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In recent years interest has grown for the study of ancient declamation (both Greek and Latin), and not only amongst cla

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Le >Declamazioni Minori: Discorsi immaginari tra letteratura e diritto
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Le Declamazioni minori dello Pseudo-Quintiliano

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Beiträge zur Altertumskunde

Herausgegeben von Michael Erler, Dorothee Gall, Ludwig Koenen und Clemens Zintzen

Band 361

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Le Declamazioni minori dello Pseudo-Quintiliano

Discorsi immaginari tra letteratura e diritto

A cura di Alfredo Casamento, Danielle van Mal-Maeder e Lucia Pasetti

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ISBN 978-3-11-049644-4 e-ISBN (PDF) 978-3-11-049841-7 e-ISBN (EPUB) 978-3-11-049707-6 ISSN 1616-0452 Library of Congress Cataloging-in-Publication Data A CIP catalog record for this book has been applied for at the Library of Congress. Bibliographic information published by the Deutsche Nationalbibliothek The Deutsche Nationalbibliothek lists this publication in the Deutsche Nationalbibliografie; detailed bibliographic data are available on the Internet at http://dnb.dnb.de. © 2016 Walter de Gruyter GmbH, Berlin/Boston Printing: Hubert & Co. GmbH & Co. KG, Göttingen ♾ Printed on acid-free paper Printed in Germany www.degruyter.com

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Indice generale Alfredo Casamento, Danielle van Mal-Maeder e Lucia Pasetti   Introduzione: tra diritto, retorica e letteratura | 1  Gernot Krapinger   Die Grabverletzung in den Declamationes minores | 11  Biagio Santorelli   Il denaro negato. Casi di infitiatio depositi nelle Declamazioni minori | 31  Giuseppe Dimatteo   La ‘pena d’infamia’ e l’inibizione dello ius accusandi. Le norme e le argomentazioni in tema di infamia delle Declamazioni minori 250, 263, 265 e 275  | 47  Mario Lentano   Auribus vestris non novum crimen. Il tema dell’adulterio nelle Declamationes minores  | 63  Lucia Pasetti   Extra rerum naturam: retorica contro filosofia cinica nella Declamatio minor 283 | 81  Claire Oppliger   Quelques réflexions sur la méthode (ou les méthodes ?) du Maître des Petites déclamations | 103  Chiara Valenzano   Matrigne, avvelenatrici, donne incestuose: il paradigma di Medea nelle Declamationes minores | 117  Danielle van Mal-Maeder   Tisser des lieux communs. Quelques réflexions autour de la figure du parasite dans les Petites déclamations | 137  Julien Pingoud   Le théâtre dans les Petites déclamations. La comédie de la prostituée aux yeux crevés | 157 

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VI | Indice generale Alfredo Casamento   Come un figlio: variazioni tematiche e modalità narrative. A proposito di Sen. contr. 10,2 e decl. min. 258  | 191  Elenco degli autori | 213  Bibliografia | 215  Indice analitico | 231  Indice dei luoghi | 243 

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Alfredo Casamento, Danielle van Mal-Maeder e Lucia Pasetti

Introduzione: tra diritto, retorica e letteratura ‘Imaginary speeches’ è l’eloquente titolo con cui Donald Russell pubblicava nel 1996 una selezione di declamazioni di Libanio, realizzando la prima traduzione in inglese accompagnata da un ricco corredo di note. Si trattava di un lavoro ragguardevole, frutto maturo di un apripista degli studi sul fenomeno declamatorio: di Russell era già apparso tredici anni, nel 1983, prima un saggio, snello ma particolarmente denso, che si poneva l’ambizioso progetto di offrire una lettura nuova della declamazione greca tale da poter competere con gli studi sul versante latino, allora già notevoli dopo il fondamentale saggio di Bonner del 1949, l’ edizione di Seneca il Vecchio di Michael Winterbottom del 1974 e quella delle Declamationes maiores di Lennart Håkanson, apparsa nel 1982. Volume importante, quello del 1983, perché aveva l’indubbio pregio di riposizionare (ma sarebbe più corretto dire di posizionare, data l’esiguità dei lavori fino ad allora editi) il fenomeno declamatorio, in special modo quello in lingua greca, al centro del dibattito critico. Proprio l’edizione, sia pur antologica, di Libanio nasceva dunque dall’esigenza di offrire al pubblico degli specialisti, e non solo a quello, un testo, ma anche, in ultima analisi, una tradizione di studi, che quel testo aveva determinato, di cui veniva rivendicata l’importanza nello sviluppo della cultura europea. Russell aveva naturalmente ragione, nel senso che davvero la letteratura declamatoria, greca e latina, costituisce un elemento di tutto rispetto nella tradizione culturale moderna, ma anche nel senso, meno dichiarato ma non meno significativo, che era necessario riconsiderare, e per certi versi lo è ancora, tale ricchissimo e fertile terreno di studio lungamente misconosciuto, ancorché, sostanzialmente, non compreso. In un momento in cui assistiamo ad un vera ‘rinascita’ degli studi sulla declamazione, non si può poi non rilevare come, precorrendo i tempi, l’intuizione di Russell marcasse un ulteriore segno di novità nell’impiego dell’aggettivo ‘imagi-

|| Il presente volume raccoglie e integra gli interventi alle ‘Giornate di studio sulle Declamationes minores’, Bologna 14–15 aprile 2015: l’iniziativa rientra nel progetto ‘Discorsi Immaginari. Declamazione e letteratura nella prima imperiale’ (PRIN 2012), ed è stata sostenuta dal Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica dell’Alma Mater – Università di Bologna. Si ringraziano i referee che hanno riletto cortesemente l’intero volume, dispensando preziosi consigli e i redattori dell’editore De Gruyter per il loro solerte aiuto.

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nary’. Il carattere immaginario, fantastico era infatti il tratto distintivo delle critiche, tanto antiche quanto moderne, con cui con buona dose d’incomprensione e sicuro pregiudizio le declamazioni venivano costantemente accompagnate. Ed invece, per la prima volta esso veniva adoperato in maniera descrittiva al fine di dare uno sfondo finalmente conciliante a qualcosa che è certo nella natura e nei fini della declamazione ma non per questo necessariamente negativo: quello spazio vuoto, dichiaratamente problematico proprio in quanto aperto e, appunto, ‘immaginario’. A questo proposito val forse la pena citare direttamente le parole con cui lo studioso coniava il termine ‘Sofistopoli’, fortunatissimo e onnipresente slogan nella letteratura critica successiva (Russell 1983, 22): Where indeed do such things happen? Only in a city of the imagination, from which there is less to be learned about the realities of ancient life than about its characteristic fantasies. It is certainly possible to form a picture of this imaginary world; and this is, I think, both a legitimate and a useful exercise. In so far as declamation is an educational tool, the study of its settings gives an idea of the values and prejudices that teachers assumed or encouraged. In so far as it is literature, or at least ‘sub-literature’, its characteristic scenarios and attitude have the same sort of interest as the world of the comic or the detective story – or, for the matter, the world of the epic. Let us at least to make the attempt.

Declinando poi alcuni dei luoghi ‘classici’ che popolano l’universo declamatorio appena ribattezzato Sofistopoli, mentre rivendicava uno spazio adeguato ad un filone di studi tanto meritevole di considerazione, quanto quello destinato ad altri, certo più nobili, generi letterari, Russell apriva la strada alla innovativa osservazione del fenomeno declamatorio sotto la lente di una categoria interpretativa liberata da uno sguardo pregiudizievole, imprimendo un approccio che avrebbe fatto scuola. Emblematico di questa tendenza è l’approfondirsi della percezione di quella declamatoria come di una letteratura ficzionale, concetto sul quale lavorano molti di coloro che oggi studiano le declamazioni greche e latine compresi gli autori che partecipano a questo volume, oltre che i suoi curatori. Funzione pragmatica delle declamazioni e loro caratteristiche ficzionali sono in un rapporto di comunicazione diretta: le seconde, per quanto a prima vista possa sembrare paradossale, orientano e rafforzano la prima. In ideale omaggio a quella felice intuizione si è deciso di intitolare ‘Discorsi immaginari’ anche il presente volume, nato da un incontro promosso dall’Università degli Studi di Bologna nell’aprile del 2015 e avente per oggetto d’indagine le Declamationes minores attribuite allo Pseudo-Quintiliano. Il convegno, concepito come occasione di incontro tra due équipes di ricerca (una italiana e una svizzera) ugualmente interessate alle Minores  ma aperto al dialogo con esperti internazionali di declamazione  ha confermato il vivo interesse per questi corpora di testi, oggetto, negli ultimi anni, di numerosi saggi.

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E tuttavia, non possiamo non esprimere un omaggio altrettanto appassionato a colui che senza alcun dubbio ha consentito tale risveglio d’interesse per le declamazioni in lingua latina. Come si diceva poc’anzi, nel saggio del 1983 Donald Russell dichiarava di aver tratto ispirazione a dedicarsi agli studi sulla declamazione greca dall’edizione Loeb di Seneca il Vecchio del 1974 di Michael Winterbottom. Proprio dallo studioso nel 1984 giungeva una fondamentale edizione delle Declamationes minores dello Pseudo-Quintiliano, uscita a cento anni esatti di distanza da quella teubneriana di Ritter, la prima ad esplorare sistematicamente e con continuità i rapporti tra il codice A (Montepessulanus H 126) ed il codice B (Munich Clm 309), due tra i testimoni più autorevoli a trasmettere l’opera. Innumerevoli i meriti di questo lavoro, in cui Winterbottom metteva a fuoco tutte le principali problematiche inerenti un testo tanto affascinante quanto nebuloso (autore, datazione, destinazione, contesto redazionale per limitarci alle più significative) con una competenza critica supportata da una profonda conoscenza dei testi retorici e non solo di quelli. Tra i pregi di quest’opera s’impone certamente un commento nel quale all’osservazione di carattere testuale si affiancano, oltre a un’ampia serie di luoghi paralleli e richiami, interpretazioni originali di punti (e sono innumerevoli come sa chiunque abbia modo di confrontarsi con una a caso delle declamationes) di difficile e controversa interpretazione. Ci limiteremo tuttavia a segnalare due passaggi, posti all’inizio e alla fine della prefazione, che mostrano bene il valore dell’opera. La prima osservazione ha la forza di una petizione di principio (Winterbottom 1984, p. vii): Declamatory texts, essential to the understanding of Latin and Greek literature after the first century B.C., have nevertheless been neglected by scholars.

Tutti gli studiosi, è noto, si appassionano all’oggetto dei loro studi, rivendicandone una prioritaria centralità. Non è questo il caso che dà origine all’affermazione di Winterbottom, perché, dando alle stampe un’opera ai margini, se non del tutto al di fuori, dei testi per così dire curricolari, egli rivendicava qualcosa che oggi appare come un dato pressoché universalmente condiviso  ma così lungamente non è stato  e cioè il ruolo significativo che la cultura diffusa e praticata nelle scuole di declamazione ha avuto nell’orientare la produzione letteraria a partire fin dalla prima età imperiale. Conoscere dunque tale complessa e sfaccettata realtà culturale, e i suoi ‘prodotti’, significa approssimarsi con maggior precisione al ricco e variegato articolarsi della letteratura latina coeva. Una seconda osservazione di Winterbottom (1984, p. viii) appare poi di particolare lucidità:

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In another preface to the Minor Declamations, Aerodius long ago quoted words of his friend Auratus: ‘Quintiliani tibi Declamationes habeo, quae si omnino emendari, non nisi certe a Iurisperito possint’. I have no claim to be skilled in law. But I very much hope that this book will encourage Roman lawyers to correct my errors and exploit a neglected corner of their territory.

Citando le parole di Petrus Aerodius, alla cui edizione parigina del 1563 va l’indubbio merito di aver significativamente migliorato con brillanti congetture l’editio princeps di Taddeo Ugoleto del 1494, Winterbottom ribadiva l’intreccio di competenze che lo studio di questi testi deve necessariamente prevedere, auspicando altresì che essi potessero finalmente costituire ragione d’interesse per gli esperti del diritto. L’orizzonte, così disegnato da Michael Winterbottom, che mette insieme cultura declamatoria, dimensione letteraria, diritto è quello che informa questo volume. Proprio al rapporto con il diritto è dedicata una parte consistente dei contributi qui presentati. È opinione diffusa che la declamazione latina, rispetto a quella greca, sia generalmente caratterizzata da una relazione più stringente (o per lo meno più facilmente documentabile) con la riflessione giuridica; tra le diverse raccolte latine, poi, le Declamationes minores si distinguono per la presenza di numerosi casi ‘vicini alla realtà’, rispettosi, dunque, di quella verosimiglianza che Quintiliano stesso (2,10) considerava un requisito importante per garantire l’utilitas della declamazione come esercizio scolastico. In effetti, la raccolta consente di documentare controversie in cui le sovrapposizioni tra il diritto fittizio, che governa il bizzarro mondo dei declamatori, e il diritto storico, sono singolarmente evidenti: questioni che oggi definiremmo di diritto privato – eredità, depositi, trattamento degli schiavi – si affiancano qui ai tipici casi che la tradizione antica indicava come improbabili o assurdi, incentrati sul riscatto da pagare ai pirati o sui premi da assegnare a tirannicidi ed eroi di guerra. In realtà, per chi si propone di indagare la relazione tra declamazione e diritto, la verosimiglianza, di per sé, non costituisce un valore aggiunto: è ormai superata la prospettiva che ha dominato questi studi per quasi tutto il secolo scorso, e che, vedendo nel diritto declamatorio una proiezione del diritto storico, induceva a scandagliare le leggi declamatorie alla ricerca di elementi utili per documentare o ‘ricostruire’ lo ius, svalutando, evidentemente, i dati inverosimili. Il tramonto di questo orizzonte teorico ha lasciato spazio a un nuovo e diverso approccio alla documentazione: mentre in passato le leggi declamatorie erano un

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oggetto privilegiato di indagine, ora vengono considerate con più attenzione le diverse modalità con cui i concetti giuridici sono incorporati nelle declamazioni; dunque, non solo i riferimenti alle leges, contenuti principalmente nel tema, ma anche la struttura stessa del caso e il suo sviluppo nel discorso consentono facilmente di individuare analogie tra declamazione e diritto. Che l’esposizione del caso negli argumenta declamatori si regga sugli stessi schemi logici, formalizzati dalla dottrina degli status, su cui sono basati i casi giuridici esposti nei Digesta, è stato per la prima volta notato da Johannes Stroux in un saggio 1929, mentre in tempi più recenti, Dario Mantovani (2007, 137), mettendo a confronto un caso che si presenta identico nella declamazione e nelle fonti giuridiche, ha notato che giuristi e declamatori ricorrono, nel discuterlo, alle stesse argomentazioni. Il mutamento di metodo è la conseguenza più evidente di una nuova prospettiva teorica, non più di tipo rigidamente storicistico, ma ampiamente influenzata dall’antropologia: declamazione e diritto sono oggi riconosciuti come il prodotto di un’unica cultura e di un’unica mentalità: quella di un’élite culturale, per la formazione della quale entrambe le discipline svolgevano un ruolo chiave e che, a sua volta, contribuiva a plasmare e a sviluppare quelle stesse discipline adattandole alle esigenze del suo mondo. Secondo questa logica, temi di controversia inverosimili, temi verosimili e casi giudiziari emergono da un terreno comune in cui i casi limite, più o meno elaborati dalla fantasia, costituiscono un banco di prova per il diritto e per l’etica. Nel diritto romano, che nasce come ‘diritto consuetudinario vivente’ (secondo la definizione di Aldo Schiavone), la formalizzazione delle norme passa attraverso il riconoscimento delle consuetudini: così i mores sono continuamente oggetto di riflessione da parte dei depositari della iuris scientia, che alimentano una dialettica incessante, assumendo posizioni divergenti e toni, non di rado, polemici. Il vivace dibattito giurisprudenziale avviene spesso sulla base di categorie etiche: particolarmente frequente è l’appello all’aequitas, l’equità garantita dal diritto naturale, con cui leges e mores devono confrontarsi. E non si tratta di un conflitto astratto, ma di un corpo a corpo che si compie sul terreno di casi concreti: quelle situazioni particolari – Schiavone (2003, 3–15) parla di un sapere ‘puntiforme’, proprio della giurisprudenza romana – che mettono alla prova le norme, saggiandone i limiti e costringendo a interrogarsi sulle conseguenze della loro applicazione. Nella declamazione, e in particolare nella controversia, si riconoscerà facilmente questo stesso modo di procedere, fluido e problematico, per cui le norme si lasciano incessantemente interrogare dai casi specifici, ora complicati e infarciti di variabili accidentali fino a forzare i limiti della verosimiglianza, ora quasi totalmente sovrapposti alla casistica giudiziaria. Gli uni e gli altri – al di là della

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diversa funzionalità sul piano didattico, su cui si concentrano i retori antichi – sono comunque il riflesso di una mentalità in cui il caso giudiziario costituisce uno spazio di discussione, condiviso dal diritto e dall’etica. Le Declamationes minores, dunque, proprio per la ricchezza e per la varietà della casistica che propongono, rispetto alle altre raccolte latine offrono una documentazione particolarmente preziosa per chi, interrogandosi sul rapporto tra declamazione e diritto, cerchi di comprendere come la retorica di scuola si cimenti con i concetti che sono anche alla base del dinamico dibattito giurisprudenziale. Di un problema che nella retorica di scuola di ambito latino gioca un ruolo limitato, ma che è, viceversa ben documentato nella letteratura giuridica, si occupa il contributo di GERNOT KRAPINGER, che discute alcuni casi (le declamazioni 299, 369, 373) relativi al diritto di sepoltura. Si tratta di controversie in cui la tranquillità della tomba viene disturbata in circostanze molto diverse. Nello sviluppo retorico dei discorsi è possibile rintracciare alcuni problemi giuridici rilevanti che trovano riscontro nel diritto di sepoltura romano e che non vengono altrimenti documentati nella retorica di scuola: in primo luogo il divieto di sepoltura nei casi di parricidium, la punibilità, o la responsabilità giuridica del suicida, il diritto di autodifesa e lo stato di emergenza. Un altro tema poco rappresentato nella letteratura declamatoria oggi superstite, ma probabilmente assai frequente nei dibattiti del foro è considerato nel contributo di BIAGIO SANTORELLI, che esamina il circoscritto gruppo delle Declamazioni minori (245, 269, 312, 353, 361) incentrate sul motivo della infitiatio depositi, ovvero i casi di mancata restituzione di una somma di denaro depositata dal proprietario presso una persona di propria fiducia. Il confronto tra i testi pseudoquintilianei e il diritto positivo in materia mostra come i declamatori valorizzassero elementi della reale pratica giudiziaria, non di rado aprendoli a considerazioni di carattere etico e sociale. Il concetto di infamia, uno stigma sociale che trova riscontro nel diritto, è poi al centro del saggio di GIUSEPPE DIMATTEO: dopo aver analizzato accuratamente il significato giuridico dell’infamia e il suo sviluppo storico nell’ambito del diritto romano, il contributo prende in esame le discussioni sul tema svolte nelle Declamazioni minori 250, 263, 265 e 275, rivolgendo attenzione sia agli enunciati normativi (le diverse formulazioni delle leges), sia alle argomentazioni sviluppate. Dal quadro emerge una significativa tensione tra la regula iuris e il diritto declamatorio in tema di infamia. Il retore si mostra particolarmente attento alle relazioni fra leges e mores, sforzandosi di interpretare le tensioni tra leggi scritte e leggi non scritte. Nelle controversie, che sembrano recepire e formalizzare le leggi

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non scritte condivise dalla collettività, prevale un’ottica di problematizzazione, che evita di imporre o proporre soluzioni alternative alle leggi della città. Un tema largamente presente nelle sillogi declamatorie latine – e in una percentuale omogenea, anche nella collezione delle Minores – è invece quello dell’adulterio, oggetto del saggio di MARIO LENTANO. L’attenzione viene qui rivolta, in particolare, al rapporto fra la giurisprudenza scolastica e la normativa augustea, che i retori sembrano ignorare, ispirandosi al regime previgente e postulando una situazione in cui al marito è lecito uccidere entrambi gli amanti, purché colti in flagrante. Una analisi attenta dimostra che in realtà la declamazione riflette da più punti di vista il dibattito dottrinario successivo al varo della legge augustea e recepisce più in generale il sentire comune della cultura di età imperiale in merito alla punibilità degli adùlteri. Oltre ad offrire abbondante materia di riflessione sui rapporti tra declamazione e diritto, le Declamazioni minori permettono di illustrare, meglio delle altre raccolte latine, un aspetto peculiare della complessa relazione che la retorica di scuola intrattiene con la filosofia. Come è noto, il rapporto tra le due discipline – imparentate tramite l’antico esercizio della thesis e poi spesso schierate su fronti opposti in un problematico dibattito storico sulla formazione – si svolge per lo più nel passaggio dal caso particolare e concreto, al problema astratto di carattere generale, che consente ai declamatori di mettere in campo, all’occasione, concetti filosofici. Le Declamazioni minori, tuttavia, non solo mostrano come la retorica di scuola mantenga un contatto con la riflessione filosofica contemporanea, ma contemplano casi in cui la filosofia fa il suo ingresso nell’agone declamatorio anche in modo, per così dire, più concreto, attraverso il personaggio del filosofo. Già incluso tra gli stock-characters della commedia greca, ma anche assai presente nella letteratura filosofica e parafilosofica della prima età imperiale, questo personaggio e il suo stile di vita si trovano ad essere parte in causa in diversi temi declamatori, sia greci che latini. Rispetto alle altre sillogi latine, che non concedono spazio alla figura del filosofo, le Declamazioni minori consentono qualche utile spunto di riflessione su come venisse percepita, nell’ambiente della scuola romana, la scelta di fare della filosofia una scelta di vita. Il tema è al centro del contributo di LUCIA PASETTI, che prende in esame la Declamazione minore 263, in cui un giovane seguace della filosofia cinica viene messo sotto accusa dal padre. L’analisi della controversia è preceduta da una breve panoramica dei temi sia greci che latini costruiti attorno al personaggio del filosofo. Il confronto tra le due diverse tradizioni fa in effetti emergere interessanti differenze sulla percezione di questa figura. In particolare, per quanto riguarda il filosofo cinico, le discussioni sul suo stile di vita sembrano trovare riscontro solo nella declamazione latina, a

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partire da Quintiliano. I difficili rapporti tra la setta cinica e la dinastia flavia potrebbero aver influenzato l’atteggiamento della scuola nei confronti di questa filosofia, che proprio nella Minor 263 è presentata come la peggiore tra le dottrine praticabili, del tutto incompatibile con i mores antiqui. In quanto raccolta di controversie, la silloge delle Minores presenta non pochi motivi di interesse anche per chi indaga il rapporto tra declamazione e tradizione letteraria. Il caso giuridico, una ‘forma semplice’ – per usare la definizione di André Jolles – facilmente rintracciabile nelle culture letterarie più distanti, da sempre si presta a strutturarsi in forme più complesse e letterariamente elaborate. La letteratura antica non fa eccezione e, in particolare, nella tradizione di età imperiale, profondamente influenzata dalla retorica di scuola, i temi di controversia, vere e proprie ‘cellule staminali’ della letteratura, non di rado danno luogo a sviluppi interessanti anche in generi diversi: in ambito latino, basterà pensare ad alcuni episodi dell’epos ovidiano o del romanzo di Apuleio, che sembrano costituire l’espansione, poetica o narrativa, di casi più o meno complessi, trattati anche nelle scuole di retorica. Ma lo stesso vale per il romanzo greco: in particolare per Caritone e Achille Tazio. Su un livello differente si collocano, evidentemente, i discorsi di scuola, che, pur senza proporsi come veri e propri testi letterari, mantengono però un rapporto vitale con la tradizione, additata come imprescindibile punto di riferimento dai maestri di retorica (pensiamo al canone degli auctores raccomandati da Quintiliano nel libro X della Institutio). Dunque non sorprenderà che le declamazioni celino riferimenti a grandi oratori, come Cicerone, o a poeti, se è vero che la poesia è ancella della persuasione. Questa dimensione letteraria può essere agevolmente percepita nelle Declamazioni Maggiori, che talora accumulano allusioni a un autore preciso (così avviene nella declamazione del povero apicultore, che dialoga con il quarto libro delle Georgiche di Virgilio), talora esibiscono riferimenti più generali a un genere, come la poesia elegiaca (Declamazioni Maggiori 14 e 15). Ma anche la raccolta delle Declamazioni minori, a dispetto del suo aspetto frammentario e un poco austero, presenta una dimensione letteraria tra le più interessanti. Mentre è difficile rintracciare una struttura complessiva in questo repertorio incompleto, è possibile seguire, come un fil rouge, la metodologia del ‘Maestro’, i cui commenti punteggiano la serie dei soggetti. Questo metodo, che associa il discorso metaretorico (le spiegazioni del Maestro) all’esemplificazione concreta, sembra trovare riscontro, nella tradizione retorica, solo nel tardo manuale greco di Sopatro, Quaestionum divisiones. Il dato rende il sermo del Maestro un esempio peculiare, e ancora poco studiato, di prosa didascalica, interessante anche per le sue caratteristiche formali. L’articolo di CLAIRE OPPLIGER prende appunto in esame la

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presenza del Maestro, che alterna istruzioni, suggerimenti e dimostrazioni, ora rivolgendosi ai suoi allievi, ora presentando loro una lista di argomentazioni da utilizzare per svolgere l’uno o l’altro soggetto, ora illustrando un brogliaccio di controversia o un modello di declamazione ‘in miniatura’ che esemplifichino le sue lezioni. I soggetti di controversia proposti dal ‘Maestro’ sono simili a quelli che si incontrano nelle altre raccolte di declamazioni latine. Tanto più chiarificatore risulta dunque un confronto con quelle: la trattazione svolta dall’autore delle Declamazioni minori ci offre variazioni inedite e rivela una insospettabile dimensione intertestuale; riferimenti alla tragedia, alla commedia, all’epos, a Seneca e a Cicerone, si insinuano nella trama della controversia, favoriti dalle tematiche proposte. Un’attenzione particolare viene attribuita, nel nostro volume, alla costruzione dei personaggi tipici che ricorrono nei temi di controversia spesso ereditati dal teatro, ma disseminati anche in generi letterari diversi. Giocando con gli stereotipi, talora di segno opposto, che confluiscono nella costruzione dei tipi, la declamazione giunge, in qualche caso a rinnovarli, e aggiunge così un importante tassello allo sviluppo di queste figure di lunga durata. Concentrandosi sul personaggio della matrigna nelle Declamazioni minori e nella declamazione latina in generale, CHIARA VALENZANO si sofferma sullo stereotipo che dipinge la matrigna come avvelenatrice e acerrima nemica dei suoi figliastri, documentandone la pervasività sia nel teatro che nella declamazione: in questo ambito è facile rintracciare novercae riconducibili al paradigma di Medea, maga e matrigna, talvolta combinato con quello di Fedra, innamorata del figliastro. A dispetto di un’apparente semplicità e ripetitività di schemi e motivi, la declamazione fa largo uso di figure tragiche contaminate tra loro per far colpo sull’ascoltatore ed evitare il rischio di un banale svolgimento del thema. DANIELLE VAN MAL-MAEDER prende in esame, a sua volta, un altro personaggio appartenente all’universo teatrale: il parassita, che ossessiona anche il mondo della satira. Figura-tipo, insieme semplice e complessa, buffa e inquietante, il parassita si trascina dietro, assieme alla sua carcassa affamata, il luogo comune della decadenza etica, proprio dello spazio urbano. Quando un contadino va in collera con suo figlio, divenuto parassita, come nella Declamazione minore 298, i riferimenti alla commedia e alla satira si arricchiscono di sapidi richiami alla Pro Roscio Amerino e ai discorsi morali di Seneca, in una dimostrazione magistrale di abile uso dei luoghi comuni e dell’intertestualità. L’articolo di JULIEN PINGOUD mette ugualmente in luce la presenza di Cicerone nella Declamazione minore 297, in cui va in scena un altro personaggio della commedia: la meretrix. Nel caso specifico, una disgraziata meretrix si è fatta cavare

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10 | Alfredo Casamento, Danielle van Mal-Maeder e Lucia Pasetti

gli occhi dal suo amante, un vir fortis, che rifiuta anche di fare da guida alla donna accecata, come la legge gli imporrebbe. Per rendere simpatetico il personaggio femminile, a dispetto dei clichés negativi associati alla prostituta nella declamazione latina, e per allontanare, invece, le simpatie del pubblico dall’eroe di guerra, il Maestro elabora la caratterizzazione dei personaggi sulla base di due tipici comici: la bona meretrix – fedele, altruista, anche seduttiva quando serve – e il miles gloriosus – arrogante e truffaldino. Così l’eco iniziale della Pro Caelio assume valore programmatico: come nel discorso di Cicerone, che, notoriamente, identifica Clodia con la figura della meretrix e Celio con l’adulescens da commedia, analogamente, nella declamazione, il pubblico è chiamato ad assistere a una specie di spettacolo teatrale. Sulla figura del vir fortis, onnipresente nella declamazione latina, si sofferma invece ALFREDO CASAMENTO, che esamina una variante relativamente poco rappresentata nel numeroso gruppo di casi incentrati sull’eroe di guerra: quella che, nella controversia 10,2 della raccolta di Seneca il Vecchio e nella Declamatio minor 258 dello Pseudo-Quintiliano (due temi in larga parte sovrapponibili), vede contrapposti un padre ed un figlio, i quali, su un campo di battaglia, si contendono il premio spettante all’eroe. Raramente i conflitti legati alla figura del vir fortis si fanno così dirompenti come quando, alla consueta contrapposizione tra valore ed etica, tipica dei contesti bellici, si aggiungono le ragioni della conflittualità familiare. Diritto, retorica, letteratura sono dunque i principali percorsi di lettura da noi proposti per attraversare le Declamazioni minori, ma certemente questa raccolta, profondamente radicata nella cultura e nella scuola romana, e nello stesso tempo in dialogo con la tradizione greca, presenta anche altri e molteplici motivi di interesse, che trascendono gli ambiti qui considerati. La nostra speranza è di essere riusciti, con questo volume, a suggerirne l’esistenza; e inoltre, di aver fatto qualche passo avanti nel vasto spazio dell’immaginario antico, che, a ogni nuovo sguardo, non manca mai di sollevare domande, di risvegliare inattese curiosità.

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Gernot Krapinger

Die Grabverletzung in den Declamationes minores Das Grab war den Römern wichtiger als es uns heute in der Regel ist. Bei aller genrebedingten satirischen Verzerrung führt uns dies das Gespräch Trimalchios mit dem Steinmetzen Habinnas vor Augen, das uns Petron überliefert.1 Trimalchio macht hier genaue Angaben über die künstlerische Ausgestaltung der Grabstätte, in der er selbst und seine Ehefrau ihre letzte Ruhe finden sollen. Zu Füßen der Statuen des Ehepaares sollen die Lieblingshündchen Platz finden. Die Frau soll eine Taube in Händen halten; neben der künstlerischen bildlichen Dokumentation aller Kämpfe seines Lieblingsgladiators Petraites dürfen auch Kränze und Parfum nicht fehlen. Von den dargestellten Weinamphoren soll eine zerbrochen sein und über ihr soll ein Sklavenjunge gemeißelt sein, der über seine Unachtsamkeit weint. In der Mitte soll sich eine Uhr befinden, damit ein jeder, der nach der Zeit schaut, den Namen des Verstorbenen liest. Auch sollen Schiffe die Quelle seines Reichtums zeigen. Trimalchio selbst soll auf einem Tribunal bei einer Geldverteilung gezeigt werden, mit der toga praetexta, die eigentlich nur den Beamten aus dem Kreis der Patrizier zustand, bekleidet. Griechen und Römer waren gemeinhin überzeugt, dass der irdische Tod nicht das Ende des Seins, sondern der Beginn eines neuen Lebens sei und die Seele nach dem Ende der körperlichen Existenz des Menschen nahe beim Menschen im Grab weiterlebe.2 Nach der Bestattung wurde der Totenkult wie bei vielen Völkern auch bei den Römern fortgesetzt und gewöhnlich an bestimmten Tagen nach der Leichenfeier und im Verlauf des Jahres verrichtet. Nach einer weit verbreiteten antiken Vorstellung fand die Seele erst durch die Bestattung dauerhaft ihre Ruhe. Mit der bloßen Beerdigung des Körpers war dieses Ziel noch nicht erreicht. Allerlei rituelle Handlungen mussten ausgeführt, bestimmte Formeln gesprochen werden, damit die Seele des Verstorbenen nicht umherirrte und womöglich den Lebenden erschien. Aus unzähligen Quellen geht hervor, wie sehr die Menschen von der Furcht gequält wurden, dass nach dem Tod diese Riten nicht mehr vollzogen werden könnten.3 Der Tote brauchte ferner Nahrung, weshalb man an bestimmten Tagen des Jahres eine Mahlzeit zu jedem Grab brachte. Literarische,

|| 1 Petron. 71,4–12. 2 Vgl. Cic. Tusc. 1,36 sub terra censebant reliquam vitam agi mortuorum. 3 Vgl. Hom. Il. 22,338–344; Soph. Ant. 198; Verg. Aen. 4,620; Serv. ad Aen. 12,603; Vell. 2,119,5; Petron. 111,6.

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12 | Gernot Krapinger

epigraphische, ikonographische und archäologische Quellen bezeugen einen umfangreichen Bestand verschiedenster Vorstellungen und Riten.4 Sueton berichtet, dass es in dem Raum, in dem Caligula ermordet worden war, spukte. Der Kaiser wurde nach seiner Ermordung in den horti Lamiani nicht richtig bestattet, daher hatten die Gärtner keine Ruhe mehr in der Nacht, im Garten und im Hause trieben Geister ihr Unwesen. Als Caligulas Schwestern aus dem Exil heimkehrten und ihn ordnungsgemäß bestatteten, hörte der Spuk auf: Vixit annis viginti novem, imperavit triennio et decem mensibus diebusque octo. Cadaver eius clam in hortos Lamianos asportatum et tumultuario rogo semiambustum levi caespite obrutum est, postea per sorores ab exilio reversas erutum et crematum sepultumque. Satis constat, prius quam id fieret, hortorum custodes umbris inquietatos; in ea quoque domo, in qua occubuerit, nullam noctem sine aliquo terrore transactam, donec ipsa domus incendio consumpta sit. Suet. Cal. 59 Gelebt hat er neunundzwanzig und regiert drei Jahre, zehn Monate und acht Tage. Seinen Leichnam schaffte man heimlich in die Gärten der Familie Lamia, wo er auf einem eilig zusammengerafften Scheiterhaufen nur halb verbrannt und dann unter dem Rasen leicht eingescharrt wurde, bis ihn seine Schwestern, nach ihrer Rückkehr aus dem Exile, wieder ausgraben, ordentlich verbrennen und bestatten ließen. Es ist hinlänglich bekannt, dass, bevor dies geschah, die Gartenwächter durch Gespenstererscheinungen beunruhigt wurden und dass auch in dem Hause, wo er ums Leben kam, keine Nacht ohne irgendeinen Schreckensspuk verging, bis das Haus selbst bei einer Feuersbrunst in Flammen aufging.5

Für die eigentlich verbotene6 Exhumierung und Umbettung des Toten musste die Erlaubnis des Pontifikalkollegiums7 eingeholt werden. Das römische Grabrecht, das die Ruhe und die Unversehrtheit der letzten Ruhestätte schützt, besteht ‘sowohl aus dem pontifikalen als auch aus dem zivilen Recht’.8 Erst im Bereich des Profanrechts gegen Grabverletzungen wurde ein Rechtsschutz durch das prätorische Edikt in Gestalt der actio violati sepulchri geschaffen. Doch wird man annehmen können, dass es ähnliche Bestimmungen schon

|| 4 S. dazu Cumont 1922, 56–69; Cancik-Lindemaier 1998 und neuerdings eingehend HarichSchwarzbauer/Knosala/Jaeggi/Ortalli 2011. 5 Stahr/Krenkel 1965, 234; der lateinische Text ist neu herausgegeben und kommentiert von Stramaglia 1999, 176–179. 6 Vgl. dig. 11,7,39. 7 Zur Zuständigkeit dieser Priesterschaft vgl. Plin. epist. 10,68 s.; CIL VI, 1884 = ILS 1771; s. dazu Hartmann 2010, 399 A. 2102. 8 Cic. leg. 2,18,46.

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Die Grabverletzung in den Declamationes minores | 13

in der römischen Frühzeit gab; so nennt denn auch Plautus den Grabschänder in einem Atemzug mit den schlimmsten Verbrechern: BAL. Quippini? CAL. Bustirape. BAL. Certo. PS. Furcifer. BAL. Factum optume. CAL. Sociofraude. BAL. Sunt mea istaec. PS. Parricida. BAL. Perge tu. CAL. Sacrilege. BAL. Fateor. PS. Periure. BAL. Vetera vaticinamini. CAL. Legirupa. BAL. Valide. PS. Permities adulescentum. BAL. Acerrume. CAL. Fur. BAL. Babae. PS. Fugitive. BAL. Bombax. CAL. Fraus populi. Plaut. Pseud. 361–364 BAL. Warum nicht? CAL. Du Gräberdieb! BAL. Gewiss. PS. Du Galgenstrick! BAL. Famos. CAL. Hochverräter! BAL. Ja, das bin ich. PS. Vatermörder. BAL. Fahr nur fort. CAL. Tempelschänder. BAL. Ich bekenne es. PS. Meineidschwörer. BAL. Altes Lied. CAL. Gesetzesbrecher! BAL. Treffend. PS. Pest der Jugend! BAL. Haargenau. CAL. Dieb! BAL. Potz Blitz. PS. Reißaus! BAL. Potz Wetter. CAL. Bauernfänger!9

Unter einer Grabverletzung oder -schändung werden in den juristischen Quellen Handlungen verstanden, durch welche die Totenruhe und damit die Sakralität der unter priesterlicher Obhut stehenden Grabstätte beeinträchtigt wird. Unter sepulchrum verstehen die Juristen omnis sepulturae locus bzw. den Ort, ubi corpus ossave hominis condita sunt. Es war untersagt, Leichen oder Leichenreste auszugraben, zu entblößen oder ‘der Sonnenbestrahlung auszusetzen’,10 kurzum, diese zu misshandeln oder zu berauben. Darüber hinaus verstand man unter sepulchri violatio auch jeglichen wertmindernden Eingriff in Grabanlagen wie z. B. die Entfernung von Säulen, Statuen, Steinen oder sonstigen Bestandteilen, die gänzliche Zerstörung, das Aufbrechen und Öffnen und das Ablagern von Erde, das Unleserlichmachen von Inschriften und die Errichtung von Vorbauten und Regentraufen über dem Grab. Natürlich war auch der zweckwidrige Gebrauch des Grabes unter Strafe gestellt, z. B. die Verwendung eines Grabes zu Wohnzwecken oder die Errichtung einer Wohnung über dem Grab sowie der Verkauf desselben. Schließlich werden auch bestimmte Fälle der unberechtigten Einbringung als sepulchri violatio angesehen. Über die Art der Ahndung von Grabschändungen in der Frühzeit sind wir aus den Quellen nur mangelhaft unterrichtet. Ob es eine ursprüngliche Strafgewalt der pontifices gegeben hat, ist so ungewiss wie die Frage, ob die XII-Tafeln eine Strafbestimmung gegen Grabschändung kannten. Das wichtigste und typische Rechtsschutzmittel gegen Grabschändungen jeder Art, die prätorische actio de

|| 9 Rau 2008, 159. 10 Paul. sent. 1,21,4.

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14 | Gernot Krapinger

sepulchro violato, kennt schon die späte Republik und ist beim Frühklassiker Labeo (54 v. Chr. –10/11 n. Chr.) bezeugt. Zur Erhebung dieser Klage waren einerseits die Inhaber des ius sepulchri und möglicherweise die nächsten Verwandten legitimiert, andererseits aber konnte sie als Popularklage von jedermann eingebracht werden. Im ersten Falle verhängten die Richter eine nach den konkreten Gegebenheiten zu bemessende Strafsumme, im zweiten wurde dem Kläger ein fixer Betrag zugesprochen. Eine weitere Voraussetzung zur Verurteilung nach dieser reinen Strafklage war die böse Absicht (dolus) des Schänders; wurde dieser schuldig gesprochen, hatte er neben der Strafe als weitere Rechtsfolge Infamie auf sich zu nehmen.11 In der lateinischen Schulrhetorik spielt das Grabrecht nur in wenigen Deklamationen eine größere Rolle; den argumenta der drei Minores, in denen mit der actio sepulchri violati geklagt wird, wollen wir uns nun zuwenden: Das erste Beispiel, Declamatio minor 299, Ossa eruta parricidae, behandelt einen Giftmord: Parricidae insepulti abiciantur. Sepulcri violati sit actio. Decedens pater mandavit filiae ultionem, dicens se duorum filiorum veneno perire. Puella reos postulavit. Inter moras unus se occidit et sepultus est in monumentis maiorum. Alterum cum damnasset et insepultum proiecisset, eius quoque qui sepultus fuerat ossa eruit et abiecit. Accusatur violati sepulcri. Ps. Quint. decl. min. 299, th.12 Mörder sollen unbestattet weggeworfen werden. Es werde die Klage wegen Grabfrevels gestattet. Ein Vater verlangte auf seinem Sterbebett von seiner Tochter, ihn zu rächen, er sagte, er sei durch Gift seiner beiden Söhne gestorben. Das Mädchen klagte gegen sie. Nach einiger Zeit brachte sich der eine um und wurde im Familiengrab bestattet. Nachdem man den anderen verurteilt und unbestattet weggeworfen hatte, grub sie auch die Gebeine dessen, der begraben worden war, aus und warf sie fort. Sie ist wegen Grabfrevels angeklagt.13

Der auf das Thema folgende Sermo spricht einige Rechtsfragen an, die quaestiones sind aber nicht als Plädoyer ausgearbeitet. Ein solches Plädoyer könnte sich im Grunde auf die Frage beziehen, ob das Gesetz, das die Grabesruhe schützt, ohne Einschränkung gilt oder ob es Ausnahmen zulässt, etwa dass man die Gebeine zu entfernen berechtigt ist, wenn man ihre Bestattung hätte verhindern können, oder wenn der Bestattete zu Unrecht beigesetzt wurde. || 11 Vgl. Behrends 1978 und Hensen 2011; für mich grundlegend ist die konzise Darstellung des römischen Grabrechts von Klingenberg 1983, 617–622, mit umfassenden (hier nicht wiedergegebenen) Belegen; als Standardwerk immer noch unumgänglich ist de Visscher 1963. 12 Textgrundlage ist Winterbottom 1984. 13 Wo nicht ein Übersetzer oder eine Übersetzerin genannt werden, stammt die Übersetzung von mir.

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Die Grabverletzung in den Declamationes minores | 15

Schon Joachim Dingel14 hat bemerkt, dass sich hier einige ausgesuchte Rechtsprobleme finden, die sonst in dem Corpus nicht mehr erscheinen; so drängen sich etwa folgende Fragen auf: Bezieht sich das Gesetz Parricidae insepulti abiciantur nur auf verurteilte Vatermörder oder auf Vatermörder überhaupt? – oder: War der Suicident überhaupt ein Vatermörder? Zum Bestattungsverbot bei parricidium nur kurz: Theodor Mommsen und Fabio Lanfranchi gehen davon aus, dass das Bestattungsverbot eine generelle Regelung für Kriminelle war.15 Stanley F. Bonner hingegen stuft diese Strafe als alten vorsullanischen Rechtsbrauch ein, der sich stark am griechischen Recht orientiert.16 In der Frühzeit wurde die vorsätzliche Tötung, noch der alten Blutrache folgend, mit dem Tode bestraft. Es scheint aber nicht gesichert zu sein, dass erst die lex Cornelia de sicariis et veneficis den Wechsel der Bestrafung aquae et ignis interdictio vollzogen hat. Bernardo Santalucia weist vielmehr auf die Möglichkeit hin, dass diese Lex nun schon bestehende Bräuche gesetzlich fixiert habe.17 Eingehender beschäftigen soll uns die gleich im Sermo unserer Declamatio minor aufgeworfene Frage, an damnatus sit sua sententia, qui sibi manus attulit: Ist der Selbstmord eines Verdächtigen als Schuldeingeständnis zu werten? Hätte denn das Mädchen in dieser Declamatio minor eventuell richtig gehandelt und durch die Exhumierung der lex ficta der Rhetoren Parricidae insepulti abiciantur doch noch zu ihrem Recht verholfen? Wir holen etwas weiter aus und fragen uns, ob der Selbstmord in Rom strafbar war, dann wäre nämlich das Bestattungsverbot als Strafe rechtssystematisch nachvollziehbar. Doch in der antiken römischen Literatur wird der Selbstmord nicht verachtet, im Gegenteil, er wird oft als heldenhafter Abgang angesehen. Selbstmord war kein Verbrechen und nach der stoischen Lehre oft eine ehrenhafte Sache.18 Ein häufig genanntes eindrucksvolles Beispiel dafür: Im Jahr 33 nahm sich der Jurist Marcus Cocceius Nerva sogar trotz hervorragender gesellschaftlicher Stellung und bester Gesundheit gegen den Willen des Tiberius das Leben, nur weil er angeblich den weiteren Verfall des Staates nicht mehr mit ansehen wollte.

|| 14 Dingel 1988, 156 f.; vgl. auch eingehend Stramaglia 1999, 300–307; mit Ps. Quint. decl. min. 299 hat sich jüngst, allerdings aus einem ganz anderen Blickwinkel, auch Brescia 2015 (vgl. bes. 59–76) auseinandergesetzt. 15 Mommsen 1899, 988; Lanfranchi 1938, 478. 16 Bonner 1949, 100 f. 17 Santalucia 19982, 11, 37, 69, 72. 18 Vgl. dazu eingehend Hill 2004, 87–104; 183–212; ferner Van Hooff 1990, 21–39; 141–150; 181– 197.

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16 | Gernot Krapinger

Haud multo post Cocceius Nerva, continuus principi, omnis divini humanique iuris sciens, integro statu, corpore inlaeso, moriendi consilium cepit. Quod ut Tiberio cognitum, adsidere, causas requirere, addere preces, fateri postremo grave conscientiae, grave famae suae, si proximus amicorum nullis moriendi rationibus vitam fugeret. Aversatus sermonem Nerva abstinentiam cibi coniunxit. Ferebant gnari cogitationum eius, quanto propius mala rei publicae viseret, ira et metu, dum integer, dum intemptatus, honestum finem voluisse. Tac. ann. 6,26,1 Nicht lange danach fasste Cocceius Nerva, ständiger Begleiter des Princeps und Kenner des göttlichen und menschlichen Rechts, trotz unerschütterter Stellung und ungeschwächter Gesundheit den Entschluss, in den Tod zu gehen. Als dies dem Tiberius bekannt wurde, setzte er sich zu ihm, forschte nach den Gründen, fügte Bitten an; zuletzt bekannte er, es belaste sein Gewissen, belaste seinen Ruf, wenn sein bester Freund ohne vernünftige Gründe für das Sterben vor dem Leben fliehe. Nerva lehnte einen Meinungsaustausch ab und blieb dabei, keine Nahrung zu sich zu nehmen. Dazu berichteten Leute, die seine Gedanken kannten, er habe sich, aus je größerer Nähe er das Unglück des Staates habe mit ansehen müssen, voller Zorn und Besorgnis zu einem Zeitpunkt, da er noch unbescholten, da er unangefochten dastand, ein ehrenvolles Ende gewünscht.19

Ausschlaggebend für die moralische Bewertung des Suizids war die Art und Weise seiner Durchführung. Während der Selbstmord mit Hilfe eines Schwertes, wenn sich eine Person des Lebens überdrüssig fühlte, gesellschaftlich anerkannt war, wurde das Erhängen als Selbstmordmittel verachtet.20 Damit können wir zur rechtlichen Bewertung des Suizids übergehen: Was sagt die Rechtsliteratur konkret dazu? Was zu der hier in unserer Deklamation geäußerten Behauptung, durch Selbstmord bringe ein Verdächtiger ein Schuldeingeständnis zum Ausdruck? Anton Van Hooff, einer der besten Kenner der antiken Quellen und der gelehrten Literatur zum Komplex Suizid, hat es auf den Punkt gebracht: Die römischen Juristen waren nicht besonders an Suizid interessiert.21 Bis ins zweite Jahrhundert hinein kannte das römische Recht keine Maßnahmen gegen Suizid.22 Das älteste Zeugnis einer Verurteilung der Selbsttötung liefert uns Plinius der Ältere:

|| 19 Heller 1982, 417. 20 Vgl. Verg. Aen. 12,603; s. dazu auch Wacke 1980, 42–44. 21 Van Hooff 2005, 27; zum pragmatischen Desinteresse der römischen Juristen am Selbstmord vgl. Wacke 1980, 59 und (umfassender zur ‘Grundeinstellung des römischen Rechts’ zum Selbstmord) 47–50. 22 Die gelehrte Literatur zum Suizid in der Antike allgemein und speziell im römischen Recht ist sehr umfangreich; aus Platzgründen verweise ich auf die Bibliographien von Van Hooff 1990, von Hill 2005 und besonders auf diejenige von Frantzen 2012.

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Cum id opus [sc. cloacas] Tarquinius Priscus plebis manibus faceret, essetque labor incertum maior an longior, passim conscita nece Quiritibus taedium fugientibus, novum, inexcogitatum ante posteaque remedium invenit ille rex, ut omnium ita defunctorum corpora figeret cruci spectanda civibus simul et feris volucribusque laceranda. Plin. nat. 36,107 Als Tarquinius Priscus dieses Werk durch die Hände des Volkes bauen ließ und es ungewiss war, ob die Arbeit noch größer oder langwieriger würde, entzogen sich die Quiriten, um dem Überdruss zu entfliehen, häufig durch Selbstmord; da erfand dieser König ein neues, weder vor- noch nachher erdachtes Mittel: Er ließ die Leichen der so ums Leben Gekommenen ans Kreuz schlagen, damit sie von den Bürgern gesehen und zugleich von wilden Tieren und Vögeln zerfleischt würden.23

Die Historizität des Berichts, König Tarquinius habe Leichname von Selbstmördern der Schändung aussetzen lassen, wird allerdings in Zweifel gezogen.24 Bis zum Ende des 1. Jh. v. Chr. wurde der Suizid von rechtlicher Seite wenn nicht anerkannt, so wenigstens toleriert. Erstmals normativ auf Selbsttötung reagiert wurde im Falle schuldbewusster Angeklagter, die durch den Suizid die nach ihrer Verurteilung drohende Konfiskation ihres Vermögens durch den Staat zu verhindern und ihr Erbe ihren Kindern, Anverwandten und Angetrauten zu erhalten suchten. Die Vermögenskonfiskation als Folge der Todesstrafe oder lebenslanger Verbannung scheint lange Zeit, bis in die frühe Kaiserzeit, durch Suizid umgangen worden zu sein.25 Für die Zeit des Tiberius belegt dies etwa Tacitus: At Romae caede continua Pomponius Labeo, quem praefuisse Moesiae rettuli, per abruptas venas sanguinem effudit; aemulataque est coniunx Paxaea. Nam promptas eius modi mortes metus carnificis faciebat, et quia damnati publicatis bonis sepultura prohibebantur, eorum qui de se statuebant humabantur corpora, manebant testamenta, pretium festinandi. Tac. ann. 6,29,1 In Rom dagegen dauerte das Morden fort: Pomponius Labeo, der, wie berichtet, in Moesia befehligte, riss sich die Adern auf und verblutete; seinem Beispiel folgte seine Gattin Paxaea. Denn solche Todesarten legte die Furcht vor dem Henker ebenso nahe wie die Tatsache, dass bei einer Verurteilung das Vermögen eingezogen und die Bestattung verweigert

|| 23 König/Hopp 1992, 77. 24 Frantzen 2012, 25 f. 25 Wacke 1980, 54 und Frantzen 2012, 33–35. Behandeln auch einen von Valerius Maximus (9,12,7) überlieferten früheren Fall: Der von Cicero in einem Repetundenprozess angeklagte Politiker und Schriftsteller C. Licinius Macer kam durch seinen freiwilligen Erstickungstod der Verurteilung zuvor, sodass das Verfahren eingestellt und auf die Konfiskation seines Vermögens verzichtet werden musste.

