pentirsi fino a piangere, la disprezza come un tempo disprezzava tutte le azioni di suo figlio: Gustave rimarrà per sempre un vecchio ragazzo un po’ ritardato, l’idiota della famiglia374. 374 “Sedan a suffi pour renverser la situation, c’est-à-dire pour restituer la scène primitive: le chirurgien-chef ressuscité s’appuie au bras de son fils aîné et considère avec un mépris glacé l’enfant mal équipé qu’il avait condamné d’avance à naître cadet;

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Il ritorno fantasmatico del dottore Flaubert poco prima dei congedi finali testimonia di una funzione continua dell’immaginazione di Sartre in tutta l’impalcatura concettuale dell’Idiot. Fra tutti gli strumenti filosofici utilizzati da Sartre, il pensiero immaginativo impiegato nella rappresentazione di certi personaggi e nella narrazione di alcune scene si mostra tra i più resistenti alla prova della mole dell’Idiot. Soprattutto dimostra l’importanza di una funzione del personaggio all’interno dell’opera; com’era, fra l’altro, già annunciato nell’intervista del 1970: È certo che non esiste una tecnica che permetta di rendere conto di un personaggio di romanzo come si può fare, per mezzo di un’interpretazione marxista e psicoanalitica, di una persona realmente esistita. […] Uno scrittore è sempre un uomo che ha, più o meno, scelto l’immaginario: ha bisogno di una certa dose di finzione. Da parte mia, la trovo nel mio lavoro su Flaubert, che può essere considerato un romanzo. Vorrei anche che il pubblico dica che è un vero romanzo. Cerco, in questo libro, di raggiungere un certo livello di comprensione di Flaubert attraverso delle ipotesi. Uso la finzione – guidata, controllata, ma ancora finzione – per trovare le ragioni per cui Flaubert, ad esempio, scrive una cosa il 15 marzo, poi il contrario il 21 marzo, allo stesso destinatario, senza preoccuparsi della contraddizione. Le mie ipotesi mi portano a inventare dunque parte del mio personaggio375.

L’autore si è prefissato un progetto ambizioso: esattamente al contrario dell’impresa di Montaigne mirata a relativizzare la propria individualità tramite percorsi plurali della scrittura saggistica, Sartre sembra non accettare compromessi o sconti di visione metodologica al presupposto di totalità con cui affrontare il proprio argomento. Egli sa che non può raggiungere quella totalità auspicata soltanto integrando premesse rola Science gagne […] l’inutilité de l’Art, c’était, dans les années 40 et, finalement, jusqu’en 70, son titre de noblesse; au réveil, c’est sa tare originelle: ce passage brutal du positif au négatif n’est-il pas la meilleure preuve qu’un Autre s’est réinstallé, triomphant, en Flaubert? Il avait voulu contre son père injuste acquérir la gloire, la déposer aux pieds d’Achille-Cléophas et le faire pleurer de remords. La gloire, il l’a: Achille-Cléophas, ressuscité, la contemple mais, au lieu de se repentir jusqu’à verser des larmes, il la méprise comme il méprisait, autrefois, tous les agissements de son fils: Gustave restera pour toujours un vieux garçon un peu demeuré, l’idiot de la famille” (ivi, p. 592). 375 Id., Sartre par Sartre, in «Le Nouvel Observateur», 26 gennaio 1970; poi in Situations, IX. Mélanges, Gallimard, Paris 1972, pp. 122-123.

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manzesche alla filosofia. Eppure, non basta aggiungere il discorso narrativo alla forma saggistica o filosofica, in virtù di una crisi e di un’insufficienza riconosciute dalla stessa forma intellettuale. La finzione (il romanzo) è – come lui stesso spiega – un ordine irriducibile al completamento della conoscenza, ma nel processo di comprensione è accettabile soltanto in vista del suo superamento da parte della dialettica e della totalizzazione: la scrittura immaginativa e narrativa è un dato parziale e contingente al pari degli altri. L’Idiot è certo un saggio romanzesco, secondo letture da più parti condivise, perché Flaubert è costruito a partire dai suoi personaggi romanzeschi e ci racconta, al contempo, l’avventura di un personaggio che insegue per quasi tremila pagine il proprio compimento, il punto in cui coincidere, finalmente, con l’immagine istituzionale che tutti noi lettori abbiamo di Flaubert come scrittore. Tra le caratteristiche più importanti che Adorno precisa per il genere del saggio (spontaneità e soggettività della presentazione, rifiuto della logica deduttiva, avversione al dogmatismo sistematico e rivendicazione di libertà intellettuale, stile digressivo e itinerante, propensione per argomenti non convenzionali, importanza del gioco), specialmente una si pone in contrasto con l’impresa di Sartre: nell’Idiot, non v’è esaltazione dell’incompletezza, né una concezione romantica del frammento come proteso verso l’infinito. Abbiamo già precisato come Adorno abbia in mente un modello di saggio di lunghezza ridotta, sia quello di Montaigne o meno, e non veri e propri libri, mentre in verità la categoria del saggio ha storicamente incluso anche veri e propri trattati376, dotati di misure ipertrofiche come quello di Sartre. Allo stesso tempo, il problema dell’integrazione di saggi sparsi nella struttura generale di una raccolta è un argomento che la ricerca accademica ha solo vagamente affrontato377. Ma in questo caso ci troviamo di fronte a un’opera che, al di là delle definizioni tematiche e formali, ha soprattutto un carattere enciclopedico, improntato a una fiducia nel pensiero di matrice illuminista: un tentativo di sintesi, in primis dei metodi elaborati per376 Jean-Louis Major, “Le recueil d’essais ou l’ombre de Montaigne”, in François Dumont (a cura di), La pensée composée. Formes du recueil et constitution de l’essai québécois, Nota bene, Québec 1999, p. 22. 377 Vedi Irène Langlet, Le recueil comme condition, ou déclaration, de littéralité: Paul Valéry et Robert Musil, in «Études littéraires», vol. 30, n. 2, 1998, pp. 23-35 e Enza Biagini, “Saggio, ‘pensiero composito’ e metaletteratura”, in Anna Dolfi (a cura di), La saggistica degli scrittori, Bulzoni, Roma 2012, pp. 17-48.

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sonalmente da parte di Sartre, ma in generale anche delle modalità di pensiero dell’epoca a lui contemporanea. Si tratta appunto di una caratteristica che affonda le proprie radici nell’Encyclopédie settecentesca378: una volontà di comprensione che Sartre riconduce alla totalizzazione dialettica, come Magris l’aveva ricondotta all’ironia, e Glissant alla totalità-mondo. Se per Adorno il saggio consente di trattare i frammenti del mondo come oggetti di conoscenza senza cedere alla tentazione di costruirvi attorno un sistema filosofico379, L’Idiot appare al contrario come un “saggio totale”, da intendersi non solo come la messa a punto definitiva del proprio sistema filosofico, presentato rispetto a Question de méthode in applicazione a un oggetto preciso, che è l’individuo Flaubert, ma anche come forma totalizzante dei discorsi eterogenei che attraversano lo pseudo-saggio: dall’analisi filologica e critica dei romanzi fino all’interpretazione biografica, dall’analisi psicologica del condizionamento familiare e sociale di Flaubert fino all’astrazione della riflessione storica e filosofica. La necessità di un superamento del genere saggistico verso una nuova forma di totalità era stata avvertita da Sartre fin dalla Seconda guerra mondiale. Nell’articolo Un nouveau mystique (1943)380, dedicato alla saggistica di Georges Bataille, Sartre metteva in guardia verso un pericolo per il genere saggistico contemporaneo. Pur riconoscendo la modernità dell’essay-martyre di Bataille381, Sartre vi scorgeva la permanenza di un 378 Olivier Sécardin discute del sincretismo dell’Encyclopédie di Diderot e D’Alambert, in rapporto ad altri termini semantici, tra cui l’ibridazione, in Id., “Le synchrétisme peut-il réchauffer le postmoderne?”, in Jean-Paul Barbiche e Stéphane Valter (a cura di), Sociétés coloniales et sociétés modernes. Rencontres et syncrétisme XVIe-XXIe siècles. Afrique, Amérique, Asie, Europe, Éditions Manuscrit Université, Paris 2006, pp. 515-537. 379 “L’obiezione che comunemente gli è mossa, di aver cioè carattere frammentario e casuale, postula che la totalità sia data, quindi anche che soggetto e oggetto siano identici, e dà a intendere che si possegga il tutto. Il saggio invece non vuole ricercare e distillare l’eterno dal caduco, quanto piuttosto rendere eterno quest’ultimo” (Theodor W. Adorno, “Il saggio come forma”, cit., p. 15). 380 “C’è una crisi del saggio […]. Il romanzo contemporaneo, con gli autori americani, con Kafka, e con Camus da noi, ha rinnovato il proprio stile. Resta quello del saggio da trovare. E aggiungerei: quello della critica” (Jean-Paul Sartre, “Un nouveau mystique”, in Id., Situations, I (1947), Gallimard, Paris 2010, p. 173). 381 “A parte un po’ d’enfasi e goffaggine nella gestione delle astrazioni, tutto va lodato in questo modo di espressione: offre al saggista un esempio e una tradizione; ci avvicina alle fonti, Pascal, Montaigne e, allo stesso tempo, propone un linguaggio, una sintassi più adatta ai problemi del nostro tempo” (ivi, p. 181).

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modello surrealista, che provocava un disarcionamento dei testi dai contenuti dell’esperienza e rivelava una mauvaise foi, un’impostura saggistica rivolta non al rinnovamento, ma alla rifondazione di un misticismo moderno, chiuso in una totalità metafisica e classica alla ricerca di Dio382. Nell’Idiot de la famille, Sartre si porrà alla ricerca della totalità dal punto di vista dell’individuo, cioè della relazione materiale di una vita con l’esterno, rinunciando a un’idea assoluta e metafisica della vita come quella inseguita da Bataille. Sartre vorrà cogliere l’essenza di Gustave Flaubert come prodotto al contempo individuale e sociale, ritrovando nella spirale il principio dialettico e totalizzante della propria opera: non solo totalizzazione del particolare senza sintesi, la “totalità del non-totale” di Adorno383, ma suo superamento in una filosofia materialistica dell’individuo-scrittore. Con Sartre, il saggio totale è forse risposta tardiva alla sua presa di coscienza di una “crisi” del saggio contemporaneo, soprattutto rispetto ad altre scritture – analizzate nel prossimo capitolo –, ma si compone comunque di una sovrapposizione di linguaggi specialistici in via del loro superamento. Dal punto di vista dello pseudo-saggio, L’Idiot de la famille non è un risultato della crisi della critica, ma la forma del suo impossibile divenire altro da sé: dal probabile alla verità.

4.2. La critica trans-finzionale: Jean Améry L’Idiot de la famille ha raccolto attorno a sé definizioni spesso fantasiose e tra loro contraddittorie: una “biografia reinventata”384; “una sorta di romanzo filosofico della borghesia”385, “romanzo scientifico”, “romanzo biografico”, “romanzo critico”386; un’opera imitativa, quasi parodica: “L’Idiot de la famille si erge rispetto all’opera di Flaubert in una posizione creativamente critica, non senza analogia – mutatis mutandis – con quella occupata da don Chisciotte rispetto i più antichi romanzi di 382 Per l’analisi della critica sartriana a Bataille, si veda Irène Langlet, L’abeille et la balance, cit., p. 212. 383 Theodor W. Adorno, “Il saggio come forma”, cit., p. 22. 384 Vedi Dominique Viart, “Essais-fictions: les biographies (ré)inventées”, in Marc Dambre e Monique Gosselin-Noat (a cura di), L’Éclatement des genres au XXème siècle, Presses de la Sorbonne Nouvelle, Paris 2001, pp. 331-345, e Douglas Collins, Sartre as Biographer, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1980. 385 Pierre Verstraeten, “Sartre et son rapport à la névrose objective”, in Id. (a cura di), Autour de Jean-Paul Sartre. Littérature et philosophie, Gallimard, Paris 1981, p. 19. 386 Choung-Kwon Kang, L’Idiot de la famille de Jean-Paul Sartre, de la critique littéraire à l’autocritique, tesi di dottorato, Université Paul Valéry-Montpellier 1988, p. 284.

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cavalleria”387; una sorta di romanzo universitario: “come Francis Ponge trasforma in un poema la lezione delle cose e il discorso didattico, Sartre trasmuta in un romanzo la tesi universitaria”388. Certo, c’è stato chi, come Sandro Briosi, ha riconosciuto nell’Idiot un “libro di critica letteraria”389, ma in generale i commentatori sono stati propensi a scegliere una lettura sbilanciata dal lato del romanzo o, al limite, a una posizione intermedia, come quella di critique-fiction (sintesi generica sul modello di science-fiction) e critical fiction (in cui la qualifica modale è spostata su uno soltanto dei due generi, cioè sul romanzo)390. Per comprendere al meglio il senso di questa ibridazione tra critica e romanzo, conviene rivolgersi alla categoria di transfictionnalité proposta da Richard Saint-Gelais: “L’ipertestualità è una relazione d’imitazione e di trasformazione tra testi; la transfinzionalità è una relazione di migrazione (con la modificazione che ne risulta quasi immancabilmente) di elementi diegetici”391. In un capitolo del suo libro Fictions transfuges, Saint-Gelais discute anche il caso della “critica transfinzionale”: una critica letteraria in cui il metatesto inventa ciò che finge di “glossare” o commentare e, di conseguenza, le argomentazioni si basano, più o meno consapevolmente, su presupposti presi dal mondo finzionale che dovrebbe essere commentato392. Nell’Idiot abbiamo segnalato l’utilizzo, da parte di Sartre, di presupposti creati

387 Karl D. Uitti, Sartre’s L’Idiot de la famille: A contribution to the Theory of Narrative Style, in «Romanic Review», vol. 48, n. 3, 1977, p. 232. 388 Claude Burgelin, De Sartre à Flaubert ou la genèse d’un roman vrai, in «Revue de l’Histoire littéraire de la France», vol. 81, n. 4-5, 1981, p. 696. 389 Sandro Briosi, Sartre critico, Zanichelli, Bologna 1981, p. 147. 390 Questa definizione di Joseph Halpern è connotata negativamente rispetto al volume di Sartre: “[i]n dosi ragionevoli, è un piacere leggere L’Idiot; alcune parti sono infinitamente affascinanti, ma sono bloccate dentro tremila pagine di un’esposizione abnorme” (Joseph Halpern, Critical Fictions. The Literary Criticism of Jean-Paul Sartre, Yale University Press, New Haven 1976, p. 117); l’autore gli riconosce tuttavia il valore sperimentale: “[s]e leggiamo L’Idiot come un romanzo, come ci ha chiesto Sartre, allora è un romanzo non solo su Flaubert e Sartre, ma anche sul linguaggio e sull’atto della scrittura, e il suo impulso creativo è volto alla ricerca di un nuova forma di prosa” (ivi, p. 161). 391 Richard Saint-Gelais, Fictions transfuges. La transfictionnalité et ses enjeux, Seuil, Paris 2011, pp. 10-11. 392 Ivi, pp. 435-532. Vedi anche, dello stesso autore, “La transfictionnalité en critique littéraire”, in Marc Escola (a cura di), Théorie des textes possibles, Rodopi, Amsterdam 2012, pp. 169-186 e, nello stesso volume collettivo, Jacques Dubois, “Pour une critique-fiction”, ivi, pp. 25-38.

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immaginativamente, come le raffigurazioni narrative dei condizionamenti psichici subiti da Flaubert o le maschere finzionali dello scrittore che vengono rivolte dall’esterno all’interno per rivelare la verità dell’individuo. Eppure, anche queste invenzioni, come tutti i dati, i testi e i concetti mentali convocati nell’Idiot, contribuiscono all’idea di un saggio totale. Nell’Idiot la transfinzionalità significherebbe il trasferimento di elementi diegetici dell’opera di Flaubert entro l’individuo Flaubert immaginato da Sartre. Ha sempre come oggetto l’opera di Flaubert un altro pseudo-saggio, che si limita al montaggio di un discorso narrativo e di un’argomentazione critica. Sia l’uno che l’altra possono essere definiti, seguendo Saint-Gelais, di tipo trans-finzionale393. Anzi, il legame tra narrazione e critica è più sottile. Le due scritture si presentano concatenate. Jean Améry elabora una narrazione transfinzionale a partire dai presupposti di una critica che si palesa, in maniera esplicita, anch’essa come transfinzionale. D’altronde, Charles Bovary, medico di campagna (1978) si può leggere anche come una personale risposta di Améry al volume di Sartre, che viene citato all’interno del libro: Quello che si può fare si limita forse a quanto segue: osservare la montagna di idee sartriana da lontano, in modo che all’orizzonte spirituale si evidenzino esclusivamente i contorni, ed evitare di perdersi in quel labirinto. Il Flaubert di Sartre è il Flaubert di Sartre, e tale resti. A ciascuno ora il compito di scoprire, secondo un percorso autonomo, il proprio Flaubert-Flaubert. E per quanto l’immagine possa essere di scarso valore, noi ne vediamo appunto uno394.

La relazione metatestuale coinvolge, dunque, non solo il romanzo di Flaubert, ma anche un altro saggio: il comune oggetto di riferimento sarà il personaggio di Charles Bovary, la cui singolarità sarebbe tra l’altro, per Améry, quella di non adeguarsi completamente al modello sar393 L’esemplarità del testo di Jean Améry che andiamo a considerare è confermata anche dal fatto che lo stesso Saint-Gelais ne discute la transfinzionalità in “Spectres de Madame Bovary: la transfictionnalité comme remémoration”, in Susan Harrow e Andrew Watts (a cura di), Mapping Memory in Nineteenth-Century French Literature and Culture, Rodopi, Amsterdam 2012, pp. 97-111. 394 Jean Améry, Charles Bovary, Landarzt. Porträt eines einfachen Mannes, Ernst Klett, Stuttgart 1978 (si cita dalla trad. it. di Enrico Ganni, Charles Bovary, medico di campagna, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 58).

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triano, cioè di non rispondere pienamente alle dinamiche del condizionamento sociale di Flaubert e del suo successivo superamento perché, come vedremo, per lo scrittore austriaco Charles costituisce piuttosto un problema di ordine morale per Flaubert: un’errata oggettivazione. Il Charles Bovary di Améry è composto di sei capitoli, che contengono due discorsi alternati: una narrazione transfizionale di Améry a partire da Madame Bovary che occupa i primi due capitoli, il quarto e l’ultimo, e una critica transfinzionale di Améry condotta sul personaggio di Charles Bovary, che interrompe due volte, nel terzo e nel quinto capitolo, la narrazione autodiegetica di Charles. L’inserzione critica transfinzionale alterna puntualmente la narrazione transfinzionale in due punti strategici, come si costituisse a digressione saggistica e critico-letteraria dell’intero volume. In realtà, sono i risultati della critica transfinzionale di Améry che formano le premesse per la costruzione di un’espansione narrativa del personaggio di Charles. In questo senso, la narrazione è discorso di camuffamento dei risultati dell’elaborazione critica: il Charles Bovary sarebbe dunque uno pseudo-saggio che falsifica la propria struttura interna, la gerarchia logica tra interpretazione e rappresentazione, per presentarsi innanzitutto sotto le forme di una narrazione. I primi due capitoli esordiscono infatti dando la parola a Charles: se nel primo capitolo, “Lamento funebre”, leggiamo il monologo patetico di Charles, che piange la perdita della moglie, nel secondo, “Ridiculus sum”, assistiamo al discorso dell’autocoscienza del personaggio, che ripercorre anche il proprio passato dalle notizie che escono dalla penna di Flaubert ed elabora, da questo, una prima espansione testuale del materiale narrativo originario: iniziano a comparire metalessi alquanto discrete, ad esempio un riferimento al padre di Flaubert. Questo Charles appare soprattutto molto diverso dall’originale395. Il terzo capitolo, “La realtà di Gustave Flaubert”, introduce invece il discorso impersonale del saggista, che toglie a Charles il ruolo di narratore autodiegetico:

395 Dal mondo da cui Flaubert racconta, il padre entra nel mondo raccontato: “Un campagnolo non molto intelligente e dai modi grossolani? Non la pensavano così i malati, quando mi aspettavano come se fossi addirittura il docteur Achille-Cléophas Flaubert dalla grande città di Rouen” (ivi, p. 35). Sul procedimento della metalessi, vedi ovviamente Gérard Genette, Figures III. Discours du récit, Seuil, Paris 1972, pp. 245 ss.

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E in che modo si potrà far riemergere dal pantano degli enigmi dove sembra malamente adagiata la realtà del povero Charles Bovary, un uomo che viene privato di tutto, dell’amore, dell’amata, dei beni, persino del ricordo, dato che è ormai sul punto di ammettere di aver vissuto in modo sbagliato? […] Solo così potevano andare le cose, afferma uno; ma no, così è del tutto inverosimile, ribatte l’altro. Charles ha addirittura favorito, in maniera poco convincente, quasi sospetta, le due relazioni adulterine della sua amata Emma396.

Charles diventa l’oggetto del discorso interpretativo di Améry, che tuttavia annuncia da subito l’ipotesi di una verità alternativa alla trama del romanzo. Il capitolo ripercorre quindi tutti gli indizi possibili, a partire dall’episodio delle lezioni di pianoforte cui Emma si recherebbe quando va a Rouen: Charles incontra la supposta insegnante di Emma, Mlle Lempereur, che mai ha sentito parlare della moglie397. Eppure, nel quarto capitolo (“Il borghese come amante”), Charles riprende la parola, per rileggere con un occhio diverso le lettere indirizzate a Emma dagli amanti. Anche se Améry abbandona la critica transfinzionale appena intrapresa, la transvalorizzazione398 operata su Charles, nella sua diversa (e inversa) connotazione caratteriale, proviene proprio dal discorso critico condotto nel capitolo precedente: è un’interpretazione che ha modificato la relazione ipertestuale precedentemente articolata nei due primi monologhi di Charles. Il personaggio di Améry è un Charles che ha integrato quello che il lettore Améry (come ogni lettore che è arrivato almeno a metà del romanzo di Flaubert) sa; ma in aggiunta, quello di Améry è un Charles informato e sospettoso, che diventerà poi coraggioso e senza scrupoli, infine violento399. Dopo un dialogo con Homais riguardo la natura del borghese e i suoi limiti morali, il Charles di Améry avvelena in un’osteria il secondo 396 Jean Améry, Charles Bovary, cit., p. 53. 397 C’è un’ovvia complicità tra critica transfinzionale e paradigma indiziario, anche se diventa particolarmente evidente in quei “saggi” che cercano contro-soluzioni a certi romanzi, stabilendo versioni concorrenti della diegesi (Vedi Richard Saint-Gelais, Fictions transfuges, cit., pp. 513-514). 398 Gérard Genette, Palimpsestes, cit., p. 514. 399 Dopo l’operazione fallita al povero Hippolyte, Charles si rivolge così a Emma: “L’operazione è andata male – e allora? A Rouen ho visto più di un paziente morire sotto le mani ben curate del docteur Achille-Cléophas Flaubert” (Jean Améry, Charles Bovary, cit., p. 106).

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amante di Emma, Léon Dupuis: una scena del crimine che vede il medico intento a sviare le indagini e improvvisare sul posto una diagnosi di morte da colpo apoplettico, un’improvvisa sincope che avrebbe colpito il suo commensale. La parte finale del capitolo annuncia il processo a Charles, dove la voce dell’accusa prende la parola e dichiara che egli non solo ha ucciso anche l’altro amante di Emma, Rodolphe Boulanger, con le stesse modalità criminali, ma che ha anche compiuto un “reato di necrofilia”400, che si preciserà come vendetta estrema ai danni dei cadaveri dei due uomini. Dall’explicit del capitolo, sembra dunque che seguirà a questo un resoconto processuale: “«La parola all’imputato. Charles Bovary, borghese e amante, si giustifichi»”401. Invece, il quinto capitolo, “La realtà di Charles Bovary”, torna al discorso saggistico con un “noi” che si ricollega direttamente al terzo, saltando il capitolo di mezzo: “Torniamo a chiederci: che senso ha parlare di realtà di una figura letteraria?”402. Mentre ci aspetteremmo la deposizione di Charles sul banco degli imputati403, Améry pare intraprendere una vera e propria arringa di difesa del personaggio modellato da Flaubert, su quel medico di campagna “che avrà forse avuto modo di incontrare o sul quale si sarà magari sdegnosamente espresso il padre”404, ma che invece lo scrittore avrebbe dovuto trattare con più indulgenza, completandone la figura con una maggiore aderenza “realistica” e rappresentandolo nell’utile ruolo di medico presso gli agricoltori del contado. Per Améry, Flaubert è dunque colpevole sul fronte del realismo letterario: “Tutto ciò che avrebbe potuto, dovuto costituire la realtà di Charles, fu reso illeggibile, fu nascosto dietro scarne allusioni”405; “Flaubert non ha voluto osservare la realtà di quest’uomo né nella fede (o nella superstizione) di una conoscenza ‘scientifica’, né in una soggettività vissuta, una soggettività che egli ha arbitrariamente attribuito solo a Emma, Emma che era lui stesso”406. 400 Ivi, pp. 95-96. 401 Ivi, p. 99. 402 Ivi, p. 100. 403 Dopo Madame Bovary e il saggio di Sartre, anche il processo ai danni di Flaubert per oscenità entra a far parte – almeno come modello da imitare – delle relazioni metatestuali intrecciate dal Charles Bovary di Améry. 404 Ivi, p. 103. 405 Ivi, p. 117. 406 Ivi, p. 105.

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L’arringa nel tribunale della finzione la troviamo nell’ultimo capitolo, “J’accuse”, in cui Charles si dichiara colpevole e accetta la condanna a morte. Sono gli eventi diegetici alternativi e aggiunti da Améry che portano Charles alla sbarra. Se questo non nasconde le proprie responsabilità, anzi le confessa, tutto il suo discorso diventa un’invettiva, come in una sorta di tribunale postumo, contro lo stesso Flaubert: Je vous accuse, Monsieur Flaubert! La accuso perché ha fatto di me un babbeo incapace di unire passion et vertu. […] La accuso di aver infranto il patto che prima di accingersi a narrare la mia storia aveva stretto con la realtà: perché io ero più di quel che ero, al pari di ogni essere umano che, giorno dopo giorno, ora dopo ora, opponendosi agli altri e al mondo, esce da se stesso, per negare ciò che era e divenire ciò che sarà407.

Se la transfinzionalità si distingue dall’ipertestualità genettiana – a detta di Saint-Gelais – proprio per il fatto di “occultare” i legami tra testo e testo408, il Charles Bovary di Améry rappresenta un ottimo esempio di pseudo-saggio, in cui interviene un occultamento dell’interpretazione critica: ovvero l’incastro di una procedura di “critica transfinzionale” all’interno di una narrazione alternativa del personaggio di Flaubert. Il Charles Bovary è un saggio romanzesco perché costruisce un personaggio romanzesco in proprio, a partire da un’analisi critica e da un’interpretazione dell’ipotesto. Ma se, da un verso, si tratta di un tentativo di combinare critica letteraria e scrittura narrativa in una realizzazione autonoma, dall’altro, il montaggio sequenziale dei due discorsi non esplicita la relazione tra critica (transfinzionale) e l’ampliamento narrativo. In sostanza, l’incastro resta un mascheramento che conferisce al libro il carattere di pseudo-saggio, laddove l’Idiot di Sartre riproponeva ogni tipo di discorso in un superamento della scrittura, delle diverse scritture, verso il tentativo della totalizzazione. Améry non ricerca una forma letteraria che sia dialettica; piuttosto, esacerba il contrasto tra scrittura critica e scrittura creativa: la prima interpreta le scelte prospettiche di un’altra scrittura, quella di 407 Ivi, p. 137. 408 Richard Saint-Gelais, “Spectres de Madame Bovary”, cit., p. 99.

