La «storia» senza storia. Racconti del passato tra letteratura, cinema e televisione
 8860740665, 9788860740663

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University Press Saggi. Filosofia

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Andrea Fioravanti

La ‘storia’ senza Storia Racconti del passato tra letteratura, cinema e televisione

Morlacchi Editore

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Prima edizione:

2006

Ristampe

1. dicembre 2006 [riveduta]. 2. 3.

Fioravanti, Andrea La ‘storia’ senza Storia. Racconti del passato tra letteratura, cinema e televisione / Andrea Fioravanti Perugia : Morlacchi Editore, 2006 (University press | Saggi. Filosofia) ISBN: 88-6074-066-5 ; 8°, pp. xviii + 432 ; euro 22,001. La ‘storia’ senza Storia. Racconti del passato tra letteratura, cinema e televisione I. Fioravanti, Andrea

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A Paolo A tutta la mia famiglia A tutte le “api” al loro “Zenith”

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Indice

Presentazione

xiii

Nota orientativa generale

1

Ringraziamenti

11

Parte I

Introduzione

15

capitolo 1. Filosofia della storia narrativista e crisi dell’identità

19

1. La filosofia della storia narrativista

19

2. La narratività della storia come risposta alla crisi dell’identità singola e collettiva

27

capitolo 2. Storia e Letteratura

35

1. Dalle questioni terminologiche, alla giustificazione della Storia

35

2. La scrittura della storia

42

Problematiche narrative e problematiche etiche – La base empirica dei fatti – La sua base empirica è collocata sulla freccia del tempo – Il racconto concernente la storia è condotto “dall’esterno”

3. La struttura del racconto storico

50

capitolo 3. La Storia nel romanzo

55

1. Il concetto di romanzo

55

2. La struttura e la narrazione del romanzo storico

58

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3. La storia nel romanzo storico e nelle forme di romanzo successive

60

4. La fine del romanzo storico

71

5. Conclusione

74

Parte II

Introduzione

81

capitolo 1. Il rapporto tra cinema, narrazione e realtà

87

1. Un equivoco: analisi preliminare tra cinema e realtà

87

2. Realtà, impressione di realtà, nuova realtà

94

3. Film come testo narrativo

98

capitolo 2. Cinema e Storia

103

1. I rapporti tra cinema e storia

103

2. Il dibattito su cinema e storia nel corso del Novecento

105

3. Film come documento storico

114

4. Film storico e film in costume

120

5. Il genere cinematografico

122

6. Il genere storico

126

7. Un genere senza storia?

133

8. Ipotesi conclusive

136

capitolo 3. Analisi di un film storico

141

1. Errori d’approccio e caccia all’errore: gli storici, il cinema, la didattica

141

2. Il senso di un film storico

148

3. Film storici: tra pedagogia civile e spettacolo

150

4. Conclusioni

153

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capitolo 4. Percorsi

157

1. La nuova epica degli eroi: Giovanna d’Arco, Troy, King Arthur, Alexander

157

2. Il kolossal di Scott: Il gladiatore e Le Crociate

165

3. Differenze di stile: la storia insanguinata di Mel Gibson e Martin Scorsese 170 4. Il ’500 italiano di Ermanno Olmi: Il mestiere delle armi

183

5. Il “Nuovo” Terzo Reich: Amen, Rosenstrasse, La Caduta

190

6. La questione irlandese

198

7. Due esempi di “storia italiana”: Pasquale Scimeca e Paolo Benvenuti

200

8. Tre donne del Settecento: La Nobildonna e il Duca, Il resto di niente, Maria Antonietta

211

9. Il passato recente attraverso la memoria dell’anima: The Dreamers, Buongiorno, notte, Les Amants Réguliers

218

10. Racconti e visioni: Un film parlato, Arca Russa, Cantando dietro i paraventi

226

11. La storia come “nuovomondo”: il realismo visionario di Crialese

238

Parte III

Introduzione

247

capitolo 1. Il tempo in televisione: dalla storia all’eterno presente

255

1. La Storia e il flusso continuo televisivo

255

2. L’eterno presente come anelito al superamento della fine

256

3. Il flusso continuo come autofagia e spettacolarizzazione

259

4. Il reale in diretta come emblema dell’eterno presente

262

5. La guerra in diretta

265

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capitolo 2. I nuovi format che riguardano racconti del passato

271

1. Nuovi Format

271

2. La docufiction

272

3. La Superstoria

275

4. L’Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche e Rai Educational

278

5. La narrazione orale: Marco Paolini e Ascanio Celestini

283

capitolo 3. I programmi di storia

295

1. Le produzioni televisive a carattere storico

295

2. I luoghi, le epoche e il confronto dell’attualità

298

3. Le commemorazioni, biografie e collaborazioni

301

4. I programmi di storia

305

capitolo 4. La fiction storica

315

1. Il concetto di fiction

315

2. Verosimiglianza serialità e genere

317

Le caratteristiche della serialità – La lunga serialità – Il concetto di miniserie

3. I generi della fiction

322

4. Le fiction storiche: esigenze e compiti svolti

324

5. Le fiction in costume

328

6. L’antichità ovvero Roma

332

7. Fiction religiose

345

Appendice

Introduzione

349

Intervista a Franco Mezzanotte Intervista a Paolo Mereghetti

352 361

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Intervista a Paolo Benvenuti Intervista a Stefano Rulli Intervista ad Ambrogio Santambrogio Intervista ad Ascanio Celestini

368 383 396 402

Bibliografia

413

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Presentazione

P

er comprendere in modo adeguato le problematiche approfondite in questo volume, è opportuno ricordare che già Aristotele distingue il linguaggio “apofantico” da quello “semantico”, intendendo con il primo lo svolgimento delle argomentazioni logicamente dimostrabili e, con il secondo, tutte le altre forme espressive basate sugli effetti suggestivi della parola. In questo secondo ambito si collocano le due modalità filosofiche del pensiero contemporaneo, rappresentate dalla posizione di Heidegger, che valorizza il “pensare come poetare” e quella di Ricoeur, che pone l’accento sul “pensiero come racconto”. A quest’ultimo punto di vista va riferita la storia, la quale, indipendentemente dal contenuto degli eventi di cui si occupa, pone l’accento sul momento narrativo del pensiero stesso, strutturato secondo l’ordine cronologico e delimitato secondo la determinazione dello spazio geografico cui appartengono le vicende raccontate. In questa situazione, il pensiero odierno ci fa assistere al superamento della filosofia della storia, a favore di una ermeneutica che pone al centro delle questioni affrontate la struttura narrativa, considerata nel gioco dialettico delle interferenze tra “sincronia” e “diacronia”. Questo approccio metodologico, di natura strutturalista, riconduce il problema epistemologico della conoscenza storica alle sue origini in cui il termine greco “istoría” indica tanto la raccolta di dati in quanto tali, quanto una narrazione che si ispira in qualche modo a una verità fattuale. Ma il discorso è più complesso, poiché in questo quadro vengono anche recuperate le istanze del termine latino “historia”, attraverso il quale viene posto in rilievo il doppio ruolo della storia come memoria e come insegnamento, nonché della storia come espressione letteraria della narrazione. Si pensi alle due definizioni classiche della “historia magistra vitae” e della storia intesa come “opus oratorium maxime”. Il testo in esame pone al centro della sua attenzione la storia come struttura narrativa del racconto che accomuna, secondo la nota tesi di

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La ‘storia’ senza Storia

Ricoeur, il “racconto storiografico” con il “racconto di finzione”, in una semantica allargata nella quale la conoscenza storica, la composizione letteraria e l’espressione artistica si collocano nello stesso itinerario di pensiero. Di fatto, la scelta di questa tesi metodologica risulta di particolare rilievo in una situazione epocale come la nostra, nella quale il nucleo storicistico della cultura occidentale viene posto in discussione anche nella relazione multiculturale con le nuove categorie interpretative che emergono nella globalizzazione. Così, i nodi problematici della “fine della modernità” vengono presi in esame nella frammentazione culturale postmoderna, nella quale ultima, insieme all’ermeneutica dei “post”, si configura la “post histoire”. La situazione di questa categoria interpretativa pone in evidenza, come viene chiarito in modo analitico dall’autore del volume, la realtà contraddittoria che oppone alla crisi della conoscenza storica l’inflazione della storia nel suo uscire dall’ambito della scienza per invadere il mondo dei mass media. La storia, infatti, dopo la crisi dell’idea di universalità, attraverso la quale lo storicismo l’aveva configurata come “storia universale dell’umanità dalle origini al nostro tempo”, ha avviato un processo di dissoluzione che l’ha ridotta a “microstoria”, riconducendola ai racconti della quotidianità. Nel contempo, i codici narrativi della conoscenza storica si sono moltiplicati al di là di quelli tradizionali, costituiti dalle storie universali, dalle storie monografiche, dalle biografie e dai diari. Il superamento di questi codici ha dato luogo ai nuovi orizzonti del saggio giornalistico, del romanzo, dell’opera teatrale, delle produzioni televisive e di quelle filmiche. In questo caso, il rapporto consueto tra storia e leggenda si è complicato aprendo spazi indeterminati, a favore dell’immaginario, per cui, prima, la quotidianità ha invaso, secolarizzandolo, il carattere sacro del passato, poi, le strutture drammatiche dell’opera letteraria e teatrale hanno reso più suggestivo il contenuto dei racconti. Si crea, dunque, una situazione in cui la memoria e il vissuto, la realtà e l’immaginazione, stabiliscono un orizzonte di vicende virtuali nelle quali il racconto supera l’idea del genere espressivo in sé concluso, per tradursi in un criterio strutturale e formale, a tutti gli effetti, del pensiero che lavora con i contenuti delle vicende oggetto delle narrazioni, in un clima di assoluta libertà creativa. In questa angolatura prospettica, l’autore del libro, nello svolgimento dei diversi capitoli, illustra innanzi tutto la situazione teoretica dal punto

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Presentazione

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di vista filosofico, nella quale oggi si trovano vari tipi di narratori: gli storici, i letterati, i registi teatrali, televisivi o filmici che siano. Poi, dà spazio alla descrizione culturale di ciò che accade nel nostro tempo caratterizzato, come già detto, dall’eclisse della storia, nonché da una sovrabbondanza dei racconti storici. Infine, il discorso approda alla esposizione dei diversi modi di comunicazione storica, che vanno dal saggio scientifico al romanzo letterario, dall’opera teatrale al documentario televisivo, dalla produzione di racconti per il piccolo schermo alla elaborazione di film più o meno veritieri rispetto ai contenuti narrati. Anche se in questa sede vengono affrontati in modo analitico argomenti specifici idonei a illustrare l’itinerario privilegiato. La conclusione dell’intera opera è affidata alla viva voce degli addetti ai lavori, con una serie di interviste che, da un lato, documentano sociologicamente l’ambito culturale cui questo studio appartiene, dall’altro, rendono più efficace e suggestiva l’esposizione dei problemi affrontati mediante il superamento della teoria astratta, a favore della concretezza del lavoro in atto, con tutte le difficoltà particolari che quest’ultimo comporta. La questione di fondo non è soltanto epistemologica ma neppure esclusivamente estetica, poiché si tratta di comprendere una serie di vicende in forte evoluzione e, nello stesso tempo, di individuare le possibili linee di sviluppo della medesima. Da un punto di vista semplicemente metodologico, l’indagine che costituisce il substrato nascosto dell’intero lavoro esigerebbe uno svolgimento interdisciplinare dei diversi settori del medesimo. Tuttavia, l’autore riesce a soddisfare questa esigenza, poiché le competenze dei suoi studi e delle sue attività lavorative comprendono un ampio ambito culturale che, dalla filosofia attraverso la letteratura, giunge fino ai mezzi di comunicazione audiovisiva, quali in particolare televisione e cinema. Quanto detto permette di porre in evidenza una questione irrinunciabile che trasferisce gli interessi della ricerca dai contenuti alle modalità di comunicazione. Ciò in quanto, se è vero che “pensare” è “raccontare”, è altrettanto vero che “raccontare” è prevalentemente “comunicare”. Il problema, dunque, sia da un punto di vista epistemologico, sia da un punto di vista ermeneutico, trasferisce l’attenzione dello studioso dall’ambito della “conoscenza storica” a quello della “comunicazione storica”. Del resto, nella cultura attuale, la necessità di riferirsi ai grandi numeri dei

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soggetti coinvolti, e l’importanza di rendere efficace il messaggio, favorendo la spettacolarizzazione del medesimo, esige di porre al centro degli approfondimenti culturali il momento della comunicazione che non è soltanto, come tradizionalmente si pensava, una forma sovrapposta a un contenuto ma, rappresenta un elemento indissolubile dal contenuto e qualificante per esso. In questa prospettiva, “comunicare” non è “dialogare”, in quanto esclude il momento interattivo dello spettatore che, invece, viene coinvolto soltanto nella ricezione del messaggio attraverso la dimensione dell’ascolto. Ciò implica la scelta di un linguaggio altamente suggestivo, capace di attrarre e di conservare vigile l’attenzione del fruitore. Si tratta, cioè, di un discorso che integra il momento “retorico” della parola orale e della parola scritta, con il coinvolgimento emotivo assicurato dalla potenza dell’immagine e dalla capacità invasiva del suono. In questo contesto, la comunicazione finisce per prevalere sul contenuto da essa veicolato, quindi, i problemi consueti della verità, della imparzialità e della documentazione della notizia storica finiscono per configurarsi in un modo del tutto diverso rispetto all’epistemologia del passato. Infatti, il problema non si risolve più nel rapporto tra l’evento accaduto e l’oggettività dei documenti, nonché delle testimonianze, ma in una relazione più complessa tra l’avvenimento e il modo attraverso il quale viene reso noto con il tipo di comunicazione utilizzato. La situazione illustrata richiederebbe uno sviluppo analitico più adeguato impossibile in questa sede, tuttavia, occorre comunque tenere presente che la notizia storica, facendo parte del contesto più vasto del pensare narrativo, diviene una componente di una modalità di pensiero, rispetto alla quale il pensare narrativo stesso è un pensare che non può sottrarsi al mondo delle comunicazioni sociali. Così, se è vero che “pensare” è “raccontare” in una dialettica in cui gli interlocutori sono gli altri e noi stessi, è anche vero che alla stessa dialettica di andata e di ritorno dell’interlocuzione narrativa, viene ad assoggettarsi la comunicazione come componente essenziale della narrazione medesima. Da queste riflessioni, emerge il fatto che dietro alle pagine di questo libro sono presenti problemi filosofici di vasta portata che, attraverso il testo linguistico, rappresentato dalle parole e dalle immagini, si estende a comprendere tutta la gamma di problematiche inerenti alla complessità della “filosofia delle relazioni umane”.

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Presentazione

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Queste sintetiche considerazioni rendono chiaro lo scopo ermeneutico e didattico insieme, che l’autore si è proposto nel progettare questo volume. Si tratta, cioè, di fornire uno strumento informativo e bibliograficamente documentato tanto agli studenti quanto agli addetti ai lavori, in cui, peraltro, sono anche individuate le piste di ricerca all’interno delle quali possono essere elaborati dei progetti di approfondimento per favorire una presa di coscienza delle questioni affrontate, tali da incrementare il progresso culturale dell’ambito in cui ci stiamo occupando. Occorre ancora sottolineare che l’argomento trattato non si risolve, e non si può risolvere, in una esposizione esaustiva dei suoi contenuti, poiché si tratta di contenuti di frontiera oggetto di sempre nuove elaborazioni ed, inoltre, siamo di fronte a una vicenda culturale fortemente improntata al pluralismo delle interpretazioni. Di conseguenza, l’autore privilegia giustamente i problemi rispetto alle soluzioni fornendo, peraltro, delle ipotesi di lavoro sottoposte al dialogo e al confronto con gli addetti ai lavori nel settore, per ricavare dei suggerimenti utili a far crescere collettivamente la consapevolezza delle questioni affrontate. Il pregio, infine, di questo lavoro, è dato sia dalla documentazione che accompagna costantemente la trattazione dei problemi sia dalla chiarezza espositiva, che permette ai lettori un’agevole fruizione delle proposte interpretative fornite. Ci auguriamo, comunque, che il lavoro stesso possa essere l’avvio di un dibattito, capace di favorire il progresso della conoscenza nell’ambito della comunicazione storica. Aurelio Rizzacasa Perugia, settembre 2006

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Nota orientativa generale

M

olti libri e trasmissioni promettono di spiegare, in questa stagione che ci aspetta, tutti i misteri dell’antico Egitto; la remota origine di Roma viene proposta in ogni bancarella e in ogni televisione; i Crociati, in particolar modo i Templari, hanno invaso in modo massiccio la letteratura romanzata e il cinema; la vita e le opere di Leonardo da Vinci non hanno più misteri; Cesare, Carlo Magno, Napoleone e Hitler si contendono il palinsesto con il Papa Buono, il Papa del Sorriso, Giovanni Paolo II in una lotta senza quartiere a colpi di share. In diversi ambiti della produzione culturale di massa è diffusa da qualche tempo la tendenza a guardare il passato. Ci troviamo di fronte a una vera e propria invasione di temi che riguardano la storia e che si riversano sui giornali, sulle riviste specializzate, sul cinema, sulla radio, sulla televisione e da ultimo su internet. L’attuale interesse per la storia è frutto di una moda, ma solo in parte; vi sono anche motivazioni profonde e reali tali da lasciar prevedere che non avrà una vita effimera, a dispetto della superficialità che è propria di ogni moda. La storia, si risolve nella narrazione storica; ma la narrazione storica, come l’Essere, per Aristotele, si può dire in molti modi. E tra i molti modi, negli ultimi anni, si è assistito a un aumento esponenziale della presenza della narrazione storica nei mezzi di comunicazione. Oltre ai programmi costruiti attorno a filmati e documentari d’epoca (tutte le reti televisive ne hanno ormai almeno uno), grande spazio e successo hanno avuto le cosiddette fiction e i film che attingono al patrimonio della memoria collettiva. Persino i messaggi pubblicitari o commerciali sfruttano sempre più spesso ambientazioni storiche. La televisione e il cinema non sono gli unici casi di uso/abuso della storia, ma certamente i più appariscenti. Anche i lettori più distratti di giornali e periodici avranno infatti notato che la storia ha ormai acquistato uno spazio considerevole non solo nelle classiche pagine culturali ma anche nelle cronache, soprat-

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tutto quelle politiche. Da dove viene tutto questo bisogno di rappresentare la nostra storia? Molti studiosi hanno ricondotto il massiccio uso della storia dell’ultimo decennio alla fine della guerra fredda e, in particolare per l’Italia, della cosiddetta “prima Repubblica”; nel vuoto prodotto dal crollo delle “ideologie”, la storia sembra essere l’elemento fondante di una nuova identità collettiva da ritrovare. Da questo punto di vista i giornalisti, i politici, gli storici, gli operatori dell’uso pubblico della storia del terzo millennio recuperano una formula molto antica dei racconti del passato. Non è la prima volta che i dispositivi narrativi attingono in maniera massiccia alla storia. Una formula usata in particolare dalla fine del Settecento. Dal romanticismo in poi, infatti, la rappresentazione della storia ha costituito il principale perno attorno al quale sono state costruite le “comunità immaginate”, prima fra tutte quella nazionale. La letteratura moderna, attraverso la sua forma privilegiata, il romanzo, ci ha regalato opere mirabili di formazione identitaria individuale e collettiva che tendono alla rappresentazione totale della realtà per una pedagogia civile. Con l’esplosione del romanticismo prendono vita vari modelli narrativi all’interno del romanzo stesso. Il romanzo di formazione, il romanzo sociale, il romanzo storico, il romanzo epistolare. Il romanzo storico, soprattutto nell’Ottocento, ha generalmente un intento formativo, fino a scivolare nell’esplicita propaganda politica e patriottica. Da allora in poi alla storia si è sempre ricorso per dare continuità alla propria identità. Rispetto al passato, un elemento è profondamente mutato: i canali di diffusione della autobiografia nazionale o collettiva. Con il Novecento, in particolare dalla seconda metà del secolo in avanti, il racconto storico è riuscito a raggiungere quasi tutti i settori della società; intere generazioni – di tutti i livelli sociali e culturali – sono state allevate e nutrite da una comunicazione verbale, visiva e musicale che non ha precedenti. Pensiamo al cinema. Fin dalla sua nascita la settima arte si rapporta alla storia, tanto da poter definire la “storia del cinema” come la “storia del suo rapporto con la storia”. Periodicamente questo rapporto diventa più intenso. Nei primi anni di vita del cinema nascono già film storici che da Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone, passando per i film di Griffith come Nascita di una nazione (1915) e Intolerance (1916), arriva ai film di De Mille degli anni ’20 e prosegue con l’interesse di Hollywood per il genere epico-esotico che prende forma nei Kolossal del secondo dopoguerra. Si tratta di una storia ingenua e poco attendibile, ma di grande presa spettacolare. Anche

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la televisione da sempre ha fatto i suoi conti con la Storia: documentari e programmi di approfondimento sul passato appartengono al suo Dna, in Italia poi sceneggiati tratti da letteratura storica come I promessi sposi vengono ciclicamente realizzati per la tv; anche un maestro come Rossellini intuì l’enorme portata comunicativa della televisione e vi dedicò molti dei suoi ultimi sforzi per realizzare una sorta di storia universale dell’umanità. Si tratta di un progetto visionario concepito agli inizi degli anni Sessanta per la Fides. Ciò che sorprende non è tanto la smisurata grandezza del progetto, di cui il regista realizzò soltanto alcuni capitoli (Cartesius, Socrate, Agostino d’Ippona, Pascal, Il Messia, L’età del ferro), ma è piuttosto la sua radicalità. Rossellini, infatti, si dichiarava contrario allo “spettacolo”, egli intendeva il mezzo televisivo come un tramite per giungere al cuore delle cose, all’essenza. Il regista concepiva una potenzialità straordinaria nel medium televisivo, e voleva proporre un programma culturale, quasi un manifesto della televisione per la società di massa. Questo non solo per sviluppare una pedagogia civile, quanto piuttosto per modellare le immagini secondo una propria necessità artistica e culturale, irriducibilmente scabra, senza nessun orpello. Oggi, calati come siamo in una tv destinata allo spettacolo ma, più in generale, in una società tutta dedicata all’immagine, anche il ricorso alla storia, la sovraesposizione cui essa si presta, diventano nient’altro che la risposta a una situazione che nasce da bisogni complessi ma che appena intuita dal sistema di comunicazione diventa una moda, mercificazione del “mondo storico”. Tutto il flusso di eventi, di lotte, di problemi, di idee che giace davanti all’essere umano, nell’immenso territorio del tempo, si esprime in un racconto, cioè nella narrazione dei fatti che la memoria collettiva ha portato alla luce. Attraverso i giornali, la radio, il cinema, la musica, la televisione, la rappresentazione della Storia collettiva ha acquistato una ampiezza e una pervasività che ha di fatto permeato il nostro modo di pensare le appartenenze nazionali, politiche e culturali. L’obiettivo di questo lavoro non è quello di ricostruire la forza comunicativa degli “contenitori” appena citati (forza ormai ampiamente documentata) quanto cercare di scoprire quali sono le motivazioni profonde che hanno portato a questa “sovraesposizione mediatica dei racconti della storia” e i contenuti simbolici che essi hanno veicolato.

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La ‘storia’ senza Storia

L’esigenza, sempre meno elusa, nei dispositivi di comunicazione contemporanei di raccontare la storia, di rielaborare il nostro passato, testimonia un bisogno che va chiarito ed elaborato oltre che analizzato nelle sue forme. Come mai in questo periodo c’è una sovraesposizione mediatica delle narrazioni della storia? Perché i racconti del presente attingono al passato in forma così insistita a volte quasi nevrotica? La risposta a questa domanda non riguarda l’esposizione di una sola causa, anzi vi sono una molteplicità di fattori che chiariscono questa spasmodica ricostruzione e rappresentazione del passato: innanzi tutto, come detto in precedenza, il bisogno di identità che avvolge l’occidente, l’Europa e il nostro Paese in particolare. La storia, intesa come racconto, ha svolto e svolge una funzione di rassicurazione civile nei momenti epocali di incertezza, divenendo nell’immaginario del mondo occidentale sinonimo di continuità nel tempo e, quindi, di identità. In secondo luogo, anche questo accennato in precedenza, vi è l’aspetto della mercificazione che l’industria mediatica (il cinema, la stampa, internet e la televisione) ha fatto di questa naturale esigenza identitaria. Cavalcando una necessità reale i mezzi di comunicazione di massa, hanno sempre più trasformato il bisogno concreto in un esigenza indotta, e, visto che il passato ha ottenuto sempre più un esito positivo in termini di risulatati, ha creato un circolo vizioso tra la domanda e l’offerta. Eppure l’onnipresenza mediatica della storia, l’invasione di ciò che nell’immaginario collettivo chiamiamo “mondo storico” nella società dell’immagine non può essere ascrivibile soltanto all’esigenza identitaria e alla mercificazione che di questa esigenza ne fanno i mezzi di comunicazione di massa. La sovraesposizione mediatica della storia è frutto anche di una crisi della storia stessa, intesa come disciplina (ricerca delle fonti, critica dei documenti e loro articolazione in narrazione) e come mondo storico (l’immaginario storico appartenente a una società). Nel primo caso la disciplina storica, dopo la rivoluzione documentaria della storia sociale con la scuola delle Annales e l’avvento delle filosofie narrativiste della storia, ha perso il suo carattere di scientificità legata alla ricerca di verità oggettiva e sempre più è stata ridotta al rango di racconto, di genere letterario. Per ciò che riguarda il mondo storico, inteso come immaginario collettivo del passato, questo ha perso la sua caratteristica principale che era l’essere

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condiviso da una società: l’eclettismo e la contaminazione dell’immagine non permettono più una sorta di unità, anche solo ideale; ogni gruppo ha la sua epoca di riferimento e ogni associazione la sua epopea cui rifarsi, in un delirio citazionista spesso carnevalesco. Il dibattito in questi ultimi anni tra le forze politiche ha certamente offerto molti spunti di riflessione in questa direzione (le polemiche sul fascismo, il ruolo del comunismo italiano nella storia nazionale, ecc.); la stampa ha raccolto la sfida alimentando quasi quotidianamente – attraverso ricostruzioni e commenti di esperti – il bisogno e il consumo di storia il quale, attraverso questa dinamica, assume delle peculiarità che rispondono a esigenze contemporanee definibili come glocal, vale a dire a metà strada tra il globale e il locale. Inoltre, ma può essere solo accennata in queste pagine orientative iniziali, la sovraesposizione mediatica della storia è causa e conseguenza della crisi che sta investendo la comunicazione storica intesa come concatenazione degli eventi. Quella che in modo un po’ semplicistico viene definita la società postmoderna ha tra le sue conseguenze la “fine della Storia” non certo perché la storia “ha termine”, ma perché si vive in una deriva di eterno presente senza più l’idea di un passato e di un futuro: la storia finisce per perdere la sua linearità progressiva ai danni di una presentificazione dell’evento. La Storia viene ad essere rappresentata come una serie di macro eventi sovraesposti all’attenzione mediatica, sui quali, però, si rinuncia all’investigazione delle cause, all’indagine della connessione temporale degli uni con gli altri. E infine la Storia è in crisi perché a guidarla non è più l’idea di progresso etico – ormai solo tecnologico. Si è persa la fiducia nell’avvenire: «la storia vissuta ha mostrato un’inarrestabile tendenza alla catastrofe, tragicamente sottolineata dall’11 settembre 2001, che ha concluso un secolo di guerre, crisi economiche, terrorismo ed epidemie planetarie e la storia studiata ha mostrato una sua involuzione […], la disciplina storica era la regina della cultura, […], ma le catastrofi del secolo avevano nel frattempo ucciso l’idea di progresso, che dava un senso allo studio della storia e avevano di conseguenza cancellato la convinzione che conoscere il passato potesse servire a non ripeterne gli errori»1. Il presente studio vuole essere un’analisi di questi racconti della Storia per cercare di approfondire le cause che li generano. 1. M. Sanfilippo, Historic Park. La storia e il cinema, Elleu, Roma 2004, p. 11.

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La ‘storia’ senza Storia

La verifica delle forme, degli esiti e delle difficoltà di questa ipotesi attraverso alcuni percorsi è l’obiettivo fondamentale della presente ricerca. La novità dell’impostazione è suggerita anche dal fatto che, per quanto esistano precedenti analisi condotte in modo simile, è mancata finora un’ampia riflessione di tipo tematico della radice comune da cui nasce l’esigenza narrativa della storia e la conseguente analisi delle narrazioni stesse. Questo tipo di approccio ha determinato anche l’adozione di una metodologia d’indagine di tipo tendenzialmente interdisciplinare; anche se non è stato possibile tener conto di tutte le dimensioni dell’argomento, quanto meno si è cercato di farle intravedere sullo sfondo. Questo aprirsi ad altre discipline determina, nel caso del rapporto tra storia cinema e cinema e televisione, un immenso territorio che, anche se non propriamente nuovo, raramente è stato oggetto di un’indagine “privilegiata”. Si tratta allora di interrogare le immagini, svelarne l’informazione latente: interpellare l’opera dedicata alla Storia come discorso che una società elabora su se stessa. In relazione a questo punto non possiamo non chiarire lo spazio indagato e i suoi limiti, motivando le inevitabili esclusioni. Le assenze probabilmente più vistose riguardano la teoria narratologica e l’analisi della letteratura storica contemporanea. In effetti nella prima parte ci occupiamo di filosofia narrativista della storia, del suo rapporto con l’identità, della letteratura storica e del romanzo: tutto questo per chiarire, da un lato, il rapporto con l’esigenza di narrare la storia nella crisi dell’identità collettiva e individuale contemporanea e, dall’altro, per porre la differenza tra narrazione storica legata a una epistemologia della storia e una narrazione storica letteraria, se vogliamo romanzata. Questa differenza stabilisce una sorta di paradigma che verrà utilizzato, e a cui si farà riferimento, durante tutto il testo. Inoltre la breve analisi della letteratura moderna serve per cominciare a stabilire quali rapporti si creano tra momenti storici delicati e il ricorso alla narrazione della storia come superamento degli stessi. Rispetto a questo contesto, sarà bene ribadire e richiamare il percorso che ha compiuto la narrazione nel suo significato per l’identità. Seguendo l’intuizione di Ricoeur, risulta utile un’analisi delle aperture e dei modelli offerti dalla letteratura in quanto essi costituiscono il ventaglio esemplare delle possibilità e dei modi aperti alla realizzazione dell’identità. Più in generale, il ruolo rilevante della letteratura deriva dal suo essere preci-

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samente un’arte che narra, o che si basa sul narrare. Perciò l’inevitabile ambivalenza di parte del nostro discorso. Da un lato abbiamo la letteratura e dall’altro quel costrutto narrativo della storia affidato alle immagini, il quale è il vero e proprio oggetto della nostra ricerca. Analisi più approfondite e prolungate delle forme letterarie costituirebbero pertanto un completamento di grande interesse, che in questa sede però non può essere tentato, con tutto che gli viene comunque offerta un’ampia parte del testo. Quello che potremmo chiamare (nella maniera più generale possibile) racconto della Storia, oggi deve offrirsi a una riflessione filosofica che, attraverso l’ermeneutica (l’interpretazione dei racconti storici) sappia riportare il senso e il significato del perché si stia tentando di ricomporre, spesso in maniera piuttosto goffa, l’enorme arazzo del passato. In questo senso si intende bene il titolo provocatorio di questo lavoro: il fatto che l’eccesso di storia cada in un momento in cui la storia è in crisi, una crisi che investe diversi ambiti della storia stessa, ci fa pensare a una storia senza Storia. La ricognizione delle forme in cui si offre la storia ha voluto dimostrare una crisi della storia stessa e dell’identità; ma siamo convinti che proprio all’interno della manifestazione di questa delegittimazione ci sia lo spazio per una riflessione sulla Storia in forma diversa. Se la Storia viene a costituirsi e a legittimarsi non più come il grande racconto unificatore dell’umanità ma come il racconto di storie, allora una nuova filosofia della storia può diventare proprio la riflessione che abbraccia queste storie. Anche nel momento di crisi della narrazione storica, attraverso la deriva e l’eccesso dei racconti ad essa ispirati non si deve perdere il rapporto con il senso. Il tentativo qui proposto è proprio quello di offrire una ricognizione e una spiegazione a questo fenomeno attraverso l’ermeneutica delle forme che di questo fenomeno sono figlie. «La verità temporale secondo Deleuze non è oggetto di anamnesi: non si fa riconoscere come se appartenesse già da sempre all’ordine delle cose, perché semmai “si tradisce” insinuandosi nei vuoti e negli strappi della realtà. Se la filosofia vuole raggiungerla, deve farlo portandosi all’aperto, oltre la filosofia delle storia, verso la filosofia delle storie»2.

2. S. Givone, Il bibliotecario di Leibniz, Einaudi, Torino 2005, p. IX.

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La ‘storia’ senza Storia

Si deve quindi guardare ai racconti piuttosto che alla Storia. Venuta meno la filosofia della storia, resta la filosofia e restano i racconti storici. Questa analisi è il tentativo di far tornare a ciò che la filosofia in fondo è, ossia interpretazione di storie, di miti, di racconti, ebbene sì, anche di cinema e di televisione. Ma di un tipo di film e di un tipo di racconti televisivi particolari, quei film e quella televisione che ripropongono il passato, la Storia. La questione da verificare è anche quanto questo tipo di ipotesi si adatti alla realtà delle narrazioni contemporanee. Niente come il paziente lavoro dell’interpretazione scopre l’inesauribile profondità di questo “nuovo mondo storico”. Per queste vie le nuove forme di narrazione della storia riconducono la filosofia sul sentiero delle domande che sono propriamente sue ma che la filosofia non trova se non uscendo da se stessa e inoltrandosi nel mondo dei racconti. Quali domande? Si tratta di un’unica domanda che tutte le raccoglie, vale a dire sul senso che queste storie della Storia possiedono. Il testo si divide in tre parti e un’appendice. Le tre parti non sono come elementi distinti e nettamente separati tra loro, ma, parafrasando Ricoeur3, sono come tre alberi maestri di una sola imbarcazione che si prefigge di navigare sulle acque, spesso tempestose della narrazione del passato. Solo così si capisce perché ogni parte abbia un suo campo di indagine e un suo metodo: perché la materia indagata può rispondere alla domanda sul senso della narrazione storica solo se gli viene posta l’interrogazione nella stessa lingua che conosce e che parla abitualmente. Proprio per questo ogni parte del presente volume esibisce una introduzione che spiega il campo di indagine e la metodologia investigativa usata, cui fa seguito un capitolo di orientamento generale che delinea un quadro teorico delle problematiche analizzate. Nell’appendice si propongono sei “testimonianze” dal taglio prospettico diversificato (storico, critico-cinematografico, letterario, sociologico): intendono costituire un arricchimento del testo e un sostegno alle tesi sviluppate al suo interno. In conclusione va detto che le analisi e le elaborazioni raccolte nel presente volume amerebbero essere considerate, oltre che come ricerca 3. Cfr. P. Ricoeur, La Memoria, la storia, l’oblio, Raffaello Cortina, Milano 2003, p. 8.

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Nota orientativa generale

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intorno a un’area di produzione culturale (storico, letteraria cinematografica e televisiva), come ulteriore modesto contributo al più ampio ripensamento della filosofia della storia, delle vie del sapere storico e delle sue espressioni nel nostro tempo. Perugia, ottobre 2006

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Ringraziamenti

P

rima di procedere con il testo mi sia concesso di indirizzare la testimonianza della mia gratitudine a coloro, fra quelli che mi sono più vicini, che mi hanno accompagnato e stimolato durante il mio lavoro: Alessandro e Riccardo. La mia amicizia verso di loro va oltre i sentieri professionali. Sono debitore a tutta la mia famiglia, mia madre e mio padre in testa, e poi tutti gli altri che non nomino solo per problemi di spazio: il loro costante incoraggiamento e la loro vicinanza anche nei momenti più difficili sono stati i punti fermi da cui ripartire ogni volta. Tra coloro che, oltre alla loro amicizia, hanno condiviso con me le proprie competenze, c’è innanzi tutto il professor Aurelio Rizzacasa, senza il quale questo lavoro non sarebbe nato. A lui si deve l’idea di partenza del progetto: trasformare le mie collaborazioni seminariali in un lavoro unitario. Il mio affetto e la mia stima non saranno mai abbastanza grandi da ripagare la fiducia che mi ha dato nel corso di questi anni. In secondo luogo devo ringraziare gli “storici di famiglia”, Claudia e Don Vicenzo, con i quali da anni mi confronto sul sentiero della ricognizione del passato. Anche in questo caso ciò che ho preso è infinitamente più grande di ciò che ho dato. Inoltre sono grato agli amici cinéphile di Perugia e di Roma con i quali da sempre mi confronto e mi scontro sull’universo cinematografico tutto, Gaetano Saccoccio, Daniele Dottorini, Fabio Melelli, Carlo Guerini, Alessia Cervini, Bruno Roberti e Gigio Montelione. Sono particolarmente grato a Gisella per l’idea di copertina, per avermi accompagnato in alcune interviste e aver avuto la pazienza di sbobinare i nastri, onere che ha condiviso con Sara: mi piace ricordarle con vera tenerezza. Vorrei ringraziare in modo profondo Elisa per l’affetto, per essere diventata la mia prima lettrice, vigilante e talvolta impietosa e, non da ulti-

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La ‘storia’ senza Storia

mo, per avermi avvicinato alla sociologia, cosa questa che spero di aver ripagato con un uso accorto e umile della disciplina. A vario titolo sono debitore degli amici Viviana Simonetti e Domenico Carnevale, Maurizio Marchei e la sua famiglia, Maria Grazia Vippolis, Sandra Palermo, Carlo Cardellini, del dott. De Giorgi, della “squadra di Montebello” e di tutti gli altri che in modo diretto o indiretto mi hanno sostenuto in questo percorso, in special modo “gli amici di Castignano”: ogni volta la lontananza non fa che aumentare il desiderio di abbracciarvi tutti di nuovo. Ci sono poi luoghi fisici e intellettuali cui devo esprimere riconoscenza. Il cinema Zenith e tutti i suoi collaboratori, Giacomo, Alessia, Chiara, e Alice. Le riviste La Nottola di Minerva e il suo direttore, il prof. Marco Moschini; Cosmopolis e tutti i suoi collaboratori saggiamente guidati dal prof. Roberto Gatti – in entrambi i casi si tratta di una severa palestra di scrittura filosofica e cinematografica. L’Istituto di Istruzione Superiore “L. Signorelli”, la sua sede staccata ITC “F. Laparelli” di Foiano, il suo preside Giustino Gabrielli e tutti i colleghi, in particolare la prof.ssa Elisabetta Tassini, la cui pazienza con il sottoscritto sembra non avere davvero confini. Il liceo “F. Stabili” di Ascoli Piceno e la prof.ssa più tenace e preparata che per prima ha avuto fiducia nel “cinema per le scuole”: Teresa Piermarini. Vorrei ringraziare ovviamente tutti gli “ospiti” che hanno offerto la loro preparazione per il testo: spero di aver riportato senza travisamenti la giusta prospettiva del loro discorso e spero di aver raccolto e organizzato il materiale rendendo per iscritto la dimensione del colloquio orale. Qualora così non fosse la colpa è solo di chi scrive. Esprimo dunque riconoscenza nei confronti di Ambrogio Santambrogio, Franco Mezzanotte, Paolo Mereghetti, Stefano Rulli, Paolo Benvenuti, e con particolare simpatia, verso Ascanio Celestini, che ha trasformato la sua testimonianza in un vero e proprio spettacolo privato. Inoltre mi piace ricordare i consigli e i contributi di registi quali Pupi Avati, Pasquale Scimeca, Marco Turco, Daniele Vicari, e da ultimo in particolare del fotografo e documentarista Claudio Speranza. Vorrei inoltre esprimere la mia gratitudine nei confronti di Raffaele Marciano, al quale debbo una critica pertinente della scrittura e la messa a punto dell’intera opera.

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Parte I

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Introduzione

L’

obiettivo della ricerca è quello di mostrare come, attraverso un’attività che da sempre appartiene all’uomo, sia possibile conoscersi e interpretare la propria storia. La narrazione, intesa come necessità di fermare, concretare e, dunque, raccontare, è strettamente connessa e considerata all’interno del concetto di “storia”. Questo perché il pensiero narrativo permette l’articolazione di un procedimento interdisciplinare nel quale la mappa del sapere storico si struttura in un mosaico aperto che evita i condizionamenti di campo e di genere. È evidente però che la narrazione, qualunque essa sia, riferita ai fatti storici può servire a dare prestigio a una comunità, a un’eredità politica, sostenendo un gruppo invece di un altro e così via. La storia in un certo senso può essere strumentalizzata nelle sue forme narrative, storiografiche o letterarie. In questi casi e in altri similari l’aspetto retorico del linguaggio, capace di persuadere e suggestionare, prende il sopravvento sulla precisione scientifica della narrazione, per cui diventa importante far riferimento a quella distinzione tra generi letterari della narrazione che determina le specializzazioni in rapporto agli scopi perseguiti. Il compito che ci prefiggiamo in questa prima parte muove dall’analisi preliminare, concepita nel primo capitolo, dei risultati della filosofia della storia narrativista che si è sviluppata a partire dagli anni Sessanta, e le difficoltà che sono scaturite da una delegittimazione della grande narrazione storica e filosofica che quel tipo di filosofia ha portato. Tra queste vi è senza dubbio quello di definire brevemente tutto ciò che concerne il racconto storico, ma soprattutto quali sono i caratteri che lo rendono tale e che quindi lo differenziano dagli altri tipi di racconto. Da tempo all’ideologia della certezza si è sostituito un più cauto complesso esercizio interpretativo, si moltiplicano i nostri codici di interpretazione fino a diventare un vero e proprio filtro creativo. La filosofia della storia si fa analisi narrativistica della storia. In un certo senso la filosofia della sto-

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La ‘storia’ senza Storia. Parte I.

ria di ambito decostruzionista, post-moderno, fa approdare il racconto storico al rango di genere letterario, facendogli perdere il suo contatto con la verità storicamente accaduta. All’idea che la storia sia stata scritta una volta per tutte si oppone la narrazione che racconta la storia sempre di nuovo, attraverso le simulazioni di senso; con la consapevolezza che nessuna di queste può esaurirne la smisurata potenza e pretenderne il possesso. A questa crisi della filosofia della storia fa da contro canto un mutamento del soggetto che nella società contemporanea si caratterizza con una crisi profonda delle identità. Tale crisi è conseguente alla diminuzione dei vincoli tradizionali che configuravano in modo relativamente stabile l’appartenenza sociale dell’individuo agli ordini legati al territorio, alla nazione, alla distribuzione gerarchica e classista dei ruoli sociali, al capitalismo imperante1. «Senza identità personale l’individuo cade in una sorta di anonimato, tende a non avere più un’immagine interiorizzata di sé, e di conseguenza ad essere dato per scontato dagli altri, in quanto non dispone, a causa della sua piena aderenza a modelli di comportamento socialmente codificati, di alcuna imprevedibilità»2. E naturalmente a partire da quest’ultimo punto, nasce l’esigenza di questa “costruzione identitaria” mediante il ricorso sempre più frequente a un’identità collettiva data dalla Storia. Ciò comporta la proliferazione di storie ambientate nel passato, che facciano da guida verso la costruzione di forme più solide di identità. La narrazione storica non viene interpretata semplicemente come un accesso alla realtà del passato, bensì come un fattore decisivo di costruzione della possibile spiegazione e del significato di tale passato, e, come tale, percorso di costruzione di identità del presente. Inoltre con maggiore o minore chiarezza è riaffermato il legame tradizionale della storiografia con l’agire umano. Pertanto la scrittura del testo storico non è un momento, per così dire, espositivo, comunicativo o retorico, diretto semplicemente dall’esigenza di pubblicità dello storico, ma al contrario è il momento della storia stessa. Il problema della storiografia, per quanto ci riguarda, è infatti la temporalità ovvero la trasformazione e continuità nel corso del tempo; si tratta in effetti del problema premesso alla ricerca della identità come esigenza individuale e collettiva. Nel secondo capitolo, 1. Cfr, J. Baudrillard, La società dei consumi, il Mulino, Bologna 1976. 2. F. Crespi, Identità e riconoscimento nella sociologia contemporanea, Laterza, RomaBari 2004, p. X.

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Introduzione

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dopo aver chiarito alcune questioni terminologiche riguardanti la storia e aver ripercorso il dibattito sulla giustificazione del fare storia attraverso le ultime polemiche, anche politiche, sull’uso del manuale, si procederà verso un’analisi della scrittura storica. Si tenterà di portare allo scoperto il livello profondo del racconto storico mediante un esame delle parti che lo compongono attraverso un confronto sempre più serrato con la letteratura. Tutto ciò vuol dire interessarsi non solo alla pratica storiografica, o al meccanismo della metodologia retorica nella realizzazione della narrazione storica, ma vuol dire anche capire cos’è che produce il racconto e ciò che lo dirige, vale a dire riflettere sui concetti di “invenzione” e “argomentazione”. Si vedrà allora come la storia non è una scienza, e non si può distinguerla dalla letteratura facendo appello a una sua ipotetica scientificità. Né scienza in senso classico, né ricerca scientifica nell’accezione contemporanea del termine, la storia va intesa più modestamente come una disciplina, una particolare pratica, socialmente riconosciuta, definita e codificata. In quest’ottica, essa possiede – o dovrebbe possedere in via di principio – alcune caratteristiche fondamentali: il rapporto con il mondo fisico attraverso le fonti, vale a dire la base empirica dei fatti, la descrizione condotta “dall’esterno” (lo storico è un narratore), l’assunzione di una temporalità lineare e del principio di causalità. Si tratta di caratteristiche molto semplici e generali, la cui identificazione non risolve certo gli innumerevoli quesiti sulla natura della ricerca storica. Tuttavia è la maggiore o minore presenza di questi elementi che consente di classificare un testo come più o meno spostato, nello spettro storia-letteratura, verso il primo o il secondo polo. Ma soprattutto vedremo come la storia sia legata, attraverso l’ambito etico, alla dimensione pubblica; è questo, in realtà, a distinguere l’aspetto narrativo storico da quello letterario. Nel terzo capitolo infine ci occuperemo della forma narrativa letteraria della storia per eccellenza: il romanzo storico. Verranno offerti alcuni strumenti, “definizioni orientative” per muoversi in questo universo letterario sterminato, come il chiarimento del concetto di romanzo, e il contesto storico da cui nasce e di cui diventa la forma espressiva che lo rappresenta. La struttura e la narrazione del romanzo storico sono poi le analisi che precedono una lunga digressione sulla storia del romanzo storico europeo in generale, ma in particolare di quello italiano. Le analisi conclusive ci portano verso la definizione di morte, non tanto del

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La ‘storia’ senza Storia. Parte I.

romanzo storico, quanto dell’uso politico-pedagogico che di questo se ne faceva. Una ultima considerazione introduttiva di carattere terminologico: come osserva anche Ricoeur, la tesi «circa il carattere ultimamente narrativo della storia non si confonde affatto con la difesa della storia narrativa»3, intesa come la storia prevalentemente politica tradizionale, i cui limiti e presupposti culturali e ideologici sono stati sufficientemente contestati e smantellati, specialmente dalla cosiddetta scuola delle Annales (che, sia detto chiaramente è diventata anch’essa una vera e propria tradizione). Tutto ciò è chiaro anche alla luce di un’intuizione primaria che possiamo esprimere ancora con Ricoeur: «se la storia rompesse ogni rapporto con la capacità di base che noi abbiamo nel seguire una storia e con le operazioni conoscitive della comprensione narrativa […] essa perderebbe il proprio carattere distintivo all’interno delle scienza sociali: non sarebbe più storica»4.

3. P. Ricoeur, Tempo e racconto, 3 voll., Jaca Book, Milano 1986-1988, vol. I, p. 143. 4. Ibidem.

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Capitolo 1.

Filosofia della storia narrativista e crisi dell’identità

«La storia insegna, ma non ha scolari.» (A. Gramsci)

1. La filosofia della storia narrativista

E

sordire in questa riflessione sulla narrazione storica mediante la constatazione di una crisi della filosofia della storia potrebbe sembrare non originale, parimenti al suggestivo esempio che sempre questo concetto porta con sé, vale a dire il richiamo che fa il filosofo Walter Benjamin al quadro di Paul Klee intitolato Angelus Novus. In esso Benjamin legge una inconsapevole rappresentazione dell’angelo della storia: Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente verso il futuro, ma a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui in cielo. Ciò che chiamiamo progresso è questa tempesta1.

Eppure forse ciò che manca a questa opinione comune è la seria presa di coscienza della profonda crisi della filosofia della storia, che lo spessore dei suoi esempi davvero ci mostra. L’avvento (già vecchio, e forse superato) della “condizione postmoderna”, che di questa crisi è la traduzione, ha effettivamente tratto tutte le conseguenze dalle incertezze che le riflessioni sulla storia hanno generato? Parlare di filosofia della storia dopo il superamento dell’idealismo, dello storicismo e del marxismo costituisce un nodo problematico. Anche se l’immagine di una filosofia della storia 1. W. Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962, pp. 72-83.

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La ‘storia’ senza Storia. Parte I.

universale si può dichiarare ormai tramontata, non si può tuttavia rinunciare a pensare che l’idea di senso, inaridita dalla venuta del nichilismo, conservi un valore nonché un significato che devono essere ancora indagati. Trovare lo spazio per una filosofia della storia, che sappia raccogliere la sfida del nichilismo significa innanzi tutto affrontare la crisi della Totalità, la caduta del senso, l’oscura eccedenza della vita rispetto a ogni senso ideale, il ceppo doloroso della finitudine, il travaglio non risolto del negativo. Quello che troppo spesso viene dimenticato è il complessivo orizzonte della filosofia della storia come riflessioni sulla “narrazione della storia”, che invece forse è ancora capace di fornire chiarimenti rispetto agli argomenti specifici che la riguardano. Il significato “forte” della filosofia della storia intesa come flusso di eventi espressione di un piano provvidenzialistico, fondato su principi trascendenti (Dio) o immanenti (la Ragione, lo Spirito Assoluto, il Progresso la Libertà) è da tempo superato. Basti semplicemente qui richiamare i nomi di Agostino, di Vico, gli illuministi Voltaire, Turgot e Condorcet, Herder, per arrivare alla grande speculazione hegeliana e alle teorie evoluzionistiche positiviste che, a partire dalla prima metà dell’Ottocento, condizioneranno tutte le successive riflessioni sulla storia, come lo “storicismo” e il pensiero di Croce2. Queste concezioni causalistiche e provvidenzialistiche giungono fino a noi, filtrate però da considerazioni che tengono a rifarsi a precursori illustri come Schopenhauer, Nietzsche e Heidegger. Se l’idea di svolgimento e processo (intesi però non come in precedenza nel senso di una linearità continua e progressiva), resta un criterio essenziale allo studio della storia, c’è chi dubita si possa ancora ricercare un senso nello svolgimento degli avvenimenti3. Questa crisi della filosofia della storia in senso forte, e 2. Per una classificazione terminologica più approfondita delle definizioni in ambito disciplinare storico o filosofico si veda A. Rizzacasa, Filosofia della storia, Borla, Roma 1993, pp. 22-50. 3. Molto interessante a questo proposito risulta essere la tesi di Löwith espressa in Significato e fine della storia, secondo la quale si può rapportare la filosofia della storia alla teologia della storia, per cui la crisi di quest’ultima, derivante dalla secolarizzazione della cività moderna, determina ovviamente la crisi della prima. «La moderna filosofia della storia trae origine nella fede biblica in un compimento futuro e finisce nella secolarizzazione del suo modello escatologico» Löwith Significato e fine della storia, Il saggiatore, Milano,

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1. Filosofia della storia narrativista e crisi dell’identità

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che investe anche l’aspetto più debole e generale della filosofia della storia, è generata da tre distinte matrici, che pur partendo da spunti comuni prendono direzioni divergenti. Da un lato vi è lo strutturalismo che attacca lo storicismo, ma più in generale la filosofia della storia, e propone un nuovo modello di sapere che sostituisce al primato della storia nelle scienze dell’uomo il concetto onnicomprensivo di struttura. Secondo il padre dello strutturalismo, Lévi-Strauss, non c’è progresso nella vicenda degli uomini. La storia è fatta di fratture e discontinuità, e il progresso nasce solo da queste. La scuola di Francoforte invece, servendosi della triade Hegel-MarxNietzsche e della “dialettica negativa” (in particolare con le voci di Horkeimer e Adorno nella loro spietata critica alla razionalità illuministica) polemizza con la filosofia della storia sostenendo che in essa si propone razionalmente l’asservimento e la logica del dominio. Scrive Max Horkheimer: «Ove la filosofia della storia implichi ancora l’idea di un senso oscuro, ma operante in modo autonomo e arbitrario, della storia, che si cerca di delineare in schemi, costruzioni logiche e sistemi le si deve obiettare che il senno e la ragione presenti nel mondo sono esattamente quelli che gli uomini realizzano in esso»4. Da ultimo la deriva relativistica contemporanea, la quale anch’essa si nutre di suggestioni nietzsche-heideggeriane, ma si sviluppa sulla scorta di tesi tardo-esistenzialistiche come quelle del russo Kojève, il quale rilegge Hegel all’insegna di un radicale pessimismo, negando ogni razionalità alla costruzione hegeliana e in definitiva all’andamento razionale della storia. È appunto in questo quadro, multiforme e complesso, che si produce la “condizione postmoderna”, che, nella trattazione di Lyotard (per effetto di una privazione dell’universale fondativo, di una rinuncia al realismo ontologico), produce una delegittimazione della narrazione, che nel suo aspetto radicale è rinuncia alle condizioni per un qualsiasi modo di fare storia. La storia non produce verità che si possono accumulare un po’ alla volta per costruire l’edificio della verità storica, ma secondo quanto affer-

p. 22. «Gli avvenimenti storici in quanto tali non contengono il minimo riferimento a un senso ultimo e comprensivo. La storia non ha un risultato ultimo»; ivi, p. 219. 4. M. Horkheimer, Gli inizi della filosofia borghese della storia, Einaudi, Torino 1978, p. 84.

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La ‘storia’ senza Storia. Parte I.

mano i nuovi filosofi anarchici, Fayerabend in testa, non si danno verità acquisite. L’incremento delle conoscenze deriverebbe dal continuo capovolgimento delle verità raggiunte precedentemente. Si tratta dunque di un relativismo conoscitivo, che sommato al decostruzionismo metodico, raggiunge una posizione di scetticismo per ciò che concerne la possibilità della conoscenza del passato attraverso la storia, e la conseguente delegittimazione della sua narrazione come verità. Di conseguenza torna ad essere messo in risalto il piano del narrare storico, non più sotto l’aspetto epistemologico ma come qualcosa che ha a che fare con l’attività retorica. La frantumazione della filosofia del Novecento, nel passaggio tematico “dalla filosofia alle filosofie”, coinvolge, dunque, la filosofia della storia, la quale propone un cambiamento nelle premesse fondamentali degli storici, prima fra tutte l’abbandono della convinzione della rispondenza tra racconto storico e realtà. La riflessione sulla storia diventa così, non più spiegazione del processo universale capace di unire e dare senso all’ordine dei fatti, ma sempre più domanda sulla sua condizione di possibilità, indagine sul problema del metodo, chiarimento sull’oggettività storica e analisi della narrazione, concepita come procedimento retorico e culturale. Se a questo punto il ricorso alle grandi narrazioni non risulta più possibile, la dispersione incombe sul reale scisso in schegge molteplici, in brandelli ontologici ormai destinati all’incomunicabilità. La perdita di senso sembra ormai inarginabile e questo si accompagna alla crisi del sapere che nella sua forma tradizionale assumeva un aspetto narrativo. Alla sfiducia nei confronti delle metanarrazioni, e quindi delle verità “forti” e “assolute” che queste legittimavano, si sostituisce l’apertura a favore di forme instabili, plurali e molteplici che segnano l’emergenza della dispersione in un arcipelago di piccole narrazioni. È come se la fine della nostra cultura narrativa generasse un altro modo di raccontare, dischiuso sul polimorfismo del senso e per questo cosciente dell’esistenza di una pluralità di modelli e paradigmi di razionalità, che del resto è anche l’orizzonte a cui perviene l’epistemologia contemporanea, riconoscendo il carattere paradossale e non lineare della crescita del sapere scientifico. In questo senso, è chiaro allora come possano esistere solo racconti parziali la cui unità non può essere più quella di un grande racconto unificatore e fondativo. Non è più possibile decifrare completamente il senso

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della storia visto che non esiste più un super intrigo capace di racchiudere nella sua unità il significato ultimo di tutta la storia umana. D’altro lato si è andato via via sviluppando un nuovo filone di studi della filosofia della storia caratterizzato soprattutto dal cognitivismo della filosofia analitica. E anche nel quadro della filosofia analitica della storia, a partire dalla fine degli anni Sessanta, si registrava un crescente interesse per la problematica del racconto. La prima opera significativa che, non senza abbandonare l’indirizzo positivista, si è occupata del racconto storico è Filosofia analitica della storia dello studioso americano Arthur Danto, apparsa a metà degli anni sessanta. «Danto polemizza con la pretesa della filosofia della storia classica, cioè speculativa o metafisica o dogmatica, di trattare la storia come una totalità, che va da un passato a un futuro, e al contrario ritiene utile concentrare il lavoro d’indagine teoretico sul passato fermandosi al mero piano della narrazione storica, ovvero del discorso storiografico»5. Di conseguenza secondo Danto la coerenza del racconto storico è assicurata dalla funzione della spiegazione deduttiva e nomologica. Il percorso argomentativo dell’autore americano parte sostanzialmente da un’interrogazione intorno alla natura del concetto di “significato” adoperato nelle filosofie della storia: esso si rivela significato contestuale, riferito a una più ampia struttura e a una totalità storica simile a una compiuta opera letteraria. Ed allora, nell’organizzazione storica degli eventi, questi Vengono continuamente ri-descritti e il loro significato ri-considerato alla luce delle successive informazioni […] chiedersi il significato di un evento, nel senso storico del termine, significa porre una domanda cui si può dare una risposta solo nel contesto di una narrazione storica; lo stesso evento avrà un significato diverso a seconda della narrazione in cui è inserito […] narrare comporta l’esclusione di alcuni avvenimenti6.

La differenza tra scienza e storia sta dunque nei criteri strutturali differenti che adoperano: ma se la struttura della storia è la narrazione, ne segue che la differenza tra storie sostenute da “prove” e storie che non lo sono, non tocca l’essenziale, che sta precisamente nell’ordinamento narrativo. Vista l’incompletezza o la selettività del passato, gli storici sono 5. A. d’Orsi, Alla ricerca della storia, Scriptorium, Torino 1996, p. 43. 6. A. C. Danto, Filosofia analitica della storia, il Mulino, Bologna 1971, p. 21.

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La ‘storia’ senza Storia. Parte I.

costretti a tentare non una riproduzione del passato ma un’organizzazione del passato7. Gli esiti pericolosi di questa direttrice si trovano concentrati nell’opera di Haiden White dal titolo emblematico Retorica e Storia (1973), dal quale prende il via tutta la riflessione sulla filosofia narrativa della storia. Nel testo si sostiene la tesi dell’impossibilità di conoscenza storica, ovvero una impossibilità a fissare un criterio di verità. White confuta la contrapposizione tra scrittura storica, luogo del reale accertato oggettivamente, e il romanzo, regno dell’immaginazione: «il contenuto fattuale del racconto può essere concepito sotto forma di romanzo, di commedia, di tragedia, di satira ecc. La verità può concernere soltanto il livello della “cronaca” del racconto, mentre nella sua totalità il racconto storico è una costruzione satura dell’ideologia politica dello storico, una descrizione letteraria e retorica del passato, legata al passato, ma né vera né falsa»8. Si puo senza dubbio affermare che in White il narrativismo essenziale della storiografia è già un presupposto assiomatico, una premessa non problematica che egli può semplicemente presentare senza darne troppa spiegazione: la storia deve essere messa a contatto con la letteratura, della storia deve essere presa sul serio solo la struttura intimamente narrativa. Il testo, pertanto, è solo un tentativo di stabilire la ineludibile natura poetica dell’opera storica, e di specificare gli elementi che ne costituiscono la struttura narrativa. Della sostanziale equivalenza tra storiografia e narrazione deriva anche la conseguente affermazione che i modelli storiografici non dipendono dai dati, dalla loro interpretazione o veridicità, ma dalla specifica coerenza che riposa sulla «preconcettuale e specificatamente poetica natura delle loro prospettive sulla storia e i suoi processi»9. Come una data situazione storica sia da configurarsi dipende dall’abilità dello storico nell’intonare una specifica struttura di intreccio con gli insieme di eventi storici che desidera fornire di un significato di tipo particolare. Questa è essenzialmente un’operazione letteraria, una fabbricazione di fiction. E chiamarla in questo modo non significa sottrarre allo status delle narrazioni storiche la produzione di una maniera di conoscenza […] la codificazione degli eventi interni di siffatte strutture di intreccio è una delle maniere che 7. Ivi, pp. 153-171. 8. J. Topolski, Narrare la storia, Bruno Mondadori, Milano, 1997, p. 12. 9. H. White, Retorica e Storia, 2 voll. Guida, Napoli 1978, pp. 2-4.

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una cultura possiede di rendere significativi i passati pubblici come quelli personali10.

La filosofia della storia, attraverso l’analisi linguistica, diventa sempre più analisi dei modelli di razionalità, non più intesi in senso di un realismo ontologico ma concepiti, in senso nominalista, come categorie epistemologiche atte a uno strumentalismo descrittivo. Questa filosofia della storia portatrice di cambiamento di senso, diventa una premessa intellettuale che ha come conseguenza profondi cambiamenti nell’epistemologia, nell’analisi della letteratura, e nella pratica storiografica. La convinzione che ci sia una certa verità concernente il passato e che impossessarsene sia il fine della ricerca viene sostituita con l’idea di contatto con la verità del passato. La convinzione che esista una metodologia sicura nella ricostruzione della verità del passato viene sostituita dall’impianto narratologico concepito non solo come procedimento logico e informativo, bensì anche come procedimento narrativo retorico e culturale. Se l’erudizione è stata considerata il nocciolo e il luogo naturale della Storia, la dissacrazione della tradizione storiografica a favore dell’affermazione che la storia non può e non deve appartenere esclusivamente al campo delle scienze consegna il racconto storico alla centralità della narrazione. La storia è anche un’arte il cui talento si dimostra attraverso l’originalità della ricostruzione del suo tessuto narrativo: ovvero un crescente interesse poetico ai danni dell’ambito epistemologico. Questo fa crescere le narrazioni storiche “non convenzionali”, sviluppa una “sete di storia” che negli ultimi, anche a causa di altri fattori (come vedremo tra breve di tipo sociologico) che determinano una crisi di identità collettiva, trova soddisfazione nei tanti racconti tratti dal passato. La centralità della narrazione è al cuore della grande riflessione sui rapporti tra storia e racconto in Tempo e racconto di Paul Ricoeur. Se Ricoeur dedica parte del suo lavoro all’ambito della storia, di volta in volta confrontandosi con scuole e correnti storiografiche, integrandolo con le sue riflessioni sul linguaggio e sull’interpretazione, è proprio perché ritiene di individuare un nesso insopprimibile tra la traccia narrativa della 10. Ivi, pp. 5-7.

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La ‘storia’ senza Storia. Parte I.

storia e lo specchiarsi nei suoi racconti da parte del soggetto. Ricoeur attraverso la storia vuole approfondire il discorso sull’uomo, mediante un percorso ermeneutico che riconduce al sé il concetto di mondo attraverso l’analisi dei simboli, dei miti del linguaggio, delle narrazioni storiche o fantastiche, disperse nel territorio del passato. La riflessione di Ricoeur si sviluppa nel tentativo di una paziente analisi dei segni linguistici, storici, letterari nel tentativo di recuperare il questionante dai segni, dai simboli, dalle opere, va altresì detto che essa si focalizza attorno a un più sistematico approfondimento dei modi tipici dell’approccio umano al mondo e passa per la frequentazione dei filosofi che scuotono la tradizione metafisica, da Hegel a Marx, da Freud a Nietzsche, da Heidegger Gagadamer. In altri termini la filosofia elaborata da Ricoeur si gioca sul rapporto problematico tra soggetto e storia, quando ciascuno dei poli ha perduto la sua assolutizzazione (il solipsismo di Descartes e la divinizzazione hegeliana della storia)11. Nella trilogia Tempo e racconto, pubblicata nell’arco di tempo che va dal 1981 al 1985, l’autore francese parte dall’ipotesi che la temporalità non si lascia dire nell’analisi diretta di una fenomenologia, ma richiede la mediazione indiretta della narrazione. Per Ricoeur la realtà (basata sulle azioni umane) si dispone di struttura narrativa, ed è per questo che la narrazione (ivi compresa la narrazione storica) può essere considerata come mimesis della realtà. Tutta l’opera si basa sul circolo ermeneutico che il tempo forma con il racconto e che illumina entrambi: tutto ciò che è narrabile accade nel tempo, si svolge temporalmente, così ogni processo di temporalità è riconosciuto come tale solo in quanto diviene narrabile. La narrazione prende significato nella misura in cui essa offre un resoconto dell’esperienza temporale degli uomini. Le azioni acquistano secondo Ricoeur una forma narrativa e un ordine diacronico attraverso l’intreccio. Il racconto, la messa in opera dell’intreccio è mimesi dell’azione. L’intreccio, racchiuso in un racconto come narrazione di un processo di uno sviluppo diacronico, raccoglie attraverso una sintesi dell’eterogeneo, la molteplicità dispersa dei fatti, eventi, imprevisti, finalità, effetti, nell’unità temporale dell’azione: in una storia. Si tratta della tesi di fondo dell’opera, vale a dire che una validità del racconto come costruzione dell’intreccio resti presupposto irrinun11. A. Danese, Da Muonier a Ricoeur. Itinerari di riflessione, in V. Melchiorre (a cura di), L’idea di persona, Vita e pensiero, Milano 1983, p. 390.

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1. Filosofia della storia narrativista e crisi dell’identità

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ciabile della storiografia. Solo così la storia assume uno statuto proprio (distinto non solo dalle scienze sociali ma anche dal racconto di finzione) e il suo campo guadagna autonomia e specificità. In effetti, a differenza del racconto letterario, essa non è totalmente autoesplicativa, richiedendo una dimensione critica ed empirica, che è tuttavia costitutivamente sottomessa a una matrice narrativa12.

2. La narratività della storia come risposta alla crisi dell’identità singola e collettiva Le considerazioni della filosofia della storia precedenti rappresentano una sorta di presupposizione a un discorso sull’identità e la sua dispiegazione attraverso il ricorso al racconto che garantisce un certo grado di continuità irrinunciabile. Tale continuità è eminentemente rappresentata e spiegata proprio da narrazioni storiche, e questa è un’indicazione che permette di ipotizzare che narrazioni siffatte si adeguino alla costruzione dell’identità, in quanto, descrivendo un mutamento rispetto al passato, non solo mostrano contestualmente una continuità, ma con ciò spiegano in che modo questa continuità si è affermata. Il punto focale di questa affermazione di continuità sta, come abbiamo appena visto, nella intellegibilità della narrazione storica incaricata di rappresentare la continuità dell’identità. Il problema della intelligibilità della narrazione storica è appunto alla base della sua frequente semplificazione adottata dai mezzi di comunicazione, dal momento che risponde, come visto, a un’esigenza di creazione dell’identità. Crediamo che una delle chiavi per intendere l’intenso fenomeno della narrativizzazione della Storia e assieme per apprezzarvi un cospicuo significato filosofico e sociologico, stia nel vederlo sullo sfondo della crisi dell’idea, e quasi della pensabilità stessa, dell’identità, intesa in senso individuale e collettivo nella cultura contemporanea. Se in generale la svolta verso la comunicazione narrativa quale modo di pensare il passato è da mettere in relazione con la ricerca di una forma rinnovata della storia, ovvero con la difficoltà a proporsi secondo moduli tradizionali, allora la narrativizzazione stessa pare poter essere intesa e adoperata, più specificatamente, quale strategia volta a contrastare la dissoluzione e parcellizzazione dell’identità. L’inserimento di una continuità relativamente garantita dalle 12. P. Ricoeur, Tempo e racconto, op. cit., vol. I, p. 261.

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La ‘storia’ senza Storia. Parte I.

nuove forme del racconto storico permetterebbe di ricompattare i mille rivoli verso cui scivola il soggetto contemporaneo13. Il concetto di “crisi di identità” si è sviluppato a partire dal momento in cui è stato messo in discussione tutto ciò che tradizionalmente definiva l’identità. Si tratta di un fenomeno che ha creato un largo spaesamento percepito sia a livello individuale che sociale. Se la modernità si qualificava come l’era delle appartenenze “forti”, di ceto e di classe, e come il tempo della “certezza”, data dalla presenza costitutiva della religione e della tradizione, la contemporaneità nasce, invece, all’insegna dello scambio della certezza con la libertà di scelta. La conseguenza è la diffusione, a livello sociale, così come a livello intimistico e personale, di una condizione di incertezza dilagante. L’identità, non più scaturita dalla ascrittività delle posizioni sociali, diventa il frutto di un processo decisionale14. La complicazione e accelerazione della vita, la relativizzazione e la perdita dei valori, la scomoda posizione della libera autorealizzazione personale portano con sé il rischio15 del fallimento radicale16. L’avere numerose possibilità ha provocato l’aumento di forme psicologiche depressive. «Il diritto all’autorealizzazione è ormai pienamente legittimato nella nostra 13. Cfr R. Sennet, Il declino dell’uomo pubblico, Bompiani, Milano 1982 e A. Hirschman, Felicità privata e felicità pubblica, il Mulino, Bologna 1983. 14. Tra gli autori che si sono occupati del problema della contemporaneità, ve n’è uno in particolare che ha incentrato tutta la sua trattazione sulla condizione di incertezza che regna sulle scelte dell’individuo: si tratta del sociologo Zygmunt Bauman. L’incertezza è creata dall’onnipotenza dell’uomo stesso che, moltiplicando le condizioni e accelerando a dismisura le trasformazioni, non tiene più sotto controllo ciò che lui stesso ha creato. L’impotenza che ne deriva è fortemente percepita a livello individuale: infatti se le aspettative falliscono la colpa è solo della propria insufficienza. Secondo Bauman, la postmodernità si caratterizza come un tentativo di ricomposizione dell’identità, minacciata dalle stesse possibilità create dall’uomo. Dentro la globalizzazione, Laterza, Roma-Bari 1999; Il disagio della postmodernità, Bruno Mondadori, Milano 2002; La società individualizzata, il Mulino, Bologna 2002; Tra i suoi ultimi scritti risulta interessante La società sotto assedio, Laterza, Roma-Bari 2003. 15. Quello che ha approfondito in modo più esaustivo la tematica del rischio è il tedesco Ulrich Beck, il quale con la pubblicazione della sua opera La società del rischio, Carocci, Roma 2000, porta il concetto definitivamente al centro del dibattito sociologico. Con questo lavoro il sociologo tedesco tenta di descrivere le discontinuità sociali emerse negli ultimi decenni, utilizzando come strumento esplicativo privilegiato il concetto di rischio. 16. C. Lasch, La cultura del narcisismo. L’individuo in fuga dal sociale in un’età di disillusioni collettive, Bompiani, Milano 1981; L’io minimo. L’individuo in fuga dal sociale in un’epoca di turbamenti, Feltrinelli, Milano 1985.

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1. Filosofia della storia narrativista e crisi dell’identità

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società: ma come praticarlo, se il suo telos nell’identità è messo in crisi proprio dalla stessa abbondanza di occasioni di autorealizzazioni?»17. Il paradosso in questa situazione sta proprio nel fatto che il diritto all’autorealizzazione di ciascuno è oramai pienamente legittimato nella nostra società, ma non lo si può praticare visto che il suo fine, l’identità, è messo in crisi18. Questa dimensione dell’identità privata sembra raffigurare una dimensione in cui si perde l’aspetto progettuale che riguarda il complesso della vita19. «Invece di assegnare agli individui una identità o una condizione sociale predeterminati, la società moderna dà a ciascuno il diritto di scegliere il modo di vivere che più gli piaccia; e la scelta può rivelarsi sconcertante, addirittura dolorosa»20. Anche l’identità sociale è altrettanto importante, in quanto, senza una certa similarità con gli altri, l’individuo rischia di venire emarginato dal proprio contesto di appartenenza, ciò a testimonianza che la formazione di una propria soggettività si rende possibile solo attraverso la relazione con gli altri. Se l’individuo risulta fondarsi attraverso la relazione con gli altri, va posto in evidenza proprio il concetto di intersoggettività, intesa come incontro di soggetti già formati in una stessa tradizione. Nessuna coscienza di sé potrebbe emergere senza, all’origine, una relazione con l’altro con cui si condivide qualcosa come la propria Storia. Per questo motivo, il 17. A. Allegra, Identità e racconto. Forme di ricerca nel pensiero contemporaneo, ESI, Napoli 1999, p. 13. 18. «La postmodernità è l’era degli specialisti in problemi di identità, dei guaritori della personalità, dei consulenti matrimoniali, degli autori dei manuali su come acquistare fiducia in se stessi, esercitare influenza sugli altri e procurarsi alleati nel difendere la fortezza identitaria. […] Gli uomini e le donne postmoderne, volenti o nolenti, sono condannati a una continua scelta, e l’arte dello scegliere si basa soprattutto sull’evitare un pericolo: quello di lasciarci sfuggire l’occasione buona, vuoi per non averla vista in tempo, vuoi per non aver impiegato sufficiente zelo per afferrarla, vuoi perché c’è mancata la forza fisica o spirituale per raggiungerla. Per evitare questo pericolo, gli uomini e le donne postmoderne hanno bisogno di consulenze. La variante postmoderna dell’incertezza, genera una crescente richiesta di consulenze esistenziali impartite da esperti nel sopire o curare i problemi di identità». Z. Bauman, Il disagio della postmodernità, op. cit., p. 216. 19. Cfr. C. Taylor, Radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna, Feltrinelli, Milano 1983. 20. C. Lasch, L’io minimo. L’individuo in fuga dal sociale in un’epoca di turbamenti, op. cit., p. 22.

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La ‘storia’ senza Storia. Parte I.

problema dell’identità va considerato in stretta connessione con quello di riconoscimento, dal momento che sia l’identità personale sia l’identità sociale vengono costruendosi solo attraverso l’interazione con gli altri. Si tratta di fenomeni in cui predomina lo svuotamento di senso dovuto al crollo della tradizione. Nell’attuale ordine post-tradizionale, però, le “tradizioni” non scompaiono completamente, anzi in certi contesti fioriscono. Sono due le forme di sviluppo che la tradizione manifesta nell’ordine contemporaneo. Nel primo caso si tratta di tradizioni che per sopravvivere si difendono attraverso i loro stessi termini: mostrando come sia impossibile vivere in un mondo di dubbio radicale legittimano l’esistenza della tradizione stessa. Nel secondo caso si parla di sviluppi del tradizionalismo che sfociano nel fondamentalismo e questo «assume il significato che ha solo su uno sfondo in cui prevale il dubbio radicale; non è niente di più e niente di meno della tradizione nel suo senso tradizionale, anche se schierata in ordine di battaglia e non più in posizione di supremazia. Il fondamentalismo può essere inteso come un’asserzione totale della verità rituale senza alcun riguardo per le conseguenze che comporta»21. Contemporaneamente la disgregazione dell’identità investe, con tutta evidenza, le concrete vite degli uomini, in una ricaduta sociale multiforme. La dissoluzione è dunque triplice: da un lato c’è l’identità del soggetto coscienzialmente fondato; dall’altro l’io empirico nel suo riferirsi a ruoli o caratteri sociali; infine il problema intersoggettivo di una identità collettiva. La problematica della narrazione, come l’abbiamo intesa in precedenza, è proprio quella di articolare una risposta a questo livello complessivo e unitario del problema identitario. Identità e narrazione sono tra loro legate in modo tale che la ricerca della crisi della prima ha contribuito a determinare il perché dell’esplosione della seconda. La forza compositiva del narrare la storia è messa in crisi dal venir meno del profilo dell’individuo22. La narrazione, in particolare della storia, può essere una strategia di recupero di un modulo di costruzione di identità individuale e collettiva praticabile. Se la tradizione è rotta o usata nel modo sbagliato e l’autorità conseguentemente perduta occorre una nuo-

21. A. Giddens, Il mondo che cambia: come la globalizzazione ridisegna la nostra vita, il Mulino, Bologna 2000, p. 151. 22. S. Ferrari, Scrittura come riparazione. Saggio su letteratura e psicanalisi, Laterza, Roma-Bari 1994.

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1. Filosofia della storia narrativista e crisi dell’identità

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va maniera di confrontarsi con il senso di identità legato al passato. «Si costruisce dunque un’identità grazie a racconti, e ciò ha a che fare con una visione del bene, rispetto a cui si orienta il racconto che narriamo, e conseguentemente l’identità che otteniamo. L’evoluzione di uno dei termini di questo nodo, vuol dire subito anche l’evoluzione degli altri; ne segue, in particolare, la pluralità storica e l’esplosione contemporanea delle forme della narrazione, in connessione con le varianti moderne dell’identità e del senso di ciò che è bene»23. Dobbiamo essere consapevoli che il flusso continuo di narrazione storica che sostanzia oggi la comunicazione, è solo la risposta a un bisogno che in realtà non fa altro che aumentarlo. La narrazione storica autentica cede il posto al giornalismo, al consumo istantaneo di un informazione che ha la sua validità nella semplicità della proposta, mentre l’identità autentica presuppone una stratificazione, un’esperienza vitale, una pazienza creativa, una capacità di apprendere dal passato e un’autentica possibilità di ascolto della dimensione temporale del passato. Con questo non si vuole condannare la possibilità narrativa di recupero, se ne denuncia solo la sua assoluta attuale insufficienza, peraltro voluta. Risulta evidente che l’eventuale autentico soddisfacimento del bisogno priverebbe il mercato di una merce che è davvero di moda e si vende facilmente. È chiaro che questo flusso creativo di storia, specie nelle sue produzioni più basse, contiene in sé un’aporia, perché aggrava ciò che intende risolvere. Si tratta di una ricostruzione strumentale nella vacuità e nella leggerezza dei legami con il passato. Si assiste a un ammorbidimento degli spigoli vivi; la progettazione della ricostruzione è affidata ai professionisti del non turbamento, che creano racconti del passato con un senso ridotto della temporalità: questa banda cronologica ristretta ha pesanti ricadute sull’identità. Non se ne può parlare nemmeno in termini negativi, o di fallimento della riscoperta delle radici comuni o della memoria collettiva: l’intero ordine dei problemi è mercificato, la società crea un bisogno, e poi in dosi omeopatica crea la soddisfazione di quel bisogno. L’intero ordine dei problemi della narrazione storica è fuori visuale. Tuttavia non è certamente questo che qui ci interessa, si deve cercare di capire la tensione problematica del discorso. Da un lato la narrazione storica viene confermata nel suo statuto essenziale, colto in un prezioso 23. A. Allegra, Identità e racconto, op. cit., p. 22.

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La ‘storia’ senza Storia. Parte I.

rapporto con il costume collettivo e l’identità; dall’altro essa oggi appare inabile alla costruzione della stessa individualità, anzi spesso l’immaginario storico collettivo che essa propone tende proprio nella direzione di una delegittimazione dell’identità, individuale e collettiva a realizzarsi autenticamente. In conclusione è opportuno ribadire almeno alcuni risultati importanti di questo primo capitolo: se la crisi della modernità ha portato a una delegittimazione della narrazione, intesa come percorso di senso, a una conseguente dissoluzione del soggetto, se non è più possibile decifrare completamente il senso della storia visto che non esiste più un superintrigo capace di racchiudere nella sua unità il significato ultimo di tutta la storia umana, se è pur vero che viviamo nell’epoca della perdita del narrativo è altrettanto vero che questo non implica la perdita del “raccontabile”. È questa la fonte inesauribile e datrice di senso, anche se si tratta di un senso sempre provvisorio, incompleto, che apre un ventaglio di possibilità che raccontano i diversi modi di essere al mondo. Allora più che lasciarsi andare a un lutto per la totalità e l’assolutezza, l’apertura al raccontabile rappresenta ancora l’unico modo possibile per dare delle risposte, pur parziali e mai definitive, diremmo quasi a “sintesi aggiornata”. Inoltre, la narrazione storica non viene interpretata semplicemente come un accesso alla realtà del passato, bensì come un fattore decisivo di costruzione della possibile spiegazione e del significato di tale passato, e, come tale, percorso di costruzione di identità. Pertanto la scrittura del testo storico non è un momento semplicemente legato al passato ma riguarda la soddisfazione di un’esigenza sociale. Una delle funzioni conoscitive della narrazione sta appunto nel permetterci di conoscere quegli oggetti che hanno una identità spazio temporale che, mutando nel tempo, non può essere definita una volta per tutte […] conoscere questi oggetti significa evidentemente cambiare continuamente la loro definizione. La narrazione ci permette appunto di ricostruire identità che non possono essere definite indipendentemente dal mutamento del tempo24.

24. G. Pomata, Narrazione e spiegazione nella scrittura della storia, in M. Salvati (a cura di), Scienza, narrazione e tempo, Milano 1985, pp. 307-308.

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1. Filosofia della storia narrativista e crisi dell’identità

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In questo senso diventa perfettamente chiaro perché lo spazio della contingenza e dell’imprevedibile sia tanto importante per la narrazione. La narrazione integra le contingenze e al tempo stessa viene modificata progressivamente da esse. Questi aspetti della narrazione della storia sono ciò che la rendono idonea a farsi carico della costruzione dell’identità.

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Capitolo 2.

Storia e Letteratura

«La storia è il racconto dell’infelicità degli uomini.» (R. Queneau)

1. Dalle questioni terminologiche, alla giustificazione della Storia

C

os’è il racconto dei fatti accaduti? Perché esista un racconto è indispensabile la presenza di due elementi costitutivi: una storia (cioè una successione di eventi) e qualcuno che la racconti: un narratore. Spesso quest’ultimo è niente più che una voce, qualcuno nascosto, ma comunque sia non esiste una storia che si racconta da sé. Cominciamo con il concetto di cronaca, vale a dire il tentativo di raccogliere i fatti senza interpretarli profondamente. La cronaca più che come una narrazione va intesa come una registrazione degli eventi, dove il solo collegamento tra essi è un nesso strutturale relativo alla loro successione cronologica. A livello della cronaca vi è solo un’esigenza di ordinare, conservare, classificare gli avvenimenti; non è ancora presente l’aspetto interpretativo. La cronaca è l’ossatura della storia anche se non effettivamente e criticamente pensata e interpretata. Per ciò che concerne la Storia la duplicità semantica che caratterizza la parola “storia”, la quale racchiude in sé tanto le res gestae (le cose avvenute, gli eventi) quanto l’historia rerum gestarum (il loro racconto), è stata sovente interpretata come una felice ambiguità. Sia l’uno che l’altro – vale a dire tanto gli avvenimenti, quanto il loro racconto – costituiscono storia. Noi rifletteremo soprattutto sull’aspetto narrativo della Storia; la storia in questo senso (chiamiamolo per convenzione più debole) è un processo elaborato di indagine critica e di narrazioni, quindi. Ma la storia non può e non deve essere semplicemente narrazione. La ricostruzione dei fatti per essere narrata, come vedremo più avanti, implica un’interpretazione, una spiegazione caratterizzata da una controllabilità empirico-razionale e

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La ‘storia’ senza Storia. Parte I.

da un processo metodologico riconosciuto, e infine la costruzione di un racconto storico sulla base di quei fatti accertati. La storiografia, in un certo senso, è la storia delle storie, la storia delle narrazioni storiche. La storiografia rispetto alla storia privilegia il momento dell’ipotesi interpretativa, ed evidenzia la pluralità delle prospettive presenti, le classifica, le organizza, e a sua volta le giudica interpretandole. La storiografia viene ad essere una sorta di storia di secondo grado. L’interrogarsi sulla storia da parte dello storico comporta anche un altro tipo di impegno oltre quello metodologico della ricerca vera e propria, vale a dire quello di senso: nella storia, intesa come flusso di avvenimenti, si cerca uno svolgimento, uno scopo, e, dunque, un percorso, che dal presente si diparta in maniera bidirezionale verso il passato e verso il futuro. Se l’indagine sul senso della storia così intesa può essere definita filosofia della storia allora anche in questo caso abbiamo a che fare con un’ambiguità. Sotto l’etichetta di filosofia della storia poniamo due fenomeni concettuali distinti: un primo significato forte, che attiene all’idea che la storia abbia un soggetto, un percorso e uno scopo; un secondo significato debole determinato semplicemente dall’esigenza di riflettere sul senso del racconto storico, come si è visto nel capitolo precedente. Chiarito il concetto di storia nella sua duplicità semantica, in rapporto anche alla cronaca e alla storiografia passiamo subito all’altro grande dilemma: la riproducibilità della storia attraverso la forma racconto didattico. Da sempre si è ritenuta legittima la domanda su un oggetto storia e sulla sua insegnabilità; spesso la storia viene vista come un’inutile disciplina. Accanto al problema relativo alla comprensione e ricostruzione degli eventi v’è quello della giustificazione del fare storia. Cioè di rispondere alla domanda: “Perché la storia?”. Tra gli esempi più calzanti che si possono proporre per spiegare l’importanza della Storia come racconto del passato di una società, qui se ne propone uno che verrà ripreso in più parti del testo vista la sua efficacia argomentativa, e la sua semplicità di comprensione. Il parallelo è quello dell’individuo e della collettività, di un’ipotetica società: la Storia per la società è l’equivalente della memoria per un individuo: se un individuo (come in un film di fantascienza) perdesse la memoria, cosa farebbe? Niente, si limiterebbe a sopravvivere, a espletare le funzioni fisiologiche senza sapere chi è: l’identità di un individuo è data

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dalla memoria e dalla sua capacità di raccontarsi. Allo stesso modo una comunità che perdesse la propria storia, il proprio racconto si limiterebbe a sopravvivere, procederebbe alla cieca espletando tutte le funzioni “fisiologiche”, ma non saprebbe assolutamente riconoscersi. «Più precisamente non esiste una comunità in grado di autoidentificarsi se rinuncia alla propria memoria, se non possiede e conserva al suo seno l’attività volta all’esercizio della propria storia»1. Se la storia è per la comunità l’equivalente della memoria per l’individuo, allora non occorre uno sforzo trascendentale per accorgersi che la storia è indispensabile per avere un’identità, anche se non rigida, chiusa una volta per tutte, ma, anzi, proprio perché storica, mobile e soggetta a cambiamenti. Di conseguenza, anche se in modo innovativo, oggi più che mai si dovrebbe riconoscere alla storia un ruolo privilegiato nell’educazione e nell’insegnamento, ruolo che non sempre gli è riconosciuto. Oggi i canali di comunicazione della storia sono altri, sembra essere tornati agli esordi della disciplina scientifica storica. In passato, per lungo tempo, si è pensato che non vi fossero ragioni sufficienti per dare alla storia un ruolo particolare nell’insegnamento. Perciò il manuale di storia si leggeva per diletto personale e nelle scuole dei gesuiti essa poteva essere assunta sotto lo studio della grammatica e della lingua eloquente. Ancora nel Settecento il manuale si presentava soltanto come un’arida tavola cronologica e sincronica che però aveva cercato di assimilare certi caratteri della storiografia antica rimessi in auge dagli umanisti, come ad esempio i ritratti romanzati dei grandi personaggi alla Plutarco. Nel Settecento la conoscenza storica era utile per le “professioni civili” o per entrare nella pubblica amministrazione e più in generale per essere dei “buoni cittadini”, e infatti il primato storiografico del Settecento è indubitabilmente francese con il Voltaire e il Montesquieu. È l’Ottocento l’età della maturità della storia: intesa nei suoi aspetti di ricerca, racconto, storiografia e, come abbiamo visto prima, filosofia della storia. Nel XIX secolo nascono archivi, biblioteche, musei e università in cui il ruolo della storia è centrale. In più in questo secolo si costituisce la categoria sociale degli storici ben presto dotata di una sua capacità di influenzare anche politicamente il potere culturale. 1. Angelo d’Orsi, Alla ricerca della storia, Teoria, metodo e storiografia, op. cit., p. XIII.

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L’Ottocento produsse racconti continui con una forza narrativa di grande qualità, nella storia e nella letteratura, soprattutto quando si trattava di presentare le vicende delle nazioni e dei loro eroi. Era il periodo della nascita e del consolidamento degli stati nazionali. Contrariamente allo spirito cosmopolitico degli illuministi, la storiografia romantica riteneva che solo la storia nazionale fosse degna di essere raccontata, con una particolare attenzione al Medioevo. La storia faceva il proprio ingresso nei programmi scolastici perché si pensava che fosse utile a formare la coscienza nazionale e il patriota pronto a morire per il suo paese. Ma accanto a una storiografia romantica nascevano anche nuove metodologie scientifiche. Su tutte, quella di Leopold Von Ranke della scuola berlinese, che pretese di sconfiggere il soggettivismo dello storico mirando a un resoconto definitivo, scientificamente fondato, anche se poi lo stesso Ranke esaltava le individualità con orientamento nazionalistico. Se l’Ottocento è il secolo della storia, il luogo è certamente la Germania. Nell’Ottocento si susseguiranno Marxismo, Storicismo, Positivismo; ma già verso i primi anni del Novecento prenderà corpo una storiografia culturale che attraverso Les Annales di Lucièn Febvre e Marc Bloch sposterà il discorso storico su una base più sociologica. L’ingresso di nuove tematiche di studio della storia, come la mentalità, o i vari aspetti della vita materiale e quotidiana operanti dalla scuola francese costituiscono forse l’elemento di maggiore novità nella ricerca, ma non ha prodotto scossoni rilevanti nella trama espositiva e nei contenuti programmatici della disciplina. I metodi di racconto della storia sono rimasti sostanzialmente gli stessi, così come i contenuti, consistenti nei fatti e nelle vicende politico-diplomatiche che illustravano l’azione dei re e le imprese belliche. Ma da dove proviene questa specie di rivoluzione? Nei primi decenni del Novecento si consuma una sorta di rivolta contro il positivismo storiografico, uno strappo nel processo di incremento scientifico nei confronti del sapere storico durato tutto il secolo precedente2 in cui le scienze sociali giocano la loro partita in maniera determinante. Il 15 maggio 1929 esce il primo numero della rivista Annales: sotto il segno della multidisciplinarietà la storia comincia a servirsi delle discipline quali l’economia, la geografia, l’antropologia, la sociologia, la critica letteraria e della comu2. Una ricostruzione interessante e allo stesso tempo snella è offerta da A. d’Orsi, Alla ricerca della storia. Teoria, metodo e storiografia, op. cit., pp. 155-193.

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nicazione. Lasciati cadere i miti scientismi del positivismo, come la fede assoluta nel “fatto storico”, la ricerca delle “leggi storiche” del progresso e simili, le Annales conducono una polemica nei confronti dell’attualismo e dell’erudizione sterile, dell’histoire événementielle (la storia degli eventi che si limita a snocciolare i fatti), che è sempre una storia esclusivamente degli affari pubblici, o politico-diplomatica, o militare che è sempre storia di condottieri, grandi uomini e leaders politici. La rivista rifiuta la storia politica delle grandi date, abbracciando invece i fenomeni di lunga durata, prediligendo gli avvenimenti in apparenza marginali che svelano le strutture sottostanti. Uno dei filoni peculiari e principali della “scuola” delle Annales è la storia delle mentalità. Nel suo testo su Lutero del 1928 e nel suo testo su Rabelais e la religione del suo tempo del 1942, Febvre definisce il concetto di “attrezzatura mentale” come il bagaglio concettuale proprio di un epoca, lo strumento attraverso il quale si può analizzare la mentalità di un epoca senza utilizzare categorie successive. Non si può studiare un “età” diversa e lontana dalla nostra senza rifarsi a quel bagaglio mentale che in essa veniva adoperato3. «Occorre cioè puntare sul sistema di pensiero di un epoca, sia che si intenda studiare un letterato, sia che si voglia analizzare l’opera di un fondatore di religione, sia, ancora, che si miri a comprendere l’architettura o le arti figurative di una certa stagione, di un determinato luogo. Per riuscire nell’intento è necessario per lo storico rinunciare a servirsi di categorie concettuali anacronistiche e sovrapporre gli schemi mentali dell’epoca propria ai presumibili schemi mentali dell’età che egli pretende di capire. L’anacronismo è per Febvre il peccato capitale dello storico»4. L’altro grande filone della rivista è senza dubbio la “rivoluzione documentaria” fatta dagli storici della “scuola”, per allargare la nozione di documento: secondo Marc Bloch la gamma delle testimonianze storiche è quasi infinita. Tutto ciò che l’uomo dice o scrive, che costruisce o tocca, può e deve fornire informazioni su di lui. La storia si fa con i documenti scritti, ma secondo Febvre si può e si deve fare anche quando di documenti scritti non ce ne sono. Lo sforzo degli storici deve essere, anzi, quello di far parlare le cose apparentemente mute. Di

3. Cfr. L. Febvre, Martin Lutero, Laterza, Roma-Bari 1982; Il problema dell’incredulità nel secolo XVI. La religione di Rabelais, Einaudi, Torino 1978; inoltre cfr. D. Cantimori, “Lucien Febvre”, in Storia e storici, Einaudi, Torino 1971. 4. A. d’Orsi, Alla ricerca della storia. Teoria, metodo e storiografia, op. cit., p. 169.

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far dire loro cose sugli uomini e le società che le hanno prodotte. Da un lato la polemica delle Annales è sì rivolta alla storia ufficiale, la storia di stato e delle classi dominanti, ma colpisce anche la storia accademica preoccupata solo degli archivi cartacei e poco propensa a dare parola a chi (come le donne, le classi subalterne, gli emarginati) non produce documenti scritti, né vi è menzionato se non di sfuggita5. Gli strappi che la nouvelle histoire ha consumato sulle Annales nei confronti della vecchia storiografia attraverso la “storia delle mentalità” e la “rivoluzione documentaria”, nella terza generazione delle Annales (quella di Duby, Le Goff, Le Roy, Ladurie, Furet e altri)6 vanno verso l’esplorazione dei nuovi modi di fare storia, e la conseguente ricerca di nuovi tipi di fonti, e dunque verso la storia della mentalità, della psicologia collettiva, dell’antropologia simbolica. Oggi il racconto unificatore della Storia è in crisi, e questo lo si vede anche nella narrazione manualistica. Anche se questa, in realtà, non è stata messa in discussione fin quando nella nostra società non è emerso un altro sistema di trasmissione delle conoscenze distinto dai luoghi deputati al sapere come le istituzioni scolastiche (non sempre, quindi, controllabile dagli studiosi), vale a dire i mass media e l’industria culturale. Negli ultimi anni, soprattutto con internet, la storia diventa una sorta di bricolage che mescola temi e situazioni. Questo diverso modo di sentire e intendere la storia (che avremo modo di analizzare nel proseguio del testo) ha avuto delle forti ripercussioni sull’insegnamento della storia e sui canali di comunicazione storica cosiddetti canonici. Un esempio che può far comprendere ciò che si sta dicendo può essere l’analisi della “pagina” intesa nel senso letterale del termine, dei nuovi manuali scolastici (non è questa la sede per addentrarci su un dibattito molto sentito e vivace che da anni si sviluppa nel nostro Paese). Mediante le nuove cognizioni didattiche, l’influenza della storia sociale, la contaminazione con i nuovi canali di comunicazione storica, oggi la vecchia pagina dei manuali che comprendeva il vecchio racconto unificatore della Storia si è frantumata, è esplosa in mille frammenti e percorsi. Vengono inserite nelle pagine

5. M. Mastrogregori, Il genio dello storico. Le considerazioni sulla storia di Marc Bloch e Lucien Febvre e la tradizione metodologica francese, Esi, Napoli 1987. 6. Cfr A. d’Orsi, Alla ricerca della storia. Teoria, metodo e storiografia, op. cit., p. 189.

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del manuale, i prerequisiti e gli obiettivi da raggiungere, le sintesi introduttive e finali, la cronologia comparata, cartine storico-geografiche, le immagini, i dossier sui rapporti tra storia e società, storia e cultura, storia e religione, storia e arte, i personaggi della storia, i luoghi della storia, le fonti documentarie, le parole chiave e le rubriche (con la conseguenza che un manuale di storia contemporaneo ha come minimo tre pagine di legenda), insomma uno sgretolamento del vecchio racconto storico, che continua ad essere presente ma sul quale si aprono costanti finestre e parentesi, come in un ipertesto. I nuovi orizzonti culturali, il dibattito sul manuale, la polemica sulla verità della storia, il problema del revisionismo fanno oggi apparire la storia diversa. Il comune senso storico è cambiato ma si deve prestare attenzione perché senza oggetto definito e autonomo si produce una storia fittizia fatta di eclettismo e, d’altro canto, ogni tentativo di scavalcare una storia narrazione conduce alla perdita dell’oggetto. Al di là di questa formulazione molto generale, definire più nel dettaglio quale sia la funzione della storia non è facile. La domanda, ingenua ma essenziale, «a che serve la storia?», da cui partiva il grande storico Marc Bloch per riflettere sul suo mestiere, è destinata ancora a lungo a ricevere risposte molteplici, parziali e contraddittorie7. La storia non può essere intesa come magistra vitae in senso classico. Non si possono cercare meccanicamente “lezioni” nel passato poiché, come si è detto, la specificità del sapere storico sta proprio nella irriproducibilità e singolarità degli eventi che studia. Tuttavia la storia non è inutile. Innanzi tutto essa serve a trasformarci in esseri storici; attraverso la costruzione di una memoria e l’instillazione in noi del senso di temporalità lineare su cui si basa, la storia può contribuire a orientare il nostro agire sociale, sebbene essenzialmente solo in senso negativo. Non potremo mai trarne un’indicazione di comportamento applicabile esattamente a un altro contesto o evento storico, con il fine di riprodurre in modo sufficientemente approssimato una circostanza del passato. Chi non conosce la storia, in breve, è esposto più di altri al rischio di ripeterla, in particolar modo per quanto concerne i suoi aspetti più dolorosi. Le conoscenze 7. M. Bloch, Apologia della storia o del mestiere di storico, Einaudi, Torino 1950; in questo senso vale come interpretazione del fare storia il bellissimo testo di Edward H. Carr, Sei lezioni sulla storia, Einaudi, Torino 1966.

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storiche non pongono al riparo da questo rischio in modo assoluto, ma consentono – per quanto umanamente possibile – di effettuare scelte maggiormente consapevoli. È in questo contributo alla nostra capacità di scegliere tra varie opzioni per orientare il futuro in direzioni diverse dal passato che la storia svolge il suo compito più significativo. Ed è in questo senso che – per usare un’espressione di Jacques Le Goff – sebbene in modo parziale e relativo, come parziale e relativa è la verità storica di cui noi esseri umani soltanto siamo capaci, la storia può aiutarci a renderci «liberi dal passato»8.

2. La scrittura della storia Il tema “storia e letteratura” è al contempo di grande interesse e di grande difficoltà. È evidente che tale complessità richiederebbe ben altri mezzi di analisi e ben altro spazio di trattazione. Da decenni ormai il rapporto tra storia e letteratura è al centro di un vasto dibattito, che partendo dalla riflessione sulla natura del linguaggio e sul rapporto tra questo e la realtà, investe le categorie fondamentali della narrazione e dell’interpretazione. Un dibattito di grande delicatezza teorica che, però, ha fortemente indebolito, se non del tutto cancellato, i criteri tradizionali di distinzione tra testo storiografico e testo letterario. Si ammette oggi che sotto molti profili esiste una continuità tra storia e letteratura, nella misura in cui entrambe consistono di testi di carattere più o meno marcatamente narrativo, accomunati quindi da tutte le problematiche relative alla testualità. A questa assimilazione tra “Storia” e “Letteratura” sulla base della loro comune natura testuale, ha corrisposto la crisi dell’unità interna di entrambi gli ambiti. Anche perché, come vedremo, quella che un tempo era definita letteratura si articola oggi in una quantità infinita di forme, che dissolvono i criteri di letterarietà tradizionali e quindi, in ultima analisi, il concetto di letteratura stesso. Anche la storia, delegittimata dal suo rapporto con la verità, si presenta oggi più che mai come un coacervo di discipline specialistiche, con linguaggi, metodi e obiettivi difficilmente ricomponibili in un disegno interpretativo organico, in una “Storia” comune degli uomini. 8. J. Le Goff, Storia, in Enciclopedia, 13 voll., Einaudi, Torino 1981, vol. XIII, pp. 566-670.

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La discussione sulla “verità” della storia è antica quasi quanto la storia stessa, e da quando, nel corso dell’Ottocento, la storia ha assunto i connotati di disciplina autonoma, essa si è concentrata sul suo statuto scientifico. L’epoca in cui il mito di una verità storica scientifica ebbe maggiormente credito fu certamente quella Positivista. Tuttavia, anche la storia sociale dell’ultimo dopoguerra, specie nelle sue manifestazioni di storia quantitativa o di storia coniugata alle scienze sociali, si basava su una presunzione di possibile scientificità. In realtà la storia non è una scienza, e non si può distinguerla dalla letteratura facendo appello a una sua ipotetica scientificità. In primo luogo perché il concetto di verità scientifica tradizionale è ormai del tutto superato. Per Richard Rorty9 la scienza stessa è giunta ad essere semplicemente “un genere letterario”. La verità non è qualcosa che “si trova”, bensì qualcosa che “si produce” mediante i meccanismi dell’interpretazione. Ma la storia non è scienza nemmeno nel più modesto e relativo senso attribuito al termine dall’epistemologia di Popper e Kuhn, quello di “ricerca scientifica”, basata sulla falsificabilità dei risultati e sulla successione progressiva di conoscenze e modelli interpretativi10. Manca infatti alla storia il requisito fondamentale della ricerca scientifica: la riproducibilità degli eventi che studia. L’evento storico è individuale e singolo, non ripetibile; ed è su questo scoglio, ovviamente, che si è infranto in passato il “nobile sogno” di conseguire una verità storica oggettiva. Il dibattito sui rapporti tra Storia e scrittura sta diventando dunque vecchio: Retorica e storia, lo studio di Hayden White che affermava il testo storico come artefatto esclusivamente letterario, riservando alla Storia il ruolo di una abitudine o idiosincrasia specifica della lingua, risale al 197311. A partire dalla pubblicazione di quel lavoro i volumi, i saggi e i dibattiti si sono moltiplicati, sia in ambito teorico sia in settori disciplinari specifici. La questione è giunta così a una svolta decisiva, apparentemente definitiva, che ha portato a considerare il ruolo della scrittura storica e della scrittura narrativa entrambi come progetti cognitivi frutto di imma-

9. Cfr. R. Rorty, La filosofia dopo la filosofia. Contingenza, Ironia e Solidarietà, Laterza, Roma-Bari 1989, e La filosofia e lo specchio della natura, Bompiani, Milano 1986. 10. T. S. Kuhn, La Struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1979. 11. H. White, Retorica e storia, op. cit.

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ginazione. Se è vero quindi che il testo storico e quello letterario non si danno come intrinsecamente differenti, e che entrambi i campi appaiono oggi disgregati e di difficile definizione, nondimeno operare una distinzione “storia” e “letteratura” è possibile, e indispensabile come vedremo innanzi tutto sul piano narrativo e in secondo luogo è importante distinguere i due ambiti sul piano etico. Non potrà certo trattarsi di una netta distinzione concettuale: in quanto testi, sotto il profilo dell’analisi teorica, storia e letteratura costituiscono i due poli di uno spettro continuo di modulazione del rapporto tra linguaggio e realtà. Tuttavia, non è possibile concludere che “Storia” e “Letteratura” collassino l’una nell’altra, ovvero che le loro rispettive identità si sovrappongano e annullino attraverso simultanee esplosioni in frammenti senza senso12. Problematiche narrative e problematiche etiche In ogni caso, da qualunque prospettiva si rifletta, diventa importantissimo per il racconto storico, sia il momento dell’erudizione o, in senso lato, filologico, di accumulo, di verifica e di interpretazione dei dati, sia quello della loro narrazione, la stesura finale di un racconto sulla base delle tecniche narrativistiche. La Storia come narrazione costituisce il risultato finale di una complessa e collettiva opera di ricostruzione del passato effettuata da ricercatori. Essa si sostanzia in un racconto che non deve offrire un tutto già chiaro e portato a evidenza, quanto piuttosto porre problemi, fare riferimento alla fonte da cui è tratto, distinguere tra causalità diretta e indiretta e riflettere sui rapporti tra monocausalità e pluricausalità nella spiegazione dei complessi fenomeni attinenti alle vicende umane. Di conseguenza una corretta narrazione storica deve porsi il problema tanto della conoscenza storica, quanto di una sua corretta esposizione critica. L’aspetto gnoseologico, definito come metodologia della ricerca storica, fa riferimento agli strumenti operativi di cui uno studioso di storia può far uso13. Solitamente si indica la metodologia attraverso i suoi tre elementi costitutivi: la ricerca sistematica del materiale storico, l’indivi12. Una aggiornata visione d’insieme delle prospettive critiche da cui scaturisce la nuova concezione del testo storico si trova in Donatella Izzo (a cura di), Teoria della letteratura. Prospettive dagli Stati Uniti, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1996. 13. Per la concezione tradizionale della critica delle fonti esemplare è F. Chabod, Lezioni di metodo storico, Einaudi, Torino 1969.

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duazione cioè di quelle che vengono definite fonti storiche; la critica di tali fonti storiche14; la sintesi storica, l’esposizione della ricerca mediante un racconto. Quest’ultimo aspetto è ciò che ci interessa in questo ambito di ricerca. È proprio l’elemento della narrazione ad essere la struttura comune a ogni discorso che descrive e illustra un evento o una situazione. Ma se è vero che l’elemento narrativo caratterizza un insieme di produzioni simili o anche diverse tra loro, come miti, fiabe, o romanzi, biografie, autobiografie e cronache, è altrettanto vero che quella forma di narrazione che indichiamo come storia, si contraddistingue per determinati aspetti del suo raccontare. Le caratteristiche del racconto storico vengono sintetizzate molto chiaramente da Topolski: «I suoi tratti necessari e nel contempo sufficienti sono: la base empirica dei fatti, la descrizione condotta “dall’esterno” (lo storico è un narratore), e il fattore temporale che è inseparabilmente legato al fattore spaziale. Tutto il racconto storico è calato nel tempo. La sua base empirica è collocata sulla freccia del tempo e l’analisi concernente il passato condotta “dall’esterno” presuppone una relazione temporale sui fatti analizzati e il narratore»15. Inoltre a corollario di questi tre aspetti riposa il fatto che i lettori della narrazione storica hanno il diritto di pretendere dagli autori l’onestà nella ricerca e nella consultazione delle fonti e l’esplicitazione dei criteri di valori che guidano la ricostruzione storica. Quella che potremmo definire, con Bergamini, la questione etica16.

14. A rigore, per la tradizione positivistica, le fonti storiche si dividono in fonti primarie e fonti secondarie, le prime sono le fonti in senso proprio, vale a dire documenti, reperti, oggetti, del periodo che si sta studiando; le fonti secondarie sono studi, interpretazioni, ricerche, effettuate sul periodo oggetto d’indagine realizzate in epoca successiva. Ma vi sono molte classificazioni del delle fonti e dei documenti, tra le più interessanti Topolski propone la distinzione tra fonti dirette (quelle che parlano direttamente ma inintenzionalmente del passato) e fonti indirette (quelle che ne lasciano una deliberata testimonianza come le cronache e simili, che pongono oltre a quello dell’autenticità, anche il problema della credibilità dell’informatore); cfr. J. Topolski Metodologia della ricerca storica, il Mulino, Bologna 1975, pp. 454-455. 15. J. Topolski, Narrare la storia, op. cit., p. 22. 16. O. Bergamini, Fisicità, temporalità, dimensione pubblica: alcuni spunti per un confronto tra storia e letteratura, in “Iperstoria”, http://fermi.univr.it/iperstoria/rubriche/ intersezioni/letterature/letterature9.htm

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La ‘storia’ senza Storia. Parte I.

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Cerchiamo di analizzare questi tre punti più il quarto posto a corollario. La base empirica dei fatti La caratteristica ovvia, ma anche qualificante e fondante, che è bene ricordare nella sua immediatezza e semplicità è che, a differenza della letteratura, la storia si riferisce in linea di principio a qualcosa che è fisicamente accaduto: la storia nasce come racconto e tale racconto riguarda le “cose vere”. Altrettanto ovviamente si deve dire che il racconto di cose vere fatto dallo storico è quasi sempre “di seconda mano”, nel senso che risulta molto raramente che uno storico racconti di eventi che ha visto realmente (a meno che non si tratti di storia contemporanea come il Novecento, ed è raro anche qui; se uno storico parla di cose del Medioevo o del Rinascimento risulta difficile che le abbia vissute in prima persona). Quindi il rapporto con il mondo fisico è mediato dalle “fonti”; la storia si caratterizza per il rapporto con il “reale” attraverso le fonti. E qui andiamo incontro al primo grande problema che riguarda la raccolta, selezione, verifica e interpretazione delle fonti storiche. Un problema dalle infinite sfaccettature che abbraccia, a seconda dei casi e dei generi di storia, gli aspetti quantitativi e gli aspetti qualitativi delle fonti storiche. Talvolta le fonti sono insufficienti, talaltra sono eccessive, superiori a qualsiasi capacità di raccolta e classificazione (come nella storia contemporanea soprattutto con l’avvento del documento filmato). Accanto a una questione quantitativa ce n’è una di carattere qualitativo che riguarda l’interpretazione delle fonti. Anche nei documenti storici – o almeno in alcune categorie di documenti storici, di carattere descrittivo e narrativo – si riscontrano gli effetti deformanti delle ideologie, le ambiguità del linguaggio, i meccanismi complessi della psiche; questi aspetti interagiscono tra loro nel generare aporie così profonde da rendere, spesso, impossibili interpretazioni univoche e certe dei testi. Dunque la storia utilizza le fonti. Se questa semplice considerazione costituisce il nocciolo ultimo di ogni distinzione tra storia e letteratura, bisogna ammettere tuttavia che essa lascia aperti molti problemi. Infatti, si potrebbe obiettare che anche l’autore del romanzo può consultare le fonti dell’epoca e raccontare una storia vera. Ma il suo rapporto con le fonti non sarà regolato da alcuna norma vincolante. Egli potrà liberamente deformare la realtà, e nessuno gliene potrà chiedere conto.

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2. Storia e Letteratura

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Lo storico non può organizzare il suo racconto come il romanziere anche e soprattutto per carenza di fonti che non sempre gli consentono di ricostruire con esattezza le parti del suo racconto come i dialoghi presenti nei romanzi, per non parlare dei processi psicologici dei protagonisti della storia. Per narrare come il romanziere, lo storico dovrebbe poter parlare degli eventi che ricostruisce e interpreta come se stesse parlando dei fatti sui quali può agire col naturale processo dell’immaginazione individuale. Ciononostante il racconto storico può, e in alcuni casi deve, servirsi degli strumenti tipici dell’arte retorica come la metafora, l’analogia, la metonimia e altre, in quanto aiutano la pratica storiografica a costruire un racconto che oltre ad essere veritiero è anche interessante. Dunque vi sono senza dubbio delle caratteristiche del racconto storico che partecipano di altri generi di narrazioni. La sua base empirica è collocata sulla freccia del tempo Il secondo aspetto che contraddistingue il resoconto storico è legato al tempo. Dopo Nietzsche, Heidegger, Bergson, Einstein, ma anche dopo Braudel e la scuola delle Annales, lo storico sa ovviamente che si può pensare il tempo in vari modi, che ne esistono diverse forme, concezioni e percezioni. Dal tempo ciclico degli antichi al tempo dell’interiorità soggettiva analizzato con tanta finezza da Proust, egli sa che si può scrivere di storia in chiave sincronica piuttosto che diacronica, descrivendo un certo contesto spazio-temporale come un sistema in sé conchiuso. Inoltre l’ancoraggio alla freccia del tempo non è un carattere distintivo unicamente del racconto storico, poiché anche un romanzo può organizzarsi intorno all’asse temporale. Tuttavia, mentre lo scrittore può liberamente combinare la successione degli eventi, e mediante un’opportuna costruzione dell’intreccio può intenzionalmente annullarla, privarla di senso, immettendo gli eventi stessi in una circolarità senza principio e senza fine, lo storico, pur a sua volta costretto a selezionare fatti e a creare intrecci, assume sempre una linearità di fondo del tempo. La natura profonda dell’analisi storica va cercata nella fondamentale e unica condizione della temporalità intesa in senso lato, come successione lineare che non può essere invertita17. Due aspetti legati alla riflessione sul tempo della narrazione storica sono quello della causalità e quello del tempo dello scrittore. 17. Cfr. E. Jacques, La forma del tempo, Einaudi, Torino 1988.

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La ‘storia’ senza Storia. Parte I.

L’assunzione di una temporalità lineare si correla strettamente a quella del principio di causalità (si può stabilire un nesso tra l’avvento del regime nazista e l’Olocausto solo se si stabilisce che il primo ha preceduto cronologicamente il secondo). Il dibattito sulla causalità è uno dei filoni fondamentali della filosofia occidentale, ed è impossibile qui anche solo farvi cenno; ciò che conta, tuttavia, è che per lo storico esiste, in generale, una relazione di causalità tra le cose al di là di come essa si esplichi specificamente. Nel momento in cui si giungesse a ritenere che gli eventi avvengono in maniera del tutto casuale, l’indagine storica non avrebbe più alcun senso. L’analisi dell’elemento del tempo nel racconto storico coinvolge due generi di tempo che spesso nella riflessione storica vengono associati.: il tempo della narrazione storica, determinata e delimitata in un periodo particolare; il tempo come l’orizzonte soggettivo dello storico, narratore di vicende e interprete di eventi. Nel racconto storico pare ineliminabile la doppia valenza del tempo sospeso tra una datazione scientifica degli eventi, e la loro presa di coscienza. Se il tempo della storia è un ordine strutturale che regola gli eventi nella loro successione, il tempo dello storico si risolve nel punto di vista prospettico e si caratterizza nel vissuto soggettivo che lega il narratore alla narrazione. Secondo Ricoeur «il racconto è significativo nella misura in cui disegna i tratti dell’esperienza temporale»18. Il racconto concernente la storia è condotto “dall’esterno” Il terzo qualificante fattore di caratterizzazione della storia rispetto alla letteratura e che allontana la narrazione storica da quella romanzata, è il fatto che nella prima lo scrittore racconta sempre “dall’esterno”: vale a dire che lo storico solo raramente manifesta la sua presenza, in quanto descrive gli eventi come un osservatore estraneo (anche se coinvolto emotivamente) ai fatti narrati. Anche nel racconto romanzato capita spesso che il narratore si nasconda e lasci parlare direttamente i protagonisti delle azioni descritte, ma in questo caso egli descrive non il processo delle azioni umane già maturate, ma il processo della loro maturazione dall’interno, si tratta cioè del livello soggettivo del processo storico. Anche in 18. P. Ricoeur, Tempo e racconto, op. cit., vol. I, p. 15.

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2. Storia e Letteratura

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questo caso però l’elemento che caratterizza il narrare storico, porta con sé una serie di problemi corollari, in primo luogo quello della interazione tra soggettività dello storico e oggettività della storia narrata, che sarà analizzata più avanti. Non è un caso che Genette abbia dimostrato che la scrittura storica si distingue da quella letteraria proprio perché in essa la conoscenza degli eventi risulta dagli indicatori narratologici palesemente incompleta, e l’autore non si presenta come onnisciente19. Per concludere dobbiamo ricordare che queste semplici considerazioni non esauriscono affatto la problematica dell’indagine storica e che nessuno dei punti sopraccitati definisce in assoluto la scrittura della storia. Tuttavia, per quanto apparentemente elementari, aderenza alle fonti, linearità temporale e principio di causalità, narrazione dall’esterno sono i presupposti da cui non si può prescindere per dare alla pratica storica un fondamento e inoltre ciò che è importante non sono i singoli aspetti presi uno per uno, ma la connessione di questi gli uni con gli altri; per dirla con Eco, il mondo narrativo storico, a differenza del mondo narrativo letterario, deve essere non solo “possibile” ma anche “credibile”, “verosimile” e “concepibile”. Secondo Umberto Eco, infatti, i «mondi narrativi letterari possono essere anche inverosimili, cioè scarsamente credibili dal punto di vista della nostra esperienza attuale», e anche possibili impossibili, in quanto «violano le nostre abitudini logiche ed epistemologiche»20. Dunque, stando così le cose, il problema andrà ripensato in un’ottica diversa, inglobando altre preoccupazioni estranee alla coppia Storia-scrittura, non ultima quella etica. Se ponendo dei criteri per ciò che riguarda la scrittura della storia, questa non si caratterizza come intrinsecamente diversa da una forma altra di scrittura, allora si deve parlare della storia e della verità che pretende di raccontare solo come definita da una verità pubblica. «La verità storica non può che essere una verità pubblica. Se si esclude l’esistenza di una verità storica oggettiva, l’unico criterio di definizione della verità storica diventa appunto quello dell’esame critico e del riconoscimento pubblico. In linea di principio, il contenuto di un’opera storica può e deve essere considerato “vero” quando l’intera comunità degli storici, o in generale dei lettori che adottano pratiche della disciplina storica, lo riconosce come tale. È la comunità professionale a sancire la 19. G. Genette, Finzione e dizione, Pratiche Editrice, Parma 1994, pp. 55-76. 20. U. Eco, I limiti dell’interpretazione, Bompiani, Milano 1990, pp. 205-206.

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La ‘storia’ senza Storia. Parte I.

verità storica, mediante un esame-dibattito pubblico»21. A questo punto sono essenziali i metodi riconosciuti e codificati della disciplina, come la critica delle fonti, e in relazione al sapere pregresso e in relazione a quanto su determinate ricostruzioni è stato effettuato fino a quel momento. Ma la storia ha una forte dimensione pubblica anche nel senso che la sua funzione ha carattere eminentemente pubblico. Sotto questo profilo la storia è più che meramente pubblica: è essenzialmente politica, in quanto serve in ultima analisi a orientare il comportamento dell’individuo nella collettività e rispetto alla collettività. Senza dubbio, anche la letteratura può avere una funzione pubblica e politica, più o meno conclamata e deliberata, ma mentre nel testo letterario tale funzione è sempre associata a una componente estetica, in quello storico essa è del tutto primaria, se non sostanzialmente esclusiva. In termini generali non si tratta tanto di affermare la supremazia dell’etica sull’estetica o, viceversa, ma piuttosto della necessità di assorbire dalla Storia un archetipo del rigore morale, un rigore particolarmente utile proprio a una concezione della scrittura storica come fonte di conoscenza e di apprendimento, così da tenere in vita la sentenza di Borges secondo il quale «forse non siamo leali, ma non perdiamo la speranza di esserlo»22.