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18 | Gernot Krapinger

wurde, während diejenigen, die Selbstmord begingen, beerdigt wurden und deren Testamente gültig blieben, als Lohn für ihre Eile.26

Es wird nicht nur der süffisante, fast hämische Ton des Tacitus ausschlaggebend dafür gewesen sein, dass die Jurisprudenz allmählich dazu überging, diese offene Umgehungsmöglichkeit zu verhindern. Auf die Problematik der Vermögenskonfiskation gründen sich denn auch die ersten gesetzlichen Regelungen zum Suizid, so die Bestimmung aus der Regierungszeit Hadrians,27 welche die Trauer untersagt für Feinde und verurteilte Hochverräter ebenso wie für Erhängte (suspendiosi) oder andere, welche die Hand gegen sich richteten und deren Motivation nicht ‘Lebensmüdigkeit’ (taedium vitae), sondern ein schlechtes Gewissen gewesen sei. Ulpian beurteilt in der betreffenden Passage die Selbsttötung je nach Motiv dazu ganz unterschiedlich. Taedium vitae etwa ist ein Grund, der den Suizid sanktionslos belässt, mala conscientia hingegen macht aus dem Freitod ein Schuldeingeständnis: Non solent autem lugeri, ut Neratius ait, hostes vel perduellionis damnati nec suspendiosi nec qui manus sibi intulerunt non taedio vitae, sed mala conscientia: si quis ergo post huiusmodi exitum mariti nuptum se collocaverit, infamia notabitur. dig. 3,2,11,3 [Ulp. 6 ad ed.] Nicht betrauert werden gewöhnlich aber, wie Neraz sagt, Staatsfeine oder wegen Hochverrats Verurteilte, auch nicht diejenigen, die sich erhängt haben, oder diejenigen, die nicht aus Lebensüberdruss, sondern aus schlechtem Gewissen Hand an sich gelegt haben. Wenn also eine Frau nach einem derartigen Tod des Ehemannes heiratet, ist sie von Ehrlosigkeit betroffen.28

Mit dem Trauerverbot konnte wahrscheinlich so mancher, der, eines Kapitalverbrechens angeklagt, aus schlechtem Gewissen Hand an sich legen wollte, ‘gut leben’, wenn er nur durch dieses offensichtliche ‘rechtliche Schlupfloch’29 entsprechend dem alten Grundsatz crimen extinguitur mortalitate30 die Aufhebung seiner letztwilligen Verfügungen und die Einziehung seines Vermögens, die er bei seiner Verurteilung hinnehmen hätte müssen, gerade noch rechtzeitig durch seinen Tod verhindern konnte. Geschah der Selbstmord mala conscientia, d. h.

|| 26 Heller 1982, 421. 27 Zur Datierung s. Wacke 1980, 54 f. 28 Übersetzung nach Behrends/Knütel/Kupisch/Seiler 1995, 278. 29 Müller 2003, 42. 30 Vgl. dig. 48,4,11.

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im Bewusstsein, das Kapitalverbrechen begangen zu haben, wird er einem Geständnis gleichgesetzt und nach der Prozessmaxime confessus pro iudicato est31 nahm man an, der Beschuldigte habe sich selbst gerichtet. Auch in den nach Hadrian weitergeführten rechtlichen Normierungen über die Vermögenskonfiskation im Falle des Suizids von Verbrechern32 wurde nirgends der Suizid an sich verboten oder auch nur moralisch bewertet. Denn die Konfiszierung des Vermögens ist keine Bestrafung der Selbsttötung per se, sondern, eine postume Bestrafung des Verbrechers, der durch den Suizid seiner Verurteilung zum Tode (oder zur Verbannung) zu entgehen versucht. Nur diese Strafen nämlich hatten die Konfiszierung des Besitzes zur Folge. Daher wird die Angst vor der Bestrafung (metus poenae) als illegitime causa für Suizid aufgeführt.33 Dass es in den Bestimmungen nicht um die Bestrafung der Selbsttötung an sich geht, belegen gerade die im römischen Recht genannten legitimen Ausnahmen, die causae iustae für Suizid.34 Könnten wir uns als Anwälte des durch Freitod aus dem Leben getretenen Sohnes von decl. min. 299 auf eine davon berufen? Dem in der hadrianischen Bestimmung erwähnten Ausnahmegrund taedium vitae wird zunächst unerträglicher Schmerz (impatientia doloris/valetudinis) hinzugefügt, schließlich auch Raserei (furor), Geisteskrankheit (insania mentis) und drückende Schulden (pudor aeris alieni).35 Darüber hinaus sind diese Suizidgründe nicht exklusiv gültig, weitere Motive werden durch aliquo casu oder alio modo aufgeführt. Die ausgegrabenen Gebeine in decl. min. 299 gehören einem mutmaßlichen Verbrecher, der sich selbst getötet hat. Wie man in diesem Fall juristisch ansetzen könnte, sagt uns erstmals eine vom Juristen Marcianus aufgezeichnete Bestimmung: Sic autem hoc distinguitur, interesse qua ex causa quis sibi mortem conscivit: sicuti cum quaeritur, an is, qui sibi manus intulit et non perpetravit, debeat puniri, quasi de se sententiam tulit. Nam omnimodo puniendus est, nisi taedio vitae vel impatientia alicuius doloris coactus est hoc facere. Et merito, si sine causa sibi manus intulit, puniendus est: qui enim sibi non pepercit, multo minus alii parcet. dig. 48,21,3,6 [Marcian. De delatoribus] Es wird aber insofern ein Unterschied gemacht, als es von Belang ist, aus welchem Grunde sich jemand getötet hat: So auch, wenn gefragt wird, ob der, der Hand an sich gelegt und

|| 31 Vgl. dig. 42,2,1. 32 Vgl. beispielsweise dig. 48,21,3,1 f.; 48,21,2,4; Cod. Iust. 9,6,5. 33 Vgl. Cod. Iust. 3,26,2; 6,22,2; 9,2,12; 9,50,1; dig. 48,21,3, pr.; s. auch Hofmann 2007, 65–70. 34 Vgl. dig. 48,21,3,8; s. auch Frantzen 2012, 78. 35 Vgl. Cod. Iust. 9,50,1; dig. 49,14,45,2.

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die Tat nicht ausgeführt hat, bestraft werden muss, weil er gleichsam das Urteil über sich gefällt hat. Er muss nämlich auf jeden Fall bestraft werden, wenn er nicht aus Lebensüberdruss oder, weil er irgendeinen Schmerz nicht ausgehalten hat, sich gezwungen sah, dies zu tun. Zu Recht ist er zu bestrafen, wenn er ohne Grund Hand an sich gelegt hat: Denn wer sich selbst nicht verschont hat, der wird andere noch viel weniger verschonen.

Der Suizid sine causa eines Angeklagten wird seinem Schuldeingeständnis gleichgesetzt und dieses hat eine postume Bestrafung (des Verbrechens, nicht des Suizids) zur Folge. Der Selbstmörder macht sich, so der Tenor von dig. 48,21,3,6, durch seine Tat prinzipiell verdächtig, ein Verbrechen begangen zu haben, von dem die Umwelt nichts weiß und das ungesühnt geblieben ist; wir finden diesen Gedanken auch bei Seneca Rhetor: Facinus indignum, si inveniuntur manus, quae sepeliant eum, quem occiderunt suae. Sumpsit gladium, video ardentes oculos‚ in quem, nescio; quod solum scio, scelus cogitat. Nescio cuius sibi criminis conscius confugit ad mortem, cuius inter scelera etiam hoc est, quod damnari non potest. Contra hos inventum est, ut aliquid post mortem timerent, (qui) non timent mortem. Nihil non ausurus fuit qui se potuit occidere. Sen. contr. 8,4,3 Welche Schande, wenn sich Hände finden, die den bestatten, den seine eigenen Hände töteten! – Er griff nach dem Schwert – ich sehe seine glühenden Augen – ich weiß nicht, gegen wen. Ich weiß nur, er hatte ein Verbrechen im Sinn. – Ich weiß nicht, welcher Untat er sich bewusst war und Zuflucht beim Tod suchte, er, zu dessen Verbrechen noch dieses zählt, dass man ihn nicht mehr verurteilen kann. – Das Gesetz ist erfunden, damit jene, die den Tod nicht fürchten, etwas nach dem Sterben fürchten. – Einer, der fähig war, sich selbst umzubringen, war zu allem fähig.36

Die Frage der Rechtserheblichkeit des Freitodes im römischen Recht ist also zu bejahen; man sah im Suizid metu conscientiae einen Beweis dafür, dass der Angeklagte das Verbrechen, dessen er im Prozess beschuldigt wurde, auch tatsächlich begangen hat; juristisch gesagt, eine Geständnisvermutung, die von den Erben widerlegt werden konnte. Denn die Erben waren ja durch diese Geständnisvermutung betroffen, da das Vermögen nach dem Suizid eines wegen eines Kapitalverbrechens Angeklagten konfisziert wurde. Allerdings konnte jeder andere plausible Grund außer der conscientia criminis die widrigen Konfiskationsfolgen abwenden. Per analogiam könnten wir dies auch für den Selbstmörder unserer Declamatio minor geltend machen. Die Störung der Totenruhe war schon deswegen nicht rechtens, da ein eindeutiger Beweis, dass der Suizid des Bestatteten im Bewusstsein des Vatermordes erfolgte, fehlte.

|| 36 Schönberger/Schönberger 2004, 200.

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Die Grabverletzung in den Declamationes minores | 21

Wenn sich ein Beschuldigter aus Lebensüberdruss, wegen unerträglicher Schmerzen oder aus anderen Gründen das Leben nimmt, wird keine Konfiskation durchgeführt. Dem unerträglichen Körperschmerz wird in einem Reskript des Kaisers Hadrian der seelische Schmerz über den Verlust eines nahen Angehörigen ausdrücklich gleichgestellt.37 Der junge Mann unserer Deklamation Ossa eruta parricidae könnte sich z. B. aus Scham über den falschen Verdacht und über den damit einhergehenden Ansehensverlust getötet haben.38 Als weitere konfiskationsbefreiende Gründe überliefern die Rechtsquellen taedium vitae und impatientia alicuius doloris,39 natürlich ebenfalls durchaus einleuchtende Motiv für unseren toten Klienten aus decl. min. 299. Ob es nun angebracht ist, gleichsam nach dem Grundsatz fiat iustitia et pereat sepulcrum einen bestatteten Toten, wenn sich posthum seine Schuld an einem Kapitalverbrechen herausstellt, wieder auszugraben, wie es in der gegenständlichen Deklamation geschieht, darüber geben die antiken Quellen keine Auskunft; soweit ich zumindest sehe, ist die Fragestellung einer Kollision zwischen der Norm, die die Grabesruhe schützt, und der Bestimmung, dass ebendiese Grabesruhe einem Vatermörder, dessen Schuld noch dazu nur aus seinem Freitod erschlossen wird, vorzuenthalten sei, rhetorischer Phantasie, nicht juristischer Praxis zuzuschreiben. Auch in den beiden noch ausstehenden Minores zur sepulchri violatio steht die faktische Ausführung der grabfrevlerischen Tat außer Streit; diskutabel erscheint in beiden Sachverhalten die subjektive Vorwerfbarkeit der Tatbegehung. Wir beginnen mit Declamatio minor 369: Sepulcri violati sit actio. Quidam arma de sepulcro viri fortis, suis consumptis, sustulit; victor reposuit. Reus est violati sepulcri. Ps. Quint. decl. min. 369, th. Es werde eine Klage wegen Grabverletzung gewährt. Jemand nahm Waffen von dem Grab eines Kriegshelden, nachdem er die eigenen aufgebraucht hatte: nach dem Sieg legte er sie zurück. Er wird der Grabverletzung angeklagt.

|| 37 Vgl. zu diesem vieldiskutiertem Reskript dig. 48,21,3,5 Frantzen 2012, 71–73; ferner Wacke 1980, 58 f. 38 S. Frantzen 2012, 69 f. 39 Von furor und der vor allem bei Philosophen als häufiges Motiv des Freitodes überlieferten iactatio (dig. 28,3,6,7) ist im Falle unserer Deklamation wohl nicht auszugehen, s. dazu Wacke 1980, 48; Frantzen 2012, 66 f.

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Das brennende juristische Problem, das die Rhetorikjünger zu bestreiten haben, geht nun von Fragen aus wie: Liegt damit eine Grabschändung vor? Ist das Handeln des Helden etwa entschuldbar und ihm nicht vorzuwerfen, da er sich in einer Notlage befand? Bei Seneca Rhetor, der das idente Thema behandelt, wird für und wider den Helden plädiert: Armis sepulchri victor. Sepulcri violati sit actio. Bellum cum esset in quadam civitate, vir fortis in acie armis amissis de sepulchro viri fortis arma sustulit. Fortiter pugnavit et reposuit. Praemio accepto accusatur sepulchri violati. Sen. contr. 4,4, th. Sieger mit Waffen aus einem Grab. Wenn ein Grab verletzt wird, kann Anklage erfolgen. Beim Krieg in einer Stadt verlor ein Held im Kampf seine Waffen, holte sich die Waffen aus einem Heldengrab, kämpfte tapfer und brachte die Waffen zurück. Nachdem er eine Belohnung erhielt, wird er wegen Grabfrevels angeklagt.40

Die Declamatio minor 369 zielt in ihrer überlieferten Form nur auf die Verteidigung des angeklagten Grabfrevlers ab; dabei wird die Argumentation vorerst auf die subjektiven Tatbestandselemente gerichtet: Auf den fiktiven Vorwurf: ‘Sepulcrum violasti’ antwortet der Redner: ‘Sepulcrum’ inquit ‘violasti.’ Non utcunque attingitur sepulcrum violatur: alioquin nec inferre mortuos licet nec collapsa reficere nec ornare. Aut, si utcumque attingitur violatur, bis ego peccavi, et cum sustuli et cum reposui. Sed non ita est. Et mens absolvitur. Sic Romani gloriose spoliarunt Iovem, sic Saguntini fecerunt parricidium. Si ergo mens in factis spectatur, meam inspicite. Quare violo? Ps. Quint. decl. min. 369,2 ‘Du hast das Grab verletzt’, sagt er. Nicht auf jede Art, auf die es berührt wird, wird es verletzt: Sonst wäre es nicht erlaubt, Tote hineinzulegen oder Gräber, wenn sie eingestürzt sind, wiederherzustellen oder sie zu verschönern. Oder, wenn es verletzt wird, egal auf welche Weise es berührt wird, dann habe ich zweimal gefehlt, sowohl, als ich sie weggenommen habe, als auch, als ich sie zurückgelegt habe.41 Aber so ist es nicht. Allein schon die Absicht wird freigesprochen. So haben die Römer Jupiter ruhmvoll ausgeplündert, so haben die Saguntiner Mord begangen. Wenn die Absicht nach Taten beurteilt wird, so schaut meine an. Warum verletze ich?

|| 40 Schönberger/Schönberger 2004, 31. 41 ‘Which is absurd’, wie Shackleton Bailey 2006, 366, A. 2 richtig bemerkt.

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Die Grabverletzung in den Declamationes minores | 23

Die Feststellung non utcunque attingitur sepulcrum violatur verweist auf die absurden Folgen einer allzu engen Sichtweise, die nur aufs Faktische abstellt: alioquin nec inferre mortuos licet nec collapsa reficere nec ornare. Aut, si utcumque attingitur violatur, bis ego peccavi, et cum sustuli et cum reposui. Die Rechtfertigung der Grabschändung baut ganz auf das Motiv des rechtfertigenden Notstands und wird eingeleitet mit: Et mens absolvitur. Denn der Täter hat nicht grundlos die Grabesruhe gestört: Hier heiligt sozusagen der Zweck die Mittel, es geht nämlich um Höheres, es ist nicht das erste Mal, dass in höchster Not Übergriffe auf Sakrales nicht nur erlaubt, sondern sogar geboten waren: der Redner fährt mit historischen Exempeln fort: Sic Romani gloriose spoliarunt Iovem, sic Saguntini fecerunt parricidium. In verzweifelter Lage sind manche rechtlichen Schranken des Handelns aufgehoben: Nisi ista (sc. arma) sustulissem, non accusasses: non haberes leges. Sustuli, confiteor, sed publicae salutis causa. Miraris? Ipsorum sepulcrorum ruina, si possem, hostem repellerem: tecta in subeuntes et sacra, quin etiam templorum fastigia desperantium tela sunt. Certum est omnia licere pro patria. Ps. Quint. decl. min. 369,4 Wenn ich sie (die Waffen) nicht genommen hätte, hättest du mich nicht angeklagt, dann hättest du keine Gesetze. Ich habe sie genommen, ich gesteh’s, aber zum öffentlichen Wohl. Du wunderst dich? Auch mit den eingestürzten Steinen des Grabes selbst hätte ich, wenn ich gekonnt hätte, den Feind zurückgeschlagen: Dächer, die auf Eindringlinge fallen, und Heiligtümer, ja, sogar Giebel von Tempeln sind Waffen der Verzweifelten. Gewiss ist: Für das Vaterland ist alles erlaubt.

Ganz ähnlich hat schon Seneca Rhetor argumentiert: Res publica multum consecuta est, vir fortis nihil perdidit. Necessitas est quae navigia iactu exonerat, necessitas quae ruinis incendia opprimit; necessitas est lex temporis. Quicquam non fit legitime pro legibus? Melius cum ipso sepulchro actum est, in quo notiora sunt iterum arma victricia. Pro re publica plerumque templa nudantur et in usum stipendii dona conflamus. Sen. contr. 4,4,1 Der Staat hat viel gewonnen, der (tote) Held nichts verloren. Die Not bringt dazu, Schiffe durch Hinauswerfen von Gütern zu erleichtern, die Not hält eine Feuersbrunst durch Einreißen von Häusern auf; die Not ist das Gesetz des Augenblicks. – Geschieht etwas ungesetzlich, was zum Schutz der Gesetze geschieht? – Es war doch zum Vorteil des Grabes, dass

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die Waffen dort zum zweiten Mal siegten und neuen Ruhm gewannen. – Für den Staat werden häufig Tempel geplündert, und man schmilzt Göttergeschenke ein, um Sold zahlen zu können.42

Hier wird die Diskussion auf eine staatsrechtliche Ebene gehoben: Der Redner verweist auf einen bekannte Krisensituation in der römischen Geschichte, die uns gut überliefert ist,43 den Staatsnotstand nach der Schlacht bei Cannae, da wurden nicht nur Sklaven auf Staatskosten bewaffnet, ad usum propulsandorum hostium, wie es Valerius Maximus, 7,6,1, formuliert, sondern auch religiöses Gut zur Rettung des Staates quasi beschlagnahmt.44 Die Ähnlichkeiten zur Causa unserer Declamatio minor sind also gegeben! Bei Seneca Rhetor werden zur argumentativen Unterstützung des Standpunktes des Grabschänders mit Necessitas est quae navigia iactu exonerat, necessitas quae ruinis incendia opprimit zwei privatrechtliche Notstandsituationen genannt, bekannte Fälle der Rechtsliteratur: Zuerst zum Seewurf: Dahinter sieht der Deklamator vielleicht die alte Allegorie vom Staatsschiff. Der Staat, den sein Kriegsheld verteidigt, gleicht einem Schiff in Seenot. Bei der Rettung beider entsteht eine Gefahrengemeinschaft, die den zur Rettung nötigen Aufwand anteilsmäßig zu bestreiten hat.45 Lege Rhodia cavetur, ut si levandae navis gratia iactus mercium factus est, omnium contributione sarciatur quod pro omnibus datum est. dig. 14,2,1 Die Lex Rhodia bestimmt, dass, wenn zur Leichterung eines Schiffes Waren über Bord geworfen wurden, durch anteilige Beiträge aller ersetzt wird, was für alle aufgeopfert wurde.46

Die Bestimmung ist alt und geht in nuce ins 4. Jh. v. Chr. zurück: Die griechische Überlieferung weiß von einer ganzen Reihe rhodischer Gesetze, darunter allerdings, wie es scheint, von keinem gerade zum Seewurf. Der Seewurf kommt in den Quellen nur vereinzelt vor. In der Seedarlehensurkunde der Lakritosrede des Demosthenes wird die Rückzahlung des Darlehens zugesagt, ‘unter Abzug des || 42 Schönberger/Schönberger 2004, 131. 43 Liv. 21,14. 44 Vgl. allgemein zur sozialen Rechtfertigung der Notwehr im römischen Recht in der römischen Rechtsliteratur Wacke 1989, 474–476; ferner Girardet 2005. 45 Interessant ist, dass die Rhetorik hier die Gewährung genereller Ausgleichsansprüche im Bereich der Seegefahr durch die römische Jurisprudenz (Wacke 1989, 500) zweifach erweitert, einerseits auf eine militärische Gefahrenlage, andererseits wird der Ausgleich von ungleichmäßig verteiltem Gewinn und Verlust zu einer allgemeinen Abwägung von Rechtsgütern ausgedehnt. 46 Behrends/Knütel/Kupisch/Seiler 1999, 206.

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Seewurfs, den die Reisenden aufgrund eines gemeinsamen Beschlusses hinauswerfen und dessen, was sie an Feinde zahlten’.47 Aus einem Komödienfragment des Diphilos von Sinope, der wohl um 340 v. Chr. nach Athen kam, geht hervor, dass der Schiffer Sturmschäden an Mast und Ruder sowie die Verluste wegen Seewurfs nach Rettung des Schiffes unter die Mitreisenden aufteilen konnte.48 Übrigens wird die Regelung der lex Rhodia de iactu nicht nur beim Seewurf angewandt, sondern auch für das für den Freikauf eines im Zuge einer Schiffsreise von Piraten gekidnappten Passagiers.49 Damit, ich meine, mit den Piraten, haben wir eine schöne Überleitung zur letzten Declamatio minor, 373, Ornamentis redemptus: Abdicare liceat. Sepulcri violati sit actio. Amissa uxore et defossis in sepulcro eius ornamentis superduxit filio novercam. Captus a piratis pater de redemptione scripsit. Morante filio, uxor ex sepulcro prioris uxoris eruit ornamenta et misit. Ob hoc a privigno sepulcri violati accusata et damnata est. Pater redit et abdicat filium. Ps. Quint. decl. min. 373, th. Es möge eine Verstoßung gewährt werden. Es möge eine Grabverletzungsklage gewährt werden. Ein Mann brachte, nachdem er seine Frau verloren und ihr ihren Schmuck mit ins Grab gegeben hatte, seinem Sohn eine Stiefmutter ins Haus. Der Vater wurde von Piraten gefangen und schrieb wegen seines Freikaufs nach Hause. Der Sohn zögerte, die Frau grub aus dem Grab der ersten Frau den Schmuck aus und schickte ihn (den Piraten/dem Mann). Deswegen wurde sie vom Stiefsohn der Grabverletzung angeklagt und verurteilt. Der Vater kehrt zurück und abdiziert den Sohn.

Ein Mann hat seine Frau verloren und diese mitsamt ihrem Schmuck begraben. Da wird er von Piraten gefangengenommen. Er bittet nun seinen Sohn aus erster Ehe und seine zweite Frau, ihn auszulösen. Die Frau kommt dieser Bitte nach und kauft den Vater mit dem ausgegrabenen Grabschmuck der ersten Frau frei. Der Sohn verklagt sie wegen Grabschändung. Im erhaltenen Text zu diesem Argument kritisiert der Vater seinen Sohn für seine Säumnis (§ 1), seine mangelnde Vaterliebe (§ 2) und schließlich dafür, dass er seine Frau angeklagt hat. Der Vater meint zu Verteidigung der Stiefmutter: Recte violavit! (§ 3).

|| 47 Dem. 35,10–13; vgl. Schanbacher 2006, 262 f.; Krampe 2012, 112 f.; vgl. auch dig. 14,2,2,3 und Krampe 2012, 141–143. 48 Diph., Zograph. Fr. 42,10–17 K.-A., diesen Hinweis verdanke ich Schanbacher 2006, 262 f.; s. den Text in: Ashburner 1909, CCLXVII. 49 Vgl. dig. 14,2,9.

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Wenn wir uns darüber Gedanken machen, wie ein juristisch versierter Redner der frühen Kaiserzeit argumentiert hätte, sollten wir uns dem römischen Notwehr- und Notstandsrecht widmen; ein modernes Strafgesetzbuch wie beispielsweise das österreichische in der geltenden Fassung formuliert in legistischer Knappheit, worauf es ankommt: Notwehr: (1) Nicht rechtswidrig handelt, wer sich nur der Verteidigung bedient, die notwendig ist, um einen gegenwärtigen oder unmittelbar drohenden rechtswidrigen Angriff auf Leben, Gesundheit, körperliche Unversehrtheit, Freiheit oder Vermögen von sich oder einem anderen abzuwehren. Die Handlung ist jedoch nicht gerechtfertigt, wenn es offensichtlich ist, dass dem Angegriffenen bloß ein geringer Nachteil droht und die Verteidigung, insbesondere wegen der Schwere der zur Abwehr nötigen Beeinträchtigung des Angreifers, unangemessen ist. StGB § 3

Die römischen Klassiker entwickelten noch keinen technischen Begriff der Notwehr. Eine klare Scheidung oder gar systematische Durchbildung von Rechtfertigungs- und Entschuldigungsgründen findet man in ihrer schriftlichen Hinterlassenschaft nicht. Ihre Stärke ist hier, wie auch sonst, nicht die Theorie, sondern die scharfsinnige Einzelfalllösung. Auf die vorwiegend die Lex Aquilia betreffenden Quellen (286 v. Chr.) wollen wir uns im Folgenden konzentrieren.50 Nach der Kasuistik der Römer gehört zum festen Bestand der Notwehrlehre51 zuallererst der Verteidigungszweck oder –wille (defendendi causa): Die Lex Aquilia setzt in cap. 1 die rechtswidrige Tötung eines Sklaven (oder einer Sklavin) voraus. Die bloße Tatsache einer Tötung genügte nicht (beispielsweise durch einen herabfallenden Dachziegel52), sondern die Tat muss rechtswidrig sein.53 Töte ich einen fremden Sklaven in Notwehr, der mir als Straßenräuber auflauert, so handle ich nicht rechtswidrig, lehrt Gaius.54 Der Angriff, gegen den man sich in Notwehr zur Wehr setzt, muss gegenwärtig sein oder unmittelbar bevorstehen und ein eigenes, notwehrfähiges Rechtsgut (Leben, Gesundheit, Eigentum) bedrohen. Zum Verteidigungszweck präzisiert Paulus: Qui, cum aliter tueri se non possent, damni culpam dederint, innoxii sunt: vim enim vi defendere omnes leges omniaque iura permittunt. dig. 9,2,45,4 [Paul. 10 ad Sab.]

|| 50 Grundlegend dazu Wacke 1989. 51 Zur Notwehr im römischen Recht s. Wacke 1989, 480–489. 52 Vgl. dig. 9,2,5,2. 53 Vgl. dig. 9,2,3. 54 Vgl. dig. 9,2,4.

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Die Grabverletzung in den Declamationes minores | 27

Denjenigen, die Schaden zufügen, weil sie sich auf andere Weise nicht schützen können, ist nichts vorzuwerfen. Denn alle Gesetze und Rechte erlauben, Gewalt mit Gewalt abzuwehren.55

Danach bleibt schuldlos, wer einen Schaden verursacht, aber auf andere Weise sich nicht verteidigen kann; denn die gewaltsame Abwehr eines gewaltsamen Angriffs ist nun einmal generell gestattet. Damit hebt Paulus die Erforderlichkeit der Notwehrhandlung hervor: cum aliter se tueri non possent. Zudem muss die Abwehrhandlung die ultima et unica ratio sein.56 In der gegenständlichen kleineren Deklamation geht es nicht um Notwehr, sondern um entschuldigenden Notstand: Von der Notwehr zum entschuldigenden Notstand ist es nur ein kleiner Schritt; durch die Entnahme des Grabschmucks opfert die Stiefmutter das geschützte Rechtsgut der Grabesruhe und nimmt diese Rechtsverletzung in Kauf, um ihrem Mann das Leben zu retten. Einleitend wieder die moderne Rechtsbestimmung: Rechtfertigender Notstand: (1) Wer eine mit Strafe bedrohte Tat begeht, um einen unmittelbar drohenden bedeutenden Nachteil von sich oder einem anderen abzuwenden, ist entschuldigt, wenn der aus der Tat drohende Schaden nicht unverhältnismäßig schwerer wiegt als der Nachteil, den sie abwenden soll, und in der Lage des Täters von einem mit den rechtlich geschützten Werten verbundenen Menschen kein anderes Verhalten zu erwarten war. (2) Der Täter ist nicht entschuldigt, wenn er sich der Gefahr ohne einen von der Rechtsordnung anerkannten Grund bewusst ausgesetzt hat. Der Täter ist wegen fahrlässiger Begehung zu bestrafen, wenn er die Voraussetzungen, unter denen seine Handlung entschuldigt wäre, in einem Irrtum angenommen hat, der auf Fahrlässigkeit beruhte, und die fahrlässige Begehung mit Strafe bedroht ist. StGB § 10

Notstand liegt vor, wenn jemand zur Abwendung einer seinem Rechtsgut unmittelbar drohenden Gefahr ein fremdes Rechtsgut verletzt. Als Voraussetzungen des rechtfertigenden Notstands wird gefordert, dass die Gefahr ohne das Verschulden des Inhabers des gefährdeten Rechsgutes entstanden ist und dass die Notstandshandlung dazu geeignet ist, die Gefahr abzuwenden. Die römische Rechtsliteratur behandelt dies bei der Beschädigung und Aufopferung lebloser Sachen; dafür enthalten die Quellen zwei eindringliche Beispiele: die in Seenot gekappten fremden Schiffstaue (1) und das bereits oben

|| 55 Behrends/Knütel/Kupisch/Seiler 1995, 762. 56 Vgl. Inst. Iust. 4,3,2; dig. 48,8,9.

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in Sen. contr. 4,4,1 erwähnte Niederreißen des Nachbarhauses wegen Brandgefahr (2): (1) Die gekappten Ankertaue: Item Labeo scribit, si, cum vi ventorum navis impulsa esset in funes anchorarum alterius et nautae funes praecidissent, si nullo alio modo nisi praecisis funibus explicare se potuit, nullam actionem dandam. Idemque Labeo et Proculus et circa retia piscatorum, in quae navis piscatorum inciderat, aestimarunt. Plane si culpa nautarum id factum esset, lege Aquilia agendum. dig. 9,2,29,3 [Ulp. 18 ad ed.] Ferner schreibt Labeo: Wurde ein Schiff vom Sturm auf die Ankertaue eines anderen getrieben und hatten die Seeleute die Taue gekappt, so darf, falls das Schiff auf keine andere Weise als durch Kappen der Taue loskommen konnte, keine Klage erteilt werden. Dasselbe haben Labeo und Proculus auch bei Fischernetzen angenommen, in die sich ein Fischkutter verfangen hatte. Ist ein solcher Vorfall freilich durch Verschulden der Seeleute verursacht worden, so kann mit der Klage nach der Lex Aquilia vorgegangen werden.57

In einem Seesturm verfing sich ein Schiff in die Taue eines ankernden Schiffes. Die Besatzung dieses abgetriebenen Schiffes kaperte nun diese Taue, weil sie sich anders nicht befreien konnte. Mit dem Hinweis auf diese einzige Möglichkeit der Rettung (nullo alio modo) ist wie bei der Notwehr die Unumgänglichkeit der schädigenden Handlung umschrieben. Nach Labeo besteht also keine Haftung dieser Seeleute (bzw. ihres Kapitäns, der den Befehl dazu gab): Zwar zerstörten sie die fremden Taue absichtlich, doch geschah dies nicht in schädigender Absicht, sondern war zur Rettung des eigenen Schiffes nötig. (2) Der für uns sehr kuriose Fall eines entschuldigenden Notstandes, das Niederreißen des Nachbarhauses bei einer drohenden Feuersbrunst; der Text zur Lex Aquilia ist zugleich der aussagekräftigste:58 Quod dicitur damnum iniuria datum Aquilia persequi, sic erit accipiendum, ut videatur damnum iniuria datum, quod cum damno iniuriam attulerit: nisi magna vi cogente fuerit factum, ut Celsus scribit circa eum, qui incendii arcendi gratia vicinas aedes intercidit: nam hic scribit cessare legis Aquiliae actionem: iusto enim metu ductus, ne ad se ignis perveniret, vicinas aedes intercidit: et sive pervenit ignis sive ante extinctus est, existimat legis Aquiliae actionem cessare. dig. 9,2,49,1 [Ulp. 9. disp.] Wenn gesagt wird, die Lex Aquilia verfolge einen widerrechtlich zugefügten Schaden, muss das so aufgefasst werden, dass der Schaden dann als widerrechtlich angesehen wird, wenn

|| 57 Behrends/Knütel/Kupisch/Seiler 1995, 753 f. 58 Vgl. noch dig. 43,24,7,4; 47,9,3,7; s. dazu umfangreicher Wacke 1989, 498 f.

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Die Grabverletzung in den Declamationes minores | 29

er sogleich ein Unrecht darstellt, also nicht dann, wenn die Schadenszufügung unter übermächtigem Zwang geschah, wie Celsus hinsichtlich dessen schreibt, der ein Nachbarhaus abgerissen hat, um einen Brand abzuwehren; in diesem Fall, schreibt er, entfällt nämlich die Klage nach der Lex Aquilia. Denn jener hat das Nachbarhaus in berechtigter Furcht, das Feuer werde bis zu ihm gelangen, abgerissen. Und gleich, ob das Feuer ihn noch erreicht hat oder ob es schon vorher gelöscht wurde, entfällt, meint Celsus, die Klage nach der Lex Aquilia.59

Derjenige also, der wegen der Brandgefahr, die seinem eigenen Haus droht, das Nachbarhaus niederreißt, haftet also nach Celsus nicht, da er es aus der begründeten Angst, dass auch sein eigenes Gebäude von den Flammen erfasst werden könnte, gehandelt hat. Die Exegese der angesprochenen Stellen ergibt, dass das römische Fallrecht durchaus das an konkreten Anlässen erarbeitet hat, was die moderne Rechtsdogmatik von einer Situation eines rechtfertigenden Notstands erfordert: Vorausgesetzt wird also zunächst eine Notstandslage. Die Notstandslage besteht in einer gegenwärtigen Gefahr für Leben, Leib, Freiheit, Ehre, Eigentum oder ein anderes Rechtsgut. Die Notstandshandlung muss erforderlich sein, verhältnismäßig und angemessen. Bei dem vom vir fortis dem Grab an sich widerrechtlich entnommenen Schwert mag man dies wohl noch bejahen, ob dies bei unserer letzten Declamatio minor gegeben ist, sei dahingestellt. Ganz im Gegensatz zu den rhetorischen Schulmeistern würden sich die Juristen Roms angesichts des Sachverhalts von Ornamentis redemptus doch gefragt haben, ob das Ausgraben der wertvollen Grabbeigaben die einzige wirksame Möglichkeit für die Stiefmutter ist, den Mann auszulösen, – denkbar wäre es, andere Wertgegenstände oder Grund und Boden zu verkaufen oder darauf eine Hypothek aufzunehmen und sich Geld zu leihen. Damit hätte man von einer Störung der Totenruhe absehen können. Das Sepulkralrecht kommt, wie eingangs erwähnt, zwar aus pontifikalen Normierungen, der religiöse Aspekt der Grabverletzung wird jedoch in den damit befassten declamationes kaum beachtet; in der Declamatio minor 299 wird der Gedanke, dass die Manen des Vaters durch die Nähe des Leichnams seines Mörders in ihrem Frieden gestört werden, mit großer Ironie ausgesprochen. Damit wird zugleich bekundet, dass es keine Dichotomie zwischen göttlichem Recht des Tempels und der heiligen Stätten und einem disponiblen staatlichen Recht der menschlichen Interessen auf dem Forum und vor dem Prätor oder Richter gibt. Dies wird in der Declamatio minor kaum einmal angerissen, bei Sen. contr. 4,4,2

|| 59 Behrends/Knütel/Kupisch/Seiler 1995, 763 f.

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30 | Gernot Krapinger

heißt es nur einmal lapidar, siegreiche Waffen seien den Totengöttern geweiht (Arma victricia, arma consecrata diis manibus). Dazu passt die Beobachtung, die Okko Behrends zur Beziehung der den Grabfrevel regelnden Rechtsnormen macht: ‘In der Zeit des, wenn man so will, aufgeklärten römischen Rechts zeigt sich deutlich die Tendenz, den Grabfrevel zu einem Tatbestand des säkularen privaten und öffentlichen Strafrechts zu machen, in dem Ansprüche der Religion so weit tunlich zurückgedrängt werden, um anderen Gesichtspunkten Raum zu geben’.60

|| 60 Behrends 1978, 91.

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Biagio Santorelli

Il denaro negato. Casi di infitiatio depositi nelle Declamazioni minori 1 Premessa: Il depositum tra diritto e declamazione Un precetto quintilianeo, noto ai moderni quanto disatteso dagli antichi, raccomandava di declamare su argomenti quanto più possibile vicini alla realtà, piuttosto che indulgere a temi romanzeschi che ben poco avrebbero giovato alla futura professione forense degli studenti.1 Già al tempo di Quintiliano, tuttavia, le vicende di tiranni, eroi di guerra e matrigne crudeli conquistavano agevolmente il centro della scena della declamazione,2 complici i gusti letterari del momento e la necessità di tener sempre vivo l’interesse di studenti e appassionati del genere; mentre i casi più tecnici e vicini alla realtà del foro, incapaci di ‘competere’ con i temi romanzeschi più in voga, finivano spesso ai margini dell’attenzione, lasciando conseguentemente solo tracce limitate nella produzione declamatoria superstite. Nelle pagine seguenti ci soffermeremo su uno dei filoni declamatorî meno rappresentati nelle nostre sillogi, ma che pure doveva corrispondere a una situazione ricorrente nella quotidianità del foro romano: la mancata restituzione di una somma di denaro che il proprietario ha depositato presso una persona di sua fiducia, per lo più in assenza di testimoni.

|| Sono grato a Sira Grosso per il prezioso aiuto nell’analisi delle questioni giuridiche affrontate in questo contributo. Mia resta, ovviamente, la responsabilità per eventuali omissioni ed errori. 1 Cf. soprattutto Quint. 2,10,4 s. Sint ergo et ipsae materiae quae fingentur quam simillimae veritati, et declamatio, in quantum maxime potest, imitetur eas actiones in quarum exercitationem reperta est. Nam magos et pestilentiam et responsa et saeviores tragicis novercas aliaque magis adhuc fabulosa frustra inter sponsiones et interdicta quaeremus (con ampia discussione in Reinhardt/Winterbottom 2006, 161–165); vd. anche 4,2,94; 5,7,35; 10,5,14. Si vedano inoltre i testi raccolti da Winterbottom 1980, 1–7; 71–75 per altre attestazioni di questo tradizionale topos polemico sulla crisi della retorica romana. 2 Ne sono testimonianza le controversiae raccolte nell’antologia di Seneca il Vecchio, nonché i temi su cui Quintiliano stesso racconta di aver declamato nella sua carriera di retore: vd. per una rassegna Stramaglia 2015, in particolare 158–161. Sui meccanismi che potevano determinare la scomparsa di interi filoni declamatorî vd. inoltre Santorelli/Stramaglia 2015, in particolare 279–287.

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32 | Biagio Santorelli

Nel diritto romano si definisce depositum la consegna di un bene mobile a un soggetto (detto depositarius) che si impegna a conservarlo e restituirlo a richiesta; il depositario non è generalmente autorizzato a fare uso del bene,3 ma è tenuto a custodirlo gratuitamente e a restituirlo inalterato. La materia fu disciplinata in età repubblicana da un editto del praetor urbanus,4 che concesse sia un’azione contro il depositario che non restituisse il bene depositato (actio depositi), sia un’azione che imponesse al depositante di risarcire i danni o le spese comportate dalla custodia del bene (actio depositi contraria).5 Il depositario infedele poteva essere condannato alla restituzione del solo bene (in simplum) o, in casi particolarmente gravi, a una somma pari al doppio del suo valore (in duplum).6 Alla infitiatio depositi, ovvero alla negazione di un deposito, sono dedicate cinque delle Declamazioni minori a noi note. Queste, pur nelle complicazioni richieste dal genere, lasciano intravvedere le specifiche caratteristiche di questo istituto del diritto romano.7

2 La sanzione in quadruplum La decl. min. 245 è la vicenda di un deposito la cui restituzione viene di fatto negata due volte:

|| 3 Il depositario che contravviene a tale divieto è considerato colpevole del furto del bene depositato, e pertanto condannato alla restituzione del quadruplo del relativo valore: vd. infra, pp. 34 s.; fa eccezione il cosiddetto deposito irregolare, per cui vd. infra, p. 33. 4 Sul sistema del ius praetorium o honorarium, che conferiva al praetor urbanus la prerogativa di regolare a propria discrezionalità le attività non regolamentate dal diritto civile, vd. ArangioRuiz 19577, 2 s. 5 Cf. Arangio-Ruiz 19577, 310; Zimmermann 19962, 206. 6 Cf. dig. 16,3,1,1–4 [Ulp.]. La pena in duplum era principalmente applicata in casi che riguardavano il cosiddetto deposito necessario o miserabile, per cui vd. infra, p. 37. 7 Le Declamazioni minori analizzate in questo contributo costituiscono gli unici esempi superstiti di controversiae in lingua latina sul tema del depositum. Questo genere di dispute è analizzato da Quintiliano, insieme a casi di furtum e credita pecunia, come esemplificazioni dello status coniecturalis (vd. 7,2,50 s.; 3,1): vd. infra, p. 43 e 44, n. 54. Alla negazione di un deposito, in una situazione del tutto ipotetica, allude ancora Sen. contr. 10,5,14; più complesso un caso citato da Fortunaziano e Agostino, per cui vd. infra, n. 44. Un’interessante testimonianza pressoché coeva alle Minores è infine P.Lond. Lit. 138, che alle coll. III 5–IV 18 contiene una declamazione in lingua greca sul caso di un uomo accusato del furto del denaro che lui stesso aveva depositato presso un amico: vd. ora la fondamentale riedizione commentata di Russo 2013.

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Il denaro negato. Casi di infitiatio depositi nelle Declamazioni minori | 33

Qui depositum infitiatus fuerit, quadruplum solvat. Qui filium luxuriosum relinquebat, pecuniam apud amicum deposuit et mandavit ut redderet emendato. Petit adulescens pecuniam Ille quadruplum petit. Ps. Quint. decl. min. 245, th. Chi rifiuta di restituire una somma ricevuta in deposito sia condannato a rifonderne il quadruplo. Un tale, che morendo lasciava un figlio dissoluto, diede il suo denaro in deposito a un amico, con l’istruzione di restituirlo al figlio una volta che questi si fosse ravveduto. Il giovane gli chiese il denaro Quello chiede il quadruplo.

In questa declamazione, così come nelle altre Minores sul tema, l’oggetto del deposito è una somma di denaro. Nel diritto romano si definiva irregolare il deposito di denaro o altri beni fungibili: in questo caso, il depositario poteva usare il bene depositato ed era tenuto a restituire tantundem eiusdem generis, ovvero una somma di denaro o un bene equivalente a quanto depositato.8 Nella nostra declamazione il deposito è subordinato a una clausola imposta dal depositante stesso: il denaro depositato andrà restituito a suo figlio, ma solo dopo il suo ravvedimento. Il giovane tenta una prima volta di riscuotere il lascito paterno, ma invano; in una seconda azione, il figlio pretende dal depositario un risarcimento pari al quadruplo della somma depositata, in base alla legge che condanna a tale pena chi rifiuti di restituire un bene ricevuto in deposito. Cosa sia avvenuto tra le due iniziative del giovane è stato obliterato da una lacuna nel testo; le due brevi declamazioni pervenuteci lasciano tuttavia intuire che il depositario abbia in un primo momento negato al giovane di aver ricevuto il denaro, invece di menzionare le disposizioni paterne che ne impedivano la restituzione.9 Citato in giudizio, il depositario viene assolto dall’obbligo di restituzione.10 Ciò gli consentirebbe ormai di appropriarsi del lascito; ma quando il giovane corregge il proprio comportamento, l’amico del padre gli offre spontaneamente solo una parte del denaro depositato.11 È a questo punto che il figlio pretende la sanzione per la infitiatio, ormai palese.12 || 8 Cf. dig. 16,3,24 [Papin.]. Faceva eccezione il caso del deposito di pecunia obsignata, ovvero di monete specifiche e individuate, che il depositario era tenuto a custodire come ogni altro bene infungibile. Cf. dig. 16,3, 25,1 [Papin.]; 16,3,28 [Scaev.]. 9 Cf. § 6 ‘Quare tamen negare maluit quam hoc iure uti?’. 10 Cf. § 2 neque omnino quadruplum solvere debet nisi simplam convictus. … Quid si et absolutus est hoc iudicio, cum in quadruplum damnari poterat? 11 Cf. § 7 At mehercule vereor ne cito obtulerit. … Satis erat homini frugi quod accepisti. Itaque et alias quoque condiciones frugalitati tuae ponit amicus paternus: si vixeris quomodo videris fecisse … est adhuc quod tibi possit tribuere patrimonium paternum; sed adhuc habet suum. 12 Questa sostanzialmente la ricostruzione di Ritter 1884, 3. Meno supportata dal testo è la lettura di Shackleton Bailey: dopo il primo processo per infitiatio e il susseguente ravvedimento del

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Un dato apparentemente anomalo, se si confronta questo argumentum con il diritto positivo romano, è la sanzione in quadruplum prevista dalla legge citata nel tema e ripresa nella declamazione: la sanzione per la mancata restituzione di un deposito, come già osservato, consisteva comunemente nell’imposizione a restituire la semplice somma depositata o, in casi eccezionali, una somma pari al doppio del suo valore; la condanna a rifondere il quadruplo è stata pertanto considerata un’amplificazione fittizia della pratica reale.13 L’entità di questa pena, tuttavia, coincide con la sanzione che in altre declamazioni è comminata in casi di furtum;14 più specificamente, il diritto positivo prevedeva tale pena per il furtum manifestum, quello in cui il ladro fosse colto in flagranza di reato.15 La coincidenza tra questa sanzione e quella che si vorrebbe comminare al depositario della decl. min. 245 non sembra casuale, soprattutto se si considera che tra le fattispecie del furtum rientravano i casi di uso indebito o non autorizzato di una cosa altrui (furtum usus): Furtum autem fit non solum cum quis intercipiendi causa rem alienam amovet, sed generaliter cum quis alienam rem invito domino contrectat. Inst. Iust. 4,1,6 Il furto ha luogo non solo quando uno sottrae una cosa altrui allo scopo di impadronirsene, ma in generale quando uno mette mano a una cosa altrui contro il volere del proprietario. 16

Al furtum usus era inoltre assimilata la condotta del depositario che facesse un uso del bene depositato non autorizzato dalle condizioni a cui il contratto era stato stipulato:

|| giovane, il depositario gli avrebbe spontaneamente offerto la restituzione dell’intero lascito paterno; in preda alla cupidigia, però, il giovane avrebbe tentato di approfittare della normativa vigente per ottenere una cifra pari a quattro volte il lascito a titolo di risarcimento per la precedente infitiatio (cf. Shackleton Bailey 2006, I, 12 s., n. 1). 13 Così Wycisk 2008, 84–87. 14 Cf. decl. min. 284,5 Fingamus talem legem ut qui furtum fecerit solvat quadruplum; Quint. 7,6,2 fur quadruplum solvat: duo surripuerunt pariter decem milia: petuntur ab utroque quadragena, illi postulant ut vicena conferant. La stessa prescrizione è attestata in Giulio Vittore (pp. 377, 37 H.; 378, 5; 385, 12 = 8, 15 Giom. Cel.; 8, 23; 19, 7). Vd. Wycisk 2008, 235 s. Nel già citato P.Lond. Lit. 138 (cf. supra, n. 7) è invece menzionata una legge che condanna i ladri a pagare il quintuplo della somma rubata: cf. coll. IV 19–V 37, con Russo 2013, 301. 15 Cf. ad es. dig. 39,4,1,3 Quod quidem edictum in aliqua parte mitius est, quippe cum in duplum datur, cum vi bonorum raptorum in quadruplum sit et furti manifesti aeque in quadruplum. 16 Vd. Arangio-Ruiz 19577, 369 ad loc.

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Il denaro negato. Casi di infitiatio depositi nelle Declamazioni minori | 35

Itaque si quis re, quae apud eum deposita sit, utatur, furtum committit; et si quis utendam rem acceperit eamque in alium usum transtulerit, furti obligatur. Gaius inst. 3,196 Dunque, se uno utilizza un bene che era stato depositato presso di lui, commette furto; e se uno ha ricevuto un bene per farne uso, e lo destina a un uso diverso, risponde per furto.17

Decidendo di restituire solo parzialmente la somma al luxuriosus redento, il depositario di decl. min. 245 starebbe agendo diversamente da quanto pattuito con il padre: ed è probabilmente l’associazione tra questa violazione e un furtum usus ad aver motivato nel nostro argumentum la menzione di un’azione in quadruplum.18 Contro tale accusa, il declamatore sosterrà che in ogni sua azione il depositario si è attenuto alle clausole stabilite con l’amico: con la sua prima infitiatio egli avrebbe impedito che il giovane ottenesse la sua eredità prima di ravvedersi;19 con la successiva restituzione solo parziale del denaro, poi, il depositario avrebbe inteso assicurarsi che il figlio non cadesse nel vizio dell’avaritia.20 La difesa del retore poggia dunque su un’assenza di malizia del depositario in entrambi i casi, puntando a escludere la volontà di appropriarsi del bene depositato. Dimostrando di aver agito avendo a cuore non il proprio interesse, ma la correzione morale del giovane, il nostro depositario valorizza l’argomento che più di ogni altro avrebbe potuto scagionarlo dall’accusa di furto: l’assenza di dolo, che del furto costituiva un elemento essenziale.21 || 17 Cf. anche dig. 47,2,68, pr. [Cels.] Infitiando depositum nemo facit furtum (nec enim furtum est ipsa infitiatio, licet prope furtum est): sed si possessionem eius apiscatur intervertendi causa, facit furtum. 18 Questa ipotesi mi pare avvalorata dal fatto che, quando menziona il primo processo intentato contro il depositario, il declamatore allude a un’assoluzione da un’azione in simplum: cf. § 2 neque omnino quadruplum solvere debet nisi simplam convictus; § 3 Neque enim ideo debet quadruplum solvere, quia potuit ne simplum quidem solvere. Nel primo processo, infatti, il depositario negava tout court la stipula del deposito, e così facendo si esponeva alla normale azione in simplum (cf. supra, p. 32); l’azione in quadruplum sembra intervenire solo nel secondo processo, quando il depositario decide di gestire il denaro depositato diversamente da quanto stabilito dall’amico, e pertanto può essere accusato di furtum usus. 19 Cf. § 5 Hoc quomodo depositum erat? Ut acciperes cum luxuriari desisses. Quo tempore repetebas adhuc luxuriabaris. Non debebatur ergo, nec potest videri infitiatum quod eo tempore negavit quo illi extorqueri non posset vel confitenti. 20 Cf. § 7 haec ipsa accipiendae pecuniae fames alias videtur prodere cupiditates. Satis erat homini frugi quod accepisti. Itaque et alias quoque condiciones frugalitati tuae ponit amicus paternus. 21 Cf. la celebre definizione di Paolo in dig. 47,2,1,3 Furtum est contrectatio rei fraudulosa lucri faciendi gratia vel ipsius rei vel etiam usus eius possessionisve. Un ampio studio della definizione di furto nel diritto romano e nella tradizione giuridica moderna è in Battaglia 2012 (cf. soprattutto 28 s. sulla contiguità tra furtum e infitiatio depositi).

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3 Un depositum miserabile La negazione di un deposito s’intreccia alle trame di un tiranno e di un’incerta amicizia nella decl. min. 269: Depositi sit actio. Pauper et dives amici erant, pauperi duo filii adulescentes. Cum tyrannus esse coepisset in civitate, dives facta auctione discessit. Rumor erat pecuniam apud pauperem esse depositam. Tyrannus accersit pauperem; torsit ipsum, torsit et filios eius. Cum ille pernegaret penes se esse, dimissus est. Postea tyrannus occisus est. Redit dives. Petit pecuniam, quam se deposuisse apud pauperem dicit, et duos servos, quos solos exilii comites habuerat, in quaestionem pollicetur. Ps. Quint. decl. min. 269, th. Abbia luogo un processo per deposito. Un povero e un ricco erano amici, il povero aveva due figli giovani. Avendo un tiranno preso il potere in città, il ricco mise all’asta i suoi beni e partì. Correva voce che il denaro fosse stato depositato presso il povero. Il tiranno fece venire il povero, lo torturò, torturò anche i suoi figli. Poiché quello continuava a negare di avere il denaro, fu rilasciato. In seguito il tiranno fu ucciso. Il ricco tornò. Esige il denaro, che dice di aver depositato presso il povero, e propone di far interrogare i due schiavi che aveva avuto come unici compagni di esilio.

Sono ben individuabili in questa vicenda alcuni dei motivi più ricorrenti della declamazione, che conferiscono alla negazione del deposito una particolare drammaticità: la relazione tra un ricco e un povero è complicata dalla comparsa di un tiranno,22 la cui violenza consente al declamatore di sviluppare il convenzionale locus de tormentis,23 con la conseguente discussione sull’attendibilità delle deposizioni estorte sotto tortura. Al di là delle convenzioni declamatorie, l’instaurarsi della tirannide costituisce un contesto significativo per la stipulazione del deposito. Il diritto romano, infatti, distingueva dal deposito ordinario i

|| 22 Vd. Santorelli 2014, 16–26 per una sintesi sui rapporti tra ricchi e poveri della declamazione; 177–180 sul ‘tiranno declamatorio’. Proprio il tiranno è il personaggio più frequentemente citato dai critici della declamazione e delle sue situazioni inverosimili: cf. ad es. il celebre Petron. 1,3 tyrannos edicta scribentes quibus imperent filiis ut patrum suorum capita praecidant (su cui vd. van Mal-Maeder 2012, 2–4; Stramaglia 2015a, 148–150); nonché Tac. dial. 35,5 Sic fit ut tyrannicidarum praemia aut vitiatarum electiones aut pestilentiae remedia aut incesta matrum aut quidquid in schola cotidie agitur, in foro vel raro vel numquam, ingentibus verbis persequantur (con Mayer 2001, 198). Sul punto resta fondamentale Tabacco 1985 (vd. in particolare 50; 92–94; 107– 108 per riferimenti a decl. min. 269). 23 Sul locus de tormentis vd. Bonner 1949, 112 e più recentemente Wycisk 2008, 245–247; sui riferimenti alla tortura nelle declamazioni vd. inoltre Winterbottom 1984, 364 e 366; Sussman 1994, 114–115; Bernstein 2013, spec. 46–57; Zinsmaier 2015, 203–211.