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4. Il saggio romanzesco

Flaubert, come una mancanza del loro autore, mentre la seconda s’impegna a redimere quelle stesse scelte per aggiustare il romanzo Madame Bovary, attraverso una trasformazione dell’ipotesto. Entrambi gli pseudo-saggi mostrano come la tentazione di andare oltre i limiti del linguaggio critico non possa realizzarsi passando per la sola forma romanzesca, ma richieda almeno qualche camuffamento della realtà degli ipotesti, come se l’immaginazione e l’interpretazione non potessero più, negli anni Settanta, rimanere distinte.

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5. Il saggio parallelo: la competizione della riscrittura

5.1. Indizi di testi fantasma Per L’Idiot de la famille di Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir ha parlato di un’investigazione poliziesca indirizzata a risolvere il mistero della genesi letteraria di Flaubert409. Se l’idea di un “romanzo investigativo” è certamente riduttiva per l’opera di Sartre, esistono però altri pseudo-saggi che utilizzano un metodo non semplicemente “investigativo”, ma riconducibile a quel “paradigma indiziario” che Carlo Ginzburg ha trattato in un famoso saggio degli anni Ottanta: una tecnica di analisi del dettaglio applicata in campo artistico, nonché sociale e psico-analitico, e di cui la filologia e la critica testuale fanno da sempre ampio uso. Già Sigmund Freud aveva analizzato la statua di Mosè scolpita da Michelangelo insistendo sui dettagli apparentemente secondari e riferendosi, tra l’altro, a quello stesso Giovanni Morelli a cui si deve l’invenzione della tecnica indiziaria applicata all’attribuzione artistica410. Si tratta insomma dell’imposizione di un nuovo modello epistemologico, databile agli anni Settanta dell’Ottocento, che Ginzburg collega all’introduzione del sistema di registrazione delle 409 “È un romanzo con suspense, un’investigazione poliziesca che porta alla soluzione di questo enigma: come si è fatto Flaubert?” (Simone de Beauvoir, Tout compte fait, Gallimard, Paris 1972, p. 55). 410 “Io credo che il suo metodo sia strettamente apparentato con la tecnica della psicoanalisi medica. Anche questa è avvezza a indovinare cose segrete e nascoste in base a elementi poco apprezzati o inavvertiti, al rimasuglio – ai ‘rifiuti’ – dell’osservazione” (Sigmund Freud, “Il Mosè di Michelangelo” [1913], in Id., Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, trad. it. di Silvano Daniele et al., Bollati Boringhieri, Torino 1991, p. 198). Tra l’altro, in questo articolo Freud fa ampio uso di una “fantasia” propria che completa “il processo” dell’analisi (ivi, p. 200) e giunge a una descrizione temporale della statua, fino all’interpretazione psicoanalitica della “rabbia” di Michelangelo: si potrebbe intendere come uno pseudo-saggio in cui l’analisi, come interpretazione alternativa a quella estetica, è nascosta dalla descrizione dettagliata del Mosè.

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impronte digitali con cui la società moderna mette a punto un metodo di riconoscimento dei criminali apparentemente “infallibile”. Entrambi i sistemi di identificazione – artistico e criminale – si basano sulle caratteristiche più personali degli individui. Per Ginzburg non si tratta di una coincidenza, ma di una visione specifica della realtà che appare in quel periodo: una realtà che tende a mostrarsi “opaca”, ma in cui emergono “segni, indizi” che consentono ancora di interpretare il mondo411. Molti saggi critici hanno costruito l’argomentazione attorno al paradigma indiziario e non sempre per scopi espressamente filologici. Si sono rivolti all’esterno del testo, per indagare proprio quella realtà opaca che non si lasciava altrimenti decifrare. Ad esempio, Serena Vitale, in Il bottone di Puškin (1995), utilizza il metodo indiziario per ricostruire la vicenda biografica di Puškin, stabilendo le cause che portarono al duello e alla morte del poeta. La studiosa si serve di ricerche d’archivio e analisi documentaria, fornendo nondimeno un ritratto dello scrittore in un periodo preciso, così come della scena aristocratica e letteraria di San Pietroburgo e della conflittualità dei suoi protagonisti412. Altri saggi si sono invece rivolti all’interno del testo, applicandovi il paradigma indiziario per una ricerca “sintomatica”. Ad esempio, in Histoire extraordinaire. Essai sur un rêve de Baudelaire (1961), Michel Butor intraprende l’analisi di una lettera in cui Charles Baudelaire racconta un sogno: crea così un commento tematico, che mira a interpretare le immagini trascritte da Baudelaire alla luce della relazione intertestuale con la sua 411 “Se le pretese di conoscenza sistematica appaiono sempre più velleitarie, non per questo l’idea di totalità dev’essere abbandonata. Al contrario: l’esistenza di una connessione profonda che spiega i fenomeni superficiali viene ribadita nel momento stesso in cui si afferma che una conoscenza diretta di tale connessione non è possibile. Se la realtà è opaca, esistono zone privilegiate – spie, indizi – che consentono di decifrarla” (Carlo Ginzburg, Miti, emblemi, spie. Morfologia e storia, Einaudi, Torino 1986, p. 191); “[T]racce magari infinitesimali consentono di cogliere una realtà più profonda, altrimenti inattingibile. Tracce: più precisamente, sintomi (nel caso di Freud) indizi (nel caso di Sherlock Holmes) segni pittorici (nel caso di Morelli)” (ivi, pp. 164-165). Sul paradigma indiziario tra Morelli, Freud, Ginzburg si veda Mario Lavagetto, Lavorare con piccoli indizi, Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp. 22-26. 412 “Non siamo narratori onniscienti, ma solo pazienti restauratori di un mosaico a cui mancano numerosi, troppi tasselli. Intorno alla scarna manciata di tessere residue – alcune lettere, alcuni brani di memorie, i concisi e spesso enigmatici appunti […] – ci sforziamo di ricostruire le linee e le tinte di un disegno ormai sfigurato dal tempo. Ci guida la logica, la lunga intimità di studio con i protagonisti della vicenda che raccontiamo” (Serena Vitale, Il bottone di Puškin, Adelphi, Milano 1995, p. 211).

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opera letteraria. In tal modo, il sogno offre il pretesto per interpretare tutta l’opera di Baudelaire413. In entrambi i casi siamo di fronte a un metodo indiziario impiegato in un saggio critico. Esistono però casi in cui tale metodo dà luogo non solo a una ricostruzione storico-biografica o a un commento testuale che riconduce il disegno “opaco” a un’immagine psichica, ma anche alla scrittura alternativa di un testo che si pone, o viene posto dal saggista, in modi oltremodo opachi. In La verità sul caso D. (1989) Carlo Fruttero e Franco Lucentini si concentrano sugli indizi disseminati nel romanzo incompiuto di Charles Dickens, Il mistero di Edwin Drood, uscito in sei fascicoli mensili dall’aprile al settembre 1870 (anche dopo la morte dell’autore avvenuta in giugno). Fruttero e Lucentini non ne offrono una continuazione narrativa, al pari delle soluzioni proposte da molti scrittori, ma costruiscono una cornice ugualmente narrativa in cui i più famosi detective della letteratura si ritrovano insieme al fittizio convegno romano Completeness is All. An International Forum on the Completion of Unfinished or Fragmentary Works in Music and Literature414. Il sottotitolo del volume, Romanzo, è un’indicazione paratestuale rivolta ai lettori per segnalare questa modalità di scrittura narrativa, così come Dickens compare in copertina come terzo autore del volume, assieme a Fruttero e Lucentini. Tuttavia, questa narrazione non è il reale completamento del romanzo di Dickens, ma il commento metatestuale dello stesso che si svolge in una cornice inventata. Per esporre tale commento sulla scena narrativa del convegno, gli autori presentano i due discorsi in modo parallelo: i capitoli del romanzo di Dickens si alternano, seguendo le originali uscite mensili, al racconto dei lavori del convegno, in cui i detective cercano di vagliare le ipotesi (originali o prese dalla letteratura critica, di cui si fa garante il Dr. Wilmot, diretto413 Michel Butor, Histoire extraordinaire. Essai sur un rêve de Baudelaire, Gallimard, Paris 1961 (trad. it. di Salvatore Stefanoni, Una storia straordinaria. Saggio su un sogno di Baudelaire, il Mulino, Bologna 1991). 414 “[P]er lo sconcertante Mystery di Dickens, in particolare, sono state escogitate non meno di 200 soluzioni diverse. […] La stessa discordanza delle soluzioni […] dimostra che i problemi sono stati affrontati per così dire artigianalmente, senza mezzi adeguati, senza un vero metodo” (Carlo Fruttero e Franco Lucentini, La verità sul caso D., Einaudi, Torino 2015, p. 8); “Sì, lettore! L’intraprendenza e la genialità dell’industria giapponese è riuscita a metterli insieme tutti, o quasi, i famosi specialisti dell’indagine, i maghi dell’intuizione e della deduzione, i signori della coincidenza strana, dell’omissione sospetta, i supremi decifratori di enigmi!” (ivi, p. 10).

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re del «Dickensian») che si possono determinare riguardo al delitto al centro del romanzo e all’identità dell’omicida. Rinunciando alla continuazione, La verità sul caso D. finisce per assumere la forma di un ampio commento testuale del romanzo di Dickens, che è riprodotto integralmente pur nella sua forma incompiuta. In questo caso, il parallelismo è una presentazione alternata dei due discorsi: montaggio strettamente funzionale al commento del Mistero di Edwin Drood, perché i “relatori” e i presenti al convegno possano “leggere” il testo e formulare, di volta in volta, le loro ipotesi sul piano metanarrativo del convegno. Si tratta dunque per entrambi i discorsi di una scrittura narrativa. Il libro di Fruttero e Lucentini non è uno pseudo-saggio in cui il discorso critico e il testo letterario creano una forma parallela, ma un parallelismo tra due discorsi omogenei. La verità sul caso D. resta così uno pseudo-saggio in cui l’analisi critica è contenuta in una scrittura narrativa, in cui il procedimento indiziario agisce al contempo come metodo di interpretazione e come modalità di racconto di quegli indizi, cioè di come essi vengono trovati dai detective del convegno dentro il romanzo di Dickens415. Da un lato, il metodo indiziario si rivolge contro la natura incompiuta del romanzo, perché mira a svelare il colpevole della scena di finzione, ciò che l’autorità dello scrittore, come unico garante dell’opera, non ha impresso sulla pagina. Venendo meno il termine ad quem della fine del testo, il romanzo stesso si candida a diventare il termine a quo dell’investigazione fittizia. Dall’altro, lo stesso universo finzionale di Dickens impedisce il compimento dell’indagine, poiché il suo testo, ancorché “opaco” e carico di indizi, è tuttavia interrotto e consente soltanto la proliferazione di soluzioni possibili. Rinunciando a tentare un compimento sullo stesso piano narrativo in cui giace la storia di Dickens, Fruttero e Lucentini scelgono l’uscita dal testo, che significa anche l’uscita dal mondo finzionale in cui Drood e i suoi indizi esistono e hanno valore indiziario per il lettore. Nell’epilogo, nonostante i numerosi “sospetti” e le tre diverse “tesi” sul colpevole dell’omicidio, la fine del mistero porta la narrazione all’esterno del testo di Dickens: la quarta tesi propone un’alternativa in cui si svela il “mistero” della morte dello stesso Dickens per 415 Donata Meneghelli definisce La verità sul caso D. un “saggio in forma di meta-romanzo poliziesco” (Senza fine. Sequel, prequel, altre continuazioni: il testo espanso, Morellini Editore, Milano 2018, p. 20).

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cause non naturali416. In tal modo, La verità sul caso D. mobilita un commento testuale che, se usa il metodo indiziario all’interno di un mondo di finzione (quello del romanzo originale e quello “reduplicato” del convegno), si orienta poi paradossalmente – in conformità al carattere parodico di tutta la scrittura di Fruttero e Lucentini – a indagare anche all’esterno del testo. Si tratta evidentemente di una strategia di scrittura parallela che mira non solo ad ampliare il testo incompiuto, servendosi delle ferree regole della logica indiziaria, ma anche a problematizzare i livelli di realtà, testuale e biografica, e il loro statuto ontologico autonomo. Con testo parallelo, possiamo generalmente intendere il montaggio di due discorsi eterogenei di cui uno resta sempre un tentativo di riscrittura dell’altro. Tale riscrittura può restare, appunto, totalmente nel campo generico dell’originale, come la narrazione, oppure può anche essere una riscrittura eterogenea, che si sviluppa cioè attraverso un discorso ad esempio critico e metatestuale. Se nella Verità sul caso D. la narrazione del convegno contiene – come ogni tentativo di riscrittura – un’interpretazione dell’ipotesto e un commento testuale puntuale, che segue la lettura da parte dei convegnisti delle puntate del romanzo, in altri due casi che considereremo troveremo due costruzioni parallele che non creano una cornice finzionale in cui il montaggio dei testi – metatesto e ipotesto – si compia. Le riscritture di Pinocchio da parte di Giorgio Manganelli e di Sarrasine da parte di Roland Barthes rappresentano modalità di lettura che vogliono restare parallele ai loro ipotesti, porsi sullo stesso livello della loro narrazione e agire, qui, con un’attività di lettura che sfida l’ipotesto fino alla riscrittura, ma senza impiegare un discorso davvero di tipo narrativo per la decifrazione indiziaria e per la strutturazione del proprio testo. Restano nell’ambito del commento e della relazione metatestuale, insomma, liberandoli semmai – se così si può dire – dalla cornice e dal controllo della meta-narrazione. Per questo, a differenza delle altre tipologie di pseudo-saggio, il saggio parallelo non contiene, non nasconde, non 416 Carlo Fruttero e Franco Lucentini, La verità sul caso D., cit., pp. 384-396. “Fin dal principio (dice dunque Poirot) questo convegno s’è svolto per così dire all’insegna del plagio […] siamo nel campo dell’imitazione letteraria e della pura fiction. Il plagio comincia a farsi serio e la coincidenza stranissima, quando vediamo la realtà imitare la finzione” (ivi, p. 398).

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camuffa, al proprio interno, il discorso critico, né trascende questo e gli altri linguaggi verso la forma totalizzante del saggio romanzesco. Il saggio parallelo permette infatti di considerare lo pseudo-saggio come una forma in cui il particolare e l’indiziario sono frutto di un’attività collaborativa tra commento e ipotesto e che fanno, della riscrittura che ne consegue, una forma piuttosto de-personalizzante della lettura, lontana dalla rappresentazione dell’individuo-lettore, come negli pseudo-saggi dialogici e nell’autoritratto, e più vicina al tentativo di oggettivazione della scrittura elaborato da Sartre per Flaubert (e come risposta di quest’ultimo alla “prigione” della realtà). Le riscritture di Manganelli e di Barthes hanno infatti confini piuttosto precisi, che non sembrano riconducibili davvero alle pratiche dell’estensione testuale o, in generale, dell’ipertestualità. La riscrittura pseudo-saggistica non è, innanzitutto, un testo che ha esistenza autonoma, ma si relaziona, sulla pagina, attraverso un parallelismo con l’ipotesto che ne delimita: 1) le possibilità generali d’intervento, solitamente nel non-detto; 2) la capacità fabulatoria, ridotta all’allusione di alternative o di percorsi paralleli e non interessata alla costruzione di una narrazione alternativa; 3) la forma non continua, privilegiando il saggio parallelo una costruzione frammentaria; 4) l’inizio e la fine, poiché la riscrittura rispetta i confini prestabiliti dall’ipotesto. Il saggio parallelo ospita insomma, al proprio interno, un ipotesto e al contempo un altro testo, un testo “possibile”, che Michel Charles ha chiamato più propriamente un testo “fantasma”: un testo secondo, che viene sviluppato attraverso “enunciati concreti” all’interno di un testo primo417. Il saggio parallelo è una forma di pseudo-saggio in cui la pratica di ricostruzione dell’attività della lettura e della critica non si limita più alla relazione metatestuale, nascondendo la propria auto-rappresentazione in altre forme discorsive, ma diventa vera e propria riscrittura, anche se mostrata in modalità più che altro discrete e “fantasmatiche”: proiettive di qualcosa, significati ricostruibili nell’ipotesto attraverso un’operazione critica e meta-testuale che usa una 417 “L’elemento fantasma nasce dall’incontro tra un testo e una lettura erratica. Si sviluppa da una parola […], da qualche enunciato autonomo […], ma anche sulla base di un ritaglio inedito del testo infestato. La mia lettura, per il solo fatto di avere un ritmo particolare, è perfettamente in grado di produrre un altro testo, la cui esistenza è quindi decisamente problematica” (Michel Charles, Introduzione allo studio dei testi (1995), cit., p. 206).

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metodologia indiziaria; la stessa che Mario Lavagetto suggerisce di seguire quando afferma – commentando il passo di Julien Gracq da me citato all’inizio dell’introduzione – che si tratta d’inseguire dei “fantasmi reali […] le cui tracce sono reperibili nel testo perché è stato lo scrittore a organizzarne e a prevederne il reperimento; o perché sono un residuo preterintenzionale, ma un residuo scritto, rilevabile, circoscrivibile, rispetto a cui il testo conserva non tanto un principio astratto di autorità, ma un potere di verifica e regolazione”418. Per chiarire ulteriormente questa relazione “parallela”, conviene riprendere un altro caso di pseudo-saggio, quello offerto da Glas (1974) di Jacques Derrida, il cui testo è strutturato secondo due colonne di sviluppo parallele a livello tipografico (una a destra e una a sinistra), ma che a differenza di Manganelli e di Barthes si propone come “infinito”, senza né inizio né fine (manca cioè tanto la maiuscola d’inizio quanto il punto fermo finale). Nella premessa alla ristampa del 1995, Derrida precisa che, benché l’analisi della parola glas costituisca “nelle virtualità ritorte e troncate del suo ‘senso’”419 il filo conduttore del volume, in questo vi sono “[p]rima di tutto: due colonne. Troncate in alto e in basso e tagliate nei fianchi: incisioni, tatuaggi, incrostazioni. Una prima lettura può essere fatta come se due testi, drizzati uno contro l’altro o uno senza l’altro, non comunicassero tra di loro”. Derrida ipotizza che, tra le due colonne e attraverso altri “interstizi”, i testi siano in grado di rispondersi reciprocamente, dando vita a un terzo testo “fantasma”, prodotto da questa struttura: “[t]ra le due, il battente di un altro testo, si direbbe un’altra ‘logica’”, con cui i testi “si raddoppiano a più non posso, si penetrano, si incollano e si scollano, passando l’uno nell’altro, tra l’uno e l’altro”420. Di questo testo fantasma Derrida non restituisce l’integrità discorsiva, ma il lacerto, il “brano”: se “è ovvio che questi 418 “[L]a proliferazione infinita dei testi virtuali è senz’altro seducente, ma in una simile nebulosa il lettore rischia non solo di perdere le tracce di chi lo ha preceduto, ma di perdere le proprie o di non riconoscerle” (Mario Lavagetto, Lavorare con piccoli indizi, cit., p. 45). 419 Jacques Derrida, Glas. Campana a morto, Bompiani, Milano 2006, p. 41. Si riportano tra parentesi quadre le pagine dell’edizione originale del 1974 (in questo riferimento assenti, perché la premessa citata è del 1995). 420 Ivi, pp. 39-41. All’inizio di Glas si ribadirà: “Due colonne disuguali, dicono, in cui ognuna avvolge o inguaina, ribalta senza calcolo, rivolge, rimpiazza, rimarca, coincide con l’altra. […] La circolazione infinita dell’equivalenza generale riconduce ogni frase, ogni parola, ogni moncone di scrittura […] all’altro” (ivi, p. 47 [p. 7]).

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brani non possono legarsi”, è perché “[l]’oggetto della presente opera, come pure il suo stile, è il brano”421 nel senso di lacerto testuale separato dal tutto organico, ma che può ancora “innestarsi”422 nell’infinità. Nondimeno, proprio la scelta di un classico come Hegel – testo “fessurato” che produce, al di là della “chiusura circolare della sua rappresentazione”, un “resto di scrittura”423 – e di un moderno come Genet serve a Derrida per creare uno scontro tra enunciati eterogenei e per mostrare che, in Glas, il commentatore non fa altro che “citare”, ma nel senso di “spostare l’aggiustamento sintattico intorno a una piaga fisica, reale o immaginaria”424. Il testo fantasma non appare mai in Glas: è supposizione, non è davvero trascritto. Come Glas, sebbene non in maniera così evidente, anche Barthes e Manganelli producono una riscrittura pseudo-saggistica che possiamo definire fortemente anti-soggettiva, nel senso che è rivolta contro l’idea di un soggetto come ente proprietario e creatore dei testi. Sempre commentando il metodo di Morelli in un noto libro del 1979, Christopher Lasch ritrova nell’attenzione verso i tratti individuali la nascita di un sistema di autocontrollo dell’espressione involontaria, dal momento che “[l]e apparenze esterne […] rivelavano involontariamente l’essenza interiore dell’individuo”425. Il paradigma indiziario parteciperebbe a un nuovo modello della soggettività in epoca moderna, che favorisce l’esposizione e il riconoscimento dei caratteri, in particolare la loro attribuzione all’individuo. Benché il saggio parallelo possa impiegare un procedimento indiziario volto a esplicitare i sensi “opachi” del testo, esso nondimeno rivolge tale metodo al di fuori del paradigma indiziario analizzato da Ginzburg. Non siamo più nell’ambito di un io situato e situabile nello spazio della sua singolarità, un soggetto distaccato e in grado di esercitare un controllo strumentale: quell’io “puntiforme” che, secondo Charles Taylor, costituisce la forma del controllo della coscienza su tutta la percezione, a partire dall’e-

421 Ivi, p. 559 [p. 135]. 422 Ivi, p. 563 [p. 136]. 423 Intervista del 1971 a Jean-Louis Houdebine e Guy Scarpetta, cit. in Jacques Derrida, Glas, cit., p. 18. 424 Ivi, p. 983 [p. 241]. 425 Christopher Lasch, La cultura del narcisismo: l’individuo in fuga dal sociale in un’età di disillusioni collettive (1979), Bompiani, Milano 1981, p. 108.

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poca moderna e specialmente da Locke, e diventa anche una forma di disciplina per l’io stesso426. La riscrittura è una scrittura che – almeno in parte – non esibisce un individuo particolare, il quale accentra su di sé il meccanismo della lettura e della percezione dell’ipotesto. Riassumendo quanto riportato nel primo capitolo, se il “cartesianesimo ci dà una scienza del soggetto nella sua essenza generale”, Montaigne ha per obiettivo “quello di identificare l’individuo nella sua irripetibile differenza”427: “Cartesio richiede un distacco radicale dall’esperienza comune; Montaigne sollecita un maggiore radicamento nella nostra particolarità”428. Se il saggio, come altre forme letterarie, ha fatto proprie tanto la disciplina cartesiana quanto la “scoperta di sé” di Montaigne, il paradigma indiziario non entra nello pseudo-saggio al fine di rappresentare l’evidenza del particolare come forma di controllo del soggetto sulla realtà e del soggetto verso se stesso. Il saggio parallelo mette in scena una “soggettività decentrante”, nella quale il “decentramento non è un’alternativa all’interiorità; ne è il completamento”429. Il completamento si rivolge a un’attività intellettuale, come quella della lettura critica, che si manifesta all’interno del testo; quindi, è piuttosto il completamento di un testo spogliato del suo soggetto, del suo originario autore; ovvero il completamento di questo testo tramite la creazione, da parte del saggista, di un testo completo in se stesso. Il saggio parallelo insegue in definitiva una nuova idea di testo. Quando viene interrogato sul Flaubert di Jean-Paul Sartre e sulla speranza del suo autore che il libro potesse leggersi “come un romanzo”, Roland Barthes risponde in maniera solidale: Comprendo molto bene questo desiderio, poiché non credo affatto nella separazione dei generi. Credo che ciò che è ancora chiamato il discorso del saggio o della critica sarà oggetto di una rielaborazione, di una profonda sovversione che sta cominciando a essere esplorata, mentre ora di romanzi, grosso modo, non possiamo più scriverne […]. La nozione di testo includerà inevitabilmente il saggio, la critica, e in-

426 Charles Taylor, Radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna (1989), Feltrinelli, Milano 1993, p. 220. 427 Ivi, p. 231. 428 Ivi, p. 232. 429 Ivi, p. 567.

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fine ciò che è stato finora chiamato discorso intellettuale o addirittura scientifico430.

Se Sartre pensa di poter scrivere uno studio che attinga alla verità filosofica anche per tramite di una mediazione romanzesca, Barthes condivide l’idea di una cooperazione tra generi in un tentativo non più circoscritto a uno studio specifico, come quello di Sartre su Flaubert, ma lanciato verso una nuova interpretazione della scrittura: il Testo, di cui la riscrittura, almeno per quanto riguarda S/Z, ne è la forma di completamento. “[I]l Testo chiede che si tenti di abolire (o almeno di attenuare) la distanza tra scrittura e lettura, certo non intensificando la proiezione del lettore sull’opera, ma collegandoli entrambi in una stessa pratica significante”431. Certamente per Sartre una nozione come quella del Testo rischierebbe di porre un freno inaccettabile alla dialettica interna dell’individuo, cioè quella legata all’affermazione della libertà come somma possibilità esistenziale432, mentre per Barthes e anche per Manganelli433 il testo, in quanto forma de-personalizzante, è la realizzazione dell’altra faccia di una “totalizzazione” incompleta, quella della relazione con la testualità, dalla quale lo stesso autore viene estromesso oggettivamente. Sia S/Z che Pinocchio: un libro parallelo sono due esempi di saggio parallelo in cui il metodo indiziario è al lavoro all’interno dei confini del testo: un testo che va rispettato nella sua estensione e che va completato, semmai, con un altro fantasma che il primo, in quanto “opaco”, proietta sull’attività di lettura, decifrazione e interpretazione. Questo testo fantasma, per far emergere l’attività della riscrittura, andrà inteso come un testo “camuffato”: il commento testuale sembrerà rivolgersi 430 Roland Barthes, “Sur la théorie”, intervista a «Vh 101» dell’estate 1970, in Id., Œuvres Complètes, a cura di Éric Marty, Seuil, Paris 2002, vol. 3, p. 691. 431 Id., “Dall’opera al testo” (1971), in Id., Il brusio della lingua. Saggi critici IV, Einaudi, Torino 1988, p. 63 (Œuvres Complètes, cit., vol. 3, p. 914). 432 “La topologia inerente allo strutturalismo limita l’individuo rifiutando tutto ciò che non appartiene al sistema. C’è un’alienazione dell’uomo a causa di una limitazione delle scelte possibili e Sartre ha tutte le difficoltà del mondo per accettare un sistema che implica una tale conseguenza” (Alain Goldschlager, L’Idiot de la famille: une théorie du langage, in «Cahiers de Sémiotique Textuelle», n. 5-6, 1986, p. 189). 433 Manganelli conosceva le opere di Barthes. I due s’incontrarono a Roma già nel 1966 (vedi la biografia di Tiphaine Samoyault, Roland Barthes, Seuil, Paris 2015, p. 418). Barthes ha forse ispirato Manganelli per il suo pseudo-saggio. Per uno sguardo complessivo sulla scrittura di Manganelli, rimando a Filippo Milani, Giorgio Manganelli: emblemi della dissimulazione, Pendragon, Bologna 2015.