3. La struttura del racconto storico Come si è visto la scrittura della storia ha determinate caratteristiche, ma sapere quali rispettare non ci dice ancora come prende corpo nella sua totalità il racconto storico. Seguendo ancora una volta le orme dello storico polacco Topolski si può affermare che nel racconto storico si può distinguere una triplice componente, il livello informativo (logico grammaticale); il livello persuasivo (retorico); il livello teorico e ideologico (profondo); ma avverte che questi non possono essere paragonati a una stratificazione geologica dalle superfici sovrapposte, in quanto se i primi due hanno a che fare con la struttura e il contenuto del racconto (attraverso il primo si trasmettono delle conoscenze, il secondo cerca di 21. O. Bergamini, Fisicità, temporalità, dimensione pubblica: alcuni spunti per un confronto tra storia e letteratura, in “Iperstoria”, op. cit. 22. Jorge Luis Borges, Storia universale dell’infamia, Mondadori, Milano 1984, p. 486.

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2. Storia e Letteratura

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persuadere della verità dell’esattezza del messaggio), il livello profondo o determinante riguarda il processo di realizzazione del racconto storico, e ha a che fare con elementi anche astratti come l’energia intellettuale ed emozionale che ne alimenta il processo di realizzazione, elementi, dunque, che possono essere coscienti o meno coscienti nel narratore storico, i quali poi si trovano esplicitati nei livelli informativo o retorico. Per quanto consapevoli che lo storico appartiene a un mondo di cui costruisce un’immagine, non vorremo spezzare i legami del racconto con la realtà. Ma non possiamo chiedere al racconto quale sia il suo rapporto con la realtà passata, dunque se sia vero o sia falso (sia pure al di fuori della concezione classica della verità). «Per noi, dunque, la realtà è una categoria oggettiva e soggettiva insieme […] in connessione con il concetto di interpretazione della verità, viene qui introdotta la nozione metaforica di “contatto” del racconto storico con la realtà passata. Non possiamo (neanche tramite le notizie provenienti dalle fonti) “osservare” il passato; possiamo soltanto avere la sensazione di un contatto con il passato. Il mondo narrativo del racconto storico (più “piccolo” o più “grande”) è sempre una totalità costruita, dunque non realmente esistente»23. Ciò non deve ingenerare sfiducia nelle possibilità di una conoscenza sicura del nostro passato, ma far comprendere che l’atteggiamento corretto di uno storico è quello critico, pronto a rimettere in discussione le proprie convinzioni nel momento in cui emergono dati nuovi e inconfutabili, tenendo il più possibile a distanza le tentazioni di fare storia partendo da pregiudizi ideologici e da posizioni preconcette. L’analisi del racconto storico, con le sue caratteristiche e con i suoi espedienti, permette di superare il periodo di crisi e di negatività che ha subito la storia e la filosofia della storia, e inoltre individua un nuovo spazio di confine tra discipline in cui si può ancora riflettere sulla storia. La comunicazione attraverso la narrazione è proprio uno di questi spazi, in cui è permesso al filosofo il recupero della domanda sul senso inteso con un sostanziale mutamento, forse meno ambizioso rispetto alla tradizione occidentale, ma comunque sempre capace di interpretare criticamente la tradizione da consegnare alla posterità.

23. J. Topolski Narrare la storia, op. cit., pp. 13-16.

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La ‘storia’ senza Storia. Parte I.

Infine Topolski individua nella struttura del racconto storico, i meccanismi della sua “produzione” attraverso il processo dell’“invenzione” e dell’“argomentazione”. Il primo termine nella riflessione sul racconto storico assume il significato di reperire argomentazioni grazie alle quali l’argomentazione possa poi risultare convincente, vale a dire la capacità di creare delle totalità narrative, oltre all’accertamento dei fatti del passato dei quali le fonti non parlano direttamente. Per ciò che riguarda l’argomentazione, pratica legata tanto alla logica quanto alla retorica persuasiva in senso classico, «è la creazione nel contempo di un mondo ipotetico del passato e della convinzione che questa immagine sia vera, altamente probabile, o almeno accettabile dalla comunità degli storici»24. Il giudizio su taluni periodi della nostra storia, soprattutto sui più recenti – dove ancora vivo è il dibattito e la passione “politica” – è spesso diametralmente opposto. Resta da chiarire se questa riconciliazione non coincida di fatto col riconoscere, come più volte sottolinea White, che la questione del raccontare la Storia è inevitabilmente legata alla funzione dell’immaginazione nella produzione della verità. Estratta dal suo contesto di appartenenza, questa posizione trova particolare seguito presso gli scrittori, che la leggono come un prologo alla loro versione della verità, secondo la quale la Storia è un ramo del romanzo: «Non è forse la storia un ramo del romanzo, una finzione di ombre nata dalle rovine e dai libri, un fruscio di scritture e di voci del passato, di dubbi indizi, di menzogne che i secoli hanno reso verità e di verità inaccessibili quanto le statue nascoste molti metri sotto terra? […] Senza rendersene conto, anche lo storico costruisce un’invenzione»25. Parlare di un’etica del livello comunicativo della narrazione storica attraverso l’analisi del suo racconto vuol dire scoprire le forze inconsce che influenzano la stessa attività degli storici e ciò che materialmente produce e dirige il racconto, i concetti di “invenzione” e “argomentazione”. Tutta l’argomentazione storica dipende dal carattere del rapporto che sussiste fra i fatti che interessano lo storico e le fonti. Un ruolo importante lo gioca, come visto, l’interpretazione che dà significato al dato storico, mettendolo in relazione con altri elementi e rivelandone il reale valore co24. Ivi, p. 145. 25. A. M. Molina, La città dei califfi, Feltrinelli, Milano 1996, p. 14.

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2. Storia e Letteratura

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noscitivo. Il racconto si situa nella ricostruzione di questo spazio, e l’analisi offerta si propone di chiarire questo meccanismo, che ha in primo luogo il valore di memoria collettiva, memoria che assicura lo sviluppo della cultura e della società.

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Capitolo 3. Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 17/09/2018

La Storia nel romanzo

«La poesia è qualcosa di più filosofico e di più elevato della storia: la poesia tende piuttosto a rappresentare l’universale, la storia il particolare.» (Aristotele)

1. Il concetto di romanzo

I

l romanzo è un testo narrativo di una certa estensione. Tutti pensano che il romanzo si distingua dal racconto per una cosa piuttosto ovvia: una mera questione quantitativa. Il romanzo richiede tempi più lunghi di lettura. Questa considerazione è scontata. Eppure dietro la semplice estensione inerente alla modalità di fruizione, vi è una prima fondamentale distinzione tra i due testi. Nel racconto solitamente è molto forte l’idea di unità: la costruzione ruota intorno a un numero circoscritto di avvenimenti che puntano direttamente verso lo scioglimento finale. Nel romanzo, al contrario, prevale l’idea della molteplicità: anche quando la trama appare piuttosto omogenea essa è percorsa da una serie di “fili” che si intrecciano gli uni con gli altri concedendo spazio a episodi e circostanze collaterali che impongono alla narrazione un ritmo completamente diverso rispetto al racconto. Se nel romanzo è possibile divagare, lasciare un po’ la strada principale e imboccare sentieri e vie laterali, nel racconto questo non è possibile. La distinzione tra romanzo e racconto, quindi, non è soltanto quantitativa, ma è soprattutto strutturale. Ed è proprio per questo che, a parità di pagine, un testo può apparirci come un racconto lungo o come un romanzo breve, a seconda dell’impostazione che gli è stata assegnata. Questa impostazione inoltre determina anche l’atteggiamento del lettore: inesorabilmente spinto in avanti verso la conclusione nel caso del racconto, legato da un rapporto affettivo con il libro in quanto oggetto nei confronti di un romanzo che amiamo, applicando un aspetto ludico alla lettura rinviando la conclusione. Leggere un romanzo è come entrare in un altro mondo da cui uscirne è difficile.

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La ‘storia’ senza Storia. Parte I.

Il romanzo è la forma caratteristica della letteratura moderna. Ma è nel Medioevo cui risale la nascita stessa del termine “romanzo”, dal francese medioevale romanz, a sua volta dall’espressione latina romanice, per indicare ogni forma di espressione in volgare. A partire dal XII secolo molta diffusione ebbero opere narrative in prosa, ma più spesso in versi, di argomento cortese o cavalleresco, ispirate a materiale dell’antichità (Roman d’Alexandre; Roman de Troie; Roman d’Enéas; Roman de Thébes) o della tradizione bretone su tutti i cicli della saga di Artù con Tristano e Lancillotto. Se vogliamo, la tradizione del romanzo cavalleresco culmina e si esaurisce con il Don Chisciotte (1615) di Cervantes. È innegabile che i due nomi più importanti per il romanzo moderno siano proprio Cervantes e Rabelais. Quest’ultimo soprattutto, con il suo romanzo Gargantua e Pantagruel, pubblicato nel 1534, realizza un’enciclopedia antelitteram degli argomenti, delle curiosità e delle conoscenze molteplici raffinate dal mondo umanistico-rinascimentale: «una saga grottesco-pedagogica senza precedenti letterari nel suo originale e strambo miscuglio di racconti comico-fantastici e di realismo clinico-descrittivo. Grandioso e verosimile bestiario umano di situazioni ridicole e spunti serissimi, divertissement educativo, incredibile sintesi di “cultura bassa” e “cultura alta” si direbbe oggi»1. Nel Settecento con l’illuminismo prende corpo il romanzo di Idee che si serve del mondo fantastico per esprimere concetti: I viaggi di Gulliver (1726) di Swift; Lettere persiane (1721) di Montesquieu; Il candido (1759) di Voltaire; La nuova Eloisa (1761) di Rousseau; successivamente si sviluppa la tematica amorosa nella forma epistolare (che consiste in un romanzo composto unicamente da lettere scritte dal protagonista o dai protagonisti, questa scelta narrativa permette al lettore di penetrare nel mondo soggettivo del personaggio ed è per questo che è usato molto nei romanzi d’amore, anche se un classico eccellente di romanzo horror come Drakula di Bram Stoker è scritto in forma epistolare). Ma è tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento che si sviluppa la grande narrativa del romanzo che tende alla rappresentazione totale della realtà. Con l’esplosione del romanticismo si sviluppano varie forme narrative all’interno del romanzo: il romanzo di avventura, il romanzo dell’enigma, ma soprattutto tre sono i generi per eccellenza del 1. G. Saccoccio, Rabelais e la nascita del romanzo moderno, in A. Fioravanti, G. Saccoccio, R. Boccali (a cura di), La narrazione come traccia, Edup, Roma 2002, pp. 91-95.

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3. La Storia nel romanzo

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romanticismo: il romanzo di formazione, il romanzo sociale, il romanzo storico. Queste divisioni non vanno però prese come griglie ferme e stabili, piuttosto sono definizioni indicative; in realtà i generi romanzeschi sono contaminati, si innestano l’uno sull’altro, fecondandosi a vicenda, sulla base di temantiche tipiche del romanticismo: l’amore, la natura, la crescita ideale, lo spirito, il titanismo, i fatti storici, gli ideali, la patria. Il romanzo di formazione, spesso raccontato in forma epistolare, ha per protagonista un “eroe romantico”, un giovane sensibile che ama l’arte, la natura, la patria e che si sacrifica per un amore non corrisposto da una donna angelo idealizzata: modello per eccellenza I dolori del giovane Werther (1774), libro accolto da uno straordinario successo di pubblico e che racconta la storia di un amore impossibile che si conclude con il suicidio del protagonista. L’eroe romantico si ribella alle convenzioni sociali in nome dell’autenticità dei sentimenti, ma è anche una persona incapace di crescere, di fare i conti con la realtà e che riduce tutto alle proprie passioni. Anche Le ultime lettere di Jacopo Ortis (1802) di Ugo Foscolo è un romanzo epistolare, e nasce sull’onda del successo del Werther di cui imita diversi spunti tematici come un amore impossibile che si conclude con il suicidio del protagonista. Ma nell’Ortis vi è anche il tema della patria e dell’esilio politico. Qui il pessimismo politico si aggiunge alla disperazione amorosa, tematica questa sfruttata poi anche da altri testi. Pensiamo al Rosso e nero (1830) di Stendhal (pseudonimo di Henry Beyle) che parla di Julien Sorel un giovane provinciale di famiglia povera ammiratore di Napoleone, estraneo al clima della restaurazione imposto in Francia, che diventa un arrampicatore sociale fin quando non si innamora di una donna che di quel mondo fa parte: lei lo rovina e lui le spara. Arrestato e condannato a morte il giovane rivaluta in carcere la purezza disinteressata del proprio sentimento per l’antica amante. Ma poi per uno c’è l’esecuzione per l’altra la morte di crepacuore. E romanzo di formazione oltre che romanzo sociale è il romanzo Madame Bovary (1857) di Gustave Flaubert, in cui vi è descritta l’infelicità di una piccola borghese moglie di un uomo insignificante. Una donna sensibile e ambiziosa al tempo stesso che soffre la mediocrità della vita di provincia. E poi via via Honoré de Balzac, Charles Dikens, Emile Zola. E con questi nomi siamo già in pieno clima romanzo sociale, ma è sul romanzo storico che dobbiamo concentrare l’attenzione.

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La ‘storia’ senza Storia. Parte I.

Questo può essere collegato al romanzo sociale in quanto «racconto storico come espressione di formazione»2. La Bildung è la parabola del soggetto moderno che percorre il mondo nel viaggio solo per riaffermarsi al termine del processo, nel ritorno dal viaggio; anzi quanto più il processo è lungo e difficile, tanto più viene riattestato vigorosamente il suo senso, complicato ma espanso e conclusivo, necessariamente nutrito delle esperienze fatte: l’identità è tale in quanto sa oggettivarsi ed esteriorizzarsi, in genere richiamandosi, come si accennava a una legge di tipo dialettico3. La nuova tradizione del romanzo diviene dunque, nell’epoca problematica e aperta della modernità, la forma dell’integrazione del sé: ma tale tradizione è già una spia di chi ricerca una difficoltà, di chi ricerca la propria identità e il proprio luogo nel mondo. Questa difficoltà dell’identità è da mettere in relazione storicamente con l’accresciuta importanza e problematicità della gioventù, e con la tensione romantica tra tendenza all’autonomia ed esigenza della socializzazione, tensione che porta all’accentuazione dei caratteri, della peripezia e della ricerca quali elementi della formazione più o meno avvertibilmente insidiata da una costitutiva precarietà. La Bildung è tuttavia tale solo se la gioventù sfocia nella maturità: allora la narrazione del romanzo può e deve arrestarsi4.

2. La struttura e la narrazione del romanzo storico Un romanzo storico, secondo una classificazione un po’ obsoleta dei generi5, è un romanzo composto da parti storiche e parti inventate. L’autore sceglie un’epoca del passato e vi ambienta la propria vicenda, i cui protagonisti possono essere personaggi storici o personaggi di fantasia. Con più o meno ricchezza di particolari o precisione documentaria, rievoca epoche, personaggi e ambienti del passato mescolando liberamente fantasia e realtà, vicende accadute con altre di pura invenzione, storie 2. Cfr. G. P Cavaglia, L’identità perduta: romanzo e idillio, Guida, Napoli 1984, p. 64 e ss. 3. La crisi più forte nella letteratura dell’Ottocento si realizza quando all’esperienza, all’apprendistato, alla crescita, viene sostituito il multiforme, la molteplicità. Cfr. F. Moretti, Il romanzo di formazione, Einaudi, Torino 1999. 4. N. Frye, La scrittura secolare, il Mulino, Bologna 1978. 5. Cfr. Lattarulo L. (a cura di), Il romanzo storico, Editori Riuniti, Roma 1978.

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3. La Storia nel romanzo

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private di un singolo personaggio con storie collettive di popoli. Ma, cosa imprescindibile, un romanzo si può definire storico solo se i personaggi sono coinvolti nelle vicende6. Ma già qui dobbiamo fare un distinguo, come nel caso della storia dobbiamo precisare alcuni aspetti terminologici. Come si è distinta la storia dalla cronaca, così si deve distinguere il romanzo storico dal romanzo verista, realista o neorealista. Spesso questi romanzi sono narrati da chi ha visto o, più ancora, vissuto di persona determinati avvenimenti e ci offre la sua testimonianza dei fatti. In questo caso conta soprattutto la ricerca dell’obiettività, e il primo valore dell’opera è un valore etico. Questi testi sono opere in cui la forma letteraria che essi assumono è tale da fare dell’opera qualcosa di diverso da una pura e semplice testimonianza. La cronaca viene infatti filtrata attraverso consapevoli strategie linguistiche e narrative, e il materiale organizzato in una struttura romanzesca unitaria e compiuta. Qui la storia è quella presente, o del passato più recente; nel romanzo storico le vicende sono ambientate in epoche remote. Ma la diversità principale, tuttavia, non è quella fra i romanzi ambientati al tempo dell’autore o di cui lo stesso è testimone o quelli ambientati in epoche precedenti. La differenza riguarda il giudizio, che è implicito nei primi, ed esplicito nei secondi. L’autore guarda a un’epoca passata per trarne un giudizio confortato da ciò che racconta. Il romanzo storico soprattutto nell’Ottocento, ha generalmente un intento formativo. Nella scelta delle vicende narrate l’autore si rivolge a un’epoca che abbia qualche affinità con quella in cui egli vive e che quindi serva a illustrare un pensiero o una teoria. Nel romanzo storico, inoltre, i protagonisti non sono reali, sono esemplari: rappresentano una certa condizione di vita, sono solitamente uomini comuni di non elevato rilievo storico ma caratteristici e strumentali alla teoria della storia dell’autore. L’uso dei personaggi è lo strumento principale nelle mani dell’autore per comunicare il proprio messaggio, la propria opinione. Personaggi storici veri e, come sempre succede nei romanzi storici, personaggi di invenzione, cioè personaggi che hanno il colore del tempo. Persone che attraverso le loro vicende umane offrono un’interpretazione della storia e dei suoi fatti. È molto, interessante riguardo al duplice piano della storia che si ricuce a un unico senso nel ro6. Cfr G. Lukács, Il romanzo storico, Einaudi, Torino 1962.

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manzo storico, l’importantissimo cenno fatto da Bachtin nel testo Estetica e romanzo: «Nel mondo moderno il tempo degli eventi quotidiani, familiari, si è individualizzato, e separato dal tempo della vita storica collettiva della totalità sociale e sono comparsi indici diversi per la misurazione degli eventi della vita privata e degli eventi della storia (essi si ritrovano su piani diversi). Anche se astrattamente, il tempo è rimasto unitario, invece nel senso dell’intreccio esso si è sdoppiato. Gli intrecci della vita non possono essere estesi e trasferiti alla vita del tutto sociale (Stato, Nazione); gli intrecci, gli eventi storici, sono diventati qualcosa di specificatamente distinto dagli intrecci della vita privata (amore, matrimonio); essi si incrociavano soltanto in alcuni punti specifici […] da questi punti divergendo tuttavia in direzione diverse (il doppio intreccio del romanzo storico: gli eventi storici e la vita del personaggio storico come uomo privato)»7.

3. La storia nel romanzo storico e nelle forme di romanzo successive I primi esempi di romanzo storico, e cioè di un romanzo, come lo definì il Manzoni, misto di storia e di invenzione, furono inglesi. Il genere si affermò alla fine del Settecento attraverso le opere romanzesche dello scozzese Walter Scott di cui l’opera più famosa in Italia fu il romanzo Ivanohe. Il mondo a cui si rivolgeva la sua immaginazione di rievocatore non era necessariamente quello dell’età di mezzo, come potrebbe apparire ovvio a chi rifletta sul grande fascino esercitato dal Medioevo sui romantici, ma anzi, soprattutto, la storia del XVII e XVIII secolo, tempo cui era ambientato il suo primo romanzo Waverley o sessant’anni sono, del 1814, archetipo di tutta la produzione di romanzi storici con la quale Scott riempì le biblioteche della borghesia europea. Il successo italiano del maestro scozzese8 denunciava indubbiamente una sete di novità, una forma di insolita condiscendenza da parte della letteratura nei confronti dell’anima popolare. In Italia questo genere fu accolto con entusiasmo perché corrispondeva al meglio al gusto romantico corrente, che amava

7. M. Bachtin, Estetica e romanzo, Einaudi, Torino 1979, p. 356. 8. Riguardo la diffusione e la fortuna dell’opera di Walter Scott in Italia si vedano L. Fassò, Saggio di ricerche intorno alla fortuna di Walter Scott in Italia, in Aa. Vv., Saggi e ricerche di storia letteraria, Marzorati, Milano 1947.

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riflettere sul “risorgimento” di un lontano passato, alla ricerca delle nazioni moderne, dei loro caratteri distintivi, delle ragioni per le quale la storia delle singole civiltà europee si era potuta svolgere in modi tanto diversi, giungere a risultati tanto contrastanti e fra loro lontani, e che ancora posavano sulla storia presente dei popoli e delle loro classi dirigenti uscite dalla Rivoluzione francese e dall’energico ma alla fine sfibrante tumulto del primato napoleonico con una nuova coscienza politica della nazionalità9. Alla sua uscita il romanzo di Scott ottenne una popolarità pressoché incontrastata, imprimendo un forte impulso alla produzione di nuovi “romanzi storici”. D’altronde il desiderio di opere calde di civile insegnamento che educassero con l’ausilio della rievocazione e del ripensamento del passato era già vivo in Italia anche prima che Walter Scott offrisse il modello di un nuovo genere letterario. L’esempio del Manzoni, che approfondiremo qui di seguito, è embelmatico. Questo agì a diversi livelli: da un lato il suo successo incoraggiò altri scrittori a battere la stessa strada; dall’altro l’autorevolezza di cui si ammantò il modello conferì al genere piena legittimità, affrancandolo dal ghetto della letteratura d’intrattenimento. Inoltre la compresenza nei Promessi Sposi di temi morali, religiosi e storici, unita al modo singolare della loro fusione, suscitarono nella generazione prerisorgimentale il desiderio di emulare e di riproporre l’accordo fra arte ed etica, storia e fede. Questo soddisfaceva le esigenze più vive del Romanticismo: comporre un’opera utile al popolo e, nello stesso tempo, rappresentare la realtà, il vero. All’Ortis fanno seguito, nella nostra letteratura, I Promessi Sposi del Manzoni. La vicenda privata di Renzo e Lucia viene narrata sullo sfondo delle vicende di tutto un paese e di tutto un popolo. La poetica romanzesca è nuova e si fonda su tre cardini: il vero come soggetto, l’interessante come mezzo, l’utile come fine. A differenza dei romanzi storici di Walter Scott, ne I Promessi Sposi non vi è gusto per il romanzesco e il tema amoroso non è approfondito, mentre vi è più gusto per l’analisi psicologica dei personaggi. Gli epigoni di Manzoni finirono coll’esasperare eccessivamente queste caratteristiche, cadendo nell’esplicita propaganda politica e patriottica, o facendo degenerare il realismo nel fotografico. Le vicende narrate ave9. S. Romagnoli, Il romanzo storico. Narratori e prosatori del Romanticismo, in E. Cecchi, N. Spegno, Storia della letteratura italiana, 8 voll., Garzanti, Milano 1968, vol. VIII, p. 8.

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vano la propria origine, spesso, nel Medioevo, epoca in cui si pensava di poter ritrovare i primi germi della futura nazione italiana. La moda, perché di moda si deve parlare, durò in Italia fino al 1860. Anzitutto nella produzione di consumo, che della lezione manzoniana recupera i modi, gli intenti, addirittura i personaggi, alla ricerca di agili effetti: come La monaca di Monza (1829) di Giovanni Rosini, che sviluppa il racconto dell’amore fra due comprimari del romanzo, Gertrude ed Egidio, oppure la Margherita Pusterla (1838) di Cesare Cantù, in cui l’attenzione verso gli umili e l’esaltazione della religione quale fattore di difesa sociale coabitano con una visione disincantata della storia, animata di iniquità e di sadismo; e ancora Giovanni delle Bande Nere (1857) di Luigi Capranica e Marietta de’ Ricci (1860) di Agostino Ademollo. Molti di questi romanzi si propongono finalità educative popolari e moralistiche, talora patriottiche, come La Battaglia di Benevento (1827) e L’assedio di Firenze (1836) di Francesco Domenico Guerrazzi, nei quali l’accento oratorio si tinge però di sfumature cruente, o come Ettore Fieramosca o la disfida di Barletta (1833) di Massimo D’Azeglio, che trionfò fra i lettori sia per la solidità plastica della tecnica rappresentativa, sia per la caratterizzazione eroica ed elementare dei personaggi, ad esempio Fanfulla da Lodi, attore anche del seguente Niccolò de’ Lapi, ovvero i Palleschi e i Piagnoni (1841). Più forte interesse per gli elementi patetico-sentimentali mostra invece il Marco Visconti (1834) di Tommaso Grossi, in cui un aspro senso critico borghese verso la violenza della storia produce una singolare etica della sconfitta e della sopportazione, mentre il Duca d’Atene (1837) di Niccolò Tommaseo punta piuttosto sulla verità psicologica dei moti affettivi dei personaggi. In Confessioni di un Italiano (1860) di Ippolito Nievo, la voce narrante è quella di un ottuagenario, Carlo Altoviti, che ripercorre la propria vita partendo dall’infanzia nel castello di Fratta, allevato da uno zio. Intriso di ideali patriottici, egli partecipa a vari moti rivoluzionari. Nievo descrive nel romanzo l’evoluzione della società italiana nell’arco di almeno mezzo secolo, dal mondo ancora feudale del castello di Fratta alla patriarcale società veneta prima della caduta della Repubblica, alla Rivoluzione Francese su su fino a Napoleone e agli albori del Risorgimento. Si tratta di un immenso affresco ravvivato da una folla di personaggi, maggiori e minori; insomma il maggior romanzo, dopo I Promessi Sposi e quelli di Verga10. 10. Cfr, ivi, pp. 15-78.

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La prima metà dell’Ottocento fu il grande periodo del romanzo storico in Italia. Anche la critica, che sino a quel momento aveva sottovalutato il fenomeno, non potè più limitarsi a brevi recensioni, a rapide considerazioni, limitandone la sua dignità letteraria sospettandola di facile diletto, e con l’accusa di scarsa sostanza morale o di rozza confusione di generi diversi. È davvero interessante ripercorrere le critiche cui questo nuovo genere letterario andò incontro, perché, da un lato, queste sono le solite che si presenteranno ogni qual volta un genere narrativo abbraccia la Storia, dall’altro, sono interessanti per capire come mai l’esplosione del romanzo storico avviene in un periodo storico dalle caratteristiche piuttosto determinate. Il sospetto di un reale pericolo nascosto nella diffusione incontrollata di tanta letteratura romanzesca capace di “aggiogare le anime tenere della gioventù”, di diffondersi verso un pubblico impreparato a difendersi dai tumulti morali che essa poteva provocare erano le accuse più frequenti11. Queste parole sono di Paride Zajotti, consigliere al tribunale Criminale di Milano, acuto inquisitore e istruttore dei processi contro gli affiliati alla giovane Italia in Lombardia, fedelissimo dell’Austria. In lui permaneva la preoccupazione conservatrice che un tale genere letterario, indubbiamente inferiore a quelli tradizionali e indice anzi, di decadenza, fosse lasciato libero di inquinare le consolidate basi culturali della società aristocratica, e quindi le strutture etiche di essa. Il censore non poteva certamente negare il diritto di vita a un genere in piena esplosione, ma cercava di persuadere che una letteratura veramente utile, proficuamente adatta al grande pubblico, fosse, semmai, quella descrittiva, quella in cui si raccontava dei costumi e dei luoghi. «Noi crediamo ancora che una confusione di favole non si debbano ridurre incerti i documenti delle età trapassate; noi crediamo infine che invece di rendere la finzione più utile e l’istoria più dilettevole, sia diminuito il diletto della finzione, sia tolta l’utilità della istoria»12. Intanto nel 1845 lo stesso Manzoni dà alle stampe il saggio Del romanzo storico e, in genere, de’ componimenti misti di storia e d’invenzione con cui risolve le proprie perplessità riguardo al tasso di falsificazione insito in ogni romanzo, prendendo drasticamente

11. P. Zajotti, Del romanzo storico in generale e anche dei Promessi Sposi, in “Biblioteca Italiana” XLVII, settembre 1827. Sullo stesso argomento cfr A. L. Castris, La polemica sul romanzo storico, Laterza, Bari 1959. 12. Cfr. ivi, p. 163.

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La ‘storia’ senza Storia. Parte I.

le distanze dal genere, convinto oramai dall’impossibilità di ritagliare ad esso uno spazio di verità degno di affiancare quelli della critica storica o della fede. Tornando per una breve analisi al romanzo del Manzoni bisogna dire che, pur essendo un archetipo, rimane pressoché isolato dal punto di vista della complessità e profondità. Naturalmente c’è un’assoluta diversità tra i romanzi di Walter Scott, da cui sembra che Manzoni abbia attinto l’idea, e I promessi sposi. In Scott non c’è metafora, sono delle storie romanzate, mentre il romanzo storico è un romanzo immediatamente metaforico perché si parla del passato per illuminare il presente, perché i fatti di quel passato che si è scelto di raccontare somigliano terribilmente ai fatti della nostra contingenza, del nostro presente. Manzoni parlava del Seicento per parlare dell’Ottocento, perché in quel secolo c’erano gli stessi rischi delle stesse follie, degli stessi marasmi sociali, degli stessi fanatismi, delle stesse pesti, delle stesse condanne, delle stesse torture. Questa è la chiave di lettura più conosciuta per ciò che riguarda la storicità del romanzo, ma in realtà è anche la più ovvia. Eppure nel romanzo Manzoni sposta continuamente il fuoco delle lenti del suo narrare, evidenziando i vari protagonisti della storia, egli descrive in maniera puntuale tutti i caratteri dei personaggi. La sua tecnica di ritrattista procede per approssimazioni nelle varie stesure del romanzo. Ma come afferma Calvino «quel che sta veramente a cuore a Manzoni non sono tanto dei personaggi quanto delle forze, in atto nella società e nella esistenza, e i loro condizionamenti e contrasti. I rapporti di forza sono il vero motore della narrazione, e il nodo cruciale delle sue preoccupazioni morali e storiche […]. È solo passando dall’orizzonte degli individui a quello universale che può risolversi la vicenda dei due fidanzatini di Lecco. E quando ci accorgiamo che la parte della provvidenza è sostenuta dalla peste comprendiamo che il discorso dell’ideologia politica spicciola è saltato in aria da un pezzo»13. Osservando la trama del romanzo e i molti eventi, le grandi agitazioni che investono i protagonisti, immettendoli in un intrico di sventure e di disperazione ed osservando anche come tutto alfine si ricomponga14 e i 13. I. Calvino, Atti del convegno manzoniano di Nimega, Libreria editrice fiorentina, Firenze 1974, in A. Manzoni, I Promessi Sposi (a cura di), T. Di Salvo, Zanichelli, Bologna 1994, pp. XXII-XXV. 14. Cfr. C. Ginzburg, Rapporti di forza. Storia, retorica, prova, Feltrinelli, Milano 2001.

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buoni siano giustamente rimeritati e i due promessi si sposino e avviino verso una vita pacifica, e come dunque su tutto operi la mano di Dio che i poteri punisce e i buoni premia, si potrebbe dire che il Manzoni non solo abbia una concezione ottimistica della vita ma anche che veda tutta la storia retta e sollecitata da un ordine universale, dalla Provvidenza. Invece la concezione del Manzoni è pessimistica: non perché una coppia di sposi veda premiato il proprio impegno si potrà dire che dal mondo siano definitivamente scomparse le violenze di don Rodrigo, che cesseranno le insidie e le violenze contro le donne, che si spegneranno le carestie, le guerre, le pesti. Il male resta sempre sotto il peso di un cielo che incombe dall’alto uggioso, buio, tristo15. La visione della storia è senza dubbio pessimistica: e tale rimarrà in tutte le opere del Manzoni. La società umana appare al poeta agitata da torbide aspirazioni, rivolta alla conquista di inutili beni terreni, tormentata da mille mali e da mille dolori: un martirio che finisce solo con la morte. Le vere forze in gioco del romanzo si rivelano essere cataclismi naturali e storici di lenta incubazione e conflagrazione improvvisa, che sconvolgono il piccolo gioco dei rapporti di potere. Il quadro si allarga, la connessione tra macrocosmo e microcosmo resta stretta e insieme incerta. […] a ben vedere, già dall’inizio, I promessi sposi è il romanzo della carestia, della terra desolata: dall’apertura del Capitolo quarto quando fra Cristoforo se ne viene da Pescarenico, con quel (per dirla con un linguaggio cinematografico) “La fanciulla scarna tenendo per la corda al pascolo la vaccherella magra stecchita” (c’è un Manzoni pittore di quadri di genere nordico e grottesco quasi alla Brueghel che viene fuori ogni tanto) […]. È una natura abbandonata da Dio, quella che Manzoni rappresenta; altro che provvidenzialismo! E quando Dio vi si manifesta per mettere le cose a posto è con la peste. C’è oggi chi tende a vede in Manzoni una specie di Nichilista, sotto la vernice di quell’ideologia edificante, di quel nichilismo che ritroveremo più radicale solo in Flaubert. Da parte degli uomini non c’è che guasti: malgoverno, mala economia, guerra, calata dei lanzichenecchi. Libro di storia involto in pagine di romanzo (e di storia come la si intende adesso, événementielle, ciò che occupa il posto della storia macro politica sono le crisi dell’agricoltura, i prezzi del frumento,

15. R. Amerio, Alessandro Manzoni filosofo e teologo, ed. Filosofia, Torino 1958, in A. Manzoni, I Promessi Sposi (a cura di), T. Di Salvo, op. cit., pp. XVI-XVII.

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la domanda di manodopera le epidemie). I promessi sposi propongono una visione della storia come continuo fronteggiamento di catastrofi16.

E certo il “verrà un giorno” di padre Cristoforo, non riguarda il giorno della peste, e “la gioia più certa e più grande” non è quella delle nozze. D’altronde la Provvidenza è una cura universale nella quale non può prendersi mai, non dico la rovina finale, ma nemmeno la sventura di una persona innocente, come mezzo per la fame, la felicità temporale di un’altra. La peste è “un mezzo di giusta vendetta voluto dalla Provvidenza” quando si consideri che quella “scopa” della peste opera con qualche discernimento tra i protagonisti della vicenda, ma senza discernimento, cioè senza giustizia, per la massa dolorante, dove son tanti incolpevoli, dove, in ogni caso, sono i parvoli innocenti, come Cecilia? O si vorrà sostenere che è singolarità della peste far che muoiano gli uomini, perché uomini, e non perché pii o malvagi? Certo anche la peste è un mezzo della Provvidenza, ma non perché disponga certi eventi dopo certi eventi, sibbene perché dispone a sentire più vivemente che la vita è un dono di Dio, a impiegarla nelle opere che si possano offrire a Lui, a divenir soccorrevoli e compassionevoli al prossimo (predica di padre Felice). È insomma la Provvidenza etica e rimette sempre alla catastrofe ultraterrena17. In realtà la storia restò a lungo per il Manzoni una incomprensibile catena di sciagure e di colpe, che non riusciva a trovare una sua piena illuminazione religiosa e alla quale egli non sapeva volgersi con la serena accettazione e la pacata umiltà del credente. 18 Si assiste al passaggio da un romanzo a intreccio sentimentale o familiare al romanzo sociale, caratterizzato da un intreccio ambientato nel quadro della società moderna, analizzata, rappresentata e studiata dagli scrittori, con interesse di moralista e di artista. Ma è in tutta Europa che il romanzo cambia: dal didascalismo storico si passa all’interesse per una realtà contratta positivamente nelle strutture sociali: siamo cioè alla narrativa veristica, il cui avvento segna la crisi del romanzo storico.

16. I. Calvino, Atti del convegno manzoniano di Nimega, op. cit., p XXIV. 17. Amerio, Alessandro Manzoni filosofo e teologo, op. cit., p. XVII. 18. C. Cappuccio, Storia della letteratura italiana, Sansoni, Firenze 1948, in A. Manzoni, I Promessi Sposi (a cura di), T. Di Salvo, op. cit., pp. XVII-XVII.

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Dal racconto verista o decadente nasce un nuovo romanzo, in cui da un lato il dato documentario diventa centrale. Dall’altro la soluzione dei singoli personaggi realizzati attraverso un’introspezione di tipo psicologico o metafisico, è la più inseguita. L’opera di Dostoevskij fa la sua apparizione nel panorama letterario al culmine della stagione del romanzo e, nel contempo, alla soglia della sua frantumazione verso modelli più deboli e “malati”. Per questo motivo, il suo lavoro sintetizza emblematicamente la grande “saga” del romanzo moderno, senza chiudersi in strutture logore e abusare di forme stilistiche ormai invecchiate. Questo non significa, ovviamente, scivolare verso strutture frantumate e spezzettate, dove l’intreccio è tenuto insieme in modo instabile e precario. Il romanzo di Dostoevskij, al contrario, presenta un forte tessuto connettivo (tipico del romanzo “classico”) unito a una pluralità di voci e di toni, che rendono sfumature e ombre, disegnando un affresco quanto mai ricco di colori e suggestioni19.

Si possono citare inoltre Thomas Mann e le sue descrizioni della decadenza di una stagione borghese. Oppure Franz Kafka e la sua metafisica religiosa. E poi pensate al flusso di coscienza di Proust, la quotidianità come assoluto in Joice. Tutta l’Arte Realista è superata: artefici di questa rivoluzione furono le avanguardie artistiche pittoriche, che crearono opere che superavano la tradizionale geometria figurativa del disegno, verso una pittura ‘‘astratta’’. Ci si trova di fronte a una rivoluzione del modo di concepire la realtà. L’avanguardia, nel suo spirito generale, accelera, talora parossisticamente, questo smottamento del linguaggio e del mondo insieme. Il Romanzo del secolo XIX era superato in Europa e anche in Italia da nuove tecniche narrative basate su di una successione lineare del tempo completamente compromessa, anzi in molti casi distrutta. La seconda Rivoluzione industriale, come anche la prima, cambiava completamente la nozione di spazio e di tempo; tutto ciò era percepito anche dagli scrittori. Il flusso di coscienza, tecnica narrativa che fa perno sul tempo interiore dei personaggi ne è un esempio centrale. Inventato dallo scrittore inglese H. James, trova il suo momento più elevato nei romanzi di Joyce, Kafka, 19. R. Boccali, La voce dialogante: Dostoevskij e la polifonia, in A. Fioravanti-G. Saccoccio-R. Boccali (a cura di), La narrazione come traccia, op. cit., p. 96.

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La ‘storia’ senza Storia. Parte I.

Proust, Musil, Svevo, il tempo del vivere urbano non coincide con il tempo interiore dei personaggi, questi ultimi non svolgono più una funzione precisa nell’ambito di un intreccio. Si tratta del superamento del Romanzo storico-realista del secolo precedente. La storia torna ad essere al centro dell’attenzione nel secondo dopoguerra italiano, è qui che si sviluppa il racconto e il genere cinematografico “neorealismo” che in linea di massima abbraccia il periodo 1945-55. Le sue caratteristiche essenziali sono l’esigenza da parte degli scrittori di tuffarsi nella vita, o partecipando a lotte politiche, riunioni popolari, partiti, o descrivendo nella loro narrativa la Resistenza, la fame, la lotta delle masse. Anche il linguaggio si adegua ai nuovi contenuti e, rifiutando il concetto di bello scrivere, tende ad essere nuovo, immediato, parlato. Italo Calvino, scrisse circa venti anni dopo (nel 1964), pagine illuminanti sul neorealismo nell’introduzione al suo romanzo resistenziale Il sentiero dei nidi di ragno pubblicato nel 1947; dice dunque Calvino L’esplosione letteraria di quegli anni in Italia fu, prima che un fatto d’arte, un fatto fisiologico, esistenziale, collettivo. Avevamo vissuto la guerra, e noi più giovani che avevamo fatto appena in tempo a fare il partigiano non ce ne sentivamo schiacciati, vinti, «bruciati», ma vincitori, spinti dalla carica propulsiva della battaglia appena conclusa, depositari esclusivi d’una sua eredità. Non era facile ottimismo, però, o gratuita euforia; tutt’altro: quello di cui ci sentivamo depositari era un senso della vita come qualcosa che può ricominciare da zero, un rovello problematico generale, anche una nostra capacità di vivere lo strazio e lo sbaraglio; ma l’accento che vi mettevamo era quello d’una spavalda allegria. Molte cose nacquero da quel clima, e anche il piglio dei miei primi racconti e del primo romanzo.[…] L’essere usciti da un’esperienza guerra, guerra civile che non aveva risparmiato nessuno, stabiliva un’immediatezza di comunicazione tra lo scrittore e il suo pubblico, si era faccia a faccia, alla pari, carichi di storie da raccontare, ognuno aveva avuto la sua, ognuno aveva vissuto vite irregolari drammatiche avventurose, ci si strappava la parola di bocca. La rinata libertà di parlare fu per la gente al principio smania di raccontare: nei treni che riprendevano a funzionare, gremiti di persone e pacchi di farina e bidoni d’olio, ogni passeggero raccontava agli sconosciuti le vicissitudini che gli erano occorse, e così ogni avventore ai tavoli delle «mense del popolo», ogni donna nelle code ai negozi; il grigiore delle vite quotidiane sembrava cosa d’altre epoche; ci muovevamo in un multicolore universo di storie. Durante la guerra partigiana le storie appena vissute si trasformavano e trasfiguravano in storie raccontate la notte attorno

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al fuoco, acquistavano già uno stile, un linguaggio, un umore come di bravata, una ricerca d’effetti angosciosi o truculenti. Alcuni miei racconti, alcune pagine di questo romanzo hanno all’origine questa tradizione orale appena nata, nei fatti, nel linguaggio. Eppure, eppure, il segreto di come si scriveva allora non era soltanto in questa elementare universalità dei contenuti, non era lì la molla (forse l’aver cominciato questa prefazione rievocando uno stato d’animo collettivo, mi fa dimenticare che sto parlando di un libro, roba scritta, righe di parole sulla pagina bianca); al contrario, mai fu tanto chiaro che le storie che si raccontavano erano materiale grezzo: la carica esplosiva di libertà che animava il giovane scrittore non era tanto nella sua volontà di documentare o informare, quanto in quella di esprimere. Esprimere che cosa? Noi stessi, il sapore aspro della vita che avevamo appreso allora, tante cose che si credeva di sapere o di essere, e forse veramente in quel momento sapevamo ed eravamo. Personaggi, paesaggi, spari, didascalie politiche, voci gergali, parolacce, lirismi, armi e amplessi non erano che colori della tavolozza, note del pentagramma, sapevamo fin troppo bene che quel che contava era la musica e non il libretto, mai si videro formalisti così accaniti come quei contenutisti che eravamo, mai lirici così effusivi come quegli oggettivi che passavamo per essere. Il “neorealismo” per noi che cominciammo di lì, fu quello […]. Il «neorealismo» non fu una scuola. (Cerchiamo di dire le cose con esattezza). Fu un insieme di voci, in gran parte periferiche, una molteplice scoperta delle diverse Italie, anche o specialmente delle Italie fino allora più inedite per la letteratura. Senza la varietà di Italie sconosciute l’una all’altra o che si supponevano sconosciute, senza la varietà dei dialetti e dei gerghi da far lievitare e impastare nella lingua letteraria, non ci sarebbe stato «neorealismo»20.

La Resistenza è tra gli argomenti più diffusi anche se diverse ne sono le trattazioni, a seconda delle personalità dell’autore. Pavese ne La casa in collina analizza lucidamente l’incapacità del protagonista, un intellettuale, di tuffarsi e partecipare alla lotta partigiana, di cui pure condivide gli ideali, incapacità che sente come colpa e vergogna. Abbiamo poi Uomini e no, che Vittorini scrive in un periodo di latitanza durante l’occupazione tedesca, per celebrare le lotte partigiane in città. Ne Il sentiero dei nidi di ragno Calvino presenta la resistenza attraverso l’angolatura lirica e fantastica del protagonista, tralasciando quasi completamente la descrizione e l’analisi storica. 20. I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Einaudi, Torino 1964, pp. 7-9.

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Molto studiata e rivalutata è oggi l’opera di Beppe Fenoglio, che con I ventitre giorni della città di Alba e Il partigiano Johnny, che attraverso la sua scrittura diluita tra lingua inglese e italiana ha evitato alcune deformazioni storiche. Già Cassola ne La ragazza di Bube, e L’antagonista, riduce i temi resistenziali alla dimensione sentimentale, mentre l’evento storico appare leggendario. Si può dire che alla fine degli anni Cinquanta lo spirito neorealistico sia quasi esaurito nella sua tematica storica, anche se mantiene uno stile linguistico veristico in Pasolini o Gadda. Se si esclude il grande romanzo di Tomasi di Lampedusa Il Gattopardo, il romanzo storico cede il posto ad altri tipi di narrazione. Ma la definizione di “romanzo storico”, assegnata ante tempus dalla critica all’opera di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, va colta con cautela. Essa, infatti, potrebbe indurci a inscriverla nell’area tradizionale del romanzo Ottocentesco, alla cui poetica, in realtà, rimane sostanzialmente estranea. Il romanzo è innanzi tutto lirico, ma è anche un romanzo storico, perché l’autore vede e ci mostra lo svolgimento del proprio spirito, della propria psiche nella realtà delle vicende storiche, dando a ciascuno dei personaggi il risalto rappresentativo che esprime compiutamente il suo significato morale. I particolari inutili, di cronaca, scompaiono21. Giuseppe Tomasi, invece, cerca di parlare di un fatto storico, ma che può essere epocale, universale, per poi passare a descrivere gli stati d’animo, le reazioni di un siciliano sconfitto. E pertanto non possiamo parlare di romanzo storico, ma di un romanzo scritto ieri, che disserta di un oggi eterno. La stessa architettura del Gattopardo, rispetto all’Ottocento, presenta un libero e inconsueto disegno narrativo, una sequenza d’episodi i quali, pur facendo capo a un personaggio principale, potrebbero considerarsi come aventi ciascuno una vita autonoma. Il Gattopardo si salvò per l’acume di Giorgio Bassani, che lavorava allora per la Feltrinelli, dove giunse la terza copia del dattiloscritto, anonima, da parte di Elena Croce. Bassani lesse le prime righe mentre saliva le scale; quando entrò in ufficio era già convinto di avere messo le mani su un libro straordinario: «Accan21. Giuseppe Tomasi di Lampedusa per tutta la vita sembra aver fatto solamente due cose: leggere e viaggiare. Il patrimonio ereditato, benché assottigliatosi nel tempo, gli consentiva di scorrazzare a suo piacimento per l’Europa, senza legarsi ad alcun impegno di lavoro e, se da un lato, i beni si assottigliavano, la cultura si arricchiva. Siciliano nel midollo, europeo nello spirito, parlava inglese, francese e tedesco, conosceva lo spagnolo e sarebbe arrivato a leggere Tolstoy in russo.

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3. La Storia nel romanzo

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to a un libro come il Gattopardo qualunque altro rischia di scolorire». Ci vollero molte ricerche, risalendo tutti i passaggi seguiti dal testo, per conoscere il nome dell’autore e apprendere che era morto da un anno. All’eterno splendore del romanzo II Gattopardo corrisponde la grandezza dell’omonimo film di Visconti. E il “caso Gattopardo” è l’unico in cui due capolavori si fronteggiano, stupendi entrambi, e tuttavia diversi. Ieri il nodo del 1860 e dell’Unità, oggi quello del secondo dopoguerra e del post-fascismo. Accostando il tramonto di un’epoca con la perdita della bellezza, il principe scrittore giustifica la transizione a un nuovo ordine, ma più necessario, esclamando: «se vogliamo che tutto rimanga com’è, è necessario che tutto cambi».

4. La fine del romanzo storico Nel romanzo storico dunque appariva la storia ficcata dentro la Storia, quella tensione di escutere gli eventi storici per tirarne una filosofia della storia (il sugo direbbe Manzoni) e il senso (posto che ci sia) della Storia. L’autore si prendeva nei confronti della Storia, quelle libertà postulate da Aristotele («Lo storico espone ciò che è accaduto, il poeta ciò che può accadere, e ciò che rende la poesia più significativa della storia, in quanto espone l’universale, al contrario della storia, che s’occupa del particolare» Poetica, IX, 1451 b), come diceva lo stesso Manzoni («Lo scrittore deve profittare della storia, senza mettersi a farle concorrenza», Lettera al Fauriel). Il romanziere del romanzo storico unisce tre persone in una: un narratore, uno storico, un filosofo. E quindi si torna alla filosofia della storia. Spesso l’autore di un romanzo storico è un intellettuale che ha maturato una sua idea del procedere storico, ha realizzato un’indagine sul senso della storia. Più che ai fatti, dunque, il romanzo storico bada al senso. La consapevolezza di sapere che la storia è maestra di vita, anche se poi continuiamo a fare gli stessi errori, può suscitare una certa saggezza, evitare gli errori, dal punto di vista personale ma anche dal punto di vista collettivo. La letteratura in sé, in questo nostro contesto, è qualcosa di perturbante, qualcosa che crea scandalo perché non è dominabile. Come la traduzione interpreta un originale, così il romanzo è in grado di illuminare la Storia, apportando quei tagli necessari non tanto per il raggiungimento di una Verità, ma per la comprensione delle discontinuità che

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La ‘storia’ senza Storia. Parte I.

costituiscono il procedere della Storia. Ciò è indispensabile se si vuole uscire dall’illusione di poter dire il mondo senza artifici e di raccontare i fatti senza interpretarli, poiché «la scelta di un modello narrativo […] è anche quella di una forma di conoscenza»22. La questione del modello narrativo23, come la questione dello stile che provoca l’obsolescenza delle traduzioni, non è priva di conseguenze: la Storia è raccontata da qualcuno a un certo pubblico, è inscritta nel suo tempo, e per essere compresa deve tenere conto degli interessi e delle valutazioni di chi la scrive e di chi la legge. Essa viene costantemente riscritta non perché col passare del tempo ne sappiamo di più, ma perché cambiano le domande alle quali si vuole dare una risposta, allo stesso modo in cui epoche diverse si aspettano da una traduzione interpretazioni diverse. Si potrebbe allora dire che, mentre il romanzo può liberarsi della Storia e funzionare senza di essa, l’operazione inversa non sia altrettanto facile? Nel secondo dopoguerra, se Giuseppe Tomasi di Lampedusa sembra riproporre nel Gattopardo (1958) il fascino mitico del passato quale favolosa decadenza, altri scrittori impegnati sul fronte marxista, ad esempio il Pratolini della trilogia “italiana” (1955-66), rilanciano il “romanzo storico” come mezzo per una poetica di realismo critico. In anni più recenti il successo del Nome della Rosa (1982) di Umberto Eco, “giallo” d’ambientazione medievale attorno a una fitta trama di dibattiti religiosi, filosofici, culturali, e l’ampia fioritura di romanzi storici minori, fra cui si ricordi almeno La famiglia Manzoni di Natalia Ginzburg, hanno rivelato forse l’ultimo spazio offerto alla narrativa storica, raffinato intarsio di erudizioni 22. C. Ginzburg, Microstoria: due o tre cose che so di lei, “Quaderni storici” 86 (1994), p. 571. 23. A questo proposito cfr. soprattutto G. Genette, Finzione e dizione, op. cit. Genette concludeva Finzione e dizione sostenendo che con l’occultamento delle voci del testo si vorrebbe dimostrare di potersi avvicinare alla verità, quasi che certi testi si possano sottrarre alla messinscena, alla costruzione romanzesca. Genette non si chiedeva tuttavia se esistano testi che, con altrettanta ipocrisia, vivono nell’illusione di sottrarsi alla costruzione storica. Si potrebbe allora aggiungere che tutti i testi, così come vivono nel romanzesco, vivono anche nello storico. Eppure, a meno di accontentarsi di un risultato puramente astratto, bisognerà che il testo, storico o romanzesco che sia, funzioni come modo per educarsi ad affrontare l’orrore, elaborando quel lutto profondo e scoperto che deriva dalla messa a nudo di ricordi tragici, di natura privata e pubblica, di fronte ai quali non abbiamo possibilità di fuga più grandi di quante ne abbia un testo di fronte alle costrizioni imposte da un modello (narrativo, storico o di altra natura).

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3. La Storia nel romanzo

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e curiosità già note, piuttosto che serbatoio di verità. Successivamente lo stesso Eco avrebbe scritto L’isola del giorno prima e Baudolino, entrambi romanzi di formazione a metà tra l’ambientazione storica e la deriva fantastica. Gialli d’ambientazione, molto attenti ai particolari storici e a una ricostruzione corretta, sono i libri di Giulio Leoni, scrittore appassionato di esoterismo del Rinascimento. Nel 2000 esordisce con Dante Alighieri e i delitti della medusa, cui fa seguito La donna sulla Luna, poliziesco ambientato tra la fine della Repubblica di Weimar e l’avvento del Nazismo. Nel 2004 torna alla Firenze medioevale di Dante con i Delitti del mosaico, che attraverso un incipit legato a un brutale e misterioso omicidio vicino a un’opera d’arte misteriosa, in un certo senso ha il merito di anticipare con questo inizio folgorante l’attacco praticamente identico del testo di Dan Brown Il codice da Vinci. Ma sgombriamo subito il campo dall’equivoco che può sorgere: non si tratta di un’investigazione tutta new age simile all’imbarazzante romanzo di Dan Brown, e nemmeno dell’esposizione dei risultati delle ricerche filologiche e archeologiche, si tratta di un bel giallo d’epoca. Leoni tratteggia una Firenze medioevale funestata da violenti omicidi e intrighi di potere, ma anche percorsa dal fervore del rinnovamento scientifico, e dunque riesce a non banalizzare mai la ricostruzione storica grazie a una puntuale, e allo stesso tempo elegante, narrazione dall’interno del passato. La ricostruzione storica, dunque, non è funzionale a eventi da raccontare, ma fa da scenario a invenzioni. Anche Q. di Wu Ming, ambientato nel Cinquecento, per quanto puntuale e ricco di informazioni davvero riscontrabili, usa la Storia come scenario, come spunto; altresì un altro giovane scrittore come Roberto Querzola con il suo Aycelin il Templare, descrive le fine dei Templari, ma non tanto come macroevento, quanto attraverso la quotidianità di un monaco guerriero. Il romanzo storico come percorso di formazione identitario non esiste più, come progetto educativo è stato sostituito dal cinema prima, e poi entrambi superati dalla televisione. Il romanzo storico ha perso quella funzione centrale di spiegazione del senso della storia che aveva prima; oggi il romanzo storico per chi lo scrive diventa un esercizio fotografico, l’inquadratura di una certa epoca all’interno dei quali inserire altri generi letterari, come il giallo, l’avventura, il romanzo d’amore. Un esercizio sperimentale di innesto e contaminazione dei generi. Ma d’altro canto nulla permette di affermare che questa impasse possa essere superata

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La ‘storia’ senza Storia. Parte I.

sognando semplicemente un ritorno al passato, ripristinando i codici del «romanzo storico» così come erano stati inventati dal XIX secolo. Si potrebbe sostenere, inoltre, che questo «romanzo storico» (di cui ai suoi tempi George Lukacs aveva analizzato la genesi e l’evoluzione) sia divenuto un genere obsoleto e anacronistico. In primo luogo, perché gli elementi di verità che poteva fornire sono stati ormai assunti da altri tipi di discorso (reportage, giornalismo). Ma soprattutto perché, a poco a poco, si è imposto questo fattore: la funzione essenziale del romanzo moderno non è quella di «illustrare» con un racconto un periodo storico, quanto piuttosto una concezione del mondo o della storia elaborata dall’autore, rivelare, attraverso i suoi percorsi specifici, quello che solo il romanzo può dire; portare alla luce il non detto della storia ufficiale, le zone dell’esperienza umana trascurate dagli storici; destabilizzare le certezze, le ortodossie, le visioni precostituite del mondo; esplorare l’altra faccia, il negativo dell’immagine che le nostre società danno di se stesse. «È proprio in questo fallimentare tentativo di ridescrizione, di ricucitura dell’infranto che avvertiamo la morte del romanzo, il suo crollo […] di babelica torre nel mondo depauperizzato, Microsoftizzato e Mcdonaldizzato, e del moderno stesso frantumato e disperso tra le maglie rotte e moltiplicantesi della società complessa e informatizzata come Lyotard o pochi altri ci fecero riconoscere una qualche ventina d’anni or sono»24.

5. Conclusione La letteratura racconta la storia. Sin da quando ha narrato le vicende mitologiche degli eroi, fino ai grandi affreschi sociali del romanzo realista dell’Ottocento. Nel nostro secolo ai romanzi si sono aggiunti i film, con la loro capacità narrativa e la presa che hanno su un grande pubblico. Se letteratura e cinema riescono a raccontare la storia, non dipende però da ciò che essi descrivono. Forniscono dati e informazioni, ma ciò che li distingue dalla prosa storica, è la modalità della comunicazione. Romanzi e film provocano un turbamento e una partecipazione da cui sono in ge24. G. Saccoccio, Canetti: La morte del romanzo moderno, in A. Fioravanti, G. Saccoccio, R. Boccali (a cura di), La narrazione come traccia, op. cit., p. 110.

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3. La Storia nel romanzo

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nere immuni i lettori delle opere di scienze sociali. Si può venire informati di molte cose circa le persone, i loro modi di vita e le circostanze sociali e pure mantenersi a distanza da tale conoscenza. Ma i romanzi e i film favoriscono l’identificazione e ci costringono a reagire. Ci fanno entrare in un mondo emozionale, in cui i nostri stessi punti di vista, i nostri giudizi sono chiamati in causa e messi in discussione. Che un grande romanzo ci costringa a identificarci con i personaggi, in qualche modo costituisce anche un atto di autentica comunicazione col passato. Qual è l’importanza della verità storica nella riproduzione letteraria della realtà? Come abbiamo visto il romanzo storico è importante per due motivi nei confronti della storia, due motivi, anche distanti tra loro: il primo perché bada al senso della storia, il secondo perché ci fa rivivere il passato non attraverso la ricostruzione degli eventi come nella narrazione storica, ma attraverso il vissuto dei protagonisti. Manzoni era convinto che, prima o poi, l’arte e il romanzo sarebbero scomparsi, perché la scienza, in questo caso la scienza storica, un giorno avrebbe illuminato tutto lo scibile umano con la propria luce. In realtà è avvenuto esattamente il contrario. Dei due termini della proposizione manzoniana, ossia la storia e il romanzo, quello che Manzoni credeva fosse il più forte, ossia il “vero storico”, è risultato essere l’elemento più debole, mentre quello che considerava l’elemento più debole, cioè il romanzo (la finzione), ha finito per emergere come l’elemento descrittivo più forte. In realtà tutto ciò che è accaduto da allora, dai tempi di Manzoni a oggi, ci dimostra che la storia si può vivere a patto che qualcuno la sappia raccontare, ovvero se e solo se qualcuno sia in grado di trasformarla in un bel racconto. Oggi, tra l’altro, ci sono filosofi e teorici che insistono fino all’eccesso sulla dimensione narrativa della storia e perfino della scienza, per cui alla fine qualsiasi atto della cultura umana sarebbe legato alla narrazione e avrebbe in sé comunque una dimensione di finzione. Partendo da due presupposti, la difesa e l’importanza della storia e una serietà di analisi da un orizzonte deontologico da cui si diparte la stessa, si deve tornare all’idea di contatto con la verità, di non possesso della verità del passato. Per questo il romanzo (la finzione sulla storia in genere) è importante. La letteratura si sofferma molto sulle sensazioni, sui sentimenti, su immagini. Questo non potrebbe falsare la nostra conoscenza storica? Forse, ma il senso della storia è anche il senso della concretezza della vita di un periodo storico. Non è soltanto dato dai grandi

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La ‘storia’ senza Storia. Parte I.

eventi, dalle grandi battaglie o dai grandi fenomeni economici e sociali, ma è dato proprio dal concreto vivere quotidiano. Quindi i sentimenti come il senso della morte, della vita, l’amore e altri entrano a pieno titolo nella storia. Un racconto storico, fatto da uno storico serio, con tutti gli elementi a disposizione, può darci dei dati concreti, reali. Però a volte ci possono essere delle biografie romanzesche, che magari non ci diranno la verità su dei fatti specifici, ma sul senso profondo di una vita storica ci dicono moltissimo. C’è, per esempio, un grande romanzo contemporaneo, Le memorie di Adriano, di una grande scrittrice del Novecento, Marguerite Yourcenar, che si presenta come un’autobiografia fittizia, una finta autobiografia dell’imperatore Adriano, fatta, però, attraverso una vera documentazione. L’autrice è andata a i studiare documenti e racconta – è Adriano che racconta la propria vita – delle cose suggestive sul senso di quella civiltà, di quella distanza, del significato di quel mondo così lontano da noi, ci dice delle cose molto più intense, molto più ricche, di quanto non capiti a certi trattati di storia romana che ci parlano di Adriano. Non lo si può prendere alla lettera come documento storico, anche se se ne possono ricavare dati storici essenziali. È un genere letterario, contiene un inevitabile elemento di deformazione, mentre una biografia costruita scientificamente può essere un’opera molto seria. Però le biografie antiche tra l’altro partivano proprio dall’idea, dal riconoscimento, che è importante storicamente, dell’autonomia della vita personale. A noi sembra una cosa ovvia ma nel mondo più antico non era tanto semplice. Il grande studioso russo di letteratura, Michail Michailovic Bachtin, ha sottolineato come un momento fondante della nascita della grande letteratura sia la scoperta dell’autonomia della vita dell’altro, dell’altra persona. Si studia la letteratura chiedendosi meravigliati come sia potuta nascere, si studia la Storia chiedendosi con altrettanta meraviglia se sia possibile evitare che si ripeta. Ma ecco che allora storia e scrittura non sono che costruzioni narrative, e in quanto tali tendono semplicemente a produrre un’illusione di realtà. Dalla Storia, e dal romanzo, dobbiamo poterci aspettare qualcosa di più, a meno di accettare l’immagine superficiale di un relativismo assoluto nel quale tutto ha un proprio posto. Se vivranno un giorno degli storici che vorranno occuparsi delle condizioni mentali e ideologiche degli Stati Uniti, alla vigilia di una guerra contro l’Iraq dalle conseguenze incalcolabili, si può scommettere che sarà un romanzo, più di qualsiasi

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altro discorso con pretese di «obiettività», a fornire il materiale più ricco di riflessione, esattamente come noi troviamo nella lettura di Musil la rappresentazione più lucida dell’impero austro-ungarico alla vigilia della prima guerra mondiale.

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Parte II

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Introduzione

L

a storia, il romanzo, il film hanno ovviamente una base costitutiva univoca, occupandosi tutti della restituzione del tempo attraverso il tempo. Ma ancor di più risultano le vicinanze se si riflette non sui fatti in generale nel tempo, ma sul racconto storico, sul romanzo storico, e sul film storico. La restituzione a quel punto non è semplicemente quella di un tempo, ma del tempo della storia. Qual è la differenza tra un racconto di finzione, o comunque filtrato attraverso l’immaginazione dell’artista, dello scrittore, e il racconto storico puro e semplice? Partendo dal presupposto che il romanzo, come abbiamo visto, anche quando prenda spunto da basi storiche, potrebbe sempre tendere a divagazioni, la differenza con la Storia scritta e riportata sembra si attenga sempre a quello che è stato documentato nella ricerca degli storici. Ma anche la storia oggettiva, quando fuoriesce dalla tabellina, dallo schema di comparazione è un récit, un racconto. L’epistemologia storica – che, come tutte le scienze, aspira all’oggettività – quando si scosta dal dato puro e semplice, dalla cronologia, dal reperto archeologico, da tutto ciò che può avere una propria materialità diretta, può diventare un récit, venendo mediata da una mera interpretazione dei fatti. Il senso della storia è anche il senso della concretezza della vita di un periodo storico. Non è soltanto dato dai grandi eventi, dalle grandi battaglie o dai grandi fenomeni economici e sociali, ma è dato proprio dal concreto vivere quotidiano. Quindi il sentire e il patire, i pensieri, il senso della morte e della vita, come viene vissuto l’amore e i sentimenti in genere entrano a pieno titolo nella ricostruzione del passato. In fondo anche la finzione, a volte, la finzione estrema, è una elaborazione e interpretazione della storia. Eppure quando si parla di arte si tende sempre a specificare che siamo di fronte alla dimensione in cui tutto è relativo (relativo alla sensibilità individuale, alla mode, ai canoni stilistici) e ovviamente niente è dimostrabile: ciò che si impone e anzi viene presup-

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La ‘storia’ senza Storia. Parte II.

posto, come da tutti condiviso, è l’universo dei sentimenti, delle emozioni e delle sensazioni. La nostra reazione di fronte a un’opera artistica o a un paesaggio reclamano partecipazione, esigono universalità, pretendono di valere anche per gli altri, quasi che il proprio sentire, ossia quanto c’è di più privato e incomunicabile, sia regolato da leggi e abbia carattere vincolante. Dunque l’esperienza estetica può essere oggetto di conoscenza. Ma anche fonte di conoscenza1. Di conseguenza l’arte costituisce un grande esempio di come essa sia non solo un racconto della storia, ma una partecipazione emotiva, etica e politica alla storia che è stata. La letteratura, la pittura, la musica, il teatro, la fotografia, e tutte le forme artistiche hanno una forza di elaborazione autonoma della storia, la raccontano, certo, ma in qualche modo la giudicano, la interpretano e ce ne donano l’esperienza emozionale. Naturalmente non possiamo ricostruire la storia basandoci sulle finzioni, ma le finzioni letterarie e artistiche qualche volta hanno la virtù di rivelarci il senso di quello che sta accadendo, trasponendolo nell’invenzione, nell’immaginazione, in quel mondo che è un misto tra storia e creatività dell’autore. L’arte di finzione costituisce un contributo determinante per capire gli eventi in un duplice livello che andremo a riscoprire nel cinema cosiddetto “storico”: da un lato la ricostruzione serve per capire il senso di ciò che accade, si tratta di una sorta di filosofia della storia che viene desunta dall’opera dell’autore; dall’altro la ricostruzione del vissuto, attraverso l’immedesimazione con i protagonisti del film, ci restituisce il mondo emozionale di quel periodo, molto più di qualsiasi narrazione storiografica. Il cinema poi, fin dalla sua nascita, ha sempre avuto contatti con la storia, sia in maniera indiretta (la rappresentazione di un presente che con l’andare degli anni diventava passato) o in modo diretto (la rappresentazione di una storia ambientata nel passato). Sono soprattutto questi ultimi che dopo un’eclissi durata qualche anno si sono ripresi un posto di primo piano nel mondo della produzione cinematografica. D’altro canto i film storici, se ben fatti, riescono a rendere visibile e concreto ciò che altrimenti sarebbe soltanto immaginabile. Grazie ad essi, il passato può sembrare meno estraneo, si arricchisce di suggestioni che coinvolgono sia la sfera cognitiva, sia quella affettiva del pubblico. La grande 1. Cfr. S. Givone (a cura di), Estetica. Storia, categorie, bibliografia, La Nuova Italia, Firenze 2000.

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Introduzione

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capacità del cinema di ricreare artificialmente la realtà del passato, ci permette di vedere i film come opere storiografiche del tutto particolari. La fascinazione del cinema sta nel presentarsi come una sorta di macchina del tempo capace di rendere visibile e concreto qualsiasi episodio, personaggio o epoca della storia. Grazie ai film storici la lettura del passato può arricchirsi non solo di conoscenze nuove, ma anche e soprattutto di emozioni e suggestioni. I film in prima istanza sono strumento per raccontare la storia dell’epoca descritta nelle immagini del film; ma i film possono essere documenti e intesi come vera e propria fonte per conoscere la storia: sia del periodo che vuole ricreare sia dell’epoca in cui il film è stato realizzato; inoltre i film come agenti di storia sono capaci di influire con le immagini e con le problematiche proposte sulla società e sull’immaginario collettivo. Seguiremo la tripartizione classica del film come narrazione di storia, di film come documento e di film come agente di storia. Il cinema, tra le arti che potevano raccontare e interpretare la storia, ha seguito un percorso particolare: l’utilizzo delle immagini per interpretare la storia non è né semplice né così immediato come si era creduto in un primissimo momento. La realtà del cinema, se di realtà si può parlare, è infatti manipolabile e la sua verità, se non opportunamente interpretata, è ingannevole. Nel primo capitolo di questa parte chiariremo proprio l’equivoco tra cinema e realtà cui, da sempre, l’arte filmica va incontro. La teoria del cinema, dagli albori alla modernità, ci ha detto dell’illusione e dell’impressione di realtà. La rappresentazione del reale è tanto più onesta nei confronti dello spettatore quanto più è onesta l’intermediazione del cineasta. È certo poi che lo spettatore alle prese con un tipo di cinema che sappia essere responsabilmente etico accetta di credere all’impressione di realtà, ma allo stesso tempo mantiene un minimo di dubbio, vale a dire lo strumento che gli permette di guardare e conoscere ciò che vede senza accettarlo supinamente2. Secondo Jean Luis Comolli il cinema ha perso quella che Edgar Morin chiamava la funzione di creare il nuovo immaginario. Il cinema non è più il luogo dove si inventa il nuovo spettatore. Sono le televisioni a progettare il nuovo tipo di spettatore, ben diverso da queste riflessioni tipiche dell’illusione di realtà che il cinema aveva concepito fin dalle origini. La televisione in questo preciso momento storico 2. J.L. Comolli, Vedere e potere. Il cinema, il documentario e l’innocenza perduta, Donzelli, Roma 2006.

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ha il compito, e dunque, la volontà di forgiare un nuovo spettatore che non abbia dubbi, quindi, va da sé, che sia più indifeso nei confronti di ciò che vede (siano immagini dell’Iraq o dei Reality Show). Ma di questo si parlerà approfonditamente nella terza parte. Il nostro scopo, nel capitolo 2, è chiarire quale sia l’oggetto della ricerca e di quali metodologie interpretative si intenda far uso. Per ciò che concerne il rapporto tra cinema e storia, pur essendo stati fatti notevoli passi in avanti, esiste ancora una notevole confusione. È sufficiente infatti scorrere le pubblicazioni sull’argomento per provare un senso di smarrimento: sotto l’etichetta cinema e storia si trova di tutto. Schematizzando radicalmente a rischio di apparire grossolani possiamo sintetizzare il rapporto tra Cinema e Storia in quattro punti: 1. La storia del cinema: come ogni altra disciplina il cinema ha una sua nascita e una sua evoluzione insomma una sua storia. 2. Il cinema come agente di storia: vale a dire l’analisi e lo studio che il cinema ha sulla società. Il caso più evidente è quello dei film di propaganda, quando attraverso un film si trasmette e si impone una certa visione del mondo. Ma al di là del cinema di propaganda tipico dei regimi totalitari, che è il caso più evidente, il cinema agisce sulla storia perché contribuisce alla costruzione dell’immaginario di un’epoca, ruolo che, come vedremo nella terza parte, il cinema ha ormai ceduto alla televisione. 3. Il cinema come fonte di storia, inteso sia come documenti filmati come documentari ma soprattutto come film storici di finzione. In questo caso bisogna considerare i film di messa in scena del passato come una fonte per la storia in generale in quanto possiedono lo stesso valore degli altri prodotti dell’immaginazione creatrice, come il romanzo, il dramma teatrale, la pittura, la musica ecc. Certo i film di finzione non ci parlano tanto del referente storico messo in scena, quanto piuttosto dell’epoca che li ha prodotti. Ma anche qui faremo attenzione a non confondere e a rispettare i due piani temporali. 4. Infine c’è la storia nei film, vale a dire la narrazione storica nei film di finzione: a questa sarà dato lo spazio più ampio, cercando di capire se può o non può essere definito un genere il “film storico”, riflettendo dunque sul concetto di genere cinematografico rispetto a quello letterario e confrontando il genere “film storico” con altri generi. Cercheremo di rispondere a diversi interrogativi: in fondo la tendeza a collocare le proprie vicende in un tempo altro non è profondamente radicata nel cinema?

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Introduzione

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Basta che un film collochi la sua azione nel passato rispetto a quello nel quale è stato girato per definire un film come storico? Vi sarebbe anche un ultimo punto che si può sviluppare sul rapporto tra cinema e storia, vale a dire quello di considerare il cinema come mezzo per raccogliere e conservare testimonianze e documenti di interesse storico. Ma, come vedremo anche qui nell’appendice, questo discorso di registrazione dei fatti, dei documenti e delle testimonianze orali attraverso la pellicola si è sempre più spostato verso il videotape prima e il digitale ora. Tant’è che questo ruolo è ormai di prevalente pertinenza televisiva: la televisione raccoglie e conserva video, testimonianze e documenti filmati. Nel terzo capitolo, dopo aver definito in linea di massima cos’è un film storico si passa alla possibilità della sua analisi, scoprendo il suo senso interno e la sua utilizzabilità o meno in forma didattica. Infine vi è una sorta di capitolo 4, in realtà si tratta di un’appendice in cui si prospettano una serie di percorsi (tematici, monografici, analitici) sul cinema storico. Questa parte è soprattutto un’occasione per parlare dei film e del cinema storico che continua a inventare labirinti da esplorare, frontiere da superare e nuove meraviglie di cui godere. Certamente non vogliamo dettare atti di accusa contro alcuni, né tessere lodi di altri, e inoltre non chiediamo ai film una certificazione personale delle convinzioni sulla rappresentazione del passato. Il tentativo non è quello di piegare, attraverso un linguaggio analitico descrittivo, il film alle nostre teorie; anzi, la presunzione di capire tutto ciò che c’è da capire sul cinema cosiddetto storico lascia spazio alla passione narrativa che racconta cosa un film storico evoca, descrive, interroga del periodo preso in considerazione. Il film storico non finisce il suo lavoro quando si accendono le luci nella sala; la pellicola continua a girare nella testa e si confronta con l’immaginario, la memoria individuale e collettiva della Storia. Il cinema ovviamente non è tutto, ma è uno spunto certamente importante per confrontarsi con quello che è accaduto nella Storia. Ritrovare attraverso il passato un senso non sterile e rinunciatario alla passione per il cinema e analizzare cosa c’è dietro l’oggetto cinema. Quindi la nostra analisi procederà non solo e non tanto per interrogare l’eventuale portata veritativa (quanto c’è di vero nel racconto di finzione di questa storia?), ma essenzialmente per interrogarci sul sentire dell’opera filmica, sul sentire immediato, durante la fruizione del film, senza la

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La ‘storia’ senza Storia. Parte II.

mediazione del concetto di storico, delle categorie storiografiche. I film storici innanzi tutto suscitano sentimenti che si ritiene tutti abbiano la possibilità di provare, non già perché la realtà del passato si dispieghi e si manifesti dinanzi ai nostri occhi ma, al contrario, in forza di una finzione saputa come tale. Per questo il quarto capitolo di questa seconda parte in realtà è una lunga digressione sui percorsi cinematografici, che solo in un secondo momento si trasformano in analisi storiografiche. Questi film partono dai canonici Peplum, ripresi oggi come ieri per affascinare il pubblico, poi kolossal anche qui con la stessa funzione, e di nuovo tutto il cinema storico che in fondo non è cambiato poi molto: la seconda guerra mondiale, guerre civili, storie insanguinate, poi due grandi esempi di cinema storico italiano. Infine le più grandi novità che il cinema storico ci ha regalato in questi ultimi anni: si tratta di sentieri di ricognizione cinematografica del passato molto diversi tra loro, ma aventi tutti una caratteristica comune: il patto di manifesta finzione figurativa con lo spettatore. Pur rappresentando degli avvenimenti realmente accaduti, questi racconti cinematografici sono evidentemente falsi in ciò che ricostruiscono e in ciò che espongono. La Storia viene semplicemente raccontata a partire da un tempo e da uno spazio interiori che non sono quelle coordinate che siamo abituati a vedere governare il principio del reale, dall’impressione di realtà. Si può dire che siamo passati dalla baziniana “illusione di realtà” all’affascinante “realtà dell’illusione”, che testimonia la grandezza e la difficoltà che oggi si ha nel raccontare le storie della Storia.

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Capitolo 1.

Il rapporto tra cinema, narrazione e realtà

«Vedere qualcuno non vedere è il modo migliore per vedere intensamente ciò che egli non vede» (R. Barthes)

1. Un equivoco: analisi preliminare tra cinema e realtà

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uando nasce il cinema, alla fine dell’Ottocento, alcuni storici si convincono che l’immagine cinematografica possa rappresentare il documento assoluto in quanto perfetto riproduttore della realtà. Fino alla prima guerra mondiale l’entusiasmo intorno a questa nuova tecnologia, che si riteneva avrebbe potuto permettere di dare finalmente una descrizione degli avvenimenti assolutamente obiettiva, è tanto forte quanto ingenua. I primi libri pubblicati su questo argomento non prendono però minimamente in considerazione il fatto che l’operatore cinematografico sia libero di scegliere quali immagini catturare e quindi di dare una interpretazione della realtà soggettiva. Già a pochi anni dalla nascita del cinema si pensava ai film come documenti da salvare per la loro capacità di rappresentare il vero. Nel XX secolo in questa direzione andarono tutti coloro che tesero a valorizzare l’importanza storica soprattutto dei documentari. La pretesa di una ricostruzione perfetta del passato, fino all’illusione di portare di nuovo in vita ciò che è scomparso, è antica quanto il mezzo fotografico; se non è, anzi, una delle forme che hanno contribuito a farlo nascere. Il cinema, come ha sostenuto Andrè Bazin, è il completamento dell’immagine temporale della oggettività fotografica1. Secondo il grande critico francese la caratteristica principale della fotografia, antenata del cinema, è la sua oggettività: l’immagine fotografica sembrava infatti l’unico metodo di riproduzione della realtà. All’oggettività della fotografia mancava qualcosa e questo qualcosa era la dimensione del tempo, del 1. A. Bazin, Che cos’è il cinema?, Garzanti, Milano 1973, pp. 3-9.

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La ‘storia’ senza Storia. Parte II.

movimento: con l’immagine cinematografica, dotata di durata e movimento, l’oggettività fotografica è divenuta finalmente completa. E così, apparentemente, il cinema o, meglio, i documenti filmati dell’origine, si sono rivelati lo strumento più adatto, anzi l’unico strumento veramente adatto, alla conservazione del passato. La fotografia prima e il cinema poi sembravano superare l’eterno problema dell’oggettività della registrazione dell’evento reale: «sembra quasi che con la nascita del cinema si siano realizzati pienamente quei principi che secondo gli antichi greci dovevano guidare l’attività dello storico. Gli storici greci scrivevano preferibilmente del presente, perché soltanto così potevano garantire alle loro opere autopsìa e acribìa. L’aver visto con i propri occhi – l’autopsia – e l’aderenza del reale – l’acribìa – erano le qualità necessarie di un’opera storica attendibile. Uno storico doveva parlare dei fatti di cui era stato testimone oculare, o di cui era venuto a conoscenza attraverso testimonianza diretta. Poi doveva narrare i fatti con assoluta precisione, in modo tale da rendere il racconto il più possibile conforme agli eventi»2. Nel far questo l’oggettività del ricordo e la testimonianza erano centrali. È la testimonianza, come dice Ricoeur, che ci porta dalla possibilità di fare storia al procedimento effettivo dell’operazione storiografica. «Con la testimonianza si apre una procedura epistemologica, che parte dalla memoria dichiarata, passa attraverso l’archivio e i documenti, e si compie sulla prova documentaria. La testimonianza ha molti usi: l’archiviazione in vista della consultazione da parte degli storici è soltanto uno tra questi usi, al di là della pratica della testimonianza nella vita quotidiana […]. Inoltre, all’interno stesso della sfera storica, la testimonianza non termina la sua corsa con la costituzione degli archivi, essa risorge all’interno del percorso epistemologico al livello della rappresentazione del passato per mezzo di racconti, artifici retorici, messa in immagini»3. L’uso della testimonianza ci pone immediatamente di fronte alla questione cruciale: fino a che punto la testimonianza è affidabile? Il sospetto che circonda la testimonianza si dispiega lungo una catena di operazioni che cominciano dal livello della percezione di una scena vissuta, continuano a livello della ritenzione del ricordo, per approdare al problema della restituzione 2. M. Diana, M. Raga, Cinema e scuola. I film come strumento di didattica, La Scuola Editrice, Brescia 2002, p. 120. 3. P. Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, op. cit., Milano 2003, p. 226.

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1. Il rapporto tra cinema, narrazione e realtà

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nella fase dichiarativa e narrativa dei tratti dell’avvenimento. Di fronte a questa articolazione si apre tutta una batteria di sospetti che coinvolgono l’asserzione di realtà, ma soprattutto ciò che da essa è inseparabile, l’autodesignazione del soggetto testimone, che dichiara: io c’ero! È il testimone a dichiararsi come tale. Egli nomina se stesso. Come sottolinea Ricoeur il testimone non si limita a dire “io c’ero!”; egli aggiunge “Credetemi!”. La testimonianza orale non deve solo essere certificata, ovvero riproposta, ma deve essere anche accreditata. Da qui si apre lo spazio di controversia nel quale molti testimoni, e molte testimonianze vengono messe a confronto. Il testimone affidabile dunque è colui che accetta di testimoniare, che accetta il confronto nello spazio pubblico e che è disposto alla reiterazione della testimonianza nel tempo. Ma il problema si apre con la tragica solitudine dei testimoni storici che hanno vissuto esperienze straordinarie e i cui racconti raggiungono solo per difetto la capacità di comprensione ordinaria. «Ci sono testimoni che non incontrano mai un uditorio capace di ascoltarli e intenderli»4. Questa fenomenologia della testimonianza storica fatta sulla scorta dell’analisi di Paul Ricoeur ci conduce al confronto con la testimonianza filmica che apparentemente sembra superare la batteria del sospetto che si pone alla testimonianza orale. Un documentario senza contesto storico senza mediazione interpretativa può anche significare ben altro da ciò che vediamo. Nasce quindi un problema di nuova interpretazione storiografica, tuttora in pieno sviluppo. Lo ricostruiamo sempre attraverso un punto di vista. Quindi l’inquadratura filmica, l’inquadratura cinematografica, è un esempio molto calzante, molto bello di come ogni evento, ogni dato della realtà (anche la realtà: nel cinema sono i corpi stessi che vengono filmati), attraverso le forme artistiche, venga in qualche modo proiettato, visto da un certo punto di vista. Il cinema non ci offre mai la realtà così com’è, ci offre punti di vista: non dobbiamo prendere mai alla lettera la rappresentazione degli eventi. La rappresentazione è sempre un punto di vista umano, ma non soltanto nell’arte, anche nella storiografia, nei libri di storia. C’è sempre una proiezione, un punto di vista, una ricostruzione, una rappresentazione. Non abbiamo mai la realtà fenomenica, così come è accaduta, questa non sarà mai ricostruita tale e quale. Il realismo (sempre relativo, s’intende, perché non esiste un cinema realista nel senso di riproduzione della realtà 4. Ivi, p. 233.

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La ‘storia’ senza Storia. Parte II.

in modo totale), il cinema verista o neorealismo, è uno dei tanti possibili linguaggi narrativi del cinema. Si deve evitare di cadere nel trabocchetto ideologico materialistico che sostiene che l’immagine in quanto pura e semplice riproduzione della realtà non mente mai. Anche quando sono basati su documenti concreti, finanche immagini realmente appartenenti all’epoca che si sta documentando, i documentari devono ricostruire in modo puramente immaginario la maggior parte di quello che mostrano. In questo modo la tradizionale alternativa tra documentario e cinema di finzione, oggettività dell’immagine e soggettività dell’affabulazione, viene subito superata. La finzione dunque non è presente solo nei film a soggetto, ma riguarda anche i documentari, come affermava Kracauer, «sotto forma di storia spontanea» intesa come quella che nasce dal materiale offerto dalla realtà fisica e che da essa emerge in modo autonomo5, come il senso della storia che nasce dall’interpretazione dei documenti storici frutto però della selezione del tempo. Apparentemente sembra che l’immagine filmica risolva, attraverso la sua presunta oggettività, tutta la batteria di sospetti che minacciano la testimonianza orale del ricordo: la percezione della scena vissuta, che nell’individuo può essere confusa, non dà problemi nella direzione del documento filmato, il quale mostra chiaramente ciò che ha filmato. Eppure già a questo livello molte sono le obiezioni; innanzi tutto la nostra visione reale non ha interruzioni e risulta libera di seguire gli stimoli di ciò che ci appare di fronte, cose queste che nel filmato possono mancare. Il sospetto che la testimonianza vissuta possa essere modificata dal tempo trascorso che corrompe la ritenzione del ricordo è ancora una volta apparentemente superata dalla oggettività del documento filmato, il quale non ha problemi di ritenzione dell’avvenimento filmato che rimane simile a se stesso nel tempo. Eppure anche qui vanno fatte delle puntualizzazioni importanti, a partire dalla banale osservazione della fragilità dei documenti filmati che possono deteriorasi attraverso un cattivo stato di conservazione che può portarli fino alla rovina totale. Inoltre il problema della conservazione dei documenti filmati passa per una scelta forzata, che decide quale documento viene deliberatamente scelto di conservarsi e quale cernita invece forzatamente fa il caso, facendo sparire la prima 5. S. Kracauer, Film: ritorno alla realtà fisica, Il Saggiatore, Milano 1962.

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1. Il rapporto tra cinema, narrazione e realtà

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parte di un documento filmato che magari modificava, o addirittura stravolgeva, il significato del documento filmato rimasto. Infine la fase dichiarativa, che nel caso di una testimonianza orale può essere una narrazione sconnessa del ricordo e che, invece, nel caso di un documento filmato, risulta limpida in ciò che mostra. Dobbiamo però ricordare che ciò che mostra un filmato può essere chiaro, ma può sfuggircene il senso. L’interpretazione di un documento filmato in realtà è ciò che è più difficile nella restituzione della testimonianza filmata. Nell’immagine il nostro punto d’osservazione è stabilito da chi ha realizzato il film e il nostro sguardo si identifica con quello della macchina da presa. Rispetto alla realtà lo sguardo dell’inquadratura perde per noi di libertà e segue un ordine logico voluto dall’operatore o dal regista. Tuttavia di fronte a un documento filmato abbiamo l’impressione che esso riproduca qualcosa di reale. Eppure anche quando il filmato sembra non mentire, con riprese apparentemente legate alla realtà, esso si serve semplicemente di alcuni frammenti di realtà per organizzarli secondo un certo ordine logico e drammatico; per questo il filmato (ma in generale il cinema tutto) ha la possibilità di mentire. Anzi, paradossalmente, la possibilità di mentire è forse più sviluppata nel cinema che non in altri tipi di linguaggio, in quanto il cinema altera la realtà attraverso frammenti di realtà. Tracciando una sorta di parallelismo con la menzogna, può essere che questa è tanto più credibile quanto più si serve ed è sorretta da particolari veri o credibili. Il cinema dunque ha nei confronti della realtà un rapporto equivoco, sia perché la visione stessa è diversa, sia perché diverso può essere il significato che assumono gli avvenimenti reali una volta che vengono tradotti e restituiti dal filmato. È ormai acquisito che le immagini non trascrivono il reale ma lo interpretano; non sono la fonte oggettiva ma una fonte soggettiva. Prima di considerare l’immagine filmica documentaria come oggettiva si devono ricordare il punto di vista dell’operatore che posiziona la macchina da presa e la direzione verso cui egli indirizza l’obiettivo. Ci sono il contesto storico, le motivazioni della ripresa, o i committenti, le ragioni politiche e propagandistiche (pensate alle riprese delle parate dei regimi totalitari), oppure semplicemente amatoriali, che determinano la realizzazione delle riprese. Facciamo subito un esempio: si svolge una battaglia – purtroppo le guerre sono il fatto più frequente di cui la Storiografia si occupa. Poniamo che lo storico sia stato presente sul campo di battaglia. Chiediamoci:

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La ‘storia’ senza Storia. Parte II.

quanta parte del campo di battaglia può avere visto? Soltanto una piccola parte, quella dove lui si trovava fisicamente. Se poi il fronte è grandissimo, la gran parte delle cose che egli racconterà la potrà apprendere solo da un altro. A questo punto la scientificità del suo racconto è già intaccata, in quanto, come studioso, lo storico avrà dimostrato di dipendere da racconti altrui, racconti che egli potrà sottoporre a critica, o mettere a confronto, ma che saranno sempre racconti altrui. Gli audiovisivi, dunque, costituiscono una documentazione della realtà su due livelli: in quanto raffigurano questa realtà nel senso che la registrano e la rendono perciò stesso analizzabile; e in quanto, raffigurandola, la filtrano attraverso una serie di categorie mentali che si connettono direttamente con la mentalità di un epoca. La tesi è valida per il cinema, per il documentario, per la televisione. Quando analizziamo un filmato che parla del passato dobbiamo porci nell’ottica di considerare il medium come agente di storia e come scrittore di storia che viene riproposta nel presente e che quindi spesso usa il passato attualizzandolo e interpretandolo con categorie dell’attualità. Il cinema nasce insieme e per la società di massa, viene utilizzato sia per allietare le persone, sia per condizionarne il pensiero. Le sale cinematografiche diventano luoghi di incontro e scambi di opinione. Storicamente è con la prima guerra mondiale, ovvero tra il 1914 e il 1918, che i governi cominciano a rendersi conto delle enormi potenzialità che offre loro uno strumento tanto affascinante quanto convincente come il cinema. In un periodo nel quale l’unica fonte di informazione per buona parte della società è ancora quella orale visto l’ancora diffuso analfabetismo, il film, grazie al potere oggettivante dell’immagine, riesce a trasformare qualsiasi racconto in mito dandogli un potere trascendente le vite delle persone. La prima guerra mondiale è una guerra totale, coinvolge non solamente i soldati impegnati nelle trincee, ma anche la popolazione civile impiegata nella fabbriche per la produzione di armamenti per il fronte. Un’intera generazione viene trascinata in una guerra estremamente violenta e terribilmente logorante. In tutta Europa vengono istituiti Ministeri per la propaganda, vere e proprie macchine di pubblicità il cui scopo è di suscitare l’entusiasmo patriottico nelle masse di uomini-soldati. I Ministeri della propaganda erano sicuramente impegnati nella definizione di miti che fossero in grado di raggiungere gli archetipi più profondi di tutti gli strati della loro società. Le immagini di guerra furono riprodotte

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1. Il rapporto tra cinema, narrazione e realtà

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con il mezzo cinematografico fornendo una quantità enorme di pellicole con lo scopo di garantire, anche alle persone lontane dal fronte, una testimonianza reale dello sforzo bellico sostenuto dall’Italia in guerra, oltre che documentare con evidente celebrazione un momento storico così importante. La guerra doveva in tal modo apparire mitica, sacra, nello stesso tempo cruenta solo quel poco che era considerato necessario per tenere acceso l’odio verso il nemico. La produzione filmica si fa quindi imponente, tutti i paesi belligeranti fanno a gara per produrre nuovi film: la Francia produce film per diffondere nella popolazione l’idea che la colpa della guerra sia dei tedeschi, l’Italia produce film inneggianti ai valori del risorgimento e della guerra come mito unificante della appena nata nazione (l’Italia si è unificata da appena 50 anni quando scoppia la prima guerra mondiale). Tutti i film comunque inneggiano al coraggio dei soldati e all’importanza di sostenere le ragioni della guerra. Studiare le scelte dei grandi uomini protagonisti del nostro passato non è l’unico modo per capire e studiare la storia. Altrettanto importante è capire quale fosse effettivamente il clima all’interno della popolazione e le condizioni in cui questi grandi personaggi devono effettuare le loro scelte. In questo senso la cinematografia ci consente proprio di cogliere questi aspetti riuscendo a farlo in un duplice senso: da un lato possiamo vedere quale fosse il linguaggio adottato dalla propaganda per convincere la popolazione relativamente ai valori della patria, della guerra e dell’odio nei confronti del nemico. Dall’altro lato abbiamo la possibilità di studiare quale fosse la ricaduta sul pubblico dei messaggi veicolati dal film. In questo caso interesse dello storico non è tanto giudicare i film in base alla loro bellezza estetica in quanto forma d’arte, al valore del regista, degli attori o della sceneggiatura. Ciò che è fondamentale per uno storico è che i documenti utilizzati, in questo caso i film, siano in grado di dare delle risposte soddisfacenti alle domande in questione. Il tempo del reale passato del documentario è sempre ricostruito attraverso un punto di vista: l’inquadratura filmica. L’inquadratura cinematografica è un esempio molto calzante, molto bello di come ogni evento, ogni dato della realtà – anche la realtà stessa –, attraverso le forme artistiche venga in qualche modo proiettato, visto da un certo punto di vista. Il cinema, anche quello documentario, non ci offre mai la realtà così com’è, ma ci offre dei punti di vista, e questo è un esempio interessante

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La ‘storia’ senza Storia. Parte II.

del perché non dobbiamo prendere mai alla lettera la rappresentazione degli eventi. Un documento filmato, analizzato senza contesto storico, senza mediazione interpretativa, può anche significare ben altro da ciò che vediamo. Nasce quindi un problema di nuova interpretazione storiografica, tuttora in pieno sviluppo. Decodificare, interpretare le immagini dei documentari, sono ormai per lo storico un esercizio pari a quello più tradizionale della lettura dei documenti. Naturalmente, come nel rapporto tra cronaca e storia e nel rapporto tra romanzo storico e romanzo verista o neorealista, c’è un’arte che racconta da dopo, che ricostruisce a posteriori, e c’è un’arte, che partecipa e riproduce direttamente con il suo linguaggio.

2. Realtà, impressione di realtà, nuova realtà Come abbiamo visto di fronte a un filmato (documento, film di finzione, o altro) possiamo avere l’impressione di veder riprodotto un avvenimento reale: questa caratteristica, propria del linguaggio cinematografico, si può battezzare con il nome di impressione di realtà. Ogni film, filmato o documento nasconde, in un certo senso, un modo di vedere le cose che potremmo definire una visione del mondo e da questa discendono tutti gli accorgimenti con cui il filmato viene costruito. Sarebbe sbagliato chiederci se ciò che abbiamo visto sullo schermo (piccolo o grande che sia) assomiglia effettivamente alla realtà, mentre è corretto cercare di capire quale nuova realtà produce. Si deve innanzi tutto distinguere un documento filmato, inserito poi in un documentario o da solo, e un documentario o un film di finzione, poiché questi ultimi danno già un’interpretazione esprimono un punto di vista. Dopo aver visto che il documento filmato non riproduce la realtà, cerchiamo di capire cosa producono i film, documentari o di finzione che siano. Il cinema fa parte delle diverse forme del pensare la conoscenza della verità sicuramente altre dal pensiero del razionale: il mito, l’immagine pittorica, il linguaggio della poesia, la musica e altri linguaggi ancora, i quali non si prestano a una decodifica puramente scientifica. Possono essere descritti nel loro funzionamento, ma, proprio per lo scarto con il reale che li caratterizza, descrivere il loro meccanismo non equivale certo a esplici-

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1. Il rapporto tra cinema, narrazione e realtà

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tare il significato o il senso che essi possiedono. Il senso di un filmato, in questo simile a un sogno, conduce sempre oltre il manifestarsi apparente, verso quello che suggerisce allusivamente, al di là degli intrecci o delle trame6. Si situa in questo ambito quello che si può definire intraducibilità del concetto filmico, pena la sua banalizzazione. L’atto cinematografico di percezione-riflessione innescato dal cinema attiva l’esperienza di un Altro Reale, un vero e proprio nuovo mondo creato dinamicamente sullo schermo dalle immagini proposte dall’autore e dall’atto di pensiero dello spettatore. Il convergere delle due azioni mette in moto una nuova realtà fatta di concetti, pensiero in atto, e dunque definisce già il carattere concettuale del cinema. Nell’atto cinematografico si attua una sospensione della referenza che viene in un certo modo differita, e così il testo cinematografico7 che nasce dall’atto cinematografico (definito in precedenza come la convergenza dei due atti, l’incontro dello sguardo pensante dello spettatore con la proiezione della scrittura dell’autore) viene liberato dall’immediatezza del reale attraverso un occultamento del suo mondo contestuale che lo rende capace di aprirsi a un rapporto con un mondo altro, un’esperienza di un altro reale, un mondo immaginario ma non per questo non esistente. La sua materialità non appartiene allo stato inerte della pellicola, ma allo stato vitalistico del film, che riposa in quell’impressione di movimento e di 6. Le opere che riguardano i linguaggi che non si prestano a una decodifica puramente epistemica, richiedono la complementarità con il lavoro ermeneutico, lavoro dove non scioglie la tensione tra il simbolo e il suo significato, ma in cui il senso primario, letterale designa per sovrappiù un altro senso indiretto e secondario che però può essere appreso soltanto attraverso il primo. Secondo Paul Ricoeur sia la metafora che il racconto, strumenti con i quali queste opere si danno, vanno interpretati, e l’interpretazione è un lavoro che consiste nel decifrare il senso nascosto nel senso apparente, nel dispiegare i livelli impliciti nella significazione letterale. Cfr Ricoeur P., Dell’interpretazione. Saggio su Freud, Il saggiatore, Milano 1967; Il conflitto delle interpretazioni, Jaka Book, Milano 1977; La Metafora viva, Jaka Book, Milano 1976; Tempo e racconto, Jaka Book, Milano, 1986. 7. Il modello di integrazione tra ermeneutica e epistemologia presentato da Ricoeur a partire dalla fine degli anni sessanta, per quanto segnato da molteplici aporie, sembra operativamente molto fecondo, in quanto se da una parte eredita il comprendere come origine e come telos dell’ermeneutica romantica che da Schleiermacher arriva fino a Gadamer, dall’altra affida un ruolo indipendente alla spiegazione e dunque all’oggetto indagato, rispettando il testo narrativo come tradizione nella sua autonomia, affinché la comprensione delle tracce non risulti strumentale alla costruzione di paradigmi soggettivi.

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La ‘storia’ senza Storia. Parte II.

realtà che è divenuta nel frattempo essa stessa nuova realtà, impressione più problematica perché connessa a tutti i procedimenti della memoria, della conoscenza della percezione e dell’inconscio. Quando si parla di cinema spesso il riferimento principale delle analisi sono i contenuti di un film, i temi che dovrebbero trasmettere qualche messaggio. Un approccio di questo tipo al cinema è dato dall’impressione di realtà prodotto dal dispositivo cinematografico sullo spettatore. Il senso di un film quasi sempre è sussunto dal susseguirsi degli accadimenti della storia, e dalla loro più o meno aderenza alla realtà. Spesso questo tipo di approccio dimentica la forma della messa in scena del racconto, lo sguardo, la luce e la forma che il film adopera per mostrare gli accadimenti della storia e il senso che la nostra percezione gli offre: in realtà è qui che vanno ricercati l’esplicitazione di un pensiero o di un concetto. La teoria dell’arte cinematografica come riflesso della realtà, che trovava la sua fondazione nell’estetica materialistica, si è dimostrata insufficiente all’esplicazione del testo filmico, come quella semiologica e strutturalista, che con il suo ridurre il film a un insieme di segni portava l’analisi del testo filmico a un vicolo cieco. Questo perché esiste sempre uno scarto tra la cosa rappresentata e la sua rappresentazione filmica, uno scarto che presenta un margine di arbitrarietà contrassegnato da un arricchimento problematico di senso. Ovviamente, così proponendosi l’analisi di un film diventa non un esposizione sistematica ma un pensiero aperto sulla contraddizione, sull’incertezza, su «un ampio ventaglio di libertà»8. In questo modo, e forse per primo, Bela Balàzs, allievo di Bergson, aveva già preso nota del fatto che il cinema dispiega le sue funzioni su un terreno incerto e difficile, in cui al nostro occhio sfugge sempre qualcosa che riempie di immaginazione. Questo aspetto di cui parlava Balazs è simile a quello indicato da Walter Benjamin nelle sue riflessioni sulla poesia o sulla parte muta e silenziosa della lingua, che gli appariva come simbolo del non comunicabile. Per Benjamin il cinema era l’analogo della città, anzi la città nelle mille insidie della sua topografia era analoga al cinema: una serie di immagini che il viaggiatore poteva percorrere ogni volta in modo diverso. «La città come

8. B. Balàzs, Il film. Evoluzione ed essenza di un’arte nuova, Einaudi, Torino 1987.

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1. Il rapporto tra cinema, narrazione e realtà

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il film, si maschera, fugge, inganna, chiama a percorrere i suoi meandri fino all’estenuazione»9. Bazin, allievo di Sartre, parlava invece di «allucinazione vera»10, riprendendo questa formula contraddittoria (un ossimoro) proprio da Sartre. La domanda dunque è questa: perché tanti hanno definito il cinema attraverso queste formule che fanno del paradosso il loro fondamento? Lo abbiamo detto in precedenza perché il linguaggio del cinema è simile a quello del mito. Tra le sue prerogative principali, come abbiamo visto, il mito ha l’intraducibilità e la metamorfosi: essendo un sistema aperto, reinventa originalmente il proprio racconto ogni volta che esso viene raccontato. Non ci piace, ed è certo, decifrare un film come fosse un rebus come se il riferimento principale delle analisi fossero i contenuti di un film, i temi che dovrebbero trasmettere qualche messaggio, tanto meno quanto questo è ricco di suggestioni visive, di confronti emotivi che trovano la loro ragion d’essere proprio nell’irrazionalità dell’immagine, una legittimazione che proviene dalla singola percezione, che ci prova, ci fa cogliere nel nostro essere, il senso più autentico, che non sia mero adeguamento al già dato susseguirsi degli accadimenti storici, e dalla loro più o meno aderenza alla realtà. L’impressione di realtà non è dunque la realtà. Questo è il primo punto da cui si deve partire per capire il cinema. Il cinema gioca su alcuni elementi del linguaggio della realtà ma non ne può riprodurre l’essenza, anzi genera una nuova realtà fatta di concetti, sensazioni, nuova memoria. L’esito del susseguirsi di varie interpretazioni di un medesimo filmato, si configura come una sorta di storia degli effetti gadameriana: non esiste un senso già dato del filmato, ma un orizzonte di interpretazione rinnovabile; ciò non vuol dire che tutte le interpretazioni si equivalgano. La felicità di un’interpretazione non dipende dalla sua conformità con il senso inteso (del resto, come tale, inesistente), ma dai suoi effetti, e cioè dalla capacità di far più o meno riflettere, la capacità o meno di aprire l’orizzonte di senso cui l’opera vuole mirare. Tocchiamo il problema più specifico del cinema, che però è anche il problema del punto di vista figurativo che assume l’arte, il racconto. Naturalmente rappresentando la realtà in qualche modo la si deforma, 9. W. Benjamin, Immagini di città, Einaudi, Torino 1971, p. 10. 10. Cfr. A. Bazin, Che cos’è il cinema?, op. cit., p. 15.

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La ‘storia’ senza Storia. Parte II.

anche con una forma di rappresentazione come il cinema che appare assolutamente realistica, come il neorealismo. Attraverso la rappresentazione in qualche modo si interviene sul senso della realtà: il significato reale di ciò che accade non lo potremo mai afferrare. Come abbiamo avuto modo di vedere, ciò accade anche quando la riscostruzione si basa su documenti concreti, finanche su immagini originali dell’epoca che si sta documentando: i documentari devono ricostruire in modo puramente immaginario la maggior parte di quello che mostrano; pensiamo al montaggio, spesso arbitrario, dei filmati storici.

3. Film come testo narrativo Dopo aver parlato del problema dell’equivoco del reale, del documentario e dell’impressione di realtà del cinema, passiamo ad analizzare il film come testo narrativo nei film di finzione. Se, come abbiamo detto, l’impressione di realtà nella convergenza di sguardi tra la pellicola che scorre e lo spettatore che guarda genera una nuova realtà, soprattutto per i film esplicitamente di finzione, non dobbiamo dimenticare che questa nuova realtà è spesso un racconto, una storia dataci attraverso la narrazione. I film di finzione ci proiettano in avvenimenti, esprimono e raccontano storie al pari di un testo narrativo, quindi oltre a un’analisi di tipo ermeneutica dell’immagine è bene analizzare il film attraverso l’analisi del suo racconto. Si tratta di un piano diverso di analisi, ma che deve essere successivo a ciò che si è detto; il cinema ci offre un’impressione di realtà, non la realtà. Quindi anche il racconto che più apparentemente sembra legato alla realtà, è un racconto che crea una nuova realtà a partire proprio da quell’impressione di realtà. Anche il cinema ha la capacità di raccontare storie, solo che invece delle parole in successione usa immagini in successione: un film infatti non soltanto racconta, ma in più mostra. Visto che ci occuperemo dei film a soggetto storico vale la pena di iniziare l’analisi dal rapporto tra cinema e letteratura, andando poi ad approfondire il rapporto che si instaura con quella particolare produzione letteraria che è la narrazione storica, il racconto storico o il romanzo storico.

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1. Il rapporto tra cinema, narrazione e realtà

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Fin dalle origini il cinema ha sempre avuto strettissimi rapporti con la letteratura, anzi si può tranquillamente affermare che per moltissimo tempo il cinema ha sfruttato testi e filoni letterari, trovando in questi gli spunti per le sue storie. Sono proprio i testi letterari e teatrali che forniranno per molto tempo e, ancora oggi, i soggetti di gran parte dei film. È chiaro che essendo il cinema un’arte che mostra, più che altro vengono sfruttati tutti quei racconti a forti tinte e ricchi d’azione e di colpi di scena proprio per la maggiore capacità del cinema di mostrare e non di narrare per astrazioni. Occorre molta sensibilità per mettere in pellicola, senza scadere nel simbolico o didascalico, romanzi che fanno dell’intensità emotiva e della povertà d’azione i loro presupposti. Al cinema spesso basta un’inquadratura per mostrare pagine e pagine di letteratura che descrivono una sensazione o un’immagine; e nonostante l’inquadratura possa riprodurre fedelmente, si perde la magia dell’evocazione che le parole scritte hanno provocato. Viceversa una frase di un testo letterario spesso può descrivere ciò che al cinema si può ricreare solo attraverso metri e metri di pellicola, senza per ciò stesso cogliere il medesimo risultato. Insomma la puntualità filologica delle cosiddette traduzioni dalla letteratura al cinema sono una annosa questione, che nasce con il cinema stesso e che è ben lontana dall’essere risolta. In realtà l’unica possibilità di affrontare il problema in maniera seria è quella di rispettare l’assoluta diversità tra i due medium narrativi, senza far sentire il cinema succube per la sua impressione di realtà che può essere considerata un limite nei confronti della parola scritta, la quale si serve e si arricchisce di figure retoriche o altri escamotage narrativi per evocare. L’autentico modo di rapportarsi alla letteratura per il cinema è quello di sentirsi non prigioniero del testo, ma forma d’arte autonoma che prende a pretesto (come da sempre fanno le altre arti, dalla pittura alla scultura, dalla musica al teatro nei confronti della letteratura)11 una forma di linguaggio per trasformarla 11. Molti tipi di pittura, quadri, affreschi o altro prendono spunto o semplicemente vogliono illustrare un testo. Si pensi agli affreschi che mostrano avvenimenti sacri tratti dalla Bibbia, o ai quadri che illustrano racconti di battaglie. In questi la questione filologica della aderenza o meno al racconto è certamente non ignorata ma messa al servizio di un’analisi che prevede l’autonomia del linguaggio artistico. Stesso discorso, anche più radicale, si può fare con la musica, che prende spunto da miti leggende letterarie o romanzi. In essa l’analisi dell’aderenza o meno al testo risulta quanto meno anacronistica visto la specificità del medium.

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in un altro linguaggio raggiungendo la profondità e il senso del testo letterario attraverso i propri mezzi. D’altro canto basterebbe sollevare la questione del narratore per porre una differenza fondamentale tra il racconto scritto o parlato e quello cinematografico. Nei primi è sempre presente la figura di un narratore. In un film le cose accadono sullo schermo davanti a noi, e noi vediamo i personaggi, gli ambienti. Non c’è nessun narratore, ma solo la narrazione. Nel proseguio di questa parte ci occupiamo del cosiddetto cinema storico, che, in non pochi casi, è una traduzione di qualche racconto o romanzo storico. La problematica più complessa nel cinema storico, ma in generale in tutto il cinema in rapporto alla narrazione scritturale (storica o letteraria), è quella riguardante la questione del narratore. Il racconto letterario, al di là del narratore esterno, interno, onnisciente o in prima persona, gode di una situazione privilegiata perché l’autore anche se nascosto svolge il proprio ruolo in modo esplicito. Spesso tra il narratore e l’autore nella letteratura vi è un rimando diretto. Nel cinema, invece, tra l’autore reale (regista o cineasta) e l’eventuale narratore intercorrono diverse istanze intermedie date dal mezzo di riferimento: l’immagine in movimento. Ogni film si ordina intorno a un fuoco linguistico virtuale che si colloca al di fuori dello schermo. Chiamiamolo narratore filmico. Si tratta ovviamente di una figura virtuale di cui l’opera del regista e degli altri realizzatori del film ha dato origine e che, alle nostre spalle, proietta e dirige la nostra attenzione con molta puntualità ora su questo o quel dettaglio, e che ci fornisce le indicazioni necessarie per procedere nel ritmo del film. Nel caso del film il problema del narratore è oltretutto sovradeterminato dal fatto che la pellicola può presentare un narratore verbale, visibile o meno, il cui ruolo è del tutto paragonabile al narratore scritturale. Ma questo narratore verbale del racconto filmico che racconta oralmente determinate peripezie, è solo un coadiuvante del narratore filmico. In questo caso si possono usare le categorie delle letterature e definire racconto con narratore intradiegetico (cioè interno alla storia raccontata, alla diegesi), quello nei quali il narratore è un personaggio della vicenda. Più rari sono quei film in cui i fatti sono raccontati o commentati da una voce che non appartiene alla vicenda, cioè di un narratore che non può essere identificato con nessun personaggio della vicenda, in questo caso si parla di racconto con narratore extradiegetico (tra i casi più famosi e riusciti c’è senza dubbio il capolavoro di Kubrick Barry Lyndon, in cui

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1. Il rapporto tra cinema, narrazione e realtà

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il narratore è una voce fuori campo che non appartiene a nessuno). Per questo, anziché di narratore, nel cinema è meglio parlare di un’istanza narrante, una procedura che rende possibile l’incedere del racconto. Ciò non toglie che nel film possa esserci un vero e proprio narratore, che, attraverso la sua voce, ci racconta la storia come se leggesse un’opera letteraria. Per concludere un discorso che potrebbe portarci molto lontano nel rapporto tra cinema e letteratura, si deve dire che la definizione del racconto è differente, anche se il più delle volte cinema e letteratura non hanno una differente concezione della narratività. Se abbiamo qualche legittimità nel parlare di racconto filmico bisogna che fin dall’inizio le categorie di racconto e di narratore siano state elevate al di sopra dell’investimento che queste hanno nell’opera scritta12. Non è più il caso di affrontare il film come una forma di racconto attraverso gli strumenti presi a prestito dalla narratologia letteraria, si rischierebbero forzature indebite ma soprattutto si limiterebbe la potenza artistica di un mezzo come il cinema che, come detto in precedenza, va analizzato attraverso la forma propria della sua costitutiva essenza: l’immagine movimento organizzata dal montaggio. Risulta evidente poi che, essendo il cinema anche composto da un’eterogeneità di linguaggi, si può parlare in esso di un pittorico, di un letterario, di un musicale e di analisi legate ad

12. Sul rapporto tra cinema e letteratura sono stati spesi fiumi di inchiostro, ci limitiamo a citare alcuni dei testi fondamentali sul tema: A. Abbruzese, Cinema e letteratura, in Produzione e consumo, vol. II, Letteratura italiana, Einaudi, Torino 1983; V. Attolini, Dal romanzo al set: cinema italiano dalle origini a oggi, Dedalo, Bari 1988; S. Cortellazzo, D. Tomasi, Letteratura e cinema, Laterza, Roma-Bari 1998; A. Costa, Immagine di un’immagine. Cinema e letteratura, UTET Libreria, Torino 1993; G. P. Brunetta (a cura di), Letteratura e cinema, Zanichelli, Bologna 1976; per il resto rimandiamo alla bibliografia. Senza dubbio va citato il testo di A. Gaudreault, Dal letterario al filmico, con una prefazione di Paul Ricoeur che chiarisce molto bene la nostra riflessione sulla diversità di specie tra la narrazione letteraria e quella cinematografica: «Bisognava mostrare con eguale forza ciò che specifica le categorie generiche del racconto e del narratore nei tre campi dello scritto della scena e del film; in altri termini bisognava mostrare che la differenza tra questi tre campi non è una semplice differenza di medium estraneo a quelle categorie, ma precisamente di specie narrativa all’interno del genere narrativo. […] Questo lavoro di chiarificazione […] autorizza a porre la questione cruciale: che cosa è il narrabile, preso a monte del suo triplice investimento: scritto, scenico, filmico? Che cosa autorizza di volta in volta a parlare di racconto senza confondere la specie con il genere?» Paul Ricoeur, Prefazione, in A. Gaudreault, Dal letterario al filmico. Sistema del racconto, Lindau, Torino 2000, pp. 5-9.

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La ‘storia’ senza Storia. Parte II.

altre forme artistiche, senza che ognuna esaurisca il senso e l’autonomia del film. Definiamo il film come una totalità singolare fatta di un insieme di codici. Un insieme di codici visivi e sonori che però inglobano in sé una grande varietà di altri elementi non necessariamente audiovisivi. Quindi nell’ambito di questa totalità singolare troviamo una serie di codici specifici (la riproduzione del movimento, le inquadrature, le sequenze, le scene, i movimenti di macchina) e i codici non esclusivi del cinema (la prospettiva, la narrazione, la recitazione, la scenografia, l’illuminazione) che possono essere investigati a partire anche da altre decodifiche. Nonostante l’assenza di un narratore di tipo letterario che guidi con la sua voce lo spettatore, anche al cinema si può parlare di racconto, può in esso essere riconosciuta una storia; in qualsiasi tipo di film narrativo di finzione esiste cioè un concatenarsi di situazioni, con cui si confrontano i personaggi, che a loro volta si trovano coinvolti in determinati ambienti, resi visibili dagli scenari e ogni racconto si nutre di un particolare linguaggio cinematografico. Questi sono gli elementi che possono essere analizzati per dare conto della narrazione cinematografica, i quali verranno presi in considerazione quando si parlerà della definizione di genere applicata al cinema.

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Capitolo 2.

Cinema e Storia

«“Sono stato più volte interrogato dalla polizia, signori. Credo sia difficile che io possa aiutarvi, dal momento che non ho saputo aiutare la polizia.” “È possibile, madame, che io non le rivolga le stesse domande.”» (A. Christie)

1. I rapporti tra cinema e storia

I

l cinema e la conoscenza storica hanno in comune alcune caratteristiche fondamentali, come l’osservazione della realtà e la registrazione dei fatti. «Non a caso la parola greca historìa deriva da una radice indoeuropea che è la stessa di vedere. E vedere è un verbo che ha molto a che fare con il cinema»1. Analizzare i rapporti tra cinema e storia non è dunque una cosa semplice né pacifica, anche perché il problema è tanto difficile da circoscrivere a causa dei termini che lo riguardano. «Lo stesso vocabolario rende impossibile ridurre lo spettro degli argomenti in ballo»2. Il cinema intrattiene rapporti molto stretti con la storia intesa sia come le res gestae (le cose avvenute, gli eventi), quanto con l’historia rerum gestarum (il loro racconto), sia ciò che noi definiamo l’insieme dei fatti storici, sia la disciplina che studia tali fatti. Anche il vocabolo cinema presenta un certo grado di confusione. Comprende infatti tutta la produzione adatta ad essere proiettata in un cinematografo: film, documentari, cartoni animati, corto e lungometraggi, ma queste sono forme filmiche assai diverse tra loro, che partono da premesse diverse e hanno scopi diversi. Dunque già da queste prime indicazioni sappiamo che il rapporto tra storia e cinema è molto articolato, e può essere definito solo sgombrando il campo da equivoci ed evitando di confondere i piani interpretativi. 1. M. Diana, M. Raga, Cinema e scuola. I film come strumento di didattica, La Scuola, Brescia 2002, p. 120. 2. M. Safilippo, Historic park. La storia e il cinema, op. cit., p. 10.

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La ‘storia’ senza Storia. Parte II.

In partenza, definiremo tale rapporto in base a tre macro categorie interpretative, che andranno poi via via puntualizzate e affinate nella misura in cui ci si avvicinerà al fuoco del problema. I rapporti tra cinema e storia possono essere schematizzati in questo modo: 1. La storia del cinema: come qualsiasi altro fenomeno culturale o sociale, il cinema ha una sua nascita e un suo sviluppo, quindi se ne può studiare la storia; di essa se ne occupa la storiografia cinematografica; si tratta di una disciplina che ha una sua metodologia (ricerca delle fonti, analisi, interpretazione e racconto) e un suo oggetto di indagine (il cinema), al pari di altre storie settoriali (storia della letteratura, storia dell’architettura, storia della filosofia, storia del teatro ecc.); 2. La storia nel cinema: i film possono essere mezzi di rappresentazione della storia più o meno corretti, più o meno oggettivi; spesso illustrano dei fatti storici, raccontano eventi storici, insomma sono immagine della storia. 3. I film nella storia: i film possono assumere un importante ruolo nel campo della propaganda politica, nella diffusione di un’ideologia, nella divulgazione di una moda, di una tendenza o di un costume pubblico; le immagini hanno un ruolo nel processo di costruzione di miti, simboli e soprattutto valori nell’ambito della nostra società. Le relazioni tra cinema e contesto sociale sono molto strette, e il cinema può influenzare in maniera non secondaria la società cui si rivolge. In quest’ultimo aspetto, dunque, il cinema può essere come dice Marc Ferro agente della storia, vale a dire un agente che interviene a costituirla, modificarla e a condizionarla. Si pensi, come vedremo tra breve, al ruolo che il cinema ha avuto come strumento di propaganda nei regimi totalitari dal Fascismo (pensiamo alle biografie del periodo fascista o ai documentari o ai cinegiornali dell’istituto Luce), o al nazismo, al comunismo, all’America del New Deal di Roosevelt e, in generale, all’importanza nella sua diffusione di modelli comportamentali e ideologici. In generale tutti i film sono dei documenti storici. Ma, a maggior ragione, diventa documento importante nella storiografia, filmica o generale, il film che è stato un’agente di storia. Come tutti gli agenti di storia, nel momento in cui si sono riconosciuti come tali, diventano anche fonte di ricerca storica cioè fattore di documentazione storica3. 3. Cfr A. Costa, Saper vedere il cinema, Bompiani, Milano 2000, p. 15.