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casi in cui un individuo depositasse un bene perché costretto da calamità naturali o altri eventi imprevedibili. A caratterizzare questo tipo di deposito, detto necessario o miserabile, era dunque la causa che vi dava luogo, riconducibile non alla libera scelta del depositante ma a uno stato di necessità. Proprio in ragione di tali circostanze, la tutela del depositante avveniva tramite una sanzione consistente nella restituzione in duplum di quanto depositato: Si depositi agetur, eo nomine quod tumultus, incendii, ruinae, naufragii causa depositum sit, in duplum actionem praetor reddit, si modo cum ipso apud quem depositum sit aut cum herede eius ex dolo ipsius agitur. Inst. Iust. 4,6,17 Se si intenta una causa per un deposito, sostenendo che il deposito ha avuto luogo a seguito di un tumulto, un incendio, un crollo, un naufragio, il pretore concede un’azione per il doppio del valore del deposito, purché si agisca contro la stessa persona presso cui si è depositato, o contro il suo erede per dolo dello stesso.24

Questa sanzione, di natura penale e caratterizzata da una maggiore severità rispetto a quella prevista a tutela di altri tipi di depositi (la restituzione in simplum) è evidentemente tesa a punire il maggiore disvalore della condotta del depositario che approfitta delle particolari ristrettezze del depositante. Nel caso della decl. min. 269, il ricco non deposita il proprio denaro per una libera scelta, ma a causa di un pericolo; il minaccioso incombere del tiranno, dunque, parrebbe costringere il depositante a un deposito necessario.25 Il seguito degli eventi, tuttavia, lascia chiaramente desumere che il ricco tenterà di recuperare la sola somma depositata, agendo in simplum anziché in duplum.26 Nonostante sia originato da una situazione di costrizione, dunque, il deposito in questione è considerato ordinario. Le ragioni di questa qualificazione può essere rinvenuta nel seguente passo del Digesto: Haec autem separatio causarum iustam rationem habet: quippe cum q u i s f i d e m e l e g i t nec depositum redditur, c o n t e n t u s e s s e d e b e t s i m p l o; cum vero

|| 24 La clausola dell’editto pretorio è citata in dig. 16,3,1,1 Praetor ait: ‘Quod neque tumultus neque incendii neque ruinae neque naufragii causa depositum sit, in simplum, earum autem rerum, quae supra comprehensae sunt, in ipsum in duplum, in heredem eius, quod dolo malo eius factum esse dicetur qui mortuus sit, in simplum, quod ipsius, in duplum iudicium dabo’. 25 Sul motivo ricorrente delle brame del tiranno per i beni del ricco, e del conseguente pericolo in cui questi si trova all’instaurarsi della tirannide, vd. Tabacco 1985, 50. 26 Cf. nell’argumentum: Petit pecuniam quam se deposuisse apud pauperem dicit; così anche § 1 Depositum peto; nel corso della declamazione, inoltre, il povero è chiamato a reddere (§ 5 Quam honeste feceras si redderes!), non a duplum solvere.

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extante necessitate deponat, crescit perfidiae crimen et publica utilitas coercenda est vindicandae rei publicae causa. dig. 16,3,1,1 Una tale distinzione dei casi ha una valida ragion d’essere: chi infatti s c e g l i e d i c h i f i d a r s i e non si vede restituire il deposito d e v e a c c o n t e n t a r s i d e l l a s e m p l i c e s o m m a d e p o s i t a t a; se invece uno deposita in stato di costrizione, il reato è aggravato dalla malafede, e l’utilità pubblica va difesa a tutela della collettività.27

Si nota come la situazione riportata nella declamazione si presenta, in un certo senso, trasversale ai due casi: mentre da un lato il deposito è stato determinato da una situazione di necessitas incombente, dall’altro il ricco ha avuto la possibilità di scegliere una persona di propria fiducia come depositario.28 L’elemento dell’amicizia tra ricco e povero, così, assume un particolare rilievo nell’economia interna del discorso. Si tratta in primo luogo di un tratto indispensabile sul piano della narrazione per attirare il sospetto del tiranno e dare inizio alla serie di eventi che porteranno il caso in tribunale; sul piano più strettamente giuridico, questa relazione impedisce al ricco di agire in duplum contro l’avversario. L’esistenza di un rapporto personale tra i due personaggi, infine, contribuisce ad accentuare la caratterizzazione negativa del povero, che d’altra parte – come il declamatore non manca di rilevare – non avrebbe in alcun caso potuto restituire più di quanto indebitamente sottratto al ricco.29

4 Furto del deposito Una situazione dai risvolti giuridici più complessi è alla base della Declamazione minore 361: Qui depositum perdiderit, iuret et sibi habeat. Quidam cum depositum furto amisisset iuravit. Postea furem damnavit, exegit quadruplum. Dominus hoc quoque petit. Ps. Quint. decl. min. 361, th.

|| 27 Vd. ad loc. Arangio-Ruiz 19577, 311 e Zimmermann 19962, 207. 28 Cf. § 3 Proximum est ut quaeramus: apud quem deponendum fuit? Apud aliquem in civitate. Quis amicior mihi? In quo plus esse fidei existimavi? Hoc probandum diutius foret nisi sciretis; constitit inter omnes. 29 Cf. § 9 Indebitam pecuniam ab amico peto, et hunc potissimum quem calumniarer elegi, cum si defodi, si abscondi, cum, si hic vere pauper est, ne damnato quidem sim recepturus?

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Il denaro negato. Casi di infitiatio depositi nelle Declamazioni minori | 39

Chi perde un deposito, giuri e lo abbia per sé. Un tale, avendo perduto un deposito per un furto, prestò giuramento. In seguito fece condannare il ladro e reclamò il quadruplo della somma. Il proprietario chiede anche questo denaro.

Protagonista della vicenda è un depositario a cui è stato rubato il deposito, che pertanto non è in grado di restituire al proprietario; una legge gli consente tuttavia di prestare un giuramento che lo esimerà da ulteriori responsabilità nei confronti del depositante. Nel successivo sviluppo della vicenda, il depositario riesce a far condannare il ladro alla restituzione in quadruplum,30 ed è quindi citato in giudizio dal depositante, che reclama per sé l’intera somma. Punto centrale della controversia è stabilire chi, tra depositario e depositante, sia legittimato ad agire contro il ladro. Il principio generale dell’actio furti legittima all’azione la persona cuius interest rem salvam esse;31 si è già osservato come il deposito sia un contratto concluso nel solo interesse del depositante,32 che pertanto è il soggetto a cui compete l’azione contro il ladro: Sed is, apud quem res deposita est, custodiam non praestat tantumque in eo obnoxius est, si quid ipse dolo malo fecerit; qua de causa si res ei subrepta fuerit, quia restituendae eius nomine depositi non tenetur nec ob id eius interest rem salvam esse, furti [itaque] agere non potest, sed ea actio domino conpetit. Gaius inst. 3,207 Il soggetto cui si affida un deposito non risponde della sua custodia, ed è chiamato a rispondere solo nella misura in cui commette una frode; pertanto, se il bene gli viene sottratto, dal momento che non è tenuto alla restituzione secondo i termini del deposito né è nel suo interesse l’integrità del bene, non può agire per furto, ma quest’azione compete al proprietario.33

Dall’argumentum della decl. min. 361 sappiamo che ad agire, peraltro con successo, è stato invece il depositario;34 nel breve sermo pervenutoci a corredo della declamazione, poi, la voce stessa del maestro affermerà che tale diritto spetta al depositario soltanto, escludendo anzi apertamente che lo stesso possa valere per il depositante:

|| 30 Su questa sanzione vd. supra, p. 32. 31 Questa formulazione è di Gaio, inst. 3,203; vd. analogamente dig. 47,2,10 [Ulp.], nonché dig. 47,2,77,1. 32 Vd. supra, p. 32; e ancora p. 41, n. 40. 33 Vd. analogamente Mod. coll. 10,2,6 e dig. 47,2,14,3 s. [Ulp.]. Sulla questione giuridica posta da questa declamazione vd. il dibattito critico sintetizzato in Lanfranchi 1938, 303–308 e più recentemente Wycisk 2008, 89. 34 Vd. anche § 2 Itaque iudex quid pronuntiavit?

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Illud praeterea potens est pro illo, non potuisse dominum illum furti agere. Ps. Quint. decl. min. 361,2 Il più potente argomento in suo favore, inoltre, è che il proprietario non poteva agire per furto.35

La ragione che trasferisce dal depositante al depositario la competenza dell’actio furti dev’essere necessariamente individuata nella legge che regola l’argumentum. Il giuramento qui menzionato mi pare assimilabile a un iusiurandum necessarium, vale a dire al giuramento che poteva essere utilizzato in azioni legate alla riscossione di crediti in cui risultava determinato il quantum (certa pecunia o certa res). In tali procedimenti, l’attore-creditore aveva facoltà di richiedere al convenuto-debitore di giurare se il credito oggetto dell’azione fosse dovuto. Se il convenuto avesse giurato per l’inesistenza del credito, il processo si sarebbe concluso a suo favore; qualora invece ne avesse affermato l’esistenza, l’attore avrebbe vinto la causa.36 Nel nostro caso possiamo ritenere che il depositario fosse chiamato da questa legge declamatoria a giurare di non essersi indebitamente appropriato del deposito; una volta prestato tale giuramento, il contratto tra depositario e depositante si sarebbe automaticamente sciolto.37 Il successivo sibi habeat38 lascia intendere che, una volta affrancato dal vincolo con il depositante, il depositario possa avocare a sé ogni diritto relativo al deposito, compreso quello di perseguirne il ladro con una actio furti. Una possibilità, questa, che non sembra ammessa dal diritto positivo, ma che il declamatore avrebbe potuto desumere per analogia con altre forme di obbligazioni.39

|| 35 Si presenta qui il principale argomento in favore del depositario, mentre a parlare nella breve declamazione è il depositante. 36 Cf. dig. 12,2,7–9. Tale giuramento non si applicava alle azioni bonae fidei, tra cui rientravano le azioni di ripetizione di quanto dato in deposito; in tali azioni il giuramento poteva essere prestato spontaneamente dalla parte (iusiurandum voluntarium) o richiesto dal giudice (iusiurandum ab iudice in iudicio delatum), ma in entrambi i casi esso aveva valore di prova in mancanza di altre testimonianze o documenti scritti. Si noti però che nella nostra declamazione il bene depositato consiste in una somma di denaro ben determinata: credo dunque che abbia ragione Lanfranchi 1938, 305 nel ritenere che questa situazione possa essere assimilata a un caso di pecunia certa. 37 § 1 Ego enim a te recessi cum iurasti (dove a parlare è il depositante). 38 Sul cui uso in testi normativi vd. ad es. Gaius inst. 2,214; dig. 30,104,4 [Iul.]; dig. 45,1,8,9 [Ulp.] (cit. in Wycisk 2008, 88 n. 521). 39 In altre obbligazioni, quali il pegno o il comodato, l’actio furti principale non spettava generalmente al proprietario del bene, ma all’altro contraente, che a differenza del depositario traeva un profitto dall’obbligazione e aveva pertanto interesse nella salvaguardia del bene rubato: vd. in merito Arangio-Ruiz 19577, 370 s.; Zimmermann 19962, 933 s.

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Il denaro negato. Casi di infitiatio depositi nelle Declamazioni minori | 41

A complicare ulteriormente la situazione è l’avvenuto recupero del deposito, insieme a una somma accessoria. Il diritto romano contemplava la possibilità che un depositario perdesse il deposito senza dolo, e dunque senza doverne risponderne: il deposito era infatti un contratto stipulato senza alcun vantaggio del depositario, che dunque rispondeva della perdita o del danneggiamento del bene solo per dolo o colpa grave.40 Tuttavia, appariva chiaro che l’eventuale rinvenimento del deposito avrebbe ripristinato tutti i precedenti obblighi nei confronti del depositante. Infatti: Inde scribit Neratius, si res deposita sine dolo malo amissa sit et post iudicium acceptum reciperaretur, nihilo minus recte ad restitutionem reum compelli nec debere absolvi, nisi restituat. dig. 16,3,1,21 [Ulp.] Scrive dunque Nerazio: se il bene depositato viene perso senza frode e poi recuperato dopo che abbia avuto luogo un giudizio, non di meno l’accusato è tenuto alla restituzione, e non deve essere assolto se non restituisce.

La formula con cui si chiude il nostro argumentum, Dominus h o c q u o q u e petit, lascia intendere che il depositario abbia effettivamente restituito al proprietario il denaro originariamente depositato, ma abbia tenuto per sé la restante somma ricavata dall’actio furti, ritenendo di potersi ormai considerare la parte lesa dal furto.41 Questa prospettiva è avversata dal depositante, che considera invece di propria esclusiva pertinenza l’azione contro il ladro42 e pretende la restituzione della somma depositata con tutti i profitti che ne siano derivati. La tesi del depositante, del resto, è in linea con l’interpretazione più generale dell’istituto. Il deposito ordinario obbliga infatti il depositario alla restituzione non solo del bene depositato, ma anche di tutti i frutti che ne siano derivati durante il tempo del deposito.43 Poiché una volta recuperato il deposito tornerebbero ad applicarsi le condizioni generali dell’obbligazione, la somma accessoria ottenuta

|| 40 Cf. dig. 16,6,5,2 [Ulp.] Et quidem in contractibus interdum dolum solum, interdum et culpam praestamus; dolum in deposito: nam quia nulla utilitas eius versatur apud quem deponitur, merito dolus praestatur solus. Al dolo era equiparata la culpa lata, ovvero la grave negligenza nella custodia del bene depositato: sulla responsabilità del depositario vd. Zimmermann 19962, 208 s.; Wycisk 2008, 80 s. 41 § 2 Nimirum mihi furtum esse factum. 42 § 1 iam cum fure mihi negotium est: hic quidquid solverit ad me pertinet. 43 Cf. ad es. dig. 16,3,1,24 [Ulp.] Et ideo et fructus in hanc actionem venire et omnem causam et partum, dicendum est, ne nuda res veniat.

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dalla condanna del ladro andrebbe considerata come un interesse e, in quanto tale, come frutto da restituire insieme al deposito originario.44 Le ragioni del depositante, tuttavia, devono confrontarsi con il fatto che, come sottolineato dal maestro nel sermo, un giudice ha già consentito al depositario di perseguire il ladro, sancendo nei fatti la legittimità di quest’ultimo a rifarsi del furto subito. La natura stessa di questo deposito, d’altra parte, sembrerebbe escludere la corresponsione degli interessi: avendo come oggetto una somma in denaro, il deposito in questione dovrebbe considerarsi come irregolare, e pertanto vincolare il depositario – salvo un diverso accordo tra le parti – alla sola restituzione del tantundem.45 Contro questo argomento, il depositante assimila l’azione del depositario a quella di un proprio cognitor o procurator: in quanto tale il depositario, perseguendo il ladro, avrebbe agito per conto del depositante, e per tale ragione non potrebbe avanzare pretese nei confronti della somma di denaro recuperata nel processo contro il ladro.46 Quest’ultima, infatti, sarebbe stata ottenuta in rappresentanza (e nell’interesse) del depositante, unico legittimato all’azione per il recupero del denaro rubato.

5 Testimoni umani e divini Nelle restanti Minores in tema di infitiatio depositi troviamo due situazioni di sostanziale impasse. Nella decl. min. 312 un soldato non riesce a recuperare un presunto deposito da un commilitone, quindi lo uccide e si toglie la vita; il suo erede intenta dunque una seconda actio depositi contro l’erede del commilitone:47

|| 44 § 1 Meae pecuniae accessio ad me pertinet. 45 Cf. supra, § 2; sulla questione Zimmermann 19962, 215–219. Che il deposito di denaro non legittimi in sé alla riscossione di interessi è inoltre il presupposto di una controversia citata da Fortunaziano: Repetebat ab amico suo pecuniam cum usuris quasi creditam: ille offerebat sine usuris tamquam depositam. Inter moras iudicii lex lata est de novis tabulis; repetit ille pecuniam tamquam depositam, retinet ille quasi creditam (rhet., p. 83, 15–19 H. = 69, 15–19 Calb. Mont.; il caso è menzionato anche in Aug. rhet. p. 147, 10–14 H.). 46 § 1 Quid si enim cognitor meus, quid si procurator hoc idem respondeat? 47 La declamazione valorizza così la corresponsabilità degli eredi del depositario, che sono chiamati a rispondere in solido per il dolo del defunto: cf. ad es. dig. 16,3,7,1 [Ulp.] Datur actio depositi in heredem ex dolo defuncti in solidum: quamquam enim alias ex dolo defuncti non solemus teneri nisi pro ea parte quae ad nos pervenit, tamen hic dolus ex contractu reique persecutione descendit ideoque in solidum unus heres tenetur, plures vero pro ea parte qua quisque heres est.

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Il denaro negato. Casi di infitiatio depositi nelle Declamazioni minori | 43

Quidam a commilitone eiusdem ordinis depositum petebat. Negavit ille se accepisse. Cum res sine teste esset, 48 occidit eum a quo petebat et se. Petitoris heres petit ab herede alterius commilitonis. Ps. Quint. decl. min. 312, th. Un tale reclamava un deposito da un commilitone dello stesso rango. Quello negò di averlo ricevuto. Poiché il fatto era privo di testimoni, uccise l’uomo da cui reclamava il deposito e se stesso. L’erede del querelante reclama il deposito dall’erede dell’altro commilitone.

Nella decl. min. 353 un presunto deposito sarebbe avvenuto per mezzo di due dispensatores; quando il depositante reclama il deposito e il depositario nega di averlo ricevuto, i rispettivi schiavi sono sottoposti a tortura, ma ciascuno rende una versione dei fatti che contraddice quella del proprio padrone e conferma quella dell’avversario, costringendo i giudici a istruire un nuovo processo:49 Quidam ab infitiante petebat depositum. Dispensatores utriusque torti contraria dominis dixerunt. De integro lis est. Ps. Quint. decl. min. 353, th. Un tale reclamava un deposito da un altro che lo negava. I loro intendenti, sottoposti a tortura, dichiararono ciascuno il contrario del rispettivo padrone. Il processo ricomincia dal principio.

Entrambi i casi si presentano pressoché insolubili: il deposito è un accordo di cui generalmente sono a conoscenza solo le parti coinvolte, e che per lo più ha luogo in assenza di testimoni o documenti scritti; nel momento in cui il depositario nega che il deposito sia avvenuto, particolarmente arduo diventa per il depositante addurre testimonianze che indirizzino il caso in proprio favore. Questa difficoltà costituisce il principale ostacolo con cui si devono misurare i declamatori in casi di infitiatio depositi. I discorsi di questo filone sono generalmente impostati secondo lo status coniecturalis,50 in cui il declamatore è chiamato in primo luogo a dimostrare che il deposito contestato sia realmente stato effettuato. Le nostre declamazioni ci consentono di individuare uno schema ricorrente in tal senso: il depositante è in primo luogo chiamato a mostrare di aver

|| 48 Suppl. Rohde apud Ritter 1884, 225. 49 La partecipazione di servi e intermediari nella stipulazione del deposito e nella conseguente responsabilità è un’altra complicazione prevista dal diritto positivo: vd. ad es. dig. 16,3,1,14 [Ulp.]. 50 Su cui cf. Calboli Montefusco 1986, 60–76; Berti 2007, 115–117; cf. inoltre Quint. 7,2,50 s. (cit. infra, n. 54); 3,1.

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posseduto il denaro conteso,51 offrendo inoltre un motivo che avrebbe reso plausibile un deposito da parte sua,52 nonché le ragioni che lo avrebbero portato a scegliere quel determinato depositario.53 Una volta presentati tali indizi che rendono plausibile la sussistenza del deposito, tuttavia, al declamatore resta l’incombenza di provare che esso sia realmente stato messo in atto.54 La situazione di partenza di decl. min. 245 mostra in sé l’impossibilità di smascherare un infitiator: al depositario di questa declamazione, che ora ammette di essere stato in possesso del deposito fin dal principio, è bastato negare la transazione per ottenere l’assoluzione nel primo giudizio a cui è stato sottoposto.55 Il punto risulta persino esasperato nelle declamazioni 269 e 353, dove nemmeno la tortura del presunto depositario e degli unici possibili testimoni contribuisce alla soluzione del caso;56 mentre in 361 il deposito è ammesso soltanto perché perduto, e poi recuperato in quadruplum dal depositario stesso. In situazioni di questo genere, al declamatore che parla in favore del depositante non resta altro che tentare di invertire l’onere || 51 Cf. decl. min. 269,1 Scio hunc esse ordinem probationis, ut primum ostendam habuisse pecuniam quam deponerem. Ciò risulta particolarmente facile al depositario di questa declamazione, che è definito ricco sin dal principio (cf. anche § 1 De hoc nemo dubitat: dives fui); più difficile dimostrare lo stesso in favore del soldato di 312, di cui si può solo ammettere la possibilità di un tale possesso (312,4 Habere pecuniam potuit, manifestum est: et ipse reliquit heredes et is qui eiusdem ordinis fuit). Sulla movenza ‘metaretorica’ qui messa in atto dal declamatore, che scandisce la divisio della declamazione includendola nel discorso stesso, vd. Stramaglia 2016, 31–39. 52 Cf. 269,2 Superest ut deponendae pecuniae habuerim causam. Anche in questo caso l’argumentum si presenta più ‘generoso’ nei confronti del ricco, che trova nella possibile persecuzione del tiranno un ottimo motivo per vendere i suoi averi e darli in deposito prima di fuggire (269,2 Fuisse me in metu fortunae huius quam patior manifestum est; nihil minus fuisse rationis quam ut mecum pecuniam ferrem liquere omnibus credo); in favore del soldato si potranno solo evocare i molti rischi della vita militare (312,4 Multas deponendae pecuniae intervenire rationes inter milites manifestum est: longum iter incidit, periculosa expeditio). 53 Cf. 269,3 Proximum est ut quaeramus: apud quem deponendum fuit? Il ricco sceglierà dunque un proprio amico (269,3 Quis amicior mihi? In quo plus esse fidei existimavi? Hoc probandum diutius foret nisi sciretis; constitit inter omnes), il soldato un commilitone (312,4 Si deponenda sit, ubi credibilius est deponi quam apud hominem eiusdem ordinis?). 54 Lo schema fondamentale per casi di depositum era così delineato già da Quintiliano, cf. ancora 7,2,50 s. Nam furti, depositi, creditae pecuniae et a facultatibus argumenta veniunt (‘an fuerit quod deponeretur’) et a personis (‘an ullum deposuisse apud hunc vel huic credidisse credibile sit, an petitorem calumniari, an reum infitiatorem esse vel furem.’) … Crediti et depositi duae quaestiones, sed numquam iunctae, an datum sit, an redditum. 55 Vd. supra, n. 10. 56 Cf. 269,5 ‘Sed in tormentis’ inquit ‘perseveravi.’ Quam honeste feceras si redderes! ‘Sed et liberi perseverarunt’, con la replica di 269,15 ‘Perseverasti ut pecuniam lucrifaceres’. Cf. anche 353,4 Infitiator dicat oportet dispensatorem suum finem tormentorum quaesisse: ideo confessum ut dimitteretur.

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Il denaro negato. Casi di infitiatio depositi nelle Declamazioni minori | 45

della prova57 o, come ultima risorsa, fare appello a quegli dèi che sarebbero stati gli unici testimoni dell’accaduto.58

6 Conclusioni Le peculiarità del depositum aprivano questo istituto a considerazioni giuridiche ed etiche al tempo stesso.59 Affidando un bene a un depositario, il proprietario si esponeva consapevolmente a una serie di rischi: all’eventualità che il depositario rifiutasse la restituzione del deposito si aggiungevano i casi in cui il bene poteva essere rubato o andare altrimenti perduto. Il depositario, d’altra parte, insieme al deposito si faceva carico di responsabilità che lo avrebbero vincolato insieme ai propri eredi, senza che, generalmente, egli ne traesse alcun profitto.60 La situazione risultava generalmente complicata dalla mancanza di documenti o testimoni che potessero confermare se davvero un deposito avesse avuto luogo: ciò comportava un fattore di rischio soprattutto per il depositante, che vedeva significativamente limitate le proprie possibilità di perseguire un depositario infedele; quest’ultimo, inoltre, era garantito in tutti i casi in cui la perdita del deposito non comportasse dolo o colpa grave da parte sua, e in caso di condanna si esponeva per lo più alla sola restituzione della somma o bene depositato. Questi aspetti del depositum sono evidentemente noti al compilatore delle Minores. Nei discorsi a noi pervenuti sul tema dell’infitiatio depositi troviamo valorizzate questioni legate alle sanzioni previste a seconda del tipo di deposito,

|| 57 Così per esempio il ricco in 269,9 Indebitam pecuniam ab amico peto, et hunc potissimum quem calumniarer elegi, cum si defodi, si abscondi, cum, si hic vere pauper est, ne damnato quidem sim recepturus? Rem incredibilem, et in qua me dementiae crimine damnari necesse est!; e ancora l’erede del soldato in 312,3 Dicite igitur causam quare petierit si non deposuerat. 58 Cf. 312,3 Cum quidem aliquis dicit ‘deposui apud te, scis ipse’, quid aliud videtur advocare quam deos testes? Questo tema è ampiamente sviluppato nella Satira 13 di Giovenale, cf. in particolare 60–63 nunc si depositum non infitietur amicus, / si reddat veterem cum tota aerugine follem, / prodigiosa fides et Tuscis digna libellis / quaeque coronata lustrari debeat agna; e 75–77 Tam facile et pronum est superos contemnere testes, / si mortalis idem nemo sciat. Aspice quanta / voce neget, quae sit ficti constantia voltus. Sul motivo vd. Ficca 2009, 156–158. Uno spunto analogo è valorizzato in P.Lond. Lit. 138, IV 16–18: vd. in merito ancora Russo 2013, in part. 316. 59 Il caso della restituzione di un bene ricevuto in deposito è banco di prova per riflessioni di più ampio respiro, ad es., in Cic. fin. 3,59; off. 1,31; 3,95; Sen. benef. 4,10,1. 60 La gratuità del deposito è elemento essenziale per i giuristi del periodo classico, mentre in epoca giustinianea si ritiene che il pagamento di un modico compenso non snaturi il contratto: vd. in merito Arangio-Ruiz 19577, 309.

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laddove la stessa infitiatio si colorava di un diverso disvalore e, dunque, meritava una diversa sanzione (dalla condanna alla restituzione in duplum, anziché, in simplum nel caso di deposito necessario, a quella in quadruplum nel caso di furto vero e proprio); l’interesse del declamatore ricade, inoltre, sulle complicazioni comportate nell’interpretazione dell’istituto da casi di furto del deposito, o dall’assenza di testimonianze attendibili. Nella struttura degli argumenta interessati, come nei pur scarni discorsi a noi pervenuti, è possibile individuare precise corrispondenze con elementi del diritto positivo, spesso rielaborati per rispondere al meglio alle esigenze della declamazione. L’analisi di queste pur esili tracce consente di osservare come i declamatori sappiano rapportarsi alle questioni giuridiche della vita reale, nelle occasioni in cui, ‘messo da parte lo stupratore, vanno a discutere cause vere’, lasciando tacere ‘i veleni versati, il marito malvagio e ingrato, e i mortai che guariscono i ciechi di antica data’.61

|| 61 Iuv. 7,166–170 Haec alii sex / vel plures uno conclamant ore sophistae / et veras agitant lites raptore relicto; / fusa venena silent, malus ingratusque maritus / et quae iam veteres sanant mortaria caecos (su cui vd. in dettaglio Stramaglia 2008, 198–201).

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Giuseppe Dimatteo

La ‘pena d’infamia’ e l’inibizione dello ius accusandi Le norme e le argomentazioni in tema di infamia delle Declamazioni minori 250, 263, 265 e 275

1 Diritto e declamazione Dopo le grandi sistemazioni del secolo scorso di Bornecque, Sprenger, Lanfranchi e Bonner,1 il rapporto fra la giurisprudenza positiva romana e le disposizioni normative evocate dai retori della declamazione non è più stato oggetto di analisi sistematica. I rari contributi che si sono occupati della questione si sono limitati all’individuazione di analogie e differenze fra la regula iuris e il ‘diritto dei retori romani’, e all’individuazione, ogni qual volta gli enunciati normativi evocati dai declamatori divergessero dalla regula iuris, delle cosiddette leges declamationis.2 Solo a partire dall’ultimo ventennio le ricerche in questo ambito hanno ricevuto nuova linfa, grazie a contributi che hanno introdotto dei significativi mutamenti di prospettiva,3 consentendo il superamento dei due limiti delle indagini precedenti: il dogma della dicotomia fra norme reali e norme fittizie; l’analisi del pensiero giuridico dei retori condotta esclusivamente sul tema della declamazione, in quanto luogo in cui generalmente compaiono le norme. Ponendosi nel solco di questi recenti lavori, il presente contributo si prefigge di analizzare la concezione dell’infamia che emerge dagli enunciati normativi delle Minores 250, 263, 265 e 275; di individuare le difformità di questa concezione rispetto al trattamento dell’infamia nella giurisprudenza positiva; infine di motivare queste difformità.

|| 1 Bornecque 1902; Sprenger 1911; Lanfranchi 1938; Bonner 1949, 84–132. 2 Per un quadro della bibliografia sulla questione vd. Tabacco 1980, 103–107; Håkanson 1986, 2297–2301. e n. 80; Lentano 1999, 618–620. Contributi più recenti sul problema del rapporto fra regula iuris e norme evocate dalle declamazioni sono Langer 2007 (con status quaestionis a 17– 30); Wycisk 2008; cf. pure le posizioni di Dingel 1988, 5 e von Albrecht 1995, 1251 n. 576. 3 Beard 1993; Lentano 1999; 2005; 2014; Mantovani 2007; Bettinazzi 2014; Breij 2015a, spec. 220–224; Pasetti 2015.

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2 Le declamazioni 250, 265, 275 La declamazione 250 mette in scena il caso di due adulescentes che si denunciano a vicenda per iniuria. Per stabilire l’ordine in cui i due processi debbano svolgersi viene effettuato un sorteggio.4 Il vincitore del sorteggio, una volta ottenuta la condanna dell’avversario nell’actio iniuriarum, tenta di paralizzare con una praescriptio l’azione per ingiuria dell’avversario, in base alle due norme citate nel tema della controversia: Qui iniuriarum damnatus fuerit, ignominiosus sit. Ignominioso ne qua sit actio. Duo adulescentes invicem agere coeperunt. Sortiti sunt utrius iudicium prius ageretur. Is qui sorte vicerat egit et damnavit iniuriarum. Damnato agere volenti praescribit.5 Ps. Quint. decl. min. 250, th. Chi è stato condannato per ingiurie sia colpito da infamia. A chi è colpito da infamia non sia consentita alcuna azione giudiziaria. Due giovani si fecero causa l’un l’altro . Sorteggiarono quale delle due cause dovesse svolgersi per prima. Il vincitore del sorteggio celebrò il processo e ottenne la condanna per ingiurie dell’altro. Quando l’altro vuole farlo processare, egli muove obiezione.

La declamazione si innesta sullo status qualitatis: la quaestio è, cioè, se la praescriptio avanzata dal vincitore della prima causa sia ammissibile o meno.6 L’avvocato che tutela gli interessi del cliente infamis farà essenzialmente ricorso ad argomenti sul tempus, sforzandosi di dimostrare che il processo per ingiuria del suo assistito è iniziato nel momento della denuncia e che una praescriptio non può bloccare un procedimento in corso (§ 2). Come emerge chiaramente anche ad

|| 4 Questa procedura di estrazione a sorte dell’ordine di trattazione delle cause è accostabile unicamente alla sortitio descritta da Cic. Verr. II 2,37 (sese ... dicas sortiturum Syracusis iste [sc. Verres] edixerat) nel resoconto del processo a Eraclio di Siracusa, presieduto da Verre e intentato da palestriti siracusani con lui collusi. La sortitio dicarum di Verre non serve però a ordinare due soli processi, come qui, ma è un provvedimento periodico con cui il governatore provinciale provvede a sorteggiare l’ordine di trattazione di tutte le cause sottoposte al conventus da lui presieduto (Mitteis/Wessely 1895, 271–273; Mitteis 1895, 575; Fliniaux 1909, 546–47; Ferrari 1959, 294; Maganzani 2007, 135 e 2007a, 14–22, che ritiene la sortitio dicarum ciceroniana il residuo di una pratica greca, conservata dai Romani dopo la costituzione della provincia, per la gestione delle cause fra Siculi sottoposte alla giurisdizione romana; per un’analoga procedura in ambito greco vd. Harrison 2001, II, 87. 5 Qui e altrove il testo delle Minores è quello di Winterbottom 1984. Sull’integrazione iniuriarum di Rohde (apud Ritter 1884, 24) vd. Winterbottom 1984, ad loc. 6 In generale sulla praescriptio e il suo rapporto con lo status translationis vd. Calboli Montefusco 1975, 212–221; 1986, 142–152; Carawan 2001, spec. 34–36.

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La ‘pena d’infamia’ e l’inibizione dello ius accusandi | 49

un esame cursorio della declamazione, le implicazioni giuridiche in gioco travalicano la questione della praescriptio, intrecciandosi in vario modo al problema della sua ammissibilità. Due temi assumono particolare rilievo, considerata la mole di argomentazioni che il retore vi riserva: l’actio iniuriarum7 e l’infamia. Come si vedrà, fondamentale per la nostra indagine sarà proprio il legame che la controversia istituisce fin dal tema tra l’una e l’altra. La decl. min. 265 prospetta la seguente situazione: un uomo ha commesso ingiuria ai danni di un infamis in un tempio.8 La legge stabilisce che egli risarcisca con la somma di diecimila sesterzi sia l’ingiuriato che la comunità,9 mentre un’altra vieta all’infamis di intentare causa per ingiuria. La controversia rientra nello status legalis, in quanto si basa sull’interpretazione delle due leggi citate nel tema: Si quis in templo iniuriam fecerit, decem milia det ei cui iniuriam fecerit, decem civitati. Ignominioso ne sit actio iniuriarum. Quidam ignominiosum pulsavit in templo. Decem milia petit magistratus nomine civitatis. Ps. Quint. decl. min. 265, th. Se qualcuno ha commesso ingiuria in un tempio, paghi diecimila sesterzi all’ingiuriato e diecimila alla comunità. A chi è colpito da infamia non sia consentita l’azione giudiziaria per ingiuria. Un tale percosse un infame in un tempio. Il magistrato richiede diecimila sesterzi per conto della comunità.

|| 7 L’actio iniuriarum aestimatoria è l’esito della riforma del pretore, avvenuta probabilmente intorno al II a. C.; oltre a eliminare i tratti più inattuali della normazione delle XII tavole, come il ricorso al taglione e il sistema di pene fisse, il pretore tutelò con quest’actio anche gli atti lesivi dell’onore, del decoro e dignità della persona, originariamente non presi in considerazione dalla legislazione decemvirale. Nell’81 a. C., per effetto della lex Cornelia de iniuriis (vd. dig. 47,10,5, pr. [Ulp.]), vigente ancora all’epoca di Quintiliano, talune fattispecie di iniuria, tra cui le percosse (pulsatio), divennero oggetto di repressione pubblica e passarono nella sfera giuridica delle quaestiones perpetuae; sull’evoluzione dell’actio iniuriarum vd. in generale Hagemann 1998, spec. 50–61; 62–113. 8 Il tema è anche in Theon, Prog. 6, p. 62 P.; per l’aggravante costituita dalla sacralità del locus in cui è avvenuto il crimine vd. Quint. 6,1,16; Iul. Vict. ars., p. 396, 27 H. = 34, 10s. Giom. Cel. 9 La legge del thema non ha riscontri nella giurisprudenza romana superstite. La disposizione potrebbe essere il risultato della commistione di elementi giuridici attici ed elementi giuridici romani. In particolare, l’elemento della ripartizione della sanzione tra il danneggiato e lo Stato riecheggia una norma greca, attestata da Plut. Sol. 21, e tuttavia inerente le sole ingiurie verbali (vd. Sprenger 1911, 225 s.; Wycisk 2008, 244 n. 112); il versamento della multa allo Stato sembra peraltro riconducibile alle multae funerariae, sanzioni di statuto giuridico molto incerto, elevate nel caso di atti irriguardosi nei confronti di sepolcri o salme (su cui vd. Pfaff 1925, 1622–1625).

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50 | Giuseppe Dimatteo

Basandosi sulla seconda disposizione normativa (Ignominioso … iniuriarum), l’imputato tenta di prescrivere la sanzione da corrispondere alla comunità; il magistrato, che agisce per conto della civitas, si oppone, dimostrando che i diritti della civitas e quelli dell’ingiuriato infamis devono essere tenuti distinti. Analogamente al caso della decl. min. 250, anche qui s’intrecciano alla quaestio principale altre tematiche, e anche qui ad assumere particolare rilievo sono l’actio iniuriarum e l’infamia, di nuovo in stretto rapporto l’una con l’altra. Nella decl. min. 275 è trattato un caso sospetto di successione. Un uomo ha sorpreso sua moglie e suo fratello minore in adulterio. Il padre convince il figlio maggiore a risparmiare la vita del minore, dietro promessa di ripudiare quest’ultimo. Alla morte del padre, il fratello maggiore diviene erede universale, ma viene colpito dall’infamia in base alla legge citata nel tema: Qui ob adulterium pecuniam acceperit, ignominiosus sit. Maior frater minorem in adulterio deprehendit. Pro rogante patre et abdicationem eius promittente, dimisit. Abdicatus est adulter. Mortuo patre inventus heres qui deprehenderat. Ignominiosus dicitur.10 Ps. Quint. decl. min. 275, th. Chi riceve denaro per un adulterio sia colpito dall’infamia. Un fratello sorprese il fratello minore mentre commetteva adulterio. Poiché il padre implorava che gli venisse risparmiata la vita e prometteva di disconoscerlo, il fratello più grande risparmiò il minore. L’adultero fu ripudiato. Alla morte del padre venne fuori che il fratello che aveva scoperto l’adulterio era l’erede. È colpito da infamia.

La controversia è innestata sullo status finitivus: si deve cioè stabilire se la norma che punisce chi trae profitto da un adulterio, come i lenoni, debba applicarsi anche al maggiore dei due fratelli; costui potrebbe infatti aver perdonato il fratello adultero in maniera interessata, allo scopo cioè di ottenere l’eredità paterna.11 Le argomentazioni del fratello maggiore ruotano intorno all’interpretazione della

|| 10 Pro rogante è correzione di Pithou 1580, 109 in luogo del tràdito prorogante. 11 La disciplina in materia di lenocinium della lex Iulia de adulteriis è raccolta in dig. 48,5,30 (29), pr.–4. In pr. si legge la normativa sul lenocinium mariti: costituisce lenocinium l’aver trattenuto preso di sé la moglie adultera e aver lasciato andare l’amante, dietro percezione di un guadagno (cf. pure dig. 48,2,3,3 [Paul.]; dig. 48,5,2,2 [Ulp.]; coll. 4,3,5; Paul. sent. 2,26,8; su questa fattispecie di lenocinium vd. in dettaglio Rizzelli 1997, 138–139; in generale Mattiangeli 2011). Prima dell’emanazione della lex Iulia de adulteriis, il marito tradito poteva scegliere se uccidere l’adultero colto in flagrante o risparmiarlo previo pagamento di una multa; cf. e. g. decl. min. 279, th. Adulterum aut occidere aut accepta pecunia dimittere liceat; Hor. sat. 1,2,43; 133; e l’aneddoto varroniano in Gell. 17,18 (vd. Rizzelli 1997, 269–270; Fayer 2005, 206–208); la composizione pecuniaria dava naturalmente adito, come qui, al sospetto di connivenza fra le parti.

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grazia concessa al fratello minore e alla decisione del padre di ripudiare quest’ultimo; anche in questo caso si intreccia alla quaestio principale l’infamia. A giudicare dalla frequenza con cui viene evocata nelle Declamationes minores, l’infamia è tematica gradita al nostro retore.12 La centralità di questa tematica nelle declamazioni 250, 265, 275, e in parte, come si vedrà, nella 263, rende questi testi particolarmente adatti a una ricognizione sull’istituto e sulla sua ricezione nella letteratura declamatoria. Premessa necessaria a questa ricognizione è un’analisi del concetto d’infamia e del suo sviluppo storico-giuridico.

3 L’evoluzione dell’infamia nel diritto romano I sinonimi infamia e ignominia, costruiti entrambi in base al medesimo meccanismo morfologico, in cui in privativo si unisce rispettivamente ai sostantivi fama e nomen, indicano la ‘mancanza di buona reputazione’, o, più precisamente, la ‘cattiva reputazione’.13 L’uso dei due lessemi in campo giuridico è tardo, con un’iniziale preferenza per ignominia e con il successivo generalizzarsi, a partire dal periodo tardoclassico, di infamia, peraltro ancora senza apprezzabili differenze semantiche.14 Un dato rilevante è che, anche dopo la penetrazione di ignominia e infamia nel latino giuridico, i due lessemi non indicheranno né un preciso concetto giuridico, né tanto meno un istituto, almeno fino a un’epoca molto tarda del diritto romano.15 Una concezione abbastanza diffusa, soprattutto negli studi che si occupano soltanto tangenzialmente dello ius, è che l’infamia sia una pena, consistente in una serie di limitazioni giuridiche che colpiscono chi sia stato condannato in determinate actiones o chi svolga un mestiere vergognoso o abbia una condotta di vita deplorevole. Tale concezione non è in sé errata, ma risulta valida solo in || 12 Vd. decl. min. 263 (su cui vd. infra nel testo); 310; 365; cf. pure 260,27; 319,8; 331,7; 339,8; 14; 385,2. 13 Vd. Walde/Hofmann 19825, s. v. ignominia; nomen; inoltre Ernout/Meillet 19594, s. v. ignominia; fama. Sul rapporto di sinonimia dei due termini vd. Wolf 2010, 494 s.; Bianchi 2011, 307 s.; 2013, 9–11. 14 Wolf 2010, 492–494. Sulle ragioni di questo cambiamento nell’uso giuridico vd. Kaser 1956, 233–235; Chiusi 2010–2011, 92 s. Originariamente, così testimonia Carisio, l’ignominia è un provvedimento comminato da un organo preposto (il censore), mentre l’infamia si basa sull’opinione pubblica: ignominia imponitur ab eo qui potest animadversione innotare; infamia ex multorum sermone nascitur (p. 401, 8 Barwick). 15 Vd. Mommsen 1899, 993 s.; Arangio-Ruiz 1949, 14; Kaser 1956, 220 s; Brasiello 1962, 641–643; Mazzacane 1971, 383–385; Wolf 2010, 492; Bianchi 2013, 9 s.

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relazione al quadro normativo giustinianeo, in un’epoca in cui il provvedimento si è ormai cristallizzato dopo un lungo e complesso processo evolutivo.16 Un riesame dell’evoluzione del concetto d’infamia si deve, in epoca recente, a Joseph Georg Wolf. Lo studioso, che mette a frutto le importanti sistemazioni di Mommsen e di Kaser,17 segue le tracce dell’infamia giuridica a partire dal testo dell’editto pretorio, basandosi sulla monumentale opera di ricostruzione di Otto Lenel.18 I risultati delle sue analisi sono per molti versi dirompenti. Secondo quanto testimoniato da Gaio, Institutiones 4,182, l’editto del pretore stabiliva una serie di limitazioni giuridiche per chi avesse riportato una condanna in una delle seguenti actiones: furti, vi bonorum raptorum, pro socio, fiduciae, tutelae, mandati, depositi, iniuriarum.19 La lista di Gaio comprende tre azioni nascenti da delitto, quattro da contratto e l’azione contro il tutore.20 Il quarto libro delle Institutiones gaiane è però dedicato al processo, ed è quindi logico che il giurista abbia estrapolato dall’editto pretorio soltanto le azioni pertinenti al diritto processuale. Basandosi sul commentario ulpianeo all’editto, Lenel riuscì a integrare la lista gaiana con altre fattispecie per cui l’editto pretorio prevedeva limitazioni della persona giuridica.21 Si tratta di casi straordinariamente eterogenei che prendono in considerazione, oltre alle fattispecie propriamente criminali, anche mestieri e condotte di vita che evidentemente il pretore riteneva illegittime; era ad esempio afflitto da

|| 16 Vd. Wolf 2010, 521 s. 17 Mommsen 1899, 993–1004; Kaser 1956. 18 Lenel 19273. 19 Gaius inst. 4,182 (Seckel/Kuebler) Quibusdam iudiciis damnati ignominiosi fiunt, velut furti, vi bonorum raptorum, iniuriarum, item pro socio, fiduciae, tutelae, mandati, depositi. Sed furti aut vi bonorum raptorum aut iniuriarum non solum damnati notantur ignominia, sed etiam pacti, ut in edicto praetoris scriptum est; et recte. Plurimum enim interest, utrum ex delicto aliquis an ex contractu debitor sit. Nec tamen ulla parte edicti id ipsum nominatim exprimitur, ut aliquis ignominiosus sit, sed qui prohibetur et pro alio postulare et cognitorem dare procuratoremve habere, item procuratorio aut cognitorio nomine iudicio intervenire, ignominiosus esse dicitur. A queste actiones va aggiunta l’actio de dolo, che può essere integrata sulla base di dig. 3,2,4,5 [Ulp.] (vd. Kaser 1956, 252 n. 143; Wolf 2010, 499). Le asserzioni Sed … recte e Plurimum … sit chiariscono che nelle azioni nascenti da delitto (actio furti, vi bonorum raptorum e iniuriarum) anche la composizione pattizia della lite produceva il medesimo effetto (cf. pure dig. 3,2,7 [Paul.]). 20 Tali actiones sono generalmente definite famosae sulla base di dig. 2,4,10,12; 4,3,11,1 [Ulp.] e dig. 3,2,7 [Paul.]; sulla definizione vd. però Kaser 1956, 251, n. 139. 21 I titoli edittali ricostruiti da Lenel 19273 sono quelli de postulando, sezione Qui nisi pro certis personis ne postulent (77–80), e de cognitoribus et procuratoribus, sezione Qui ne dent cognitorem (89–91).

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limitazioni giuridiche chi facesse il gladiatore o l’istruttore di gladiatori, chi si guadagnasse da vivere recitando, chi fosse stato congedato dall’esercito con disonore, chi infrangesse il tempus lugendi e chi facesse il mestiere di lenone. Riveste la massima importanza nella testimonianza di Gaio la seguente asserzione: Nec tamen ulla parte edicti id ipsum nominatim exprimitur, ut aliquis ignominiosus sit. Secondo il giurista il pretore non avrebbe menzionato espressamente l’infamia, né avrebbe tantomeno definito qualcuno ‘infame’.22 L’editto, per quel che è possibile ipotizzare, si limitava quindi a infliggere delle limitazioni giuridiche (vd. infra) ad alcune categorie di persone, tra cui i condannati in alcune actiones. Non stride con questa interpretazione quanto asserito immediatamente dopo da Gaio (sed qui prohibetur et pro alio postulare et cognitorem dare procuratoremve habere, item procuratorio aut cognitorio nomine iudicio intervenire, ignominiosus esse dicitur): la frase va verosimilmente interpretata nel senso che fu la scienza giuridica successiva a dedurre ‘dagli svantaggi di natura giuridica disposti dal pretore che i soggetti da questi gravati ... erano da considerarsi “privi di onore”, ignominiosi’.23 La cronologia di questo intervento sull’infamia ad opera della scienza giuridica romana non è di facile determinazione; tuttavia seguendo sinteticamente le conclusioni di Wolf è possibile ricavare dati attendibili e utili al nostro discorso. Un serrato esame delle fonti giuridiche consente allo studioso di individuare nell’epoca tardoclassica del diritto romano (II-III sec.) il momento in cui la riflessione dei giuristi portò a un’assimilazione sostanziale fra sentenza di condanna in determinate actiones e l’infamia, e integrò l’infamia nell’ordinamento giuridico.24 Il processo che porterà alla cristallizzazione giustinianea dell’infamia si innesca dunque a partire dall’epoca tardoclassica, un terminus post quem che si rivelerà significativo anche per il nostro discorso. Il passo gaiano (inst. 4,182) è di fondamentale importanza anche per individuare le limitazioni giuridiche imposte dall’editto: ai condannati nelle suddette actiones e a quanti svolgessero attività deprecabili o si comportassero in maniera vergognosa era preclusa da un lato la facoltà di esercitare in iure la postulatio per una terza persona, di nominare un cognitor o un procurator; dall’altro lato, la facoltà di essere essi stessi nominati cognitores o procuratores.25 Si trattava di

|| 22 L’espressione infamis est in dig. 3,2,2,5 [Ulp.] Ait praetor: ‘qui in scaenam prodierit, infamis est’ è una glossa oppure un’interpolazione giustinianea; vd. Wolf 2010, 500 n. 60. 23 Wolf 2010, 498; vd. pure 499–505; 519–522. 24 Wolf 2010, 523–532. 25 La quasi perfetta sovrapponibilità delle fattispecie elencate dai titoli dell’editto pretorio e quelle elencate dalla Tabula Heracleensis sembra garantire che agli ignominiosi fossero preclusi

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limitazioni della capacità giuridica molto gravi, che incidevano in maniera negativa sulla vita sociale dell’individuo.

4 Divergenze declamatorie L’analisi del concetto di infamia nella sua evoluzione storica e l’individuazione delle limitazioni giuridiche imposte dal pretore ai condannati in determinate actiones ci consentono ora di ritornare ai testi declamatori richiamati sopra, nel tentativo di comprendere se e in che misura queste controversie si distacchino o aderiscano ai principi normativi del diritto positivo romano, e soprattutto nel tentativo di motivare eventuali differenze e analogie.26 Nella decl. min. 250 è possibile rilevare, fin dalla prima norma citata nel tema (Qui iniuriarum … sit), un nesso inestricabile fra la condanna in un’actio iniuriarum e l’infamia. Un analogo rapporto di causa-effetto emerge anche dalla norma citata nel tema della decl. min. 275: il mestiere di lenone, o meglio, nel nostro caso, lo sfruttamento della prostituzione della propria moglie, ha come conseguenza l’infamia (Qui ob adulterium … ignominiosus sit). Ma in questo testo il nesso fra il comportamento dell’imputato e l’infamia non compare soltanto nel dispositivo citato nel tema, dov’è più naturale aspettarselo; tale schema di pensiero è implicato dalle stesse argomentazioni del retore. Nel § 1, riferendosi ancora esplicitamente alla legge, il retore afferma infatti che la gravità del comportamento di chi guadagna denaro promuovendo l’adulterio ha spinto il legislatore a colpire tale condotta con l’infamia: ‘Qui pecuniam ob adulterium acceperit, ignominiosus sit.’ Hanc legem adversus eos primum constitutam esse dico qui pecuniam acceperunt ut adulterium committeretur, ideoque ignominiam adiunctam quod viderentur rem fecisse lenonis. Ps. Quint decl. min. 275,1

|| anche il decurionato e le magistrature; vd. Wolf 2010, 506–508. Sulla Tabula Heracleensis, probabilmente la lex Iulia municipalis emanata da Cesare nel 45 a. C., vd. FIRA I, 103–113 (nr. 18); FIRA I2, 140–152 (nr. 13); Nap 1925, 2368–2389; Crawford 1996, 355–391; Lo Cascio 2007, 146–151. 26 Il problema dell’aderenza al diritto positivo romano delle norme evocate dalle decl. min. 250, 265, 275 non è stato mai oggetto di indagine approfondita. La conclusione di Wycisk 2008, 242, secondo la quale le leges delle decl. min. 250 e 265 corrispondono alla regula iuris, è affrettata e, come si vedrà, errata. Dingel 1988 sorvola sull’argomento.

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‘Chi riceve denaro per un adulterio sia colpito da infamia.’ Ritengo che questa legge sia stata originariamente promulgata contro quelli che ricevono denaro perché venga commesso un adulterio, e che l’infamia sia stata aggiunta perché si riteneva che agissero da ruffiani.

Il rapporto di causa-effetto che porta il retore a considerare l’infamia una conseguenza automatica di una condanna nell’actio iniuriarum o del mestiere di lenone non sembra rispecchiare gli orientamenti della giurisprudenza di fine I sec. e inizio II, probabile epoca di composizione delle Declamazioni minori. Più precisamente, le disposizioni normative evocate nelle controversie esaminate anticipano il terminus post quem individuato da Wolf in epoca tardoclassica, precorrendo quel processo che condurrà all’integrazione dell’infamia nell’ordinamento giuridico e che la renderà di fatto una pena accessoria di sentenze o comportamenti ritenuti illegali. Un secondo elemento di difformità rispetto alla regula iuris si rileva nelle limitazioni giuridiche che il retore attribuisce agli infames delle sue controversie. Si è già detto che l’editto pretorio sanzionava la condanna in determinate actiones o le condotte ritenute illegali con il divieto di postulare pro alio, di nominare un cognitor o un procurator e di essere nominati cognitores o procuratores. Ebbene la norma Ignominioso ne qua sit actio richiamata nella decl. min. 250 e nella 265 (Ignominioso ne sit actio iniuriarum) mostra un inasprimento delle pur già gravi conseguenze previste dall’editto, privando gli infami delle nostre controversie dello ius accusandi, cioè della facoltà di tutelarsi giuridicamente, reagendo a un eventuale crimine perpetrato ai loro danni. Un tale inasprimento della regula iuris non compare soltanto nei temi delle declamazioni, ma sono le stesse argomentazioni del retore a rispecchiarlo con chiarezza. Nel § 3 della decl. min. 250, dopo aver sarcasticamente spiegato all’autore della praescriptio che i processi hanno inizio con la denuncia e non nel momento in cui i giudici hanno preso posto e l’oratore ha iniziato a parlare (Quid? ... Minime), il retore chiarisce gli obiettivi del divieto per l’infame di accusare, ricorrendo a concetti ed espressioni tecnico-giuridiche: Et lex quae ignominioso non dedit actionem hoc spectavit, ne omnino in causam educendi potestatem haberet, ne reum faciendi, ne in periculum perducendi. Ps. Quint. decl. min. 250,3 E la legge che nega l’azione giudiziaria a chi è colpito da infamia ha lo scopo di privarlo del tutto del potere di portare altri in tribunale, di muovere loro accuse, di esporli a rischi.