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soltanto all’ipotesto originario, mentre in realtà si rivolge simultaneamente all’ipotesto e al testo fantasma creato dal saggista, a partire dall’ipotesto.

5.2. Roland Barthes, l’intertesto e Sarrasine Il Piacere del testo (1973) di Roland Barthes è sia una proposta metodologica che una produzione letteraria in cui il critico si propone di sospendere la Causa del testo, di abolire la frontiera tra scrittore e lettore: “non c’è dietro al testo qualcuno di attivo (lo scrittore) e davanti qualcuno di passivo (il lettore); non c’è un soggetto e un oggetto”434. Se, da un punto di vista ideologico, questa prospettiva rientra nell’intento, comune anche al Baudelaire e al Saint-Genet di Sartre, di disattivare il dispositivo mitologico dello scrittore “borghese” così come istituzionalmente inteso, S/Z, apparso tre anni prima, ne era già un caso applicativo435. Questo libro rappresenta infatti una svolta per lo stesso Barthes436. In un’intervista del maggio 1970, di poco precedente l’uscita di S/Z, l’autore invita a considerare il suo libro all’interno di una prospettiva di rinnovamento del gesto critico che si può far risalire fino a Critique et vérité (1966)437: 434 Roland Barthes, Il piacere del testo, in Id., Variazioni sulla scrittura, seguite dal Piacere del testo, Einaudi, Torino 1999, p. 85. 435 Si cita dalla traduzione italiana (Id., S/Z, Einaudi, Torino 1973), riportando tra parentesi quadre le relative pagine del testo francese incluso nelle Œuvres Complètes, cit., vol. 3. Rimando al mio Roland Barthes e la tentazione del romanzo, Morellini Editore, Milano 2013, pp. 141-185, per quanto riguarda le pratiche romanzesche di altre opere di Barthes che possono essere definite pseudo-saggi, come il Roland Barthes par Roland Barthes (1975), in cui la modalità del come se appare nel paratesto “[t]utto questo dev’essere considerato come detto da un personaggio di romanzo” e finisce per inscrivere questa possibilità in senso utopico, come si conviene allo pseudo-saggio: “il saggio si confessi quasi un romanzo” (Roland Barthes, Barthes di Roland Barthes, Einaudi, Torino 1980, p. 137 [Id., Œuvres Complètes, cit., vol. 4, p. 695]). 436 Su S/Z come momento culminante per Barthes (e per la sua fortuna) vedi soprattutto Claude Bremond e Thomas Pavel, De Barthes à Balzac. Fictions d’un critique. Critiques d’une fiction, Albin Michel, Paris 1998, pp. 48-80. Il saggio è stato fatto oggetto di almeno un’applicazione del suo stesso metodo. L’inizio di S/Z viene frammentato e analizzato con i suoi stessi codici da Ivan Darrault, “La stéréographie du discours scientifique: lecture sémiotique des dix premiers fragments de S/Z”, in Algirdas Greimas e Éric Landowski (a cura di), Introduction à l’analyse du discours en sciences sociales, Hachette, Paris 1979, pp. 193-207. Fra l’altro, per una lettura profondamente decostruzionista, vedi Jane Gallop, BS, in «Visible Language», vol. 11, n. 4, 1977, pp. 364-386. 437 “È scrittore colui per il quale il linguaggio costituisce un problema, che ne sperimenta la profondità, non la strumentalità o la bellezza. Sono nati così alcuni libri critici che si offrono alla lettura per le stesse vie dell’opera propriamente letteraria, quantunque i loro autori siano, per statuto, dei critici, e non degli scrittori. […] Lo

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Vorrei dire a questo proposito che, se in genere non mi piace la parola “saggio” applicata al lavoro critico (il saggio sembra essere un modo falsamente cauto di fare scienza), posso accettare la parola se è intesa come “testare [faire l’essai] un linguaggio su un oggetto, un testo”: si prova un linguaggio come si prova un indumento; meglio aderisce [colle], cioè più va lontano, e più si è contenti438.

Barthes vorrebbe evitare il termine “saggio” per indicare il (suo) moderno lavoro critico, a meno che non lo si intenda nell’accezione letterale degli Essais di Montaigne: cioè come prove, tentativi, esperimenti di una scrittura e di una nuova lingua da appoggiare sopra un altro testo. In una intervista, seguente l’uscita del libro, Barthes precisa che Introduction à l’analyse structurale des récits (1966) e S/Z corrispondono a due semiologie differenti, collocate agli estremi di un percorso fatto di aggiustamenti e di ripensamenti riguardo la tentazione di esplicazione totale del racconto da parte del primo strutturalismo. S/Z segna in questo senso un punto di valico in merito alle proposte metodologiche di Barthes. Soprattutto la relazione metatestuale del discorso critico sembra subire una svolta riformatrice: Le cause di questa mutazione (perché è più una questione di mutazione che di evoluzione) dovrebbero essere ricercate nella recente storia francese – perché no? – e anche nell’intertestuale, vale a dire nei testi che mi circondano, che mi accompagnano, che mi precedono, che mi seguono e con i quali, naturalmente, comunico. Non li cito, indovinate di quali testi si tratta. Sarebbe come sempre ritornare agli stessi nomi dello stesso gruppo439.

L’unica esplicita citazione di S/Z riguarderà soltanto l’articolo di Reboul440, a cui Barthes deve l’individuazione del tema simbolico della scrittore e il critico si incontrano nella stessa condizione difficile, di fronte allo stesso oggetto: il linguaggio” (Roland Barthes, Critica e verità, Einaudi, Torino 2002, p. 42 [vol. 2, p. 781]). 438 Id., “Sur S/Z et L’Empire des signes”, intervista con R. Bellour a «Les Lettres françaises» del 20 maggio 1970, in Œuvres Complètes, cit., vol. 3, p. 663. 439 Id., “Entretien (A conversation with Roland Barthes)”, intervista contenuta in Stephen Heath, Colin MacCabe e Christopher Prendergast (a cura di), Signs of the Times. Introductory Readings in Textual Semiotic, Granta, Cambridge 1971 (in Œuvres Complètes, cit., vol. 3, p. 1005). 440 “Avete potuto vedere che, in S/Z, contrariamente a qualsiasi deontologia, non ho ‘citato le mie fonti’ (eccetto l’articolo di Jean Reboul, a cui devo la conoscenza del

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castrazione nella novella Sarrasine di Balzac441. Il titolo scelto da Barthes subito annuncia, con quell’enigmatico e curioso asse trasversale che divide le due lettere, non solo una struttura bipartita dell’intero volume, un certo suo parallelismo interno, ma anche il tema simbolico della castrazione operante nel racconto di Balzac. Le due lettere del titolo sono le iniziali dei nomi dei due protagonisti, Sarrasine e Zambinella; in mezzo, quel segno grafico esemplifica l’interpretazione del critico, rappresentando la castrazione che interverrebbe nella storia e nella narrazione442. A ogni modo, se Barthes afferma a posteriori la presenza indiretta e nascosta di altri testi ancora, la relazione di commento con la novella viene a essere attraversata da altri linguaggi e rimandi citazionali, che evidenziano i reciproci rapporti intertestuali. In un altro contributo dello stesso anno di S/Z, L’analyse structurale du récit. À propos d’Actes 10-11 (1970), Barthes spiega che l’analisi critica non vuole individuare un senso del testo: [L]’analisi strutturale non può essere un metodo di interpretazione; essa non cerca di interpretare il testo, di proporre il senso probabile del testo; non segue il percorso anagogico verso la verità del testo, verracconto); se ho cancellato i nomi dei miei creditori (Lacan, Julia Kristeva, Sollers, Derrida, Deleuze, Serres, tra gli altri) – e so che avranno capito – è per marcare che ai miei occhi è l’intero testo, da una parte all’altra, che è citazionale” (Id., “Sur S/Z et L’Empire des signes”, cit., p. 663). 441 Prima di leggere Reboul, Barthes non aveva infatti trovato il giusto racconto: “Avevo iniziato […] quando ero a Baltimora a studiare le prime tre pagine di Un cuore semplice di Flaubert con lo stesso metodo. Poi mi sono fermato, perché mi sembrava un po’ arido, privo del tipo di stravaganza simbolica che ho trovato in Balzac” (ivi, p. 656). 442 Id., S/Z, cit., p. 100 [p. 207]. Il titolo si presta però a molte altre letture: una fra quelle non esplicitate dall’autore è l’affiancamento Barthe(S) – Bal(Z)ac: un anagramma che collocherebbe su un piano di parità i due scrittori e di conseguenza anche i loro testi. Risulta poi curioso che, in L’activité structuraliste (1963), Barthes spiegasse lo strutturalismo con quello stesso paradigma che utilizzerà per S/Z: la “nozione di paradigma è essenziale, a quanto pare, per capire cos’è la visione strutturalista: il paradigma è una riserva, il più limitata possibile, di oggetti (di unità), al di fuori della quale chiamiamo, con un atto di citazione, l’oggetto o l’unità che vogliamo dotare di un significato corrente; l’oggetto paradigmatico si caratterizza per stare in un certo rapporto di affinità e di dissomiglianza rispetto ad altri oggetti della sua classe: due unità dello stesso paradigma devono somigliarsi l’un l’altra in qualche modo affinché la differenza che le separa abbia l’evidenza di un lampo [éclat]: è necessario che s e z abbiano contemporaneamente un tratto comune (la dentalità) e un tratto distintivo (la presenza o l’assenza di sonorità) in modo che non attribuiamo in francese lo stesso significato a pesce [poisson] e a veleno [poison]” (Id, “L’activité structuraliste”, in Œuvres Complètes, cit., vol. 2, p. 469).

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so la sua struttura profonda, verso il suo segreto; e, di conseguenza, è fondamentalmente diversa da ciò che chiamiamo critica letteraria, che è una critica interpretativa, di tipo marxista, o di tipo psicoanalitico […] per essa [l’analisi strutturale], tutte le radici del testo sono all’aria; non deve dissotterrare queste radici per trovare la principale443.

Un nuovo discorso critico non deve più collegare senso e testi secondo un principio di causalità, ma deve mostrare come ogni singolo testo partecipi al discorso universale di altri e infiniti testi potenziali, e quindi di altrettanti sensi, secondo un rapporto indecidibile di attribuzione sistematica a uno soltanto di essi. La scrittura critica e il commento tradizionale devono adeguarsi alla modifica della normale relazione metatestuale. Così, la consueta combinazione di testo critico e citazione, con un testo-oggetto che s’inserisce tra le pieghe del discorso critico e lo interrompe per essere spiegato, risulterà invertita in S/Z; il testo-oggetto – il racconto di Balzac – non è più raccolto in parziali e isolate citazioni, ma invade completamente il testo-soggetto di Barthes; stavolta sarà il discorso critico quello che si insinua a far saltare la continuità del testo commentato, soffermandosi di frammento in frammento a discutere lo sviluppo di Sarrasine. Barthes chiama “lessie” i brani di volta in volta commentati, la cui divisione rimane un suo atto volontario e compiuto con un’interruzione soggettiva della continuità del racconto (il quale viene comunque riprodotto integralmente in fondo al volume)444. Una prima interpretazione si dà già nel momento in cui Barthes apre lo spazio per il proprio commento interrompendo l’ordine narrativo del racconto di Balzac: il saggio parallelo si ritrova a operare in un campo di frammentazione, tanto del proprio discorso quanto di quello dell’ipotesto. In aggiunta alle 561 lessie, il discorso critico è anch’esso frammentato in novantatré capitoli cui spetta il compito di articolare teoricamente i frammenti del commento a Sarrasine. Questi brani, formalmente autonomi rispetto al commento (non seguono in calce le lessie), interrompono il dialogo serrato tra i due testi nel connubio di lessia e commento sottostante.

443 Id., “L’analisi strutturale del racconto. A proposito di Atti degli Apostoli 10-11”, in Id., L’avventura semiologica, Einaudi, Torino 1991, pp. 146-147 [vol. 3, p. 461]. 444 “L’iscrizione in extenso del testo all’inizio o alla fine del commento valorizza fortemente le relazioni contestuali interne o le relazioni intratestuali” (Michel Charles, La lecture critique, cit., p. 148).

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Commentando linea per linea, il critico cerca di collegare ogni lessia al maggior numero possibile di altre con l’individuazione di codici comuni di propagazione dei sensi interni, ricavandone l’impressione di un’immensa pluralità della significazione dovuta alla fluttuazione dei codici che costituiscono quel racconto (da quello delle azioni che vi si compiono a quello dei simboli) fino a ottenere l’accumulo di accessi diversi a sensi sempre molteplici. In dispetto a quanto risulterebbe da una critica guidata dalle proprie predilezioni a scendere in specifici frangenti ritenuti più interessanti o significativi, Barthes non accetta che vi siano aspetti marginali e secondari nel racconto, soprattutto nel caso di narrazioni ben costruite e suturate in ogni aspetto diegetico come quella di Balzac. Più precisamente, nell’intervista del maggio 1970 l’autore lega la novità del suo metodo di analisi agli effetti di un nuovo modo di lettura dei testi: Uno dei vantaggi di queste analisi è che sono riuscito a far parlare il testo, senza farne lo schema e senza aver mai sentito il bisogno di farlo. In questo lavoro non c’è in realtà altra struttura che la mia lettura, il progresso di una lettura come strutturazione. In una parola, ho drasticamente abbandonato il cosiddetto discorso critico per entrare in un discorso di lettura, una scrittura-lettura [écriture-lecture]445.

L’intertesto sostiene questa scrittura-lettura. Se la lettura era considerata una pratica dotata di un suo valore e interesse speculativo già in Critique et vérité, in S/Z viene abolito quel desiderio di un proprio linguaggio che mutava il lettore in critico e divideva la lettura medesima dalla critica propriamente letteraria446. La lettura diviene adesso un processo di fruizione dell’opera, da cui deriva direttamente la produzione di una nuova scrittura, la quale conduce sia alla de-personalizzazione del lettore in quanto singolo fruitore447, sia all’eliminazione della pro445 Roland Barthes, “Sur S/Z et L’Empire des signes”, cit., p. 659. 446 “[I]l critico non può sostituirsi in nulla al lettore. […] Per il fatto che, anche se si definisce il critico come un lettore che scrive, ciò significa che questo lettore incontra sulla propria strada un temibile mediatore: la scrittura. […] Passare dalla lettura alla critica significa cambiare desiderio, desiderare non più l’opera ma il proprio linguaggio” (Id., Critica e verità, cit., pp. 61-62 [vol. 2, pp. 799-801]). 447 “In S/Z ho esplicitato non la lettura di un singolo lettore, ma quella di tutti i lettori messi insieme […]. La mia griglia, dal momento che stavamo parlando di una griglia, non è quella di un lettore, ma di tutti i possibili lettori, della lettura […]. È un libro

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prietà autoriale trattenuta dall’autore del testo448. Per capire come in S/Z venga abolita ogni divisione tra scrittura e lettura, conviene aprire il libro senza saltare la prima pagina; ci accorgeremo allora di un’altra sua componente paratestuale. Una riproduzione del dipinto Le Sommeil d’Endymion449 (1791) di Anne-Louis Girodet appare in copertina o viene inserita subito prima dell’inizio del testo (in genere viene conservata anche nelle traduzioni). In Sarrasine, il narratore di Balzac confiderà alla sua accompagnatrice (lessia 547 del commento di Barthes) che la figura dell’Endimione di Girodet è ispirata all’Adone dipinto in un quadro di Vien; non dobbiamo cercare questo nome nelle enciclopedie o nelle storie dell’arte; in Sarrasine apprendiamo che Joseph-Marie Vien non è solo un pittore nato nel 1716 e morto nel 1809, ma è anche l’aiutante del personaggio fittizio di Sarrasine nel rapimento del castrato Zambinella (lessia 460). Un quadro di questo Vien, quello che dovrebbe essere l’ispirazione per l’Endimione di Girodet, è intanto rimasto appeso in un boudoir del palazzo Lanty in cui si svolge il ballo iniziale: appare magicamente nel momento (lessia 108) in cui è notato dalla marchesa, la donna in compagnia del narratore. Costui le spiega che sta ammirando un ritratto della misteriosa persona di cui vorrebbe conoscere l’identità: una statua scolpita sulle membra del giovane Zambinella è stata infatti il modello per l’Adone di Vien, ricopiato su incarico dei discendenti di Zambinella (i Lanty) e di cui, nel frattempo, le tracce si fermano, a quanto ci dice il narratore. Costui ci sta implicitamente dicendo che quando Girodet copia Vien, qualcosa di Zambinella si trasferirebbe sulla tela dov’è dipinto l’Endimione. Questo spostamento di ordine percettivo, dal leggibile al visibile, lega assieme codice della letteratura e codice dell’arte come copie di un reale mancante, perché quel Zambinella resta introvabile tranne che nella finzione di Balzac450. Con il riferimento a Girodet o Vien, forse ecumenico in fondo!” (Id., “Critique et autocritique”, intervista con André Bourin a «Les nouvelles littéraires» del 5 marzo 1970 [Œuvres Complètes, cit., vol. 3, p. 645]). 448 L’ovvio riferimento è La morte dell’autore, il cui incipit è dedicato proprio a Sarrasine (Id., “La morte dell’autore” [1968], in Id., Il brusio della lingua, cit., pp. 51-56). 449 Id., S/Z, cit., p. 68 [p. 177]. 450 Come afferma lo stesso Barthes in S/Z: “Essendo la lettura una traversata di codici, niente ne può arrestare il viaggio; la fotografia del castrato fittizio fa parte del testo; risalendo la successione dei codici abbiamo il diritto di arrivare da Bulloz, in rue Bo-

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Balzac ricerca soltanto l’effetto di realismo storico; ma con il suo commento Barthes tenta innanzitutto di cancellare l’esistenza di un reale con cui fare i conti per la costruzione di una finzione. La copia resta l’unico oggetto di esperienza e il regno dei simboli dovrà considerarsi come l’unico reale di cui si può far parola. Sulla base di queste premesse, la scrittura critica deve costruirsi parallelamente a Sarrasine andando alla ricerca di una copia, di un fantasma del reale nascosto nell’ipotesto, che prende il nome di testo scrivibile: [I]l testo scrivibile non è una cosa, sarà difficile trovarlo in libreria. […] Il ri-scrivere non potrebbe consistere che nel disseminarlo, disperderlo, nel campo della differenza infinita. […] Il testo scrivibile siamo noi mentre scriviamo, prima che il gioco infinito del mondo (il mondo come gioco) sia attraversato, tagliato, fermato, plastificato da qualche sistema singolare (Ideologia, Genere, Critica) […]. Lo scrivibile è il romanzesco senza romanzo, la poesia senza la lirica [poème], il saggio senza la dissertazione, la scrittura senza lo stile, la produzione senza il prodotto, la strutturazione senza la struttura. Ma i testi leggibili? Sono dei prodotti (e non delle produzioni), formano la massa enorme della nostra letteratura451.

Nel campo del leggibile confluirebbero i testi classici in quanto opere che ormai possono essere soltanto lette, non più scritte452: sarebbero insomma il materiale dello scrivibile, che per la sua natura di testo in azione, in “produzione”453, si pone al di fuori e in concorrenza dei generi letterari. Il testo scrivibile trova il suo regime generico nel campo dell’intertestualità. Il testo leggibile viene usato da Barthes come corpo totalmente indiziario, entro cui risalire, seguendo le tracce lasciate su un singolo testo “classico”, fino al lontano sfondo del linguaggio (o di naparte, e di chiedere che ci venga aperta la cartella (probabilmente quella dei ‘soggetti mitologici’) dove scopriremo la fotografia del castrato” (ivi, p. 68 [p. 177]). 451 Ivi, pp. 10-11 [pp. 121-122]. 452 “Così si potrebbe dire che ogni testo classico (leggibile) è implicitamente un’arte di Piena Letteratura […] (in questo testo mai niente di perduto: il senso ricupera tutto) […]. Questa Piena Letteratura, leggibile, non si può più scrivere: la pienezza simbolica (culminante nell’arte romantica) è l’ultima incarnazione della nostra cultura” (ivi, p. 182 [p. 287]). 453 Come sottolineano Claude Bremond e Thomas Pavel, lo scriptible è al contempo letteratura e riflessione attiva sulla letteratura (De Barthes à Balzac, cit., p. 54).

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tutti i linguaggi) della cultura. Il rapporto tra testo del commento e ipotesto è insomma camuffato in un (nuovo) rapporto tra testo scrivibile e testo leggibile, nell’obiettivo, da parte di Barthes, di operare una critica “offensiva, quasi combattiva”, in cui “[u]n testo verrà utilizzato per scrivere un altro testo che non sarà più di critica letteraria. In altre parole, la distinzione tra l’opera letteraria e il commento critico potrebbe scomparire”454. Proprio per evitare una semplice relazione metatestuale di commento, Barthes non si accontenta di associare a una lessia una sua interpretazione, ottenuta con l’argomentazione dei dati testuali di partenza, ma individua dietro il frammento di Balzac un testo fantasma, che Barthes stesso non s’impegna a enunciare o articolare in un discorso narrativo, ma la cui esistenza è accertata dall’interpretazione indiziaria. Pertanto, il commento finisce per riferirsi al contempo ai due ordini, il testo leggibile e un testo scrivibile, che viene prodotto (come dichiarava sopra) mentre noi scriviamo. Ad esempio, all’ottantaseiesima lessia, il critico taglia la narrazione in modo da concentrarsi sul riso del vecchio Zambinella: “un riso fisso e immutabile, un riso implacabile e canzonatorio, come quello di una testa di morto” ha scritto Balzac. Barthes ne rilancia un prolungamento descrittivo: Il sorriso immutabile, raggelato [figé], porta all’immagine della pelle tesa (come in un’operazione di chirurgia estetica), della vita a cui manca quel po’ di pelle che è la sostanza stessa della vita. Nel vecchio, la vita è continuamente copiata, ma la copia presenta sempre il meno della castrazione (così le labbra a cui manca il rosso deciso della vita)455.

Il commento integra al testo di Balzac dettagli che Barthes crede mancanti, come se la descrizione di Balzac fosse troppo riduttiva rispetto ai molteplici sensi che può nascondere. Per dare una spiegazione più minuziosa e più esauriente di Zambinella da vecchio, il critico non ha altra scelta che cambiare il registro argomentativo per uno più descrittivo e riscrivere, per quanto accennata, un’altra anatomia del personaggio (o un altro personaggio), provvisto anche di pelle e labbra, e per di più di colore rosso. In sostanza, il critico può attribuire altri significati al te454 Roland Barthes, “Critique et autocritique”, cit., p. 648. 455 Id., S/Z, cit., p. 59 [p. 168].

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sto soltanto perché questi riguardano certi motivi che lo stesso Balzac non cita nell’originale. Barthes trucca il testo di Balzac, perpetuando una strategia di cui ha già tentato l’efficacia nelle Mythologies (1957) e che impiegherà di nuovo nella Chambre claire456. Nel caso corrente, il critico aggiunge con una mano qualcosa al suo ipotesto proprio nel momento in cui, con l’altra, lo mostra agli occhi dei lettori e per di più tramite un’immensa citazione volta soltanto a metterlo tutto in evidenza: un testo fantasma celato dietro la citazione, che emerge per essere preso in carico, al pari del lacerto balzacchiano, nella scrittura dell’intertesto barthesiano. Più avanti nel commento, quando si narra di come il maestro scultore Bouchardon prenda Sarrasine sotto la propria ala e lo educhi durante l’infanzia (lessia 172), Barthes attribuisce al precettore un codice simbolico, chiamato La mère et le fils, che gli conferisce un comportamento materno: “Bouchardon non sostituisce il padre, ma la madre, la cui mancanza (lessia 153) ha avviato il bambino verso la licenza, l’eccesso, l’anomia; come una madre egli indovina, raccoglie, assiste”457. Il commentatore spiega che si tratta di una castrazione preventiva compiuta da Bouchardon ma ordinata dal racconto, affinché Sarrasine fosse mantenuto nell’ignoranza riguardo i costumi internazionali e in particolare quelli dell’Italia papale (come l’assenza di attrici e la funzione dei castrati nei teatri e nelle corti). Nondimeno, il discorso critico infonde allo stesso Bouchardon sensibilità che dovrebbero essere materne, come 456 La foto di «Paris-Match» (n. 326, 23 giugno-3 luglio 1955) che Barthes utilizza come esempio per spiegare il funzionamento del mito borghese non è riprodotta nel saggio che chiude le Mythologies, e forse soltanto per permettergli di sostituire tramite una descrizione il bambino dell’immagine originale con un soldato nero. Per un bambino, non si sarebbe potuta desumere quella naturalezza che Barthes riconosce al mito moderno, perché la sua presenza sarebbe apparsa fuori contesto rispetto al quadro militare dell’impero coloniale francese: il saluto militare di un bambino africano non è lo stesso di quello di un adulto dacché non implica una partecipazione volontaria all’istituzione militare (Id., Le Mythe, aujourd’hui, in Œuvres Complètes, cit., vol. 1, p. 830). Ugualmente, Barthes non mostra la fotografia della madre nella Chambre claire proprio per sviluppare una narrazione che la sostituisca e ne inverta addirittura i rapporti familiari; al contempo, trucca con la propria descrizione un’altra immagine della madre stavolta riprodotta e commentata, ma in modo che essa non appaia essere quella originaria che vi si nasconde dietro (Id., La chambre claire, in Œuvres Complètes, cit., vol. 5, pp. 847-848 e pp. 873-874). Rimando al mio À la recherche d’une photographie perdue: apparitions, refoulements et censures de l’image d’Henriette Barthes dans La chambre claire, in «Between», vol. 5, n. 9, 2015. 457 Roland Barthes, S/Z, cit., p. 91 [p. 199].

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il dispiacere alla partenza di Sarrasine per completare il suo periodo di formazione da scultore in Italia: Il dolore, il timore di Bouchardon, è quello di una madre che abbia mantenuto il figlio in stato di verginità e lo veda improvvisamente chiamato a fare il servizio militare in un paese di calde passioni458.

Ma il dispiacere non è di per sé materno; è ammissibile che il maestro sia dispiaciuto per la separazione dall’allievo. Passando per questo sentimento dell’attaccamento, Barthes giunge a un altro collegamento e spiega che la vera funzione materna di Bouchardon è rappresentata proprio dalla castrazione. Non solo le descrizioni nei personaggi, ma anche certi codici simbolici e in particolare quello dominante della castrazione sono forme di un completamento, di una riscrittura. Così, come un “seme materno” trapasserebbe anche in Bouchardon dopo enormi semplificazioni, un’altra figura emerge più distintamente nella rappresentazione di Barthes: la Femmina Castratrice. Quando Sarrasine dice a Zambinella che detesterebbe una donna forte e una Saffo coraggiosa (lessia 443), Barthes commenta: Sarebbe difficile a Sarrasine identificare più chiaramente la donna di cui ha paura: è la donna castratrice, definita dal posto invertito che prende nell’asse dei sessi (una Saffo). Ricordiamo che il testo ci ha già dato qualche immagine di questa donna attiva: Mme de Lanty, la giovane donna amata dal narratore, e sostitutivamente Bouchardon, madre possessiva che ha rinchiuso il figlio lontano dal sesso459.

Barthes ha questo vantaggio: conosce tutto il racconto dalla sua lettura; pertanto, può rintracciare lo stesso codice simbolico anche presso personaggi lontani nella trama. Barthes è consapevole che si tratta di connotazioni ricostruite a partire dai vari personaggi e quindi propone una sorta di figura seconda, un vero e proprio personaggio “fantasma”, in grado di trasmigrare da un personaggio a un altro: la Femmina Castratrice. Più precisamente, l’autore ci spiega che la figura è “una configurazione incivile, acronica, di rapporti simbolici. Come figura, il personaggio può oscillare fra due ruoli, senza che questa oscillazione abbia 458 Ivi, p. 96 [p. 203]. 459 Ivi, p. 160 [p. 265].