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2. Cinema e Storia

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«È stato detto che fin dai suoi inizi il cinema si è nutrito di storia a tal punto che la sua storia è storia del suo rapporto con la storia. Il che vale per molti fenomeni ma con il cinema si dilata e assume sempre più altre valenze»4. I differenti modi di affrontare il rapporto tra cinema e storia appena elencati sono solo categorie interpretative che non definiscono assolutamente griglie cinematografiche, alcuni film possono appartenere all’una o all’altra prospettiva. Questi modi di affrontare il problema sono indicativi solo della difficoltà di stabilire un rapporto univoco, e degli equivoci che si creano nel ridurre il rapporto a un’unica prospettiva, né tale riduzione sarebbe auspicabile ai fini della chiarezza d’impostazione. L’aspetto che qui ci interessa è evidentemente il secondo, vale a dire la narrazione dei film aventi come soggetto la storia, che sono, cioè, immagini della storia; ci occuperemo però preliminarmente di chiarire come un film diventa agente o fonte di storia per poi passare, alla fine di questo capitolo e totalmente nell’altro, a definire il film storico e a proporre una sua analisi; vedremo che anche questi (anzi forse soprattutto questi) possono essere agenti di storia e dunque documentazione storica per gli storici che li consultano al pari di altre fonti di archivio, a dimostrazione della labilità dei confini sopra stabiliti. L’utilizzo della produzione filmica a scopi storiografici è ormai un dato acquisito, dopo le riflessioni della scuola storiografica francese delle Annales sull’ampliamento del campo dei documenti ammissibili per la ricerca storica. Mentre in precedenza la storiografia anglosassone aveva qualificato come possibile fonte complementare soltanto la produzione di documentari di propaganda.

2. Il dibattito su cinema e storia nel corso del Novecento Il rapporto tra cinema e storia, scandito da diverse riflessioni che vanno via via aumentando con il secondo Novecento, nasce con la nascita del cinema alla fine dell’Ottocento. Già nel 1898 si intuisce la capacità cinematografica di sottrarre i fatti storici all’oblio. «A tre anni dalla prima rappresentazione pubblica dei fratelli Lumière, il polacco Boleslas Ma4. G. Gori, Introduzione, in P. Sorlin, La storia nei film. Interpretazioni del passato, La Nuova Italia, Firenze 1984, p. XI.

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La ‘storia’ senza Storia. Parte II.

tuszewski inviava una lettera aperta al quotidiano Le Figaro per raccomandare la conservazione dei film a causa del loro valore storico e della capacità di resuscitare i morti. E in quella direzione andarono, poi, tutti coloro che nel corso del XX secolo tesero a valorizzare in primo luogo l’importanza storica dei documentari e la loro visione critica…»5. Il suo invito riguarda esclusivamente le opere che sono testimonianze dirette del presente, poiché egli presume che possano divenire fonte privilegiata per successivi lavori. Matuszewski anticipa gli studi sui documentari sui cinegiornali e sui documenti filmati in genere, «per eccellenza il testimone veridico e infallibile», ma esclude categoricamente le opere di finzione6. Questo è l’indirizzo che governa il rapporto tra cinema e storia per tutta la prima metà del Novecento. Il cinema storico, fino agli anni CinquantaSessanta, sarà sempre identificato con il documento filmato o il documentario. Questo anche grazie agli studi anglosassoni. La ricerca britannica, incline agli aspetti documentaristici, si interessa alla conservazione, allo studio e alla possibilità d’uso didattico del materiale filmico strappato alla dimenticanza e alle guerre. Sono soprattutto la diffusione dei documentari tra il 1939 e il 1945, anni in cui Hollywood mette in moto una prodigiosa macchina testimone-documento di un’epoca, che influenzano gli studi tra cinema e storia. Diversi registi si arruolarono proprio con il compito di produrre documentari. Registi come H. Hitchcok lavorarono al materiale ripreso durante l’entrata dell’esercito anglo-americano in Germania, nel dopoguerra, insieme ad altri registi inglesi. A questi registi (Sidney Bernstein) dobbiamo un materiale documentaristico sui campi di sterminio nazisti importante per la memoria storica e l’interpretazione. Documentari, quindi, che sono un valido contributo per la conoscenza la formazione delle nuove generazioni. Decodificare, interpretare le immagini diventa per lo storico un esercizio pari a quello più tradizionale della lettura dei documenti; la ricerca storica inglese, notevolmente interessata al rapporto cinema e storia, attraverso alcuni studiosi fonda nel 1972 la rivista “Film & History” che raccoglie diversi contributi.

5. A. Vigano, Storia del cinema storico in 100 film, Le Mani, Genova 1997, p. 14. 6. Cfr. G. Grazzini, La memoria negli occhi. Boleslas Matuszewski: un pioniere del cinema, Carocci, Roma 1999; G. Dondolino, Il Cinema, in Il Mondo contemporaneo, vol. X/3, La Nuova Italia, Firenze 1981.

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2. Cinema e Storia

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In Italia riflessioni sul rapporto tra cinema e storia sono affidate ai critici cinematografici di impostazione materialistica della corrente lukàcsiana, che rifacendosi all’Estetica dell’autore ungherese vedevano nella creazione artistica una forma di rispecchiamento del mondo esterno7. Sono De Sanctis, Gramsci e Lukács i precettori e gli ispiratori di Aristarco, «l’esigenza di rinnovamento trova nei loro nomi una prospettiva nuova, una metodologia non frigida ma militante»8. Negli anni Cinquanta Aristarco conduce una polemica per il passaggio dal Neorealismo al realismo, da un cinema di documento, cronachistico, di denuncia a un cinema critico. Un passaggio dalla cronaca, rappresentata dal documento filmato, alla storia, rappresentata dal film storico. Pur essendo una voce importante, quella di Aristarco non fu ascoltata, soprattutto dagli storici, e fino a tutti gli anni Settanta ancora molti critici credevano che «…l’unico cinema in grado di assolvere una funzione storiografica, non intesa come mitologia ma come filologia del passato, è quello costruito a partire da […] documenti dell’attualità cinematografica. Le immagini d’epoca sono i veri, anzi gli unici, pre-testi storici che possono far arrivare a un testo cinematografico storicamente fondato»9. Un tentativo di risposta alla domanda sullo storico nei film fu proposto da una ricercatrice e autrice cinematografica ungherese, anche lei evidentemente, vicina alle posizioni di Lukàcs, Yvette Birò. Intervenendo

7. Tale metodologia critica promossa intorno al 1950 da Guido Aristarco, e poi sviluppata dall’attività della sua rivista, Cinema nuovo (sulla falsariga di principi che si richiamano in generale come loro base ideologica, all’estetica del marxismo segnatamente del marxismo di György Lukács), veniva proposta nel suo testo Storie delle teoriche del film. Qui l’autore si auspicava un pieno «e motivato ripudio dell’estetica idealista…» e l’inizio di un discorso che faceva riferimento a norme estetiche più generalmente valide: considerare il film in base a un criterio metodologico decisamente storicistico. Successivamente fu Oldrini a portare avanti quest’istanza critica che si proponeva un abbandono dei canoni formalistici, un rifiuto dello specialismo pseudo-estetico volto alla costruzione di astratte teorie del film, e la loro sostituzione con canoni valutativi esportati dall’arte e dalla cultura in generale, che inserivano l’arte filmica nel principio d’unità di cultura. Dunque, non più limitazione di confine tra una sfera e l’altra della prassi creativa. Cfr. G. Aristarco, Storie delle teoriche del film, Einaudi, Torino 1963, pp. 56-64. Inoltre cfr. G. Oldrini, Problemi di teoria e storia del cinema, Guida, Napoli 1976, pp. 5-6. 8. G. Aristarco, Storie delle teoriche del film, op. cit., p. 59. 9. L. Miccichè, Cinema e storia, in La ragione e lo sguardo, Edizioni Lerici, Cosenza 1979, pp. 181-189.

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La ‘storia’ senza Storia. Parte II.

a Roma a un convegno sul film storico italiano di finzione10 la studiosa sostenne che «il cinema storico fosse qualcosa di molto più complesso di un semplice spettacolo a buon mercato per distrarre un pubblico poco esigente, che mette in scena drammi esotici ambientati in un passato mitico». Piuttosto il cinema storico ha la sua peculiarità nella capacità di presentare le svolte storiche non solo attraverso i comportamenti delle grandi personalità, ma attraverso i comportamenti quotidiani della gente semplice; il cinema storico, dunque, è particolarmente adatto a proporre la dialettica tra l’individuo e le forze storiche che lo trascendono. Vale la pena sottolineare come questo della Birò fosse un discorso che faceva riferimento a norme estetiche più generalmente valide: considerare il film in base a un criterio metodologico con canoni valutativi esportati dalla letteratura e dall’arte in generale che inserivano l’arte filmica nel principio d’unità di cultura. La proposta della Birò, nonostante si nutrisse di un impianto storico che fa capo alla dialettica materialistica, ha la capacità di individuare quello che sarà uno dei nodi del dibattito successivo, vale a dire la riflessione sul cinema storico inteso o meno come genere cinematografico. E sebbene proponesse una soluzione che individuava l’essenza del genere nella struttura ideologica dell’opera filmica, in realtà ha il merito di individuare il nodo del problema. Sul versante degli storici, fino agli anni Sessanta, il confronto tra cinema e storia è stato monopolizzato dal discorso dal rapporto verità/non verità degli eventi rappresentati in un film. A partire dagli anni Sessanta alcuni storici della scuola francese come Marc Ferro, Jacques Le Goff, ma soprattutto Pierre Sorlin, si proposero di studiare il rapporto tra cinema e storia partendo dall’ipotesi che non solo il documentario, ma anche il film di finzione potesse essere legittimamente considerato come documento storico11. Questo studio che coinvolse anche esponenti della riflessione teorica del cinema quali Roland Barthes e Christian Metz ebbe significative ricadute riguardanti sia la storia nei film che i film nella storia. Precedentemente i film di finzione erano considerati solo come «documenti indiretti per la ricerca storica, ai quali lo studioso si dedicherà solo se animato da interesse specifico per la sociologia, l’archeologia, l’etnografia, 10. Y. Birò, Le film Historique et ses aspects modernes, in “Bianco e Nero”, n. 1-2 (1963). 11. A. Vigano, Storia del cinema storico in 100 film, op. cit., p. 13.

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l’architettura ecc.»12. Sono le scienze sociali ad ampliare all’intera gamma delle produzioni artistiche il concetto di documento. Alla narrazione basata sulle fonti storiche accompagnano quella fondata su una vastità di testi non direttamente documentari, allargando così la categoria di fonte comprendendovi tutto quello che può documentare il passato. Tutto ciò, per alcuni di loro, si traduce in un interesse nuovo nei confronti dei documenti filmati, compresi i film di finzione, e nell’indagine di uno sconosciuto immaginario collettivo che sta sorgendo, di cui i «mass media sono i veicoli e le matrici privilegiate»13. «Non è quindi un caso che proprio nel 1968 esca sulle Annales una nota di Marc Ferro che asserisce la necessità di studiare i rapporti tra il cinema e la storia del Novecento. Il saggio in questione è assai breve, quasi una proposta di ricerca, il suo autore è uno specialista della rivoluzione russa e della prima guerra mondiale noto solo agli esperti. Tuttavia il contributo appare sulla rivista storica più celebre di quel periodo, l’unica che sembri assicurare il superamento di tutte le vecchie pratiche e teorie»14. Dunque, sin dal 1968 sulle Annales, Marc Ferro, poi su segnalazione di Fernand Braudel segretario e co-direttore della rivista, sostiene che il cinema non è tutta la storia, ma che senza di esso non ci sarebbe conoscenza del nostro tempo15. Ed è proprio lo storico francese che comincia a lavorare sul film come fonte storica, allargando lo studio ai film narrativi. L’intenzione di Marc Ferro è quella che si riassume nella formula: il film come controanalisi della società, ovvero restituzione di una memoria cancellata dai testi ufficiali16. «Ferro ottiene una notevole risonanza e nell’arco di una decina d’anni scrive altri testi nei quali rivela una notevole finezza interpretativa e molta curiosità per le strutture narrative della costruzione cinematografica, poiché egli ritiene che il cinema incroci la storia quando quest’ultima è in pieno svolgimento (il documentario) e quando essa è ormai da ricostruire (il film di finzione). È quindi necessa12. A. Mura, Film, Storia e Storiografia, Edizioni della Quercia, Roma 1963. 13. J. Le Goff, Le Mentalità: una storia ambigua, in J. Le Goff, P. Nora (a cura di), Fare Storia, Einaudi, Torino 1981, p. 252. 14. M. Sanfilippo, Historic Park. La storia e il cinema, op. cit., p. 16. 15. M. Ferro, Société du 20e siècle et histoire cinématographique, Annales ESC, 23 (1968), pp. 581-585. 16. M. Ferro, Le film, une contreanalyse de la société, Annales ESC, 28 (1973), pp. 109-124.

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rio seguire sia i documentari, sia i film storici, per comprendere appieno come la nuova arte contrappunti il passato. Inoltre le opere di finzione gli sembrano godere di più libertà e potenzialità…»17. Lo storico francese introduce a tutti gli effetti lo studio del cinema di finzione nella storia attraverso il concetto di agente di storia che interviene a modificarla. In questo modo viene superata la tradizionale alternativa tra documento e finzione, tra la presunta oggettività dell’immagine e la soggettività della narrazione storica18, e infatti afferma Ferro: «lettura storica del film e lettura cinematografica della Storia»19. Su questa scia tracciata da Ferro prosegue Pierre Sorlin, contribuendo a consolidare le posizioni sul rapporto cinema e storia in particolar modo nei film di finzione. In realtà, come racconta bene Gianfranco Gori nell’Introduzione al testo La Storia nei film, anche Sorlin si era già occupato di cinema, ma è Ferro che ha avuto il merito nel suo testo di imporre il binomio “Cinema e Storia” fin dal titolo, anche se affronta l’argomento in modo non organico, visto che il suo testo, che pure raccoglie una serie di intuizioni interessanti come il concetto di cinema agente di storia, l’introduzione nell’analisi di film di finzione e altre ancora, è un testo che raccoglie saggi scritti in varie sedi tra il ’73 e il ’76. «Se è vero che Ferro è il primo storico a servirsi nelle sue ricerche dei film di finzione, è però Sorlin che lavora con organicità e propone un metodo»20. Anche Sorlin comincia a interessarsi di cinema alla fine degli anni Sessanta e anche lui sceglie come oggetto d’indagine i film di finzione, lavorando parallelamente ad alcuni progetti di documentazione storica in pellicola. Come ha più volte ricordato lo stesso storico, alla base di questo suo interesse per il rapporto tra cinema e storia vi sono tre ragioni: l’esigenza, non elusa, del rinnovamento della storiografia alla fine degli anni Sessanta; il peso sempre maggiore raggiunto dalle immagini del cinema e della televisione nella società contemporanea, e una sua consistente vena di cinefilia, che parte soprattutto dal cinema italiano del dopoguerra, e infatti dice di sé: «storico di formazione e di professione, appassionato di cinema, non avevo mai pensato di coniugare passione e mestiere, fino al giorno in cui gli studenti mi chiesero di usare il film come 17. M. Sanfilippo, Historic Park. La storia e il cinema, op. cit., p. 17. 18. Cfr A. Vigano, Storia del cinema storico in 100 film, op. cit., p. 17. 19. M. Ferro, Cinema e storia. Linee per una ricerca, op. cit., p. 26. 20. G. Gori, Introduzione, in P. Sorlin, La storia nei film. Interpretazioni del passato, op. cit., p. X.

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fonte storica»21. Tornando al testo precedente di Pierre Sorlin Sociologia del Cinema, primo libro dell’autore su questo tema, si osserva come questo sia senza dubbio il primo tentativo organico da parte di uno storico di utilizzare i film di finzione come fonte di storia. Si tratta di una metodologia che introduce ciò che poi sarà sviluppato pienamente nel testo successivo, il rapporto tra i due tempi del film. Il metodo Sorlin, in un certo senso è uno strumento per analizzare l’immagine nel contesto sociale che l’ha prodotta e insieme valorizzare al massimo ciò che l’immagine ci dice direttamente. In questo modo Sorlin intuisce quelle che saranno le linee guida per un’analisi dei film storici, ma occupandosi ancora di film di finzione in generale, lo storico è più interessato all’auto-rappresentazione della società: «I film […] costituiscono uno degli strumenti con cui una società dispone per mettersi in scena e mostrarsi»22. È in La Storia nei film. Interpretazione del passato, che Sorlin amplia il suo discorso sul rapporto tra cinema e storia prendendo in esame i film di finzione, ma solo quelli aventi referente storico. Forse possiamo individuare in tre punti, le tesi centrali del testo: il primo è quella di capire se il cinema storico in quanto tale può essere definito un genere cinematografico con le sue regole, le sue convenzioni e il tacito patto tra chi lo realizza e lo spettatore che ne fruisce. La seconda è quella del rapporto tra il tempo del film e il tempo che il film rappresenta, secondo Sorlin, infatti, «un film storico con il pretesto del passato, riorganizza il presente. I film, costruendo una storia immaginaria, a volte svelano problemi accuratamente celati»23. Il terzo punto centrale nell’opera dello storico francese è certamente la casistica introdotta per capire quando il passato è una diretta ed esplicita proiezione di problemi della società che li propone, o quando il passato serve a scoprire problemi invece ancora nascosti, e infine quando il passato è soprattutto un rifugio dalle contraddizioni del presente. Le ricerche di Sorlin si concentrano nell’incrocio tra testo filmico e contesto sociale, in questo senso pur non essendo stato il primo, in senso cronologico, a individuare certi filoni d’indagine, il suo ruolo è certamente centrale.

21. P. Sorlin, La storia nei film. Interpretazioni del passato, op. cit., p. XLI. 22. P. Sorlin, Sociologia del cinema, Garzanti, Milano 1979, p. 310. 23. P. Sorlin, La Storia nei film. Interpretazione del passato, op. cit., pp. 72-73.

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L’utilizzo della produzione filmica come fonte storiografica si lega alle riflessioni della scuola delle Annales sull’ampliamento della nozione di documento. La riflessione di questi studiosi individuò i motivi di interesse per lo storico offerti dai film: come fonte, non più limitandosi alla sola produzione di documentari di propaganda, ma sottolineando il carattere di testimonianza suo malgrado proprio dei film di fiction che, parlando del passato, svelano in realtà il discorso della società su sé stessa; come agente di storia, con l’attenzione per il ruolo che esso svolge nella costruzione dell’immaginario collettivo. Le ricerche di Ferro e Sorlin, non solo hanno avuto una eco per l’introduzione di un nuovo oggetto di ricerca e di studio, ma anche per un nuovo atteggiamento nei confronti di quell’oggetto, che veniva investigato da una molteplicità di prospettive, eliminando la riduzione del tempo del film a un’unica dimensione. Sfuggendo all’illusione positivista del film come restituzione reale ed oggettiva del passato e allo stesso tempo del momento in cui il film è stato prodotto. In questa direzione il cinema diventa ciò che auspicava Marc Ferro, un completamento della storia ufficiale e della storia accademica. Oggi, il rapporto tra storia e cinema, sembra quasi ovvio, e anche il fatto che questo potesse nascere e svilupparsi correttamente solo all’interno della nouvelle histoire sembra naturale, visto che questa allargava istintivamente gli orizzonti della storiografia, aprendosi a tutte le dimensioni delle culture. Ma quando sono partiti questi pionieri di una nuova analisi storica del film hanno incontrato molte resistenze, in ambito accademico e in ambito cinematografico. «La continua interazione tra storici e cinema genera nel frattempo altri intrecci. Già negli anni Settanta e Ottanta, il riconoscimento dell’importanza didattica e teoretica del documentario storico accompagna la rivalutazione della fiction per il grande schermo, secondo i suggerimenti di Ferro. Alcune riviste diventano allora palestre di analisi filmiche e riflessione teorica. In Italia è il caso di Quaderni medioevali e Passato e presente, mentre negli Stati Uniti il Journal of American History e la American Historical Review saggiano il terreno con interventi teorici e poi dedicano al cinema uno spazio stabile. Negli anni Novanta i film hanno ormai su tali pubblicazioni tanto spazio quanto i saggi o le edizioni di documenti e preparano la strada alle recensioni di siti web»24. Oggi gli storici si volgono verso il cinema senza 24. M. Sanfilippo, Historic park. La storia e il cinema, op. cit., pp. 22-23.

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più problemi di sdoganamento del film di finzione. Alcuni di loro collaborano come esperti alla realizzazione di film storici, altri si cimentano addirittura nella realizzazione autonoma. La continua collaborazione tra storici e cineasti influenza anche le case di produzione le quali intuiscono il valore che uno storico professionista può aggiungere a una pellicola, in primo luogo di una evidente ricostruzione filologicamente più corretta del periodo storico affrontato, in secondo luogo, a livello promozionale, fa si che la presenza del nome dello storico sul cartellone o tra i titoli del film garantisca, agli occhi del possibile spettatore, la pellicola dall’esenzione di errori grossolani che spesso danneggiano il film. Di conseguenza sono sempre più i produttori a consigliare ai cineasti la collaborazione di specialisti che supervisionino il lavoro dal punto di vista della ricostruzione (scenografie, costumi, cibo, atteggiamenti, linguaggio, fino alla recitazione stessa degli attori). «Tale relazione non è, però, facile o priva di rischi. L’adattamento cinematografico de Il nome della rosa (Jean-Jacques Annaud, 1986) è autenticato da due esimi studiosi, Jacques Le Goff e Jean-Claude Schmitt. Essi ottengono che i maiali di scena siano neri e pelosi, quasi dei cinghiali, come i loro antenati medioevali e non rosei come i suini odierni. In realtà, però, la pellicola non è storicamente più attendibile di altre e quindi è proprio la firma degli studiosi ad attestare che si tratti di un film sul Medioevo»25. Ma tra gli storici il cinema è ormai una componente importante, nel volume La storia al cinema. Conversazione con René Allio, Marc Ferro, Philippe Joutard, Emmanuel Le Roy Laduire26, molti degli storici intervistati confessano di essere influenzati nelle loro ricerche dal cinema. Addirittura c’è chi, come Emmanuel Le Roy Laduire, confessa di scrivere la storia come se stesse scrivendo un film. O chi, come Carlo Ginzburg, pone tra i suoi interessi per stregoneria la visione di Dies irae di Dreyer e consiglia a chiunque voglia intraprendere il mestiere di storico di leggere molti romanzi e di vedere molti film27.

25. Ivi, p. 24. 26 La storia al cinema. Conversazione con René Allio, Marc Ferro, Philippe Joutard, Emmanuel Le Roy Laduire, in G. Gori (a cura di), Passato Ridotto. Gli anni del dibattito su cinema e storia, La casa Usher, Firenze 1982. 27. C. Ginzburg, Di tutti i doni che porto a Kaisàre… Leggere il film scrivere la storia, in “Storia e cinema”, fascicolo monografico di “Storie e storia”, n. 9, Aprile (1983).

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3. Film come documento storico Una prima chiave per aprire l’universo del film come documento è quello di considerarlo come una fonte di ricerca storica. Secondo una tradizionale classificazione del materiale di cui si serve lo storico, viene identificato come fonte tutto ciò da cui è possibile trarre delle informazioni del passato. Le fonti a cui lo storico può attingere sono molteplici. La dottrina delle fonti è il modo e lo strumento per portare alla luce i materiali su cui poi si lavorerà per ricostruire il passato di cui ci si intende occupare. La dottrina delle fonti prevede preliminarmente una classificazione dei documenti su cui lo storico concentrerà la sua analisi. Le fonti possono essere primarie e secondarie: «le prime sono le fonti in senso proprio vale a dire i documenti di qualsivoglia genere coevi del periodo che stiamo studiando: qualunque reperto, qualunque oggetto, qualunque testo rimastoci del passato che è oggetto della nostra indagine»28. Per ciò che concerne il cinema, dunque, le fonti primarie sono senza dubbio tutte le opere (filmati amatoriali, documentari, cinegiornali, film di finzione) coevi dell’epoca indagata che sono giunti fino a noi. Le fonti secondarie sono tutte le opere che riguardano una determinata epoca ma che sono state realizzate successivamente a quell’epoca. Allo stesso modo di una qualsiasi altra opera di ricerca o di riflessione storica, anche un film può presentarsi come una ricomposizione del passato (documentari, ricostruzioni, film di finzione), può essere quindi visto come il tentativo di ricostruire la storia secondo un certo punto di vista, una certa ideologia, un certo metodo ecc. La natura stessa del cinema vieta che da un film si possa pretendere la precisione scientifica che possiede uno studio accademico. Non tutti i film storici sono stati realizzati con la stessa perizia e attenzione verso la realtà storica così come questa è emersa da studi più seri. E quindi può capitare che il film storico fornisca più elementi di contatto con il contesto che lo ha prodotto che non con l’argomento di cui tratta. Un film storico, oltre a informarci sulle epoche passate descritte dalle sue immagini, può anche fornirci delle informazioni sull’epoca in cui la pellicola è stata girata, in quanto vera e propria fonte per conoscere la storia. Infatti, gli storici francesi Marc Ferro e Pierre Sorlin osservano che 28. A. d’Orsi, Alla ricerca della storia. Teoria, metodo e storiografia, op. cit., p. 89.

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i film storici hanno svolto spesso una funzione di propaganda politica per il presente, non solo nei regimi totalitari, ma anche in quelli di democrazia liberale. Le pellicole di questo genere molte volte aspirano a trarre dal passato delle lezioni e dei paralleli validi per l’età contemporanea, sottolineando ciò che unisce le diverse epoche della storia. I film storici consentono, dunque, un duplice viaggio nel tempo: nel passato che raccontano, ma anche nel periodo in cui sono stati presentati al pubblico. Negli anni Trenta, come vedremo tra breve, i film kolossal prodotti in Italia durante la dittatura di Mussolini svolgono una chiara funzione di propaganda a favore del regime. Anche oggi possiamo porci delle domande sulla funzione sociale svolta da certi film. Perché in un certo momento storico si girano certi film e non altri? Perché interessano certi argomenti e altri no? La scelta dei registi e dei produttori dipende dal contesto storico, e l’analisi dei film ci fornisce quindi informazioni su tale contesto. A tale proposito, basti pensare alle trasformazioni che ha subìto il cinema dedicato alla guerra in Vietnam, in cui si sono verificati dei cambi di barricata, ora a favore, ora contro l’intervento americano, a seconda del variare degli umori del pubblico. Il cinema storico, dunque, ci informa anche sul modo di vedere la storia caratteristico di un certo periodo, e costituisce un documento importante nello studio delle ideologie e della mentalità del tempo al quale appartiene. Però, come sottolinea Ortoleva, che ha studiato a fondo il rapporto tra cinema e storia «le fonti filmiche sono dunque fonti ardue, sfuggenti, spesso ingannevoli; solo tenendo conto della loro peculiarità e complessità è possibile affrontarle su basi, e con filtri, sufficientemente agguerriti da fondarne solidamente l’uso e da giustificarne davvero il superamento delle diffidenze»29. Inoltre, dobbiamo ricordare che sia nel caso in cui si guardi un grande film narrativo, sia nel caso in cui ci si trovi di fronte a un serissimo documentario, non si deve cedere alla tentazione di credere di aver definitivamente catturato il passato attraverso le immagini. La messa in scena del passato non può sostituire l’approfondimento e la ricerca storica vera e propria, ma può essere intesa nei riguardi della conoscenza solo come una proposta interpretativa, che nasce per sollevare dubbi e domande.

29. P. Ortoleva, Scene del passato, Loescher, Torino 1995, p. 5.

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La nozione di cinema come agente di Storia introdotta da Marc Ferro30, vuol dire cercare di analizzare il peso che il cinema ha nella società. Come detto nell’introduzione, il caso più evidente è quello della propaganda ideologica, tipica nei regimi totalitari, ma che in generale si sviluppa anche in altri sistemi politici. Il cinema agisce sulla società perché contribuisce in maniera, più o meno volontaria, alla costruzione dell’immaginario collettivo, modifica egli stesso la società attraverso la forza delle idee veicolate dalla pellicola. Un film storico può essere anche, in una certa misura, agente di storia, se è in grado di essere esso stesso protagonista di avvenimenti significativi sul piano storico, per le polemiche che può suscitare, o per l’influenza che può avere sull’immaginario collettivo. Un film come Il cacciatore (1978) di Michael Cimino, dedicato alla guerra del Vietnam, è stato agente di storia perché, all’epoca della sua uscita nelle sale cinematografiche, creò un’incredibile reazione nella sinistra americana ed europea. Infatti, presentava un’immagine negativa dei Vietcong, cioè dei guerriglieri comunisti, che invece erano difesi da tutta l’opinione pubblica internazionale di sinistra. Quando il film venne presentato nel 1979 al Festival di Berlino, la delegazione sovietica abbandonò il Festival in segno di protesta per le scene in cui veniva descritta la brutale crudeltà dei Vietcong nei confronti dei prigionieri americani (all’epoca, l’URSS era ovviamente schierata dalla parte dei Vietcong). Ma anche in Italia il film irritò profondamente la critica di sinistra (soprattutto comunista) e militante antiamericana. Va detto che, col passare del tempo, il giudizio della sinistra sul Cacciatore è drasticamente cambiato, così come è cambiata l’opinione di molti testimoni dell’epoca sulla guerra del Vietnam. Scrive Marc Ferro, «quando il cinema diventa arte i suoi pionieri intervengono nella storia con film documentari o narrativi, che fin da principio sotto copertura della rappresentazione indottrinano o glorificano»31. Da un lato sono i gruppi politico-economici dominanti che, intuita la potenza del mezzo cinematografico, cercano di asservire il cinema ai loro fini; d’altro canto però, in molte occasioni, sono stati i cineasti, che, con le loro opere, hanno scosso con vigore le istituzioni ideologiche al potere suscitando un modo nuovo di pensare, una presa di coscienza diversa, 30. M. Ferro, Cinema e storia. Linee per una ricerca, op. cit., pp. 19-26. 31 Ivi, pp. 9-12.

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creando un immaginario collettivo del tutto sconosciuto. Ed allora è compito dello storico quello di cercare di capire, misurare e valutare, l’azione del cinema sulla società. Anche quando l’esame non sta tanto nell’azione diretta del film sulla società, in un rapporto di causa-effetto, quanto piuttosto nell’analisi del lavoro implicito che il film compie determinando reazioni psicologiche, modi di pensare, atteggiamenti ecc. Qui vanno però fatti alcuni distinguo: se è vero che molti film possono essere agenti di storia, non tutti i film agenti di storia, che cioè influenzano l’immaginario collettivo, sono per forza di cose riconducibili al genere storico, narrano cioè vicende storiche. Film che hanno avuto un forte impatto sulla società come 2001: Odissea nello spazio (1968) o La dolce vita (1960) di Fellini, solo retrospettivamente possono essere considerati film storici nel senso di agenti di storia. Il primo, un film di fantascienza sconvolge i canoni legati all’immaginario collettivo attraverso il suo fascino plastico-figurativo e sonoro-musicale. Il secondo, un film sul costume sociale interpreta con acutezza un momento nella storia d’Italia di quegli anni, e dopo lo scandalo ecclesiastico e politico, si trasforma in un successo mondiale. Per tornare alle differenti prospettive sul rapporto tra cinema e storia e alla labilità dei confini delle categorie elencate, possiamo dire che non tutti i film che hanno fatto la storia del cinema sono storici. Così come non tutti i film che retrospettivamente possiamo indicare come agenti di storia sono narrazioni storiche. Ed allora anche i film in costume, i film più biecamente propagandistici o ideologici servono come documenti storici. Pensiamo al cinema controllato, nel periodo dei regimi totalitari, dal potere politico: Tanto Camicia nera (1932) di Giovacchino Forzanoi quanto il pomposo Condottieri (1937) di Luis Trenker, pseudo biografia di Giovanni dalle Bande Nere […] quanto il magniloquente Scipione l’Africano (1937) di Carmine Gallone risibile apologia per interposta persona di Benito Mussolini, contengono materiali storici che meritano di essere analizzati. Lo stesso si deve dire per alcuni film biografici prodotti dalla Germania Nazista, come il velenoso Pamphlet antibritannico Ohm Kruger l’eroe dei Boeri (1942) di Hans Steinhoff o come l’ingessato e spettacolare Il grande re (1942) di Veit Harlan, nonché per le numerose biografie di condottieri, scienziati e uomini politici che la dottrina autoritaria e schematica del realismo socialista concorre a produrre in Unione Sovietica, dalla trilogia che Mark Donskoij dedica a Gor’kij fra il 1938 e il

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La ‘storia’ senza Storia. Parte II.

1940 alle due agiografie leniniane, sobrie peraltro, che Mikhail Romm realizza nel 1937 e nel 1939, da Aleksandr Nevskij del 1938 e L’Ivan il terribile (1944) di Ejzeštejn ai due ritratti militari di Vsevolod Pudovkin (Suvorov, 1941 e Admiral Nakhimov, 1946). Cinema storico a pieno titolo quali che siano stati i propositi dei produttori e degli autori (le ideologie, le illusioni, le tradizioni culturali, gli stili). E, come tutti i documenti storici, passibile di molte decodificazioni e delle più diverse interpretazioni32.

Alcuni esempi di analisi di film come agenti di storia possono aiutarci a capire come il cinema storico diventi documento storico. Cabiria (1914) e Scipione l’Africano (1937) sono due film che pur avendo lo stesso soggetto storico, le guerre dell’antica Roma contro Cartagine, manifestano appieno la differente sensibilità del momento nel quale essi sono stati realizzati e ci offrono quindi la possibilità di portare un esempio di analisi di film come agenti di storia. Nel 1914, a tre anni dalla conquista della Libia strappata all’Impero ottomano, Giovanni Pastrone realizza un film debordante dalla messinscena imponente. Durante la seconda guerra punica (219 a.C.) la piccola Cabiria, rapita e venduta come schiava a Cartagine, sta per essere sacrificata al dio Moloch, ma viene salvata da un patrizio romano e dal suo schiavo Maciste. La sceneggiatura è attribuita a Gabriele D’Annunzio che, in realtà, si limitò a inventare i nomi dei personaggi e a scrivere le altisonanti didascalie, ma la sua fonte segreta è probabilmente il romanzo di Emilio Salgari Cartagine in fiamme (1908) e la Salammbò (1862) di Flaubert. Come detto, Cabiria nasce in un’epoca nella quale l’Italia è reduce dalle sue prime esperienze coloniali e nella quale il contrasto tra le potenze europee si fa sempre più drammatico, contrasto che porterà di lì a poco allo scoppio del primo conflitto mondiale. Palcoscenico del film è l’antica Roma e le gloriose guerre puniche contro i cartaginesi. Una spiegazione dei motivi che portano alla realizzazione della più grande produzione italiana di quel tempo, un milione di lire, può essere ricercata nella volontà da parte del regista e sceneggiatore Giovanni Pastrone di dare agli italiani una tradizione unitaria che in realtà non era mai esistita. L’Italia è unita da soli cinquant’anni e il mito della romanità può fungere da collante per una nazione ancora inesistente e divisa al suo interno dalle molte lingue e dalle molte tradizioni. Oltretutto non può essere neppure sottovalutata la coincidenza tra le prime esperienze coloniali italiane, la 32. F. Di Giammatteo, Che cos’è il cinema, Bruno Mondadori, Milano 2002, p. 85.

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guerra italo-turca per il dominio sulla Libia e il tema della conquista di Cartagine che casualmente si trova proprio in nord Africa. Passano vent’anni e il quadro storico cambia radicalmente, l’Italia non è più una democrazia da tempo e Mussolini è diventato il Duce degli italiani. Il film storico Scipione l’Africano (1937), di Carmine Gallone, viene concepito nel momento in cui Mussolini si prepara alla guerra d’Etiopia (1935). Lo scopo esplicito del film è quello di tradurre in immagini l’essenziale identità di spirito che unisce la Grande Roma della conquista africana alla Grande Roma della conquista etiopica, secondo le parole di Luigi Freddi, direttore della cinematografia fascista. In questo caso, il cinema epico esprime la volontà egemonica e imperiale del regime mussoliniano. In Scipione l’Africano, la vittoria di Scipione su Cartagine, che vendica la sconfitta subìta dai romani a Canne (216 a.C.) simboleggia la conquista mussoliniana dell’Etiopia che vendica la sconfitta subita da Francesco Crispi ad Adua (1896). La trama infatti è molto semplice: dopo la disfatta di Canne, nel 208 a.C. il senato romano affida a Publio Cornelio Scipione il compito di combattere Cartagine sulla terra africana. Con l’aiuto di Massinissa, Scipione sconfigge Annibale a Zama. Si tratta del più grande sforzo produttivo del regime fascista nel campo della propaganda imperiale con espliciti riferimenti celebrativi alla conquista dell’Etiopia e all’oratoria di Mussolini. Eppure i miti del passato utilizzati come soggetti per i film sono gli stessi: il tema della romanità e le epiche battaglie contro i cartaginesi. Scipione l’Africano è la nuova super produzione del 1937, siamo di nuovo a cavallo tra guerre coloniali e a ridosso di una nuova guerra mondiale. Evidenti in questo film sono gli intenti propagandistici propri del fascismo, vi è una correlazione fortissima tra la figura di Scipione l’Africano, salvatore della patria, e Mussolini il fondatore del nuovo impero (proclamato pochi anni prima). Nel film i romani sono sempre visti sotto una luce benevola, all’opposto gli africani vengono giudicati in chiave fortemente critica (siamo alla vigilia della firma delle leggi razziali). La scena finale del film è addirittura plateale nel cercare di creare un parallelismo tra il duce Benito Mussolini e l’antico condottiero romano, quando Scipione fa scorrere tra le mani il grano d’Africa e dice: «Buon grano e fra poco, con l’aiuto degli dèi, ci sarà la semina», richiamando così la campagna del grano voluta qualche tempo prima da Mussolini stesso e sottolineando i motivi per i quali era stata affrontata la campagna d’Etiopia nel 1935.

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La ‘storia’ senza Storia. Parte II.

Differentemente da quanto avviene nel film Scipione l’Africano, in Cabiria vi è sì una esaltazione del mito della romanità come radice della nostra tradizione e la volontà di esaltare lo spirito nazionalistico di un popolo che ancora non si sentiva italiano; ma non è possibile riscontrarvi l’esaltazione del leader come avviene nel film Scipione l’Africano, fortemente intriso dell’ideologia fascista. L’Italia del 1914, quando cioè viene realizzato Cabiria, è ancora una democrazia e ben difficilmente avrebbe potuto idealizzare il ruolo di un capo a cui affidare la risoluzione di tutti i suoi problemi come avverrà dieci anni più tardi. Al di là del loro valore artistico, Cabiria e Scipione l’Africano manifestano in modo particolarmente eloquente i valori culturali dell’epoca nel quale vengono prodotti. La visione di una nazione forte e potente che viene diffusa a partire dalla fine dell’Ottocento e che abbiamo visto essere stata descritta nel cinema attraverso Cabiria e Scipione l’Africano, non regge però alla realtà dei drammi degli orrori portati dalla violenza perversa della seconda guerra mondiale.

4. Film storico e film in costume A questo punto dovremmo cercare di capire cos’è un film storico. E per far questo una prima grossolana differenziazione che vogliamo introdurre in questa parte in cui ci occuperemo di film a narrazione storica sta nella differenza tra film storico e film in costume, perché, come vedremo, molti film che possiamo considerare agenti di storia e che hanno come soggetto una narrazione storica, in realtà sono più che altro film in costume. Che cosa permette a un film ambientato in un passato storico riconoscibile di essere ricondotto al “genere storico”? Se tutti i film storici sono in costume, non può altrettanto dirsi il contrario, che tutti i film in costume sono storici. Il fatto che personaggi di un film indossino abiti d’epoca non da diritto a definire il film come storico, in quanto anche nel Western i personaggi, vestiti più o meno correttamente da cowboy, sono in costume d’epoca, e così negli horror, per non parlare dei musical o del melodramma di una determinata fase storica. Discorso a parte va fatto per i film di avventura, soprattutto quelli storico-mitologici, o epici definiti solitamente cappa e spada; di solito in queste occasioni si parla di Kolossal dal grande

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impatto spettacolare. Questi film hanno a che fare con la storia, anche se mancano di caratteristiche decisive per essere definiti storici; la storia in questi casi è uno sfondo, un pretesto per descrivere in modo spesso epico o leggendario le gesta di grandi eroi. «Su quel terreno promiscuo dove si incontrano la storia, la mitologia e la religione nasce fin dai tempi del muto (fin dagli spettacoli allestiti dall’illusionista Georges Méliès nel suo studio cinematografico di Montreuil) un genere spurio cui si può dare il nome di storico mitologico. Di solito esibisce la suggestione del grande spettacolo, si avvale di messinscena grandiose, di divi, di eserciti di comparse, di storie che evocano passioni e gesta di forte richiamo popolare, e poco importa che rispettino la verità storica (anzi, in un certo senso meglio che non lo facciano perché si può dare maggiore spazio alla fantasia)»33. Questi film, sviluppatisi soprattutto nella cinematografia italiana e americana non si preoccupano in nessun modo di ricostruire accuratamente il passato, proponendosi piuttosto come una dissertazione leggera sullo sfondo di un certo periodo ma che non interroga né interpreta, molto più attenti ad allacciare a quel passato una visione epico spettacolare. Sia la tradizione cinematografica italiana che quella statunitense si concentrarono fin dall’inizio sui fasti dell’antica Roma e del cristianesimo primitivo, per motivi differenti: la prima per una convenienza socio-politica, atta a giustificare le ambizioni delle conquiste coloniali dello stato unitario; la seconda per una questione esclusivamente commerciale. La storia così messa grandiosamente in mostra era materia utile per affascinare le platee e conquistare il pubblico di inizio secolo. Film come La caduta di Troia (1910) di Pastrone e Quo Vadis? (1913) di Guazzoni sono emblematici, ma il più famoso film storico-mitologico italiano di quegli anni è senza dubbio Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone; questo film, come detto è il più costoso, grandioso, famoso film storico italiano del muto, imponente per la profusione di mezzi impiegati, ed ebbe grande influenza anche su Hollywood (De Mille, Griffith) per le innovazioni tecniche e stilistiche come l’uso sistematico della carrellata. Il personaggio di Maciste, impersonato dallo scaricatore di porto genovese B. Pagano, divenne mitico, ispirando una lunga serie di film. La cinematografia americana fa sua la lezione italiana e con Nascita di una nazione (1915) combinazione di epica e di melodramma, in cui Griffith scrive a modo sua la storia della nazione americana, si realizza un film innegabilmente celebrativo e non storico. Enorme fu la sua importanza 33. Ivi, p. 86.

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sugli sviluppi tecnici, produttivi e narrativi del cinema americano: aprì definitivamente la strada al lungometraggio sulla quale si erano già messi diversi film europei, soprattutto italiani. Sempre Griffith realizza Intolerance (1916) film in 4 episodi: La caduta di Babilonia (episodio babilonese), La passione di Cristo (episodio ebraico), La notte di San Bartolomeo (episodio francese), La madre e la legge (episodio moderno). Nei primi due racconta i fasti cruenti di Babilonia e la Passione di Cristo, dando il via al filone di film storico religiosi. Ma sarà Cecil De Mille il futuro monopolizzatore del kolossal riguardante la storia antica e delle illustrazioni Bibliche, citiamo solo alcuni titoli come I dieci comandamenti (1923) Il segno della croce (1932); Cleopatra (1934); I crociati (1935); I filibustieri (1938); Gli invincibili (1947); Sansone e Dalila (1949); I dieci comandamenti (1956), tralasciando completamente quelli che il regista realizzò sulla storia americana. Gli americani proseguono sull’onda del Kolossal storico mitologico, girando molti di questi film a Roma negli studi di Cinecittà, Quo vadis? (1951) di Mervyn Le Roy; Ben Hur (1959) di William Wiler, Sodoma e Gomorra (1962) di Robert Aldrich e poi La tunica (1953) di Koster; Il re dei re (1961) di Nicholas Ray, e infine La più grande storia mai raccontata (1965) di George Stevens che chiude la stagione dei Kolossal americani a sfondo imperiale o cattolico; anche l’Italia a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta sviluppa il genere dei Maciste e degli Ercole riciclando idee e soprattutto scenografie e costumi dei grandi Kolossal americani, aprendo la strada dei B-movie in costume. Se vogliamo nei kolossal di film in costume possiamo aggiungere gli ultimi Braveheart (1995) di Mel Gibson, Il gladiatore (2000) di Ridley Scott che ricostruisce pietra su pietra il Colosseo, poi di nuovo La Passione (2004), sempre di Mel Gibson, visione un po’ splatter delle ultime ore di Gesù, e infine Le crociate di Ridley Scott, versione medioevale del conflitto economico in atto in medioriente. Ogni film in quanto prodotto di un determinato sistema culturale è storico. Quando si allarga la visuale si scopre che tutto è storia. E che dalla maniera in cui il cinema ricostruisce i fatti di uomini, istituzioni e popoli si possono sempre ricavare proficue conoscenze.

5. Il genere cinematografico Un film storico può fornirci delle informazioni sull’epoca che viene descritta dalle sue immagini in quanto strumento per raccontare la storia,

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cioè come nuova forma di storiografia. La prima questione si potrebbe riassumere con la domanda generale se il cinema storico può essere considerato un genere cinematografico. Il genere storico, se esiste, è probabilmente un’altra cosa dagli altri generi cinematografici e si dovrebbe provare a definirlo, e a coglierne la specificità non in base a giudizi di valore (quali si avrebbe se si riproponesse la distinzione tra film storico e film in costume, ma in base a caratteristiche propriamente cinematografiche). E allora va preliminarmente chiarito cosa si intende per genere cinematografico: «Può capitare che le pagine degli spettacoli dei quotidiani o le rubriche dei programmi televisivi omettano di citare il nome del regista accanto al titolo del film, ma non di dare una sommaria indicazione del genere di appartenenza. Si tratta di indicazioni generiche, tutt’altro che sistematiche, del tipo: drammatico, avventuroso, comico», queste etichette di genere «orientano nettamente lo spettatore circa ciò che potrà aspettarsi quanto ad ambientazione, stile e, entro certi limiti, ideologia»34.

Il discorso dei generi non nasce con il cinema, e neanche con il romanzo; la ricerca degli elementi che accomunano opere letterarie ha avuto inizio molto prima della moderna narratologia. «Ragionare sui testi, cercando di individuare delle costanti, con il duplice scopo di operare delle schematizzazioni, delle classificazioni, e di dettare delle norme per la composizione di opere nuove, è una pratica che risale all’antichità. Già Platone riteneva che si potessero raggruppare i testi letterari in base a determinate caratteristiche: genere mimetico o drammatico, espositivo o narrativo, misto o epopea. Aristotele, proseguendo su questa strada, distingueva fra drammatica e narrativa, fra tragedia, poesia giambica, commedia»35. Il genere è ogni sorta di prodotto artistico che nel suo essere risponde a un insieme di prescrizioni, come direbbe Umberto Eco, una fabula prefabbricata, studiata e collaudata per soddisfare le attese del pubblico36. C’è un concetto che si inserisce in questa preliminare analisi 34. A. Costa, Saper vedere il cinema, op. cit., p. 83. 35. M. Diana, M. Raga, Cinema e scuola. I film come strumento di didattica, op. cit., p. 41. 36. U. Eco, Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi, op. cit., p. 82.

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trasversale sul concetto di genere, si tratta del concetto di Sintonia: vale a dire della sintonia tra pubblico e autori, fra la rappresentazione e la diffusa aspettativa della stessa. Il pubblico del teatro greco e delle tragedia (ma questo si può dire anche delle tragedie elisabettiane, dei romanzi d’appendice, e in generale di tutti i generi) nell’assistere all’Antigone o all’Edipo a Colono era perfettamente in grado di comprendere la rete simbolica sottostante alla rappresentazione. Quel pubblico entrava immediatamente in sintonia con ciò che accadeva sul palco, riconosceva i personaggi e le loro maschere con la stessa immediatezza, con la stessa profondità con la quale un appassionato di gialli contemporanei sa riconoscere anche se mascherato chi è l’investigatore, chi il sospettato o la colpa che, attraverso il destino, colpisce come la punizione degli dei nella tragedia. Un romanzo d’amore, un giallo, un racconto dell’orrore, devono attenersi alle regole del proprio genere, riguardanti l’ambientazione, i personaggi, i temi e i motivi, la struttura narrativa, lo stile e il linguaggio. Con l’avvento della cultura di massa, il sistema dei generi si avvia verso una produzione in serie e una standardizzazione, soprattutto nella cosiddetta letteratura bassa e nel cinema. Il sistema dei generi si dimostra molto efficace soprattutto nel cinema perché, attorno agli anni Venti-Trenta del Novecento i suoi modi di produzione vanno assomigliando in tutto e per tutto a quelli di una modernissima industria. La genesi del cinema come divisione di generi si sviluppa nella Hollywood degli anni d’oro, tra la fine degli anni Venti e la metà degli anni Quaranta, vale a dire quelli che vedono l’avvento nel cinema del sonoro e lo sviluppo dello Studio System. La nuova formula di organizzazione dell’economia cinematografica che prende il nome di Studio System ruota intorno a tre fattori: al monopolio del processo produttivo delle compagnie cinematografiche, alla nascita del divismo e appunto alla divisione della produzione del film in più parti e dunque alla nascita del cinema diviso in generi. Il genere come testo narrativo cinematografico nasce, cioè, con il monopolio di compagnie cinematografiche che oltre alla produzione e alla distribuzione avevano anche direttamente il controllo dell’esercizio, vale a dire delle sale cinematografiche. Lo Studio System diede vita alle Major Companies, che fino al 1948 spadroneggiarono nell’industria cinematografica. Nel 1948 un decreto della Corte Suprema giudicherà illegale la concentrazione monopolistica dei tre settori dell’industria cinematografica praticato dalle Major (Warner Bros, MGM, Paramount,

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RKO, 20th Century Fox, Universal, Columbia e United Artists). Lo Studio System rappresentò non solo una particolare forma di integrazione tra i diversi settori dell’industria cinematografica, ma soprattutto un lavoro teso alla massimizzazione dei profitti attraverso uno sfruttamento ottimale delle risorse. Ciò comportava una rigida divisione del lavoro e una totale subordinazione di tutte le componenti della produzione (registi, attori, sceneggiatori ecc.) alla figura del produttore. Inoltre ogni casa di produzione tese a specializzarsi in generi; indicativamente possiamo dire che la Warner Brothers realizzava film di gangster e di guerra, la Universal horror, la Metro Golden Meyer e la 20th Century-Fox si dedicavano ai gialli a enigma e così via. All’interno di ogni casa di produzione vi erano sceneggiatori, registi, studi, tecnici e specialisti «ritagliati su misura in funzione di quel dato genere»37. Legati allo Studio System furono quindi tutti gli espedienti di razionalizzazione del processo produttivo, e dunque nacque il fenomeno del divismo, cioè dello Star System e il sistema dei generi già ben configurato alla fine degli anni Venti con la commedia sentimentale, il melodramma, il dramma epico storico, il Western, il gangster, e la slapstick comedy (il genere comico nato con il cinema muto). Il cinema di genere può essere considerato come una messa a punto di universi figurativi e congegni narrativi nei quali si propone una concezione estetica e ideologica. Il sistema dei generi americano per quanto possa essere studiato nelle sue costanti e nelle sue invarianze che permangono, vive in un rapporto dinamico con la situazione politica, sociale e culturale. Dunque pur uscendo dalla rigida visione dei generi dell’universo hollywoodiano e allargando lo sguardo al cinema mondiale, il concetto di genere può essere espresso attraverso le sue costanti tematiche e i suoi meccanismi narrativi, come nella letteratura. «I generi cinematografici, in analogia con quelli letterari e con la tradizione dei miti e dei racconti popolari, presentano una serie di elementi costanti, riconducibili alle funzioni svolte dai singoli personaggi nello sviluppo della vicenda. Secondo questa prospettiva, lo studio dei generi si può avvalere di metodi tradizionali […], anche se trattandosi

37. M. Fernet, Genere in A. Costa (a cura di), Attraverso il cinema: semiologia, lessico, lettura di un film, Longanesi, Milano 1978, pp. 88-89.

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di cinema non bisogna ignorare o sottovalutare l’aspetto propriamente figurativo»38. Data questa preliminare spiegazione possiamo dire che quando si parla di film di genere hollywoodiano si dà una definizione piuttosto rigida, come di un prodotto prefabbricato in serie, costruito secondo parametri standard che influiscono sulla forma e sui contenuti.

6. Il genere storico Torniamo alla domanda da cui siamo partiti: esiste un genere storico? Se sì, che cosa permette di classificare un film come appartenente al genere storico?39. Proviamo a fare un confronto tra due dei generi più rigidi del cinema degli anni Venti-Quaranta, il Western, il Gangster e un ipotetico genere storico. Vediamo su quali aspetti del film proposti da Diana e Raga i codici del genere esercitano la loro influenza: L’ambientazione: si tratta del contesto storico, geografico, sociale, in cui si svolge la vicenda. Il genere Western ha specifiche relazioni con la storia americana dell’Ottocento e inizio Novecento, periodo della faticosa civilizzazione, delle lotte tra coloni, tra bianchi e indiani, tra nordisti e sudisti. Il gangster è ambientato nella contemporaneità, tra la recessione economica della fine degli anni Venti e i difficili anni Trenta, periodo che vede l’aumento della criminalità delle bande, della lotta all’antiproibizionismo e della corruzione della polizia locale, i rapporti tra le gang e la politica, il traffico di stupefacenti su vasta scala, la diffusione della prostituzione. I Personaggi delle storie: nel Western sono di volta in volta pionieri e coloni, cowboy e soldati, indiani, pistoleri, cercatori d’oro, sceriffi, malviventi, predicatori e prostitute del bordello. Nel gangster il personaggio “nero”, con la sua ribellione alle regole della società, con la sua aggressiva determinatezza, risoluto ad arrivare da qualche parte senza curarsi delle conseguenze, diventò una specie di eroe per le platee cinematografiche. Si trattava del fuorilegge senza scrupolo ma spesso capace di bei gesti che 38. A. Costa, Saper vedere il cinema, op. cit., p. 88. 39. Cfr A. Vigano, Storia del cinema storico in 100 film, op. cit., p. 18.

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catturavano la simpatia del pubblico, e capace di riscattare con una morte eroica la sua vita sbandata, dettata dalle colpe della società. La durezza e l’intransigenza con cui gli attori del Gangster si muovevano sullo schermo erano un atteggiamento per affrontare la durezza del periodo e liberarsi dalla stretta economica. Nel Western esistono delle situazioni tipiche che possono valere come intreccio generale, su tutte il viaggio che parte alla conquista del west (una carovana minacciata dai pellerossa), la banda di cattivi del villaggio che minaccia la vita di onesti coloni o cercatori d’oro cui si oppone un pistolero buono, oppure alcuni topoi isolati come il guado di un fiume o la lotta tra cowboy e indiani, la rapina in banca o al treno e altre. Nel gangster vi è quasi sempre l’ascesa al potere del gangster di turno e la sua inesorabile caduta, e la redenzione con un grande gesto prima della morte. Oltre ovviamente alle sparatorie, le rapine in banche o gioiellerie, i conflitti con la polizia o con altre gang. Lo scenario, vale a dire la traduzione a livello scenografico e iconografico dell’ambientazione. Il Western si svolge solitamente in grandi spazi aperti, come le praterie, i fiumi, le montagne, i gran canyon, i ranch, gli accampamenti degli indiani e il forte dei soldati, oltre ovviamente ai luoghi tipici come il saloon, l’ufficio dello sceriffo, la chiesa e altri elementi particolari come i fucili, le pistole, i cavalli, tende indiane, cappelli da cowboy, speroni e altro ancora. Nel gangster siamo in pieno regno di Caino con la poetica della città, delle strade bagnate e notturne, dei palazzi e dei sottoscala, degli appartamenti vuoti e dei garage per riunioni segrete. La descrizione degli ambienti criminali rispecchia una parte della realtà quotidiana di quegli anni negli Stati Uniti da cui ha ripreso l’ambientazione, con i suoi covi fumosi, i killer, le partite di poker e i visi lividi dei delatori. Marciapiedi pieni di immondizia, strade male illuminate, lastricati lucidi di pioggia dove il male corre sotterraneo e sprizza da tutte le inquadrature urbane. Il linguaggio cinematografico inteso come grammatica filmica ed espedienti retorici che caratterizzano il genere. Nel Western sono frequenti i piani americani, particolarmente adatti a inquadrare i duelli con la pistola, o i campi lunghi e lunghissimi che permettono di inquadrare i grandi spazi aperti, il ricorso alla panoramica e dal carrello per cogliere i grandi movimenti delle mandrie o le fughe delle diligenze dagli indiani.

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Nel Gangster ci sono virtuosismi della macchina da presa per riprendere inseguimenti cittadini tra gangster e polizia, campi contro campi per rendere le battute che i criminali si sparano in faccia, primi piani per enfatizzare gli sguardi di questi angeli dalla faccia sporca. La cinepresa bracca i personaggi con l’occhio di chi vuole tenerli sotto controllo. Suggestive ricerche fotografiche negli esterni delle strade con un bianco e nero dai forti contrasti. Bisogna dire però che il cinema più fedele al genere, vale a dire quello hollywoodiano, è stato così rigido fino agli anni Quaranta-Cinquanta; già a partire dagli anni Sessanta ha subito delle importanti trasformazioni lasciando spazio a nuove idee e a nuovi autori indipendenti che rispetto alle case di produzione si sganciano da un sistema industriale pretendendo più autonomia. Se consideriamo questa griglia a maglia molto stretta come l’idea di genere, allora possiamo dire fin da subito che quello storico non è un genere. Innanzi tutto perché per ciò che riguarda l’ambientazione questa varia da passato a passato che vuole rappresentare, con l’unica costante di rappresentare un passato lontano dalla contemporaneità. In secondo luogo perché i personaggi non sono stereotipati, possono essere nobili o plebei, preti o cavalieri, soldati o nobildonne, partigiani o giacobini. Anche qui l’unico denominatore comune è quello di un ruolo sociale riconoscibile come appartenente al passato. Le situazioni poi cambiano di volta in volta potendo descrivere guerre o viaggi, rivoluzioni o esplorazioni, biografie di personaggi famosi o vite di uomini semplici; anche qui l’unico punto di unità è dato dalla possibilità di azione dei personaggi nelle vicende all’interno della Storia degli eventi riconoscibili come tali. Per ciò che riguarda lo scenario, vale la declinazione del discorso sull’ambientazione: se si parla di un passato o di un altro periodo, possiamo avere trincee o castelli, fortezze medioevali o ville aristocratiche romane, bunker segreti o l’agorà della polis. Punto di contatto, anche qui, è la traduzione immediatamente riconoscibile dal pubblico dell’ambientazione. Il linguaggio cinematografico poi è davvero impossibile da definire nel presunto genere storico, ci sono film che illustrano grandi battaglie e spostamenti di massa che si servono di grandangoli e campi lunghissimi per

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dare la vastità del paesaggio inquadrato, altri film storici completamente ambientati all’interno delle corti o di ambienti chiusi, con un uso molto minimalista delle riprese. Anche qui se di comune linguaggio cinematografico si vuole parlare questo non può che adeguarsi al soggetto in questione, ma d’altro canto ciò accade con ogni film e con ogni narrazione che esso rappresenta. Da questo punto di vista, dunque, il film storico non è un genere, ma, sostanzialmente, bastava fare una riflessione più generale e a monte sul discorso dei generi hollywoodiani per capire che non si poteva applicare al film storico: il genere inteso come linguaggio cinematografico e Studio System è, come detto, un sistema eminentemente americano e che abbraccia un determinato periodo storico. E l’unico genere che riguarda la storia ed è realizzato con criteri industriali di prototipi in serie, come detto, è il kolossal biblico-mitologico. In Europa, dove si sviluppa per un certo cinema di impegno intellettuale, una politica eminentemente autoriale non attecchisce il genere come produzione industriale che riguarda la struttura e la forma. Gli autori europei, al più, si servono dei generi come bacino di racconti, contenuti e struttura narrativa. Pensiamo alla commedia all’italiana, al melodramma, al polar francese. Non hanno strutture rigide derivanti da una produzione industriale, piuttosto sono filoni che si servono di narrazioni e figure tipiche. Tra questi dunque c’è anche il film storico, che per poter essere considerato un genere, anche se in senso lato, deve comunque avere al suo interno alcuni caratteri specifici che ne rendano possibile l’individuazione e il riconoscimento. Come scritto in precedenza nella ricognizione sul dibattito tra gli anni Sessanta e Settanta sul rapporto cinema e storia, un’intuizione interessante l’ha avuta l’ungherese Yvette Birò, la quale ha definito il cinema storico un genere sulla base di una sua struttura interna, vale a dire il confronto tra l’individuo e le forze storiche. Secondo la Birò è li che va cercata l’essenza del genere storico, che non stà necessariamente nell’evocazione di tempi trascorsi nell’esprimersi al passato, bensì piuttosto nell’esprimere questo nuovo rapporto tra l’universo e l’individuo. La ricchezza di questa proposta ha il merito oltre che di riflettere sul concetto di genere, anche quello di legare il dibattito sul film storico al ricco dibattito europeo di allora sul romanzo storico legato all’estetica del marxismo di György Lukács40. 40. G. Lukács, Il romanzo storico, op. cit.

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Questa definizione era attenta al doppio intreccio dei grandi eventi storici e della vita quotidiana delle masse e privilegiava il contrasto tra storia dal basso e grande storia. «Al di là delle sue indubbie ricchezze una definizione di storicità quale quella proposta da Y. Birò rischia, almeno per quanto riguarda il nostro oggetto, il film storico, di essere poco manipolabile: da un lato essa può essere letta come un’altra posizione normativa, un altro criterio per giudizi di valore, un altro modo per contrapporre storico a in costume (anche se, va detto, Y. Birò era esplicitamente contraria a una simile lettura41); dall’altro, essa rischia comunque di proporre una definizione di film storico talmente ampia da comprendere gran parte della storia del cinema»42. Molto intelligentemente Ortoleva fa notare che attraverso questa categoria, la quale definisce una griglia del cinema storico, è possibile allontanare tutti i film in costume stile cappa e spada in cui la lettura del rapporto tra l’universale della storia e l’individuo non è presente o, se lo è, non è problematizzata a sufficienza; ma d’altro canto, sempre attraverso questa categoria è impossibile non includervi, se non i film Western, almeno i film di gangster che, secondo una lettura divenuta ormai classica, e che si nutre dell’eredità della tragedia greca, vede il tragico come lo scontro tra la volontà individuale e gli imperativi sociali ad essa trascendenti, una sorta di lotta contro un destino più grande che non dà scampo. La definizione di genere storico potrebbe ancora sfuggirci e andrebbe ad abbracciare così anche altri generi cinematografici. «Eppure, sappiamo intuitivamente che esso esiste, che esistono i film storici […], come fenomeno specifico e distinto»43 Supponiamo che, vista la definizione a maglia larga che abbiamo tentato di dare, il film storico come genere esista, vediamo quali sono le caratteristiche che lo contraddistinguono. Secondo Pierre Sorlin perché un film possa essere classificato come storico ci devono essere dei dettagli, non necessariamente numerosi, per collocare l’azione in un’epoca che il pubblico ponga senza esitazioni nel passato e, più precisamente, nel contesto di un’eredità culturale facilmente riconducibile al patrimonio 41. «Beninteso, la scelta di porre in primo piano degli eroi anonimi […] non basta certo a creare dei capolavori. Quanti film schematici sono stati creati in questo modo!» Y. Birò, Le film Historique et ses aspects modernes, op. cit. la nota è nel testo di Ortoleva. 42. P. Ortoleva, Presentazione, in P. Sorlin, La storia nei film. Interpretazioni del passato, op. cit., p. XXXII. 43. Ivi, p. XXXIII.

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storico di un popolo o di un gruppo socialmente definito44. Il modo di esprimersi, i costumi, la guerra, e altri atteggiamenti concorrerebbero a far sì che il film possa essere ricondotto immediatamente a un’epoca riconoscibile come appartenente al passato e che il film possa essere definito di genere storico. Per molti versi, come ha sottolineato la Birò, le caratteristiche del film storico ricalcano quelle del romanzo storico: nel romanzo storico l’autore sceglie un’epoca del passato e vi ambienta la propria vicenda, i cui protagonisti possono essere personaggi storici o personaggi di fantasia. Lo scrittore rievoca epoche, personaggi e ambienti del passato mescolando liberamente fantasia e realtà, vicende accadute con altre di pura invenzione, storie private di un singolo personaggio con storie collettive di popoli. Ma, cosa imprescindibile, un romanzo si può definire storico solo se i personaggi sono coinvolti nelle vicende. Nel film storico, allo stesso modo, il regista sceglie un epoca del passato che non può mai essere un generico passato, ma deve essere un passato immediatamente identificabile dallo spettatore, deve essere immediatamente databile se si tratta di un macroevento o identificabile nel periodo se si tratta di una narrazione per microeventi. Nel primo caso la identificazione non ha bisogno di ulteriori spiegazioni, nel secondo caso spesso si trovano escamotage per mettere a parte del periodo storico lo spettatore: spesso con una didascalia dopo i titoli di testa (un luogo e una data), o con una voce fuoricampo, o ancora altri espedienti come un dialogo tra due personaggi del film che ha lo scopo illustrativo di un’epoca, o un’inquadratura significativamente esplicita di qualche oggetto capace di offrire l’informazione temporale che lo spettatore deve conoscere per il successivo sviluppo della vicenda. Allo stesso modo del romanzo storico, il film storico riserva sullo sfondo della vicenda gli avvenimenti in cui i protagonisti sono coinvolti, e che sono sia quotidiani che appartenenti all’evento. La vicenda storica viene così ad essere esperita e conosciuta da parte dello spettatore anche attraverso l’identificazione con i personaggi che agiscono e patiscono sul grande schermo. Ma, così come il romanzo, il cinema di finzione «è innanzi tutto affabulazione, narrazione destinata a un pubblico tendenzialmente il più vasto possibile. Propriamente parlando, perciò, ogni opera cinematografica classificabile nel genere storico non può essere confusa con un lavoro 44. Ivi, p. 19.

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storico scientificamente concepito»45. È evidente quindi che per quanto puntuali e oggettivi nel descrivere gli eventi storici i film storici, come i romanzi storici, sono opere di finzione; sia un romanzo che un film possono essere costruiti in base a documentazione storica criticamente vagliata, o attraverso il supporto la consulenza e l’aiuto di storici di professione, ma resteranno sempre opere di finzione, il cui contributo per la conoscenza storica non deve essere cercato nella illustrazione oggettiva di un evento oggettivamente ricostruito, quanto piuttosto nella concezione della storia che il suo autore vuole esprimere e nella riproposizione del vissuto emozionale dei protagonisti viventi quel periodo che, attraverso l’identificazione affabulatoria della narrazione, il romanzo o il film ci riportano. Si tende spesso a dimenticare che una narrazione cinematografica non può mai essere una narrazione storica, la quale, come abbiamo visto, affida la propria attendibilità a una presunta scientificità che parte da una critica delle fonti e prosegue in un’interpretazione delle stesse e si sostanzia in un racconto letterario che ha le sue regole. Il cinema storico, dunque, soffre o gode, a seconda dei punti di vista, delle stesse ambiguità teoriche, e delle medesime oggettive impossibilità della narrazione letteraria della storia. Partendo da questo assunto troviamo sempre piuttosto inutili le critiche, peraltro spesso fondate, degli storici di professione a determinate pellicole che ricostruiscono momenti storici secondo criteri di non attendibilità. Il film storico, se da un lato si separa (ma come abbiamo visto non troppo) dal documentario, che si ripromette di investigare criticamente il passato, dall’altro si allontana da qualsiasi pretesa di oggettività storica, anche quando questa è sbandierata ai quattro venti dal regista che pretende di ricostruire vicende del passato legandosi alla verità storica attraverso il film. Piuttosto il film storico può, quando è ben fatto, costituire un esempio della possibilità di coniugare senza stridere, la semplicità dei comportamenti umani quotidiani in una determinata epoca con l’onesta, ma per forza di cose non oggettiva, ricostruzione storica. Spesso è però inevitabile che, quando si affrontano determinate narrazioni cinematografiche che ricostruiscono la storia, non si possa fare a meno di alzare il tono epico del discorso. Con il rischio che se non si possiede il dono del rigore o della sintesi si concede troppo al colore o alla retorica, cose che se in un romanzo sono spesso perdonate, nel film storico diventano sinonimo di ridondanza visiva e dunque di stucchevole drammaticità. 45. A. Vigano, Storia del cinema storico in 100 film, op. cit., p. 20.

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7. Un genere senza storia? Le riflessioni precedenti sono state fatte solo per comprendere meglio come sia difficile inserire i film storici all’interno di un vero e proprio genere cinematografico, come ci siano all’interno di essi le componenti codificate di un filone trasversale. Come abbiamo appena visto lo spartiacque tra un film storico e un film in costume, sia esso poi storico mitologico, d’avventura o altro, è molto sottile, almeno sul piano dei suoi contenuti. Sia un film storico che un film in costume possono far riferimento alla persecuzione dei cristiani nell’antica Roma, al risorgimento italiano, alle crociate o alla prima guerra mondiale. La ricerca dello statuto di genere che stiamo svolgendo ha a che fare più con la struttura linguistica della narrazione filmica e con il rapporto con il pubblico che con i riferimenti tematici, che come abbiamo visto variano da periodo a periodo. Inoltre, se il cinema storico vuole avere lo statuto di genere si deve ricordare che un genere non è mai definito soltanto da una griglia di codici o da istanze narrative, ma che i generi appartengono anche a un insieme storicamente determinato di riferimenti esterni alla semantica del film. I generi hanno sempre una nascita uno sviluppo e un declino. Pensiamo al Western, al gangster, o al Musical. Questi generi si sviluppano a partire dagli anni Venti e tra la metà degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta hanno esaurito la loro spinta creatrice. Se tutto ciò, come detto, è legato a un tipo di industria cinematografica hollywoodiana facente capo alle Major, cambiando la quale cambiano anche le forme di produzione, ci sono anche altri legami con i condizionamenti storici. I generi come quelli appena citati, sono generi che nascono sulla scorta di un determinato periodo storico che traduce sullo schermo le proprie ansie le proprie politiche e i propri problemi e il proprio contesto sociale. Il gangster movie nasce e si sviluppa tra la recessione economica della fine degli anni Venti e i difficili anni Trenta, periodo che vede l’aumento della criminalità delle bande, della corruzione della polizia e, successivamente, riprende vigore dalla metà degli anni ’40 con il Maccartismo, la caccia alle streghe comuniste e poi, negli anni Cinquanta, con la contrapposizione dei due blocchi e la paura generata dalla guerra fredda. Un genere che ha un contatto con il contesto storico-politico-sociale che lo determina costantemente nel suo sviluppo e lo condiziona nelle sue storie.

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Il Western e il Musical, generi per eccellenza del cinema, nascono in un determinato periodo storico, quello a ridosso del 1929, che coincide con l’inizio di una grande depressione economica che costrinse gli Stati Uniti in ginocchio. Nello stesso periodo, però, veniva inventato nel cinema il sonoro, una coincidenza davvero interessante, un nuovo sviluppo per l’intrattenimento del cinema, quasi a far dimenticare i guai economici. Fu inventato il Musical che faceva sognare e che aveva il compito di distrarre la popolazione americana: non la faceva pensare ai problemi finanziari. Il Musical assolveva al ruolo di anestetico di una popolazione. Il Western, invece aveva un’altra funzione. Rapimenti o ruberie, indiani o sceriffi, banche o saloon, nel Western, l’eroe arriva a cavallo combatte con pugni e pallottole, salva la situazione e riprende il suo viaggio. Il Western rappresenta per gli americani quello che per noi europei rappresentano l’Iliade e l’Odissea, l’epica della nascita di un popolo, il racconto fondatore in cui riconoscersi. Dal punto di vista ideologico il Western si fonda sull’idea espansionistica e colonialista degli Stati Uniti, i quali hanno trovato nell’Ovest la figura ideologica del loro destino storico. Una Nazione che, dopo la grande depressione, è in ginocchio, ma che sa rialzarsi, e procedere, prima lentamente e poi sempre più di corsa. Una progressione che è la marcia ideale della loro storia. Dalla costa atlantica agli stati centrali gli Stati Uniti sono stati colonizzati con una vera e propria conquista del West. Non a caso dopo la California, l’ultima terra conquistata, estremo limite geografico continentale di questa avanzata, la conquista procederà verso Occidente, prima con l’acquisizione delle isole del Pacifico poi con l’abile preparazione dell’azione militare nelle Filippine e in Giappone, poi con il tentativo di influenzare Corea e Vietnam. Il Western è l’unico genere cinematografico che rispecchia tale modello fornito dalla storia in termini ideologici, e segue lo sviluppo del contesto politico che condiziona le sue scelte formali. Inoltre il Western e il Musical (ma in questo anche gli altri generi) tendono a crescere con il tempo raccogliendo in ogni nuovo film l’esperienza narrativa linguistica e strutturale dei film che lo hanno preceduto, fino a raggiungere un apice e poi a trasformarsi fino a vivere momenti di decadenza, per alcuni generi definitivi. Sempre il Western ci offre l’esempio più pratico di modificazione, decadenza e morte del genere in rapporto al contesto storico sociale. Come abbiamo visto nel Western classico, genere reazionario per eccellenza, gli indiani rappresentano il pericolo, la violenza, la mancanza di una legge, la tenta-

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zione e la paura della mancanza delle razze. Ma prima di tutto l’indiano è il nemico, colui cui contendere i territori della prateria. Gli indiani sono sempre una minaccia. Dirà John Wayne, in Ombre rosse: «l’unico indiano buono è l’indiano morto», frase che poi sarà ripresa nel periodo del maccartismo americano, periodo di caccia alle streghe, l’unico comunista buono è il comunista morto. Solo più tardi, con l’avvento del rock della beat generation, dei movimenti pacifisti contro la guerra in Vietnam, le contro rivoluzioni, le proteste e i figli dei fiori, degli anni Sessanta, si ha una svolta nel genere Western che coinvolge lo sguardo sull’indiano, e dunque la paura dell’altro: nei film Il piccolo grande uomo (1970), Soldato Blu (1970), Un uomo chiamato Cavallo (1970), Corvo rosso non avrai il mio scalpo (1972), l’indiano non è più il carnefice, ma è la vittima. Gli indiani vengono visti come un popolo che ha subito le violenze dei colonizzatori. La smitizzazione del West e dei suoi modelli è radicale attraverso una lettura tragica della conquista del West; la simpatia per i pellerossa, il rispetto per la loro cultura, la denuncia del loro genocidio non scadono quasi mai nel dramma didattico. Certo si tratta di Western brutali che denunciano l’inferno violento delle guerre indiane, nascondendo le loro ambizioni di apologo sul Vietnam. Western che inaugurarono una nuova tendenza del genere: il conflitto tra la collettività dei legittimi padroni del luogo e la necessità storica del pioniere scatena una dura lotta, ma deve sfociare nella necessaria pratica della tolleranza. Il Western muore, i suoi ultimi film si presentano come ripetizione, come memoria che è allo stesso tempo memoria del Western classico, con citazioni e stilizzazioni. L’esempio del Western ci aiuta a capire che i film appartenenti a qualsiasi genere possono essere ordinati attraverso la storia del genere, e spesso l’anno di produzione, permettendo la collocazione di un film all’interno della storia stessa del genere, permette di individuare specifiche caratteristiche o tematiche. A differenza degli altri generi cinematografici, il genere storico non ha al suo interno una storia particolarmente definita, anzi alcuni critici cinematografici sottolineano l’invarianza della struttura dalla sua nascita ai giorni nostri. «Quello che colpisce maggiormente nel ripercorrere la storia dei film di ambientazione storica è che, se li si considera come appartenenti a un genere specifico, questo risulta caratterizzato, qualunque sia l’angolazione di lettura privilegiata, da un processo evolutivo interno

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molto meno marcato di quello presente nella storia di qualsiasi altro genere cinematografico. La conseguenza è, quindi, quella per molti versi paradossale, che il cinema storico costituirebbe di fatto il genere più povero di storia di tutta la storia del cinema»46. Da questo punto di vista risulta interessante la conclusione di Vigano riguardo al cinema storico come genere invariante perché fatto di prototipi. «Questo deriva probabilmente dal fatto che, a differenza di tutti gli altri generi cinematografici – fatta eccezione per il catastrofico – il cinema storico non ha al proprio interno una serie B, e questo ne fa certo un genere molto particolare, composto esclusivamente da prototipi, ciascuno dei quali tale da rivendicare la propria assoluta eccezionalità. Da ciò deriva anche che lo storico è quasi sempre un cinema grande, ma raramente un grande cinema […] quello che importa sottolineare è come non sia tanto l’anno di produzione a permettere la collocazione di un film entro la storia del genere quanto piuttosto il suo tono narrativo e/o il suo punto di vista sulla Storia, il quale può essere ora epico-ideologico, ora biografico-sentimentale, ora retorico-avventuroso e ora realistico-quotidiano»47.

8. Ipotesi conclusive Proviamo a dare delle conclusioni a questo discorso sul cinema storico inteso come genere. Il cinema storico dunque risulta essere un genere assolutamente atipico che non ha un forte progresso all’interno della sua storia, e che anzi può essere studiato anche al di fuori di una idea di rigida continuità. Ha ragione Vigano che il genere storico non ha progresso, ed è sostanzialmente una serie di prototipi, e ha ragione in questo individuando la causa nella mancanza della cosiddetta “serie B” del genere, ma dobbiamo ricordare che se anche questa presunta “serie B” manca in senso classico, vi sono i kolossal o le commedie in costume che fanno comunque riferimento al passato. Inoltre, come ci insegna Sorlin, questi film sono legati, per un verso o per l’altro, al contesto sociale in cui sono nati. Dunque, il cinema storico è fortemente legato, se non a una presunta storia del genere, alla Storia in generale. Vi sono stati periodi dalla nascita 46. A. Vigano, Storia del cinema storico in 100 film, op. cit. p. 22. 47. Ibidem.

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del cinema, in cui la produzione di film storici è stata ricca e periodi in cui non vi era una significativa incidenza sul mercato dei cosiddetti film storici. A questo punto, se proviamo a mettere insieme tutti gli elementi che fin qui abbiamo analizzato per cercare di capire perché intuitivamente noi sentiamo un film come storico e ne riconosciamo il genere, la chiave di volta per definire il cinema storico come genere la troviamo in un concetto usato in precedenza. Se il cinema storico in quanto tale può essere definito un genere cinematografico con le sue regole, le sue convenzioni, le sue tematiche, le sue strutture narrative, le sue figure, il legame con il periodo storico che lo ha prodotto allora il concetto da usare è quello di empatia: il tacito patto tra chi realizza il film e lo spettatore che ne fruisce. Vale a dire la sintonia del sentire comune tra autori e pubblico, fra la rappresentazione e la diffusa aspettativa della stessa. Un pubblico che entra immediatamente in sintonia con ciò che accade sullo schermo in modo se vogliamo intuitivo, che penetra in quella altra realtà che il cinema crea e che lui stesso concorre a portare alla luce. Riconoscendo immediatamente periodo, eventi, personaggi con la stessa immediatezza, con la stessa profondità con la quale un appassionato di gangster sa riconoscere l’eroe maledetto, il fatto che costituisce la colpa e il destino che colpisce inesorabilmente senza dare scampo. Se intuitivamente siamo noi spettatori a cogliere il film come storico vuol dire che l’apporto alla definizione di genere di un film storico, seppur sfuggente, come d’altro canto sfuggente è il concetto di storicità che ha la società, va data a partire dal sentire comune dello spettatore con ciò che egli vede. Se ammettiamo che un film storico non è definibile come tale, ma in relazione al pubblico che lo recepisce avremmo fatto un passo in avanti decisivo, in vista della chiarificazione di tutti gli elementi che prima solo in parte, e solo in alcune circostanze definivano il film storico come genere. Per questo è fondamentale che il film storico faccia riferimento al patrimonio comune proprio di una certa società in un certo periodo, tanto che i film storici possono apparire incomprensibili se realizzati in altri periodi o in altre società. Se, dunque, con Pierre Sorlin, definiamo il film storico uno specifico genere a partire dalla riconoscibilità degli spettatori, capiamo come le analisi precedenti possono trovare una via d’uscita legata al concetto di storicità che appartiene a un determinato periodo. Di conseguenza capiamo come il genere storico non faccia ri-

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ferimento a un principio normativo (film storico o film in costume) o alla sua struttura interna (ambientazione, personaggi, scenario…) o alle tematiche in esso rappresentate (il confronto tra l’universale della storia e l’individuale degli uomini), né tanto meno alla storia del genere (nascita, sviluppo, decadenza del genere, visto che il film storico nasce con il cinema e tutt’ora vive una fase molto forte). Il cinema storico di volta in volta può essere definito in base a queste categorie, solo se lo si identifica attraverso le conoscenze specifiche storiche degli spettatori. Di conseguenza ulteriore differenziazione con il cinema di genere classico è che il genere storico non forma l’abitudine a se stesso attraverso l’ambito del cinema ma attraverso altri canali che una volta erano la scolarità l’accademia, la letteratura, oggi sono anche altri canali comunicativi, come le televisione, internet. «Spettatori e cineasti condividono un sapere comune che è il referente del film […] Il ricorso alla storia non costituisce, tra i cineasti, una decisione secondaria; esso suggella con gli spettatori un accordo tacito la cui analisi può, allo stesso tempo, darci delle informazioni sulla funzione sociale del genere storico e aprirci degli spiragli sulle regole della produzione filmica»48. A questo punto la definizione di genere storico diventa utilissima per leggerlo in tutta la sua ricchezza di storiografia e insieme immagine di una società, perché è proprio sul patto con le conoscenze storiche che la società possiede, che si basa la definizione del suo appartenere al genere. Questo ci aiuta a capire un aspetto più generale del modo di concepire e di narrare la Storia in tutto il periodo della storia del cinema. Inoltre capiamo anche come il film storico cambi e insieme resti uguale a se stesso in tutta la storia del cinema: la dialettica tra il cinema e le conoscenze storiche del pubblico fa sì che il film storico non abbia una storia, ma si leghi a determinati periodi storici. Solo così, allora, abbiamo la possibilità di individuare le caratteristiche comuni tra diversi film inerenti al passato nati in un determinato periodo storico. A quel punto, pur essendo il cinema storico un genere formato da prototipi, possiamo rintracciare in esso, non solo le regole e le convenzioni, i codici e la struttura, ma anche luoghi, figure e intrecci narrativi che costituiscono per gli spettatori una capacità legata all’immaginario storico che una determinata epoca ha del 48. P. Sorlin, La storia smascherata dal film, in “Storie e storia”, n. 9 (1984), pp. 2728.

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suo passato, e per i cineasti una base su cui lavorare. La rappresentazione filmica di un evento o di un periodo è sempre, in qualche misura, condizionata dalle rappresentazioni che l’hanno preceduta. «In altri termini, se è vero che il film storico è la ricostruzione-rappresentazione di un’epoca da parte di un’altra, è anche vero che quest’incontro non è mai pienamente libero, ma condizionato da una stratificazione d’immagini che si sono venute accumulando»49.

49. P. Ortoleva, Presentazione, in P. Sorlin, La storia nei film. Interpretazione del passato, op. cit., p. XXXVIII.

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Capitolo 3.

Analisi di un film storico

«Apro gli occhi e non vedo niente.» (Incipit voce narrante in Arca Russa)

1. Errori d’approccio e caccia all’errore: gli storici, il cinema, la didattica

«L’

inclusione del film nel materiale usato dagli storici non è il risultato di una scelta volontaria: i documenti filmati si sono imposti agli storici attraverso la mediazione di non specialisti o si specialisti, privi però di preparazione storica»1. Dunque il cinema di finzione oggi è argomento quotidiano tra gli storici, ma nonostante le importanti riflessioni avute su questo campo permangono equivoci e prese di posizioni illegittime, perché parziali e prospettiche, che caratterizzano, ancora oggi, il dibattito sul film storico. La tendenza di tanti storici a porsi di fronte ai film che ricostruiscono il passato più come controllori di esattezza che come lettori di un documento, è alla base dell’equivoco che caratterizza gran parte dell’approccio. Il problema degli storici con il cinema, paradossalmente, è quello della memoria, vale a dire quello di aver dimenticato la lezione dei maestri francesi e di alcuni epigoni italiani. E così ancora oggi sulle pagine dei più autorevoli quotidiani, settimanali o riviste, vi compaiono gli strali lanciati dai professionisti della scienza storica, contro la mancata puntualità filologica dei film storici. Gli storici pensano di dover imporre il loro punto di vista e pontificano persino quando non possiedono una conoscenza tecnica adeguata del linguaggio e del mondo del cinema. Come sottolinea Sanfilippo, molti studiosi sono «carenti delle cognizioni tecniche necessarie e si applicano soprattutto ad analisi contenutistiche, oppure si interessano a questioni distanti dagli interrogativi di Marc Ferro, che pure è sempre citato: invece di chiedersi come, quando e perché il cinema incontri la storia e cosa nasca da tale connubio, si sfor1. P. Sorlin, La storia nei film, interpretazioni del passato, op. cit., p. 19.

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La ‘storia’ senza Storia. Parte II.

zano di identificare gli errori commessi nel rappresentare il passato»2. Questo modo di affrontare il cinema storico enfatizza la ricerca degli sbagli e si trasforma in una caccia all’errore. Questi storici affermava Sorlin, «devono aver dimenticato che il loro lavoro non dovrebbe comportare il rilascio di qualche patente di autenticità, ma la descrizione di come gli uomini di una determinata epoca intendevano la propria storia»3. Senza contare poi che ci sono film che si fregiano del nome di illustri storici come fonte di ispirazione, ma in realtà contengono svarioni e sviste clamorose che vanno da piccoli particolari che solo l’intuizione e la preparazione di uno storico possono individuare, fino a quelli macroscopici che divengono leggendari nel loro anacronismo4. Il disagio degli storici di fronte al cinema subentra nel momento stesso in cui essi si rendono conto del fatto che i film possono essere tra loro contraddittori, quindi evocativi e non necessariamente depositari di un alto tasso di veridicità. Gli storici, afferma Sorlin «dopo aver passato molto ore di lavoro accurato negli archivi alla ricerca di documenti, pensano spesso che la loro concezione della storia sia l’unica valida. Pochissimi tra loro accettano il fatto che ciò che essi ritengono verità storica non ha nulla in comune con ciò che gli altri considerano verità […], un film storico può essere enigmatico per uno studioso: tutto ciò che egli considera storia è ignorato, tutto ciò che egli vede sullo schermo è, secondo lui, pura immaginazione»5. L’autentico problema che deve interessare gli storici è il fatto che, come detto, il genere storico si definisce in base alla sintonia tra l’autore e lo spettatore, visto che quest’ultimo riconosce l’esistenza di un sistema di conoscenze storiche già chiaramente definito quale i cineasti traggono il loro materiale. Questa base comune che si potrebbe definire come il patrimonio storico di una società, è sufficiente perché il pubblico sappia che sta guar2. M. Sanfilippo, Historic park. La storia e il cinema, op. cit., p. 23. 3. P. Sorlin, La storia nei film. Interpretazioni del passato, op. cit., pp. XLVI. 4. Due studiosi, Sergio Bertelli e Ileana Florescu nel loro Corsari del tempo. Quando il cinema inventa la storia, sono implacabili nello scoprire errori nei film storici. Errori che vanno da quelli più famosi come il legionario con l’orologia al polso in Scipione l’Africano di Carmine Gallone e proseguono con episodi discutibili o nel peggiore dei casi decisamente anacronistici, fino a vere e proprie chicche che riguardano utilizzazione in scena di piante o frutti in aree o secoli che non conoscevano. Errori che solo storici di notevole preparazione possono intuire. Cfr. S. Bertelli, I. Florescu, Corsari del tempo. Quando il cinema inventa la storia, Ponte alle Grazie, Firenze 1994. 5. P. Sorlin, La storia nei film. Interpretazioni del passato, op. cit., pp. XLVI-XLVII.

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3. Analisi di un film storico

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dando un film storico e possa collocarlo almeno approssimativamente, in un dato periodo. E quando il periodo non è ben conosciuto, o gli eventi rappresentati sfuggono all’eredità comune, allora il film avrà gli artifici per sottolineare la natura storica degli eventi. Possiamo infatti ipotizzare che per tanti spettatori un film storico costituisca l’unica testimonianza di particolari avvenimenti. In altri termini, la vaghezza, spesso l’esplicita frivolezza dei riferimenti ricorrenti del cinema alla storia non dovrebbero essere semplicemente causa allo storico di irritazione, ma essere assunte a oggetto di riflessione e di ricerca. In poche parole «il film storico è una spia della cultura storica di un paese, del suo patrimonio storico»6. Questo complesso rapporto tra la rappresentazione della storia da parte del cinema e i professionisti della storia che procedono attraverso i modelli scientifici di storiografia, è un aspetto contraddittorio a volte più problematico del rapporto tra cinema storico e immaginario storico collettivo, perché attraverso alcuni storici il cinema storico è assunto come strumento di didattica della storia. Innanzi tutto, come premessa, va chiarito che la messa in scena del passato deve servire per completare una preparazione dopo una seria presa di coscienza del problema storico o viceversa per sollevare una preliminare curiosità, suscitare domande e spingere verso il successivo approfondimento, ma non può e non deve, per chi ha intenzione di occuparsi anche solo in modo superficiale di storia, rappresentare l’insieme della conoscenza. Apparentemente scontata, questa premessa sfugge a chi superficialmente utilizza il film storico per la didattica della storia. Si deve evitare di attribuire «troppa o troppa poca importanza al film storico. Troppo poca: quando – come spesso si verifica nella Scuola – lo si usa solo come illustrazione ludica di una problematica da approfondire seriamente attraverso altri strumenti di lavoro. Troppa: quando si pretende che un film nel suo insieme sia di per se stesso un’oggettiva rappresentazione della Storia, invece di un particolare punto di vista gestito nel suo specifico linguaggio, da cui solo deriva la sua forte e insostituibile significanza di documento storico»7. Inoltre dobbiamo cercare di adottare alcune precauzioni di carattere metodologico quando ci accingiamo a leggere le informazioni che possono essere contenute in un film. Se è la Storia che 6. P. Sorlin, La storia nei film. Interpretazioni del passato, op. cit., p. 20. 7. A. Vigano, Storia del cinema storico in 100 film, op. cit., p. 28.

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La ‘storia’ senza Storia. Parte II.

vogliamo spiegare attraverso i film, non dobbiamo confondere il ruolo dello storico con quello di un critico cinematografico. Quando si cerca di capire quanto sia successo in un particolare periodo del nostro passato attraverso le immagini occorre (a differenza di quanto potrebbe fare un critico cinematografico che colloca sempre l’avvenimento nel presente giudicando principalmente l’estetica del film) riportare, come se fossimo dei viaggiatori del tempo, il film in quel passato nel quale era stato prodotto e cercare di guardarlo come se fossimo insieme agli spettatori che ebbero la fortuna di vederne la proiezione il giorno della sua uscita nelle sale. Il film è sempre figlio della società che lo ha prodotto e porta con sé tutto il carico dei suo valori. È proprio questo il motivo principale che rende il film un documento storico assolutamente imprescindibile per la comprensione del passato. Viceversa, quando è il film che vogliamo spiegare dobbiamo cercare di non ricorrere alla fiscale puntualità storica, ma analizzare le immagini secondo i criteri che abbiamo proposto nel primo capitolo. Ciò non toglie che anche la didattica della storia attraverso il cinema debba possedere degli strumenti di ermeneutica cinematografica, pena l’assoluta deprivazione del potenziale filmico che senza strumenti analitici dell’arte filmica risulta essere solo una mera illustrazione a fumetti in movimento della storia maiuscola. Per ciò che riguarda una didattica della storia attraverso altri canali comunicativi che non siano solo il manuale o la monografia, il cinema ricopre un ruolo particolare a discrezione del film che abbiamo di fronte. La grande capacità del cinema di documentare la realtà del passato o di ricrearla artificialmente si rivela molto utile per illustrare, dare concretezza e attualità ai problemi storici. E tuttavia, come si è cercato di ripetere fino all’ossessione, non va dimenticato che il cinema offre del passato una semplice ricostruzione, una messa in scena che non può coincidere con la realtà vera che è stata. D’altro canto, si è altresì ripetuto che, proprio in quanto opera d’arte e quindi di finzione, il film con la libertà della sua creazione può avvicinarsi al contatto con quella verità che tenta di rappresentare. È questa feconda contraddizione che rende i film interessanti e pericolosi allo stesso tempo per la didattica della storia. Vediamo come ci si può avvicinare a un film storico cercando di rispettare queste contraddizioni a lui connaturate. Il film come documento storico ha in sé un contenuto di profonda ambiguità, dovuta al fatto che la sua riproducibilità lo porta a vivere in

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3. Analisi di un film storico

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un contesto che è sempre presente. Gli spettatori di tutte le epoche tenderanno a interpretare i film con la sensibilità propria del loro tempo decontestualizzando la narrazione del film stesso dal periodo in cui esso è stato prodotto. È proprio questa ambiguità a rendere affascinante un film, il fatto che esso riesca a trasportarci in una dimensione temporale radicalmente diversa dalla nostra e a proporci un sogno che, per il periodo della proiezione, diventa per noi realtà e nel cinema, tra tutte le arti, il limite tra realtà e finzione è estremamente labile. Il potere avvolgente di immagine, suono, parola riesce a trasportarci in una dimensione differente rispetto a quella di un libro o uno spettacolo teatrale, una dimensione che è l’impressione di un’altra realtà. Questa ambiguità del film che vive tra un passato nel quale è stato prodotto e un presente nel quale viene visto è uno dei punti fondamentali dell’analisi storica della pellicola. Di fatto lo storico, se vuole dare una corretta interpretazione del film come documento capace di spiegare il gusto e i valori di una determinata epoca, deve sempre tenere in considerazione l’esistenza di questi due piani, e quindi cercare di calarsi interamente nel periodo nel quale questo film è stato prodotto e visto per la prima volta, cercando di ritrovare quella dimensione passata nella quale il film era stato pensato. I film storici attraverso la loro peculiare doppia temporalità, il tempo rappresentato e il tempo della realizzazione, come fenomeno specifico e distinto, devono essere visti come rappresentazione del passato, storiografia, e dall’altro pretesto per raccontare il presente, fare opera d’arte inserita nella sua epoca. Non tenere in giusta considerazione il contesto nel quale un film nasce e viene prodotto è di fatto l’errore più grande che uno storico potrebbe fare visto che l’analisi del film deve andare proprio nel senso di capire quali fossero le ragioni profonde che ne hanno determinato la produzione. Come lo definisce Sorlin, il duplice viaggio nel tempo che il film propone non è mai stato accettato nella sua complessità, vi è sempre stata la volontà di ridurre la doppia temporalità dei film storici a un’unica dimensione. Se da un lato vi era quella ingenua illusione positivista del film come ricostruzione perfetta del passato, dall’altro si è passati a una lettura unidimensionale del film storico solo come fonte storica del proprio tempo, uno strumento di lettura delle mentalità o degli strati psicologici profondi della società che lo ha prodotto. Un ribaltamento speculare:

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La ‘storia’ senza Storia. Parte II.

«L’atteggiamento letterale prendeva in parola la pretesa del film storico di riportare in vita un periodo passato, e lo giudicava sulla base della capacità o meno di tenerle fede […]. A qualsiasi periodo dichiari di riferirsi il cinema fa riferimento al presente; parla al presente anche quando vorrebbe parlare al passato remoto. In entrambi i casi, il duplice viaggio nel passato è ridotto a una sola dimensione: o si presta attenzione alla temporalità dichiarata, esibita, fino a trascurare il momento in cui il film è stato prodotto (in quanto un giudizio di esattezza o inesattezza prescinde da questo problema) oppure, viceversa, la sola collocazione temporale accettata, riconosciuta, è quella nella quale si è svolto il processo produttivo; mentre l’altra, quella ricostruita dal racconto viene ridotta a mera, e in sé poco rilevante, illusione»8. Volendo fare un parallelo è come se vedessimo un’opera storiografica di Gramsci solo all’interno del contesto in cui è stata scritta, o viceversa solo per ciò che essa ci dice, senza tenere conto dell’aspetto sociale, biografico e dei condizionamenti storici che su questa opera hanno influito attraverso il suo autore. La rievocazione storica dei film di finzione deve essere vista sia come un’opera storiografica sia come uno dei possibili strumenti attraverso i quali una società fa i conti con il suo passato e dunque come un mezzo per poter essere indagata. Proprio per questo l’analisi del film deve partire da una ermeneutica intesa in un duplice aspetto: storico e cinematografico. Nel primo caso si deve contestualizzare, capire e analizzare, il periodo storico che il film ha cercato di esprimere con la sua messa in scena attraverso un’indagine per scoprire ciò che ci dicono i documenti e le loro diverse intepretazioni riguardo a quel periodo ripercorso dalla pellicola. Attraverso la comparazione con altre fonti, poi, si deve riflettere su quanto viene mostrato e quanto viene omesso del periodo storico che il film ha attraversato, nella sua ricostruzione. Infine si ha l’obbligo di afferrare il senso di quanto viene mostrato e soprattutto attraverso quale prospettiva viene mostrato. Lo sguardo dell’autore, con i condizionamenti sociali storici culturali, che, per un verso o per l’altro, interpreta quei fatti tentando la loro ricostruzione attraverso una certa prospettiva è fondamentale. Da questi ultimi interrogativi, infatti, si valica l’analisi storiografica per approdare a un’analisi filmica, si passa dalla riflessione 8. P. Ortoleva, Presentazione, in P. Sorlin, La storia nei film. Interpretazioni del passato, op. cit., p. XXVI.

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3. Analisi di un film storico

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sul contesto storiografico all’indagine del contesto cinematografico. Una sorta di ermeneutica del testo filmico che a cerchi concentrici parte dall’analisi del testo (scomporre le parti del film per analizzare le scelte formali; individuare il linguaggio cinematografico utilizzato che può essere fiction, documentario o altro ancora; enucleare la struttura narrativa e il genere cui attinge avventura, biografico, minimalista ecc), si allarga alla sua realizzazione (caratteristiche produttive, collaborazioni, cast e altro riguardante il profilmico), per poi estendersi fino a un’indagine critica sul regista-autore (filmografia, biografia, poetica, eredità filmiche e ispirazioni-suggestioni) che si conclude su una sorta di analisi della critica (le reazioni di storici e critici cinematografici, gli studi i saggi e le interpretazioni del film), anche in questo caso, come per i documenti filmati di cui abbiamo parlato nel primo capitolo di questa parte, l’esito del susseguirsi di varie interpretazioni di un medesimo film si configura come una sorta di storia degli effetti gadameriana: non esiste una lettura critica capace di esplicitare la verità di un testo, ma l’esegesi stessa viene a configurarsi come parte dell’opera, che si deve conoscere per una corretta didattica della storia attraverso il film storico. Il film, comprese le interpretazioni che lo accompagnano nella sua storia, è un’opera collettiva, e di conseguenza socialmente condizionata, non un parto dal nulla di un singolo individuo, ma una serie di interventi, in parte simultanei, in parte successivi. Questo anche per non farci dimenticare ciò che effettivamente il pubblico ha visto. A questo punto la visione del film appare certamente meno neutra e si può riflettere sul contenuto storico senza pregiudiziali e farne materiale didattico. Da ultimo vorremo ricordare che nonostante tutte le proposte analitiche da noi avanzate, il film non va paragonato a un rebus da decifrare, non deve essere considerato una sfida da vincere o perdere. Non si tratta di spiegare il film o scoprire ciò che il film significa. Il film è, e rimane, un’opera d’arte di cui si deve fruire, possibilmente di fronte a un grande schermo e in una sala buia. L’analisi da noi proposta è diretta a chi vuole utilizzare il film storico per fini didattici e teneva a chiarificare la molteplicità di approcci per capire le idee storiche presenti nel film.

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La ‘storia’ senza Storia. Parte II.

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2. Il senso di un film storico La maggior parte delle analisi specializzate su libri riviste che si propongono di investigare il rapporto tra film e storia, quasi sempre utilizza il termine di paragone tra gli eventi mostrati nel film e la loro descrizione scritta, come se un’interpretazione siffatta risultasse efficace. Innanzi tutto va detto che la preparazione di una pellicola spinge a sacrificare dettagli che certamente impoveriscono la comprensione storica. Questi sacrifici però risultano importanti per non complicare il racconto cinematografico. Quel che conta, al di là di inutili pedanterie è che un film può restituire un’atmosfera che oltre ad affascinarci può aiutarci nella comprensione del passato nonostante imprecisioni filologiche, dalla cui ossessione si deve mantenere una distanza critica. La visione e l’analisi di un film devono sempre essere unite alla consapevolezza che le immagini proiettate sullo schermo, così come le pagine di un romanzo o addirittura di un manuale di storia non possono restituire per intero gli eventi del passato. Alcuni film storici di Scott contengono errori filologici clamorosi, ma al loro interno vi sono sequenze di battaglie epiche che fanno si che lo spettatore sia catapultato nel profondo della vicenda come non può capitargli con nessun’altra comunicazione relativa al passato. Il film storico, come il romanzo storico o il racconto orale, rende il ritmo della vita mentre i libri di storia e gli storici non sanno farlo. D’altro canto come già detto per il rapporto tra storia e letteratura, un testo di storia permette al lettore di esercitare il suo spirito critico e di controllare quello che sta leggendo, mentre il cinema come già il romanzo storico non offre chiarimenti in merito a ciò che sta raccontando; il più delle volte omette di citare le fonti e abbraccia la categoria della verosimiglianza in luogo della categoria dell’oggettività. Nel film storico però la categoria di verosimiglianza ha perso progressivamente i caratteri originari di rispetto del vero, per trasformarsi nel rispetto dei particolari che definiscono comunemente il film storico. «Ciò non significa che il cinema non tenga in qualche modo conto della realtà storica o di quanto sappiamo su di essa, ma che il maggiore o minore grado di affidabilità storica di un’opera dipende anche dal pubblico cui mira»9. E a secondo di chi ci si rivolge che cambia la prospettiva di un autore. Non va sottovalutato il discorso dell’immagina9. M. Sanfilippo, Historic park. La storia e il cinema, op. cit., p. 27.

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3. Analisi di un film storico

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rio collettivo legato alla storia, un immaginario che proviene dall’eredità che per ciò che riguarda determinati periodi ha elaborato un modo di recitazione, di vestire gli attori, di creare scenografie che sono a un tempo false e immediatamente riconoscibili. I cineasti sono consapevoli di queste convenzioni e spesso ingaggiano con questo immaginario collettivo un corpo a corpo che non sempre li vede vincitori, perché i condizionamenti sono molti e infrangerli vuol dire offrire al pubblico qualcosa che non si aspetta, in altre parole rischiare. Un vero metro di paragone per capire la storia nei film è quello di cercare quale logica profonda soggiace al resoconto storico di un avvenimento e tentare di capire se questa è restituita o meno, attraverso gli strumenti che sono propri dell’arte cinematografica, nel film. Come la traduzione (termine insufficiente) dalle pagine di un romanzo alle inquadrature di un film, non deve basare la sua autorevolezza o il suo valore sulla base di una presunta fedeltà filologica nel passaggio da un linguaggio a un altro, così la storia dei film non deve essere giudicata attraverso il metro della puntualità al vero dei documenti (presumendo che questo esista), ma al loro senso, alla loro interpretazione. La realizzazione di un film storico non implica la concretizzazione meccanica in immagini degli eventi documentati, ma la sua aderenza al senso che questi hanno. La figurazione meccanica dei fatti o dei documenti così come sono, può anche farsi, ma la probabilità che questo perda la sua essenza filmica (per essere documentazione, illustrazione, docufiction) abbandonando la fascinazione, l’illusione che un film ci offre, è quasi certa. Oltre che con i documenti, nella realizzazione di film storici si dovrebbero usare i modelli concettuali che possono desumersi dalle fonti, perché questi poi possono essere manipolati e tradotti in immagine senza far perdere il senso profondo dell’avvenimento storico. La cinematografia riflette la coscienza storica che la società di una certa epoca assume rispetto ad avvenimenti più o meno lontani. Le regole della narrazione cinematografica utilizzano e concretano le scoperte degli storici. Anzi i film spesso non sono altro che la sedimentazione delle riflessioni degli storici professionisti. Ma un film resta un’opera d’arte e il gradimento di chi ne fruisce non si basa sulla figurazione più o meno veritiera o sulla correttezza storica, e soltanto chi si occupa della didattica della storia disseziona un film storico come se fosse un saggio accademico per poterlo restituire come materiale didattico. Il film è apprezzato per

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La ‘storia’ senza Storia. Parte II.

ciò che ci fa sentire, per quello che ci comunica anche attraverso «la profonda e dolce coscienza dell’irrealtà di ciò che si vede. […] può piacere anche se non persuade, anche se anacronistico e persino se storicamente esatto. Perché in esso di storico non c’è che il costume, ma la materia è irreale come quella d’ogni altro film. Perché insomma a rigore tutti i film sono storici»10.

3. Film storici: tra pedagogia civile e spettacolo Il cinema se vuole essere scrittura storica pone immediatamente due tipi di problemi tra loro correlati: quale tipo di film è una scrittura storica? Chi è che deve realizzare il film? Partiamo dalla seconda domanda: il film storico, la traduzione in immagini della storia deve essere realizzata dallo storico o da un regista? Oppure da entrambi con le loro competenze? Apparentemente retorico, questo interrogativo in realtà cela dietro di sé uno dei problemi più controversi che sostanzialmente poi determinano la debolezza del genere storico come tale, perché fa nascere la frattura tra il momento dell’elaborazione storica e il momento della traduzione in immagini. Se il cinema vuole farsi strumento critico per una seria lettura della storia, ovvero cinema storico utilizzabile anche dal punto di vista didattico nell’accademia, allora è necessario da parte dell’autore (soggettista, sceneggiatore e regista) calarsi nel senso filosofico ed etico dell’epoca di cui si intende raccontare un particolare fatto, e non limitarsi a leggerlo in chiave moderna, con il giudizio dell’uomo contemporaneo dato che non è possibile giudicare un evento storico con la strumentazione critica di cui dispone. Questo giudizio è possibile solo attraverso uno sforzo intellettuale. Solo se ci si sforza di leggere un determinato evento con la consapevolezza dell’etica di quel determinato momento storico, si può essere in grado di tentare una lettura corretta. Se invece si pensasse di leggere quell’evento attraverso la cultura odierna, con la capacità critica contemporanea, con la filosofia che nel tempo ha fatto maturare ed evolvere i nostri punti di vista, molto probabilmente si commetterebbero errori imperdonabili. Se questo è un metodo d’approccio alla storia vali10. A. Gerbi, Il film storico, “Domus”, VII, 73 (1934), p. 41.

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3. Analisi di un film storico

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do per ogni racconto che vuole dirsi storico dal punto di vista scientifico, applicarlo al linguaggio cinematografico diventa più complesso. Innanzi tutto perché si legge un’episodio lontano nel tempo con un linguaggio contemporaneo. Ed allora si deve immediatamente dire che è discutibile filmare mediante la tecnica e la scrittura cinematografica di oggi il ’500 o il ’200: il regista dovrebbe sforzarsi di assumere lo sguardo dell’epoca. Che cosa ha fatto Visconti quando ha realizzato Senso? Ha cercato di interiorizzare lo sguardo dei Macchiaioli (per fare un esempio figurativo rivolto ai pittori dell’epoca): le sue inquadrature rimandano a quel tipo di sguardo diffuso nell’epoca. Il ritmo e la tensione narrativa sono quelle del melodramma, ovvero di un codice narrativo corretto, perché contemporaneo all’epoca rappresentata. Tentare di ricostruire un episodio nella maniera più fedele possibile non significa, tuttavia, essere prigionieri dell’oggettività (termine che abbiamo imparato a scansare dal momento che per ciò che riguarda la storia è davvero difficile poterlo utilizzare): significa invece essere alla ricerca di una soggettività profondamente consapevole del tempo raccontato. Per raggiungere tale obiettivo il regista, come afferma lo stesso Benvenuti nella intervista in appendice, deve mostrare allo spettatore delle immagini realizzate per fornire il maggior numero di informazioni. Ovviamente non si parla di informazioni tecniche o di documenti scientifici, ma del concetto di informazione nella sua totalità. Il proposito è quello di dare allo spettatore il ruolo di protagonista; il compito del regista è di scegliere il punto di vista con cui quell’evento si mostra nel modo più corretto. Il cinema, che si voglia o meno, ha un ruolo fortemente pedagogico. Per stabilire quale rapporto vi sia tra la scrittura cinematografica e un documento storico, occorre definire che cosa si intende per documento storico. Occorre una particolare attenzione per vedere le tracce che il passato ha lasciato e che possono essere oggetto di cinema: è documento storico tutto ciò che aiuta a comprendere l’epoca indagata. È documento storico l’opera di un pittore, la disposizione urbanistica, e, ovviamente, anche il documento scritto ma non solo per quello che è vi scritto. Tornando al regista Paolo Benvenuti, lui stesso ha raccontato che per il film Gostanza da Libbiano, si è soffermato a osservare dei “ghirigori”, delle macchie, dei disegnini che il notaio durante il processo di Gostanza ha scarabocchiato sulle sue carte. «Mi sono detto: se ha fatto questo disegnino vuol dire che in quel momento è successo qualcosa, magari qualcosa che non ha voluto trascrivere. Così inizio a

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La ‘storia’ senza Storia. Parte II.

capire (a immaginare?) il rapporto tra il notaio e la realtà da lui osservata. Sono elementi che mi aiutano a ricostruire, anche poeticamente, il respiro di un’epoca e i legami tra i personaggi di una vicenda»11. A cosa serve tutto ciò? A essere corretto nel momento in cui si deve intervenire sul testo che si ha a disposizione. Nel momento in cui l’autore decide che un testo storico deve diventare cinema, cioè rappresentazione cinematografica, deve sottoporlo a tutte le leggi drammaturgiche del caso. Se il resoconto di un personaggio storico sono trenta pagine di un libro del ’700, non si può far fare all’attore che interpreta il personaggio storico un monologo che reciti quelle pagine, perché spezzerebbe la tensione degli eventi che accadono. Si deve quindi trovare un frammento di quel lunghissimo racconto, un elemento che sia essenziale, che dia correttamente il senso del tutto ma non metta in discussione la struttura del racconto cinematografico. L’architettura drammaturgica ha bisogno di alcuni elementi fondamentali: un inizio, uno svolgimento interno, una tensione narrativa (che non deve mai cadere) e una conclusione possibilmente. Raccontare il tempo vuol dire essere trasportati in una dimensione lontana mediante un linguaggio presente. È proprio questa ambiguità a rendere affascinante un film, il fatto che esso riesca a trasportarci in una dimensione temporale radicalmente diversa dalla nostra e a proporci un sogno che, per il periodo della proiezione, diventa per noi realtà. Questa ambiguità del film che vive tra un passato nel quale è stato prodotto e un presente nel quale viene visto, è uno dei punti fondamentali dell’analisi storica della pellicola. Di fatto lo storico, se vuole dare una corretta interpretazione del film come documento capace di spiegare il gusto e i valori di una determinata epoca, deve sempre tenere in considerazione l’esistenza di questi due piani, e quindi cercare di calarsi interamente nel periodo nel quale questo film è stato prodotto e visto per la prima volta, cercando di ritrovare quella dimensione passata nella quale il film era stato pensato. Se il film utilizzasse un linguaggio differente da quello dei suoi contemporanei, o se parlasse di cose avulse dalla società che lo produce, difficilmente potrebbe essere comprensibile dagli spettatori. Non tenere in giusta considerazione il contesto nel quale un film nasce e viene prodotto è di fatto l’errore più grande che uno storico potrebbe fare.

11. Cfr Intervista Benvenuti in Appendice.

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3. Analisi di un film storico

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4. Conclusioni Nel corso della sua ormai più che secolare esistenza il cinema ha intrattenuto con il passato storico rapporti diversificati. Di questa pluralità di approcci del mezzo cinematografico a quell’insieme di conoscenze e accadimenti che chiamiamo Storia si è tenuto conto nel presente repertorio di percorsi. Se da una parte, infatti, si fa riferimento al prodotto cinematografico che la tradizione ha identificato con il termine di film storico, in quanto caratterizzato dalla rievocazione d’eventi e personaggi di gran rilevanza storiografica, quelli, per intenderci, che trovano posto sui manuali scolastici o, più semplicemente nella memoria collettiva, dall’altra hanno trovato collocazione nei percorsi proposti anche pellicole che presentano con il realmente accaduto un rapporto piuttosto elastico e dialettico, se non addirittura apertamente arbitrario (la narrazione, insomma, non ha referenti reali, ma è frutto di pura invenzione). In quest’ultimo caso si è voluto dare spazio a quei titoli in grado di proporre uno squarcio su un mondo, un’epoca, una temperie, ricco di interessanti ricadute conoscitive sul piano storico, soprattutto in senso sociologico, ambientale, antropologico, culturale, religioso, ecc. Sul Cinema e il suo linguaggio, si è cercato di dare adeguato spazio anche a opere esplicitamente antistoriche, come le parodie, o al limite del verosimile, ma interessanti dal punto di vista filmico per il modo originale e creativo con cui viene rivisitato il passato. Ci sono così film spettacolari che possono avere più o meno una certa aderenza alla storia o si servono della storia per raccontare una storia che affascini il pubblico. Accusare Troy, Artù o il Gladiatore di infedeltà storica, gridare allo scandalo se il personaggio di Orlando Bloom nelle Crociate è inventato, risulta anacronistico e davvero fuori luogo. Non è più il Cinema che, per così dire, si mette al servizio della Storia cercando di supplire al fatto che lo spettatore non ha potuto assistere in prima persona agli avvenimenti raccontati, ma è la Storia che viene rimanipolata dal Cinema per servire a un discorso altro. La società, la guerra, l’epica, vengono assorbite dal cinema il quale ne fa narrazione per immagini, in modi quasi sempre suggestivi; come dice Aristotele la meraviglia è lo spunto della conoscenza. Però in questi ultimi anni il dibattito sul rapporto Cinema e Storia ha ripreso vigore, e favorita dalla disponibilità di mezzi per la riproduzione dei film, si è estesa nelle scuole e nelle università la domanda sul cinema

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La ‘storia’ senza Storia. Parte II.

come fonte di conoscenza e ricerca storica. Ci si può chiedere, però, se il cinema storico, proprio a causa della sua ontologica esigenza affabulatoria, non finisca con l’essere uno strumento troppo estraneo alle esigenze sistematiche della didattica. Spesso il cinema storico infatti è usato solo in modo illustrativo di un determinato evento storico, disperdendone così il capitale di informazioni ricche di storia. E allora per un autentico progetto conoscitivo della storia attraverso il cinema, più che estrapolare dalla storia del cinema film il cui contenuto serve a illustrare o descrivere alcuni momenti della storia dell’uomo, risulta essere più utile, oltre che interessante, analizzare l’insieme dei film storici realizzati in un certo periodo storico, trasformando questo in autentico documento conoscitivo. Così saltano fuori le varie interpretazioni (pensiamo ai film sulla resistenza del neorealismo a ridosso della guerra, degli anni Settanta impegnati politicamente, o quelli spettacolari di oggi). Nella scuola il cinema storico è usato esclusivamente come illustrazione di un momento storico poi da approfondire seriamente attraverso gli strumenti di lavoro come il manuale, i documenti o le carte storiche. La lettura realistica del cinema avalla l’equivoco. Un film nel suo insieme non è mai una rappresentazione oggettiva della storia, si tratta, come abbiamo visto, di un particolare punto di vista che utilizza in un certo modo il linguaggio cinematografico che dà forza e significato al suo essere documento storico. A differenza del romanzo storico che si concentrava sul vissuto e sul patito, o sulla lettura di senso della storia, nel cinema storico è importante la storiografia, vale a dire la ricerca interpretativa. Quella di giocare con il passato è una tentazione insita nel cinema e di conseguenza ricorrente. Nel cinema il passato come area del noto, immaginario collettivo storico di una società e il passato come area del mistero, come figurazione mai completamente penetrabile è un’ambivalenza creatrice che non può esaurirsi, e che anzi vive una nuova e avvincente offerta dal punto di vista cinematografico. Eppure il cinema storico, oggi più che mai, è sfuggente, come genere rischia di sfuggirci dalle mani; sappiamo che c’è, che nella cinematografia contemporanea sono presenti, e molti, questi racconti per immagini dal passato, ma vi è una difficoltà a recuperarli, proporne un discorso unitario e analizzarli. È sfuggente perché si colloca in un orizzonte problematico e di transizione, nel quale, come abbiamo detto, la definizione di Storia appare meno sicura, meno rassicurante di quanto fosse anche solo un paio di decenni fa. Oggi la storia è

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3. Analisi di un film storico

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sospesa tra un’idea diffusa di storicità al limite della irrilevanza (per cui diviene storico tutto quanto attiene alle forme del passato, e d’altro lato tutto ciò che ci raccontano sul passato viene creduto vero); e un’idea di storicità esigente e rigorosa basata spesso su criteri più procedurali che di contenuto. In sostanza tutta interna alla professione storiografica. Se si vuole oggi analizzare nuovamente il discorso tra cinema e storia allora si deve tener conto di questa duplicità, e capire quanto i modi di raccontare la storia oggi ne siano condizionati. Come sostiene Benedetto Croce, la storia è sempre contemporanea e quindi non sempre particolarmente obiettiva. Ovvio che anche l’interpretazione di un film in chiave storica sia contingente all’epoca in cui questo film viene interpretato e che in esso si fonda la storia del film con la nostra storia personale.

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Capitolo 4.