Anzitutto all’infame è tolta la potestas in causam educendi. La iunctura, variante del più comune ius educere, fa riferimento all’eductio in ius, uno degli atti costi-

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tutivi del processo giudiziario, con cui l’accusatore conduceva la controparte dinanzi al magistrato.27 Seguendo ancora le parole del retore, la disposizione ignominioso ne qua sit actio priva poi l’infame della facoltà di ‘muovere accuse a qualcuno’ (reum faciendi). Anche questa iunctura è tecnica, riferendosi a un’altra procedura costitutiva del processo romano: la nominis delatio. Dopo aver effettuato l’eductio in ius, l’accusatore denunciava il convenuto per un determinato reato, richiedendo che il suo nome fosse iscritto nell’albo dei giudicabili.28 Anche il terzo membro del periodo richiama un concetto giuridico, sempre mediante un’espressione tecnica. Il sintagma in periculum perducendi si riferisce infatti al rischio di subire una condanna a cui è esposto ogni imputato in un processo.29 La pericope non è interessante solo per la definizione dello ius accusandi. Attraverso le tre subordinate negative, giustapposte paratatticamente, il retore mette in evidenza gli elementi costitutivi dello ius accusandi, ordinandoli in una sequenza cronologica: la denuncia al magistrato costituisce il primo atto di un’accusa; l’indicazione del reato e l’iscrizione nel registro degli indagati sono il secondo atto; l’eventuale condanna dell’accusato il terzo. Attraverso questo originale processo di scomposizione il retore esclude l’infamis da ogni singolo livello dal diritto di muovere accuse, mettendo in risalto come l’interdizione dallo ius accusandi per costui sia assoluta. Estremamente significativo è anche un altro passaggio della decl. min. 250 in cui il retore afferma che è la stessa legge ad aver ritenuto l’ingiuria un crimine tanto grave da sanzionare il reo con l’inibizione dello ius accusandi: Nam si tam gravem rem et tam intolerabilem lex iniuriam putavit ut ei qui commisisset tale delictum omne ius poenae auferret, quaerendum ... Ps. Quint. decl. min. 250,7 Infatti se la legge considera l’ingiuria un fatto tanto grave e intollerabile da privare completamente chi abbia commesso un tale crimine del diritto di ottenere una punizione, bisogna …

Va rilevato che in questa argomentazione non si fa cenno all’infamia; il retore crea, cioè, un’associazione diretta tra condanna per iniuria e privazione dello ius accusandi, lasciando proprio l’infamia sottintesa. Questa omissione è emblematica di uno schema di pensiero: per il retore l’infamia è contemporaneamente l’effetto della condanna in un’actio iniuriarum e la causa della privazione dello ius accusandi.

|| 27 Santalucia 2009, 229–231. 28 Santalucia 2009, 230 s. 29 Cf. ad es. decl. min. 331,9; Quint. 2,15,9 e vd. ThlL X.1, 1462, 10–42.

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Analoghe argomentazioni s’incontrano anche nella decl. min. 265. Si tratta invero di formulazioni molto meno articolate rispetto alle pericopi della decl. min. 250, ma comunque rappresentative di uno schema di pensiero che individua nell’infamia un divieto allo ius accusandi. Nel § 5 il retore afferma: (adversarius) Non enim iniuriam dicit esse, quod ignominiosum pulsaverit cui actio non est; nel § 6 si legge: ignominioso actio non datur; nel § 8: ignominioso nihil pro se licere.

5 Valutare le differenze La struttura stessa delle Declamazioni minori, con la lex generalmente esibita nel tema, ci assicura che il diritto era il punto di partenza imprescindibile di questi testi. È un dato di fatto che solo raramente la norma del tema riproduceva fedelmente il diritto reale romano, ma è altrettanto evidente che la funzione stessa delle declamazioni non esigeva una pedissequa imitazione dello ius. I testi declamatori dovevano infatti preparare alla carriera forense: modificando una legge, omettendone dettagli anche fondamentali o esasperandola, il retore faceva fronte a esigenze didattiche, con un effetto di stimolo sulle capacità logico-argomentative e persuasive degli aspiranti oratori.30 E in questo processo di alterazione della regula iuris interveniva certamente anche la retorica, che poteva spingere l’oratore alla consapevole distorsione di norme e istituti a scopi argomentativi e di effetto. Benché, come detto, la trasformazione e l’adattamento del diritto positivo fossero connaturati ai testi declamatori, alcune considerazioni sugli enunciati normativi delle decl. min. 250, 265, 275 potranno aprire qualche nuovo spiraglio interpretativo. La valutazione delle difformità rispetto alla regula iuris riscontrate nelle norme e nelle argomentazioni in tema di infamia richiede un passo indietro all’epoca in cui i prudentes, tra fine II sec. e inizio III, istituirono un nesso tra le limitazioni giuridiche che l’editto pretorio imponeva a talune categorie di persone e lo stigma d’infamia. Tale associazione derivò verosimilmente dall’esigenza da parte della giurisprudenza tardoclassica di razionalizzare l’abbondanza e l’eterogeneità delle fattispecie che l’editto sanzionava con tali limitazioni.31 La ratio fu trovata nel denominatore comune a tutte queste fattispecie: l’ingiuria, la

|| 30 A tal proposito bastino le lucide riflessioni di Bonner 1949, 83 e Winterbottom 1982, 65; 1984, XVIII (cf. pure recentemente Berti 2015, 31 s.). Non convincente è la tesi di Fantham 1986, 364 che la giurisprudenza declamatoria fosse ‘facilitata’ allo scopo di andare incontro alle limitate competenze di tirocinanti inesperti; su questa scia, ma in maniera molto più sfumata, vd. ora Bettinazzi 2014, 149. 31 Wolf 2010, 505.

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violazione dell’istituto della tutela, la bancarotta, la prostituzione, il lenocinio, l’attività gladiatoria o scenica, il fallimento, la violazione del tempus lugendi, ecc. erano tutti comportamenti socialmente riprovevoli, valutati come deprecabili sul piano sociale. Quella della deprecabilità è evidentemente una categoria extragiuridica, una categoria che non pertiene alle leges, ma piuttosto ai mores, cioè al codice morale le cui ‘norme’ sono costituite dai giudizi della collettività su determinate tematiche.32 Nell’associare le limitazioni giuridiche sancite dal pretore allo stigma d’infamia la giurisprudenza tardoclassica operò dunque un’incorporazione dei mores nella regula iuris. Il più volte citato passo gaiano, così fondamentale perché permette di datare la prima tappa della transcodificazione dei mores nella regula iuris, non consente tuttavia di valutare la dinamicità di questa transcodificazione, che non può essere consistita in un evento realizzatosi ex abrupto, ma deve essere piuttosto stata un processo maturato grazie a riflessioni e modifiche successive. Le declamazioni esaminate ci aiutano a restituire dinamicità a tale processo, colmando i vuoti generati dall’intermittenza e dalla frammentarietà delle testimonianze giuridiche giunte a noi. Il rapporto di causa-effetto fra iniuria o lenocinio e l’infamia, così eccentrico rispetto al coevo diritto pretorio, testimonia che, in tema d’infamia, il processo di transcodificazione dei mores nelle leges doveva essere già vitale fra la fine del I secolo e gli inizi del II. Non deve stupire che i nostri testi declamatori, su questo punto, anticipino di circa un secolo la giurisprudenza successiva. Come è stato dimostrato da Mario Lentano, i retori della declamazione latina mostrano un costante interessamento verso tematiche afferenti, come l’infamia, all’ambito morale.33 Tale interessamento si traduce sovente in un processo di travaso nel campo giuridico di norme afferenti all’ambito dei mores, definito dallo studioso ‘giuridicizzazione dell’etica’.34 Nella fattispecie specifica il nostro retore attinge l’infamia dall’ampio bacino di norme etiche prive di una specifica disciplina giuridica. Operando in questo modo, oltre a farsi testimone di un dibattito verosimilmente già in corso nella giurisprudenza contemporanea, il retore si fa collettore di istanze sociali e culturali attive alla sua epoca su determinati temi e le problematizza, proponendole come oggetti di discussione anche all’esterno delle || 32 Vd. già von Savigny 1888, 202–207; poi Wolf 2010, 505; Chiusi 2010–2011, 91. A tal proposito cf. dig. 37,15,2, pr. [Iulian.] Honori parentium ac patronorum tribuendum est, ut, quamvis per procuratorem iudicium accipiant, nec actio de dolo aut iniuriarum in eos detur: licet enim verbis edicti non habeantur infames ita condemnati, re tamen ipsa et opinione hominum non effugiunt infamiae notam, ove è nettamente percettibile una distinzione fra infamia giuridica, sancita dall’editto pretorio, e infamia ‘sociale’, sancita dal giudizio della comunità. 33 Lentano 1999, 618; vd. pure Breij 2015a, 223 s. 34 Lentano 2005, 566.

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declamazioni. La spiccata sensibilità del nostro retore nei confronti di tematiche etiche e sociali risulta chiaramente anche da alcune argomentazioni della decl. min. 263, altra controversia in cui proprio l’infamia gioca un ruolo fondamentale. Un tale si è opposto senza esito a due proposte di legge; ora rischia l’infamia perché si oppone anche a una terza rogatio, che ha per oggetto proprio il condono dell’infamia a tutti i cittadini che ne sono stati colpiti.35 Il § 8 della controversia costituisce una breve ma significativa parentesi sull’aequitas;36 qui il retore adduce la motivazione che dovrebbe far propendere per l’inflizione all’imputato dell’infamia: Enimvero huic aliquis rogationi contradicit tam misericordi, tam leni, quae civium numerum ampliat! Si alius quilibet contradixisset, inhumanam rem fecisset. Ps. Quint. decl. min. 263,8 Ma davvero qualcuno si oppone a questa proposta tanto misericordiosa e benevola che amplia il numero dei cittadini! Se un’altra persona qualunque si fosse opposta, avrebbe compiuto un atto inumano.

Con le sue obiezioni alle rogationes l’imputato sta ostacolando le decisioni della cittadinanza, con grave danno delle istituzioni. Nella fattispecie dell’ultima rogatio, l’imputato contrasta il reintegro degli infami nel novero dei cittadini, un provvedimento definito dal retore tam misericors e tam lenis, mettendo in atto, sempre nella valutazione del retore, un comportamento disumano (inhumanam rem). Questa argomentazione non è un’enfatizzazione retorica; è invece emblematica || 35 Decl. min. 263, th. Qui tribus rogationibus contradixerit nec tenuerit, ignominiosus sit. Duabus quidam rogationibus contradixit; non tenuit. Tertia rogatio ferebatur qua ignominia remittebatur notatis. Contradixit et huic; non tenuit. Dicitur ignominiosus. Tecnicamente la controversia si innesta sullo status qualitatis: si discute se l’approvazione della rogatio che reintegra gli infami sia applicabile o meno all’imputato. Legge citata nel tema non è presente nelle fonti giuridiche romane a noi note, e potrebbe derivare da una contaminazione con un aspetto procedurale della γραφή παρανόμων attica (sulla complessa questione vd. Lécrivain 1891, 689; Sprenger 1911, 228; Paoli 1953a; Winterbottom 1984, 346; Wycisk 2008, 224 s.). Questa γραφή poteva essere intentata da qualsiasi cittadino greco contro il promotore di un decreto ritenuto incostituzionale (παρανόμων); una triplice condanna in questo processo comportava, come pena accessoria, l’ἀτιμία (sulla γραφή παρανόμων vd. Gerner 1949; Wolff 1970, 12–44; Hansen 2003, 303–313). È vero che nella declamazione a essere passibile di infamia è un cittadino che si opposto ad un decreto e non, come avviene in ambito greco, il promotore del decreto stesso, ma le analogie – l’infamia/ἀτιμία e la triplice soccombenza – sono troppo marcate per escludere recisamente la penetrazione nella declamazione di elementi giurisprudenziali attici. 36 Sull’utilizzo dell’aequitas per argomentazioni contro la lettera della legge o per corroborare una quaestio iuris vd. Bonner 1949, 46–49; Fairweather 1981, 155; 157; Berti 2007, 93 s.; Cornu Thénard 2007, spec. 387–408.

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della piena consapevolezza, da parte del retore, delle conseguenze etico-sociali dell’infamia. Il provvedimento non gravava infatti solamente su colui che ne era colpito, ma costituiva un elemento di disturbo dell’intero ordine sociale, risultando del tutto indesiderato anche nell’interesse pubblico.37 L’infamia generava infatti cospicue interruzioni in quella rete di vincoli personali che costituivano la base della vita privata, pubblica, politica e sociale romana. I rapporti di parentela, ad esempio, quelli di affinità, quelli clientelari e quelli basati sull’amicitia attivavano una serie di officia, che i contraenti di questi rapporti si impegnavano a onorare, in un mutuo scambio di benefici. Ma la sussistenza e l’effettività di questi rapporti richiedevano che ciascuno dei contraenti fosse nel pieno possesso delle proprie capacità giuridiche; la presenza anche di un solo infamis in questa rete di rapporti avrebbe infatti potuto paralizzarla, con detrimento di tutti i suoi contraenti e con danno per l’intera società. Proprio la tendenza del retore alla discussione di norme non scritte, o meglio di norme scritte esclusivamente nel codice culturale dei mores, è ancora la chiave per interpretare l’altra sfasatura rispetto alla giurisprudenza positiva, riscontrata nelle decl. min. 250 e 265: l’inasprimento delle limitazioni comportate dall’infamia. Il punto della questione non è stabilire, come potrebbe sembrare a uno sguardo superficiale, se il retore caldeggi un effettivo inasprimento delle limitazioni previste, alla sua epoca, dal diritto pretorio. Piuttosto, e più sottilmente, il retore recepisce la valenza sociale di queste limitazioni, importa la tematica nei suoi testi e infine la proietta problematizzata all’esterno delle declamazioni, cogliendo le riflessioni giurisprudenziali in materia o sollecitandole in prima persona. Un ritorno a due dei testi declamatori già esaminati, e soprattutto ad alcune argomentazioni che ne formano l’ossatura, consentirà una valutazione più piena del particolare modus operandi del nostro retore. Nel § 4 della decl. min. 250, il declamatore sta cercando di dimostrare che se qualcuno ha subito un’ingiuria prima di diventare infame, ha il diritto di rivalersi in giudizio contro chi l’ha ingiuriato. Al contrario, se l’ingiuriato fosse stato già infame al momento del reato, la vicenda avrebbe avuto un esito differente: Accedit et illud, quod quaerendum est ignominiosone qua sit actio iniuriarum earum quae factae sint postea quam ignominiosus esse coepit. Fecit iniuriam aliquis et fecit frustra ignominioso. Videtur minus peccasse quam si aliquem civem, cui integer status esset, laesisset. Hunc contemptum utique noluit damnationis lex esse nisi post damnationem. Hoc autem de quo quaeritur confitearis oportet actum esse ante damnationem. Ps. Quint. decl. min. 250,4

|| 37 Wolf 2010, 533–543.

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La ‘pena d’infamia’ e l’inibizione dello ius accusandi | 61

Inoltre bisogna esaminare se un eventuale processo intentato da un individuo colpito da infamia riguardi le ingiurie da lui subite dopo che è stato colpito da infamia. Qualcuno ha commesso un’ingiuria, e però senza conseguenze legali, perché l’ha commessa ai danni di una persona colpita da infamia. Si ritiene che abbia commesso un crimine meno grave di quello compiuto ai danni di un cittadino la cui capacità giuridica non è soggetta a limitazioni. Ma la legge non vuole affatto che si trascuri la possibilità di essere condannati per ingiuria, se non dopo la condanna dell’ingiuriato. Devi però ammettere che il fatto in questione è avvenuto prima della condanna.

Una persona colpita da infamia, è questo il senso dell’argomentazione, può essere ingiuriata senza che l’atto comporti conseguenze penali per l’aggressore: Fecit iniuriam aliquis et fecit frustra ignominioso. Si tratta di un’argomentazione estrema, al limite dell’antigiuridico, perché, ammettendo l’impunità per chi compia reati contro degli infami, finisce quasi per legittimare i reati contro questa categoria di persone e postula per esse la totale mancanza di tutele giuridiche. L’affermazione si stempera nel periodo successivo (Videtur … laesisset), ove il retore asserisce che un reato compiuto ai danni di un infame è ‘meno grave’ (minus peccasse) di uno compiuto contro un individuo la cui capacità giuridica non è soggetta a limitazioni. L’asserzione, in realtà, non modifica in maniera sostanziale il senso complessivo dell’argomentazione, prospettando anzi l’esistenza di una vera e propria discriminazione giuridica nei confronti degli individui bollati d’infamia. Nel periodo successivo si registra una spostamento di focus: le argomentazioni generiche sui soggetti colpiti da infamia lasciano il posto a una focalizzazione sullo specifico caso d’iniuria, oggetto della declamazione. Lo schema di pensiero resta comunque inalterato: chi compia atti ingiuriosi contro chi sia risultato infame in seguito a giudizio può trascurare il rischio di una condanna (Hunc … damnationem), il che equivale a ribadire che un crimine contro un infame quasi non costituisce reato. Il § 6 della decl. min. 265 costituisce, per così dire, la palinodia delle argomentazioni della decl. min. 250, appena esaminate. L’imputato, che ha commesso ingiuria ai danni di un infame, potrebbe scegliere di difendersi sostenendo che un crimine non è punibile se commesso ai danni di chi è privo di ius accusandi. A questa possibile argomentazione della controparte, il retore reagisce affermando: Non enim continuo, si ignominioso actio non datur, licet adversus ignominiosum facere quod quisque velit. Ps. Quint. decl. min. 265,6 Anche se all’infame non è concessa l’azione giudiziaria, non ne consegue necessariamente che sia consentito fare ciò che si vuole ai danni di un infame.

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L’assoluta mancanza di tutela giuridica dell’infamis, affermata con decisione al § 4 della decl. min. 250, viene qui recisamente negata dal retore, con un ribaltamento argomentativo che può sembrare paradossale o scandalosamente contraddittorio. Ma il retore delle Minores, come si è già visto a proposito dell’inasprimento delle limitazioni comportate dall’infamia, non è un legislatore, né pretende di esserlo. Egli è piuttosto un esperto di diritto, i cui testi lasciano intravedere in filigrana un processo di riflessione su un dibattito attivo a livello sociale. Nel cogliere le tensioni esistenti tra le leges e i mores il nostro retore non assume un atteggiamento dogmatico, ma cerca di interpretare tali tensioni, proiettando all’esterno dei suoi testi gli esiti, anche provvisori, della sua analisi interpretativa.

6 Conclusioni L’analisi e l’interpretazione delle decl. min. 250, 263, 265 e 275 hanno consentito di rilevare che, in tema d’infamia, sussistono delle sfasature tra il diritto positivo e il complesso di norme alla base di queste controversie. Rappresentano una deviazione particolarmente vistosa dallo ius positivo: (1) il nesso di causa-effetto istituito dal retore fra l’infamia e determinati comportamenti delittuosi o eticamente deprecabili; (2) l’inasprimento delle limitazioni giuridiche imposte agli infames. Tali elementi di difformità sono l’ennesima spia dell’attenzione del nostro retore alle relazioni fra leges e mores e il segno del suo sforzo interpretativo delle tensioni, emergenti anche a livello sociale, fra leggi scritte e leggi non scritte. Nel recepire nell’apparato normativo e argomentativo delle sue controversie le norme non scritte, ma condivise dalla collettività, il retore adotta un’ottica di problematizzazione, senza proporre o tantomeno imporre alternative definitive alle leggi vigenti. Lo studio della giurisprudenza evocata dai testi appartenenti alla costellazione declamatoria, specialmente se condotto attraverso il vaglio delle argomentazioni – vera spina dorsale di quei testi –, consente di assolvere definitivamente la declamazione dall’accusa di scarsa aderenza alla realtà, anche giuridica, della città. L’adozione di questo punto di vista non solo cancella il suddetto inveterato luogo comune, ma anzi, in definitiva, lo ribalta: nel farsi collettore di istanze sociali e traduttore dei mores nelle leges, il retore delle Declamazioni minori rivela un’attenzione molto concreta alla realtà sociale e giuridica che lo circonda; in questa prospettiva, una larga parte degli hapax giuridici, delle forzature di leggi e, più in generale, delle deviazioni dalla normativa vigente, che emergono dalle Minores, non può più essere derubricata a fantasiosa invenzione dell’autore, ma va intesa come sostanziale intervento interpretativo di quella realtà con cui il retore interagisce.

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Mario Lentano

Auribus vestris non novum crimen Il tema dell’adulterio nelle Declamationes minores

1 È stato osservato da tempo l’ampio spazio che occupano all’interno della declamazione latina le controversie relative ai conflitti familiari. Attriti fra padri e figli, rapporti ostili o viceversa incestuosi fra matrigne e figliastri, scontri a volte mortali tra fratelli e tra mariti e mogli caratterizzano una quota cospicua di temi: per ragioni che gli studiosi hanno diversamente identificato, i retori scelgono di fare della famiglia una sorta di luogo geometrico della conflittualità, il catalizzatore delle tensioni che segnano i rapporti fra i litigiosi abitanti di Sofistopoli.1 È dunque lecito aspettarsi che in un simile contesto anche il tema dell’adulterio, che mette in campo una questione così rilevante nella cultura e nell’immaginario dei Romani, sia adeguatamente rappresentato nei testi di scuola giunti sino a noi; e in effetti una semplice scorsa ai quattro corpora superstiti, quello di Seneca il Vecchio, i due dello Pseudo-Quintiliano maggiore e minore e gli excerpta di Calpurnio Flacco, senza considerare i materiali presenti nel Quintiliano sicuramente autentico e poi nella ricca manualistica retorica tardo-antica, mostra un cospicuo numero di temi che ruotano intorno ad un adulterio commesso o sospettato.2 Salvo errore, ne ho contati sei nell’antologia senecana, sedici nella raccolta delle

|| 1 Su ognuno di questi rapporti andrebbe citata una specifica bibliografia. Per quanto attiene in particolare alle relazioni fra padri e figli e a quelle tra fratelli, rimando ai saggi contenuti in Brescia/Lentano 2009; sulla figura della matrigna, vero e proprio stereotipo declamatorio (e non solo), cf. Casamento 2002, 101–124 e Casamento 2015; cf. anche van Mal-Maeder 2007, 128–136. Meno studiati i rapporti tra mogli e mariti, che emergono soprattutto nelle controversie fondate sulla actio iniusti repudii e sulla actio malae tractationis (ma anche sulla actio ingrati, come avviene ad esempio in Sen. contr. 2,5); in tempi recenti cf. Lentano 2012 e 2014, 90–94. 2 Ciò nonostante, il motivo dell’adulterio non ha attirato particolarmente, fino a tempi recenti, l’attenzione degli studiosi, che si limitano perlopiù ad accennarvi nel contesto di trattazioni più ampie. Ragguagli sul tema in Sprenger 1911, 198–203; Lanfranchi 1938, 439–462; Bonner 1949, 119–122; Paoli 1976, 93–96; Migliario 1989, 538–543; Langer 2007, 70–75; Lentano 2012, 12–14 e 2014, 85–100; Rizzelli 2012, in particolare 294–300; Bettinazzi 2014, che ringrazio molto per avermi fornito copia del suo pregevole lavoro prima che fosse disponibile al pubblico. Un cenno cursorio in Richlin 1981, 390 s.

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Minores, otto in Calpurnio, mentre il tema non compare nelle diciannove Declamazioni maggiori, a meno di includere nel conteggio il sospetto incesto tra madre e figlio discusso nei due pezzi finali della raccolta.3 Complessivamente si tratta dunque di una trentina di casi, che costituiscono all’ingrosso il 10 per cento delle controversie conservate: ben a ragione l’accusatore della Declamazione minore 249 poteva affermare, rivolgendosi ai giudici ma strizzando l’occhio anche ad allievi e maestri delle scuole di retorica, hoc auribus vestris non novum crimen est.4

2 Va osservato preliminarmente che, non in tutti i temi in cui compare, l’adulterio costituisce l’oggetto diretto del dibattito prospettato dai declamatori: in non pochi casi, esso rappresenta infatti poco più di un pretesto per una discussione che verte in realtà su questioni diverse. Così, al centro della controversia 4,7 di Seneca c’è un uomo che ha ucciso il tiranno dopo che questi lo aveva sorpreso in adulterio insieme con la moglie e chiede poi alla città il premio che, secondo una ben nota legge scolastica, spetta al tirannicida: oggetto della controversia è dunque l’ammissibilità della richiesta, la statura morale del richiedente e la legittimità stessa di definire ‘tirannicidio’ un atto non premeditato ma compiuto d’istinto per sottrarsi a un imminente pericolo di vita. Altre volte, come nelle controversie senecane 2,7 e 6,6 o nel secondo estratto di Calpurnio, l’incriminazione di adulterio è avanzata ex suspicione, e si tratta allora di capire se gli indizi a disposizione dell’accusa siano sufficienti a configurare il reato. E così via. Una declamazione non è fatta però soltanto di rapporti e situazioni, ma anche di norme che disciplinano il comportamento delle parti o riconoscono loro determinate facoltà o prerogative. Nel caso delle controversie relative all’adulterio, colpisce anzitutto la varietà ed eterogeneità di tali norme, già all’interno della sola raccolta delle Minores: esistono regole che potremmo definire di procedura penale, come quella che vieta ad un marito di agire in tribunale con l’adultera se prima non l’abbia fatto con l’adultero (è il caso della decl. min. 249), altre che

|| 3 L’assenza del tema dalle Maiores potrebbe dipendere dagli incerti della tradizione manoscritta: con ogni probabilità riguardava infatti un caso di adulterio il Caput obvolutum, una Maior non compresa nella raccolta giunta sino a noi ma attestata in Lact. inst. 5,7,6 (= fr. 6 L.; cf. Santorelli/Stramaglia 2015, 290 s.). 4 Quint. decl. min. 249,2. Preciso che qui e sempre le Minores sono citate secondo il testo stabilito da Winterbottom 1984, che preferisco a quello più recente ma più ‘interventista’ di Shackleton Bailey 2006.

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consentono al marito di incamerare i beni dell’adultero colto sul fatto, come accade nella decl. min. 273.5 Riguardo alla pena da infliggere in caso di flagranza del reato, una legge isolata dispone l’accecamento dell’adultero (decl. min. 357), un’altra riconosce alla parte lesa la possibilità di accettare una compensazione in denaro in alternativa all’uccisione dei due amanti (decl. min. 279), anche se la accepta pecunia rende l’adultero ignominiosus (decl. min. 275); ignominiosus è anche l’uomo bis notatus per adulterio, cioè, come interpreta Michael Winterbottom, colui che sia stato colpito dalla nota censoria (decl. min. 310).6 Anche dal punto di vista delle procedure giudiziarie da mettere in atto in caso di adulterio le Declamazioni minori presentano una situazione sfaccettata. In alcune controversie il sospetto adulterio della moglie è assoggettato alla cognizione del marito, che può autonomamente disporne il ripudio dopo aver imbastito una sorta di processo domestico. Accade così nella decl. min. 300, in cui un marito investe il figlio del compito di giudicare la moglie, e nella 330, in cui è invece il marito stesso a ripudiare la presunta adultera. Nel primo dei due testi, dopo che il figlio ha assolto la madre dall’accusa, la donna viene deferita al pubblico tribunale e condannata per iniziativa del marito, evidentemente insoddisfatto della sentenza pronunciata in casa e persuaso che la decisione del figlio fosse viziata da eccessiva indulgenza nei confronti della madre. Qui dunque giurisdizione domestica e ricorso al publicum iudicium appaiono alla stregua di opzioni alternative, alle quali il marito può indifferentemente o in momenti successivi fare ricorso; e forse non sarà senza interesse ricordare che in età tiberiana un’accusa di adulterio venne sottoposta dal principe stesso, in deroga alla lex Iulia de adulteriis, al giudizio del consilium domesticum, a quanto pare con l’intenzione di ottenere una pena più mite rispetto a quella prevista dalla normativa augustea.7 Nella decl. min. 330 accade invece che il figlio, scacciato dal padre perché mantiene a sua insaputa la madre ripudiata, rilevi polemicamente come sulla colpevolezza della madre non ci sia stato alcun pronunciamento dei giudici e come dunque resti aperta la questione se la donna fosse incappata in un maledictum o in un crimen, se il padre avesse prestato ascolto troppo frettolosamente a voci infondate o disponesse di prove più solide.8 Ad essere denunciata è dunque l’inadeguatezza di decisioni assunte entro la sola sfera domestica, senza passare dal

|| 5 In tempi recenti entrambe queste declamazioni pseudo-quintilianee sono state oggetto dell’attenzione di Bettinazzi 2014, rispettivamente 124–137 e 137–146. 6 Winterbottom 1984, 455. 7 Si tratta del caso di Appuleia Varilla, sul quale informa Tac. ann. 2,50,3. 8 Cf. in particolare decl.min. 330,5 Et hercule facilior mihi vindicandi potestas ab isto crimine, quod non est litigatum, non est quaesitum, non est pronuntiatum maledictum fuerit an crimen.

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vaglio di una istanza terza rispetto alle parti: un motivo che ricorre già in Seneca il Vecchio e che rispecchia verosimilmente la progressiva erosione dei poteri repressivi attribuiti al mariti (o ai padri) a tutto vantaggio dell’intervento pubblico, erosione della quale la stessa disciplina augustea sull’adulterio, di cui diremo tra breve, costituiva una tappa particolarmente rilevante.9 Nei casi in cui sussista la flagranza del reato, invece, la norma di gran lunga prevalente, attestata in un ampio numero di declamazioni e presente a più riprese nella manualistica specializzata, è quella che impone l’uccisione di entrambi gli adulteri (Adulterum cum adultera liceat occidere o Adulteros liceat occidere).10 Nella sua formulazione più ampia, Adulterum cum adultera qui deprehenderit, dum utrumque corpus interficiat, sine fraude sit, essa si legge esclusivamente in due controversie di Seneca, la 1,4 e la 9,1: qui si specifica che l’uccisione, per essere legittima, richiede la flagranza del reato e deve coinvolgere entrambi gli amanti; quel che più conta, tale facoltà viene riconosciuta su un piano di parità a chiunque abbia colto sul fatto gli adulteri. Un simile quadro normativo, oscillante e per certi versi contraddittorio, può sorprendere solo chi abbia scarsa familiarità con la declamazione. La controversia è anzitutto uno strumento di insegnamento e ad essa si richiede in primo luogo di funzionare didatticamente; nel congegnare i loro temi, i retori si sentono pertanto sciolti dall’obbligo di adottare riferimenti legislativi uniformi e omogenei da una declamazione all’altra; al contrario, le disposizioni di legge vengono adattate di volta in volta all’obiettivo di costruire una situazione di conflitto tra le parti e di porre all’allievo difficoltà ragionevolmente ma non banalmente sormontabili.11 Vediamo allora più da vicino i singoli casi, concentrando in particolare la nostra attenzione su quei temi in cui è prevista la flagranza di reato, seguita di norma dall’uccisione degli amanti (o di uno di essi).

|| 9 Che le decisioni assunte in casa, senza passare dal vaglio di un pubblico tribunale, rappresentino una forma inappropriata di accertamento della verità è un motivo che ricorre più volte nella controversia 7,1 di Seneca (cf. in particolare 7,1,16; 19; 22–24; 26), dove è questione di un padre che ha giudicato e condannato in casa un figlio sospettato di parricidio e ne ha affidato al fratello l’esecuzione. 10 Si può vedere l’elenco delle leggi che si trova in calce all’edizione di Winterbottom 1984 e a quella di Håkanson 1978. 11 Non è mia intenzione affrontare qui la questione del rapporto fra leges scholasticae e giurisprudenza della città, che affatica da lungo tempo gli studiosi e ha dato luogo a pronunciamenti anche molto diversi. Una messa a punto recente, alla quale mi permetto di rimandare, ho tentato in Lentano 2014; su questo tema sono centrati inoltre molti degli interventi raccolti in Amato/Citti/Huelsenbeck 2015.

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La decl. min. 244, che apre la sezione delle Minores giunta sino a noi, parzialmente mutila e priva del tema, prospetta il caso di un marito che ha proceduto all’uccisione degli adulteri mentre si trovava in esilio: oggetto di controversia è dunque se la menomazione civile connessa alla pena inficiasse anche la possibilità per l’uomo di valersi dello ius occidendi.12 La 277 presenta un interessante esempio di conflitto fra leggi, in questo caso quella che riconosce al marito il diritto di uccidere la moglie adultera e quella che dispone di differire sino al momento del parto il supplizio della donna gravida: ad essere accusato di omicidio è infatti un marito che ha colto in adulterio e ucciso la moglie praegnas senza tener conto della dilazione imposta dalla norma.13 Nel tema della declamazione 284 l’adulterio coinvolge un sacerdote, il quale invoca a proprio vantaggio la legge che gli concede la unius supplicio liberandi potestas ma viene ugualmente ucciso dal marito, poi accusato di omicidio. Il tema è menzionato anche nella Institutio oratoria di Quintiliano e presuppone a sua volta la norma che impone l’uccisione contestuale di entrambi gli adulteri: all’accusa si suggeriva infatti tra l’altro di mettere in luce come il sacerdote, salvando se stesso, avrebbe finito di fatto col risparmiare anche l’adultera, violando così la legge che limitava ad un solo individuo la potestas a lui riconosciuta.14 Le declamazioni 286 e 291 hanno un tema simile: nella prima un giovane fa violenza alla promessa sposa del fratello e la ragazza, su preghiera del padre di lui, sceglie le nozze riparatrici (qui ad essere presupposta è la ben nota lex raptarum, che consente alla donna violata di optare fra la morte del suo seduttore o il matrimonio con lui); quando però il marito sorprende la moglie in adulterio con il suo antico sponsus uccide entrambi gli amanti, nonostante il padre intervenga nuovamente, questa volta a favore dell’altro figlio. Nella declamazione 291 invece un giovane si innamora della moglie del fratello sino ad ammalarsene gravemente; il padre, conosciuta l’origine del languor, induce l’altro figlio a cedere la propria moglie al fratello, che però uccide i due ex coniugi quando li sorprende in adulterio, ignorando anche in questo caso le preghiere paterne.15

|| 12 Il tema doveva essere topico in declamazione, perché viene evocato anche da Quint. 7,1,7 s. ‘Adulterum’ inquit ‘cum adultera occidere licet’ … ‘sed tibi’ inquit accusator ‘illos non licuit occidere; exul enim eras’ aut ‘ignominiosus’. 13 Di questa controversia si occupa in particolare Graziana Brescia in Brescia/Lentano in corso di stampa. 14 Cf. Quint. 5,10,104, con Fayer 2005, 242 s. 15 All’analisi di queste due controversie pseudo-quintilianee è dedicato il volume di Brescia/Lentano 2009.

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Il tema della controversia 335 è particolarmente involuto, un vero specimen della sbrigliata creatività dei retori. Un ragazzo sospettato di intrattenere una relazione con la matrigna parte insieme con il padre; i due si ritrovano separati in seguito all’attacco di una banda di ladroni; tornato a casa, il padre sorprende la moglie in adulterio e la uccide, mentre riesce solo a ferire l’amante; di lì a poco torna a casa anche il figlio, ferito, che alla domanda del padre su chi gli avesse procurato le lesioni accusa i briganti. A quel punto l’uomo, persuaso che il figlio vulneratus sia in realtà l’amante della moglie, chiede di potersi togliere la vita. Nella declamazione 347 viene accusato di omicidio un marito che ha ucciso la moglie e l’uomo da lei sposato dopo aver avuto la notizia, evidentemente infondata, che il marito stesso era morto durante un viaggio. Infine, la controversia 379 presenta il caso di un ricco che uccide un povero suo nemico per averlo sorpreso in adulterio con la moglie; qualche tempo dopo, un parassita del ricco, sottoposto a tortura per sacrilegio, rivela tra l’altro che quella uccisione non era stata legittima, lasciando intendere che l’uomo aveva artificiosamente creato una situazione che gli consentisse di liberarsi del suo nemico senza l’apparenza di violare la legge. Anche restringendo il nostro orizzonte alla sola raccolta delle Minores, dunque, e ulteriormente isolando al suo interno i temi che prevedono la flagranza del reato, è evidente che il motivo dell’adulterio assume una grande varietà di forme e compare in situazioni molto differenziate; al tempo stesso, tale pluralità di sfaccettature lascia comunque intravedere alcuni elementi ricorrenti, alla cui illustrazione vorrei dedicare le prossime pagine.

3 In primo luogo, la declamazione non mette mai in discussione, in quanto tale, il diritto del marito di uccidere la propria moglie: la legge che gli riconosce tale diritto è attestata, come si è detto, in tutte le raccolte superstiti e viene menzionata ripetutamente nella manualistica specializzata. Anche nelle controversie in cui il marito è trascinato dinanzi al tribunale, ad essere in questione non è mai la legittimità del suo atto in quanto tale, ma semmai la piena integrità giuridica dell’uccisore, come per l’esule della declamazione 244, oppure l’instaurarsi di un conflitto con altre leggi, come quella che impone di rinviare il supplizio della gravida nella declamazione 277. In altri casi il marito viene a trovarsi in tribunale non in seguito all’uccisione della moglie, ma per aver impugnato il ripudio a lui inflitto dal padre dopo che questi lo ha vanamente pregato di astenersi dalla vendetta, o persino, come accade nella declamazione 279, per non aver ucciso l’adultero, scegliendo piuttosto di accettare da lui un indennizzo monetario; e la abdicatio paterna, come si sa, si

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applica appunto a quei comportanti che non sono di per sé illeciti, ma che vengono percepiti come una violazione delle regole di comportamento cui un figlio deve attenersi o come una lesione da lui inferta alla dignità del padre.16 Ora, il riconoscimento al marito dello ius occidendi nei confronti della moglie e dell’amante di lei, riconoscimento che appare costante nella giurisprudenza scolastica, pone un problema difficilmente eludibile: i declamatori sembrano infatti ignorare deliberatamente una norma centrale nella politica augustea di riassetto della società come la lex Iulia de adulteriis coercendis, il provvedimento fatto approvare dal principe fra il 18 e il 16 a.C. e nel quale, come è sin troppo noto, tale prerogativa era attribuita al padre della donna – con precise limitazioni – ma giammai al marito: questi poteva uccidere unicamente l’amante della moglie, ma solo se lo avesse colto in flagrante in casa propria e solo a condizione che si trattasse di uno schiavo, di un liberto o di un individuo appartenente a categorie a vario titolo considerate infami.17 L’anomalia è stata naturalmente rilevata dagli studiosi, ma le interpretazioni che se ne sono proposte appaiono a mio avviso poco soddisfacenti. Tale è anzitutto la spiegazione-rifugio secondo la quale i retori avrebbero ripreso passivamente leggi del diritto greco, e in particolare la normativa ateniese in tema di moicheía (che oltre tutto prevedeva l’uccisione del solo adultero); e facilmente possiamo liberarci anche dell’ipotesi secondo cui alcune controversie in materia di adulterio fossero state elaborate prima che la lex Iulia entrasse in vigore, dal momento che questa situazione non riguarda la stragrande maggioranza dei testi di scuola giunti sino a noi.18 Di maggiore fortuna ha goduto e gode tuttora l’idea secondo cui i retori avrebbero inteso rifarsi al regime giuridico pre-augusteo: secondo tale tesi, ‘nelle declamazioni viene riprodotto un uso corrente del tempo della repubblica, quando era permesso al marito di uccidere la moglie adultera e l’amante colti sul fatto’.19 Ma anche questa spiegazione, al pari delle precedenti, a ben guardare costituisce una semplice presa d’atto di quello che i testi pongono sotto gli occhi dello studioso, senza giustificare una simile scelta da parte dei declamatori: a meno di non invocare, come pure è stato

|| 16 Come è asserito con chiarezza in Sen. contr. 10,2,8 si quid fecerit [scil. filius], quod non licet, lex vindicabit; si quid, quod licet, sed non oportet, pater. Non quaeritur de scelere filii sed de officio (in risposta alla questione an filius abdicari possit propter id, quod permittente lege fecit, ibid.). 17 Sulla lex Iulia de adulteriis e sulle numerose questioni che essa pone la bibliografia è naturalmente sterminata; poiché essa non costituisce qui l’oggetto diretto del nostro interesse, mi limito a rimandare ai quadri di sintesi offerti da Rizzelli 1997 e 2014 e da Fayer 2005. 18 Anche sulle norme ateniesi in materia di adulterio mi limito a rimandare alle sintesi offerte da Cantarella 1976, 131–159 e 2011 e da Paoli 1976, 251–307. 19 Calboli Montefusco 1979, 292. Per la ricostruzione del regime giuridico pre-augusteo in materia di adulterio cf. Fayer 2005.

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fatto, l’eccessiva complessità della normativa augustea, che sarebbe risultata poco padroneggiabile per gli studenti delle scuole e ne avrebbe sconsigliato l’adozione nei temi loro proposti.20 È dunque legittimo provare a porre la questione in termini nuovi, rilevando aspetti diversi delle controversie in materia di adulterio. Se infatti la legge augustea in quanto tale sembra estranea all’orizzonte dei declamatori, i testi di scuola, e in particolare proprio le Minores pseudo-quintilianee, danno invece grande enfasi al motivo del dolor provato dal marito all’atto di sorprendere in flagrante adulterio la propria moglie.21 Il protagonista della 277, la controversia sull’adultera gravida, sottolinea espressamente come la norma che autorizza la messa a morte della moglie sia stata introdotta proprio per dare soddisfazione al mariti dolor; ecco perché essa consente l’esecuzione immediata dei colpevoli, evitando le lungaggini del processo pubblico, l’intervento del magistrato, il supplizio affidato al carnifex.22 Ancora più interessante è il caso della controversia 279, nella quale un figlio molto giovane, cui il padre ha dato moglie per sottrarlo alle ripetute avances di un ricco, ha sorpreso in adulterio lo stesso ricco con la moglie e lo ha lasciato andare in cambio di un risarcimento in denaro, salvo incorrere nella abdicatio del padre. Il difensore, che parla a nome del ragazzo, dapprima rileva come il legislatore abbia saggiamente previsto, in alternativa all’uccisione degli adulteri, la possibilità di una composizione pecuniaria, contemplando la possibilità che il marito non possa o non sappia giungere sino all’esecuzione sommaria dei colpevoli, quindi punta la propria attenzione sulla giovanissima età del marito in questione, troppo emotivamente immaturo per provare quel violento risentimento capace di travolgere il soggetto e di spingerlo alla decisione di uccidere: Puto, nondum habebat mariti dolorem. Ad vulnera adulteri et caedem et tristissimum occidendi hominis ministerium magno quodam impetu et (ut sic dixerim) furore opus est. Ps. Quint. decl. min. 279,12 Ritengo che non provasse ancora il dolore proprio di un marito. Per giungere a ferire e a giustiziare un adultero, per accollarsi l’atroce ufficio di uccidere un uomo, è necessario un certo qual potente impulso e, per così dire, una certa dose di follia.

|| 20 È questa la tesi di Langer 2007, 75. La questione del conflitto fra legge declamatoria e legge augustea viene posto ma lasciato irrisolto da Robinson 2003, 64 s. 21 Per le osservazioni che seguono sul motivo del dolor sono largamente debitore alle ricerche e alla riflessione di Graziana Brescia (cf. ancora Brescia/Lentano in corso di stampa). 22 Ps. Quint. decl. min. 277,2 s., in particolare 3 hoc ius scriptum est mariti dolori, hoc ius ille conditor conscriptorque legis huius voluit esse privatum. La nota ad loc. di Shackleton Bailey 2006, 270 fraintende il senso della pericope.

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Tali sentimenti, prosegue il declamatore, sono rintracciabili più facilmente in mariti legati alle loro donne da una lunga consuetudine coniugale, i quali patiscono più amaramente la violazione del loro letto e vedono compromessa a causa dell’adulterio l’aspettativa di figli legittimi.23 Infine, va menzionato il caso della Declamazione minore 335, quella del marito che sospetta di aver colto in flagrante adulterio la seconda moglie insieme con il figliastro: Uxorem adulteram inveni. … Quantum hinc ceperim dolorem : deprehendi quod ipsos adulteros puderet, tenebris absconderunt tamquam nefas. Ps. Quint. decl. min. 335,6 s. Ho trovato mia moglie in adulterio … La profondità del dolore che ho provato, potete valutarla anche da questo ulteriore elemento: ciò che ho colto sul fatto era qualcosa di cui gli stessi adulteri si vergognavano; lo avevano celato fra le tenebre, come se si trattasse di una empietà.

Ora, è interessante osservare come la terminologia ripetutamente impiegata dai declamatori (dolor, impetus) trovi puntuale riscontro in interventi imperiali databili sin dall’età antonina e tesi a mitigare il rigore della pena per il marito che, violando il dettato della lex Iulia, avesse proceduto all’esecuzione della moglie adultera proprio in nome di una spinta passionale dettata dalla lesione inflitta all’integrità della sua domus. Non abbiamo qui la possibilità di passare in rassegna tutti i passi utili;24 ci limitiamo dunque a menzionare un rescritto di Antonino Pio a noi noto grazie a Papiniano, il grande giurista di età severiana, secondo il quale ‘al marito che ammetta di aver ucciso la moglie colta in flagrante adulterio può essere rimessa la pena capitale, in quanto è cosa estremamente difficile tenere a freno il proprio legittimo dolore’; e Paolo, prefetto del pretorio sotto Alessandro Severo, ribadisce che spetta una pena più mite al marito che abbia ucciso la moglie insieme con l’adultero ‘per l’incapacità di tollerare il suo legittimo dolore’.25 || 23 Ps. Quint. decl. min. 279,13 Nec miror eos concitari qui veterem matrimonii consuetudinem, qui pudorem cubiculi, qui spem liberorum expugnatam esse credunt, qui illos occultos atque inenarrabiles patiuntur aestus: non potest uxorem suam sic odisse qui adhuc amare non potuit. 24 Chi sia interessato ad una disamina completa può trovarli adeguatamente schedati e discussi in un recente, dotto contributo di Giunio Rizzelli (alludo a Rizzelli 2014), romanista particolarmente competente in tema di adulterio e soprattutto attento alle testimonianze provenienti dalla letteratura extra-giuridica, e in particolare dalla declamazione. Cf. anche González Romanillos 2013, che dà ampio spazio al motivo del dolor. 25 Cf. rispettivamente dig. 48,5,39(38),8 [Papin.] (Nam et divus Pius in haec verba rescripsit Apollonio: ‘Ei, qui uxorem suam in adulterio deprehensam occidisse se non negat, ultimum supplicium remitti potest, cum sit difficillimum iustum dolorem temperare’) e Paul. coll. 4,12,1,4 (Maritum, qui

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4 Una simile consonanza tra le situazioni messe in campo dai declamatori e l’elaborazione giurisprudenziale sostanzialmente coeva costituisce un dato di grande rilievo. Esso mostra come la declamazione, prospettando la situazione di un marito uccisore della propria moglie, non guardasse solo al passato, alla disciplina pre-augustea dell’adulterio, ma considerasse anche un fenomeno evidentemente tutt’altro che stroncato dall’introduzione della lex Iulia, e anzi a tal punto diffuso da sollecitare ripetuti interventi della cancelleria imperiale e un’ampia attività di interpretazione e commento da parte dei giuristi. Di questa resistenza al dettato della norma augustea è possibile in effetti addurre più di una testimonianza, anche in testi estranei all’universo declamatorio. Già Valerio Massimo, in età tiberiana, citava con approvazione i casi di mariti ‘che nel punire l’offesa recata al pudore delle loro mogli hanno brandito il proprio dolore alla stregua di una legge pubblica’: è certo possibile, anche se tutt’altro che sicuro, che gli esempi citati dal retore risalgano tutti a età repubblicana, e dunque siano precedenti al varo della legislazione augustea; in ogni caso, appare chiaro dalle parole di Valerio Massimo che la vindicta dell’affronto subito in nome del legittimo dolor provato dalla parte lesa incontrava un diffuso consenso sociale, se davvero, come conclude l’autore, ‘per tutti costoro aver dato libero sfogo alla propria ira fraudi non fuit’.26 Sempre all’età di Tiberio risale verosimilmente una pagina di Fedro che pretende di rievocare un fosco dramma familiare realmente verificatosi durante il principato di Augusto. Un liberto persuade il proprio padrone che la moglie abbia una relazione adulterina, e fa a tal punto breccia nell’animo dell’uomo che questi decide di verificare con i propri occhi come stiano le cose. Simulando di recarsi in campagna, l’uomo torna a casa a tarda notte, si accosta al letto coniugale, tasta con le mani fino a toccare una

|| uxorem deprehensam cum adultero occidit, quia hoc inpatientia iusti doloris admisit, lenius puniri placuit). 26 Val. Max. 6,1,13 Sed ut eos quoque, qui in vindicanda pudicitia dolore suo pro publica lege usi sunt, strictim percurram, Sempronius Musca C. Gellium deprehensum in adulterio flagellis cecidit, C. Memmius L. Octavium similiter deprehensum pernis contudit, Carbo Attienus a Vibieno, item Pontius a P. Cerennio deprehensi castrati sunt. Cn. etiam Furium Brocchum qui deprehenderat familiae stuprandum obiecit. Quibus irae suae indulsisse fraudi non fuit. Sul passo cf. Fayer 2005, 204 e n. 54, per la quale gli episodi ricordati sono ‘da ritenersi messi in atto prima della promulgazione della lex Iulia’ (ma l’affermazione appare più una petizione di principio che un dato storicamente verificabile). La stessa studiosa rimanda a proposito di questo passo (e di quello di Giovenale che discutiamo più avanti nel testo) ad una pagina di Papiniano (dig. 48,5,23[22],3) secondo la quale qui occidere potest adulterum, multo magis contumelia poterit iure adficere.