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alcun valore, giacché ha luogo fuori dal tempo biografico […]. Come idealità simbolica, il personaggio […] non è che il luogo di passaggio (e di ritorno) della figura”460. Eppure, si tratta di una figura che nasce da un’argomentazione per sottrazione, che individua latenze non espresse nel testo e usa connotazioni proprie di certi personaggi per spiegarne altri. Barthes argomenta dell’esistenza delle figure sempre per sottrazione: Sarrasine non ha una madre, il giovane non sa degli attori castrati, la marchesa non conosce il segreto del vecchio Zambinella, il narratore non avrà ciò che desidera in cambio del suo racconto. Proprio nelle note preparatorie del corso su Sarrasine da cui scaturirà S/Z461, Barthes annotava che “il racconto è un tessuto predicativo senza soggetto, a soggetto migrante, evanescente. Chi parla non è né l’autore né il personaggio (quindi non è il ‘soggetto’), è il senso”462. Il capitolo settantasei, intitolato “Il personaggio e il discorso”, enuncia infatti il principio di solidarietà tra il discorso di Sarrasine e i propri personaggi, nei termini di un’intesa del senso: Così il discorso: se produce dei personaggi non è per farli giocare fra loro davanti a noi, è per giocare con loro, ottenere da loro una complicità che assicuri lo scambio ininterrotto dei codici: i personaggi sono dei tipi di discorso e inversamente il discorso è un personaggio come gli altri463.

Il commento ne riporta un caso concreto. Quando Sarrasine vede il soggetto del suo amore abbigliato da uomo durante un concerto nel palazzo di un ambasciatore, declina ancora al femminile la Zambinella perché vorrebbe continuare a credere all’inganno, ma viene ragionevolmente confutato da uno degli astanti (lessia 466). Però, osserva Barthes, il narratore aveva omesso ogni articolo al nome già alla lessia precedente: 460 Ivi, p. 66 [p. 175]. 461 Anche se, come afferma Barthes in un’intervista del 1971, “il libro S/Z è un oggetto completamente differente dal seminario S/Z, dato prima del libro all’École pratique des hautes études, benché si tratti dello stesso materiale concettuale” (Id., “Entretien (A conversation with Roland Barthes)”, cit., pp. 1013-1014). 462 Id., Sarrasine de Balzac. Séminaires à l’École pratique des hautes études 1967-1968, 1968-1969, a cura di Claude Coste e Andrew Stafford, Seuil, Paris 2011, p. 138. 463 Id., S/Z, cit., pp. 162-163 [p. 268].

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A sua volta, dopo il collega di Sarrasine, il discorso si mette al maschile, benché la verità non sia ancora stata rivelata né a Sarrasine né al lettore; è che il discorso, realista, si lega miticamente a una funzione espressiva: finge di credere all’esistenza anteriore di un referente (di un reale) ch’esso ha il compito di registrare, di copiare, di comunicare; ora, a questo punto della storia, il referente, cioè il sopranista, è già, nella sua materialità, sotto gli occhi del discorso: il discorso è nella sala, vede già la Zambinella vestita da uomo: sarebbe mentire un momento di troppo farne ancora un personaggio al femminile464.

Lo svelamento dell’identità della Zambinella procede da un indizio linguistico, l’assenza dell’articolo, e da un indizio descrittivo, il vestito. Ma il primo non rivelerebbe, per Barthes, il reale della Zambinella, quanto la Figura del Discorso, celata dal corpo femminile, e che appare già sul piano della rappresentazione della scena canora. Il discorso come “figura” raddoppia il discorso narrativo di Balzac soltanto a seguito di una deduzione di Barthes, che si basa ancora una volta sulla premessa di un’assenza: soltanto perché non era fuoriuscito un articolo dalla bocca del narratore; perché Sarrasine è letto da Barthes in tutto quello che non dice e che, invece, potrebbe dire al lettore, come farebbe d’altronde ogni altro testo se si assumesse come suo parametro metodologico la visione delle infinite reticolazioni dell’intertesto e come sua forma consustanziale una tenace “opacità”. I confini dell’ipotesto sono comunque rispettati dal commento, che deve arrestarsi laddove l’altro finisce. La volontà di completamento trova una invalicabile frontiera ipotestuale, benché, per Barthes, il testo fantasma sopravviva sempre nel campo dell’intertestualità: appunto, in altri testi. Al punto fermo di Balzac, il critico afferma infatti che la storia iniziata con Sarrasine non è finita, ma continua… in altri racconti (di Balzac). Quando il racconto arriva all’agnizione (lessia 552), la marchesa dice di essere rimasta disgustata dalle passioni umane e con tale scusa viola il patto narrativo, concedendo il nulla come premio al racconto del suo spasimante; anzi, aggiunge a capricciosa tutela della propria virtù che è sua intenzione prolungare questa condizione di astinenza per molto tempo ancora, fino alla completa purificazione. Strana questa ultima promessa – osserva Barthes – che subito rettifica: 464 Ivi, p. 166 [p. 272].

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Per molto tempo? No. Béatrix, moglie del conte Arthur de Rochefide, nata nel 1808, sposata nel 1828, e lasciata ben presto dal marito, condotta dal narratore al ballo dei Lanty nel 1830 – e colpita allora, dice lei, da una castrazione mortale – tre anni più tardi farà nondimeno una fuga in Italia col tenore Conti, avrà una celebre avventura con Calyste du Guénic per far rabbia all’amica e rivale Félicité des Touches, sarà ancora l’amante della Palférine, ecc.: la castrazione decisamente non è una malattia mortale, se ne può guarire. Solo che per guarirne bisogna uscire da Sarrasine, emigrare verso altri testi (Béatrix, Modeste Mignon, Une fille d’Eve, Autre étude de femme, Les Secrets de la princesse de Cadignan, ecc.). Questi testi formano il testo balzachiano465.

Anche se Sarrasine ha impresso cicatrici sui suoi personaggi, è sempre possibile una salvezza: vuoi che una figura prenda in carico le loro responsabilità perché soltanto lei ne guida, come una forza totalizzante, la comune intenzionalità; vuoi che un margine venga riaperto alla loro esistenza per strappare il tempo di un finale diverso dalla castrazione. Da qualche parte, c’è sempre posto nell’universo parallelo della Comédie humaine per far continuare una storia e trovare un momento in cui qualcuno riappare e compie la propria salvezza, aggiungendo un altro segmento a un tragitto che, se anche ben definito all’inizio, si può sempre allungare di qualche passo grazie ai mille stratagemmi della narrazione. Eppure, benché anche gli altri racconti della Comédie humaine si possano ricondurre sempre a questa opera totale e al campo dell’intertestualità, un’eventuale riscrittura prenderà la forma di altri testi fantasma, di altri pseudo-saggi. In definitiva, non basta al discorso di Barthes derivare logicamente le assenze dal racconto. Il critico crea una struttura fantasmatica del senso che procede parallela rispetto alla trama di Sarrasine. Mentre l’attenzione del lettore è indirizzata all’ipotesto nella sua forma più visibile, materiale, sezionabile – quella della citazione diretta ed esplicita di tutto il racconto di Balzac – Barthes legge un testo che gli appare “opaco” e in cui dietro sta un altro testo, da far riemergere come una proiezione sul piano della propria (ri)scrittura. Sappiamo che mettere in evidenza l’oggetto consente di nasconderlo meglio a tutti. Grazie all’evidenza di 465 Ivi, pp. 190-191 [pp. 295-296].

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un racconto riportato e trascritto minuziosamente nella sua interezza, e senza apparenti infingimenti, Barthes può aggiungere con l’immaginazione il testo fantasma tra le pieghe della frammentazione. In altre parole, se è difficile stabilire confini riguardo a ciò di cui è legittimo argomentare, se “l’argomentabile degli uni è l’immaginazione degli altri”466, Barthes problematizza anche i confini tra argomentazione e immaginazione all’interno della pratica del commento, facendo dell’argomentabile (anche) un luogo testuale immaginato e immaginario.

5.3. Giorgio Manganelli: il commentatore e Pinocchio Giorgio Manganelli chiama “indiziario” il suo Pinocchio: un libro parallelo (1977). In un’intervista a «La Repubblica-Libri» del 16-17 ottobre 1977, l’autore presenta il principio fondante del “commento testuale” impiegato nel libro in uscita; un commento tutt’altro che “tradizionale”: Un commento, nel senso tradizionale, cerca di rendere chiaro l’oscuro, chiarisce per esempio le singole parole da interpretare […]. Nel libro parallelo il documento viene adoperato in modo combinatorio e produce quindi degli elementi nuovi. In altre parole adopero ciò che c’è in Pinocchio come una serie di indizi. Gli indizi combinati insieme producono storie attendibili, ma non ne producono nessuna probabile467.

Se un precedente libro di Manganelli, Nuovo commento (1969), già si poneva in opposizione alla pratica del commento tradizionale, inventando un commento a un testo che non c’è, un testo che “sia di tanta nullità concettuale e morale da essere contestuale al nulla, o anche un nulla testuale”468, nel Pinocchio l’ipotesto è subito dichiarato: il racconto di Collodi (di cui non si contano le riscritture novecentesche469), da 466 Richard Saint-Gelais, Fictions transfuges, cit., p. 530. 467 Giorgio Manganelli, La penombra mentale. Interviste e conversazioni 1965-1990, a cura di Roberto Deidier, Editori Riuniti, Roma 2001, p. 38. 468 Id., Nuovo commento, Adelphi, Milano 1993, p. 126. Ma come scrisse in una lettera Italo Calvino, “il testo è Dio e l’universo […] l’universo come linguaggio, discorso d’un Dio che non rimanda ad altro significato che alla somma dei significanti” (lettera di Italo Calvino a Giorgio Manganelli ivi riprodotta, p. 150). 469 Intorno a quegli anni escono Commento alla vita di Pinocchio (1966) e La vita nova (1971) di Luigi Compagnone, l’adattamento per il teatro preparato da Carmelo Bene nel 1964, Contro Maestro Ciliegia (1977) del vescovo Giacomo Biffi, Pinocchio con gli stivali (1977) di Luigi Malerba.

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sempre oggetto d’interesse letterario da parte di Manganelli470. L’ipotesto non è ridotto semplicemente a una scena indiziaria, per la quale l’autore deve risolvere un enigma471 e fornire un’interpretazione critica, ma è letto come un deposito di non-detto, di disnarrato472, di dettagli che offrono una storia alternativa: in breve, l’ipotesto possibile di una (ri)scrittura, non solo di una relazione metatestuale. Si può osservare l’officina della lettura di Manganelli dai suoi lasciti documentari e dagli interventi tra le righe delle due copie utilizzate delle Avventure di Pinocchio. La sua lettura è impegnata in un sopralluogo iniziale della tenuta del testo; è sempre pronta a segnalare a margine della pagina o in mezzo alle parole le interruzioni delle “frecce” della narrazione: gli accenni o le omissioni, i personaggi o le descrizioni che possiedono un potenziale inespresso, eppure strozzato dalla fabulazione di un narratore che insegue soltanto il personaggio del burattino473. Manganelli indica sulle due copie tutto ciò che può servire per costruire filoni di lettura differenti dalle fasi con cui si sviluppa l’avventura 470 Vedi Clelia Martignoni, “Sulla genesi di Pinocchio: un libro parallelo: i materiali preparatori e altre questioni manganelliane”, in La “commemorazione”: Giorgio Manganelli a vent’anni dalla scomparsa, «Autografo», vol. 19, n. 45, Interlinea, Novara 2011, pp. 19-52. Si ricordino in particolare i suoi saggi Carlo Collodi: Pinocchio (1968) e La morte di Pinocchio (1970) (Giorgio Manganelli, Laboriose inezie, Garzanti, Milano 1986, pp. 309-315). Anche dopo il suo libro parallelo, Manganelli non ha chiuso i conti con il capolavoro di Collodi: all’intervistatrice Livia Giustolisi (che pubblicherà la conversazione su “Paese Sera” il 20 luglio 1981), l’autore dice che vorrebbe poter leggere la storia del personaggio di Lucignolo prima che incontri Pinocchio e quella completa della fatina (Id., La penombra mentale, cit., p. 111). 471 “Posso usare il testo come un detective userebbe il delitto” (ivi, p. 54) affermerà l’autore in un’altra intervista del 1979 a opera di Carlo Rafele: registrata il 25 luglio 1979, verrà pubblicata sulla rivista «Don Chisciotte» nel numero di aprile-giugno 1980 e, parecchi anni dopo, parzialmente in “La Repubblica” del 10 maggio 1992. 472 Il riferimento è a Gerald Prince, Narrative as Theme. Studies in French fiction, University of Nebraska Press, Lincoln-London 1992. 473 “Le storie parallele nascono dall’idea, già esposta da Manganelli in altri suoi testi, che il libro, per nascere, debba selezionare una linea narrativa, un percorso, una storia da privilegiare sulle altre potenzialmente narrabili. Applicando quest’idea a Pinocchio, Manganelli utilizza gli elementi della narrazione per indovinare le storie parallele, quei rami di vicenda che non sono sopravvissuti alla potatura dell’autore. È nelle storie parallele che gli oggetti del testo vengono usati, per tornare sull’immagine proposta da Manganelli, come gli indizi sulla scena di un delitto: a partire da pochi elementi si cerca di ricostruire porzioni di storia e colmare le ellissi” (Andrea Maiello, Geometrie del testo: il Pinocchio parallelo di Manganelli, in «Poetiche», n.s., n. 3, 2006, p. 464). Si veda anche Gianfranco Marrone, “Parallelismi come menzogna: riscrivere Pinocchio”, in Id., L’invenzione del testo. Una nuova critica della cultura, Laterza, Bari 2010, pp. 81-95.

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di Pinocchio474. In primo luogo, quindi, il Pinocchio di Manganelli è l’esplicitazione di contenuti narrativi effettivamente presenti nel testo commentato, come testimonia la pagina prefatoria (che chiamiamo così in mancanza d’altro, perché essa non ha titolo, ma precede l’inizio del testo di commento): Le parole così usate saranno simili a indizi – tra delittuoso e criptico – che il libro si è lasciato alle spalle […] direi piuttosto che Pinocchio è altamente indiziario, che è un libro di tracce, orme, indovinelli, burle, fughe, che ad ogni parola colloca un capolinea. Il parallelista […] alloggia tra innumerevoli prove, non sa di che. Questo sconcerto è essenziale. Esso gli consente di esercitare la regola aurea del parallelista, che è: “Tutto arbitrario, tutto documentato”475.

C’è una forma del commento, evidenziata in un articolo di Michel Charles (che uscirà proprio l’anno seguente al Pinocchio parallelo, nel 1978, e cui si riferisce lo stesso Genette per definire la relazione metatestuale): un commento che “non cita, ma procede per allusioni testuali (quasi-citazioni) […]. Eventualmente, la citazione apparirà, ma senza essere ‘testuale’, integrata al discorso continuo del commento”476. Si tratta in sostanza di una sorta di libera parafrasi, secondo cui il discorso del commento non è obbligato a seguire la linearità dell’ipotesto, ma può cancellarne alcune parti per evidenziarne altre e per sviluppare, da esse, un proprio discorso derivato. Nel Pinocchio di Manganelli la differenza tra i due discorsi si staglia sulla pagina a seguito dell’invasione della scrittura del commento rispetto alle citazioni riportate dal com474 Vedi Cristina Faldi, Le matite di Manganelli, in «Inchiesta letteratura», vol. 25, n. 110, 1995, pp. 18-21 che parla, ad esempio, di “percorsi cromatici” attorno ad alcune ricorrenze nell’uso dei colori nelle descrizioni del Pinocchio di Collodi, come l’azzurro impiegato per la fata turchina e quello per la fodera della coda del cane Medoro; oppure il verde, che sulla base delle sue apparizioni porta Manganelli a concludere che è un segnale di pericolo (ivi, p. 20). Altri casi riguardano il nero: “Codesto tipo di nero l’abbiamo già trovato: è il colore della barba di Mangiafoco. Oserei interpretarlo come il colore della aggressione impotente: implica ferocia e delusione, recitazione e frustrazione” (Giorgio Manganelli, Pinocchio: un libro parallelo, Milano, Adelphi, 2002, p. 97); colore che comporterà poi la storia di una “battaglia cromatica tra Neri e Bianchi” (ivi, p. 101), in cui, dall’altro lato del paradigma, troviamo la Bambina-Fata. 475 Ivi, p. 8. 476 Michel Charles, La lecture critique, cit., p. 148.

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mentato, segnando l’affermazione della propria scrittura sopra, più che contro, quella di Collodi. L’indizio non diviene soltanto una citazione riprodotta e corredata da una spiegazione, ma scava intorno all’ipotesto il luogo contestuale di un’altra storia, da cui partirà una seconda narrazione. Come Barthes, anche Manganelli sacrifica senza rammarico quella funzione del testo costituita dalla nozione di autore: Non c’è dubbio che l’uso di un refuso come indizio interpretativo sia, dal punto di vista della corretta filologia, assolutamente mostruoso, ma, nuovamente, che è mai un libro, un testo, un autore? […] Ho conosciuto uomini e donne che si sono sposati ad un convegno dedicato ad un autore; altri hanno semplicemente e frettolosamente fornicato […]. È incredibile la quantità di cose che riesce a fare gente che non è mai nata: Romolo fondò Roma477.

L’idea di un autore che marchia un testo con la propria identità, che lo rende suo inviolabile patrimonio, viene abbandonata per impedire il licenziamento finale di quel testo in un’opera finita. Scrittura senza complemento di specificazione, né di Manganelli, né di Collodi: La definizione dell’autore, essere umano che scrive parole al fine di raccontare una storia o incollare una poesia presuppone che ci sia un uomo fermo e che le parole, docili satelliti senza misteri, gli girino attorno, ed egli le catturi e disponga in un sistema verbo stellare che chiama “la mia opera”. Risibile, risibile478.

Il commentatore respinge la necessità di assumere un autore in quanto momento di convalida della versione finale di un testo: l’autore, insomma, è soltanto quella funzione “classificatoria” dei testi479 che ne arresta 477 Giorgio Manganelli, Pinocchio, cit., p. 43. 478 Ivi, p. 45. 479 “[U]n nome d’autore non è semplicemente un elemento in un discorso […]; esso svolge in rapporto ai discorsi un certo ruolo: stabilisce una funzione classificatoria; un tale nome permette di raggruppare un certo numero di testi, di delimitarli, di escluderne alcuni, di opporli ad altri. Inoltre esso costruisce un rapporto fra gli stessi testi […] un rapporto di omogeneità o di filiazione o di autentificazione degli uni attraverso gli altri, o di reciproca spiegazione o di utilizzazione concomitante. […] La funzione-autore è quindi caratteristica di un modo di esistenza, di circolazione e di funzionamento di certi discorsi all’interno di una società” (Michel Foucault, “Che cos’è un autore?” (1969), in Id., Scritti letterari, trad. it. di Cesare Milanese, Feltrinelli, Milano 2004, pp. 8-9).

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la continuazione ideale. Rimuovendo questo blocco, Manganelli rafforza il lettore e il commentatore. Ad esempio, quando Manganelli cita le prime parole delle Avventure di Pinocchio, da subito intreccia un percorso alternativo a quello che prese l’originario narratore: C’era una volta… “Un Re…”. No… […] Il “c’era una volta”, è, sappiamo, la strada maestra, il cartello segnaletico, la parola d’ordine del mondo della fiaba. E tuttavia, in questo caso, la strada è ingannevole, il cartello mente, la parola è stravolta. Infatti, varcata la soglia di quel regno, ci si avvede che non esiste il Re […] il favoleggiatore ha dato accesso sì al luogo della fiaba, ma di fiaba diversa, drammaticamente incompatibile con l’altra regale ed antica terra di fiabe480.

Il narratore esordisce con la segnalazione di una storia subito smentita per far spazio a un’altra. È l’occasione immediatamente offerta a Manganelli di avere a disposizione una sequenza che esiste nell’ipotesto, ma che è tanto velocemente annunciata quanto interrotta. Il Re di quella fiaba s’astiene dall’apparizione per esigenze della trama, per rispetto al privilegio di narrazione che dev’essere concesso al solo personaggio di Pinocchio, nelle prime righe ancora sommerso nell’ignoto. Alla pagina successiva il commentatore interviene nel proprio discorso con una proposizione avversativa che rafforza il passaggio dal racconto di Collodi al proprio, dove quel Re ora esiste: Tuttavia, potremmo porre in altro modo il problema di codesta crucciosa e leggera inesistenza del Re […] il Re ha scelto di non essere, farsi inattaccabile alle indagini filosofiche, alle pie aggressioni archeologiche, alle minute pedagogie della storia481.

Manganelli ipotizza il nascondimento preventivo, assicurativo del Re rispetto alle eventuali speculazioni di curiosi commentatori. Seguendo l’ipotesi di un processo di rimozione narrativa, Manganelli farà ritornare quel Re assente sotto altri panni, e per di più simbolici. Lo ritro480 Giorgio Manganelli, Pinocchio, cit., p. 11. 481 Ivi, p. 12.

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veremo camuffato in altri oggetti del racconto: “nascosto in qualunque immagine, oggetto, personaggio; da questo, tramutarsi in quello […] il favolatore ci avverte che al posto del Re c’è un ‘semplice pezzo di legno da catasta’”482. Il racconto indiziario si basa sul presupposto di leggere nel testo più di quel che vi si scrisse, orientando l’interpretazione a commentare anche quel che il racconto non dice483. Nel commento al primo capitolo delle Avventure di Pinocchio, Manganelli pone un testo nascosto come vero ipotesto del suo libro: “Questa sorta di commentatore non parlerà delle parole che si leggono, ma di tutte quelle che vi si nascondono”, dichiarazione che discendeva dalla possibilità riconosciuta poco sopra: poter “leggere un bianco, tacere un suono, di ogni lettera fare un’iniziale”484. I bianchi che si stagliano sul foglio funzionano come una sorta d’inchiostro invisibile: nascondono un’altra scrittura. Lo pseudo-saggio va a svelare questo fantasma nascosto: la riscrittura si rivela solo tramite lo svelamento del testo opaco. Come scrive ancora Michel Charles, riguardo la lettura che Baudelaire fa di Thomas De Quincey nei Paradisi artificiali, il rapporto tra l’ipotesto e il testo fantasma è reciproco: “Sotto un testo ce n’è un altro che ne svela il significato. Ma questo ritorno è accompagnato da uno spostamento fondamentale: […] i testi che si illuminano l’un l’altro (il testo che leggo e il testo – metaforico – in cui è iscritta la verità) sono al tempo stesso compresenti ed esistenti in mondi diversi”485. Siamo in un modello classico esegetico in cui il senso è nascosto e richiede un’attività interpretativa per far emergere il significato: solo che la scrittura di quest’attività – il saggio critico – è celata dalla stessa riscrittura di Manganelli. Manganelli apre spesso percorsi narrativi che si basano su interpretazioni di citazioni isolabili. Il caso più eclatante di questa pratica di scrittura è quello del termine “bara” analizzato nel capitolo diciassette: Usiamola come indizio, allusione, reperto. La parola “bara” era già apparsa, e non molto tempo prima; la Bambina dai capelli turchini aveva detto allo stremato Pinocchio “Aspetto la bara che venga a 482 Ivi, p. 13. 483 Non è un caso che lo stesso Lavagetto dedichi al racconto un capitolo, “Pinocchio racconta Pinocchio”, in Lavorare con piccoli indizi, cit., pp. 263-275. 484 Giorgio Manganelli, Pinocchio, cit., p. 19. 485 Michel Charles, Introduzione allo studio dei testi, cit., p. 312.

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portarmi via”. In quel luogo, vi è un gran traffico di bare da bambini486.

Immediatamente, il commentatore s’impegna a negare a un ipotetico occhio da segugio il merito del ritrovamento e piuttosto sostiene che è fin troppo facile accorgersi di tale ricorrenza: In realtà questa storia parallela della piccola bara non è raccontata direttamente, ma è di tale evidenza che solo un critico malevolo potrebbe considerarla come inadeguatamente immotivata. Il più modesto detective non potrebbe evitare di annotare nel suo taccuino la pregnante apparizione di due “piccole bare” nel giro di poche ore; ma che tanto non sia concesso al più umile ed umiliato chiosatore, pare intollerabile vessazione […]. L’operazione di scoperta di una storia parallela all’interno di una storia è alimentata dalla convinzione che il testo sia da considerare come un luogo fondo, penetrando nel quale noi siamo inseguiti dagli echi delle parole pronunciate all’entrata […] mettendo l’una accanto all’altra le due bare, per così dire, noi non possiamo non scoprire gli indizi di un qualche sinistro evento, qualcosa raccontato altrove, rispetto alla sottile lamina della pagina, ma sempre dentro l’infinità ecolalica e ramificata del racconto487.

Anche il critico è un operatore fantasma nella riscrittura: il detective necessario alla struttura velata e schermata della pagina, che dà senso alle “eco” di superficie secondo la finalità rappresentata dalla riscrittura. Eppure, come in Barthes, perfino nel caso di Pinocchio: un libro parallelo esistono dei limiti strutturali alla (ri)scrittura del testo fantasma. L’avventura del burattino resta quella di una fuga e se non c’è fuga non c’è narrazione in quella fiaba. Nel ventiseiesimo capitolo, “per la prima volta, intravediamo un Pinocchio ‘attento, studioso, intelligente’; studia e si fa onore, e dunque non c’è niente da raccontare”488. Tre capitoli dopo Manganelli argomenta: Ogni qual volta Pinocchio diventa “ubbidiente”, studia e si fa onore, non accade più nulla […]. In termini letterari, la storia è sempre “sto486 Giorgio Manganelli, Pinocchio, cit., p. 97. 487 Ivi, pp. 99-100. 488 Ivi, p. 139.

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ria di una disubbidienza”; presuppone un errore, una diserzione dalla norma, una condizione patologica […] per sfiorare i significati sempre più periferici occorre viaggiare, percorrere spazi, pellegrinare, fuggire; occorre perdersi, smarrire il nome, dissociarsi dalla socievolezza489.

Soltanto fino a un certo punto, le storie parallele esprimono una pura eversione rispetto alle restrizioni compiute dal commento tradizionale, dalla figura dell’autore e dalla narrazione dominante. Raccontare le pause della corsa di Pinocchio significherebbe scrivere ciò che in quel testo non c’è, vorrebbe dire inserire di propria mano indizi che nessun racconto ha lasciato, contravvenendo al presupposto di esistenza del “fantasma reale”, come lo ha chiamato Lavagetto per distinguerlo da altre infestazioni, altri tradimenti e trasformazioni ipertestuali. Nello specifico, se il commentatore apre l’ipotesto all’inizio, nell’episodio del Re di cui abbiamo visto il proseguimento parallelo alle vicende di Pinocchio, nel finale Manganelli giunge alla rappresentazione di una distruzione ultima dell’universo del racconto originariamente lasciato in sospeso dal narratore di Collodi. La fine del racconto coincide con l’apocalisse di questa scrittura parallela, in senso sia tematico che strutturale. Proprio nell’ultimo capitolo, dopo l’assimilazione del personaggio del Gatto e di quello della Volpe a “sudditi sventurati” del regno di Acchiappacitrulli, il commento riporta: Assieme alla svenduta coda volpina, agli occhi del Gatto, da qualche parte decrepita si disfa in una rivolta di scodati fagiani la città di Acchiappacitrulli, il buon Gorilla giudice è accecato dalla sua “flussione”, l’obesità dell’Omino è sconcia e letale idropisia, la finta ilarità eloquente del direttore del circo si tramuta in sterminata ciarla demente, la tosse affoga il pescatore verde, è rudere da vipere il Gambero Rosso490.