Percorsi

«Se, al limite, si può governare senza delitti, non si può assolutamente governare senza ingiustizie.» (E.M. Cioran)

1. La nuova epica degli eroi: Giovanna d’Arco, Troy, King Arthur, Alexander

L’

epica e il mito sono forme letterarie utilizzate da poeti e scrittori (Omero per eccellenza) per raccontare le gesta di uomini che hanno compiuto atti eroici. L’idea degli esordi storici di un intero popolo, può raccogliere in sé un potenziale evocativo e mitico in grado di ravvivare una comunità umana. Infatti, nel racconto delle origini si concentrano le ansie di sicurezza e di legittimazione riguardanti l’identità di cultura. Ma la storia ha cominciato a definire se stessa proprio in contrapposizione alla narrazione mitica. Ribadire una netta distinzione tra il mito e il racconto storico o storiografico vero e proprio è stata la prima grande preoccupazione degli storici. La nascita del genere storico, nella Grecia Antica, fu determinato dal rifiuto sistematico delle spiegazioni mitiche e tramite l’uso di fonti documentarie accertate. Gli storici classici, come Erodoto e Tucidide, misero al bando le credenze ereditate dai propri avi, rifiutando il regno del favoloso, e impegnandosi a esaminare le testimonianze, per correggerle e per costruire un racconto che aspirasse alla verità. Erodoto, che si rivolge alle origini della storia greca, alle guerre persiane, mostrò una viva passione della narrazione epica. Egli volle mettere in primo piano le caratteristiche dei popoli, i costumi e le indoli etiche e politiche delle genti. Ma, nel fare ciò, si tenne lontano dalle seduzioni della mitizzazione. La storia delle origini, nella concezione del grande storico greco, deve persuadere per la sua verosimiglianza e non per il suo fascino misterioso. Anche nel cinema molti hanno inteso ribadire una netta distinzione tra il film mitico o mitologico e il film storico o storiografico vero e proprio.

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La ‘storia’ senza Storia. Parte II.

Eppure non è sempre presente, anche nell’impresa storiografica, il richiamo al significato simbolico ed evocativo del dare radici a un popolo, del donare una sensatezza che sappia rispondere ad ansie più profonde della semplice conoscenza storica? Inoltre c’è un altro elemento da portare subito in gioco, un elemento stilistico e metodologico: raccontare la Storia, qualsiasi storia, narrare i fatti della vicenda umana, rappresenta sempre compiere un atto di estrema libertà. Il mito, l’epica, rappresentano la libertà estrema del racconto delle vicende che in qualche modo investono l’uomo. Il mito, in realtà, è l’altra faccia del problema dell’origine della Storia. Il disagio degli storici di fronte alla mitizzazione subentra nel momento stesso in cui essi si rendono conto del fatto che i miti possono essere tra loro contraddittori, quindi evocativi e non necessariamente depositari di un alto tasso di veridicità. Nel cinema il discorso sul rapporto tra racconto mitico e racconto storico è, se possibile, ancora più complesso. Il racconto cinematografico è già una forma di linguaggio mitico, che ci nutre di suggestioni visive, di immagini che ci sovrastano nel buio della sala e che esercitano un fascino proprio grazie alla loro parentela con il linguaggio archetipico e con il mondo onirico. Apparentemente dunque il cinema sembrerebbe più propenso ai racconti mitici; più che fare leva sulle conquiste della ricerca storica scientifica si alimenta della potenzialità evocativa del suo linguaggio e sul patto di condivisione dell’immaginario collettivo tra il regista e lo spettatore. Negli ultimi anni si è assistito a una rinascita del kolossal mitologico e del kolossal storico. Una piccola quanto inutile distinzione tra i due filoni (in realtà come vedremo assolutamente vicini) può essere data dal fatto che il kolossal mitico si nutre di immagini evocative che rifiutano una qualsivoglia aderenza al verosimile, e tanto meno al reale storico; i secondi pur nutrendosi anch’essi di epica e si suggestioni visive, fanno comunque riferimento, se non a un reale storico, quantomeno al verosimile storico. Tra i film del genere visti negli ultimi anni vanno senza dubbio ricordati Giovanna d’Arco (1999) di Luc Besson, Troy (2004) di Wolfgang Petersen, Alexander (2004) di Oliver Stone, e King Arthur (2005) di Antoine Fuqua. Questi film basati o meno su personaggi realmente esistiti, sono da ricondurre al genere mitico a partire dal tema trattato per arrivare alla forma narrativa utilizzata.

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4. Percorsi

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La rinascita del genere epico mitologico è figlia del successo e dei cinque Oscar assegnati a Braveheart – Cuore impavido di Mel Gibson nel 1995. Questa sorta di ritorno al passato in senso storico e storico cinematografico, coincide con il nuovo interesse che la figura di Giovanna d’Arco riscuote nella seconda metà degli anni Novanta. Lo storico Franco Cardini le dedica uno studio importante dal punto di vista biografico e del mito che sorge immediatamente dopo la sua morte1. Il regista Luc Besson insegue invece il successo che da sempre accompagna la Pulzella d’Orléans sullo schermo fin dalla nascita del cinema. Il film di Luc Besson girato all’americana, è pieno di effetti speciali, arditi movimenti di macchina e tante comparse, grande budget, grande spettacolo. Il film non è però all’altezza di quelli che lo hanno preceduto. La storia è ripercorsa, tranne diversi flash back, attraverso il classico svolgersi dei fatti avvenuti. Guerra dei Cent’anni. Giovanna d’Arco, già leggenda popolare a diciotto anni, riesce, da sola, a superare le linee nemiche inglesi e raggiungere a Chinon Carlo VII, delfino di Francia. La “pulzella” convince il futuro re di essere in diretto contatto con Dio, soprattutto lo induce ad attaccare gli Inglesi ad Orléans. Giovanna vince una battaglia dopo l’altra. Quando Carlo, incoronato re, decide di trattare col nemico inglese, Giovanna continua la guerra da sola. Tradita, viene fatta prigioniera dai Borgognoni, che simpatizzano con gli inglesi, e venduta al nemico per 10.000 scudi. Il re non muove un dito, ben contento di essersi liberato della patata bollente. Giovanna viene processata per eresia. Le si offre la possibilità di abiurare ma non recede dalle proprie posizioni. Arde sul rogo il 24 maggio del 1430 sulla piazza del mercato vecchio in Rouen. Un film davvero “pacchiano” che punta ad avere un effetto lisergico, a partire dalla scelta della protagonista, Milla Jovovich, sorta di cyberpunk medioevale, che recita con un coinvolgente slancio febbrile, ma troppo spesso la regia la spinge sui toni dell’isteria, e che ha l’ambizione smodata di misurarsi con modelli del passato francamente ingombranti (dalla Falconetti a Ingrid Bergman a Sandrine Bonnaire) senza remore e paure. «Un film volutamente rivolto al grottesco: regnanti dai volti stralunati, preti che sembrano vampiri, vescovi obesi e osceni, guerrieri dall’aspetto punk, attempati skinhead, mercenari sfregiati che violentano fanciulle 1. F. Cardini, Giovanna d’Arco. La vergine guerriera, Mondadori, Milano 1998.

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agonizzanti e strappano i denti ai prigionieri. In mezzo a questi Freaks si aggira Giovanna in preda ai propri incubi, didascalicamente ridotti a un infantile mania religiosa acuita dall’aver visto lo stupro brutale e l’uccisione della sorella maggiore»2. In mancanza di uno stile, Besson attinge all’horror, all’immaginario New Age, all’epica. Fa sfoggio di inutili effetti, come le accelerazioni, le inquadrature fuori asse e grandangoli deformanti, perdendo di vista non tanto i temi religiosi e storici, questo se vogliamo era nelle intenzioni, ma anche il respiro epico e il linguaggio mitico del sogno che come si sa nel cinema non lo fa aderire all’archetipo onirico a discrezione dei filtri o degli effetti usati. Un film che pur sforzandosi di trovare un’armonia rimane in realtà sempre in bilico fra ricerca e moda, spesso suggellando la storia di una donna nell’antica lettura di santa-invasata. Ma più che della Giovanna d’Arco di Besson, sorta di episodio mal riuscito, che non riesce a metabolizzare l’epica e il dramma vissuto dalla sua eroina e l’eredità dei film precedenti che l’hanno raccontata, merita parlare della nuova ondata di “peplum” dei primi anni del nuovo millennio. L’onda lunga del successo de Il signore degli anelli, l’effetto spettacolare dell’impatto degli aerei sulle torri gemelle portano a un’esasperazione dell’immaginario catastrofico visivo nei media contemporanei. Una cascata di titoli tra il 2002 e il 2004 recano con sé l’eredità di un impianto tra il favoloso e l’orrorifico con uno spessore figurativo mai visto fino ad allora. Il problema sorge per il fatto che dopo la magniloquenza de Il signore degli anelli, saga in 3 volumi proposta in trilogia filmica (girata in contemporanea ma uscita in sequenza, 2001-2002-2004), spettacolare miscuglio di azione e magia, con trucchi ed effetti speciali mirabolanti, tutti i kolossal successivi sembrano un deja vu, visivamente meno “ricchi” di quelli che li hanno preceduti sullo schermo. Pur con il grande dispiego di mezzi che li caratterizza, la cifra del kolossal storico- mitologico appare in tutto il suo formato “normalmente patinato” nel 2004-2005, quando vengono distribuiti nelle sale Troy, King Arthur e Alexander. Il primo è assai liberamente ispirato all’Iliade di Omero, l’altro abbraccia i personaggi del celebre ciclo letterario de I Cavalieri della Tavola Rotonda e infine, l’ultimo è ispirato alla vita di Alessandro Magno e porta la firma del regista più controverso e ambiguo nei confronti della Storia che ci sia in circolazione, quell’Oliver Stone di Platoon, JFK – Un caso ancora 2. M. Sanfilippo, Historic park, op. cit., p. 124.

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aperto, Gli intrighi del potere – Nixon, Nato il 4 luglio, e per concludere quel World Trade Center, film sull’azione dei pompieri a New York l’11 settembre 2001, visto con molte riserve all’ultima Mostra del Cinema di Venezia (2006). I primi due sono opere costose, tecnologicamente accurate, con cast che seguono l’appeal divistico degli attori emergenti, e che soprattutto hanno deciso di mettere da parte il rigore filologico (non si contano le infedeltà, le licenze hollywoodiane, le interpolazioni testuali) e inoltre, senza rendersene conto, rispettano la grammatica e la sintassi di un filone che anche il cinema italiano, in passato, ha saputo modellare con perizia e improvvisazione, eleganza e sciatteria, memoria storica e amnesie clamorose, tutto finalizzato all’intrattenimento e allo spettacolo. L’incontro tra peplum e blockbuster statunitense funziona solo se lo spettatore è disposto a a superare le sue conoscenze dell’epica, o la sua passione per le saghe medioevali. La fabula madre per gli autori di questi kolossal serve soltanto per creare personaggi che sovrastano la realtà, per realizzare imprese non sulla mitologia, ma da mitologia cinematografica. Il mondo antico riserva viaggi nel tempo e nuove-vecchie risorse al cinema contemporaneo d’avventura, a partire proprio da quel racconto fondatore di tutto l’occidente che è l’epica di Omero. Troy non è una messa in scena rigorosa dell’Iliade, non è un testo filologico, non è una ricerca, non è una lettura critica, non è una parafrasi, con cospicuo apparato di note, dei canti omerici. In Troy oltre alla sorte di alcuni eroi e alla scontata assenza degli dei dell’Olimpo, soltanto citati, il principale mutamento è il tempo dell’azione, alterato rispetto all’epica omerica. Inoltre, potrebbe essere accusato di attenuare temi delicati o addirittura fraintenderli (l’amore tra uomini), di usare contaminazioni storico-letterarie poco ortodosse, e l’elenco degli addebiti che si potrebbero muovere contro il film sembrerebbe non finire qui. Ma non è questo il punto; come scrive Enrico Magrelli aspettarsi che sia qualcosa di diverso da quello che è, appare ridicolo e superfluo, ravviva il pregiudizio sull’inferiorità e sulla “volgarità” del cinema, fa dimenticare la regoletta che un film ispirato a un libro, di valore altissimo o di banale consumo, deve avere il coraggio e l’impudenza di tradirlo e, nel caso di un kolossal hollywoodiano, immaginato, scritto, girato e lanciato per essere un campione di incassi dell’estate, questo laborioso “tradimento” deve atte-

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nersi più alle convenzioni di un “genere” che ad altro. Troy è fedele all’economia narrativa, al mix divistico, alle semplici linee strutturali, ai dialoghi, ai ritmi del “peplum” (che è sempre stato considerato dalla maggior parte dei critici un filone minore, una pratica bassa nel mosaico della produzione artigianale del cinema)3.

Superato il discorso della presunta fedeltà, questo film va analizzato per quello che è: un costoso peplum Warner Bros che ricorre al computer per schierare sul campo di battaglia 75.000 guerrieri di cui 50.000 achei e 25.000 troiani, che ha potuto visualizzare le mille navi che approdano a Troia, le milizie di comparse e il clangore delle loro armi. Però, come già accennato più sopra, tutto ciò non crea più una meraviglia visiva, un coinvolgimento emotivo maggiore dettato dagli effetti speciali associati all’epica della tematica, ma al limite un discorso filologico tutto cinematografico. Si cerca allora di analizzare come l’aderenza fisica ai ruoli è prioritaria rispetto alla recitazione e alla elaborazione dei personaggi. Si tenta di investigare da dove questa o quest’altra scena è presa, che citazione è stata effettuata, se il digitale è usato meglio in queste battaglia o in altre pellicole e altro. Insomma la tematica della narrazione mitologico-storica perde quasi di valore. Ciononostante vi sono momenti degni dei canti omerici, come il risolutivo duello tra Ettore e Achille, apogeo dell’azione epica, filmato con insolita cura tecnica, o (come nell’ultimo canto dell’Iliade) la restituzione del corpo di Ettore al vecchio Priamo che si conferma come una delle scene più suggestive di tutto il film. La pietas per i morti è uno dei temi ricorrenti in questo colosso bellico dove la ferocia della guerra è più volte enunciata, causa di strazio per i vinti e di gloria immortale per i vincitori. Se Troy si definisce per l’eleganza patinata di costumi e fotografia, in King Arthur, al contrario, l’epica sfocia nel barbarico. Si tratta di un film estremamente energico, dove i distinti cavalieri della tavola rotonda lasciano il posto a selvaggi uomini di guerra che difendono la loro terra. È un Artù mai visto prima quello di Fuque, senza dubbio lontano dall’immagine leggendaria che abbiamo di quei racconti. Un Artù fedele a un Impero Romano, fatto di personaggi insulsi, e codardi, che riuscirà a difendere il suolo britannico dall’invasione dei Sassoni. Merlino più che 3. E. Magrelli, Troy, “Film Tv”, n. 22 (2004).

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un mago assomiglia a un santone che guida i druidi e combatte al fianco di Artù. Non rimane molta traccia del triangolo amoroso Artù-Lancillotto-Ginevra, piuttosto sia il cavaliere senza macchia e senza paura che eravamo abituati a vedere, sia la dolce regina sospesa tra lui ed Artù, sono descritti come feroci guerrieri. Ginevra addirittura la vediamo fasciata da cinture di pelle che le stringono il torace, galoppa, tira con l’arco, combatte, urla a squarciagola durante le battaglie, corre, stringe i denti e addirittura morde: una selvaggia alla corte del re al posto delle sensuali dame vestite di pesanti veli incastonate in torri medioevali. Il film, girato interamente in Irlanda, ha al suo interno scene davvero avvincenti, come quelle sul ghiaccio, dove i Sassoni danno la caccia ai cavalieri e rimangono intrappolati nelle acque gelide. Una versione fortemente barbarica della saga, ciò non di meno fortemente modaiola e legata all’immaginario new style barbarico-metropolitano. Discorso molto diverso per Alexander, monumentale epica sul leggendario condottiero macedone che nel III secolo a.C. conquistò mezzo mondo (dai Balcani al Medio Oriente all’India) prima di morire a Babilonia a soli 32 anni. Oliver Stone, autore polemista per eccellenza e teorico della cospirazione, da sempre affascinato dalla figura di Alessandro, sognava di fare un film sull’eroe fin da quando era ragazzo. Lo stesso Val Kilmer, già attore di Stone, conferma che sin dai tempi del film The Doors lui e il regista parlavano del progetto da farsi. Molti anni dopo il regista è riuscito nell’intento, realizzando un’opera assolutamente personale e del tutto imparagonabile agli altri kolossal. Eppure il budget, 155 milioni di dollari, lo sforzo produttivo, 94 giorni di riprese tra Marocco e Thailandia, sembra riportare l’opera all’interno di quei binari. Ma Stone è regista-autore delle sue opere e non si lascia schiacciare dalla macchina produttiva che ha messo in moto, e se vogliamo forse questo risulta proprio il limite del film: l’eccesso di personalizzazione del personaggio, cui avrebbe fatto bene invece una maggiore atmosfera da peplum. La storia procede per flash back: la giovinezza di Alessandro trascorsa nella sua villa a Pella, gli studi con Aristotele, l’addestramento con i cavalli e le lance ma soprattutto il sogno di emulare le gesta degli eroi dell’Iliade, in particolare Achille, di cui Alessandro si considerava discendente. Una sfida per Stone che diventa tripla, quasi si sovrappongano la sua “visione” di Alexander, la propria “visione” di uomo, e quella di regista di un cinema “impossibile”. Partiamo dal suo cinema, che in realtà abbrac-

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cia anche gli altri due aspetti della sfida. Stone ha portato all’eccesso gli elementi che costituiscono da sempre l’essenza del suo fare cinema. Sono, nell’ordine, i seguenti: l’essere un individualista; l’amare un’idea “barocca” quasi ridondante del cinema; l’autobiografismo che connota ogni sua opera. Alexander soddisfa queste esigenze: una personalità complessa con difficili rapporti familiari, un tiranno “partecipativo”, un avventuriero, un conquistatore spinto da ideali. In Alexander, è portato all’eccesso in tutto. Le battaglie sono realizzate senza digitale, all’«antica». Dalla prima a Vangamela, iniziale passo della scalata al potere di Alessandro (ma anche ciò che il padre aveva desiderato e mai era riuscito a fare), fino all’ultima nelle foreste dell’India dove il cavallo di Alessandro si scontra con il mistero di animali-mostri chiamati elefanti. Nelle battaglie il regista realizza una molteplicità di punti di vista di un solo gesto, testimoniando la cifra stilistica di un film inconfondibilmente stoniano anche e specialmente nelle furenti sequenze, mitragliate da un montaggio frenetico, a volte esasperato. La sua dimensione più clamorosa è dunque stilistica, nella scenografia così come nei costumi e nell’esasperazione cromatica della lotta, con quel rosso porpora così lisergico da sembrare frutto di un’allucinazione. Ma poi si lascia prendere dall’enfasi, dal sensazionalismo, dall’autoreferenzialità. In primo luogo nell’aspetto tematico, con i frequenti ricorsi agli argomenti di natura misterico-esoterica collegate al superomismo di matrice nietzscheana restituiti attraverso il ripetuto ricorso ai simboli del serpente, dell’aquila e a tutto l’universo dionisiaco evocato in modo piuttosto esplicito. Inoltre l’autoreferenzialità nasce anche dall’ambito autobiografico: Alessandro ha un rapporto di freudiana complessità con i genitori, Filippo il Macedone e Olimpia. Quest’ultima sogna di innalzare il figlio al trono per vendicarsi dei tradimenti del marito. Inoltre il confronto tra Alessandro e suo padre Filippo sembra ricalcare quello tra Oliver e il genitore militare: anche il regista parte per il Sudest asiatico per dimostrargli di essere un uomo, e l’esperienza della guerra in Vietnam è ciò che più lo ha sconvolto. Sorta di incubo ricorrente, nel suo cinema e nella sua memoria. Il film manifesta le magniloquenti ambizioni tragiche, il sogno di Babilonia (una città immaginaria creata su una declinazione esotica della Metropolis di Fritz Lang), oro, ricchezze e, come dice Alessandro, il rispetto di una civiltà antica, dunque grandissima, eppure nella sua antichità «assolutamente barbara», da modernizzare. Non funziona, oltre che per l’esasperazione dei tre elementi citati, perché su quasi tre

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ore di proiezione il regista inserisce il sovraccarico pedagogico esplicativo attraverso l’intersecarsi dei piani narrativi. Comincia il narratore Tolomeo (che tornerà più volte), seguono poi le istruzioni di mamma Olimpia, poi quelle del maestro di lotta e di quello di storia. Tocca poi al padre Filippo (che tornerà nel sottofinale con un flashback) provare a spiegare al giovane Alessandro come si sta al mondo; e poi le descrizioni di Aristotele dei persiani, distillate a Alessandro giovanetto dal maestro, come la spinta a «giacere» con gli uomini se c’è scambio di intelligenza e non solo voluttà. Alexander ama e sempre amerà l’amico del cuore Efestione nonostante le tre mogli. È questo che, appunto, ha scatenato lo scandalo in America. Ma in realtà, come detto, il problema non è qui; il problema è la mancanza di equilibrio di un progetto diseguale: da un lato film epico con ambizioni di tragedia storica e sequenze corali di forte suggestione spettacolare e dall’altro pagine di irritante enfasi o didascalica pesantezza, dettate appunto da un problema dell’uomo Stone.

2. Il kolossal di Scott: Il gladiatore e Le Crociate Tra i registi che più hanno lavorato sulla Storia negli ultimi anni c’è certamente Ridley Scott. Come si sa il regista di Blade Runner ha una abilità magistrale per la costruzione della scena, dell’ambiente, per una rigorosa organizzazione visiva che aderisce sapientemente alla struttura concettuale della storia. Nei suoi film il tema della narrazione coinvolge la sostanza del cinema e diviene linguaggio, all’interno di una precisa e stringente corrispondenza fra i temi visivi, dalle dimensioni spesso epiche affidate per intero alla luce, all’occhio e allo sguardo, e quelli concettuali, la lotta tra forze universali (il duello, il male alieno o androide, la guerra, la Storia, il destino) e l’individuo, il singolo (quasi sempre uomini e donne qualunque, che, loro malgrado, sono costretti a scontrarsi e a ribellarsi a quell’universale divenendo sorta di eroi involontari). In Scott forma e contenuto si fondono nell’“eroe per caso” che sfida (anzi viene sfidato da) un ordine superiore, ed è portato avanti attraverso il rispetto delle regole del genere (accentuate però all’inverosimile) che viene di volta in volta utilizzato per descrivere questa tensione dialettica tra il singolo e l’universale. Il suo cinema è percorso da personaggi che vivono su di sé il peso della storia, sia quella personale che quella maiuscola collettiva. E quando

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La ‘storia’ senza Storia. Parte II.

la sua narrazione decide di affrontare la Storia il regista opta per l’epica verosimile, molto più facile da manipolare, della ricostruzione storica. Ed è in quest’ambito, sospeso tra la leggenda e il documento che il regista si trova a suo agio, perché può dipanare la sua mostruosa abilità nel camuffare la realtà, facendone avventura visiva attraverso il linguaggio del verosimile. A differenza dei film precedenti, quelli di Scott non sono racconti inverosimili, sono semplicemente falsi: capolavori d’avventura storica che non abbracciano la realtà della ricostruzione scientifica puntuale. Tant’è che più che alla Storia Scott mira alla tradizione filmica, all’immaginario collettivo storico che si è sedimentato attraverso il cinema di genere epico-esotico hollywoodiano dei kolossal del secondo dopoguerra. La vicenda de Il gladiatore è tutto sommato molto semplice: racconta la storia di Massimo Decio Meridio, il generale iberico che è quasi un figlio per l’imperatore Marco Aurelio. Dopo l’ennesima vittoria contro i Britanni, l’imperatore, che disistima il figlio Commodo, decide che il suo successore sarà proprio il generale Massimo, uomo straordinario, amato da tutti. Ma Commodo uccide il padre e ordina la morte del generale e della sua famiglia. Massimo fugge in Africa, diventa gladiatore, torna a Roma dove si fa riconoscere. Diventa l’eroe del Colosseo, idolatrato dal popolo. Tanto che lo stesso Commodo non può farlo uccidere. Lo sfida a un duello nell’arena, dopo averlo vigliaccamente ferito. Massimo uccide finalmente l’orrendo imperatore e muore ricongiungendosi attraverso una sequenza di sapore new age con i suoi cari. Come detto l’intera vicenda è assolutamente falsa. «Commodo fu eliminato da una congiura nel 192 d.C. (e non nel 180) e la Repubblica non fu mai restaurata. I costumi, gli arredamenti, le armi, i gioielli, le pettinature, il modo di salutare, il livello di confidenza tra l’imperatore e i suoi amici o nemici, i rapporti tra le classi sociali e d’età, nonché quelli tra i sessi e tra parenti, non hanno niente a che vedere con quanto ci rivelano i documenti storici»4. Ciononostante Il gladiatore è un bellissimo film di guerra e di avventura che sposa con passione e senza ambiguità la causa della pace, anche in questo caso individuale e universale. Scott si abbandona al racconto dall’ampio respiro epico senza mai perdere di vista le sue tesi di fondo. Così tenendo fede al genere costruisce caratteri di sintetica complessità, con uno spessore psicologico profondo (o, se si vuole, superficiale) quanto basta per 4. M. Sanfilippo, Historic Park, op. cit., pp. 81-82.

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tenere a distanza gli stereotipi pur mantenendone l’impostazione (l’“eroe per caso”, il cattivo, il saggio, l’amico fedele, ecc.). Ma più che con Il gladiatore Scott ha realizzato la summa del suo percorso poetico tra universale della storia e singolarità dell’eroe, ne Le Crociate. Il film, pensato, realizzato e uscito in un momento politico-diplomatico internazionale delicato in cui non si lesinano definizioni come “scontro di civiltà”, “guerra di religione” e, appunto, “crociate”, non evita le allusioni all’oggi; anzi, se vogliamo, le cavalca. E così se Il gladiatore predicava pace e democrazia, Le Crociate comprende il tema della tolleranza e della convivenza tra religioni diverse. La storia, anche in questo caso, abbraccia un uomo comune: Balian è un maniscalco francese che, con la perdita della famiglia, ha messo in dubbio le proprie convinzioni religiose. Quando il crociato Godfrey di Ibelin di ritorno da Gerusalemme, gli comunica di essere suo padre e lo invita a seguirlo in Terra Santa (il periodo è quello della tregua tra seconda e terza Crociata), per il giovane comincia un’avventura che ne cambierà la vita, ponendolo di fronte, come tutti gli eroi scottiani, a una Storia universale di cui è costretto a deviare la direzione. Il ragazzo segue il destino paterno a Gerusalemme, governata dai cristiani, dove si ritrova nel bel mezzo di una faida di potere tra correligionari: da un lato i cavalieri Templari comandati dal guerrafondaio Guy de Lusignan vogliono a tutti i costi guerreggiare con gli infedeli, dall’altro il saggio re Baldovino (minato, però, dalla lebbra) e il suo luogotenente Tiberias cercano di tenere in piedi una fragile pace concordata con il grande guerriero Saladino. Baldovino ha una sorella, Sibilla, sposa del fetido Lusignan e subitamente innamorata del bel Balian. Come in tutti i generi di avventura che si rispettino anche Le crociate subiscono un’accelerazione del ritmo narrativo dovuta ai misfatti di coloro che vogliono solo potere e denaro: in questo caso i Templari guidati da Guy de Lusignan escono da Gerusalemme, sfidano i mussulmani in campo aperto. Massacrano una carovana, uccidono donne e bambini. Uccidono anche la sorella del Saladino. Nasce qui la grande abilità del regista che riesce, attraverso la potente macchina hollywoodiana a ridurre i conflitti ideologici a materiale drammaturgico. E così gli infedeli pongono l’assedio a Gerusalemme. Balian diventa il difensore della città. Il suo discorso agli assediati è il primo cuore ideologico del film: «non combattiamo per i sepolcri, per le moschee, per le croci, per chiunque nel passato abbia fatto di questa città un

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La ‘storia’ senza Storia. Parte II.

simbolo; combattiamo per la gente, per le donne, per i vecchi, per i bambini; combattiamo per la nostra vita». L’assalto delle truppe del Saladino è veemente, ma Gerusalemme resiste, eroica. Dopo due giorni di assedio il Saladino chiede di parlare con Balian. E il loro dialogo è il secondo cuore ideologico. Balian pensa di aver di fronte un incivile e minaccia di resistere fino all’ultimo uomo e poi, prima di capitolare, di distruggere tutti simboli religiosi della città. Il Saladino apprezza il coraggio dell’avversario e gli fa una proposta: «io voglio Gerusalemme, non voglio voi; lasciatemela e tutti coloro che sono in città avranno salva la vita». Balian ricorda al Saladino del massacro dei Templari quando hanno preso Gerusalemme! E Saladino perentorio pronuncia la frase che nei film epici è la chiave di volta ideologica del film «io non sono un uomo di quel genere». Balian capisce e lascia Gerusalemme al nemico. «Se Dio tiene tanto a questa città, saprà lui cosa farne». Ma non può trattenersi dal chiedere al Saladino, mentre questi si allontana verso le sue truppe: «cos’è, per te, Gerusalemme?» Quello risponde: «Nulla». Poi fa due passi, si gira, sorride, stringe i pugni e si corregge: «Tutto». Le Crociate è un film in cui un eroe cristiano abbandona volentieri Gerusalemme, per salvare le vite di migliaia di innocenti; e in cui un eroe musulmano attacca i cristiani solo quando è provocato dall’insensata crudeltà di alcuni di loro. Ovviamente ne Le crociate la dose di buonismo didascalico, di messaggini politicamente corretti, di inni al relativismo religioso risulta davvero troppa, anche perché non è credibile né serio ammiccare agli odierni guai mediorientali dando la colpa esclusivamente agli occidentali (con la morale dei crociati quanto meno dubbia e la fede religiosa a volte usata come semplice pretesto) e dove il «feroce» Saladino di tanta iconografia è, più correttamente, un sovrano colto e raffinato. Certo, il futuro cui ambisce Scott è, evidentemente, un futuro di tolleranza, visti i segnali distensivi che lancia in tutto il film, ma davvero forse in questo non c’è molto di diverso dai cosiddetti film o romanzi storici precedenti dove universale e individuale si intrecciavano a fin di bene (pensiamo solo a Manzoni). Il semplicismo dei vecchi film hollywoodiani si riscattava, in un certo senso, con la purezza dello slancio mitico-simbolico; anche in questo caso, lo sfarzo visivo e scenografico da 150 milioni di dollari affonda nell’assunto della morale: che fornisce per il buon peso una specie di scenetta-chiave, col Saladino carismatico e saggio che dopo il dialogo sopra riportato entra trionfante nella Città

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Santa e si ferma per raddrizzare un crocifisso finito rovesciato nell’infuriare dei combattimenti. Anche qui, ovviamente, la verità storica è lasciata ad altri tipi di restituzione: il nobile Baliano II è certamente esistito, ma non ha mai fatto il fabbro in Francia né è mai stato in Europa, faceva parte di una famiglia del regno crociato di Gerusalemme. Anche per ciò che concerne gli altri personaggi si tratta di semplificazioni caricaturali: Rinaldo di Chatillion e lo stesso Guido di Lusignan vengono dipinti come fanatici Templari in uno schema a tesi che divide i personaggi tra falchi e colombe, tra moderati e fondamentalisti che vogliono lo scontro di civiltà, trasportando allusivamente al presente quella che fu una lotta per il potere tra due fazioni aristocratiche del regno crociato. Oltre a tutto questo, il film pecca di decontestualizzazione, offrendo agli spettatori la possibilità di riflettere su fatti lontani con strumenti intellettuali di oggi: il fatto che l’esercito mussulmano bruci la santa reliquia non è dovuto al fatto che volessero spregiare il Cristianesimo o Gesù stesso, ma che per i mussulmani il profeta Gesù non è mai stato crocefisso. Per ciò che riguarda le ambientazioni è lo stesso Scott ad ammettere di essersi basato sulle illustrazioni ottocentesche di Gustave Dorè che danno una romantica visione delle atrocità commesse in queste guerre dove ha attinto per costumi, armi, cavalli e dove il feroce Saladino viene descritto come un leader arabo di bell’aspetto. Una visione colonialista e orientaleggiante, come quella degli affreschi che Napoleone III dedicò alle crociate a Versailles. Ma la grandezza di Scott sta altrove. Egli si nutre di immaginario storico cinematografico precedente, aggiornandolo con l’abitudine a determinate immagini della cultura visiva contemporanea. E così pensiamo alle panoramiche aeree che riprendono il Colosseo prima dell’incontro tra gladiatori, queste sono già impresse nella mente degli spettatori contemporanei, abituati prima di ogni incontro calcistico o di football americano, alle immagini di suggestive riprese dall’alto dello stadio dove di lì a poco si disputerà il match importante. O all’assalto notturno degli arabi dove, tra anacronistiche catapulte e bombe incendiarie, Gerusalemme è esposta a una pioggia di fuoco che come nelle riprese delle telecamere a infrarossi nei troppi bombardamenti di città mediorientali vediamo tracciare scie luminose nel cielo. In Scott la tensione universale-singolare viene restituita anche attraverso un modo di filmare battaglie che non ha pari: riprese dal basso ravvicinate e spesso rallentate, concitazione del movimento data attraverso effetti speciali che restituiscono totali da brivi-

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La ‘storia’ senza Storia. Parte II.

di. Si tratta di un film che mischia dunque una vicenda intima, di finzione con la pretesa verità storica dei grandi fatti. Un film però che ha il merito di far vivere i personaggi in un mondo storico totalmente fatto su misura dell’immaginario collettivo contemporaneo.

3. Differenze di stile: la storia insanguinata di Mel Gibson e Martin Scorsese Tra le molte differenze, esistenziali, estetiche e ideologiche vi sono alcuni aspetti nelle ultime opere di Mel Gibson e Martin Scorsese, che pare abbiano dei punti in comune. Entrambi gli autori hanno la particolarità di far nascere grandi polemiche intorno alle pellicole che realizzano, entrambi sono incuriositi a livello di poetica cinematografica dalle tematiche del destino, del martirio e della redenzione dei loro protagonisti; entrambi hanno un rapporto tutt’altro che semplice o pacificato con il cristianesimo, cui forse hanno dedicato i progetti più ambiziosi e più sentiti; e infine entrambi abbracciano di frequente una narrazione macchiata di sangue per raccontare pagine storicamente più o meno importanti della vicenda dell’uomo. Braveheart di Mel Gibson, l’abbiamo detto più volte, è certamente un punto di svolta per ciò che concerne il ritorno a una narrazione filmica, imponente dal punto di vista produttivo riguardante la storia. Con Cuore impavido tornano di moda i grandi peplum, pellicole epico-avventurose che hanno come protagonisti eroi senza macchia e senza paura, in questo caso Sir William Wallace (1272-1305) patriota ed eroe nazionale scozzese che si muove tra storia e leggenda. Oggi questo kolossal si colloca fra i classici nella messa in scena delle battaglie medievali, ma giunse al successo attraverso un percorso irto di difficoltà e contrasti. Quando gli offrirono d’interpretare l’eroe, Gibson allora 39enne obiettò che era troppo vecchio per un personaggio morto a 33 anni e contropropose di assumere la regia. Dopo lunga trattativa, fu deciso che il divo avrebbe fatto il protagonista, il regista e anche il produttore. Nel frattempo la fiducia dell’attore australiano nell’impresa era talmente cresciuta che non solo accettò di lavorare gratis, ma tirò fuori 15 milioni di dollari di tasca propria. La lavorazione fu caratterizzata da disagi, piogge e freddo; qualcuno scrisse che la fatica si leggeva nel volto del protagonista solcato da nuove

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rughe. «Quando il film uscì le critiche furono miste e gli incassi deludenti. Si deplorò che c’era troppa violenza, che il regista aveva eccessivamente favorito se stesso come attore. Scoppiarono discussioni riguardanti vere o presunte infedeltà storiche come l’uso dei «kilt» che in realtà apparve solo nel 1740 o quella di dipingere sul volto con i colori di guerra, ma l’inattesa pioggia di 10 nomination agli Oscar rovesciò la situazione. E la serata del 25 marzo 1996 ai Dorothy Chandler Pavillon si concluse con un trionfo: 6 statuette, comprendenti gli effetti sonori, il trucco, la fotografia, il suono, la regia, e il miglior film. Quest’ultimo Award che vide tornare sul podio Mel Gibson già premiato come regista, fu solennemente consegnato da Sidney Poitier»5. Il film è ambientato nella Scozia del XIII secolo, vessata dagli inglesi. Rimasto orfano del padre massacrato dagli odiati invasori, allevato da uno zio che gli insegna a usare il cervello oltre che la spada, William vorrebbe essere un uomo di pace, però, quando gli inglesi gli uccidono la fanciulla amata, impugna le armi trasformandosi in uno spietato vendicatore e trascinando dietro di sé schiere sempre più vaste del popolo delle Highlands. Cosa che disturba gli aristocratici scozzesi comprati a suon d’oro e di titoli da re Edoardo il Plantageneto e timorosi dell’ascesa di quello che considerano spregiosamente un plebeo. Il quale non manca di incantare la bella principessa francese infelicemente sposata al figlio viscido e omosessuale di Edoardo e perciò incline a riconoscere la purezza di un cuore che si nasconde sotto tanto piacevoli fattezze. William Wallace batte gli inglesi a Stirling (1297), conquista la stima della regina Isabella, prosegue la guerriglia, è sconfitto a Falkirk (1304), abbandonato dai nobili passati al re Edoardo I è preso, torturato e infine giustiziato. Il film di grandi investimenti, con migliaia di comparse e con una certa attenzione alla ricostruzione storica, è idealmente diviso in 3 parti (adolescenza, prime prove di coraggio e dolori di Wallace; le battaglie; i conti con la Storia), e punta decisamente sullo spettacolo, sui grandi temi popolari (la lotta per la libertà e la giustizia) e sui luoghi canonici del genere “cappa e spada”. L’opera si lascia apprezzare per la spettacolarità della ricostruzione delle battaglie, tra scozzesi e inglesi, violente e insanguinate, dove la macchina da presa alterna campi lunghissimi da brividi a inseguimenti ravvicinati dei soldati in mezzo alla mischia che si feriscono e si uccidono, senza 5. T. Kezich, Braveheart, “Il Corriere della Sera”, 11 settembre 2003.

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lesinare arti mozzati e spruzzi di sangue attraverso un realismo spesso impressionante. Oltre a ciò vi è l’aspetto ideologico popolare, quello legato ai grandi temi dell’indipendenza e della libertà, requisiti distanti dalla politica ufficiale, qui rappresentata dalla corte inglese, formale e lontana, ipocrita e senza passioni. Contro questa politica si scaglia l’eroe che esalta le proprie origini popolari e nazionali, inneggiando alla ribellione e alla libertà. Ovviamente il discorso del genere cappa e spada viene in tutto e per tutto rispettato dalla sceneggiatura alla realizzazione: ingiustizie e ribellioni, si alternano a storie d’amori e tradimenti, personaggi di contorno simpatici e coraggiosi fanno il paio con nemici vigliacchi e potenti, il martirio finale del protagonista regala una speranza alle popolazioni vessate dalle ingiustizie. Sulla scena finale si deve però spendere qualche riflessione in più: se il martirio dell’eroe è cosa abbastanza ovvia e scontata, sorta di catarsi per una libertà di là da venire ma certa; meno scontata risulta essere la visibilità data alla tortura che egli prima di morire è costretto a subire. L’eroe, già condannato, si sta per incamminare al patibolo, dove prima di morire sarà brutalmente torturato. Rifiuta il veleno che lo farebbe morire in fretta datogli dalla regina e, cosciente di ciò che lo aspetta, si avvia tra le mani del boia. A questo punto qualsiasi altro film probabilmente darebbe per assunta la tortura e attraverso un’ellissi narrativa giungerebbe alla morte, gridata o eroica come si vuole, ma pur sempre già data. Non così Gibson, il quale, una volta giunto (come personaggio e come narratore-regista) sul patibolo, regala minuti di autentica macelleria della carne. Anche se a noi non è dato di vedere tantissimo, anzi solo le reazioni della folla che sta assistendo al supplizio, ci sembra che il regista indugi fuori misura su questo aspetto. Gli spettatori del martirio all’inizio applaudono contenti, e in un certo senso incoraggiano al suo lavoro il carnefice, il quale come un prestigiatore mostra a tutti i brutali strumenti che adopererà nella tortura. Noi spettatori cinematografici non vediamo granché, ma ci rendiamo conto di ciò che sta accadendo. I dolori di Wallace sono atroci, ma lui non si lascia sfuggire nemmeno un grido; il torturatore, decisamente un professionista nel suo mestiere, passa da uno strumento all’altro in una scala di violenza sempre più insopportabile, ma nessun lamento proviene dalla vittima. Anche gli spettatori inglesi cominciano a provare un po’ di pietà, primi moti di insofferenza si manifestano nella piazza, ma il boia

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va avanti imperterrito, passando da un supplizio all’altro, fino a quando il popolo, toccato da una prova di coraggio e forza così grande, non manifesta apertamente la sua contrarietà alla prosecuzione del dolore per lo scozzese. Anche il boia sembra impietosirsi o semplicemente accoglie ciò che la piazza suggerisce, e con un colpo bene assestato fa volare via il capo del povero Wallace non prima però che questo abbia gridato a squarcia gola con le ultime forze «Libertàààà!!». La descrizione dell’ultima sequenza assume un valore particolare non tanto e non solo per ciò che essa rappresenta, quanto retroattivamente per una analisi dell’autorialità del percorso di Gibson, che da quel momento in poi radicalizzerà, nei suoi film, questo discorso della violenza sulla vittima sacrificale. Solitamente i registi consapevoli che affrontano il tema della tortura (la storia del Novecento ne ridonda e continua nel Duemila) si pongono il problema dei modi di rappresentarla in immagini o di suggerirla. In Gibson questo problema non c’è o, se c’è, è risolto nell’esporre, nel mostrare tutto e di più, quasi che il regista e attore australiano ne goda. Accade così che ritroviamo Gibson, questa volta come attore, in un film, non suo come direzione, ma praticamente proprio come marca, dal titolo emblematico Il patriota (2000). Il film è di Roland Emmerich, che, come lo definisce Morandini, è il più zelante americanofilo tra i registi tedeschi approdati a Hollywood negli anni ’906. Il patriota racconta la storia d’un combattente per l’indipendenza americana nella Carolina del Sud. È il 1776, l’anno in cui le tredici colonie americane degli inglesi si dettero governi autonomi e sottoscrissero quella Dichiarazione d’Indipendenza che segnò la nascita degli Stati Uniti d’America. È l’ultima guerra nel conflitto tra colonizzati americani e colonizzatori inglesi: si concluse nel 1783, quando con il trattato di Parigi l’Inghilterra riconobbe l’indipendenza degli Stati Uniti. Benjamin Martin (Gibson) è un proprietario terriero, vedovo, con sette figli. Si tratta di decidere l’entrata in guerra dello Stato. Ben vorrebbe starne fuori, ma suo figlio maggiore si arruola e per salvarlo dall’impiccagione è costretto a esporsi. Con un’azione degna di Braveheart uccide venti inglesi e diventa una leggenda: lo Spettro. A capo di un gruppo 6. Cfr. M. Morandini, Il patriota, in Dizionario dei film 2004, Zanichelli, Bologna 2004.

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di volontari affianca l’esercito regolare e passa di vittoria in vittoria. Le grandi scene di battaglia sono quindi poche, mentre abbondano i piccoli agguati guerriglieri. Il film si carica di tutti i possibili luoghi comuni dell’azione e non: c’è il nero che ragiona di un mondo nuovo, c’è la bambina che non parlava e che miracolosamente parlerà, c’è il colonnello inglese cattivissimo che assume tutto l’odio di Ben (e dello spettatore) per un adeguato, liberatorio lieto fine, e c’è l’immancabile tappeto musicale di John Williams che tutto enfatizza e blandisce. Il patriota riporta la Storia a psicologie, sentimenti e cronache del presente, banalizzando il “tutto” perché “tutti” possano capire e nessuno possa sentirsi in soggezione. I personaggi sono ridotti a ingranaggi passivi di un macchinone narrativo “politicamente nazionalistico”: l’ottimismo, il patriottismo, il politicamente corretto. Ma anche qui emerge la sensazione sgradevole riguardante il compiacimento per la tortura e il sangue. Vi sono diverse sequenze in cui il protagonista ne è coinvolto. Innanzi tutto egli tiene nascosto a tutti ciò che ha compiuto nella precedente guerra dei francesi contro i Pellerossa. Alla fine scopriamo in un monologo davvero irritante (offertoci tra l’altro con l’escamotage narrativo di una risposta alla domanda del figlio che approfitta dello stato di semi ebrezza del padre per estorcergli la verità), quali sono le atrocità che non riesce a dimenticare né a perdonarsi. Ed anche se la resa cinematografica è davvero povera, l’ascoltare le atrocità commesse è molto disgustoso e inutile all’economia del film. In una sequenza precedente, la prima scena di guerriglia che il padre deve compiere per salvare il figlio, lo vediamo tranquillizzare i suoi due piccoli per sparare più sereno e colpire i bersagli e poi avventarsi come una furia sugli inglesi, sterminandoli al pari di una potente macchina da guerra, e infine accanendosi sul corpo senza vita di un soldato inglese sconvolgendo anche i suoi figli, che in una scena al rallenty lo vedono come un animale, lordo di sangue fino agli occhi che brillano di una violenza precedentemente a loro sconosciuta. Ma è con La Passione di Cristo (2004) che l’“estetica della brutalità”, la “mistica splatter”, la “macelleria filmica” di Mel Gibson raggiunge il suo apice. Partiamo dall’uscita del film e dalla colonizzazione-occupazione di stampo quasi militare delle sale italiane della pellicola, vero e proprio evento mediatico planetario. Su questo film si è visto-scritto-detto di tutto, compreso che si potevano comprare ciondoli con chiodi della croce e altri vari “souvenir” presso siti internet autorizzati dallo stesso regista:

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la produzione e il regista hanno poi smentito. Forse solo adesso, dopo che i toni mediatico-apocalittici della corazzata cinematografica di Gibson si sono attenuati al largo nell’oceano dell’oblio, si può tentare una riflessione autentica sul problema del Cristo cinematografico del regista di origine australiana. Abbiamo volutamente scelto e usato un lessico retorico-bellico proprio perché le cose sono piuttosto collegate, anzi intrecciate alle tensioni che dopo l’11 settembre hanno sollevato venti di guerra. Il film di Gibson è uscito in un momento evidentemente particolare nel panorama storico planetario, un momento in cui una guerra trasversale ci attraversa, in cui ci sono dei nervi tesi scoperti oltremisura. E questo film tocca questi nervi scoperti più di quanto superficialmente si possa supporre (l’atavico problema del popolo ebraico cui ciclicamente viene rinnovata l’accusa di deicidio, il sacrificio-martirio del corpo per una causa ultraterrena, l’occupazione militare di un popolo e di una terra, ecc.), anche in virtù della potente macchina economica che ha mosso. Chi credeva che Mel Gibson si fosse chiuso le porte di Hollywood per il fanatismo della sua fede che lo vede affiliato a un gruppo cattolico fondamentalista e che lo ha portato a progettare il suo The Passion, a giochi fatti deve ricredersi. Chiunque fa soldi diviene immediatamente polo d’attrazione della capitale del cinema. Gibson ha bussato a molte porte di Hollywood trovandole sempre chiuse per i finanziamenti del suo film. Ha deciso così, come per Cuore impavido, di sborsare di tasca propria il denaro necessario al film (in parte pre-vendendo i biglietti a gruppi cattolici fondamentalisti, i quali poi, a film realizzato, hanno organizzato vere e proprie deportazioni di massa al cinema con persone che non vi entravano da anni o che forse non vi erano mai entrati, ottenendo spesso reazioni al limite del grottesco come l’inginocchiarsi e il mettersi a pregare durante il martirio del Cristo). E dopo aver guadagnato una valanga di soldi, ora ha Hollywood ai suoi piedi. Parafrasando il detto: chi è stato defenestrato ora è rientrato dalla porta principale su un tappeto di dollari. Eppure va dato atto al regista che quello che è divenuto oramai un fenomeno della cultura popolare era nato da un’esigenza molto intima e personale. Ora che la verità è uscita fuori per bocca dello stesso Gibson7, sappiamo che nel 1991, l’attore, uno dei divi più famosi di Hollywood, strapaga7. Cfr. M. Gibson, La passione secondo Mel Gibson. Guida alla lettura del film, Ancora, Milano 2004.

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to e adorato, era stravolto dagli eccessi: alcol, droga, la miseria del vuoto interiore lo spinsero fino all’orlo del suicidio. Inizia da questo momento disperato quella sorta di conversione esistenziale che lo porta a riprendere in mano i vangeli, avvicinandosi di nuovo alla religione con cui era cresciuto. Pensando alle sofferenze di Cristo riuscì a uscire da quel brutto momento e decise che era quello il film che avrebbe voluto fare: i tormenti subiti da Cristo. Un film senza attori conosciuti a livello internazionale e recitato in due lingue morte, latino e aramaico (più alcune citazioni in ebraico). Ciò non toglie che poi il film sia stato accusato di essere carente di contesto storico-teologico, di essere politicamente pericoloso, e, dal punto di vista strettamente cinematografico, di essere brutale, scioccante, ai limiti dello splatter, e successivamente, a una riflessione più attenta, carente di pensiero e pornografico. Gibson, come visto, non nuovo a imprese filmiche sotto il segno del sadomasochismo, è uomo d’azione e ragiona con lo stomaco e, come ha mostrato con Braveheart e con Il patriota, ha una forte inclinazione al martirio e alla messa in mostra della sofferenza. La passione è un film sulle ultime dodici ore di Gesù, dall’arresto nell’orto del Getsemani per il tradimento di Giuda, alla crocifissione. Come dice lo stesso Gibson, nessuno ha mai descritto la brutalità del martirio, il supplizio cui venne sottoposto: è su questo che si concentra la sua opera. Mel Gibson, come regista, si deve essere chiesto come rappresentare oggi il sacrificio dell’Uomo-Dio e allora ha abbracciato la descrizione data dalla visione del profeta Isaia «come agnello condotto al macello» (53,7). Gibson si concentra sulle fruste, sui carnefici, sul rosso del sangue. Non contento di mostrarci il trionfo di questa prospettiva sanguinolenta nella scena del martirio sulla schiena Cristo, lo fa girare supino e lo fa frustare ancora, sadicamente. Ma prima, quasi a preparare e coltivare il risentimento dello spettatore, fa piantare da un carnefice i chiodi della frusta nel legno di un tavolo. Il problema naturalmente è che il regista non ha misura e lo passa al tritacarne per la maggior parte delle due ore di spettacolo con un compiacimento maniacale. Dal lancio dei trenta denari di Giuda, al corvo che strappa un occhio al ladrone cattivo, dalla flagellazione, con cui centuplica l’ossessività lacerante già dispiegata nella sequenza della tortura nel suo Braveheart, fino ad arrivare a una Crocifissione quasi insostenibile per l’atrocità di quei suoi dettagli che moltiplicano all’infinito la terribile agonia. Ma l’elenco delle volgari brutalità sarebbe lungo. Po-

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tremmo allora riflettere sulla presunta attenzione filologica alla storia, alla rappresentazione corretta di quel pezzo di terra che era Gerusalemme in quegli anni sotto il dominio romano. Il film si presenta come una “dichiarazione” di verità esteriore e programmatica, ma anche qui l’opera presenta diverse incongruenze, se non veri e propri errori: il linguaggio, le omissioni, caratterizzazioni sbagliate, la parte di croce orizzontale, la croce intera, i buchi prefabbricati. Insomma, a dispetto delle intenzioni di Gibson si tratta del ricorso manifesto di tutte le licenze che può permettersi il cinema nei confronti della Storia. Col paradosso degli opposti: troppa filologia di linguaggio – aramaico e latino – troppa semplicità e sproporzione di caratteri – le facce da bestie dei torturatori, di Barabba, la crudeltà di Caifa, il bimbo nano- demoniaco e l’invenzione di un satana androgino con tanto di vermi nelle narici; insomma una disuguaglianza tra il ricorso a una presunta correttezza storica e, nello stesso tempo, a una leggerezza che sfiora la banalità nelle licenze fantastiche. Iperbole ed eccesso di espressione. Eppure vi sono sequenze che sono davvero commoventi, come la scena iniziale nel Getsemani, in cui si intravede la sagoma di Gesù tra il buio, gli ulivi neri, e sentiamo con lui la paura del destino che si compirà. Ma seguendo Goffredo Fofi possiamo dire che: Interessante, Passion lo è solo per uno studioso dei generi cinematografici che sappia di sociologia delle comunicazioni di massa, per l’esame di come è cambiato nella storia del cinema il modo di proporre la storia occidentale più raccontata. E lo è naturalmente per un sociologo, che può studiare le reazioni al film e le interpretazioni, anche deliranti, che esso va suscitando […] il compiacimento sadico con cui si infierisce su un Gesù masochista. Il sacro non c’entra mai, in questo film davvero non si avverte mai nessun soffio dello spirito. Il sacro non c’entra mai, con buona pace di un René Girard che invecchia male e di quei turiferari vaticani che, come diceva tanti anni fa Pasolini, hanno finito di contare davvero da quando la borghesia o il capitale non hanno più avuto bisogno della Chiesa perché gli bastano ormai la pubblicità, i media, il consumo, le astute forme della manipolazione del consenso che distruggono ogni morale e ogni democrazia […]. In questo caso credono che questo film parli di Gesù, che si tratti del “loro” Cristo, e che per questo vada da sé che non si possa parlare del film come appartenente al genere horror, o di una sua perversione dello sguardo. E giù a godere della visione di bastonate e frustate, sputi e cazzotti, spine e chiodi, e dei loro atroci effetti sul

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corpo dell’attore – trucchi ed effetti a volontà – col compiacimento di malati che non sanno di esserlo8.

La violenza, la sofferenza, il sangue iperrealisti ed esasperati ci offrono una triste, interminabile esibizione di carne lacerata, e ci riempiono di rimpianto per l’amore davvero cristiano che sempre proviamo di fronte alla croce, simbolo di amore autentico e ci porta alla mente con nostalgia il bel volto del Cristo del film di Pasolini: la macchina da presa è tenuta a mano, confusa, traballante, cerca di farsi spazio tra le persone per vedere; le voci, poi le urla, giungono distanti, il brusio della folla le copre. Un uomo viene trascinato a forza con calci e spintoni da un’altra parte, e la scena si ripete, e con essa lo stesso modo di riprenderla. Così due delle più belle sequenze de Il Vangelo Secondo Matteo. Il racconto dei processi a Cristo da parte di Caifa e Pilato è fatto come nei documentari più autentici, dove è necessario mostrare e non dimostrare, dove c’è l’urgenza di non perdere quello che un secondo dopo non si ripeterà. La scelta degli angoli, le panoramiche interrotte, le nuche in primo piano che coprono ciò che sta accadendo, testimoniano, nella loro incertezza, l’assurdo di ciò che si sta compiendo, la disperazione che si traduce in violenza verso Cristo. La forza di queste riprese sta proprio nella loro fisicità, nel loro essere vissute, nel loro essere il frutto di un mostrarsi per raccontare con amore. Ma, soprattutto, nel rispetto di ciò che si sta mettendo in scena, filmato non per illustrare, romanzare o per farlo diventare enfaticamente bene di consumo, ma testimonianza sincera del dramma della Passione di Cristo, intesa come mistero personale, autentica messa in discussione autobiografica realizzata attraverso una narrazione in immagini dell’intraducibile. Ed il confronto nello stesso anno de La passione di Gibson con la nuova distribuzione nelle sale del capolavoro di Pasolini in versione restaurata, permette una rinnovata commozione e una profonda tenerezza data dalla scelta totalizzante dell’autore che non si nasconde dietro l’illustrazione degli episodi evangelici ma la sfrutta nel furore dell’invettiva e della profezia per mettersi a nudo e rivelare se stesso. Anche Scorsese è autore problematico e narra le sue storie violente che abbracciano quasi sempre il destino degli uomini segnati da una storia più grande di loro. L’ultima tentazione di Cristo, definito alla sua uscita

8. G. Fofi, Il sangue di Gibson, “Il Messaggero”, 6 aprile 2004.

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“film scandalo” e «linciato a scatola chiusa dal fanatismo cattolico, segna il coronamento di un progetto lungamente covato dal regista. Scorsese presenta un Cristo atipico che, lontano dalla agiografia come dalle facili letture rivoluzionarie, vive dei rovelli e della poetica del regista: il retaggio della religiosità italoamericana di Brooklyn, la cultura rock, l’amore per il cinema, ma soprattutto la costante – in tutti i suoi precedenti personaggi di un tormentato rapporto con il proprio destino. Tutto ciò nel contesto di un film visionario che non concede nulla all’allettamento estetico dello spettatore»9. Il regista si è giustificato e difeso dalle accuse di blasfemia rimarcando la bontà delle sue intenzioni, dichiarando a più riprese di aver voluto fare un film in cui si evidenziasse l’umanità del Cristo. Se a Scorsese si può riconoscere forse la buona fede nelle intenzioni di partenza, è un dato inconfutabile che il romanzo dello scrittore greco da cui è tratto il film non sia nato con le stesse intenzioni. E infatti il regista italo-americano, pur mantenendo l’impianto di base del romanzo, ne attenua le forzature. Indubbiamente il Cristo che ci presenta è un’immagine molto potente e verosimile nella tormentata e progressiva acquisizione della consapevolezza del suo destino di salvatore, ciononostante presenta molto lati oscuri e irrisolti, e anche alcuni elementi di compiaciuta ambiguità. Si tratta di uno dei film più importanti e ambiziosi del regista, anche se spesso vi grava il sospetto di una ricerca a effetto non sempre giustificata. La vicenda è nota: nel film si immagina che, mentre Gesù dopo il suo Calvario, sta morendo sulla croce, un angelo venga ad annunciargli che Dio, ormai appagato, non vuole più che la sua sofferenza continui. Poi, mentre la scena della crocifissione si cristallizza e scende un grande silenzio, l’angelo stacca Gesù dalla croce, lo accompagna in una valle incantevole e cura le sue ferite: davanti a Gesù si apre così una seconda vita, una “vita qualunque”. Gesù si sposa prima con Maria Maddalena (che però presto muore), poi si lega a Marta e Maria, ha diversi figli e sembra assolutamente appagato da questa nuova esistenza che gli è stata donata. Giunto in punto di morte capisce improvvisamente che l’angelo non era veramente un angelo: era lo stesso demonio che lo aveva tentato senza successo nel deserto e che era tornato all’assalto con un ulteriore tentazione, quella di vivere una vita normale, respingendo la chiamata di 9. P. Mereghetti, L’ultima tentazione di Cristo, in Dizionario dei film 2004, op. cit.

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La ‘storia’ senza Storia. Parte II.

Dio. Nel momento in cui capisce tutto questo e grida al padre la propria disperazione per non essere stato capace di portare a compimento la sua opera, in quel momento Gesù si ritrova morente sulla croce, ora davvero “tutto è compiuto!!”. Ovviamente è il lungo sogno sulla croce che ha reso sgradevole la visione del film ai credenti più ortodossi, ma è evidente che in questo senso la tentazione più forte per il figlio di Dio andava rappresentata nei suoi aspetti più chiari e persino più deteriori. Secondo il regista, per Cristo la tentazione più grande non sarebbe stata quella del potere politico religioso o economico, ma quella possibilità di vivere una vita normale, uguale a quella degli altri. Scorsese dà vita a un film visibilmente bellissimo, ben interpretato dagli attori a lui più congeniali, un film che si prende il suo tempo e che varia registri narrativi a seconda delle atmosfere. Un film che, nonostante le critiche, ha dalla sua determinanti pregi dal punto di vista narrativo e formale: l’interessante rappresentazione evolutiva da parte del Cristo e di Giuda; l’ambientazione e i costumi. Scorsese racconta «un uomo che tenta di opporsi alla scoperta della propria divinità e che avrebbe potuto vivere una vita comune, ma è costretto ad accettare la sua missione, ubbidendo a Dio Padre. Scorsese rifiuta i tre modelli cinematografici a disposizione (il colossal hollywoodiano, Rossellini e Pasolini) e persegue una propria via, discutibile ma sicuramente personale. Recupera la cultura cattolica meridionale di Little Italy di cui si è alimentato nell’infanzia, la filtra attraverso la sua memoria di cinephile onnivoro e la «cristologia rock degli anni Settanta (eloquente a questo proposito la scelta di Peter Gabriel per le musiche) e tenta persino di rappresentare Cristo nei modi Barbarici come potrebbero vederlo uomini africani o latino-americani di una cultura diversa da quella euro occidentale. Il suo è un Dio delle debolezze che ha preso sul serio l’incarnazione e che ha uno spessore teologico maggiore di quel che è sembrato alla maggioranza dei critici e dei cattolici scandalizzati»10. Da diversi anni Scorsese aveva in mente il film sulla nascita della nazione americana, un film che voleva essere nelle sue intenzioni la conclusione di un percorso esistenziale e poetico. Una sorta di film definitivo. 10. M. Morandini, L’ultima tentazione di Cristo, in Dizionario del cinema 2004, op. cit.

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Gangs of New York (2002) si rivela essere un capolavoro e allo stesso tempo un’occasione mancata. Film bellissimo, è anche il film più travagliato del regista italoamericano: problemi e traversie di ogni genere in fase di realizzazione, e una versione fortemente tagliata dalla produzione in fase di distribuzione nelle sale. New York, 1846, quartiere di Five Points. Una cruenta battaglia tra gangs sancisce il trionfo di William Cutting detto Billy the Butcher, capo dei nativi americani e la morte di Padre Vallon, protettore degli emigranti. Sedici anni dopo il figlio di questi, Amsterdam, esce dal riformatorio fermamente deciso a ingraziarsi l’assassino di suo padre per poi fare vendetta. Conosciuto Billy, Amsterdam ne viene in pratica adottato e arriva a salvargli la vita. Una volta scoperto e sfigurato, si risolverà a combattere apertamente contro di lui. Nel 1863 c’è la Guerra Civile negli Stati Uniti e nelle strade di Manhattan infuria la guerra tra gangs: due anni prima il presidente Lincoln ha deciso di abolire la schiavitù e undici stati del Sud si sono distaccati dall’Unione. La guerra di Secessione è lontana, ma gli uomini che vanno a combatterla, i proscritti, i volontari forzati, i pochi che sembrano crederci, partono da tutti gli Stati, e soprattutto dagli strati più bassi. Le bare di legno che calano dalle navi (in un’inquadratura drammaticamente sintetica) si incrociano con i soldati in partenza per il fronte. Dilaga ovunque l’odio per i neri, considerati causa della guerra e uccisi e torturati a ogni angolo di strada da ogni etnia newyorkese, e cresce il furore contro le autorità che obbligano alla leva chiunque non possa pagare 300 dollari (e, contemporaneamente, comprano le elezioni, fanno votare i cadaveri, si servono dei peggiori delinquenti per eliminare o sabotare gli avversari). E un giorno il popolo più disgraziato di New York si ribella e insorge. Quattro giorni e quattro notti di orrore, un picco tra i tanti che animano e devastano costantemente Five Points. Nel frattempo c’è l’ultimo scontro tra la gang di Billy the Butcher e quella di Amsterdam che è decisamente superato in violenza e ferocia dall’intervento delle truppe inviate a far rispettare la coscrizione obbligatoria. Gangs of New York è probabilmente il film più sofferto e amato dopo L’ultima tentazione di Cristo per Scorsese, per le traversie produttive, per il montaggio infinito, per il fatto di essere un kolossal che abbraccia storie private e grande Storia, entrambe segnate dal sangue. «È il suo film più europeo nelle fonti culturali (Shakespeare specialmente, Dickens, Hugo, ecc.), ma anche un’appassionata meditazione sul

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La ‘storia’ senza Storia. Parte II.

cinema del passato, da Griffith a Fuller, da Sternberg a Visconti […].. È un dramma edipico sull’identità dei cittadini di una nazione di orfani in cui s’imprime il simbolo ufficiale degli USA – l’aquila sull’occhio finto, dunque cieco, di Bill il Macellaio. È un film antropologico imperfetto e ricco di bagliori che rappresenta probabilmente il capolavoro mancato del più grande regista americano vivente»11. È il suo film più tagliato in postproduzione, la prima versione durava quasi 4 ore ed è questa del taglio un’operazione che per la grandezza del tema e il ritmo della narrazione ha fatto assolutamente bene. Situazioni e personaggi non sempre sono chiari, ma Gangs of New York è il film che Martin Scorsese ha voluto fare a ogni costo, è l’altra faccia del suo capolavoro del 1993 L’età dell’innocenza, dove il cinismo e gli interessi economici dei ricchi e potenti tessevano una tela di ferro per reprimere gli istinti dei loro simili e la storia non era altro che un procedere per conflitti. In Gangs of New York si indaga l’origine della Storia americana attraverso la stratificata contaminazione di mitologia e documentazione, fino a suggerire che il cuore della nazione statunitense è costituito di tormento, violenza, paura, odio razziale, morte: l’America per Scorsese nasce dall’impasto di sofferenza, fango e sangue. Scorsese dissemina le tragedie personali sullo sfondo di quelle collettive più che attraverso una dialettica, mediante un parallelo sui binari del dolore; la sua visione storica è pessimista, non c’è progresso, ma solo caotiche apocalissi, che radono al suolo ciò che è stato costruito, sostituendolo con ciò che a sua volta sarà di nuovo schiantato. In questo senso il bellissimo finale è emblematico nella sua assenza di speranza, attraverso un bellissimo effetto vediamo New York trasformarsi e attraversare quasi un secolo e mezzo di storia, fino ad arrivare all’immagine famosissima della sky-line di Manatthan in cui capeggiano le Torri Gemelle che saranno distrutte anch’esse. «Barbaro, estremo e vertiginoso, Gangs of New York si regge su una matematica lucidità d’intenti: la Storia dei popoli e delle razze (tutte) è fatta col sangue, coi quarti di Ebbra strappati dal corpo dei nemici vinti, con le vendette che squassano le generazioni, con l’odio cieco nei confronti di un “altro” (uno qualunque). Ogni corpo esibisce o occulta le proprie ferite […] e quando tutto per un attimo si ferma, restano fumo, macerie, silenzio e polvere; e le civiltà risorgono sulle lapidi. Ieri come oggi»12. 11. M. Morandini, Gangs of New York, ivi. 12. E. Martini, Gangs of New York, “Film Tv”, n. 5 (2003).

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4. Il ’500 italiano di Ermanno Olmi: Il mestiere delle armi Buio. Navata della cattedrale. Una rigorosa simmetria funerea domina l’architettura della chiesa e la disposizione degli armigeri. La porta sul fondo si apre. Irrompe la luce, il senso, il movimento. La riproduzione del tempo che genererà di nuovo asimmetria nell’ordine, precarietà nel rigore. Una voce fuori campo ci avverte che assisteremo a «Li ultimi fatti d’arme dello illustrissimo Signor Joanni da le Bande Nere». Così inizia Il mestiere delle armi. Il sottotitolo dell’opera di Ermanno Olmi «Li ultimi fatti d’arme dello illustrissimo Signor Joanni da le Bande Nere», espressione d’epoca dal sapore cronachistico coniata da Pietro Aretino, è, all’interno di un incipit così folgorante, l’ideale viatico per una vicenda paradigmatica: la chiave di volta tra l’antica arte della guerra, basata sugli scontri all’arma bianca con uno stratificato codice d’onore e la sua successiva metamorfosi moderna con l’introduzione delle armi da fuoco. Con Il mestiere delle armi Ermanno Olmi ha forse diretto il suo film più ambizioso, sicuramente il più rigoroso, nato dopo due anni di ricerche documentaristiche e impeccabile sotto il profilo della ricostruzione storica. Il racconto delle gesta d’arme del Principe Giovanni dalle Bande Nere viene sì percorso con precisione storica, ma da subito si incunea nelle complesse emotività umane, andando così a tratteggiare un affresco corale e intimistico nello stesso tempo. Il mestiere delle armi, con il suo raffinato gioco interno di racconto nel racconto, la sua impeccabile struttura e la sua magnifica fotografia, è sicuramente un film rischioso nell’attuale panorama del cinema italiano: troppo astratto e troppo fisico, semplice e cerebrale al tempo stesso oltre ad essere ricco di riferimenti di secondo grado che aprono il testo filmico a una molteplicità di piani di lettura tutti legati ai temi cari alla nostra indagine. Il film, infatti, non si limita a stigmatizzare gli effetti della trasformazione tecnologica della guerra, ma offre una riflessione di grande intensità morale e religiosa sulla morte, sul dolore, sul coraggio e sull’onore. Esteticamente splendido e intensamente lirico, propone un’estetica della morte e della sofferenza che va letta anche attraverso una dimensione di secondo grado come morte dell’immagine, di un cinema e di un tipo di racconto morale che non esiste più, costruito su lunghi silenzi e azioni lente.

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La ‘storia’ senza Storia. Parte II.

Il racconto si sviluppa attraverso il resoconto di Pietro Aretino che segue da vicino il Capitano de’ Medici, e, attraverso una voce fuori campo, illustra il rapporto del giovane condottiero nei confronti della vita e in particolare nel suo rapporto con la morte. Nelle campagne intorno a Mantova un gentiluomo, inviato dal generale Della Rovere duca d’Urbino, porta la notizia al marchese Gonzaga: «Messer Giovanni de’ Medici è stato colpito da una botta di falconetto in una gamba». Vengono approntate cure immediate, ma ben presto risulta evidente che non è possibile fermare la lenta agonia di Giovanni: quattro giorni e poi la morte quando è «l’ultimo de novembre 1526». Giovanni ha 28 anni. Mentre si preparano i funerali, a ritroso vengono ripercorsi gli avvenimenti più recenti come la guerra e quelli più lontani come il rapporto con sua moglie. La macchina da guerra si è messa in moto, con una lentezza implacabile. Lo sottolineano le sequenze dedicate alla fusione delle palle dei cannoni e dei falconetti, l’accuratezza e la pazienza dei primi esperimenti sulle armature per testare la devastante potenza delle artiglierie, i rituali del combattimento onorevole, la lentezza grave degli accordi politici tramite missiva, delle alleanze promesse e tradite, degli intrighi di corte. Tutto è macchina lenta e adeguata alle ragioni della politica. A decidere la sorte della guerra e il destino di Giovanni dalle Bande Nere saranno quattro falconetti, le nuovissime bombarde a palla donate vilmente dal duca Alfonso d’Este al generale germanico, sancendo con la propria morte l’inizio di una nuova era dell’arte della guerra, più disumanizzata e impersonale rispetto al passato, in cui le bocche da fuoco ridurranno sostanzialmente i margini bellici prima affidati alla perizia individuale del guerriero. Dallo scontro in campo aperto le distanze tra gli eserciti cominceranno ad allungarsi sempre più in rapporto al progresso tecnologico delle armi, fino a rendere impossibile agli schieramenti il rispettivo riconoscimento, tendenza tragicamente estremizzata dai conflitti contemporanei. La “politica” ha scalzato Dio come guida delle azioni umane e l’arma da fuoco ha spazzato in un sol colpo tutti i valori portanti del mondo medievale: ora anche l’essere più mediocre, più falso, più debole (il generale alemanno Frundsberg di lì a poco dovrà tornare in patria per motivi di salute), può decidere le sorti di una battaglia, di una guerra, dell’ordine del mondo intero. “Machiavellismo”, diplomazia, accordi segreti, parole al posto di duelli, eroi, azioni, fedeltà.

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Tutta la novità del Rinascimento, che costituisce l’approdo inevitabile di un pensiero che pensa la guerra come novità assoluta, si esaurisce nella capacità del potere di disciplinare la dispersione del desiderio all’interno di un pensiero che si pensa progressista e razionale in quanto espressione di un ordine necessario, dettato dal registro della realtà e non da quello dell’immaginario. Ma questa riduzione di una simbolica ricca, qual è quella caratteristica del Medioevo, all’interno di una logica povera, la logica dei segni, rischia di allontanarsi troppo da quella verità che si oppone all’evidenza ingenua del mondo. Il regista si concentra nei particolari di quel lasso di tempo vicino al 1526 che egli ha cristallizzato e su cui ha costruito la sua narrazione attraverso processi di destrutturazione e di ricomposizione non lineare del passato e del futuro narrativo. Le lettere alla moglie e all’amante sono lo spunto narrativo per rivelare il suo passato, rivissuto intensamente durante l’agonia. Olmi ci trasporta indietro nel tempo attraverso i ritmi gravi di una via crucis, che fanno percepire chiaramente l’inarrestabilità dell’azione e il triste epilogo. La raffinatezza della scrittura della lettera, le parole di Giovanni ripetute con cura e trascritte dall’illustre scrivano, ci fanno intimamente sentire l’abisso che c’è tra il nostro tempo e quell’epoca lontana, all’origine della nostra. E quando non sono le parole delle lettere, sono i lunghi silenzi a parlare e gli atti dei protagonisti si trasformano in un fluire continuo di parole, che passano di bocca in bocca, divenendo narrazione, leggenda. Racconti, che per Olmi altro non sono che un pretesto per parlare dei temi a lui cari, ovvero il tramonto della tradizione, la solitudine dell’eroe, l’impossibilità della felicità terrena, frammischiandoli in un gioco di luci e ombre che sottende ai gesti e alle personalità dei suoi protagonisti. Vi sono sequenze che ci regalano tutta l’ambiguità del personaggio. Le avanguardie di Giovanni dalle Bande Nere, stremate dal freddo e dalla fatica, entrano in una chiesa abbandonata; scorgono nel disordine un imponente crocifisso in legno, allettante e “proibito”. I soldati lo issano in alto con una corda e amputano con un’ascia le braccia inchiodate del Cristo. Mentre gli uomini lo fanno in pezzi, non si può fare a meno di pensare al villaggio che lo aveva commissionato e pagato, al grossolano scultore, alla gente umile che, lontano dalle squisitezze della politica e dalla gloria delle battaglie, paga muta i conti della storia. Giovanni, sopraggiunto inorridito, mozza di netto la testa dell’esecutore; gli altri

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La ‘storia’ senza Storia. Parte II.

saranno impiccati più tardi. Le “braccia di Dio”– la Provvidenza – non guidano più le braccia eroiche dei cavalieri, ligi a un codice morale fondato sulla fede e l’eroismo. Come un capitano che tenta di fermare i marinai che saltano giù dalla nave che affonda, Giovanni, rappresentante di un mondo cavalleresco ormai al tramonto, si ritrova sempre più solo e vicino alla morte che si appressa inesorabile. Giovanni è un guerriero dal riconosciuto valore, temuto dai nemici e desiderato dalle donne, un giovane uomo già divenuto leggenda per la sua indiscussa abilità in combattimento. Ma non è un eroe positivo tout court, senza macchia e senza paura, ma è anzi un uomo smarrito di fronte a un nemico che è più metaforico che reale, in una sorta di deserto dei Tartari dove le certezze crollano una a una. Così l’inetto duca di Mantova, prigioniero del suo consigliere e dei doveri di regnante, in pratica un bambino mal cresciuto adatto solo a giocare con il suo cagnolino, si smarrisce di fronte a quel corpo malato che lo implora di essergli amico per sempre (proprio lui, che lo ha tradito!) e lo fissa in silenzio, incapace di comprendere il mistero della morte. Così infine, l’anziano comandante tedesco, che di nascosto compra dagli Estensi i nuovi cannoni, appare egli stesso vittima di un destino che si dipana indifferente alle sorti degli uomini, e, stanco e malato, non gli sarà concessa la gioia di partecipare al sacco di Roma, da lui preannunciato mesi prima con parole di scherno. La Storia ha spesso dipinto il giovane Giovanni come uomo crudele e spietato, mentre Olmi propone un’immagine indubbiamente più umana seppur d’uomo rigoroso e spesso crudele. Un ritratto estremamente completo, che soprattutto nella prima parte è sulla sua figura storica, che tiene conto sia delle passioni, seppur raramente espresse, sia delle responsabilità nei confronti della sua missione di guerra. Ma è nella seconda parte, nell’agonia, che si manifesta l’epifania del sacro, quando Giovanni morendo come personaggio della storia, ri-nasce, attraverso il primo piano, con autentica consapevolezza della propria identità. Nella seconda parte, proprio perché il racconto si fa racconto di un morire, il film prende senso; inizio e fine si incrociano nel primo piano in un percorso significante che porta Olmi, come vedremo, a vertici spirituali altissimi. Al volto viene riconosciuta la capacità espressiva dell’uomo. «Il volto è una lastra nervosa porta organi, che ha sacrificato l’essenziale della propria mobilità globale e che raccoglie o esprime apertamente ogni specie di piccoli movimenti locali che il resto del corpo tiene normalmente na-

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4. Percorsi

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scosti. Un particolare, sia esso un occhio o un volto ci fissa a sua volta, ci guarda… anche se non assomiglia a un volto»13. Non a caso dopo il prologo il film inizia con il primo piano di un elmo dietro cui il protagonista nasconde il proprio volto e lo rende anonimo nella guerra e finisce prima dell’epilogo (attraverso una struttura circolare che riprende proprio il prologo) con un analogo primo piano con cui il protagonista mostra il proprio viso scoperto, mentre piange incrociando in controcampo lo sguardo di un bimbo che lo osserva dietro le sbarre di un’inferriata. Il primo piano è il volto. È soprattutto lo sguardo severo e attento che meglio racconta l’essenza umana di Giovanni, interpretato da un giovanissimo attore bulgaro, Hristo Jivkov, che sostiene ottimamente il ruolo. Pensieroso, ma mai malinconico, affronta magistralmente il suo saluto alla morte con l’umiltà d’un uomo e la grandezza d’un coraggioso combattente. Il nostro giovane capitano di ventura fronteggia con forza e decisione, ma anche con umiltà e rassegnazione, il suo ultimo e invincibile nemico: la morte. E lo fa attraverso la fierezza dello sguardo, la dignità del viso colto dai primissimi piani, i quali diventano un’astrazione del volto dalle sue coordinate spazio-temporali e lo elevano a stato di Entità. Il primo piano non è un semplice ingrandimento che strappa il suo oggetto all’insieme di cui farebbe parte; appena vediamo un primo piano, un volto, vediamo “il sentimento-cosa”, l’Entità manifestantesi. In questo caso è la sofferenza e il suo superamento, la dignità con cui viene affrontato il dolore che porta alla morte e apre il paradosso di dire l’inesprimibile, l’essere parte di un progetto divino. Il regista lo sa e non ci risparmia nulla di questa via crucis: dall’agghiacciante operazione alla gamba cui è sottoposto Giovanni, all’utilizzo di arnesi che, alla nostra sensibilità, sembrano più adatti alla falegnameria piuttosto che alla chirurgia (e forse sarà possibile istituire ora un parallelo tra il Cristo mutilo e il povero capitano). Il delirio, che la mancanza di anestesia provoca nello sfortunato paziente, gli permette di incontrare di nuovo le persone amate, rivivere gli errori, fare i conti con le faccende mai chiuse, i debiti non rimessi e il dolore morale che accompagna quello fisico, è un pedaggio necessario al cammino verso l’altro mondo. Il volto non è più una lettura affettiva né tanto meno emotiva della rappresentazione, quanto piuttosto il tentativo di conferire uno statuto allo sforzo pa13. G. Deleuze, Cinema 1. L’immagine-movimento, Ubulibri, Milano 1981, p. 110.

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La ‘storia’ senza Storia. Parte II.

radossale di dire ciò che non si può dire. Sono stati fatti i nomi di Rossellini e Bresson, eppure, nell’osservare certe inquadrature de Il mestiere delle armi tra i nomi che emergono con più forza dalla nostra memoria cinefila vi è senza dubbio quello di Andrej Tarkovskij, in particolare del Tarkovskij di Andrej Rublev, che condivide con la prima parte de Il mestiere delle armi la sconvolgente fascinazione visiva di certe atmosfere desolanti e fumose. Ampi spazi che si aprono su terre desolate, cupe, devastate da conflitti perpetui, immagini in grado di cogliere vividamente la cornice storica nella sua essenza primaria, spazi che sono segni di un tempo, di un momento della storia all’interno del quale si muovono le vicende private (ma non solo) della vita dei protagonisti. Il secondo nome che viene in mente per l’altra metà del film è quello del Bergman di Sussurri e Grida. Il film parla della consunzione e morte di un corpo; un film sulla morte (tre donne che aspettano la quarta morire) che diventa un film sull’anima, ma non sulla psicologia, parola che davvero non esaurisce mai l’universo artistico di Bergman e il suo lavoro di scavo sui personaggi, quanto sul primo piano dettato dal dolore fisico, perché l’anima si trasforma sempre in qualcosa di concreto, di corporeo, di carnale. Alla riuscita del film contribuiscono sicuramente la bellissima fotografia di Fabio Olmi, che fa tesoro dei luminismi del Savoldo, di certi ritratti del Lotto, dei preziosismi materici nei ritratti del giovane Tiziano, e la meticolosa cura scenografica e dei costumi. Ma quello che più colpisce è il controllo della regia. Nulla è lasciato al caso e appartiene a un progetto che riesce ad essere comunicativo attraverso la perfetta coordinazione degli strumenti cinematografici. Una regia attentissima alla costruzione e ripartizione degli spazi all’interno di ogni singola inquadratura. Ciò che davvero sconvolge sono i volti degli attori (per lo più poco noti), vere e proprie incarnazioni di un’estetica ritrattistica cinquecentesca, volti che sembrano provenire da un’altra epoca, che abbagliano nella loro raggelante, evanescente fisicità, stemperata e assorbita dentro cromatismi fiamminghi, cupi. Intelligente il parallelo tra le fantasie febbricitanti e gli affreschi della stanza dove Giovanni è ricoverato, dove le bizzarrie del manierismo fanno da controcanto al sonno della ragione del malato e l’agonia è scandita temporalmente dalla luce delle albe e dei tramonti, riflessa su quelle strane figure bidimensionali.

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Alla fine, le uniche armi ad essere veramente imbracciate sono i primi piani, gli sguardi in macchina che aggrediscono il nemico, la bellezza compositiva dei grandi spazi aperti che lo affascinano e disorientano, i dettagli insistiti su armi di ferro, ferite infette che sfiniscono e poi finiscono l’occhio dello spettatore. Forse l’Arma a cui Olmi si riferisce è davvero il cinema… Olmi disegna un solenne e struggente poema visuale non solo sulla fine di un modo di intendere la guerra, sul tramonto di un’epoca con i suoi codici, ma anche sulla fine di un uomo, di un soldato che proprio nella morte trova la sua identità. «Insomma il mestiere delle armi è una sorta di requiem non tanto sulla guerra (e su un certo modo di intenderla e di combatterla), quanto sull’inevitabile precarietà di ogni esistenza»14. Il film risulta così, a una analisi approfondita, sospeso tra una fisica della vita e un’ ontologia della morte. La prima è esposta attraverso il terreno comune della guerra e della sessualità come l’espressione di una follia senza oggetto, capace di allucinare quei bisogni primari dettati dalla vigoria, dalla salute, dalla bellezza, dalla giovinezza, in grado far sentire vivi; la seconda, l’ontologia della morte, attraverso l’estetica della sofferenza. Olmi non si limita a rendere implicita la guerra o la sessualità, e ciò non tanto per quello che ci mostra dell’una o dell’altra, siano esse le battaglie, le sottigliezze seduttorie della moglie del Gonzaga o le fuggevoli sequenze di un amplesso. Nel delirio dell’agonia, attraverso le immagini delle pareti egli ha visioni carnali del proprio recente passato. Bagnato dai sudori delle febbri, il corpo che aveva dato e ricevuto passione dimostra la corrutibilità della carne e la vicinanza della vicenda erotica e guerresca che si specchiano sempre con la morte. Giovanni vorrebbe imporre la propria identità di guerriero giovane con tutta la forza che ruolo e natura gli consentono, ma quando incontra sulla propria strada la morte, non più come semplice possibilità, ma in tutta la sua necessità, si produce in lui un cambiamento rapido e risoluto che non possiamo non considerare come un’attitudine da tempo maturata. Il capitano che ordinava assalti, dava battaglia disponendo delle vite altrui come se fosse suo diritto, l’uomo che aveva donne e passioni, si mette a disposizione del dolore e della morte con estrema prontezza. Egli deve accettare il mondo che si 14. G. Canova, Il mestiere delle armi, “Segnocinema”, n. 110 (2001).

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La ‘storia’ senza Storia. Parte II.

allontana nel delirio e noi, attraverso la sua metamorfosi, scopriamo la imperscrutabile dipendenza da altro. Giovanni si consegna come chi sa di appartenere a ciò che gli sta avvenendo. Appartenere vuol dire non soltanto far parte di qualcosa, ma anche essere legittima proprietà di qualcuno, essere parte sottoposta, lembo di un velo di orizzonte più grande. La volgare arroganza della storia, prospettiva orizzontale del vissuto, lascia il posto a una lacerazione verticale. La sensazione di onnipotenza della giovinezza si trasforma, attraverso la sofferenza, in umile risposta alla chiamata della morte, mai come in questo caso apertura a un senso ulteriore imperscrutabile. L’umiltà di Giovanni di riconoscersi docile fibra dell’universo, la capacità di accogliere l’annichilamento fisico con la dignità di chi accetta il proprio percorso, non va però confusa con un banale fatalismo. Non c’è passività in quest’accettazione, in questo “amor fati”, al contrario è la consapevolezza dettata dall’esercizio interiore, dalla profondità spirituale15. Il mestiere delle armi sembra memorabile per l’intelligente e amara riflessione sulla valenza distruttiva della rappresentazione e, per estensione, dell’opera d’arte che non può essere se non nella morte. Il film celebra la transitorietà dell’esistere e insieme la morte dell’immagine e, al contrario, la fiducia nel cinema come epifania dell’indicibile. Le cose sono là banali: guerre, armi, ferite spesso brutte e putrescenti. È il cinema che le rivela. Il mestiere delle armi rappresenta il paradosso della transitorietà di ogni rappresentazione, sia essa vitale che artistica, e insieme della indispensabile rivelazione del sacro attraverso la morte (dunque, attraverso il cinema).

5. Il “Nuovo” Terzo Reich: Amen, Rosenstrasse, La Caduta Negli ultimi anni, in particolar modo dal 2000, si sta tentando di fare nuova e maggiore luce su ciò che è accaduto riguardo allo sterminio degli Ebrei durante la seconda guerra mondiale, anche grazie a nuovi docu-

15. Cfr. A. Picciardi, I due soldati, in “Cineforum”, n. 406 (2001). Nel bel saggio di Picciardi vengono messi a confronto gli atteggiamenti e la preparazione alla dipartita di due soldati, Giovanni de’ Medici e Ungaretti, uniti dalla consapevolezza di cosa significhi la morte come evento sempre possibile in guerra.

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menti storici. Questo se da un lato, come tutti auspichiamo, permette alla scienza storica di chiarire non solo la Shoah ma anche la storia di quella che il filosofo tedesco Gadamer chiamerebbe “storia degli effetti”, dall’altro comporta sempre il pericolo di nuovi radicalismi e riletture, che nei casi più allucinati (qualche politico europeo in cerca di visibilità) mettono in discussione, se non il numero delle vittime, addirittura che essa sia accaduta. E qui entra in campo un termine che in Storia fa molta paura: “revisionismo”. Ciononostante tra gli studiosi di storia, non si dovrebbe provare disagio dinanzi alla parola “revisionismo”. Il “revisionismo” non vuol dire negare i fatti. “Revisionismo” è un’altra cosa. “Revisionismo” vuol dire che, a ogni ondata di documentazione nuova, la scienza storica capisce meglio e aggiusta la ricostruzione che ha fornito. Il mestiere di storico è un rivedere continuamente – si spera in buona fede, e sulla base di una documentazione che si allarga e che però non va presa come un feticcio – le acquisizioni precedenti. In questo lavoro consiste un tirocinio di capacità critica. Eppure in tempi recenti il revisionismo storico, lo sforzo di interpretare un evento del passato in maniera diversa da quella corrente, è diventato sinonimo di cialtroneria; questo in virtù di un’interpretazione un po’ ardita della nascita del fascismo e del nazismo. Una teoria che ha scatenato le ire di chi sostiene l’assoluta originalità della violenza e dei crimini del nazifascismo, inducendo il sospetto che questa opera di revisione fosse stata fatta con eccessiva leggerezza, se non addirittura con un processo un po’ audace di semplificazione ideologica. Dunque c’è revisionismo e revisionismo. E in suo nome si possono introdurre teorie peregrine come innovazioni straordinarie. Diverso è il caso del negazionismo, che con la storia scientifica ha davvero poco a che spartire. Sostenere, come fanno alcuni, che le camere a gas e i forni crematori non sono mai esistiti, non è un’interpretazione, ma più semplicemente un falso montato ad arte da una pattuglia di storici filo-nazisti, falso che tuttavia trova, di volta in volta, qualcuno disposto a propagandarlo, e qualcun altro disposto a crederci. Ci sono alcuni pazzi – pochi – i quali negano che ci siano mai stati i campi di concentramento, ma sono confutabili col fatto stesso della loro ignoranza e dell’esistenza di documenti inoppugnabili. Dobbiamo ridefinire la categoria di revisionismo storico. In fondo ogni opera storica non fa che reinterpretare il passato. E quindi, da questo punto di vista, tutti gli

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storici sono revisionisti. In realtà noi per revisionismo storico dobbiamo intendere qualcosa di più preciso, cioè una corrente che, ai giorni nostri, cerca di riscrivere la storia contemporanea e soprattutto di relativizzare l’orrore del nazismo, della soluzione finale e anche del fascismo. Tale smania revisionistica è qualcosa di pesantissimo, quasi un modo simbolico di uccidere nuovamente quei milioni di persone eliminate con sistematica crudeltà e delirante scientificità. È proprio quest’ultima caratteristica che distingue l’Olocausto dalle mille carneficine, pulizie etniche, morti per fame, di cui ai nostri giorni siamo ancora testimoni. Claude Lanzman, consegnati al mondo nel 1985 i suoi 566 minuti di montaggio dal titolo Shoah, fece una dichiarazione senza appello, decretando che il suo era il film sull’Olocausto, quello definitivo, e che nient’altro sarebbe mai più stato legittimo dire sull’argomento. È curioso che, invece, solo negli anni successivi il cinema avrebbe affrontato con una certa disinvoltura la più nera epigone della Seconda Guerra Mondiale, cosa che era stato assai reticente a fare in precedenza. Il tabù era in verità allargato anche alla figura di Hitler, che raramente era stato protagonista nelle pur tante pellicole nelle quali in qualche modo faceva apparizione. Lo sterminio degli ebrei, che nei saggi seguenti viene più volte evocato, lo si potrà interpretare in molti modi; non si può in ogni caso negarne l’esistenza. Certamente il pericolo del revisionismo negazionista, delle tesi che ne farebbero un’enorme menzogna, la Auschwitzlüge, non va sottovalutato. Ma non per una sua rilevanza, e neppure per l’ingegnosità delle argomentazioni. Queste ultime non vanno sottovalutate perché il compiacimento che manifestano nel negare l’orrore si fonda su una indifferenza nei confronti dell’umano. Premesso tutto questo, che parlare di Hitler, del nazismo e dello sterminio in questa sede sarebbe quantomeno fuori luogo, corre l’obbligo di riferire dei film in quanto cinema. Ed allora diciamo subito che un tema notevole non fa un bel film. Non bastano l’Olocausto e il silenzio spesso connivente di tutte le potenze straniere per muovere gli animi e le coscienze degli spettatori; ci vuole anche la macchina da presa; ci vogliono il ritmo e la recitazione. Di frequente, in questi film, si precipita nella retorica, in quel didascalismo un po’ sentenzioso e verboso che, con eccellenti eccezioni come Il pianista (2002) di Roman Polanski e Senza destino – Fateless (2005) di Lajos Voltai, caratterizza la maggioranza delle produzioni cine-televisive attuali. Ed infatti il problema, soprattutto nei film storici di

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matrice europea (pur firmati da signori registi), è che restano formali e didattici come un libro di scuola, illustrati secondo un’emotività trascinata da un linguaggio che spesso è più televisivo che cinematografico. Questi film risultano quasi sempre un’occasione sprecata. Tre o quattro esempi su tutti gli altri possono valere da paradigma, pur mantenendo fermo il valore morale delle opere e la sincera azione di denuncia e di nuova luce sui crimini commessi. Però è davvero difficile a volte distinguere dove finisce l’efficacia e dove comincia l’opera accattivante. I film presi in esame non mancano, a seconda dei casi, né di reticenze storiche né di un certo, quasi inevitabile, didascalismo, né tantomeno di un surplus di enfasi oratoria. I film in questione sono Amen (2002) di Costa-Gavras, Rosenstrasse (2003) Margarethe von Trotta, La Caduta (2003) di Oliver Hirschbiegel. Amen. Seconda guerra mondiale: Kurt Gerstein, un chimico ufficiale delle SS (realmente esistito), scopre che lo Zyclon B, da lui realizzato per le disinfestazioni, viene utilizzato per eliminare gli ebrei. Sconvolto da questa rivelazione ed essendo profondamente religioso, cerca un contatto negli ambienti della Chiesa Cattolica perché lo sterminio venga fermato. Conosce così il giovane gesuita padre Riccardo che è ben introdotto in ambito vaticano. La speranza sta nella parola del Papa che denunci l’abominio. Ma Pio XII, per salvare i cattolici di Austria e Germania, deciderà di tacere. Ispirato dai cinque atti di Il vicario (1963) di Rolf Hochhut, che Carlo Bo definì un dramma cristiano, adattato da Jean-Claude Grunberg col regista, il film vuole esplicitamente riaprire ferite mai del tutto rimarginate. A partire dal manifesto (realizzato da Toscani) che mostra una croce che si distorce in svastica. La pellicola riflette sull’indifferenza e non accusa soltanto il silenzio, la sordità, la smodata prudenza di papa Pio XII e delle alte gerarchie ecclesiastiche (cattoliche e non) sulla Shoah, ma anche l’omertà, il disinteresse, l’ipocrisia diplomatica dei potenti della comunità internazionale. Affida a due uomini isolati – il protestante evangelico Kurt Gerstein, chimico e ufficiale delle SS, realmente esistito, e Riccardo Fontana, gesuita italiano con aderenze in Vaticano, figura di fantasia – l’impossibile compito di avvertire il mondo e fermare l’industria della morte. Ciononostante vi sono dei limiti evidenti (il semplicismo, la complessità della materia storica) e i presunti difetti (uno stile piatto, anche se con un buon ritmo) e inoltre, sul piano visivo, la narrazione è quella di una fiction per la tv. Ebbene, pur nel suo impianto di racconto informativo e

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illustrativo, possiede più di una qualità: etica di fondo e austera concisione. La sua moralità consiste nel levare, raffreddare, rinunciare all’oscenità di una rappresentazione frontale dei modi con cui lo sterminio razzista fu industrializzato. E nel contrapporre dialetticamente la responsabilità delle istituzioni alla capacità degli individui di inceppare, se non modificare, la macchina della morte. Il film insomma non è dei migliori del regista, ma ha un’avvincente progressione emotiva in sagace equilibrio tra temi pubblici e privati. Per ciò che riguarda l’opera della cineasta Margarethe von Trotta, il film si chiama Rosenstrasse come il nome della strada di Berlino in cui nel ‘43, quando le sorti della guerra erano ormai segnate, in un’edificio trasformato in prigione, furono rinchiusi centinaia di ebrei provenienti dai matrimoni misti con ariani. Le donne che sconfissero Hitler, potrebbe essere il sottotitolo di questo film della Von Trotta. La regista torna a raccontare una storia di donne, coraggiose e intraprendenti, legate fra loro da un legame speciale. Partendo da un avvenimento realmente accaduto, la regista tedesca dirige con mano sicura, intrecciando passato e presente, seguendo il dramma della gente comune che vede deportare persone con cui ha condiviso la vita fino a pochi giorni prima, spesso senza sapere quale fosse il reale destino di quegli sventurati. Assistiamo così a un continuo salto da un periodo storico all’altro, legati insieme da questo scavo alla ricerca di un’esperienza insabbiata, sia nella Storia ufficiale, che in quella personale della protagonista Ruth. Un film dove tre generazioni di donne intrecciano le loro vite, le loro memorie. La storia principale venne taciuta e poi rimossa dalle stesse protagoniste e da tutti quelli che successivamente dissertarono sul nazismo e l’olocausto. Per rivivere questa drammatica pagina della storia, la regista, ci presenta Ruth Weinstein ormai settantenne che a New York, dove si è trasferita al termine della guerra, ha appena seppellito il marito. L’evento la riavvicina in maniera traumatica alla sua religione e per prima cosa decide di opporsi alle nozze della figlia, Hannah, con un uomo di religione non ebraica. Questo improvviso cambiamento della madre preoccupa Hannah, che inizia a indagare sul suo passato scoprendo come la nonna fosse stata una delle vittime della Rosenstrasse e di come sua madre fosse stata adottata da Lena, una delle tante anime disperate che lottava per la liberazione del marito. La regista, da sempre impegnata in un cinema al femminile con vicende rappresentative di eventi storico-politici, realizza un film che ha

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tra i suoi pregi principali, un’accurata e attendibile ricostruzione ambientale; una compagnia di attori che danno l’impressione di credere in quello che fanno; non pochi momenti di alta intensità emotiva in cui i sentimenti privati si caricano e si rifrangono in significati di memoria storica. I film sull’Olocausto hanno sempre una carica emotiva devastante (come potrebbe essere altrimenti?), e questo della von Trotta non fa certo eccezione. La Von Trotta, pur partendo da una storia singola come le leggi del cinema richiedono, ci fa respirare l’odore acre della tragedia universale. Rosenstrasse è un grande affresco collettivo in cui si coglie un dramma intimo, dove due differenti memorie trovano il loro punto d’incontro non solo nel ricordo, ma anche in una maternità che diventa segno indelebile di appartenenza. La Von Trotta dimostra una notevole tecnica, anche se utilizza un ritmo forse un pò troppo lento. Viene da pensare che però questo rallentamento sia voluto per rendere lo spettatore più partecipe dello stillicidio che le donne della Rosenstrasse dovettero patire per giorni e giorni. Altro aspetto positivo del film è la capacità di creare personalità sfaccettate, psicologicamente molto approfondite e con cui lo spettatore entra subito in empatia. Il dramma infatti è tutto al singolare, e balza in primo piano il profondo legame materno che si instaura tra i personaggi, con Lena nei panni di seconda madre – per Ruth nel passato e per Hannah nel presente. Quest’ultima fa della ricerca dell’affetto materno il vero motivo del suo lungo viaggio nella memoria. La ricerca storica, soprattutto per quanto riguarda ambienti e costumi risulta fedelissima e l’ottima fotografia degli interni con i suoi colori cupi avvolge in un alone di costante precarietà la vicenda dei prigionieri, mentre gli esterni vedono una evidente alternanza tra colori freddi (blu e grigio) e caldi (rosso e giallo). La macchina da presa spesso rimane vicina a i personaggi, ma lasciandoli comunque a debita distanza nel loro dolore interiore; e ciò avviene soprattutto nelle numerose scene di gruppo in cui ogni donna, pur condividendo con le altre il comune destino, conserva integra una propria peculiarità, grazie anche alla sapiente alternanza tra totali e primi piani. La pressione emotiva cui l’argomento sottopone il pubblico è sostenuta da una recitazione tutta sfumature ed espressività. Rosenstrasse è un film che trova il suo giusto ritmo strada facendo, nel dipanarsi della vicenda, una vicenda che la regista ha riproposto con l’onestà intellettuale che la distingue, presentando gli eccessi di zelo e crudeltà dei nazisti, ma anche lo stupore di molti tedeschi, gente comune, che vedeva sparire persone

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con cui aveva vissuto fino a poco prima, ignorando spesso la loro terribile sorte e i motivi della scomparsa. In definitiva un momento di emozione, riflessione e ricordo del passato, cui dovrebbe far seguito più passione e decisione oggi per agire contro la perdita di diritti e l’oppressione dei deboli, ovunque essa avvenga. La regista venne a conoscenza di questo episodio nel 1993, quando durante il 50° anniversario dell’Olocausto la Televisione tedesca trasmise il documentario Resistenza in Rosenstrasse di Daniela Schmidt. Margarethe von Trotta cercò la documentarista dando vita così un’amicizia non solo tra le due registe ma anche tra loro e le testimoni intervistate nel documentario. E così con l’aiuto del figlio, storico di professione a cui dedica un cammeo nel film, sceglie di raccontare non la Seconda Guerra Mondiale, ma un evento particolare verificatosi a Berlino tra il 26 febbraio e il 6 marzo 1943. La Shoah vissuta delle donne ‘ariane’ mogli di uomini ebrei è una storia minore e tuttavia rappresenta una prospettiva nuova all’interno della ricca filmografia su questa macchia indelebile nella storia dell’umanità. Sono state un gruppo di donne coraggiose, quelle di Rosenstrasse che, nel marzo del 1943, si opposero per quindici giorni al regime nazista e riuscirono a spuntarla, impedendo che i loro familiari fossero deportati “verso est”. Si raccolsero, una dopo l’altra, davanti all’edificio amministrativo della comunità ebraica (dove erano rinchiusi i prigionieri): erano le stesse che avevano ricevuto ogni forma di pressione dal regime per divorziare dai loro mariti ebrei. L’episodio ebbe scarsa eco perché dimostrava che una forma minima di opposizione, forse irrilevante a fronte dell’intera tragedia, eppure valida, era possibile. Ma anche perché quegli uomini furono gli unici fortunati sopravvissuti alla Fabrik Aktion (la retata ordinata da Goebbels nelle fabbriche). Infine, la rimozione collettiva dell’episodio operata dagli stessi protagonisti contribuì ulteriormente al suo affossamento: era necessario dimenticare e andare avanti. Era un po’ di tempo che nessuno vestiva gli abiti dell’uomo più odiato del XX secolo (esattamente dal film Moloch di Sukurov del 1999); poi, nel breve volgere di qualche mese, arrivano tre produzioni, di cui due televisive: La caduta, Speer und Er, Il giovane Hitler dove al dittatore danno rispettivamente il volto Bruno Ganz, Tobias Moretti e Robert Carole. Quest’ultima, la sola produzione non tedesca, racconta l’ascesa del futuro Führer dalla sua infanzia alla presa del potere nel ’34.

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Per ciò che riguarda La caduta invece si è trattato di quei dodici drammatici giorni nelle viscere della terra, intercorsi tra il 20 aprile, ultimo compleanno di Hitler, e il 2 maggio 1944, data della capitolazione tedesca, che ci vengono esposti dall’occhio ingenuo della giovane segretaria del Führer, Traudl Junge, le cui memorie (e un bel documentario con lei del 2002, Im toten Winkel) hanno costituito la fonte decisiva del film. Dopo 12 anni di regime e 5 di guerra, tutto è già accaduto. L’Europa è devastata, e Hitler (Bruno Ganz) se ne sta in un buco sottoterra, serrato nel cemento armato. Così la macchina da presa lo mostra: immobile, quasi astratto dal sangue che ha fatto versare. Alle sue spalle c’è la sua storia personale, e c’è la Storia. Ma ora, mentre i Russi avanzano, a occupare la scena è solo la morte. E la morte, questa morte totale e stupida, il filo nero che percorre il film: Morti sono i soldati mandati al fronte, e morti sono altri milioni di uomini e di donne, che pure non hanno combattuto. Li hanno uccisi nel corpo la fame e le bombe, ma ancora prima li ha uccisi nell’anima la miseria di un’ideologia densa di odio. Il segno tragico di questa morte morale è nelle strade di Berlino, nei volti di bambini che indossano divise assurde, e che uccidono e si fanno uccidere lietamente. Morto, più di ogni altro, è l’assassino che sta nel bunker. Lo è ben prima che si uccida. Lo è nel rifiuto ostinato della realtà, nella rigidità funerea dei gesti, delle parole. Lo è nel silenzio assordante dell’obbedienza che lo circonda, nella complicità adorante degli altri morti, dei piccoli servi fanatici che ne affollano la corte, e che nella sua caduta vedono la caduta d’ogni possibile senso. Non conta che la guerra sia persa, né che non ci sia più futuro. Conta che niente raggiunga e contraddica il gelo di quella prigione, di quella tana che l’assassino s’è scavato nel buio16.

Da La caduta traspaiono tutte le difficoltà che deve aver avuto l’autore nel realizzare un film che avesse un senso ma fosse al tempo stesso “politically correct” verso tutti (anche i revisionisti?). Merita di essere sottolineata soprattutto l’ultima ora di film, in cui si seguono le vicissitudini fisiche e mentali dei fedelissimi del Fuhrer, sopravvissuti al loro capo e completamente allo sbando: una pagina di storia ancor meno esplorata, e che invece merita grande attenzione. Uno dopo l’altro, Magda Goebbels uccide i suoi figli, addormentati. Con gesti efficienti e uguali, a ciascuno 16. R. Escobar, La caduta, “Il Sole-24 Ore”, 8 maggio 2005.

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apre la bocca, infila una capsula di veleno fra i denti e poi, rapida, ne serra le mandibole. Per sei volte si sente un rantolo lieve, e per sei volte la donna porta le lenzuola fin sul volto del figlio morto, scoprendone i piedi nudi. È questo il momento più orrido del film. Viceversa le vicende del mondo esterno, della disperata, folle difesa di Berlino, sono affidate ad alcune storie parallele, tra cui quella di un eroico ragazzo della Hitlerjugend che poi vedrà assassinata la famiglia dagli squadroni della morte delle SS. Alla fine le due facce della medaglia, interno ed esterno del bunker, finiranno per riunirsi. Dunque soprattutto una storia dal punto di vista dei criminali, o al minimo con una comprensione benevola verso di loro. «Ma il senso, il Fazit della Storia, dove diavolo si è andato a cacciare? Al pubblico l’ardua sentenza, e l’eventuale decisione di condividere la drastica conclusione cui giunge Wenders: Carnefici e vittime insieme: ecco ancora una volta il rifiuto di prendere posizione, che rende questo film così incredibilmente irritante. Questa mancanza di presa di posizione nel racconto spinge gli spettatori in un buco nero in cui, inconsapevolmente, essi sono portati a riguardare alla Storia dal punto di vista dei criminali, o al minimo con una comprensione benevola verso di loro17.

6. La questione irlandese Nel panorama storico poi ci sono periodi che vanno riproponendosi con nuove letture come una delle contese nazionali più spinose: la questione irlandese. Spesso la maggioranza dei film Hollywoodiani ha abdicato alle ricerche storiche profonde dello scontro a favore di più generiche formule action-thriller con divi del momento (Una preghiera per morire, con Mickey Rourke, Blow Away con Jeff Bridges e L’ombra del diavolo con Brad Pitt e Harrison Ford). Chi invece ha riaperto certamente la questione religiosa, politica e razziale è senza dubbio l’irlandese Neil Jordan con, da un lato La moglie del soldato, film politico con toni da mélo; dall’altro Michael Collins, lettura epica della biografia di uno dei leader storici dell’Ira. Altro autore importante ma con meno spessore di Jordan è Jim Sheridan che con Nel nome del padre (in cui quattro giovani inno17. G. Spagnoletti, Gli ultimi giorni di Hitler, “Film Tv”, n. 17 (2005).

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centi vengono arrestati per stragi attribuite all’Ira) e The Boxer (storia di un pugile ex detenuto che cerca di tenersi fuori dai guai) tenta, attraverso il grande attore Daniel Day-Lewis, di ricostruire il clima di sospetto e di paura che correva sul filo Belfast-Londra. Nel 2001 poi il film di Paul Greengrass Bloody Sunday ripercorre l’evento simbolo della lotta irlandese, la tragedia della domenica 30 Gennaio 1972 in cui manifestarono in strada 10.000 irlandesi per i diritti civili. I militari britannici, in assetto da guerra provocano i manifestanti che reagiscono e poi sparano sulla folla. La “domenica di sangue” – pagina vergognosa per l’esercito e il governo britannici – si svolse a Derry, nell’Irlanda del Nord (ribattezzata Londonderry dagli inglesi): tredici manifestanti inermi furono uccisi dai paracadutisti britannici che facevano parte dei tremila, tra soldati e poliziotti, schierati per stroncare la manifestazione con un’azione esemplare. Basato sul libro Eyewitness Bloody Sunday di Don Mullan (1998), testimone dei fatti a quindici anni, il film è un ottimo esempio di cinegiornalismo ricostruito sostenuto da una passione morale. Un film corale popolato da figure che non sono soltanto funzioni narrative, ma personaggi concreti e complessi. Il film di Paul Greengrass, Orso d’oro a Berlino, racconta in modo documentario ciò che accadde, inseguendo i protagonisti quasi sempre con una adrenalinica macchina a mano. La mobile cinepresa non ne registra soltanto gesti e comportamenti, ma le idee e i sentimenti che le muovono. Il film vorrebbe essere una cronaca neutrale di ciò che successe ma nonostante l’aspetto documentario di una messa in scena in presa diretta si capisce quali siano le intenzioni di denuncia del film. Ciononostante rimane davvero una bella pagina di cinema di impegno civile. Così come è di matrice politica The Wind That Shakes di Ken Loach che, un po’ a sorpresa, si è aggiudicato La palma d’oro della 59a edizione del Festival di Cannes. Il film è ambientato negli anni venti irlandesi, periodo in cui si stavano formando i movimenti per l’indipendenza dell’Irlanda dall’Inghilterra. Nel 1919 gli irlandesi abbandonarono i loro lavori per formare un esercito di guerriglia contro i militari inviati dagli inglesi per bloccare i moti indipendentisti. Al centro due fratelli, prima uniti poi divisi da scelte politiche diverse. È interessante che sia un inglese a raccontare una pagina così importante e così insanguinata della storia irlandese. Ma d’altro canto, quando si tratta di ingiustizie, «nessuno può vantare credenziali migliori di Ken Loach, il settantenne cineasta britannico che in coppia col fido sceneggiatore Paul Laverty allestisce i film come armi improprie da brandire contro i presunti malfattori che hanno scritto

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& diretto la storia del democratico Occidente»18. Ed infatti Loach si era già occupato della politica inglese in Irlanda, con il lavoro televisivo Days of Hope e con il buon thriller L’agenda segreta (1990). Nel film del ’90 veniva raccontata l’uccisione di un avvocato americano a Belfast per una inchiesta sulla violazione delle libertà istituzionali da parte della polizia inglese contro i rivoluzionari dell’IRA e l’ostinata ricerca della verità da parte della sua compagna aiutata da un poliziotto inglese. Anche questo film passò per Cannes e vinse il Premio speciale della giuria. In The Wind That Shaker (che verrà distribuito in Italia con il titolo Il vento che accarezza l’erba), l’abitudine di Loach ai temi politico-sociali, la bellezza dei luoghi fa si che il regista riesca a mettere in evidenza l’aspetto privato, umano le piccole storie mentre sullo sfondo il succedersi degli eventi politici ricorda come il movimento per l’indipendenza irlandese abbia avuto un’origine popolare estremamente radicata nel territorio. L’importanza del film risiede anche sulla forza unificatrice del movimento. Oltre che nella sottolineatura del carattere spontaneo del movimento che nasce senza una forte elaborazione teorica, ma che piuttosto risulta legato dal credo religioso che diventa forza coagulante per il popolo. Non mancano di toccare gli spettatori le scene di violenza molto esplicita in cui non si risparmiano le torture, gli assassini, persino lo scontro fratricida mentre una parte del paese decide di continuare a lottare e l’altra accetta un compromesso. Ma si sa che il cinema di Ken Loach non è mai venuto meno a quella che il regista stesso definisce l’indispensabile moralità del cineasta. «Talvolta “libero” fino ai confini con la poesia, altre volte didascalico a un passo dal paternalismo, comunque sempre mobile, curioso e non pacificato, ha attraversato quarant’anni di cinema inglese come un personaggio scomodo»19.

7. Due esempi di “storia italiana”: Pasquale Scimeca e Paolo Benvenuti Dando per scontata l’agonia, la morte e la scomparsa del “cinema italiano”, da molte voci evocata se non sostenuta o auspicata, si deve aggiun18. V. Caprara, The Wind That Shakers, “Il Mattino”, 19 maggio 2006. 19. E. Martini, My name is Ken, “Film Tv”, n. 24 2006.

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gere che non sono morti o scomparsi film e registi italiani. Dire che il “cinema italiano” è morto significa piuttosto dire che è morta la grande “industria” che lo sosteneva, la produzione e distribuzione importante che in termini quantitativi (che poi implicano per forza di cose l’ambito qualitativo) faceva sì che si potesse parlare di un “cinema italiano”. Sempre più raramente il nostro cinema investe con continuità, e le produzioni non hanno più a disposizione certi budget. Oggi una industria culturale cinematografica in Italia non esiste, esiste piuttosto una industria della fiction televisiva, soprattutto in costume. Sceneggiatori, registi, attori e tutto quel mondo a cavallo tra l’industria e l’artigianato che ruotava intorno al cinema, ha trovato la possibilità di impiego in questo sistema dopo anni di produzioni cinematografiche davvero limitate. Si è capito che lavorare per il cinema o lavorare per la fiction può essere spesso la stessa cosa per la cura e l’investimento che c’è nel progetto; per non parlare dei risultati (una fiction in prime time può essere vista da qualche milione di ascoltatori, cifre e numeri da cui il cinema è ben lontano). I capitali dell’industria dell’immagine sono sempre più spesso rivolti alla fiction (se ne parlerà nel quarto capitolo della terza parte). Come detto, oggi, piuttosto che di “cinema italiano”, si può parlare di “film italiani”o “registi italiani”. Percorsi e autori più o meno autonomi e più o meno coerenti in Italia certamente non mancano (Straub, Bellocchio, Ciprì e Maresco, Olmi, Amelio, oltre a molti giovani davvero interessanti, Sorrentino, Marra, Crialese, Vicari, Garrone), ciò che manca è la visibilità. Visibilità di cui frequentemente hanno sofferto due autori italiani che, per molti versi, si occupano di cinema storico. Autori che seppure in modo molto diverso e distante, con coerenza hanno portato avanti i loro percorsi di ricerca nel passato. Si tratta di Paolo Benvenuti e Pasquale Scimeca che da anni; tassello dopo tassello, stanno costruendo il mosaico della loro poetica fatta di indagine e ricostruzione della memoria. Entrambi nascono in regioni fortemente identitarie, ed entrambi fanno propria la lezione del maestro Rossellini, ma se il toscano Benvenuti realizza una messa in scena rigorosa, essenziale, qualche volta anche troppo astratta, frutto di una puntigliosa ricerca documentaria, il siciliano Scimeca percorre un sentiero che, seppur fatto con piccole storie, nasconde dietro di sé ambizioni di epica popolare appoggiato com’è alle tradizioni di narratori, cantastorie e novellieri. Benvenuti procede verso il progetto di un cinema storico, ovvero di un cinema utilizzabile anche dal

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punto di vista didattico nella scuola, e incarna in pieno la figura di un regista appartato che fa un cinema personale e attento alle radici di un passato da non perdere. Scimeca in modo abbastanza complementare mette il suo cinema al servizio della dialettica tra dimensione tragica universale e destini individuali, tra mito (la cadenza da ballata di un cantastorie) e antropologia culturale. Fin dal 1968 Paolo Benvenuti comincia a girare dei piccoli documentari cogliendo un’idea precisa di “morale della visione” che il lavoro sul set de L’età dei Medici accanto a Rossellini gli lascia in eredità. Attraverso l’ipotesi rosselliniana di una educazione integrale, Benvenuti fa sua la strada di un cinema condizionato da ricerca minuziosa nella Storia da usare come strumento per capire l’oggi. Dopo alcune collaborazioni con un altro grande regista impegnato, isolato e coerente come quel Jean Marie Straub di Lezioni di storia, da cui eredita la conciliazione del rigore col sentimento, Benvenuti realizza nel 1975 Frammenti di cronaca volgare. Negli anni successivi continua a lavorare in questa direzione: nel 1988 realizza Il bacio di Giuda, tratto dai Vangeli canonici e apocrifi, e nel 1992 Confortorio. Il titolo di quest’ultimo film si riferisce al luogo in cui i condannati trovavano conforto nell’ultima notte di vita prima di salire al patibolo. Il film è ambientato nel 1736 a Roma. Due giovani popolani, rei confessi di furto con scasso, sono condannati all’impiccagione. Poiché sono giudei, si mette in moto la “macchina della Pietà”: il confortorio, luogo in cui esperti della predicazione e della catechesi cercano di ottenere la loro conversione per salvargli l’anima; ma i due giovani, non rinunciano alla loro identità religiosa dimenticata e muoiono “ebrei ostinati come vissero”. Questo film nasce da alcuni documenti storici scoperti negli Archivi Vaticani da una giovane studiosa romana di religione israelita, Simona Foà; in particolare si tratta del manoscritto inedito redatto dal Provveditore della Confraternita di San Giovanni Decollato in una notte del 1736. Era questa la notte che precedeva l’esecuzione di due giovani ebrei condannati. Successivamente la ricerca si è ampliata agli archivi dei vari ordini religiosi che portarono “conforto” quella notte e con il materiale raccolto il regista è stato in grado di ricostruire minuto per minuto la vicenda. Per Confortorio è stata molto importante la collaborazione del professor Adriano Prosperi, che ha accompagnato il regista durante tutto

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il lavoro di studio sui rapporti tra i vari personaggi della vicenda. Si tratta di un film d’interni, di attori, ma soprattutto di ammirevole compattezza drammaturgica, il film infatti osserva quasi del tutto le regole canoniche della tragedia greca (unità d’azione, di luogo e di tempo), un dramma di forte suggestione claustrofobica e, sostenuto da una fotografia ispirata alla pittura fiamminga e caravaggesca. Benvenuti è in grado di leggere questo atroce episodio del passato attraverso lo sguardo dell’epoca rappresentata; il regista si sforza di assumere il punto di vista contemporaneo agli eventi che racconta, solo in questo senso ci permette una interiorizzazione scevra da pregiudizi di quell’episodio e di quegli anni. Si tratta, almeno nelle intenzioni, dell’unica possibilità di una rappresentazione fedele. Come ammette lo stesso regista nell’intervista presente in appendice al testo, «tentare di ricostruire un episodio nella maniera più fedele possibile non significa, tuttavia, essere prigionieri dell’oggettività (termine che io non utilizzo): significa invece essere alla ricerca di una soggettività profondamente consapevole. Per raggiungere tale obiettivo devo mostrare allo spettatore delle immagini realizzate per fornire il maggior numero di informazioni. Non sto parlando di informazioni tecniche o di documenti scientifici, ma del concetto di informazione nella sua totalità».20 Nel 1996 realizza un film, Tiburzi, tratto anche questo da documenti originali, sugli ultimi giorni di vita di un famoso brigante dell’800, Domenico Tiburzi, morto nel 1896 in un conflitto a fuoco con i carabinieri in circostanze strane e misteriose, una sorta di mito rimasto negli anni. Di questa figura, metà maledetta e metà benedetta dalle povere genti della Maremma che vedevano in lui anche un difensore dai soprusi dei potenti, Benvenuti racconta gli ultimi tre giorni, coniugando storia e memoria, ricostruendo, sulla base di una rigorosa documentazione, le cause di questo “assassinio di Stato” e il mondo in cui il brigante si muoveva. Benvenuti lavora per anni alla sua preparazione, viaggiando per la Maremma e studiando su documenti, testi, manoscritti, verbali di polizia, diari dei carabinieri, giornali d’epoca, e i fascicoli dell’inchiesta relativa alla vita e alla morte del «brigante». Il film, come una indagine, ricostruisce quei precedenti alla morte di Tiburzi e il quadro finale che ne esce fuori ci regala una figura niente affatto lineare che determina la complessità della struttura formale del film, in apparenza molto semplice dal punto di vi20. Cfr. Intervista a Benvenuti nell’“Appendice”.