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figura inequivocabilmente maschile che dorme accanto alla moglie e senza porre tempo in mezzo procede all’esecuzione del presunto adultero. Subito dopo, però, il marito si accorge che il malcapitato era in realtà il figlio adolescente, che la madre aveva voluto accanto a sé durante la notte per proteggerne l’età ormai adulta, e decide allora di togliersi la vita. La storia presenta anche una coda processuale: la donna viene infatti denunciata presso il tribunale dei centumviri, specializzato in questioni testamentarie, in quanto la sua posizione di unica erede del patrimonio familiare poteva farla sospettare come artefice occulta dell’intera vicenda. In ultimo, di fronte all’incapacità dei giudici di pervenire ad una decisione, della causa viene investito lo stesso Augusto: il principe sentenzia che colpevole di ogni cosa è il liberto malvagio, ma che è altresì da biasimare la troppo facile creduloneria del marito; quanto alla moglie, unica superstite della famiglia, la sua situazione merita la pietà più che la condanna.27 Il carattere novellistico della pagina fedriana e le sue relazioni con le controversie scolastiche sono state rilevate da oltre un secolo: l’ambientazione notturna del delitto, ad esempio, o il sospetto sui presunti interessi ereditari che potrebbero aver spinto la moglie a liberarsi del marito e del figlio ricordano molto da vicino, tra le altre, le due declamazioni che aprono la raccolta delle Maiores pseudo-quintilianee.28 È certo ben possibile, come molti interpreti hanno sostenuto,

|| 27 Cito solo i versi che ci interessano della lunga fabula fedriana (3,10,9–50): Maritus quidam cum diligeret coniugem / togamque puram iam pararet filio, / seductus in secretum a liberto est suo, / sperante heredem suffici se proximum. / Qui cum de puero multa mentitus foret / et plura de flagitiis castae mulieris, / adiecit id, quod sentiebat maxime / doliturum amanti: ventitare adulterum / stuproque turpi pollui famam domus. / Incensus ille falso uxoris crimine / simulavit iter ad villam clamque in oppido / subsedit: deinde noctu subito ianuam / intravit, recta cubiculum uxoris petens, / in quo dormire mater natum iusserat, / aetatem adultam servans diligentius. / Dum quaerunt lumen, dum concursant familia, / irae furentis impetum non sustinens / ad lectum vadit, temptat in tenebris caput. / Ut sentit tonsum, gladio pectus transigit, / nihil respiciens, dum dolorem vindicet. / Lucerna allata, simul aspexit filium / sanctamque uxorem dormientem cubiculo, / sopita primo quae nil somno senserat; / repraesentavit in se poenam facinoris / et ferro incubuit, quod credulitas strinxerat. / Accusatores postularunt mulierem / Romamque pertraxerunt ad centumviros. / Maligna insontem deprimit suspicio, / quod bona possideat. Stant patroni fortiter / causam tuentes innocentis feminae. / A Divo Augusto tunc petierunt iudices, / ut adiuvaret iuris iurandi fidem, / quod ipsos error implicuisset criminis. / Qui postquam tenebras dispulit calumniae / certumque fontem veritatis repperit: / ‘Luat’ inquit ‘poenas causa libertus mali; / namque orbam nato simul et privatam viro / miserandam potius quam damnandam existimo. / Quod si delata perscrutatus crimina / pater familias esset, si mendacium / subtiliter limasset, a radicibus / non evertisset scelere funesto domum’. 28 Alludo a Thiele 1908, 368 s.; cf. poi Pepe 1991, 50 s. (e già 1967, 169 s.); Oberg 2000, 140 (con rimando a Sen. contr. 1,4); Henderson 2001, in particolare 47–49; Libby 2010 (con paralleli a mio

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che il riferimento ad Augusto rappresenti una semplice ‘strategia di autenticazione’ per attribuire consistenza storica ad una invenzione romanzesca; dal punto di vista che a noi interessa qui, però, la questione resta tutto sommato secondaria: quel che più conta è che ancora una volta le azioni del marito vengono ricondotte allo scatenarsi di un impulso che esige immediata soddisfazione (‘non riuscendo a trattenere l’impeto dell’ira furibonda’, v. 25) ed è giustificato dalla necessità impellente di placare il risentimento (‘senza badare a nulla, pur di vendicare l’offesa’, v. 28).29 Inoltre, nelle parole di Augusto ad essere biasimata è la credulitas dell’uomo, che avrebbe dovuto sottoporre ad una verifica più severa le abili insinuazioni del liberto malvagio; ma né il favolista né lo stesso principe rilevano la violazione della lex Iulia determinata dall’uccisione del presunto adultero da parte di un soggetto che non avrebbe avuto il diritto di farlo.30 Infine, negli stessi anni in cui viene presumibilmente allestita la racconta delle Minores Giovenale ricorda come il dolor irati mariti ‘pretenda talvolta’ dall’amante colto in flagrante ‘più di quanto nessuna legge abbia accordato al dolore: questo lo uccide di spada, quello lo fa a pezzi con violente frustate, e a certi adulteri vien ficcato in corpo un muggine’.31 Per il poeta satirico, come un secolo prima per Valerio Massimo, l’eventualità che di fronte alla scoperta di un adulterio un marito esorbitasse rispetto alle prerogative a lui riconosciute dalla legge in nome del proprio dolor era insomma tutt’altro che remota e, quel che più

|| avviso inappropriati); Renda 2012, in particolare 150 s. e note. Ulteriore bibliografia in Gärtner 2011, 255–257 e note. 29 Trad. di G. Solimano (per i relativi testi latini cf. supra, n. 27). Interessanti entrambe le espressioni impiegate da Fedro: la prima menziona gli stessi elementi, l’impetus e il furor, che ritornano poi nella Minor 279, sempre in relazione alla punizione dell’adultero (cf. supra, p. 71: magno quodam impetu et (ut sic dixerim) furore opus est); la seconda, nella pregnante locuzione dolorem vindicare, sembra condensare il meccanismo psicologico espresso da Ovidio nell’espressione sentenziosa minuet vindicta dolorem (in am. 1,7,63). 30 Del resto, il liberto si aspetta appunto che il credulo marito uccida la moglie e il figlio, altrimenti egli non avrebbe la possibilità di subentrare nell’eredità: e infatti la causa contro la donna presso la corte centumvirale viene istruita appunto per il fatto che la donna, superstite alla devastazione della propria famiglia, ha ereditato i beni del marito. Gli studi che ho potuto consultare non sembrano rilevare l’incongruenza; solo De Maria 1987, 100 afferma che Fedro intenderebbe ironizzare sulla scarsa efficacia della politica augustea, ma solo dal punto di vista degli inconsistenti risultati ottenuti dalla legge sull’adulterio. 31 Iuv. 10,314–317 exigit autem / interdum ille dolor plus quam lex ulla dolori / concessit: necat hic ferro, secat ille cruentis / verberibus, quosdam moechos et mugilis intrat (la traduzione è quella recente di Biagio Santorelli). Su questi versi è tuttora indispensabile l’eccellente nota di Mayor 1901–19005, II, 164–166.

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conta, non sembra oggetto di alcuna particolare censura, anche se qui non si parla solo di messa a morte dell’adultero ma anche di lesioni corporali a lui inflitte. Una conclusione si impone alla luce di queste testimonianze convergenti: di fronte alle tante controversie scolastiche che presentano la figura del marito uccisore degli adulteri e giustificano la sua azione in ragione dello iustus dolor da lui provato, piuttosto che rilevare, magari polemicamente, lo scollamento fra retorica di scuola e giurisprudenza coeva, è più utile osservare come la declamazione desse voce a sentimenti e pratiche diffuse (anche se tali sentimenti, per le regole stesse che presiedono a questo peculiare genere letterario, assumono la forma di una prescrizione normativa); né è illegittimo ipotizzare che le scelte operate a partire dal II secolo d.C. dalla cancelleria imperiale siano state almeno in parte influenzate dalla riflessione che nello stesso torno di anni i retori venivano conducendo sul diritto di uccidere la moglie adultera da parte del marito, sulle sue ragioni e sui suoi limiti. Non è detto infatti che se ‘interpretazioni e ragionamenti’ dei retori ‘coincidono con quelli dei giuristi romani classici’ questo implichi ‘che senz’altro i declamatori hanno tratto da essi’ quelle argomentazioni;32 è vero al contrario che in molti casi la retorica di scuola sembra precorrere elaborazioni che solo in prosieguo di tempo saranno fatte proprie dalla giurisprudenza. A queste osservazioni è possibile infine, a mio avviso, aggiungere una considerazione ulteriore, questa volta tutta interna alla declamazione e alle regole che governano la costruzione di una buona controversia. Per poter funzionare adeguatamente, infatti, un tema di scuola deve evitare un eccessivo cumulo di poteri e prerogative in capo ad una sola delle parti in conflitto, perché questo sbilancerebbe il necessario equilibrio tra le due istanze contrapposte: come ricorda il retore Zenone, attivo nel II secolo d.C., ‘sono ben istruite le cause che hanno da una parte e dall’altra pretese contrarie pressappoco uguali e quasi della stessa forza’.33 In questo contesto i privilegia, ad esempio la possibilità per il vir fortis di scegliere un premio qualsiasi come riconoscimento per il suo eroismo guerriero, rappresentano una anomalia potenzialmente dirompente, che la declamazione riesce tuttavia a disinnescare, ad esempio imbastendo controversie nelle quali a quella assoluta discrezionalità viene contrapposta l’autorità altrettanto assoluta

|| 32 Come vuole invece Mantovani 2014, 597. Per quanto segue immediatamente nel testo cf. Stroux 1949, 23–42. 33 Citato in Patillon 2009a, xl. In caso contrario, si ricadrebbe nella categoria dell’asystaton monomeres, perché una sola delle due parti avrebbe argomenti o prerogative così schiaccianti da rendere di fatto impossibile il contraddittorio. Cf. al riguardo Stramaglia 2015, specie 151 s., con bibliografia.

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del padre, l’unica capace di fungere da contraltare e di ripristinare così quell’equilibrio tra le parti di cui parlava Zenone. Ora, qualcosa di simile accade in una parte almeno delle declamazioni latine in tema di adulterio, con un padre che rivolge al figlio una richiesta di clemenza e un figlio che disattende quella richiesta in nome di una prerogativa – il diritto di uccidere – che a lui viene riconosciuta dalla legge. In astratto, i declamatori avrebbero potuto costruire una situazione conflittuale ben altrimenti allineata con la normativa augustea, nella quale ad esempio un padre intenzionato a giustiziare la figlia adultera fosse contrapposto ad un marito che ne chiedesse invece la salvezza: avrebbero potuto ma non lo fanno, probabilmente perché un padre che agisse sotto la duplice egida del proprio ius vitae necisque e dello ius occidendi a lui riconosciuto dalla legge augustea sull’adulterio avrebbe finito per sbilanciare in misura inaccettabile l’equilibrio tra le ragioni dell’accusa e quelle della difesa sul quale ogni declamazione, come si è detto, fa affidamento per poter funzionare.

5 Ma torniamo ancora sui tratti che accomunano le declamazioni pseudo-quintilianee in materia di adulterio: di questi tratti fa parte anche la circostanza per cui il padre, come abbiamo appena ricordato, non compare mai nel ruolo di uccisore della figlia.34 Anche questo aspetto presenta, a mio avviso, un grande interesse e consente di intravedere un altro aspetto del complesso rapporto fra declamazione e diritto. I giuristi di età severiana, allorché commentavano il testo della lex Iulia de adulteriis, motivavano le scelte augustee in materia di ius occidendi postulando che il principe avesse inteso tutelare in ultima istanza la vita dell’adultera, evitando di affidarla al legittimo ma troppo impulsivo risentimento del marito, del quale si è già detto ampiamente, e scegliendo piuttosto di rimetterla al padre, sul presupposto che la sua pietas verso la figlia lo avrebbe indotto a risparmiarla. Il principio viene affermato con chiarezza ancora da Papiniano:

|| 34 Come del resto accade in Seneca il Vecchio e in Calpurnio Flacco: al contrario, nella controversia senecana 9,1, un tema storico relativo a Cimone figlio di Milziade e al ricco Callia che lo ha riscattato dal carcere e gli ha dato in sposa la figlia, questi cerca invano di salvare la vita alla figlia adultera; nell’estratto 23 di Calpurnio, poi, il padre dell’adultera mette a morte il figlio della donna che ha sorpreso la madre in flagrante e l’ha uccisa.

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Ideo autem patri, non marito mulierem et omnem adulterum remissum est occidere, quod plerumque pietas paterni nominis consilium pro liberis capit: ceterum mariti calor et impetus facile decernentis fuit refrenandus. Papin. dig. 48,5,23(22),4 Il diritto di uccidere la moglie e l’adultero, chiunque questi sia, è stato dunque affidato al padre e non al marito per questa ragione: perlopiù l’affetto legato al ruolo di padre induce a decidere in un senso favorevole ai figli; oltre tutto, occorreva tenere a freno la rabbia e l’impulsività del marito, che possono indurlo facilmente a decisioni affrettate.

È stato detto a questo riguardo che noi non sapremo mai se tali considerazioni fossero effettivamente alla base del dettato legislativo augusteo o se esse non vadano piuttosto ascritte al lavoro esegetico dei suoi commentatori più tardi, anche perché difficilmente di quelle motivazioni sarà esistita traccia scritta nel testo della norma.35 Ma forse un indizio almeno in questo senso può venire proprio da un prodotto come la declamazione, cronologicamente assai più vicino alla cultura augustea di quanto non lo sia il commento di Papiniano. È un dato di fatto che agli occhi dei retori la figura del padre giustiziere della propria figlia, di per sé non impossibile nel quadro legislativo adottato nella declamazione, apparisse poco verosimile; e poiché in declamazione i temi scartati dalla pratica didattica non sono meno significativi di quelli ammessi, tale silenzio è di per sé un indizio prezioso. Le controversie di scuola sembrano insomma dare ragione ai giuristi severiani: se si può prestare fede ai declamatori, forse Augusto non aveva torto a ritenere che quello di un padre assassino della propria figlia fosse uno scenario inverosimile. La pietas paterni nominis sembra agire del resto anche nei confronti dei figli maschi: i padri intervengono per cercare di salvare un figlio adultero in tre diverse Declamazioni minori (la 275, la 286 e la 291), nel primo caso con successo, negli altri due invano. In declamazioni come queste il tradizionale ruolo paterno come garante del codice culturale e delle sue norme, anche e soprattutto quando queste siano violate dai figli, lascia il posto ad un atteggiamento indulgente, pronto a transigere sulla regola quando ad essere in pericolo sia la vita del figlio colpevole: una declinazione ‘materna’, per così dire, della figura del padre, di cui la retorica di scuola offre numerose altre testimonianze, anche al di fuori delle controversie incentrate sull’adulterio, e che rispecchia probabilmente un mutamento in atto nella cultura romana dell’età imperiale.36 || 35 L’osservazione è in Rizzelli 2012, 299. 36 Sulla figura del padre indulgente nella declamazione latina rimando a Brescia/Lentano 2009, 69–94. Certo, questa inusuale declinazione del ruolo paterno crea qualche disagio: il figlio che pronuncia la decl. min. 275, e che a suo tempo ha risparmiato il fratello adultero su richiesta

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Al contrario di quanto accade nelle altre raccolte di declamazioni, lo PseudoQuintiliano non presenta temi in cui un figlio sorprende in adulterio la propria madre: in questi casi, tanto in Seneca quanto in Calpurnio Flacco il figlio perlopiù risparmia la donna, pur in presenza di una norma che gli consente espressamente di procedere alla sua esecuzione, lasciando intendere che il legame affettivo con la madre è talmente forte da impedire ad un figlio di valersi del proprio diritto.37 Tuttavia, sulla relazione tra madri e figli, in un contesto che prevede in entrambi i casi un sospetto di adulterio, anche le Minores presentano almeno due temi di grande interesse. Di uno di questi abbiamo già detto qualcosa all’inizio: si tratta della declamazione 300, nella quale un figlio cui il padre ha ceduto il diritto di giudicare in casa la madre per un’accusa di adulterio la manda assolta, mentre la donna sarà poi condannata in un nuovo processo tenuto dinanzi al tribunale pubblico. In quel frangente il figlio affermerà che suo padre, avendo affidato a lui la valutazione sul presunto crimine della madre, sembrava aver scelto intenzionalmente un giudice ‘che non avrebbe mai potuto condannarla’.38 Interessante anche la Declamazione minore 330, in cui un figlio, ottenuto dal padre del denaro con il pretesto di averne bisogno per la sua relazione con una cortigiana, mantiene in realtà la madre caduta in miseria dopo essere stata ripudiata per sospetto adulterio: nella sua difesa, il giovane replica tra l’altro che la moralità coniugale delle madri non è affare dei figli; è ai mariti che spetta il rigido controllo dei mores femminili, è solo ad essi che compete l’onere di pretendere un comportamento austero dalle proprie mogli, mentre per i figli ‘è sufficiente essere nati’; il debito

|| del padre, il quale gli ha assicurato che lo avrebbe ripudiato, si sente in dovere di precisare che a suo padre non mancava certo la gravitas, come dimostra il provvedimento di abdicatio effettivamente fulminato contro il colpevole (275,5). 37 Così accade, con ogni verosimiglianza, in un frammento di declamazione ciceroniana a noi noto tramite Seneca il Vecchio (che lo cita in contr. 1,4,7: cf. al riguardo la persuasiva analisi di Berti 2009), quindi in Sen. contr. 1,4, in cui un vir fortis che ha perso le mani in battaglia e sorprende la moglie in flagrante adulterio chiama in proprio soccorso il figlio, il quale si rivela però incapace di procedere all’uccisione dei due amanti e viene per questo ripudiato, e infine in Calp. decl. 31, in cui un figlio uccide prima la sorella, poi, sorpresa in adulterio anche la madre, la risparmia e viene per questo ripudiato dal padre. Sembra fare eccezione l’estratto 23 di Calpurnio, nel quale un figlio uccide la madre adultera nonostante questa lo supplichi di essere risparmiata: l’intera controversia verte però sull’effettiva identità di questo figlio, che potrebbe non essere davvero tale e che al termine della sua vicenda viene condannato in tribunale per usurpazione della cittadinanza. 38 Ps. Quint. decl. min. 300,7 ad eum iudicem perduxeras uxorem qui damnare non posset.

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da essi contratto con la madre al momento di venire al mondo fa aggio su qualsiasi successivo comportamento criminoso di quest’ultima.39

6 Possiamo a questo punto avviarci alla conclusione della nostra analisi. La presenza di controversie relative all’adulterio è, nella raccolta delle Minores, nella media delle altre collezioni declamatorie, e comunque piuttosto forte: circa una quindicina di casi su poco meno di centocinquanta testi giunti sino a noi. Del resto, nella società romana di età imperiale il matrimonio continua a rappresentare una istituzione chiave, la cui violazione mette a rischio al tempo stesso l’ordine sociale e l’integrità familiare; la stessa legislazione augustea in materia testimoniava l’impegno delle istituzioni civili per la tutela del rapporto coniugale. Come osserva il marito protagonista della declamazione 249, la stessa che abbiamo citato aprendo queste pagine, se il crimen di adulterio è cosa non nuova alle orecchie dei giudici, la virtù della castitas è d’altra parte civitati ante omnia necessaria, ed è appena il caso di esortare la corte alla difesa di un valore sulla cui centralità essa non può che concordare. Quindi continua: ‘Anche se io avessi taciuto, voi sapete bene che la città si regge sul matrimonio, e così tutte le società, la possibilità di generare figli legittimi, la trasmissione del patrimonio, l’ordine delle eredità, la sicurezza domestica’.40 Per tutte queste ragioni, ora come al tempo di Lucrezia, una moglie adultera deve morire: anche se per farlo occorre violare altre norme di legge, anche se ucciderla coinvolge nella punizione il proprio fratello, anche se si deve disobbedire al padre che invoca clemenza e se ne deve affrontare per questo il ripudio. Se in altri ambiti, come quello delle relazioni padri-figli, la declamazione sembra

|| 39 Un motivo, sia detto per inciso, che si applica anche ai padri, come quello della quinta Maior pseudo-quintilianea, secondo il quale un padre non ha bisogno di ‘acquisire ogni giorno meriti agli occhi del figlio’, in quanto il debito con lui è iniziato sin dal primo giorno di vita. Cf. rispettivamente Ps. Quint. decl. min. 330,4 Sed repudiatam tamen crimine adulterii alui. Satis erat mihi respondere, iudices: istud, qualecumque est, ad filium non pertinet. Mariti mores excutiant, mariti severitatem desiderent: liberis satis est quod nati sunt; Ps. Quint. decl. mai. 5,8, p. 92 s. H. nolo cotidie mereri, quicquid mihi deberi coepit primo die. 40 Ps. Quint. decl. min. 249,19 Non estis exhortandi mihi ad tuendam castitatem, civitati ante omnia necessariam. Matrimoniis, etiamsi ego tacuerim, scitis contineri civitatem, his populos, his liberos et successionem patrimoniorum et gradum hereditatum, his securitatem domesticam. Per questo, la punizione di un adulterio costituisce un exemplum totius civitatis, come si osserva nella decl. min. 244,5.

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problematizzare i modelli tradizionali suggerendone nuove e più avanzate declinazioni, di fronte all’adulterio essa ne ribadisce senza tentennamenti l’inaccettabilità. Ma le declamazioni sull’adulterio sono anche un termometro prezioso per saggiare umori diffusi, preoccupazioni comuni, sviluppi o arretramenti in merito ad una questione così cruciale, regolata da una legge, come quella augustea, importante, puntuale, decisamente autorevole ma anche problematica, largamente disattesa e oggetto anche per questo di ripetuti interventi correttivi; e si è visto come i retori dialoghino a più riprese e sotto diversi profili con il dettato della lex Iulia, in termini che rendono a mio avviso fuorviante la diffusa convinzione per cui essi si limiterebbero semplicemente a prescinderne e a rifarsi alla normativa di età repubblicana. Anche da questo punto di vista, insomma, i testi declamatorî, così a lungo trascurati e dei quali solo oggi si coglie finalmente la ricchezza e lo spessore, confermano il loro statuto di osservatorio privilegiato sulla società e la cultura romana dell’età imperiale.

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Lucia Pasetti

Extra rerum naturam: retorica contro filosofia cinica nella Declamatio minor 283 1 Filosofia cinica e retorica di scuola La Declamatio minor 283, dal titolo Cynicus diserti filius, presenta un caso di abdicatio: un padre, affermato oratore, cerca di disconoscere il figlio, che ha voluto rinnegare l’educazione ricevuta per abbracciare la trasgressiva filosofia cinica.1 Il caso testimonia un orientamento anti-cinico non privo di riscontri nella declamazione, come mostrano le testimonianze addotte in proposito da Michael Winterbottom:2 il tema quintilianeo3 del Cinico denunciato ai censori per la sua condotta immorale (de moribus) e quello più tardo, testimoniato da Giulio Vittore, della matrona che subisce la stessa accusa per la sua appartenenza alla secta cinica.4 Da qui l’ipotesi di R.F. Hock, che, almeno in certi segmenti della loro formazione retorica, gli studenti venissero incoraggiati a discutere della filosofia cinica in termini dispregiativi, e dunque ad illustrare in primo luogo le ragioni che rendevano inaccettabile una ‘conversione’ a questa particolare scuola filosofica.5 La tesi di Hock, esposta com’è a tutti i rischi della generalizzazione, porta alla luce il problema di come venisse recepita la dottrina cinica nelle scuole di retorica: lo studioso osserva, in proposito, la contraddizione tra la presenza assidua dei filosofi cinici ‘classici’ – Diogene in testa – nelle chreiai,6 e la loro sporadica attestazione nei temi declamatori. Protagonisti di aneddoti esemplari al livello dei Progymnasmata, nel più complesso esercizio della declamazione, i Cinici compaiono solo sporadicamente, e sempre nel ruolo dell’accusato.

|| 1 Cf. Ps.Quint. decl. min. 283, th. Disertus Cynicum filium abdicat. CD. 2 Vd. Winterbottom 1984, 397 ad th. 3 Quint. 4,2,30, su cui infra, p. 95. 4 Iul. Vict. ars, p. 390, 31 H. = 26, 11 s. Giom. Cel. matrona Cynicam sectam exercet: de moribus rea est. 5 Cf. Hock 1997, 770. 6 La popolarità dei Cinici, e soprattutto di Diogene, nelle chreiai attestate dalla manualistica sia greca che latina è documentata da Hock 1997, 766–769 e Hock/O’Neil 1986, 23–47 e 313–322 (per le chreiai su Diogene). Quanto all’influenza delle chreiai sulla ricezione della filosofia cinica, cf. Branham 1997, 86 s. e Krueger 1997, 223 s.

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Se si spinge lo sguardo al di fuori della scuola per rivolgerlo a quella produzione letteraria e di età imperiale che si sviluppa tra pratica retorica e riflessione filosofica, questa stessa tensione trova evidenti conferme: come è stato da più parti rilevato, nel periodo che intercorre tra Nerone e Giuliano, la ricezione della filosofia cinica è segnata da un’oscillazione – a ‘curious ambivalence’, così è stata definita7 – tra l’idealizzazione di figure esemplari in genere appartenenti al passato, in primo luogo Diogene, protagonista di celebri orazioni di Dione di Prusa, e la denigrazione di seguaci contemporanei che praticano la stessa filosofia a un livello più basso:8 solo a questi ultimi, visti come usurpatori della tradizione di cui si proclamano eredi, si addebitano gli aspetti più aspri e antisociali dello stile di vita cinico, come l’aggressione ingiuriosa, la mancanza di senso del pudore, la rottura conclamata delle convenzioni, aspetti che vengono attenuati o rimossi dall’immagine del ‘Cinico ideale’.9 Così in Luciano l’esaltazione di Demonatte – in cui la tradizionale aggressività cinica appare smorzata10 – si affianca alla denuncia dei filosofastri descritti, ad esempio, nei Fuggitivi. Nel dialogo, la Filosofia in persona, dopo aver per breve tempo tollerato questi personaggi per far piacere a Diogene, Cratete e Menippo (§ 11), ne svela la vera natura di ignoranti, sfaccendati, pronti ad esibire gli attributi esteriori del filosofo – l’abito dimesso, la bisaccia, il bastone – solo per poter sfruttare a loro esclusivo beneficio l’autorevolezza riconosciuta al ruolo: Τὰ δ’ ἡμέτερα πάνυ ῥᾷστα, ὡς οἶσθα, καὶ ἐς μίμησιν πρόχειρα – τὰ προφανῆ λέγω – καὶ οὐ πολλῆς τῆς πραγματείας δεῖ τριβώνιον περιβαλέσθαι καὶ πήραν ἐξαρτήσασθαι καὶ ξύλον ἐν τῇ χειρὶ ἔχειν καὶ βοᾶν, μᾶλλον δὲ ὀγκᾶσθαι ἢ ὑλακτεῖν, καὶ λοιδορεῖσθαι ἅπασιν. Luc. 56,14 [Fug.]

|| 7 Cf. Branham/Goulet-Cazé 1997, 15 s.; su tale ambivalenza, probabilmente una reazione dal diffondersi del cinismo come filosofia popolare, anche Goulet-Cazé 1990, 2763–2781, La Penna 1990, 16–19 e Desmond 2008, 43. 8 Per la figura di Diogene nelle orazioni di Dione di Prusa, cf. la sintesi di Billerbeck 1997, 211– 213, da vedere in generale per le testimonianze sulla filosofia cinica in età imperiale; lo stesso Dione (or. 32,9) offre un quadro desolante dei Cinici volgari che affollano gli angoli delle strade raggirando gli ingenui con le loro buffonate (σπερμολογία) e altrove (or. 34,2) si preoccupa di distinguersi da loro, definendoli μαινομένους ... καὶ ταλαιπώρους; cf. Bost Pouderon 2006 per ulteriori riscontri su questo tipo di polemica (306–308), anche sul tentativo di Dione di procurarsi un’ ‘allure Diogenique’ (308–321). 9 Sulla costruzione di questo stereotipo, spesso sfruttato da esponenti di altre filosofie per giustificare l’acquisizione di certi elementi della dottrina cinica, si veda Billerbeck 1997, in part. 205–207 e 220 s. 10 Per l’ambivalenza di Luciano nei confronti della tradizione cinica, si veda la sintesi di GouletCazé 1990, 2763–2768. Per la mitezza come tratto peculiare di Demonatte, cf. Luc. 9,9 [Dem.], con Billerbeck 1997, 215.

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È cosa molto facile, come sai, ed agevole, imitare noi altri, esternamente dico; e non ci vuol molto a mettersi un mantello indosso, appendersi una bisaccia sulla spalla, tenere una mazza in mano e gridare, anzi ragliare e latrare, e ingiuriare tutti.11

Ed è così che, ponendosi ‘sotto l’insegna del cane (ὑπὸ τῷ κυνί)’, i falsi filosofi prosperano, predicando povertà e astinenza, ma soddisfacendo la loro avidità di ricchezza e di piaceri.12 Sul versante latino della neosofistica, Apuleio si divide a sua volta tra l’elogio di Cratete, che rinuncia alla sua ricchezza per amore della filosofia,13 e il disprezzo per i palliata mendicabula (flor. 9,9).14 Ma ancora prima, Seneca figlio oscilla tra l’ammirazione per il rigore etico del cinico Demetrio15 e la condanna per l’esibizionismo dei Cinici volgari e straccioni, contro cui mette in guardia Lucilio in epist. 5,1 illud autem te admoneo, ne eorum more qui non proficere sed conspici cupiunt facias.16 In età imperiale, dunque, mentre i personaggi di prestigio, soprattutto appartenenti al passato, divengono icone del filosofo ideale, un modello a cui si ispirano anche esponenti di scuole filosofiche diverse, la fisionomia del Cinico di basso livello si sovrappone completamente a quella del filosofastro, incline ad ostentare con arroganza gli attributi tradizionalmente associati al suo stile di vita, ma in realtà pigro, ambizioso, spudorato, dedito ai piaceri e avido di denaro. In questo atteggiamento ambivalente, gli strumenti forgiati dalle scuole di retorica potevano servire sia all’idealizzazione della tradizione cinica ‘classica’ – le chreiai vanno certamente in questa direzione – sia a fabbricare invettive contro un modo di vivere tendenzialmente in conflitto con le convenzioni sociali e difficilmente compatibile con la cultura romana tradizionale: dal punto di vista || 11 Trad. L. Settembrini. 12 Cf. Luc. 56,14–21 [Fug.]. Sul dialogo lucianeo come fonte per le critiche al cinismo ‘volgare’, si veda e.g. Dudley 1937, 146–148, Goulet-Cazé 1990, 2767 s., Desmond 2008, 55 s. 13 Cf. Apul. apol. 22; come osserva Hunink 1997, 76 ad loc. l’interesse di Apuleio per Cratete emerge anche nei Florida 14 e 22. 14 Che il bersaglio dell’insulto siano i Cinici è sostenuto da Stock 1985, 362, che sottolinea come anche Apuleio oscilli tra la ‘ripresa di concetti e di exempla tipici del cinismo classico’ e la ‘presa di distanza, accurata e ricorrente, dal Cinismo contemporaneo’. 15 Più volte citato nelle opere di Seneca, che spesso lo definisce noster: cf. epist. 20,9; 62,3; 67,14; 91,19; prov. 1,3,3; 1,5,5; v. beat. 18,3; benef. 7,1,3; 7,2,1; 7,8,3; sul personaggio, cf. Billerbeck 1979 (in part. 19–40 sulle testimonianze senecane) e 1982, 163–167; Kindstrand 1980, 90 s.; La Penna 1995, 263. Goulet-Cazé 1990, 2768–2773 insiste sull’idealizzazione del ritratto senecano, che si caratterizza per la rimozione dei tratti realistici su cui insistono altre fonti. 16 L’epistola fa emergere la condanna di Seneca per gli eccessi della filosofia cinica, anticipando di un secolo l’atteggiamento di Luciano: cf. Billerbeck 1979, 15 s.; sull’epistola, cf. inoltre Scarpat 1973, 92–97 e La Penna 1995, 263–265.

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strettamente declamatorio, le accuse rivolte ai Cinici possono rientrare nella tipologia del discorso di biasimo, ma anche tra le possibili declinazioni della ben nota thesis ‘se ci si debba dedicare alla filosofia’, svolta, ovviamente, in senso negativo. Nel proporre un’analisi della Declamatio Minor 283, dunque, cercheremo di individuare gli schemi propri della retorica di scuola su cui si regge la struttura di questo testo, ma anche di mettere in luce la relazione con un contesto storico e culturale in cui la polemica anti-cinica costituiva un argomento sensibile, in particolar modo a Roma.

2 Il Cinico nei temi declamatori greci e latini Se cerchiamo riscontri nella manualistica, il tema strutturalmente più vicino alla Declamatio minor 283 è documentato da Ermogene (stat. 2,5, p. 13 P.) γεωργὸς φιλοσοφοῦντα τὸν υἱὸν ἀποκηρύσσει, ‘un contadino disconosce il figlio dedito alla filosofia’.17 Non mancano tuttavia importanti differenze con il nostro argumentum latino: il tema ermogeniano, infatti, non contempla il dettaglio dell’appartenenza del figlio alla secta cinica, inoltre, benché virtualmente il discorso del padre possa contenere argomentazioni contrarie alla pratica filosofica, rappresentando uno svolgimento in negativo della tesi εἰ φιλοσοφητέον, l’intento del retore nel menzionare la questione sembra essere soprattutto quello di mettere in luce le difficoltà che si incontrerebbero nel sostenere tale punto di vista. Ermogene, in effetti, propone il caso come esempio di antilepsis, ossia di quel procedimento paradossale che consiste nel ‘mettere sotto accusa un atto apparentemente innocente’ (γὰρ ἀντίληψις ἀνευθύνου πράγματος εἶναι δοκοῦντος ὡς ὑπευθύνου κατηγορία, οἷον γεωργὸς …, κτλ.). E proprio sull’innocenza del filosofare si soffermano ampiamente anche i commentatori ermogeniani, che a più riprese riflettono sul caso: si considerino in proposito le osservazioni di Marcellino sull’antilepsis: Παντελῶς ἐξασθενεῖ τὸ κεφάλαιον, ὡς ἐπὶ τοῦ φιλοσοφοῦντα τὸν υἱὸν ἀποκηρύττοντος· ἄτοπον γὰρ εἰ παραβάλοι τῷ μεθύοντι καὶ κυβεύοντι καὶ τὰ πατρῷα κατεδηδοκότι. Syr. Sop. et Marc. in Herm.stat. IV 608, 18–21 W.

|| 17 Winterbottom 1984, 397 ad loc.

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Il punto risulta molto debole, come nel caso del padre che disconosce il figlio dedito alla filosofia; è strano, infatti, se messo a confronto con il caso del figlio che si ubriaca, gioca e ha dissipato i beni paterni.

Questo punto di vista si concretizza in un altro tema compreso nella raccolta delle Minores (298, th. rusticus parasitum filium abdicat), in cui un padre contadino si mostra intenzionato a disconoscere il figlio parassita e quindi dedito, per mestiere, alla vita dissoluta.18 Altrove (IV 237, 30–32 W.) Marcellino rileva come l’accusa contro il filosofo trovi in realtà una giustificazione nel fatto che il padre sia un contadino, perché ‘darsi alla filosofia è un atto innocente, ma, data la condizione del contadino, è considerato una colpa’, ἀνεύθυνον μὲν τὸ φιλοσοφεῖν· διὰ δὲ τὴν τοῦ γεωργοῦ περίστασιν ὡς ὑπεύθυνον κρίνεται. Nella versione greca del tema, dunque, sembra essere il contadino, piuttosto che il filosofo, a creare il caso. In un esercizio di etopea riportato dal retore bizantino Giovanni Dossopatre si invita a immaginare cosa possa dire un padre γεωργός a un figlio che sceglie di praticare la filosofia:19 non viene purtroppo riportato lo svolgimento, ma possiamo supporre che lo studente di retorica, nella caratterizzazione del padre contadino, potesse fare riferimento allo stereotipo comico del rustico conservatore (l’ἄγροικος), non necessariamente agricoltore di professione, ma legato a quello stile di vita semplice e tradizionale che è proprio della campagna, e dunque anti-intellettuale e più che mai diffidente nei confronti della disciplina filosofica, tipico prodotto della vita cittadina.20 Il coté anti-intellettuale di questo personaggio, già evidente nella commedia antica almeno a || 18 Lo stesso tema sembra essere attestato, se pur in forma lacunosa (manca il dettaglio del figlio parassita) nel palinsesto parigino 7900 A … filium pater rusticus abdicat, secondo la lettura di Dessauer 1901, 422. Sul tema, rinvio a van Mal-Maeder in questo volume. 19 Cf. Ioann. Dox. in Aphth. II 500, 7 s. W. τίνας ἄν εἴποι λόγους πατὴρ γεωργός φιλοσοφοῦντα τὸν υἱὸν ὁρῶν è menzionato da Hock, 1997, 770, assieme a un passo di Nicolao di Mira (Prog. 10, p. 63, 15–21 F.), che prende in esame la ben nota thesis εἰ φιλοσοφητέον, illustrando il passaggio dal generale al particolare attraverso un’hypothesis rovesciata rispetto a quella considerata finora: ‘un contadino esorta il figlio a intraprendere la filosofia’; il retore aggiunge però che in un tema del genere le caratteristiche attribuite al padre non bastano a ‘creare il caso’ (προστεθεῖσα οὖν ἡ τοῦ πατρὸς ποιότης οὔπω μὲν ἐποίησε τελείαν ὑπόθεσιν). 20 E come tale ben rappresentato già nell’Archaia (rinvio alla sintesi di Imperio 1998, 46–53 e 99–120), ma soprattutto nella Néa, quando i riferimenti alla filosofia si moltiplicano e si fanno più specifici: cf. ancora Imperio 1998, 120–129 e la sezione dell’antologia di Olson 2007, 227–255 (Philosophy and Philosophers). Per i Cinici, in particolare, si vedano i frr. 13–15 (Eubulo 137 K.-A. e Menandro 114 e 193 K.-A.). La pervasività della cultura filosofica nella Nea (e anche nella Mese) è confermata dall’estensione di certi tratti propri del filosofo (dall’intellettualismo allo stile di vita anticonvenzionale) ad altri personaggi tradizionali come il cuoco (cf. Belardinelli 2008, 77–

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partire dallo Strepsiade di Aristofane,21 riemerge anche in altri esercizi progimnastici, dove tuttavia, come nel caso già menzionato, non si parla di ἄγροικος, ma di γεωργός.22 Probabilmente, il ricorso a questo termine spoglio di connotazioni negative è il riflesso di una prospettiva ‘menandrea’, risente cioè di certe incarnazioni simpatetiche dell’abitante delle campagne tipiche di Menandro e, in seguito, della commedia latina.23 Dal punto di vista retorico, poi, il denotativo γεωργός, rispetto al più marcato ἄγροικος, assolverà meglio alla funzione di agevolare l’esercizio in utraque parte: in altre parole, il γεωργός può essere caratterizzato, a seconda delle necessità, in senso negativo – con un’accentuazione dei difetti di grossolanità e ignoranza tipicamente associati all’ἀγροικία – ovvero in senso positivo, facendo leva sulle qualità positive (integrità e buon senso) proprie del contadino simpatetico. Il γεωργός entra in collisione con la filosofia anche in una delle Lettere di contadini di Alcifrone (2,38) che propone una situazione molto vicina al tema pseudo-quintilianeo:24 un contadino si lamenta con un amico della sconsideratezza del figlio, colpevole di aver rinnegato l’educazione ricevuta per seguire, appunto, la setta cinica. Pur non rientrando propriamente nella letteratura declamatoria, l’epistola fittizia è un genere contiguo alla retorica di scuola (e particolarmente vicino all’esercizio dell’ethopoiia),25 oltre che influenzato dalla neosofistica:26 la rappresentazione della realtà è dunque fortemente filtrata dalla tradizione letteraria. Quanto alla caratterizzazione dei personaggi, da tempo è stata messa in luce l’influenza della commedia;27 i contadini, in particolare, sono rappresentati come ignoranti che ‘considerano un lusso inutile le discussioni dei

|| 92) e il parassita (quest’ultimo particolarmente contiguo al Cinico, specialmente in ambito latino: una sintesi in Pasetti 2011, 1–7). 21 Sull’ ἄγροικος, a parte il canonico Ribbeck 1888, si veda la sintesi (forse un po’ troppo rapida) di Konstantakos 2005, in part. 7–5 sulla figura di Strepsiade nelle Nuvole aristofanee; tra i tanti contributi che evidenziano il tratto anti-intellettuale di questo personaggio, mi limito qui a ricordare Green 1979 e Dettori 1998, 69 s. 22 Cf. ad es. le etopee di Ps. Hermog. Prog. 9,6, p. 201 P. (‘cosa direbbe un contadino vedendo una nave per la prima volta’) con Patillon 2008, p. 257, oppure Iohann. Sard., Comm. in Aphth. prog., p. 204, 5 R. (‘cosa direbbe un contadino a una donna che vuole andare all’estero’). 23 Cf. Ferrari 2008, 68–70 e passim, con le relative riflessioni sulle ambiguità di questa visione simpatetica del γεωργός; inoltre Konstantakos 2005, 23–25. 24 Il passo è richiamato da Winterbottom 1984, 397 ad decl. min. 283, th. 25 Cf. Rosenmayer 2001, 255–266; e Anderson 1997, 2201. 26 Cf. Anderson 1997, 2194–2199. 27 In generale, cf. Anderson 1997, 2190–2193, con un riepilogo della bibliografia (n. 9), da integrare con la più recente sintesi di König 2007, 258, n. 4.

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filosofi ed un vero perditempo dar retta a costoro’.28 Esemplare, da questo punto di vista, proprio la lettera in questione, in cui è agevole riconoscere il motivo, già aristofaneo,29 del giovane che si converte alla filosofia entrando in collisione con la famiglia d’origine. Nella caratterizzazione negativa del figlio entrano in gioco i clichés anti-cinici ampiamente circolanti nella letteratura contemporanea (soprattutto in Luciano), in particolare quelli più adatti a far deflagrare il conflitto tra le opposte mentalità: la pigrizia – il figlio viene definito ἄπρακτος, con un’interpretazione in malam partem dello stile di vita cinico, estraneo alle attività produttive – e l’ἀναίδεια, che il padre tradizionalista, manifestando la tendenza alla banalizzazione tipica dell’anti-intellettuale, riduce a mancanza di senso del pudore: emerge qui la prospettiva squalificante che abbiamo già rilevato in molta letteratura di età imperiale nei confronti del cinismo volgare.30 Si ha dunque l’impressione che la scelta di seguire la scuola cinica costituisca un’aggravante, funzionale a inasprire la tensione, per così dire naturale, tra contadino e filosofo: il giovane non solo ha abbandonato i valori del mondo agreste, ma ha scelto di farlo aderendo alla più anticonvenzionale – e dunque la più incomprensibile dal punto di vista paterno – tra le scuole filosofiche. Quindi, l’introduzione del contadino come controparte del filosofo nel dibattimento della questione εἰ φιλοσοφητέον comporta una degradazione comica che non sembra trovare molti riscontri nella manualistica greca (almeno non in relazione a questi personaggi); in effetti, nella tradizione ermogeniana si rileva, piuttosto, una tendenza a delineare il πρόσωπον del filosofo e l’attività del filosofare in termini nettamente positivi, se non addirittura ad idealizzarli. In proposito, vale forse la pena di richiamare qualche dato ulteriore, deducibile dal lavorio di decostruzione dei temi declamatori che impegna i diversi commentatori: ad esempio, il retore Sopatro, riflettendo su un tema ‘impossibile da discutere’ (ἀσύστατος),31 inserisce il filosofo tra i personaggi meritevoli di elogio, gli ἐπαινούμενα πρόσωπα, ponendolo sullo stesso piano dello stratego e dell’eroe di guerra.32

|| 28 Carugno 1960, 140. 29 D’obbligo il riferimento alle Nuvole, già messo in luce da Carugno 1960, 14; Anderson 1997, 2192 s. rileva le occorrenze, nella lettera, di φροντιστήριον, sottolineando però come la memoria di Aristofane sia filtrata da Menandro (‘one suspects that what we really have here is a Menander’s eye-view on Aristophanes’) e dalla retorica. 30 Per quanto si tratti di una qualità propria del cinismo ‘classico’, tipicamente associata alla figura di Diogene: cf. Krueger 1997, in part. 228. 31 In generale, su questi temi, cf. Calboli Montefusco 1986, 12–28. 32 Cf. Sop. Schol. ad Herm. stat. V 38, 3–8 W. Ἐὰν γὰρ ὁρίσωμεν, ‘πορνοβοσκὸς δέκα νέους κωμάζοντας ἀνεῖλεν’, ἀσύστατόν ἐστιν ὁμολογουμένως·τὸ πρόσωπον δὲ ἀμείβων καὶ εἰπὼν ‘ἢ στρατηγὸς ἢ φιλόσοφος ἢ ἀριστεὺς, ἢ τῶν ἐπαινουμένων προσώπων’ πεποίηκε συνεστάναι τὸ

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Che l’integrità etica, e in particolare il disinteresse per il denaro, costituisca una peculiarità del filosofo, emerge anche dalle riflessioni del commentatore Marcellino sulla boulesis, ossia sulle intenzioni da cui si presume che certi personaggi siano animati e che consentono, dunque, di prevedere un determinato comportamento; secondo il retore, la boulesis propria del filosofo rende inattendibile il reato pecuniario, e dunque, esemplifica Marcellino, ‘se siamo filosofi non è verosimile che abbiamo rubato’.33 Questo pregiudizio positivo nei confronti del filosofo può essere posto in relazione con il ruolo dominante esercitato, nella declamazione di scuola, dalla figura esemplare di Socrate, protagonista della maggior parte dei temi filosofici di ambito greco,34 compreso il nutrito filone delle Apologie.35 Un’esemplarità ulteriormente confermata dal prestigio dell’eroica controfigura romana di Catone:36 come è noto, la corrispondenza tra i due, resa evidente dalla quaestio infinita ‘se ci si debba sposare’, che si concretizza nella duplice forma εἰ γαμητέον Σωκράτει e an Catoni uxor ducenda sit,37 è soprattutto suggerita dall’atteggiamento dignitoso e imperturbabile con cui, in circostanze molto diverse, vanno incontro alla morte. Dunque, quando nel dibattito declamatorio entra in gioco il prosopon del filosofo, il personaggio di Socrate sembra costituire un riferimento irrinunciabile, che finisce per proiettare la sua ombra anche sul filosofo generico. Un caso interessante è, in proposito, il tema ermogeniano (Stat. 4,2, p. 40 P.) – pure ampiamente ripreso e commentato dalla manualistica38 – in cui un tiranno viene convinto ad || ζήτημα, ‘Se proviamo a definire [il tema] “un lenone uccide dieci giovani che fanno baldoria”, tutti convengono che il tema è privo di status: ma se cambiamo il personaggio e diciamo: “uno stratego, o un filosofo, o un eroe, oppure uno dei personaggi meritevoli di elogio” ha compiuto l’azione, il tema regge’. 33 Cf. Syr. Sop. et Marc. in Herm. stat. IV 352, 10–12 W. [Marcellino] … τὰ δὲ ἐπιτηδεύματα ἐξεταζόμενα ἐν ταῖς βουλήσεσιν οἷον φιλοσοφοῦντες οὐκ ἂν ἐλῃστεύσαμεν, ‘… le occupazioni che vengono esaminate nel valutare le intenzioni: per esempio, se siamo filosofi, non è verosimile che abbiamo rubato’. 34 Una decina di temi, tra suasorie e controversie: per la documentazione, cf. Kohl 1915, 31 n. 98 e 48–50, nn. 176–184. 35 I retori potevano essere incoraggiati ad alimentare questo filone dalle critiche all’Apologia platonica, considerata inefficace dal punto di vista retorico, come si evince dal giudizio di Cassio Severo riportato da Seneca Padre (contr. 3, pr. 8) eloquentissimi viri Platonis oratio, quae pro Socrate scripta est, nec patrono nec reo digna est; sul fatto che l’Apologia venisse considerata alla stregua di una controversia giudiziaria, cf. Winterbottom 1974, 383, n. 3 ad loc. 36 Per i temi incentrati su Catone, meno della metà di quelli socratici, cf. Kohl 1915, 103 s., nn. 404–417. 37 Attestati rispettivamente da Anonym. schol. ad Aphth. II 21, 19 W. e da Quint. 3,5,8. 38 Cf. Syr. Sop. et Marc. in Herm. stat. IV 218, 18–20 W. [Siriano]; 228, 28 s. [Siriano e Sopatro]; 486, 16 s. [Sopatro]; 490, 11 s. [Siriano]; 502, 12 s. [Marcellino]; 509, 11 s. [Sopatro].

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abbandonare il potere proprio dai discorsi di un filosofo, che richiederà poi il premio spettante al tirannicida (οἷον τύραννον ἔπεισε φιλόσοφος ἀποθέσθαι τὴν τυραννίδα καὶ αἰτεῖ τὸ γέρας). Grazie alla sua capacità di persuasione, il filosofo converte il tiranno alla saggezza; senza bisogno di ucciderlo, ne annienta il potere, restituendo ai concittadini la libertà39 e calandosi così in quel ruolo di salvatore della patria che è tradizionalmente riservato all’uccisore del tiranno: una figura che nella rigida tassonomia declamatoria si contrappone, come eroe totalmente positivo, al tiranno stesso, a sua volta incarnazione del male assoluto.40 L’allure ‘socratica’ di questo filosofo-eroe emerge con chiarezza se si confronta il tema con quello, attestato da Sopatro,41 in cui Socrate convince Alcibiade – tipica incarnazione del giovane ambizioso, sempre esposto, nel mondo della declamazione, all’accusa di aspirare alla tirannide – a non dedicarsi alla politica: nel fornire suggerimenti per l’elaborazione del tema, il retore si sofferma in più punti sull’incompatibilità tra l’aspirazione alla tirannide e l’educazione socratica.42 Nella manualistica greca, dunque, Socrate sembra fare da modello per lo stereotipo positivo del filosofo ‘eroe della parola’, amico della democrazia, nemico della tirannide e salvatore dell’immaginaria polis declamatoria. Questa sua funzione modellizzante e antonomastica gli assicura una posizione di assoluto dominio nei temi declamatori, in contrasto con la sporadica presenza di altri ‘grandi nomi’, come Platone, Protagora, Epicuro.43 Forse, questo dato può anche contri-

|| 39 Cf. e.g. Syr. Sop. et Marc. in Herm. stat. IV 487, 14–18 W. [Siriano] ἐρεῖ γὰρ ἐκ τῶν προσώπων τῇ πλατύτητι χρώμενος, ὅτι φιλοσοφίᾳ προσέχων ἄνθρωπος τὴν τυραννίδα καθεῖλε λόγοις οὐ φόνῳ τὸν τύραννον σωφρονίσας, καὶ τοὺς πολίτας, οἷς ἐλευθερίατε καὶ δημοκρατία πάτριον, τῶν περιεστώτων ἀπήλλαξα δυσχερῶν· οὕτω μὲν οὖν τοῖς προσώποις ἐπεξελεύσεται, ‘Dirà infatti, amplificando a partire dai personaggi, che la persona dedita alla filosofia ha distrutto la tirannide con le parole, non con l’omicidio, perché ha fatto diventare saggio il tiranno e ha liberato da circostanze difficili i cittadini che per tradizione erano abituati alla libertà e alla democrazia’. 40 La fissità della figura del tiranno, sempre accompagnata, nella declamazione, da una ‘netta condanna’ è sottolineata da Tabacco 1985, 12 e passim. 41 Sop. Quaest. div. 8, 2, 1a W. = p. 9, th. Weiss. Μετὰ τὰ κατὰ Κύζικον Ἀλκιβιὰδης αἰτήσας φρουρὰν τοῦ σώματος κρίνεται τυραννίδος ἐπιθέσεως, ‘dopo i fatti di Cizico, Alcibiade chiede una guardia del corpo e vine per questo accusato di aspirazione alla tirannide’. 42 Cf. Sop. Quaest. div. (8, 4, 6–9 W. = p. 10, 22 Weiss.) τὸ μὲν οὖν πρὸς τυραννίδα μὴ βλέπειν οἰκονομεῖται τῇ … Σωκρατικῇ παιδεύσει, ‘il fatto di non mirare alla tirannide è dato dall’educazione socratica’; inoltre (8, 4, 13–16 W. = p. 10, 1–4 Weiss.) in cui si immagina la replica di Alcibiade: ἐγὼ γὰρ, ὦ ἄνδρες δικασταί, νέος ὢν κομιδῇ φιλοσοφίας ἐραστὴς ἦν καὶ τὰ κάλλιστα παρὰ Σωκράτους ἐμάνθανον, καὶ διδασκόμενος ὅτι καλὸν ἡ πολιτεία διετέλουν τῷ φιλοσόφῳ συνών, ‘Io, giudici fin da giovane sono stato amante della filosofia, ho imparato i precetti più nobili da Socrate e frequentando il filosofo ho appreso che la nostra costituzione è una cosa bella’. 43 Cf. Kohl 1915, 87 nn. 350 s. (Epicuro); 52, n 195 (Platone) e n. 192 (Protagora).

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buire a spiegare, almeno in parte, l’assenza di molti, compresi i più celebri esponenti della filosofia cinica, che già la tradizione ellenistica, enfatizzando le origini socratiche della setta, aveva talora rappresentato come dei veri e propri ‘doppi’ di Socrate.44 Lo stereotipo negativo del filosofo cinico, dunque, è documentato esclusivamente sul versante latino della declamazione di scuola. La sua prima apparizione, in effetti, precede la manualistica ermogeniana e risale al già menzionato passo di Quintiliano da cui si evince che il Cinico, a prescindere dalle circostanze in cui agisce, non può che essere immorale, proprio come il marito geloso non può che maltrattare la moglie: Sed in scholasticis quoque nonnumquam evenit ut pro narratione sit propositio. Nam quid exponet quae zelotypum malae tractationis accusat aut qui Cynicum apud censores reum de moribus facit? Quint. 4,2,3 Ma anche nelle declamazioni di scuola a volte il tema (propositio) sostituisce il resoconto dei fatti (narratio). Che cosa dovrà spiegare, infatti, la moglie che accusa di maltrattamenti il marito geloso o chi denuncia ai censori il Cinico per cattiva condotta?