Pinocchio: un libro parallelo, all’affacciarsi anche del proprio termine testuale, riconvoca tutti i personaggi dell’ipotesto per descrivere il collasso del loro destino assieme a quello del loro universo: un esito escatologico dove, a differenza dei personaggi rianimati da Barthes, non ci 489 Ivi, p. 155. 490 Ivi, p. 195.

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sarà redenzione dall’oltretomba, in altri aldilà e mondi extra-testuali. La riscrittura coglie esplicitamente ciò che comporta il punto fermo impresso dal narratore: la fine dell’avventura della marionetta, diventata ora un bambino. Con questa scena apocalittica, Manganelli restituisce alla trama commentata il proprio originario potere: quella finzionalità inizialmente riconosciuta patrimonio inesauribile di tutti i racconti, ma che, dopo essere stata estesa ai suoi massimi punti elastici, ora ritorna ad accorciarsi, per rientrare infine nei suoi prestabiliti confini di fantasia e invenzione. Rinunciando al prequel e al sequel, potremmo dire che Manganelli sceglie il paraquel, quella modalità che Donata Meneghelli definisce come uno sviluppo in “parallelo: sia menzionando ciò che nell’ipotesto era taciuto (lacune nella storia originaria), sia dando spazio a ciò che sarebbe potuto accadere”491. Manganelli termina il proprio commento riconsegnando la parola al racconto ormai concluso, al di qua di ogni sua possibile estensione. I confini della riscrittura trovano un limite invalicabile soprattutto in avanti, all’incontro con la frontiera ultima del racconto. Di conseguenza, Manganelli rifiuta anche la transvalorizzazione del personaggio di Pinocchio: il commentatore si ferma esattamente quando Pinocchio si ferma, restando fedele alle modalità di dispiegamento diegetico del personaggio. In definitiva, la storia principale del burattino e le storie ritrovate di Manganelli si contendono lo spazio di Pinocchio: un libro parallelo, ma nel rispetto di una relazione metatestuale in cui il commento critico indaga il proprio commentato attribuendogli i limiti costitutivi del genere narrativo, con una presa di posizione precisa rispetto alle libertà concesse all’invenzione romanzesca e, in maniera complementare, anche al potere della critica di penetrare e restituire, con i suoi strumenti d’analisi e con il suo linguaggio, tutta la profondità latente del testo. Se, come scrive Umberto Eco, “il testo è una macchina pigra che esige dal lettore un fiero lavoro cooperativo per riempire spazi di non-detto o di già-detto rimasti per così dire in bianco”492, qui c’è la rappresentazione dell’atto della lettura nelle forme di un commento: non la lettura operata da un altro narratore che si trasforma in narrazione, in scrittura letteraria; ma una lettura che è innanzitutto opera di un commentatore 491 Donata Meneghelli, Senza fine, cit., p. 117. 492 Umberto Eco, Lector in fabula, Bompiani, Milano 1997, pp. 24-25.

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che ha uno sguardo critico sui testi e ne indaga aspetti non visibili senza l’analisi sintattica, lessicale, narratologica. Inoltre, se il potere dell’autore dev’essere ridimensionato nel libro parallelo, al pari di Barthes il lettore di Manganelli non è riconducibile al soggetto-lettore come individuo. Certamente, la lettura si riappropria dei dettagli disseminati nel testo cercando una via di fuga oltre le barriere innalzate della proprietà autoriale, ma questi sono proprio quei dettagli in cui – a differenza del paradigma indiziario – non si riconosce la mano e le manie formali dell’autore, perché quest’ultimo non è funzione proprietaria e distributiva di tutti i suoi testi, ma solo un’origine creativa, lontana e persa in un tempo diverso dalla riscrittura. Il saggio parallelo potrebbe quindi intendersi come un’altra delle “specificazioni possibili della funzione-soggetto”, “una funzione variabile e complessa del discorso”493, di cui parla Foucault nel suo articolo sull’autore. Se i diritti d’autore nascono come “regime di proprietà dei testi”494, cioè con l’affermazione dei principi borghesi della proprietà privata tra Settecento e Ottocento, questa funzione-lettore reclama altri diritti simbolici, in una de-personalizzazione al contempo della scrittura e della lettura che è anche un’alienazione del testo dal regime della proprietà. Il saggio parallelo commenta e riscrive il testo letterario per liberarlo dalla sua astrazione in una proprietà dell’individuo: lo conduce, da quella “prodigiosa estensione della nozione di individualità”495, verso una nuova idea di testo in cui l’individuo non è soggetto proprietario. Equivalente del testo scrivibile sarebbe la figura dello scripteur, quella funzione ancora utopica, ma che risente del clima decostruttivo – più che collettivo – del Sessantotto: colui che “non ha più in sé passioni, umori, sentimenti, impressioni, ma quell’immenso dizionario cui attinge una scrittura che non può conoscere pause […] il lettore è un uomo senza storia, senza biografia, senza psicologia; è soltanto quel qualcuno che tiene unite in uno stesso campo tutte le tracce di cui uno scritto è costituito. […] Per restituire alla scrittura il suo avvenire, bisogna rovesciarne il mito: prezzo della nascita del lettore non può che essere la morte dell’Autore”496.

493 Michel Foucault, “Che cos’è un autore?”, cit., p. 20. 494 Ivi, p. 10. 495 Carlo Ginzburg, Miti, emblemi, spie, cit., p. 191. 496 Roland Barthes, “La morte dell’autore”, cit., p. 56 [vol. 3, pp. 44-45].

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6. Pseudo-saggi autobiografici: la cultura letteraria come forma della vita

6.1. Pseudo-saggio e non-fiction statunitense Negli Stati Uniti, la nonfiction literature è innanzitutto una categoria editoriale e commerciale, che comprende tutte le opere di narrativa non finzionale, quali le autobiografie e le biografie, le opere in prosa non finzionale, come i reportage di viaggio e i pamphlet, e la nonfiction novel (faction). Da quando si è affermata, vale a dire negli ultimi trent’anni497, la nonfiction ha destabilizzato l’ordine e le divisioni in atto nel campo editoriale precedente, che si basava su un paradigma ancora romantico nella separazione dei generi498 in cui, fuori dalla letteratura di finzione, esisteva solo una peripheral literature: un contenitore indifferenziato in cui la prosa non finzionale e la poesia (con il teatro) si ritrovavano, ad esempio, assieme499. Invece, oggigiorno, la prosa non finzionale mostra di poter partecipare anch’essa a un “polo della grande produzione, su497 Lorenzo Marchese, Storiografie parallele. Che cos’è la non-fiction?, Quodlibet, Macerata 2019, p. 11. Vedi, in campo statunitense, Chris Anderson (a cura di), Literary Nonfictions. Theory, Criticism, Pedagogy, Southern Illinois University Press, Carbondale 1989. 498 Secondo Guido Mazzoni, si tratta di un paradigma dei generi di tipo romantico: “Provo a formulare la nuova tassonomia rifacendomi all’autorità di Hegel, che nelle sue lezioni di estetica riprende lo schema romantico e lo porta alla perfezione. La letteratura si compone di tre grandi generi: l’epica (o narrativa), la lirica e il dramma […]. Questa tripartizione è ormai entrata nel nostro senso comune. […] Le storie della letteratura organizzate per generi si dividono spesso in tre parti, dedicate rispettivamente alla narrativa, alla poesia e al teatro, cui talvolta se ne aggiunge una quarta dedicata alle forme estranee alla letteratura creativa in senso stretto, come i saggi, i trattati o le opere storiografiche. Sugli scaffali delle librerie il solo genere teorico a meritare una scomposizione in sottogeneri è la narrativa, mentre i testi in versi e i testi per la scena si accumulano negli angoli dedicati alla ‘poesia’ e al ‘teatro’, finendo accorpati tutti insieme in un’unica categoria vasta e indistinta. Se riportassimo la molteplicità di queste forme narrative all’unità di una forma sintetica, vedremmo che l’archetipo teorico cui i librai di oggi inconsciamente si ispirano è la teoria romantica dei generi” (Guido Mazzoni, Sulla poesia moderna, il Mulino, Bologna 2005, p. 44). 499 Alastair Fowler, Kinds of Literature, cit., p. 13.

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bordinato alle aspettative del pubblico”, e non più soltanto a quello della “produzione pura”, dove resta al contrario ancora la poesia, “in cui i produttori tendono ad avere come clienti solo gli altri produttori (che sono anche concorrenti)”500. Ciò non toglie che, dal punto di vista teorico-letterario, la narrativa non finzionale possa anche essere quella che Walter Siti chiama “‘narrativa debole’, cioè [la] narrativa che si aggancia ad altri generi”, soprattutto l’autobiografia e il reportage, e che “non vuole avere né le responsabilità strutturali del romanzo né le responsabilità scientifiche del discorso storico, o antropologico, o psicanalitico”, perché “un saggio lo puoi contestare e ne puoi dimostrare il torto, una narrazione fictional non ha torto mai”501. Siti non ha in mente soltanto una contrapposizione tra due “narrative” di diverso grado di responsabilità, ma anche una associazione tra la responsabilità del romanzo e la responsabilità del saggio, inteso come forma del discorso storico e, più in generale, proprio delle scienze umanistiche. Per inverso, si può comprendere come una forma di “saggistica debole” possa venire a coincidere con l’idea di una “narrativa debole” e della nonfiction literature: uno pseudo-saggio che usa altre forme narrative – una particolare “autobiografia”, nei casi che andiamo a studiare502 – per evitare, anche quando contiene un’importante attività critica sui testi, la piena responsabilità del saggio critico, quella di un discorso interpretativo e persuasivo, che si possa appunto – come scrive Siti – “contestare”. Negli Stati Uniti, alcune opere che rivendicano l’appartenenza alla letteratura non finzionale sono in realtà degli pseudo-saggi, a cui la definizione d’irresponsabilità sia narrativa che saggistica si attaglia perfettamente. In essi, la relazione metatestuale coi testi, pur citati, è contenuta in un discorso in prosa non finzionale che ha altre finalità e principi compositivi rispetto a quelli di un saggio critico, ma che mantiene comunque una relazione formale abbastanza stretta con la scrittura saggistica per come l’abbiamo delineata finora. Per precisarne meglio la natura convie500 Pierre Bourdieu, Les règles de l’art. Genèse et structure du champ littéraire, Seuil, Paris 1992, pp. 174-175. 501 Walter Siti, Il romanzo come autobiografia di fatti non accaduti (1999), su «Le parole e le cose», 31 ottobre 2011, URL: www.leparoleelecose.it/?p=1704. 502 Il genere dell’autobiografia era già incluso nell’antologia statunitense relativa alla saggistica primo-novecentesca. Vedi Alfred Kazin (a cura di), The Open Form. Essays for Our Time, Harcourt, Brace & World, New York 1961.

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6. Pseudo-saggi autobiografici: la cultura letteraria come forma della vita

ne riprendere due aspetti del saggio in quanto genere che la teoria ha già evidenziato. Il discorso non finzionale in prosa dello pseudo-saggio autobiografico può presentarsi sia nella scrittura continua tipica dell’autobiografia sia in forma frammentaria, e quindi includere la tradizione saggistica del frammento (su cui insiste Adorno). Anche in questo secondo caso si può parlare di pseudo-saggio autobiografico se consideriamo il rispetto del patto autobiografico503 come condizione necessaria e sufficiente per rivelare, in un’opera, la presenza di un “io” autobiografico. La differenza tra lo pseudo-saggio autobiografico-frammentario e quello autobiografico tout court poggia sulla forma della scrittura: nel caso in cui non si dia una scrittura continua, come in un’autobiografia, l’identità del saggista è comunque valorizzata da una particolare concezione dell’io autoriale: un “io” ridotto in frammenti, che produce un’autobiografia egualmente frammentaria. Charles Taylor ha riconosciuto l’emergere, nel campo dell’etica moderna, di un fenomeno che chiama “espressivismo”504 e che – come aggiunge Guido Mazzoni – “colloca lo scopo della vita nella manifestazione della propria presunta originalità (essere se stessi, esprimere se stessi)”505. Questa espressione del sé ha caratteristiche profondamente diverse rispetto al genere dell’autoritratto per come lo abbiamo trattato in relazione allo pseudo-saggio precedente. Possiamo anticipare che non si tratta, nel caso presente, di un autoritratto intellettuale, in cui la memoria letteraria definisce i contorni dell’io, conferendo profondità alla sua visione e alla sua interiorità tramite l’interpretazione letteraria. In questo nuovo tipo di pseudo-saggio, l’io autobiografico si presenta in un frammento della propria vita, che guadagna diritto all’espressione senza necessitare della narrazione romanzesca o di quella autobiografica, né della sua contestualizzazione in uno spazio geograficamente determinato, come nel caso di Magris e Glissant. Nel discorso dei testi che andiamo a trattare, il montaggio di citazioni, commenti testuali e prosa non finzionale si basa sull’io del saggista come marcatore non finzionale del discorso. Prima di affrontare i testi, è pertanto necessario approfondire questa forma saggistica dell’io. La te503 Il pronome “io” identifica al contempo autore, narratore e personaggio (Philippe Lejeune, Il patto autobiografico, Il Mulino, Bologna 1986, p. 23). 504 Charles Taylor, Radici dell’io, cit., p. 458. 505 Guido Mazzoni, I destini generali, Laterza, Roma-Bari 2015, p. 24.

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orizzazione del saggio ha già espresso nel secondo Novecento un’interpretazione soggettivistica del genere, in quella che possiamo chiamare la scuola del Québec. Janusz Przychodzeń ritiene che la più importante caratteristica del saggio in Québec sia infatti rintracciabile in una “ricomparsa dell’io”506. Lo scrittore Jean Marcel è stato, fra i teorici del Québec, quello più impegnato a elaborare una definizione del saggio universalmente valida che si appoggiasse proprio su una lettura di questo tipo. Il discrimine per definire il genere viene individuato da Marcel nel produttore del discorso. La presenza o assenza del pronome personale soggetto “io” decreta la pertinenza della descrizione di saggio per un testo, che diventa il solo vero parametro per definire l’intero genere. Si elimina così un intero gruppo di opere che ha fatto parte della storia del saggio507. Riprendendo le definizioni riportate nel primo capitolo, il saggio meditativo diventa l’unico vero saggio ammissibile, che si precisa attraverso una contrapposizione alle altre forme saggistiche in cui l’incidenza del soggetto enunciatore è minore o assente, come nel caso del saggio diagnostico. Come scrive infatti un altro esponente di questa “corrente”: “[l]a cancellazione dell’enunciatore […] dà origine a un tipo di saggio cognitivo e, al limite, assoluto”508. Tuttavia, in quest’interpretazione si ottiene anche un risultato complementare, quello di avvicinare il saggio stesso ad altri due generi, che non casualmente corrispondono alle due modalità di scrittura che abbiamo annunciate come tipiche dello pseudo-saggio autobiografico. Il primo genere è narrativo: Il saggio diventa allora una biografia, ma senza avvenimenti, o meglio una biografia che eleva ad evento capitale l’incontro, specificamente 506 Janusz Przychodzeń “L’essai québécois contemporain: l’écriture spéculaire”, in André Maindron (a cura di), Littérature de langue française en Amérique du Nord, Presses Universitaires de Rennes, Rennes 1993, p. 206. 507 “Si dirà, quindi, che il primo elemento strutturante del saggio è la presenza nella forma di un io soggetto non-metaforico, fondatore e generatore del discorso; si comprenderà allora che lo studio critico, la dissertazione, il trattato o l’opera filosofica non possono essere inclusi nella categoria del saggio, essendo il soggetto di questi tipi di discorso assente, incidentale o risolutamente metaforico” (Jean-Marcel Paquette (alias Jean Marcel), “Prolégomènes à une théorie de l’essai”, cit., p. 243). 508 Robert Vigneault, L’écriture de l’essai. Essais, l’Hexagone, Montréal 1994, p. 167. Si veda anche Jean Terrasse, Rhétorique de l’essai littéraire, Les Presses de l’Université du Québec, Montréal 1977.

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culturale, dell’io con quelle produzioni culturali che sono i libri, i costumi, i miti509.

Il secondo è il discorso lirico, cui il saggio si avvicina anche per la forma breve, quella – è ancora la concezione adorniana del saggio – del frammento: Il saggio è la forma caratterizzata dall’introduzione nel discorso letterario di un io come generatore di una riflessione di tipo lirico su un corpus culturale che funge da mediatore tra le tensioni frammentarie dell’individualità nella sua relazione con se stessa e il mondo510.

La presenza di un “io” non-metaforico viene infatti ricondotta, dallo stesso Jean-Marcel Paquette, non solo al generale polo della soggettività discorsiva, ma più propriamente a quello dell’espressività individuale, pur sempre scaturita da un incontro con i materiali e gli oggetti della cultura511. La concezione dell’io lirico è soprattutto una concezione dell’io espressivo in quanto frammentato e frammentario, ma che intrattiene una relazione (o “incontro”) di tipo culturale con le produzioni simboliche, cioè una relazione cui spetta il compito di “mediare” tra ordini della realtà diversi: l’individualità – per quanto segmentata, multipla e precaria512 – e la percezione del mondo, in particolare quella offerta al soggetto dalle produzioni culturali. L’io saggistico qui teorizzato è qualcosa di più di una funzione del discorso autobiografico e corrisponde piuttosto a quello che abbiamo incontrato da Wilde a Serra, da Magris a Sartre: è un “io” che non rinuncia all’idea di una totalizzazione del discorso saggistico che renda possibile un’unione tra la propria contingenza e le verità intellettuali dell’astrazione e dell’inter509 Jean-Marcel Paquette (alias Jean Marcel), Forme et fonction de l’essai dans la littérature espagnole, in «Études Littéraires», vol. 5, n. 1, 1972, p. 81. 510 Ivi, p. 87. 511 Su queste posizioni anche Graham Good, benché in una modalità più dialettica: “Il saggio è allo stesso tempo l’iscrizione di un sé e la descrizione di un oggetto. Il sé e l’oggetto sono liberati rispettivamente dai loro sistemi sociali e scientifici, ma al prezzo di rimanere entro i limiti di una situazione specifica” (The Observing Self, cit., p. 23). 512 Come spiega Robert Vigneault, la definizione soggettivistica distingue il saggio e lo separa dagli altri generi del discorso intellettuale perché rinuncia anche a trattare il soggetto “in modo completo, in maniera esaustiva e sistematica, fino al suo completo esaurimento” (L’écriture de l’essai, cit., p. 23).

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pretazione; è un “io” che cerca nei testi un significato con cui riscattare la propria precarietà, conscio dell’unità perduta e senza volontà di ricomporla in un intero, ma impegnato ancora in un processo di totalizzazione che consenta un superamento del limite di questa sua identità. Nello pseudo-saggio autobiografico, l’io saggistico assume una dimensione parzialmente simile, che estende l’impossibilità segnalata da Musil – in un clima certo differente – di concepire la vita come “una serie ordinata dei fatti”: fa dell’espressione di un evento speciale del soggetto una maniera di scrivere la propria vita cui non occorre né il “filo della storia” né la “ricerca saggistica delle cause e dei principi”513. Un testo in cui l’espressività dell’io si dispiega in forma frammentaria è Reality Hunger. A Manifesto (2010) di David Shields: libro che ha avuto anche un certo successo all’estero, ad esempio in Francia e in Italia. L’autore si interroga diffusamente sul ruolo della scrittura digitale in relazione alla letteratura odierna e ritiene che il saggio personale, il personal essay, ne sia ormai la forma privilegiata, benché degradata: Facebook e MySpace sono grezze macchine di personal essay. Sulla pagina Facebook di ognuno di noi c’è un questionario, che richiede a ogni persona di elencare informazioni personali – tutto, dall’età allo stato sessuale. […] Ogni pagina è una versione piegata della realtà – troppo poco sofisticata per essere arte ma troppo presuntuosa per essere un semplice reportage514.

Il social network contiene scritture pseudo-letterarie, da intendersi in un senso limitativo, e perfino pseudo-saggistiche, come forme imperfette 513 Guido Mazzoni commenta così il noto passo – citato parzialmente in precedenza – di Musil: “Gli uomini connettono ciò che accade nello spazio e nel tempo usando legami sintattici di tipo logico o di tipo cronologico. Mentre i nessi causali o finali (‘perché’, ‘affinché’) ampliano le dimensioni della realtà, associano piani diversi fra loro e allungano l’intelligenza, i narratori si limitano a dire ‘allorché’, ‘prima che’ e ‘dopo che’, accorciano l’intelligenza e si illudono che la vita abbia un corso e segua un filo unico – il filo della storia. […] Attribuendo un ruolo anomalo alla ricerca saggistica delle cause e dei principî, il libro di Musil è insolito per la narrativa” (Guido Mazzoni, Teoria del romanzo, il Mulino, Bologna 2011, p. 59). 514 “Facebook and MySpace are crude personal essay machines. On everyone’s Facebook page is a questionnaire, on which each person is asked to list personal info – everything from age to sexual status. […] Every page is a bent version of reality – too unsophisticated to be art but too self-conscious to be mere reportage” (David Shields, Reality Hunger. A Manifesto, Knopf, New York 2010, p. 92).

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del saggio, sia meditativo che cognitivo, sia intenzionalmente artistico sia conoscitivo, e non come forme di ibridazione e conseguente superamento dei generi sotto un nuovo tipo di testo letterario. Se il personal essay digitale non è né una forma artistica ed estetica, né un semplice documento autobiografico della vita, il genere saggistico che Shields immagina come modalità di scrittura letteraria, in grado di superare quella forma “grezza”, è il montaggio del saggio personale con l’altra forma del discorso che un’interpretazione soggettivistica del genere consente di convocare: il saggio lirico, una tipologia che, se teorizzata in Québec a partire dagli anni Settanta, è incoraggiata negli Stati Uniti in particolare dalla rivista «Seneca Review» dal 1997515 e che quindi Shields conosce bene. Il saggio lirico – scrive ancora Shields – “eredita dai principali filoni della non-fiction le caratteristiche formali della propria versione ibrida. Prende la soggettività del personal essay e l’oggettività del public essay e le fonde insieme in una forma letteraria che si basa sull’arte e sul fatto, sull’osservazione e sull’immaginazione”516. Il saggio che immagina Shields, quindi, vorrebbe essere quella nuova forma in grado di dire tutta “la realtà” attraverso un’espressione al contempo soggettiva e oggettiva. Il suo si pone come quel tipo di pseudo-saggio che ricerca la totalità, ma che, come ogni superamento senza sintesi delle forme eterogenee, resta (parafrasando Hegel) una totalità imperfetta, una cattiva infinità, che ricade in un discorso dell’espressività individuale e più propriamente narcisistica, colta come evoluzione estrema di quell’individualismo che – abbiamo visto nel secondo capitolo – in Wilde portava, a fine Ottocento, lo pseudo-saggio al superamento dell’esibizione biografica. Si tratta di un passaggio da un individualismo “limitato” e borghese, a livello collettivo – e quindi dall’individualismo “integrale” in Wilde come risposta dell’aristocrazia intellettuale – a un individualismo cui molti interpreti danno il nome di “totale”517. Ma questo totale non 515 Si veda John D’Agata (a cura di), The Next American Essay, Graywolf, Saint Paul (MN) 2003 e Id., The Making of the American Essay, Graywolf, Saint Paul (MN) 2016. 516 “The lyric essay […] inherits from the principal strands of nonfiction the makings of its own hybrid version of the form. It takes the subjectivity of the personal essay and the objectivity of the public essay and conflates them into a literary form that relies on both art and fact, on imagination and observation” (David Shields, Reality Hunger, cit., p. 26). 517 “[L]’individualismo subisce un aggiornamento […] narcisistico: il narcisismo, conseguenza e manifestazione miniaturizzata del processo di personalizzazione, simbolo

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è più formale e conoscitivo, come per Sartre, né testuale, come per Barthes; non è cioè una scrittura improntata alla totalizzazione di discorsi “specialistici”, ma sarà soltanto un totale che il soggetto dà come già esprimibile in una forma propria e definita, che lo rispecchia e lo contiene: un frammento individuale di scrittura che, per Shields, è la realtà. Rispettando la propria idea di poetica saggistica, l’opera di Shields si presenta come una successione di frammenti generalmente molto brevi, spesso di taglio aforistico. Nel corso del volume, l’autore si preoccupa a più istanze di legittimare la sua scrittura frammentaria come forma propria del saggio: L’aforisma è una delle prime forme letterarie – residuo di pensieri complessi filtrati in una singola metafora. Nel secondo millennio a.C., nella Bassa Mesopotamia, gli aforismi apparivano insieme in antologie, raccolte di detti copiati per nobili, sacerdoti e re. Queste liste sono state quindi catalogate per temi: “Onestà”, “Amicizia”, “Morte”. […] Tramite montaggi e collage, la forma è germogliata in saggi più lunghi, più complessi, più sostenuti e più sofisticati518.

Shields sceglie una trattazione che avrà per “temi” quelli più correnti dell’arte contemporanea, della musica, della fotografia, della televisione, dei reality show, ecc. I temi vengono raccolti in 618 “capitoli”, sebbene il libro presenti un ordine strutturato secondo la successione alfabetica. I due ordini, tematico e formale (per lettera alfabetica), non corrispondono perfettamente perché le parole tematiche vengono incluse sotto una lettera che non coincide con le loro iniziali, secondo una strategia di sovversione della forma argomentativa del saggio di cui Roland Barthes è forse il massimo esponente e che, comunque, è comune

del passaggio dall’individualismo limitato all’individualismo totale” (Gilles Lipovetsky, L’era del vuoto. Saggi sull’individualismo contemporaneo (1983), Luni, Milano 1995, pp. 8-9). 518 “The aphorism is one of the earliest literary forms – the residue of complex thoughts filtered down to a single metaphor. By the second millennium b.c., in Sumer, aphorisms appeared together in anthologies, collections of sayings that were copied for noblemen, priests, and kings. These lists were then catalogued by theme: “Honesty,” “Friendship,” “Death.” […] Via editing and collage, the form germinated into longer, more complex, more sustained, and more sophisticated essayings” (David Shields, Reality Hunger, cit., p. 6).

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anche allo pseudo-saggio contemporaneo519. Anche le inserzioni personali assumono una forma frammentaria e aneddotica, se non solo la logica concatenata del saggio ma anche la narrazione continua costituiscono, per Shields, una falsificazione della realtà: Quando un lavoro diventa più autobiografico, più intimo, più confessionale, più imbarazzante, si rompe in frammenti. Le nostre vite non sono preconfezionate lungo linee narrative e, quindi, per la sua stessa natura, un’arte basata sulla realtà […] si frantuma ed esplode520.