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sta narrativo. Nella seconda parte del film, come in un opera di Straub, emerge l’importanza del territorio, dei suoi paesaggi, del suo clima, dei suoi rumori, insomma una memoria di quei luoghi, che ci riporta a un universo scomparso; attraverso un passo narrativo volto a ricreare il sentimento di un’epoca ancora scandita dai ritmi naturali, Benvenuti ci offre la sua verità più profonda incorniciata dalla vigorosa voce popolaresca di una cantautrice: Silvana Pampanini. Sceneggiato sulla base degli atti processuali originali, Gostanza da Libbiano chiude il trittico a cui appartengono i precedenti Confortorio e Il bacio di Giuda. Nel rigore classico di un bianco e nero “intagliato”, un susseguirsi liturgico di inquadrature perfette ci immerge in una storia universale fatta di squallide giornate dipinte secondo moduli iconografici desunti dalla pittura classica con il gusto caratteristico del cinema di Benvenuti. Nell’anno 1594 a San Miniato al Tedesco, nel Granducato di Toscana, Monna Gostanza da Libbiano, contadina sessantenne, è nota per l’esercizio del mestiere di guaritrice. Tutto questo allarma le autorità ecclesiastiche e il vescovo di Lucca la fa arrestare. Dopo una breve istruttoria si decide di accusarla di stregoneria. Viene così sottoposta a estenuanti interrogatori che prevedono anche torture per farle ammettere i propri “commerci col demonio”. Indebolita dalla sofferenza, Gostanza sembra cedere. Ammette i rapporti con il diavolo e va oltre: comincia a inventarsi tutta una serie di vampirismi, orge, delitti e magie nere. Il cinema come autentica ricostruzione storica. Il film inizia infatti con una mano anonima che scrive un verbale in antica grafia proprio a indicare lo stretto legame tra la storia e il cinema, perché è proprio da lì, dal lavoro sulla fonte, che tutto ha inizio, sia per lo storico che per il regista. Successivamente vediamo una bimba, la nipote della Gostanza, che gioca e recita uno strano sortilegio di fronte a una fontanella, è inquadrata dall’alto, dalla soggettiva del reverendo che prima di chiudere la finestra la osserva inquieto, preoccupato dai suoi strani gesti. Ma più che per lei il reverendo è tormentato da ciò che è chiuso con lui nella stanza, e a cui si rivolge appena chiusa la finestra. L’interrogatorio prende il via. E tutto sembrerebbe una normale richiesta di chiarimenti da parte di detto Reverendo, Messer Tommaso Soffia, e dall’inquisitore vicario, Padre Mario Porcacchi da Castiglione, il primo anziano e all’apparenza più bonario, l’altro giovane e insinuante. «A loro, con penna d’oca e calamaio e sen-

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za un fremito d’orrore, presta i suoi servigi ser Vincenzo Viviani, notaio fiorentino. Alla sua solerzia puntigliosa e glaciale si deve se ora Paolo Benvenuti può affidare i dialoghi del suo film a un “copione” ufficiale, esso stesso puntiglioso e glaciale, percorso da espressioni ormai desuete, che anche per questo hanno una sonorità inquietante»21. Sulle prime Gostanza proclama la sua innocenza ma l’interrogatorio procede con domande sempre più approfondite e incalzanti. Sotto la tortura “della fune”, una corda fissata al soffitto che la tira su lasciandola a penzolare nel vuoto, Gostanza rivela particolari orribili dei suoi rapporti con Satana. I due religiosi vogliono che confessi i suoi terribili peccati, pronti a cogliere ogni tonalità della sua voce e ogni sfumatura del senso delle sue parole. Sfinita dagli interrogatori e dal supplizio si dichiara colpevole ed entrando nel personaggio della strega, quale si pretende ella sia, comincia ad affabulare fantasie che comportano incontri con il diavolo, infanticidi, scatenamenti sessuali. Sì, è vero, è una strega, ha causato la morte di adulti e bambini, senza provarne rimorso. Ma le cose sono andate proprio così?22 Nel momento in cui lei è sola davanti al potere, denudata, appesa a una corda che le strazia i polsi, costretta a dire ciò che non è vero, capiamo cosa stiamo vedendo. Una battaglia tra libertà e paura, fatta da inquadrature lavorate una per una, secondo una ricostruzione che è puro artigianato della storia; un viaggio che ci porta claustrofobicamente dentro gli ambienti d’epoca ricavati, alla Rossellini, dalla realtà. Capiamo che il film su Gostanza tratta del rapporto fra il maschile e il femminile, e della paura nei confronti del femminile da parte delle autorità religiose del tempo. È su quella paura, che non è paura generica della strega ma paura della sensualità femminile, che si gioca il dramma di Gostanza. L’universalità del racconto sta nella storia delle donne e della loro capacità di resistere al potere maschile e al loro controllo. Nell’immagine finale la pellicola ci regale l’emozione più bella: due donne ancora una volta ci appaiono come custodi di un sapere misterioso che solo a fatica riescono a tramandare: si tratta di Gostanza, ormai liberata, e della nipotina che

21. R. Escobar, Gostanza da Libbiano, “Il Sole-24 Ore”, 11 Marzo 2001. 22. Sulla metodologia della ricerca storica, l’ermeneutica delle fonti e i processi per stregoneria si rimanda ai classici lavori di G. Ginzburg, I benandanti. Ricerca sulla stregoneria e sui culti agrari tra Cinquecento e Seicento, Einaudi, Torino 1996; Miti, emblemi e spie: morologia e storia, Einaudi, Torino 1986.

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nell’ultima scena del film si allontanano tenendosi per mano sotto il vento sferzante che le fa procedere a fatica. Un film estremamente difficile, a tratti ostico ma nobile sul piano narrativo. L’opera di Benvenuti di scarso peso attrattivo e comunque lontano dalle esigenze di un pubblico disabituato a queste avventure visive ha invece al suo interno un cinema fatto di passioni sentite e tematiche importanti. Come risulta importante il tema trattato nel suo ultimo film, Segreti di Stato, in cui Benvenuti per la prima volta si accinge a ricostruire un passato abbastanza recente. L’Italia del dopo primo maggio 1947. Il primo maggio del 1947, infatti, nella pianura siciliana di Portella della Ginestra furono uccise 11 persone e ferite (ufficialmente) 27 mentre festeggiavano, nel giorno dedicato alla festa dei lavoratori, la vittoria comunista alle elezioni regionali siciliane di appena dieci giorni prima. A distanza di appena tre ore, l’allora Ministro degli Interni Mario Scelba rese noto all’opinione pubblica che la strage era stata eseguita a opera della banda del bandito Salvatore “Turiddu” Giuliano. Ucciso in un conflitto a fuoco con un carabiniere alcuni mesi dopo, però, Giuliano non poté partecipare al processo che si svolse a Viterbo esattamente quattro anni dopo il barbaro eccidio. Il plot di Segreti di Stato si sviluppa proprio a partire da questi avvenimenti. Dopo il processo del 1951 a Viterbo, l’avvocato di Gaspare Pisciotta conduce un’inchiesta sull’eccidio che – in base a testimonianze, sopralluoghi, documenti, perizie mediche e balistiche – smonta la versione ufficiale (poi accolta dalla maggioranza degli storici) e lo indica come il primo capitolo della strategia della tensione. Il film di Benvenuti, oltre al tentativo di fare chiarezza, riflette sulle possibilità di ricostruire la Storia. Ed il primo pensiero va certamente a quel Salvatore Giuliano (1962) di Francesco Rosi, sorta di pietra miliare della cinematografia di impegno civile degli Sessanta-Settanta. Ma diciamo subito che il confronto è assolutamente improponibile: lo stile asciutto del regista toscano è lontanissimo da quello epico di Rosi. Ma soprattutto è diversa la tesi di fondo, argomento sul quale lo stesso regista riflette accuratamente nell’intervista successiva. Paolo Benvenuti ha cercato di gettare una nuova luce su uno degli avvenimenti fondativi della nostra Repubblica. Mettendo insieme con rigore filologico le informazioni provenienti dalle testimonianze raccolte

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da Danilo Dolci23 – il giornalista che più degli altri si occupò del caso – i documenti desecretati pochi anni fa a opera della Commissione Parlamentare Antimafia, gli incartamenti relativi al processo depositati presso il Tribunale di Roma e quelli custoditi negli archivi dell’Office of Strategic Services di Washington, il regista pisano ricostruisce le dinamiche che condussero all’eccidio cercando di dar senso alle molte zone d’ombra lasciate dalla versione “ufficiale”. Lo fa con la collaborazione alla sceneggiatura di Paola Baroni (sua moglie), storica di professione, oltre ad avvalersi della consulenza di altri storici come Nicola Tranfaglia. Secondo questa ricostruzione a Portella della Ginestra ci fu un’azione di fuoco che vide coinvolti diversi altri gruppi che non la semplice banda di Salvatore Giuliano. Benvenuti, dunque, rimette in discussione non solo la versione storica ufficiale, ma anche il modo cinematografico di raccontarla, a partire dal film di Rosi. Tensione e puntualità documentaria, allusione, laconicità e assenza di trucchi, passione sincera e razionalità si fondono nella semplicità tipica di Paolo Benvenuti e fanno sì che Segreti di Stato, come ha scritto Goffredo Fofi, sia un film importante per più di un motivo: Perché porta a compimento una ricerca decennale di stile, di metodo, di linguaggio, essendo Benvenuti allievo del Rossellini didascalico, ma in questo settore molto migliore del maestro, ed è di Straub piuttosto un fratello minore che un allievo. Perché riesce a fare quello che a nessun “brechtiano” è mai riuscito, e tanto meno al cinema di denuncia all’italiana, sempre retorico e pieno di ricatti e di trappole che fanno appello al cuore e alle viscere o alle logiche di schieramento e molto poco, o niente, al cervello. Perché contiene alcune sequenze di grande cinema: l’assassinio di Pisciotta visto dagli specchi di un mobiletto di bagno, degno di Hitchcock; e quella delle carte-fotografie che dimostrano la rete di collegamenti che, da un nome all’altro, stabiliscono la rete dell’occulto che sta dietro una strage, e che un colpo di vento butta all’aria24.

La Sicilia è la terra che fa da sfondo a molte delle vicende storiche rievocate dall’altro regista che si vuole analizzare. Pasquale Scimeca, come 23. Segreti di Stato è dedicato alla memoria di Danilo Dolci il giornalista che più di tutti coloro che si occuparono del caso non si accontentò di veder definita quella di Portella della Ginestra semplicemente come una “strage di banditi” (così, infatti, l’8 maggio 1947, a distanza di una sola settimana dagli avvenimenti fu “bollata” da Scelba). 24. G. Fofi, Segreti di Stato, “Film Tv”, 9 Settembre 2003.

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detto, è molto distante dalla ricerca estetica di Benvenuti; il regista siciliano, a differenza dell’essenzialità di Benvenuti, possiede uno spessore narrativo derivante dall’epica popolare. Si tratta di un’idea di racconto che si avvicina molto, per ciò che riguarda le istanze etiche, al cinema di Loach, vale a dire di un cinema politico, sullo sfondo di una ricostruzione storico-sociale, realizzato con la stessa passione politica e purtroppo le stesse semplificazioni retoriche. Però quanto percorso da immagini e situazioni spesso “stereotipe”, nel cinema di Scimeca non c’è didascalismo. A garantirne la sincerità delle intenzioni e nutrirne l’essenzialità c’è, sempre, la decisione di seguire i tempi della narrazione popolare, con la sua ingenua maestria. Scimeca realizza il suo primo lungometraggio in 16 mm dal titolo La donzelletta, storia di una ragazza siciliana che lascia il suo paese sulle Madonie per andare a vivere a Palermo, con il suo fidanzato, uno spacciatore che poi sarà arrestato. Il secondo lavoro, sempre un lungometraggio in 16 mm, è Un sogno perso, con il quale partecipa al Festival del cinema di Taormina. Nel 1993 dirige il suo primo film in 35 mm Il giorno di San Sebastiano, opera tratta da una storia vera e ambientata a Caltavuturo nel secolo scorso. Durante la festa di San Sebastiano alcuni bersaglieri sparano su una folla di contadini che reclamano la propria terra. I mandanti sono dei mafiosi e alla fine sono quindici i contadini morti. Comincia la rivolta di solidarietà degli altri siciliani. Del 1996 è invece il suo secondo lungometraggio intitolato Briganti di Zabut. Un bracciante che è stato inviato al confino per aver difeso un mendicante, torna al paese dopo l’armistizio. In Sicilia i possidenti agrari continuano a comandare, ma tra loro serpeggia il panico quando scoppia una rivolta contadina i cui militanti sono costretti a darsi alla macchia. Presto il cerchio si stringe: chi muore, chi è arrestato e condannato a lunghe pene. Il loro capo si uccide in prigione. La consacrazione definitiva per Scimeca arriva però con Placido Rizzotto, la storia del giovane segretario della Camera del Lavoro che a 33 anni venne ucciso in un agguato di mafia ordinato dall’emergente boss Luciano Liggio. È il 1948. Aperta da un prologo ambientato negli anni prima della guerra quando, ancora ragazzo, il protagonista assiste all’arresto del padre. Successivamente l’esperienza tragica della guerra e della Resistenza e la scoperta dell’orrore; poi il ritorno e la voglia di cambiare l’immobile Sicilia. È poi con il lavoro nel sindacato, con l’occupazione

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dei latifondi incolti che Placido si trova in prima linea. Fino ad essere massacrato a bastonate. Questo almeno racconta il cantastorie Carmelo Rizzotto, il quale narra al suo pubblico la storia del figlio che la mafia gli ha ucciso tanto tempo fa. Alle sue spalle c’è un grande pannello su cui è dipinta quella storia “fissata” in undici quadri. Quadri che si animano, volti e parole che riprendono vita nel suo racconto pieno di pathos e sul grande schermo, grazie a volti segnati da quella dura esistenza. L’epica popolare di Placido Rizzotto ha come centro la piazza di Corleone. Lì, in quel luogo pubblico, s’incontrano e si scontrano i diversi personaggi nei loro diversi ruoli. Insieme con i suoi, c’è Placido, contadino e sindacalista. E c’è Luciano Liggio, detto Lo Sciancato (Vincenzo Albanese), con la sua violenta, astuta cupidigia. Ci sono poi i rappresentanti del Cnl, scesi fin quaggiù a sostenere i contadini. E ci sono infine, in quello stesso luogo, fianco a fianco con loro, gli uomini della mafia, quelli che ora dominano indisturbati e quelli che domineranno poi. Tutt’attorno stanno i corleonesi, ben decisi a non esser più che coro pavido e cieco. In questo gran teatro, il cui palcoscenico ideale va ben oltre i confini d’un paese e s’allarga fino a quelli d’una nazione, Scimeca cura la “messa in scena” della lotta, della vera e propria guerra che gli uni dichiarano agli altri. La nuova Italia o la vecchia: quest’alternativa è in gioco, nella piazza di Corleone25. Dopo Placido Rizzotto, Scimeca prosegue la sua opera di ricostruzione di brani poco noti del passato italiano, e di ripensamento del cinema politico. Stavolta si appoggia a un affascinante reportage di Giancarlo Fusco, Gli indesiderabili (1962) che racconta un periodo della storia italoamericana letta dalla parte dei gangster di mezza tacca, un gruppo di piccoli mafiosi che nel 1951 gli Stati Uniti, non potendo provare la loro colpevolezza, avevano espulso con il titolo di “Indesiderabili”. Alcuni di loro furono intervistati dal giornalista Fusco (nel film interpretato da Antonio Catania) che ne trasse la cronaca romanzata. Gente che aveva lasciato i paesi siciliani o campani d’origine venti o più anni prima, poveri, trovando un posto nella cruda società dell’immigrazione americana come manovalanza criminale. Ed infatti il film, che si perde un po’ nella com25. R. Escobar, Placido Rizzotto, “Il Sole 24-Ore”, 5 novembre 2000.

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plessa costruzione corale a flashback, è pieno di sanguinose rese dei conti, ammazzamenti sui moli, negozi incendiati, stragi nelle strade, vendette incrociate e faide tra clan. Si mescolano idiomi (inglese, italiano, gergo siculo-americano, polacco) e attori italiani e italo-americani, per ricreare percorsi esistenziali minori di cui si è perso il ricordo. Attraverso queste piccole vicende, queste storie dimenticate, Scimeca crea una continuità con la sua idea di racconto cinematografico. Raccontare quel mondo popolare di immigrazione che, dall’esclusione, è spinta dentro la criminalità. Sono storie di uomini che non contano, senza storia, senza parola, senza finalità, che non sono né buoni né cattivi, semplicemente spariscono nel buio e nel nulla senza lasciare traccia. Nel suo ultimo film La passione di Giosuè l’ebreo, presentato a Venezia nella sezione Giornate degli Autori del 2005, Scimeca sfrutta l’onda lunga del caso The Passion di Mel Gibson e allarga le ambizioni del suo cinema storico puntando a fare un discorso più ampio attraverso una storia individuale. Scimeca propone un’immersione nei rapporti, da sempre intrecciati, fra due delle tre «religioni abramitiche», quella ebraica e quella cristiana che convissero per secoli senza problemi nella cattolica Spagna prima che il famoso editto di Isabella di Castiglia non esiliasse musulmani e giudei nel 1492 dal suo regno. Il film è sincero, appassionante e quasi equidistante, nonostante le tante licenze poetiche che il regista si permette su un argomento così delicato. Nell’anno domini 1492 un giovane ebreo di nome Giosuè (che nella sua comunità si pensa sia il Messia) viene espulso, assieme al suo popolo, dalla Spagna. Di nuovo il popolo di Israele verso la terra promessa, che attraverso monti nevosi e mari in tempesta, lo conduce a Napoli e poi, fuggendo alla peste, in Sicilia, tra carbonai ebrei convertiti. Però, durante le festività del venerdì di Pasqua, per merito della sua vasta cultura biblica, Giosuè vince una gara di sapienza religiosa e viene scelto per interpretare Cristo nell’annuale sacra rappresentazione che prende il nome di Casazza. La sua predicazione è trascinante e, dunque, pericolosa per i potenti e costringe l’Inquisizione alla più sadica delle vendette. Torturato, morirà in croce durante la falsa (a quel punto vera) passione, di fronte agli occhi sbarrati della “falsa Madonna” (una bellissima e ispirata Anna Bonaiuto). Il film risulta appassionato e interessante nella sua epica sospesa tra individuale e universale, ma come il precedente soffre dei medesimi difetti,

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soprattutto nella prima parte non convincono le lungaggini del viaggio degli ebrei (che non è necessario descrivere montagna dopo montagna per farne percepire la durezza) e l’assoluta disarmonia del cast che mette il protagonista a confronto con fior d’attori come la Bonaiuto e Bertorelli, e all’esordiente Leonardo Cesare Abude, afflitto da una dizione spesso impacciata: non basta aggrapparsi all’aspetto esteriore per risultare credibile. Inoltre Scimeca non costruisce una cornice narrativa adeguata all’epica del messaggio, né fornisce elementi, tranne i più evidenti, per un quadro storico più profondo. Nella seconda parte però il regista ritrova i suoi tempi, la sua terra, il suo ritmo popolare, la sua narrazione antropologica e attraverso le musiche travolgenti e l’eccellente lavoro figurativo si lancia in quel lungo epilogo, giocato abilmente sulla confusione fra illusione e realtà, che riscatta attraverso una sofferenza fisica, mai compiaciuta come in Gibson, e lancia il suo messaggio di pace religiosa che sentito sinceramente ci tocca da vicino.

8. Tre donne del Settecento: La Nobildonna e il Duca, Il resto di niente, Maria Antonietta Gli storici de Les Annales hanno fatto vedere come non si dà soltanto un unico tempo storico, ma che la struttura della storia è, per così dire, stratigrafica. Secondo Les Annales la storia non è né lineare né ciclica, non segue né l’idea della freccia, né l’idea del ciclo del tempo, ma la storia è fatta un po’ come una struttura geologica, a più strati. Accade spesso che gli strati si sovrappongono l’uno l’altro e che lo strato che era in fondo tende a sorpassare gli altri, a scavalcarli, a giustapporsi agli altri. Vi è una continua mobilità tra gli strati della storia. Questa idea stratigrafica della storia, è molto più in grado di farci intendere i problemi della nostra stessa attualità di quanto non ci consentissero il modello lineare progressivo o il modello puramente ciclico. A questo va aggiunto che l’idea di pervenire a una restituzione totale del passato, si è rivelata assolutamente impossibile. Da almeno quarant’anni gli storici e i filosofi che riflettono sulla storia, hanno stabilito, con assoluta certezza, che quell’idea era illusoria, un’illusione romantica. Ed inoltre che si possa scorgere soltanto una piccola parte del passato, e che forse è illusorio anche credere di poter pervenire alla verità, ricostruire genuini atteggiamenti degli uomini di altri tempi, salvo che attraverso

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qualche gesto o qualche traccia. Ciò non toglie che la perdita del vero implichi la perdita del raccontabile. A questo proposito i filosofi, e in particolare il filosofo francese, Paul Ricoeur, hanno stabilito che ogni discorso storico è fondato su una struttura narrativa, su un racconto, su un intreccio romanzesco. Bisogna dunque ricostruirlo con grande discrezione. Lo storico è necessariamente obbligato a fare appello alla propria immaginazione, perché le testimonianze di cui dispone sono discontinue, intervallate da vaste lacune, da vuoti, e questi vuoti bisogna colmarli e non si possono colmare che mediante l’immaginazione. Ma l’immaginazione deve essere strettamente controllata dalla ragione e dalla critica, da una autocritica, che lo storico deve continuamente esercitare su se stesso, per difendersi dalle divagazioni nelle quali la sua immaginazione, se non fosse vincolata, lo trascinerebbe. Per un regista, invece, che può muoversi con il tempo a suo piacimento e inserire la sua immaginazione e la sua poetica nel racconto, i vincoli sono meno stretti. Come detto, in precedenza nella scienza storica vi era del tempo una concezione riduttiva, e cioè il tempo veniva visto come una linea retta, sulla quale far scorrere un punto: il presente, che separa in maniera irreversibile il passato dal futuro. Ma ad esempio, nel tempo psichico, cioè nel tempo della vita, succede che c’è un passato che non passa, qualcosa che resta e che viene continuamente rielaborato. I nostri ricordi d’infanzia, che peraltro son pochissimi, si contano sulle dita di mano, e molte volte sono falsi, cioè sono ricostruiti. È questa memoria plastica che può influenzare le scelte estetiche della ricostruzione del passato come vedremo da questo percorso in avanti. Gli ultimi quattro sentieri di ricognizione cinematografica del passato sono molto diversi tra loro, ma hanno tutti una caratteristica comune, il patto di evidente finzione figurativa con lo spettatore. Pur rappresentando degli avvenimenti realmente accaduti, questi racconti cinematografici sono “falsi” in ciò che ricostruiscono e in ciò che espongono. Questo è fatto con consapevolezza e immediatamente rivelato allo spettatore. Non ci sono intenti mistificatori o travestimenti alla storia, questa viene semplicemente raccontata a partire da un tempo e da uno spazio interiori che non sono quelle coordinate che siamo abituati a vedere governare il principio del reale. Questi film si nutrono di suggestioni diaristiche, pittoriche, letterarie, psicologiche, cinematografiche, oniriche, quasi mai si

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parte dalla volontà di ricostruire racconti attraverso l’analisi filologica dei documenti, anche se a questi si attinge fortemente. Non vengono adoperati documenti nel senso classico del termine, quanto piuttosto documenti in senso lato, come diari, romanzi, quadri e gallerie d’arte, fiabe orali e frammenti di film, e inoltre questi non sono usati più per dare più o meno verosimiglianza storica alla vicenda, quanto piuttosto come strumenti per il livello estetico. Il primo film che prendiamo in esame è La nobildonna e il duca di Eric Rohmer, che realizza un’opera in costume per raccontare, dal punto di vista dell’aristocrazia, i “giorni del Terrore”. Lo fa tentato, più che dalla lettura ideologica, dalla possibilità di tradurre in immagini un diario e dall’uso, per lui assolutamente nuovo, del digitale. Non potendo e non volendo ricostruire la Parigi di quei giorni, ne ha commissionato delle vedute pittoriche a un artista e le ha usate come sfondi su cui far muovere gli attori nel momento in cui si trovano all’esterno. Ne risulta la sensazione di vedere agire i protagonisti all’interno di quadri, sensazione certamente straniante ma bellissima. Le immagini elettroniche non solo evitano di produrre verosimiglianza: addirittura imitano le sfumature e i tratti della tecnica pittorica dell’acquerello. Il film racconta la storia di Grace Elliott, giovane dama scozzese che si ritrova a Parigi, impossibilitata a rientrare in patria, nei giorni della Rivoluzione. Il film di Rohmer si ispira ai suoi diari, che riferiscono dei giorni del Terrore, ma anche del suo legame con Philippe “Egalité” Duca d’Orléans, cugino di Luigi XVI. I due sono stati amanti, ma un’attenzione profonda li lega ancora. Grace però, da monarchica convinta qual è, non perdona a Philippe il voto in favore della messa a morte del Re. Si ritrova poi coinvolta in un processo nel quale, a seguito di una lettera rinvenuta in un suo cassetto, viene accusata di essere una spia inglese controrivoluzionaria. Il film è girato con videocamere digitali. Questa scelta stilistica ci suggerisce che non si tratta di una ricostruzione storica, ma appunto di qualcosa di più caldo, di più tenero e materiale. Più che il resoconto corretto di quei giorni a Rohmer, sta a cuore la memoria di Grace in quanto permeata d’una umanità tanto viva da non essere, appunto come umanità, “reazionaria”. «La nobildonna e il duca arriva a produrre, grazie alle nuove tecnologie, effetti d’animazione delle scene “dipinte” da cui parte ogni sequenza. Rohmer denuncia l’origine pittorica delle sue scene e anzi propone la convivenza dei due regimi percettivi (quello della pit-

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tura e quello del cinema), con effetti del tutto inediti. Naturalmente egli opta per la messa in scena cinematografica, per la resa tutta filmica delle emozioni del personaggio (interpretato dalla bravissima Lucy Russell), ma non prima di aver dato un saggio di straordinaria efficacia e bellezza sulla differenza tra i due regimi percettivi, e d’aver fatto vivere allo spettatore per qualche momento in una sorta di indecidibilità tra la forza evocativa del passato (la pittura) e l’indefinito presente del cinema»26. Le strade di Parigi e i suoi edifici, la campagna attorno a Meudon, la stessa capitale vista dall’alto e in lontananza (intanto, la ghigliottina s’abbatte sul collo del re), talvolta anche gli interni: tutto è ricostruito e inventato elettronicamente. La storia del film è presa quasi alla lettera dai diari della protagonista, Diario della mia vita sotto la Rivoluzione Francese di Lady Grace Dalrymple Elliott, la nobildonna moderatamente aperta al nuovo ma incapace di rinunciare ai capisaldi della propria cultura di classe; durante la rivoluzione francese, contando sulle sue origini inglesi e sull’amicizia con il duca d’Orleans di cui era stata l’amante, decide di restare a Parigi per salvare le vite dei nobili rischiando in prima persona pur di salvare la vita del re. «Del tutto interna alla classe e al pensiero che la Rivoluzione e la sua Ragione stanno distruggendo, per lei non finiscono solo un ordine politico, un sistema sociale, una gerarchia di valori, ma ogni possibile ordine, sistema e gerarchia. In questo senso, la sua prospettiva è strettamente reazionaria, volta al passato e dominata dalla sua nostalgia. Il che, però, non implica che lo sia anche quella di Eric Rohmer. Fra l’una e l’altra, fra la narrazione dell’anglaise e quella del grande autore francese, non c’è, né può esserci, identificazione o sovrapposizione. Piuttosto, la prima è l’oggetto della seconda: è ciò che essa narra. Il punto di vista della regia, ancora, non può e non deve essere cercato direttamente nelle parole, nei fatti e nei sentimenti che costituiscono la narrazione di Grace, ma nel modo in cui la regia stessa li rappresenta»27. Rohmer mette a confronto la rivoluzione nelle strade e nelle piazze con le discussioni che si tennero nelle case e nei salotti dei nobili e come sempre nei suoi film non si preoccupa di giudicare il merito delle idee ma di vedere fino a dove potrà arrivare la coerenza delle azioni e qui arriva 26. Costa A., Il cinema e le arti visive, Einaudi, Torino 2002, p. 326. 27. R. Escobar, La nobildonna e il duca, “Il Sole-24 Ore”, 7 Ottobre 2001.

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fino alla ghigliottina. Si tratta dunque per Rohmer di raccontare il Terrore, il regime del Terrore, e infatti dice lui: «La rivoluzione ha avuto anche momenti belli e felici, gli entusiasmi di piazza, la solidarietà, la concorde. E sono stati raccontati dal cinema, ma c’è stato anche il Terrore e degli eventi dal 1789, al 1874 non si è più parlato, quasi si avesse paura. Io non ho paura. Non parlo male della Rivoluzione, ma del Terrore e oggi ci sono più terrori che rivoluzioni». Noi possiamo dire che questo film, attraverso le sue immagini di sogno che escono dal quadro dello schermo per sembrare quadri, offre del tempo passato un’immagine proustiana. Va notato però che qui il tempo non è soltanto tempo interiore, flusso di coscienza, ma anche vicenda politica. L’obiettivo di Rohmer non è un’indignazione retrospettiva. Il film propone una fenomenologia del primo terrore moderno, e lascia a noi spettatori il compito di trarre le conclusioni sulla natura politica della libertà dei moderni. Comunque sia questo film è come il suo regista: immenso. La ricostruzione della vita quotidiana entra nello spirito del tempo con storica discrezione, senza alzar la voce attraverso un’altra pellicola sulle rivoluzioni del Settecento ed espone un nuovo racconto di vita fatto di impegno al femminile diametralmente opposto a quello della nobildonna Grace Elliot: la vicenda umana, intellettuale, storica di Eleonora Pimentel Fonseca, l’animatrice de Il monitore napoletano, “organo” ufficiale della rivoluzione partenopea. La biografia di una donna sullo sfondo di quelle vicende storiche della rivoluzione giacobina napoletana del 1799, raccontate con tanta nitidezza e potere di fascinazione dal romanzo storico Il resto di niente di Enzo Striano da cui Antonietta del Lillo ha tratto il suo film. In questa Rivoluzione importata, che voleva “fare come in Francia”, è interessante scoprire come cambiando di barricata, dagli aristocratici francesi, ai giacobini napoletani, la descrizione della vicenda umana sia parallela dal punto di vista figurativo. Attraverso un percorso che non fa della verosimiglianza storica il suo punto di forza, ma che della ricostruzione mette bene in evidenza il suo apparato di evidente finzione, scopriamo come ci si possa avvicinare a questa eroina della rivoluzione napoletana mediante l’intenzione di mettere la macchina da presa al centro di un’anima di una donna, per registrare dolori, speranze e passioni di un’intera esistenza proprio mentre quest’esistenza sta per finire e il patibolo aspetta Eleonora.

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Antonietta De Lillo, insieme allo sceneggiatore Giuseppe Rocca, parte dalle pagine del libro di Striano per costruire il suo film: Eleonora Pimentel De Fonseca nasce nel 1752 a Roma. Portoghese di nascita e nobile di origine, si trasferisce a Napoli con la famiglia, vivendo i primi anni della propria vita fra cultura e poesia. Il fallimento del matrimonio di interesse con il Conte De Solis, seduttore e repressore, rinforza il desiderio di Eleonora di immergersi nella poesia che personalmente scrive, e a frequentare i circoli letterari dell’epoca, che per primi diffondevano le teorie liberiste francesi in opposizione alle idee monarchiche. Questo idealismo, che abbraccia con convinzione, la conduce ad essere considerata rivoluzionaria, e ad essere imprigionata dal regime. La ricostruzione storica e l’attenzione cinematografica della regista agli incastri dei tempi e al grottesco che anima i visi dei personaggi (compreso Enzo Moscato che in un cammeo fa Filangieri), ci regala un film intenso, vibrante e scolpito. Costruito con una rete di flashback incrociati, Il resto di niente parte dalla fine, dal momento in cui Eleonora (una intensa Maria de Medeiros), prima di affrontare il patibolo, sola e frastornata ma non vinta, rievoca a se stessa il suo passato, gli eventi che l’hanno portata a una sentenza di morte assurda, interrogandosi sulle ragioni di una sconfitta non solo personale. Il cinema della “staticità” di Antonietta De Lillo, descrive gli umori e le filosofie di un’epoca di fortissimo cambiamento, aperta alla libertà e all’uguaglianza, e ancora così rigida perché legata alla storia. Staticità in movimento, in cui ogni singolo movimento o dettaglio ha un’importanza estrema, diretta a comprendere i sottili meccanismi della nobiltà e delle istituzioni del tempo. Ne viene fuori una pellicola di ispirazione letteraria, di grande fisicità teatrale (interni, luci drammatiche, tensione dilatata, cartoni in sovrimpressione a mo’ di scenografie mobili) quasi a contrapporsi al mondo concettuale dei rivoluzionari fatto di Idee e di Filosofia, un mondo che però li porterà al fallimento, troppo lontano dalla realtà napoletana. De Lillo entra nella vita della protagonista con il rispetto e con la forza di chi vuole a tutti i costi allontanarne la distanza storica e grazie allo sguardo in soggettiva, all’efficace montaggio che insegue i flussi di coscienza della protagonista e ai visionari interventi pittorici di Oreste Zevola, il film assume il tempo non soltanto come tempo interiore, flusso di coscienza, ma anche vicenda politica.

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Lo spirito di De Oliveira appare a tratti, ispiratore di un cinema che la De Lillo abbraccia e fa suo, realizzando un film affascinante e colto, così lontano da rappresentazioni del passato che investono l’Italia, così acuto e coerente con le idee reazionarie della sua protagonista. Marie-Antoniette (2006) di Sofia Coppola. Basato sulla biografia di Atonia Fraser, il film ritrae una Maria Antonietta come un’adolescente inquieta, frivola, volubile e malinconica, sola malgrado arrivasse da una delle capitali più vitali d’Europa (la Vienna di Maria Teresa, sua madre), per diventare la regina di Francia, di una delle corti più sfarzose della storia d’Europa. Un’adolescente impreparata – malgrado l’educazione regale – a gestire gli intrighi e le ritrosie del Re, un Luigi XVI descritto come un imbranato. Soprattutto incapace di arginare la crescente ostilità dei francesi pronti a riservare all’“austriaca” e alla “straniera” una raggelante accoglienza. Ambientato nei giardini e fra i marmi di Versailles, addirittura all’interno del Petit Trianon, rifugio bomboniera dove Maria Antonietta organizzava balli stravaganti e scandalose rappresentazioni teatrali. Il film non è un affresco corale di un’epoca. La brava regista ha cercato di proseguire quella descrizione emozionale delle adolescenti già battuta in precedenza (Il giardino delle vergini suicide e Lost in Traslation), realizzando una personale interpretazione di un personaggio storico. E infatti c’è l’uso assolutamente contemporaneo di elementi quali la fotografia e la musica. Molto attuale risulta essere l’interpretazione di Maria Antonietta della attrice Kirsten Dunst, che fa della regina una ragazza impotente e isolata, la cui fiaba esistenziale è inserita all’interno di un mondo di sfarzo. Ma perché queste donne del Settecento sono tornate così di moda? Se lo domanda Riccardo Chiaberge su Il Sole-24 Ore a proposito proprio di Maria Antonietta, della Sofia Coppola, quella che definisce una «specie di Lady D settecentesca che già tanti nasi (soprattutto francesi) ha fatto storcere a Cannes. Prepariamoci perché anche in Italia si formeranno subito due partiti, da una parte i giacobini che chiedono la testa dell’odiata affamatrice, dall’altra i nostalgici che la venerano come una martire del terrore»28. Il film della Coppola, secondo Chiaberge «indulge troppo a al dramma privato della “teenager di Versailles”, coprendo il rumore di fondo della populace in rivolta con dosi massicce di musica rock». In 28. R. Chiaberge, Perché piace la teenager di Versailles, “Il Sole-24 Ore”, 24 settembre 2006.

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realtà dietro l’analisi del film della Coppola, Chiaberge cerca di capire le ragioni del revival Settecentesco dei nostri giorni e propone la risposta della Camille Paglia che dalle pagine di “Chronicle of Higher Education” si interroga sugli stessi quesiti: Camille Paglia una risposta ce l’ha: viviamo in un tempo di grandi turbolenze, simile a quello della Francia prerivoluzionaria. Americani ed Europei si sentono assediati da immigrazione e fondamentalismo. Le due torri sono crollate in un sol giorno come la Bastiglia. Ed era dagli anni del Terrore che non si vedevano così tante teste mozzate. Il paragone convince fino a un certo punto. Laura Bush ha ben poco in comune con Maria Antonietta, i Robespierre col turbante che lanciano i loro proclami contro l’Occidente non hanno conosciuto la riforma né l’età dei Lumi e aborrono le libertà individuali. È vero però che nuotano in un oceano di miseria e frustrazioni, dal quale attingono la loro manovalanza. Maria Antonietta siamo noi, prigionieri della reggia del benessere, accerchiati dal Terzo Stato Globale. Finché ci ostiniamo a chiudere orgogliosamente occhi e orecchie, quante altre Bastiglie vedremo espugnare?29

9. Il passato recente attraverso la memoria dell’anima: The Dreamers, Buongiorno, notte, Les Amants réguliers Curiosa coincidenza l’uscita nel 2003, quasi in contemporanea, dei film sul recente passato del nostro Paese di Bellocchio e Bertolucci: il primo con un film sull’uccisione di Aldo Moro e la fine del “sogno rivoluzionario”, il secondo con un film che proprio l’inizio di quel sogno vuole raccontare. Senza contare che nessuno dei due film si propone come autentica lettura storico-politica. In entrambi i casi si tratta di uno sguardo molto personale, quasi autobiografico, su un periodo vissuto in prima persona. Le pellicole prendono congedo da qualsiasi pretesa di verità del cinema, intesa come adeguamento alla realtà documentata degli eventi, come senso già dato alla storia; piuttosto, pur tra le mille differenze che sussistono tra i film, entrambi ricercano frequentemente nel loro procedere una lacerazione nell’orizzontalità del tessuto della narrazione storica conosciuta a favore di strappi verticali immaginifici che inseguono un “al-

29. Ibidem.

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tro reale”, vale a dire il confronto problematico dell’intimità degli autori con il racconto di quegli anni. Fra i registi italiani Bellocchio conferma di essere quello che con più coerenza rielabora sul piano stilistico gli interrogativi sollevati dalle tematiche filosofiche, proponendo film ricchi di suggestioni visive, di confronti emotivi che trovano la loro ragion d’essere proprio nel progetto poetico dell’immagine. Una legittimazione che proviene dalla singola percezione, che “ci prova”, ci fa cogliere nel nostro essere, il senso più autentico, che non sia mero adeguamento al già dato, al susseguirsi degli accadimenti storici e dalla loro più o meno aderenza alla realtà dei fatti, ma «un tessuto narrante in quell’esubero tra realtà e veglia che condensa più gli stati d’animo che la realtà… che irrompe nella linearità dell’inizio»30. Fin da I pugni in tasca (1965) Bellocchio si impone per la sua forza poetica e la sua violenza dissacratoria, si delinea già in questo film l’attenzione per gli ambienti claustrofobici, i rapporti all’interno del gruppo, i conflitti psichici e i personaggi complessi. Sebbene attratto dalle figure ribelli e dalle loro azioni, il regista appare tuttavia consapevole della sterilità di una rivolta rabbiosa e cieca. Nelle sue successive opere infatti stigmatizza le ipocrisie borghesi, ma anche il velleitarismo dei falsi rivoluzionari31. Dopo una lunga parentesi in cui si è occupato del comportamento di alcuni personaggi in stato di segregazione per trarne un discorso generale sulle istituzioni e il relativo approfondimento dei temi della psicoanalisi32, nella seconda metà degli anni novanta torna a occuparsi dell’analisi dello schema prefigurato dell’ordine e delle relazioni tra gli uomini. I temi cui fa riferimento il film Buongiorno, notte, dunque, si rincorrono fin dai suoi esordi, ma ciò che cambia in Bellocchio è l’approccio, non più rigorosamente realista, e neanche ossessivamente onirico. Si tratta di un orizzonte 30. Cfr. E. Bruno, Senza vie di Fuga, in “Filmcritica”, n. 526-527 (2002). 31. Emblematica questo proposito film come La Cina è vicina (1967), Discutiamo, discutiamo (1967 episodio di Amore e rabbia), Nel nome del padre (1971), Sbatti il mostro in prima pagina (1972), Gli occhi la bocca (1982). 32. Nel ’74 realizza con Silvano Agosti, Sandro Petraglia, e Stefano Rulli, Matti da slegare, documentario sui manicomi, con l’assistenza del suo mentore, lo psicanalista Massimo Fagioli, realizza film storie di amori e follia, come Il diavolo in corpo (1986), La visione del Sabba (1988), La condanna (1990), Il sogno della Farfalla (1994), film questi, in cui la fantasia allucinatoria dello psicanalista Fagioli, ricorre alla regia di Bellocchio per esibire il proprio repertorio di analista e di teorico della psicoanalisi, ma che finiscono spesso per trasformarsi in guazzabuglio indecifrabile.

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che tutti conosciamo e che abitiamo ma che non può dirsi concreto, una terra di nessuno fra il sogno e la veglia che provoca un profondo disagio, un perturbante, nello spettatore a causa di questa ambiguità. Si potrebbe addirittura dire che Bellocchio voglia liberare la storia dal pensiero della sua ricostruzione, dalla chimera della sua scientificità, dalla dipendenza della causalità come collante degli eventi. La riflessione avviene, dunque, su un duplice piano, un piano puramente esteriore e un altro più profondo, in quanto, come afferma Bazin, i riferimenti al film ne chiariscono solo l’aspetto esteriore, l’artista mira invero più lontano, a una verità che trascende33. Buongiorno, notte è il racconto degli “anni di piombo” che rivivono attraverso la vicenda di Chiara, brigatista coinvolta nel rapimento di Aldo Moro. L’ideologia si intreccia con la sua esistenza quotidiana, l’anima della combattente crede nella rivoluzione che sta per compiersi. Ma l’utopia non riesce a compensare la ferocia della lotta e Chiara comincia ad avvertire un dubbio morale che indebolisce le sue certezze. Il film inizia proprio lasciando fuori il reale, vale a dire nelle voci off dell’agente immobiliare che spiega ai due brigatisti come si possa raggiungere la casa venendo dal garage senza passare attraverso il corridoio. I brigatisti sono una giovane coppia, con tanto di fedi messe e dismesse durante tutta la pellicola. Il reale, dicevamo, è fuori; il primo piano sequenza è dedicato alle stanze dell’abitazione appena illuminate, agli angoli bui che sembrano già assorbire la tragedia di quella casa-prigione che intrappolerà anche i suoi carcerieri. L’apparente tranquillità della famiglia contrasta con il grigio piombo del cielo; la frontiera, il confine che delimita l’esterno dall’interno, la tempesta dal calore è l’isolata abitazione, all’interno della quale si compone la vicenda. Proprio nell’apparente contraddizione tra immagini di repertorio e attori che interpretano personaggi reali sta la forza di un film che non cerca ‘verità’ ma che riflette dolorosamente non su un ‘caso della storia’ ma, ancora una volta per Bellocchio, sull’animo umano. In primo luogo con la figura di Moro, archetipo di padre, di un potere borghese che va estirpato, ucciso forse, ma in senso più autentico di un barbaro assassinio politico fatto sulla scorta di cieca ideologia. Non può non tornarci in mente l’Alessandro de I pugni in tasca che uccidendo la 33. Cfr. A. Bazin, Che cosa è il cinema?, op. cit., p. 203.

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propria madre taglia le proprie radici, recide il cordone ombelicale che lo lega a una società malata. Il discorso morale del film non si esaurisce nei concetti di “colpa” ed “espiazione”, ma include un tema interiore di origine psicanalitico lacaniano, vale a dire la dialettica tra difesa e desiderio, vera pulsione ossessiva della poetica di Bellocchio. Il confronto tra inconscio e linguaggio34 offre l’accesso al simbolico che con l’uccisione del totem arriva a coinvolgere il valore ontologico delle norme morali, le quali si qualificano nel concetto di progresso storico, come percorso di repressione paterna. Inoltre sempre in questa direzione emerge il confronto con l’annullamento della soggettività individuale per un utopico ideale rivoluzionario che si trasforma in incubo, in notte appunto: «si dovrebbe essere capaci di uccidere la propria madre come sacrificio, come prova suprema di autoannullamento per la conquista del potere proletario» grida Mariano-Moretti, alla fine del delirante processo che ha sentenziato la morte di Moro. Gli fa eco la frase del vecchio partigiano nella sequenza del pranzo nuziale in campagna, dove il vibrante canto, impastato di malinconia contadina, diventa autentico sentimento utopico «se un uomo potesse realizzare solo un quinto delle sue possibilità…». È questo il confronto autentico di Bellocchio con la Storia e con l’illusorietà che la descrive come mossa dalla lotta di classe, dall’odio di classe. Un odio che rende impossibile il cambiamento che non può raggiungere autentico essere che non sia violenta rivoluzione, ideologia che affoga in un’autoreferenzialità dialettica, chiusura psicologica che uccide il coraggio del discorso. Il confronto e l’atteggiamento è proprio del collega di Chiara, figura cardine di un confronto metacinematografico tra l’autore e la vicenda, colui che vista la stella nell’ascensore, non si scandalizza, ma si limita a dire che non è stato lui, colui che definisce schizofrenici i brigatisti, i quali leggono Tex Willer e si masturbano con le riviste porno, colui che definisce deliranti i loro comunicati e specifica: «pensa se gente così ci dovesse governare» e alla risposta di Chiara che ribatte «loro almeno fanno qualcosa» lui chiarisce: «loro sono peggio della Dc perché vogliono imitarla e sostituirla» e afferma, nella conclusione dell’unico dialogo del film che sembra libero e non è strumentalizzato ideologicamente, «anche l’imma34. Cfr J. Lacan, Scritti, Einaudi, Torino 1974, pp. 841-843.

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ginazione è reale, è vera», per finire poi lui, unico fermato dalla polizia nella sequenza chiave delle scale del Ministero. Il confronto con questa ideologia che ha affidato ai suoi soldati il proprio diritto storico a uccidere, ci conduce a un’autentica riflessione sulla morte sul sacrificio e sul martirio. Proprio a partire dalla lettura che Chiara fa della lettera indirizzata alla famiglia da Moro che il film conferma, se ancora ce ne fosse bisogno, di diventare altro dalla ricostruzione, e si scioglie liberamente da ogni vincolo che lo teneva legato al reale. Quel crescendo musicale dei Pink Floyd e le parole di Moro «bacia e carezza uno per uno […] a tutti voi una profonda tenerezza…» si confondono con le parole dei martiri della resistenza europea, sulle immagini strazianti del finale di Paisà di Rossellini, o sui volti dolorosissimi dei condannati a morte, impressi sullo schermo e nella nostra coscienza collettiva. Ed eccoci forse al confronto più importante, alla ricerca di verità che supera e invera le precedenti: la possibilità di un cinema altro, che innesca la possibilità e l’Esperienza di un Altro Reale. Un vero e proprio nuovo mondo creato dinamicamente sullo schermo dalle immagini proposte dall’autore e dall’atto di pensiero dello spettatore. La possibilità di illuminare attraverso il suo cinema mondi possibili ma non per questo meno profondi, come detto, segna la pellicola nel suo lato stilistico-formale, sia nel suo lato contenutistico-biografico. Le immagini fluttuano tra il buio e la luce, la loro generazione filmica si ripartisce in una soglia tra il dentro e il fuori, l’interno e l’esterno, ed è là, in questo transito, che l’immagine si fa figurazione, si scolpisce in un ritmo di pieni e di vuoti, diventando forma che pensa; in questo passaggio di luce dal buio il senso si accende, e le forme diventano necessarie portando con loro l’esigenza poetica. È il motivo della caverna/tana, come luogo di prigionia, dell’inganno, dell’apparenza che da Platone fino a Kafka realizza la liberazione del dramma e del conflitto psicologico tramite la creazione fantastica, plasmatrice di un mondo altro, e diverso dal vissuto immediato, dal quale tuttavia prende tutto il materiale e i tratti nudi e realistici. «Certo ci sono astuzie così sottili che si stroncano da sole, lo so meglio di chiunque altro» scrive l’abitante de La tana di Kafka «ed è certamente temerario richiamare con questo buco l’attenzione sull’eventualità che qui ci sia qualcosa che metta conto essere indagato». Un film dunque che trova la sua necessità lirica nei volti riquadrati nell’ombra scura di uno spioncino, negli occhi che scrutano, nei respiri

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pesanti e nei corpi che si sfiorano, forme che divelgono e destrutturano il nostro sentire, come la furia apodittica di una verità fatta slogan «la classe operaia deve dirigere tutto! la classe operaia deve dirigere tutto!» recitata come una litania funebre (o manthra ossessivo) da volti alienati e sguardi di ghiaccio; o le sconvolgenti immagini al rallenty di quel segno della croce dei brigatisti prima di cena che disarma lo spettatore. Su questa strada si pone la seduta spiritica realizzata in quell’oscurità che è l’abisso inconscio di un potere borghese avvelenato, marcio, e, in apparenza, sempre in via di dissolvimento ma che, come ne L’ora di religione, si riproduce divorando se stesso. Come la messinscena del ministero in quei soffitti scuri che ricordano le stanze del processo kafkiano e in quei gesti alienati dei dipendenti, indaffarati nel loro non fare niente, vittime di un potere autoritario e misterioso insieme. O infine, il compimento ultimo del ribaltamento del principio di non contraddizione, la destrutturazione del principio d’identità di quell’A=A storico-reale che si pensa intoccabile, ma che invece con la fuga onirica e la passeggiata finale di Moro per le vie di Roma diventa quietezza interiore, sorriso trepidante e commosso. La fascinazione che la conclusione ci suggerisce attraverso questa forte immagine è l’esigenza del confronto con un raccontare che non punta alla soddisfazione delle nostre gratificazioni narrative, ma cerca il sentiero di una produzione di senso. In verità per Bellocchio si tratta di offrire un tipo di cinema che della realtà ce ne offre, da un lato la sua intellegibilità, dall’altro domande ancor più ricche e tensioni irrisolte, e permette allo spettatore di mettere in relazione gli elementi di senso individuati per dar vita a ulteriori interrogativi attraverso nuovi procedimenti. Quei procedimenti che fanno si che il «sorriso di Moro sotto quella pioggerella romana» non abbia nessuna volontà politica, ma rappresenti una lacerazione verticale nella storia, capace di riempirci di inspiegabile soddisfazione. Bellocchio lancia un’ipotesi di cinema che porta avanti ormai da La balia, in cui i film non siano condannati da una visione epico-ideologica che sfrutta la matrice della storia al servizio delle proprie tesi. Se il cinema storico italiano spesso si è suicidato per un eccesso di fede nella propria missione pedagogico-ideologica, così condizionato dalla necessità del messaggio, al contrario Bellocchio teorizza un cinema in cui l’unica strada di sopravvivenza è tracciata dal sogno, da un’immaginazione che è reale, altrettanto reale del concreto, ma che forse più di quest’ultimo può aiutarci a riflettere.

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Riflessione che anche Bertolucci, con la sua personalissima poetica porta avanti, e che con The Dreamers raggiunge in modo abbastanza netto. Si tratta infatti del film più intimo, poetico e personale che Bernardo Bertolucci abbia realizzato da parecchio tempo a questa parte. Ci ha messo l’amore per il cinema, l’amore per Parigi. Ma soprattutto l’amore malinconico per un momento storico che ha segnato la sua generazione. Il ’68 secondo Bertolucci è stata una rivoluzione riuscita, nell’anima e nella società. Tesi, queste, che in un momento di revisionismo storico, suonano almeno fuori moda. Ma a Bertolucci non interessano le mode, interessano molto di più i suoi percorsi personali, e del ‘68 non rinnega nulla, perché il ’68 ha messo in discussione una selva di autorità private e politiche. È stata, sul piano dei comportamenti e dei rapporti interpersonali, una rivoluzione riuscita, innanzi tutto per ciò che ha lasciato dentro il regista. Il ’68 francese comincia con una manifestazione di protesta per la destituzione di Langlois, presidente della mitica Cinemateque, e comincia così anche The Dreamers, che sovrappone alle immagini del film quelle documentarie, la finzione (Jean-Pierre Léaud, che recita se stesso trent’anni dopo) e la realtà (Léaud giovane, assieme a Truffaut, Godard e gli altri dei Cahiers) e lo stesso Langlois. E ci sono anche i gemelli Theo e Isabelle. È lì che avviene il loro incontro con il giovane californiano Matthews, un incontro fatale e appassionante, che porterà i tre a rinchiudersi nella casa dei due gemelli (figli di un poeta, come lo stesso Bertolucci) per sognare e condividere il cinema, il sesso, la vita, «perché il Sessantotto non era solo politica». Il trio rimane così chiuso nell’enorme casa, libera dalla presenza dei genitori, a parlare di cinema, di politica, a sperimentare il sesso e dimenticando così la strada, quella strada che, improvvisamente, si riempie di cortei, barricate e manifestazioni e “entra nella stanza” (come dice Isa), attraverso un sasso che rompe una finestra. E se fuori si odono gli slogan delle manifestazioni, i tre ragazzi all’interno intraprenderanno un percorso di reciproca conoscenza (intellettuale, profonda, carnale) fino agli umori più riposti, che li condurrà a una presa di coscienza, interiore e politica, che, inevitabilmente, dividerà le loro strade che così profondamente, per quattro intense settimane, avevano camminato sovrapponendosi tra loro. Il loro è un gioco delle parti. Si scambiano i ruoli, ora punitori ora penitenti (atmosfera resa magistralmente nella scena in cui i tre ragazzi fanno il bagno assieme: in un complesso gioco di specchi le tre figure si

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trovano diametralmente opposti alle loro posizioni, mentre dietro di loro un altro specchio riflette il quadrettato pavimento del bagno accentuando l’effetto “escheriano” della sequenza). Il loro è anche un gioco d’amore. Un malizioso rapporto a tre dove i legami, familiari e sentimentali, si ingarbugliano in un morboso e intricato nodo di corpi. In Théo e Isa, Matthew scopre quella sensualità e follia che gli mancavano. Questo loro grande amore per il cinema (lo stesso amore del regista) si esprime attraverso inserti di quegli stessi film che i ragazzi mimano, citano, essendo il cinema – il nuovo cinema, ma anche quello classico riscoperto dai cinéfiles dei Cahiers – tutt’uno col sogno di quella generazione. Le pagine più belle del film nascono dalla cinefilia del terzetto con i quiz che ciascuno fa all’altro, mentre Fred Astaire danza in Cappello a cilindro, Greta Garbo percorre una stanza ne La regina Cristina, Jean Seberg vende il New York Herald Tribune sugli Champs Elysees in Fino all’ultimo respiro di Godard, fino a Mouchette di Bresson, il più toccante suicidio infantile al cinema, in cui come con The Dreamers il gioco si mescola con la morte. Le citazioni sono brevi per non interrompere il flusso narrativo, e il film riesce a metabolizzarle, realizzando un percorso di storia che è innanzi tutto un percorso sentimentale verso le pellicole amate da sempre. Anche in questo film, dunque, il reale della storia resta fuori. I tre ragazzi, entrati nell’appartamento adolescenti, ne usciranno adulti. Attorno a loro la contestazione nei confronti della quale si porranno con esiti e atteggiamenti differenti e della quale, metaforicamente, la rinascita dei loro corpi, come appena usciti dal bozzolo, rappresenta la prorompente carica di innovazione e libertà. Bertolucci reinventa e reinterpreta alla sua maniera del tutto personale, ora grandiosa come nella scena finale dei titoli di coda che inquadra furgoni della celere in assetto di guerra dietro a diversi focolai accesi dai manifestanti, ora più intima e familiare come alcune scelte dall’elevato contenuto pittorico ed evocativo, il ’68, cercando di trovare il senso della storia nella memoria personale, nei ricordi amati, nell’anima, e non nella ricostruzione storico-politica della vicenda. Due anni dopo i film sul passato recente di Bellocchio e Bertolucci, un altro grande autore dall’esistenza poetica realizza il suo film sul ’68. Si tratta di Les Amants réguliers di Philippe Garrel, girato in bianco e nero, scandito da una temporalità diluita e stregante che si libera dalla concatenazione di causa ed effetto della storia, lasciando fuori la ricostruzione

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La ‘storia’ senza Storia. Parte II.

documentaria a favore di un percorso dell’anima che mette in scena il suo intimo ’68. Garrel da ultimo esponente della Nouvelle Vague fa i conti con il suo passato grazie a un film meraviglioso. L’opera ci racconta “le speranze infiammate”, “le speranze fucilate”, e infine “il sonno dei giusti” attraverso le vite incrociate di un gruppo di ragazzi velleitari, idealisti, piccolo borghesi, spesso patetici nelle loro illusioni. Garrel, attraverso ritratti minimi ma incisivi, descrive «la selvaggia innocenza» di questi giovani artisti e contestatori che li porta, dopo il maggio del 1968, a rinchiudersi nella casa di un amico mecenate, luogo che rende possibile l’utopia. Ci regala l’illusione che la bellezza davvero possa salvare il mondo. Ma l’equilibrio è fragile e basta poco per mandarlo in frantumi. Garrel risponde ai “sognatori” di Bertolucci riprendendosi il figlio Louis Garrel interprete anche del film The Dreamers, opera con cui condivide oltre al figlio solo la scelta del corpo e dell’esperienza come sentire e chiave di lettura narrativa. Per il resto l’autore francese fa di necessità virtù, e risponde al main stream di Bertolucci con un’essenzialità rarefatta, e proprio perché si tiene a distanza, in realtà, penetra dentro l’autentica esperienza dell’utopia del ’68 e vola molto più alto della pur romantica nostalgia dei sognatori. Un susseguirsi di piani lunghi, scrutati da una macchina da presa distante e rigida sul posto d’osservazione, intervallati da lenti movimenti di panoramica orizzontali. Un realismo astratto, velatamente sognante, come nella struggente sequenza del ballo in cui la voce di Nico ci trascina all’interno del cuore della poesia. La differenza con il film di Bertolucci, è tutta nell’approccio ai corpi giovani, vera materia dei due film: The Dreamers decora una malinconia del tempo andato mediante una tenera nostalgia, Les Amants réguliers, invece, esaurisce la fiamma della giovinezza con spontaneità, senza compiacenza.

10. Racconti e visioni: Un film parlato, Arca Russa, Cantando dietro i paravanti Come abbiamo ripetuto fino all’ossessione, la storia è per la comunità l’equivalente della memoria per l’individuo. Si tratta, dunque, di una necessità sociale, nel senso, cioè, che non può esistere una comunità senza una conoscenza della propria storia, così come non può esistere un uomo che non basi la sua identità sulla propria memoria. Non esiste una co-

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munità in grado di autoidentificarsi come tale, se non possiede tra i suoi presupposti l’attività volta all’esercizio della narrazione della propria storia. Ma la storia è cambiata. Il repertorio di valori e di significati che sono stati largamente condivisi attraverso i secoli è oggi diventato, in parte, un repertorio morto, è stato sostituito da sensibilità meno organizzate e che soprattutto non si integrano più nel continuo racconto che era tradizionalmente servito all’insegnamento della storia. Perché ciò è accaduto? Tutto l’insieme di ragioni di cui abbiamo detto e i cui effetti si sommano rendono conto di questa trasformazione; questo inizio di secolo vede vacillare senza precedenti il rapporto che gli uomini intrattengono con il passato. Là dove si era in grado di trovare delle ragioni nella storia, non si trova più che degli apparenti e immediati rifugi contro i pericoli del presente e contro le incertezze del futuro; là dove si trovava un senso della storia si trova una fondamentale discontinuità, fratture che continuamente si ripetono. In breve, c’è una riorganizzazione globale del rapporto con il tempo e con l’esperienza storica di cui solo pochi cominciano a misurare gli effetti. Molti registi hanno sentito questa nuova esigenza e hanno proposto percorsi attraverso il passato che si allontanano dall’idea di film storico così come lo abbiamo definito in precedenza e battono sentieri sperimentali. Se nel precedente percorso abbiamo visto il distacco di alcuni film da qualsiasi pretesa di verità documentata degli eventi a favore di racconti immaginifici che inseguono la memoria personale degli autori, in questo tragitto ci occupiamo della storia collettiva quando assume forme di narrazione che utilizzano materiale storico secondo nuove esigenze. Forme di racconto in realtà già adottate (narrazione pedagogica, rappresentazione favolistica, racconto onirico) utilizzano la memoria collettiva declinandola in racconti cinematografici come se fosse memoria individuale. Tutto il flusso di eventi, di lotte, di problemi, di idee che giace davanti all’essere umano, nell’immenso territorio del tempo viene declinato in modelli di narrazione privati, rappresentazioni a cavallo tra favola, realtà e racconti onirici; questi film storici trasformano in un rapporto personale, intimo, privato il racconto della storia degli uomini. Opere che inseguono possibilità nuove di racconti storici e che lasciano stupefatti per l’apparente semplicità del loro essere. La cosa incredibile è che si rimane sconcertati, spiazzati da opere che sono il frutto di registi piuttosto in là con gli anni. Ci si sbalordisce di come “grandi vecchi” del cinema si possa-

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no permettere di dire ciò che vogliono attraverso un’estetica cinematografica che assume e il privilegio della saggezza e insieme della rottura. L’assenza della memoria è un guaio, ma vivere di memoria senza vivere è un guaio ancora peggiore. Questo sembrano voler dire i film di cui stiamo per occuparci. Di fronte all’apparente pessimismo di questi veterani del cinema, capiamo che l’uomo, come la società, ha bisogno della memoria, ma innanzi tutto ha bisogno di vita. Registi come Olmi, De Oliveira, Sokurov ci conducono a un’uscita dalla storia, così come l’abbiamo conosciuta, che alla fine pare definitiva. Le domande che non hanno trovato risposta nelle forme di racconto del passato hanno portato a una conclusione definitiva della storia che si è denudata di fronte alla sovraesposizione della memoria, preferendo un presente fatto di malinconico ricordo. Come l’instancabile e inarrestabile de Oliveira che negli ultimi anni sembra preso da una frenesia creatrice che medita sul tempo, sul passato, sulla memoria personale e collettiva, e sull’oblio35. Si tratta di uno sguardo autoriale che concentra la sua attenzione sul vissuto nel suo variegato modo di esprimersi. I racconti e le narrazioni che ne scaturiscono sono ricchi di domande e pervasi da un utopico tentativo di comprendere il 35. Queste sono le tappe precedenti che riflettono sull’inaccessibile in forma di narrazione, Viagem ao principio do mundo, che si adagia e presuppone quello che è l’archetipo narrativo occidentale, il racconto del/nel viaggio, entro il quale si gettano come affluenti di un unico fiume, altri racconti: dalle storie personali alla memoria collettiva; Inquiétude, in cui si risale addirittura all’origine dell’universo attraverso la narrazione fiabesca di Esiodo; A carta, in cui si ripropone la domanda sull’(non)essere dell’uomo sempre misteriosamente uguale a se stessa, dal romanzo post-barocco e pre-moderno di la Fayette alla Parigi dei giorni nostri; Palavra e Utopia, in cui l’oggettività della storia tende naturalmente a un alto simbolismo, mettendo in evidenza una palestra ermeneutica seminata da artifici retorici, come i sermoni di padre Vieira, mossi da allegorie, tropi, metafore e sineddoche, in cui l’accento sulla creatività consente di apparentare l’intreccio narrativo al “sovrappiù di senso della metafora”, nella misura in cui anch’esso “lavorando al limite di se stesso”, riesce ad accostare due o più campi semantici; Vou para casa, in cui il protagonista parafrasando l’Ulisse di Joyce, metafora di un Odissea personale che in realtà è universale, sentenzia, “io torno a casa”, lasciandoci l’eredità di un teatro che parla di vita e di morte con una serenità e una saggezza d’altri tempi; O porto da minha infancia, in cui l’emozione dei ricordi personali si orienta e si sedimenta con grande semplicità mediante immagini ricche ed essenziali insieme; O principio da incertezza, in cui la memoria gioca tra melodramma ottocentesco e riflessioni sul “volere”, tra intrighi di famiglia e passioni, dimore nobiliari e volti sospesi, incerti, che rendono la storia quasi atemporale.

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mondo e l’uomo, svelare il mistero dell’avventura umana, e dell’inesplicabile persistenza del mito36. Imbarcarsi a Lisbona e raggiungere Bombay via mare vuol dire attraversare epoche e civiltà stratificatesi nel Mediterraneo che vanno dai greci ai romani, dagli egizi agli arabi. Questo lo sa bene il protagonista scelto da De Oliveira per il suo Film parlato, una serena insegnante di storia accompagnata da sua figlia in un viaggio di parole-immagini che ricordano un po’ i viaggi di formazione, in cui il racconto storico delle culture non impedisce ad altri tipi di narrazione di intervenire: dalla filosofia al mito, dalla leggenda alla fiaba. Racconti che poi lasciano spazio a una garbata conversazione, cui danno vita tre donne celebri e un capitano. Ed il discorso sul dialogo tra culture approda a bilanci esistenziali, in cui immaginazione e vita vissuta, recitazione e realtà si fondono nelle parole, le quali, sublimate, progressivamente perdono la loro funzione esplicativa e diventano materiale emotivo, elemento che scandisce il ritmo musicale dell’opera, fino a diventare canto, voce nel mare, sconvolta e sostituita dal boato dell’esplosione, con cui il geniale regista si congeda. La composizione di quest’ultimo “testo” mediterraneo ha una struttura che muovendo dalla conoscenza storica, passa a una fenomenologia della condizione storica, fino a un’ermeneutica della memoria personale, la quale nel suo leggero dialogare prepara il drammatico epilogo; ne scaturisce un’architettonica del racconto storico e di finzione che arriva a delineare la risposta all’aporia e al mistero di abitare il tempo. L’intento della narrazione dell’ultima pellicola di De Oliveira, e in generale del suo cinema, assume un significato nella misura in cui insegue una meta impossibile, vale a dire restituire attraverso le parole l’originale della memoria, del pensiero, della storia, per dirla con un termine filosofico che tutto racchiude traccia dell’Essere, che è stata trasformata in racconto. Tutto il flusso di eventi, di lotte, di problemi, di idee di esperienze che giace davanti all’essere umano, nell’immenso territorio del tempo, si esprime in un racconto, cioè nella narrazione che la memoria collettiva o personale ha portato alla luce. Un semplice marinaio o un’iscrizione, un prete ortodosso o anfiteatri greci, le piramidi o galanti signori, tutto nel film di De Oliveira ci racconta. E se il viaggio nel Mediterraneo per l’inse36. Cfr, L. Esposito, Il cammino, la frontiera, in Filmcritica n. 525, maggio 2002, p. 314.

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gnante porta in superficie rovine e civiltà di una memoria collettiva, per le donne e per il capitano, il viaggio porta a galla una memoria individuale, personale, che diventa poi, grazie all’incontro, una riflessione sul confronto tra lingue e culture. Fondamentale, in questo senso, risulta essere la composizione con cui si realizza la magistrale sequenza della cena, con intensi primi piani che portano inscritti già essi stessi, i racconti di vita, le narrazioni fatte di rughe e parole, di sguardi e silenzi. Quella che De Oliveira impone del Mediterraneo è, innanzi tutto, una dimensione vitale, concreta, un luogo fisico collettivo e individuale, che non è semplice sfondo al viaggio dei personaggi. Il regista trova nel mare nostrum il suo cinema, fatto di istantanee che si susseguono ininterrottamente in un luminoso colore. Il regista realizza momenti di spiegazioni rubati a quei luoghi di fascino apparentemente secondo i dettami del film didattico, semplice e rigoroso al tempo stesso, senza però cadere nei difetti risaputi di questo genere. In profondità si tratta di un’erudizione affrontata con la capacità dell’opera di porsi come soggetto, di avere una sua capacità di riflessione e di osservazione; ed è così che Un film falado attua la sua possibilità di darsi come struttura di pensiero, opportunità di costruzione del senso. E questo senso in più si può individuare lasciandosi andare alle suggestioni proposte dal film, come nella piccola e divertente sequenza iniziale marsigliese, in cui il cane di un anziano marinaio è legato alla sua barca ormeggiata sul molo che tende a trascinarlo via fino quasi a farlo cadere in acqua ogni volta che un’onda con la sua risacca arriva. Si tratta di un resistere periodico di uno sforzo ritmico metafora delle civiltà che, come afferma Spengler, «appaiono, maturano, appassiscono e muoiono. […] Ogni civiltà ha un senso conchiuso: una morale, una scienza, una filosofia e un’arte, ed è destinata al tramonto»37. Ma De Oliveira non guarda al passato, quando ancora un senso chiaro e definitivo era possibile, con nostalgia. Se sulle rovine di questo passato troneggia la caoticità, la frammentarietà, il maestro lusitano accetta la sfida del nichilismo e parte con una paziente ricostruzione ermeneutica. Secondo tutto l’ultimo cinema di De Oliveira è il dire come mistero, come apertura, come creazione semantica che ci avvicina, senza mai possederlo, all’Essere; e l’analisi del racconto, lo studio della memoria, la ricomposizione ermeneutica dell’inesauribile sembra ancora l’unico modo possibile 37. Cfr. O. Spengler, Il tramonto dell’occidente, Longanesi, Milano 1978, pp. 15-18.

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per dare delle risposte, pur parziali e mai definitive, diremmo quasi a “sintesi aggiornata”. È questa la vera assunzione che sembra rispondere e corrispondere per il religioso (nel senso più autentico) De Oliveira, alla finitudine esistenziale. La coscienza non è più luce piena e chiara, ma è immersa nel linguaggio o, meglio, nella pluralità e ambiguità dei messaggi che rendono opaca la comprensione e la comunicazione. Ed è proprio il linguaggio il luogo in cui sembra ancora possibile accedere all’essere, non come terra di sicurezza e certezza, ma come orizzonte, come meta. Non rimane che interpretare la verità, data all’interno delle sue manifestazioni storiche e temporali. Il linguaggio è il mezzo per giungere all’essere, anche se poi questo sforzo di risalita è destinato sempre e inevitabilmente allo scacco. Si tratta allora di cercare una “mediazione imperfetta”, incompiuta e aperta alla pluralità che esige ovviamente molti modi di raccontare, come quelli che propone De Oliveira. In Un film falado la drammatica interruzione finale in realtà non ferma il progetto narrativo del regista, chiudendo la fonte del significato, ma rimette in discussione il senso, lo fa esplodere: al di là della leggibilità, si nega alla trasparenza immediata della decodifica, e lascia in realtà spazio all’interpretazione. In questo senso si può dire che è inutile affannarsi a trovare un’univocità di senso al finale, carico nella sua esplosione, rispecchiata dal capitano, di una perplessità-polisemantica, magnificamente riflessa e rappresentata in controcampo dal volto e dallo sguardo di John Malkovich, “congelato” e illuminato nel/dal bagliore dell’esplosione. Questa è la vera assunzione della finitudine umana, la consapevolezza della determinazione storica della “persona”, che l’opera sottolinea. Per De Oliveira si tratta di offrire un tipo di cinema che della realtà ci offre, da un lato la sua intellegibilità, dall’altro domande ancor più ricche di tensioni irrisolte. Impressione di nuova realtà, esperienza dell’altro reale, più problematica perché connessa a tutti i procedimenti di memoria, di conoscenza, consci e inconsci, che il film mediterraneo attiva. Nel film di Olmi siamo in presenza di una narrazione fiabesca, di un teatro dove tra fumi ed elisir si assiste a un racconto che si perde tra storia e leggenda. Se il precedente film di Olmi, Il mestiere delle armi, esigeva il rigore di un genere estetico che prevedeva la documentazione reale di un fatto di cronaca, anche se con un forte riscontro nella società attuale,

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Cantando dietro i paraventi ha bisogno di una narrazione soffice, ovattata, fiabesca, che alla fine si trasforma in una splendida parabola, una favola allegorica sulla memoria con una morale conclusiva: “Il perdono è più forte della legge”. In questa frase, pronunciata alla chiusura del film, è racchiusa l’intima essenza di Cantando dietro i paraventi. Un percorso personale a ritroso nel tempo che, nella sua metodologia dell’attraversamento, dai luoghi all’uomo attraverso le parole, analizza l’essere umano nella sua prismaticità e che ci è utile per comprendere al meglio le nostre stesse azioni. Un giovane studente occidentale di raro candore, a causa di un fraintendimento di indirizzo, viene condotto a un teatrino-bordello per clientela propensa a forti e trasgressive emozioni. Basta varcare la soglia d’ingresso illuminato da una lanterna cinese, che realtà e magia del teatro si confondono fino all’abbandono e al sogno. Un attore, nelle vesti di un Vecchio Capitano di marinerie vagamente spagnolesche, si presenta sul palcoscenico, che riproduce la tolda di una giunca cinese, per narrare la storia di una celebre donna pirata: la Vedova Ching. Il marito di costei fu Ammiraglio di una potente flotta piratesca, armata da una Società di Anonimi Azionisti, che ne ricavavano gran frutto. I Generali dell’Imperatore, per debellare il flagello della diffusa ladroneria, offrirono all’Ammiraglio Ching il perdono imperiale nominandolo Capo Supremo dei Reali Corsari in cambio della sua sottomissione al Governo. Ma a causa di grossi interessi in gioco, la conversione dell’Ammiraglio Ching viene punita dagli Azionisti offesi attraverso una carpa avvelenata che lo uccide. La Vedova, sconvolta e oltraggiata dal doppio tradimento, giura vendetta e convince le sue ciurme a rifiutare qualsiasi altra offerta e dedicarsi in proprio ad abbordaggi e saccheggi. La piratessa Ching diverrà il pericolo numero uno per l’Impero, del quale avrà anche il coraggio di attaccarne le navi commerciali che navigano sotto la sua protezione. L’impero subisce una serie di scacchi finché non si decide di mandare contro la piratessa un così gran numero di navi da guerra «che l’orizzonte non bastava a contenerle tutte». Con una scrittura piana ma vigorosa, caratterizzata da un elevato gusto pittorico, Olmi ci racconta, usando l’espediente del teatro nel teatro, una storia spettacolare e affascinante attraverso la messa in scena diretta da un attore di eccezione (Il vecchio Capitano interpretato da Bud Spencer) cui assiste l’ingenuo ragazzo, prima impaurito e intimidito poi sempre

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più a suo agio e sempre più divertito dall’atmosfera di placido distacco del posto. Tutto ciò serve ad amplificare la dimensione favolistica, via via più accentuata, e permette al regista continui ritorni e rimandi fra realtà e finzione scenica. Il ritmo è, al solito, contemplativo e disteso, perfetto per il cammino interiore della protagonista verso la pace del cuore e verso la deposizione delle armi. Lo stesso regista si prende tutto il tempo necessario a ritrarre volti, azioni e sguardi rubati, con una nota sensuale insolita per il regista de L’albero degli zoccoli. Come Il mestiere delle armi anche questo Cantando dietro i paraventi è un film rischioso, per i contenuti e le tematiche universali, e inoltre non è sempre semplice districarsi in questo meccanismo narrativo, specialmente all’inizio, quando dobbiamo affidarci al personaggio che fa da tramite tra le due dimensioni. Olmi ci racconta una favola utilizzando gli stilemi e le caratteristiche proprie di questo genere. Si vedono le battaglie, pennacchi di fumo segnalano lo scoppio di un cannone, ma non ci mostra mai il sangue e la realtà della sofferenza perché qui, a differenza del film precedente, si è nella fiaba. Lo strumento del teatro, dove si racconta la storia, viene in aiuto all’atmosfera di placido distacco, mediando ulteriormente tra colui che narra e coloro che ascoltano. Anche l’architettura del teatro è funzionale, così ambigua e misteriosa che riporta alla mente il teatro delle ombre cinesi di C’era una volta in America, altro luogo di oblio e viaggi della mente. Proprio come in un racconto immaginifico, il respiro della storia aumenta e le parole del vecchio narratore teatrale sfumano nei bellissimi paesaggi delle coste cinesi. La pellicola infatti si smarca sempre più spesso dalla scena essenziale del vecchio bordello e si apre a una raffigurazione dettagliatissima dei particolari e dei paesaggi. Olmi procede nella sua narrazione attraverso il gioco poetico delle immagini, concentrandosi sugli infiniti aspetti della vita corsara, sulla bellezza di una vela che si spiega o dell’acqua che si increspa, lasciando che la cinepresa colga la splendida, improvvisa fuga dei gabbiani dalla superficie dell’acqua. Di qui in avanti gli inserti teatrali si diradano, immergendo progressivamente lo spettatore nel cuore del film, per poi tornare all’improvviso verso la fine, con la magia della rappresentazione che si affievolisce alla conclusione dello spettacolo, in un curioso parallelo con la visione cinematografica, il cui culmine è investito dalle emozioni più forti. Al centro dell’universo di Olmi vi sono le scene in cui si incastonano dialoghi sempre altamente simbolici e che invitano alla riflessione ponendo quesiti con discrezione,

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quasi in silenzio. Ogni citazione, ogni frase importante sembra una sentenza come quando il vecchio imperatore che demanda ad ammiragli e politici l’esecuzione delle sue sentenze, ma aggiunge: «predare i ricchi è reato, portar via ai poveri è delitto». E il giovane imperatore che gli succede dice che «il primato nel confronto tra le forze deve essere del pensiero». Costui arma un cannone molto potente che sembra una bomba atomica, ma poi manda anche gli aquiloni con il messaggio “del castigo e del perdono”, è chiaro allora come il film diventi una fiaba, una favola con al suo centro una donna che tra il cannone e il gesto gentile sceglie il gesto gentile, la pace. In precedenza la sua arringa alla ciurma era stata fiera, forte, con accuse verso coloro che «le loro ladronerie le compiono al riparo di privilegi che da sé medesimi si procurano», accuse fatte da una donna consapevole di aver scelto la strada che va contro la legge, contro l’Impero. Ma c’è un tempo per prendere in mano le armi, e un tempo per il perdono. Alla fine in quella immagine sublime degli aquiloni vedremo come il perdono sia una strada difficile, ma anche l’unica da percorrere. Attraverso l’obiettivo, Olmi trasforma le immagini in poesia, e, narrando le gesta dei pirati, canta un’epopea fatta di coraggio e avventura, di scorrerie ma anche di onore e di rispetto per chi lotta a viso aperto, per chi conduce la propria vita nell’alveo dell’onore e dei sentimenti e ha il coraggio di affrontare il proprio destino, qualunque sia. I personaggi negativi sono quelli che infrangono non le leggi giuridiche o morali sulle quali si reggono le istituzioni, bensì quelle regole poetiche sulle quali si basa la costruzione di quell’universo lirico. Un galeone pirata, quindi, offre un potenziale narrativo e lirico infinito e se supportato dalla complicità dello spettatore diventa un universo unico, la fantasmagoria della vita reale. Il personaggio emblematico è quello dello studente che cerca la sede di un convegno di cosmologia e si ritrova nel teatro bordello, dove si racconta e si recita la storia della vedova Ching. Il ragazzo che voleva guardare più il cielo che la terra segue il consiglio dell’intrattenitrice e mette le ali allo spirito ma, nella magistrale opera di Olmi, capiamo che per mettere le ali allo spirito si deve partire dalla carne. Con il risveglio dalla sospensione narrativa del giovane studente che osservava lo spettacolo, lentamente anche noi ci congediamo dalla storia con la mente abbagliata e confusa ma allo stesso tempo segnata da un capolavoro, sicuramente non facile né immediato, ma che alla fine lascia estasiati.

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Come nei film di Olmi e De Oliveira anche la visione dei film di Aleksandr Sokurov ci regala una sensazione di estatica sospensione. L’estasi che si prova quando tempo e spazio si confondono, e ci regalano un aldilà fisico-temporale tipica dei sogni. Così nell’immenso debordante sogno di Arca Russa, film in cui Sokurov attraverso il tempo reale, va al di là del tempo e percorrendo tre secoli di storia reinventa e mostra l’anima di un popolo, e la sua memoria storica. Ma prima di parlare di Arca Russa vale la pena scrivere del piccolo gioiello precedente Elegia del viaggio (2001), un lugubre incubo metastorico calato in una nebbia cimiteriale e in luci scialbe e colori putrefatti. Il viaggio del titolo, o il sogno di un viaggio, è percorso da un misterioso e invisibile protagonista che va da Leningrado a Rotterdam. Con immagini notturne, nebbiose, tempestose di desolata cupezza si sorvolano paesaggi innevati, foreste silenziose, nere acque minacciose, case vuote, strade deserte. Il sogno fa sì che il tempo e soprattutto lo spazio non vengano presi come coordinate reali. Ci troviamo senza soluzione di continuità da un monastero in cui guardiamo il volto assorto di un monaco intento a pregare a una strada innevata che percorre viali circondati di case abbandonate, dal ponte di una nave di una traversata notturna, a un autogrill con un’autostoppista. Sokurov fa un cinema come evento pittorico. Filma come se dipingesse, ritoccando quel che inquadra con obiettivi, filtri deformanti, specchi inclinati, grandi lastre di vetro tratteggiate con pennelli sottili alla ricerca di una luce. Un cinema dunque dove questa musicalità si fa elegia (non è certo un caso che Sokurov inauguri tutta una serie di opere che sono vere e proprie meditazioni visive e visionarie, e che le chiami per l’appunto Elegie), ovvero canto mesto e tuttavia dolcissimo nel suo struggimento per un qualcosa che non è più, un qualcosa che è divenuto immagine, che è affidato all’ambigua dimensione del cinema, al suo gioco crudele e sublime di presenza-assenza. In questo clima di algido squallore a terra, sfilano spettrali le doppie luci del traffico stradale e l’onirico viaggio plana sul museo Boijimans di Rotterdam. Mentre in voce off il protagonista continua a parlare in prima persona, citando Dante, Cechov, Conrad. Infine, dentro il museo, l’autore/viaggiatore passa in rassegna quadri di paesaggio, firmati da Van Gogh, Seghers, Leickert, Saerendam, fino a giungere a Bruegel e al suo La torre di Babele. Qui, come se fosse giunto a trovare ciò che cercava, si ferma a riflettere e dice: «Entrare in un quadro

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e non ritornare mai più» e sussurra un concetto: lì è la vita eterna, lì sta l’esserci o l’esserci stato. L’eterno scorrere del tempo, il linguaggio del sogno, lo spazio del museo e l’arte pittorica sono tutti gli elementi che tornano in Arca Russa, il film successivo (2002) di Sokurov che è il tentativo di penetrare nel fluire del tempo; una meditazione sul “tempo storico” che non può morire. Senza una vera giustificazione narrativa, come in un sogno, un regista contemporaneo, invisibile agli altri, si ritrova magicamente all’interno dell’Hermitage di San Pietroburgo. È l’occasione per un viaggio nel tempo lungo tre secoli compiuto in compagnia di un ironico diplomatico francese del secolo scorso, legato alla Russia da un rapporto di amoreodio. Ora separati ora insieme, i due incontreranno senza soluzione di continuità i protagonisti della Russia zarista, da Pietro il Grande fino alla famiglia di Nicola II alla vigilia della rivoluzione, i turisti che visitano il museo e un gran ballo di fine Ottocento. Al termine il cineasta tornerà all’oggi, il diplomatico deciderà invece di rimanere mentre si scopre che il palazzo intero galleggia sul mare del/per l’eternità. Per 90 minuti, senza stacchi, vediamo tutto questo in soggettiva, attraverso lo sguardo del regista. Un unico, maestoso piano sequenza. Il racconto, o sarebbe meglio dire la fantasia, il sogno, si svolge, come dice il regista Sokurov, “come se fosse un solo respiro”, grazie a una speciale videocamera digitale portatile ad alta definizione, su un labirintico percorso di 1300 m attraverso 33 set illuminati (Palazzo d’Inverno, piccolo Hermitage, vecchio Hermitage, teatro dell’Hermitage). Dopo mesi di prove 867 attori, 3 orchestre, 22 assistenti alla regia e la troupe tecnica russo-tedesca sono entrati in scena tutti insieme in un tour de force tecnico incredibile che realizza un kolossal che ci porta a riflettere sul senso della storia. Una esperienza fisico-percettiva attraverso una visione che si realizza con una soggettiva sulla memoria collettiva. Le stanze dell’Ermitage di San Pietroburgo diventano l’affresco per “dipingere il tempo”, ogni sala un’epoca perduta, ogni corridoio un’emozione del passato, mentre scorrono lussuose scenografie all’interno delle quali attraversiamo gli spazitempo delle luminose epoche di Pietro il Grande e di Caterina. I corridoi, le scale, i saloni dello splendido edificio diventano il teatro della Storia, immagini e atmosfere, catturate fra marmi e stucchi, grandi quadri e suppellettili preziosi; un’entità ideale o forse un’illusione.

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Sembra un sogno il film che si apre su un’immagine nera resa viva da una voce fuori campo, attrice principale e invisibile del film, che dice: «Apro gli occhi e non vedo niente. Nessuna finestra, nessuna porta, ricordo che è accaduta una disgrazia e tutti si mettevano in salvo come potevano». È già sogno e incubo, bellezza e paura. E come per magia, in un’atmosfera onirica lucente, ci troviamo dentro l’Hermitage, nella San Pietroburgo del 1700. A condurci in questo viaggio un cinico diplomatico francese giunto dal XIX secolo, eccentrico/egocentrico interlocutore, saldamente e sfrontatamente inserito in qualunque epoca perché fondamentalmente estraneo a tutte che, con spirito di avventura, ci conduce alle porte del tempo. All’inizio il nostro sguardo segue l’occhio inquieto della soggettiva del protagonista che passa dal buio e dall’oblio alla frenesia della luce, al viaggio nel tempo (ir)reale della Storia. Ci sentiamo frastornati, timorosi e insieme animati da una curiosità ingorda che vuole sapere cosa sta succedendo quali abitanti del tempo stiamo incontrando. Lo spazio dello splendido palazzo si offre alla vista del visitatore, e dunque nostra, come un prezioso scrigno di delizie rococò (la recita musicale al cospetto di Caterina) e indizi wagneriani (le fanciulle – fiore al seguito di Anastasia), popolato d’impeccabili cavalieri e dame fine Ottocento non meno che di funzionari sovietici. Ci sentiamo nel regno di una vaghezza densa di ombre, resa ancora più squisita dal gioco dei silenzi e dei fuori campo, dalla sensazione di essere davanti a un mondo di evidente finzione, che ostenta la propria distanza. L’elegia di uno sguardo che nello stesso istante in cui si apre sul mondo incantato delle immagini dischiudendone illimitati orizzonti di senso, nella creazione di una sfera fantasmagorica (il teatro, le maschere, il labirinto di figure immaginarie, la museicizzazione di un sogno di pittura, e poi i regnanti, le uniformi, la cerimonia, le danze..), relega l’oggettualità del reale nel regno delle ombre e dei fantasmi dell’essere. L’Hermitage raccoglie frammenti impazziti di trecento anni di storia russa, senza che sia possibile stabilire se l’arca evocata dal titolo sia una difesa contro gli insulti del tempo e della memoria o una prigione in cui seppellire ciò che è stato e non può più essere. Siamo nel flusso del (senza) tempo, che non può terminare che nel nebbioso silenzio che avvolge i ricordi, i sogni dai quali a questo punto non si vorrebbe, o forse non si può, uscire più da questa testimonianza poetica ma la via di uscita si trova nello straordinario finale: il vento che

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soffia attraverso i saloni dell’Hermitage si spegne nel buio minaccioso della notte fredda, a pochi passi dalle acque della Neva. Dalla deriva di un mondo, di un’epoca, di un universo storico Sokurov attiva la seduzione labirintica in cui il film risplende di sovrana, assoluta bellezza. Un sublime movimento del cinema come ipotesi irrealizzabile di fuga dal tempo, di sottrazione dal tempo come desiderio di eternità, di memoria. Uno stile elegiaco che si affida a una sorta di costruzione dell’immagine, che nello stesso tempo canta la bellezza delle cose e ne intona un epicedio funebre per la loro irrimediabile perdita. Elegia del viaggio ma anche viaggio dell’elegia, nell’elegia, in questo incedere musicalmente triste del suo cinema, in cui ogni momento esteticamente felice diviene anche cupa meditazione di una perdita. L’arca di Sokurov è una critica della Storia come sequenza di eventi tutti umani, di morte e diplomazia e un elogio dell’Arte come se l’Arte non fosse prodotta dagli uomini ma fosse una sorta di divinazione, immagine di un “oltre” fatto di bellezza e armonia, di cadute e voli, di sangue e elegia. Il mistico e visionario Sokurov continua il suo cinema di poesia che s’ispira alla pittura e ripudia il realismo della ricostruzione dei fatti per far ritorno ai valori dello spirito, valori che condivide con gli altri maestri di questo percorso, Olmi e De Oliveira. Geniali, profondamente spirituali, intransigenti nella loro perfetta fusione tra etica ed estetica. Forse per molti studiosi della storia, o della comunicazione del passato attraverso il cinema, il risultato di questi registi rappresenta una nostalgia reazionaria e antistorica. In realtà si tratta di un nuovo tipo di comunicazione del passato attraverso lo spirituale così grandioso e ambizioso da suscitare ammirazione. Il ricordo possiede un significato che può sfumare nelle narrazioni fantastiche: oggi autentico modello di un recupero non solo della rappresentazione della storia, ma anche di quei valori che la hanno animata. Si tratta di opere intense, sorta di celebrazione di una Storia che si avvia all’uscita dalle forme di racconto che abbiamo conosciuto fino a ora.

11. La storia come “nuovomondo”: il realismo visionario di Crialese Noi abbiamo una memoria collettiva, perché ciascuno di noi ha una memoria. Quindi la memoria collettiva, cioè quella consegnata all’identità di

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un popolo, alle istituzioni, agli archivi, alle biblioteche, alla lingua, esiste, ma esiste soltanto in quanto ciascuno di noi la fa vivere. La memoria collettiva in questo senso, non è altro che un insieme di memorie individuali, che nuotano in un medesimo mare. Si crede, sbagliando, che la storia sia qualcosa con la “S” maiuscola, che non riguardi il singolo; al contrario, la storia è fatta di tante storie con la “s” minuscola: la storia di ciascuno di noi, senza la quale non ci sarebbe la storia collettiva. La storia collettiva è un’astrazione, un’astrazione non falsa, ma che è il risultato di tante azioni individuali, come due braccia che nuotano per tenersi a galla individualmente mentre all’orizzonte tante braccia nuotano nel mare della memoria; un’immagine liquida, questa, che è il simbolo della Storia intesa come inconscio collettivo e che solo un talento visionario e estetizzante come Crialese poteva darci; un’immagine che segue una traiettoria onirica trascendendo le componenti sociologiche e antropologiche. Suggestivo finale sospeso in una dimensione irreale che ci consegna un simbolo del sogno di libertà vissuto da migliaia di uomini e donne. Una fuga nel visionario che scava nell’inconscio collettivo dell’emigrazione italiana, accompagnate dalle bellissime note di Sinnerman, anacronismo musicale di Nina Simone. In fondo che cos’è il “nuovomondo”? Alberi carichi di monete, cipolle e carote giganti, fiumi di latte nei quali immergersi: questa è l’America degli immigrati italiani d’inizio secolo scorso che, costretti dalla fame e dalla povertà a lasciare il proprio paese, non temevano di affrontare i pericoli di un lungo viaggio in mare per arrivare alla meta. Il film di Emanuele Crialese non vuol essere una rievocazione storica o una cronaca neorealista, piuttosto il rispecchiamento dello stato d’animo di ciò che sentivano quelle persone. Non si deve pensare che la memoria sia semplicemente la registrazione di ciò che è avvenuto, la memoria è anche la registrazione di ciò che si è sentito, vissuto, sperato e sognato. Credere che il passato sia come una cosa che sta lì, che il ricordo semplicemente recupera è sbagliato. E soprattutto così si dimentica il fatto che gli eventi importanti, traumatici o gioiosi, quelli non banali, quelli che eccedono la semplice memoria, vengono reinterpretati più volte, proprio perché ci ossessionano, nel senso latino obsideo che vuol dire assedio. Noi siamo assediati dai ricordi importati e quindi li ripercorriamo continuamente. Non esiste il ritorno al passato come ricostruzione di ciò che effettivamente è avvenuto. Esiste tutta un serie di interpretazioni, di strati interpretativi, un serie

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di sovrastrutture compresa quella interiore. Il fatto è che memoria e oblio sono inscindibili nel loro avvinghiarsi e che noi abbiamo, in diversa misura, bisogno di entrambi per vivere, in quanto siamo degli emigranti nel tempo, che si servono del ricordo del passato per andare verso il futuro, così come gli emigranti, per rendere meno duro l’impatto in terra sconosciuta, chiamavano le nuove città con il nome di quelle vecchie. Sapevano che non erano le stesse, ma in tal modo il transito verso il nuovo era più semplice. Raccontare l’emigrazione italiana negli Stati Uniti è raccontare un pezzo di Storia italiana fondamentale, ma quale passato intende ricostruire Crialese se il “nuovomondo” non si vede mai, se la storia si arresta a Ellis Island, l’isola delle lacrime? Nuovomondo racconta l’epopea dell’emigrazione italiana di inizio secolo verso l’America non tanto da un punto di vista storico o sociale, quanto come difficile e coraggioso passaggio, per milioni di contadini e pastori, dal vecchio mondo familiare, abitato dalle tradizioni, a quello nuovo, solo immaginato e sognato ma in realtà sconosciuto. Un’opera, quella di Crialese, che è un atto d’amore per una folla di eroi e di eroine che si lanciarono nel vuoto, per affrontare un passaggio epocale armati solo di volontà e voglia di riscatto. L’idea di partenza di nuovo mondo è un’esperienza personale del regista, che si accorse di rimpiangere l’Italia solo durante un lungo soggiorno negli Stati Uniti. Crialese ha impiegato dieci anni e otto sceneggiature, preceduti da un lunghissimo periodo di studi di tutti gli incartamenti contenuti negli archivi di Ellis Island dove il regista ha scoperto, non solo migliaia di “parole di carta” (così i migranti chiamavano le “lettere”), ma anche le prove degli esperimenti di eugenetica che le autorità americane praticavano per evitare di “corrompere” la nuova razza. L’estetica invece è ispirata ai dagherrotipi d’epoca. Si tratta di un film di fotografia. Sono le immagini, più che i personaggi, a fare la storia; sono le immagini che fanno sognare la terra promessa; sono le immagini che catapultano lo spettatore all’interno della nave o su Ellis Island. Una fotografia annuncia il paese di Bengodi, dove per trasportare una sola cipolla servono una carriola spinta da un contadino. Un’altra fotografia mostra gli zecchini che crescono sugli alberi. Un’altra ancora – di quelle con lo sfondo dipinto, e i buchi per infilare le teste – mette insieme il gruppo degli emigranti siciliani e la misteriosa ragazza inglese dai capelli rossi. È come se la fotografia (illusione realista del tempo) venisse prima di tutto per poi essere sviluppata in modo visionario.

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«Il film si apre in un tempo senza tempo, segnato da riti preistorici: padre e figlio scalano un monte tenendo un sasso in bocca per chiedere alla Madonna se sia il caso o meno di partire, mentre la vecchia matriarca estrae il malocchio da una fanciulla assatanata […] Presa la decisione di emigrare, i Mancuso raggiungono il porto dal quale una nave li porterà in America. Si aggrega loro, nel viaggio, una donna inglese dall’oscuro passato, che all’arrivo a New York chiederà a Mancuso di sposarla per poter entrare negli States. La seconda metà del film è una ricostruzione scrupolosissima, a metà fra il documentario etnografico e il Castello di Kafka, delle procedure complicate e surreali che i viaggiatori debbono affrontare a Ellis Island, l’isola-lager a poche miglia di mare dalla statua della Libertà»38. Sin dalla prima sequenza la nebbia, che avvolge i corpi dei protagonisti, rispecchia la loro condizione interiore e al contempo un’effettiva difficoltà fisica, la loro scarsa visibilità di fronte a un universo che li ignora, che non si mostra e che rimane nel fuori campo. La famiglia Mancuso vive nelle pietraie delle Madonie, condividendo la propria povertà con gli animali e la natura. Mondo arcaico contadino, in cui si praticano ancora magie e ci si parla per fischi e richiami di animali. Ma stanno per scegliere di lasciarsi il passato alle spalle e iniziare una vita nuova nel Nuovo Mondo. Salvatore vende tutto per portare i figli e la vecchia madre in un posto dove ci sarà più lavoro e più pane per tutti. Salvatore Mancuso (interpretato da Vincenzo Amato, attore feticcio e amico intimo di Crialese), è uno delle migliaia di emigranti italiani che misero in gioco tutto. Inizia il viaggio di terra fino all’imbarco, dove Salvatore, Donna Fortunata, Angelo e Pietro si incontrano con la donna inglese. E poi il viaggio per mare con una partenza che è sicuramente tra le immagini più belle che il film ci regala: la nave stracolma si stacca dal porto ed è come se qualcuno tagliasse crudelmente in due un popolo che sembrava compatto; e subito dopo la sirena del battello fa alzare al cielo gli occhi di tutti come la tromba del giudizio. Poi il viaggio, un lungo viaggio assiepati sui bastimenti, gli uomini da una parte, le donne dall’altra: le parole scambiate, poche, a differenza degli sguardi suoi corpi e sui volti davvero ricchi di umanità. Il cinema di Crialese alimenta seduzioni attraverso ‘incroci di occhiate’ tra Lucy e Salvatore e lascia intravedere pulsioni, sessualità represse nel volto sorprendente di Charlotte Gainsbourg. La traversata 38. A. Crespi, Il «Nuovomondo»? Fin qui, una prigione, “L’Unità”, 22 settembre 2006.

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include una tempesta, girata con rara sapienza tutta sui primi piani e sui corpi dei malcapitati. Segue l’arrivo, anche qui tra la nebbia che impedisce di vedere il “nuovomondo”; siamo alle porte di New York però ancora precluse dato che, per varcarle, si debbono affrontare gli esami surreali di Ellis Island: visite mediche, test psicologici, giochi attitudinali. Solo i promossi diventeranno americani. «I Mancuso e gli altri disperati che hanno viaggiato con loro non vedono mai, almeno nel film, l’America: debbono limitarsi a sbirciarla dalle vetrate di Ellis Island, osservando esterrefatti i grattacieli e domandandosi dove diavolo staranno le bestie, in quelle case che toccano il cielo»39. La vecchia madre, interpretata da una intensa e spigolosa Aurora Quattrocchi, autentico monumento antropologico di quella mentalità, si rifiuterà invece di modificare i suoi usi e costumi. Lo sguardo incredulo, disperato ma dignitoso di Salvatore di fronte al verdetto della commissione che ammette lui e un figlio ma non l’anziana madre (dichiarata pazza) e l’altro figlio (perché sordomuto) è qualcosa che ci tocca per la sua umanità. Ma è certamente il personaggio interpretato da Charlotte Gainsbourg, questa donna non italiana che si ritrova chissà per quale motivo su una nave di immigrati italiani, che ci affascina nella sua dignitosa decadenza. Lucy, così cinica e umana allo stesso tempo, è senza dubbio un personaggio complesso, poco incline alle confidenze, ma che sembra nascondere un passato infelice. Lei è un tramite per i Mancuso: li aiuta a comprendere quello che non sanno del Nuovomondo, parla per loro una lingua che non conoscono e scrive quello che non sanno scrivere. In questo caso, il regista usa il suo personaggio come termine di paragone, per raccontare senza troppe parole lo spaesamento e la confusione dei migranti che sbarcano in una terra sconosciuta di cui non capiscono le regole e i comportamenti. Sottile e flessibile come un giunco, sembra una delle donne scolpite da Alberto Giacometti, colei che traghetta verso la realtà industriale e americana Salvatore e i suoi figli. Crialese compone quest’insieme di quadri dichiarando la sua cifra nell’alternanza di piani realistici e piani onirici, questi culminanti nel potente quadro, già più volte richiamato, di tutta la compagnia immersa con indosso i poveri abiti in un bianco mare lattiginoso e felice. Come sottolinea bene Rondi, ogni momento del film ha un suo stile, ha le sue cornici entro le quali si muovono i protagonisti. «Aspre, solitarie, petrose, quelle siciliane. Volutamente soffocanti quelle del viaggio, pur con indicazioni 39. Ibidem.

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psicologiche precise e allusioni riflesse da stati d’animo e da situazioni di contorno. Riprese quasi dai documenti d’epoca, quelle della lunga tappa a Ellis Island, con i rituali dell’accoglienza e delle nuove regole imposte dalle nuove leggi»40. «Crialese sospende l’itinerario in un’atmosfera di mistero, fitta di presenze arcane e miraggi iniziatici che convergono nella «folle» consapevolezza di chi, non a caso, sa convivere da sempre con l’essenza della vita e quella della morte. In questo modo Salvatore e i suoi compagni non appaiono stentorei eroi oppure vittime miserande, bensì anime trasmigranti, portatrici di vigore, coraggio e umanità nella New York che, anche grazie a loro, s’appresta a diventare la capitale morale e materiale del ventesimo secolo»41. Crialese ci fornisce un microscopio con cui osservare finalmente da vicino questo mondo di nostri antenati, sinora cinematograficamente conosciuti per grandi masse. Così il regista racconta la genesi di Nuovomondo: A Ellis Island sono arrivato da “turista” durante i miei dieci anni a New York. Ho scoperto materiali incredibili, sono tornato e diventato amico del bibliotecario che mi ha aperto alcuni “cassetti segreti”. […] Non mi piace il termine emigrazione è riduttivo, la storia è fatta di spostamenti dall’alba dei tempi. Quello che io racconto non è un viaggio, ma un percorso metamorfico. Semi che vanno a fruttificare in terre più fertili, che magari inseguono un sogno finto, creato ad arte: le foto di propaganda che mostrano come tutto in America sia grande e ricco, diffuse per attirare forza lavoro, che non a caso serviva a partire dalla fine dello schiavismo per far funzionare le industrie. Ma se da un lato si invogliava questa gente a partire, dall’altra li si temeva perché potevano inquinare la razza bianca […] di qui il fatto che tutti dovessero passare per un doppio esame, fisico e mentale, per poter entrare nel paese. Sono americani i primi studi di eugenetica che contribuiranno alla teorizzazione del mito della razza pura e alla pulizia etnica nazista. Proprio degli americani questi studi sulla razza: una razza che non c’è…42.

A distanza ravvicinata, i Mancuso del 1900 somigliano a tutti i nuovi migranti che oggi sbarcano sulle nostre coste trasportati da scalcinate 40. Gian Luigi Rondi, Realismo visionario di Crialese, “Il Tempo”, 22 settembre 2006. 41. Valerio Caparra, Viaggio nel sogno americano, “Il Mattino”, 23 settembre 2006. 42. E. Crialese, Nuovo cinema Crialese, Intervista apparsa su “Film Tv” n. 14, 2006.

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carrette. Stessa disperazione, stessa faccia sbigottita. Quella degli affamati di vita e di pane, in cerca di una terra in cui poter preservare la propria dignità. Sembra che la storia si ripeta, ciclicamente. Forse la mentalità dell’uomo che è intrisa di violenza non cambia, cambiano le forme della violenza. In questo purtroppo la storia non è maestra di vita. Si pensa che un insegnamento sia importante, ma la storia ci racconta queste vicende umane nella loro varietà. Quindi, quello che si può imparare dalla storia, soprattutto in un periodo in cui gli eventi si muovono velocemente, è di tener conto degli insegnamenti del passato, ma vedendo sempre come le cose si trasformano. Estirpare la violenza sembra difficile, così come estirpare la guerra, sembrava che una grande vittoria fosse stata ottenuta, quando si è cancellata la schiavitù. Eppure la schiavitù sembra una carattersitica eterna degli esseri umani. Oggi la schiavitù, si è solo trasformata, non è più una schiavitù nel senso personale, ma una schiavitù di stampo economico. Forse solo più subdola e sottile, perché confrontandoci con il passato ci fa apparire quasi migliori.

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Parte III

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Introduzione

I

n questa terza parte il medium preso in esame è la televisione. Televisione intesa come fonte di Storia, luogo d’elaborazione e dei documenti, ma anche interprete di eventi, modello di narrazione e proposta di una nuova comunicazione della memoria storica. Sempre più di frequente in televisione vengono trasmessi programmi esplicitamente dedicati alla storia o contenenti nella narrazione riferimenti a fatti, a personaggi, a situazioni del passato recente o remoto. Ci sono programmi trasmessi intenzionalmente per un particolare tipo di pubblico (insegnanti, studenti, specialisti) che hanno come scopo fondamentale quello di ampliare le conoscenze acquisite in altri luoghi (testi, scuole, università); vi sono programmi televisivi che puntano a tradurre il linguaggio storico in quello dell’informazione, attraverso una ricostruzione che assomiglia più a un’inchiesta giornalistica; e infine vi sono programmi che ambiscono a fare della trasmissione storica televisiva un documento da consegnare ai posteri. La televisione è diventato uno dei maggiori diffusori di conoscenze storiche assumendo un ruolo difficilmente contestabile dopo una visione seppur distratta dei vari palinsesti di tv in chiaro o televisione via cavo. Fare storia in tv si può dire oggi sia normale. Senza mettere in dubbio l’utilità educativa del progetto di comunicazione storica, si deve tentare di capire il perché si sia subissati da sceneggiati storici, in costume, programmi educativi, versioni riadattate di eventi passati o infine nuovi format per narrare la storia. Di frequente il successo delle trasmissioni storiche è utilizzato esclusivamente come spunto per criticare la televisione e mostrare quanto sia inadeguata e quanto poco attenta a questo aspetto. La critica si appunta, da un lato, sul potere di influenza attribuito alla televisione, in particolare nella sfera dei condizionamenti collettivi, e dall’altro sull’abbassamento qualitativo di una programmazione imputata di perseguire a tutti i costi la

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La ‘storia’ senza Storia. Parte III.

massimizzazione degli ascolti. La storia diventa così la critica della televisione e, allo stesso tempo, la sua foglia di fico. Come se la qualità passasse per forza di cose per la costruzione della memoria storica attraverso la fonte o i documenti che gli eventi hanno lasciato al suo interno. La televisione può e deve essere, senza abusare di questo ruolo, un grande veicolo del sapere del passato. Non solo un mezzo di intrattenimento grazie alla storia, quindi, ma contenitore più complesso che veicola la conoscenza storica attraverso l’evento raccontato, la fonte analizzata, la memoria divulgata. Il rapporto fra gli eventi della Storia e la loro rappresentazione in televisione, rispetto agli altri mezzi di comunicazione di massa, ha seguito un suo particolare percorso, a causa della sempre più pervasiva presenza, della rilevanza politica, culturale, sociale che il mezzo televisivo ha assunto. Oggi attraverso la televisione si fa storia in diretta; risulta evidente la centralità dell’arena televisiva come luogo della celebrazione o dell’accadimento di eventi di vasta portata. L’immagine televisiva, come quella cinematografica, costituisce dunque una fonte imprescindibile per la ricerca storica sul Novecento, come è stato ormai riconosciuto dagli storici contemporanei. La televisione tende a privilegiare le immagini che manifestano un forte impatto emotivo, creando perciò stesso una nuova memoria collettiva che via via viene ad oggettivarsi e si sovrappone alla memoria scritta, come questa si era sovrapposta alla memoria orale. La televisione costituisce uno straordinario strumento di rappresentazione e di narrazione della memoria collettiva, e un’incredibile opportunità di accrescimento della coscienza del passato e dei momenti fondativi su cui si sostiene una società1. In questa terza parte il percorso previsto è quello che prevede una ricognizione intorno al quadro dell’offerta televisiva nel campo della storia, un’analisi della narrazione in cui questa offerta si realizza nello specifico linguaggio del mezzo televisivo. Durante il percorso ci si è resi conto, però, che qualora si fosse voluto davvero allargare il discorso a tutto ciò che in televisione ha riferimento con la storia, la storicità o la cultura storica, allora l’impresa avrebbe valicato ogni ragionevole confine che questa ricerca si prefigge, investendo 1. Cfr. Giaccardi, C., Il paese catodico: televisione e identità nazionale in Gran Bretagna, Italia e Svizzera Italiana, Franco Angeli, Milano 1998.

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Introduzione

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un universo dai contorni non arginabili. Tutto questo vale per le fiction che quasi sempre si collocano all’interno di qualche determinazione epocale, senza per questo darsi decisamente come storiche, così come per quella produzione televisiva che, nata come prodotto di attualità, viene poi riletta retrospettivamente come storica. Siamo così rientrati nell’ambito delle limitazioni del senso comune di Storia, quelle che abbiamo definito in precedenza, in particolar modo nella prima parte, secondo la definizione di romanzo storico. Nel corso del lavoro di classificazione prima e della valutazione dei risultati poi si è confermata, se mai ve ne fosse bisogno, l’opportunità di cautele rispetto all’approccio. Molte analisi hanno mostrato una fragilità di lettura, numerose fonti hanno espresso meno sostanza di quella che ci si poteva attendere, tante classificazioni hanno sofferto di un’aridità che interviene inevitabilmente nella stesura di tabelle. Parlare di storia in televisione non risulta affatto semplice anche per la natura del medium. Riflettere sulla comunicazione televisiva significa affrontare un argomento al tempo stesso familiare, che è parte della nostra quotidianità, ma anche difficoltoso perché pone numerosi problemi che coinvolgono la sfera sociale e le comunicazioni tecnologiche. La sua capacità di comunicazione la rende un formidabile mezzo di informazione, uno strumento di formazione, di crescita comune che consente di allacciare rapporti, di entrare in relazione con gli altri; eppure la sua serialità, che induce e produce dipendenza, genera preoccupazione di un appiattimento dello spirito critico, di una omologazione contagiosa, di un’accettazione passiva degli stereotipi. Tutto ciò ha portato a un consumo di routine. La televisione oggi si vede distrattamente, con minore entusiasmo, quasi per quella consuetudine che non osa interrompere il flusso continuo delle immagini. La logica della ripetizione induce a credere che non ci possa essere qualcosa di diverso, che non si possano avere idee nuove. Cambiare è sempre visto come un rischio da chi fa televisione. Si moltiplicano le possibilità di vedere cose sempre più uguali a se stesse. Non da ultimo la televisione stessa, come concetto, sta attraversando una rivoluzione tecnologica. Innovazioni tecniche mettono a disposizione un numero pressoché infinito di canali, che potrebbero moltiplicare il potenziale consumo televisivo. Dalle spoglie della tv analogica e generalista nascono così mille modelli diversi, in cui si mescolano con disinvoltura il micro e il macro. Dal più minuscolo vlog (neologismo per videoblog,

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La ‘storia’ senza Storia. Parte III.

dove il singolo individuo fa una tv personale con la propria videocamera e un sito) fino al mega broadcasting satellitare di alta definizione. In mezzo ci sarà di tutto, perché la televisione sembra andare esattamente dove va la società, cioè nella direzione di una forma di glocal, la commistione tra piccolo e grande, tra locale e globale. L’avvento del satellite diventa il rifugio della lenta e inesorabile frana di un pubblico ricco, per lo più colto e appetibile da un punto di vista pubblicitario. La televisione vecchio stile, dunque, sta scomparendo perché si frantumerà in mille schermi, non solo dal punto di vista del contenuto o dei veicoli attraverso cui si trasporta il segnale (dall’analogico al digitale terrestre, dal digitale satellitare al via cavo), ma anche dal punto di vista del supporto. Gli schermi si moltiplicheranno e dal televisore si passerà ai mega schermi nelle città, agli schermi di internet o ai micro schermi del telefonino. Di fronte a noi ci sono dei mutamenti dovuti a una rivoluzione tecnologica ormai permanente con cui dobbiamo imparare a fare i conti e soprattutto convivere, adattando a questa rivoluzione i nostri schemi percettivi, criteri valutativi e le nostre capacità di decisione. Ciò che ci colpisce di questa rivoluzione mediatica non è tanto l’entità, di certo molto ampia, dell’aspetto, ma la pluralità delle direzioni, talora perfino la contraddittorietà o ambivalenza che si manifestano al loro interno. La comunicazione mediatica televisiva non ha più un centro gravitazionale certo. Allora ci chiediamo, in questa direzione, cosa vuol dire considerare oggi il mezzo televisivo (e più in generale i mezzi di comunicazione) come momento essenziale di diffusione di conoscenze, e di conoscenze storiografiche in particolare? Cominciamo dalla televisione come fonte: la televisione, non diversamente dal cinema, assume sempre più la duplice veste di fonte e strumento di narrazione storica; ma il rapporto tra Storia e televisione non è semplice e se la Storia è da sempre fonte d’ispirazione per le produzioni televisive, la televisione fornisce alla Storia delle fonti per la ricerca d’inestimabile ricchezza. Già da parecchi decenni gli storici hanno sentito la necessità di allargare ai media e ai loro prodotti l’attenzione riservata per le fonti. La prima elaborazione di una metodologia adatta alle fonti audiovisive può essere fatta risalire alla fine degli anni Sessanta, benché gli autori della Nouvelle Histoire, come Febvre e Bloch, avessero, fin dagli anni Trenta, allargato il territorio in cui lo storico poteva operare.

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Introduzione

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Tuttavia l’istituzione degli audiovisivi come fonti è un processo tuttora in corso che si scontra con gli ambienti accademici, spesso refrattari a prendere in considerazione il materiale audiovisivo. Ragione di tale scetticismo è la natura stessa del materiale: la natura non verbale o, perlomeno, non esclusivamente verbale della fonte, l’inquietante livello di veridicità delle immagini in movimento, la complessità dell’analisi dell’intenzionalità degli autori dei programmi originali, la possibilità di manipolazione, l’infinita riproducibilità che rende difficile la differenziazione tra l’originale e la copia, e tra fonte primaria e fonte secondaria, sono solo alcuni esempi dei problemi legati all’analisi storica delle fonti audiovisive. Non ci addentreremo nell’analisi storiografica della televisione intesa come fonte storica. L’oggetto specifico dell’analisi è l’immagine che la televisione ci offre come divulgatrice di sapere storico, come promotrice della conservazione di memoria collettiva. Evitato il discorso della televisione come fonte della ricerca storica, verrà considerata piuttosto la televisione come produttrice di storia, come creatrice di eventi che riguardano il “villaggio globale”. Il primo capitolo è il tentativo di spiegare il “tempo” della televisione, attraverso le forme attuali di rappresentazione. Come già sottolineato, oggi è la televisione stessa a creare l’“evento storico”. Ma nel villaggio globale le regole dettate dai mass-media sono quelle dell’istante, del flusso continuo, dell’eterno presente, così da consumare velocemente le immagini, creando un corto circuito tra attuale e memoria, evento e documento. Attraverso il medium creatore dell’avvenimento si confonde la cronaca in storia. Non c’è più tempo per fare storia, gli eventi diventano beni di consumo senza più concatenazione di causa effetto, si vive solo una serie di effetti sovraesposti. Quindi il tempo della televisione appare del tutto estraneo al tempo della storia con la sua periodizzazione, con i suoi nessi causali, con la sua mediazione. Successivamente, per definire meglio la programmazione storica in televisione, abbiamo ripartito quest’ultima secondo due macro generi: informazione e fiction, basandoci sui criteri che rinviano alla struttura generale della comunicazione. In questa ottica come si diceva, si è proceduto a esclusioni tematiche drastiche, relative a quelle storie speciali come ad esempio quella delle arti (storia della musica, storia del teatro, storia della letteratura ecc.) che rappresentano da sole grandi settori della cultura umanistica, restringendo il campo sotto la voce storia in un

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La ‘storia’ senza Storia. Parte III.

ambito più compatto e maneggevole. Per un momento avevamo pensato anche all’esclusione di un altro vasto campo che è quello della fiction storica. Ma dopo aver analizzato e sostenuto la continuità fra racconto storiografico e racconto storico letterario avremmo certamente invalidato il nostro percorso, tornando alla vecchia distinzione della storiografia positivista. Abbiamo già detto che anche il più rigoroso dei “documenti” è pur sempre soggettivo e criticabile e che, nel senso opposto, la ricostruzione romanzata può introdurre insospettabili elementi di conoscenza del passato. Piuttosto, nel momento in cui si prenderanno in esame le fiction, si procederà alla distinzione già fatta per il cinema tra fiction semplicemente in costume e fiction storiche. Inoltre la differenza adottata tra due macrogeneri, fiction e programma informativo storico, è risultata assai labile e data per approssimazione in un momento in cui i generi televisivi subiscono contaminazioni gli uni con gli altri. E dunque nel secondo capitolo, preliminarmente, ci siamo occupati dei nuovi format, dei nuovi linguaggi e dei nuovi media con cui ci viene raccontata la storia: la docufiction, la multimedialità di Rai Educational, il “collage” comico e il ritorno dell’oralità tra narrazione e interviste dirette. Il terzo capitolo è dedicato ai programmi di trasmissione del sapere storico, attraverso con una ricognizioni di tematiche, luoghi e trasmissioni dedicate specificatamente alla Storia. Nel quarto capitolo infine ci siamo occupati delle “fiction storiche”, ricostruendo il percorso che dallo sceneggiato al serial di lunga durata, dal film-tv alle miniserie, arriva fino ai giorni nostri, in cui c’è una sorta di occupazione militare della prima serata tv delle fiction in costume (delle quali solo alcune si possono definire storiche). Va comunque detto che, come già per il film, non è facile scindere all’interno della fiction la verità storicamente accertata dalla pura invenzione, che, soprattutto in televisione, viene usata come strumento emotivo per coinvolgere la maggior parte di spettatori possibili nella vicenda. Abbiamo quindi incluso nella analisi film che nelle intenzioni dirette della produzione o del regista erano dichiaratamente storiche, ma anche film che consideravano l’ambientazione storica determinante ai fini della narrazione o che trattavano, anche se in secondo piano, un avvenimento storico. Sono state invece escluse e non considerate le fiction “semplicemente” in costume, nelle quali l’ambientazione storica non era determinante ai fini del racconto.