Il pregiudizio di immoralità nei confronti dei Cinici innesca un processo de moribus: uno dei tanti esempi di come la declamazione sottoponga a ‘giuridicizzazione’ (il termine è di Mario Lentano) pratiche esistenti nella tradizione romana, ma che non comportavano un iter processuale formalizzato,45 come la convocazione davanti ai censori;46 un’accusa destinata a perdurare nella manualistica tarda,

|| 44 Diogene Laerzio (7,2 s.) paragona Cratete con il Socrate dei Memorabili di Senofonte e riporta (6,54) il detto di Platone che definisce Diogene ‘un Socrate impazzito’: cf. in proposito Long 1997, soprattutto 28 e 33; i tratti socratici più tipicamente rivendicati dal cinismo di età ellenistica sono la capacità di sopportazione (ἕγκράτεια) e la imperturbabilità (ἀπάθεια). 45 Rinvio in proposito alle recenti riflessioni di Lentano 2014, 53–58. Caratteristica dell’accusa de moribus, nella declamazione, sembra essere l’impossibilità di riferirsi a una legge precisa: cf. le osservazioni sui casi de moribus di Sulpicio Vittore 349,36 H. neque enim dubium est lege nulla vetari quod lege nulla accusatur. 46 Secondo Kaser 19712, 62, il procedimento attuato dai censori è definito iudicium de moribus solo per analogia con il processo vero e proprio, che in realtà si colloca su un piano diverso rispetto all’attività censoria del regere mores. Su una actio de moribus è incentrata la controversia 7,2 di Seneca Padre, in cui l’accusa mira a sanzionare un tradimento privato (Popillio consegna ad Antonio la testa del patronus Cicerone, che pure lo aveva difeso in un processo): dunque, anche in questo caso – per cui già Bornecque (19322, 552, n. 55 ad loc.) aveva escluso una corri-

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dove il tema della matrona cinica sotto accusa per immoralità47 evidenzia l’incompatibilità dell’adesione alla secta con il rispetto delle convenzioni sociali.48 Quali siano precisamente i mores da sanzionare nei Cinici secondo Quintiliano non è detto esplicitamente, ma il fatto che questa secta non venga neppure menzionata nella rassegna delle scuole filosofiche da cui si possono trarre insegnamenti utili alla retorica (12,2,23–26) lascia supporre che il retore condividesse i pregiudizi diffusi sui contemporanei seguaci di tale disciplina – alcuni dei quali, per di più, intrattenevano un rapporto problematico con la dinastia Flavia – e li identificasse con la figura del filosofastro. Critiche a filosofi di basso profilo affiorano, in effetti, anche nell’Institutio,49 nell’ambito della mai sopita contesa tra filosofia e retorica:50 in un altro passo del libro dodicesimo, il retore, pur senza menzionare un particolare orientamento filosofico, prende di mira l’atteggiamento di certi personaggi, sprezzanti delle fatiche che l’oratoria comporta e più propensi a ostentare l’adesione alla filosofia (la barba lunga, l’atteggiamento serioso) che non a seguirne seriamente i precetti:

|| spondenza con il diritto romano storico – Bonner (1949, 124 s.) ritiene che la declamazione trasformi in un procedimento formale la convocazione davanti ai censori (così pure Winterbottom 1974, p. 50 n. 1); Langer 2007, 186 rileva peraltro che, quanto al merito, il caso di Popillio – una violazione degli obblighi di clientela – rientrerebbe propriamente nelle competenze dei censori. 47 Il coinvolgimento delle donne nella setta è oggetto di pesanti critiche in Luc. 56,18 [Fug.] ἔνιοι δὲ καὶ ξένων τῶν σφετέρων γυναῖκας ἀπάγουσι μοιχεύσοντες κατὰ τὸν Ἰλιέα ἐκεῖνον νεανίσκον, ὡς φιλοσοφοῖεν δὴ καὶ αὗται. 48 Anche il caso della matrona, come quello di Popillio (vedi supra, n. 46), potrebbe ricadere nelle competenze dei censori che intervenivano in questioni normalmente gestite dal pater familias (Kaser 19712, 27 e 62). D’altra parte, nella declamazione greca, il comportamento anticonvenzionale di un filosofo è punito dal processo per παρανομία: cf. Problem. rhet. in status 8, 413– 18, 20 W. Φιλόσοφος μοιχὸν εὑρὼν ἐπὶ τῇ γυναικὶ συνῴκισεν αὐτῷ τὴν γυναῖκα, καὶ κρίνεται παρανομίας (‘un filosofo, trovato un adultero con la moglie, gliela fece sposare: viene accusato di violazione della consuetudine’). 49 Sui vitia dei filosofi contemporanei, a cui viene addebitato il degrado della retorica, cf. Quint. 1, pr. 15 nostris vero temporibus sub hoc nomine maxima in pleriquae vitia latuerunt e 12,2,9 utinamque sit tempus umquam quo perfectus aliquis qualem optamus orator hanc artem superbo nomine et vitiis quorundam bonam eius corrumpentium invisam vindicet sibi ac velut rebus repetitis in corpus eloquentiae adducat, con Austin 1965, 78 e xv (Introduction). 50 Sulla complessa questione del rapporto tra Quintiliano e la filosofia, rinvio alle sintesi di Bolaffi 1958, 19 s. e passim, Manzoni 1990 e Viano 1995, 193–199: l’indiscussa sintonia del retore con il potere (su cui insiste Lana 1973, 430 s.), avrà forse incoraggiato le polemiche contro i filosofi contemporanei, ma al là di questo atteggiamento, di natura ‘più personale e professionale, che non culturale in senso lato’ (Manzoni 1990, 150), lo scopo di Quintiliano sembra essere quello di incoraggiare una ‘riappropriazione’ (Viano 1995) del patrimonio della sapienza filosofica da parte della retorica.

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Alii pigritiae adrogantioris, qui, subito fronte conficta inmissaque barba, veluti despexissent oratoria praecepta paulum aliquid sederunt in scholis philosophorum ut deinde in publico tristes, domi dissoluti captarent auctoritatem contemptu ceterorum: philosophia enim simulari potest, eloquentia non potest Quint. 12,3,1251 Ci sono altri, affetti da un’inerzia più arrogante, che, con la fronte corrugata e la barba lunga, come se avessero disdegnato gli insegnamenti dell’oratoria, sono rimasti per un po’ seduti nelle scuole filosofiche, così che da lì, austeri in pubblico, senza freni in privato, potessero acquisire autorevolezza con il disprezzo per gli altri: perché la filosofia si può simulare, l’eloquenza no.

Superbia, ambizione e ipocrisia rientrano tra i vizi tipicamente rinfacciati a quel tipo di filosofo ‘volgare’ a cui, in età imperiale, viene spesso ricondotto il Cinico. Di tali clichés si trova traccia anche nelle Minores, sia in funzione genericamente anti-filosofica, sia specificamente anti-cinica. Per il primo aspetto, va ricordata la Declamatio Minor 268, nota anche come ‘controversia delle artes’ in cui un oratore, un medico e un filosofo si fronteggiano, contendendosi il primato dell’utilitas rispetto alla comunità cittadina.52 Nella raccolta è documentato solo il discorso del medico, che dedica ampio spazio alla polemica contro le altre due professioni, a partire da quella del filosofo53 su cui vengono riferiti alcuni dei pregiudizi più diffusi: Hos [sc. philosophos] illi et vanos vocant, et otiosos et in ambitum ipsum, contra quem maxime disserere videntur alligatos. Ps. Quint. decl. min. 268,5 Li definiscono [sc. i filosofi] falsi e oziosi, e incatenati a quella stessa ambizione contro cui hanno l’aria di fare i più grandi discorsi.

Un passo in cui – nota Winterbottom (1984, 360) – echeggia la polemica quintilianea di 12,3,12. Ma le critiche sollevate da Quintiliano forniscono argomenti anche all’accusa contro il Cinico nella Declamatio minor 283, a partire dall’adrogantia ostentata dai filosofi nei confronti dell’oratoria, denunciata apertamente dal padre disertus || 51 Un’analisi di dettaglio dei clichés antifilosofici presenti nel passo in Austin 1965, 97 s. 52 Oltre al commento di Winterbottom 1984, 358–364, si veda l’approfondita analisi di Mastrorosa 1999; modesto l’apporto del più recente Buffa Giolito 2002. 53 L’ampiezza delle critiche alle artes rivali contrasta con la brevità della laus medicinae in epilogo: cf. Mastrorosa (1999, 9), per cui lo spazio concesso al punto di vista del medico può trovare una spiegazione nella valorizzazione di questa figura professionale in età Flavia; sulla figura del medico nella declamazione vedi anche la sintesi di Gibson 2013, e in part. 533 s. e n. 12.

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con la sarcastica affermazione: scilicet nos stulti qui forum, rei publicae dignitatem tuemur. Discede ab insipiente, ab insano (§ 1). Non manca poi la critica all’ambizione, un atteggiamento che, come si è visto, il filosofo è sempre pronto a biasimare negli altri. Il difetto è attribuito all’intera categoria dei Cinici al § 3, Vos vero novo genere ambitus adorationem miseria captatis, a cui si rimprovera di ostentare una condizione misera per conquistare il seguito del pubblico. Nel riproporre un cliché ben noto all’invettiva anti-filosofica, il declamatore riecheggia nella sintassi il già menzionato passo di Quintiliano (captarent auctoritatem contemptu ceterorum), ma soprattutto, sul piano lessicale, ricorre a un tecnicismo del linguaggio politico,54 ambitus, che indica propriamente l’azione di ‘andare in giro’ a raccogliere consensi. L’immagine del politico in cerca di voti – sfruttata per colpire l’atteggiamento esibizionista del filosofo avido di popolarità anche nel già menzionato passaggio di decl. min 268,5 – risale probabilmente a Seneca, non solo per la connotazione negativa attribuita ad ambitus,55 ma per il tipico trasferimento di un tecnicismo al linguaggio della filosofia; nell’epistola quinta Lucilio viene messo in guardia proprio contro i Cinici ‘di strada’, che, per attirare l’attenzione, esibiscono un aspetto macilento: Asperum cultum et intonsum caput et neglegentiorem barbam et indictum argento odium et cubile humi positum et quidquid aliud ambitionem perversa via sequitur, evita. Sen. epist. 5,3 Evita il modo di vestire sciatto, i capelli lunghi, la barba trascurata, l’odio dichiarato per il denaro, il giaciglio per terra e qualsiasi altra cosa tenda in modo perverso all’ambizione.

La natura paradossale e immorale dell’ambitio filosofica, evidenziata nell’epistola senecana dalla locuzione perversa via,56 nella declamazione è sottolineata dal sintagma novo genere, che anche in altri testi declamatori enfatizza il ricorso a strategie d’azione inconsuete e ‘perverse’.57

|| 54 Per l’appartenenza del termine al lessico politico, cf. Hellegouarc’h 19722, 208–210. 55 Rilevata da Mastrorosa 1999, 32 n. 70. 56 Sulla densità filosofica del nesso, che potrebbe richiamare la διαστροφή, la ‘deviazione’ etica, ovvero la pravitas, cf. Scarpat 1973, 100 ad loc. 57 Cf. Ps. Quint. decl. mai. 17,3, p. 334, 14 H. tandem infelix miseritus mei, miseritus patris … tamquam novissimi ambitus genus excogitavi, ut me in honorem sui reverentiamque pereuntem sic odisse desineret; inoltre decl. mai. 4,21, p. 83, 12 H. novo mihi inauditoque opus est ambitu malorum: nisi morior, periclitor; in entrambi i casi si tratta di figli che decidono di suicidarsi per risolvere il rapporto con il proprio padre.

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Un altro motivo comune alla Minor 268 è l’accusa di incoerenza rispetto alla povertà tanto esibita, evidente nell’ironia del medico sul presunto disinteresse dei filosofi per il denaro (§ 15 nemo pecuniae cupidus). L’idea che il vanto della povertà – la gloria egestatis di cui parla Seneca58 – celi un attaccamento ai beni materiali, emerge infatti nella parte finale del discorso, in cui il padre solleva il sospetto che il figlio sia tanto turbato dal processo per abdicatio perché teme, in realtà, di essere escluso dal testamento e di perdere quelle ricchezze che costituiscono il vero oggetto dei suoi desideri: Quod si abdicationem ferre non potes, si carere hereditate malum iudicas, deprehensus es: damno pecuniae moveris et detrimento famae, et homo qui has ipsas opes cotidie incusas tamen concupiscis. Ps. Quint. decl. min. 283,5 E se non puoi sopportare il disconoscimento, se consideri un male restare privo dell’eredità, eccoti colto in fallo: sei sensibile alla perdita di denaro e al danno per la tua reputazione: tu sei uno che ogni giorno critica proprio questi valori, e però li desideri.

Oltre alle ricchezze, poi, il figlio paventerebbe la perdita di reputazione che accompagna la condizione dell’abdicatus;59 concentrata nel sintagma damno pecuniae moveris et detrimento famae, la duplice accusa riecheggia, ancora una volta, un passo senecano in cui si prendono di mira preoccupazioni analoghe: Quare … pecuniam necessarium tibi instrumentum existimas et damno moveris et lacrimas audita coniugis aut amici morte demittis et respicis famam et malignis sermonibus tangeris? Sen. v. beat. 17,1 Perché … pensi che la ricchezza sia per te un mezzo indispensabile, ti lasci scuotere dalla bancarotta, lasci scorrere le lacrime quando vieni informato della morte della moglie o di un amico, fai caso alla reputazione e sei urtato dai discorsi malevoli?

Nel circuito che lega la polemica quintilianea contro i falsi filosofi che snobbano l’eloquenza, il tema della Minor 268 e le accuse al Cinico della 283, un altro trait d’union di notevole interesse è la contrapposizione tra il filosofo e l’oratore: in tutti e tre i casi viene recepita e variamente rielaborata quella lunga disputa tra retorica e filosofia, che nella declamazione di scuola è alla base di parte delle

|| 58 Cf. Sen. benef. 2,17,2 iniquissimum est te pecuniam sub gloria egestatis adquirere, con Billerbeck 1979, 17 s.: la sententia suggella un aneddoto che mette in luce l’incoerenza di un Cinico, mendicante ma avido di denaro. 59 Per l’infamia come conseguenza dell’abdicatio, cf. Ps. Quint. decl. min. 260,27 Illud parum est, notari infamia? e 271,18 cum hac me infamia dimittis.

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controversie in cui si trova coinvolto il personaggio del filosofo.60 Nella declamazione 283, il fatto che il padre-accusatore sia un oratore (disertus) – e non un contadino, come nel corrispondente tema ermogeniano – comporta uno spostamento della linea del conflitto: al figlio non viene rinfacciato solo il tradimento delle origini, ma il rifiuto di quegli impegni che il padre oratore rivendica come un merito nei confronti dei concittadini (§ 2 Sed non necesse habeo, iudices, diu commendare vobis officia civilia, in quibus iam diu satisfeci) e che invece, dal punto di vista cinico, costituiscono un’autentica follia. L’assunzione dell’accusa da parte dell’oratore fa così emergere un punto particolarmente critico del difficile rapporto tra filosofia cinica e cultura romana: quel rifiuto dei negotia – imprescindibili per l’oratore – che aveva reso problematica, a Roma, anche l’accettazione dell’epicureismo.61 Nel caso dei Cinici, il disimpegno è aggravato dal disprezzo per il decorum e per la gravitas che devono caratterizzare chi agisce sulla scena pubblica, assieme alla necessità di un riconoscimento pubblico della virtus privata. Significativa, da questo punto di vista, la delusione del padre per la carriera perduta del figlio (§ 5 In alias te spes sustuli; de dignitate tua cogitabam), ma soprattutto l’aspra critica al suo habitus, quel look da mendicante che caratterizza l’immagine pubblica dell’adepto alla secta cinica. Proprio questo modo di presentarsi in società viene additato ai giudici come una giustificazione evidente dell’abdicatio, così ovvia da rendere superflua qualsiasi spiegazione: Videte, ut alia taceam, habitum ipsum. Ceteros enim quos abdicant patres sine narratione culpae abdicare non possunt: in hoc filio satis est ad odium habitum ostendere. Ps. Quint. decl. min. 283,2 Guardate, per non parlare del resto, anche solo il suo abbigliamento. Negli altri casi, i padri non possono disconoscere i loro figli senza raccontare qual è la loro colpa: ma, nel caso di questo figlio, per spiegare il mio odio, basta mostrare le sue condizioni.

L’habitus parla da sé: il declamatore recepisce qui puntualmente il passo quintilianeo già menzionato (4,2,30), per cui la problematicità etica del Cinico, come quella del marito geloso, risulta autoevidente, tanto da non richiedere la narrazione di un antefatto. L’esibizione di una povertà eccessiva, che sconfina nella

|| 60 Per i temi incentrati sulla contrapposizione tra filosofo e oratore, attestati sia nella declamazione greca che latina, rinvio a Winterbottom 1984, 358 s. ad decl. min. 268. 61 Su questo aspetto dell’incompatibilità tra filosofia cinica e cultura romana, rinvio a Griffin 1997, 190–204. Quintiliano pone il problema per gli Epicurei, presentati come refrattari all’oratoria in 12,2,24 in primis nos Epicurus a se ipse dimittit, qui fugere omnem disciplinam navigatione quam velocissima iubet; neque vero Aristippus, summum in voluptate corporis bonum ponens, ad hunc nos laborem adhortetur, con Austin 1965, 87.

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sordes, sulla scena pubblica romana suscita particolare irritazione: come osserva Miriam Griffin,62 la condizione di mendicità, autoimposta e motivata solo dalla ricerca di ammirazione, vanifica la simpatia che i Romani tradizionalisti potevano avvertire per uno stile di vita parco e alieno al lusso. Da qui anche la svalutazione della patientia; la capacità di sopportazione dei disagi fisici a cui mira l’ἄσκησις cinica viene di fatto ridotta dal declamatore a una mera mancanza di buon senso, che suscita esasperazione e sarcasmo: Adversus fortunam te exerces? Quid enim accidere gravius potest? Frigus, famem pateris ne quando accidant, et ideo aliquid pateris ne quando patiendum sit? Ps. Quint. decl. min. 283,3 Ti alleni per far fronte alla sorte? E che cosa ti può succedere di peggio? Patisci il freddo, la fame, caso mai ti capitino e sopporti un patimento per paura di doverlo, prima o poi, subire?

Lo stesso sarcasmo si percepisce nel pun (§ 4) ego in te hanc patientiam corporis ferre non possum,63 e nel monito finale (§ 5) nec nos extra rerum naturam ambitus ponat. La ricerca di popolarità – l’ambitus – spingerebbe, dunque, il Cinico a coltivare uno stile di vita che addirittura eccede i limiti posti dalla natura. L’accusa, rivolta a una dottrina etica la cui massima aspirazione, dal punto di vista dei suoi seguaci, è quella di favorire uno stile di vita in accordo con la φύσις64 – rivela la diffidenza romana per le scelte estreme, frutto di puro intellettualismo: che una disciplina filosofica troppo rigidamente osservata sia in contraddizione con la natura, è una delle critiche rivolte da Cicerone allo stoicismo radicale di Catone: Finxit enim te ipsa natura ad honestatem, gravitatem, temperantiam, magnitudinem animi, iustitiam, ad omnes denique virtutes magnum hominem et excelsum. Accessit istoc doctrina non moderata nec mitis, sed, ut mihi videtur, paulo asperior et durior quam aut veritas aut natura patitur. Cic. Mur. 60 La natura stessa, infatti, ha fatto di te una persona grande e straordinaria per onestà, serietà, moderazione, grandezza d’animo, senso di giustizia: insomma, per tutte le qualità. A

|| 62 Cf. Griffin 1997, 196. 63 Cf. Winterbottom 1984, 398 ad loc. ‘there is a doubtless conscious paradox in patientiam … ferre non possum’. 64 ‘Vivere secondo natura’ è al primo posto tra i principi propri della secta secondo Long 1997, 29. Sulla problematicità di tale imperativo, si veda Branham 1997, 96–99 per cui l’identificazione di natura e corpo attuata da Diogene risponde soprattutto a una funzione retorica.

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questo si è aggiunta una dottrina filosofica né misurata né indulgente, anzi, dal mio punto di vista, un po’ troppo severa e dura rispetto a quel che tollerano la verità o la natura.

La critica di assumere comportamenti ‘innaturali’ è rivolta anche ai Cinici sia da Cicerone65 sia da Seneca che, in epist. 5,4, mette sotto accusa proprio l’eccesso di trascuratezza: hoc contra natura est, torquere corpus suum et faciles odisse munditias et squalorem adpetere. Da Seneca sembra provenire anche l’espressione extra naturam; il sintagma, che modifica in senso iperbolico la formula ‘standard’ contra naturam, è introdotto da Seneca Padre per condannare lo stile senza misura di un retore (contr. 10, pr. 9 omnia usque ad ultimum tumorem perducta, ut non extra sanitatem sed extra naturam essent), ma approda al linguaggio dell’etica – secondo un percorso tipico – con Seneca figlio, che lo riferisce ad un atteggiamento decisamente antifilosofico: l’avidità umana, totalmente priva di senso del limite (Sen. benef. 7,10,3 quid enim ista sunt, quid fenus et calendarium et usura nisi humanae cupiditatis extra naturam quaesita nomina?).

3 Pugnare cum moribus: i Cinici e la mentalità romana Disimpegnato e sprovvisto di senso della misura, lo stile di vita del Cinico appare come una scelta incompatibile con i mores romani: credo che il rimprovero finale del padre, di pugnare cum moribus, si riferisca proprio a quella violazione delle convenzioni sociali che è del resto l’accusa rivolta ai Cinici negli altri due temi giunti fino a noi.66 Ma il testo consente qualche ulteriore considerazione sulla cultura filosofica del declamatore: in particolare il padre lamenta che il figlio, tra tante scuole disponibili, abbia scelto proprio quella cinica: Omnis vero philosophiae tractatus alienus moribus nostrae civitatis est. Tamen utique placuerit: nonne aliae sectae iustiores? Attenderes physicis, quaereres utrumne ignis esset

|| 65 Cf. Cic. off. 1,128 in cui ai Cinici e agli Stoici radicali (Stoici paene Cynici), ugualmente condannati per le molteplici violazioni del comune senso del pudore (verecundia), si oppone il monito nos autem naturam sequamur; sul passo, cf. Billerbeck 1982, 152 s. e 1997, 206. 66 Cf. supra, p. 81 e nn. 3 s. Tra le due possibilità prospettata da Winterbottom 1984, 398 ad loc. ‘act unconventionally’ o ‘be a hypocrite’, la prima mi sembra dunque più adeguata: cf. anche Cic. off. 1,148, sempre a proposito del rispetto dovuto alle condizioni sociali, da cui solo ad alcuni individui, dotati di eccezionale statura morale, possono derogare: si quid Socrates aut Aristippus contra morem … fecerint.

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initium rerum an vero minutis editus et mobilibus elementis, perpetuus hic mundus an mortalis esset. Ps. Quint. decl. min. 283,4 Certo, in generale, la pratica della filosofia è estranea alla tradizione della nostra città. Ma diamola comunque per approvata: le altre scuole non sono migliori? Se ti dedicassi alla filosofia naturale, cercheresti di scoprire se il principio delle cose sia il fuoco, oppure se questo mondo sia il prodotto di particelle piccolissime e in continuo movimento, se sia eterno o soggetto a una fine.

Mentre l’affermazione iniziale richiama l’idea, ampiamente documentata e ben presente anche in Quintiliano, che l’astrattezza filosofica sia estranea alla tradizione romana,67 subito dopo il declamatore lascia intravedere una gerarchia tra le dottrine filosofiche, all’interno della quale i Cinici detengono il rango più basso: la loro estraneità allo studio della natura – quella concentrazione esclusiva sull’etica che li distingue, come è noto, dalle altre scuole di derivazione socratica – li relega all’ultimo posto tra le possibili opzioni. Il riferimento alle due scuole rivali, stoica ed epicurea, non è esplicito, ma si affida a una breve menzione delle teorie che ciascuna delle due sectae ha sviluppato nell’ambito della fisica. Trovano così spazio, nella struttura del discorso, quelle che Quintiliano definisce le quaestiones philosopho convenientes: in questa categoria ricadono sia questioni etiche – in merito alle quali, tuttavia, anche l’oratore può vantare una competenza specifica –, sia e soprattutto problemi che oggi definiremo ‘scientifici’, relativi, ad esempio, alla struttura e all’ordine del cosmo; su simili questioni si incentrano talora quelli che la manualistica greca denomina ‘temi da filosofo’.68 Viene dunque introdotto un rapido accenno alle teorie contrapposte della fisica stoica ed epicurea: da una parte l’idea di un mondo eterno, che nasce e

|| 67 Cf. Quint. 12,2,29 s. Quantum enim Graeci praeceptis valent, tantum Romani, quod est maius, exemplis. Il tema della vocazione ‘pratica’ dei Romani che rende inutile lo studio della filosofia, torna anche nella decl. min. 268,7 Non enim, ut opinor, ex istorum scholis abstinentiam didicere Fabricii, Curii, nec uti mortem contemnerent Decii consecuti sunt [nec] vetera horum explicando monumenta. Tulit civitas populi Romani liberatores Brutos, tulit Camillos, antequam ulla istius artis simulatio inreperet, che riprende da vicino il passo quintilianeo. 68 Cf. ad es. Sop. Schol. ad Herm. stat. 5,3,8–14 W. φιλοσόφου δὲ ζητήματος παράδειγμα τόδε· ζωγράφῳ τις ὑπέσχετο δώσειν χιλίας δραχμὰς, εἰ τὸ κάλλιστον γράψας εἴη· ὁ δὲ ἀπαιτεῖ τὰς χιλίας κύκλον γράψας· φιλόσοφον οὖν τὸ ζήτημα, ζητοῦμεν γὰρ, εἰ κύκλος ὁ κόσμος, καὶ εἰ ὁ κόσμος ζῶν, ‘Ecco un esempio di tema da filosofo: un tale promise a un pittore di dargli mille dracme se avesse dipinto la cosa più bella; quello richiede il compenso dopo aver dipinto un cerchio; il tema è da filosofi; cerchiamo infatti di capire se l’universo è un cerchio e se l’universo è vivente’.

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Extra rerum naturam: retorica contro filosofia cinica nella Declamatio minor 283 | 99

rinasce dal fuoco attraverso la ciclicità dell’ekpyrosis,69 dall’altra quella di un universo composto da atomi e destinato a finire.70 Il passo fornisce un esempio efficace di come le dottrine filosofiche, certo in forma assai semplificata e poco specifica, potessero entrare in gioco nella struttura argomentativa della declamazione, sfruttando quel passaggio dal particolare al generale che appariva auspicabile alla retorica e naturale alla mentalità antica, come osserva Winterbottom.71 Non si tratta di un esempio isolato nella declamazione latina;72 per quanto riguarda le Minores, la coppia polare costituita da stoicismo ed epicureismo compare anche nella declamazione 268, dove tuttavia l’intento è quello di far emergere l’inaffidabilità della filosofia, che su temi come la provvidenza o l’opportunità dell’impegno politico, produce punti di vista opposti senza approdare mai a una soluzione definitiva.73 Nella Minor 283, invece, l’equiparazione dell’epicureismo allo stoicismo – che in realtà domina l’orizzonte filosofico della declamazione di scuola74 – mette ancora più in risalto l’inadeguatezza della filosofia cinica, contrapposta alle altre perché deficitaria sul piano della fisica. Il giudizio espresso dal disertus è dunque del tutto in linea con le idee di Quintiliano sulla cultura filosofica che si richiede a un buon oratore: come si è visto, questi deve sapersi destreggiare nel territorio della filosofia, dibattendo quaestiones riguardanti non solo i mores, ma anche la struttura e l’organizzazione del cosmo. Ma a tale scopo, una dottrina interamente centrata sull’etica non può

|| 69 Sulla teoria, mi limito a richiamare Sen. nat. 3,13,1 che indica nel fuoco il principio all’origine dell’universo: dicimus enim ignem esse qui occupet mundum et in se cuncta convertat: ulteriori riscontri in Parroni 2002, 536 ad loc. 70 Opportunamente Winterbottom corregge in mobilibus il tradito mirabilibus in 283,4 (mobilibus elementis) e rileva (1984, 398 ad loc.) la consonanza con il lessico lucreziano di 6,225–227 hunc tibi subtilem cum primis ignibus ignem / constituit natura minutis mobilibusque / corporibus, cui nil omnino obsistere possit, dove mobilibus è congettura umanistica per montibus, recepita da tutti gli editori. Anche elementa è ricorrente tra i sinonimi utilizzati da Lucrezio per indicare gli atomi, cf. ad es. Lucr. 2,410 s. ne tu forte putes serrae stridentis acerbum horrorem constare elementis levibus (sulla terminologia atomistica di Lucrezio, cf. Grimal 1974 e Sedley 1999, 230); il termine non rientra invece tra i sinonimi di uso ciceroniano: cf. Reinhardt 2005, 155. 71 Winterbottom 2006, 77. 72 Per analoghe quaestiones attestate nelle Maiores, cf. Pasetti 2008. 73 Cf. Ps. Quint. decl. min. 268,11 quanta contra deos pugna! Quidam nihil agi sine providentia credunt; alii curam deorum intra sidera continent e 12 hi nos ad administrationem rei publicae hortantur; illi nihil periculosius civilibus officiis credunt, con Mastrorosa 1999, 47 s. 74 Diversi esempi di presenza dello stoicismo (in particolare senecano) nelle Declamationes Maiores sono raccolti in Pasetti 2008. Per la ricezione del concetto stoico di natura in ambito declamatorio, cf. Citti 2015.

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risultare utile, soprattutto se si considera che, in questo particolare settore, Quintiliano è sempre pronto a rivendicare il primato della retorica rispetto alla filosofia.75

4 Conclusioni In conclusione, la Declamatio Minor 283 contiene argomentazioni riconducibili alla ben nota thesis an philosophandum / εἰ φιλοσοφητέον: da qui i numerosi punti di contatto con la Minor 268, che ripropone la questione in modo più diretto. Lo svolgimento in negativo, condotto da un declamatore lettore di Seneca, oltre che di Quintiliano, recupera una serie di stereotipi sul cinismo ‘volgare’, filtrandoli attraverso un punto di vista tipicamente romano. Nella nostra declamazione (come pure nella Minor 268) al filosofo viene di conseguenza attribuita una fisionomia problematica, che non sarà più documentata dalla tarda manualistica greca, in cui questa figura, per lo più accompagnata da un pregiudizio positivo, appare di solito come una proiezione dello stereotipo socratico. A sua volta, la città immaginaria che fa da sfondo al dibattito perde i tratti generici propri del mondo dei declamatori per assumere una fisionomia un po’ più definita: la nostra civitas, orgogliosamente menzionata dal padre disertus, è senz’altro Roma, con tutte le sue idiosincrasie nei confronti della filosofia e dell’intellettualismo. Il fatto, poi, che la polemica sia indirizzata contro un Cinico, fa emergere, nella silhouette di questa Roma convenzionale qualche tratto più marcatamente realistico: non sarà infatti troppo azzardato supporre che ai tempi di Quintiliano la diffidenza per la filosofia congenita nei mores romani fosse ulteriormente inasprita da ragioni politiche, viste le tensioni esistenti tra la dinastia Flavia – Vespasiano in particolare – e certi filosofi vicini alla nobilitas senatoria, la cui rappresentazione oscilla, secondo i punti di vista, tra l’immagine del filosofo ideale e quella dell’impostore. Cassio Dione (65,13) ci riporta la battuta sprezzante con cui l’imperatore avrebbe ribattuto agli insulti del cinico Demetrio, a suo

|| 75 Cf. Quint. 12,2,6 Cicero … testatur, dicendi facultatem ex intimis sapientiae fontibus fluere, ideoque aliquamdiu praeceptores eosdem fuisse morum atque dicendi, dove si richiama l’auctoritas di Cicerone per attribuire all’oratore il primato nei civilia officia: cf. Austin 1948, 76 ad loc. e Lana 1973, 432.

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Extra rerum naturam: retorica contro filosofia cinica nella Declamatio minor 283 | 101

tempo ammirato da Seneca: ‘non uccido un cane che abbaia’.76 Lo stesso imperatore non risparmiò, tuttavia, lo stoico Elvidio Prisco – a cui lo storico filo-flavio attribuisce tutti i difetti del filosofo radicale; e fu sempre Vespasiano, come è noto, a prendere la decisione di allontanare i filosofi da Roma, tra il 71 e il 74. Dal punto di vista dell’imperatore, le differenze tra le diverse scuole filosofiche non dovevano essere rilevanti: l’aggressività dei Cinici, collettori di pregiudizi negativi, finì così per essere attribuita a tutti i filosofi che non apparivano concilianti nei confronti del potere, con conseguenze negative sull’intera categoria.77 Simili tensioni potevano essere avvertite anche nell’ambiente umbratile della scuola: lo sfogo di Quintiliano contro i filosofi contemporanei, tradizionali concorrenti dei retori nell’ambito della scuola, viene letto, come si è visto, anche in questa chiave. Non sarà forse un caso, dunque, che gli unici temi ‘anti-cinici’ rintracciabili nella tradizione retorica risalgano a Quintiliano – e all’ambiente quintilianeo in cui vengono prodotte le Minores – che non avrà poi mancato di esercitare la sua influenza sulla manualistica latina tardoantica, punto di confluenza della tradizione retorica greca e latina.78 Il fatto che i filosofi cinici compaiano solo in temi declamatori latini e sempre e soltanto nel ruolo di accusati sembra così trovare una spiegazione storica, oltre che culturale. In ogni caso, non c’è dubbio che in questa ‘Land of dreams’, la terra dei sogni, come è stata definita la declamazione, la cultura romana non manchi di lasciare la sua impronta, soprattutto in relazione a un tema sensibile come quello della ricezione filosofica.

|| 76 Per l’aneddoto, cf. anche Suet. Vesp. 13 Demetrium Cynicum in itinere obuium sibi post damnationem ac neque assurgere neque salutare se dignantem, oblatrantem etiam nescio quid, satis habuit canem appellare. Su Demetrio, supra, n. 14; in particolare, sul suo ruolo di oppositore politico, Dudley 1937, 125–142 e Kindstrand 1980, 94–98. 77 Quanto al difficile rapporto di Vespasiano con i filosofi, Cinici e Stoici, cf. Harris 1975, in particolare 111–114; inoltre Dudley, 1937, 132–138 e Goulet-Cazé 1990, 2755 s. Per la confusione tra Cinici e Stoici nell’opposizione filosofica, già evidenziata da Dudley 1937,137 (‘Stoic and Cynic philosophers were practically indistinguishable’), cf. anche Branham/Goulet-Cazé 1997, 13 e n. 38. 78 Sulle caratteristiche di questo tipo di manualistica, cf. le osservazioni di Calboli Montefusco 1979a, 78 e n. 1.

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Claire Oppliger

Quelques réflexions sur la méthode (ou les méthodes ?) du Maître des Petites déclamations Exercices de rhétorique appartenant au domaine de l’éloquence judiciaire, les Petites déclamations pseudo-Quintiliennes forment un corpus dense, qui n’a été que peu étudié jusqu’à présent. Il comporte de nombreux aspects intéressants, notamment le fait d’être destiné à un usage scolaire. Le recueil semble en effet être l’outil de travail dont se servait l’auteur afin de donner son cours à l’école de rhétorique, d’où le surnom de ‘Maître’1 justement reçu par celui-ci. Le caractère didactique de l’ouvrage transparaît dans les textes des déclamations qui le composent, mais ressort surtout des sermones qui les accompagnent. Cette dimension pratique est indissociable de la nature de ces discours et ne peut échapper au lecteur. Lorsque l’on ouvre le recueil des Petites déclamations, on s’aperçoit très vite des grandes disparités entre les discours, tant sur le plan de leur taille que sur celui de leur forme. Afin de les distinguer des Grandes déclamations, on a souvent présenté les Petites déclamations comme étant des extraits de discours,2 contenant des bribes d’argumentation conservées en plus du thème. Or ce ne sont pas des extraits à proprement parler – ou du moins pas seulement : la situation s’avère plus complexe qu’il n’y paraît et présente en réalité différents cas de figure. Dans cet ensemble de textes qui se rapproche du manuel de rhétorique, l’apparence très variée des Petites déclamations est due à la volonté du Maître et à ses diverses façons de procéder. Il s’agira ici de montrer comment il construit et met en place différents types de discours didactiques. Le lieu d’observation privilégié de ces interventions magistrales, ce sont donc les sermones qui jalonnent le recueil et qui constituent l’une de ses principales

|| Mes remerciements vont à D. van Mal-Maeder, J. Pingoud et A. Rolle pour leur relecture attentive et leurs suggestions. Cet article est issu d’un projet financé par le Fonds national suisse de la recherche scientifique (FNS). 1 Donné par Winterbottom 1984 dans son introduction aux Petites déclamations, p. xi. 2 Notamment Bonner 1949, 53 s. ; Winterbottom 1984, xi ; Desbordes 2006, 185 ; récemment, Corbeill 2016 a émis l’idée que le recueil contient la déclamation d’un élève (Ps. Quint. decl. min. 260).

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spécificités.3 Ces passages, que l’on pourrait traduire par ‘discussions’, renferment des indications sur le cas que le Maître compte traiter en classe avec ses élèves. Plus de la moitié des déclamations comprennent un sermo ou plusieurs sermones délivrant des instructions ou des considérations générales en rapport avec le thème de la déclamation. La méthodologie adoptée par le Maître pour son enseignement mérite d’autant plus notre attention que cet aspect n’a encore jamais fait, à notre connaissance, l’objet d’une analyse systématique.4 Sans dresser une typologie détaillée de tous les sermones, nous mettrons en évidence ici quelques caractéristiques importantes qui éclairent leur fonctionnement. Nous verrons que ces discussions portent sur plusieurs aspects théoriques, comme l’organisation du discours et ses différentes parties, les questions à poser, les couleurs ou encore la persona. Un premier point concerne le mode énonciatif des sermones : le Maître délivre volontiers ses instructions à ses élèves en s’adressant directement à eux, comme s’ils se trouvaient en face de lui :5 D e m o n s t r a n d a v o b i s e s t v i a : v i d e t e quid utraque pars velit, quid utraque pars dicat, et illud quam fieri potest brevissime et significantissime c o m p r e h e n d i t e . Ps. Quint. decl. min. 247,1 Je dois vous montrer la voie à suivre : voyez ce que veut chaque partie, ce que dit chaque partie, et résumez-le de la façon la plus brève et la plus parlante possible.6

Ou encore : Quotiens f i n i e n d u m erit, primum intueri d e b e b i t i s. Ps. Quint. decl. min. 246,3 Toutes les fois qu’il faudra donner une définition, vous devrez d’abord examiner.

On soulignera le caractère didactique de ces observations, marqué par l’emploi des adjectifs verbaux, des impératifs et du verbe debere au futur, pour indiquer

|| 3 On peut cependant lire des interventions similaires chez Libanius et Choricius de Gaza, ainsi que chez Sénèque le Père. A ce propos, voir respectivement Lupi 2015, 309 et Huelsenbeck 2011, 281. 4 On trouvera des remarques utiles sur le style didactique chez De Nonno 2010, Ferri 2008 et Stramaglia 2010. 5 Cette façon de procéder rappelle la mise en scène de l’oralité construite par Sénèque le Père s’adressant à ses fils : à ce sujet, voir van Mal-Maeder, ‘Controversial games. Didactical voices and discourse’s construction in Seneca’s Controversies and Suasories’ (à paraître). 6 Je mets en évidence. Les textes latins reproduits sont ceux de l’édition de Winterbottom 1984, les traductions sont miennes.

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une marche à suivre. Ailleurs, le Maître s’adresse à ses élèves en faisant référence à sa méthode d’enseignement, basée sur la répétition : S a e p e v o b i s d i x i quomodo ad inveniendum statum facillime perveniretis. Quid sint, o m n e s n o v i s t i s. Primum singulos repetite ; sublatis iis quos certum erit non esse, inter residuos quaeremus. Ps. Quint. decl. min. 320,1 Je vous ai souvent expliqué comment trouver sans aucune difficulté le status d’une cause. Vous savez tous en quoi ils consistent. D’abord, passez-les en revue un par un ; quand vous aurez éliminé ceux qui n’ont à coup sûr rien à voir avec le cas, il nous faudra chercher dans ceux qui restent.

La question des status n’est pas simple,7 et le Maître prend soin de rappeler à ses élèves comment il faut procéder de manière systématique, par élimination, pour trouver celui qui convient au cas traité. On notera ici encore l’emploi des impératifs et des futurs, ainsi que l’alternance de la deuxième personne du pluriel et d’une première personne qu’on pourrait qualifier d’‛interactive’. Les mots omnes novistis révèlent quant à eux que les élèves en question possèdent déjà un certain entraînement, même si un autre passage semble indiquer que plusieurs niveaux cohabitent dans la même classe : Si qua erunt quae a me in divisionibus controversiarum dicantur eadem f r e q u e n t i u s, i n t e l l e g i t e fieri primum p r o p t e r i n t e r v e n t u m n o v o r u m. Ps. Quint. decl. min. 314,1 S’il m’arrive de me répéter très souvent quand je parle des divisions des controverses, sachez que c’est d’abord en raison de l’arrivée des nouveaux élèves.8

Le Maître fait parfois référence à une leçon précédente, comme ici : Nam sicut p a u l o a n t e praecipiebam vobis ut personam intueremini eius apud quem dicenda esset sententia, sic nunc quoque admoneam necesse est ut intueamur personam quam nobis induimus. Ps. Quint. decl. min. 316,2 Car de même que je vous ai recommandé un peu avant d’examiner la persona de celui devant lequel il faut plaider la sentence, de même, je dois maintenant vous rendre attentifs à examiner la persona que nous adoptons.

|| 7 Voir Calboli Montefusco 1986 ; Berti 2007, 51–53, avec références ; id. 2015. 8 Cf. aussi 316,2 haec saepe tractata sunt.

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Comme le remarque Shackleton Bailey, la leçon ou la recommandation à laquelle le Maître fait référence (cf. sicut paulo ante) ne se trouve pas dans le recueil tel qu’il nous est parvenu.9 On peut encore souligner la clarté et la simplicité de l’expression, où la répétition des mots (ut personam intueremini / ut intueamur personam) appuie la comparaison (sicut paulo ante … sic nunc) : une caractéristique stylistique que l’on retrouve ailleurs. Cette même déclamation 316, intitulée Flens luxuriosi pater, fournit un autre exemple de référence concrète à la situation d’énonciation et offre le témoignage d’une certaine complicité entre Maître et élèves. Le thème oppose un père à son fils débauché, ce dernier l’accusant de folie pour l’avoir suivi en pleurs dans les rues de la ville. À un premier sermo traitant de la définition de la folie et du ton que le père doit adopter dans son discours, succède un extrait de discours, sous la forme d’un catalogue d’arguments en faveur du père, placés dans sa bouche.10 L’extrait s’interrompt bientôt pour faire place à une nouvelle remarque : Nolo quisquam me reprehendat tamquam vobis locos non dem. Si ampliare declamationem voletis et ingenium exercere, dicetis quod ad causam huius nullo modo, ad delectationem aurium fortasse pertineat. Ps. Quint. decl. min. 316,7 Je ne veux pas qu’on me blâme de ce que je ne vous donne pas de lieux communs. Si vous voulez amplifier la déclamation et exercer votre esprit, vous direz ce qui ne concerne en rien cette affaire, mais peut-être le plaisir des oreilles.

On peut rapprocher ces considérations d’un passage de l’Institution oratoire, dans lequel Quintilien évoque lui aussi le plaisir auditif, utile dans les controverses pour charmer et convaincre l’auditoire et les juges.11 Cette intervention du Maître, non dépourvue d’humour, est suivie d’un second morceau déclamatoire, plus élaboré, qui illustre précisément le procédé de l’amplification par le lieu commun, à travers la bouche du père s’exprimant sur la force irrépressible des larmes.12 L’examen des sermones révèle donc un rhéteur à l’écoute de ses élèves, attentif à leur progression et à leurs attentes, capable surtout de porter un jugement critique sur son propre enseignement. En ce qui concerne la présence et la répartition des sermones dans les déclamations, elle est assez inégale. Il arrive qu’il y en ait plusieurs, de longueur variable : || 9 Shackleton Bailey 2006, 38, n. 1 ad loc., qui imprime apud quem dicenda esset causa. 10 Ps. Quint. decl. min. 316,5 Quid feci dementer ? Iuvenis frugaliter vixi, patrimonium auxi, uxorem duxi, filium sustuli, hunc amo … Lacrimae sunt in culpa. Fleo fortasse supervacua. 11 Quint. 12,10,52. 12 Ps. Quint. decl. min. 316,9.

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d’une seule ligne à plusieurs pages.13 Parfois, le sermo figure seul en-dessous du thème, sans qu’il soit illustré par un morceau de déclamation.14 Lorsqu’une déclamation contient plusieurs sermones, elle se trouve entrecoupée, comme ponctuée par les interventions du Maître. La déclamation 271 illustre bien ce mécanisme. Le thème oppose deux ennemis traditionnels de l’univers déclamatoire, un pauvre et un riche.15 Le pauvre est père d’un fils unique, alors que le riche en a trois. Le premier fils du riche devient héros de guerre en même temps que celui du pauvre. Tous deux se disputent alors la récompense réservée au vir fortis conformément à la législation de l’univers déclamatoire.16 Le fils du riche est tué. La même chose se produit avec le deuxième fils du riche, qui trouve à son tour la mort. Lorsque son dernier fils vient à s’illustrer à la guerre en même temps que le fils du pauvre, le riche lui interdit de combattre. Devant son refus, il le chasse. Cette déclamation confronte donc (1) l’obligation d’un fils d’obéir à son père, (2) la loi permettant à un vir fortis de choisir la récompense de son choix et (3) celle obligeant deux héros de guerre à se départager par les armes.17 Dans cette controverse, qui expose le point de vue du fils, plusieurs sermones se succèdent pour indiquer les questions à examiner et la division à adopter ; chacun est suivi d’un morceau déclamatoire dans lequel les indications du Maître sont mises en application.18 Le premier sermo porte sur la question topique de savoir si un fils doit obéir en tous points à son père et sur celle du ton à adopter : Prima illa communis omnibus fere ex abdicatione pendentibus controversiis quaestio, an utique necesse sit facere filio quidquid pater iusserit : in his tamen controversiis quibus de

|| 13 Ps. Quint. decl. min. 245 ; 254 ; 259 ; 266 ; 271 ; 273 ; 274 ; 294 ; 308 ; 309 ; 315 ; 316 ; 325 ; 328 ; 331 ; 342 ; 366 ; 374 et 385. 14 C’est tout de même le cas pour quatorze textes du recueil : 285 ; 303 ; 352 ; 353 ; 354 ; 355 ; 356 ; 357 ; 358 ; 359 ; 362 ; 363 ; 364 ; 384 (pour ce dernier, nous acceptons, tout comme Shackleton Bailey 2006, la proposition de Winterbottom 1984 de le considérer comme un sermo). 15 Sur le sujet, voir Santorelli 2014, 16–26, avec références et Corbeill 2016, 19 s. 16 Sur la législation dans l’univers déclamatoire, voir Bonner 1949 ; Lentano 2014 ; Amato/Citti/Huelsenbeck 2015. Sur la figure du vir fortis dans les déclamations, voir Lentano 1998 ; Schneider 2004 passim ; Berti 2007, 337–340 ; Stramaglia 2013, 83 s. et 89 s. ; Lentano 2015, 47– 51 ; 136–138 et passim. 17 Les deux lois de cette déclamation se retrouvent ailleurs dans le corpus avec des variantes ; elles peuvent être juxtaposées, comme dans le thème de la Petite déclamation 258 (Si duo aut plures fortiter fecerint, de praemio armis contendant. Vir fortis optet quod volet), ou combinées (vir fortis quod volet praemium optet, si plures erunt, iudicio contendant : voir Bonner 1949, 89 ; Stramaglia 2013, 83 s. ad Ps. Quint. decl. mai. 4, th., avec références supplémentaires). Dans la déclamation 271, elles sont sous-entendues ; la loi (3) est néanmoins citée dans un extrait de la recusatio (271,9) : Si plures fortiter fecerint, de praemio armis. 18 Les manuscrits hésitent parfois sur l’attribution de telle ou telle partie au sermo ou à la declamatio ; voir d’ailleurs supra n. 14 et infra n. 26.

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praesenti agitur, non de praeterito. Duo enim genera scitis esse abdicationum : aut obicitur quare fecerit filius aliquid aut obicitur q u a r e n o n f a c i a t.19 Asperius est illud genus abdicationum, in quo iam praeterit crimen nec emendationem recipit. In hoc lenius versantur patres et filii paulo liberius, in quo est emendationis locus. Ps. Quint. decl. min. 271,1 s. D’abord il y a la question, commune à presque toutes les controverses traitant d’abdication, de savoir s’il est indispensable qu’un fils fasse tout ce que son père lui a ordonné – question qui concerne les controverses où il s’agit du présent, non pas du passé. Vous savez en effet qu’il existe deux sortes d’abdication : soit on reproche au fils d’avoir fait quelque chose, soit on lui reproche de ne pas faire quelque chose. Ce genre d’abdication, dans lequel le crime a déjà été commis et ne peut recevoir de réparation, exige davantage de sévérité. Quand il y a une occasion de réparation, les pères font preuve de plus de douceur, les fils de plus de liberté.

Dans ce paragraphe, le Maître formule des considérations générales (cf. c o m m u n i s omnibus fere ex abdicatione pendentibus controversiis quaestio – d u o e n i m g e n e r a s c i t i s esse abdicationum) qui concernent la procédure d’abdicatio.20 La première question, celle qui touche à l’étendue de la patria potestas, se retrouve ailleurs dans les Petites déclamations.21 Quant à la description des deux types d’abdication, on peut la comparer à ce que dit Quintilien sur le sujet : Abdicationum f o r m a e s u n t d u a e : altera c r i m i n i s p e r f e c t i , ut si abdicetur raptor adulter, altera velut pendentis et adhuc in condicione positi, quales sunt in quibus abdicatur filius q u i a n o n p a r e a t p a t r i. Illa semper a s p e r a m a b d i c a n t i s a c t i o n e m habet ( i n m u t a b i l e est enim quod f a c t u m e s t ), haec ex parte b l a n d a m et suadenti similem (mavult enim pater corrigere quam abdicare) ; at pro filiis in utroque genere summissa est et ad satis faciendum composita. Quint. 7,4,27–29 La répudiation < d’enfant > peut prendre deux formes : l’une s’applique à un crime consommé dans la répudiation pour rapt, pour adultère, l’autre à un crime, pour ainsi dire, en suspens et encore hypothétique, par exemple un fils chassé pour désobéissance éventuelle à son père. La première comporte toujours de la dureté de la part du père qui répudie (car il s’agit d’un acte irréversible) ; l’autre est d’un ton en partie aimable et presque persuasif (le

|| 19 Lucia Pasetti me signale dans cette deuxième partie de phrase la présence de deux clausules, basées sur le double crétique, qui soulignent l’opposition aut … aut et semblent renforcer le message du Maître. 20 Sur le thème de l’abdicatio, cf. entre autres Lanfranchi 1938, 254–267 ; Bonner 1969, 101– 103 ; Berti 2007, 91 s. ; Krapinger 2007, 14–17 ; Pasetti 2011, 90 s. ; Johansson 2015. 21 Ps. Quint. decl. min. 287,1 An quidquid pater voluit filio facere necesse sit ; 286,1 An omnia quae adversus voluntatem patrum admissa sunt debeant abdicatione puniri. Cf. aussi Sen. contr. 2,3,12.

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Quelques réflexions sur la méthode du Maître des Petites déclamations | 109

père en effet aime mieux corriger son fils que le chasser) ; au contraire, dans les deux cas, les fils doivent adopter un ton humble et fait pour la conciliation.22

Les correspondances entre les deux passages sont frappantes.23 On notera néanmoins que le Maître déroule son explication de façon plus simple et plus synthétique que l’auteur de l’Institution oratoire, en opposant les deux types d’abdicatio à l’aide de mots et de tournures grammaticales identiques (de praesenti / de praeterito ; obicitur quare fecerit / obicitur quare faciat) ; trois adverbes comparatifs (asperius, lenius, liberius), dont les deux derniers sont élégamment disposés en chiasme, renforcent l’opposition.24 Ce premier sermo est suivi d’un court morceau déclamatoire illustrant la première question posée (an utique necesse sit facere filio quidquid pater iusserit), et qui y répond par la négative : Ergo non omnia necesse est facere liberis quaecumque patres imperant ? Multa sunt quae fieri non possunt ; et ideo iudicium constitutum est adversus abdicantes quoniam recipiebat natura ut etiam patres aliquando aut errarent aut iniuste imperarent. Ps. Quint. decl. min. 271,3 Faut-il donc nécessairement que les enfants fassent tout ce que leurs pères ordonnent ?25 Il y a bien des cas où c’est impossible ; et si une procédure judiciaire a été mise en place à l’encontre de ceux qui chassent leurs enfants, c’est précisément parce que la nature a permis que les pères eux-mêmes se trompent parfois ou donnent des ordres injustes.

Fin de l’exemple, nouvelle remarque du Maître : Illis argumentis adiuvari solet haec quaestio. Ps. Quint. decl. min. 271,4

|| 22 Trad. J. Cousin, CUF. 23 Duo enim genera répond, presque en miroir, à duae sunt formae ; comparer aussi : aut … aut / altera … altera ; praesenti…praeterito / perfecti … condicionem positi ; iusserit / pareat ; asperius est illud / illa semper asperam ; hoc / haec ; nec emendationem / inmutabile ; lenius / blandam, avec ajout du comparatif chez le Pseudo-Quintilien (de même pour asperius). Dans les deux passages, on trouve le participe pendens, quoique utilisé dans un sens différent. 24 Winterbottom 1984, 371 ad loc. note que liberius semble être une innovation. L’idée que l’action du jeune homme doit être modérée revient dans trois autres Petites déclamations : Quint. decl. min. 259,1 In omnibus quidem abdicationis controversiis, quatenus p r o l i b e r i s dicimus, s u m m i s s a debebit esse actio et s a t i s f a c t i o n i s i m i l i s ; cf. aussi 280,1 Actionem oportet esse s u m i s s a m et b l a n d a m ; 309,1 Actio debebit huius adulescentis esse s u m m i s s a. 25 Shackleton Bailey 2006, 230 préfère une affirmation à une question : Ergo non omnia necesse est facere liberis quaecumque patres imperant.

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110 | Claire Oppliger

Cette question s’appuie d’ordinaire sur les arguments suivants.

Remarque suivie d’une liste d’exemples d’ordres potentiellement intolérables, dont nous ne citerons que les deux derniers : Si Capitolium me incendere iubeas, arcem occupare, licet dicere : haec sunt quae fieri non oporteat. Ps. Quint. decl. min. 271,5 Admettons que tu m’ordonnes d’incendier le Capitole, de m’emparer de la citadelle : on peut dire que ce sont là des choses qu’il ne convient pas de faire.26

Une autre intervention ouvre sur le point suivant, celui de la confrontation entre le devoir d’obéissance du fils (1) et le respect de la loi (2) ou (3) : Secundo loco quaerimus an abdicari possit propter id quod facere vult e lege. Ps. Quint. decl. min. 271,6 En second lieu, il faut nous demander s’il peut être chassé à cause de ce qu’il veut accomplir conformément à la loi.27

Cette question est à son tour illustrée par deux phrases placées dans la bouche du fils vir fortis, après quoi le Maître indique une troisième question à poser, qui concerne la loi sur les héros de guerre (3) : Tertio loco quaerimus illud, an pugnare viris fortibus etiam necesse sit. Haec quoque quaestio in multis controversiis tractata est. Secundum nos erit scriptum legis. Ps. Quint. decl. min. 271,8 En troisième lieu, nous demandons s’il est nécessaire que les héros de guerre s’affrontent, question qui est elle aussi traitée dans de nombreuses controverses. Selon nous, ce sera la lettre de la loi.28

Cet avis introduit encore un nouvel exemple de réplique à placer dans la bouche du vir fortis pour affirmer le caractère impératif de la loi – à laquelle aucun des

|| 26 Shackleton Bailey 2006, 230 s. rattache ce § 5 au sermo : néanmoins l’emploi de la première personne indique ici que c’est le déclamateur, le vir fortis, qui s’adresse à son père. 27 Comparer Ps. Quint. decl. min. 286,1 an propter id debeat abdicari quod lege fecerit. 28 La stratégie du status legalis consiste à se livrer à une discussion sur l’interprétation des termes de la loi. Sur le status legalis, voir Berti 2007, 86 et 125–127 ; Lentano 2014 ; Amato/Citti/Huelsenbeck 2015 ; Berti 2015.