L’autobiografia, sorprendentemente, partecipa di questa scrittura frammentaria perché condivide con la poetica saggistica di Shields la modalità di presentazione: non più racconto ordinato e consecutivo di una vita nel rispetto del tempo cronologico, ma una prosa letteraria “basata sulla realtà” proprio perché frammentaria. Lo pseudo-saggio cerca così di adeguare la forma autobiografica al proprio principio “espressivista”. In ogni capitolo, un frammento di materia autobiografica è inserito come esempio concreto di scrittura. Si può leggere integralmente il frammento n. 250 alla lettera I, il cui capitolo s’intitola the realitybased community: Legando le mie scarpe nell’atrio del centro ricreativo, ho visto qualcuno leggere un libro che sembrava Checkpoint, il romanzo di Nicholson Baker su un uomo che fantastica di assassinare l’allora presidente George W. Bush. Avevo appena finito di leggerlo, quindi ho detto, “Stai leggendo Checkpoint? Come lo trovi?” Il lettore sembrava diffidente ed era straordinariamente riluttante a rispondere con precisione alla mia domanda. Mi ha chiesto se ero lo scrittore David Shields. Lo sono, l’unico, il solo (in realtà, c’è almeno un altro scrittore di nome David Shields, uno studioso che è l’autore di un libro intito-

519 Non solo nel Roland Barthes par Roland Barthes, ma anche nei Fragments d’un discours amoureux (1977): altro pseudo-saggio che si può leggere come un commento al Giovane Werther di Goethe sotto forma di un’analisi del discorso sociale dell’innamorato. Rimando al mio Roland Barthes e la tentazione del romanzo, cit., pp. 158-170. 520 “As a work gets more autobiographical, more intimate, more confessional, more embarrassing, it breaks into fragments. Our lives aren’t prepackaged along narrative lines and, therefore, by its very nature, reality-based art […] splinters and explodes” (David Shields, Reality Hunger, cit., p. 25).

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lato Oracles of Empire). Tuttavia, abbiamo continuato a parlare di Checkpoint e Baker solo in modo circoscritto. Quando ero in procinto di andarmene, ho detto benintenzionato, ma imprudentemente: “Sono David Shields. Immagino che tu lo sappia. Come ti chiami?” – ciò, naturalmente, rianimò il sottinteso di prima, quello spiarsi a vicenda, e così disse, molto lentamente, “Io sono Wes”. Nessun cognome. Fine della conversazione. Un nuovo momento nella repubblica, per quanto ne posso dire521.

Poco più avanti, nello stesso capitolo, Shields commenta che Obama vinse le elezioni perché appariva più impegnato nella realtà rispetto ai suoi avversari, comparabili a personaggi romanzeschi usciti dalla penna di Jane Austen. Anche il frammento autobiografico appena citato soppesa la realtà e il mondo dei testi a vantaggio della prima. Il riferimento letterario al romanzo Checkpoint è soltanto il pretesto del ricordo autobiografico, che rappresenta un “reale” senza relazione coi testi, proprio perché l’io autoriale rinuncia a legare il proprio frammento di vita al mondo simbolico e oggettivo della cultura, quello che abbraccia altre dimensioni – immaginative, riflessive – dell’esistenza: Shields tratta i testi come simboli della propria realtà, e non di un orizzonte simbolico comune e condiviso. Come la cultura non è la via per una comunicazione e una percezione esteriori, non v’è diritto all’espressione altrui in questa “realtà”: la comunità di lettori è formata da individui senza cognomi e senza storia, come Wes; realtà simbolica negata, tranne che per l’autore David Shields. La catena narrativa dell’autobiografia non è più la forma egemonica dell’espressione della vita interiore del soggetto del tardo-capitalismo, se quel soggetto è interiormente composto da “segmenti eterogenei che convivono o che si succedono a brevissima distanza senza che questo 521 “Tying my shoes in the lobby of the recreation center, I saw someone reading what looked like Checkpoint, Nicholson Baker’s novel about a man who fantasizes about assassinating then president George W. Bush. I’d just finished reading the book, so I said, “Are you reading Checkpoint? How do you like it?” The reader seemed wary and was strikingly reluctant to respond with any specificity to my question. He asked if I was the writer David Shields. I am, the one, the only (actually, there’s at least one other writer named David Shields, a scholar who’s the author of a book called Oracles of Empire). Still, we talked about Checkpoint and Baker only circumlocutiously. When I was ready to go, I well-meaningly but ill-advisedly said, “I’m David Shields; I guess you know that. What’s your name?”– which, of course, reanimated the entire spy-vs.-spy subtext, so he said, very slowly, “I’m Wes.” No last name. End of conversation. A new moment in the republic, so far as I could tell” (ivi, p. 82).

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sia un problema”522. Rifiutando l’autobiografia come ogni altra forma di narrazione, Reality Hunger non s’appoggia su una identità narrativa, che oscilla fin dalla modernità dall’essere una “possibilità di senso” a diventare un “valore”523 o un imperativo per conoscere se stessi: nello pseudo-saggio autobiografico, l’identità è un frammento autoriale, che trova la propria giustificazione nella sua espressione come frammento di un reale. In sostanza, l’identità narrativa è la problematica rappresentazione del passato del soggetto come forma totale della propria vita, che dà significato a questa anche nell’orizzonte d’attesa del proprio futuro, dei suoi eventi non ancora acquisiti come passato524. Lo pseudo-saggio autobiografico non amplia l’orizzonte dell’identità verso il futuro o il passato, non incrementa la conoscenza fornita dalla nostra dimensione “autobiografica”, impegnando contro un ordine caotico un’intenzione riflessiva, trovando relazioni complesse tra rimandi e riferimenti estranei al nostro microcosmo grazie al pensiero e all’intelligenza. La sua realtà non è che lo specchio di ciascuno. L’individualismo insito nella cultura borghese passa, da questa, alla classe piccolo-borghese (middle class) e quindi alla classe intellettuale, per arrivare in scrittori come Shields a mutarsi in una singolarità che non è “dettaglio” di un mondo più vasto, ma “frammento” che tra le rovine dell’io moderno si salva per dar vita a un soggetto solitario e identitario. In un tale paradigma culturale, l’individualismo diventa dunque una personalizzazione che 522 Guido Mazzoni, I destini generali, cit., p. 78. 523 Discutendo delle critiche mosse all’egemonia del racconto, Donata Meneghelli commenta: “da una concezione dell’identità narrativa fondata su presupposti psicologico-cognitivi – il racconto come strumento per comprendere e dare senso all’esperienza, per renderla intelligibile a noi stessi, processo continuo di cui il sé è in qualche modo il risultato – si passa spesso impercettibilmente a una concezione prescrittiva, secondo la quale interpretare e/o vivere la vita come un racconto almeno in parte coerente costituisce qualcosa a metà strada tra un imperativo etico e la piena realizzazione delle proprie potenzialità umane. Il carattere narrativo dell’identità diventa allora un valore e non solo una condizione o una possibilità di senso” (Donata Meneghelli, Storie proprio così. Il racconto nell’era della narratività totale, Morellini Editore, Milano 2012, p. 184). 524 “In primo luogo, come catena di eventi del mondo cosmico, la vita in ogni momento è la conseguenza causale di ciò che è avvenuto prima. Ma, in secondo luogo, poiché la vita che ci resta da vivere dev’essere anche raccontata, il suo significato appare come qualcosa che si dispiega negli eventi. Combinare le due prospettive non è facile […]. La prima, infatti, sembra ridurre la forma di una vita a semplice risultato cumulativo degli avvenimenti; mentre la seconda sembra vedere in questa forma qualcosa di già reale, ancorché allo stato latente, che emerge in virtù di ciò che accade” (Charles Taylor, Radici dell’io, cit., p. 361).

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coinvolge anche la relazione metatestuale, che deve dunque rinunciare a una conoscenza teorica o teoretica e, soprattutto, alla critica del simbolico e dei testi della cultura. Un altro esempio di pseudo-saggio autobiografico si trova in Awkward. A Detour di Mary Cappello, best-seller dal 2007. L’indagine si concentra sull’awkwardness, sull’imbarazzo e sulla goffaggine, soprattutto in relazione all’identità dell’autrice, figlia di immigrati italiani negli Stati Uniti. L’ultima parte del libro, Detouring, è occupata dal commento del romanzo L’età ingrata [The Awkward Age] (1899) di Henry James, che è il candidato migliore per entrare in risonanza con la ricerca del sé attorno al tema dell’awkwardness, qui intesa come una forma di solitudine esistenziale. Nondimeno, l’autrice fa affidamento sulla critica (Tzvetan Todorov in particolare) e commenta diffusamente il testo, prima di trasmettere le sue impressioni personali e fermarsi su ciò che significa, per lei, la lettura di questo romanzo. Al contrario di Reality Hunger, la scrittura continua rispetta una sequenza cronologica: siamo quindi nel primo caso dello pseudo-saggio autobiografico, cioè quello che si può far combinare con la prosa non finzionale di tipo autobiografico, piuttosto che con il “saggio lirico”. Infatti, in Awkward, le tappe della lettura di Henry James sono ben divisibili e disposte in una sequenza diegetica che, però, non mira a dare senso a tutta o anche solo a una porzione della vita dell’autrice, ma all’auto-rivelazione del soggetto, all’epifania in un frammento di verità interiore, al riscatto morale del lettore grazie alla lezione fornita dal romanzo di James. La prima lettura è una lettura critica, che dal confronto con i giudizi di altri saggisti sul romanzo giunge a comporre un proprio giudizio di valore: “Non conosco progetto artistico maggiormente intriso di goffaggine che L’età ingrata di Henry James”525. Questa lettura è condotta coscientemente secondo il proprio individuale e particolare orizzonte d’attesa: “Forse il romanzo richiede un lettore diverso e differente da me. Forse la mia relazione alla goffaggine m’impedisce di situarmi propriamente rispetto al romanzo”526. Successivamente, Cappello rappre525 “I don’t know of an artistic project more thoroughly soaked in awkwardness than Henry James’s The Awkward Age” (Mary Cappello, Awkward. A Detour, Bellevue Literary Press, New York 2007, p. 182). 526 “Maybe the novel requires a reader other or different from myself. Maybe my own relation to awkwardness prevents me from properly being placed by the novel” (ivi, p. 189).

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senta le incertezze e le difficoltà della seconda lettura a causa del contesto pragmatico individuale, che situa tale rilettura in un orizzonte non più interpretativo, ma autobiografico: Ho letto la maggior parte del romanzo in una stanza d’albergo appollaiato a un’altitudine innaturale sopra la cima di Salt Lake City, nello Utah. […] Era un viaggio d’affari – non i miei, ma di Jean. […] Nessuno abituato a interpretare i libri è stato preparato a gestire un’impresa o a negoziare intricate relazioni tra persone eccentriche527.

Inizialmente il mondo contingente e l’universo finzionale risultano scollati, ma la risonanza emotiva provocata dalla lettura finisce per coincidere con la percezione interiore che l’autrice ha del mondo intorno a lei: “scendendo al ristorante dell’hotel, mangiavo senza guardare nessuno negli occhi, come se fossi un agente sotto copertura in un locale straniero, impegnato in missione: solitudine. […] Mi sono chiesta dove fosse il piacere di questo testo e il libro mi ha risposto con questa distinta manifestazione di solitudine”528. Il “piacere del testo” viene a coincidere, per Cappello, con un sentimento, un momento più o meno estemporaneo della propria emotività. Contesto della lettura e suo contenuto vengono confusi: a un certo punto, la lettura “somatica”529 del romanzo collega la solitudine esperita dall’autrice, in un contesto localizzabile nel tempo e nello spazio, con la lezione etica che si può ricavare dal testo: Sullo sfondo di questo romanzo, un romanzo fatto interamente di conversazioni tra persone che sembrano essere al di là della stessa lingua che essi chiamano la propria, oppure incapaci di ascoltarsi l’un 527 “I read most of the novel in a hotel room perched at an unnatural altitude high above the summit of Salt Lake City, Utah. […] The point of the trip was “business” — but it wasn’t my business, it was Jean’s. […] No one trained to interpret books was trained to manage a business or negotiate intricate relations among kooky personnel” (ivi, pp. 189-190). 528 “[D]escending to the hotel restaurant, I ate without making eye contact as though I were an undercover agent in a foreign locale, intent on a mission: solitude. […] I asked where was the pleasure of this text, and the book answered with this distinct manifestation of solitude” (ivi, pp. 193-194). 529 Questo termine, desunto dalla Affect Theory, viene da Robyn Warhol, Having a Good Cry. Effeminate Feelings and Pop-Culture Forms, The Ohio University Press, Columbus 2003. Cito dal commento che ne fa Donata Meneghelli in Senza fine, cit., p. 9.

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l’altra, o ancora assediate dall’impossibilità del desiderio nel linguaggio […] ho sentito gli innocenti cinguettii di mio nipote, suoni che si facevano significativi solo per lui, mentre era circondato da terapeuti intenti a rendere il suo linguaggio significante anche per loro530.

L’età ingrata è adesso specchio della sfera del proprio privato: ripulito da altre letture critiche e dal compromesso intellettuale tra linguaggio letterario ed esperienza del lettore, è ora un testo con un’unica funzione. La solitudine esperita è riscattata dalla lezione del romanzo, la quale è stata ricavata da un’interpretazione a seguito della prima lettura del L’età ingrata. La lezione del romanzo ha una diretta ricaduta etica sull’episodio del nipote, in cui awkwardness viene a significare un “essere speciale”. La rinuncia all’interpretazione critica è ben più evidente in un libro anch’esso fortunato (tradotto in italiano) di William Deresiewicz, A Jane Austen Education (2011). Questo testo testimonia, come è stato per il Pinocchio di Manganelli, della fortuna e del fascino che la narratrice inglese esercita su un pubblico vasto e diversificato, se come pochi altri l’universo di Jane Austen è stato da sempre foriero di prequel, sequel, adattamenti intermediali, fanfictions, ecc531. Tuttavia, almeno per l’intento popolarizzante del libro di Deresiewicz, costituisce una fonte di ispirazione – come forse per molti altri di questi pseudo-saggi – il saggio dello scrittore svizzero Alain de Botton (che scrive in inglese): anche se meno personalizzato a livello autobiografico, c’è almeno un inserimento importante, con la fotografia della fidanzata dell’autore, 530 “In the background of this novel, a novel made up of entirely of conversations between people who seem either beyond the ken of the very language they call their own, or unable to hear each other, or beset by impossibility of desire in language […] I heard the innocent chirpings of my nephew, making sounds only meaningful to him, surrounded by therapists intent on making his language meaningful to them too” (Mary Cappello, Awkward, cit., pp. 195-196). 531 Vedi Claire Harman, Jane’s Fame. How Jane Austen Conquered the World, Canongate Books, Edinburgh 2009 e Donata Meneghelli, Jane Austen: tra brand e desiderio, in «Between», vol. 4, n. 8, 2014. “Certo che ti piace Jane Austen, ma come scegli la tua Austen? Nella forma del romanzo? L’adattamento televisivo con Colin Firth, o l’adattamento cinematografico con Kiera Knightly? Come un resoconto romanzato delle letture dei romanzi di Jane, come in The Jane Austen Book Club? Oppure, in una nuova versione del romanzo completa di guida al lettore, o nell’adattamento cinematografico con Emily Blunt che interpreta un personaggio che legge Persuasione con tanta passione? O come tutto quanto sopra, in qualsiasi momento, mentre navighi attraverso tutte le possibili esperienze di Austen?” (Jim Collins, Bring on the Books for Everybody. How Literary Culture Became Popular Culture, Duke University Press, Durham 2010, p. 4).

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all’inizio del volume: questo riferimento personale funge da exemplum della funzione pedagogica di Proust per la vita quotidiana532 e fa di How Proust Can Change Your Life un modello emotivo e sintomatico di divulgazione dei classici. Con Deresiewicz, infatti, entriamo a pieno titolo in un’atmosfera postmoderna in cui gli studi letterari rivendicano concretamente una nuova libertà dalla teoria, un affrancamento dai tentativi di sistematizzazione del letterario in favore di un ritorno a meccanismi cognitivi di lettura improntati al contatto diretto e non-mediato con i testi della tradizione: è un periodo sensibilmente post-teorico, cominciato pienamente soltanto alla fine del secolo scorso e che stiamo ancora vivendo533. L’opera di Deresiewicz assume particolare interesse per il montaggio tra una narrazione prettamente autobiografica e il discorso critico su Jane Austen. Questo libro fa un peculiare uso delle opere dell’autrice al punto da rendere ambiguo ogni rapporto di forza ravvisabile tra l’analisi dei testi e la narrazione autobiografica, come se diventasse impossibile decidere quale sia il piano oggettivo che permette di illustrare, spiegare e giustificare l’altro. Se i testi non occupano il ruolo di semplici esempi per dimostrare un’ipotesi attorno all’opera di Jane Austen, sono i libri stessi a scandire gli episodi idonei a segnare la vicenda privata del personaggio autobiografico di Deresiewicz. A Jane Austen Education è una sorta di racconto autobiografico e di formazione di un dottorando alla Columbia University di New York attraverso i problemi della vita quotidiana (come li elenca il sottotitolo: l’amore, l’amicizia, l’indipendenza personale), dal cominciamento della tesi fino al matrimonio. Il ruolo di aiutante attribuito all’opera di Jane Austen consente di includere questo pseudo-saggio all’interno della categoria di saggio personale, un personal essay, in cui il discorso sembra mutuare qualche strumento dalla critica del testo soltanto per poterne ricavare un fine propedeutico e di etica individuale. La forma pseudo-saggistica di Deresiewicz è una reazione diretta e decisa al saggio accademico cui è stato formato durante il dottorato e il suo periodo come professore uni-

532 Alain de Botton, How Proust Can Change Your Life, Picador, London 1998, pp. 22-24. 533 Si potrebbe perfino dire che esiste ormai una sorta di haine de la théorie, come sapere universitario ufficializzato ma senza fondamento, di cui Antoine Compagnon ha ricostruito la storia in Le démon de la théorie: littérature et sens commun, Seuil, Paris 1998.

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versitario534. Il percorso comincia con un primo momento di liberazione del giovane dottorando dai pregiudizi rispetto all’opera della scrittrice: Le parole di Austen, al di là di quello che lei disse con queste, mi sembravano ridicole quando le ascoltavo per la prima volta. Ero abituato alla genialità stilistica che colpiva alla testa: i labirinti sintattici di Joyce, il misterioso vocabolario di Nabokov, le austerità scolorite e sbiancate di Hemingway535. Avendo adorato l’altare del modernismo, con i suoi punti di vista arroganti e quelle altisonanti nozioni piene di significato filosofico, credevo che la grande letteratura dovesse essere proibitiva ed esoterica: piena di allusioni che ne ostentavano l’apprendimento, densa d’immagini e di simboli che dovevano essere rimessi assieme come in un gigantesco puzzle536.

Il giovane Deresiewicz comincia la lettura del romanzo Emma per caso. Se all’inizio trova ancora superficiale la scrittura di Austen, si sbarazza ben presto delle sovrastrutture interpretative e ritorna a leggere con gli occhi del semplice lettore, di colui che adotta il punto di vista più ingenuo, che non mette volontariamente nessun filtro tra la propria identità e il romanzo, lasciandosi plagiare dal gioco dell’identificazione con i personaggi e col loro mondo: E finalmente capii quello che Austen era stata da sempre. La crudeltà di Emma, che ero così pronto a criticare, non era nient’altro, capii, che 534 “Il saggio si oppone alle dottrine e ai discorsi, alle strutture organizzative della conoscenza accademica – da qui, l’abbandono del saggio nei livelli superiori del sistema letterario accademico. Quindi, anche il suo impiego massiccio ai livelli inferiori, come una forma preliminare, dipende ancora dalle conoscenze personali, da usare solo fino a quando lo studente non abbia acquisito una sufficiente conoscenza impersonale per scrivere i saggi per i suoi esami ed, eventualmente, articoli accademici, dove l’elemento personale sia minimizzato” (Graham Good, The Observing Self, cit., pp. 4-5). 535 “Austen’s words, quite apart from what she said with them, also struck me as ridiculous when I first heard them. I was used to stylistic brilliance that hit you over the head: Joyce’s syntactic labyrinths, Nabokov’s arcane vocabulary, Hemingway’s bleached-bone austerities” (William Deresiewicz, A Jane Austen Education. How Six Novels Taught Me About Love, Friendship, and the Things That Really Matter, Penguin Books, New York 2012, p. 15). 536 “Having worshipped at the altar of modernism, with its arrogant postures and lofty notions of philosophical significance, I believed that great literature had to be forbidding and esoteric: full of allusions that flaunted their own learning, dense with images and symbols that had to be pieced together like a giant jigsaw puzzle” (ivi, p. 34).

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l’immagine speculare della mia. […] Creando un’eroina che si sentiva esattamente come me, e che si comportava esattamente come avrei fatto io nella sua stessa situazione, [Austen] mostrava a me stesso la mia brutta faccia537.

Si tratta in sostanza di una sorta di epoché (anti-)critica, un ritorno alla relazione originale del lettore con il suo oggetto privilegiato – la lettura – grazie a una tabula rasa delle sovrastrutture teoriche precedentemente assimilate, per educazione e per provenienza (nel caso specifico dal ceto intellettuale newyorkese e dal contesto socio-religioso della comunità ebraica). Questo rapporto diretto e identificatorio con i testi è esplicitamente difeso sia come modalità di apprendimento individuale, sia come metodo più appropriato per interpretare l’opera di Jane Austen. L’autore lo confessa proprio nel momento in cui elogia l’accademico che, paradossalmente, gli avrebbe aperto la via della liberazione dalla teoria – Karl Kroeber (1926-2009), cui il libro è dedicato, professore alla Columbia, esperto di romanticismo inglese e letteratura nativo-americana e teorico dell’ecologia applicata alla critica letteraria. Eppure, lo stesso Deresiewicz non può non riconoscere che si tratta di un modo di lettura prettamente di consumo: Gli studi letterari, stava cercando di dirci [il Professore], non servivano a imparare un linguaggio segreto o a padroneggiare una scatola di attrezzi teorici. Non si trattava nemmeno di inventarsi una nuova personalità professionale. Si trattava invece di rimettersi in contatto con i modi con cui siamo stati abituati a leggere – i modi in cui le persone leggono quando leggono per divertimento – ma anche di intensificarli, rendendoli più riflessivi e più profondamente consapevoli538.

537 “And that was what I finally understood what Austen had been up to all long. Emma’s cruelty, which I was so quick to criticize, was nothing, I saw, but the mirror image of my own. […] By creating a heroine who felt exactly as I did, and who behaved precisely as I would have in her situation, she was showing me my own ugly face” (ivi, pp. 11-12). 538 “Literary studies, [the Professor] was trying to tell us, was not about learning a secret language or mastering a bag of theoretical tricks. It was not about inventing a new, professional personality, either. It was about getting back in touch with the ways we used to read – the ways people read when they’re reading for fun – but also about intensifying them, making them more thoughtful and deeply informed” (ivi, p. 99).

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Piuttosto che convalidare due modelli di lettura ugualmente legittimi, e presentarsi semmai come il lettore “perfetto” (universale, totalizzante), capace di porre rimedio alla scissione tra teoria e lettura, l’autore sceglie a proprio metodo la lettura “per divertimento” come possibile forma dell’intensificazione dell’esperienza che si può fare dei testi. Vediamo in concreto in cosa consiste tale perfezionamento della “riflessione” e della “consapevolezza” della lettura critica. L’ordine di esposizione dei sei romanzi, con lunghe citazioni senza riferimenti alle pagine o alle edizioni – Emma, Pride and Prejudice, Northanger Abbey, Mansfield Park, Persuasion, Sense and Sensibility – non è quello cronologico di pubblicazione o di composizione; ma è un altro, vincolato alla storia di formazione dell’individuo che i libri devono contribuire a portare a termine. In sostanza, il racconto della lettura converge al servizio di un soggetto preciso, con un nome proprio determinato, che forma la sua consapevolezza tramite un’identità narrativa, quindi in maniera diversa da Shields e in modo più diretto di Cappello. Lettura e racconto s’influenzano e si cercano a vicenda, finendo per appiattire l’indagine verso la ricerca di un uso economico della critica, al fine di facilitare un ritorno all’esplicitazione immediata di un senso morale e utilitaristico. Il lettore dei romanzi di Austen si rappresenta quindi in tutta la sua ampiezza cronologica come un individuo storico-biografico, medio, seriale, non più parente dell’homo interpretativo capace di porre davanti a sé la responsabilità delle proprie generalizzazioni e astrazioni critiche. Sempre meno al crocevia di rappresentazione letteraria e invenzione teoretica, anche lo pseudo-saggio autobiografico sembra oggigiorno partecipare alla diffusione di quel fenomeno contemporaneo delineato da Jim Collins: la letteratura è ancora parte della cultura popolare e in misura maggiore perché la comunità dei lettori tende sempre più a personalizzare i testi letterari della nostra tradizione539, a usarli per la costruzione e l’espressione di una miriade di identità particolareggiate, ma senza oggettivarli in quella presa di distanza da cui nasce l’interrogativo critico e, successivamente, il potenziale interpretativo. Nondimeno, il libro di Deresiewicz è particolarmente rilevante perché mostra un saggista che ci narra com’è diventato questo lettore che ha rinunciato, certo assieme a una concezione forse elitaria della cultura, al privilegio della 539 Jim Collins, Bring on the Books for Everybody, cit., p. 4.

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riflessione intellettuale, attraverso uno sforzo narrativo e autobiografico pari a quello che il suo doppio accademico – precedente, assente – ha fatto in passato o avrebbe fatto in un’analisi di (altri) testi. Nella dialettica oppositiva che il volume istituisce tra i due tipi di lettore, quello che l’autore è diventato priva entrambi della possibilità di una sintesi. L’ultimo caso di pseudo-saggio autobiografico convocato è rappresentato da The Scientists. A Family Romance di Marco Roth, pubblicato nel 2012, l’anno seguente il libro di Deresiewicz. Più che impegnarsi in uno storytelling autobiografico, The Scientists descrive un’indagine attorno a un segreto biografico altrui. In questo romanzo familiare – come lo descrive il sottotitolo – l’inserimento delle sequenze narrative è funzionale alla ricerca dell’autore, ma queste sequenze sono nuovamente organizzate attorno a un vero corpus letterario: l’elenco dei libri amati dal padre dell’autore. Di nuovo in macchina, tornando indietro alla svolta mancata, ricominciai a pensare a quegli scrittori e ai loro romanzi, alle pagine in cui mio padre avrebbe potuto sentirsi compiutamente vivo. Se dovessi cercarlo, per salvare la sua reputazione dal ritratto che ne fa mia zia – fratello minore, debole e timido omosessuale mancato – sarebbe tra questi, i suoi veri segreti e i suoi veri amori insoddisfatti. Ho cercato di ricordare le storie e i romanzi che lui aveva messo sul mio cammino quando ero adolescente, e stava morendo. Mi venne in mente una lista: La metamorfosi, Tonio Kröger, Il rosso e il nero, Oblomov, Così muore la carne, Padri e figli540.

Anche in questo caso i testi sono di aiuto all’interpretazione della vita, benché stavolta sia quella del padre. Non sarà necessaria una ricostruzione biografica da parte dell’autore. È sufficiente una testualizzazione della memoria del padre, la cui figura è completamente reinterpretata 540 “Down again in the car, retracing my way back to the missed turn, I began to think again of those writers and their novels, among the pages of which my father might have felt most fully alive. If I were to look for him, to salvage his reputation from my aunt’s portrait of the enfeebled, timid homosexual manqué, the kid brother, it would be among them, his true secret and unfulfilled loves. I tried to remember the stories and novels he’d put in my path when I was teenager and he was dying. A list came to mind, then: The Metamorphosis, Tonio Kröger, The Red and the Black, Oblomov, The Way of All Flesh, Fathers and Sons” (Marco Roth, The Scientists. A Family Romance, Farrar, Straus and Giroux, New York 2012, p. 119).