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Introduzione

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Infine ci sia consentita una riflessione sulla televisione e sul presente di storia che dimostra la sete di identità e di passato che tenta di soddisfare. Con la presente ricerca ci si proponeva senza dubbio di soppesare la presenza di storia in televisione, ma più che altro ci interessava giungere a un confronto articolato su come la storia entra in rapporto con il medium televisivo in un momento epocale come il nostro, in cui i mezzi di comunicazione di massa (nel mondo occidentale) sembrano subire un’esplosione centrifuga. La presenza di storia in televisione diventa così utile allo studio del nostro tempo attraverso la modalità di rifrazione del suo passato. Nell’analizzare il rapporto tra storia e televisione ci ha interessato la trasmissione televisiva del passato anche per capire il presente. Certo nel far questo ci scontriamo con ciò che è diventata oggi la televisione nella società dell’immagine, dove conta lo spettacolo e poco la qualità, anche dello spettacolo stesso. A nostro parere la televisione, soprattutto quella pubblica, non dovrebbe tanto offrire programmi culturali, quanto piuttosto cultura all’interno dei programmi di grande ascolto, con riferimento anche ai varietà, alle soap opera e a tutto ciò che può avere un notevole bacino di spettatori. Ci vuole più ironia, più buon gusto. E anche i programmi educativi non devono essere per forza noiosi per il fatto di avere carattere divulgativo: per questo noi parliamo di intrattenimento culturale. La cultura non e’ un genere televisivo, è un’avventura dell’intelletto: è civiltà. In questo senso, tutto può essere cultura, e tutto incultura. Il vero discrimine è quello fra educazione e diseducazione e siamo convinti che la televisione non sia il mezzo meno adatto per l’apprendimento, perché passa e va, e non concede tempo alla riflessione. La televisione può essere educativa, ma non istruttiva, informa, ma non forma. L’idea è quella di mescolare intrattenimento e informazione per creare una forma mentis più recettiva in senso ampio. I programmi culturali devono limitarsi a incuriosire, ad appassionare, ma l’approfondimento avviene in altra sede.

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Capitolo 1.

Il tempo in televisione: dalla storia all’eterno presente

«Quando l’immagine di Nelson Mandela ci risulta più familiare della faccia del nostro vicino di casa, qualcosa è cambiato nella natura della nostra esperienza quotidiana.» (A. Giddens)

1. La Storia e il flusso continuo televisivo

L

a storia è una materia che in televisione finisce per esserci perché la televisione oggi è la Storia stessa. La televisione ha fatto sì che nella rappresentazione complessiva della nostra storia siano presenti, oltre alle battaglie e agli scontri politici, il costume, la moda, l’intrattenimento, l’informazione. Tutto entra a far parte della storia quotidiana nella quale siamo coinvolti. Il palinsesto televisivo, la telecamera, la fiction fanno la storia, spesso in diretta: il crollo delle Twin Towers (evento spartiacque, conclusione della traversata iniziata alla fine degli anni Ottanta con il crollo del muro e la prima guerra in Iraq, che segna l’approdo definitivo della Storia e del modo di rappresentarla, all’illusione della storia in diretta, al mito della visibilità totale) lo dimostra. Oggi la televisione è il luogo di dispiegamento – reale, simbolico o meramente retorico – dei fatti storici, che, si suppone, non si sottraggano più all’occhio del visibile (anche se, ovviamente, il mito della visibilità totale lascia fuori ampi coni d’ombra). Calando sulla televisione i paradigmi interpretativi utilizzati nel cinema, si può dire che la televisione, da strumento di testimonianza, si è trasformata in agente di storia. Allo stesso tempo, però, in modo paradossale, la televisione è considerata uno strumento di alienazione della memoria e di conseguenza, della perdita della Storia, a causa dell’enfasi che essa porta sulla presentificazione del proprio discorso. Il flusso televisivo preferisce la dimensione del presente ai danni della memoria del passato. La televisione ha fatto collassare la distanza tra presente, passato e futuro che erano alla base della nozione di ciò che chiamiamo Storia. Oggi l’evento è Storia nello stesso istante in cui è trasmesso.

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La ‘storia’ senza Storia. Parte III.

Tutti questi saranno i temi che cercheremo di investigare in questo primo capitolo affrontando argomenti che apparentemente non hanno nulla a che vedere con la Storia, ma che in realtà servono a dimostrare come la televisione, attraverso il circolo vizioso creazione dei bisogni-spettacolarizzazione-eterno presente, sostituisca la memoria individuale e collettiva con il consenso su ciò che bisogna ricordare e come bisogna ricordarlo. In televisione si alternano storia e fatti di cronaca, spettacoli ed eventi drammatici, informazione e pubblicità, in un flusso continuo che impone un unico sistema di consumo. Siamo così convinti che il mondo non abbia più veli che confondiamo la visibilità con la verità. A causa della presenza totalizzante del medium televisivo, lo spettatore vive a domicilio questo stato di sovrainformazione perpetua che in realtà è una sottoinformazione cronica. Avviene, così, che la Storia come idea di trama legata da una sorta di continuità tende a lasciare il posto a una galleria di immagini passate dal piccolo schermo. Il passato viene divorato da nuove immagini che sostituiscono le vecchie. «Della storia ufficiale interessa sempre meno – fino ad apparire fastidioso – il suo procedere per logiche di lungo periodo, le sue spiegazioni fondate su una concatenazione di cause e conseguenze. La storia ricostruita dai media non procede per ordine logico, ma per associazioni, per richiami prevalentemente emotivi. Una storia che non spinge a valutare, ma solo a far ricordare o far riprovare le immagini di quei momenti. Una storia ricostruita più da immagini che da parole. Il passato (anche prossimo) tende così ad essere cancellato, le radici individuali e nazionali sbiadiscono»1. Per questo c’è sempre più sete di Storia, ma la risposta che se ne offre, vale a dire la proposta di una sua onnipresenza mediatica (in particolare televisiva), nella misura in cui non elabora soluzioni autentiche, non fa altro che aumentare la sete. Non è altro che un dissetare un assetato con dell’acqua salata.

2. L’eterno presente come anelito al superamento della fine In televisione realtà e rappresentazione della realtà tendono a confondersi, spesso al punto che il vero appare meno vero del verosimile. La 1. M. Rivolsi, La realtà televisiva. Come la televisione ha cambiato gli italiani, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 37-38.

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1. Il tempo in televisione: dalla storia all’eterno presente

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diretta alimenta questa confusione. Gli eventi in ripresa diretta danno la sensazione allo spettatore di essere partecipe dell’evento ripreso. In realtà egli vede solo la prospettiva offertagli dall’inquadratura, una sorta di costrizione non gli permette di muovere lo sguardo liberamente, e perde, in realtà, l’essenza di ciò che sta vedendo come l’atmosfera, le sensazioni o l’interpretazione delle cose stesse. Tutto questo presente virtuale alimenta nella società danni incalcolabili, come l’illusione del superamento della fine (intesa come morte individuale e come fine della storia). Andare alla deriva in un “eterno presente” cambia il modo di sentire l’esistenza (che ha senso proprio in virtù della sua finitudine), e cambia il modo di sentire la storia (che, a sua volta, ha senso solo in virtù di un tempo che scorre verso una direzione e che può essere raccontato). La tesi di questo discorso, che si tenterà di dimostrare attraverso l’analisi dei reality show e attraverso i racconti per immagini dalle guerra, è che l’onnipresenza dell’eterno presente, della vita in diretta produce proprio l’illusione del superamento di ciò che mostra, vale a dire del “tempo”, del suo scorrere e, dunque, del concetto di “finitudine”. Pertanto l’onnipresenza della realtà produce l’illusione del superamento dello scorrere del tempo e, come conseguenza, la fine del senso della Storia. Quindi l’eterno presente modifica sia l’aspetto individuale e personale sia l’aspetto sociale e collettivo, quindi comunitario. La memoria individuale e la memoria collettiva, la storia singola e la storia della comunità, sono in crisi, in quanto esse hanno senso in virtù della loro fine. La vita umana è tale proprio in virtù della sua umanità, quindi della sua mortalità. Come diceva Heidegger, la vita prende senso a partire dall’essere per la morte, e parallelamente, come sappiamo, nella tradizione del pensiero occidentale il problema della Storia umana si articola a partire dall’orizzonte di senso della sua fine che è la conclusione di essa attraverso il rinnovamento escatologico della Storia stessa. Ed anche nella filosofia della storia, eredità della teologia della storia, il paradigma di riferimento, seppur laicizzato, rimane questo, vale a dire una fine immanente alla storia. Eppure oggi il mondo occidentale, nell’individuo così come nella comunità, è preso da un delirio di eternità, che ha come corollario pericoloso l’illusione di onnipotenza, entrambi figli del sogno tecnocratico contemporaneo.

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La ‘storia’ senza Storia. Parte III.

Le potenzialità tecnologiche spingono l’immagine di noi stessi (come singoli e come comunità) oltre le potenzialità effettive di noi medesimi, del nostro essere che, attraverso questa rimozione del limite della finitudine, attua l’oblio della fine. L’eterno presente individuale (dato dall’immagine virtuale) e la fine della storia intesa non come termine del procedere storico ma come venir meno del concetto di Storia rivelano la sete di eternità, il delirio umanista-positivista che è alla base di questo discorso. L’utopia contemporanea, che investe sia il singolo che la collettività è il tentativo di affermare l’ideale dell’immortalità in tempo reale. Il tentativo di eternizzare il presente attraverso l’elusione della fine2. Questo viene confermato dall’analisi delle figure radicali del dolore e della morte, dalla capacità di ricezione che se ne ha, e da come queste ci vengono offerte nella comunicazione contemporanea. Ci si può chiedere, infatti, che possibilità di udienza abbia presso l’uomo di oggi, turbato e distratto, quella originaria figura del tragico, quale sia la sua rappresentazione. Oggi di fronte al tragico e al dolore si rimane attoniti, sembra che sia qualcosa che non ci appartiene più, non sappiamo come relazionarci ad esso. E tutto questo è strano perché la cultura di oggi pur permeata sul dolore, sul tragico, sulla morte sembra preferirne l’occultamento. La morte, la pazzia, il dolore, sono completamente rimosse, nascoste, mistificate dalla società e riscoperte solo per essere spettacolarizzate, per diventare bene di consumo mediatico. Nella cultura di massa gli atteggiamenti più accreditati nei confronti delle figure del tragico sembrano essere tre: 1. la rimozione (il dolore, il tragico non cade sotto il dominio della ragione della spiegabilità e dunque occuparsene sarebbe ostinata follia); 2. la minimizzazione, che riduce ottimisticamente il limite fatale del dolore e della morte come condizione che si prospetta superabile grazie alla scienza e alla tecnologia. Un esempio banale è dato dall’estetica superficiale della bellezza. Non si accetta che il nostro corpo invecchi, che decada (si ricorre al fitness, alle diete, alla chirurgia estetica), un

2. Questa intuizione molto importante era già stata individuata dal testo di Abruzzese, A. Cavicchia Scalamonti, A. La felicità eterna: la rappresentazione della morte in TV e nei media, Nuova ERI, Torino 1992. Molte delle ipotesi sono state poi confermate nelle peggiori delle conseguenze.

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1. Il tempo in televisione: dalla storia all’eterno presente

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modello giovanile di bellezza che la televisione tende a diffondere e che condiziona sempre più la società; 3. l’esorcizzazione: forse l’atteggiamento più rozzo, che riduce l’elaborazione del tragico attraverso una rappresentazione mistificante come la spettacolarizzazione del dolore, della morte, della guerra; questo atteggiamento è presente soprattutto nei mass media e nella loro comunicazione per immagini; l’effimero sogno di eternità comporta una rimozione del negativo, del tragico attraverso la spettacolarizzazzione di esso. Ma in tutti i casi la spettacolarizzazione del dolore ha trasformato gli spettatori in voyeuristi e il segreto del successo sta nell’eccesso, nella sovrabbondanza, nella saturazione. E questo vale sia nelle notizie, che nell’informazione, sia negli spettacoli. La situazione delineata implica chiaramente un’eliminazione del “lavoro di elaborazione del lutto” nella quale si verifica una specie di “rimozione omeopatica” distillata a piccole dosi di dolore e morte che sono poi le metastasi del tumore che investe la società nel suo rifiuto della morte. L’impossibilità di risolvere il problema della fine (semplicemente perché il problema è insolubile, sia nell’esistenza così come della storia, se non attraverso l’umiltà del riconoscimento della finitudine stessa) fa si che questo non venga neanche affrontato, né tanto meno si elabori. Ci si converte all’eterno presente e all’annullamento delle distanze nello spazio fisico. Si tratta di un’immortalità tecnica in cui la morte e la fine sono illusoriamente annullate.

3. Il flusso continuo come autofagia e spettacolarizzazione La televisione di qualità non esiste. Semmai esistono programmi di qualità. Bisogna andare a cercarli, scovandoli dentro le reti generaliste, individuandoli dentro canali tematici, con indagini degne di un Blade Runner mediatico. L’intento pedagogico e educativo degli esordi della televisione si è via via trasformato nel processo tuttora in atto dove la realtà viene spettacolarizzata, anzi è la stessa condizione umana a divenire spettacolo. La televisione è diventato un flusso continuo così incapace o volontariamente distratta dal non intuire l’impatto e i risultati di ascolto di un evento di qualità, non corrotto dalla televisione stessa. Si preferisce

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La ‘storia’ senza Storia. Parte III.

spremere al massimo i vecchi formati. La televisione insomma mangia se stessa. Si tratta di un buon esempio di autofagia. Siamo arrivati a guardare qualcuno che sta guardando qualcosa. Personaggi più o meno noti che guardano partite di calcio, o che vanno a ragionare insieme ad altri soliti noti in programmi dedicati ad altri programmi. Nel gergo televisivo vengono definite “ospitate”. La televisione mangia se stessa e lo fa nella maniera più ovvia: quando un programma funziona perché non farne uno simile? Le strategie economiche delle grandi case di produzioni di Hollywood del periodo classico erano ricalcate sulla serialità; vale a dire che se durante una stagione aveva avuto successo un film metropolitano con il protagonista zoppo e l’altro con i capelli biondi, la stagione successiva si riproponeva un film di degrado metropolitano con il protagonista zoppo e l’altro con i capelli biondi. Poi, visto che sostanzialmente si ignoravano i motivi del perché del successo del sistema degrado urbano-zoppo-biondo si proponevano delle varianti, ovvero un film metropolitano con un protagonista sordo e il coprotagonista dai capelli rossi, e così via come un film sulla provincia con un cieco e un ragazzo dai capelli nerissimi. Un po’ come il gioco della pentolaccia, vale a dire agitarsi a casaccio tirando un numero di colpi maggiore possibile: prima o poi si fa centro. Le strategie televisive del nuovo millennio non sembrano essere cambiate poi molto. Se un programma ha avuto successo se ne fanno altri mille simili o con poche varianti. Questo è stato visto con l’esplosione dei reality e anche con le fiction storiche e più in generale con la presenza della Storia in televisione. Non ci si chiede il perché del suo successo, ma si tira la corda fino all’esaurimento della scorta e dei modelli proposti. Eppure non sempre la matematica riproposizione o addirittura una somma dell’evento portano a una reduplicazione degli ascolti: spesso non sono gli autori o gli interpreti ma il programma e la fascia oraria a determinare il successo di un programma3. 3. Tra gli esempi più evidenti di questo effetto vi è il fatto della prima serata di Rai1 che sembrava aver scoperto il vaso di pandora attraverso il programma Affari tuoi condotto da Paolo Bonolis. Ascolti record. Al suo posto ci mettono Pupo e il programma va avanti uguale con gli stessi ascolti. Se è vero che non è determinante in sottrazione questi passaggi non sono efficienti neanche in addizione. A Mediaset hanno ingaggiato Bonolis, “re dell’audience” e anche i diritti del calcio (da sempre, in Italia, fonte inesauribile di spettatori ) decidono di mettere insieme le due cose per una somma algebrica esplosiva, e invece il risultato è un flop colossale che collassa su se stesso dopo poche puntate.

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1. Il tempo in televisione: dalla storia all’eterno presente

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La televisione mangia se stessa e lo fa attraverso un’operazione di riciclo che offre la possibilità di vedere Schegge di spettacoli passati. Lo fa ormai da più di dieci anni attraverso operazioni intelligenti e divertenti come Blob che, grazie a un processo di ibridazione e condensazione che non ha pari4, tratteggia percorsi di senso o non senso illuminanti sul significato della televisione; ma anche con altri programmi come quelli che hanno la matrice dei tre ragazzacci della Gialappas Band con i vari Mai dire… di cui l’ultimo genito Mai dire Grande Fratello e figli è una sorta di autofagia in cui non guardiamo ma ascoltiamo della gente (i tre ragazzi della Gialappas Band, appunto) che commenta dei pezzi di televisione. Attraverso il frammento dello sberleffo disegna un’autofagia che, come nel caso di Blob, non è necrofilia ma vivo e intelligente nutrimento. Anche l’informazione è diventata preda del flusso continuo. L’imperativo diventa catturare lo spettatore attraverso l’enfasi, la ridondanza. Si drogano le notizie a sensazione per spettacolarizzare l’evento, fino ad arrivare alla morte in diretta ripresa con dovizia di particolari e con scarso rispetto per chi ne è vittima. Il programma La vita in diretta è rappresentativo in questa direzione fin dal titolo, anche se i danni che produce in termini di immagini sono incalcolabili: l’idea che il mondo sia fatto di attricette, calciatori, modelli, personaggi che vivono solo all’interno di party esclusivi è un concetto devastante per l’immaginario comune. Sono immagini che fanno male alla società ma bene all’audience. Da un lato poi questi personaggi vengono circuitati nella categoria degli “sconosciuti di ritorno” nei reality show ovvero personaggi che, secondo il teorema di Andy Warhol (il quale ha concesso a ogni persona del “villaggio globale” di essere famosa per almeno 15 minuti) è stata famosa per poco più di una stagione e ora si ricicla senza fare nulla, ma attraverso la visibilità fine a se stessa. D’altro lato c’è la categoria degli “aspiranti a qualcosa”, personaggi che aspirano a ricoprire qualche ruolo nello show business senza averne assolutamente le qualità e dunque in realtà aspirano ad essere famosi per quei celebri 15 minuti per poi appartenere di diritto alla categoria precedente degli “sconosciuti di ritorno” che frequentano ambienti modaioli con smanie di protagonismo.

4. Cfr. G. Gennaro, Blob: la televisione e il suo doppio, Il Grappolo, Salerno 1997.

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La ‘storia’ senza Storia. Parte III.

La cosa strana dunque non è tanto che i reality si moltiplichino. In fondo, come detto, quando qualcosa ha successo la cosa più semplice del mondo è copiarla. La cosa strana piuttosto è il numero di persone che in televisione si affanna a spiegarti che il reality è una cosa seria. Perché la televisione mangia se stessa, non butta via niente, nemmeno coloro i quali hanno avuto i loro 15 minuti di notorietà e vengono riciclati o come concorrenti o come opinionisti. È l’icona a vincere sulle parole. Non ricordiamo più bene quello che sapeva fare il tale personaggio in origine (era un filosofo, un calciatore, una scrittrice, un cantante, un politico…); sappiamo solo che ora è lì a commentare le gesta di altri personaggi dei quali si è persa memoria dell’originale ruolo. I personaggi che non sanno fare nulla che partecipano al grande fratello generale, quello più grande televisivo globale si inventano il mestiere di ospite televisivo, e vengono riciclati in ogni programma di intrattenimento o talk show perché il quantitativo del successo non si misura in preparazione, ma in spazio televisivo: non è quanto sei bravo, ma quanto appari in televisione a decretare il tuo successo. Ed allora dopo il racconto della simulazione spacciata per realtà anzi per reality, di cui si gonfiano i dati dell’auditel, si passa a quell’altro orrore narrativo dei Talk show, in cui ridicole compagnie di giro di soliti noti televisivi riversano sullo schermo la loro mediocrità: nella tv del dolore a ogni ora del giorno e della notte e su qualunque rete, portatori insani di malattie esotiche s’avvicendano a madri separate con figli al di là del mondo. Incidentati superstiti del sabato sera si alternano agli infartati da stadio della domenica. I bulimici del mercoledì si susseguono agli anoressici del giovedì. La televisione del dolore è fatta così. È aggressiva, bituminosa, lavica, ma basta un’interruzione pubblicitaria, un piccolo break e non rimane nulla5.

4. Il reale in diretta come emblema dell’eterno presente La televisione ha cambiato i suoi telespettatori, e a loro volta, questi cambiano la televisione. L’induzione di nuovi bisogni (se si vuole di nuove dipendenze) negli spettatori fa sì che questi esigano sempre nuove e più massicce soddisfazioni di quei bisogni. 5. Cfr. G. Mininni,, La comunicazione finzionante. Io, la televisione, Milano, Franco Angeli, 1995.

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1. Il tempo in televisione: dalla storia all’eterno presente

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Prendiamo come prima cosa i reality, questi rappresentano una simulazione di realtà simile a quella che si realizza al computer quando si seguono le possibilità di vita che hanno determinate cellule in condizioni particolari. La cosa strana è che tutti coloro che li seguono sono convinti che i reality show siano un oggetto di spettacolo, di più, un oggetto artistico. Il che risulta fin troppo singolare perché raramente si arriva a definire avvincente o divertente una situazione come il seguire le possibilità di vita che hanno le cellule in condizioni di malattia. Se un gruppo di psicologi rinchiude 12 persone in una casa per studiarne le dinamiche di gruppo (esperimenti all’ordine del giorno nell’antipsichiatria degli anni Settanta) difficilmente si aspetta di ottenere risultati che siano dell’ordine di bello o brutto. Eppure con i reality succede così. Le categorie interpretative sono bello-brutto, mi piace-non mi piace, mi annoia-mi diverte. Si tratta di un sistema dinamico, determinabile nel suo andamento generale ma intrinsecamente imprevedibile nelle sue funzioni singolari ed estemporanee. Sono le presunte sofferenze dei protagonisti, costretti dall’autore a privazioni, sforzi e prove di sopravvivenza che fanno andare il reality come si vuole. Un vero e proprio esperimento scientifico. Nella televisione voyeuristica del dolore, il valore delle lacrime si misura in lacrime versate dagli spettatori6 e allora l’ansia dei telespettatori di farsi protagonisti, viene sublimata prima con l’identificazione nei confronti di un concorrente poi con il televoto (vera “carognata” televisiva che attraverso quest’ansia di partecipazione guadagna in tre diversi modi: stipula contratti con le compagnie telefoniche, trova i suggerimenti da parte del pubblico, non deve neanche fare ricorso all’auditel in quanto ha già le risposte sul gradimento televisivo gratuite, anzi sono proprio gli spettatori che pagano)7. Ma, come dicevamo, il telespettatore è sempre meno tale e sempre più voyerista. Si è sempre più innamorati della vita colta sul fatto, primitiva, non mediata a tal punto da essere incapaci di guardare se non attraverso il buco della serratura. Una breve considerazione: i media che sono la mediazione per eccellenza, come dice la parola stessa, ormai offrono la vita senza mediazione. 6. Cfr. G. Gili, La violenza televisiva, Roma, Carocci 2006. 7. M. Marturano-M. Villa-N. Vittadini, Cittadini, giudici, giocatori: le forme di partecipazione del pubblico nella neotelevisione, RAI-ERI, Roma 1998.

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La ‘storia’ senza Storia. Parte III.

Tutto questo non sarebbe così grave se rimanesse fine a se stesso, se girasse come si dice in gergo, a vuoto, se non facesse parte di un piano un po’ più grande che comporta come detto l’abbattimento del senso critico della coscienza e la trasformazione del telespettatore in voyerista che crede sia vero tutto ciò che passa in tv. E questo fa gioco per argomenti ben più gravi come quello della comunicazione per immagini della guerra, definita la Storia in diretta. Come detto la tv è capace di inglobare e metabolizzare anche le immagini più dolorose della morte e riconvertirle in immagini dello spettacolo, spacciandole per cronaca. Anche in questo caso vi è una sorta di rimozione catartica della morte. «Le immagini apparse per un attimo sullo schermo e immediatamente dimenticate, che non lasciano traccia nella memoria e nell’immaginario individuale e collettivo: è materiale che serve a fare flusso…»8. Le informazioni come tutte le altre immagini televisive sono soggette alla dispersione, alla non sedimentazione nella memoria. Per due motivi: il primo dipende dalla ripetitività della notizia. Come in tutte le cose televisive, una cosa che ha ascolto tende ad essere ripresa e riproposta, così anche le notizie. Spesso vengono ripetute, ma anche quelle più interessanti corrono il rischio di perdere smalto e di svanire nell’oblio della dimenticanza alla ennesima volta che questa viene ripetuta più o meno con le stesse immagini e con le stesse parole. Poi quando la notizia in sé ha perso completamente il suo potenziale si clonano notizie simili, quasi a livello seriale: per cui in un certo senso si aprono rubriche nei telegiornali. Il secondo punto della mancata ricezione delle notizie è l’enorme quantità, che costringe necessariamente a una selezione del ricordo. Di fronte alla narrazione per immagini che l’informazione, attraverso la sua spettacolarità descrittiva ci offre, il nostro stato d’animo è quello di un’“eccitata indifferenza”; la credibilità e la verosimiglianza si sostituiscono alla verità. Spento il tg si mangia.

8. M. Rivolsi, La realtà televisiva. Come la televisione ha cambiato gli italiani, op. cit., p. 31.

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1. Il tempo in televisione: dalla storia all’eterno presente

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5. La guerra in diretta È solo da questo secolo che si hanno notizie delle guerre in corso senza attendere i racconti dei reduci o i lavori degli artisti e degli storici. I giornali prima e la radio poi, hanno avvicinato il fronte a chi ne era lontano. La guerra è diventata così oggetto dell’informazione. Oggi abbiamo testi che raccontano l’esperienza quotidiana di un giornalista in guerra alle prese con la propaganda militare, che alle difficoltà sul campo aggiunge le sue smanie di protagonismo, creando una sorta di documentario dal fronte, con al centro il rapporto quasi incestuoso tra informazione e guerra. «Arriva la guerra, arrivano le bugie», dice un vecchio proverbio tedesco fatto proprio dallo storico Marc Bloch9. «Quasi novant’anni dopo» scrive Pietro Suber nel suo testo Inviato di guerra, «la citazione sembra calzare a pennello nell’era del giornalismo spettacolo, in cui verifica delle fonti e regole deontologiche lasciano sempre più spesso il posto al colpo a effetto, allo scoop a tutti i costi»10. E’ difficile raccontare l’esperienza del conflitto così come farne storia. Ancora più difficile districarsi oggi nei racconti di quelle che Baudrillard definisce “guerre post-moderne”11 in cui risulta impossibile separare la ricostruzione storico-documentaria dalla melassa propagandistica e dall’informazione mediatica. I contemporanei eventi bellici sono sottoposti alla dittatura mediatica, nuovo crocevia della retorica contemporanea, una retorica subdola e settaria che copre il vuoto di senso e di pensiero attraverso l’enfasi e la ridondanza informativa che rende impossibile distinguere il vero dal falso. In effetti la propensione sempre più forte a spettacolarizzare la notizia ha creato, soprattutto nel mondo dell’informazione televisiva, la nuova pericolosa tendenza rappresentata dal neologismo infotainment, dove l’information, le news, insomma l’informazione si confonde in una miscela esplosiva con l’entertainment, l’intrattenimento leggero da prima serata. Dunque si tratta di un’ informazione più soft nei contenuti e nelle spiegazioni, meno approfondita e più superficiale, senza riscontri, ma più

9. M. Bloch, La guerra e le false notizie, Donzelli, Roma 1994. 10. P. Suber, Inviato di guerra, Laterza, Roma 2004, p. VIII. 11. Cfr. J. Baudrillard, L’illusione della fine o lo sciopero degli eventi, Anabasi, Milano 1993.

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La ‘storia’ senza Storia. Parte III.

aggressiva condita dal colore a tinte forti delle immagini di stragi, attentati, esecuzioni in diretta o liberazioni strappalacrime. La spettacolarizzazione della realtà e l’avanzata dei nuovi metodi di comunicazione come la rete, i satelliti, i palmari, rischiano di mutare essenzialmente le caratteristiche del racconto di guerra. La guerra diventa un grande evento, da cui trarre vantaggi economici non solo sul terreno geofisico ma soprattutto in quello mediatico e inoltre, conseguenza più grave di questo sistema, le telecamere che dovrebbero testimoniare diventano sostanzialmente l’arma di giustificazione di ciò che sta accadendo, lo strumento per creare consenso e condizionare l’opinione pubblica. È dalla prima Guerra del Golfo, infatti, che avanza una nuova strategia, messa a punto dall’amministrazione Reagan, che punta a ribaltare il rapporto tra i governi e i mezzi di comunicazione. Dopo la guerra in Vietnam, che rimase per l’amministrazione americana una sconfitta dovuta anche e soprattutto ai media, si decise per la totale censura. Le operazioni militari degli Usa dalla fine degli anni Settanta fino alla metà degli anni Ottanta furono compiute evitando accuratamente qualsiasi testimonianza diretta sul campo. Ai giornalisti fu permesso di arrivare e raccontare quando il “colpo di stato” e l’“elevazione del dittatore di turno” era già stata effettuata. Ma così si creavano i presupposti per una ricostruzione dell’intervento militare da parte della stampa libera, e gli svantaggi della censura ne superavano i benefici. Tutto cambiò alla fine degli anni Ottanta. Tre sono gli eventi che sconvolsero il modo di raccontare un evento bellico: la rivoluzione in Romania con la caduta di Caucescu, la sollevazione popolare nella Germania dell’Est con il crollo del muro di Berlino, la Guerra nel Golfo e la prima “guerra in diretta”. Visti gli effetti rivoluzionari che potevano creare le immagini in diretta di questi eventi si decise di adottare su larga scala il metodo del news management e il corrispondente venne attirato all’interno di un processo produttivo dell’informazione basato sulla fabbricazione del consenso. Tanto che sin dalla guerra in Jugoslavia, accanto ai militari, entrarono in azione le grandi agenzie pubblicitarie americane. Lesile Lanka, consulente del gruppo dei comunicatori reaganiani, spiega così la nuova dottrina «arrivammo alla conclusione che i media si sarebbero nutriti di quello che gli veniva dato. Lo slogan è manipolazione attraverso l’inondazione»12. 12. Citato in C. Fracassi, Bugie di guerra, Mursia, Milano 2003, pp. 11-12.

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1. Il tempo in televisione: dalla storia all’eterno presente

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Ed all’orizzonte si profila l’era della divulgazione totale, o presunta tale. Vi è un’illusione collettiva. Il conflitto nella ex-Jugoslavia, la caccia ad Al Queda in Afghanistan, la prima e la seconda guerra nel Golfo saranno le prime guerre “in diretta”. Ciò che vi accade si saprà in tempo reale. Non ci sono più eventi lontani: l’illusione di assistere-vedere è così forte che ci fa credere di essere presenti, di parteciparvi. Le guerre in televisione non devono neanche più sembrare giuste. Retorica e censura producono, nella rappresentazione televisiva delle guerre, nuove e più attuali elaborazioni-giustificazioni. Dalla guerra in Kosovo in poi ne è derivata una sorta di simbiosi tra comunicazione, guerra e spettacolo. Si diceva del neologismo infotainment, con la creazione di notizie ben selezionate, che vengono passate a reporter e inviati con il supporto di immagini spettacolari e impone di fatto un’unica fonte di verità senza alcuna possibilità di verifica sul campo. La guerra non è più lontana in teoria si potrebbe seguirla come se fossimo presenti. Ma la guerra in televisione è realtà virtuale, fatta di spezzoni, di sequenze, di immagini isolate e di repertorio. Le informazioni non vengono più dai giornali, ma dal Pentagono, o dagli accoliti di Bin Laden. Non ci sono operatori o registi che autonomamente ci possano dare vera documentazione. Oggi vediamo solo una messa in scena del conflitto in corso, oppure i soliti cieli solcati da stelle e lampi (il mito della visibilità totale si risolve nello sbirciare dal buco della serratura confermando la trasformazione dello spettatore in voyerista). Nell’impero dei media il mostrare è sinonimo del dimostrare, ma, scriveva Baudrillard a pochi mesi della fine del primo conflitto in Iraq, quattordici anni fa, quando già lo si era dimenticato: «la semplice amnesia è una conferma dell’irrealtà della storia di questa guerra tanto più sovraesposta ai media, tanto più sottoesposta alla memoria»13. Badate bene l’irrealtà della cronaca che se ne fa, del racconto ai telespettatori, non della guerra in sé, purtroppo crudele e cruenta. Il sociologo francese individua il depotenziamento della narrazione storica proprio nella catastrofe virtuale che viene riconvertita in bene di consumo spettacolare. La riproduzione seriale, mediatica della catastrofe bellica mette in discussione la struttura lineare del divenire storico insieme a ciò che lo sorregge, vale a dire il nesso di causa ed effetto. 13. J. Baudrillard, L’illusione della fine o lo sciopero degli eventi, op. cit., p. 121.

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La ‘storia’ senza Storia. Parte III.

Nella macro storia, quella geopolitica, la struttura della ricostruzione storica si è sempre basata sul rapporto causa-effetto: a una causa corrispondeva un effetto, e di ogni effetto studiato si ricercava la causa. Tale nesso causa-effetto viene messo in discussione nel senso che quest’ultimo viene sopra-dimensionato rispetto alla causa supponendo così un effetto senza cause, proponendo così la storia come una serie di effetti gonfiati mediaticamente. Certo, nella società e nella cultura contemporanea la grande narrazione, emblematicamente rappresentata dal racconto speculativo, ha perso di credibilità. Ed allora alle macro storie si sono sostituite le micro storie, alla Storia dell’umanità con la S maiuscola si sono sostituite le tante storie, le cosiddette microstorie, e dalla monocausalità, si è giunti alla pluricausalità, tant’è che nessuno crede più a un’unica causa che giustifichi gli eventi storici. Ed invece «la storia in tempo reale è la CNN, è l’informazione istantanea, l’esatto contrario quindi della storia. Ma è questo il nostro fantasma di superamento della fine, di superamento del tempo»14. Con la storia in tempo reale è la storia stessa che si rivela impossibile. Quando il mondo in tempo reale e le immagini virtuali del mondo ci conducono al di là del mondo reale si va al di là dell’ordine naturale delle cose e questa aspirazione assurda coinvolge nella vanificazione, nel venir meno, tanto la storia quanto la sua fine. Questo tentativo qualificabile dice Baudrillard come “follia dell’immortalità” è il tentativo, l’illusione di una perfezione raggiunta. Ma l’illusione dell’abolizione della morte e il venir meno della morte in storia (ripetiamo, illusione, perché la morte rimane e il procedere storico pure) equivale alla perdita della propria ombra. Infatti per Baudrillard noi oggi tendiamo a eliminare ogni limite, spaziale e temporale, ogni orizzonte di finitudine, costruendo un limite senza limite; però tale estremo limite ci porta all’esaurimento, vale a dire alla vanificazione e all’autoschiavizzazione oppressiva della propria esistenza. In questa schiavizzazione vengono coinvolti tanto l’individuo quanto il sociale. Per ciò che riguarda l’individuo, egli è reso omogeneo e funzionale agli altri individui, paradossalmente rincorre l’ideale di un individualismo posticcio esasperato; ovviamente si tratta di un processo contraddittorio che evidenzia e nel contempo annulla le differenze. «L’individuo identi14. Ivi, p. 123.

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1. Il tempo in televisione: dalla storia all’eterno presente

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tario vive del ritornello e dell’allucinazione della differenza, utilizzando a tal fine tutti i dispositivi di simulazione dell’altro, è la prima vittima di questa teoria psicologica e filosofica della differenza, che in tutti i campi sbocca sull’indifferenza a se stesso e agli altri. La differenza è la malattia infantile del soggetto (della nostra cultura e in generale), e la follia identitaria (la de-differenziazione di sé, l’indifferenza a se stessi) ne è la malattia senile»15. Alla guerra ci si abitua come a tutto ciò che passa in televisione. L’assuefazione alle immagini e alle cose dette ha prodotto un’assuefazione più grave al dolore che esse rappresentano. Le immagini si guardano oggi senza provare più niente, preda della noia e della distrazione forse addirittura con un po’ di fastidio. Come si diceva, a questo aspetto sociale dell’individuo corrisponde il venir meno della memoria collettiva. «La dissuasione è riuscita occorre abituarsi all’idea che non c’è più fine che non ci sarà più fine che la storia stessa è diventata interminabile. Così quando si parla della “fine della storia”, della “fine del politico”, della “fine del sociale”, della “fine delle ideologie”, non c’è niente di vero. La cosa peggiore è appunto che non ci sarà fine di nulla, e che tutto questo continuerà a dispiegarsi in modo lento noioso e ripetitivo»16.

15. Ivi, pp. 146-147. 16. Ivi, p. 156.

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Capitolo 2.

I nuovi format che riguardano racconti del passato

«Il ricordo viene alla memoria spontaneamente come segno non di se stessa presente, ma di un’altra cosa assente. Una traccia non è la cosa ma è l’impronta di una cosa assente.» (P. Ricoeur)

1. Nuovi Format

C

ome si è visto nel capitolo precedente, negli ultimi anni è emerso e si è attestato l’uso di termini stranieri (in particolar modo inglesi) per definire certe cose inerenti alla televisione; ne vogliamo elencare alcuni, dandone specifica definizione perché in seguito ne faremo uso. Tra i primi termini cha abbiamo imparato a usare c’è senza dubbio audience (numero medio dei telespettatori di un determinato programma), share (rapporto percentuale fra il pubblico di un determinato programma di una fascia oraria, di una rete, e il totale degli spettatori che seguono la televisione nello stesso arco di tempo), prime time (è la fascia oraria più pregiata e competitiva del palinsesto, cui corrisponde il più vasto bacino d’ascolto, in Italia il prime time va dalle 20:30 alle 22:30), il daytime (l’insieme delle fasce orarie del mattino e del pomeriggio, caratterizzato per lo più da una programmazione “a striscia” vale a dire lo stesso programma nella stessa collocazione oraria giorno dopo giorno, ideale per la lunga serialità) e infine il time slot (ciascuno dei blocchi orari in cui è suddiviso il palinsesto; in Italia le principali fasce orarie sono il daytime, il preserale, il prime time, e la fascia notturna; alle diverse fasce orarie corrispondono differenti bacini di ascolto la cui maggiore o minore ampiezza determina il valore economico che le diverse fasce orarie rivestono per investitori pubblicitari ed emittenti). Il termine che più ci interessa in questa parte è senza dubbio il termine format, un termine intermedio tra la categoria di genere e il singolo programma. Nel corso degli anni Novanta si afferma definitivamente il concetto e la realizzazione del format, ovvero l’idea originale di un programma con una struttura testuale relativamente aperta

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La ‘storia’ senza Storia. Parte III.

e pronta all’adattamento per la rete e la realtà locale. Si tratta di uno schema completo e dettagliato di un programma tv, minuzioso di articolazione dei contenuti, che possono poi di volta in volta variare all’interno di quella struttura. Essendo un prototipo spesso già sperimentato il format può essere declinato a seconda della situazione sociale. Il format necessita di un vero apparato produttivo che realizza prodotti il cui utilizzo (potenzialmente) va al di là del primo passaggio e dà luogo a un autentico mercato. Prevedere come cambieranno i generi nel futuro è impresa assai difficile. È l’industria culturale televisiva che provvede alla realizzazione dei format che verranno poi mandati in onda nelle televisioni di tutto il mondo. Questo prototipo, date le sue caratteristiche generiche, è uno dei principali oggetti di compravendita nel mercato internazionale delle industrie televisive. Questo si ricollega a quanto detto nel primo capitolo rispetto al ruolo sempre più centrale dello spettatore nel definire le categorie stesse di classificazione, con il proprio consumo dei prodotti televisivi. Al fine del nostro lavoro resta la questione più difficile, e cioè tentare di individuare, se non propriamente dei generi di divulgazione storica nella tv odierna, quantomeno delle tendenze principali. A generi “tradizionali”, oggi si aggiungono una serie di generi “nuovi” classificati sulla base delle loro proprietà: generi trasversali, incerti, indefiniti, transgenici. Certamente per ciò che riguarda la Storia i format non sono così originali come nei casi di quiz, di reality o di altro, e non sono certo oggetto feroce del mercato industriale televisivo; indubbiamente, però, nuove possibilità di racconto della storia sono apparse da qualche anno a questa parte ed è su questo che vogliamo riflettere prima di andare ad analizzare i programmi tv che riguardano la ricostruzione del passato, le tv tematiche sulla storia all’interno dei quali sono utilizzati anche i nuovi format di cui stiamo per parlare.

2. La docufiction La docufiction è un prodotto televisivo che prevede l’accostamento di due entità apparentemente ossimoriche come quella del documentario e quella della fiction. Tradizionalmente, fra i linguaggi televisivi il documentario è senza dubbio quello che più si è prestato alla trasmissione e

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2. I nuovi format che riguardano racconti del passato

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alla divulgazione dei contenuti scientifici. Ma per quanto autori e registi si siano sempre sforzati di “alleggerire” il contenuto dei loro lavori, il documentario tende sempre a costruire un confine netto tra sé e il resto della programmazione televisiva. Non si tratta evidentemente di una mancanza di fantasia da parte degli autori o di un partito preso: è il linguaggio stesso del documentario che impone di definire con precisione l’oggetto dell’investigazione, e quindi i suoi confini. In un documentario dal contenuto storico è necessario che sia ben chiaro cosa è ricostruzione scientifica, quali le ipotesi interpretative e quali i documenti, e cosa non lo è. La fiction – si tratti di sceneggiati, film tv, series, serial, soap, sit-com, telenovelas, drama – ha un altro linguaggio e un’altra retorica. Qualunque trama, per essere avvincente, deve mettere in scena personaggi che vivono solo in quanto interagiscono con l’ambiente sociale in cui sono immersi, quest’ultimo deve essere ricostruito in modo verosimile, soprattutto se poi le dinamiche narrative sono centrate su una situazione caratterizzata dall’evoluzione di una vicenda presentata. Da ultimo, ma non in ordine di importanza, la fiction costa molto, quindi risponde più direttamente a logiche di mercato e rischia spesso di sacrificare l’accuratezza del racconto alle necessità drammaturgiche e alle leggi dell’audience. Un sacrificio che naturalmente non avviene a caso, né inconsapevolmente, né per ignoranza: spesso si tratta della via più semplice e diretta per colpire il pubblico, e in questo senso rispecchia una conoscenza e una comprensione estremamente accurata del pubblico stesso. Eppure, la commistione dei due generi sembra essere diventata la regola più che un’eccezione, fino a sviluppare un vero e proprio format che viene a strutturarsi come programma autonomo oppure inserito all’interno di un programma più ampio che si serve di docufiction. Qui la storia è arrivata tardi: per anni la struttura docufiction è sembrata decisamente più adatta a film su temi sociali, con al centro soggetti di grande impatto emotivo: l’immigrazione, la droga, la prostituzione o legati ai casi irrisolti di cronaca nera. In questa direzione simile alla docufiction è il docudrama: vale a dire la messa in scena di un incidente di un reato o una disgrazia avvenuta realmente. Il vero docudrama cerca di essere il più possibile aderente alla verità dei fatti e spesso in nome dell’accuratezza della ricostruzione, usa i protagonisti reali della vicenda come consulenti.

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La ‘storia’ senza Storia. Parte III.

Anche se un po’ in ritardo, questo meccanismo è stato traslato nella docufiction di natura storica, attraverso il ricorso alla memoria dei testimoni dell’evento che si vuole affrontare (nel caso in cui siano ancora in vita o abbiano lasciato dei documenti scritti o siano conservate loro interviste audio/video). È difficile dire se alla base della nascita della docufiction, in particolare di quella a contenuto storico, vi siano esigenze di mercato, cambiamenti nel gusto del pubblico, evoluzioni del linguaggio televisivo o l’insieme delle tre cose: di fatto, negli ultimi anni è chiaramente osservabile una convergenza sempre più marcata fra il documentario e la fiction che riguarda la divulgazione della storia. Da sempre i film a soggetto storico (in particolare al cinema) tendono a inserire scene di stampo documentaristico (fotografie del passato o filmati d’epoca …); ma soprattutto negli ultimi tempi, sono i documentari storici che tendono a rafforzare la traccia narrativa, a inserire elementi di fiction o a filmare la realtà come i luoghi in cui si sono svolti gli eventi passati, trasformando gli aspetti drammatici in drammaturgici o addirittura a miscelare attori e personaggi reali dando luogo a un prodotto sempre più difficile da definire. Sembrerebbe che il passaggio dal documentario alla docufiction rifletta da vicino il passaggio da una comunicazione della storia basata sulla trasmissione dei saperi a una basata sull’immersione degli stessi saperi nel contesto sociale in cui vanno a tuffarsi. La docufiction è girata in forma documentaristica ma si caratterizza anche per il ricorso a elementi espressivi, stilistici e drammaturgici tipici della fiction per meglio presentare i personaggi e le situazioni agli occhi dello spettatore, orientando così la sua fruizione in una terra di mezzo tra l’interesse verso la realtà – tipico della visione di un documentario – e il “piacere del testo”, “l’illusione di realtà” – tipica della visione di una fiction. La docufiction, quindi, ha come caratteristica quella di narrare il reale usando contemporaneamente due diversi tipi di linguaggio: quello documentaristico e quello spettacolare della fiction. A conferma della parentela con la fiction e con le serie televisive, spesso nella docufiction, il racconto è organizzato secondo i canoni di una struttura seriale, atta a fidelizzare il pubblico, facendo leva sul quel coinvolgimento e quell’affezione verso personaggi e situazioni ricorrenti, che è l’altro elemento di novità e distinzione delle docufiction nell’ambito del documentario. Si capisce bene il perché molte docufiction diventino

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2. I nuovi format che riguardano racconti del passato

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seriali. Nella docufiction ogni evento del passato da raccontare è trattato dall’autore come un soggetto e la sua evoluzione reale come una sceneggiatura. La docufiction è utilizzata ormai di frequente all’interno dei programmi di natura storica nelle televisioni generaliste. Vi sono docufiction sugli Speciali di Superquark di Piero Angela, viene utilizzata su La grande storia di RaiTre o su La macchina del tempo di Cecchi Paone (e su molti altri), ma come detto all’interno del programma. L’uso più frequente di questo format in modo autonomo avviene invece nella tv tematica The History Channel che propone frequentemente docufiction sui più disparati argomenti e periodi storici. Tra le docufiction più interessanti ne segnaliamo tre: I Barbari, andata in onda il 2/05/’04, è incentrata su alcune antiche popolazioni barbariche (Visigoti, Unni, Vichinghi, Mongoli). La docufiction ha ripercorso 1000 anni di scontri e conquiste a opera di popolazioni note dal punto di vista comune ma, in realtà, poco conosciute. Sono precisati contorni nuovi alle vecchie teorie della irruzione immediata nella storia da parte di queste popolazioni, si è parlato di un corso degli eventi più lento. Tra le docufiction più interessanti troviamo poi Le crociate (6-7/11/’05 The History Ch.), una ricostruzione storica prodotta dalla stessa tv in due appuntamenti che ripercorrono gli eventi e i personaggi salienti delle prime tre crociate e dunque dalla presa di Gerusalemme alla sconfitta dei cristiani a opera del Saladino. Sempre tra la ricostruzione storica e la fiction, anche La montagna che esplode (andata in onda il 19/05/’06 su The History Ch.). La lunga battaglia per la conquista del Monte Lagazuoi durante la Prima Guerra Mondiale, in cui la montagna venne assediata dagli italiani che volevano scavare un tunnel nelle sue viscere per sbucare sotto il presidio nemico e farlo saltare in aria. Si tratta di una originale docufiction made in Italy con sopralluoghi nelle località interessate e ricostruzioni molto documentate.

3. La Superstoria Tra i nuovi format che restituiscono il passato in forma originale, va certamente citato il programma La Superstoria di Andrea Salerno e la regia di Igor Skofic. Si tratta di un finto documentario storiografico, un racconto del nostro paese attraverso un montaggio delle migliori gag della comici-

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La ‘storia’ senza Storia. Parte III.

tà italiana comparse sulla Rai. Attraverso un gran lavoro di ricerca e un montaggio intelligente vengono messi insieme i tanti i contributi satirici: da Antonio Albanese a Corrado Guzzanti, da Raiot a Alighiero Noschese, da Paolo Rossi a Daniele Luttazzi e poi ancora Beppe Grillo, Tognazzi, Vianello, vale a dire le migliori gag di “derisione” politico-sociale della televisione. Nel suo racconto paradossale, la superstoria narra, anzi ricostruisce, alcuni momenti importanti della storia italiana recente. Quaranta minuti per ciascuna puntata. La “storia dei comunisti italiani” e quella “degli anni Ottanta”, quella “del centrosinistra”, la storia “del sesso in Italia”, dalla destra allo sport, giovani e donne, l’impero e la televisione e inoltre una puntata dedicata agli ogm, alla ricerca e alle tecnologie. Molto divertente è stata l’ultima edizione, quella in cui attraverso un percorso artificiale, ma in fondo non troppo, il programma si è proposto di investigare il linguaggio di questi anni; la Superstoria si è cimentata con la costruzione di un fantomatico Dizionario del bipolarismo italiano. Le parole della Seconda Repubblica in cinque puntate (da Fard a Devolution, da Buonismo a Cerchiobottismo, da Ribaltone a Inciucio), per raccontare il Paese e le sue contraddizioni. «È un tentativo di mettere ordine nel disordine, anche lessicale, in cui ci troviamo a vivere – spiega Salerno – la necessità di riscrivere il dizionario di parole che hanno cambiato di significato in questi anni, da furbetti a nipotini, da liberismo a comunismo. Anche per questa edizione è stato fatto un notevole lavoro di ricerca e un lavoro di montaggio curatissimo e migliorato rispetto allo scorso anno – sottolinea l’autore – speriamo di offrire un programma suggestivo e di alta qualità praticamente a costo zero per la Rai»1. Il programma di Andrea Salerno (già autore de L’Ottavo nano, Il caso Scafroglia, Per un pugno di libri, Non c’è problema, Parla con me e responsabile del progetto satira di Raitre) propone nel suo lavoro un racconto paradossale realizzato attraverso le immagini, le interviste e pezzi di tv che mediante lo schermo sono già storia. «Il progetto nasce tre anni fa ai tempi della trasmissione Il caso Scafroglia. A me e al giornalista Andrea Purgatori venne in mente di ideare un finto documentario che “prendesse in giro” il revisionismo storico, quasi una parodia della storia. Così facemmo una puntata sul caso Moro, molto strana e complessa, che raccontava 1. http://www.raitre.rai.it/R3_popup_articolofoglia/0,6844,118%5E4519,00.html.

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questa vicenda in modo paradossale»2. Si tratta di un lavoro documentario, una ricerca negli archivi e nelle teche Rai facilitata dal fatto che molti contributi comici sono stati realizzati all’interno di programmi diretti proprio da Salerno. Ma, certamente, l’originalità non sta nel proporre un collage di gag o di comici, lontani negli anni e più o meno legati tra loro da un filo conduttore: lavori di questo genere la Rai (ma anche le altre televisioni nazionali in chiaro) lo ha sempre fatto, per riempire il palinsesto soprattutto in estate. Nella storia della televisione ci sono tantissimi esempi di narrazione di fatti storici raccontati in maniera parodistica. E la satira, come sappiamo, è capace di una sintesi straordinaria. La novità vera e propria è la costruzione di un documentario attraverso gli spezzoni di comicità collegati tra loro da un argomento che lega insieme “pezzo comico” e immagini di repertorio. Il risultato è un percorso di senso in cui ogni singolo pezzo viene introdotto da una voce narrante che ripercorre il sentiero storico del tema trattato sulle immagini di repertorio, per poi di nuovo lasciare spazio allo schetch che a quel punto, oltre ad avere un valore comico, diventa la chiave di lettura della storia dando la sensazione allo spettatore di una sorta di passato-futuro, che guardato a posteriori assume il ruolo di una specie di preveggenza. Come abbiamo visto dagli argomenti delle puntate della Superstoria, i temi del programma sono relativamente attuali, e riguardano il passato recente degli ultimi trenta-quarant’anni. Questo ovviamente perché utilizzando materiale satirico di repertorio, le gag comiche sono ovviamente legate all’attualità del tempo, gag comiche che, con il passare degli anni, diventano a loro volta materiale documentario, che permette di riflettere su un passato recente attraverso il fascio di luce della satira. L’analisi dei fatti storici, volutamente ironica e dissacrante fa si che sì inneschi una riflessione meta-televisiva, che ci permette di riflette sul ruolo del contenitore della Storia che è la televisione. Una sorta di corto circuito temporale che tocca memoria storica-memoria televisiva e parodia dell’attualità. La satira televisiva della cronaca perde il suo ruolo primario a favore di un utilizzo d’archivio delle immagini delle gag; al taglio giornalistico che queste spesso si proponevano, sostituisce la finta ricostruzione documentaria. Si enfatizza l’artificiale ricostruzione attraverso le immagini di quello che 2. Intervista ad Andrea Salerno, autore de “la Superstoria”a cura di Stefano Corradino http://www.raitre.rai.it/R3_popup_articolofoglia/0,6844,118%5E4027,00.html.

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nell’attualità era un percorso contro-informativo; si ricostruisce l’accadimento storico attraverso una lente particolare mantenendo comunque l’obiettivo dell’informazione, che utilizza il percorso del paradosso storico per indurre nel pubblico suggestioni particolari su un determinato evento, periodo o personaggio.

4. L’Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche e Rai Educational Tra i format più interessanti che riguardano la storia ci sono quelli prodotti dall’Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche e da Rai Educational. Scriveva Jacques Le Goff qualche anno fa: «La storia non potrà conservare una qualche funzione nell’ambito della scienza e della società se gli storici non sapranno mettersi al passo con i nuovi mezzi di comunicazione di massa»3. Verificare se gli storici hanno preso coscienza di ciò e in questi ultimi anni hanno agito di conseguenza vuol dire anche analizzare l’altra faccia del problema, allargandolo, inoltre, ad altri rami del sapere e ad altri mezzi di comunicazione. Quanto i mezzi di comunicazione di massa hanno accolto la possibilità di farsi veicolo del sapere? Quali sono i rapporti tra il sapere, in particolare sapere storico, operante nei media e l’insieme della cultura storica e del lavoro intellettuale tutto operante nelle sedi istituzionali? Se vogliamo comprendere le trasformazioni culturali delle società di questo secolo, non si può non riconoscere il ruolo fondamentale giocato dai mezzi di comunicazione di massa. Non si può non vedere come la natura di questi mezzi cambi i rapporti, le azioni e le interazioni fra i vari individui e soggetti sociali: utilizzando questi mezzi le persone cambiano la loro vita quotidiana. Non si parlano più faccia a faccia, ma sono in grado di interagire con persone fisicamente assenti e con luoghi lontani. L’uso dei mezzi di comunicazione di massa trasforma radicalmente l’organizzazione spazio-temporale della vita sociale […]. La rete sembra consentire agli studiosi, ma anche agli appassionati di storia, una consultazione immediata e relativamente semplice degli archivi cartacei e audiovisivi, ormai in gran parte digitalizzati, di pubblicazioni, di notizie ed eventi in genere. Su vari quotidiani italiani, ad esempio, sono comparse recensioni positive sul portale dedicato alla “Resistenza” realizza3. J. Le Goff, Intervista sulla storia, Laterza, Bari 1982, p. 12.

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to dall’ANPI, l’Associazione nazionale partigiani d’Italia, in collaborazione con il Comune di Roma, che ambirebbe diventare il portale della storia del Novecento in Italia, avendo ottenuto in un solo mese più di 3.000 visitatori. Per non parlare dei siti storici come “Storia in rete”, “Storia in network”, “I viaggi di Erotodo”, “Storie contemporanee” e così via. Le risorse storiografiche disponibili in Internet sono ormai senza limiti: circola un materiale sterminato che comprende le più svariate tipologie, riviste, libri, audiovisivi, fondi archivistici, associazioni, musei. Qualsiasi tentativo di classificazione risulterebbe inevitabilmente limitato e discutibile»4.

L’Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche e Rai Educational si sono proposte di rispondere al problema e da qualche anno costituiscono forse il progetto italiano più ambizioso di divulgazione del sapere filosofico e del sapere storico. L’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche è un’opera della Rai Radiotelevisione Italiana realizzata in più versioni, ciascuna delle quali rispondente alle caratteristiche formali ed espressive dei singoli media. La materia prima di quest’Enciclopedia Multimediale, il mattone dell’intero edificio, è costituito da circa millecinquecento interviste lezioni televisive, della durata media di un’ora, di filosofi, storici, scienziati, e uomini di cultura di trentaquattro paesi. Dai materiali dell’archivio multimediale si attinge per realizzare le differenti versioni dell’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche: programmi televisivi su reti generaliste e reti tematiche, programmi radiofonici e videocassette, cd-rom e DVD, libri, dispense, siti Internet ecc. Questi rinviano gli uni agli altri, s’integrano e si promuovono a vicenda, e infine si compongono secondo un disegno, come i tasselli di un mosaico. L’informatica di consumo intende la multimedialità in modo “centripeto”: tanti media tradizionali che confluiscono su un unico supporto digitale. Questa concezione è stata ribaltata. Infatti l’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, piuttosto che le tecnologie (cd-rom, Internet ecc.), pone al centro i contenuti (le interviste-lezioni dei filosofi), una materia prima che, combinandosi con altri linguaggi e mezzi espressivi (iconografe, brani di cinema d’autore, antologie di testi classici, musiche

4. F. Anania, Internet, la storia, il pubblico, in “Memoria e Ricerca. Le Metamorfosi della Storia sociale”, 10 (2002).

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ecc.), dà origine a differenti versioni dell’opera, ciascuna destinata a un medium diverso. Questa multimedialità centrifuga, “per tutti i media”, quest’interazione tra gli strumenti del comunicare apre la via a nuove modalità del sapere. L’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche è un’opera realizzata soprattutto per ciò che concerne il sapere filosofico: i testi integrali e in più lingue delle oltre millecinquecento interviste-lezioni originali, un dizionario filosofico informatizzato, la biobibliografia dei filosofi intervistati. Ma l’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche ha interesse anche nel campo del sapere storico. Al proprio interno, infatti, oltre ad essere presenti molteplici interviste con storici, filologi, archeologi e altro ancora riguardante lo studio del passato, vi sono decine di ore di filmdocumenti, di documentari e di immagini di repertorio che costituiscono un grande archivio alla portata di tutti coloro si volessero interessare al problema della storia. L’Archivio multimediale è una “biblioteca digitale” alla quale è possibile accedere in vari modi: consultando l’elenco dei personaggi intervistati, considerando l’argomento dell’intervista (che può essere di carattere storico o tematico) oppure attraverso l’indice analitico dei concetti espressi in ciascuna domanda-risposta. Quest’ultima modalità riveste una particolare importanza poiché permette una consultazione trasversale delle millecinquecento interviste-lezioni. Se l’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche è il centro e il cuore pulsante di questo progetto di divulgazione del sapere attraverso diversi media, per ciò che riguarda la televisione il riferimento va a Rai Educational. Rai Educational ha una struttura multimediale: sfrutta cioè i diversi media, dalla televisione via etere a quella satellitare, dalla radio a Internet, dalle videocassette ai cd-rom, ai libri, avvalendosi di vari mezzi espressivi, secondo diversi livelli di approfondimento. Rai Educational è un nuovo settore della Rai nato dall’esigenza, ormai largamente avvertita nella società, che i mezzi di comunicazione di massa siano al servizio della cultura, della crescita civile, dell’apprendimento e dell’educazione permanente. Da un lato Rai Educational si è assegnato il compito di offrire al mondo della cultura e della scienza un palcoscenico televisivo, intrattenendo rapporti sistematici col mondo della scuola, con università, istituzioni culturali, case editrici, centri di cultura pubblici e privati, italiani e internazionali; dall’altro offre la possibilità ai cittadini di avere una televisione culturale a portata di mano in cui ognuno disponga,

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con il suo apparecchio televisivo, non soltanto di un mezzo di distrazione, ma anche di uno strumento di cultura e di educazione. «Rai Educational è la Direzione della Rai che raccoglie – con i suoi spazi sulla televisione generalista, due canali satellitari, Internet – l’ambiziosa sfida di rendere la storia, il sapere scientifico, l’arte e la cultura, godibili e capaci di coinvolgere e appassionare il grande pubblico. Sotto la guida di Giovanni Minoli sono stati realizzati oltre 20 nuovi programmi televisivi per un totale annuale di oltre 2000 ore di televisione»5. I programmi di Rai Educational vanno in onda su RaiUno, RaiDue, RaiTre e sui canali satellitari RaiEdu 1 e RaiEdu 2. RaiEdu 1 è il canale satellitare di Rai Educational dedicato alla formazione scolastica, in particolar modo alla didattica dell’inglese per i bambini delle scuole elementari e alla diffusione delle unità audiovisive di Medita6, Mediateca Digitale italiana, dedicate a tutte le scuole di ogni ordine e grado. Per ciò che riguarda più specificatamente la “storia in televisione” il programma di punta del progetto di Rai Educational è certamente La Storia siamo noi, 240 ore di Storia all’anno, un indagine sulla memoria a cura del direttore Giovanni Minoli. Si tratta di una produzione molto importante di cui ci occuperemo successivamente, che prende in esame soprattutto il secolo scorso, ripercorrendo attraverso un’indagine giornalistica i gialli della Storia mai risolti, i misteri della cronaca e tante biografie del Novecento Il programma che, invece, ha a che fare direttamente con l’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche è certamente Il Grillo. Il Grillo è un programma educativo basato sul dialogo fra personalità del mondo 5. http://www.educational.rai.it/. 6. «MEDITA è il nuovo sito di Rai Educational destinato al mondo della scuola, nonché la più grande mediateca digitale d’Europa. Studenti e insegnanti trovano in questo portale un inedito strumento euristico posto al servizio di ogni didattica che, ispirandosi a principi pedagogici tesi a valorizzare il momento attivo e creativo del processo di apprendimento, voglia essere aperta alle opportunità interattive e multimediali offerte dalle nuove tecnologie. Il sito mette a disposizione delle scuole oltre 2500 audiovisivi, suddivisi per materia e ordinamento scolastico, per una durata complessiva di più di 1100 ore. Ogni audiovisivo, corredato di un breve testo che ne descrive e ne approfondisce il contenuto, corrisponde a una unità didattica che si propone come fulcro e punto di partenza di percorsi di studio molteplici e potenzialmente interconnessi. L’argomento prescelto si lascia così esplorare secondo un approccio alla materia atto a stimolare le facoltà cognitive dello studente nella loro interezza e complessità» http://www.mosaico.rai.it/.

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della cultura e allievi delle scuole superiori. Il programma, andato in onda fino al 2002 su RaiDue e su RaiTre era il più rappresentativo del progetto. Questo infatti poteva ritenersi l’essenza della produzione della Enciclopedia, trattandosi della messa in onda delle interviste a filosofi storici o altri personaggi della cultura. Queste interviste-lezione televisive della durata media di un’ora creavano sul piano formale, un rapporto immediato tra lo studioso intervistato e chi ascoltava in studio o in televisione. L’intervista era sempre preceduta da una scheda che illustrava l’argomento delle lezioni7. Molte puntate sono state dedicate al tempo, alla storia e alla memoria, tra queste citiamo 23/2/1998 Che cos’è la storia? Giacomo Marramao 24/2/1998 Come lavora lo storico? Claudio Pavone 25/2/1998 Come studiare il Novecento? Pietro Scoppola 26/2/1998 Il revisionismo storico Domenico Losurdo 27/2/1998 A che serve la storia? Luciano Canfora 25/5/1998 Che cos’è il tempo Sergio Givone 26/5/1998 Ricordare e dimenticare Remo Bodei 27/5/1998 A che serve la memoria storica? Claudio Pavone 30/5/1998 La memoria e la storia Jacques Revel 1/2/1999 A che serve la storia? Pietro Scoppola 2/2/1999 La storia tra biografia e romanzo Giulio Ferroni 3/2/1999 La storia è racconto o scienza? Paul Ginsborg 5/2/1999 I periodi della storia Claudio Pavone 4/6/2001 Le ferite della memoria Giovanni Pellegrino

La cosa interessante di queste lezioni-interviste de Il Grillo, oltre ovviamente ai contenuti, era l’atteggiamento dello storico e dell’intellettuale in genere. L’esigenza didattica televisiva costringe gli storici a esporsi a metodi del tutto diversi e basati su un canovaccio fatto non in un’aula ma in uno studio televisivo. Abituato ai modelli normali di comunicazione del sapere come la lezione conferenza, il libro monografico, il saggio, l’articolo, lo storico si adatta ai nuovi mezzi di comunicazione con formule linguistiche e misure temporali molto diverse dalle consuete. Il linguaggio 7. Sul sito http://www.emsf.rai.it/grillo/ si possono trovare tutte le puntate de Il grillo. Queste sono divise tra l’archivio e le ultime puntate, inoltre tutti i testi delle puntate in archivio possono essere consultabili attraverso una ricerca trasversale fatta per autore, data o tematica affrontata.

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deve essere per forza di cose semplice e, da accademico, il lessico si deve adattare a un pubblico che in sala rappresenta l’istruzione superiore, ma a casa può essere anche di altro livello. Inoltre vi è una maggiore capacità di sintesi data l’esigenza di brevità con un uso del discorso diretto molto frequente e quando è richiesto un incalzante commento alle immagini e alle schede preparate in studio. Si tratta allora anche di una riflessione sui problemi innovativi dello stesso linguaggio. Da ultimo risulta interessante vedere come lo storico, posto di fronte a interventi incalzanti diretti, in un contesto politico-pedagogico parla in prima persona e si accalora su problemi che lo toccano da vicino, mentre lo stesso storico, quando opera scientificamente, usa la terza persona e prende per ciò stesso le distanze dall’oggetto indagato. Il Grillo è stato senza dubbio un programma interessante, che oltre ad avere un costo limitato è anche andato incontro a un minor margine di rischio economico. In pratica, è come avere avuto per la televisione generalista uno spazio di laboratorio dove rodare nuove trasmissioni.

5. La narrazione orale: Marco Paolini e Ascanio Celestini Tra i programmi che riguardano la divulgazione del passato, ve ne sono alcuni che non sono dei veri e propri format, ma che, soprattutto negli ultimi anni, hanno riscosso un notevole consenso di pubblico, tanto da far entrare questo tipo di racconto della storia tra i programmi televisivi. Questi programmi hanno qualcosa di simile tra loro, e riguardano, in fondo, un modo di raccontare la storia che da sempre appartiene all’essere umano: la narrazione del passato attraverso il racconto orale della memoria. Il ricordo viene alla memoria come qualche cosa che si dà spontaneamente come segno non di se stessa presente, ma di un’altra cosa assente, che nel caso del ricordo è individuata come essente stata. La presenza dunque non è quella della cosa stessa, ma di un’immagine che si dà come una traccia, e cioè, l’impronta della cosa assente. La presenza dell’assenza pone in campo l’aspetto concernente la memoria, il sentimento della distanza temporale: il passato è presente nell’immagine come segno dell’assente, ma di un assente che sebbene non sia più, è stato8. E questo pone 8. Cfr. P. Ricoeur, La Memoria, la storia, l’oblio, op. cit., p. 79.

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il problema centrale. La sua traccia non è un segno che resta da qualche parte se non nella memoria di chi vi ha assistito e può raccontarlo, oppure nella memoria di chi ha ascoltato il racconto da altri, per raccontarlo di nuovo e tramandare la tradizione. Da sempre la testimonianza orale costituisce la struttura fondamentale di transizione fra la memoria e la storia. Orale è tutto ciò che non passa per la scrittura o che passandoci se la lascia alle spalle come molte altre tracce. La tradizione dei trovatori è millenaria, affonda le radici nei secoli perché è una esigenza innata nell’uomo quella di raccontare e di fare spettacolo attraverso la storia. Essere cantastorie vuol dire raccontare, per comunicare i fatti, gli avvenimenti. Egli di solito si fermava in una piazza, all’angolo di una strada, in un mercato, dove c’era tanta gente di passaggio, e lì incominciava a cantare, a suonare, a esibire i suoi fogli e i suoi cartelloni e tutti si radunavano ad ascoltare e a guardare. Intorno al cantastorie quindi si formava il treppo, un gruppo di gente, e questo spazio costituiva il palcoscenico nel quale il cantastorie faceva il suo spettacolo. Le “storie” che cantava potevano essere tragiche, allegre, strampalate, e a seconda dei casi la gente si commuoveva o sorrideva ascoltando le vicende che il cantastorie sapeva evocare. I cantastorie sapevano del tranello che l’immaginario tende alla memoria: la memoria, attraverso la funzione immaginativa, cioè quando viene rifigurata in immagini, rischia una sorta di “debolezza”, di discredito, di perdita di affidabilità. E allora affidavano al canto o alla recita i loro racconti. Oralità e memoria, dunque, sono fortemente legate. Vi è una coppia dialettica quando si parla di racconto orale della storia, si stabilisce una sorta di tensione tra i poli evocazione e ricerca; si suppone, sbagliando, che la narrazione orale della storia sia da sempre evocativa, e non affidi mai se stessa alla ricerca. Questo vale in generale da quando il primo cantastorie è comparso nelle strade, la testimonianza orale della storia ha sempre sopportato su di sé il peso dell’accusa di una infedeltà nei confronti di ciò che raccontava. In realtà i cantastorie di ieri e di oggi preliminarmente a ogni racconto mettono insieme fatti attraverso la ricerca e lo studio dei documenti. Ma la vera forza di questa potente macchina narrativa è comunque il suo senso profondo, vale a dire il significato che attraverso il racconto delle storie i narratori vogliono trasmettere come memoria. Oggi i fatti di cronaca o della storia ce li racconta già la Televisione tutte le sere nei vari Telegiornali, siamo tutti informatissimi e il cantastorie

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ha più difficoltà a interessare e commuovere un pubblico che è più informato e smaliziato di quello di una volta. Eppure nonostante siano diversi i tempi e i mezzi, è rimasta intatta la capacità e il desiderio di rielaborare l’evento rendendolo racconto con forme di narrazione a cavallo tra verità e immaginazione. In un momento di perdita della memoria collettiva, nonostante gli eccessi di storia presenti e la sovraesposizione mediatica degli eventi, il modo di essere dei cantastorie è più che mai attuale. E proprio qui sta la bravura dei narratori di storie che sono comparsi in televisione in questi ultimi anni: nel sapersi adeguare ai tempi e ai nuovi mezzi di comunicazione e, allo stesso tempo, di essere inattuali rispetto a ciò che li circonda. Il narratore attraverso l’oralità del suo racconto storico, oggi come ieri, torna a commuovere e far pensare. Ed allora illustri esponenti del teatro di narrazione, da Dario Fo a Marco Paolini, Marco Baliani, Laura Curino, Moni Ovadia, Ascanio Celestini, oggi si servono della televisione, anzi, sarebbe meglio dire, che la televisione sempre più spesso si serve degli attuali cantastorie per narrare le vicende più o meno recenti del nostro paese. La ricostruzione e la narrazione di grandi o piccoli eventi, è diventata la chiave di volta del lavoro di questi “cantastorie” contemporanei, i quali movendosi nel luogo a loro più congeniale, il teatro, sono poi sbarcati in televisione a raccontare la storia attraverso il medium dell’oralità, dando il via a un nuovo modo (per la televisione, ma un metodo antico per il teatro e le piazze) di raccontare la Storia9. Ascrivibili, ma solo per comodità di catalogo, al cosiddetto teatro di narrazione, citiamo due dei maggiori esempi di questo “cantare” la storia, anche se tra loro sono enormi le differenze. Marco Paolini e Ascanio Celestini. Certamente non in modo quantitativo, ma in maniera qualitativa i due prosatori sono stati presenti in televisione. Qualche volta si è trattato di veri e propri progetti di narrazione televisiva, con adattamento del loro modo di raccontare al medium in questione. Altre volte la televisione ha 9. Secondo qualcuno il teatro di narrazione in Italia non esiste, invece di cantastorie siamo «in pieno melodramma, forse in più con l’involontario ricatto morale che non ci troviamo di fronte alla storia che coinvolge una illibata eroina, un duca malvagio e un eroe buono, ma i protagonisti e le vittime della nostra Storia nazionale. Di qui anche l’imbarazzo di svolgerne una serena critica. […] Il teatro di Narrazione cita i modi della narrazione orale, ma non dando spazio all’imprevisto e all’improvvisazione nella fase performativa e limitando la parte dell’oralità al rinvenimento del materiale». M. Civica, Sul teatro di narrazione, in “Lo Straniero”, anno X (2006), p. 76.

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semplicemente offerto al pubblico il loro teatro, riproponendo le narrazioni storiche dei due attraverso gli spettacoli, presentati in diretta o in differita. Legato a un racconto che, tra ironia e malinconia, diventa denuncia sociale attraverso un percorso a inchiesta, Marco Paolini ama fare un tipo di narrazione che è insieme una spiegazione e un rinnovare dei dubbi su ferite recenti del nostro paese. Uno scorrere dei ricordi attraverso il flusso della memoria tra quotidiano e fantastico è invece il teatro di narrazione di Ascanio Celestini, avvinto all’intreccio di storie, di quelle che, ascoltate sin da bambino, lavorano dentro ognuno di noi fino a depositarsi nell’anima, pronte a uscire sempre zampillando di nuovo. Di ognuno dei due cercheremo di analizzare due spettacoli, nati in teatro e riproposti in tv. Sempre più spesso Marco Paolini, autore-attore fra i più conosciuti e amati dal pubblico italiano, appare in televisione come sorta di testimone ideale, capace di rendere comprensibili, emozionanti, divertenti ogni tipo di storia e vicenda sociale, politica, ambientale dell’Italia. Marco Paolini ripercorre i sentieri della storia attraverso spettacoli civili che non soltanto hanno arricchito la memoria collettiva di questi ultimi anni, ma hanno saputo intrecciare oralità e scrittura, ampliando gli orizzonti della pratica scenica. Dal 1990 ai primi mesi del 2000 collabora con la cooperativa Moby Dick-Teatri della Riviera con la quale produce Il racconto del Vajont 1956/ 9 ottobre 1963 che ha ricevuto il ‘Premio Speciale Ubu’ 1995 per il Teatro Politico. Lo spettacolo viene trasmesso in diretta televisiva su RaiDue il 9 ottobre 1997 e replicato il 27 ottobre 2003. Un successo straordinario. Per questo spettacolo ha ricevuto l’Oscar della televisione come miglior programma del 1997. Il successo di questo spettacolo ci induce a parlare di un prima e dopo Vajont per ciò che concerne la narrazione storica orale in televisione. Il racconto del Vajont 1956-9 ottobre 1963 è una sorta di orazione civile composta da Marco Paolini e Gabriele Vacis con la collaborazione di Gerardo Guccini e Alessandra Ghiglione. Il racconto narra la storia drammatica del crollo della diga, in realtà della frana del Vajont, avvenuta il 9 Ottobre 1963 alle 22.39 locali. Un ricordo delle oltre 2.000 vittime della sciagura. Sulle tracce del libro di Tina Merlin, giornalista che fino alla sua morte cercò eroicamente la verità, Paolini ripercorre le tappe precedenti alla costruzione e al crollo, ponendosi delle domande alle quali nel corso dello spettacolo tenta di dare risposta.

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“Quanto pesa un metro cubo d’acqua?” questa è la prima di una serie di domande con cui inizia lo spettacolo: Duecentosessanta milioni di metri cubi. Vuol dire quasi sei volte più della Valtellina. Vuol dire seicento volte più grande della frana della Val di Stava. Duecentosessanta milioni di metri cubi di roccia cascano nel lago dietro alla diga e sollevano un’onda di cinquanta milioni di metri cubi. Di questi cinquanta milioni, solo la metà scavalca la diga: solo venticinque milioni di metri cubi d’acqua… Ma è più che sufficiente a spazzare via dalla faccia della terra cinque paesi: Longarone, Pirago, Rivalta, Villanova, Faè. Duemila i morti. La storia della diga del Vajont, iniziata sette anni prima, si conclude in quattro minuti di apocalisse con l’olocausto di duemila vittime. Come si fa a capire un fatto come questo? Capire che peso ha avuto, che peso ha? Dove va a cadere il peso di certi avvenimenti? Che pressione fanno sulla morale delle persone, come incidono sui comportamenti di una comunità, nelle scelte di un popolo?

La sua narrazione si snoda secondo una struttura descrittiva, come un reticolo di storie individuali, di punti di vista che continuano a incrociarsi, a sovrapporsi, a compattarsi. L’abilità di Paolini consiste nell’evidenziare i nodi di congiunzione e gli elementi che danno luogo a una comicità spontanea ed elementare, soffusa da una profonda malinconia. L’attore concilia la narrazione della storia con la sua spiegazione, il racconto di ciò che è stato insieme all’analisi di ciò che è accaduto. Come i veri storici scava in migliaia di carte alla ricerca della citazione da mettere sotto quella lente di ingrandimento che è la sua voce che passa da un’inflessione a un’altra. Paolini riesce a comporre una miriade di piani di lettura, procede dalla visione sottile e quasi sprovveduta di un osservatore-protagonista che ne è testimone indiretto e che restituisce il clima di quei giorni. La voce, le parole, il dialetto hanno un’importanza prioritaria nel trasmettere agli spettatori il senso dell’avvenimento. Paolini scandisce e consolida i singoli passaggi della storia, restando in apparenza spettatore dalla materia che pone in campo. Formula le corrispondenze poi le abbandona per ritrovarle nei passaggi successivi. In un racconto che parrebbe non volere finire mai, ricco com’è di suggestioni lanciate e di richieste

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La ‘storia’ senza Storia. Parte III.

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di spiegazioni che si vorrebbero esaudire. Così scrive Paolini nelle note di regia: Il racconto è lungo, tra una cosa e l’altra non finisce quasi mai prima di tre ore. È lungo perché non è stato pensato come uno spettacolo teatrale. È lungo perché alla fine ci sono quelli che si fermano per sapere il seguito e si fa presto a tirar tardi. In quei momenti mi sento “esposto”, investito del ruolo dell’intellettuale, e non mi sento per niente a mio agio. Nessun artista di mia conoscenza vorrebbe essere oggi investito di tale onore, nessun artista studia da intellettuale. Io in quei momenti resto lì perché mi vergogno di non aver saputo e poi di aver saputo e di aver dimenticato questa Strage di Stato che come uomo non posso ancora tollerare in silenzio10.

E allora ha raccolto notizie instancabilmente: dati, numeri, disegni alla lavagna, grafici, vengono coniugati con la cronaca e col ricordo personale. Si ride durante il procedere del racconto; si ride sull’insensatezza, sulla malattia degli interessi economici, sull’impossibilità di rivolta cui i deboli sono costretti. Tutto, in questo racconto di alta teatralità, si fa solenne, e il passaggio televisivo attraverso una regia calma e attenta che allo stesso tempo indugia sul campo totale e sul primo piano dell’attore, non fa perdere la magia di una memoria storica che nella narrazione diventa denuncia. In diretta tv, la testimonianza di questo sensibile attore-fabulatore si è trasformata in un grido contro il presunto progresso portato da uno sviluppo industriale cui preme la logica dell’azienda. Fuori dallo schema degli eventi teatrali confezionati e predistribuiti, Marco Paolini si è guadagnato in televisione quel rispetto e attenzione che in teatro già aveva, e ha superato anche l’insidioso confronto con l’auditel televisivo. E la sua collaborazione in tv è stata sempre più richiesta. Del 2000 sono I-Tigi. Canto per Ustica. Ricostruzione del disastro aereo di Ustica, con Marco Paolini che fa da narratore e il Quartetto vocale Giovanna Marini. La registrazione dello spettacolo di Bologna è stata integralmente trasmessa da RaiDue a distanza di pochi giorni ed è stata vista da due milioni di spettatori il 6 luglio 2000. Un racconto che dura due ore e mezza con Marco Paolini che distende una tela intrecciata di domande, di cifre, di rotte aeree, di misteri, portata con sullo schermo per cercare di far luce sul suo mistero. Dai morti del Vajont ai passeggeri 10. Note di regia http://www.marcopaolini.it/files/index.cfm?id_rst=19&id_elm=151.

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2. I nuovi format che riguardano racconti del passato

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precipitati in mare a bordo del Dc9 in volo da Bologna a Palermo quella sera di giugno del 1980. C’è una pagina fra le tante pagine buie della nostra storia raccontata anche qui con un palco vuoto, una sedia e un tavolo e l’attore che tiene il pubblico in pugno, col fiato sospeso per tutta la durata di un monologo torrenziale fatto di citazioni, di frasi riportate, in un montaggio di materiali preesistenti. L’opera nasce sul doppio binario del ricordo delle 81 vittime che il 27 giugno del 1980 morirono nel mare di Ustica e insieme del ginepraio in cui si dipana la ventennale ricerca futura della verità, frutto del lungo lavoro sulle 5 mila pagine dell’istruttoria del giudice Rosario Priore. Scrive Paolini: Ho lavorato insieme a Daniele Del Giudice e Giovanna Marini e insieme ad altri: consulenti, giornalisti, periti. Ovviamente la difficoltà maggiore è stata l’opera di selezione e sintesi dell’enorme mole di dati contenuti nella sentenza istruttoria depositata dal Giudice Priore. Da questo lavoro è nato un copione. Ma una narrazione non sopporta il peso di una tale mole di informazioni se non si stabilisce tra queste un nesso causale, una relazione diretta; il racconto provoca delle attese in chi ascolta, si pretende di capire, di aver la soluzione a ogni domanda. Alla fine sempre qualcuno mi chiedeva ‘ma secondo te in poche parole com’è andata veramente?’ Questo è il modo migliore di vanificare due ore di faticosa ricerca di verità11.

La dimensione dell’attualità, poi, che recupera l’essenzialità del tracciato tecnico-processuale, non sminuisce, anzi conferma il nesso tra fatti, paesaggi e uomini. Non si tratta soltanto di un pregio narrativo, quanto di una capacità a ragionare in modo istintivo dinanzi alle verità sopite. Marco Paolini ha poi realizzato su RaiTre gli album. Il racconto televisivo prende il via dai racconti teatrali che ne costituiscono il punto di partenza, ma che restano solo un riferimento per chi li ha visti a teatro e li vuol ritrovare in tv. In televisione, inoltre, Marco Paolini precedeva il programma Report della Milena Gabbanelli edizione autunnale 2003 con alcuni monologhi sul tema della puntata girati da Davide Ferrario. I monologhi ambientati nell’atmosfera magica e rarefatta di un vecchio teatro abbandonato avevano una leggerezza che in realtà era pesante impegno civile che si intonava a meraviglia con le inchieste del programma. 11. http://www.marcopaolini.it/files/index.cfm?id_rst=20&id_elm=158.

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La ‘storia’ senza Storia. Parte III.

L’altro importante narratore contemporaneo di cui vogliamo accennare è Ascanio Celestini che, facendo essenzialmente un lavoro di raccolta di storie, più che teatro di narrazione, propone una narrativa teatrale popolare. In lui contenuto e mezzo espressivo coincidono completamente. La sua è grande narrativa che trova nel teatro il proprio veicolo naturale. Il suo teatro è popolare, di quella popolarità pretelevisiva dei racconti di strada, delle veglie quando ci si trovava, dopo cena, sull’uscio di casa, tra famiglie, a chiacchierare e a raccontare. A differenza di Marco Paolini, Ascanio Celestini propone una storia che è quasi sempre singolare e che affronta periodi del passato (recente) partendo dalla cronaca, dalla quotidianità. Si tratta di narrazione pura, scevra di ogni tipo di spiegazione, essendo quest’ultima forse implicita nella sua drammatizzazione. Preliminarmente all’analisi della proposta dei racconti di storia di Paolini vale la pena citare un pezzo di Walter Benjamin, «se l’arte del narrare si è fatta sempre più rara, la diffusione dell’informazione ha in ciò una parte decisiva. Ogni mattino ci informa delle novità di tutto il pianeta. E con ciò difettiamo di storie singolari, significative. Ciò accade perché non ci raggiunge mai alcun evento che non sia già infarcito di spiegazioni. […] È, infatti, già la metà dell’arte del narrare, lasciare libera una storia, nell’atto di riprodurla da ogni sorta di spiegazioni»12. Questo passo di Benjamin stabilisce una sorta di inconciliabilità e autonomia reciproca tra narrazione e spiegazione che bene si adatta alle storie di Ascanio Celestini. Nei suoi racconti lo straordinario è riferito con estrema precisione, ma il nesso psicologico degli eventi non è imposto allo spettatore, che rimane libero di interpretare le vicende come preferisce; il narrato acquista così un’ampiezza di vibrazioni che le spiegazioni attraverso le informazioni non hanno. La libertà del suo narrare coincide con la libertà dello spettatore di interpretare. Evitando di fornire spiegazioni, l’affabulatore Celestini affida, per così dire, il significato del narrato allo spettatore; solo così la narrazione mostra l’ampiezza delle sue possibili vibrazioni e tutta la vitalità del suo significato. Ma cos’è più esattamente che acquista una particolare ampiezza di vibrazione? Ciò che la sua narrazione conserva e che il lettore fa vibrare è una singolare esperienza che la narrazione comunica in una particolare maniera. Sempre Benjamin:

12. W. Benjamin, Angelus Novus, op. cit., p. 241.

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2. I nuovi format che riguardano racconti del passato

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La narrazione, come fiorisce nell’ambito del mestiere – contadino, marittimo, cittadino – è anch’essa una forma in qualche modo artigianale di comunicazione. Essa non mira a trasmettere il puro “in sé” dell’accaduto, come un’informazione o un rapporto; ma cala il frutto della vita del relatore, e ritorna ad attingerlo da essa. Così il racconto reca il segno del narratore come una tazza quella del vasaio13.

Il vaso conserva sempre il segno del vasaio, come la narrazione di Celestini quella del suo autore. Ciò che stupisce di lui e del suo lavoro sulla memoria e la narrazione orale, su canti, musiche, riti e fiabe popolari, sui nostri patrimoni quasi perduti, è che quel che fa è in assoluto nuovo e insieme secolare. Semplicemente raccoglie storie del nostro passato e poi le racconta. «Così la sua ricerca nasce sul campo, un archivio di testimonianze orali, dalla guerra ai riti alle leggende: e le singole storie, vite, esperienze, rielaborate teatralmente e poi narrate, si fanno epiche e insieme danno senso alla grande storia collettiva»14. Da qui il suo interesse per i mondi scomparsi e specialmente al periodo 1930-1950 in cui l’Italia cambia radicalmente, la guerra modifica il nostro immaginario, la cultura orale scompare per l’alfabetizzazione. Celestini scava nel grande patrimonio delle memorie familiari e collettive, nella realtà di un mondo che non esiste più. In realtà Celestini non pensa al suo come a un autentico teatro, perché non lavora sulle singole parole nè sul testo in scena, per lui contano le immagini che sorgono davanti, sul palco non c’è un personaggio, ma un narratore che non entra mai nella finzione. Da anni il cantastorie Celestini calca le scene dei teatri, delle sale e dei luoghi all’aperto dove propone i suoi racconti, sempre legati alla storia del nostro paese ma nel modo singolare che abbiamo detto. Celestini, però, non ha disertato altri mezzi espressivi come la televisione o la radio, particolarmente adatta alla sua prosa. Radio Clandestina, racconto costruito a partire dal libro L’ordine è già stato eseguito di Alessandro Portelli, raccoglie la memoria orale legata all’eccidio delle fosse Ardeatine del 24 marzo 1944. È stato presentato nei locali dell’ex-carcere nazista di Via Tasso (ora Museo della Liberazione) in forma di studio per i Luoghi della Memoria, manifestazione organizzata dal Comune di Roma e dal Teatro di Roma. Lo spettacolo è stato trasmesso in diretta su Radio3 Rai il 13. Ivi, p. 243. 14. E. Garampelli, Ascanio costruttore di storie, “Diario”, 26 aprile 2002.

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La ‘storia’ senza Storia. Parte III.

23 marzo 2001 in occasione del 57° anniversario dell’azione partigiana di via Rasella. Per la radio inoltre ha prodotto il radiodocumentario Guerra e pace andato in onda su Radio3 Rai dal 26 al 30 marzo 2001. Sempre per Radio3 Rai ha curato la trasmissione Bella ciao, racconti di operai e contadini, andata in onda dal 12 al 30 aprile 2004 su Radio3 Suite. Il progetto si è concluso il 1° maggio con la diretta di Fabbrica, uno spettacolo sulla storia del lavoro in Italia. Oltre alla radio Celestini ha sperimentato anche la televisione. Nel 2005 in occasione della ricorrenza del 25 aprile, per il 60° anniversario della Liberazione, La Storia siamo noi, il programma di Rai Educational condotto da Giovanni Minoli, ha proposto la Settimana della Resistenza articolata su sei appuntamenti settimanali, in uno dei quali (Venerdi 22 aprile alle ore 08.05) viene proposto il testo I diari del ’45 a cura di Andrea Bevilacqua e Cristina De Ritis con Ascanio Celestini. Il 1945, anno fondamentale per la storia del Paese, viene rivissuto da Ascanio Celestini sul filo della memoria personale. Lungo il sentiero della narrazione balzano nel corso del racconto, figure reali, descritte con rara incisività a partire ai loro difetti naturali. Sullo sfondo le città, le strade e i quartieri popolari. Come detto, a Celestini non interessa la ricostruzione documentaria: da tempo preferisce dar forma a novelle oscure, fra realtà e inverosimile, dove la memoria testimonia cose non accadute, dove l’andamento è quello della fiaba e non quello del rendiconto. Sospinge la narrazione verso una dimensione universale, oltre i silenzi della storia. In un’epoca che sembra rifiutare, quando non temere, la memoria, la consapevolezza del presente in grado di nutrire le proprie radici può assumere un valore straordinario di testimonianza. Ascanio Celestini ci parla con il suo linguaggio semplice di una storia fuori dalla Storia ufficiale. Ma forse lo spettacolo più rappresentativo della poetica narrativa di Ascanio Celestini è senza dubbio Scemo di guerra. Roma, 4 giugno 1944 che ha debuttato alla Biennale Teatro di Venezia del 2004 ed è stato trasmesso da RaiTre domenica 4 giugno 2005. Scemo di guerra nasce da una storia vera raccontatagli dal padre. Un racconto sul giorno in cui arrivarono a Roma gli americani. Il giorno della liberazione di Roma, il padre, allora di otto anni, si trova per strada col nonno. Alcune famiglie stanno raccogliendo i soldi per acquistare un maiale. Adesso i due devono raggiungere casa, ma camminare per Roma quel giorno non è facile. A un certo punto i due vedono una cipolla per terra,

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2. I nuovi format che riguardano racconti del passato

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e il bambino si china per raccattarla, quando da qualche parte qualcuno spara verso il bambino. È un povero scemo di guerra, uno ammattito, che gli ha sparato perché vuole lui quella cipolla. Il bambino però non vuole rinunciare alla cipolla e comincia a parlamentare con lo scemo, raccontandogli come mai si trova lì. Dopodiché toccherà allo scemo raccontare la sua storia. Sono due storie simili e speculari, in cui s’incrociano gli stessi destini e gli stessi volti, e nelle quali il realismo si mescola, con perfetta naturalezza, con la favola. Il tempo, da lineare, diventa circolare, e noi capiamo che, anche se alla fine il maiale non verrà acquistato, la vera necessità, quella antica, che viene da Omero, la necessità di raccontare per non morire è stata salvata15.

Celestini racconta episodi che trascendono di gran lunga la mera cronaca di quei giorni di fine guerra, moltiplicando vertiginosamente le vicende che si incastrano l’una nell’altra senza che praticamente se ne veda l’inizio o la fine, dove una realtà squassata dalle asprezze del conflitto scivola di continuo in un febbrile incanto visionario: un bambino dei quartieri popolari, un giovane tedesco con una voglia in viso, maiali seppelliti sotto terra perché non venissero razziati, madonne e mosche sullo sterco, fascisti, americani, russi, tutti lì a vivere e a morire ancora una volta attraverso le parole di Celestini. Le traiettorie individuali, i singoli gesti, Ascanio li racconta tutti, e di tutti ricrea le motivazioni personali, senza spiegazione causale, limitandosi solo alla descrizione delle immagini, che sono null’altro che percorsi esistenziali nella storia. Il procedere narrativo si fa davvero torrenziale, e più che per sottili geometrie e rispondenze interne, genera un accumulo continuo di materiali che talvolta rischiano di affastellarsi, ma in realtà è il livello di complessità nel sentiero della memoria che cresce; cresce la struttura senza che ne sia toccata la magica naturalezza. Questione di tecnica, degli elementi magico-fantastici che pervadono le immagini, di una voce che reca con sé l’inflessione e lo “sporco” dialettale. Questione, anche, di proliferazione narrativa: le storie germinano le une dalle altre e in chiusura dello spettacolo la voce registrata del padre del giovane narratore ricomincerà il racconto dall’inizio, esattamente con le stesse parole che avevamo sentito pronunciare in scena circa due ore prima. Ed è questa la volontà di Ascanio, ricostruire per noi quell’intreccio di storie ancora una volta, 15. L. Doninelli, Celestini, teatro d’autore tra favola e realtà, “Avvenire”, 6 ottobre 2004.

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La ‘storia’ senza Storia. Parte III.

sempre di nuovo. Le parole finali che toccano il cuore sono uno struggente omaggio alla fonte di tante delle memorie famigliari che ispirano Celestini, forse al modello stesso della sua tecnica narrativa. Ma è anche un modo per ribadire la natura di un raccontare la storia che vuole ricucire gli strappi del tempo, restituendo la parola ai fantasmi del passato, tra vita vissuta e distorsione fiabesca. Come abbiamo visto, con i due autori del teatro narrativo, la televisione può proporre nuove forme di comunicazione storica (in realtà forse il modo più antico di raccontare la storia) rispettando il compito di conservare il patrimonio storico e la memoria collettiva del nostro paese. Attraverso un modo di raccontare la storia diverso, senza dubbio, da quello della divulgazione dei programmi informativi e, allo stesso tempo, dalla spettacolarizzazione delle fiction, c’è una trascrizione del linguaggio storico in linguaggio narrativo che può essere proposto in televisione e che fa da stimolo alla riflessione storica.

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Capitolo 3.

I programmi di storia

«Tanto più un evento è sovraesposto ai media, tanto più è sottoposto alla memoria.» (J. Baudrillard)

1. Le produzioni televisive a carattere storico

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opo aver brevemente analizzato il “concetto” di tempo e di quale tempo si serve la televisione, e aver riflettuto sui nuovi linguaggi e sui nuovi format con cui la Storia viene invece raccontata in televisione, passiamo ora all’analisi delle proposte con cui la storia è narrata in televisione, secondo le modalità della divisione fiction e programmi informativi. La divisione della proposta storica televisiva in due “macrogeneri” viene adottata nei limiti e nella consapevolezza di una semplice approssimazione che si appoggia a una definizione strumentale, ma in realtà come vedremo tra poco sempre meno in uso nella televisione. Negli ultimi anni si è sempre più affermato un “mercato storico” non istituzionale. La ridefinizione del nostro passato è sempre più una questione che travalica gli ambienti accademici per arrivare ai mezzi di comunicazione di massa. I canali di comunicazione storica non riguardano più soltanto la scuola, l’università, gli istituti storici, ma sono sempre più, per la maggior parte della popolazione, le trasmissioni televisive e internet. La fonte documentaria filmata e l’archivio televisivo investono, così, lo studio della storia contemporanea, le sue forme di pensiero, i suoi metodi di lavoro, ponendole di fronte nuovi linguaggi da decodificare che spesso vengono rifiutati. «Si palesa una divaricazione tra accademia e mass media che invece di colmarsi si va allargando fino a mettere in discussione la stessa funzione dello storico, che non è più il detentore dell’interpretazione oggettiva/soggettiva dell’evento, ma viene messo in discussione dal medium e dagli operatori dei media che si fanno interpreti di valutazioni

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La ‘storia’ senza Storia. Parte III.

diverse più vicine al senso comune. Gli storici sui giornali parlano della mancanza di “un’etica della discussione pubblica in Italia”, ma non si accorgono che la discussione pubblica non è più mediata dalla comunità scientifica ma, in un esercizio virtuoso, mediata dagli stessi media»1. Se il Novecento è stato definito il secolo della testimonianza, questo si deve alla sempre più massiccia e pervasiva presenza dei mezzi di comunicazione di massa che affiancano, registrano e, talvolta, si pongono al centro della vita politica e culturale delle società tardomoderne. Negli ultimi anni, il patrimonio audiovisivo che si sta accumulando diventa sempre più importante come fonte per l’interpretazione e la lettura degli eventi storici contemporanei. Ad oggi, nessuno studioso che intenda approfondire questo periodo, può esimersi dal consultare gli archivi audiovisivi. Come detto, la legittimazione come fonti storiche dei documenti audiovisivi crea dei problemi all’interno del mondo degli storici dell’accademia, spesso refrattario a queste nuove forme di analisi della storia. L’immenso materiale documentario che riguarda il Novecento, in particolare il secondo dopoguerra, spesso, non è padroneggiato dagli storici dell’accademia proprio perché a questi mancano gli strumenti intellettuali e materiali per comprenderlo e interpretarlo. «La perdita della possibilità di selezionare a priori il materiale, il bisogno di una conoscenza approfondita di megavideoteche e archivi elettronici conduce in definitiva a una vera espropriazione» della disciplina storica dai suoi ambienti. Il documento filmato va analizzato con cure che prevedono competenze e conoscenze riguardanti le discipline pertinenti agli audiovisivi (estetica cinematografica, la fotografia, la tecnica del montaggio…); lo storico che procede all’esame di un documento filmato deve cioè cercare di pervenire alla comprensione del significato che quelle immagini hanno per la disciplina storiografica. La tradizionale critica delle fonti adoperata dagli storici risulta inadeguata ad affrontare la sfida degli audiovisivi. Vi è la necessità di esplorare i percorsi interdisciplinari, come quelli interni alla semiologia o iconologia o di conoscere la storia della fotografia o quella del cinema. «Il cuore della critica delle fonti applicata agli audiovisivi è, probabilmente, la verifica della intenzionalità della fonte stessa. Essa si compone in realtà di due operazioni: si tratta prima di tutto di conoscere le intenzioni dell’autore, 1. F. Anania, Immagini di storia. La televisione racconta il Novecento, Rai Eri, Roma 2003, p. 8.

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3. I programmi di storia

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il suo progetto, la sua psicologia, il suo retroterra culturale, la sua storia personale; poi occorre far parlare i documenti malgrado se stessi, forzandoli fino al punto di scavalcare l’autore e valorizzare gli elementi che si trovano al di fuori della sua capacità di controllo»2. Il mestiere dello storico che lavora con le fonti audiovisive non è quello di commentare o interpretare l’evento che viene mostrato, quanto piuttosto far capire come l’evento è testimoniato smontando il montaggio e rimontandone il senso. Interrogare una fonte vuol dire ricostruirne il percorso e il significato: emerge una valutazione dell’immagine d’archivio, che viene riletta in base sia a ciò che mostra, sia rispetto a ciò che non mostra. «D’altra parte, l’utilizzazione della fonte non scritta, orale e audiovisiva, rappresenta ormai un punto di riferimento […]; prescindere da queste fonti significherebbe escludere trasformazioni che toccano e hanno toccato da vicino la mentalità dell’uomo moderno»3. La programmazione storica soprattutto delle televisioni in chiaro, è decisamente orientata verso l’epoca contemporanea, e in particolare verso la storia di oggi. Questo interesse inoltre viene a confermare l’ipotesi di una contaminazione tra generi televisivi, secondo la quale oggi non è più possibile fare cerniere rigide, come ad esempio non si può più parlare di diverse strutture tra programmi con taglio giornalistico e programmi dal taglio culturale di ambito storico, facendo cadere l’opposizione tra informazione di tipo giornalistico e divulgazione storica. Il programma storico viene sempre più a strutturarsi come un’inchiesta o un dibattito giornalistico, facendo crescere, di conseguenza, l’importanza attribuita al conduttore o curatore della trasmissione, come nei casi di grandi giornalisti che si occupano di programmi di storia: Minoli, Mieli, Augias, Cecchi Paone, Piero Angela, e prima di loro, Zavoli, Biagi Montanelli, Bocca, che possono essere definiti dei precursori dell’attuale giornalista conduttore di programmi storici. Già da allora il protagonista della trasmissione è il giornalista-curatore-autore che emargina l’esperto, preso in considerazione solo in fase preparatoria del lavoro. Si enfatizza una finta attualità e si costruisce l’accadimento storico come un evento in fieri. Obiettivo primario resta informare, solo in secondo piano, ampliare le conoscenze 2. R. Forlenza, Nota metodologica. La grande storia in. prima serata, in F. Anania, Immagini di storia. La televisione racconta il Novecento, op. cit., p. 188. 3. Ivi, p. 14.

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La ‘storia’ senza Storia. Parte III.

storiche del telespettatore e indurlo ad approfondire gli studi sull’evento rappresentato»4. La comunità degli storici per ciò stesso si dilata enormemente fino a confondersi con i giornalisti e con gli intellettuali in genere. Una volta si pensava che, nei programmi di Storia, lo storico dovesse occuparsi solo del testo, ma oggi uno storico deve sapersi occupare anche delle immagini. Cosa più facile a dirsi che a farsi, perché presupporrebe che lo storico sappia farsi regista. Lo storico deve capire che le immagini non sono più l’illustrazione del commento parlato, laddove invece, come già sottolineava Ferro, è necessario ripartire dalle immagini. In questo ambito ha un ruolo centrale il montaggio delle immagini. Secondo Ortoleva il ruolo del montaggio può essere quello di costruire un percorso che conduca (sulla base di ipotesi e metodi di ricerca dichiarati) lo spettatore dall’una all’altra lettura critica, che gli permetta, cioè, di seguire il più possibile dall’interno il farsi della ricerca (compresi, se possibile, gli scacchi e i contributi degli errori della conoscenza). È questo forse […] il vero segreto di una futura narrazione filmica della storia: la possibilità che il mezzo offre allo studioso di proporre allo spettatore il lavoro di ricerca nel suo farsi, di costruire un racconto che ripercorre, insieme, la vicenda storica da “insegnare” e il cammino del ricercatore che le analizza»5.

2. I luoghi, le epoche e il confronto dell’attualità Nella storiografia italiana da anni si parla in chiave autocritica di un eccesso di studi che riguarda il proprio paese rispetto a quelli di altre regioni geografiche o nazioni. Uno sbilanciamento per così dire “geopolitico” che entro certi limiti risulta ovvio ma che non si giustifica, soprattutto oggi, pensando alla realtà emergente, non solo economicamente, della civiltà europea. La prevalenza di tematiche italiane, dovuta presumibilmente alla comodità di analisi delle fonti, continua tuttora a restare molto forte negli studi contemporaneistici che ruotano il più delle volte intorno al fascismo (o antifascismo) e la lotta politica o sociale nel nostro paese. 4. Ivi, p. 173. 5. P. Ortoleva, L’immagine televisiva e l’insegnamento della storia, in La storia: fonti orali nella nella scuola, Marsilio, Venezia 1982, pp. 130-133.

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Lo stesso fenomeno di provincialismo tematico vale anche per il video. Nelle televisioni in chiaro nazionalità dei contenuti e cosmopolitismo di suggestioni sembrano andare a braccetto secondo un processo in cui giocano più di una causa. In secondo luogo l’epoca contemporanea è la più ricca di materiale documentario visivo: la tecnica della fotografia nota a partire dalla metà dell’Ottocento e la nascita del cinema, targata 1895, ci ricordano come, sostanzialmente sia il Novecento il secolo della testimonianza visiva tra riproduzioni fotografiche e immagini-movimento; infine gli archivi televisivi nazionali sono ovviamente più ricchi di materiale documentario italiano che di altro paese. Quindi per ciò che riguarda la programmazione dell’informativa storica si potrebbe parlare di una Storia contemporanea italocentrica che la fa da padrona, non solo nella programmazione dell’informativa storica, ma come vedremo nel capitolo successivo, anche nella fiction. In realtà la tendenza negli ultimi anni è stata un po’ invertita, da una serie di fattori. In primo luogo da un cambio di rotta generale della storiografia italiana (in realtà in atto già da un po’); in secondo luogo dall’accesso attraverso il mercato televisivo mondiale a lavori, servizi, documentari o interi programmi dedicati alla divulgazione della storia provenienti da altre nazioni; da ultimo l’avvento degli effetti speciali che attraverso il digitale possono ricreare spazi virtuali riuscendo a mostrare luoghi lontani nel tempo di cui ovviamente non abbiamo testimonianza documentaria visiva. Promotori di questo nuovo tipo di storia sono state senza dubbio le tv tematiche, anche qui per una serie di motivi, primo fra tutti il fatto che queste televisioni, molto spesso, appartengono a trust mondiali, a catene televisive sovranazionali poi declinate su ognuno dei paesi in cui viene diffuso il segnale. Le televisioni tematiche di cui ci occuperemo successivamente realizzano un vero e proprio glocal nel senso migliore del termine. Sono loro che sfruttano il circuito dei nuovi format storici, veicolano programmi da un paese all’altro senza troppi problemi di costi. Ciò non toglie che innovazione tecnologica sia sinonimo di una maggiore serietà dei programmi storici. Spesso si punta l’attenzione solo sull’aspetto spettacolare delle ricostruzioni storiche (nei programmi informativi così come nella fiction) soprattutto se si tratta di epoche come l’Egitto dei Faraoni, l’antica Roma, e il Medioevo.

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La ‘storia’ senza Storia. Parte III.

Le televisioni in chiaro (soprattutto la Rai) anche per problemi di costi spesso fanno di necessità virtù, utilizzando materiale d’archivio mantenendo comunque molto alta la serietà scientifica. Piani di lavoro come il Progetto Storia di Raitre (La grande storia, Correva l’anno, Enigma, Il mio Novecento) o La storia siamo noi di Rai Educational sono godibilissimi dal punto di vista della fruizione, e allo stesso tempo mantengono una qualità molto alta. Un altro aspetto da evidenziare prima di passare all’analisi dei programmi di divulgazione del sapere storico in Italia, è quello del rapporto tra attualità politica e epoche prese in considerazione. Al pubblico televisivo viene offerta una riflessione su avvenimenti che più lo toccano da vicino, su atmosfere che vengono in parte vissute dallo stesso pubblico e che quindi direttamente lo coinvolgono. E, dunque, in generale i programmi storici hanno ripreso vigore anche per l’invasione di determinate tematiche dettate dall’attualità; su tutte ovviamente la presenza mediatica dei conflitti in atto nel pianeta. Il flusso continuo delle immagini di guerra in televisione che riguardano il Medio Oriente ed evocano scenari di scontro di civiltà, determinano la scelta prevalente nelle programmazioni di divulgazione storica. Si evince dunque la prevalenza della storia contemporanea, in particolare per il secondo conflitto mondiale e il dopoguerra, mentre è certamente in calo la presa in esame del primo conflitto mondiale; una presenza discreta del risorgimento, partecipe soprattutto con le biografie classiche dei suoi protagonisti; un grosso interesse soprattutto per ciò che concerne i profili artistici nell’epoca dell’Umanesimo-Rinascimento (si pensi solo all’esplosione mediatica del “caso” Leonardo da Vinci); sono aumentate mediante le ricostruzioni virtuali le rievocazioni dell’Egitto dei faraoni e di Roma; sottovalutata resta, invece, al di là della vita di Alessandro Magno, la classicità greca. Inoltre, per finire questa breve carrellata, si deve sottolineare il rinnovato interesse per il Medioevo e per le biografie dei grandi personaggi della storia. L’attenzione al secondo conflitto mondiale è dettata, oltre che dagli scenari di guerra globali che si profilano all’orizzonte, anche dalla scadenza del sessantesimo anniversario della fine della seconda guerra mondiale e della Shoah in Europa, oltre che dall’insurrezione nazionale in Italia. Abbiamo visto e stiamo vedendo sempre più filmati che riguardano la fine

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del Terzo Reich, speciali sul processo di Norimberga, sull’entrata delle truppe russe ad Auschwitz e sulla lotta partigiana in Italia.

3. Le commemorazioni, biografie e collaborazioni Come detto, tra il 2004 e il 2005 molti 60° importanti sono stati ricordati. Si è celebrato in Italia il 60° della liberazione di Roma (4/6/’44) con programmazioni molto interessanti. Su The History Ch. sono andati in onda una serie di documentari di produzione italiana con materiali anche dell’Archivio Luce, in cui si raccontano lo sbarco di Anzio e la battaglia per Roma, oltre al lungo, tragico attacco a quello che venne chiamato Mattatoio Cassino. Sempre nel 2004, esattamente 2 giorni dopo la celebrazione della liberazione di Roma, veniva celebrato il 60° dello sbarco degli alleati in Normandia. Molte televisioni dedicavano retrospettive all’appuntamento attraverso film come La croce di ferro, Il giorno più lungo o Salvate il soldato Ryan che ricordavano il D-Day. Sempre The History Ch. dedicava una serie di documentari alle celebrazioni come D-Day: La vigilia, L’ora H e Lo scoppio. Tra le più importanti manifestazioni commemorative c’è ovviamente la Giornata della Memoria introdotta in Italia per cercare di rendere omaggio nel migliore dei modi alle vittime della Shoah. La Giornata della Memoria, istituita con la legge 211 del 20 luglio 2000 in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti, è stata particolarmente sentita nel 2005 per una serie di motivi. Il primo dato dal fatto che nel 2005 ricorrevano esattamente 60 anni dall’ingresso delle truppe russe ad Auschwitz; il secondo legato al ritrovamento di nuovi documenti grazie ai quali si sta tentando di fare maggiore luce su ciò che è accaduto (e questo se da un lato, come tutti auspichiamo, permette alla scienza storica di chiarire non solo la Shoah ma anche la storia che il filosofo tedesco Gadamer chiamerebbe “storia degli effetti”, dall’altro comporta sempre il pericolo di nuovi radicalismi e revisionismi, che nei casi più allucinati – qualche politico europeo in cerca di visibilità – mettono in discussione se non il numero delle vittime, addirittura che essa sia accaduta); infine è l’attualità storica, che vede alle spalle un annus orribilis: guerre infinite e

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La ‘storia’ senza Storia. Parte III.

terrorismo, violenti attentati e muri che si ergono per separare territori, lotte per l’indipendenza e pulizie etniche. Eventi drammatici, che forse una maggiore consapevolezza della storia potrebbe evitare. Per questo ricordare la Shoah, le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte, vuol dire anche ricordare coloro che si sono opposti al progetto di sterminio, e a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati. Sempre più oggi, quando si guarda a quel tragico passato, non si ricorda più il macroevento ma si raccontano piccoli ed esemplificativi episodi, singoli casi e fatti che si ergono a paradigma della immensa tragedia, sempre più la macro storia lascia il posto alla micro storia, la grande narrazione universale cede il passo a una memoria individuale. Questo è giusto e importante perché elimina il pericolo dell’astrazione dell’evento che può portarlo fuori dalla storia, farlo diventare quasi un simbolo a-storico anonimo. La microstoria dà un volto alle narrazioni dei sopravvissuti, dà voce alle persone che a milioni sono passate per il camino, ma anche questa è un rischio. Ricordare il singolo episodio può a volte deviarci dalla tragedia universale, può farci dimenticare i numeri impressionanti: sei milioni di ebrei uccisi. Ed allora la nostra sensibilità deve cercare di agganciare i due flussi, deve dialetticamente intersecare i due punti di vista, deve capire che i volti singoli ai cancelli dei campi di sterminio erano veri, deve cioè individualizzare la storia ricordando le proporzioni universali del conflitto. In sei anni, la Giornata della Memoria è diventata una fucina di iniziative e manifestazioni in tutta Italia. Impossibile, quindi, dare conto di tutte le possibilità di vedere, informarsi, capire che cosa sia stata la distruzione degli ebrei d’Europa a opera dei nazisti durante il Secondo conflitto mondiale. Anche quest’anno per ricordare la Giornata della Memoria i palinsesti televisivi sono stati ricchi di appuntamenti importanti. Su RaiUno è stato programmato Il pianista, film premio Oscar di Roman Polansky con Adrien Brody; RaiTre attraverso il programma La storia siamo noi ha dedicato l’intera settimana dal lunedì al venerdì alle ore 8 a una serie di documentari che trattano i temi dell’Olocausto (in particolare il 24 e il 25 gennaio è andato in onda il documentario Imaginary Witness su come Hollywood ha raccontato la tragedia). Tra le reti in chiaro anche la programmazione di Rete4, sempre attenta alle celebra-

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zioni storiche, ha tenuto conto dell’anniversario e ha mandato in onda il 24 alle ora 21 il tv movie Norimberga (regia di Yves Simoneau con Alec Baldwin, Cristopher Plummer, Brian Cox e il grande vecchio del cinema storico Max von Sydow), una sorta di fiction molto ben documentata del celebre processo ai massimi criminali nazisti. Sempre sulla stessa rete a seguire Cecchi Paone ha condotto uno speciale del suo Appuntamento con la storia con immagini d’epoca del passato. Si è concentrata invece su Goebbels, l’attenzione di The History Ch. Con tutto il materiale documentario sul famigerato criminale nazista dal titolo Goebbles i diari dell’odio. Oltre al discorso commemorativo, sono gli argomenti d’attualità che, come detto determinano la scelta della programmazione storica. Innanzi tutto il cosiddetto “conflitto di civiltà” tra Cristianesimo ed Islam non può che rimandare, spesso banalmente, al periodo delle crociate all’interno del medioevo. Questa suggestione, che scatena l’interesse verso il periodo storico dell’età di mezzo, viene saziata soprattutto grazie ai nuovi format televisivi come la docu-fiction. Il ritorno in auge del medioevo è anche dettato dall’ansia esoterica molto new age che pervade la società contemporanea; e allora cavalieri templari, rosacroce, e altre compagnie misteriose vengono portate sullo schermo dove programmi dai toni complottisti ci svelano misteri riguardanti il Santo Graal, società segrete o opere artistiche dai rimandi simbolici enigmatici e incomprensibili insieme. Da qui anche l’interesse per le biografie di artisti che hanno legato la loro arte a linguaggi ermetici religiosi, come Caravaggio, il Perugino, Michelangelo, ma ovviamente l’interesse principale cade su Leonardo da Vinci, di cui chi scrive non sente davvero l’esigenza di analizzare il fenomeno della rilettura artistico-esistenziale del genio toscano. Invece si può stabilire un collegamento piuttosto stretto tra l’atmosfera di guerra globale, di conflitto di civiltà, e le biografie dei grandi condottieri. Come detto, l’attuale situazione di conflitto transnazionale, di una guerra trasversale contro un nemico che può colpire in ogni parte del pianeta, è riletta dal mondo occidentale anche attraverso le mosse di pochi personaggi che detengono il potere politico militare. Ci sono poi immagini molto potenti che fanno il giro del mondo suggerendo l’idea dei condottieri del passato: l’immagine delle torri gemelle che cadono giù mimate dal capo di Al Queda, Osama Bin Laden, oltre a tutti i suoi messaggi radiotelevisivi; pensiamo al presidente degli Stati Uniti e alle sue

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La ‘storia’ senza Storia. Parte III.

conferenze o alla sciagurata immagine (tragicomica) sulla portaeri in cui capeggiava la scritta “missione compiuta”. Tutto ciò dà l’idea al mondo di essere in balia di pochi politici, e allora il paragone corre verso la biografia dei grandi condottieri a volte illuminati, più spesso sanguinari, che hanno bagnato di sangue il mondo: Alessandro Magno, Cesare, Carlo Magno, il Saladino, Napoleone, Mussolini, Stalin e l’icona del male assoluto, Hitler. Le loro vite sono ripercorse da speciali monografie, docu-fiction ma anche, anzi soprattutto, da fiction. Certamente le monografie più interessanti sono state realizzate da Piero Angela nel suo Speciale di Superquark, come la doppia puntata speciale di Superquark dedicata a Giuseppe Garibaldi, l’eroe più popolare e amato dal nostro risorgimento. Ci sono poi collaborazioni che si risolvono in coproduzioni o altro. Nel mese di Marzo del 2004 è iniziata una collaborazione tra The History Ch. e Istituto Luce che ha fatto sì che venissero riproposti sul canale satellitare una serie di preziosi documenti, immagini e documentari storici provenienti dagli archivi del Luce. Spesso si tratta di materiali inediti in televisione, come La guerra a colori (filmati non ufficiali) in cui la seconda guerra viene documentata con rarissime riprese in pellicola 16mm a colori (già nel ’35 il 16 mm era disponibile a colori ma i cinegiornali di Stato continuarono ad essere in bianco e nero). Si tratta di una storia fuori dai canoni raccontata dai diretti protagonisti. Vi sono poi diverse coproduzioni che mettono insieme distinti soggetti (quasi sempre canali televisivi) e che poi li fanno passare nelle loro programmazioni. In missione per Mussolini è un documentario prodotto da Doclab per RaiTre e Fox Channels scritto e diretto da Vania Del Borgo. Questo lavoro è passato la prima volta su The History Ch. il 3/02/’06 e poi su RaiTre all’interno de La grande storia qualche giorno dopo (il 9/02/’06). Il documentario davvero ben fatto racconta la corsa agli armamenti negli ultimi anni della guerra. In particolare la missione che il giornalista Luigi Romersa (in effetti era una spia del regime fascista) compì per ordine di Mussolini per avere notizie sulle nuove armi segrete di Hitler. Tra le collaborazioni più fruttuose vi sono poi i back-stage che analizzano i dietro le quinte di un film. Su Discovery Ch. è andato in onda Becoming Alexander, frutto della costante presenza di una troupe televisiva

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“parallela” nella fase di preproduzione e poi sul set di Alexander di Oliver Stone. La vita di uno dei maggiori e più celebri personaggi della storia antica e, contemporaneamente, la preparazione di un film, la costruzione di un personaggio da parte di un attore e del suo regista. Protagonisti, oltre al regista che ha messo in moto questa enorme macchina mediatica, colui che dà il volto ad Alessandro Magno, Colin Farrell; poi ci sono gli interventi dello storico Robin Lane Fox, docente ad Oxford e consulente per il film. Si tratta di un lavoro dal doppio livello testuale. Da un lato si cerca di ripercorrere la breve vita di Alessandro III di Macedonia, per capire chi fosse il personaggio storico, dall’altro il taglio documentaristico è applicato all’avventura cinematografica. Anche se questo “dietro le quinte” è stato concepito come veicolo promozionale da distribuire prima dell’uscita del film, sicuramente riesce a regalarci immagini uniche e suggestioni sul mestiere del narrare la storia di un personaggio così grande. Questo lavoro riesce a cogliere con accurata e fedele rappresentazione la genesi e la realizzazione di un progetto sulla storia attraverso interviste sul posto e riprese fatte dalla privilegiata posizione di uno spettatore non visto. Le conoscenze dello storico vengono declinate e prendono vita nelle idee del regista, che attraverso il dialogo con il “suo” attore riesce a ri-creare il carattere del personaggio. Per concludere questa breve carrellata sulle tematiche e le forme dei programmi storici va detto che le produzioni televisive di carattere storico, hanno una tendenza ad affermare, più che ad analizzare, il passato, come se, attraverso l’autenticità effimera che queste contengono, l’immagine possa offrire una realtà storica nella più semplice trasparenza. Se da una parte la rielaborazione dell’immagine d’archivio è fondamentale per un dialogo tra autore e spettatore, onde evitare una filologia pedante della fonte, dall’altra la divulgazione televisiva deve porsi in modo critico di fronte agli eventi controversi della Storia.