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Quelques réflexions sur la méthode du Maître des Petites déclamations | 111

deux héros ne peut se soustraire – et récuser l’argumentation de la partie adverse.29 Une dernière intervention complète la leçon : Post haec dicemus domui etiam honestam esse hanc contentionem ; adiuvabimus propositionem nostram ipsius patris iudicio. Ps. Quint. decl. min. 271,10 Après cela, nous dirons que pour cette maison, cette rivalité était même honorable ; nous appuierons notre proposition par le jugement du père lui-même.

Cette recommandation débouche sur un dernier morceau déclamatoire, beaucoup plus long, plus emphatique, plus pathétique, qui correspond clairement à une péroraison. Le fils s’y dépeint comme un brave, désireux de venger ses frères, incapable de lâcheté, et préférant affronter la mort à l’infamie.30 Cet exemple est révélateur de la façon très méthodique dont le Maître procède, dispensant ses conseils point par point, dans un mouvement progressif (cf. secundo loco, tertio loco, post haec), en les complétant par des exemples et en suivant la structure d’un discours.31 L’aspect quasi schématique de sa démonstration ressort d’ailleurs aussi des morceaux déclamatoires eux-mêmes, où un soin particulier est accordé aux connecteurs argumentatifs.32 On y trouve également des tournures comme non dico ... interim, qui soulignent les articulations du discours et les transitions entre ses différentes parties.33 L’importance que le Maître attache à la division du discours et aux questions à examiner apparaît en différents endroits du recueil. Il lui arrive de commencer sa démonstration en dressant une liste de quaestiones, comme dans cette déclamation traitant d’une affaire d’adultère impliquant un vir fortis, sur la base de la loi Ne liceat cum adultera marito agere nisi prius cum adultero egerit :34 An semper cum adultero prius agere necesse sit. An hic egerit. An, etiam si quid defuit actioni, quoniam tamen publico iudicio interceptum est, non debeat huius actionibus

|| 29 Ps. Quint. decl. min. 271,9. 30 Ps. Quint. decl. min. 271,11–18 ; en particulier : Non precibus tuis, non minis terreor … Cogitabo de victoria, cogitabo de vindicta. Si vero cum hac me infamia dimittis, iam nunc dico : arma dimittam. 31 Cf. aussi la déclamation 315, où l’on observe une même alternance entre sermones et declamationes. 32 Ceux-ci sont nombreux : nam, enim, vero, mais surtout primum, postea, porro, deinde, verumtamen, (etc). 33 Cf. Winterbottom 1984, 299 à propos de 246,9 ; cf. aussi Ps. Quint. decl. min. 271,7 (postea … interim). 34 On trouvera un examen de l’argumentation légale de cette déclamation chez Lanfranchi 1938, 447–452.

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112 | Claire Oppliger

nocere. Quae mens fuerit praemium dantis rei publicae. Utrum uni abolitionem iudicii, an per coniunctionem utriusque et adulterae dederit. Summum quod in omnibus controversiis est, utrum aequius sit. Ps. Quint. decl. min. 249,1 S’il est toujours nécessaire d’attaquer en justice l’adultère d’abord. Si celui-ci a été attaqué. Même si le procès n’a pas été mené jusqu’au bout, puisqu’il a été interrompu par une décision publique, si cela ne devrait pas avoir une incidence négative sur ses actions. Dans quel esprit l’Etat a-t-il accordé la récompense.35 Si l’abolition du jugement est accordée à une seule personne, ou si elle l’est aussi conjointement à la femme adultère. Enfin, comme dans toutes les controverses, qu’est-ce qui le plus équitable.36

Ce catalogue, dépourvu de toute élaboration stylistique et de tout commentaire, suit directement l’énoncé du thème ; il introduit la déclamation qui en reprend les différents points en les insérant dans un discours plus travaillé, qui constitue une véritable déclamation en miniature.37 Outre les questions à examiner et leur disposition, le Maître s’efforce de rendre ses élèves attentifs aux ‘couleurs’ – intérêt qu’il partage avec Sénèque le Père dans son recueil intitulé Oratorum et Rhetorum sententiae, divisiones, colores.38 Prenons l’exemple de la déclamation 384, qui oppose un magistrat et le père d’une jeune fille. Celle-ci avait été immolée pour faire cesser une peste, sans résultat ; après le sacrifice d’une deuxième victime, la peste avait disparu. Cette déclamation ne comprend que le thème et la consigne suivante : Colorate : ‘Sortem filiae tuae deus inter virgines esse noluit, sed tamquam alienae turbae exemit.’ Ps. Quint. decl. min. 384,1 Colorez : ‘Le dieu n’a pas voulu que le sort de ta fille soit parmi les vierges, mais il l’a enlevée comme à un groupe auquel elle était étrangère.’

Le cas est obscur – les éditeurs divergent d’ailleurs sur son interprétation –39 mais on retiendra ici le laconisme de l’instruction et l’emploi du discours direct pour,

|| 35 Cf. supra n. 17. 36 Comparer Ps. Quint. decl. min. 284 ; 286 ; 287 ; 317 ; 359. 37 Winterbottom 1984, 305 ad loc. 38 Sur cet ouvrage, voir Berti 2007, avec références supplémentaires ; id. 2015. Comme l’explique Bornecque 19322, ix, les couleurs sont ‘les motifs, indépendants de la loi, allégués pour expliquer, pour excuser, pour colorer, en quelque sorte, les paroles ou les actes qui sont à la charge de l’inculpé’. 39 Winterbottom 1984, 585 ad loc. ; Shackleton Bailey 2006, 417–419, qui imprime meae au lieu du tuae transmis par les manuscrits.

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Quelques réflexions sur la méthode du Maître des Petites déclamations | 113

précisément, annoncer la couleur, puisque celle-ci est directement placée dans la bouche du personnage (le magistrat selon M. Winterbottom, le père selon D.R. Shackleton Bailey).40 La concision de la formulation suggère néanmoins que le cas n’avait rien d’obscur pour le Maître et ses élèves : il devait être suffisamment évident pour ne pas nécessiter davantage d’explications. Le sujet de la couleur ne donne d’ailleurs pas lieu à de longues explications dans ce recueil, au contraire de l’exorde (prohoemium) et de la péroraison, ou épilogue, (epilogus) auxquels un long sermo est consacré dans la déclamation 338 (338, 1–7). Le Maître y expose les points communs de ces parties liminaires, ainsi que leurs fonctions propres (l’exorde doit rendre les juges attentifs, l’épilogue doit leur rappeler ce qu’ils ont entendu ; tous deux doivent se concilier l’esprit des juges – la péroraison avec plus de force et de liberté). Ces recommandations, qui correspondent étroitement aux préceptes de Quintilien dans l’Institution oratoire,41 sont accompagnées d’un exemple de déclamation avec un prohoemium particulièrement développé, pour illustrer la partie théorique. D’autres sujets sont encore abordés tout au long du recueil, comme le lieu commun ou la persona ;42 à chaque fois, un morceau de controverse ou une controverse entière illustrent la leçon. La déclamation 345 fait néanmoins figure d’exception : alors que le sermo contient des instructions pour soutenir le cas d’un riche, la déclamation qui suit approfondit le point de vue du pauvre, son ennemi.43 On remarquera d’ailleurs que, contrairement au recueil de Sénèque le Père, le Pseudo-Quintilien ne traite pas systématiquement le pour et le contre des cas qu’il examine. Si l’aspect didactique du recueil ressort particulièrement dans les sermones, marqués, nous l’avons vu, par la présence affirmée du ‘je’ du Maître, les déclamations elles-mêmes comportent une dimension pédagogique, même si elles ne sont pas accompagnées de commentaires magistraux. Prenons l’exemple de la controverse 293, intitulée Tyrannus victae civitatis : dans ce texte, qu’il est nécessaire de considérer dans son intégralité, un héros de guerre réclame comme récompense de devenir le tyran d’une cité vaincue. Le héros s’exprime face aux citoyens qui refusent de lui accorder la tyrannie :

|| 40 Même procédé dans la déclamation 285, où le Maître ajoute une brève considération psychologique et une question avant de suggérer la couleur (introduite par l’impératif colorate) ; cf. encore Ps. Quint. decl. min. 280 ; 285 ; 316 ; 357 ; 363 ; 364. 41 Voir Winterbottom 1984, 527–529 ad loc. ; Quint. 4,1 (sur l’exorde) et 6,1 (sur la péroraison). 42 Respectivement Ps. Quint. decl. min. 244 ; 260,1–3. 43 Voir Winterbottom 1984, 545 s. ad loc.

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114 | Claire Oppliger

Viro forti praemium.44 Quidam fortiter fecit. Petit praemio tyrannidem victae civitatis. Omnia danda esse viris fortibus dico : nec inmerito danda, utique ex victis. Non aerarium inquieto, non sacerdotium rapio : peto ut sint hostes in mea potestate. Ac primum omnium interrogo : quis est iste qui prohibet ? Iuste peterem etiam eversionem hostium : †ac tum nescio quis iste non stetit in acie† illi si vicissent, tyrannide se vindicarent. Sic agere volo tamquam futurus crudelis : meruerunt. Vindicari potestis sine invidia : de me querantur, cui aliquid iam irascuntur. Tyrannidem imponere volo. Asperiora narrabo : plurimos ex illa civitate manu hac occidi. Sed numquid vobis videor avarus, libidinosus ? Aliter crevi. Eadem ergo ratione hoc peto qua fortiter feci. Sic praesidia imponemus : tamdiu tyrannus ero quamdiu poterunt rebellare. Ps. Quint. decl. min. 293,1 s. Le héros recevra une récompense. Un homme devint héros. Comme récompense, il réclame d’être le tyran de la cité vaincue. J’affirme qu’on doit donner toutes les récompenses aux héros : il est tout à fait juste qu’on les donne, et certainement quand elles viennent des vaincus. Je ne fais pas de tort au trésor, je n’usurpe pas une prêtrise : je demande que les ennemis soient en mon pouvoir. Et avant toute chose, je pose la question : qui est celui qui me l’interdit ? J’aurais aussi le droit de demander la destruction des ennemis : †Ce je ne sais qui n’a pas pris part au combat† ; s’ils avaient vaincu, ils se seraient vengés en imposant une tyrannie. Je veux donc plaider comme quelqu’un qui se montrera impitoyable : ils l’ont bien mérité. Vous pouvez vous venger sans qu’ils vous haïssent : qu’ils se plaignent de moi, ils sont déjà en colère contre moi. Je veux imposer une tyrannie. Ce que je vais raconter est encore pire : j’ai tué bien des habitants de cette ville avec cette main-ci. Mais est-ce que je vous semble avare ou libidineux ? J’ai été élevé autrement. Je fais cette demande pour la même raison que je suis devenu un héros. Voici comment nous leur imposerons une garnison : je serai tyran aussi longtemps qu’ils pourront à nouveau faire la guerre.

Les premières lignes correspondent à une argumentatio en condensé, qui s’appuie sur la loi : nous sommes devant un cas de status legalis.45 Le déclamateur se présente comme un honnête homme, qu’on ne peut soupçonner de cupidité ou d’ambition démesurée, ni d’avarice ou de débauche – autant de traits caractéristiques du tyran des déclamations.46 Il n’empêche, il est un vir fortis, c’est-à-dire un être redoutable et impitoyable. Les mots asperiora narrabo illustrent cet ethos en introduisant un embryon de narratio (plurimos ex illa civitate manu hac occidi), qui résonne comme une mise en garde.47 On notera au passage que la narratio

|| 44 Cf. supra n. 17 et Ps. Quint. decl. min. 304. Cette loi est mentionnée sous différentes formes dans le recueil, mais elle est souvent implicite. Il s’agit ici de la forme abrégée de la loi Vir fortis optet quod volet, qu’on trouve dans les déclamations 258 et 371. 45 Voir supra n. 28. 46 Sur la figure du tyran, voir Tabacco 1985. 47 La main brandie du vir fortis représente la force extraordinaire de celui à qui elle appartient et a de ce fait une fonction symbolique : voir Stramaglia 2013, 89 s., qui cite à ce sujet Casamento

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Quelques réflexions sur la méthode du Maître des Petites déclamations | 115

suit ici l’argumentation, une liberté que Quintilien admet.48 Du point de vue stylistique, le texte est constitué de phrases brèves et percutantes, paratactiques et pratiquement dépourvues de connecteurs. Il s’agit d’un inventaire, une sorte de liste esquissant l’articulation générale du discours et les points à traiter. Sur le plan énonciatif, on assiste en quelque sorte à une fusion entre le ‘je’ du déclamateur (le vir fortis) et le ‘je’ du Maître : une attention particulière est d’ailleurs accordée à l’acte de parole lui-même (cf. dico, interrogo, narrabo, peto).49 Tout se passe comme si, derrière le personnage du héros annonçant ‘je vais raconter’, le Maître recommandait une narratio qui puisse dessiner l’ethos du vir fortis, comme si ces deux instances énonciatives fusionnaient, le Maître se glissant ‘dans la peau’ du vir fortis pour montrer à ses élèves comment adopter une persona.50 À l’élève ensuite de développer une déclamation complète d’après le canevas proposé. Ce type de déclamation, que l’on pourrait qualifier d’‘embryonnaire’ remplit donc également une fonction didactique ;51 il correspond sans doute au goût du Maître pour la sobriété et la concision,52 ainsi qu’à son laconisme parfois quelque peu obscur.53 Au terme de ce parcours, il s’avère que différents procédés didactiques sont mis en œuvre dans les Petites déclamations. Le Maître construit son enseignement autour de deux grands axes : tantôt il dit ce qu’il faut faire, tantôt il montre comment le faire. Mêlant à la fois les aspects théoriques et pratiques, il tente d’embrasser de la façon la plus complète possible cette matière qu’est la rhétorique. Pour y parvenir, il se penche sur un large éventail de sujets qui constituent les éléments essentiels à la composition discours : stratégies, questions, couleurs. Mettant l’accent sur l’argumentation, il expose les techniques du bon orateur et les applique dans ses déclamations. On remarque ainsi une certaine cohérence, qui s’établit à la fois sur le fond et la forme des textes – et ce en dépit de la nature du recueil, sorte de carnet de notes, de textes disparates rassemblés sans aucun ordre.54 Ce phénomène résulte du projet du Maître.

|| 2004, 244. Il n’est pas rare que la main se substitue au héros lui-même, par métonymie : voir Citti/Pasetti 2015, 136–138. 48 Sur la place de la narration au sein du discours, cf. Quint. 4,2,24–26. 49 Sur cet aspect, voir Huelsenbeck 2016. 50 Voir aussi van Mal-Maeder dans ce volume à propos de la Minor 379 (Rusticus parasitus). 51 Cf. notamment Ps. Quint. decl. min. 282 ; 370 ; 373 ; 378. 52 Cf. Quint. decl. min. 246,3 debebitis … quam brevissime complecti ; 247 brevissime et significantissime comprehendite (cité supra, p. 104). 53 E.g. decl. min. 315,1–7, où des sermones et des morceaux de déclamations de deux ou trois mots se succèdent. 54 Voir Winterbottom 1984, xii.

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116 | Claire Oppliger

La variété joue un rôle primordial dans cet apprentissage : elle est nécessaire à l’efficacité du discours pédagogique, mais aussi au plaisir des élèves. Elle touche autant les thèmes déclamatoires abordés que le type d’exercice demandé. Pour les élèves en effet, la tâche répondant à cette double méthode d’enseignement sera d’exécuter les instructions, ou d’observer le modèle afin de s’en imprégner. Aussi les exemples donnés sont-ils tantôt brefs, tantôt très élaborés : le Maître adapte sans doute les contenus et les consignes à son public.55 Son souci d’alterner les méthodes se manifeste clairement dans le recueil, à l’image de la déclamation où se côtoient le sermo concernant le riche et la déclamation retranscrivant le discours du pauvre. En d’autres endroits, il éprouve l’envie d’analyser les deux volets d’un thème en particulier, dans les déclamations qui contiennent une pars altera.56 On assiste même à une imbrication de ces deux démarches complémentaires, comme dans la controverse du vir fortis (293), véritable forme hybride entre la déclamation et le sermo. Le discours est complexe : il révèle à quel point le Maître utilise les codes déclamatoires et s’amuse à les manipuler. Souvent en adéquation avec l’Institution oratoire, l’intention didactique qui apparaît dans les sermones habite donc également les déclamations elles-mêmes. La sobriété et la brièveté57 semblent ainsi être l’un des mots d’ordre du Maître tout au long du recueil : en témoignent ses interventions parfois assez sèches. Mais à l’occasion, il lui arrive de laisser libre cours à son inventivité, comme avec le lieu commun de la déclamation 316, pour lequel il se livre volontiers à l’amplification. À cet égard aussi, il se montre fidèle à l’opinion de Quintilien,58 qui admet que les élèves – mais pas seulement – ont besoin de liberté, de composer les discours naissant de leur imagination débordante, juste pour le plaisir. Selon lui, ‘il faut céder sur ce point’, pour le plus grand bonheur du lecteur.

|| 55 Cf. Quint. 2,6,1–5. 56 Quint. decl. min. 263 ; 274 et 331. 57 Cf. n. 52. 58 Cf. Quint. 2,10,5 s. et van Mal-Maeder 2007, 34 s.

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Chiara Valenzano

Matrigne, avvelenatrici, donne incestuose: il paradigma di Medea nelle Declamationes minores 1 Matrigne crudeli La figura della matrigna è ampiamente attestata nel panorama letterario latino,1 a testimonianza di una situazione sociale piuttosto comune, che vede l’ampliamento del nucleo familiare tramite un secondo matrimonio del pater familias e, di conseguenza, un’alterazione, percepita in negativo, degli equilibri della famiglia stessa; per questo, è molto frequente trovare il termine noverca accostato ad aggettivi appartenenti al campo semantico della crudeltà e della cattiveria, come saeva, dira o mala.2 L’uso proverbiale e antonomastico del termine ‘matrigna’, d’altra parte, è presente sia in contesto greco che latino3 e mostra la radicata convinzione che tale donna sia, per natura, malvagia e votata alla distruzione dei suoi figliastri. La fortuna dello stereotipo che dipinge la matrigna in modo totalmente negativo è testimoniata anche da Gerolamo, che, nelle Epistole scrive: Quodsi de priori uxore habens sobolem te domum introduxerit, etiamsi clementissima fueris, omnes comoediae et mimographi et communes rhetorum loci in novercam saevissimam declamabunt. Si privignus languerit et condoleverit caput, infamaberis ut venefica. Si non dederis cibos crudelis, si dederis malefica diceris. Hier. epist. 54,15 Se entrerai in una casa in cui ci siano già dei figli di una precedente moglie, anche se sarai molto ben disposta, tutti gli autori di commedia e di mimo e così anche i luoghi comuni dei

|| 1 Sull’argomento, fondamentale è lo studio di Watson 1995, che analizza la presenza di matrigne in ambito greco e romano, secondo una prospettiva sia storica e sociologica che letteraria, dedicando anche uno spazio non trascurabile alla declamazione latina (in particolare 92–102). 2 Solo alcuni esempi: per saeva noverca, cf. Verg. georg. 2,128, Ov. epist. 6,126, Sen. Phaedr. 357; per dira noverca cf. Ov. epist. 12,188; per mala noverca cf. Verg. georg. 3,282. Altri aggettivi che solitamente accompagnano il termine noverca sono iniusta (cf. Verg. ecl. 3,33), scelerata (cf. Ov. met. 15,498), terribilis (cf. Ov. met. 1,147). È quindi evidente che la matrigna è associata, di norma, a qualità negative. 3 Cf., a titolo di esempio, Men. Gn. pap. 189 J. δεινότερον οὐδὲν ἄλλο μητρυιᾶς κακόν e Hor. epod. 5,9 quid ut noverca me intueris?

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118 | Chiara Valenzano

retori pronunceranno declamazioni contro la crudelissima matrigna. Se il tuo figliastro si ammalerà e gli farà male la testa, sarai accusata di esserne responsabile in quanto matrigna. Se non gli darai cibo, si dirà che sei crudele, se glielo darai, che sei un’avvelenatrice.

Da rilevare è l’idea che una donna, benché clementissima, venga necessariamente considerata crudele nel momento in cui, sposandosi con un uomo che ha già dei figli, assume la condizione di matrigna.4 Dall’affermazione di Gerolamo è possibile comprendere quanto tale situazione fosse facilmente riscontrabile sia nel teatro che nei luoghi comuni della retorica, come il lessico non manca di rivelare: oltre a termini quali comoediae e mimographi, non è certo casuale l’uso del verbo declamo.5 Ciò significa che, ai tempi di Gerolamo, era ancora normale considerare infausta la condizione di matrigna e, al contempo, tutt’altro che inconsueto che teatro e declamazione mettessero in scena esempi di vita familiare aventi come sfondo le incomprensioni e i contrasti tra matrigne e figliastri. Uno stretto rapporto tra teatro e scuole di declamazione è esplicitamente chiamato in causa da Quintiliano, che lamenta i contenuti fittizi ed eccessivamente lontani dalla realtà dei temi delle controversie di scuola:6 Nam magos et pestilentiam et responsa et saeviores tragicis novercas aliaque magis adhuc fabulosa frustra inter sponsiones et interdicta quaeremus. Quint. 2,10,5 Cercheremo infatti senza successo, nei casi di obbligazioni e nelle procedure di interdetto, maghi, pestilenze, responsi oracolari, matrigne più crudeli di quelle delle tragedie e altri elementi ancora più incredibili.

Il problema, secondo Quintiliano, risiede nel fatto che l’esercizio scolastico dovrebbe riprodurre il più possibile i dibattiti forensi in vista dei quali gli allievi vengono preparati, mentre, se l’arte della declamazione si allontana troppo dal motivo per cui è stata inventata, il senso della sua stessa esistenza deve essere messo in discussione:

|| 4 Alla matrigna basta il nome, quindi, per essere vista dalla comunità in cui vive come una persona dalle indubbie qualità negative; su questo, cf. Casamento 2015, 110–113. 5 Per l’uso tecnico del verbo declamo, si rimanda a Stroh 2003. 6 Riguardo l’inverosimiglianza dei temi delle controversie, cf. Hömke 2002, 45–82, van Mal-Maeder 2007, 29–39 e 119–120 e Reinhardt/Winterbottom 2006, 165 ad loc., dove si citano Petron. 1–3 e Tac. dial. 35 quali passi relativi alla critica della pratica declamatoria in relazione alla ‘unreality of the characters and situations dealt with in declamation’. Winterbottom 1980, 1–7 aggiunge anche Sen. contr. 3, pr. 7–18.

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Nam si foro non praeparat, aut scaenicae ostentationi aut furiosae vociferationi simillimum est. Quint. 2,10,8 Se infatti non prepara per la pratica forense, è allora del tutto simile alla finzione teatrale o alle grida di un pazzo.

La relazione tra teatro e declamazione è dunque istituita anche da Quintiliano, sebbene si riscontri nelle sue parole una forte componente di critica. Pertanto, uno degli elementi che segnano la relazione tra teatro e scuola di declamazione7 è proprio la presenza di matrigne,8 che nelle controversie sono dipinte in maniera ancora più crudele rispetto alle loro controparti tragiche; un’ulteriore prova, questa, del fatto che la noverca fosse quasi sempre rappresentata sulla scena come personaggio negativo e malvagio, così come lo stereotipo prescrive, oltre che della massiccia presenza di tale figura nei corpora declamatori, i cui temi prediligono infatti contrasti tra individui appartenenti allo stesso nucleo familiare, con preferenza per tematiche come l’adulterio, il rapimento, il maltrattamento o le questioni di eredità. Le matrigne descritte dai retori rispondono sempre a tratti fissi: sono crudeli, creano tensioni e contrasti tra padri e figli, sono molto abili nel preparare e somministrare veleni; in qualche caso, raro nella declamazione, sono coinvolte in storie d’amore sconvenienti con i figliastri stessi, riproponendo quindi, con qualche variante, il motivo di origine biblica della moglie di Putifarre.9 Dati gli stretti rapporti che intercorrono tra teatro e declamazione, è possibile pensare che, dietro i colores scelti dai declamatori, ci sia un’influenza di personaggi teatrali, tragici o comici, che agiscono come modello per la rappresentazione di tipi umani. Per quel che riguarda la matrigna, che non a caso Ennodio definisce nomen tragicum,10 proveremo a ricostruire i modelli tragici che la tradizione ci offre per capire se, effettivamente, possa essere trovato una sorta di paradigma a uso e consumo dei retori.

|| 7 Sul tema dei rapporti che intercorrono tra la declamazione e il teatro, si rimanda agli studi di van Mal-Maeder 2007, 128–136 e di Casamento 2002 (in particolare, il capitolo quarto, 101–124, dedicato alle costruzioni retoriche della figura tragica della matrigna) e 2007; inoltre, ai saggi Nocchi 2013 e 2015 e anche ai contributi di Pingoud e van Mal-Maeder nel presente volume. 8 Sulla figura della matrigna nelle Declamationes maiores, si veda il recente contributo di Pingoud/Rolle 2016, che analizzano i personaggi della noverca e della mater crudelis nello PseudoQuintiliano, con particolare attenzione all’aspetto dell’intertestualità. 9 In letteratura, invece, il motivo della moglie di Putifarre è molto diffuso, si pensi in particolare a Fedra e ad Apul. met. 10,2–12; sul Potiphar-motiv, cf. Faverty 1931, Yohannan 1968 e Zimmerman 2000, 417–432. 10 Ennod. dict. 15.

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2 La matrigna nella declamazione latina La declamazione latina presenta frequentemente il tipo di matrigna crudele e avvelenatrice; per conoscerne le caratteristiche è utile provare a fornire qualche esempio. Nella decl. min. 327 abbiamo una matrigna dipinta eccezionalmente in maniera positiva: la donna non vuole creare contrasti con i suoi tre figliastri e assume quindi un medicamentum sterilitatis all’insaputa del marito, per evitare di allargare ulteriormente la famiglia.11 La difesa insiste molto sulle qualità positive del personaggio, al punto da farla assurgere al rango di optima uxor, che si sottrae allo stereotipo dell’ostilità nei confronti dei figliastri. Il suo rifiuto della maternità, motivato dalla volontà di non creare rivalità né affettive né economiche con altri eredi, piuttosto che ostacolare i figli del marito, rappresenta un beneficio a loro tributato. Coerentemente, la difesa del patronus sottolinea quello che un occhio esterno potrebbe percepire come paradosso, lo statuto, cioè, di bona noverca della propria assistita. Il comportamento di questa matrigna contrasta con le caratteristiche distintive della sua condizione (327,3): Expecto ex his aliquid novercalibus factis. Venenum paravit, insidiata est liberis tuis, vel, quod levissimum est, expugnare animum tuum voluit? Nihil horum. Novum et inauditum antea crimen: noverca nimium dicitur amare privignos.12 Ps. Quint. decl. min. 327,3 Mi aspetto qualcuna delle imprese tipiche della matrigna. Ha preparato del veleno, ha tramato contro i tuoi figli, o, meno grave, ha desiderato espugnare il tuo cuore? Niente di tutto ciò. Un’accusa nuova e mai sentita prima d’ora: si dice che la matrigna ama troppo i suoi figliastri.

La prima azione indicata come tipica del comportamento di una vera matrigna è dunque la preparazione di veleni. Anche nella decl. min. 246 compare il personaggio di una matrigna accusata di avvelenamento: un vir fortis, appena prima di un conflitto, beve un sonnifero che ha preparato per lui la noverca e si risveglia a guerra ormai terminata; viene quindi processato per diserzione, e, dopo l’assoluzione, accusa la matrigna di averlo avvelenato.13 La donna, tentando di presentarsi come esempio di bona noverca, si difende dicendo che l’intenzione era || 11 Questo il thema: Sterilis trium noverca. Introducta tribus privignis sterilitatis medicamentum bibit. Repudiata iniusti repudii agit. 12 Tutti i passi delle Declamationes minores sono citati secondo il testo stabilito da Winterbottom 1984. 13 Ne riportiamo il thema: Soporatus fortis privignus. Qui fortiter fecerat, bello imminente, soporem ab noverca subiectum bibit. Causam dixit tamquam desertor. Absolutus accusat novercam veneficii.

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quella di preservarlo dai pericoli del conflitto; il giovane, però, non è disposto a concederle nemmeno il beneficio del dubbio e stigmatizza il suo comportamento come crudele e tipico del personaggio: Vos aestimabitis quid de persona hac sentiatis: non fecisset hoc mater. Ps. Quint. decl. min. 246,2 Giudicherete voi che cosa pensare di questo personaggio: una madre non l’avrebbe fatto.

Il termine tecnico persona è ampiamente sfruttato nella manualistica retorica per indicare i personaggi coinvolti nella finzione declamatoria14 e ricorre molto spesso anche nelle Minores con valore metaretorico;15 anche in questo caso, il declamatore sfrutta consapevolmente il cliché della matrigna tradizionalmente ostile al privignus e diametralmente opposta alla figura materna. È quindi possibile avviare un’indagine che permetta di capire se esista una maschera teatrale sottesa alle rappresentazioni di matrigne nella declamazione. Se concentriamo la nostra attenzione sulla perizia nella preparazione di filtri e pozioni, non si può evitare di rammentare il passo della Medea di Euripide in cui la protagonista afferma la propria capacità nel somministrare veleni per uccidere: κράτιστα τὴν εὐθεῖαν, ἧι πεφύκαμεν σοφαὶ μάλιστα, φαρμάκοις αὐτοὺς ἑλεῖν. Eur. Med. 384 s. Meglio è la via diritta, in cui soprattutto sono esperta, ucciderli con i veleni.

In ambito latino, le doti di maga di Medea vengono enfatizzate al punto da renderla, secondo la definizione di Baldini Moscadi, ‘la maga paradigmatica per eccellenza’;16 già nella trattazione di Ovidio, sia nelle Metamorfosi che nelle Heroides, Medea appare come fanciulla innamorata e poi nel ruolo di donna-maga. Da qui prende le mosse Seneca per costruire la sua Medea tragica, fin dal principio del dramma dedita a una preghiera nera e impegnata a evidenziare la propria || Molto simile alla 246 è la 350, in cui lo strumento di avvelenamento non è un sonnifero, ma dell’acqua fredda. 14 Cf. Quint. 4,1,28; 4,1,46 s.; 9,2,30; 11,1,39; Sopat. Quaest. div. VIII 115,6 W.; VIII 319,16; VIII 384,19 (= p. 77, 40 Weiss.; p. 203, 13; p. 245,2). 15 Il linguaggio utilizzato dimostra, cioè, scopertamente la finzione dell’esercizio retorico; solo alcuni esempi: 245,1; 259,2; 273,1; 280,3; 296,6; 338,4; 381,1. Sull’uso di persona impiegato per identificare un personaggio teatrale cf. anche Nocchi 2015, 186–191. 16 Baldini Moscadi 2005, 111.

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propensione al delitto e la propria capacità di esercitare un potere sinistro sugli elementi naturali.17 Medea è quindi un personaggio complesso, dalle molte sfaccettature; se è possibile affermare con certezza che le sue rappresentazioni non prescindono mai dal suo ruolo di maga, vale la pena tentare di procedere oltre e di verificare se esista una trattazione di Medea come matrigna.

3 Medea matrigna? Le Metamorfosi ovidiane raccontano il seguito della storia affrontata dall’opera euripidea: scappata da Corinto, Medea viene accolta da Egeo, che la sposa; quando però ad Atene torna Teseo, figlio del re, Medea si trova a ricoprire il ruolo di matrigna18 e ordisce un piano omicida contro il figliastro facendo uso di un filtro velenoso.19 Nella sesta lettera delle Heroides, scritta da Ipsipile a Giasone, si scopre che, in realtà, Medea non è affatto nuova ad azioni del genere: Ipsipile, dopo aver partorito due gemelli a un Giasone ormai tornato in patria insieme a Medea dopo la missione argonautica, si trattiene infatti dall’inviare i figli al padre come ambasciatori per perorare la sua causa di moglie tradita proprio per paura di Medea, raffigurata in qualità di matrigna crudele: Sed tenuit coeptas saeva noverca vias. Medeam timui: plus est Medea noverca; Medeae faciunt ad scelus omne manus.

Ov. epist. 6,126–128 

Ma il pensiero della matrigna crudele mi ha trattenuto all’inizio del viaggio. Ho avuto timore di Medea: Medea è più di una matrigna; le mani di Medea sono in grado di compiere ogni tipo di delitto.

L’interesse del passo risiede non soltanto nel contesto in cui è inserito, che, di fatto, definisce Medea matrigna, ma anche nel nome di matrigna che diventa termine di paragone per la crudeltà di Medea: la maga è una matrigna all’ennesima potenza, noverca peggiore di ogni noverca.20 || 17 Sen. Med. 1–55. 18 Medea è esplicitamente nominata come matrigna di Teseo (Colchide noverca) da Ippolito in Sen. Phaedr. 697, che afferma di invidiare la matrigna del padre, di gran lunga preferibile alla sua, Fedra. 19 La vicenda di Medea occupa gran parte del libro VII delle Metamorfosi ovidiane; in particolare, l’episodio di Medea e Teseo occupa i vv. 404–424. Per un’analisi più approfondita della funzione di Medea nelle Metamorfosi cf. Ziosi 2016. 20 Sulla presentazione di Medea come matrigna in Ov. epist. 6, cf. anche Landolfi 2004, 265–267.

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Nell’Epistola 12, dedicata alle rimostranze di Medea a Giasone in seguito al matrimonio con Creusa (situazione corrispondente all’inizio della tragedia euripidea), la maga si preoccupa invece per le angherie che i suoi figli potranno subire dalla matrigna: Si tibi sum vilis, communis respice natos; saeviet in partus dira noverca meos. Ov. epist. 12,187 s. Se non valgo nulla per te, guarda i nostri figli; una matrigna crudele si accanirà sui frutti del mio parto.

Tale affermazione costituisce un ribaltamento rispetto a quanto invece il lettore sa che accadrà: la vera dira noverca, infatti, non è Creusa, che pure ricopre di fatto questo ruolo, ma Medea stessa, autrice dell’infanticidio. Questa tradizione ha influenzato Seneca, per il quale la donna diventa effettivamente matrigna dei suoi stessi figli nel corso della tragedia omonima. Tale concetto è accennato nel finale del dramma, quando Medea, nel suo ultimo monologo, prende la terribile risoluzione di attuare l’infanticidio; il processo decisionale che la porta a questo punto è tormentato e costituito di continui ripensamenti, ma ciò che è utile notare è il tentativo di alienare da sé i figli per rendere più tollerabile l’azione delittuosa.21 Dopo aver incitato il proprio cuore a non esitare nel male e dopo aver ricordato a se stessa che i delitti fino ad allora compiuti non sono stati altro che il preludio a ciò che sta per accadere, Medea inizia a visualizzare l’oggetto della vendetta: Ex paelice utinam liberos hostis meus aliquos haberet – quidquid ex illo tuum est, Creusa peperit. placuit hoc poenae genus, meritoque placuit: ultimum magno scelus animo parandum est: liberi quondam mei, vos pro paternis sceleribus poenas date. Sen. Med. 920–925

|| 21 Schiesaro 2003, 208–214 descrive l’impossibile sogno di ritorno al passato che tormenta Medea; la donna, prima regredisce al solo ruolo di madre, e non più di moglie, mentre in seguito tenta di riportarsi a un tempo precedente la maternità, che le consenta di rifiutarla: ‘she is willing to eradicate any trace of motherhood from her very womb’. Anche Boyle 2014, 359 ad 924 sostiene che Medea stia tentando di ‘divorziare’ dai figli tramite il linguaggio, che li rende appartenenti soltanto a Giasone; così Hine 2000, 203 ad 934–935: ‘the tortuous logic and expression reveal Medea’s attempt to distance herself from the children and her fellings for them’.

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Magari il mio nemico avesse dei figli dalla sua amante – qualunque cosa ti venga da lui l’ha partorita Creusa. Mi è andato a genio questo genere di castigo, mi è andato a genio con ragione. Bisogna preparare il supremo delitto con animo grande: figli un tempo miei, scontate voi la pena dei misfatti di vostro padre.

Il pensiero corre subito ai figli che sarebbero potuti nascere dall’unione di Giasone (hostis meus) e Creusa (paelex); dal momento che tale possibilità non si è mai realizzata, Medea passa a considerare i figli che Giasone ha già e di cui lei stessa è madre, senza però riconoscersi in questo ruolo e addirittura trasponendolo sulla rivale, con una concettosità tipica della dizione senecana: tutto ciò che è di Giasone l’ha partorito Creusa.22 Ed ecco che allora Medea smette per un attimo di essere madre per assumere i tratti della matrigna pronta all’omicidio;23 per ribadire il concetto, si rivolge direttamente ai figli con l’apostrofe liberi quondam mei: la maternità sembra appartenere a un tempo che ormai è irrimediabilmente passato e concluso perché la decisione presa non lascia spazio all’affetto di madre. Il culmine del dettato retorico arriva quando Medea, interrogatasi sulle colpe dei bambini, risponde che la loro sventura coincide di fatto con le persone dei loro genitori ed esprime le motivazioni per la loro morte in questi termini: ... Occidant, non sunt mei; pereant, mei sunt. Sen. Med. 934 s. … Muoiano pure, non sono miei; periscano, sono miei.

Sia che i figli le appartengano, sia che le siano estranei, la loro sorte è destinata a restare immutata. Il primo momento di accettazione di un pensiero così atroce come è quello dell’infanticidio passa attraverso l’alienazione dei figli da sé, e ciò non può che verificarsi per mezzo dell’assimilazione alla figura della noverca, per la quale una risoluzione del genere è totalmente accettabile, se non addirittura scontata. D’altro canto, che il passaggio a noverca da parte di una madre sia un atto sovversivo dell’ordine naturale lo confermano due versi di Properzio, in cui || 22 Per l’abdicatio nei confronti dei figli da parte di Medea nella tragedia senecana, si rimanda a Casamento 2002, 92–99. 23 La sospensione della maternità è elemento fondamentale anche nel dramma euripideo: cf. Guastella 2001, 120–122, 124–136, 149 s., che analizza la dimenticanza di Medea del proprio essere madre sia nella tragedia greca che in quella senecana; Medea, infatti, compie l’infanticidio per costruirsi, dopo il ripudio, una nuova identità attraverso la vendetta.

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il poeta impreca contro una lena capace di compiere azioni impossibili, come, per esempio, addolcire Ippolito o costringere Penelope a non curarsi delle voci sul ritorno di Odisseo e a sposare Antinoo: Illa velit, poterit magnes non ducere ferrum, et volucris nidis esse noverca suis. Prop. 4,5,9 s. Se volesse, potrebbe far sì che una calamita non attragga il ferro, e che la madre degli uccellini diventi matrigna dei suoi stessi piccoli.

La possibilità che la madre dei volucres si trasformi nella loro matrigna è un avvenimento accostabile all’impedire a una calamita di attirare a sé il ferro: un atto estremo e inimmaginabile, che non può verificarsi nella realtà,24 se non in quella del mito e attraverso un personaggio capace di azioni terribili contro la sua famiglia come è Medea. A partire dunque dal passo di Ovidio, viene messa in atto una descrizione di Medea come matrigna che l’autore condivide con alcuni luoghi della declamazione. Se infatti l’avvelenamento di un privignus non è certo un’azione rara nell’universo dei comportamenti tipici di una noverca, è meno atteso il caso di una donna che, dopo aver avvelenato il figliastro, denunci sotto tortura la complicità della propria figlia, mettendola così in pericolo, una volta dimostrata la verità dei fatti, di condanna capitale. Tale è l’argomento di un gruppo di testi retorici che comprende la decl. min. 381, la controversia senecana 9,6 e l’excerptum 12 di Calpurnio Flacco, molto simili tra loro sia per il thema che per lo sviluppo dell’argomentazione; così recita quello della 381: Venefica torqueatur donec conscios indicet. Quidam filio superduxit novercam et ex illa [aliam] filiam suscepit. Amisso filio ambiguis signis uxorem ream fecit. Confessa illa in tormentis communem filiam consciam dixit. Adest filiae pater. Ps. Quint. decl. min. 381, th. L’avvelenatrice sia torturata finché non denunci i suoi complici. Un uomo, sposandosi, diede a suo figlio una matrigna, ed ebbe da lei una figlia. Dopo la morte del figlio, che presentava segni equivoci, accusò la moglie. E quella, confessando sotto tortura, accusò la loro figlia di complicità. Il padre la difende.

|| 24 Si tratta di un adynaton, figura usuale nella rappresentazione degli effetti della magia. D’altra parte Medea è, nel mondo antico, la maga per antonomasia, a cui sono estremamente congeniali forme di inversio dell’ordine naturale delle cose. Sulle arti magiche e il loro valore culturale, cf. Luck 1997.

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In questo caso, la situazione iniziale vede protagonista una donna che è madre di una ragazza e, al tempo stesso, matrigna del figlio di primo letto del marito. Nel corso della vicenda, però, si trasforma, giungendo al punto di agire crudelmente con entrambi i giovani. Il comportamento tipico della saeva noverca (l’avvelenamento del figliastro) è dunque reso più grave dall’accusa di complicità mossa verso la propria figlia, seppure estorta sotto tortura. Ciò che colpisce nella controversia senecana 9,6 è il compianto, da parte di quasi tutti i declamatori, nei confronti della ragazza in quanto odiosa alla madre, diventata per lei una vera e propria matrigna: Nefaria mulier, filiae quoque noverca. … Matrem quid expavisti, puella? quid ad sinus meos refugisti? quid extimuisti tamquam novercam? … At ego te putabam unius novercam. Sen. contr. 9,6,1–7 Donna scellerata, matrigna anche della propria figlia. … Perché avevi timore di tua madre, ragazza mia? Perché ti sei rifugiata tra le mie braccia? Perché ne avevi paura come se fosse la tua matrigna? … Ma io pensavo che fossi matrigna di uno solo dei miei figli.

Identica linea di argomentazione è seguita anche da Mentone, che aggiunge un’affermazione piuttosto concettosa, secondo la quale la giovane, rispetto al fratello, vive una condizione ancora più sfortunata: il fratello, infatti, ha avuto una matrigna rispondente alle aspettative, mentre a lei è toccata in sorte una matrigna coincidente con la sua stessa madre: Non misereris huius? miserior est quam frater: ille habuit sine dubio novercam, . Sen. contr. 9,6,6 Non hai pietà di lei? È ancor più infelice di suo fratello: lui ha avuto, senza dubbio, una matrigna, ma lei ha avuto una madre anche peggiore di una matrigna.

Assume interesse in questa direzione anche lo sviluppo del thema da parte di Vozieno Montano, secondo il quale la menzogna della donna (e cioè l’accusa di complicità lanciata contro la figlia) può essere paragonabile a un veneficium; siccome, infatti, è impossibile credere che una sorella avvelenerebbe il proprio fratello, l’unica spiegazione possibile per un fatto del genere è che la madre abbia dimenticato il suo ruolo per assumere quello di matrigna, sebbene il marito auspicasse, al momento delle nozze, l’esatto contrario: Aiebam: dum matris meminit, obliviscetur novercae. At illa dum novercae meminit matris oblita est. Sen. contr. 9,6,3

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Mi dicevo: mentre si ricorda di essere madre, dimentica di essere matrigna. Ma lei, mentre si è ricordata di essere matrigna, si è dimenticata di essere madre.

Tutti questi elementi conducono a pensare a una caratterizzazione della noverca secondo il paradigma tragico di Medea, la donna che, nella raffigurazione dell’omonimo dramma senecano, è colta proprio nel momento in cui diviene matrigna dei suoi stessi figli.25 Dunque a Roma esisteva un trattamento retorico del personaggio, più volte soggetto declamatorio, della matrigna tale da poter costituire fonte di ispirazione per il Seneca autore di tragedie: tuttavia si deve sottolineare che, nel caso della declamazione citata, così come nelle altre due a essa accostabili per vicinanza di argomento, la donna protagonista è in effetti noverca già prima di diventare tale anche per la sua stessa figlia, dal momento che il marito ha un figlio di primo letto. D’altra parte, anche nella mitologia classica sono presenti casi di figlia femmina maltrattata dalla nuova moglie del padre,26 ed è in particolare per la figlia e il trattamento che potrebbe subire da un’eventuale μητρυιά che Alcesti si preoccupa in punto di morte.27 La vicinanza della madre-matrigna della Controversia senecana 9,6 a Medea è data anche dalla presenza di un veleno: se è quasi scontato che una noverca declamatoria sia caratterizzata come venefica, scontata è anche l’esperienza di Medea nelle arti magiche e nella preparazione di filtri e veleni capaci di causare la morte dei suoi nemici. Altro elemento che accosta la vicenda retorica a quella tragica è in questo caso il commento di Seneca il Vecchio al color usato dalla quasi totalità degli oratori; egli sostiene infatti che l’accusa pronunciata contro la figlia abbia come motivazione la volontà di far soffrire il marito, così come l’infanticidio è progettato da Medea al fine di vendicarsi di Giasone causandogli dolore:

|| 25 Il cambiamento di Medea nel dramma senecano sembra rispondere a uno schema retorico ben preciso: quando, infatti, nella declamazione si vuole esprimere un mutamento della condizione psicologica, si fa uso di un cambiamento di ruolo. Per esempio, in Ps. Quint. decl. mai. 19,11, p. 383, 8 H. un padre, dopo aver torturato e ucciso il figlio, torna in sé e dice revertor in patrem; allo stesso modo, Medea, che oscilla tra il ruolo di sposa, donna tradita e madre, dice ira discessit loco / materque tota coniuge expulsa redit (v. 927): cf. Pasetti 2016, 144–147. 26 Ne sono esempi le storie di Fronime e di Tiro. Fronime (Hdt. 4,154 s.), figlia del re cretese Etearco, subisce le angherie della matrigna, che la accusa falsamente di dissolutezza presso il padre, causando la decisione di metterla a morte (poi non portata a termine dal mercante a cui era stata affidata); anche Tiro, figlia di Salmoneo, protagonista di una perduta tragedia sofoclea, è maltrattata dalla matrigna Sidero e in seguito soccorsa dai figli. Per accenni più generici a giovani donne tormentate dalle loro matrigne, cf. quanto espresso da Apollonio Rodio (1,269–275 e 1,813–815). 27 Eur. Alc. 304–310.

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Omnes illo colore usi sunt, a noverca nominatam filiam in dolore patris. Sen. contr. 9,6,20 Tutti hanno fatto uso del color secondo cui la figlia è stata accusata dalla matrigna per far soffrire il padre.

Tale sembra essere anche la convinzione espressa dal padre-marito della decl. min. 381, che, accusando la moglie di volerlo vedere soffrire, caratterizza se stesso come Giasone e la moglie secondo il topos della donna abbandonata: Cur ergo dixit consciam? Ut me orbaret. Nihil dulcius est ultione laesae. Et prorsus non frustra hoc cogitavit: certe si non aliud, iudicio patrem torquet. Ps. Quint. decl. min. 381,4 E allora perché la madre l’ha definita sua complice? Per privarmi di lei. Per una donna offesa non c’è niente di più dolce della vendetta. Certo non ha escogitato tutto questo invano: se non altro, almeno, tortura il padre con il processo.

Le tre declamazioni basano la difesa della ragazza anche sull’evidente affetto provato verso il fratello, elemento che renderebbe impossibile da parte sua il volerlo uccidere; nel caso però del discorso pronunciato contro di lei, Triario fa ancora una volta uso del paradigma di Medea, ma riferendosi a un’altra parte della sua vicenda e, soprattutto, cucendolo addosso non alla matrigna, bensì a sua figlia: Quantum illi ad scelera aetatis adiecit quod illam noverca peperit? Quid illa quae fratrem in moram sequentis patris sparsit? Habes exemplum quod et sorori conveniat et virgini. Sen. contr. 9,6,9 Quanto ha inciso il suo essere figlia di una matrigna sui crimini della sua età? E che cosa dire della donna che ha disperso le membra del fratello per ritardare l’inseguimento del padre? Hai un esempio che si adatta sia a una sorella che a una giovane donna.

La ragazza è espressamente accostata a Medea, colpevole di aver ucciso il fratello Absirto e di averne sparso i pezzi nelle onde del mare; dunque entrambe le donne protagoniste di questo pezzo retorico sono passibili di un confronto con la maga della Colchide. Nella decl. min. 381 è presente un ulteriore elemento degno di nota; la crudeltà della donna, malvagia e avvelenatrice, supera quella di qualsiasi essere vivente sulla terra; per questo, il marito arriva a definirla peggiore di una bestia: Non peccant hi anni, ne in novercis quidem. Parvulae serpentes non nocent, ferae etiam mansuescunt. Ps. Quint. decl. min. 381,1

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Matrigne, avvelenatrici, donne incestuose: il paradigma di Medea | 129

In così tenera età non si commettono crimini, nemmeno se si tratta di future matrigne. I piccoli dei serpenti non fanno del male, anche le bestie feroci a quell’età sono mansuete.

Il marito sta difendendo la figlia tramite due assunti: innanzitutto, è troppo giovane per essere assassina e avvelenatrice e, in secondo luogo, l’amore per il fratello era troppo profondo perché potesse tramutarsi in desiderio di omicidio. L’unica persona da incolpare per la situazione è la matrigna, abbastanza adulta per essere crudele: in tenera età nessuno è capace di azioni efferate, nemmeno nel mondo delle belve. Può costituire motivo di interesse notare che nella controversia senecana Triario usa lo stesso color in maniera opposta: Quarundam ferarum catuli cum rabie nascuntur; venena statim radicibus pestifera sunt. Sen. contr. 9,6,9 I piccoli di alcune belve nascono già pieni di ferocia; le piante velenose sono mortali fin dalle radici.

Dal momento che la ragazza è figlia di una donna malvagia, deve necessariamente essere malvagia a sua volta, perché i figli assomigliano sempre ai loro genitori.28 Quale che sia la condotta di accusa o difesa della giovane, ciò che è importante sottolineare è il paragone tra la madre divenuta matrigna e il mondo bestiale.29 La crudeltà di chi volta le spalle ai propri figli non può appartenere al genere umano: come Medea viene isolata, così anche la matrigna dei retori sconta l’esclusione dai propri simili a causa della sua estrema malvagità. Meno complesso è il caso della decl. min. 319: Qui uxorem adulterii ream detulerat dixit communem filium testem fore. Inter moras iudicii adulescens ambiguis signis cruditatis et veneni decessit. Vult maritus agere cum uxore veneficii. Illa postulat ut praeferatur iudicium adulterii. Ps. Quint. decl. min. 319, th. Un tale che ha accusato di adulterio la moglie dice che il loro figlio sarà suo testimone. Nell’attesa del processo il giovane muore con segni equivoci di indigestione e veleno. Il marito vuole procedere contro la moglie per avvelenamento. La donna chiede che si istruisca prima il processo per adulterio.

|| 28 Su tale concetto proverbiale, cf. Tosi 1991, nr. 1445 Talis pater talis filius. 29 Il paragone con il mondo animale è tipico dei testi declamatori. Ermogene (Id. 2,4,17, p. 51 P.) raccomanda il confronto con gli ἄλογα ζῷα. Per una più ampia disamina della questione cf. Winterbottom 1984, 341.

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L’adultera, o supposta tale, della declamazione 319 si caratterizza secondo il paradigma di Medea: pur di vendicare l’offesa subìta dal marito, infatti, non si fa scrupoli ad avvelenare il proprio figlio, mostrandosi indegna di vivere in mezzo agli altri esseri umani: Vivit interim in civitate, inter nos est femina inter prodigia numeranda, implet numerum civitatis. Ps. Quint. decl. min. 319,4 Nel frattempo vive nella nostra comunità, c’è tra di noi una donna che deve essere considerata un mostro e che completa il numero della nostra cittadinanza.

Anche in questo caso la madre-Medea si comporta come un monstrum, pericoloso e inquietante, proprio come viene descritta la protagonista del dramma senecano.

4 Medea e Fedra Analizziamo ora un ultimo caso in cui la matrigna della declamazione richiama il personaggio tragico di Medea, fondendolo con quello di un’altra matrigna da tragedia: Fedra. Moglie di Teseo, infatti, Fedra prende atto della portata amorosa dei sentimenti che prova per il figliastro Ippolito e agisce di conseguenza sia nell’Ippolito euripideo,30 sia nel dramma senecano che da lei prende nome e che la caratterizza, in tutto e per tutto, come una noverca colpevole di interesse incestuoso verso Ippolito.31 La nutrice dell’opera di Seneca definisce tale sentimento amor impius32 ed esplicita il motivo per cui l’unione desiderata da Fedra non può e non deve verificarsi, in quanto causa di incesto: Miscere thalamos patris et gnati apparas uteroque prolem capere confusam impio? perge et nefandis verte naturam ignibus. Sen. Phaedr. 171–173

|| 30 Ovviamente, le azioni di Fedra nella tragedia euripidea sono mediate dall’intervento della nutrice, che si occupa di rivelare a Ippolito la passione incestuosa della matrigna. Diversa era la situazione nel perduto Ippolito velato, in cui era Fedra stessa a dichiararsi al figliastro. 31 Si tratta del morivo della moglie di Putifarre, per il quale cf. supra, n. 9. 32 Sen. Phaedr. 165 compesce amoris impii flammas, precor.