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da Roth attraverso il confronto tra i suoi ricordi e i suoi commenti ai testi della lista. La lettura biografica di questi romanzi cancellerà l’immagine pubblica del padre, morto di Aids, e respingerà le accuse della zia in relazione ai suoi segreti sessuali. Da parte loro, i testi si rappresentano già nella forma di ricordi autobiografici, piuttosto che come ipotesti indipendenti, e non hanno altro scopo se non quello di rivelare gli indizi della vera personalità: Ero quasi convinto che mio padre non mi avesse letto Tonio Kröger per mostrarmi che i miei sentimenti a Riverdale erano, come lui aveva affermato, “normali”, o che quello che mi stava succedendo a scuola era qualcosa che era già stato sperimentato da Thomas Mann, un secolo prima, ma perché aveva riconosciuto, nella mia stessa vulnerabilità di undici anni, un’apertura in cui piantare il seme per una futura confessione che non avrebbe mai avuto il tempo o il coraggio di fare541.

Nelle ultime due opere di William Deresiewicz e Marc Roth l’io autobiografico dell’autore rende l’interpretazione letteraria dei testi una funzione sussidiaria alla narrativa autobiografica e biografica. Da un lato, i saggi critici vengono attratti dalle forme narrative della non-fiction per mezzo dell’autobiografia. Dall’altro, se i testi rispettano il patto autobiografico, ciò non impedisce che una relazione metatestuale agisca in questi saggi. In particolare, a prescindere dagli effetti di leggibilità della struttura autobiografica, i vari segmenti della catena diegetica si riferiscono continuamente a certe opere letterarie citate o lette attraverso un commento. Se l’identità dell’io autoriale può articolarsi in una struttura narrativa in A Jane Austen Education e The Scientists, i riferimenti letterari, le citazioni e i commenti si aprono a una relazione che, tra opere citate e racconto autobiografico, può essere definita come metatestuale. Ma il significato veicolato da tale relazione è un’interpretazione di tipo morale, rivolta a cercare nei testi 541 “I was almost convinced that my father hadn’t read me Tonio Kröger to show me that my feelings at Riverdale were, as he’d claimed, “normal,” or that what was happening to me at school was something that had already been experienced by Thomas Mann, a century earlier, but because he’d recognized, in my own eleven-year-old vulnerability, an opening in which to plant the seed for a future confession he’d never have the time or courage to make” (ivi, p. 136).

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una lezione etica per la vita. I romanzi vanno indagati per discernere meglio nella propria interiorità e decidere come comportarsi per raggiungere la realizzazione individuale: la felicità come risposta da esibire tramite la scrittura. Si possono prendere a modello, ancora una volta, i capitoli del saggio di Alain de Botton, How Proust Can Change Your Life, che terminano quasi sempre con un paragrafo che risponde alla domanda: “La morale?”542. Così, l’intenzione estetica della forma letteraria è mutata in una risorsa principalmente etica, volta alla personalizzazione da parte dell’individuo dei prodotti culturali, siano romanzi classici o contemporanei. Nel contesto editoriale e letterario di oggi, l’anti-conformismo che il saggista veicolerebbe per Adorno (l’“eresia” del saggio543) si allinea invece a un conformismo della figura dell’autore che può essere definito di sistema. Per Pierre Bourdieu, l’autore moderno non si definisce per la sua appartenenza a un corpo sociale, ma piuttosto per la sua capacità di resistere all’integrazione, pur affermandosi abbastanza da entrare nei rapporti sociali di potere544. Negli autori appena considerati appare una postura anti-critica, che rifiuta un commento argomentativo dei testi per darne un’interpretazione originale. Al contrario, un’interpretazione di se stessi in quanto originali consente agli autori di ritagliarsi uno spazio nella saggistica contemporanea che, se resta fuori dal saggio critico, nondimeno partecipa del potere commerciale della nonfiction literature. In sostanza, come scrive Giacomo Tinelli: “l’autofiction è uno dei molti fatti estetici che danno sostanza al processo socio-culturale di personalizzazione, e cioè che in qualche modo, secondo dinamiche e posizionamenti variabili e complessi, essa partecipi, colluda in modo plurivoco alla forma ideologica predominante”545. La rinuncia alla critica dell’ideologia da parte dello pseudo-saggio autobiografico ha ovviamente un prezzo. Se il suo portato autoriale gli consente di partecipare e approfittare di un campo letterario più esteso di quello del saggio critico, questo saggista deve accettare un’alienazione complementare rispetto al proprio ruolo: quella che cancella il portato dialettico del proprio pensie542 Alain de Botton, How Proust Can Change Your Life, cit., passim. 543 Theodor W. Adorno, “Il saggio come forma”, cit., p. 29. 544 Vedi Pierre Bourdieu, La Distinction, cit. 545 Giacomo Tinelli, “Il carnaio di ora”: autofiction, desiderio e ideologia nell’opera di Walter Siti, cit., p. 25.

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ro, mentre contemporaneamente la forma saggistica si ritrova anch’essa alienata dal suo stesso prodotto: l’originaria meta-testualità critica.

6.2. Lo pseudo-saggio autobiografico in Italia Lo pseudo-saggio autobiografico non è, ovviamente, un genere solo statunitense, ma, come dimostrano le traduzioni in italiano di alcuni già citati, pare candidarsi quale pratica letteraria diffusa anche in Italia. Concludiamo quindi analizzando tre pseudo-saggi autobiografici usciti nel nostro Paese negli ultimi tre anni. Andrea Caterini pone la necessità di una propria “critica autobiografica” già nel suo Il principe è morto cantando (2011): “L’autobiografia […] non come scelta di una forma o di un genere, ma come ineludibile vizio individuale. Il critico fa autobiografia perché non sa inventare altre vite all’infuori della sua”546. Eppure, questo libro non è autobiografico, ma s’impegna in vera analisi di vari personaggi letterari entro la costruzione narrativa dei romanzi che li rappresentano. Al contrario, il suo Vita di un romanzo (2018) contempla un tentativo di superare il “problema” di un saggio su Proust attraverso una forma pseudo-saggistica che vuole essere, come altre trattate in questo studio, un superamento di generi letterari preesistenti. Nella nota ai materiali di lavoro, prima di stilare una bibliografia ragionata dei testi critici utilizzati, bilanciando al pari entusiasmo e freddezza547, Caterini si congeda dalla sua opera confessando i propri obiettivi: Ma come parlare attraverso Proust? Mi si poneva insomma un problema di forma. Avrei potuto scrivere un libro di critica letteraria, o un saggio filosofico, o di teoria del romanzo. Mi parevano però tutte soluzioni insufficienti distinte l’una dall’altra. Cercavo una forma che le contemplasse tutte. La possibilità di rendere pubblico il progetto di un’opera. Fare del progetto, dico, l’opera stessa. Provare insomma a scrivere la biografia di una mente al lavoro548. 546 Andrea Caterini, Il principe è morto cantando. Un’autobiografia letteraria attraverso l’analisi critica del personaggio, Gaffi, Roma 2011, p. 10. 547 Riguardo al già citato libro di Mario Lavagetto, Quel Marcel! Frammenti della biografia di Proust, Caterini scrive: “mi è parso, però, forzasse un po’ troppo il discorso nel raffronto freudiano, quindi con la psicologia” (Id., Vita di un romanzo, Castelvecchi, Roma 2018, p. 122). 548 Ivi, p. 120.

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La “biografia di una mente al lavoro” si dispiega in una scrittura in cui vari capitoli raffrontano episodi autobiografici al commento della Recherche e di altre opere proustiane, combinando dunque assieme – più precisamente – autobiografia vera e propria e critica interpretativa, ma sintomatica negli effetti che la lettura di Proust ha avuto nel corso della vita. Tra questi due generi Caterini non stabilisce una gerarchia, ma pare piuttosto utilizzare una strategia che abbiamo già incontrato: il luogo come spazio memoriale in cui il saggista inserisce il proprio autoritratto di lettore, o di “mente”, al lavoro549. Tale raffronto procede così dalla visita alla tomba dello scrittore al cimitero di Père-Lachaise550 alla comparazione tra il proprio risveglio nella casa paterna e “tutte le colazioni, i pranzi e le civetterie di cui Proust riempiva a dismisura le pagine della Ricerca”551; dalla sua carriera di pugile, dai luoghi della palestra e della caserma, alle difficoltà incontrate da Proust nell’approdo al romanzo dopo Jean Santeuil552; dalle conversazioni con Franco Cordelli al senso delle “intermittenze del cuore” proustiane553; dai rapporti sentimentali dell’autore al personaggio di Albertine in Proust, e viceversa554. Vita di un romanzo è insomma un vero compromesso tra l’incapacità del saggista a dare forma a personaggi e destini finzionali e il desiderio di scrivere lo stesso qualcosa riguardo al proprio destino, utilizzando una scrittura proiettiva che dall’opera letteraria ottiene – per giustapposizione di caratteri morali tra l’io e i personaggi dei romanzi – la possibilità di formare con materiali eterogenei – autobiografici e finzionali altrui – il proprio autoritratto. Non è un caso che, in chiusura del libro, Caterini citi Debenedetti come modello di una critica autobiografica: “[p]er parlare del romanzo ho dovuto parlare di me, convinto, insieme a quel buon nome di Giacomo Debenedetti, che il 549 Un altro pseudo-saggio autobiografico usa i luoghi di Torino per sovrapporre l’autoritratto del suo autore a quello di alcuni scrittori: ad esempio l’annuncio immobiliare dell’alloggio dove ha abitato Emilio Salgari, la stanza di albergo dove si è suicidato Cesare Pavese. Gli altri due scrittori trattati sono Primo Levi e Carlo Fruttero (Demetrio Paolin, Non fate troppi pettegolezzi. La mia dipendenza dalla scrittura, LiberAria Editrice, Bari 2014). 550 Andrea Caterini, Vita di un romanzo, cit., pp. 21-25. 551 Ivi, p. 37. 552 Ivi, pp. 48-58. 553 Ivi, pp. 68-69. 554 Ivi, pp. 66-70.

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romanzo sia qualcosa che ci riguarda profondamente: ‘Si tratta anche di te’”555. Il secondo pseudo-saggio è una narrazione familiare del rapporto tra padre e figlia, la quale racconta dell’impatto che ha sui due “protagonisti” la lettura del Don Chisciotte della Mancia di Cervantes. In Mia figlia, don Chisciotte (2017), Alessandro Garigliano sceglie la via di un parallelismo ben più strutturale di quello di Caterini. Innanzitutto, il volume segue i capitoli del romanzo di Cervantes, rispettando anche con due prologhi la suddivisione in due parti. Inoltre, i titoli dei capitoli introducono il parellelismo tra il mondo finzionale di Cervantes e il mondo autobiografico domestico, già a livello della presentazione paratestuale del sommario: ad esempio, il capitolo quarto recita: “Dove si narra della follia di mia figlia e di don Chisciotte”556. In apertura del volume, Garigliano giustifica così tale parallelismo, da risolversi in una “narrazione critica” in cui l’io autoriale assume inizialmente un ruolo fittizio: Mascherato da docente ho deciso di scrivere un testo che più che un saggio è una narrazione critica del Don Chisciotte. Ma non sembro affatto un docente: sembro invasato. […] Forse dovrei ascoltare quei critici e smettere di leggere i saggi; dovrei bandire le mediazioni e penetrare nel testo in modo ignorante. In effetti, sempre più spesso, sovrappongo allo studio una sorta di dialogo con Cervantes. Se da un lato mi ostino a radiografare le idee, ad analizzare i passaggi ricostruendo il contesto, dall’altro la vicenda investe la mia vita privata. Del tutto spaesato, non riesco a capire in che direzione orientare mia figlia. […] In fondo sarebbe meglio così, identificarsi con un Cervantes ironico e spietato e insegnare a mia figlia banalmente che i mulini a vento sono solo una breve illusione557.

Indossando la maschera dello specialista, Garigliano si pone nella scrittura come qualcuno che non è ma che vorrebbe essere: un autoritratto mancato con cui riscattare, attraverso la scrittura, la propria disoccupazione lavorativa e la dimensione ristretta della vita domestica, il suo 555 Ivi, p. 124. 556 Alessandro Garigliano, Mia figlia, don Chisciotte, NNEditore, Milano 2017, p. 51. 557 Ivi, pp. 8-9.

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ruolo di personaggio paterno. In teoria, se la lettura “investe la vita privata”, il commento del romanzo non può che imprimere una svolta anche nella rappresentazione di tale lettura. La “narrazione critica” devia però subito verso una penetrazione “ignorante” dell’ipotesto, restituita dai commenti metatestuali che l’autore proferisce davanti alla figlia: la necessità della comunicazione e del riconoscimento reciproco nei rispettivi ruoli di padre e figlia, la validazione anelata dall’io autoriale rispetto alla postura vagheggiata, fanno di questo rapporto “dialogico” un vero dialogo familiare che l’autore riproduce e scrive. Lo scopo della lettura diviene così quello di orientare tale relazione dialogica verso il bene, che altro non è che la corretta educazione morale della figlia e la migliore preparazione possibile alla vita. Il romanzo di Cervantes non è cioè interpretato o riassunto in una scrittura parallela, ma attualizzato in un contesto contemporaneo che è ristretto al microcosmo domestico, e di conseguenza rimesso in azione come in un gioco educativo. Raccontando degli effetti che la lettura di Cervantes ha sulla figlia558, Garigliano giunge a fare un pastiche autobiografico del romanzo559, mentre inscena il dialogo tra sé e la figlia in una performance della scrittura con cui i personaggi mimano le avventure del Chisciotte. In particolare, Garigliano recupera, nella sua rappresentazione del rapporto familiare tra padre e figlia, il tema dell’identificazione di Chisciotte con i cavalieri erranti: l’ascolto del Don Chisciotte muta la figlia nello stesso protagonista di Cervantes, la quale si fa così il “don Chisciotte” dell’avventura di essere padre narrata da Garigliano. Se il principio di questa trasformazione intertestuale risiede nel rispetto della natura allucinatoria del romanzo560, l’imitazione si pone come 558 “La situazione continua a stupirmi. Mia figlia non ha l’età per godersi la storia. Io cerco sempre di plasmarle l’avventura con i testi […]. Eppure mia figlia non si distrae un secondo, non si alza per scorrazzare con il passeggino da bambole scheggiando mobili e porte. Anzi, a volte la vedo di sottecchi replicare con le braccia e le mani i miei movimenti” (Ivi, p. 18). 559 “Come nello scontro con i mulini a vento, vorrei che il movimento della mia narrazione fosse insoddisfatto, incompiuto: e velleitario ridicolo tragico” (ivi, p. 224). Più precisamente, il libro di Garigliano si può definire al contempo un pastiche in variazione transtilistica (vedi ancora Gérard Genette, Palimpsestes, cit., p. 165) e una trasposizione di sesso del personaggio, che Genette esemplifica con il Quichotte femelle di Charlotte Lennox (ivi, p. 423). 560 La trasposizione allucinatoria di questo pseudo-saggio verrebbe insomma dalla stessa natura di “antiromanzo” che Gérard Genette riconosce al Don Chisciotte: “un eroe […] incapace di percepire la differenza tra la finzione e la realtà [che] si prende

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inversamente funzionale rispetto a quanto avviene nella lettura e nel commento dell’ipotesto che il padre fa alla figlia. I rapporti di forza per cui è il padre a guidare la figlia nella lettura vengono invertiti nel corso del dialogo: E mentre la bimba, stanca di ascoltarmi, mi tira la mano, intuisco in un attimo per quale ulteriore motivo è felice che Sancio accetti la sfida: lei è don Chisciotte! […] Da quando è nata mia figlia, ho cominciato ad apprezzare di Sancio doti fino ad allora ignorate o peggio ridicolizzate. […] Polemizzando a distanza contro Cervantes, capisco di avere sbagliato a suo tempo a puntare sul Cavaliere, da adesso dovrò leggere e affrontare la vita con maggior accortezza ma senza rassegnazione: devo seguire mia figlia al passo di un asino e armarmi di sapienza e umiltà, servendole alla bisogna lo scudo e la lancia561.

Se i commenti dell’autore al Chisciotte sono di responsabilità interpretativa del “padre”, questo assume nella narrazione autobiografica una terza postura, o figura diegetica, dopo quella del “docente” e del padre responsabile: la sua identità immaginaria è Sancio Panza. Non è tutto: Garigliano narra di una trasformazione donchisciottesca della casa, come fosse lo scenario di un’avventura del cavaliere errante, e dunque della vita stessa. Le mura domestiche possono giocare il ruolo di un castello “fatato”, in cui riprodurre teatralmente alcune avventure del romanzo; il garage può diventare il fortino che l’autore vorrebbe mettere in piedi come una “distopia domestica”562; la motocicletta si trasforma in “Brummante”, chiamata così in onore del cavallo Ronzinante di Chisciotte; eccetera. Il terzo pseudo-saggio autobiografico è scelto dalla collana “Passaparola” di Marsilio, che ha già pubblicato sei volumi – tutti dedicati alla lettura di grandi autori e che potrebbero, in teoria, essere inclusi nelle categorie dello pseudo-saggio563 – di cui l’ultimo è Una serie ininper uno dei suoi personaggi […]. La relazione di un tale genere con la parodia è evidente” (ivi, p. 206). 561 Alessandro Garigliano, Mia figlia, don Chisciotte, cit., pp. 46-48. 562 Ivi, p. 65. 563 La descrizione sul sito della casa editrice e riprodotta nei colophon editoriali identifica la collana come “l’incontro tra un libro e uno scrittore”: essa “raccoglie brevi memoir di scrittori italiani che si confrontano con un libro speciale, e dunque con le proprie ossessioni, con la propria biografia, vera o presunta, dando vita a un gruppo di lettura che unisce lettori e scrittori” (URL: www.marsilioeditori.it/notizie/58-pas-

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terrotta di gesti riusciti. Esercizi su Il grande Gatsby di F. Scott Fitzgerald di Alessandro Giammei. Tanto il titolo generale quanto quelli di tutti i ventisei capitoli – disposti secondo l’ordine della successione alfabetica564 – sono citazioni del Grande Gatsby. Nonostante il legame annunciato, il libro di Giammei non s’impegna in qualche relazione interpretativa del romanzo, ma narra un episodio della vita dell’autore (con alcune analessi e prolessi): la sua emigrazione intellettuale negli Stati Uniti, in particolare nel momento del postdottorato a Princeton. Rincontriamo dopo Deresiewicz la questione della relazione problematica tra lettore specialistico e scrittore autobiografico. Forse anche perché consapevole – da specialista di letteratura italiana – dello statuto storico e nondimeno mobile dei generi565, quest’autore sembra ricondurre coscientemente il suo Esercizi su Il grande Gatsby alla forma dello pseudo-saggio: Quando arriviamo da Marsilio comincio a preoccuparmi, perché mi sembra che tutti prendano sul serio questo libro: che non ne abbiano capito la portata infinitesimale – è una truffa, che spero piacevole ma sempre una truffa, chi legge fin qui già lo sa e mi perdona […] questo, ripete la direttrice di collana come una preghiera, non è un saggio. […] Mi spiega che devo finire entro dieci giorni, che questo è il mio esordio alla narrativa566. Troppe volte apro il file di questo libro e mi rendo conto di non sapere cos’è che sto scrivendo. È una collezione di saggi personali, come si usa qui quando si è studiosi di successo tra un vero libro accademico e l’altro? È un memoir, una guida sentimentale a Fitzgerald, un saparola-la-nuova-collana-marsilio-che-fonda-un-gruppo-di-lettura-di-scrittori-e-lettori, consultato il 17 maggio 2019). 564 “Anche per questa disciplina al destino, sia detto per inciso, i capitoli del libro hanno ognuno una lettera in ordine alfabetico invece che un numero: è una serie ininterrotta ma chiusa in partenza, per forza, con un capo alla a e un porto alla zeta” (Alessandro Giammei, Una serie ininterrotta di gesti riusciti. Esercizi su Il grande Gatsby di F. Scott Fitzgerald, Marsilio, Venezia 2018, p. 102). 565 In appendice, dove si trovano i riferimenti bibliografici, l’autore convoca alcuni generi da noi considerati nella loro relazione con lo pseudo-saggio: “Per quanto riguarda il genere (questo ibrido tra personal essay e autofinzione: questo fiacco puntare al romanzo-saggio) non mi metterò a nominare i morti”, ma “alcuni tentativi più o meno recenti di adoperare tendenziosamente la propria biobibliografia” (ivi, p. 156). 566 Ivi, p. 143.

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reportage? Un romanzo, come leggerò sulla bandella due mesi prima di lasciare Princeton? Scientificamente e poeticamente l’invenzione è risultato di una ricerca, di un andar trovando, ma quando si tratta di prosa senza note (come mi prudono i polpastrelli a non mettere note ai piedi di queste pagine) inventare non è che mentire, più o meno consapevolmente567.

Nel volume, sono presenti numerose indicazioni di regia come quelle di queste due citazioni: rimandi al testo che è scritto come se si stesse ancora scrivendo, come se l’enunciatore fosse ancora impegnato nell’atto della redazione e tentasse di riaprirla retrospettivamente, per evitare che la forma stessa del libro esemplifichi il suo destino, in una scrittura a propria volta finalistica e non più emendabile. Si rivela, in questo caso, una concezione della scrittura come possibilità di un’altra forma che non è esplicitamente raggiunta e congedata con un punto fermo e un termine netto. Esercizi su Il grande Gatsby significa un’esercitazione alla forma dello pseudo-saggio, in una scrittura che s’interroga sulla propria irrisolta sintesi formale. Si colloca perfettamente nel camuffamento e nella falsificazione attuate da questa categoria, o – per usare le parole di Giammei – si confessa come “piacevole truffa”. La sua “prosa” non è una scrittura di finzione e, come nella non fictional literature, non è neppure un approdo al romanzo: l’opera si colloca nella tensione tra la responsabilità della riflessione saggistica e quella della “menzogna” narrativa. Un altro punto d’interesse risiede nell’uso che Giammei fa dell’ipotesto di Fitzgerald. Non appare un’identificazione con il romanzo o il personaggio di Gatsby568. Più chiaramente dei precedenti, ritroviamo in questo pseudo-saggio la pratica dell’autoritratto, poiché l’autore, a differenza degli altri, si sottrae a un inserimento della sua figura nella catena narrativa dell’autobiografia. Al quart’ultimo capitolo, Giammei confessa: Ecco, sono finito a immedesimarmi in Gatsby come la giovane Sylvia Plath (se non sbaglio) s’immedesimò in Daisy; che banalità. […] Uno 567 Ivi, p. 48. 568 “Gatsby incontra Daisy a ventisette anni, l’età che ho io quando arrivo a Princeton – l’America è Daisy, in questo libro? Di certo io non sono Gatsby” (ivi, p. 65).

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si legge in quel che legge, e dunque le biblioteche devono essere vaste abbastanza per dare respiro all’immaginazione di sé. La vita funziona uguale – più scrivo e più divento sentenzioso, come i vecchi, ma è la verità. E dunque confesso: sono venuto in America anche perché qualcun altro ci è andato prima e, immaginandomi in quei panni (e dunque indossandoli), mi è parso che calzassero569.

Le biblioteche non rendono possibile soltanto la riscrittura; non forniscono soltanto il materiale da cui uno scrittore parte per dare forma alle proprie intenzioni, attingendo al deposito dei generi, degli esempi e dei temi depositati da altri. Se scrivere porta a sentirsi “vecchi”, cioè distanti, oggettivati, la scrittura stessa porta a confrontarsi con una memoria pressoché universale e a rappresentarsi in una postura e raffigurazione memoriale, monumentale, licenziata dalla morte: un’aura nobile ma pesante, che ci fornisce la memoria letteraria quando ci rappresentiamo come autori. Come sostiene Michel Beaujour, la biblioteca – e con essa l’archivio, la memoria – offre una topica all’autoritratto dell’autore. L’autoritratto si distingue dall’autobiografia per l’assenza di un racconto continuo, prediligendo la subordinazione dei suoi elementi a uno sviluppo logico, di assemblaggio o montaggio in rubriche tematiche570. I titoli dei capitoli e la loro suddivisione nella successione alfabetica consentono a Giammei di ragionare retoricamente piuttosto che narrativamente. L’autoritratto si esplora come retorica, che si precisa anche in senso sociale e generazionale: il viaggio, la parentesi nella vita, la fuga all’estero sono rubriche del discorso sociale piuttosto che rappresentazioni geografiche; sono condizionamenti di un discorso stereotipato che la scrittura subisce e cerca di strappare al generale della doxa, e restituire così l’immagine dell’individuo in quanto soggetto di esperienze originali: “[s]ono qui, in fondo, per andarmene, nel migliore dei modi o un po’ vergognosamente – altro che retorica della fuga”571. Rappresentare la propria esperienza come originale in una scrittura porta comunque a vestire i “panni” di chi ha viaggiato (in America) prima, cioè copiare il proprio autoritratto sopra un modello che è stato già scritto e che è compito dell’autore riscrivere in proprio, performare direttamente e “camuffare” prima di esporsi al pubblico. 569 Ivi, p. 136. 570 Michel Beaujour, Miroir d’encre, cit., p. 8. 571 Alessandro Giammei, Una serie ininterrotta di gesti riusciti, cit., p. 102.

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L’autoritratto, nella storia da Montaigne fino a Barthes è, secondo Michel Beaujour, “una presa di coscienza testuale delle interferenze e delle omologie tra l’io microcosmico e l’enciclopedia macrocosmica”572. Nel terzo capitolo, abbiamo visto come una rappresentazione spaziale consenta all’autoritratto di raggiungere la forma dell’interferenza, cioè del montaggio dell’io autoriale dentro l’enciclopedia, come nei casi di Magris e Glissant. Al contrario, in questi pseudo-saggi autobiografici è oltremodo evidente un cambio di paradigma, che dall’epoca moderna orienta l’autoritratto individuale in senso contrario a quanto avveniva nell’Umanesimo, dove il passato culturale si sostituiva al passato biografico man mano che l’uomo si faceva adulto e colto573. In questi pseudo-saggi contemporanei, un io-frammento, un io-monade o – per usare un recente termine dell’antropologo Francesco Remotti – un io “piccolo insieme”574 interpreta la propria vita per parentesi sconnesse e per rivelazioni epifaniche; arrende il proprio destino a farsi senso dell’espressività, la quale non può garantire l’autenticità del soggetto, ma solo la sua capacità performativa più o meno originale da recitare sopra il palcoscenico della cultura. Al pari del proprio passato, anche la memoria culturale comune e l’enciclopedia dei testi subiscono un processo di personalizzazione negli autoritratti di questi lettori. La stessa personalizzazione dev’essere compresa all’interno di un fenomeno oggettivo che investe, più largamente, l’alienazione dei soggetti da se stessi, dai propri simili e dalla realtà materiale del mondo esterno, nonché dalla memoria culturale575. Non importa che gli autori s’identifichino o istituiscano un rapporto privilegiato con un solo testo (nel paragrafo precedente: Henry Ja-

572 Michel Beaujour, Miroir d’encre, cit., p. 30. 573 Ivi, p. 204. 574 Per Remotti, l’individuo contemporaneo non è intendibile soltanto come identità molteplice, ma anche come “piccolo insieme”, fatto di somiglianze e differenze tra sé e sé, e tra sé e gli altri. Vedi Francesco Remotti, Somiglianze. Una via per la convivenza, Laterza, Roma-Bari, 2019. 575 “Il narcisismo, lungi dall’essere una conseguenza del processo di personalizzazione, è in realtà la leva psichica condivisa da tutti sulla quale il potere generalizza e rende egemone tale processo. È senza dubbio scorretto considerare il narcisismo come una novità assoluta dei nostri tempi: esso è piuttosto una funzione psichica indispensabile che il potere, nella sua forma contemporanea, stimola e incoraggia, e che produce un individualismo radicale quanto velleitario” (Giacomo Tinelli, “Il carnaio di ora”: autofiction, desiderio e ideologia nell’opera di Walter Siti, cit., p. 22).