4. I programmi di storia Nella televisione, fin dall’origine, l’intento di una programmazione storica veniva visto come un genere per pochi, qualcosa che avesse a che fare

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La ‘storia’ senza Storia. Parte III.

più con il dovere del racconto della memoria nazionale e della celebrazione, che non con il piacere della narrazione. La programmazione storica era relegata in orari non di punta, occultata tra le pieghe di palinsesti affollati di attualità e affamati di presente, oggi invece gli appuntamenti fissi riguardanti la conoscenza storica sono molti, andiamo ora a cercare di analizzare i più importanti. Partiamo in questa rassegna sui programmi di storia proprio da quella che tra le reti Rai ha saputo distinguersi come la migliore delle reti di servizio pubblico. Nella programmazione di RaiTre la storia, e in particolare la storia d’Italia, ha assunto un ruolo primario, sopperendo alle carenze della società civile e della politica per l’elaborazione di una memoria storica comune. Oltre a La grande storia in prima serata (giunta al suo 8° anno di vita: 80 puntate in prime time che hanno ottenuto punte di ascolto del 15% di share), RaiTre è impegnata, per una precisa scelta editoriale, nella realizzazione di un “Progetto Storia” che prevede la messa in onda diversificata di appuntamenti in grado di soddisfare le diverse esigenze degli spettatori. E infatti fanno parte di questo progetto, oltre alla già citata La grande storia in prima serata, l’altro programma di punta del progetto, Correva l’anno, programma giunto alla sua ottava edizione, con la collaborazione di Paolo Mieli e della consulenza storica di Giovanni Sabbatucci; Enigma condotto in studio da Corrado Augias, che racconta le pagine più affascinanti e inquietanti della Storia, portando all’attenzione degli spettatori ipotesi più estreme e fantastiche che non hanno mai trovato spazio nelle cosiddete “storie ufficiali”. Ed inoltre fanno parte del “Progetto Storia” due programmi con una continuità molto più debole come Il mio novecento, in cui protagonisti della politica e della cultura del ’900 raccontano se stessi e il secolo che li ha visti testimoni; La grande storia Tricolore serie di programmi realizzati sotto l’alto patronato del Presidente della Repubblica, in occasione di ricorrenze di particolare interesse storico per il nostro paese: l’“8 settembre”, il “4 novembre”, il “25 aprile” a 60 anni dalla Liberazione. Il “Progetto Storia” di Raitre è coordinato dal vicedirettore Pasquale D’Alessandro6. La grande storia in prima serata è iniziata nel 1997 con due puntate che ottengono un enorme successo di pubblico: Galeazzo Ciano: una tragedia 6. Cfr. http://www.raitre.rai.it/R3_popup_articolofoglia/0,6844,48^469,00.html.

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fascista e Hitler e Mussolini: gli anni degli incontri, entrambe a firma di Nicola Caracciolo. Scorrendo velocemente i titoli e le tematiche trattate negli anni successivi da La grande storia, ci si accorge di un uso diverso del documento filmato. Nei suoi primi cicli la maggior parte delle puntate della trasmissione sono dedicate alla storia del fascismo e del nazismo e ai protagonisti che li rappresentano. A partire dal 2000, il programma si dedica anche ai decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, pur mantenendo l’interesse verso quel periodo centrale. La scelta de La grande storia fa sì che, per la prima volta, il documento filmato sia presentato in televisione consapevole delle sue enormi potenzialità. Il programma è costituito da monografie. Ogni puntata affronta un argomento su importanti temi o personaggi. Da qui anche il titolo: perché la storia di cui ci si occupa è quella che ha abbracciato grandi eventi, spesso anche nell’arco di molti anni, che hanno caratterizzato in qualche modo i destini, gli usi e i costumi, i comportamenti sociali degli uomini. Il che, se possiamo dirlo, rappresenta anche un salutare ripristino di un’idea del racconto storico come grande testo, e non solo come piccola, qualche volta minima o microscopica ricostruzione di episodi parcellizzati (come in uso in questi ultimi tempi). Con La grande storia sembra essere tornati alla tradizione della storia-narrazione, come nell’Ottocento, che affidava alla potenza evocativa del racconto il compito di rendere credibile una ricostruzione del passato. Qui la novità è che il racconto è affidato in modo prevalente all’immagine, dove la connessione, l’associazione immediata come vincolo privilegiato dei fatti prende il posto della connessione causale o cronologica cara agli storici. Se dal punto di vista narrativo si è tornati alla tradizione di una grande storia-racconto, dal punto di vista della metodologia interpretativa dei documenti si è fatta propria la lezione della rivoluzione documentaria delle Annales. Il documento filmato non è più utilizzato come riempitivo ma ha la dignità di fonte ed è, come tale, soggetto a una critica e una interpretazione che lo fa apparire in modo diverso. La scelta dei soggetti storiografici conferma che i documenti filmici non sono più delle immagini accantivanti, sorta di sfondo su cui viene steso il commento affidato a una voce fuori campo, sono documenti utili alla comprensione del tema trattato. «Nella tradizionale storia televisiva le immagini erano, per così dire, normalizzate e sottoposte a un ordine discorsivo di tipo manualistico, La grande storia rovescia il rapporto tra immagine e testo, attribuisce

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La ‘storia’ senza Storia. Parte III.

alle prime il ruolo più importante ed esalta le potenzialità conoscitive e esplicative del montaggio […]. Se il testo ha il ruolo di spiegare e chiarire ciò che lo spettatore sta vedendo, le immagini non sono affatto un accompagnamento, un corollario o un fondale scenografico per le parole, ma il punto di partenza per la ricostruzione storica»7. La grande storia, con un’ampia ricostruzione storica e voce narrante, ha spiegato un periodo cruciale di storia italiana; ha intessuto un grande e tragico romanzo, con un attento gusto del montaggio e senza nessun personalismo e nessun ricorso a sceneggiature un po’ troppo teatrali, basandosi su filmati talvolta eccezionali ripresi sia dall’Istituto Luce che da altre fonti. Come abbiamo detto, fanno parte del progetto storia di RaiTre anche altre trasmissioni; tra queste Correva l’anno e Enigma. Correva l’anno nelle ultime edizioni si è specializzato in una serie di “biografie”. Dopo aver raccontato i grandi leader del Medio Oriente con documenti inediti reperiti in archivi pubblici e privati e con le testimonianze dei protagonisti, la trasmissione ha dedicato un ciclo ai personaggi degli anni ’40: da Hitler a Nenni, da De Gasperi a Umberto di Savoia; e inoltre una serie di otto puntate su altrettanti protagonisti della storia del XX secolo: Yasser Arafat, l’ayatollah Khomeini, Mao Tze Tung, Francisco Franco, John Fitzgerald Kennedy, Palmiro Togliatti, David Ben Gourion e Margaret Thatcher. Nell’ultima stagione il programma ha mandato in onda uno speciale sul processo di Norimberga, vale a dire le biografie dei leader nazisti processati a Norimberga, fino al processo di Eichmann a Gerusalemme. Le biografie erano chiuse, come sempre, con il commento e l’editoriale di Paolo Mieli. Enigma prende spunto dal fatto che ci sono momenti storici, o eventi, che ci scorrono addosso e che vale la pena ricostruire. La trasmissione nasce con la conduzione di Andrea Vianello, che faceva parte anche del gruppo degli autori. A partire dal giugno 2005 cambia formula e si occupa di personaggi celeberrimi la cui esistenza è però piena di buchi neri, di cui pare essere stato detto tutto ma che sono ancora un mistero. La conduzione passa al giornalista romanziere Corrado Augias che, da appassionato giallista, affronta la ricostruzione storica di ogni personaggio 7. R. Forlenza, Nota metodologica. La grande storia in. prima serata, in F. Anania, Immagini di storia. La televisione racconta il Novecento, op. cit., p. 187.

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con piglio investigativo, cercando di fare luce sull’esistenza di personaggi come Anastasia, figlia dell’ultimo Zar, Jack lo Squartatore, Cleopatra, la Petacci e via discorrendo, attingendo a volte anche alla contemporaneità, come nel caso della morte di Lady Diana e di Versace o, ancora, della “pastorella” di Fatima. Tutto allo scopo di scoprire, nelle pieghe della storia e della cronaca, i punti oscuri e meno esplorati. Oltre a RaiTre va certamente ricordato il ruolo di Rai Educational di cui, precedentemente, abbiamo fatto un discorso a parte visto che il suo ambito non riguarda solo la storia, ma la scienza in generale, e il suo medium non è solo la televisione. Nel 1997, con Top secret e Format, filiazioni entrambe del progetto Mixer, Giovanni Minoli ipotizza nuovi modi di proporre la “storia”. E infatti, tra i programmi più interessanti che sono stati proposti all’interno di Rai Educational, vi è certamente La storia siamo noi: 240 ore di storia all’anno, un’indagine nella memoria condotta in studio proprio da Giovanni Minoli, che abbraccia un ampio raggio di tematiche attinenti il passato recente: il racconto dei personaggi del secolo appena trascorso, i gialli della Storia mai risolti, l’economia, i misteri della cronaca, e in particolare la storia politica con i cicli L’Alba della Repubblica e La Nostra Costituzione8. I filmati provengono quasi tutti dalle teche Rai, montati e successivamente analizzati con notevole rigore filologico mediante consulenze di indiscusso valore scientifico. La storia siamo noi è una trasmissione ben fatta, con interviste molto serie, sobrie e senza l’enfasi sensazionalistica; i brani filmati dell’epoca, eloquenti e talvolta agghiaccianti, ricostruiscono con attenzione l’atmosfera e gli eventi del tempo, quasi sempre attraverso una specie di struttura legata al ‘giallo’, che riporta l’attenzione sul fatto preso in esame. Il problema del programma è la sua messa in onda (il lunedì alle 22.50 su RaiDue; dal lunedì al venerdì, ore 08.05 su RaiTre e il mercoledì anche alle 00.20, sempre su RaiTre). Sull’onda lunga dell’interesse suscitato dal “progetto storia” di RaiTre e dai programmi di Rai Educational, si sono mosse successivamente sia la stessa Rai che le televisioni private, in particolare LaSette e Retequattro, che di frequente propongono trasmissioni dedicate alla storia sia in daytime con una serialità giornaliera, sia nel prime time con serialità settimanale. 8. http://www.lastoriasiamonoi.rai.it.

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La ‘storia’ senza Storia. Parte III.

Da sempre su RaiUno il mattatore della divulgazione scientifica è Piero Angela. Dal 1971 a oggi Piero Angela cura centinaia di programmi educativi con formule diverse. Nel 1981 inventa la rubrica scientifica Quark, la prima trasmissione televisiva di divulgazione scientifica rivolta al pubblico generale, che sfrutta in modo originale tutte le risorse della comunicazione televisiva. Dal 1999 dà origine agli Speciali di Superquark, serate monotematiche su argomenti di grande interesse sociale, psicologico e scientifico. Gli Speciali sono una variante della trasmissione Quark, che si interessano anche della Storia, in particolar modo della storia antica. Dalle prime puntate dedicate, rispettivamente, all’antica Roma e all’antico Egitto, l’elenco delle puntate speciali prosegue con le grandi biografie di celebri personaggi, con titoli quali: Il Re Sole alla corte di Versailles, Napoleone e le otto ore di Waterloo, Marco Polo e il Milione, Cristoforo Colombo, Umberto Nobile, Michelangelo Buonarroti, Il fantastico viaggio dell’Odissea, Giuseppe Verdi, Enrico Fermi, Giuseppe Garibaldi, Sissi, Mozart, Luigi XVI: ultimo giorno e il capolavoro della serie, puntata dagli ascolti record, Leonardo da Vinci, ritratto di un genio. A partire dal 2003 gli speciali trovano posto in prime time nei giorni infrasettimanali (martedì o mercoledì) del mese di dicembre, questo crea una sorta di tradizione prenatalizia dell’appuntamento monografico. Tra gli Speciali, vanno anche annoverate alcune puntate dedicate nuovamente all’antico Egitto e all’antica Roma, andate in onda nel 2004, girate nei luoghi originali e con spettacolari ricostruzioni storiche e virtuali. Oltre a proporre sceneggiati televisivi della BBC, Piero e Alberto Angela entrano virtualmente nei filmati per approfondire gli aspetti salienti e spiegare le scelte narrative. Inoltre sui luoghi originari mostrano reperti e documenti delle storie spiegando il contesto sociale e antropologico attraverso la grafica computerizzata. Tutte le puntate speciali di Superquark si caratterizano, da sempre, di imponenti ricostruzioni in computer grafica, curata dai migliori tecnici. L’atteggiamento prevalente nei confronti della storia da parte di Piero Angela è quello di fare divulgazione scientifica tenendo però presente le ferree leggi dell’intrattenimento, e in un certo senso, proponendo una narrazione del passato ricostruito soprattutto attraverso le docufiction, perviene a una sintesi interessante tra il contenuto storico da raccontare e le potenzialità spettacolari del mezzo televisivo. Come detto in precedenza, anche le televisioni private vanno alla ricerca della storia, buon esempio è il progetto di Alessandro Cecchi Pao-

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ne che ha creato La Macchina del Tempo, il programma di divulgazione scientifico-culturale che attraverso puntate monografiche racconta storie di scienza, natura e archeologia mediante un buon equilibrio tra l’approfondimento e la spettacolarità dei filmati (produzioni mondiali di BBC, Channel Four, Nhk Giappone…). Anche La Macchina del Tempo sulla falsariga di Superquark basa le sue narrazioni sulle docufiction. Tra i maggiori successi della trasmissione, vi sono infatti quelli con i documentari della BBC come I Predatori della preistoria, Il mondo dei dinosauri e in particolare Gli uomini della preistoria. Qui sono narrati, in un misto di fiction e documentario scientifico gli albori della razza umana. Da quando un essere ancora molto scimmia, circa 4milioni di anni fa, si alzò eretto e fece il primo passo per diventare Australopiteco prima e Paranthropus poi, e quindi Homo (Abilis, Erectus, Neanderthal, Sapiens). Si è trattato di un grande acquisto del programma La macchina del tempo, che ha comportato un notevole investimento economico, nella misura in cui la produzione della BBC ha coinvolto oltre cento scienziati e le cui riprese sono state fatte in Sudafrica e Islanda. Appuntamento con la storia è una variante del programma La macchina del tempo. Il programma, presentato sempre da Alessandro Cecchi Paone, propone documentari sui fatti e i personaggi che hanno caratterizzato la storia del XX secolo. Anche Appuntamento con la storia, al pari de La grande storia, si propone di contribuire alla divulgazione storica in televisione, e la sua messa in onda, in prima serata il sabato sera, è una sfida ai programmi di varietà. Le puntate del programma sono illustrate nei suggestivi ambienti della Sala di lettura Federiciana della seicentesca Biblioteca Ambrosiana di Milano, con interviste ad alcuni ospiti di impostazione storica diversa sugli argomenti proposti dai documentari. Un ruolo che, a partire dalle passate edizioni, ha visto avvicendarsi personaggi come Gianni Bisiach, Giovanni De Luna, Giordano Bruno Guerri, Paolo Mieli, Sergio Romano, Helga Schneider e Tiziano Terzani9. Tra le puntate più interessanti certamente ci sono state quelle con il documentario targato BBC sui crimini di guerra commessi dai giapponesi ai danni delle popolazioni che abitavano le zone dell’Asia da loro occupate a partire dal 1937. Orrore in Asia – I crimini dei giapponesi il titolo del documentario che parte dalla descrizione dell’espansione nipponica per 9. http://www.macchinadeltempo.com.

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giungere all’attacco di Pearl Harbor, quando le vittime della violenza cieca dei conquistatori del sol levante saranno anche americani ed europei che vivevano nell’area. Per ciò che riguarda La7 nelle passate stagioni c’era L’Altra Storia, condotta da Sergio Luzzatto. Già dal titolo il programma ribadiva la diversità delle impostazioni tradizionali, avvicinandosi per stile ad alcune puntate de La storia siamo noi. In particolare nelle due puntate dedicate al viaggio attraverso uno dei periodi piu’ bui del nostro Paese segnato da due eventi che hanno sconvolto l’Italia durante i terribili anni di ‘piombo’: la strage di Piazza Fontana nel 1969 e la bomba alla stazione di Bologna nel 1980. All’orrore delle immagini delle stragi, si alternano le toccanti testimonianze dei familiari delle vittime, dei medici che hanno prestato i primi soccorsi e del magistrato Guido Salvini, pubblico ministero nel processo per la strage di Piazza Fontana. Dopo L’altra storia, la testata La7 si è spostata sempre più verso il versante misterico della storia, ne è un esempio Stargate – Linea di confine, programma che agli inizi era un contenitore che alimentava solo tesi complottiste sui misteri più disparati del passato. Da storico-esoterico dai risvolti misterici si è trasformato in un programma via via più scientifico e serio. Anche il cambio di conduttore ha giovato alla trasformazione: Valerio Massimo Manfredi, noto romanziere (Alexandros, Lo scudo di Talos), storico, archeologo e sceneggiatore, ha dato una svolta al programma che ha preso a trascurare il racconto di piramidi aliene e tesori templari nascosti, affidandosi, sempre con taglio evocativo, a questioni più stimolanti. Anche un programma come Sfera (sempre La7), guidato da Andrea Monti, spesso fa riferimento alla storia attraverso reportage acquistati da altre reti internazionali, come le puntate speciali del marzo 2005 sul trentennale della fine della guerra in Vietnam. Attraverso una breve storia di quella guerra si giunge alla situazione di attuale instabilità in quell’area geografica. Inoltre, per concludere con La7, risulta davvero interessante il discorso che la rete ha fatto intorno agli indimenticabili cinegiornali dell’Istituto Luce. Dagli sterminati archivi dell’istituto omonimo, La7 ha promosso Anni Luce, assemblaggio di cinegiornali dell’Istituto dal dopoguerra agli anni Ottanta, con immagini fondamentali o solo marginali, momenti topici del nostro paese, utilizzando anche spezzoni cinematografici e servizi giornalistici.

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Programmi come La grande Storia, Correva l’anno, Appuntamento con la storia e altri, pur con formati e messe in onda diverse, ribadiscono il fatto che su determinati argomenti la funzione informativa è la funzione dominante, con buona pace di chi ritiene che l’intrattenimento sia un genere vincente della neotelevisione. Nella sua accezione più ampia, la televisione rimane uno strumento di informazione – e l’evoluzione del programma storico lo conferma – che si preferisce ad altri mezzi di comunicazione di massa proprio in virtù di far conoscere quello che accade o quel che è accaduto nel mondo. La televisione generalista, attraverso una programmazione standardizzata, propone in un certo senso un prodotto sempre identico, un flusso continuo a qualsiasi ora del giorno e della notte, raggiungibile da chiunque, non importa se interessato veramente o meno a ciò che sta vedendo. La televisione generalista ipotizza lo spettatore perfetto come colui che rimane sulla rete passando da un programma all’altro. Nelle televisioni tematiche accade la stessa cosa, ma l’individuazione del referente è diversa. Attraverso un prodotto tematico di qualità sulla rete compare un flusso tematico ininterrotto e continuo che risponde però, non alla domanda superficiale della televisione generalista, ma a una domanda specifica e limitata, estesa in termini di tempo all’intera programmazione. The History Channel, l’unico canale televisivo tematico dedicato esclusivamente alla storia, nasce in un momento in cui nel nostro paese c’è una grande richiesta di proposte di intrattenimento di questo genere. The History Channel rappresenta una assoluta novità nel panorama televisivo nostrano, dove le tematiche storiche fino a oggi sono state trattate in singoli programmi. In questo modo gli appassionati di storia hanno a disposizione un punto di riferimento in onda 24 ore su 24 dove possono trovare una storia scientificamente documentata e al tempo stesso godibile e appassionante. Tutta la storia, di tutte le epoche di tutto il mondo, dall’antichità ai nostri giorni. La storia dei conflitti e delle guerre, come quella delle grandi scoperte scientifiche e geografiche. La storia dei grandi personaggi che hanno modificato il corso degli eventi e la storia dei popoli e delle civiltà del mondo. Le dinamiche sociali collettive e le passioni individuali divenute motrici di grandi eventi che hanno cambiato il corso della storia dell’umanità. Insomma, tutto quanto ha fatto, sta facendo e farà storia. Quella di The History Channel è una storia che esce dai libri e dai musei, passa per il teleschermo ed entra nelle nostre case più viva che mai. È una storia viva e che fa rivivere il

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La ‘storia’ senza Storia. Parte III.

passato, che emoziona e coinvolge in prima persona lo spettatore portandolo dove e quando le cose sono accadute. Inoltre con la collaborazione avviata con l’Istituto Luce il canale si arricchisce degli archivi Italiani per trasmettere una storia sempre più vicina al paese e alla sua cultura10.

Il Palinsesto offre appuntamenti fissi, quotidiani e settimanali: ogni giorno vi è la biografia di un personaggio della cultura, della musica, del cinema, o dello spettacolo in genere (Charlie Chaplin – Greta Garbo, Buster Keaton, Edith Piaf, Agatha Christie) o dei personaggi della storia politica e della guerra (Marco Polo, Adolf Eichmann, I Romanov, Pablo Escobar, Che Guevara), solo per fare l’esempio di una settimana qualsiasi, ogni giorno della settimana, inoltre, v’è un appuntamento fisso. L’altro canale tematico è Discovery Civilisation: si tratta di un canale dedicato alla storia raccontata attraverso gli eventi e le civiltà che ne hanno caratterizzato l’evoluzione, dalla preistoria fino al giorno d’oggi. Discovery Civilisation porta lo spettatore al centro degli eventi del passato e del presente, ricostruendone le vicende e i personaggi che ne sono stati i protagonisti. La Storia rivissuta attraverso i personaggi e gli eventi che l’hanno costruita: «Dai grandi faraoni dell’antico Egitto alle biografie dei protagonisti della cultura degli ultimi anni, dalla ricostruzione delle grandi battaglie all’analisi delle ragioni che hanno determinato i principali eventi storici, Discovery Civilisation offre l’opportunità di approfondire la storia e i suoi personaggi con programmi di elevata qualità, innovativi e avvincenti»11. Molti sono i lavori autonomamente prodotti, come il documentario Le sette meraviglie di Roma. Qui vengono analizzati i capolavori di ingegneria e architettura noti in tutto il mondo, che hanno superato i millenni e le devastazioni delle guerre, e la crescita della capitale di un impero sterminato. Il Circo Massimo, il Foro Traiano, l’Acquedotto Claudio, la Via Appia, le Terme di Caracalla, il Pantheon e il Colosseo.

10. http://www.historychannel.it/ilcanale.php. 11. http://www.publikompass.it/pagine/pagina.aspx?ID=DiscoveryCh001&L=IT.

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Capitolo 4.

La fiction storica

«Di questi tempi anche l’amore tra un conte e una serva non è più un’utopia. Dove andremo a finire?» (Il duca Ranieri in Elisa di Rivombrosa)

1. Il concetto di fiction Il primo problema che dobbiamo porci, parlando di fiction televisiva, è che cosa può essere considerato fiction e cosa deve essere considerato altro. Fiction è la parola con cui nella lingua inglese si definiscono tutte le opere di immaginazione e di fantasia. Nel suo significato più diffuso, tuttavia, il termine fiction designa una forma specifica di produzione immaginaria: la narrativa, il racconto di storie o, ancora con un’espressione inglese, lo story-telling1. A seconda dei diversi linguaggi e dei diversi media di comunicazione a cui si accompagna, la narrativa o fiction può essere orale (i racconti dei bardi e dei cantastorie), scritta (i romanzi), cinematografica (i film), e finalmente televisiva (serie e serial, miniserie e film tv). Per fiction televisiva, dunque, si intendono le storie che vengono create e realizzate espressamente per il piccolo schermo. Si può dunque immediatamente concludere che questo genere televisivo, anche cambiando nome o, di volta in volta, cambiando ambientazione e tematiche, non conoscerà mai crisi, perché le fiction sono racconti, e l’umanità non si è mai stancata di sentir narrare storie, purché siano attraenti. La fiction televisiva nasce con la tv generalista e modella le proprie forme sulle esigenze del broadcasting2, e cioè: trasmissione su base conti1. Spesso per il tipo di racconto continuativo televisivo si usa anche il termine story line, una linea narrativa, ovvero l’insieme degli eventi che coinvolgono gli stessi personaggi. Può trattarsi del plot centrale di una storia, o di un sub-plot (storie parallele o secondarie), di un plot episodico. 2. In linguaggio tecnico indica la trasmissione Hertziana (via etere) di segnali della

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La ‘storia’ senza Storia. Parte III.

nuativa e organizzazione dei programmi all’interno di una griglia standardizzata, vale a dire il palinsesto. I vari programmi televisivi (ivi compresa la fiction) sono quindi sottoposti a differenti gradi di serializzazione, in base alla frequenza di messa in onda (quotidiana, settimanale, una tantum). Ne deriva, come vedremo più sotto, che uno degli elementi chiave per discernere le diverse morfologie della fiction televisiva è costituita dal diverso tipo e grado di serializzazione dei programmi. Ordinati secondo un ideale asse della serialità, i principali formati della fiction televisiva sono il film tv (non seriale), la miniserie (serialità debole), la serie (antologica, episodica, serializzata) e il serial (aperto o chiuso). Le fiction, in quanto forme di narrazione popolare, influiscono sull’immaginario della gente in due maniere: da una parte rispecchiano il Paese, “pezzi” d’Italia reale, da quella del lavoro a quella della religione, nei quali tutti possono riconoscersi; dall’altra condizionano il modo in cui le persone fantasticano su se stesse, sulla loro vita, sul loro ambiente. La fiction, insomma, è per gli italiani al tempo stesso uno specchio della loro identità e uno strumento per costruirla. Alla proliferazione di fiction che ripropongono il nostro passato e grandi personaggi contribuisce non solo la tradizione stessa dello sceneggiato italiano, che sin dai suoi esordi, ha avuto nella storia una fonte primaria d’ispirazione, ma anche il periodo particolare che stiamo vivendo. Quando il presente è carico di preoccupazioni e inquietudini, è naturale rivolgersi al passato, in cerca di esempi rassicuranti e di radici da cui ripartire. Vi è un’esigenza identitaria non trascurabile alla base della proliferazione delle fiction riguardanti la storia. Le fiction storiche, però, sono accusate di ridurre la storia a romanzo popolare, di distorcere la realtà ammantandola di sentimentalismo, di ridurre la storia al costume. La fiction disegna un mondo possibile, un mondo con una sua coerenza interna. Il che non significa che la fiction disegni dei mondi necessariamente realistici, ossia simili ai nostri. Piuttosto, il mondo deve avere una verosimiglianza rispetto all’universo valoriale che costruisce. La fiction italiana ha sempre privilegiato le storie dell’Italia di oggi, vale a dire storie d’ambientazione contemporanea e che, per cultura e stili di vita, scenari, paesaggi, “identità” dei personagradio e/o della televisione. La trasmissione via etere è la modalità tecnica che ha caratterizzato la televisione generalista. Perciò questo il termine è divenuto equivalente di televisione, e più esattamente di televisione generalista.

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gi siano riconoscibili come “italiane”, con una linea editoriale intesa a sfruttare il requisito della prossimità culturale. Alle storie del passato è stata riservata, d’abitudine, una quota marginale dell’offerta. Negli ultimi anni si è assistito alla trasformazione delle fiction da “quotidiane” a “storiche”. Queste spesso sono carenti dal punto di vista storiografico, ma, ovviamente, non hanno la pretesa di essere considerate alla stregua dei documenti storiografici né delle indagini sociologiche, e tanto meno degli strumenti educativi. Piuttosto «è come se l’ancoraggio identitario rappresentato dalla grande miniera di tradizioni cattoliche e storiche cominciasse a retroagire sulle altre storie italiane rappresentate dalla fiction per dare ad esse quel respiro necessario nell’attuale contingenza storica, più di altre caratterizzata, non solo per gli italiani da vissuti di incertezza e sentimenti di ambivalenza»3.

2. Verosimiglianza serialità e genere Come detto la fiction disegna un mondo possibile, un mondo con una sua coerenza interna. Ma il limite che si può incontrare nella prospettiva dei mondi possibili è: in quali prodotti la tv costruisce dei mondi possibili, e quando invece si può parlare di prodotti che fanno riferimento al mondo reale? Ovvero, quando si può parlare di fiction, e quando si può parlare d’altro (infotainment, reality, etc.)? La risposta sembrerebbe risiedere nella scrittura, nella pianificazione scritturale. Ossia, la fiction avrebbe una sceneggiatura scritta e recitata, gli altri generi no. Tuttavia, a un’analisi più profonda, si deve assumere che la sceneggiatura non è l’unica forma di scrittura di un programma; come abbiamo visto, attraverso l’analisi dei programmi che pretendono di riportare il reale o attraverso i nuovi format che nascono attraverso l’innesto di fiction e documentario tra l’informazione e lo spettacolo (generi trasversali, incerti, indefiniti, transgenici), si può trattare di fiction in ogni caso. Anzi: il casting, il montaggio, la location, le regole del gioco, sono elementi di scrittura (e, quindi, di costruzione di mondi possibili) comunemente utilizzati, ad esempio, nei reality, nelle docu-fiction, o nelle ricostruzioni documentarie. 3. G. Bechelloni, Considerazioni generali. L’ancoraggio identitario, in Milly Buonanno (a cura di), Lontano nel tempo. La fiction italiana. L’Italia nella fiction. Anno sedicesimo, Rai Eri, Roma 2005, p. 21.

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La ‘storia’ senza Storia. Parte III.

Si è visto che i conflitti relazionali del Grande Fratello o dell’Isola dei Famosi, come per qualsiasi fiction, possono essere scritti, altrimenti indotti, con la differenza che i primi sono considerati “veri”, ossia spaccati del mondo reale (per quanto anche qui vi sia la costruzione di un mondo altro), mentre per ciò che riguarda la narrazione della fiction vi è la totale costruzione di un mondo altro, che può prendere spunto dalla realtà passata e presente, ma che comunque è verosimile e coerente internamente. Dunque, un parametro fondamentale nella decisione su cosa sia fiction e cosa non lo sia è l’attribuzione sociale dello statuto di verità o di veridicità. Ciò detto, è ora necessario passare ad analizzare la fiction “dall’interno”. La fiction viene solitamente classificata sulla base di due parametri. Il primo, specifico della fiction televisiva, è il formato, ossia l’utilizzo che viene fatto del tempo. Il secondo, mutuato dal cinema, è il “genere”. Sono entrambi indispensabili, ma si tenga conto che, per una serie di ragioni, il “genere” dei prodotti di fiction è un criterio più aleatorio rispetto ai prodotti cinematografici, per i motivi che andremo a valutare più sotto. Le caratteristiche della serialità Le caratteristiche fondamentali di ogni manifestazione seriale (comportamenti, prodotti materiali e simbolici) sono numerosità, similarità e ripetizione, ritorno del già noto, continuità attraverso regolari cadenze temporali. Tutte queste nozioni si applicano perfettamente alla fiction televisiva. Basta pensare agli episodi plurimi di una serie o al numero potenzialmente sconfinato delle puntate di un serial; alla riproposizione degli stessi protagonisti da un segmento narrativo (episodio o puntata) all’altro; alla ripetizione delle stesse formule narrative e di genere; alla estensione temporale cadenzata da appuntamenti quotidiani o settimanali, nella stessa collocazione oraria. Rispetto al formato, tutte le classificazioni, pur molto diverse tra loro, sono concordi nel definire una distinzione preliminare, che riguarda, dal punto di vista narrativo, l’uso che si fa del tempo. Qualora si utilizzi il tempo in termini di continua reiterazione, in cui la memoria dei personaggi e il loro sviluppo siano, nel tempo, praticamente nulli, si ha di fronte una serie. Il modello contrapposto di utilizzo del tempo si basa sullo sviluppo di una serie di linee narrative che si estendono nel tempo, in maniera potenzialmente infinita. In questo caso si parla di serial.

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La serie discende dalle narrative popolari dell’Ottocento, in particolare il romanzo di detection con le sue figure di “eroi ricorrenti”. Un episodio è un segmento narrativo autonomo e compiuto, che racconta una storia dall’inizio alla fine. Lo standard internazionale di durata di un episodio è di 50/60 minuti, così come il numero standard di episodi per ogni edizione di una serie è 12/13, trasmessi a cadenza settimanale. Ma esistono differenze ed eccezioni, a seconda delle tradizioni, delle tipologie e delle economie produttive dei diversi paesi. In quanto segmenti narrativi autosufficienti, gli episodi di una serie sono in linea di principio indipendenti gli uni dagli altri. Tuttavia i protagonisti e la comunità dei personaggi, i luoghi e gli ambienti delle storie, il genere dei racconti (poliziesco, hospital, fantascienza o altro), e in definitiva l’insieme degli elementi “ricorrenti” che ritornano un episodio dopo l’altro, fanno dei diversi segmenti narrativi una riconoscibile e inscindibile totalità, che costituisce il “mondo della serie”. Il serial: diretto discendente del feuilleton ottocentesco, il serial televisivo si caratterizza per due proprietà distintive: la segmentazione in puntate, e la lunga o lunghissima durata del racconto (mesi, anni). Per puntata si intende un segmento narrativo incompiuto, che occupa un posto preciso nella sequenza temporale della storia ed è direttamente concatenato ai segmenti che lo precedono e lo seguono. Le puntate di un serial non possono essere programmate in disordine e alla rinfusa, esattamente come non potrebbero essere impaginati alla rinfusa i diversi capitoli di un libro. A seconda che prevedano o meno una chiusura narrativa, i serial possono essere aperti (soap opera) o chiusi (telenovela). Per avere una classificazione se non completa, quantomeno utile, è necessario incrociare questi due parametri sull’uso del tempo con i diversi modelli produttivi. In particolare, è utile tenere presente la suddivisione della produzione di fiction in prodotti di breve e di lunga serialità. La lunga serialità Afferenti all’area della lunga serialità troviamo tre tipologie di prodotto, ossia la soap opera, la telenovela e il serial “settimanale”. La soap opera (o serial aperto) ha origini radiofoniche, che risalgono agli anni trenta; è così chiamata perché all’epoca, negli Stati Uniti, i serial radiofonici rivolti al pubblico delle casalinghe venivano non soltanto sponsorizzati ma diretta-

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La ‘storia’ senza Storia. Parte III.

mente prodotti dalle marche di detersivi e di saponi. Larga comunità dei caratteri, protagonismo policentrico, pluralità delle storylines parallele e intersecate: sono le componenti strutturali della soap, la cui caratteristica più peculiare risiede nell’assenza di una chiusura narrativa, di una totale “fine della storia”. Autentiche storie infinite, le soap possono durare anni e perfino decenni senza mai giungere a conclusione. Le puntate di una soap hanno di norma una durata inferiore alla mezz’ora, e sono predisposte per una programmazione quotidiana in daytime. Non deve trattare di idee, ma di sentimenti ed emozioni. Soprattutto dovrebbe essere senza cuciture, né fine. Problemi che sorgono, problemi che vengono risolti. Pericoli che compaiono all’orizzonte, pericoli che sono scongiurati. Sboccia l’amore, muore l’amore. Ma comunque la storia centrale deve fluire sempre come un grande fiume. La soap opera è caratterizzata da una messa in onda regolare: tutti i giorni alla stessa ora. Prima di essere trasmessa, l’annuncia un tema musicale che lo spettatore riconosce. Quando la puntata termina i personaggi proseguono a vivere. Il reale non li intacca. Il reale, la cronaca, gli avvenimenti, non appartengono al mondo della soap. Il continuo intrecciarsi dei fili all’interno della storia porta lo spettatore a credere che il finale non sia stato ancora scritto. Al pari della soap opera, la telenovela è un serial, ovvero una storia che si snoda attraverso molte puntate. Rispetto alla soap, tuttavia, la telenovela presenta due sostanziali differenze: 1) il numero delle puntate non è illimitato, ma contenuto nell’ordine delle centinaia (in media 160/200); 2) la storia narrata dalla telenovela evolve verso una chiusura totale, un epilogo definitivo. Si tratta dunque di un serial chiuso, la cui organizzazione narrativa prevede che le ultime decine di puntate siano istituzionalmente protese a tirare le fila e a risolvere i problemi e i conflitti della trama. Questa formula narrativa, la più simile al modello originario del feuilleton con cui condivide il carattere di permanente work in progress della scrittura, è soprattutto praticata nei paesi dell’America Latina, dove ha raggiunto altissimi livelli di popolarità e stabilito una tradizione sia di qualità artistica sia di densità di contenuti (storici, politici, sociali). Tuttavia, per le differenze narrative visibilissime, non possiamo considerare la telenovela come la declinazione sudamericana della soap. Il protagonista individuale, la visione semplificata della realtà, soprattutto la finitezza

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della narrazione (pur in un numero molto alto di puntate) deve portarci a considerare la telenovela come un prodotto a sé, con determinate coordinate geografiche e socioculturali, oltre che narrative e produttive. In Italia, in passato, sono stati fatti dei tentativi nella produzione di telenovelas, tuttavia con risultati dimenticabili. Esiste poi un ulteriore formato, che può a sua volta estendersi molto a lungo nel tempo: si tratta del serial “settimanale”, il cui esempio storico più importante è senza dubbio Dallas. Questo formato si differenzia dalla soap, oltre che per la sua cadenza settimanale, anche per le puntate di durata superiore ai trenta minuti scarsi della soap, mentre si avvicina ad essa per la molteplicità delle linee narrative e per il potenziale sviluppo all’infinito della trama. Oggi i casi di serial settimanale, in realtà, sono molto pochi, soprattutto in Italia dopo aver conosciuto un Boom che ha toccato il vertice dalla metà alla fine degli anni Novanta. Il concetto di miniserie Rispetto alla breve serialità incontriamo da una parte la mini-serie, e dall’altra il mini-serial. Nelle classificazioni più diffuse, queste due tipologie di prodotto sono confuse e definite genericamente miniserie o film-tv. Quest’ultimo, senza alcuna deroga, è un prodotto puntuale (spesso inserito nella cornice di un dibattito riguardante le tematiche affrontate nel film, di solito di natura sociale), rappresenta un impegno economico molto forte (a causa dell’assenza completa di fidelizzazione e di riutilizzabilità delle location e delle maestranze), ed è sempre meno utilizzato in Italia. La miniserie è una fiction televisiva suddivisa in puntate, per l’esattezza un piccolo numero di puntate: da due, che rappresenta la norma, a sei che è già un’eccezione. In termini di formula narrativa la moderna miniserie discende dallo sceneggiato e, sebbene sia presente nella produzione di tutti i paesi, Stati Uniti inclusi, va considerata una peculiare espressione della tradizione televisiva italiana. Ancor oggi l’Italia produce più miniserie degli altri paesi europei. Sul piano di quelli che si chiamano “i valori di produzione” — il cast, le scenografie, i costumi, le riprese in esterni, e nell’insieme i costi — la miniserie è il genere di fiction televisiva che maggiormente si ispira ai modelli cinematografici. Ancora oggi la miniserie è rimasta il formato in cui sono realizzati più titoli nonché quelli

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La ‘storia’ senza Storia. Parte III.

più prestigiosi. Molte miniserie sono concepite, promosse e fruite come veri e propri “eventi televisivi”4. Il miniserial, basato anch’esso su poche puntate (comunque superiori alle miniserie), si basa invece su un’unica narrazione che si sviluppa lungo tutta la durata del prodotto. Nel complesso la forma narrativa del miniserial è ancora più affine allo sceneggiato a puntate di una volta. La forma continuativa e senza cesure del racconto consente a questi programmi di adattarsi perfettamente al prime time della televisione italiana. In un miniserial le puntate sono segmenti incompiuti e sequenziali e non vi è soluzione di continuità fra una parte e l’altra e dunque non c’è alcun vincolo alla messa in onda ed è la lunghezza della fascia oraria a determinare la reale lunghezza dell’unità del miniserial5.

3. I generi della fiction Per quanto concerne invece i generi della fiction italiana, non è possibile applicare completamente le categorie cinematografiche alla tv. Detto questo, due precisazioni sono da farsi. La prima è che la fiction italiana può vantare un ventaglio di generi ben più ampio del cinema italiano. Se quest’ultimo ha fatto storicamente leva sulla commedia e sul dramma, relegando gli altri generi o a produzioni dalla circolazione assai complessa e dalla produzione a volte avventurosa, o al vezzo di qualche “autore” che solo il pubblico ha riscattato da una sostanziale marginalità rispetto al sistema, la fiction possiede una completezza assai maggiore. Si pensi, ad esempio, alla detective story, che al cinema è quasi del tutto assente, nella fiction necessita addirittura di una suddivisione in filoni. In ogni caso, si può parlare bene dell’intero sistema-fiction italiano, a costo di tener presente che molto c’è ancora da fare a livello di lunga serialità e di esportazione: all’interno di un’industria culturale come quella italiana, che porta con sé delle tare storiche, si può parlare della fiction come di 4. Il concetto di media event o cerimonia televisiva è stato elaborato e sistematizzato con estrema precisione analitica da D. Dayan e E. Katz in un lavoro pubblicato nei primi anni Novanta e divenuto ben presto un classico della letteratura mediologia. D. Dayan, E. Katz, Le grandi cerimonie dei media, Baskerville, Bologna 1993. 5. Cfr, F. Lucherini, Passato, presente e futuro, in Milly Buonanno (a cura di) Lontano nel tempo. La fiction italiana. L’Italia nella fiction. Anno sedicesimo, op. cit., pp. 25-65.

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una sua punta avanzata. Ad esempio, l’importanza del poliziesco in tutte le sue forme, mette fine a una vecchia contraddizione tra produzione e consumo di cultura: la tv (come il fumetto, che appunto è una delle industrie culturali italiane principali) è stata ed è, infatti, l’unico medium a produrre detective stories con costanza, quantità e qualità. Dovendo catalogare la fiction contemporanea in generi, soprattutto le miniserie, allora abbiamo: − poliziesco, − storie sociali, − biografie, − fiction religiosa, − fiction storiche o in costume. Ciò che analizzeremo più sotto sono tre categorie, le fiction storiche o in costume, le biografie e le fiction religiose di natura storica. Per ciò che riguarda le fiction storiche proponiamo la preliminare differenza tra fiction in costume (o tratte da letteratura) e fiction storiche, all’interno di quest’ultime differenzieremo poi tra la storia antica, la storia recente del Novecento, le fiction biografiche e infine vi è il filone religioso ovviamente cattolico. «Dai mitici e iniziali successi delle storie bibliche, in particolare Giuseppe e Gesù, per arrivare alle vite dei beati e dei santi quasi contemporanei, da Papa Giovanni alle due diverse edizioni di Padre Pio fino alla Madre Teresa di questa Stagione. Il successo di tali storie cristiane e cattoliche ha consentito di capire […], che l’identità collettiva degli italiani si è costruita attraverso la storia e la presenza della Chiesa cattolica, del suo magistero, dei suoi rituali, delle sue liturgie»6. Non mancano le critiche a questo genere di spettacolo televisivo: c’è chi accusa le fiction storiche di infedeltà alla verità dei fatti, e chi invece si preoccupa della povertà di contenuto morale di questi filmati, puntando il dito sul modo in cui vengono presentati, ad esempio, i rapporti familiari o il sentimento religioso. Si deve subito specificare che in realtà anche nell’universo della fiction vi sono innesti riguardanti l’uso del tempo e le tematiche, contaminazioni che, soprattutto quando si parla di storia, inquinano notevolmente il risultato. Spesso il family life, o atteggiamenti del vissuto 6. G. Bechelloni, Considerazioni generali. L’ancoraggio identitario, in Lontano nel tempo. La fiction italiana. L’Italia nella fiction. Anno sedicesimo, op. cit., p. 20.

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e di un sentimentalismo che appartengono più al gossip che alla morale contemporanea vengono traslati come struttura di comportamento e di relazione tra i personaggi in tempi e luoghi lontani, rischiando di dare vita a fiction che rappresentano veri e propri ossimori: puntualità filologica nella ricostruzione dei costumi degli ambienti delle vicende, assoluto anacronismo per ciò che riguarda la costruzione dei personaggi, il loro modo di agire e di pensare. Nell’ultimo anno le fiction, soprattutto quelle riguardanti l’antichità o il medioevo, sono incorse più di una volta in questa contraddizione. Una fiction come Roma, sforzo produttivo immenso (di cui parleremo abbondantemente più sotto), ha tenuto a ricostruire fedelmente molti aspetti materiali del periodo, ma ha fatto interagire i personaggi attraverso relazioni sociali contemporanee. Riassumendo: non bisogna confondere la Roma di Giulio Cesare con la New York di Sex and the City.

4. Le fiction storiche: esigenze e compiti svolti Vale la pena di fare una riflessione generale sul ruolo fondamentale che la fiction storica svolge in una serie di ambiti che vanno dalla società alla televisione, dall’industria cine-televisiva allo star system. La fiction storica o in costume, se realizzata attraverso la mini-serie, è il genere prediletto dal pubblico italiano, che attraverso il sentire nazional popolare (Storia, romanzi, biografie e agiografie, santi e santini) la interpreta come un programma di identità culturale. Due sono dunque i compiti che la fiction italiana ha saputo svolgere in tutti questi anni: «Da un lato potenziando e differenziando la capacità produttiva, in termini di ore e di titoli, di generi e di formati, dall’altro ideando storie televisive capaci di contribuire efficacemente alla costruzione di un immaginario italiano condiviso»7. Per le maestranze, costumisti, scenografi, operatori e tanti altri soggetti professionali legati all’industria cinematografica, l’enorme produzione di fiction ha sostituito la produzione sempre più esigua di cinema.

7. G. Bechelloni, Considerazioni generali. L’ancoraggio identitario, in Milly Buonanno (a cura di), Lontano nel tempo. La fiction italiana. L’Italia nella fiction. Anno sedicesimo, op. cit., p. 19.

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Oggi una industria culturale cinematografica in Italia non esiste, esiste piuttosto una industria della fiction. Tutto quel mondo a cavallo tra l’industria e l’artigianato dell’immagine ha trovato la possibilità di impiego in questo universo dopo anni in cui la produzione della fiction nostrana non girava ancora a pieno regime come ora e quella cinematografica era scarsa come al solito dall’inizio degli anni Ottanta. Per sceneggiatori, registi, attori, lavorare per il cinema o lavorare per la fiction può essere spesso la stessa cosa per la cura che c’è nel progetto. Innanzi tutto perché raramente il nostro cinema investe in storie così e ha a disposizione certi budget; negli ultimi anni, come già descritto nella parte seconda, pochi sono stati i produttori o i registi che si sono avventurati nella realizzazione di un film non necessariamente storico, ma in costume. I soliti noti come i Taviani, Pupi Avati, Vancini, Olmi e la bella riflessione metacinematografica sul melodramma in costume di Giuseppe Piccioni de La vita che vorrei. La produzione di fiction televisiva, di attualità, storica o in costume, costituisce un bacino economico cui attingono anche gli attori creando un circuito se non alternativo quantomeno complementare al cinema. Volti noti e meno noti, giovani promesse e affermati professionisti, pochi sanno resistere alle lusinghe di una notevole visibilità, ma soprattutto economiche. Molta parte del gruppo dei giovani attori de La meglio gioventù, di Romanzo criminale, di Buongiorno, notte fatta eccezione forse per Lo Cascio e Accorsi, partecipano ai progetti di fiction in televisione. Alessio Boni, Fabrizio Gifuni, Sonia Bergamasco, Jasmine Trinca, Kim Rossi Stuart. E poi Stefano Dionisi (che ha creato un corto circuito manzoniano interpretando la parte di don Rodrigo in Renzo e Lucia e l’amante della Mezzogiorno, Paolo Osio, in Virginia, la monaca di Monza), Anita Caprioli, Giovanna Mezzogiorno, Chiara Conti, Giuseppe Soleri, Daniele Liotti, Giorgio Capitani, Alessandro Gassman, Claudio Amendola, Valerio Mastandrea, Fausto Paravidino, Roberto De Francesco, Raul Bova, Ninni Bruschetta, Vittoria Belvedere. E poi volti noti come Lino Banfi, Gigi Proietti, Carlo Cecchi, Paolo Villaggio, Stefania Sandrelli, Laura Morante, Cristian De Sica, Massimo Ghini (che ormai è specializzato nei personaggi storici di fiction avendo interpretato il “Papa buono” da giovane in Papa Giovanni di Giorgio Capitani, Marco Antonio accanto ad Anna Valle in Augusto, Galeazzo Ciano accanto ad Alessandra Martines in Edda di Giorgio Capitani, Meucci insieme a Tosca D’Aquino nella fiction omonima di Fabrizio Costa), si

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dividono tra piccolo e grande schermo. Ci sono attori ormai specializzati nelle fiction come Elena Sofia Ricci, Monica Guerritore, Barbara De Rossi, Luca Zingaretti, Claudia Koll, Sabrina Ferilli, Luca Barbareschi, Massimo Dapporto, Emilio Solfrizzi, Maria Grazia Cucinotta. Il numero così ampio di protagonisti del comparto produttivo della fiction e la progettualità (economica produttiva, ideativi, di palinsesto, formativa e realizzativa…) sono il risultato di un’investimento sinergico che è stato raggiunto grazie a un lavoro di tipo seriale e di tipo industriale. Tutte queste molteplicità professionali legate al mondo della fiction, nei tre ambiti che queste abbracciano (reti televisive, produttori televisivi e cinematografici, tutte le figure professionali legate al mondo della realizzazione, registi, sceneggiatori, attori e maestranze…), «hanno saputo svolgere quel lavoro di scavo nei repertori dell’identità collettiva degli italiani dai quali estrarre, come in un’ideale miniera, quei materiali e quelle storie che potessero contribuire a costruire ciò che è tipico della televisione, intesa come il bardo della nostra contemporaneità: un insieme di racconti capaci di rappresentare gli italiani a se stessi»8. Ed in effetti questa è la proposta dell’industria della fiction che in un certo senso da “destra” e in modo populista, prosegue il programma che era già stato svolto del cinema dell’impegno civile storico degli anni Settanta dai vari Rosi, Montaldo, Vancini, Damiani, una sorta di divulgazione della storia d’Italia. Non sono paragonabili le forme e i tempi, ma forse le intenzioni. Le fiction storiche sono parte di quella proposta di “educazione popolare” di cui si è già detto (che la Lux della famiglia Bernabei ha portato avanti attraverso il Progetto XX secolo e il Progetto Imperium), e che ha trovato terreno fertile nelle televisioni in chiaro. Tant’è che la guerra del prime time tra Mediaset e Rai si combatte a colpi di fiction storiche. Il “servizio pubblico” è arrivato a proporre, sulla rete ammiraglia nella stagione invernale 2005-2006, fiction quattro serate su sette. La fiction televisiva è «testimone e interprete di un’esigenza diffusa nella società a riflettere su fatti, eventi e personaggi di un passato più o meno recente. Che si tratti di un mero richiamo nostalgico, o di un più profondo bisogno di conoscenza in un mondo sociale percorso da rapidi 8. Bechelloni, Considerazioni generali. L’ancoraggio identitario, in Milly Buonanno (a cura di), Lontano nel tempo. La fiction italiana. L’Italia nella fiction. Anno sedicesimo, op. cit., p. 19.

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mutamenti e da nuove incertezze sul futuro, la fiction televisiva ristabilisce un legame con l’identità e la memoria collettiva del nostro paese»9. Nella percezione del pubblico televisivo le fiction sono storiche quando, oltre ad essere ambientate in epoche passate, mettono in scena il confronto tra gli uomini e la Storia; con i primi impegnati a difendere i propri progetti di vita contro tutto e tutti, e la seconda che, come un forte vento, sopraggiunge a gettare lo scompiglio nelle storie individuali10. Uno dei principali motivi di fascino delle fiction storiche consiste appunto nella possibilità di assistere alla trasformazione dei protagonisti, che – pur turbati dall’irruzione della Storia nelle loro quiete esistenze – non si abbattono, ma continuano a lottare per realizzare i propri sogni. Il confronto spesso urticante con la Storia diventa, per i personaggi della fiction come per i telespettatori di questo genere, un’occasione per acquisire maggiore coscienza di sé, dell’importanza di avere un progetto di vita e della necessità di difenderlo. Dunque, una buona occasione di arricchimento personale dal punto di vista dell’impegno (l’aspetto istruttivo, l’omaggio alla memoria, il consolidamento delle radici identitarie, conoscere il passato per comprendere meglio come siamo e perché) e del piacere (il gusto di abbandonarsi alla narrazione in epoche passate). La capacità delle fiction storiche di unire pubblici molto diversi tra loro deriva dal fatto che esse soddisfano almeno due nostri grandi bisogni. Il primo, come già detto, è saldamente connesso allo stato d’incertezza esistenziale che connota la nostra epoca e tratta del bisogno di rafforzare o ricostruire (a seconda dei casi). La seconda esigenza è invece di natura antropologica e riguarda il fatto che gli uomini si sentono a loro agio soprattutto in quegli stati intermedi che sono al contempo affacciati al nuovo e ancorati alla tradizione, che non si negano al cambiamento ma, insieme, sono schermati dai gravi rischi che esso comporta11. Ebbene, in questo senso, le fiction storiche 9. A.L. Natale, Ieri e oggi. L’Italia nella fiction, in Milly Buonanno (a cura di) Lontano nel tempo. La fiction italiana. L’Italia nella fiction. Anno sedicesimo, op. cit. p. 76. 10. Non a caso l’ambientazione preferita dal pubblico è l’Ottocento (per tutti l’età dei moti rivoluzionari e dell’unità d’Italia) e la prima metà del Novecento (con particolare riferimento alla prima guerra mondiale, al Ventennio, alla seconda guerra mondiale e all’immediato dopoguerra). 11. Cfr. F. di Chio, G.P. Parenti, Manuale del telespettatore, Bompiani, Milano 2003, pp. 92-93.

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costituiscono una straordinaria “palestra virtuale”, un grande possibile laboratorio del cambiamento (individuale e sociale). E questo grazie alla loro capacità di portare indietro nel tempo fino alle “origini”, fino all’archetipo, e di veicolare valori “fondativi” (patria, sacrificio, giustizia, libertà, fratellanza…) attraverso la forza di vite e storie esemplari; ma avendo al contempo la capacità di attualizzare il passato, avvicinare vicende e personaggi alla sensibilità contemporanea, trasformare l’archetipo in paradigma.

5. Le fiction in costume Trasposizione, adattamento, rifacimento, traduzione, queste diverse definizioni indicano l’ampio ventaglio di possibilità che si presenta a chi realizza un prodotto audiovisivo a partire da un testo letterario. La televisione italiana delle origini ha frequentato assiduamente queste forme alla ricerca di una legittimazione per un mezzo giudicato “basso”. E contemporaneamente, con il romanzo come modello supremo di cultura popolare “alta”, ha ridisegnato la fisionomia delle riletture cinematografiche di opere letterarie, adattandole alle nuove logiche (espressive e produttive) dell’apparato televisivo che allora muoveva i primi passi. Alle origini della televisione italiana i programmi di fiction venivano chiamati sceneggiati: un nome tuttora ricorrente nel linguaggio comune e giornalistico. Lo sceneggiato era, essenzialmente, un adattamento letterario: un racconto a puntate (in media sei) tratto da un’opera di narrativa già edita o, come si diceva, “da opera d’autore”. Veniva girato in studio con tecnologia elettronica, e agli inizi era trasmesso in diretta, come la ripresa di uno spettacolo teatrale. Da I Malavoglia a I promessi sposi, da David Copperfield a Resurrezione, da Il mulino del Po a La cittadella e a I miserabili: nei primi due decenni della televisione italiana il grande repertorio del romanzo nazionale ed europeo è stato riversato in centinaia di sceneggiati, destinati a ottenere una enorme popolarità e a produrre vasti fenomeni di divismo televisivo. La ricostruzione storica sembrava sparita dalla televisione per una questione di gusti, di interpreti, ma soprattutto costi. Poi la scommessa di Elisa di Rivombrosa (Canale5), storia d’amore contrastata dalla differenza di classe nel Piemonte del Settecento e Orgoglio (RaiUno), saga familiare di stampo sentimentale in costume che, nella

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campagna romana, dalla fine dell’Ottocento arriva fino al primo dopoguerra, hanno riportato in auge il ruolo dello sceneggiato. Negli ultimi anni la fiction in costume è tornata a occupare “militarmente” il prime time delle reti televisive in chiaro. Si tratti delle storie iperromantiche o strappalacrime o della rivisitazione di fatti e personaggi celebri sospesi tra storia e leggenda; le serie (soprattutto mini) ad ambientazione contemporanea – polizieschi, commedie, o semplici family life – cedono il posto per le stagioni a venire alla fiction nel segno del passato. I due maggiori successi della fiction in costume sono maturati sotto il segno di un’importante novità: la lunga serialità in costume. Come abbiamo ricordato in precedenza, queste due fiction sono una sorta di “caso”; fattori sia economici che narrativo culturali hanno contribuito a modellare un canone della fiction per cui le produzioni in costume o storiche sono perlopiù realizzate nei formati brevi. Le due fiction sono il tentativo di innalzare il livello delle produzioni seriali declinando gli investimenti economici fatti attraverso un visibilità dei valori di produzione (ricostruzioni, scenografie e costumi), agganciando la lunga serialità ai racconti del passato. Sospesa tra storia e letteratura (Dumas padre) la storia corale in costume Luisa Sanfelice (RaiUno), che ha il volto di Laetitia Casta, diretta da maestri come i fratelli Taviani, una vicenda d’amore e di passione politica nella Napoli di fine Settecento. Cime tempestose (RaiUno), di Emily Brontë, uno dei romanzi più appassionanti dell’Ottocento: amori impossibili, convenzioni familiari atmosfere sontuose, tutti ingredienti, uniti ai volti giovani di Alessio Boni e Anita Caprioli due attori trai i più interessanti del momento. E poi la Roma dei Borgia in Imperia la grande cortigiana con Manuela Arcuri, decisamente nella parte; e La contessa di Castiglione, avventuriera ante litteram che per Cavour sedusse Napoleone III, affidata al volto di una matura Francesca Dellera. Guerra di fiction classiche tra le reti ammiraglie delle due flotte che monopolizzano l’etere in chiaro in Italia anche per ciò che riguarda il padre del romanzo storico italiano: Alessandro Manzoni. Renzo e Lucia (Canale 5) di Francesca Archibugi e Virginia, la monaca di Monza con il volto della intensa Giovanna Mezzogiorno e la regia di Alberto Sironi. Renzo e Lucia, film per la tv liberamente ispirato ai Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, diretto da Francesca Archibugi, ha l’obiettivo di

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sottoporre al grande pubblico la storia di due innamorati resi celebri della letteratura, le loro passioni e i loro rapporti, sottolineando in particolar modo il punto di vista di Lucia e sviluppando le reti affettive che si instaurano tra i personaggi. Il Renzo e Lucia di Francesca Archibugi non è una rilettura del romanzo, quindi, quanto piuttosto una prospettiva diversa, scelta dagli sceneggiatori, che hanno voluto immaginare Renzo, Lucia e Don Rodrigo prima e nel momento in cui le loro vite si incontrano e si intersecano. La narrazione concede grande spazio alla descrizione delle misere condizioni di vita della povera gente in contrasto con lo strapotere dei nobili. «L’andamento della storia è piuttosto lento e poco coinvolgente anche in quei momenti che si vorrebbero altamente drammatici. I due protagonisti cui sono state fornite psicologie decisamente novecentesche plasmate su dilemmi da psicanalisi, hanno perso la coerenza degli originali, senza per questo acquistare un’autentica profondità drammatica. […] L’aspetto più gradevole di questa miniserie resta la ricostruzione d’ambiente, di molto superiore, per dettaglio e credibilità, allo standard della fiction italiana»12. Per ciò che riguarda Virginia la sceneggiatura ripercorre la vicenda della aristocratica Suora Virginia de Leyva, la cui figura campeggia al centro di una pagina tenebrosa dei Promessi Sposi. La protagonista è una delle figure più affascinanti della letteratura europea. Realmente esistita nei primi anni del XVII secolo, Virginia Maria de Leyva, bellissima e innamorata della vita, tentò di sfuggire al destino stabilito per lei dal padre: l’internamento in un convento. Ma né la promessa di aiuto da parte della madre né l’amore per un giovane principe riuscì a sottrarla al suo destino. Certo come si vede anche da una breve ricostruzione questa “monaca di Monza” ha poca attinenza con il capolavoro del Manzoni. Anche il nome è diverso. Là Gertrude, qui Virginia, il vero nome della De Leyva, la ragazza di nobile famiglia. Di recente è stato pubblicato per la prima volta il resoconto del processo. Da questi atti, e ancora più dalle lettere finora sconosciute tra Suor Virginia e il Cardinale Federigo Borromeo, emerge un personaggio di donna di straordinario interesse, la protagonista di una vita piena di passione. Il regista ha cercato di limitare la retorica del personaggio, attraverso una messa in scena non 12. L. C. Ramosino, Renzo e Lucia, in Milly Buonanno (a cura di), Lontano nel tempo. La fiction italiana. L’Italia nella fiction. Anno sedicesimo, op. cit. p. 236.

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fastosa, anzi piuttosto austera e a volte oscura, ciò non toglie che il tutto confluisca verso i canoni del melodramma in costume che la fanno da padrona in questi casi: forti passioni, amori difficili, femminilità negata, vicende avventurose che alla fine contribuiscono a costruire il personaggio di una donna forte che combatte le avversità, che è un po’ il fil rouge che porta avanti il discorso della fiction in costume. Chiusa in convento contro la sua volontà Virginia cercò di riprendersi la vita cui era stata costretta a rinunciare; e arrivò a intrecciare una relazione clandestina con un giovane nobile, Paolo Osio, da cui ebbe una figlia, Marianna, amatissima. Ma anche questa illusione di normalità era destinata a dissolversi. Per sfuggire al ricatto di due novizie, Osio ricorse al delitto. E Virginia nel corso di un clamoroso processo, fu condannata a tredici anni di segregazione completa. Sopravvissuta alla condanna, Virginia, appena libera, cercò di rintracciare la figlia che aveva perduto. In tutti questi casi analizzati (fiction in costume, fiction tratta dalla letteratura, sceneggiati o feuilleton), non vi è un reale intento di raccontare il passato, o semplicemente prendere spunto dagli eventi storici, a differenza come vedremo di quanto accade nelle fiction storiche. Si tratta di una scelta ben precisa che tende a enfatizzare l’immaginario romantico, mentre l’ambientazione non contemporanea, priva di un preciso riferimento storico-politico, arricchisce la vicenda sentimentale di un sottofondo quasi fiabesco. Poi tutte queste vicende hanno in comune le principali caratteristiche narrative: rinverdire i classici dello sceneggiato, che comunque mantiene, soprattutto nella traduzione di classici della letteratura, la volontà culturale e educativa; usare il melodramma come la messa in scena di un universo centrato su sentimenti e relazioni familiari o sull’amore difficile che alla fine trionfa (alla televisione risulta molto più facile far accettare passaggi emotivi forti che al cinema spesso sono rifiutati), e infine testimoniare il primato delle donne, visto che i personaggi che emergono con maggiore evidenza in questi racconti sono femminili, anche laddove, come in Renzo e Lucia, si va a forzare l’interpretazione del romanzo d’origine. Si potrebbe dire fiction di donne per le donne.

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6. L’antichità ovvero Roma La prima cosa che ci colpisce negli ultimi anni è certamente l’ingresso della storia antica e medioevale che rompe il monopolio della presenza, comunque massiccia, della storia contemporanea nelle fiction. Fino a qualche stagione fa la presenza degli altri periodi storici era indubbiamente molto inferiore a quella che ha raggiunto negli ultimissimi anni. Il privilegiare la storia contemporanea, soprattutto dalla seconda guerra mondiale e dal dopoguerra fino ai giorni nostri ha un intento più sociologico-politico che realmente storico. Il medium televisivo porta a una attualizzazione della storia, ad una sorta di telegiornalizzazione, che si esprime attraverso una maggiore predisposizione verso argomenti di storia recente saltati nuovamente all’attenzione della cronaca per una rilettura più o meno revisionista. Ecco dunque spiegata la massiccia presenza di storia recente d’Italia nell’ambito della fiction. Rimane il primato di una storia intesa essenzialmente come politico-militare ma certamente influenzata dalla soap, quindi con risvolti familiari o sentimentali. Apparentemente la storia antica di Roma o in generale dell’Italia premoderna sembrerebbe evocare o rappresentare meno un sentimento riconducibile a un’interpretazione capace di farsi «ancoraggio identitario»13. Eppure dopo la fine dei film peplum l’antichità romana, risvegliata da Il gladiatore impazza anche su piccolo schermo. Nell’epopea dell’Impero Romano troviamo un affascinante specchio per noi stessi e per il nostro tempo. Non è un caso dunque che l’antica Roma sia recentemente tornata alla ribalta attraverso il successo di grandi kolossal e la massiccia pubblicazione di saggi e romanzi. E inoltre il senso della potenza dell’impero romano, suggerita dalle grandiose immagini che fiction e cinema ripropongono, può essere una pietra di paragone con l’attualità. La spinta imperialista della politica estera degli Stati Uniti che si ripromettono di essere una sorta di gendarme del mondo, determina, per analogia, per contrasto o semplice paragone, una visione della politica e conflitti su scala planetaria, e il ricorso fantastico non può non andare alle immagini che meglio di altre si legano alla suggestione visiva delle battaglie e delle lotte e alla grandiosità dei modi. Secoli di sfrenate ambizioni, di potere globale e trame familiari, di ferree amicizie e spregiudicati tradimenti, di gesti 13. Cfr G. Bechelloni, Considerazioni generali. L’ancoraggio identitario, ivi, p. 20.

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arditi e oscuri intrighi. Per ciò che riguarda la televisione, la riscoperta dell’antichità romana è dovuta soprattutto alla Lux Vide della famiglia Bernabei. Proprio nell’anno in cui esce nelle sale il film di Ridley Scott, nel 2000, la Lux Vide e Rai Fiction varano il progetto Imperium, una collana di sei miniserie televisive per raccontare al grande pubblico cinque secoli di storia dell’Antica Roma: da Augusto alla caduta dell’Impero. Il progetto Imperium intende ripercorrere cinque secoli dell’epopea di Roma. Nel 27 a.C. Ottaviano diventa Cesare Augusto, di fatto il primo imperatore romano. Nel 476 d.C. l’ultimo imperatore d’Occidente, Romolo Augustolo, viene deposto e le insegne imperiali sono inviate alla corte di Costantinopoli. Con questa data finisce l’Impero Romano d’Occidente e, con esso, l’epoca antica. Il progetto Imperium intende ricostruire il mondo della Roma Imperiale con fedeltà alla realtà storica e attenzione ai gusti del pubblico di oggi. Ogni passo del processo produttivo, dalla stesura della sceneggiatura all’ultima ripresa, è curato sulla base di una attenta ricerca e sotto la costante supervisione di un gruppo di esperti. Per garantire l’aderenza alla verità storica dei fatti narrati e la correttezza delle ricostruzioni sceniche, il progetto Imperium si avvale della consulenza di un comitato internazionale di illustri professori di storia antica. La costruzione dei set ha richiesto due anni di lavoro febbrile e ingenti investimenti da parte della Rai e della Lux Vide; il luogo dove ricostruire la Roma dei Cesari, è la Tunisia nei pressi di Hammamet, a pochi chilometri dai resti di Cartagine. È così che sono nati gli Empire Studios, la più grande ricostruzione dell’antica Roma nella storia del cinema e della televisione. Gli edifici, progettati dallo scenografo Carmelo Agate, riproducono fedelmente gli originali. Più di 60.000 metri cubi di palazzi alti fino a 15 metri. Più di 3000 metri quadri di studi di registrazione coperti. ispirandosi agli affreschi di Pompei, hanno decorato gli interni di ville e palazzi. Anche gli oggetti di arredamento più di dettaglio sono stati confezionati con cura14.

Eppure nella stagione 2003-2004 è Mediaset a giocare d’anticipo sull’uscita attesissima di Augusto e propone nel settembre 2003 un Giulio Cesare, frutto di una collaborazione tra la stessa Mediaset e la televisione statunitense TNT. La fiction usa una struttura biografica lineare, che ripercorre le tappe più importanti della vita di Cesare, le sue relazioni con la politica romana, le alleanze, i legami di parentela, gli scontri (con il 14. Cfr http://www.luxvide.it/.

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dittatore Silla) e poi ancora la campagna di Gallia, gli scontri con Vercingetorige, il suo ritorno a Roma da trionfatore, fino agli attriti con il senato e alla sua morte. Nonostante segua una narrazione canonica, la fiction in questione è certamente un prodotto particolare. Pur avendo a disposizione un buon budget la fiction rinuncia agli stereotipi magniloquenti dell’epica cinematografica e televisiva alla quale Giulio Cesare sembrerebbe ispirarsi e, piuttosto, si concentra su lunghi dialoghi tra il protagonista (Jeremy Sisto) e i numerosi comprimari, in particolar modo la moglie Calpurnia (Valeria Golino), conferendo alla miniserie una dimensione drammatica d’impianto teatrale. La densità e la portata dei conflitti etici rappresentati riduce notevolmente l’appeal spettacolare di questa miniserie che, nonostante l’alto budget e i molti nomi di richiamo, resta un’opera quasi d’autore. […] Anche i momenti più emozionanti della narrazione, come il sacrificio delle donne e dei bambini da parte dei galli durante l’assedio ad Alesia, servono a veicolare soprattutto il concetto di uno scontro tra visioni politiche contrapposte […]. La miniserie si focalizza dunque su tematiche atemporali, col rischio di rendere poco aderenti alla realtà storica del tempo alcuni passaggi, in particolare quelli relativi alla dimensione privata di Cesare, marito e padre fin troppo moderno»15.

Si tratta di un’analisi sui temi eterni del potere, delle sue responsabilità e dei suoi pericoli. Più legato al tema del revival del peplum, avviato dal successo internazionale de Il gladiatore, è invece l’opera che inaugura il progetto Imperium della Lux, Augusto, nel novembre 2003. Personaggio storico tra i più affascinanti, da sempre sono lodate la sua intelligenza politica, la sua capacità di trasformare una Repubblica in un Impero mantenendo formalmente in vita le istituzioni repubblicane, la sua politica culturale, che consentì a Roma di vivere uno straordinario periodo di splendore intellettuale. Sullo schermo è impersonato da Peter O’ Toole che attraverso numerosi flash back espone la sua esistenza. La miniserie, infatti, racconta la vita di Gaio Ottavio divenuto Augusto, primo imperatore romano attraverso la rievocazione di eventi. Anche la descrizione del suo rapporto con la moglie, la 15. F. Vassallo, Giulio Cesare, in Milly Buonanno (a cura di), Lontano nel tempo. La fiction italiana. L’Italia nella fiction. Anno sedicesimo, op. cit. pp. 203-204.

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gelida Livia, cui presta il volto Charlotte Rampling, una donna fortissima, determinata e temibile, la cui influenza non si limita all’ambito familiare è restituita attraverso il percorso a ritroso. Tutto ciò per rileggere alla luce dei meritevoli obiettivi dell’imperatore l’insieme degli eventi che hanno caratterizzato il suo dominio. Ne deriva il ritratto di un Augusto forse un po’ troppo debole, un Augusto del quale il film sottace alcuni meriti: la sua politica culturale, l’intuizione (politica) di ammettere al suo circolo i migliori intellettuali e artisti dell’epoca, il sostegno economico che sempre offrì loro. Gli intrecci amorosi, la spasmodica ricerca del potere, gli inganni e i tradimenti sono l’attrattiva melodrammatica di una storia altrimenti difficile e oggettivamente dura. È questa la chiave narrativa utilizzata dagli autori per illustrare il complesso panorama dei conflitti politici dell’epoca, reso con qualche semplificazione ma senza cadute didascaliche o pause nel racconto. […] una biografia che riesce a coniugare le esigenze della divulgazione storica con quelle del racconto popolare16.

La seconda miniserie delle sei previste è Nerone, personaggio controverso, di volta in volta descritto come un tiranno, un poeta tolto all’arte, un insicuro manipolato da una madre ambiziosa, addirittura come un pazzo. Per realizzare il Nerone filologicamente più corretto, il progetto Imperium si è affidato a un comitato scientifico che, seguendo un approccio revisionista che enfatizza le tesi della recente corrente storiografica sull’imperatore, assolve Nerone non solo dall’incendio, ma anche da molte altre morti sospette attribuite alla sua presunta crudeltà. Il cast, come al solito composto da star internazionali e attori italiani in cui spiccano Hans Matheson nel ruolo dell’imperatore e Laura Morante in quello di Agrippina, è al servizio di una narrazione che segue l’ordine cronologico degli avvenimenti, privilegiando, come in tutte le fiction, l’elemento amoroso senza però cadere nella semplificazione dei fatti politici o trascurare la ricostruzione ambientale. La tesi di fondo è che se al giovane imperatore fosse stato permesso di essere un artista non sarebbe diventato un tiranno, e dunque il Nerone della miniserie non è l’autocrate istrionico o il persecutore cui la tradizione (storica, 16. F. Rizzello, Augusto, ivi, p. 222.

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cinematografica e televisiva) ci ha abituato, ma un giovane idealista, amante della musica e del teatro, amico degli schiavi con i quali è cresciuto, e sinceramente desideroso di riformare l’Impero in senso “democratico”. Un progetto destinato a fallire per l’opposizione dei ricchi senatori e della madre Agrippina […]. Nella prospettiva scelta, viene concesso poco alle usuali rappresentazioni della decadenza morale della Roma imperiale (rappresentata soprattutto da Messalina e Poppea). Grande spazio acquistano, invece, l’amore romantico e l’elemento religioso con frequenti (e talvolta un po’ didascaliche) aperture sulla vita della comunità cristiana di Roma e sulla figura di Paolo di Tarso […]17.

Non possiamo non concludere questa rapida carrellata sulle fiction dedicate all’antica Roma con l’evento più atteso della stagione 2005-2006, dal titolo quanto mai riassuntivo: Roma. Prodotta da HBO, la principale cable Tv americana, e la televisione pubblica inglese BBC, in associazione con Rai Fiction18, la serie racconta il periodo più importante e complesso di Roma antica – gli anni del passaggio traumatico dalla Repubblica all’Impero – attraverso le vicende di due legionari di Cesare. Molte le diversità che questa mega produzione pone nella forma e nei contenuti con le precedenti rievocazioni del cinema e della televisione che hanno fatto i conti con l’antica Roma. Girato in gran parte a Roma tra il 2002 e il 2003, con masse come solo ai tempi di Ben Hur e Cleopatra e un investimento di oltre 110 milioni di dollari, Roma esce dalle solite regole della fiction made in Italy innanzi tutto il numero degli episodi. Dodici episodi per sei serate, e per questo la Rai dopo averla un po’ depurata, l’ha dirottata su RaiDue (dal 17 Marzo 2006) come se fosse un telefilm. Seconda differenza lampante è che questa fiction, pur essendo coprodotta dalla Rai, è interamente targata Usa: ideatore, produttore e sceneggiatore, insieme a Bruno Heller, è John Milius, regista e sceneggiatore di cinema western, epico e d’avventura. In Italia, prima ancora di essere vista, la fiction ha sollevato un vespaio di polemiche per la violenza e i costumi dei romani, in particolar modo dei soldati. Negli Usa è andata benissimo, tanto che la produzione ha già dato il via alla seconda serie che partirà ad aprile a Cinecittà. 17. L. C. Ramosino, Nerone, ivi, p. 275. 18. http://www.roma.rai.it/.

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È la prima volta che si affronta l’epica romana attraverso una serialità così forte. In precedenza, pur essendo sempre molto corposi, i peplum sui romani erano comunque “a termine”; e per ciò che riguarda le fiction tv queste hanno sempre affrontato il discorso sull’antica Roma attraverso la miniserie. In questo caso il numero degli episodi è molto alto, e addirittura si prevede una seconda serie. E questa serialità lunga fa il paio con la concentrazione relativamente breve del tempo storico riproposto: dal ritorno di Cesare in Italia dalla Gallia, fino alla sua morte, un tempo tutto sommato limitato quando si ha a che fare con l’antica Roma che quando viene trasposta in fiction quasi sempre propone come minimo il ritratto biografico di un personaggio e quindi il tempo di una o più generazioni. Risulta evidente, dunque, l’intento di non fare tanto una fiction storica ma sui personaggi e le loro relazioni all’interno della storia. Non è la cerchia delle grandi figure storiche del periodo a tutti note, ma soprattutto la gente comune, la sua vita quotidiana, fatta di affetti, passioni, sogni, difficoltà, sullo sfondo di avvenimenti straordinari. Roma è la saga di due semplici militari della tredicesima legione di Giulio Cesare: Lucio Voreno, la dura essenza di un soldato professionista, e Tito Pullo, un uomo esuberante, istintivo e passionale. Una strana coppia di amici con la propria vita, il proprio lavoro e le proprie avventure. Una storia capace di raccontare anche il vissuto quotidiano, assolutamente inedito, della Roma antica, il tutto attraverso un complesso miscuglio di generi drammaturgici – dall’action, al melodramma, alla commedia – e vicende di personaggi mossi da sentimenti e istinti universali: dall’ambizione di potere, all’amore, dal tradimento alla vendetta. Tutto questo offre un connotato nuovo, sporco, meno agiografico, e più violento al contesto. In questo modo i grandi eventi subiscono una rilettura più personale e privata, sicuramente più vicina agli occhi dello spettatore moderno. Il problema è che questa presunta “storia dal basso” teoricamente più vicina al popolo, in realtà favorisce una lettura degli eventi più moderna: oltre a permettere maggiori libertà e digressioni rispetto agli eventi storici, si genera una sorta di idiosincrasia, tra la puntualità delle ricostruzioni, e l’adattamento a un pubblico moderno di caratteri e dialoghi19. 19. «La realizzazione dei set a Cinecittà, ha saputo proporre una rappresentazione fedele, ma inedita della Roma del primo secolo avanti Cristo. Una notevole varietà di am-

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Tra gli aspetti che accomunano le storie dedicate all’antica Roma, v’è quello di non riuscire a integrare la qualità tecnica delle ricostruzioni d’epoca con la profondità d’analisi delle situazioni, gli eventi e i personaggi. In Roma questa contraddizione interna è ancora più evidente. Nelle altre produzioni la descrizione di questa o quella personalità conosciuta (Cesare, Augusto e via discorrendo), obbliga a una stesura di caratteri che per quanto frutto di libera interpretazione è comunque costretta entro solchi tracciati dalla storiografia. In Roma i protagonisti sono, se non sconosciuti, comunque gregari della storia. Rileggere la storia di quel determinato periodo attraverso le vicende private di questi protagonisti offre una certa libertà che finisce per restituire personaggi i cui profili e le cui esperienze poco hanno a che fare con il contesto storico-sociale in cui sono calati, che insomma non riescono a trasformarsi in veri testimoni del loro tempo. Per ciò che concerne la storia contemporanea, nelle ultime stagioni ha preso piede la storia recente, quella che più si connette alla memoria vissuta di una parte dell’audience (e una gran parte di questa è data dai pensionati); ai conflitti, e ai lutti, alle paure e ai sogni, alle speranze e alle delusioni che hanno attraversato e talora lacerato famiglie e generazioni. Si tratta di una miniera pressoché inesauribile, quella che si distende attraverso il “sanguinoso” Novecento: le due guerre mondiali, la guerra fredda, le diaspore italiane nel mondo, lo scontro tra fascisti e antifascisti, la persecuzione degli ebrei, la resistenza, le lotte operaie, gli anni del boom economico, la contestazione, gli anni di piombo. Un immaginario certamente condiviso, in cui è facile abbandonarsi a passioni, prendere partito o semplicemente abbracciare una memoria nostalgica. Racconti che, attraverso il vissuto individuale, ricostruiscono passaggi forti della bienti: dai quartieri nobili a quelli degradati, dalle ville, alle arene, basiliche e templi, dalla “via Sacra”, alle latrine, ai vicoli e vicoletti dei bassifondi. L’attenzione alla fedeltà storica, garantita tra l’altro per i set e per ogni altro aspetto della serie, dalla supervisione dello storico Jonathan Stamp, già responsabile di molteplici produzioni documentaristiche della BBC. La stessa, meticolosa, cura del particolare, inoltre, ha ispirato anche il lavoro di tutti gli altri reparti produttivi impiegati nella progettazione e nella realizzazione di costumi di ogni tipo (più di tremila), armature, utensili e suppellettili, armi, monete, scettri, elmi e ogni altro singolo oggetto ritenuto necessario per riportare in vita la Roma di duemila anni fa, una Roma ferina e per certi versi anche “barbara”, ma mai così viva»; ivi, passim.

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nostra storia più recente, a partire soprattutto dalla seconda guerra mondiale e del dopoguerra. Tra i pochi esempi che ricostruiscono un periodo storico contemporaneo non ambientato nel Novecento è certamente la fiction Le cinque giornate di Milano realizzato per il piccolo schermo da Carlo Lizzani. Le 120 ore che cambiarono il processo storico della Lombardia sono ricostruite attraverso un coro di personaggi reali o immaginari che, animati dalle passioni e dagli ideali patriottici, lottarono contro “l’invasore”. Il film andato in onda su RaiUno a dicembre è un affresco interpretato tra gli altri da Fabrizio Gifuni, Chiara Conti, Giuseppe Soleri, e Giancarlo Giannini. La vicenda di quelle giornate di Marzo del 1948 è una delle storie più aggrovigliate e sfaccettate della Storia contemporanea, per sua stessa ammissione, il regista Carlo Lizzani, avvezzo cinematograficamente a ricostruzioni storiche, pensando alla destinazione televisiva utilizza la struttura del romanzo storico alla Stendhal, Manzoni o Tolstoj, e fa agire personaggi reali come Carlo Cattaneo e personaggi immaginari sullo sfondo di grandi eventi. In particolar modo Lizzani ha evidenziato l’unità e l’alleanza tra popolo e aristocratici. Un fatto che gli Austriaci non avevano previsto. Così come erano sicuri che i contadini non si muovessero dalla provincia per partecipare alla sommossa, fatto, anche questo, che Lizzani sottolinea in varie sequenze, anche attraverso Giovanni, il medico interpretato da Fabrizio Gifuni, personaggio traversale a tutte le classi che ha dato al regista la possibilità di descrivere la complessità del movimento da cui nasce la rivolta milanese. Tornando al Novecento, è soprattutto alle vicende della seconda guerra, e in particolare alla fase dell’occupazione tedesca e della Resistenza, che sono state dedicate varie produzioni Rai: La Guerra è finita (20012002), Storia di guerra e di amicizia (2002-2003), Salvo D’Acquisto (20032004), il sacrificio di un brigadiere per salvare dalla rappresaglia tedesca un gruppo di civili. Questa può essere una sorta di paradigma, per quello che si può definire quasi un sottogenere della fiction storica del Novecento: la fiction che tratta il tema del sacrificio eroico nella seconda guerra mondiale; che poi il modello di racconto prescelto si trasformi in un melodramma incentrato molto più sulla vita sentimentale del protagonista che non sull’atto eroico in sé, né tanto meno sul maturare delle sue convinzioni, è la conseguenza dell’adattamento e in un certo senso fa parte del paradigma. Allontanarsi dal dato biografico è senza dubbio

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fondamentale per una fiction che deve essere spettacolo e non un trattato di storia. Spesso, però, la scelta di farlo in maniera così netta incide sul racconto stesso e sul tema principale, l’atto eroico; svuotandolo del significato originario e facendo perdere addirittura le motivazioni del perché sia stata raccontata questa storia e non piuttosto una qualunque altra storia d’amore o d’avventura che sia. E poi il dramma degli ebrei, in generale, con la variante delle storie di persone comuni che riescono a mettere in salvo centinaia di ebrei evitando la loro deportazione, in particolare. La fuga degli innocenti (2003-2004), di Leone Pompucci con Jasmine Trinca, Ennio Fantastichini e il grande Max von Sydow, racconta tre anni di peregrinazioni di una cinquantina di ebrei bambini e adolescenti provenienti dai paesi sottoposti al regime nazista tra il ’43 e il ’45. Radunati in una Zagabria ancora libera, tentano di imbarcarsi per la Palestina ma finiscono in Italia, dove la popolazione civile cerca di aiutarli. La fuga degli innocenti completa una ideale trilogia iniziata con Senza confini (RaiUno, 2001) e proseguita con il grande successo di Perlasca (RaiUno, 2002), dedicata dalla fiction Rai a storie vere di persone che si sono opposte alla tragedia dell’Olocausto contribuendo a salvare la vita di molti ebrei. […] i protagonisti compiono una discesa nell’abisso dell’Olocausto – lo sradicamento, la fuga, la persecuzione – […] interessati a mostrare personaggi ordinari alle prese con un dramma più grande di loro20.

La miniserie, che fin dal titolo evoca la tragedia per eccellenza dei bambini, si trasforma in un dramma storico, insieme racconto di crescita e tragedia, che riesce a coinvolgere restituendo alla memoria collettiva una pagina importante e misconosciuta della storia nazionale recente. Anche ne Il segreto di Thomas (Canale5 2003-2004) un bambino (che conserva i codici per accedere ai soldi destinati a favorire la fuga degli ebrei) deve fuggire e si ritrova in una storia più grande di lui in cui è costretto a giocare il ruolo dell’adulto. Questa miniserie trasmessa in coincidenza con la giornata della memoria è un ottimo esempio di prodotto valido che non banalizza il tema né impietosisce sfruttando le occasioni strappalacrime, 20. F. Lucherini, La fuga degli innocenti, in Milly Buonanno (a cura di), Lontano nel tempo. La fiction italiana. L’Italia nella fiction. Anno sedicesimo, op. cit. p. 269.

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piuttosto è dotato di profondità che riguarda la riflessione sul bene e sul male e sulle responsabilità del singolo individuo di fronte a tragedie che investono un popolo intero. Per ciò che concerne invece gli atti di eroismo italiani un tema molto dibattuto è l’interpretazione di alcuni atti della guerra e del dopoguerra che ci restituiscono una memoria divisa, se non sconosciuta. Cefalonia, fiction sull’eccidio dei militari italiani a opera dei tedeschi dopo l’8 settembre del ’43, è la classica storia molto ben raccontata, di uomini normali in guerra che desiderano solo tornare a casa alla vita di tutti i giorni, ma che messi alle strette diventano eroi. La storia del militare codardo come lo interpretò perfettamente Sordi ne La grande Guerra o in Tutti a casa. L’8 settembre 1943 la divisione Acqui, di stanza a Cefalonia e Corfù con 525 ufficiali e oltre 11.000 soldati, si trovò di fronte a una drammatica alternativa: arrendersi ai tedeschi o resistere con le armi senza poter contare su alcun aiuto esterno. Dopo una serie di frenetiche consultazioni e di dubbi laceranti, il generale chiese ai suoi uomini di scegliere. Attraverso un referendum – primo barlume di democrazia, che coinvolse tutti, ufficiali e soldati – i militari italiani decisero di combattere. Non eroi, come detto prima, ma uomini come tanti, molti dei quali operai, contadini, analfabeti, che si trovarono il giorno dell’armistizio a dover decidere non solo del proprio destino, ma in qualche modo del destino ‘morale’ della Patria lontana. La regia di Riccardo Milani racconta questa tragica vicenda, attraverso gli occhi di alcuni dei protagonisti, intrecciando la grande Storia con le vicende umane. La sceneggiatura di Rulli e Petraglia ha attinto infatti a tutte le fonti disponibili sull’argomento, facendo però ampio ricorso non solo ai documenti ufficiali ma anche a libri di memorie, a diari, a testimonianze di fanti, artiglieri, marinai. Cefalonia si avvale di un cast di primo piano, il meglio tra fiction e cinema italiano: Luisa Ranieri, Jasmine Trinca, Claudio Amendola, Corrado Fortuna, Valerio Mastandrea, Claudio Gioè, Fausto Paravidino, Roberto De Francesco. Il protagonista è Luca Zingaretti, che interpreta il sergente Saverio Blasco, coraggioso veterano di troppe guerre. Si può dire che ha il volto di Luca Zingaretti l’italiano comune, con i suoi tic e le sue manie, che però, nei momenti di difficoltà, sa essere un eroe. L’attore, dopo aver interpretato Montalbano, è stato Perlasca, altro uomo normale chiamato a cose straordinarie dall’eccezionalità delle vicende, resistendo alla barbarie che travolgeva innocenti e indifferenti. Nell’interpretazione del sergente Sa-

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verio, Blasco, chiamato a votare sul da farsi dopo l’ultimatum tedesco, vota per la via di minor attrito, per la resa. Ma, messo in minoranza, prima combatte al fianco dei compagni, poi, dopo aver visto all’opera i tedeschi (che giustiziano come traditori gli ufficiali italiani a gruppi di quattro mentre lui assiste alla mattanza), passa nelle file della resistenza. Una sorta di ideale prosecuzione, che la fiction mette bene in evidenza. Altra fiction che ha scatenato polemiche perché fa i conti con un passato difficile è Il cuore nel pozzo di Alberto Negrin, fiction sul dramma delle foibe frutto dell’odio tra italiani e slavi nel secondo dopo guerra, quando si compirono vendette e stragi di cui l’oppressione nazi-fascista e la guerra avevano messo le basi e lo stalinismo le conclusioni. Sono storie di vicende e personaggi italiani, anche laddove siano ambientate all’estero, come nel caso di Come l’America (2000-2001) una vicenda positiva di integrazione in terra canadese con protagonista una figura di donna determinata e volitiva, insomma quanto mai moderna. E poi il tema è ripreso nella stagione 2003-2004, in chiave diversa, per trattare delle emigrazioni verso le miniere del Belgio e della grande tragedia di Marcinelle, che nel 1956 coinvolse centinaia di emigrati italiani, pronti ad accettare il rischio di una vita in miniera spinti dalla fame che – come affermano i protagonisti alla fine della miniserie – è più forte della paura. «Racconto corale, Marcinelle propone numerosi personaggi, ognuno con la sua storia e la sua caratterizzazione, più o meno originale e riuscita[…] merito aver ricostruito l’intera vicenda su un gruppo di “poveri”, personaggi “minori”, lontanissimi dal glamour tipico di molte altre storie televisive. Ottima la ricostruzione degli ambienti e della miniera […] buona anche la resa degli attori, chiamati a operare su diversi registri, dal melò al dramma, dall’azione alla tragedia. Marcinelle è, probabilmente, tra le migliori realizzazioni di sempre della fiction italiana»21. E sempre ambientata all’estero è la fiction di Enzo Monteleone con Kim Rossi Stuart, Il tunnel della libertà (2004-2005), storia dell’unico scavo fatto sotto il Muro di Berlino attraverso il quale dei tedeschi lasciarono l’Est. È il 1961, Mimmo, studente di ingegneria con borsa di studio all’estero, sta andando con il compagno di studi e compatriota Gigi al battesimo della figlia di un altro compagno di corso, berlinese del settore Est. Mentre festeggiano, la polizia della DDR sta chiudendo i varchi tra 21. F. Balletta, Marcinelle, ivi, p. 219.

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Est e Ovest della città: reti, filo spinato, pattuglie con cani e sparatorie. I due italiani non si danno pace e decidono di fare qualcosa per far fuggire l’amico con moglie e figli. Certamente il film, troppo leggero, non pretende di dare giudizi sulla politica; si tratta piuttosto di un’opera sull’amicizia e sullo spirito di ribellione contro le assurdità della politica. Ne La meglio gioventù, attraverso un piccolo nucleo di personaggi, si rivivono avvenimenti e luoghi cruciali della storia del nostro paese: dalla Firenze dell’alluvione alla Sicilia della lotta contro la mafia, dalle grandi partite della nazionale contro la Corea e la Germania alle canzoni che hanno fatto epoca, dalla Torino operaia degli anni Settanta alla Milano degli anni Ottanta, dai movimenti giovanili del terrorismo, dalla crisi degli anni Novanta al tentativo di inventarsi e costruire un paese moderno. Senza volerlo i personaggi inseguiranno le loro passioni inciampando nella Storia, cresceranno, si faranno male, torneranno a illudersi e spendersi di nuovo. La meglio gioventù, titolo di una raccolta di poesie friulane di Pasolini ma anche di una vecchia canzone degli alpini, è l’affresco di una generazione che, nelle sue contraddizioni, nelle furie ora ingenue ora violente, nella voce grossa e qualche volta stonata, ha cercato di non rassegnarsi al mondo così com’era, ma ha provato a lasciarlo un poco migliore di come l’ha trovato. Questo film per la televisione, ma poi vissuto di vita propria al cinema, ricevendo anche premi ambiziosi, è certamente un’operazione del tutto particolare, il taglio cinematografico appare fin dai titoli di testa. E poi Le stagioni del Cuore (Canale5), epopea un po’ meno in costume con qualche vago richiamo a La meglio gioventù, che racconta le vicende di una famiglia torinese dagli anni Quaranta all’entrata in guerra, agli anni Settanta della contestazione giovanile. La generazione della guerra e quella del boom, con Anna Valle e Alessandro Gassman e alla regia un professionista come Antonello Grimaldi alle prese con i mutamenti che riguardano l’Italia. Altro aspetto caratterizzante la fiction storica di queste ultime stagioni è certamente quello delle biografie. Ad esempio, sempre la Lux Vide, sta impegnando la sua organizzazione culturale, tecnica e artistica nella rievocazione della storia più recente, ricostruendo drammaturgicamente la vita dei personaggi e gli avvenimenti del Novecento. L’obiettivo è quello di raccontare il XX Secolo attraverso le storie degli uomini che lo hanno caratterizzato. Le storie di questo ciclo cercano di dare risalto agli eventi

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che hanno segnato il Novecento, ma soprattutto di soddisfare le esigenze di svago del pubblico. Papa Giovanni (2002), Soraya (2003), Madre Teresa (2003), Meucci (2005), Edda (2005). Giovanni Paolo II è il sesto episodio del ciclo dopo i grandi successi di critica e di pubblico. Ma non solo Lux Vide e non solo personaggi religiosi di cui ci occuperemo più sotto, piuttosto anche storie che rileggono le vite di statisti, di artisti e di scienziati. Quasi tutte sono strutturate in miniserie da 3 ore: le biografie dei grandi personaggi storici, un filone della tradizione narrativa mai completamente abbandonato ma che ora ha ripreso vigore e si è esteso alle figure del mondo imprenditoriale, civile e religioso di un passato meno lontano (Ferrari, Perlasca, Meucci, De Gasperi…). Tutto ciò riporta comunque al discorso delle identità collettive solide. In questo senso, pochi prodotti televisivi dimostrano una valenza identitaria altrettanto forte. È infatti in queste storie che noi rintracciamo spesso i caratteri della nostra italianità: il genio e la sregolatezza, l’insofferenza per le regole e l’umanità, la furbizia popolaresca e la santità, l’individualismo un po’ cialtrone e un po’ eroico con cui da sempre veniamo etichettati. È nella giovanile intemperanza di Enzo Ferrari, degli strappi di Giovanni XXIII al cerimoniale, nelle truffe a fin di bene di Perlasca che ritroviamo l’essenza di quell’aspetto che ci obbliga a un reciproco riconoscimento, superando le differenze ideologiche, politiche e religiose che ci dividono e ci fanno litigare. Le analisi fatte danno il senso preciso di come nella fiction la biografia – individuo singolo o coppia o piccolo gruppo – abbia un risalto notevole rispetto a espressioni di tipo collettivo, corale alle quali resta poco spazio. Nelle fiction c’è la predilezione per le storie dei singoli perché danno luogo all’uso di psicologie, passioni, affetti e percorsi di vita che sono un terreno già ampiamente dissodato dalle altre fiction. Come nei casi di saghe familiari che raccontano la vita di Edda Ciano o di Maria Josè, l’ultima regina. Il linguaggio della fiction televisiva, più di quello del cinema, si presta a raccontare storie della sfera privata inquadrate nella sfera pubblica e a trattare quindi l’evento o gli eventi storici come il quadro di fondo alla vicenda individuale o familiare. La fiction televisiva, suscita l’interesse perché si concentra su casi personali: questa è una delle forme più immediate del ricorso al processo di identificazione, un ricorso che certo è anche di altri linguaggi ma nel media televisivo trova la sua applicazione principale.

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7. Fiction religiose L’Osservatorio sulla Fiction Italiana ha rilevato che, a partire dal 2000, le serie televisive di maggiore successo sono state quelle fondate su temi religiosi, tanto che nel periodo 2003-2004 è stata la miniserie su Madre Teresa a detenere il primato degli ascolti. Ed inoltre i telespettatori hanno seguito con enorme interesse le opere su Padre Pio, Giovanni XXIII, Maria Goretti, nelle ultime stagioni addirittura due edizioni dedicate a Giovanni Paolo II e si preparano a conoscere la storia di altri santi, beati e servi di Dio. Le storie di ispirazione religiosa che attingono all’immaginario collettivo italiano costituiscono da anni un filone in espansione della produzione di fiction, dato il richiamo che queste storie hanno su vaste platee. Come detto nell’introduzione di questa parte dedicata alla televisione, il mercato televisivo, per quanto sia realizzato attraverso sforzi di previsioni, resta tutto sommato sotto l’egida dell’incertezza, le fiction religiose assicurano quasi sempre una garanzia di successo. Si tratta di un fenomeno tutto italiano, che gli osservatori stranieri imputano spesso a un ritardo nel processo di secolarizzazione. Ma l’offerta così ricca proposta dalle televisioni, e l’accoglienza così buona da parte del pubblico delle fiction a carattere religioso non può essere riassunta solo nella categoria del folklore o del ritardo culturale. La spiegazione è assai più complessa. Nel panorama religioso contemporaneo l’Italia si distingue per il persistere di un senso forte e diffuso di appartenenza al cattolicesimo, percepito dalla maggior parte delle persone come un elemento fondante dell’identità collettiva e della storia del Paese. Si tratta di un sentire comune indipendente dalla ritualità religiosa, osservata ormai da una minoranza sia pure consistente della popolazione semmai, sono proprio il pluralismo dei modi d’interpretare e manifestare il sentimento religioso e la larga tolleranza della Chiesa nei confronti di questa diversificazione, a favorire la tenuta del sentimento di appartenenza cattolica. Non contro e malgrado, bensì attraverso gli stessi processi di secolarizzazione e di modernizzazione. Inoltre va chiamata in causa anche ciò che Milly Buonanno definisce l’air du temps22 vale a dire quell’inquietudine diffusa che permea gli esordi del terzo millennio e che, aggiungendo alle ansie millenaristiche l’aspet22. M. Buonanno, Il programma dell’anno: Madre Teresa, ivi, pp. 81-98.

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to destabilizzante dei conflitti scatenati sulla scena mondiale, incide nel bisogno di sicurezza, nell’esigenza di storie edificanti legate al sacro e nella necessità di riflettere sulla trascendenza. Vi è dunque un’offerta che risponde alla domanda di riferimenti di senso di ancoraggi saldi e bussole etiche e non va dimenticato ciò che nel primo capitolo abbiamo più fortemente sottolineato: l’ansia di eternità cresce a discapito del grande rimosso della mortalità, del dolore e della finitezza della vita umana. I dodici titoli del progetto Bibbia, le vite dei Santi: Maria Goretti, Francesco, Sant’Antonio da Padova, Santa Rita da Cascia, San Pietro, San Paolo; addirittura di una stessa stagione (2000) sono anche le due versioni della vita di Padre Pio: Padre Pio di Carlo Carlei, interpretato da Sergio Castellitto, maggiormente orientato verso gli slanci spettacolari, e Padre Pio – Tra cielo e terra di Giulio Base, prodotto da Bernabei, più scarno. Inoltre di questi anni le due biografie del Papa buono: Papa Giovanni XXIII e il Papa Buono di Ricky Tognazzi, e poi Maria Maddalena, Maria figlia del suo figlio, Il Bambino di Betlemme. Fino ad arrivare all’apoteosi della stagione 2005-2006 che sull’onda della commozione e influenzata dall’orgia mediatica per la vicenda di Giovanni Paolo II, ci ha consegnato intere giornate televisive dedicate al pontefice, agonizzante prima e defunto poi, con la mega-diretta dell’esposizione della salma e dei funerali, fino all’immancabile fiction, anzi le inevitabili fiction, visto che di due prodotti si tratta, Karol un Papa rimasto uomo (regia di Giacomo Battiato, interpretato da Piotr Adamczyk) e Giovanni Paolo II (regia di John Kent Harrison con Jon Voight). Per la prima volta nella lunga storia del Pontificato, quanti affollavano Piazza San Pietro al momento della morte del Papa gridavano a gran voce «Santo, Santo, subito»; un coro spontaneo, commosso, che ha fatto in pochi istanti il giro del mondo. «È un fenomeno tipico della contemporanea società mediatizzata e globalizzata, infatti, che i mezzi di comuinicazione siano gli artefici e i moltiplicatori – su scala locale e, più significativamente, planetaria – della celebrità di individui in un senso o nell’altro stra-ordinari»23.

23. Ibidem.

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Appendice

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Introduzione

«Il racconto reca il segno del narratore come il vaso quello del vasaio.» (W. Benjamin)

I

n questa “Appendice” si propone una sorta di sintesi del percorso fatto nel testo attraverso la viva voce degli addetti ai lavori operanti nel mondo della ricerca storica, nel mondo cinematografico e in quello televisivo della divulgazione storica. Dunque non il punto di vista di una singola personalità, piuttosto una serie di prospettive, una molteplicità di sguardi sull’unico problema della ricognizione del passato in forma narrativa. Ovviamente ciascuno degli intervistati è ricondotto sul terreno delle sue competenze attraverso domande che declinano il problema del racconto storico nell’ambito della propria preparazione. Vengono fuori traiettorie inusuali, incroci di prospettive e allo stesso modo distanze apparentemente incolmabili. In questo senso mi sia consentito fare ricorso ancora una volta al magistero ricoeuriano, a quella che il filosofo francese definisce “via lunga” della ricognizione del sapere e delle forme umane di conoscenza. Tale via lunga, mettendo al centro della ricerca la persona piuttosto che il campo del sapere, concentra l’attenzione sull’attività interpretativa. Un “lungo giro”, una via lunga di approfondimento delle molteplici interpretazioni che del medesimo problema si possono dare; l’apparente “conflitto delle interpretazioni”, riassume prospettive e sguardi che affrontano il problema da angolature diverse. Esiste una via lunga con cui recuperare le varie prospettive e la persona interpretante, ma anche qui si devono fare dei distinguo: se di via lunga si tratta, questa non è il sentiero per cui il soggetto può comprendersi in un sapere assoluto al termine di un percorso enciclopedico della cultura, piuttosto, per dirla alla Lyotard “dopo la fine delle grandi metanarrazioni”, è il luogo in cui colui che interpreta si coglie nella sua finitezza e determinatezza storico culturale, nella sua prospetticità, secondo la famosa affermazione ricoeuriana presente ne Il conflitto delle interpretazioni.

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Le posizioni apparentemente inconciliabili sono in realtà la ricchezza del volume, e testimoniano come il problema di una ricognizione del passato attraverso i racconti che se ne possono fare, è impossibile da ricondurre a unità. Dalle interviste emergono una serie di dati significativi che confortano il percorso svolto dal volume: in primo luogo la comune preoccupazione del problema della sovraesposizione mediatica della storia conseguente alle cause rintracciate e analizzate nel testo e, allo stesso tempo, le apparenti inconciliabilità di alcune posizioni. La distanza di prospettive sullo stesso problema è stata, al termine della stesura del volume, una sorta di sollievo che mi ha testimoniato ancora una volta come l’unico approccio possibile al problema sia quello che, attraverso una interdisciplinarità investigativa, va a cogliere le radici profonde dell’esigenza di raccontare il passato. Il secondo dato significativo riguarda i singoli problemi proposti nelle prospettive specifiche (la storiografia, la sociologia, il cinema, la scrittura, la narrazione…): molte delle intuizioni che hanno stimolato la ricerca trovano conferma nei singoli colloqui, anche se ovviamente con puntualizzazioni più profonde, che solo gli addetti ai lavori potevano offrire. Dalle interviste non emerge solo una messe di dati, di informazioni storiche, sociologiche, filmografiche, di teorie o quant’altro. Dietro il colloquio si intravede quasi sempre l’umanità dell’interlocutore, il suo carattere, la serietà nei confronti della professione e, più in generale, il suo atteggiamento nei confronti della vita. Inoltre devo ricordare anche con simpatia i luoghi e le occasioni che hanno visto l’incontro svilupparsi: la quiete pomeridiana di una Roma caldissima e già quasi deserta di fine giugno che è stata testimone dell’incontro con Stefano Rulli; l’atmosfera suggestiva del Chiostro di Sant’Agostino al termine di un festival cinematografico svoltosi a San Gimignano in Toscana nel caldo di fine Agosto che, oltre alla ricchezza delle parole di Benvenuti, mi ha fatto apprezzare la bellezza del luogo; il caos infernale della sala stampa del famoso Hotel Excelsior del Lido durante la Mostra del Cinema di Venezia, dove tra divi che passavano con comete di fotografi, dirette televisive e schiamazzi vari, il critico cinematografico Paolo Mereghetti e il sottoscritto sono riusciti a trovare due poltroncine in un angolo e stabilire la giusta concentrazione per una discussione sul problema della storia nel cinema e in televisione. Ricordo la professionalità

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dei docenti Ambrogio Santambrigio e Franco Mezzanotte che mi hanno accolto nei loro studi al termine delle giornate universitarie, e raccogliendo la concentrazione necessaria, non si sono risparmiati sulla discussione proposta. Ma, non me ne vogliano gli altri, il ringraziamento più affettuoso va certamente al narratore-autore-attore Ascanio Celestini che prima dello spettacolo Radio Clandestina in occasione del festival Bella ciao da lui stesso curato, mi ha concesso tempo prezioso nel parco di Ciampino dove di li a poco avrebbe avuto luogo la sua performance. Lo ringrazio innanzi tutto perché l’incontro si è trasformato in una sorta di spettacolo privato sul tema della memoria e della storia, dove tra battute e gag ha affrontato con profondità gli argomenti. In secondo luogo perché in modo indiretto mi ha fatto capire il rapporto tra gli eventi e la storia della memoria durante lo spettacolo che si è svolto proprio l’11 settembre, cinque anni dopo il tragico crollo delle due torri. Lo spettacolo sulla strage delle fosse ardeatine in quel giorno particolare ha creato un’emozione speciale nella platea: un misto di elettricità comico-spaventata per tutta quella gente assiepata ad ascoltare Celestini che parlava di guerra. In poche battute prima dello spettacolo ha disinnescato la paura e il corto circuito delle guerre, mettendo tutti a proprio agio pronti a seguire una storia emozionante e bellissima. Da ultimo lo ringrazio perché dopo lo spettacolo è tornato tra l’ovazione sul palco e ha di nuovo preso la parola e ha parlato di storia e memoria esordendo così: «oggi qualcuno ha parlato con me di memoria, io ho parlato tanto, ma poi, durante lo spettacolo, mi sono venute in mente nuove cose». Andando via, mi ha salutato con parole che non riporto, che voglio custodire per me, ma che sono state uno stimolo costante durante il lavoro di stesura del volume. Sono grato dunque a tutti gli ospiti che hanno creato la giusta atmosfera per gli incontri offrendo un terreno comune che ha permesso il buon esito della comunicazione. Devo alla disponibilità che mi hanno sempre manifestato questi grandi professionisti, la possibilità che questo testo risulti di qualche interesse.

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Franco Mezzanotte1 6 ottobre 2006 – Università degli Studi di Perugia.

Professor Mezzanotte, Lei è uno storico, riesce a spiegarsi il perché di questa contemporanea sovraesposizione mediatica della Storia? Come mai c’è una produzione così imponente di comunicazione storica? Io credo che dipenda da una crisi della società, una società che non ha più una identità; una società che non sa più verso quale direzione muoversi e che non ha più punti di riferimento. Una società che per alcuni versi ha rinunciato a coltivare il pensiero per dedicarsi soprattutto all’immagine. Cosa comporta tutto ciò? Che questa società si trova a vivere costantemente un “presente” di cui ignora le origini e del quale non sa prevedere neanche un futuro. In questa società si tende a bruciare l’attimo e questo, naturalmente, diventa estremamente divertente quando questo attimo si riveste di una valenza storica. Perché, nonostante tutto, la necessità di avere una base, un punto di riferimento resta. E allora che facciamo? Travestiamo il presente con un abitino storico che poi è intercambiabile. Un carattere dell’eroe va bene per l’impero romano, va bene per il medioevo, va bene per la resistenza. Oppure pensiamo all’abuso del Medioevo, senza pensare che per esempio non si riesce a definire cosa sia il Medioevo. È una definizione negativa… lo spazio tra due momenti, tutto è Medioevo, ma quale Medioevo? Se si pensasse che sono mille anni di storia e che non li si può unificare banalmente. No!! Tutto è medioevale; uno si mette il mantello ed è medioevale, uno compera un bastone da passeggio ed è medioevale. Allora possiamo dire che c’è un bisogno della società che, ovviamente, chi usa i mass media alimenta per poi dare le risposte che la gente vuole. Prima chiedono la risposta e poi fanno la domanda. Io ho l’impressione che succeda questo in molti casi.

1. Ricercatore di Storia presso il Dipartimento di Scienze umane e della Formazione, università degli Studi di Perugia.

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Lei ha sottolineato che il forte e attuale interesse per la storia sia il frutto di una moda, anche se solo in parte. C’è anche un discorso storico che con Lei vorrei approfondire. Sicuramente la storia è in crisi: dopo i grandi racconti dell’Ottocento, l’avvento di Les Annales e la storia sociale, la crisi della filosofia della storia, i dibattiti sul manuale, il revisionismo; la storia è in crisi come disciplina e come immaginario storico. Secondo lei, come siamo giunti a questa crisi della storia e come se ne può uscire? La crisi della storia secondo me deriva da una serie di fattori precedenti. Intanto perché si è cominciato a studiare e a insegnare la storia? La si è insegnata dopo l’Unità d’Italia per dare un abito comune a persone che sino a quel momento avevano vestito degli abiti completamente diversi. E quindi in qualche modo si è inventata una storia comune che è quella che passa nei manuali. Ma attenzione, la storia dei manuali non è quella degli storici. Uno storico si pone un problema e va a ricercare nelle fonti storiche le possibili soluzioni, attraverso l’analisi e l’interpretazione delle fonti stesse. Ricostruisce i passaggi della soluzione di quel problema definendoli poi secondo la cultura che lo stesso storico ha e poi le confronta con le soluzioni date in precedenza. Ecco perché la storia è costantemente revisionismo. Aumentando la coscienza, partendo da presupposti culturali differenti, la soluzione di un problema può essere inquadrata sotto aspetti diversi. Quindi parlare di revisionismo storico non è una cosa di oggi, c’è sempre stato. Si tratta, però, di un revisionismo storico che partiva dalla conoscenza dei documenti e non dall’invenzione dei documenti come troppo spesso accade oggi. La sociologia forse crea le mode, riflettendo su certe tendenze. Lo storico no. Lo storico dice che “è successo questo perché si è partiti da certe premesse” che ci sono arrivate dal passato. Che sono documentate negli archivi, ma anche in quella che ancora da qualche parte si chiama cultura materiale. Noi abbiamo una concezione della storia come di un movimento lineare che parte da un certo punto e arriverà a un altro punto. Una storia che è profondamente legata a una forma di fede nello sviluppo, nella capacità di progresso. Una storia che da questo punto di vista ha avuto una indicazione molto precisa con l’illuminismo, con i grandi pensatori francesi. Oggi noi non abbiamo più queste certezze, non siamo più sicuri che l’avvenire sia automaticamente progresso, anzi abbiamo paura del futuro. Con

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l’esplosione della prima bomba atomica ci siamo resi conto che nel giro di pochissimi secondi la storia dell’umanità poteva finire. Questo è il baratro che coscienti o incoscienti abbiamo davanti. E allora come rapportarci alla Storia? Da una parte si torna alla Storia perché ci dà la sicurezza di quello che è accaduto nel passato e ci dà identità. Dall’altra parte abbiamo paura, si vive questa sorta di millenarismo, questo senso che continua sempre nei confronti della storia. Oggi si dice che noi viviamo in una società in crisi. La caduta del muro di Berlino, la fine delle ideologie, ammesso che siano finite… sembra di assistere di nuovo alla caduta dell’impero romano… Ma in fondo cosa è stata la caduta dell’impero romano? Che trasformazioni ha portato? Quanti si sono accorti che era caduto l’impero romano? Parlare di una crisi della storia può essere fuorviante, io non credo che ci sia una vera crisi, piuttosto parlerei di sovraesposizione della storia, di esigenza di storia da parte del sociale. C’è una storia che è diventata interpretazione, che si scioglie nella sociologia, che è inventata perché tanto la gente ci crede. Chi va a confrontare i siti storici che si trovano nella rete? Io posso inventarmene uno e metterci dentro ciò che voglio e troverò sempre quello che ci crede. Abbiamo paura del futuro e allora ci rivolgiamo al passato cercando delle certezze. Lei ha parlato di revisionismo storico e della crisi della disciplina della storia che fondamentalmente forse non è in crisi, ma è in crisi la sua comunicazione, perché come ha detto ci sono dei siti internet in cui qualunque persona può inventare qualunque cosa. Ma questo è proprio il revisionismo di cui si deve aver paura, perché ognuno può inventarsi qualunque cosa sulla storia. Ed allora qual’è la discriminante per discernere una storia “comprovata e accertata” una cosiddetta storia autentica, da una storia “cialtronesca”? Le lancio questa intuizione: possiamo parlare di una base etica… Si potrebbe semplicemente dire di buon senso… Certo, buon senso… Ma chi è che decide che una ricostruzione storica è vera o falsa? Certamente c’è una comunità degli storici però io credo che si debba far riferimento a una base etica.

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Attenzione non lo decide in maniera astratta, lo decide partendo dal documento, perché uno storico si pone un problema e lo affronta in base ai documenti che trova e che sono consultabili da tutti. Tutti li possono andare a vedere, tutti li possono trovare, tutti li possono provare. Forse dovranno avere delle capacità di tipo particolare, non so conoscere il latino per esempio, o avere competenze specifiche, come la paleografia e altre. Bisogna avere degli strumenti, non ci si inventa storici. Bisogna fare un percorso di crescita, di maturazione e di acquisizione di strumenti, di apprensione di un metodo…dopodiché si può diventare autori storiografici ovviamente. La storia la fanno i documenti, la storiografia la fanno gli uomini. Ed ecco ribadisco il discorso: c’è sempre revisionismo, perché se io parto da certi presupposti giudicherò un determinato problema in un certo modo, se parto da altri lo farò in maniera completamente diversa. Allora qual è la discriminante? La discriminante è sicuramente la eticità e la cultura, senza di queste si fa letteratura, magari di altissimo livello, ma non è storia. Ma anche la storia è racconto… No, la storia non è racconto. Diventa racconto la storia dei manuali. La storia è risoluzione di problemi. Passiamo invece alla Storia degli eventi. Secondo lei si può parlare di una “fine della Storia”? L’histoire événementielle oramai gli storici non la narrano più, non l’apprezzano da più di cento anni. Invece è quella che è stata diffusa dalla letteratura. Allora da una parte c’è la richiesta del mercato, di questa storia degli avvenimenti, dall’altra parte c’è il discorso dello storico che invece risolve problemi e interroga le fonti. Un avvenimento, un evento è soltanto il momento finale di un percorso precedente. Una battaglia è il percorso finale di una serie di problemi affrontati in un certo modo che hanno condotto alla battaglia. Il dove e il quando sono di importanza relativa. Spesso diventa famoso il luogo di una bat-

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taglia. Ma che senso ha? È importante capire che si è arrivati a quella battaglia per risolvere certi problemi. Allora, perché oggi si studiano soprattutto gli effetti e non più le cause? Questa è una posizione culturale assunta da tantissime parti, perché studiare le cause significa impegnarsi, faticare, mettersi in gioco, avere umiltà davanti a tante cose. È molto più semplice credere a tutto ciò che si trova scritto o a tutto ciò che ci viene mostrato. E qui torniamo per esempio al particolare utilizzo di internet di cui abbiamo parlato prima. Si crede a delle informazioni per il semplice fatto che queste siano scritte: “l’ha detto la televisione”, “c’è in rete”. Questi atteggiamenti sono frutto di lacune culturali e nel contempo di metodo. Dunque direi che il nocciolo del problema è costituito dal come si insegna la storia. Quindi la storia secondo lei consta di due momenti fondamentali: l’ermeneutica e la divulgazione. Secondo lei si è perso qualcosa di questa distinzione fondamentale? Diciamo che la comunicazione è diventata molto difficile da parte degli storici, anche se ci sono stati dei grandi comunicatori, come per esempio Le Goff, Duby, Cardini. Si tratta di persone che pur facendo il mestiere dello storico hanno saputo divulgare in maniera abbastanza coerente le loro ricerche. In generale questo gli storici non lo sanno fare. Sia perché l’accademia ci ha insegnato a scrivere in un certo modo, cioè per gli addetti ai lavori, per i colleghi; sia perché è difficile per lo storico, abituato a un certo tipo di razionalità del discorso e del pensiero, comunicare lo stesso pensiero in maniera leggera. È lo stesso problema della didattica della storia, ovvero della comunicazione della ricerca storica che deve essere fatta ad esempio nella scuola. Dovremmo imparare ad essere meno “scientifici” e più chiari. Ma chi di noi rinuncerebbe alla citazione latina? E poi ad essere sinceri, spesso è più semplice riportare il latino che cercare di tradurlo, anche se dall’altro lato diminuisce il potere comunicativo.

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Se per gli storici diventa difficile fare comunicazione, l’esigenza di storia rimane e allora se ne occupa qualcun altro. Per esempio i cosiddetti divulgatori, non storici. Pensiamo ad alcuni programmi televisivi (alcuni di tutto rispetto). Bisogna distinguere tra chi pratica la “volgarizzazione” e chi invece la “banalizzazione”. La prima è un percorso tutto sommato lodevole, la seconda rovina tutto il lavoro di ricerca dello storico. Passiamo ora al discorso della memoria. Anche della memoria oggi si fa un uso spasmodico. Da un lato diventiamo più ignoranti sul nostro passato, dall’altro ricorriamo alla memoria facendo musei su tutto, come mai? Per un fatto molto semplice. La istituzionalizzazione degli accadimenti giustifica e legittima un certo modo di agire e pensare politicamente. La musealizzazione consente una forma di rimpianto di ciò che era. Ci consente in diversi casi di constatare quanto siamo “migliorati”, tra virgolette, perché una miglioria di carattere tecnico non è certo una miglioria da altri punti di vista. Ci da la soddisfazione di sentirci moderni nei confronti di qualcosa che è sentito come antico, eppure queste cose antiche talvolta sono più funzionali delle cose moderne che abbiamo noi oggi. Oggi noi siamo abituati alla massificazione, si può fare un museo delle buste di plastica per la spesa? Se noi prendiamo la vecchia sporta di vimini, il discorso cambia. Sono, e questa è la cosa più interessante della musealizzazione, pressocchè pezzi unici, perché fatti magari a mano per una determinata necessità. Il museo è un punto d’arrivo e non di partenza. Solo in questo caso ha motivo di esistere. Spesso noi musealizziamo tutto perché non siamo capaci di scegliere cosa serve e cosa non serve. Rinunciamo anche a questo perché scegliere è una posizione culturale, che implica una presa di responsabilità. Lei una volta ha affermato che “gli storici sono abituati a presenziare nei salotti televisivi piuttosto che negli archivi”. È ancora di questo avviso? Certo. In ogni articolo o libro di storia in fondo si pubblicava un’appendice, ovvero i documenti che lo storico era andato a consultare

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in archivio e attraverso i quali giustificava il proprio operato. Oggi le appendici non ci sono più. Ho conosciuto storici totalmente incapaci di far uso dei documenti d’archivio. È molto più semplice assumere una posizione revisionista, ossia scrivere un libro su un libro di un altro. Questo presuppone un’interpretazione di carattere sociologico che non comporta a sua volta l’effettuare delle ricerche in archivio e che permette di scrivere un’opera che magari avrà un suo risalto o che metta in risalto la stessa opera che critica. Ma secondo me questo non è il lavoro dello storico. Io apprezzo gli storici, che trascorrono in archivio il tempo necessario ai fini della propria ricerca e che poi ne trasmettono i risultati. Qual è il suo rapporto umano con gli archivi e quindi con i documenti? In quei momenti si è a contatto diretto con il passato. Si tocca la storia. Il contatto è un’emozione. Spesso, attraverso lo studio di alcuni documenti, mi capita di immaginare le persone che centinaia di anni prima li hanno scritti; è emozionante davvero. Per questo amo portare i miei studenti nell’archivio, compresi gli studenti stranieri che magari vengono da paesi il cui proprio passato storico culturale non contempla un’epoca medioevale. Mi capita spesso che questi studenti non abbiano il coraggio di toccare questi “oggetti”, quasi a conferma di una sacralità degli stessi. L’archivio invece, non dovrebbe essere un luogo sacro, ma un luogo della memoria, aperto a tutti. Lei ha detto che in quei momenti tocca la storia: tocca anche la verità? Non è detto che la storia coincida con la verità. Tocco semplicemente la verità storica di quel documento. Le potrei rispondere con la frase di Cristo “Quid est veritas?” Passiamo invece alle narrazioni cinematografiche riferite alla storia: lei è uno storico, come dovrebbe guardare uno che fa lo storico di professione i film storici? Deve essere severo, guardare agli errori oppure deve avere un atteggiamento più disponibile?

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No certo. Uno storico deve guardare un film storico come guarderebbe un qualsiasi altro spettacolo che si costruisce partendo da alcuni enunciati storici. Per me è stata illuminante una discussione, in un dibattito pubblico, con il regista Pupi Avati, il quale mi ha parlato della necessità poetica di romanzare il passato. Sono d’accordo che il regista riporti dei fatti non propriamente accertati o magari inserisca delle incongruenze storiche nel racconto che fa. Il regista essendo un artista sente il bisogno di trasmettere qualcosa attraverso quelle sequenze. E a me va benissimo perché egli non è uno storico, ma è piuttosto un narratore per immagini che sono a loro volta, per lui, veicolo di idee o di atmosfere. Non posso criticare un regista come farei con uno storico. Lo posso criticare dal momento che pretende di dire che la sua ricostruzione rappresenta la realtà storica. Per il resto è assolutamente legittimo il ricorso alla immaginazione, d’altro canto è questo il loro strumento per raccontare. Per esempio: il palio di Siena è fatto sulla base di Statuti del 1600, ma i suoi figuranti indossano abiti del 1400. Come storico dovrei inalberarmi? Forse, ma piuttosto mi godo l’atmosfera e il fascino che questa evoca. Le posso portare un altro esempio: in quante rievocazioni medioevali capita di vedere tra i pasti “tipicamente medioevali” le patate? Si tratta di un errore madornale, e invece apprezzo l’aria che si crea e partecipo anche io di questo immaginario collettivo. Le posso portare l’esempio delle ricostruzioni storico-medioevali che rappresentano l’homo ludens piuttosto che l’uomo del medioevo, ma che raccogliendo una esigenza popolare hanno diritto a esistere. Solo che ovviamente non si possono arrogare il diritto di rappresentare il “vero storico”. In sintesi da storico noto le contraddizioni insite a certe rappresentazioni di carattere storico, da spettatore godo semplicemente dello spettacolo. Allora secondo lei non esiste un cinema storico? Non può esistere strutturalmente, quindi per sua stessa natura. Lo storico ricostruisce il passato e lo rappresenta, ma non lo visualizza se non interiormente, perché non può farlo. Il cinema è uno spettacolo che fissa un immaginario di sapore storico. Il sapore storico da cosa è dato? Dagli abiti? Dalle luci? O dall’attesa dello spettatore? Piuttosto

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dalla condivisione dell’immaginario storico comune. Il regista elabora la storia restituendola sotto una forma che io non sarei capace di produrre, ma godo di questa forma che lui mi offre. Anche questa è la libertà dello spirito. Quindi si parla solo di immaginario storico. Lei è uno storico non fa il regista, ma se fosse un regista come declinerebbe in immagini un documento storico? Che in fondo è il problema che si pongono tutti i registi di film storici… [ride] E se non lo hanno risolto loro questo problema pensa che possa risolverlo io?!…

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Paolo Mereghetti2 4 settembre 2006 – 63a Mostra internazionale d’arte cinematografica. Festival del cinema di Venezia.

Come mai, secondo lei, c’è l’esigenza da parte di molti Media contemporanei di rivolgersi alla storia? Come mai c’è quest’esigenza di guardare al passato e di riproporlo nelle ricostruzioni per immagini? Io mi occupo di critica del cinema e un pò di storia del cinema, non molto di più, però è chiaro che, per la formazione che ho avuto, per la mia storia personale, per l’approccio che ho al cinema, ho sempre pensato che il cinema fosse una specie di finestra aperta sul mondo, quindi sulla realtà e sulla storia, soprattutto sulla storia contemporanea. Si può analizzare come il cinema racconta attraverso i meccanismi cinematografici le regole del genere, la forza produttiva, la scelta di marketing di alcuni soggetti e alcune epoche storiche. Per esempio, da studioso del cinema italiano trovo che il cinema degli anni Cinquanta raccontava la storia italiana di allora, ma la raccontava non soltanto perché metteva in scena alcuni episodi reali di quell’epoca – il neorealismo è tipico, fa vedere come l’Italia esce dalla guerra – ma anche perché era capace di trasmettere, di prendere su di sé quegli elementi chiamati cultura materiale e trasformarli in elementi cinematografici. Quando Alberto Sordi in Un americano a Roma fa la sceneggiata “Maccarone, m’hai provocato, io me te magno”, da una parte c’è una struttura comica che funziona, dall’altra scopriamo delle cose sulla civiltà materiale di quel periodo che mi sembrano interessanti. Io sto raccogliendo delle cose, per esempio, sul ruolo della moda negli anni Cinquanta, periodo in cui la moda era qualcosa di importante molto più di adesso. Il cinema, in questo senso, era una specie di lente in qualche modo sicuramente deformata sui bisogni dello spettatore che vedeva materializzarsi sullo schermo i suoi desideri. 2. Critico cinematografico e giornalista. Caporesattore de “Il Corriere della Sera”, è autore del celebre Dizionario dei film.

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Lei ha tirato fuori nel suo discorso sia una macrostoria, intesa come storia politico-militare, che una microstoria. Per quanto riguarda la microstoria, quella de Les Annales, secondo lei, nei confronti del cinema, ha influenzato più gli storici del cinema o i cineasti? Secondo me i cineasti. I cineasti sono più avanti degli storici del cinema. Si comincia adesso a studiare in maniera seria le influenze della censura, la propaganda cinematografica, come nel cinema italiano degli anni Cinquanta, che è quello dove forse queste cose si vedono meglio e dove c’è anche un pochino più di distanza per analizzare bene le cose. Monicelli ha detto che tra il ’44-’45 fino al ’62-’63 c’è stata una specie di identità di vedute tra chi faceva il cinema e chi lo andava a vedere per cui, in qualche modo, tutti si sentivano partecipi di un medesimo percorso culturale, in maniere diverse, molto più schematiche, molto più ingenue se vuole, o molto più raffinate. Ora dico una banalità che andrebbe mitigata, però chi faceva il cinema era gente che viveva l’Italia, l’aveva vissuta, nel bene e nel male, nelle sue contraddizioni e in qualche modo col cinema doveva parlare di queste cose. In poche parole chi faceva il cinema condivideva con chi lo vedeva lo stesso “immaginario storico”. A volte capita, invece, che chi fa cinema si allontani da questo modo di sentire comune. Tornando alla differenza tra cineasti e storici del cinema, l’analisi degli storici del cinema è stata, soprattutto in quel periodo molto ideologica. Erano molto più ideologici i critici dei cineasti. Basta pensare al materialismo lukacsiano di Cinema nuovo. Esatto, quelli di Cinema nuovo, con tutti i meriti che ha avuto la rivista, avevano una visione molto ideologica e leggevano il film spesso secondo schemi estetico-politici predeterminati, non cogliendo certe sfumature. Il dibattito sul fatto se Anni difficili del 1947 di Luigi Zampa fosse di destra o di sinistra non capiva il valore del film e come il film cercava di ripensare a quegli anni in modo così amaramente umoristico. Penso anche alle accuse di qualunquismo rivolte a cineasti come Zurlini o Pietrangeli. Accuse gratuite e infondate in quanto questi au-

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tori coglievano aspetti della società molto profondi, facendo della microstoria e soprattutto attraverso analisi sociologiche non comuni. In fondo attraverso film apparentemente semplici si cercava di dare una descrizione storica importante. Certamente è un po’ quello che stiamo scoprendo qui a Venezia vedendo i film della retrospettiva su La Storia segreta del cinema russo dove c’è una struttura filmica su una base musicale molto interessante, ma secondo me è più interessante scoprire come certi valori passavano attraverso quel tipo di cinema. Proprio in questi film si esprime l’essenza più profonda degli avvenimenti storici, il clima politico, morale e umano del Paese. In fondo attraverso dei semplici musical di propaganda socialista noi assistiamo a una fotografia di quel periodo dell’Unione Sovietica che nessun film di ricostruzione storica potrebbe darci. Una domanda più generale. Innanzi tutto esiste il cinema storico? Lei ha parlato del rapporto implicito tra cineasta e spettatore che vivevano il medesimo immaginario collettivo storico. Pierre Sorlin diceva: “Se il cinema storico esiste come genere, l’unica possibilità di identificarlo è il patto tra lo spettatore e il cineasta”. Perché il cinema storico non esiste come genere come esistono invece tanti altri generi con la loro storia, la loro nascita e la loro decadenza? Innanzi tutto sì, un cinema storico esiste, se intendiamo per cinema storico un cinema che mette in rilievo una serie di avvenimenti storici. Questo tipo di cinema, tra l’altro, non è un tipo di produzione frequente. Infatti si tratta di un cinema molto legato alla ricchezza produttiva, nel senso che un film in costume costa molto più di un film normale. Ci sono dei periodi in cui i film in costume si fanno perché il cinema è ricco in generale e altri in cui si fa meno perché non ci sono soldi. Invece, per ciò che riguarda l’individuazione dell’elemento che costituisce la discriminante del genere storico, possiamo dire che il cinema storico come genere sta in piedi, secondo me, sul fatto che lo spettatore è disposto a credere alla ricostruzione che gli viene offerta. Il cinema storico diventa più o meno interessante per una serie di valori che sono extrastorici e più cinematografici, vale a dire dipende da alcune variabili cinematografiche, cioè se è più melodrammatico, più

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violento, più revisionista; variabili, aspetti cinematografici che si appoggiano sul genere storico ma che spesso finiscono in qualche modo per schiacciarlo, per cui la cosa più importante non è la ricostruzione storica ma quanto questa è appassionata, fredda, avventurosa, o altro. Quindi da questo punto di vista mi sembra che ci possano essere delle difficoltà nell’identificare il genere storico in sé. Non è un caso che il genere storico più popolare frequentato in Italia è quello del Peplum che di storico ha veramente poco. Cioè il genere Cappa e spada… Cappa e spada dal punto di vista produttivo è identificabile perfettamente come un genere che nell’ambito storico lasciava un po’ a desiderare eppure faceva vivere la voglia di riscatto di classi sociali che erano arrivate al boom e che speravano di trovare il loro Maciste che gli risolvesse i problemi e li salvasse dalla povertà. C’erano dei valori sociologici più forti di quelli strettamente legati alla ricostruzione storica e quindi tutto questo identificava il genere. Ivette Bureau, la storica del cinema ungherese, di scuola lukacsiana, diceva che, se il film storico esiste, esiste nella misura in cui l’universale della storia si fonde con l’individuale dell’uomo. È ancora possibile questa definizione di film storico, dopo Les Annales? Penso a La Nobildonna e il duca. Non è un po’ datata questa lettura ideologica del cinema storico? Sì, soprattutto perché il cinema di adesso sta andando per altre strade. Spesso si tratta di autori che mettono la storia al servizio della loro poetica e dunque anche il cinema storico di Rohmer è un cinema più rohmeriano che storico. Cioè un regista trova l’occasione in un racconto legato alla storia per raccontare delle cose che gli interessano, gli ambiti tematici che gli sono più vicini. Perché c’è una sovraesposizione mediatica della storia? La Tv produce tante fiction relative al passato, il cinema ha di nuovo abbracciato il passato. Come mai?

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Per ciò che riguarda il cinema, secondo me, questo negli ultimi vent’anni non ha fornito elementi di identificazione nell’ambito storico o di riorganizzazione della memoria collettiva, cosa che aveva sempre fatto e che gli appartiene per Dna. Il cinema ha lasciato scoperto l’ambito della ricostruzione storica. Un bisogno che invece da allora è cresciuto e ora è molto forte. La televisione ha percepito quest’esigenza molto prima del cinema, e l’ha soddisfatta con una grande produzione. Non è un caso che la televisione, non soltanto italiana, ma anche francese e occidentale in genere produca tante fiction storiche nel senso più ampio del termine. Anche Padre Pio, La Ferrari e Cefalonia, che offrono una sintesi della memoria collettiva discutibile, ricoprono quel bisogno.È un’operazione sicuramente sindacabile ma che in questo momento serve perché non possiamo vivere senza passato nonostante tutti gli sforzi che facciamo. Della storia c’è bisogno. Magari sarà una storia a fumetti o una storia fatta di fiction schematiche ma di queste cose la gente ha bisogno. Non si rischia di banalizzare il passato, che quasi sempre è più complesso delle semplificazioni da storia illustrata che queste fiction propongono? Sicuramente. Ma questa componente di banalizzazione c’è sempre stata, non dobbiamo scandalizzarci ora. Certi film degli anni Cinquanta di Hollywood erano degli abomini storici. Si banalizzava anche allora. Ma ci sembrava meno banale perché accanto a queste banalizzazioni c’era anche dell’altro, c’erano dei film storici importanti che ricostruivano seriamente il passato. È chiaro che nel momento in cui questa alternativa non c’è più, allora si ricade esclusivamente nella banalizzazione e si fa fatica, e nasce ancora di più l’esigenza di storia. Il discorso dei giornali è un po’ diverso: da un po’ di tempo a questa parte sembra che la stampa viva solamente di polemiche dettate dal ripensamento della storia. Pensiamo alla polemica sul revisionismo. Si tratta solo della mercificazione di quegli argomenti. Per cui, anche lì, il cittadino si trova a riflettere su un aspetto minore e riduttivo della storia. Anche quando gli storici parlano dei film storici diventano davvero sterili nelle loro polemiche.

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La storia, come ha detto lei, è tornata nel cinema con prepotenza dopo che questo l’aveva abbandonata; lei è il critico cinematografico italiano per eccellenza non posso evitare di fare la classica domanda: quali sono i film più belli che riguardano la storia? Me lo dica lei senza consultare il suo dizionario… Oh madonna [ride…] li ho scritti… [ride ancora…] ora non mi vengono in mente… però penso che Il mestiere delle armi sia un film importante da questo punto di vista, per la poetica di Olmi e per la storia che ricostruisce. Però a me non piace la rilettura della storia insanguinata di Gibson, perché appunto sembra che il sangue sia più importante della storia, di tutto il resto, e anche la finta cura filologica che mette nella ricostruzione è ambigua, gratuita e poco interessante. E poi anche un Film parlato di de Oliveira con la sua didattica della storia e il suo grido di dolore finale. Nel film di de Oliveira c’è davvero una bella riflessione sulla storia. Un film storico molto importante in Italia è stato certamente Gostanza da Libbiano di Benvenuti, un film che ha mostrato come si possa realmente ricostruire la storia attraverso gli atti e i documenti. Lei è un critico cinematografico e ora io vorrei farle una domanda che riguarda un altro mestiere, vale a dire quello dello storico professionista. Come, secondo lei, uno storico dovrebbe guardare un film storico? Polemizzando sulle scelte? Andando a cercare gli errori? Cavillando sulle ricostruzioni? No assolutamente. Ricordo che quando uscì un film di Bertrand Tavernier, mi sembra fosse La passion Béatrice non ricordo il titolo italiano… Mi sembra fosse Quarto comandamento… Sì esatto, Quarto comandamento, quando il film uscì nelle sale ci furono molti storici importanti che scrissero sul film, in particolare uno storico francese (mi sembra) Le Goff diceva “Ecco! Finalmente un film ambientato in un Medioevo puntigliosamente ricostruito fuori dagli stereotipi, insomma, filologicamente corretto”. Sì va bene, sarà forse vero che l’opera è filologicamente corretta, ma il film è uno dei

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meno interessanti di Bertrand Tavernier. Allora dobbiamo imparare a riflettere sul fatto che il cinema ha delle regole che non sempre vanno d’accordo con la realtà storica, nel senso che il cinema ha bisogno di drammatizzazioni e di ritmo. Il problema è capire se attraverso questi film cosiddetti storici si possa recuperare una specie di spirito storico giusto. Se si capiscono alcuni aspetti del passato va già bene. Non per forza la ricostruzione deve essere puntuale, perché se poi un frate metteva il saio in un modo piuttosto che in un altro, oppure l’illuminazione nei castelli era fatta in un modo piuttosto che in un altro… bene, questi non sono compiti che deve assolvere il cinema. Il cinema è sempre una messa in scena, una finzione. Poi è chiaro che nel cinema non possono inventarsi tutto, devono far ricorso alla disciplina storica quando si ambienta un film nel passato. La correttezza storica se c’è va bene, ma non sacrificherei la correttezza cinematografica per la correttezza storica. Il cinema è cinema non Storia.

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Paolo Benvenuti3 31 agosto 2006 – retrospettiva Cinema religioso, San Gimignano.

Come mai, secondo Lei, c’è l’esigenza da parte di molti media contemporanei di rivolgersi alla storia? Come mai quest’esigenza di guardare al passato? Io penso che ci siano due ordini di motivi: uno di carattere più generale che è legato alla paura del futuro per cui c’è una sorta di ritorno indietro di interesse generale, una sorta di nostalgia del bel tempo che fu che poi tutto bello non era affatto [ride]. C’è questa mitizzazione del passato che è, secondo me, profondamente negativa. Il passato va studiato come qualunque fenomeno esistenziale con grande rigore e con grande capacità metodologica. Il secondo aspetto è il discorso che la storia di cui si parla è una storia a uso del fine e quindi non è la storia, perché nel momento in cui si vuole veramente e seriamente affrontare la storia per quello che ha determinato rispetto al nostro presente, troviamo delle chiusure totali da parte di coloro che hanno l’interesse a far sì che la Storia sia sempre quella scritta nei libri di storia, quella ufficiale, quella per cui, per esempio, la storia d’Italia non è la storia d’Italia ma la storia del regno sabaudo. Questo significa che la storia si comincia a studiare con l’unità d’Italia; è una storia che ha cancellato le storie locali precedenti e questo secondo me è un delitto nei confronti della nostra stessa esistenza, per cui si cammina per la Toscana e ci si chiede “Perché la Toscana è diversa dal Lazio geograficamente?”. Nessuno dà una risposta a questa strana geografia per cui il Lazio è diverso dalla Toscana. Se uno non conosce la storia della Toscana non capisce perché è caratterialmente diversa dalle altre regioni. Tutto questo caratterizza l’approccio con la storia. Altro problema gravissimo è che la Storia è insegnata malissimo nelle scuole. I ragazzi non amano la storia. Sembra che nei programmi ministeriali 3. Regista cinematografico allievo di Rossellini. Nei suoi film si occupa in particolare di ricostruzioni di vicende del passato (Confortorio, Gostanza da Libbiano, Segreti di Stato…).

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ci sia proprio un profondo interesse affinché gli studenti non amino la storia, non la studino e se ne distacchino il più possibile. C’è questa sorta di separatezza tra l’interesse dei giovani e il proprio passato, quindi non si hanno gli strumenti – perché la scuola deve fare proprio questo, deve dare gli strumenti di comprensione – per comprendere il presente e per scoprire ciò che l’ha determinato. E se non si trovano le cause del presente, i giovani non sono nemmeno in grado di progettare il proprio futuro e allora ci sarà qualcuno che lo progetterà per loro. Questa è la tragedia del nostro presente. Lei ha fatto un discorso molto simile alla metafora con cui si apre questo testo: la storia per la collettività è come la memoria per l’individuo, vale a dire se un individuo perde la memoria, si limita a vagare e a espletare le proprie funzioni fisiologiche ma non sa dove andare. Una società che ha perso la memoria si limita a sopravvivere, non vive, non ha un progetto futuro perché non sa chi è. Questo è esattamente quello che penso ed è la ragione per cui mi occupo di storia da quarant’anni. Lei ha parlato di storia sotto tre aspetti: come interesse e paura del futuro, come falsificazione della storia, e poi ha parlato della didattica della storia. Le propongo tre spiegazioni presenti nel testo. “L’attuale interesse per la storia è frutto di una moda, ma solo in parte, vi sono anche motivazioni profonde e reali, tali da lasciar prevedere che non avrà cita breve questo interesse per la storia. L’onnipresenza mediatica della storia, l’invasione di ciò che nell’immaginario collettivo, chiamiamo “mondo storico” è frutto di una crisi della Storia.” Da un lato la disciplina storica è in crisi, dall’altro è in crisi l’immaginario storico, attraverso la contaminazione delle immagini e da ultimo è in crisi la storia intesa come concatenazione di eventi. Questa crisi della storia, secondo diversi punti di vista, paradossalmente porta a una sovraesposizione mediatica della storia stessa. Secondo Lei quale di queste tre crisi della storia è la più grave? Quella della falsificazione metodologica per cui avviene la creazione di un immaginario che di storico non ha niente, di una metastoria inesistente. Questa è la cosa più grave che va a riempire il vuoto del

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bisogno storico che ha la gente, ma che lo riempie di false informazioni, per cui i cittadini non sono in grado di farsi autonomamente degli strumenti critici perché la storia che gli viene propinata è completamente falsa. Un aspetto che è centrale nel discorso sulla storia è la memoria… Posso dire una cosa cattiva sulla memoria? Certo. Abbiamo aspettato che morissero coloro che avevano memoria per scoprire l’importanza della memoria. Abbiamo fatto morire di vecchiaia quelli che potevano parlare della guerra ’15-’18, del fascismo, dell’antifascismo, della resistenza, dei primi anni della storia della Repubblica. Loro sono morti e adesso si può parlare “finalmente” di memoria! C’è una memoria che si è mercificata. Viviamo in una società in cui c’è una fissazione per la memoria che ha assunto delle forme differenti e io ne ho citate tre: la museizzazione, la commemorazione. Il terzo aspetto è la patrimonizzazione della memoria che è l’aspetto più triste in quanto qui la memoria si fonde con il nostro regime economico, il capitalismo. Perché la memoria, che è una cosa così importante, è stata mercificata in questo modo volgare? L’unica indicazione ideologica che viene dal sistema capitalistico è quella della monetizzazione del tutto, per cui se una cosa ha valore, vuol dire che ha valore economico, non etico, morale o di conoscenza, ma solo e soltanto valore economico. È evidente che se c’è una domanda della storia, qualcuno ha pensato bene di mercificarla, di renderla gradevole. Faccio un esempio: i film in costume della televisione sono una cosa abominevole semplicemente perché, dal punto di vista della filologia, sono l’assurdo dell’assurdo, non c’è niente che torni, è tutto sbagliato. C’è una vaga infarinatura di epoche lasciata gestire ai costumisti di scena e non c’è nessuna presa di posizione da parte di coloro che si assumono la responsabilità del racconto, cioè dei registi. Questi,

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spesso, sono dei perfetti ignoranti che si affidano un po’ a tutto: agli attori che sono abbandonati a se stessi, ai costumisti che si occupano di ricostruire la storia, agli scenografi che ricostruiscono gli ambienti e la cosa più grave di tutte, per cui io ho un disprezzo profondo nei confronti di tutti i registi italiani, è di non scegliere il punto di vista da cui raccontare la storia, per cui lo fanno scegliere da altri. Io mi domando qual è il ruolo di un regista se non quello di assumersi la responsabilità di raccontare una storia. In una battuta possiamo dire che il capitalismo sta cavalcando la tigre di un bisogno serio, che è il bisogno di identità di una società che si ritrovi nella sua storia? Certo. Coloro che si sono sentiti togliere una cosa, sentono il bisogno di riappropriarsene e questa riappropriazione consiste nell’andare a cercarsi delle risposte laddove mancano. Ci si aggrappa allo sceneggiato di fine Ottocento perché così si crede di aver recuperato un rapporto con la storia, in realtà [ride] si è recuperato un rapporto con la Rai-Radiotelevisione Italiana e basta! E allora secondo Lei cos’è un film storico? Per me un film storico è il punto d’arrivo di una lunga ricerca per cercare di capire esattamente quali dati, quali informazioni fondamentali si riescono a dare attraverso il linguaggio cinematografico. Per cui, ad esempio, la cura e l’attenzione filologica a tutto ciò che appare dentro l’inquadratura è per me un elemento fondamentale. Se io mostro una penna che scrive, devo assolutamente preoccuparmi che quella penna scriva esattamente come scriveva nel 1596, che il piano d’appoggio della carta debba avere la stessa inclinazione così come l’aveva in quegli anni, dando non solo l’informazione legata all’episodio ma anche tutte le informazioni legate al quotidiano, per cui come scrivevano una volta, o come facevano le torture. Mi è capitato di leggere romanzi importanti sulla stregoneria e scoprire che gli autori non si erano documentati sul senso della tortura durante un interrogatorio dell’inquisizione. Se si fa appendere una strega a una corda e poi si fa precipitare per terra, altrimenti non sembra abbastanza sanguinolento, significa

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che non si è capito nulla del ruolo della tortura in un processo del tempo e cioè, per esempio il fatto che l’inquisito non doveva perdere sangue dalla testa, per non perdere la capacità di pensare e verbalizzare il suo pensiero. Siccome l’interesse fondamentale per un inquisitore è quello di interrogare, non si può interrogare uno che ha battuto la testa, perciò è chiaro che le torture venivano fatte spesso da cerusici o da medici, che sapevano perfettamente come far soffrire l’inquisito senza fargli perdere l’uso del cervello. Un altro aspetto che tengo assolutamente presente è che, quando proietto un mio film, mi pongo il problema che io sono uno e gli spettatori sono tanti. Ogni persona ha un suo mondo interiore, una sua curiosità, un suo interesse. Il barbiere, il calzolaio sanno tutto sulla storia del loro mestiere. Allora se io faccio vedere in un film del 1500 una scarpa del 1700, il calzolaio, che non sa nulla della storia, ma sa tutto sulle scarpe, si sente preso in giro sulle sue conoscenze e non si fida più. Per cui tutto deve essere rigorosamente controllato. Ecco cosa vuol dire per me essere completamente consapevole di quello che si mette dentro l’inquadratura. Continuando sul rapporto cinema-storia, esiste secondo Lei un genere che può essere definito cinema storico? Penso due cose. La prima mi viene dalla grande lezione rosselliniana. Io sono un discepolo di Rossellini, e Rossellini diceva una cosa molto precisa che è stata il vangelo di tutta la mia vita, diceva “un soggetto può essere ripreso da tutti i punti di vista, ma ce n’è uno solo giusto: quello che dà il maggior numero di informazioni allo spettatore”. Allora è evidente che se io mi pongo il problema del punto di vista nel raccontare una qualunque storia, devo sapere esattamente dove è la macchina da presa e perché in quel momento è lì e non da un’altra parte. Lo devo sapere in funzione del mio rapporto con lo spettatore. Io sono al servizio dello spettatore. Faccio cinema non per me, ma per gli spettatori. Ritengo che sia profondamente e ideologicamente ingiusto non mettere in comune con gli spettatori la mia curiosità, che mi porta a scoprire negli archivi fatti straordinari della storia. Per cui nel momento in cui scopro qualcosa di affascinante, che mi ha emozionato, io devo raccontarla, ne ho proprio bisogno. Mi piacerebbe che la sapesse tutto il mondo! A questo punto mi pongo il problema di come

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raccontarla. La cosa straordinaria che ho scoperto lavorando in questa direzione è che quando finalmente scopro il punto di vista che mi dà il maggior numero di informazioni, scopro anche che questo è il più bello. Io non cerco la bellezza dell’inquadratura, “non me ne frega niente della bellezza”, mi interessa la funzionalità, cioè poter comunicare il maggior numero di informazioni, e poi improvvisamente scopro che la funzionalità coincide con la bellezza. Altra cosa, che è ancora più intrigante, è che tutto il cinema è storico, e sai perché? Se tu guardi un film degli antichi romani girato nel 1916, in verità è un documentario sul 1916, non sugli antichi romani, su come vedevano la storia e su come il loro presente si rispecchi in quella realtà. Quindi il film storico è il cinema. Il cinema è sempre storico, perché nel momento in cui si accende la macchina da presa si ferma il tempo. Si ritaglia un segmento di tempo. Io sono assolutamente commosso quando rivedo un film che ho girato 35 o 40 anni fa e sono tutti morti. Lei ha sceneggiato tutti i suoi film. Come deve declinare uno sceneggiatore un documento storico in narrazione filmica? Un documento storico si presta a molteplici interpretazioni. Come rendere questo nella narrazione cinematografica? Io posso raccontare un episodio che non so se sia calzante con la domanda che mi fai. Per il mio lavoro per Segreti di stato ho trovato un documento che era un attestato di benemerenza che il Ministro Mario Scelba ha rilasciato a Gaspare Pisciotta. Sono andato a proiettare il film nelle scuole. Quando arriva la scena dello Scelba che tira fuori questo documento, sono successe due cose divertenti: la prima è che i ragazzi mi chiedono che cos’è quel documento, perché non hanno punti di riferimento, non sanno chi era Mario Scelba. Per far capire ai ragazzi la portata di quel documento, io chiedo a tutti “Sapete chi è Totò Riina?” o “Sapete chi è Giulio Andreotti?” e tutti rispondono di sì. Allora “provate a immaginare che Totò Riina tiri fuori un documento in cui c’è scritto “Totò Riina è una bravissima persona e ha lavorato sempre per me. Firmato: Giulio Andreotti”. Tutti si mettono a ridere e io dico “Dovete immaginare che questo documento nel 1952 produsse esattamente questo tipo di reazione”. Allora gli racconto che, nel

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1952, quando fu presentato quel documento di benemerenza firmato da Mario Scelba al Tribunale di Viterbo, dove c’era il processo contro la banda Giuliano, tutti i giornalisti corsero al Ministero degli Interni a intervistare Mario Scelba. Lui dice “Io non ne so niente. Casco dalle nuvole.” Questa cosa rimbalza nel processo e il giorno dopo si presenta un generale dei carabinieri che dice che il documento era falso, che l’aveva fatto lui, e che la firma apposta l’aveva scritta lui. Gli avvocati di parte civile chiedono la perizia grafo-tecnica. I giudici non permettono la perizia, perché non si può mettere in dubbio la parola di un generale dei carabinieri. Cinquant’anni dopo – e questa è la cosa che fa brillare gli occhi ai ragazzi – il sottoscritto trova il documento negli archivi del Tribunale di Roma e ruba il documento e lo porta al perito grafo-tecnico del tribunale di Pisa, che stabilisce che quella firma è rigorosamente autentica. Ciò mi consente di dire “Vedete ragazzi, c’era un ministro della Repubblica che diceva le bugie e c’era un bandito che diceva la verità”. A volte può capitare che le parole che si scrivono nella storia, che sono sempre quelle scritte dai vincenti, non sono esattamente la verità e può darsi che la storia sia invece scritta o non scritta da coloro che hanno perso. Forse le ho fatto la domanda sbagliata proprio per la sua prospettiva rosselliniana. Tutti gli sceneggiatori mi hanno risposto: quando c’è un documento, c’è una prospettiva su di esso e subentra un escamotage di fiction. Si inventano diversi personaggi che sono ognuno una prospettiva diversa sulla valutazione di quel fatto storico, di quel documento, però nel suo caso non è così. Abbiamo parlato del magistero rosselliniano sul suo cinema e di quello che Rossellini ha definito cinema per educazione integrale. Secondo Lei cosa ne è degli eredi di questo progetto utopico di Rossellini? Lui ha avuto secondo me una intuizione straordinaria dal punto di vista del linguaggio cinematografico su La presa del potere di Luigi XIV, poi ho la sensazione che, trovato il clichè, il maestro si sia un po’ adagiato. Aveva trovato quelle formule di rappresentazione che funzionavano, aveva inventato il suo zoom che usava in maniera straordinaria – l’unico cinema in cui lo zoom è usato in maniera geniale è il suo – per cui si era adattato a una forma di rappresentazione che aveva come obiettivo primario il costo più basso possibile. Per cui

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vedendolo girare senza innamorarsi, come poteva fare una volta con una sorta di distacco. Diciamolo francamente: era un genio, ma era anche un cialtrone. In Rossellini vivono queste due anime: la genialità e la cialtroneria. Io apprezzo la genialità, ma ho qualche problema con la cialtroneria. Tra l’altro ho avuto una discussione con Rossellini prima che morisse. Questa discussione è nata dal fatto che lui mi parlò del suo progetto sul Messia. Io, da laico, non credente, ho avuto già delle perplessità su Gli atti degli apostoli, ma il modo in cui lui parlava del Messia mi metteva ancora più in ansia perché vedevo usato come documento storico il Vangelo, che, secondo me, era assolutamente un’operazione non corretta. Ho cercato di spiegare al Maestro perché io non fossi d’accordo con questa impostazione, ma credo che lui non abbia assolutamente capito. Per lui il Vangelo era un documento storico. Il discorso sull’immaginario che tu facevi prima, qui è perfettamente calzante. Dov’è scritto ad esempio che Cristo era biondo con i capelli lunghi? È un’immagine che si è andata consolidando nei secoli grazie soprattutto alla pittura. Per cui quando si vede un Gesù che non ha quei caratteri consolidati nell’immaginario collettivo non vi si riconosce, appunto, Gesù. Per cui il modo secondo me più corretto per rappresentare i fatti evangelici non era quello della storia, ma quello della metastoria, dichiaratamente fuori dalla storia con anacronismi evidenti, con una rappresentazione che faceva chiaro riferimento alla storia dell’arte. Lei prima ha detto molto bene che l’inquadratura con il maggior numero di informazioni è anche la più bella. Allora si può fare un cinema storico e allo stesso tempo spettacolare? A me la parola spettacolare spaventa perché viene usata in accezioni volgari. Diciamo che basterebbe avere un’attenzione di tipo filologico su tutto quello che si rappresenta. Ho cercato di introdurre nel mio cinema un elemento in più rispetto ad altri autori che si sono occupati di film storici – e forse ho rubato un po’ questa cosa a Visconti: quello di cercare di capire quale fosse l’immaginario dell’epoca che si sta rappresentando. Cioè, come avrebbero rappresentato quella realtà degli uomini che si occupavano di rappresentazione?

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Come i Macchiaioli per Visconti. Esatto, come ho usato i Macchiaioli per Tiburzi, perché Tiburzi era un brigante maremmano di fine Ottocento e la Maremma era studiata in maniera approfondita dai Macchiaioli. In Gostanza da Libbiano mi sono rivolto alla pittura di Angelo Bronzino. Tutte le volte che ho affrontato un’epoca storica, mi sono sempre posto il problema di mostrare il tipo di rappresentazione caratteristica dell’epoca che stavo rappresentando. L’unica volta che non mi sono rivolto alla pittura per cercare il punto di vista dell’epoca è stato con Segreti di stato, perché trattandosi di un episodio avvenuto negli anni ’50, avevo il cinema come punto di riferimento e i riferimenti in questo caso sono John Ford per quanto riguarda gli esterni e Hitchcock, ma anche lo stesso Rossellini con lo sguardo di tipo scientifico sulle cose. A proposito di storia e dei suoi film, io ho immaginato che Lei abbracciasse la storia dei Les Annales, perché Lei non segue la storia politica dei macroeventi, ma la microstoria, la storia sociale, quella delle lunghe durate, per cui è storia anche la lettura di un documento di un notaio. Certo, ma dove il microcosmo diventa emblematico per raccontare il macrocosmo. Volevo sapere se Lei è d’accordo anche con un altro aspetto dei Les Annales, vale a dire il crollo della fede assoluta nel fatto storico, nelle leggi storiche come il progresso, e quindi il crollo del positivismo applicato alla storia per cui la storia non è più la ricerca della verità assoluta sul fatto storico perché questa non si può possedere. Questo lo dico anche io nel libro che è uscito insieme al film Segreti di stato. Non credo alla parola Verità, ma credo all’acquisizione di alcune consapevolezze e credo che sia importante, nel momento in cui si racconta un episodio della storia, dare il massimo delle informazioni e lasciare all’intelligenza dei lettori e degli spettatori la capacità di analisi e di critica, cioè, non dare pasti già masticati, ma dare semplicemente gli elementi. Ma si può ragionare soltanto se non nascondo nulla degli elementi che ho a disposizione. Invece purtroppo la storia è la

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storia delle cose nascoste, dei segreti di stato. È la stessa situazione in cui mi sono trovato nel mettere in discussione una verità storica assodata. Il cinema, a proposito della strage di Portella della Ginestra, è stato volutamente falsificatore. Il famoso film di Francesco Rosi, Salvatore Giuliano, è un’operazione fatta a tavolino con degli obiettivi di tipo storico-politico. Ha il taglio di un documentario con una tensione alla realtà dei fatti di tipo quasi maniacale, addirittura hanno preso il vero maresciallo dei carabinieri che combatteva contro Salvatore Giuliano che fa proprio la parte del maresciallo dei carabinieri. Da quando io ho fatto Segreti di stato Francesco Rosi non ha mai voluto incontrarmi. Diversi tra storici e giornalisti hanno chiesto di fare un confronto tra Rosi e Benvenuti a proposito della ricostruzione storica della strage, e lui si è sempre rifiutato, perché io sono uno dei pochissimi in Italia a sapere in maniera quasi maniacale fatti e misfatti che ci sono dietro a questa vicenda, fino al punto che sono in grado di guardare il film di Rosi e smontarlo pezzo per pezzo individuandone i falsi storici e le ricostruzioni esatte. Conosco gli atti per averci lavorato sei anni e perché ho toccato con mano i documenti oltre ad aver parlato con persone che mi hanno testimoniato quei fatti. Innanzi tutto c’è un falso storico, un episodio assolutamente falso che è quello in cui si vede il tamburino che avverte la popolazione di Montelepre che può uscire di casa perché l’esercito ha tolto il coprifuoco e si vede la piazza di Montelepre dall’alto con tutta la gente che esce e va alla fontana. Qualche scena prima si era visto Salvatore Giuliano dall’alto della montagna che guardava il paese con il binocolo e che faceva bersaglio con la mitragliatrice contro il paese, mentre donne e bambini sono intorno alla fontana a prendere l’acqua, si sente la mitragliatrice che spara in mezzo alla folla, la gente scappa da tutte le parti e la macchina da presa si volta e inquadra la montagna con la bandiera di Giuliano che sventola. Questo episodio non è mai avvenuto. Cioè, non esiste nella storia di Montelepre che Giuliano abbia sparato contro donne e bambini del suo stesso paese. Ma perché dal punto di vista drammaturgico questa scena è importante? Perché Rosi, nella struttura narrativa del suo film, non mostra Giuliano che spara a Portella della Ginestra. Lo mostra mentre va con i suoi uomini a Portella della Ginestra, ma non fa vedere lui che spara, fa vedere il punto di vista della gente che riceve le pallottole, ma siccome aveva già fatto vedere questa scena

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qui non ha bisogno di mostrare l’altra. Se Giuliano sparava alla gente del suo stesso paese, figuriamoci se non ha sparato anche alle donne di Portella della Ginestra. Il gioco era questo. La tesi espressa dal film di Rosi è che unico responsabile della strage di Portella della Ginestra è Salvatore Giuliano i cui mandanti sono misteriosi personaggi politici locali. Negli atti del processo viene fuori una cosa strana, che Giuliano la mattina alle ore 8 del giorno della strage, che era già lì piazzato con i suoi uomini, prende prigionieri quattro cacciatori passati lì per caso. Questi quattro cacciatori, prigionieri di Giuliano, osservano dal punto di vista di Giuliano tutta la vicenda e raccontano delle cose molto importanti. Primo: che Giuliano era lì soltanto con dodici uomini e che Giuliano aveva un certo tipo di armi. Alla fine della sparatoria, Giuliano, ridendo, dice ai suoi uomini di liberare questi quattro cacciatori e gli restituisce i fucili da caccia e gli dice di dire a tutti che erano in cinquecento, dopo di che questi cacciatori scappano. Altri testimoni oculari, vedono i banditi che dopo aver sparato se ne vanno, vedono anche loro che erano in dodici e vedono Giuliano e lo riconoscono mentre rincorre i suoi uomini gridando “Disgraziati, che cosa avete fatto?”. Tutto questo è agli atti. Circa mezz’ora dopo Giuliano e i suoi uomini prendono un campiere, che passava di lì a cavallo, e lo fucilano, lo buttano in una grotta e il suo cadavere sarà ritrovato un mese dopo. Questi sono i tre fatti: rilascia i quattro cacciatori dicendogli tutto contento di dire a tutti che erano in cinquecento, invece che in dodici, poi pochi minuti dopo grida “Disgraziati, cosa avete fatto?” e poi ammazza uno che non c’entrava niente, mentre non aveva ammazzato quattro testimoni oculari. Queste sono le tre cose che tra l’altro io elenco nel mio film. Tutto questo Rosi non lo racconta, ma racconta un’altra cosa, e cioè racconta quello che hanno raccontato i carabinieri al processo di Viterbo, e cioè che Giuliano era a Portella della Ginestra a sparare con trenta uomini, e fa vedere questi trenta uomini che sono i dodici uomini della banda di Giuliano, diciassette o diciotto ragazzi chiamati picciotti che erano stati addestrati lì per lì, per venire a sparare anche loro. In totale trenta uomini. Infatti nel processo di Viterbo i banditi sono chiusi in una gabbia e i ragazzi sono chiusi nell’altra. Il processo riconoscerà che tutti e trenta erano a sparare a Portella e che però i picciotti avrebbero dovuto fare quello che hanno fatto, per paura di essere ammazzati dai banditi di Giuliano e così vengono lasciati liberi.

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C’è l’articolo 50 che dice che se si è obbligati a fare una cosa sotto minaccia della vita non si può condannare e li lasciano liberi. Rosi mostra nel suo film prima l’addestramento dei picciotti che non sanno nemmeno sparare e poi mostra questi trenta uomini che vanno verso Portella nella contraddizione con quello che dicono i testimoni oculari che parlano di dodici uomini. Ma cos’era successo? Era successo che dal paese più vicino, che è a quattro chilometri di distanza, c’era un piccolo manipolo di fanti dell’esercito – saranno stati novanta uomini – comandati da un sottotenente. Quando sentono sparare, questi corrono sul luogo della strage e arrivano quando ormai tutto è finito e questo sottotenente che si chiama Carmelo Ragusa fa fare ai suoi uomini un controllo, fa prendere possesso del territorio per individuare le postazioni di tiro e individuano sul terreno 800 bossoli. Ora, siccome i testimoni oculari hanno stabilito che armi aveva Salvatore Giuliano e si sapeva dopo pochi minuti dalla sparatoria, in quei pochi minuti 800 bossoli erano troppi, allora bisognava che Giuliano non fosse lì con dodici uomini, ma con trenta uomini per arrivare a chiudere il discorso dei bossoli. Quindi si inventano la faccenda dei picciotti. In realtà tutto questo doveva servire semplicemente a nascondere le altre postazioni di tiro che erano uscite fuori. Allora i picciotti sono stati presi prigionieri a Montelepre, bastonati, costretti a firmare delle deposizioni già scritte, che poi loro ritratteranno al processo di Viterbo. Nel film di Rosi si vede che loro ritrattano, ma si capisce che Rosi non ci crede e ti fa vedere invece la versione dei carabinieri. Domanda: ma perché Rosi, uomo di sinistra, capostipite del cinema civile, sposa la tesi dei carabinieri e di Scelba che era quella per cui solo Giuliano, bandito e criminale, era responsabile di questa storia? Perché? Rosi, nel 1999, presenta il film restaurato al festival di Locarno e fa una dichiarazione che improvvisamente mi fa capire tutto. Dice “è grazie al mio film che in Italia è nata la commissione parlamentare antimafia”. Allora vado a rileggere tutti gli atti della storia della commissione parlamentare antimafia e scopro che effettivamente il partito comunista e il partito socialista chiedevano la commissione antimafia fin dal 1947, fin da dopo la strage di Portella della Ginestra, ma che la Democrazia Cristiana si era sempre opposta adducendo che non esisteva la mafia, la mafia era un’invenzione dei comunisti, per cui non c’era bisogno. Ma in realtà qual era il vero problema? Il vero problema era che i de-

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mocristiani non volevano assolutamente che commissari comunisti o socialisti mettessero il naso nelle carte segregate della strage di Portella della Ginestra e della morte di Salvatore Giuliano che erano già segreto di stato dal ’49. Questo cosa faceva dire alle sinistre? Qui non si fa la commissione anti-mafia, e allora a un certo punto le sinistre hanno deciso di soprassedere alla strage di Portella della Ginestra e di mandare un messaggio, attraverso il film di Rosi, alla Democrazia Cristiana di questo tipo “per quanto riguarda Portella accordiamoci su questa verità ufficiale. A noi non importa più di Portella della Ginestra, ma vogliamo una commissione antimafia che si occupi della mafia da qui in poi. Per cui la verità ufficiale su Portella della Ginestra diventa quella testimoniata dal film di Rosi”. Questo è un uso ideologico di un film storico, ecco perché Rosi non vuole incontrarmi, perché sa che io so. Un altro passaggio importante è che durante i miei studi ho conosciuto uno che era stato assistente di Giuseppe De Santis, il famoso regista di Riso amaro che era membro della segreteria del Partito Comunista. Nel 1956 De Santis scrive una sceneggiatura intitolata Portella della Ginestra. Vengo a sapere questa cosa, chiedo alla vedova De Santis di mandarmi la sceneggiatura. La signora gentilmente me la spedisce, la leggo e cosa scopro? Che dice esattamente le cose che dico io in Segreti di stato, cioè parla dei quattro cacciatori prigionieri eccetera, e mi accorgo che De Santis era a conoscenza dei fatti perché aveva studiato sul serio i documenti. Telefono alla vedova De Santis e le chiedo “Signora, mi dice perché suo marito non ha mai fatto questo film?”. Lei disse “furono compagni del suo partito a dirgli che non era il caso di fare quel film”. Questo nel ’56. Cinque anni dopo, nel ’61, Rosi, che era ancora un emerito sconosciuto – era soltanto uno degli assistenti di Visconti, mentre l’altro era un regista di fama internazionale – fa il suo primo film che è su Salvatore Giuliano. Tutto questo è incredibile. Lei ha rivelato un ulteriore rapporto tra cinema e storia, tra l’uso del film storico Salvatore Giuliano e un periodo importante della storia politica italiana. Qual è il suo rapporto sui luoghi della memoria e cioè gli archivi e qual è il suo rapporto con i professionisti della storia, vale a dire gli storici?

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Diciamo che gli archivi sono luoghi per me magici, io passo ore e ore negli archivi anche solo per respirarne l’aria. Mi piace toccare le pergamene, mi piace toccare la carta che mette in comunicazione col passato. Mi emoziona. Per quanto riguarda Gostanza da Libbiano per me è stato enormemente emozionante non tanto leggere i testi, i documenti, la grafia del notaio che aveva trascritto tutti i documenti. La cosa che mi ha veramente commosso non erano le parole scritte ma gli scarabocchi dove si capiva che lì c’era il momento di pausa e allora chi scriveva faceva il disegnino, il sole, la luna. Lì ho sentito veramente l’umanità presente nella storia e questo mi ha veramente commosso. Questo per farti capire il mio rapporto col documento. Naturalmente per quanto riguarda gli archivi dimenticati, è un altro aspetto, quando abbiamo scoperto che gli atti del processo a Salvatore Giuliano erano finiti in mezzo ai topi, buttati da una parte, per noi è stata una cosa incredibile iniziare a sfogliarli, a ritrovare le carte manoscritte, come le lettere di Pisciotta, le fotografie fatte dai carabinieri ai cadaveri, il documento che ho rubato e ho messo sotto la camicia (ride)… Ecco il mio rapporto con il documento e con l’archivio, un rapporto di grande impatto emotivo. Il rapporto con lo storico, invece, è un’operazione completamente opposta cioè il rigore scientifico col quale affrontare il documento, per cui io non mi permetto mai di partire con delle interpretazioni fantastiche del documento storico, se prima non lo ho verificato rigorosamente con storici di cui mi fido, con cui ho un rapporto di reciproca stima. Io avanzo una mia interpretazione, a volte l’accolgono, a volte no per cui ne discutiamo. La consulenza storica per me è l’elemento che convalida la mia ricostruzione, perché io non sono uno storico, sono uno storico passionista, diciamo (ride), non sono uno scienziato della storia. Secondo Lei come uno storico dovrebbe guardare un film storico? con indulgenza con severità? Secondo me gli storici dovrebbero guardare innanzi tutto i documento con serietà scientifica, cosa che non fanno, o spesso parlano per sentito dire. Il fatto che l’amministrazione Clinton abbia desecretato le carte dei servizi segreti americani in Italia dal ’43, anno dello sbarco in Sicilia fino agli anni ’50, e che il mio gruppo di ricercatori sia partito

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dall’Italia e sia andato a Washington per portarsi via i documenti, questo la dice lunga ed erano stati secretati da qualche anno, perché nel ’98 Clinton li aveva desecretati, ma nessuno storico si era sentito di andare a vedere cosa c’è negli archivi della CIA. Questo la dice lunga… C’è uno storico che dice “I miei colleghi ultimamente preferiscono frequentare sedi di giornali o studi televisivi piuttosto che archivi”. È d’accordo con questa affermazione? Sono assolutamente d’accordo. Il lavoro vero di guardarsi mille carte per trovare un rigo che diventa chiave di volta per comprendere un fatto dal punto di vista storico, questo lavoro oggi gli storici non lo fanno più, e questo è molto grave, è molto più facile scopiazzare o tradurre da roba di altri La cosa grave è quando lo storico paludato di fronte al film storico dice “Alla fine è un film”. Registi e storici dovrebbero fare rispettivamente il proprio lavoro con serietà.

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Stefano Rulli4 21 giugno 2006 – Roma.

Come mai, secondo lei, negli ultimi anni si è fatto così tanto ricorso alla storia, intesa sia come micro-eventi, sia come macro-eventi storico-politicomilitari nelle narrazioni cinematografiche e televisive? Innanzi tutto c’è stato uno spostamento rispetto al passato del rapporto tra audiovisivo e storia. Negli anni Settanta c’è stata una prevalenza di cinema storico, quindi del rapporto tra il cinema e la storia, mentre gli sceneggiati televisivi erano più legati alla letteratura, al romanzo per cui lo sceneggiato era il romanzo sceneggiato, che si ispirava prevalentemente a un romanzo. Là dove non era così gli sceneggiati erano più fedeli. Il cinema degli anni settanta ha rivisitato molto il periodo del fascismo o la prima guerra mondiale, facendo un’opera di rilettura della storia d’Italia, dopo tanti anni di un cinema che doveva tener conto di un’egemonia democristiana a livello politico non a livello culturale che condizionava un po’ anche la produzione di alcuni film rispetto ad altri, con l’avvento del centro-sinistra comincia una rilettura della storia d’Italia a partire da Allarmi siam fascisti e poi via via anche con la guerra mondiale italiana, Tutti a casa, La grande guerra, poi anche Il delitto Matteotti, c’è insomma una rilettura proprio di alcuni capitoli politici della storia d’Italia. Oggi c’è un’attenzione, sia da parte del cinema che della televisione non più tanto sulla grande Storia ma sulla microstoria, oppure anche la storia viene riletta attraverso i comportamenti umani, sociali e quindi storie più individuali. Il mio parere è che quell’idea di usare il cinema per ricostruire la storia grande e dare una lettura diversa apparteneva a un’idea di cinema che è un po’ della vecchia generazione, cioè l’idea che e il cinema e la televisione dovessero servire a spiegare ai cittadini, a un pubblico quello 4. Regista e sceneggiatore. Tra i suoi tanti lavori ricordiamo le sceneggiature per i film Il muro di gomma, La tregua, La meglio gioventù, Le chiavi di casa e il suo film da regista Un silenzio particolare.

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che il potere non faceva conoscere. Il massimo per me di questi film è Salvatore Giuliano. Salvatore Giuliano è il modello di un’idea del cinema che deve svelare, che deve denunciare, che deve scoprire delle pagine della nostra storia che sono state raccontate in un altro modo. A mio parere successivamente entra in crisi l’idea di quel cinema: il cinema serve a cambiare la coscienza politica dei cittadini oppure no? Essendo entrata in crisi questa idea, non avendo trovato altre risposte, ci si è chiesti “è necessario fare un film storico?” C’è un senso dietro quella storia che ci riguarda oggi nel presente? Ci riguarda non significa che ci riguarda soltanto perché ci spiega delle cose della politica che non abbiamo capito, ci riguarda perché ci sono dei ricorsi storici, ci sono delle cose della cultura, della mentalità degli italiani che tornano periodicamente perciò io posso parlare dell’Italia di Berlusconi parlando anche dell’Italia di Crispi. C’è un modo di usare anche la storia per parlare dell’oggi. Nei periodi di maggiore confusione negli anni ’70, ’80 quel cinema, che è anche più costoso dell’altro, non ha trovato uno spazio. Adesso tra quelli che se ne sono più appropriati c’è la televisione, la televisione fa molto la ricostruzione storica del paese, dell’immaginario di questo paese, quindi la televisione ha una funzione molto importante. Anche se c’è stata una mutazione nel linguaggio televisivo. L’elemento che pare prevalere nelle ricostruzioni storiche attuali o quando si raccontano episodi storici è l’elemento spettacolare, l’elemento che fa ascolto, soprattutto alcuni eventi, come la storia della mafia, episodi questi legati a un sentimento forte del pubblico. Se prima prevaleva la ricostruzione storica per dare un’interpretazione politica adesso, anche in tv, quello che prevale è l’impatto spettacolare, come una pagina di cronaca molto forte in cui il pubblico si può identificare dal punto di vista emotivo. Muore Falcone, muore Borsellino, muoiono 10 poliziotti più che capire la logica che è dietro, quello che si tende a fare è una ricostruzione dal punto di vista emotivo. La televisione ha oggi una responsabilità nel ripensare la Storia. Soprattutto con il governo di centro-destra si è di nuovo cercato quell’uso ideologico delle immagini che era stato del cinema di impegno civile di sinistra negli anni Settanta. Questa volta il mezzo non è stato il cinema, ma la televisione, e si è tentato, da destra questa volta, una rilettura pedagogica della Storia di questo Paese: e allora la storia dei gulag, le foibe, Stalin ecc. Dando per presupposto che in Italia ci sia

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sempre stata un’egemonia culturale della sinistra, per cui c’è stata la lettura della storia solo cogli occhi della sinistra, questa volta il tentativo è stato, anche con un suo senso, di ricostruire, dal punto di vista dell’altro schieramento politico, la reale storia che fino a ora non era mai stata raccontata. Tutto ciò è sbagliato, in primo luogo perché questo, che era il modello della sinistra vent’anni fa, è un modo sbagliato di usare la Storia: raccontiamo come sono andati “davvero i fatti” e creiamo identità politica. Inoltre se questo modello fatto da un certo tipo di cinema in quegli anni era realizzato attraverso “signori registi” che avevano un talento tale da fargli perdonare qualche distorsione ideologica, la televisione di oggi è assolutamente di bassa qualità, non ha altra spinta che quella emotivo-spettacolare. C’è a mio parere un altro modo di leggere il rapporto tra audiovisivo e storia, che non è quello alternativo tra visione della storia fedele ai fatti e una ricostruzione fantastica della storia. Si deve piuttosto analizzare il rapporto tra la grande storia e la microstoria tentando di capire quali soggetti diventano protagonisti del racconto. Il problema che mi sono trovato di fronte quando ho scritto Cefalonia, che è uno dei capitoli indubbiamente più trascurati della storia italiana, è stato raccontare come sono andati i fatti proprio dal punto di vista della conoscenza storica di quelli che vi hanno partecipato; oppure quando ho fatto Perlasca, scoprire un personaggio di cui nessuno sapeva niente, che è stato un eroe che ha salvato la vita a migliaia di ebrei in Ungheria e che è finito più o meno in miseria, senza un riconoscimento se non negli ultimi anni della sua vita. Il problema è come coniugare quest’esigenza di rispetto della storia con le esigenze, oramai sempre più forti, di uno spettacolo che possa attrarre un alto pubblico. Anche perché una fiction in costume costa molto in termini di investimento, hai bisogno di pensare al pubblico che non vada sotto un tot di milioni di spettatori. Per ottenere un pubblico di quel genere, che ha bisogno di un certo tipo di racconto, devi coniugare quel racconto storico con un modello narrativo a cui il pubblico è abituato, cercando di non falsare però l’autenticità del senso della storia. Ma anche qui ci si deve intendere su cosa significhi rispetto della storia. Io penso, ma questa è un’opinione mia personale, che sia molto importante rispettare il senso della storia, vale a dire evitare di

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alterare i fatti fondamentali degli avvenimenti, mentre, al contrario, su alcuni aspetti collaterali è necessario prendersi delle libertà narrative altrimenti non riesci a coniugare questi due elementi. Faccio un esempio: parlando di Cefalonia, io ho fatto una lettura di tutto quello che era uscito sull’argomento. Soprattutto molti racconti biografici. Alcuni memoriali raccontavano uno che a un certo punto per paura ha tradito, invece un altro raccontava del ballare della gente, io di queste due storie ho fatto un unico personaggio per rispetto della realtà non gli ho dato i nomi di nessuno dei due, ma è come se il senso della storia che loro hanno rappresentato nelle loro memorie, le ho raccolte dentro un personaggio di fantasia; quindi il rapporto tra fedeltà storica e romanzo a mio parere uno lo può cercare laddove puoi scrivere di un personaggio senza dargli il nome e cognome di Cadorna o Bixio che costringono la narrazione, mentre invece un personaggio non famoso, ma che ha vissuto davvero quegli eventi, lo puoi mettere dentro gli avvenimenti avendo una libertà di racconto molto maggiore, però, per quanto possibile, affidando a quel personaggio una serie di fatti, elementi culturali, comportamenti che sono stati reali. Ricordo che c’è una galleria di episodi meravigliosi sia per coraggio che per comicità venuti fuori da questi memoriali, noi ne abbiamo fatto dei personaggi. C’è una poesia bellissima scritta da un soldato di Cefalonia dopo la sconfitta, un poeta contadino credo, e noi l’abbiamo attribuita a un personaggio che ha anche altri risvolti. C’erano sei preti cappellani a Cefalonia (di cui due hanno scritto due libri, uno racconta proprio l’eccidio degli ufficiali a Cefalonia), 148 ufficiali e lui era lì presente e racconta questo episodio. Un altro invece racconta del periodo in cui rimase l’esercito italiano prigioniero durante l’occupazione nazista fino alla liberazione. Allora noi dovendo fare un racconto ne abbiamo fatto uno solo di cappellano, che non ha il nome di nessuno dei due, ma che ha dentro le due parti di storia. C’è stata anche una protesta da parte dei familiari di uno di questi cappellani, “ma quello è nostro zio, e quella cosa l’ha fatta e quell’altra cosa non l’ha fatta”. Abbiamo chiarito che non abbiamo chiamato con quel nome lì proprio perché noi pensiamo che dobbiamo ricordare ciò che queste persone hanno fatto più che i loro nomi, quello è compito di un’altra storia, non quella del cinema o della televisione.

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Sei andato molto vicino al nodo del problema che tentiamo di analizzare, vale a dire alla declinazione di un fatto o un documento storico in immagine-movimento, in narrazione per immagine. Come si declina in narrazione visiva un documento o un fatto storico? E come cambia a seconda della destinazione per una fiction o per un film? Anche qui un’opinione personale, io non faccio una distinzione narrativa se scrivo per il cinema o per la televisione. Io scrivo racconti per immagine, quindi per me, per certi versi non c’è una differenza. Se c’è differenza, c’è differenza rispetto al mezzo non rispetto al linguaggio. Rispetto al mezzo io so che quando scrivo per la televisione, se quell’episodio è forte lo devo mettere all’inizio della storia, devo partire fortissimo. La televisione rispetto al cinema non ti consente quella libertà di racconto in cui tu puoi mettere la parte forte anche dopo un quarto d’ora di film, il famoso tisert della televisione è che quando parti devi partire fortissimo. Ora puoi dare un cazzotto nello stomaco alla gente oppure facendo una cosa bella ma devi partire fortissimo. Nel diagramma di un film tu hai una libertà di movimento maggiore, ma nel prodotto televisivo tu sai che in testa e in coda, alla fine devi avere dei momenti molto alti. Devi scegliere all’interno dell’episodio storico qualcosa di particolarmente significativo e diretto per catturare l’attenzione del pubblico, perché se no il pubblico col pulsante clicca, cambia dopo tre minuti e se ne va. Il pubblico cinematografico che ha pagato il biglietto ti concede più tempo. Questi sono problemi tecnici che inevitabilmente poi vanno a pesare sulle scelte del racconto. Però per il resto io non faccio una grande differenza, certo il problema che hai sempre quando ti trovi di fronte un documento storico è come renderlo il più possibile espressivo, emozionante e quindi calarlo dentro i tuoi personaggi non raccontarlo in modo oggettivo. Per esempio per fare riferimento a Cefalonia c’è un episodio, una pagina fondamentale della storia che è quella che per la prima volta durante il fascismo, proprio in un esercito, di fronte alla scelta se combattere o arrendersi, il generale da il diritto di voto ai soldati. Questi votano e votano compatti, almeno così dicono, tant’è vero che poi decidono di combattere. Questa è una pagina di storia che torna da varie memorie e ognuno te la racconta in maniera diversa, non è uguale. La scelta che fai, spesso, è una scelta completamente personale ma il rispetto della storia è che

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io alla fine devo dire che questi soldati hanno votato, la stragrande maggioranza per continuare a combattere. Devo costruire dei personaggi che arrivano a quell’appuntamento raccontandosi attraverso quell’episodio corale, delle scelte che questi personaggi cominciano a fare, quindi non lo racconto in oggettiva lo racconto sempre attraverso lo sguardo e le scelte dei vari personaggi. Allora il documento storico può essere declinato in immagine narrativa attraverso la prospettiva e queste prospettive diventano personaggi? Si. Questo ti permette di essere in qualche modo, non dico vero, ma più articolato della sentenza storica. Spesso l’interpretazione della storia la puoi dare attraverso le diverse voci dei personaggi: c’è uno che dice “c’avete tradito” e uno altro che dice “no bisogna combattere”; in questo caso tu puoi dare la ricchezza degli sguardi, delle interpretazioni senza violentare il “fatto storico”, il fatto resta quello, ma spieghi diverse prospettive su quel fatto e come questo si è realizzato; è un po’ come andare dentro la notizia, non con una sola interpretazione, ma dando più voci attraverso i personaggi; il vantaggio dei personaggi, rispetto alla ricostruzione storica, è che ti permettono di dare delle sfaccettature di questa verità storica dando a tutti una credibilità. Se ci vai dentro c’è una serie di sfaccettature che sono quasi pirandelliane. Il racconto ti permette di raccontare la storia anche con questa sua maggiore articolazione. Manzoni diceva che il romanzo storico ti permetteva di restituire una cosa che i libri di storia non potevano darti, vale a dire le emozioni. Nel manuale di storia non ci saranno mai le emozioni, ci saranno i fatti. Un romanzo storico, in questo caso una fiction o un film, restituiscono una cosa che è comunque storia, le emozioni i sentimenti fanno parte della storia. Si, la storia delle emozioni, questo è vero. In Cefalonia quello che è commovente è l’idea di libertà: chi combatteva non sapeva cos’era la libertà perché erano troppo giovani, quei ragazzi erano cresciuti durante il fascismo, perciò quando gli dicevano non solo di votare, ma di esercitare la libertà, di far vivere la democrazia, non sapevano bene come fare: come i bambini che scoprono qualcosa per la prima volta,

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la guardano con uno sguardo che è diverso dall’adulto che la sa già da tempo. Il pubblico di oggi che vede questo film può capire come ci si sente a scoprire la libertà, che per noi è una cosa scontata. Per queste persone è stata una conquista. È molto importante quando scrivi storicizzare l’emozione; anche raccontare il ’68 è difficile, non solo raccontare i fatti, ma soprattutto raccontare quel sentimento di cambiamento che oggi è dato per acquisito, la possibilità di cambiare, di occupare, di fare quelle cose, oggi le diamo per acquisite, ma quando le facevi per la prima volta il sentimento era di illegalità, e c’era, però, un sentimento di giustizia nel fare quelle cose che ti veniva da dentro e da fuori, e dal sentire il movimento reale intorno a te. Tu hai scritto La meglio gioventù che è il riassunto di 40 anni di storia del nostro paese. Questo film doveva essere in origine per la televisione poi in realtà è vissuto di vita propria andando al cinema e ricevendo premi importantissimi a Cannes e via dicendo. Vorrei chiederti qual è la genesi del progetto, come nasce il progetto, come si è modificato con il tempo e come sei riuscito a sintetizzare 40 anni di storia, qual è stato il criterio per la scelta degli avvenimenti? Beh, diciamo che La meglio gioventù ha un suo precedente che era un lavoro fatto per la televisione che si chiamava Vita che verrà ed era un racconto in 4 puntate che era la storia di alcune famiglie dal dopoguerra, dal 1945, dal giorno della liberazione di Roma al 1960 le Olimpiadi, progetto scritto da me e da Sandro Petraglia. Noi volevamo raccontare in qualche modo tutti questi anni, dal dopoguerra a oggi in maniera diversa. Quel primo racconto che era ancora più per la televisione, era il racconto dei nostri padri, tutte le memorie, le nostre famiglie, di una generazione, della nostra infanzia umana, sociale. Quel racconto era più televisivo, era a puntate e più facilmente leggibile; ma soprattutto vi era dentro un rapporto con la storia grande molto più diretto: nella narrazione c’erano proprio gli episodi importanti della storia che scandivano la vita di queste famiglie, per esempio l’arrivo degli americani a Roma, poi a un certo punto c’è la scoperta dei pozzi di petrolio con Mattei, e altri episodi storici importanti che erano un po’ sullo sfondo e paralleli alla vita di queste famiglie. C’era come un doppio piano di racconto; la televisione doveva fare con filmati di repertorio quella

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parte più storica, e c’era poi il racconto di finzione: era un doppio livello di racconto che forse si intrecciava poco e infatti non è andato particolarmente bene, è andato mediamente bene, perché era un po’ troppo sofisticato per la televisione però anche complicato da leggere. Quando abbiamo pensato di fare una storia che riguardava la nostra generazione più direttamente, la scelta narrativa è stata quella di non fare il racconto della storia più grande ma partire dai personaggi e raccontare la storia nei modi e nei luoghi in cui i personaggi la incontravano. Faccio un esempio:per raccontare il ‘68 noi abbiamo privilegiato, in realtà, il ’66 cioè l’allagamento di Firenze. Normalmente si chiama generazione del ’68, in realtà noi abbiamo preferito parlare della formazione culturale, morale di quel tipo di personaggi: il viaggio a Firenze per salvare quelle opere d’arte fu il primo passo di un’identità di generazione molto più che quel movimento politico che venne dopo. Quel personaggio lì la sua scelta di vita non la fa nel ’68 ma nel ’66 e allora narrativamente racconto soprattutto il ’66, cioè il fango, le opere d’arte eccetera e al ’68 è dedicata mezza scena di quando lui si affaccia con lo striscione e viene portato via dalla polizia e lei gli grida da sotto una dichiarazione d’amore. Anche lì non è stato raccontato il ’68, ma attraverso un fatto pubblico si racconta di due personaggi che si dicono che si amano, che rientra nel ’68, ma in realtà è una sola immagine. Mentre invece a Firenze è dedicata circa mezz’ora. Ci sono poi delle scelte particolari, soprattutto delle omissioni, di cui siamo stati anche rimproverati: non ci sono le stragi, non ci sono i fascisti, non c’è la droga, così come del terrorismo non c’è il caso Moro. Se avessimo dovuto raccontare la storia d’Italia come abbiamo fatto nella versione precedente avremmo inserito il rapimento Moro, invece qui il terrorismo passa attraverso i tempi di una nostra protagonista, che è la moglie dello psichiatra, che, dentro il suo percorso a un certo punto viene a confrontarsi con quella scelta (non sappiamo l’anno preciso perché quello che ci interessa è la scelta ideale non ricostruire la storia); così come lo psichiatra basagliano non incontra mai Basaglia, vuole andare a Gorizia e non ci arriva, si muove in un certo modo, ma non si hanno mai dei riferimenti precisi alla legge di abolizione dei manicomi, forse quel personaggio incontra la politica anti-istituzionale anche prima che ci sia una coscienza generale del problema. In qualche modo la scelta è di raccontare la storia dentro i personaggi. Ogni personaggio

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porta dentro di sé un sentimento della storia che in qualche modo riverbera la storia più grande che in qualche modo passa sullo sfondo Siamo i più vicini al romanzo storico ottocentesco per immagini che a un libro di storia inteso come manualistica per immagini. Quindi questo è il criterio di scelta degli avvenimenti: filtrati dallo sguardo dei personaggi, quindi in questo senso era più spostato verso l’umanità dei personaggi che sulla macrostoria degli eventi. Questo modo di raccontare la storia, più che un racconto storico, può essere definito, citando di nuovo Manzoni, “il sugo della storia”, una filosofia della storia, una sua interpretazione della storia? Non so, però posso dire due cose a questo proposito. Innanzi tutto non credo all’oggettività della storia; ma così dicendo non mi invento niente, credo che qualunque storico rilegge i fatti alla luce di un suo sentimento, di una sua idea della storia, anche semplicemente per il fatto che mette in evidenza alcuni elementi della storia rispetto ad altri pur senza cancellare gli altri. Filologi e storici di professione sostengono che la storia è scienza. Sì, ma le scienze anche sono i modelli interpretativi della realtà come una certa visione della storia è un modello interpretativo della realtà. L’opera d’arte in particolare è sempre un modello interpretativo della realtà, diverso dall’approccio dello storico. Lo storico quando si avvicina al documento deve avere un’attenzione in più alla macrostoria, all’interpretazione complessiva, mentre un artista è più interessato a calarla nell’umanità dei personaggi, con la stessa consapevolezza di dire “stiamo facendo un’operazione che agisce a livello della storia”, una è la storia delle emozioni, l’altra è la storia delle idee. Una cosa che mi affascina molto del raccontare la storia, più che i fatti storici che sono statici, è il sentimento del tempo, che solo la storia ti dà. A te che vivi oggi, vivi la vita come quotidianità, come insieme di episodi, ma c’è come un sentimento del tempo, che è la cosa che ne La meglio gioventù più mi affascina. Senza che accadano cose clamorose nella vita dei personaggi, c’è il sentimento del tempo che passa, delle idee che sfioriscono che però restano nelle persone,

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oppure di chiarezze che arrivano tra mille incertezze, che è legato a un movimento continuo che tu non percepisci quasi, ma senti dentro di te questo sentimento della storia che cambia. Ma non cambia solo tramite le grandi scelte, anche tramite le piccole decisioni quotidiane. Ritrovare i segni di questo cambiamento dentro i percorsi individuali credo che sia il modo migliore per raccontare il movimento vero della storia che non passa attraverso le frasi famose che dice qualcuno, ma attraverso le la somma delle tante migliaia di milioni di vite che impercettibilmente cambiano e poi a un certo punto si ritrovano. Lo si può fare su due, tre o quattro personaggi, che sono emblematici, però di un movimento che è reale. Penso che la storia cambi attraverso gli uomini e gli uomini cambino con percorsi individuali, non quelli dei libri di storia. In questo senso io credo che La meglio gioventù non racconta tanto dei fatti storici importanti, ma il sentimento di una storia, di come questa storia ti cambia dentro con dei tempi, che, a mio parere, solo il cinema e la televisione possono dare, perché in fondo le sei ore ce le poteva dare solo la televisione, però quel sentimento dei personaggi forse ce lo poteva dare solo il cinema. Se mi si chiede che cos’è La meglio gioventù? È cinema o televisione? Rispondo che per me è un oggetto misterioso; non ho idea di che cosa sia, so soltanto che mi ha permesso di esprimere un sentimento del tempo e dei personaggi che è diverso non solo da ciò che avevo fatto prima in televisione ma anche da ciò che avevo fatto prima nel cinema. Al cinema la percezione del tempo cambia se si hanno a disposizione sei ore invece che un’ora e mezza. Il flusso del tempo, quel modo quasi impercettibile in cui la storia si muove, è inevitabile che se lo si va a contrarre in un’ora e mezza, diventa qualcosa di più indirizzato, si sente più la presenza dello scrittore e delle sue scelte. Ripeto, è come la dimensione del romanzo ottocentesco. Fatto per la televisione come fosse cinema. Quando sento dire che la televisione impone un certo tipo di racconto o che la televisione fa schifo, io dico che è una lettura discutibile, perché c’è un equivoco tra il mezzo e il linguaggio, di per sé il mezzo della televisione ha delle potenzialità e dei limiti come tutti i linguaggi, ma il problema è come lo si gestisce, come lo si usa. Io credo che la televisione abbia una grande potenza comunicativa di rivolgersi a milioni di persone contemporaneamente la stessa sera, che il cinema non ha più. La televisione diventa un evento che lega questo pubbli-

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co, anche se questo pubblico non ha la possibilità di vedersi. D’altra parte dà la possibilità di costruire narrazioni più lunghe e articolate di quelle che permette il cinema, però come controindicazione ha che deve essere più esplicito del linguaggio cinematografico. Le varie forme di ellissi narrativa, come l’uso del flashback, possono essere usate soltanto perché sono state usate al lungo dal cinema, ma la televisione non ne regge di nuove. Certe forme narrative si possono utilizzare solo quando sono state usate a lungo dal cinema e quindi acquisite con una certa naturalezza dal pubblico televisivo che è più ampio, più articolato e con un livello medio meno elaborato sul piano comunicativo. Certo delle differenze ci sono ma credo che siano molto delle scelte personali, di stile. Non è che il cinema sia nobile di per sé e la televisione faccia schifo di per sé. Molti film ultimamente non raccontano la storia, ma la storia vissuta attraverso l’anima di chi la racconta. Il ’68 di The Dreamers o di Les Amants réguliers non è il ’68 politico, ma è il ’68 dell’anima. Buongiorno, notte non è certamente il racconto realistico del sequestro Moro, ma è come il sentire di chi la racconta e l’ha vissuto e come avrebbe voluto che poi magari andasse. Secondo te, questo nuovo cinema storico – io ho citato dei titoli, ma ce n’è tanto altro – che margine di divulgazione ha e che importanza ha? Partendo dal presupposto che il cinema da un lato, ma anche la storia dall’altro, è sempre interpretazione, trovo che questi film a volte sottolineino dichiaratamente questo aspetto, cioè si dà una lettura di quel fatto che non tradisce il fatto storico ma ne evidenzia alcuni aspetti. Un esempio per tutti è Buongiorno, notte di Bellocchio che rispetto al fatto storico del sequestro Moro, ha accolto un aspetto molto parziale, il rapporto padri-figli che è un rapporto generazionale, Moro da una parte e i giovani terroristi dall’altra, ma anche una riflessione ideale sull’Italia, quanto quei due mondi sono della stessa cultura. Da un lato quell’integralismo cattolico o quel rigorismo ideale di Moro, con tutte le sue contraddizioni e, dall’altro, un’altra forma di rigorismo aberrante, ideologico, per ottenere quel cambiamento radicale; sono queste, due forme di radicalismo ideologico che si specchiano l’una nell’altra e sono figlie della stessa cultura, di questo paese che è un paese di estremismi, dove ognuno riversa sull’altro l’immagine del

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nemico da abbattere, riservando a sé il ruolo della purezza. Come ha dichiarato anche Bellocchio questo è un film sul ripensamento della figura del padre, quella è la generazione che l’ha voluto uccidere, in qualche modo, come immagine dell’autoritarismo. Moro porta in sé l’ambiguità di quella autorità e dell’autorevolezza. Nella rilettura che ne fa Bellocchio è rielaborata la figura del padre, ne recupera l’umanità, ne recupera il peso dell’essere autorevole, delle scelte, del relazionarsi col proprio Paese, con la propria famiglia e diventa anche quello un modo di rileggere il ’68 da parte di chi l’ha vissuto e quindi anche lì è un modo di fare storia dei sentimenti, delle emozioni. Un po’ come lo storico si misura con una pagina del ‘45, a partire da quello che è oggi il suo sentimento della democrazia e della libertà, così un artista si misura con un’emozione che ha vissuto e conosciuto in quegli anni e la rivisita alla luce di quelle che sono le sue emozioni a tutt’oggi. Si possono definire visioni della storia invece che racconti della storia? Si è possibile. Visioni nel senso di sguardo. Io credo che lo sguardo sia centrale nel cinema. Penso che oggi più che comunicare al pubblico delle nuove conoscenze, si può comunicare un nuovo sguardo sulla realtà, quella realtà che è sotto gli occhi di tutti, che un artista ti permette di guardare con altri occhi che forse possono essere i tuoi; già ce l’hai ma non sai di averli. In questo senso penso che può essere giusto usare il termine visione. Uscendo dai confini nazionali e dal discorso cinema e televisione, perché il problema della storia è tornato così in auge in tutto il mondo: libri fantastici, moltiplicarsi delle TV tematiche. Secondo te perché c’è quest’esplosione di racconto della storia in tutto il mondo occidentale? Un’impressione personale: c’è una crisi di identità dell’occidente molto forte dal punto di vista ideale di valori e quindi la storia è come un modo di riflettere sul passato per ritrovare risposte sull’oggi. Per esempio per quanto riguarda La meglio gioventù quello che mi ha colpito è quanto questo film sia stato visto e amato dai giovani, a mio parere, proprio per questo bisogno di misurarsi con la storia, con la storia dei nuovi padri che non gliel’avevano raccontata. Io penso che

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oggi c’è una gran parte di persone che cercano nella storia risposte che non riescono più a trovare nella vita quotidiana, nelle prospettive verso il futuro. Ma questa risposta al desiderio di identità perché si fa subito consumo, merce? È diventata un bene di consumo la storia per immagini. Perché del desiderio legittimo che può avere una società, un individuo singolo, una nazione ma anche il mondo occidentale, subito se ne fa merce? Non so se è il destino di questa società, ma un po’ tutto si fa merce. Vale per la storia ma anche per tantissime altre cose, per esempio il sentimento religioso che sta ritornando diventa new age, diventa organizzazioni con tanto di spettacolo. Credo che sia il destino di una fase in cui diventa tutto industria, merce, danaro. Però allo stesso modo c’è la responsabilità di capire quanto questa merce sia una merce che ti da qualcosa oppure solo un trucco.

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Ambrogio Santambrogio5 9 ottobre 2006 – Università degli Studi di Perugia.

Buona sera professore, lei è un sociologo, e si interessa di problematiche riguardanti l’identità collettiva, volevo sapere come mai c’è questo ricorso ossessivo alla storia da parte della società? La mia impressione è che la storia sia sempre stata una materia plastica su cui tutti hanno plasmato la propria identità sociale e individuale, quindi parlando di sovraesposizione si presuppone che oggi ci sia un ricorso alla storia superiore del passato. Mi interessa notevolmente il discorso della sovraesposizione e del ricorso ossessivo alla storia, ma non ho alcun dato per sostenere che oggi più del passato la storia sia oggetto di riflessione. Noi sociologi siamo abituati a confrontarci con dei dati: quali sono gli indicatori per sostenerlo? Ovviamente se lei che sta analizzando questo problema li possiede, mi fido e provo a rispondere. La mia impressione è che da Cesare ai nostri giorni la storia sia stata sempre un mezzo di costruzione delle identità. Ciò che noi siamo dipende da ciò che eravamo. Sfuggire alla contingenza è un fondamentale percorso umano. Radicarsi da un punto di vista geografico e nel contempo storico-temporale è un bisogno sociologico fondamentale. Superare la contingenza dà un senso alla propria appartenenza che sia stabile e non esposto ai flussi, agli eventi. Per far questo bisogna far ricorso alla storia, alle proprie radici. Il discorso della memoria storica è fondamentale per il gruppo umano. Di interessante c’è che ogni società ha avuto un rapporto particolare con la storia. In un momento di crisi delle identità come il nostro, il bisogno di ancorarsi assume delle fattispecie del tutto tipiche. Ognuno di noi non ha mai una identità coerente dentro la quale far rientrare tutti i momenti della sua vita quotidiana. Una identità collettiva è fatta di molte appartenenze 5. Professore associato di Sociologia presso il Dipartimento di Istituzioni e Società della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Perugia.

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quindi ha molte storie, e dunque gestire molte identità significa gestire molte memorie. Questo è un primo punto che mi pare possa giustificare quello che tu chiami ricorso spasmodico alla Storia. Da un punto di vista qualitativo può essere vero che queste identità individuali e collettive frantumate hanno bisogno di molte memorie. Ho l’impressione che la memoria storica abbia una duplice funzione: quella di ancoraggio (alla memoria, quindi il ricordare) e, ti sembrerà paradossale, anche quella di dimenticare. La memoria serve anche per dimenticare. Voglio dire che fissare il passato in una immagine stereotipata, perché il ricordare è soprattutto questo, ridurre il passato stesso a una semplificazione. Questo secondo aspetto, cioè la necessità del dimenticare, sino a oggi è stato poco sottolineato sia dagli studi storici che da quelli sociologici. Se il passato rimane una ferita continuamente aperta, rimane, in qualche modo, un peso sul presente e la funzione del passato, di costituire una fondamenta del presente, se non è una radice, ma una ferita aperta è un problema e non assolve più alla sua funzione di radice che ci si dà per vivere. Che collegamento c’è tra la crisi della identità individuale garantita un tempo da appartenenze di stampo religioso, di ceto e in generale da tradizioni più rigide e la crisi della identità collettiva? L’individuo molte volte ha il problema di dover gestire la sua multi appartenenza. Ma la mia impressione è che tutto sommato questa sia una grande risorsa contro il multiculturalismo. Mi spiego meglio. Io ho l’impressione che quando si parli di società multiculturale si abbia l’idea di riconoscimento delle diversità per cui si pensa di ributtare l’individuo dentro l’appartenenza di gruppo e di far coincidere l’identità individuale con l’appartenenza di gruppo. Mentre invece se teniamo ferma questa identità plurima evitiamo il rischio che le nuove comunità diventino nuovi ghetti… Secondo me, è la sfera pubblica (penso agli ultimi lavori di Habermas) dove i vari soggetti si incontrano, a costituire uno spazio di incontro fra le varie comunità e le varie identità. Se così non fosse ci sarebbe una riduzione delle identità individuali che si ripercuote sul modo di concepire l’identità collettiva.

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La seconda tematica da lei lanciata è quella sulla memoria. Viviamo in una società ossessionata dalla memoria eppure siamo profondamente ignoranti sul nostro passato. Perché secondo lei c’è questa contraddizione? Secondo me questa contraddizione è sempre esistita, anzi forse prima era molto più acuta. Uno dovrebbe fare sempre un confronto con il passato. Oggi per esempio c’è un tasso di scolarizzazione molto più alto di quello dell’Italia degli anni Cinquanta e quindi se dovessimo confrontare l’Italia di oggi con quella dei Cinquanta in tema di conoscenza del proprio passato, a naso mi verrebbe da dire che oggi conosciamo molto meglio questo passato. Ma esiste un’altra questione: io penso che soprattutto nel Novecento la storia diventi campo di conflitto, di scontro tra appartenenze. Ed allora è interessante vedere come da un certo momento in poi i conflitti sociali diventino anche conflitti sull’interpretazione storica. Questo secondo me è un meccanismo fondamentale. Per cui la memoria che implica questo doppio meccanismo del ricordare per dimenticare, è sempre falsa. Nel senso che riduce la storia e la sua complessità a una immagine. E ogni immagine, qualunque essa sia, falsa il passato. Se noi parliamo di memoria come base di un immaginario storico collettivo, bisogna considerare che quest’ultimo è sempre falso. E questo è inevitabile perché l’immaginario storico che una società possiede, risponde ai suoi bisogni, non alla realtà storicamente verificata. L’immaginario implica per forza di cose una riduzione semplicistica. Le porto un esempio: oggi ci sono molti studi che gettano nuova luce sugli episodi della resistenza, e se sono storicamente comprovati dallo studio e dall’analisi di documenti non c’è assolutamente nulla da dire. Quindi volendo proporre un paradosso, se i partigiani scopriamo essere stati (dico numeri a caso) 4000, invece di 40000, l’immaginario che la società ha della resistenza non cambia poi molto. Occorre, quindi, sempre un po’ distinguere tra la ricostruzione storico-filologica e la storia come base nell’immaginario collettivo. E si deve stare anche molto attenti a non intaccare troppo certe immagini: bisogna vedere se gli italiani possono fare a meno, per esempio, di un mito come quello della resistenza, semplicemente perché numericamente la ricostruzione è diversa. Possiamo dire che l’immaginario collettivo costituisca una sorta di mito, ed è inevitabile che lo sia. Le identità collettive sono

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sempre una negazione della storia. È chiaro che il lavoro di revisione filologica può mettere in discussione il mito e qui abbiamo l’azione della ricerca storica diretta e indiretta, abbiamo cioè l’effetto sui miti del lavoro storico-scientifico. Quelli di cui parlavo prima sono due piani concettualmente separati ma che interagiscono. La ricerca storica e l’immaginario collettivo storico che fonda una società. Per ciò che riguarda la memoria, oggi noi facciamo musei di tutto, ma questo conservare tutto non le sembra che testimoni l’incapacità di scegliere da parte della società cosa è giusto ricordare e cosa non è giusto conservare nella memoria? E che quindi conservi anche quello di cui non c’è bisogno? Sul fatto di scegliere o non scegliere… si c’è una quotidianizzazione della storia, che ha radicalizzato l’onda delle Annales (la storia è quella che si fa tutti i giorni ed è quindi meritevole di essere conservata). Comunque questo è un problema molto grave e profondo a cui ora non so dare una risposta. Non mi viene di trovare dei criteri sulla base dei quali stabilire cosa conservare e cosa non conservare. È una cosa alla quale non ho mai pensato. Ecco forse potrei dire che una volta non si sceglieva, perché la storia aveva una sa ufficialità per cui sicuramente una busta della spesa non era un oggetto storico. La storia era la res gestae. Oggi ci si pone il problema della scelta perché il concetto di storia non coincide più con la Grande Storia narrativa universale. Riguardo alla ufficialità della storia, dopo l’11 settembre c’è stato un fiorire di pubblicazioni riguardo a quell’evento reale in diretta. Baudrillard parlava di fine della storia che oramai percepita in diretta non rifletteva più sulle sue cause ma si limitava solo a mostrare gli effetti. Questa serie di effetti porta alla deriva di un eterno presente senza tempo. Secondo lei è in crisi questa storia con la S maiuscola dei grandi eventi? Secondo me queste sono le esagerazioni del decostruzioniosmo alla Baudrillard. Si tratta più di una provocazione dell’autore che di una effettiva una teoria che vuole enfatizzare questa idea di un’eccessiva frammentazione della storia al singolo presente. Io penso che qualsiasi fatto storico nel momento in cui lo si interpretò può essere frantumato quanto credi ed esposto alla visibilità, ma il senso della storia

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continuerà ad essergli dato attraverso la successiva interpretazione e riconnettendolo all’interno di una catena lineare degli eventi. Secondo me è pericolosa la teoria di chi parla di fine della storia perché potrebbe farci dimenticare che la storia esiste, che tra i fatti che accadono esistono comunque dei nessi; parlare di fine della storia diventa una specie di ideologia di chi vince sul fatto presente. Sono d’accordo con lei sull’esagerazione, però senza dubbio l’avvento della storia in diretta ha modificato un po’ la percezione della storia. Si pensi, oltre che alla caduta delle due torri, anche a quella del muro di Berlino; macroeventi dati in diretta. Percepire la storia in diretta fa si che noi sentiamo solo gli effetti. La ricerca delle cause ha bisogno di un tempo di sedimentazione, di un tempo storico… Quello che voglio dire è che senza dubbio la percezione della storia in diretta cambia molto perché c’è un effetto emotivo dirompente; quello che non cambia è che, anche se in diretta, la storia porta con se una spiegazione. Pensare che questa spiegazione non ci sia può essere pericoloso perché può far passare delle spiegazioni come se non fossero tali, dare per implicite delle spiegazioni per quei fatti che noi vediamo, come se non fossero delle spiegazioni, come se quella storia in diretta non avesse bisogno delle spiegazioni. Quindi io dico che i fatti storici portano sempre con sé un’interpretazione da dare, un senso da ricostruire e delle connessioni causali con il passato e con il futuro da effettuare. Se io presento la storia come non-storia, come se fossero fatti isolati che avvengono e di cui posso essere mero spettatore, potrebbe far passare l’idea che questi fatti non abbiano bisogno di una spiegazione. Ma questo non significa che i fatti non abbiano bisogno di una spiegazione. È l’effetto di semplificazione ad essere pericoloso. Lei parlava di un effetto spettacolarizzante della storia… È uno dei meccanismi che sono sempre esistiti nella storia. La spettacolarizzazione ha una doppia semplificazione: oltre a quella legata al fatto che la storia diventa memoria e quindi si semplifica c’è un’altra semplificazione quella del farla diventare attraente. Questo per esempio lo vediamo molto bene nella televisione e al cinema. Non credo

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che i mass media siano puramente negativi come sostenevano i francofortesi, però è vero che tanto più la spettacolarizzazione implica semplificazione, tanto più diventa la perdita di un’occasione. Quindi è pericoloso che si crei un immaginario storico troppo arbitrario… Si però è inevitabile. I gruppi umani hanno un fondamento che non può essere razionale, quindi c’è un meccanismo di falsificazione automatico. Il problema non è tanto la banalizzazione della storia che c’è sempre stata. Il problema è che accanto alle volgarizzazioni e le spettacolarizzazioni c’erano anche canali più seri e oggi non più. Oggi si lascia tutto alle fiction televisive. L’ultima domanda: lei pensa che con l’avvento del digitale, della telefonia, tutto ciò che comporta un’esplosione dei mezzi di comunicazione..crede che questo abbia un impatto positivo nei confronti del narrare la storia o no? Non ne ho idea… tutto implica una contrazione del tempo. Le nuove tecnologie aiutano a diminuire il peso del passato e a diminuire il progetto di un futuro. Schiacciano tutto sul presente. È difficile prevedere quali saranno gli effetti che queste tecnologie avranno sul concetto di storia, un’eccessiva contrazione della dimensione storica sul presente è umanamente insostenibile, proprio perché l’unica cosa che non siamo capaci di fare è il carpe diem. L’uomo è un animale storico. Io penso che l’agire umano sia sempre un agire orientato a un fine e quindi che porti con se un’idea di progetto… quindi ci saranno sicuramente dei meccanismi che andranno a correggere questa presentificazione. L’uomo è un animale storico, mi piace chiudere con questa immagine, ed è impossibile che si schiacci sul presente.

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Ascanio Celestini6 11 settembre 2006 – Festival Bella Ciao, Ciampino.

Ascanio, nei tuoi spettacoli e nei tuoi racconti ti sei occupato e ti occupi di ricostruire il passato. Il titolo del libro è La ‘storia’ senza Storia. Volevo sapere come mai secondo te, che ti interessi di storia e di memoria, c’è questa sovraesposizione mediatica di storia. Come mai la storia ha invaso la televisione, la radio, il cinema e anche il teatro? È come quando c’è un incidente aereo, un incidente del treno, che mia madre dice “adesso gli aerei cascano tutti questa settimana”. Nel momento in cui accade qualcosa l’ingrediente di quell’evento viene utilizzato e riutilizzato fino a quando non si svuota completamente di senso, per cui in qualche maniera è un bisogno dell’industria culturale, di mettere sempre prodotti nuovi perché sostanzialmente si lavora più sul bisogno indotto che sui bisogni concreti. Perché inventano la Sprite? C’era già la gassosa. Perché in quel momento lì si è pensato che poteva tirare su il mercato. Perché ci stanno i numeri verdi sull’acqua minerale? Nessuno ha bisogno di telefonare al numero verde, eppure sono in tutti i prodotti cosiddetti di qualità, quelli che hanno un marchio. Si cerca di creare un bisogno. Se si inizia a parlare di medioevo e pian piano quel prodotto tira, si cerca di costruirne altri in qualche maniera simili. Per questo io non credo che c’entri molto la storia e neanche l’interesse per la storia. Penso che nessuno sia particolarmente interessato a Leonardo Da Vinci oggi più di qualche anno fa. Il Codice Da Vinci non ha cambiato molto. È semplicemente un prodotto che va sul mercato. C’era uno spazio libero e si è investito su quello. Nel teatro questo interesse per la storia in realtà pian piano si sta svuotando. Tutto ciò è anche molto pericoloso, anche perché la storia è un prodotto della memoria. È strano, la storia mette sempre un po’ paura, la memoria no, perché è una cosa che riguarda tutti. 6. Autore e attore teatrale, si occupa prevalentemente della narrazione del passato attraverso i sentieri della memoria.

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Tutti abbiamo una memoria, tutti abbiamo un nonno in cantina che vale la pena tirare fuori, spolverare e il 27 gennaio, sentiamo quello che ha da raccontare e poi il 28 ritorna in cantina. Io mi ricordo qualche anno fa eravamo a Perugia al Teatro Morlacchi per la giornata della memoria con Sandro Portelli. Sandro arrivò dicendo “ho parcheggiato la macchina qui sotto al parcheggio Partigiani. Mi sembra proprio esemplificativo di quello che stiamo facendo oggi, come se i partigiani fossero parcheggiati per tutto l’anno e il 27 gennaio si tirano fuori dal parcheggio”. Io credo che questo tipo di memoria sia un po’ pericoloso: prima si usava la memoria nostalgica della nonna, quella che dice “si stava meglio quando si stava peggio… eravamo poveri ma eravamo felici… i prodotti erano più buoni… i pomodori sapevano di pomodoro”, col tentativo di sovrapporre al presente un passato in qualche modo migliore. Quell’uso della memoria oggi è diventato retorico. Oggi c’è un altro tipo di memoria ancora più pericolosa che è quella per cui si dice prima eravamo criminali, assassini mentre ora ci siamo emancipati da questa violenza così pressante. Sappiamo che l’olocausto è stato un grande crimine di dimensioni tragiche enormi. Oggi ci sentiamo migliori del passato e quest’idea di una memoria non più nostalgica ma consolatoria è ancora più pericolosa, perché in realtà si usano quei morti per non vedere quello che accade nel presente. Hai analizzato gli effetti della presenza della storia come bisogno indotto. C’è uno spazio vuoto, si crea un bisogno indotto e si cavalca quel bisogno. Automaticamente quando tutti dicono che c’è bisogno di storia la gente finisce per crederci e ricorre alla storia. Hai parlato della mercificazione della memoria, e questo è un effetto, ci sono, però anche delle cause profonde. Secondo te, è in crisi un’idea di storia come concatenazione di eventi? Mi spiego, oggi la televisione, i media ci presentano la storia come una serie di effetti senza causa. Dell’11 settembre nessuno si è chiesto il perché è avvenuto realmente l’attentato ma diventa un semplice effetto così come per la guerra in Iraq e via dicendo. L’11 settembre sicuramente è stato un evento chiave, non soltanto per quello che è successo quel giorno. Ci sono degli avvenimenti che vengono costruiti come falsi miti. Il caso dell’11 settembre è uno di questi, uno strano insieme di artifici. Il primo artificio è l’evento stesso, nel

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senso che anche chi stava lì sotto non l’ha percepito come un avvenimento reale perché è chiaro che non si ha la possibilità e un’esperienza tale da interpretare quell’evento come un avvenimento reale. Una parte degli eventi dell’11 settembre sono stati esclusivamente costruiti. Sembra ormai certo che nessun aereo sia arrivato a colpire il pentagono. Ma che differenza c’è in fondo? Io ho visto l’evento in televisione ed era già fiction… La storia vera, gli avvenimenti, nessuno te li racconta. Quello che è stato raccontato mille volte dell’11 settembre non è l’avvenimento reale, ma è ciò che è avvenuto in televisione. Noi continuiamo a raccontare quello che abbiamo visto, ma l’abbiamo visto in televisione. Non stiamo raccontando quello che abbiamo realmente visto lì. E pure chi l’ha visto non l’ha visto lo stesso. La storia ha bisogno di interpretazione. E quindi non si fa storia in questo senso. Certo, non si fa storia in questo senso. Oppure dobbiamo avere la consapevolezza di dire che si sta facendo storia della televisione. Allora è per questo che la storia è in crisi, perché non la si può fare solo con i mezzi di comunicazione, ma ha bisogno di un tempo di sedimentazione per essere interpretata. Il pericolo è che si dica che è più vero quello che dice la mia vicina di casa sul bombardamento di San Lorenzo che quello che dicono i libri di storia, perché la verità del popolo è più vera della verità dei sovrani che fanno scrivere i libri di storia, ma non è così. Abbiamo visto molte foto dei campi di sterminio. In una fotografia di un bellissimo bianco e nero, l’impressione è quella di un fumo che esce da un comignolo. Il fumo del comignolo ci fa impressione perché noi sappiamo che lì dentro ci bruciavano i corpi delle persone asfissiate nella camera a gas, perché conosciamo la storia delle persone che ci stavano dentro; altrimenti noi penseremmo, come molti testimoni tedeschi, che era un forno in cui facevano il pane [ride…] ma non si chiedevano “Ammazza quanto pane si fa ad Auschwitz”. Noi conosciamo la storia dall’alto e dal basso – che sono due categorie che in realtà non esistono – per cui abbiamo una concretezza del racconto individuale che è data dal-

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l’identità della persona che lo racconta con tutti i suoi errori, le sue contraddizioni e le sue falsità. Passiamo invece al discorso della memoria. Secondo te c’è un eccesso di memoria nella società odierna? Ogni piccola società, ogni piccolo comune ha il suo museo. È una società che si sta museificando? Due cose da dire su la memoria. Primo. Non esiste una memoria senza il ricordare e molto spesso non esiste il ricordare senza il raccontare. Una cosa si ricorda anche perché si racconta e non è detto che bisogna raccontarla in televisione, come sembra sia indispensabile oggi, dove una persona inizia ad avere un peso nella società perché la società lo riconosce. Noi pensiamo che la società passi soprattutto tramite la televisione e questa è una strana invenzione. Secondo. Il museo della memoria è un po’ una contraddizione perché la memoria è soprattutto legata alle persone che ricordano e che raccontano. Secondo me noi non dobbiamo ricordare tutto. Continuamente io sento la frase “per non dimenticare”, la scrivono ovunque, a volte la attribuiscono anche a me, ma è una cosa che io non dico mai. Noi dobbiamo dimenticare invece, dobbiamo imparare a dimenticare le cose. Quando si mette a posto dentro casa è una gioia poter buttare un sacco di roba. La memoria non è legata solo al passato di trenta o cinquant’anni fa. Giustamente io tutti gli anni vado nelle scuole per la giornata della memoria e i ragazzi mi dicono sempre che è la giornata della Shoah. Io gli dico sempre che non è la giornata della Shoa ma della memoria, intesa come valore, anche la vostra memoria, di quello che è successo ieri, l’altro ieri, di quello che ha detto mio padre stamattina, la mia memoria del presente e di quello che del presente terrò per il futuro. La memoria non è solamente il passato. Nel momento in cui si dice che la memoria è l’olocausto, questa non è la memoria ma un prodotto dell’industria della comunicazione. Qual è il rapporto tra le storie singolari, vissute, che porti sulla scena e la storia con la S maiuscola, come disciplina, come concatenazione di eventi? La differenza che fai tra la storia con la S minuscola o con la S maiuscola è una differenza che facciamo noi per capire i termini del discor-

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so. In realtà la differenza non c’è. Perché mio padre parlava di sé che attraversa Roma a piedi il 4 giugno del ’44? Perché il 4 giugno del ’44 è il giorno della Liberazione di Roma. Non racconta di una traversata quasi identica che ha fatto due settimane prima, per cui una cosa dà valore all’altra: è il 4 giugno del ’44 ed è mio padre che ha attraversato Roma, è la sua piccola storia nella Grande Storia in cui si è trovato immerso. Per cui non c’è differenza, la differenza serve a noi per capire di cosa stiamo parlando. Una signora che ho intervistato un sacco di volte (molte persone le ho intervistate più di una volta sullo stesso racconto perché a me, per una questione di drammaturgia, interessa la narrazione che viene costruita attraverso la memoria. Una persona raccontando per molti anni alla fine costruisce un vero e proprio testo, un testo in tutto e per tutto simile a quello che è il mio testo teatrale dove utilizzi quasi sempre le stesse parole, hai delle immagini che sono centrali perché sono quelle che ti ricordi e rivedi davanti quando racconti; c’è una modalità, c’è un venire a cadenza, c’è un’idea rituale, per cui c’è un luogo, un tempo, un pubblico deputato al racconto di quella storia) tutte le volte che raccontava dei tedeschi che entravano dentro casa mentre nascondeva un uomo, dice “noi eravamo contadini e nel nostro cortile c’era la villa del padrone”, quando è evidente che loro stavano nel cortile della villa del padrone, visto che erano contadini e non era la villa del padrone che stava nel cortile di casa loro. ‘Sta cosa la dice sempre quando inizia questo racconto ed è talmente parte del suo testo, come potrebbe essere “Essere o non essere” nel monologo di Amleto, che anche nel momento in cui capisci che è sbagliata come immagine, realizzi che lei non poteva non dirla, perché è ovvio che dal suo punto di vista la villa stava nel cortile della sua casa. Io ho come l’impressione che quando ti ho chiesto qual’è il rapporto tra le storie singolari e la Storia con la S maiuscola, tu individui questo rapporto nel vissuto: è tuo padre che ha vissuto quella giornata tra la storia singolare e quella con la S maiuscola che è la Liberazione di Roma… La maggior parte delle persone, se non la totalità delle persone che ho intervistato, soprattutto quando parlavamo di episodi storici rivelanti, difficilmente metteva in contraddizione gli avvenimenti. Difficilmente c’è qualcuno che ti dice che le cose non sono andate così, se non lì dove

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c’è stato un motivo molto chiaro. Capita spesso che le persone portino il loro racconto che in qualche modo è legittimato dall’episodio storico, per cui non sentono questa differenza tra la loro piccola storia e la cosiddetta “grande storia”. Mio padre raccontava del 4 Giugno ’44 perché era il giorno della Liberazione di Roma, non può raccontare del 2 Giugno del ’44 in cui non è successo niente di particolare. Parliamo della lunga raccolta di materiale e di interviste che tu fai. Come hai detto intervisti persone più e più volte. Qual è il tuo rapporto personale da attore, da regista con il documento? E quanto del documento rimane poi nei tuoi spettacoli? E soprattutto che passaggio c’è dal documento che hai studiato alla declinazione nel momento drammaturgico? Io lavoro soprattutto con la fonte orale nel momento stesso in cui realizzo l’intervista. Cioè per me il racconto che conta di più è quello che si fa in quel momento; io lo registro, in audio, in video. Però ciò che è importante è quello che sto ascoltando in quel preciso momento e questa è proprio la funzione della memoria. Poi c’è un’altra cosa che riguarda la memorizzazione dell’oggetto che si crea dall’intervista, cioè la videocassetta, il dvd, il nastro magnetico, il minidisc o minidv. Con la memorizzazione si ha un altro rapporto; il fatto che io sappia che quel nastro c’è, mi cambia completamente la prospettiva. È il rapporto che noi abbiamo con le videocassette in cui puoi lavorare con la consapevolezza dell’effetto avanti-veloce e indietro-veloce e sai che comunque potrai tornare indietro e andare avanti, cosa che, in precedenza, non avevamo con il cinema, né con la radio, né con la televisione. E questa non è l’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, questa è la cosa qualsiasi nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Oggi si fanno fotografie pure coi cellulari, ma le nostre capacità artistiche non sono migliorate, anzi, sono peggiorate, così come è peggiorato il nostro rapporto con la memoria. Con la macchina digitale fai molte più foto ma non le rivedi, però sai che stanno là, per cui c’è questa delega: non più la mia memoria, ma la sua memoria, la memoria del dischetto. Qual è il mio mestiere? Io cosa faccio rispetto alla memoria? Io memorizzo molto, ma quasi mai riascolto; riascolto solo se c’è un motivo professionale preciso, non mi è mai capitato di riascoltare una registrazione solo per mio piacere. Le riascolto solo

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quando ci devo lavorare sopra per i programmi in radio, non riascolto inutilmente una cosa, perché non credo che sia un’opera d’arte. Piuttosto rivedo un film ma non riascolto la registrazione, semmai vado a registrare un’altra volta la persona. Sostanzialmente io faccio quello che fa chiunque quando racconta la sua storia, che la racconta, la riracconta, finchè non diventa un canovaccio, un testo scritto oralmente. Non faccio niente di diverso da quello che fa mia madre, che faceva mio padre, mia nonna o che fai tu, se non che gli dedico un tempo diverso. Mio padre raccontava le sue storie ma faceva il restauratore di mobili, io racconto le stesse storie che raccontava mio padre ma lo faccio per professione e quindi gli dedico la maggior parte del mio tempo, così come mio padre dedicava la maggior parte del suo tempo al suo lavoro… Qual è la differenza? Tecnicamente nessuna, è un fatto di percezione e di contestualizzazione. Il mio lavoro di interviste a me serve per il teatro, ma in realtà prescinde dal fatto che poi ci sia uno spettacolo teatrale, tant’è vero che spesso queste vengono pubblicate o diventano trasmissioni radiofoniche, molto spesso non diventano niente. Adesso sto lavorando sul tema del lavoro precario, sto intervistando soprattutto lavoratori precari, in particolare dei call-center, ma non lo so che ne verrà fuori, sì, probabilmente ne verrà un documentario. Non esiste il teatro della memoria, ma per me non esiste neanche il teatro di narrazione. Ma come avviene il passaggio dal documento alla drammatizzazione? Alla stessa maniera in cui tu racconti una barzelletta che ti ho raccontato io. La fai tua. Perché magari io l’ho raccontata su Andreotti e tu la racconti su Berlusconi. La cambi, la modifichi, senz’altro. Io per esempio nel mio spettacolo racconto una barzelletta, ma mica me la ricordo bene come l’hanno raccontata a me, l’ho modificata. Ma così succede sempre con i racconti. Nel programma di sala de La Pecora nera c’era un riferimento ai geografi del passato, ai cartografi che andavano a cercare le informazioni e poi costruivano le mappe. Come mai questo riferimento?

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In quel riferimento c’è un’idea dei cartografi un po’ romantica, anche un po’ superficiale. Forse avrei dovuto parlare di uno che va al porto e chiede al marinaio appena sbarcato “Dove sei stato? Che cosa hai visto?”. Per me il racconto vale soprattutto in quanto racconto, per l’immagine che evoca. Ad esempio una volta una donna mi racconta che da bambina a 12 anni andava a servizio e lavorava tutti i giorni e la Domenica aveva due ore libere. E in queste due ore usciva a fare una passeggiata e camminava in linea retta e continuamente chiedeva “Che ore so’? che ore so’?”. Quando era passata un’ora girava e tornava indietro. Io registro la stessa storia sei o sette volte. Ovviamente la storia era molto più complicata. Racconta tutta una vita. Solo una volta mi racconta questo episodio così forte e preciso come descrizione dell’alienazione e io lo utilizzo per raccontare la storia di un operaio che nell’ora di pausa pranzo esce, senza orologio, perché prima in fabbrica era vietato, e chiede a tutti “Che ore so’?che ore so’?” fino a che non passa mezz’ora e torna indietro. Lui è un operaio e non una bambina, io poi invento molte altre cose ma sostanzialmente il racconto nasce da lì. Certo, quando lei lo ha ascoltato lo ha riconosciuto e mi avrebbe potuto dire “Tu l’hai ascoltato e l’hai cambiato completamente”, ma c’è rimasto qualcosa, io non so esattamente cosa. So che a me ascoltare le storie serve perché nella memoria che è rimasta di questo vissuto, che è sostanzialmente una memoria visiva, c’è qualcosa di molto concreto e quella concretezza a me serve. Questo è quello che un po’ succede nei messaggeri della tragedia greca che molto spesso non capiscono bene quello che hanno visto, però, stando là, riportano qualcosa di molto concreto che poi cambia la realtà. Il messaggero de Le Baccanti, che vede Penteo squartato dalla madre, non capisce molte cose di quello che sta succedendo, mentre noi, pubblico, sappiamo tutto, capiamo tutto, ma in realtà lui ha capito una cosa in più rispetto a noi, perché lui dice “Adesso io lo so, dobbiamo amare gli dei”. Lui non sa neanche che si tratta di Dioniso però una cosa in più rispetto a noi la capisce. Billy Pilgrim, di Il Mattatoio n. 5, dice allo storico che parla del bombardamento di Dresda, “Io c’ero”, ma poi non racconta del bombardamento di Dresda. La qualità del suo racconto sta nel fatto che poi non racconta l’evento, ma c’era, è importante il suo esserci stato, aver visto.

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Parliamo della definizione che danno del tuo teatro di narrazione della memoria. Sei d’accordo? Tutto il teatro è narrazione, il 99% del teatro è narrazione. Si raccontano storie. A volte si raccontano attraverso la dinamica dei personaggi, a volte non ci sono i personaggi e i personaggi vengono narrati, però io non credo che ci sia una grande differenza. Perché quando un attore ti dice “Questo è come un monologo”, allora la parte del personaggio smette di essere teatro tradizionale e diventa un’altra cosa? Io non vedo questa grande differenza. Cioè la differenza tra il lavoro che faccio io e quello che fa Albertazzi sta nel fatto che io per due o tre anni vado a fare le interviste. Faccio qualcosa di simile al lavoro dell’antropologo, ma con una modalità diversa. Per il lavoro per la Pecora nera a Padova ho intervistato un’infermiera. Un antropologo non avrebbe intervistato un’infermiera, ma ne avrebbe intervistate almeno 15 di un padiglione, non una a caso. È una tecnica rubata all’antropologia la mia, ma che non ha la stessa finalità di indagine. Secondo te non ci sono barriere tra il teatro della memoria, il teatro di narrazione e il teatro di rappresentazione; che barriere ci sono invece quando tu fai teatro, radio o televisione? Qual è il mezzo che prediligi e quali sono le differenze tra questi tre mezzi? La radio è molto diversa dalla televisione. Prima cosa io ho fatto il mio programma su Radio3, che è molto diversa dalle altre radio, perché normalmente chi ascolta la radio quasi sempre ascolta una stazione e non ascolta la radio in generale, mentre invece chi guarda la televisione, guarda la televisione e non guarda un canale – chi ascolta radio3 ascolta solo Radio3, per cui il fenomeno è molto diverso tra la radio e la televisione. Anche perché è diversa la fruizione: la televisione è in realtà un mezzo che fa una gran confusione con quello che è l’immagine, perché l’immagine è l’immagine che si costruisce, quello che si immagina, non è la cosa. La radio in questo è senza equivoci. L’immagine in radio è di un tipo soltanto, è l’immagine che io immagino. Infatti nessuno guarda la radio, nessuno confonde il mezzo di trasmissione con il mezzo radiofonico, sono due cose diverse, una cosa è il suono che la radio manda e una cosa è l’oggetto che lo riproduce dentro

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casa mia. Nessuno confonde l’uno con l’altro. Invece chi guarda la televisione confonde continuamente il mezzo con l’uso, al punto che alla fine la guarda soltanto e neanche segue quello che succede dentro, al contrario non si può sentire la radio senza seguirla; può succedere di essere distratti ma sostanzialmente dopo un po’ si spegne, perché ti dà fastidio. Ma sei fiducioso su un discorso serio come ha fatto ad esempio Rai Tre con il Progetto Storia di cui fa parte anche il programma La Grande Storia? Non saprei dire. Ma ti posso dire quello che è successo quando io sono andato in televisione. La differenza con la radio è che in televisione tutto diventa televisione, il teatro diventa televisione, il cinema diventa televisione, la pubblicità diventa televisione, tutto diventa televisione. È un po’ come una pietra di valore buttata nell’immondizia, non è più una pietra di valore ma diventa immondizia e torna ad essere quello che era prima solo quando la tiro fuori dalla spazzatura, se rimane li si confonde con il resto. Uno spettacolo teatrale in televisione non è più uno spettacolo teatrale, noi vediamo la televisione come i primi spettatori del cinema vedevano il cinema: arrivava il treno e loro si mettevano paura, come quando puntavano la pistola contro lo schermo. Per noi la televisione continua ad essere un equivoco enorme. Inoltre la televisione funziona per fasce orarie. I miei spettacoli sono andati in onda alle 2 di notte e alle due del pomeriggio della Domenica. Nel primo caso mi hanno visto solo quelli che volevano vedermi. Nel secondo caso mi ha visto un pubblico molto più televisivo. Quando sono andato al programma della Dandini Parla con me, la gente mi fermava per strada, dicendo “Bello il tuo spettacolo, l’ho visto dalla Dandini”. Ma lì io ho fatto solo un’intervista di cinque minuti! Il pubblico della televisione si trova davanti qualcosa che non è immediatamente interpretabile. È quello che è successo con Marco Paolini, dopo aver fatto Vajont in televisione: nei giorni successivi non si capiva se era un giornalista, uno storico, un testimone, quasi a nessuno passava per la testa che fosse un attore di teatro. Visto che abbiamo citato Marco Paolini, qual’è la differenza tra il suo rapporto con il documento e il tuo rapporto con il documento?

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La ‘storia’ senza Storia

Credo che, almeno per alcuni spettacoli ci sia una differenza grossa. Ad esempio, tra il suo Parlamento chimico. Storie di plastica su Porto Marghera e il mio Fabbrica entrambi sono incentrati sulla storia di una persona, solo che la sua persona è consapevole dell’avvenimento e attraverso quella persona è raccontato il fatto come realmente avvenuto, nel mio caso non si racconta l’avvenimento così come realmente è avvenuto. C’è un avvenimento storico centrale di un operaio ucciso dalle guardie davanti all’acciaieria di Terni attorno al quale poi ci sono una serie di storie di persone, che sono talmente tanto legate alle persone, che prescindono non solo dalla veridicità degli avvenimenti, ma anche dalla plausibilità degli avvenimenti. In Scemo di guerra parlo di mio padre che racconta del 4 Giugno del ’44, che è realmente il giorno della Liberazione di Roma però i russi arrivano a Roma insieme agli indiani e ai cinesi. La differenza grossa, secondo me, è che lui fa un tipo di indagine più legata al documento, piuttosto che ai testimoni – che poi testimoni è anche una parola sbagliata, perché fa pensare che la loro testimonianza sia vera – mentre io penso sempre all’intervista, nel senso di incrocio di sguardi. Chiudiamo. Come mai hai paragonato immediatamente la televisione all’immondizia? È un’associazione freudiana? Non lo so (ride), credo di sì. In realtà ora con il discorso della raccolta differenziata un sindaco mi diceva che prima l’immondizia era una spesa, c’era il costo dello smaltimento. Adesso che facciamo la raccolta differenziata e funziona, ora io vendo immondizia, vendo carta, vendo plastica vendo vetro. Noi oggi sappiamo che l’immondizia produce denaro. Per cui il mio amico sindaco diceva: “È strano, tutta insieme è monnezza separata è denaro… è un qualcosa che io posso vendere”. Continua il parallelo con la televisione? Probabilmente si… La televisione generalista è diventata monnezza… la televisione tematica non fa altro che separare l’immondizia e venderla. Però di fatto la televisione ora è questa… è monnezza, ma non perché fa schifo (ride a lungo) ma perché è tutta insieme.

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Bibliografia

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uesta è una bibliografia guidata e ragionata, che offre una scelta della produzione letteraria, italiana e straniera, riguardante il nesso tra la narrazione storica contemporanea e tutte le sue implicazioni, dalla filosofia della storia alla sociologia, dalla narrazione alla letteratura, dal cinema alla televisione, con particolare attenzione al rapporto tra storia, romanzi storici, film storici e programmi televisivi riguardanti la storia. Si tratta di uno strumento informativo curato scientificamente e orientato a un utilizzo a fini di ricerca da parte dello studioso, nonché rivolto a tutti coloro che, come appassionati a vari livelli, hanno la necessità di documentarsi e aggiornarsi sulle tematiche in oggetto. Una certa preferenza è stata accordata ai testi più recenti, specialmente per ciò che riguarda il cinema, la televisione e la sociologia.

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