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mes e Austen; nella sequenza di questo paragrafo: Proust, Cervantes, Fitzgerald), poiché, come ci insegna il saggio parallelo, anche solo da un testo possiamo riscrivere un commento riferito a tutta l’enciclopedia del Testo. La personalizzazione della cultura rende indifferentemente un testo o un gruppo di testi (è il caso di Marco Roth) quella produzione di senso da cui il lettore si ritrova alienato, mentre li subordina alla realizzazione della propria espressione, impegnando al servizio di questa una forma, come quella dello pseudo-saggio, che si è altrimenti dimostrata in grado di esprimere una tensione dialettica tra individuo e realtà oggettive, tra coscienza e filosofia, tra immaginazione interiore e valutazione delle verità astratte, anche solo per come sono date dal mondo simbolico in un contesto socio-culturale. L’autoespressione come forma di scrittura, più che essere un paradigma poetico romantico, è un metodo con cui realizzare quel “trionfo del terapeutico”576 con cui un saggista alienato dal proprio oggetto di senso – il testo – e dalla produzione di senso che gli verrebbe offerta tramite il commento e l’interpretazione di questo, tenta di redimere la propria scissione da sé: lo scrittore non è più romanziere, il lettore non è più interprete, l’intellettuale non è più critico, lo pseudo-saggio non è più (anche) saggio critico. Dal punto di vista dell’autoritratto del saggista che ci restituisce lo pseudo-saggio autobiografico, la componente narcisistica estromette l’io pubblico: quello che la retorica, per Beaujour, mette sempre in scena, pur tentando di evitarne la sclerotizzazione e la resa stereotipata. La comunità letteraria di oggi diviene così un “gruppo di lettura” di “scrittori e lettori” che condivide le stesse “ossessioni”577 di realizzazione personale, nel riconoscimento delle reciproche e simili pratiche di personalizzazione dei testi e di performance dell’io su una scena pubblica comune. Anche la critica letteraria diventa una modalità di questa performance scritta del soggetto contemporaneo. Se la lettura e la scrittura coincidono in una pratica terapeutica con cui l’io solitario soddisfa il proprio bisogno di espressione, non serve più quella costruzione dialettica di linguaggi eterogenei e processi intellettuali in tensione formale, tentata da altre categorie dello pseudo-saggio. Il lettore-scritto-

576 Charles Taylor, Radici dell’io, cit., p. 616. 577 Sono i termini incontrati poco sopra nella descrizione della collana “Passaparola” di Marsilio.

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re è figura del trionfo del privato, come contenuto della personalizzazione della cultura. Ciò non vuol dire che il saggista autobiografico rinunci al commento dei testi, ma che a differenza degli altri autori dello pseudo-saggio la sua lettura avverte un’insufficienza o una colpa proprie della scrittura critica. La democrazia intellettuale del saggio, composta dall’elaborazione di idee personali e dal confronto pubblico nella persuasione, viene meno per lasciare il campo a un’altra popolarizzazione democratica, non tanto della cultura e dei testi da offrire a una massa di persone che si suppone composta di gradi di sapere diversi, ma di identità emotive e serializzate che ritroviamo come un gruppo di espressione di uno stesso pensiero, di una stessa intenzione creativa, nell’ambito della “critica della personalizzazione”.

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In coda al nostro studio, affrontiamo una delle trasformazioni inter-modali della metatestualità578, la quale, come altre relazioni ipertestuali, partecipa del “metalinguaggio” dei nuovi media, che combina assieme contenuti e regimi semiotici eterogenei579. Esploreremo il video essay per come è diffuso sulla piattaforma YouTube, prendendo ad esempio un canale assai popolare tra quelli dedicati al videosaggio, per compararne uno dedicato alla cinematografia con un altro di tema letterario, che è argomento poco praticato da un genere che resta, innanzitutto, filmico per forma e per scelta dell’argomento. Non si tratta però di studiare, in questo breve spazio, il genere del video essay in sé, tentando un campionario delle tecniche o delle tematiche, a cui d’altro canto la critica accademica, e il media criticism, ha già offerto un ampio contributo, ma di rapportare la pratica critica e interpretativa del videosaggio alle nostre considerazioni sullo pseudo-saggio. Il video essay estende certamente il dominio della critica cinematografica, riattivando alcuni principi dell’analisi strutturale che, se non più egemoni nel campo della teoria letteraria, consentono nondimeno di immaginare una nuova forma pedagogica e persuasiva per il genere del saggio, con alcune conclusioni estendibili anche al videosaggio letterario, seppure ancora poco praticato. In generale, con il termine di saggio 578 Della stessa opinione, Nicola Dusi e Lucio Spaziante (Editing is anything: pratiche di video essays tra semiotica ed estetica, in «Cinergie – Il cinema e le altre arti», n. 13, 2018, p. 10), che aggiungono, riferendosi a Dire quasi la stessa cosa (2003) di Umberto Eco: “nel video essay abbiamo a che fare con una riappropriazione manipolativa di segmenti sincretici del film (immagini, scritte, parole e musica e relativi modi del montaggio)” (ivi, p. 11). 579 “[C]iò che viene remixato non è solo il contenuto di diversi media ma anche le loro tecniche, i processi produttivi e le modalità di rappresentazione ed espressione […] un nuovo metalinguaggio” (Lev Manovich, Software Culture, Edizioni Olivares, Milano 2010, p. 118).

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mediatico s’intendono tutte quelle forme saggistiche che comportano supporti e regimi semiotici diversi dal testo scritto: dal saggio fotografico al saggio filmico fino all’essai dessiné; dal saggio digitale al video essay580. Nell’estensione del nome generico di “saggio” ad altri supporti, c’è sempre il rischio di incorrere in una Essayification of Everything, la quale viene però intesa da Christy Wampole come l’occasione per riflettere sulla centralità dell’attitudine saggistica nelle pratiche culturali del nostro tempo581. Infatti, molte definizioni specifiche del saggio incontrate nel primo capitolo vengono applicate con successo alle diverse forme del saggio mediatico582. All’interno di questa categoria, i video essay si possono intendere, con le parole di Chiara Grizzaffi, come “lavori audiovisivi basati sull’appropriazione, il riuso e il rimontaggio di immagini cinematografiche esistenti, che hanno l’obiettivo di analizzare i film, veicolare osservazioni critiche in modi più o meno complessi e articolati, talvolta anche solo suggerire qualche intuizione”583. La modalità critica è ciò che distingue il videosaggio dalla pratica, propria del cinema sperimentale e d’avanguardia, del found footage, il quale “ricicla e ricontestualizza immagini preesistenti”584. Il videosaggio si serve comunque di procedimenti condivisi da altri generi filmici, che ritroveremo pure nei nostri due video essay: “la voce, in particolare la voice over; il testo scrit580 Vedi la descrizione delle tipologie di saggio mediatico sul sito del progetto “L’essai médiatique” delle università di Limoges e Paris-Est Marne-la-Vallé: essaimedia. hypotheses.org. Un’altra utile risorsa è il sito del progetto “The Audiovisual Essay”: reframe.sussex.ac.uk/audiovisualessay. Sul saggio filmico, si veda il volume di Timothy Corrigan, The Essay Film. From Montaigne, After Marker, Oxford University Press, New York 2011, che propone una suddivisione per categorie (dal diario al giornale di viaggio, dall’intervista alla riflessione sull’attualità e sull’arte). 581 “Pare che, pur nella proliferazione di nuove forme di scrittura e di comunicazione di fronte a noi, il saggio sia diventato un talismano del nostro tempo. Cosa si nasconde dietro l’attrazione che proviamo per il saggio? Sono le sue proprietà terapeutiche?” (Christy Wampole, The Essayification of Everything, in “New York Times”, 26 maggio 2013, URL: opinionator.blogs.nytimes.com/2013/05/26/the-essayification-of-everything). 582 In un contributo tra i più interessanti, Anna Wiehl dimostra la pertinenza della definizione di Adorno alla rete e al saggio digitale. Vedi Ead., ‘Hybrid Practices’ between Art, Scholarly Writing and Documentary – The Digital Future of the Essay?, in «Ticontre. Teoria Testo Traduzione», n. 9, 2018, p. 256. 583 Chiara Grizzaffi, I film attraverso i film. Dal “testo” introvabile ai video essay, Mimesis, Milano-Udine 2017, p. 12. 584 Ivi, p. 65. Vedi su queste pratiche William C. Wees, Recycled Images. The Art and Politics of Found Footage Films, Anthology Film Archives, New York 1993.

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to in forma di didascalia o intertitolo; split screen e riquadri multipli, contrapposti a forme di montaggio sequenziale, per accumulo; effetti e transizioni come la dissolvenza e la sovrimpressione; gli interventi sulla durata come slow motion, accelerazione o fermo immagine”585. I due esempi che citiamo provengono dal canale YouTube di un popolare videomaker, Nerdwriter1. Costui confessa, in un meta-videosaggio dal titolo The Nerdwriter Is Creating Video Essays, di essere approdato a questo genere con l’intento di promuovere un romanzo che aveva scritto mentre si trovava a Parigi. Subendo anch’egli il fascino del video essay, ne produce uno a settimana, non limitandosi al cinema, ma anzi esplorando altri media, come l’arte, la pittura586, e non dimenticando nemmeno – come vedremo – la sua passione per la scrittura letteraria. Sul suo canale, i video sono raccolti in diverse rubriche, del genere “Essays About Art”, “Essays About The Social Sciences”, “Essays About Science”587. Nel primo videosaggio, How Alfred Hitchcock Blocks A Scene, Nerdwriter analizza i rapporti tra i due personaggi di Scottie e Gavin nel colloquio che si svolge nell’ufficio di quest’ultimo, quando propone al detective di sorvegliare sua moglie. Per fare ciò, il videomaker sceglie un’unica scena di Vertigo di Hitchcock da analizzare dettagliatamente nei movimenti della cinepresa. Segue quindi tutta la sequenza degli spostamenti tra i personaggi all’interno dell’ufficio, interpretandola come una modalità di visualizzazione di un rapporto gerarchico che, nel breve tempo della scena, inverte i loro rapporti di forza a vantaggio di Gavin e del suo progetto omicida. Potremmo definire questo video essay un close reading di una porzione filmica588. Secondo una strategia formale tipica, 585 Chiara Grizzaffi, I film attraverso i film, cit., p. 15. 586 Il critofilm del critico e storico dell’arte Carlo Ludovico Ragghianti, attivo a cavallo degli anni Quaranta e Cinquanta, era un tentativo intermedio tra documentario e videosaggio: benché avesse un intento documentaristico e di ampia diffusione, il critofilm creava una vera e propria analisi filmata di opere d’arte, dipinti e monumenti. Vedi il sito della Fondazione Ragghianti (www.fondazioneragghianti.it/critofilm-3) e Adriano Aprà (a cura di), Critofilm. Cinema che pensa il cinema, Pesaro Nuovo Cinema, 2016. Ebook. 587 URL: www.youtube.com/user/Nerdwriter1/videos. 588 L’analisi del movimento cinematografico è uno degli argomenti principali dei videosaggi. Si veda anche il canale YouTube, attivo dal 2014 al 2016, “Every Frame a Painting”, in cui sono stati diffusi i video essay di Tony Zhou e Taylor Ramos: tra questi, Akira Kurosawa-Composing Movement tratta del movimento cinematografico montando e discutendo sequenze di molti film di Kurosawa.

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Nerdwriter impiega lo split screen589, che combina immagini di diversa provenienza in riquadri multipli: a sinistra, la mappa bidimensionale dello studio di Gavin riproduce i movimenti dei personaggi, che appaiono come icone usando il volto degli attori; a destra, la sequenza viene proiettata nel suo normale svolgimento. In questo modo, una schematizzazione viene affiancata alla scena da analizzare, consentendo la doppia interazione del commento in voice over590 del videomaker: con la mappa e con la sequenza dell’ipotesto filmico. È evidente che tale mappa è già il prodotto di un’interpretazione della sequenza delle inquadrature, ma essa viene anche trasformata in un “commento visualizzato” e montata in una seconda finestra a fianco del frammento filmico riprodotto integralmente. Il risultato finale è quello di potenziare il commento vocale sulle immagini cinematografiche tramite le risorse dell’immagine visiva (la mappa) e del montaggio in due finestre consentito dal videosaggio, senza sottrarre spazio al testo filmico, che è infatti solo affiancato da questa visualizzazione ed è riprodotto nella sua intera durata. In altre parole, il videosaggio evita il problema di tradurre il testo filmico da analizzare in quello descrittivo della scrittura, attraverso cui il saggio deve passare prima di poter, autonomamente, impegnarsi nell’esposizione scritta della propria argomentazione. Il saggio cinematografico ottiene così una modalità di costruzione più economica ed efficace591, non tanto perché riduce la moltiplicazione dei linguaggi (il commento vocale è comunque presente: un testo che ha la funzione di raccordo e spiegazione di ciò che avviene tra le due finestre del video), ma perché subordina il montaggio saggistico al linguaggio semiotico del proprio oggetto – il film – piuttosto che a quello tradizionalmente usato da un metatesto critico, cioè la scrittura. Nerdwriter ha però dedicato un videosaggio interessante, in un’analisi ugualmente ristretta al close reading, a una poesia di Emily Dickinson. Si candida quindi a essere un buon esempio per approfondire le potenzialità 589 L’utilizzo dello split screen è “finalizzato a creare una connessione anche molto forte fra le immagini, un’interdipendenza, un dialogo” (Chiara Grizzaffi, I film attraverso i film, cit., p. 152). 590 Più precisamente è una voice over disembodied “la cui assenza sullo schermo sembra, di contro, garantire una maggiore efficacia comunicativa” (ivi, p. 114). 591 “[L]e questioni di grammatica e sintassi filmica – molto complesse da descrivere con la sola parola scritta, e per questo trascurate dalla critica su carta, che tante volte si concentra di più su quelle di natura tematica – sono oggetto di numerosi video che, per chiarezza e accuratezza, possono costituire un valido strumento di introduzione al linguaggio filmico” (ivi, pp. 179-180).

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del videosaggio quando si confronta – al contrario del precedente – con un testo veicolato in un supporto diverso da quello filmico e da quello dell’immagine (come nel caso dei video essay dedicati alla pittura), e che è propriamente un testo letterario. How Emily Dickinson Writes A Poem ha avuto più di trecentomila visualizzazioni, circa ventimila utenze hanno espresso gradimento e circa novecento di loro hanno lasciato commenti sulla pagina YouTube, mentre il precedente – il cui oggetto è più popolare e il cui argomento è più usuale – si assesta su un milione di visualizzazioni, ma pressappoco lo stesso indice di gradimento e di numero di commenti. La poesia Tell All the Truth But Tell it Slant è riprodotta in intertesto, davanti a uno sfondo di pioggia e tempesta. Si comprende da subito come una poesia breve come questa della Dickinson possa essere riprodotta nella sua interezza sullo schermo senza necessità di suddivisione. Non è forse un caso che, nonostante alcune richieste degli utenti, Nerdwriter non abbia prodotto un video essay su un romanzo, ad esempio, e che quando si sia deciso a dedicarne uno alla lunga poesia di John Keats (Ode to a Nightingale, John Keats) abbia optato per una strategia non critica, ma meramente performativa, limitandosi a leggere la poesia con un sottofondo musicale592. How Emily Dickinson Writes A Poem, invece, monta insieme lettura del testo e commento del videomaker, che anche in questo caso si serve di alcune strategie di manipolazione dell’immagine video. Il metodo del commento si basa su un’analisi semantica dei versi, illuminati da differenti colori per orientare l’attenzione del lettore su di un verso o una parola su cui si sofferma il commento in voice over. L’unico movimento extra-testuale rispetto alla poesia sullo schermo è quello fornito dal suono e dall’immagine dei tuoni, che appaiono sullo sfondo in occasione di altre parole particolarmente associabili all’effetto speciale (“Lightning”). In qualche modo, quindi, anche la scelta dello sfondo del video è il prodotto di un’interpretazione critica, non immediatamente esplicitata, ma che partecipa all’economia generale del videosaggio. Un fattore ben più rilevante è però l’intervento del videomaker sulla durata del proprio commento. Questo video essay dura 7:39 (anche se gli ultimi due minuti e mezzo sono dedicati alle inserzioni pubblicitarie com592 Un altro video è invece dedicato a Shakespeare, Anonymous, ma si presenta piuttosto come un pastiche di frasi dalle sue opere.

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mentate dall’autore); ma al minuto 2:10 questa cortissima poesia della Dickinson è stata già interamente commentata. Parte dunque il logo ufficiale di chiusura di Nerdwriter, che però blocca improvvisamente l’immagine e afferma: “Non può essere così semplice!”. Il video viene quindi riavvolto sotto l’occhio dello spettatore, per verificare cosa si è lasciato indietro nel commento, cosa è rimasto in profondità nella poesia e che la spiegazione non è stata in grado di individuare ed esplicitare. Siamo di fronte a qualcosa di ben più radicale di una costruzione concessiva dell’argomentazione di un saggio critico o di un nesso logico come “tuttavia…”. Il video essay realizza una vera e propria inversione della lettura e del commento non concessa dal saggio scritto. La poesia di Dickinson è ripresa nella sua interezza e il commento comincia a precisare una carica semantica maggiore per alcuni versi e parole specifiche: ad esempio, in “Tell all the truth…”, cosa vuol dire “all”: “the whole? Everyone?”. Le diverse soluzioni compaiono sotto questo verso nell’intertesto e vengono commentate una per una dal videomaker, stavolta con l’ausilio di raffronti con altri termini usati dalla poetessa nel proprio epistolario e appoggiandosi a interpreti “autorevoli” e accademici, senza però fornire nessun riferimento bibliografico in intertesto, in coda al video o nei metadati. In sostanza, due tipi diversi di lettura e commento vengono rappresentati in sequenza video. La seconda lettura “rivisitata” potenzia la prima, creando un meta-commento video in cui si afferma la potenzialità interpretativa insita nel testo e si suggerisce – attraverso uno stratagemma, un camuffamento del modo dubitativo tipico del genere saggistico? – che l’analisi può sempre andare più a fondo, che il discorso critico può essere sempre ripensato e migliorato, visivamente e oralmente: l’intento didattico è evidente, ma non è solo orientato a una visual literacy degli spettatori e degli utenti che lo stanno guardando; recupera anche la volontà di una poetry literacy da diffondere in una comunità digitale che non è abituata a guardare videosaggi di argomento letterario. Sono inoltre gli stessi utenti a dichiarare l’utilità di un videosaggio di argomento poetico: nei commenti a How Emily Dickinson Writes A Poem, essi chiedono altri video sulla poesia (ad esempio su Dylan Thomas), sulla canzone d’autore o sulla narrativa593; allo stesso tempo, in mezzo alla maggio593 “Per qualcuno che ha davvero poco interesse per la poesia, devo ammettere che tu sei un vero maestro della tua arte” scrive A Matter of Film, un collega videomaker con un suo canale YouTube di video essay, mentre Aidan Post confessa: “avrei gradito

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ranza grata ed entusiasta per come è stata resa in video la complessità del testo poetico, alcuni propongono letture alternative594, che si sovrappongono a commenti di natura personale (i più numerosi). Inoltre, è interessante la capacità di trasformare il testo stesso della poesia in un’immagine; compiere cioè una traduzione intersemiotica della poesia nel linguaggio del video, similmente a quanto avveniva per Vertigo, benché in forme di visualizzazione molto meno articolate e senza uno schema – mentale e visivo – in grado di fare ordine e chiarezza rispetto alla complessità suggerita dal proprio incontro con l’ipotesto. Forse, il video essay di argomento letterario dovrà essere considerato sempre di più come una forma strategica di didattica, che ha tutt’altra funzione rispetto a quella, pur presente in rete – e che certo condivide uguali esigenze personali e interpretative – del book trailer, al cui riguardo possono essere citate alcune conclusioni elaborate da Nicola Dusi: Se il video essay non è un trailer del film, è però parassitario del film in un modo simile: non sembra avere un immediato fine promozionale nel contesto economico e produttivo del film, e il suo stuzzicare la curiosità dello spettatore non è votato a portarlo a consumare il prodotto-film; eppure si comporta in modo simile al trailer quando riduce il racconto del film ad una serie di frammenti concatenati dalla voce narrante e rielabora la sintagmatica del film in un nuovo montaggio orientato alla persuasione dello spettatore rispetto alla propria interpretazione critica595.

Il videosaggio letterario si deve considerare come un intento interpretativo, che però a differenza del book trailer raggiunge una forma tecnica ed estetica elaborata, e che aggiunge o sostituisce allo scopo commerciale quello didattico. Si tratta, in sostanza, di una attività critica, molto di più le lezioni di inglese se ci avessero mostrato questo video”. Daniel Lado, dal canto suo, chiede che si faccia un videosaggio su “Doestoesky” [sic]. 594 Markus Leben ad esempio propone un classico esempio di attualizzazione dei contenuti letterari da parte della rete: “Sono piuttosto sorpreso che tu non abbia menzionato nulla riguardo al ‘circuito’ nel contesto di sfruttare l’illuminazione […] in modo da renderla adatta al consumo umano. Questa poesia è stata pubblicata dopo la sua morte, quindi è difficile dire se l’ha scritta prima dell’invenzione della luce elettrica, ma mi suona davvero come se proponesse un passaggio ulteriore rispetto al canalizzare […] l’elettricità in una forma utilizzabile”. 595 Nicola Dusi e Lucio Spaziante, Editing is anything, cit., p. 10.

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compiuta sul materiale della cultura, diversa dalla personalizzazione e dai fenomeni di appropriazione e trasformazione dei testi letterari che troviamo in rete: a fianco del book trailer, possiamo mettere produzioni letterarie come quella dello pseudo-saggio autobiografico. Ritengo che il video essay sia un genere saggistico suscettibile di partecipare a diversi contenitori, fuori e dentro le piattaforme digitali, esattamente come un saggio critico può essere contenuto in molteplici raccolte di saggi di un autore o di più autori diversi, in quanto macro-testi che possono selezionare e organizzare i contributi secondo tematiche e scopi differenti. D’altronde, le piattaforme user-generated content non sempre sono la destinazione originaria dei video essay. A rigore, potrebbero essere inseriti in altri tipi di piattaforma, a scopo didattico, commerciale, di ricerca. Solo quando vengono caricati su YouTube entrano in una circolazione che non ne fa appannaggio di nessuna categoria professionale. Da parte dei sistemi dell’educazione superiore, viene la spinta a riconoscere non solo il valore didattico, ma anche il valore scientifico del videosaggio come metodo di ricerca, per come è già usato in convegni in alternativa alla relazione orale e ospitato in riviste scientifiche, almeno a partire dal 2010596. Al contempo, il movimento dei critical media guarda a questo genere con interesse, teorizzando una nuova pratica al di là della ricerca tradizionale: libertà dal modello retorico tipico dell’articolo accademico, economia e sintesi delle informazioni, riflessione sulla forma della critica offerta dalla contaminazione tra i media597. Ciò non toglie che il videomaker assuma un ruolo sociale diverso da quello del critico, poiché la sua è una funzione sospesa tra l’education e l’entertainment. Il videosaggio rispetta un approccio autoria596 Chiara Grizzaffi, I film attraverso i film, cit., pp. 93-98. Miklós Kiss e Thomas van den Berg auspicano lo sviluppo di un approccio al videosaggio più vicino alle modalità scientifiche e di ricerca tradizionali, proponendo l’introduzione di regole e standard rigorosi (Id., Film Studies in Motion. From Audiovisual Essay to Academic Research Video, Scalar 2016). Esiste anche un manuale per creare videosaggi, vedi Christian Keathley e Jason Mittel, The Videographic Essay. Criticism in Sound&Image, 2016, ebook. Vedi infine anche Chiara Grizzaffi, Between Freedom and Constraints. What I Learned from Teaching Video Essay, in «The Cine-Files: a Scholarly Journal of Cinema Studies», n. 7, 2014, in cui si commentano i videosaggi creati dagli studenti, URL: www.thecine-files.com. 597 Vedi Eric S. Fade, A Manifesto for Critical Media, in «Mediascape», 2008, URL: www.tft.ucla.edu/mediascape/Spring08_ManifestoForCriticalMedia.html.

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Coda: il video essay, ovvero il saggio mediatizzato

le, soggettivo, di interpretazione individuale senza essere una pratica espressivista dell’io. Piuttosto, il saggista videomaker è quel produttore operativo di cui parlava Walter Benjamin, l’autore coinvolto in una più complessa configurazione mediale rispetto al semplice ruolo “informativo”, che si erige fuori e sopra il testo in una sorta di istanza autoriale onnisciente e autoritaria598: quello in cui si arena l’io autoriale dello pseudo-saggio autobiografico, chiudendo i testi entro i confini del proprio orizzonte etico e facendo di questi un oggetto, una “merce” con cui vendere ai lettori la propria vita, in una performance che comprende anche l’attività critico-letteraria. La voice over del videosaggio non è invece una prospettiva onnisciente, ma la voce che esplica il montaggio e l’interpretazione del testo, e in quanto tale voce dell’argomentazione critica. Ovviamente, il tardo-capitalismo riconosce come valore questa capacità critico-analitica del videosaggio. Di videosaggi se ne vendono sulle piattaforme di streaming su abbonamento, come Fandor e MUBI, o sui siti di società di distribuzione come Criterion. Queste società tendono però a comprare non il singolo prodotto, quel video-saggio, ma proprio quel video-maker di cui il pubblico – ad esempio su YouTube – ha apprezzato i video essay: il video-saggista è insomma riconosciuto socialmente in quanto brand con cui fidelizzare i clienti. Nella sua capacità tecnica e critica, il videosaggista diventa “il prodotto da vendere”599. Il tardo-capitalismo riconosce il valore commerciale dei video essay non certo perché riattiva una lettura critica dei testi, ma perché l’attività interpretativa stessa è riproposta attraverso una capacità tecnica (di montaggio filmico) che trasforma la cultura filmica e letteraria in una merce seconda, derivata, e quindi ricapitalizzabile come nuova merce 598 “L’autorità letteraria non si fonda più sulla cultura specialistica ma su quella politecnica, e diventa così bene comune. […] Per presentare l’autore come produttore bisogna risalire fino alla stampa. Poiché è nella stampa – in ogni caso in quella della Russia sovietica – che si vede come l’imponente processo di rifusione di cui parlavo prima non superi solo le divisioni convenzionali tra i generi, fra scrittore e poeta, fra ricercatore e divulgatore, ma sottoponga a una revisione persino la separazione fra autore e lettore. La stampa è l’istanza più decisiva di questo processo, e quindi ogni considerazione dell’autore come produttore deve risalire fino a essa” (Walter Benjamin, “L’autore come produttore” (1934), in Id., Avanguardia e rivoluzione. Saggi sulla letteratura, Einaudi, Torino 1973, p. 204). 599 Chiara Grizzaffi, I film attraverso i film, cit., p. 173.

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Pseudo-saggi

nel ciclo della produzione e della vendita. Il videosaggio è parte della cultura politecnica, ma non può scindere la propria competenza tecnologica da quella funzione critica della cultura che è la relazione metatestuale: nella fase della sua riappropriazione in “raccolte” e contenitori didattici potrà forse costituire un modello che, superando i limiti dello pseudo-saggio contemporaneo, realizzi una sintesi tra i linguaggi specialistici e quelli creativi, tra la tecnica e l’interpretazione, conducendo l’utente spettatore ad ammettere nuovamente l’ipotesi di una persuasione critica.

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Bibliografia

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Pseudo-saggi

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