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Matrigne, avvelenatrici, donne incestuose: il paradigma di Medea | 131

Ti prepari a mescolare il letto del padre e del figlio e ad accogliere nel tuo empio ventre una prole confusa? Procedi e inverti il corso naturale delle cose con fiamme scellerate.33

Sebbene sia un caso più raro, anche la matrigna declamatoria assume talvolta un comportamento incestuoso e si innamora del proprio figliastro, come testimonia un passo dell’Institutio oratoria: Uxor marito dixit appellatam se de stupro a privigno et sibi constitutum tempus et locum: eadem contra filius detulit de noverca, edito tantum alio tempore ac loco: pater in eo quem uxor praedixerat filium invenit, in eo quem filius uxorem: illam repudiavit: qua tacente filium abdicat. Quint. 4,2,98 Una moglie ha detto al marito che il figliastro le ha proposto un adulterio, stabilendo anche tempo e luogo: il figlio ha sporto la stessa denuncia contro la matrigna, dichiarando soltanto un tempo e un luogo diversi. L’uomo ha trovato il figlio là dove la moglie gli aveva preannunciato e la moglie là dove gli aveva preannunciato il figlio: ha ripudiato la donna e, poiché lei rimane in silenzio, disconosce il figlio.

L’attenzione di Quintiliano, in questo frangente, non è rivolta al caso particolare, ma alla questione, più generale, dell’uso che nelle controversie si può fare di un color; la situazione scelta come esempio, però, contiene un evidente richiamo al motivo di Fedra (anche se in questo frangente la relazione illecita tra matrigna e figliastro sembra essere consensuale), mostrando come un thema del genere fosse tutt’altro che una rarità nel panorama degli esercizi declamatori. Una situazione simile si riscontra nell’excerptum 22 del corpus di Calpurnio Flacco, in cui una matrigna, alla quale un tirannicida ha ceduto il proprio premio, sceglie un modo di riscossione anomalo quando chiede le nozze con il figliastro. Altra declamazione di questo tipo è la decl. min. 335,34 in cui una nube di sospetti relativi

|| 33 Sul passo, relativamente alla questione dell’incesto, si confronti Bettini 2002, 99, che individua la presenza di un incesto di secondo tipo: secondo le teorie sulla generazione diffuse al tempo, a Roma circolava l’idea che il rapporto con due maschi differenti provocasse un turbamento nel grembo della donna adultera e una prole confusa; amando Ippolito, Fedra non si troverebbe a compiere incesto direttamente, ma a farlo compiere. Secondo Bettini, Phaedra ‘costituisce la tragedia dell’incesto per eccellenza ... perché dell’incesto essa prefigura la forma più pura ... : quella in cui l’assolutamente identico si somma all’altro assolutamente identico, il padre con il figlio’; solo la mediazione del grembo di Fedra, quindi, potrebbe rendere possibile la mostruosità della produzione di prole a partire da un’unione omosessuale. Sull’incesto di secondo tipo si confronti anche Héritier 1979, in particolare 239, 244–246, 258 s. 34 Cf. Ps Quint. decl. min. 335, th. Infamis in novercam vulneratus. Infamis in novercam cum patre peregre profectus est. Cum in latrones incidissent, fugerunt. Pater reversus adulteros inclusos in

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a una possibile relazione adulterina con la matrigna incrina il rapporto tra padre e figlio. Simile a questo testo è anche una controversia di Seneca, lodata da Quintiliano per la vivacità e l’audacia delle immagini usate, che ha per oggetto l’uccisione, da parte del marito tradito, della moglie e del suo amante, che si scopre essere il figlio del protagonista stesso: Novi vero et praecipue declamatores audacius nec mehercule sine motu quodam imaginantur, ut Seneca in controversia, cuius summa est quod pater filium et novercam inducente altero filio in adulterio deprensos occidit: ‘Duc, sequor: accipe hanc senilem manum et quocumque vis inprime’. Et post paulo: ‘Aspice, inquit, quod diu non credidisti. Ego vero non video, nox oboritur et crassa caligo.’ Quint. 9,2,42 s. Di certo i retori moderni, e soprattutto i declamatori, creano raffigurazioni in modo molto audace e, per Ercole, non senza una certa vivacità, come fa Seneca in una controversia, il cui argomento è l’assassinio, da parte di un padre, del proprio figlio e della matrigna, colti in flagranza di adulterio su suggerimento dell’altro figlio: ‘Guidami, ti seguo: prendi questa vecchia mano e dirigila dove vuoi’. E poco oltre dice: ‘Guarda quello a cui non hai creduto per molto tempo. Ma io non vedo, spunta la notte e una fitta nebbia.’

Proviamo ora a concentrare l’attenzione sulla decl. min. 354: essa fa parte di una serie composta anche dalla Controversia 6,6 di Seneca e dall’escerto 40 di Calpurnio, che presentano, in sostanza, un thema identico: un uomo, insospettito dal colloquio di sua moglie con un giovane e piacente vicino di casa, decide di promettergli in sposa la propria figlia; la moglie, però, non soddisfatta dell’accordo, predice la morte della figlia prima delle nozze e, quando ciò puntualmente avviene, deve difendersi dall’accusa di omicidio che il marito le muove: Quidam nubilem filiam habens uxorem secreto loquentem cum adulescente vicino formoso deprehendit. Quaesivit quid locuta esset. Respondit mulier de nuptiis filiae se locutam. Ei maritus filiam despondit. Mater ait: ‘morietur antequam nubat.’ Ante diem nuptiarum puella subito perit; livores et tumores in corpore fuerunt. Mulier rea est. Ps. Quint. decl. min. 354, th. Un uomo con una figlia in età da marito sorprende la moglie a parlare con il giovane e avvenente vicino di casa. Le chiede di che cosa gli abbia parlato. La donna risponde che l’argomento di conversazione sono state le nozze della figlia. Il marito promette la figlia in

|| cubiculo deprehendit. Occidit uxorem, adulterum vulneravit; is fugit. Postea vulneratus filius venit. Interrogavit eum pater a quo vulneratus esset. Ille a latronibus dixit. Curavit eum pater et reddit causas mortis voluntariae. Filius CD.

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Matrigne, avvelenatrici, donne incestuose: il paradigma di Medea | 133

sposa al giovane. La madre dice: ‘morirà prima di sposarsi.’ Il giorno precedente il matrimonio la ragazza muore improvvisamente; sul suo corpo vengono trovati lividi e gonfiori. La donna subisce l’accusa.

Fino a questo punto sembra che non ci sia alcuna attinenza con il modello di Fedra, ma l’excerptum 40 di Calpurnio Flacco e la Controversia 6,6 di Seneca ci aiutano a chiarire il contesto, accennando in maniera incontrovertibile a una relazione erotica tra la madre della giovane sposa e il genero. Nel passo di Calpurnio tale liaison viene rivelata da un’ancella nel corso di un’istruttoria domestica: Quaestionem cum de familia pater haberet, ex ancillis una confessa est adulterium cum illo iuvene matris intercessisse. Calp. decl. 40, p. 33, 1 s. H. Dopo che il padre aprì un’inchiesta tra i membri della servitù, una delle ancelle confessò la relazione adulterina tra la madre e il giovane.

Il discorso del padre contro la madre è una sorta di autoaccusa per aver causato indirettamente e involontariamente la morte della giovane, rendendo la moglie gelosa al punto da ordire l’avvelenamento della sua stessa figlia. È probabile che l’uomo, sospettando tale rapporto illecito, abbia cercato di indurre il giovane a chiedere la mano della figlia per verificare l’effettiva esistenza di tale rapporto, provocando il successivo spostamento di interesse del ragazzo dalla madre alla figlia, la proposta di matrimonio e infine l’avvelenamento. Come ciò sia stato possibile lo si inferisce da un’indicazione di grande importanza presente nel discorso dell’uomo: Placuit in te sponso tuo similitudo materna. Calp. decl. 40, p. 33, 8 H. Al tuo fidanzato è piaciuta, di te, la somiglianza con tua madre.

È dunque la forte somiglianza tra madre e figlia a permettere che il giovane si decida ad avanzare la proposta. Questo consente alle due donne di diventare rivali, come viene esplicitato da Seneca con la definizione della madre come filiae paelex; l’excerptum di Seneca è infatti molto simile a quello di Calpurnio, anche se manca il dato della somiglianza fisica,35 quello che ci avvicina maggiormente alla Fedra tragica:

|| 35 Sul tema della rassomiglianza tra padri e figli nella cultura antica, cf. Bettini 1992, 211–239.

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PH. Hippolyte, sic est: Thesei vultus amo illos priores, quos tulit quondam puer. Sen. Phaedr. 646 s. FE. È proprio così, Ippolito: amo il volto di Teseo, quello che aveva un tempo, quando era un ragazzo.

Come Fedra è spinta all’amore per Ippolito dalla somiglianza fisica con Teseo,36 così il giovane delle controversie citate inizia a provare interesse per la sua presumibilmente coetanea vicina di casa dopo averne accertato la somiglianza con la madre, sua amante. La situazione descritta nelle tre declamazioni è, dunque, una variazione sul tema di Fedra: se nella trama tragica i personaggi coinvolti sono un padre, una noverca e un privignus, in quella retorica sono presenti una madre, una figlia e un genero: in entrambi i casi si crea una rivalità tra due componenti della stessa famiglia (padre/figlio, madre/figlia) verso un terzo, che nella gedia di Fedra è interno al nucleo familiare stesso mentre nelle declamazioni è esterno, ma sta per entrare a farne parte attraverso un matrimonio. E, soprattutto, in entrambi i casi è la donna adulta a essere additata come responsabile della situazione e a causarne il precipitare: come Ippolito si trova ad andare incontro alla morte per la denuncia, seppur non esplicita, della matrigna, così anche la giovane donna dei retori muore per mano della madre. La moglie adultera delle controversie, allora, costituisce una riproposizione della figura di Fedra, ma con alcuni tratti ribaltati, e si comporta anche come Medea, arrivando, per amore, a uccidere la sua stessa figlia; in questo modo la storia di Fedra, usata come utile spunto declamatorio, viene rivisitata tramite differenze in alcuni elementi fissi (l’adulterio che diventa incesto, la morte della parte giovane della famiglia) e complicata dalla contemporanea presenza del paradigma di Medea, stornando da un canovaccio che rischiava di diventare ripetitivo e scontato la concreta possibilità di risultare banale, così da renderlo, invece, interessante e inaspettato: un ulteriore esempio della capacità dei retori di innovare riproponendo miti e temi noti in chiave inattesa.

|| 36 Fedra sfrutta l’elemento della somiglianza fisica tra padre e figlio per mantenere il più possibile ambigue le proprie parole nel momento in cui si dichiara a Ippolito.

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5 Qualche conclusione Consapevoli della non esaustività della trattazione, tentiamo di trarre qualche conclusione dall’indagine che abbiamo finora proposto. Già dalla riflessione retorica antica è evidente che le scuole di declamazione, nel costruire i themata e gli svolgimenti degli esercizi assegnati, fanno ampio ricorso alla tradizione culturale e letteraria in cui si trovano inserite. Nel momento in cui i protagonisti delle controversie diventano tipi umani – il padre, l’eroe, il pirata, il filosofo – assumono uno statuto teatrale che può volgere tanto alla commedia quanto alla tragedia. I casi qui analizzati hanno preso in considerazione alcune caratteristiche della costruzione retorica di un tipo umano, la matrigna, la cui presenza sulla scena declamatoria è prepotente e significativa. Lo stereotipo sotteso al ‘tipo della noverca’, se così possiamo chiamarlo, il pregiudizio cioè che la identifica immediatamente, al solo nominarla, con una donna crudele, assassina e avvelenatrice, diventa la base di partenza di molti colores declamatori. Non si tratta, però, soltanto di un semplice spunto tratto dalla vita quotidiana, ma di un richiamo tragico. Spesso, infatti, i colores sottendono maschere teatrali tragiche: nel caso della matrigna, è possibile scorgere, in controluce, Medea, trattata secondo lo schema indicato da Seneca nel dramma omonimo. Ed ecco che allora Medea diventa anche una persona, un modo per diventare altro da sé, una figurazione da assumere nel momento in cui si deve compiere un efferato delitto familiare. Talvolta, la caratterizzazione secondo il paradigma di Medea non soddisfa pienamente il retore, che sceglie di complicare il quadro traendo spunto da altre vicende tragiche, come quella di Fedra, altra matrigna dominata non tanto dall’odio quanto dall’amore illecito verso il proprio figliastro: tale è infatti l’incarnazione più nota e più fruibile per il declamatore del Potiphar-motiv.37

|| 37 La vicenda di Fedra e Ippolito, che si prestava facilmente a letture etiche, era molto popolare nell’antichità e, in particolare, in Oriente; sull’argomento, e sulle etopee incentrate sulla vicenda di Ippolito, cf. Agosti 2007, 121 e Agosti 2005, 40: ‘Etopee sono anche le anacreontiche 1–6 Ciccolella del cosiddetto Giorgio grammatico ..., che hanno come tema di fondo … l’esaltazione della rosa, che passa attraverso il contrasto fra la passione e la sapienza (Anacr. 1–2), il potere irresistibile di Eros esemplificato da Ares e Afrodite (Anacr. 3), Apollo e Dafne (Anacr. 4), e infine Ippolito e Fedra (Anacr. 5, 6a, 6b), una sequenza di tre (ma forse era un unico carme polimetrico?) anacreontiche in cui si esalta il potere consolatorio della rosa, cui cede anche Ippolito che indossa la corona pur senza acconsentire all’amore della matrigna. Quest’ultimo tema merita di essere sottolineato: la vicenda di Fedra e Ippolito, già fortunato soggetto pantomimico (Luc., De salt. 2; Lib., Or. 64,67 Foerster), rimase popolare in tutta l’antichità e conobbe una nuova voga in Oriente, come è testimoniato dal mosaico di Madaba e dall’ecfrasi di Procopio di Gaza. … La storia di Ippolito si prestava, piuttosto agevolmente, a una lettura etica: la saggezza e la temperanza, la

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A dispetto di un’apparente semplicità, emerge invece la complessità dei brani retorici, che nascondono, dietro la finzione di personaggi semplici e monolitici, una fitta trama di ‘maschere’ teatrali, utili per stupire l’ascoltatore e per rendere lo svolgimento di alcuni themata inaspettato e lontano dalla direzione inizialmente suggerita.

|| σωφροσύνη di colui che resiste all’inopportuna forza distruttiva dell’amore. Da questo punto di vista il figlio di Teseo veniva a coincidere e a identificarsi col suo omologo biblico, Giuseppe che aveva resistito eroicamente alle profferte della moglie di Putifarre, a cui Romano il Melodo dedicò un’intera omelia metrica (44 Maas-Trypanis = 6 Grosdidier de Matons)’.

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Danielle van Mal-Maeder

Tisser des lieux communs Quelques réflexions autour de la figure du parasite dans les Petites déclamations L’importance du théâtre dans la formation rhétorique et ses liens avec la déclamation ont été bien reconnus. La comédie notamment, aux dires de Quintilien, est utile parce qu’elle ressortit au domaine du vraisemblable ; elle est proche de la réalité et met en scène une galerie de portraits et une panoplie de passions susceptibles d’inspirer l’apprenti orateur, tant sur le plan de l’invention, de l’expression des émotions que de l’action oratoire.1 Dans cet article, je voudrais me pencher sur un personnage type de l’univers comique, le parasite, et sur les lieux communs qui lui sont attachés. Je m’intéresserai d’abord à son utilisation dans la déclamation latine en général, avant d’analyser plus précisément sa fonction dans l’une des controverses du recueil des Minores.

1 La figure du parasite dans la déclamation latine Les Petites déclamations sont les seules controverses du corpus latin qui mentionnent le parasite dans le thème comme l’un des acteurs du conflit. Ce personnage évoque en premier lieu l’univers de la comédie où, on le sait, il joue souvent les seconds rôles. Le parasite y est un glouton, un bouffon et un flatteur, asservi à son ventre et à son rex.2 Sa réutilisation dans les déclamations en fait un caractère-type dont l’ethos est fixé culturellement et littérairement.3 Transposé dans ce nouveau contexte, il n’en subit pas moins, nous le verrons, certaines mutations. || 1 Cf. Quint. 1,8,7 s.; 1,11,12 ; 1,10,69–72 ; voir Nocchi 2013 et 2015, 179–199 ; Casamento 2007 et van Mal-Maeder 2007, 10–18 ; sur les liens entre déclamation et tragédie : Casamento 2002 et 2012 ; Nocchi 2015, 199–206. Cet article est issu d’un projet financé par le Fonds national suisse de la recherche scientifique (FNS). 2 Rex est le terme qu’emploient les parasites de comédie pour flatter leur patron : e.g. Plaut. Asin. 919 ; Capt. 92 ; Stich. 455 ; cf. aussi Sen. contr. 10,1,7 ; Iuv. 5,14–23 : voir Santorelli 2013, 66 ad loc. 3 Pour une étude de la figure du parasite dans la comédie et son réemploi dans la satire et chez Cicéron, voir Damon 1997, avec références supplémentaires. L’auteur s’intéresse plus spécifiquement aux représentations de ce personnage en lien avec le système romain du patronage et du clientélisme ; voir aussi Santorelli 2013, 3–14 et 175. Le parasite apparaît également dans la déclamation grecque : cf. Lib. decl. 28.

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Quintilien mentionne le parasite à trois reprises dans la section de son ouvrage consacrée à l’action oratoire (pronuntiatio) en compagnie d’autres figures de théâtre, comme l’esclave, le proxénète, le paysan, le soldat, la courtisane.4 Il appartient à la catégorie des personnages agités, reconnaissables notamment à leur démarche rapide.5 Dans l’univers déclamatoire, il a néanmoins perdu sa dimension comique. De flatteur goinfre et ridicule, il est devenu un homme de main au service de son maître, une figure inquiétante qui tue et qui viole. Cette représentation négative pousse à l’extrême l’aura d’amoralité dont il est déjà entouré dans la satire.6 Ainsi dans la Petite déclamation 252 : Inscripti maleficii sit actio. Raptor decem milia solvat. Pauperis et divitis filiae sacerdotium petebant. Rumor erat futurum ut pauperis filia sacerdos crearetur. Rapuit eam parasitus divitis. Decem accepta a divite solvit e lege. Accusat pauper divitem inscripti maleficii. Ps. Quint. decl. min. 252, th. On pourra intenter une action pour un crime non inscrit dans la loi. Un violeur s’acquittera de dix mille deniers.7 Les filles d’un pauvre et d’un riche voulaient devenir prêtresses. La rumeur courait que ce serait la fille du pauvre qui serait élue. Le parasite du riche la viola. Ayant reçu dix mille deniers du riche, il s’en acquitta conformément à la loi. Le pauvre accuse le riche de délit ne figurant dans la loi.8

Comme le note M. Winterbottom dans son commentaire, cette déclamation repose tacitement sur l’obligation pour une prêtresse d’être vierge.9 Deux autres lois encadrent le sujet de la controverse. La première (Inscripti maleficii sit actio), que Quintilien mentionne parmi les thèmes d’école,10 vise à protéger contre les

|| 4 Quint. 11,3,74. 5 Quint. 11,3,112 ; 178. 6 Voir à ce propos Damon 1997, 105–145, 172–191 et pour une synthèse 252–255. Dans la comédie grecque, le parasite peut déjà constituer un personnage inquiétant : cf. Antiphanes fr. 193 K.-A., où un parasite se vante d’être un faux témoin et un assassin ; voir aussi Delignon 2008, 8 s. à propos de Gnathon dans l’Eunuque de Térence, parasitus doctus qui rompt avec la tradition plautinienne. 7 La Petite déclamation 265,10 est plus explicite quant au montant de l’amende : Qui in templo iniuriam fecerit, decem milia denariorum det ei cui iniuriam fecerit, decem milia civitati. 8 Ps. Quint. decl. min. 252, th. ; cf. aussi la déclamation 370, qui présente à peu près le même thème : le moment du viol, notamment, y est précisé (sub diem comitiorum). Dans ce travail, je me base sur le texte des Minores établi par Winterbottom 1984. 9 Winterbottom 1984, 313 ; cette exigence est exprimée sous la forme d’une loi ainsi formulée chez Sen. contr. 1,2 Sacerdos casta e castis, pura e puris sit. 10 Quint. 7,4,36 ; cf. Sen. contr. 5,1 ; Ps. Quint. decl. min. 252 ; 344 ; 370 ; Lanfranchi 1938, 505 s., pour qui cette loi possède peut-être un fond de vérité ; Bonner 1949, 86 s. ; Berti 2007, 141–143. Plusieurs études récentes ont repris la question de la législation dans l’univers déclamatoire :

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délits non prévus par la loi : on imagine aisément qu’elle ait trouvé sa place dans l’univers déclamatoire, qui aime à multiplier les variantes inédites. La seconde (Raptor decem milia solvat) est une alternative à la loi généralement invoquée en cas de viol, qui offre à la victime le choix de faire périr son agresseur ou de l’obliger à se marier avec elle sans dot.11 S’agissant ici d’une candidate à la prêtrise, le mariage n’est pas une option. Le dédommagement financier, en revanche, s’accorde avec les acteurs de l’affaire : un pauvre, un riche et son parasite, ce dernier étant soupçonné d’avoir agi pour le compte de son maître, ce qui soulève la question de la responsabilité effective du viol.12 Dans cette controverse, le parasite ne joue qu’un rôle secondaire : il est à la solde du prévenu. À l’image du pirate des déclamations, il est un catalyseur de conflit qui oppose deux figures traditionnelles de cet univers fictionnel, le riche et le pauvre.13 Mais à l’inverse du pirate, qui demeure un personnage flou et quelque peu exotique, le parasite évoque une réalité romaine bien concrète, celle du clientélisme avec pour cadre le banquet. On citera à ce propos la Petite déclamation 296, où un exilé est tué par le parasite de son frère lors d’un dîner auquel ce dernier l’avait convié : dans ce cas encore, le rôle du parasite consiste à provoquer le conflit véritable, qui oppose le père du jeune homme assassiné à son autre fils.14 Sa présence induit la caractérisation négative du fils et le soupçon qu’il s’agissait d’un meurtre commandité. Dans son discours, le père justifie sa volonté de répudier son fils en enchaînant une série d’accusations de plus en plus graves, qui toutes tournent autour de la figure du parasite, compagnon de débauche et sicaire : Obicimus adulescenti ante omnia quod parasitum habuerit. ... Quid enim est parasitus nisi comes vitiorum, turpissimi cuiusque facti laudator ... Obicio tibi quod adhibueris cenae tertium. Si hoc furtum pietatis est, opus est secreto. Obicio quod parasitum potissimum adhibueris : hoc enim vacabat misero, hoc exuli ? cenabat cum parasito ! ... Obicio tibi occidenti

|| voir en particulier Lentano 2014 et 2015 ; Amato/Citti/Huelsenbeck 2015 ; Dimatteo, Krapinger et Lentano dans le présent volume. 11 Cf. e.g. Sen. contr. 1,5 ; Ps. Quint. decl. min. 276 ; 262 et 270, où cette loi est sous-entendue ; sur cette loi, voir Berti 2015, 9–21, avec références supplémentaires. Dans la déclamation 370, la deuxième loi régissant le thème présente une formulation différente : Qui ingenuam stupraverit, det decem milia. 12 Ce point est développé en particulier dans les §§ 10–13 du discours. 13 Le conflit entre un riche et un pauvre est l’un des thèmes de controverses les plus fréquents : voir désormais Santorelli 2014, 16–26, avec références exhaustives ; Corbeill 2016, 19 s. 14 Sur le conflit père-fils, la littérature est très riche ; on renverra en particulier à Brescia/Lentano 2009, 69–94 ; Lentano 2009, 45–79 ; Lentano 2015, qui examine là plus spécifiquement les cas de parricide ; Pasetti 2011, 23–31 ; Breij 2015, 26–40, avec références supplémentaires ; Casamento dans ce volume.

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fratris consilium. Si accusator essem, si te in culleum peterem, illa dixissem : persona crimini idonea est : habes parasitum.15 ... Minister non defuit : parasitus in tua potestate est. Cetera vero cui non etiam manifesta sint ? Parasitus sine tua voluntate conviciari fratri tuo auderet ? Homo in adulationem natus, homo cuius famem tantum tu propitius differebas, non fecisset utique quo te putaret offendi. Ps. Quint. decl. min. 296,1–7 Nous reprochons avant tout à ce garçon d’avoir eu un parasite. ... Qu’est-ce donc qu’un parasite sinon un camarade de vices, un flagorneur qui applaudit tous les exploits les plus honteux ? ... Je te reproche d’avoir fait venir un troisième convive. Si cette infraction est le fruit de la piété, il fallait garder le secret.16 Je te reproche d’avoir fait venir un parasite plutôt que n’importe qui d’autre : est-ce là ce qui manquait à un malheureux, à un exilé ? Dîner en compagnie d’un parasite ! ... Je te reproche d’avoir prémédité la mort de ton frère. Si j’étais plaignant, si je réclamais le sac en cuir pour toi,17 voici ce que je dirais : le personnage s’accorde avec le crime : tu as un parasite. ... Ce n’est pas le complice qui manquait : tu as un parasite sous la main. Quant au reste, n’est-ce pas évident ? Un parasite oserait insulter ton frère contre ta volonté ? Un homme né pour flatter, un homme dont toi seul avais la complaisance de différer la faim ? Jamais il n’aurait pensé à faire quoi que ce soit qui puisse t’offenser.

Pour susciter l’indignation des juges, voici encore la description qu’un fils, débauché repenti, fait de son père qui s’était à son tour livré à la débauche : Meretricem vidi pendentem collo senis et parasitorum circumfusum patri gregem, turpes cum rivalibus rixas et ebrietati nocturnae additum diem. Sen. contr. 2,6,9 J’ai vu une courtisane suspendue au cou du vieux, ainsi qu’un troupeau de parasites agglutiné autour de mon père, des empoignades abjectes avec des rivaux et l’ivresse de la nuit se prolongeant le jour.18

|| 15 Dans cette phrase, persona est employé en référence au rôle théâtral : cf. e.g. Cic. orat. 109 ; Q. Rosc. 20 ; Lael. 93 ‘negat quis, nego. Ait, aio. Postremo imperavi egomet mihi / omnia adsentari’, ut ait idem Terentius, sed ille in Gnathonis persona, quod amici genus adhibere omnino levitatis est ; comparer Ps. Quint. decl. min. 286,8 et 291,1 s., où persona s’applique en référence au père sévère de la comédie par opposition au père débonnaire ; voir Nocchi 2015, 186–191. 16 En invitant l’exilé à dîner, son frère l’incite à violer la loi. 17 Allusion au châtiment du culleus réservé aux parricides. Après avoir été fouetté, le coupable était cousu dans un sac en cuir, parfois en compagnie d’un chien, d’un coq, d’un serpent et d’un singe, puis jeté dans la mer ou dans un fleuve. Pour une description de ce supplice, cf. Cic. S. Rosc. 70–72. 18 Casamento 2007, 138–143 tire un parallèle entre ce pater luxuriosus et le senex luxuriosus de la comédie.

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Dans la déclamation 252 mentionnée précédemment, le parasite est cité, si l’on peut dire, comme ‘faire-valoir’ en négatif, comme preuve de la culpabilité de son adversaire : Nihil argumenti ex moribus istius ducam, etiamsi qualis sit, quam dissolutus, quam luxuriosus ac perditus, satis vel uno argumento probari potuit : parasitum habuit. Ps. Quint. decl. min. 252,10 Je n’argumenterai pas en m’appuyant sur les mœurs de ce personnage, même si, pour prouver quel genre d’homme il est, à quel point il est pervers et dépravé, un seul élément suffirait : il avait un parasite.

Posséder un parasite (cf. habes parasitum, parasitum habuit), c’est-à-dire l’accueillir chez soi et le nourrir, est donc l’indice de mœurs répréhensibles.19 Cette mauvaise fréquentation, un patron qui se retrouve sur le banc des accusés doit la présenter sous un jour autrement favorable. C’est ce que fait le riche accusé de meurtre de la Petite déclamation 379. Ce personnage avait tué un pauvre, son ennemi, après l’avoir surpris en flagrant délit d’adultère avec sa femme – un mode de vengeance autorisé par la législation de l’univers déclamatoire.20 L’affaire se complique lorsque le parasite du riche, que ce dernier avait chassé de sa maison, est soumis à la torture après avoir commis un sacrilège dans un temple : entre autres révélations, il dévoile que son patron avait injustement tué le pauvre, c’est-à-dire qu’il n’y avait pas eu d’adultère. Le discours qui suit l’énoncé du thème constitue un inventaire des questions à poser et des arguments à employer par la défense. Cette énumération, qui enchaîne rapidement les différents points à traiter sans broderie aucune, montre clairement comment les lieux communs et les motifs topiques forment l’ossature des discours. Le lieu commun (communis locus en latin, κοινὸς τόπος en grec), on le sait, faisait partie des exercices préparatoires (progymnasmata) ; employé dans un discours, il sert l’amplification et élève le cas particulier vers le général.21 Comme la sentence, sa force de persua-

|| 19 Cf. Cic. Lael. 93 (cité dans la n. 15). Dans les Philippiques (2,15), Cicéron désigne les associés d’Antoine en les affublant de noms de parasites de comédie : Hodie non descendit Antonius. Cur ? Dat nataliciam in hortis. Cui ? Neminem nominabo ; putate tum Phormioni alicui, tum Gnathoni, tum etiam Ballioni ; cf. aussi Caecin. 27 : voir Corbeill 1996, 88 s. ; Benferhat 2007, 69. Dans l’Apologie 100,4, Apulée qualifie également les associés de son accusateur de parasites pour mieux le discréditer. 20 Voir Lentano dans ce volume. 21 Voir Pernot 1986, Goyet 1996, Leff 1996, Patillon 1997, LXX–LXXIV ; pour une nouvelle approche du lieu commun chez Sénèque le Père, Huelsenbeck 2015.

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sion réside dans son caractère convenu, en ce qu’il énonce une vérité communément admise.22 Quintilien recommande néanmoins de le rattacher étroitement au sujet traité, de l’incorporer véritablement à la matière, et non pas simplement de le plaquer dessus.23 On peut rapprocher du lieu commun le motif récurrent en littérature, que la critique moderne désigne souvent du terme topos, et qui est susceptible lui aussi de produire un effet persuasif en raison de son caractère familier. Dans la Petite déclamation 379, le déclamateur s’appuie par exemple sur la tradition du parasite-entremetteur de la comédie24 pour prouver qu’il y a bel et bien eu adultère, que le parasite en était responsable, raison pour laquelle il avait été chassé par celui qui l’avait si généreusement recueilli : Utique si quis domesticorum adiuvit, per parasitum factum ; et ideo eiectus, ideo a nullo receptus, quod eum laesisset a quo liberalissime exceptus est. Ps. Quint. decl. min. 379,4 Une chose est certaine : si quelqu’un parmi les membres de la famille a apporté son aide, c’est le parasite ; et s’il a été chassé, si personne ne l’a recueilli, c’est qu’il avait commis du tort à l’homme qui l’avait accueilli avec tant de générosité.

On notera ici l’adverbe liberalissime, qui permet de caractériser positivement l’accusé comme un bienfaiteur ou un évergète plutôt que comme un riche corrompu, une donnée que l’élève pouvait ensuite développer à sa convenance, en imaginant par exemple que l’accusé avait recueilli dans sa maison un fils chassé par son père – procédure des plus fréquentes dans l’univers déclamatoire.25 On peut citer à ce propos la Petite déclamation 260, où un jeune homme riche qui recueillait des fils chassés par leur père et les nourrissait, est accusé de commettre un préjudice à l’État. L’avocat qui le défend prend soin d’écarter tout soupçon de débauche : le garçon ne fricotait ni avec des courtisanes, ni avec des parasites,26 il était mû par sa générosité et sa bonté.27 Dans le cas de la Petite déclamation 379,

|| 22 Van Mal-Maeder 2016, 97–102. 23 Quint. 2,4,27–32. 24 Plaut. Amph. 515 (Mercure voulant seconder Jupiter auprès d’Alcmène : Accedam atque hanc appellabo et subparasitabor patri) ; Bacch. 573–605 ; Ter. Eun. 1053–1060 ; cf. aussi Iuv. 9,70– 83. 25 Sur l’abdicatio, voir parmi d’autres Lanfranchi 1938, 254–267 ; Bonner 1949, 101–103 ; Berti 2007, 91 s. et Berti 2015 ; Krapinger 2007, 14–17 ; Lentano 2009, 61–70 ; Pasetti 2011, 90 s. ; Johansson 2015 (à propos de Libanios) ; Krapinger/Stramaglia 2015, 34–39. 26 Ps. Quint. decl. min. 260,8 Non meretricibus donat, non in parasitos profundit. 27 Ps. Quint. decl. min. 260,18 Audite, audite, patres, quae optimum adulescentem ad misericordiam moverint, quae ad liberalitatem. L’adverbe liberalius apparaît à plusieurs reprises dans ce

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le riche a beau se présenter comme un bienfaiteur plutôt que comme le patron d’un parasite, il ne voit apparemment aucune contradiction à se servir de l’argument topique du parasite à la réputation sulfureuse (ou, pour reprendre une formule de J. Pingoud dans le présent volume, à ‘activer sa stéréotypie négative’28), dans le but de mettre en doute son témoignage : un témoignage isolé, qui plus est obtenu sous la torture – torture dont la fiabilité est communément remise en question dans l’univers déclamatoire : ‘At enim dixit parasitus.’ Primum unus testis est, deinde parasitus. ‘Tortus dixit.’ Eo minus credo : mentiuntur plerumque torti. Ps. Quint. decl. min. 379,5 ‘Mais le parasite l’a affirmé.’ D’abord, il est le seul témoin, ensuite, c’est un parasite. ‘Il l’a affirmé sous la torture.’ C’est pourquoi je le crois d’autant moins : la plupart du temps, les gens que l’on torture racontent des mensonges.29

Dans la partie de l’Institution oratoire consacrée aux exercices préliminaires, Quintilien mentionne l’éloge, le blâme, la comparaison, ainsi que (on l’a vu précédemment) les lieux communs, où se rencontrent des développements généraux contre les vices ; ces développements, ajoute-t-il, peuvent aussi servir comme moyens de défense, car il arrive parfois de devoir défendre un proxénète ou un parasite.30 C’est le cas dans le sujet de controverse suivant : un parasite réclame comme étant son fils un jeune homme adopté par un homme riche, trois fois chassé et trois fois pardonné.31 Il s’agit là d’un cas d’espèce,32 où le père parasitus part avec un désavantage, celui de son ethos intrinsèquement négatif. La situation nécessite que le déclamateur soit attentif à l’image qu’il donnera de lui-même dans son discours, pour détourner de lui les préjugés négatifs de la tradition :

|| discours avec une nuance tantôt positive (260,32), tantôt négative (260,2). Sur cette déclamation, voir Corbeill 2016, qui y voit l’œuvre d’un élève du maître. 28 La formule est employée à propos de la courtisane. 29 Quint. 5,4,1 mentionne la torture parmi les lieux communs très souvent traités ; sur ce thème, voir notamment Bernstein 2013, 46–57 ; Zinsmaier 2015, avec références supplémentaires. 30 Quint. 2,4,22 s. 31 Quint. 4,2,95. Comparer Sen. contr. 2,1, où le fils d’un pauvre s’oppose à son père en refusant de se laisser adopter par un homme riche qui a chassé ses trois fils. 32 Cf. Quint. 2,4,22, avec Reinhardt/Winterbottom 2006, 102 ad loc.

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Nisi tamen in omnibus verbis et amorem patrium atque hunc quidem ardentissimum ostenderit et odium divitis et metum pro iuvene, quem periculose mansurum in illa domo in qua tam invisus sit, sciat, suspicione subiecti petitoris non carebit. Quint. 4,2,96 Mais si toutes ses paroles ne révèlent pas un amour paternel, un amour vraiment très ardent, la haine du riche et l’anxiété pour le jeune homme, dont il sait les risques s’il reste dans ladite maison, où il est si mal vu, le parasite n’échappera pas au soupçon d’avoir été suborné pour intenter l’action.33

La figure du parasite offre donc particulièrement prise au blâme et, comme nous allons le voir par la suite, inspire les tirades contre la décadence des mœurs ou les comparaisons entre vie dissipée et vie frugale.

2 Rusticus parasitus (Petite déclamation 298) Le discours sur lequel j’aimerais me concentrer maintenant présente un autre cas d’abdicatio. En voici le thème : Rusticus parasitum filium abdicat. CD (‘Un campagnard chasse son fils parasite. Celui-ci s’y oppose.’). D’ordinaire, le motif conduisant à l’abdicatio, par exemple un acte de désobéissance ou un soupçon de parricide, est mentionné dans le thème.34 Ici, la raison pour laquelle le père prétend chasser son fils tient dans le seul terme parasitus qui le disqualifie. En cela, ce parasite se distingue de ses confrères du corpus, bien plus inquiétants. Le mot dénonce à la fois ses agissements passés et à venir. De fait, dans son discours, le père justifie sa décision de chasser son parasite de fils par la honte qu’il éprouve et par la crainte de le voir dilapider son bien lorsqu’il en héritera. Ces craintes ne sont pas sans fondement si l’on se rappelle l’aveu du parasite Gnathon dans l’Eunuque de Térence, qui reconnaît avoir dévoré tout son bien, ou la lettre d’Horace, qui nous raconte comment un certain Moenius s’était établi parasite après avoir dilapidé sa fortune.35 Le père rusticus s’exclame donc en des termes qui évoquent par contraste l’attitude du pieux Énée chez Virgile :

|| 33 Trad. J. Cousin, CUF. 34 E.g. Sen. contr. 1,4 ; 2,1 ; 7,3 ; 10,2,8 s. ; Ps. Quint. decl. min. 257 ; 271 ; 291 ; Ps. Quint. decl. mai. 9. Dans l’un de ses sermones, le maître des Petites déclamations remarque que le motif peut porter sur un événement passé ou à venir : cf. Ps. Quint. decl min. 271,2 Duo enim scitis esse abdicationum : aut obicitur quare fecerit filius aliquid aut obicitur quare non faciat : voir Oppliger dans ce volume. 35 Ter. Eun. 234 s. ; Hor. epist. 1,15,27.

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Non vendes tu agellum meum, non paternos avitosque cineres et ossa alicui pretio cenae unius addices. Ps. Quint. decl. min. 298,16 Non, tu ne vendras pas mon petit champ, tu ne livreras pas aux enchères les cendres et les os de tes pères et de tes aïeux en échange d’un seul dîner.36

On peut imaginer que, pour sa défense, le fils devait contester la légitimité de cette répudiation en proposant comme couleur, par exemple, que son père, un paysan avare, le contraignait à chercher de quoi survivre ailleurs, et qu’il s’était fait parasite après avoir été chassé de la maison, quand il s’était retrouvé sans le sou. Dans tous les cas, il se devait de prendre le contre-pied des clichés que le mot parasitus évoque et que le père ne manque pas de convoquer dans son plaidoyer. Un autre élément du thème fait de notre déclamation un cas d’espèce, à savoir le mot rusticus. Le personnage du paysan évoque également l’univers de la comédie, où il amuse la galerie avec ses balourdises et offre au public de la ville le spectacle de son urbanité en miroir. D’Aristophane à Ménandre en passant par Théophraste et jusqu’aux lettres d’Alcyphron, le paysan (γεωργός) symbolise la simplicité d’une vie entièrement consacrée au labeur, privée de tout loisir et de toute activité culturelle et intellectuelle.37 Quintilien mentionne le rusticus dans la partie consacrée à l’action oratoire au milieu d’une liste de personnages de comédie exigeant un masque et une mimique adaptés à leur caractère : esclaves, proxénètes, parasites, soldats, courtisanes, servantes, vieillards sévères ou indulgents, jeunes gens honnêtes ou libertins, matrones, jeunes filles, et pères de famille.38 Il signale encore les rustici parmi les portraits (grec : ἠθοποιίαι) auxquels les élèves s’exercent dans les écoles, en compagnie des superstitieux, des avares et des poltrons : autant de figures qu’il convient de faire parler en adéquation avec leur caractère et leur condition.39 Le mot rusticus peut revêtir une nuance tant positive que négative. Dans une Héroïde d’Ovide, l’adjectif réfère à la pureté originelle de l’Âge d’or.40 Ailleurs, rusticus et le substantif rusticitas évoquent la simplicité et l’authenticité de la

|| 36 Cf. Verg. Aen. 5,55 Nunc ultro ad cineres ipsius et ossa parentis … adsumus (Enée à propos d’Anchise). Pour la combinaison poétique et emphatique cineres et ossa, qui se retrouve dans la dixième Grande déclamation (10,6, p. 205, 12 H. ; 10,14, p. 212, 21 ; 10,15, p. 214, 12), voir la n. 178 de Schneider 2013, 168 ad loc. 37 Voir Mauduit 2015. 38 Quint. 11,3,74 ; cf. aussi 10,1,71. 39 Quint. 6,2,17 ; cf. aussi 3,8,51 et 5,10,26 s. ; Theon, Prog. 8, pp. 70 s. P. ; Ps. Hermog. Prog. 9,6, p. 201 P. 40 Ov. epist. 4,132 Ista vetus pietas, aevo moritura futuro, / rustica Saturno regna tenente fuit.

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campagne par opposition au luxe et à la décadence de la ville – un grand classique parmi les lieux communs.41 On citera comme exemple le discours dans lequel Cicéron défend Sextus Roscius d’Amérie contre une accusation de parricide lancée par trois personnages douteux, dont un affranchi favori de Sylla. Dans son plaidoyer, que Quintilien cite à plusieurs reprises comme modèle,42 Cicéron fait l’éloge de la campagne pour dresser de son client le portrait d’un homme honnête et travailleur, un homme qui eût été incapable de tuer son père : Neque ego haec eo profero quo conferenda sint cum hisce de quibus nunc quaerimus, sed ut illud intellegatur, cum apud maiores nostros summi viri clarissimique homines, qui omni tempore ad gubernacula rei publicae sedere debebant, tamen in agris quoque colendis aliquantum operae temporisque consumpserint, ignosci oportere ei homini qui se fateatur esse rusticum, cum ruri adsiduus semper vixerit, cum praesertim nihil esset quod aut patri gratius aut sibi iucundius aut re vera honestius facere posset. Cic. S. Rosc. 51 Et je ne mets pas en avant ces exemples dans le but de les comparer avec le sujet qui nous occupe aujourd’hui, mais pour qu’on comprenne que puisqu’au temps de nos ancêtres, les citoyens d’exception et les hommes les plus illustres qui avaient, en tout temps, vocation à siéger au banc des pilotes de l’État, consacraient une part non négligeable de leur activité et de leur temps à l’exploitation de leurs terres, alors il faut de l’indulgence pour un homme qui se dit lui-même paysan, parce qu’il a toujours vécu en résidence à la campagne et parce que, surtout, il n’y avait pas d’activité qui pût être plus agréable à son père, plus délicieuse pour lui et, au total, plus honorable.43

Honnête et travailleur, ce Roscius, mais décidément plutôt rustaud et pas très futé : dans ce discours (comme dans d’autres), Cicéron manie les références à la comédie et innocente son client en faisant sourire à ses dépens : Putat homo imperitus morum, agricola et rusticus, ista omnia, quae vos per Sullam gesta esse dicitis, more, lege, iure gentium facta ; culpa liberatus et crimine nefario solutus, cupit a vobis discedere. Cic. S. Rosc. 143

|| 41 Quint. 2,4,24 mentionne parmi les thèses la question rusticane vita an urbana potior ? 42 Quint. 4,2,3 et 19 ; 7,2,2 et 23 ; 9,2,53 ; 12,6,4. 43 Trad. F. Hinnard, CUF ; cf. aussi ch. 39, 48 et 75 In urbe luxuries creatur, ex luxurie exsistat avaritia necesse est, ex avaritia erumpat audacia, inde omnia scelera ac maleficia gignuntur ; vita autem haec rustica, quam tu agrestem vocas, parsimoniae, diligentiae, iustitiae magistra est ; voir Dyck 2003, 237 s. Cette connotation positive, liée à un idéal de simplicité, se retrouve par exemple chez Cic. Cato 55–57 ; Sen. epist. 86,5 et 11, évoquant la modestie du train de vie de Scipion ; cf. encore ibid. 60,2–4 ; 90,43 ; 94,70, etc. ; Hor. sat. 2,6,79–117 (fable du rat des villes et du rat des champs) ; Sen. contr. 2,1,11 s. Pour d’autres références, voir Winterbottom 1984, 419.

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Il pense, en homme qui ne connaît pas les mœurs d’aujourd’hui, comme un agriculteur, un homme de la campagne, il pense que tout ce que vous dites avoir été fait par Sylla, a été fait conformément aux traditions, à la loi, au droit des gens ; il désire quitter votre tribunal innocenté de toute faute, lavé d’une accusation monstrueuse.44

Dans un sens voisin, rusticus qualifie une personne vertueuse, voire pudibonde, qui ne se livre pas aux plaisirs et à la débauche. Selon le contexte et le locuteur, le mot peut être employé comme une injure. C’est le cas dans la controverse déjà mentionnée plus haut, où le père débauché interpelle son fils repenti : ‘Rusticum’, inquit, ‘iuvenem !’ Praematura, inquit, severitas non est frugalitas, sed tristitia : quid tu senex facies ? Sen. contr. 2,6,10 ‘Espèce de nigaud !’, lui disait-il. Faire preuve d’austérité avant l’âge, ce n’est pas de la sobriété, c’est d’un ennui ! Que feras-tu quand tu seras vieux ?45

Mais l’emploi du mot qui nous intéresse au premier chef pour notre déclamation est celui qui sert à décrire un accent provincial, une manière de parler peu raffinée ou un manque d’éloquence.46 Quintilien l’associe plusieurs fois à inlitteratus, indoctus, ineruditus, tout comme il oppose le substantif rustictas à urbanitas.47 Parmi les cas de controverses qu’il mentionne dans son ouvrage, il s’arrête longuement sur celui du fils rusticus, dépourvu de toute éloquence, opposé à son frère disertus,48 ce qui nous ramène à notre déclamateur, lui-même rusticus, comme il le reconnaît d’emblée en manière de captatio benevolentiae :

|| 44 Aux chapitres 46 s., Cicéron fait explicitement référence à une comédie de Caecilius où il est question d’un fils campagnard (filius rusticus) : voir Landgraf 1978, 105 s. ad loc.; Vasaly 1985, 4–13 ; Benferhat 2007, 64 s. 45 Cf. aussi Sen. contr. 7,8,10 ; Ov. am. 3,4,37 Rusticus est nimium, quem laedit adultera coniunx. Pour l’emploi de rusticus dans un sens injurieux, voir Opelt 1965, 280. 46 Cic. de orat. 3,42 ; 44 ; orat. 150 ; Brut. 180 ; Sen. epist. 15,8. Dans le conte d’Amour et Psyché, Vénus qualifie de rustica la Sobriété personnifiée : Rusticae squalentisque feminae (sc. Sobrietas) conloquium horresco (Apul. met. 5,30). 47 Cf. Quint. 2,21,16 ; 6,3,13 et 17 ; 8,6,75 ; 10,3,16 ; rusticus est plusieurs fois employé au sens de ‘rustre’, ‘grossier’, ‘inculte’ : e.g. 1 pr. 16 ; 5,11,19 ; 12,10,53. En Quint. 10,1,55, l’adjectif sert à qualifier la poésie de Théocrite en référence, bien sûr, au genre bucolique : Admirabilis in suo genere Theocritus ; sed Musa illa rustica et pastoralis non forum modo, verum ipsam etiam urbem reformidat. 48 Quint. 7,1,42–62.

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Non ignoro, iudices, quamquam non a forensi contentione solum sed ab universa civitatis conversatione longe remotus, hoc praecipue fieri miserabiles eos qui paternae animadversionis notam deprecantur, quod periclitari de praeterita dignitate videantur : de qua certe sollicitum esse filium meum incredibile est. Quantulum est enim quod abdicatus erit qui iam parasitus est ? Ps. Quint. decl. min. 298,1 Je n’ignore pas, Messieurs les Juges, bien que je sois à mille lieues non seulement de l’éloquence du forum, mais aussi de tout commerce avec la ville, que ceux qui désirent échapper par leurs suppliques à l’infamie que leur vaut l’hostilité de leur père attirent avant tout la pitié parce que leur dignité d’autrefois semble en péril : que ce soit là une préoccupation pour mon fils n’est assurément pas crédible. Qu’est-ce que ça peut lui faire s’il est renié ? Il est déjà un parasite.49

Plus loin encore, il mentionne la foule de spectateurs venus s’amuser de cette querelle entre deux rustici : Nec me praeterit unde haec frequentia : concurrerunt ad spectandos duos rusticos, et id forsitan hoc ipso indicante. Merito sic iste ridetur ; cuius nomen equidem nec intellego nec interpretari possum †quod vocatur unum† nescio quid esse turpius quam luxuriam puto. Ps. Quint. decl. min. 298,3 Je vois bien pourquoi il y a autant de monde : ils sont accourus pour voir deux paysans, et c’est peut-être même lui qui a fait passer le message. On a bien raison de se moquer de lui comme ça. En ce qui me concerne, je ne comprends pas ce nom, je ne suis pas capable de l’expliquer ; je pense qu’il désigne quelque chose de pire que la débauche.50

Le texte est incertain, mais on peut néanmoins identifier deux éléments topiques en lien avec la figure du parasite de comédie. Le premier est sa fonction de bouffon (cf. ridetur) : le parasite est ridiculus, un terme que le père emploie plus loin dans son argumentation (§ 12, cité infra).51 Le deuxième concerne le nom du parasite : comme le note M. Winterbottom, notre rusticus semble ne pas comprendre

|| 49 La condition d’abdicatus équivaut à une marque d’infamie : cf. Ps. Quint. decl. min. 260,27 ; 271,18 ; Pasetti dans ce volume. Le parasite étant en soi déjà infâme, il n’a plus à se soucier de son honneur. 50 Shackleton Bailey 2006 imprime quant à lui Merito : sic iste ridetur. Cuius nomen equidem nec intellego nec interpretari possum [quod vocatur], verum nescio quid esse turpius quam luxuriam puto (verum est une conjecture de Latinius, mentionnée favorablement par Winterbottom 1984, 419 ad loc.). 51 Cf. e.g. Plaut. Stich. 171–177 Nunc si ridiculum hominem quaerat quispiam, / venalis ego sum cum ornamentis omnibus. ... Gelasimo nomen mi indidit parvo pater, / quia inde iam a pausillo puero ridiculus fui, / propter pauperiem hoc adeo nomen repperi, / eo quia paupertas fecit ridiculus forem ; 217–221 Ridiculus aeque nullus est, quando esurit. ... - logos ridiculos vendo ; Capt. 470 ;

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le mot grec παράσιτος.52 Cet aveu le caractérise moins comme un illettré que comme un être candide, ignorant tout des turpitudes de la ville. Le passage fait en tout cas certainement référence à un trait caractéristique du personnage, celui de ne pas posséder d’identité propre. Dans la comédie en effet, les parasites ne se distinguent les uns des autres que par le surnom qui leur a été donné – un nom parlant qu’ils aiment à expliquer dans un monologue, comme ici, dans les Captifs de Plaute : Iuventus nomen indidit Scorto mihi, eo quia invocatus soleo esse in convivio. Scio absurde dictum hoc derisores dicere, at ego aio recte … Plaut. Capt. 69–72 Les jeunes gens m’ont surnommé La Belle, cela, parce que je suis toujours à leur table un convive invocatus. Je sais bien que les moqueurs trouvent ce surnom mal donné, mais je trouve, moi, qu’il me va très bien.53

Ce motif se retrouve dans la narration, lorsque le père raconte s’être rendu en ville pour chercher son fils : Ad domum divitis veni, non enim nomen inter non agnoscentes requisivi : parasitus inventus est. Id placeret rustico patri ? Erubui. Ps. Quint. decl. min. 298,6 Je me suis rendu chez le riche, j’ai demandé après mon fils en donnant son nom ; ils ne le connaissaient pas. Mais on a fini par trouver le parasite : cela devrait faire plaisir à un père qui vient de la campagne ? J’ai rougi.

Si personne ne reconnaît le fils quand son père demande après lui, c’est sans doute qu’en bon parasite, il a été affublé d’un surnom. Ces références à la tradition comique mettent la puce à l’oreille : notre déclamateur a beau prétendre être

|| 477 ; Ter. Eun. 243 s. At ego neque ridiculus esse neque plagas pati possum ; voir Damon 1997, 68– 71 et passim. 52 Selon Ath. 6,234c–235e, παράσιτος désignait à l’origine un fonctionnaire religieux ; voir Damon 1997, 5–13 ; Nesselrath 2006, s.v. ‘Parasit’. 53 Trad. A. Ernout, CUF (qui souligne le jeu de mot : invocatus, à la fois ‘non invité’ et ‘invoqué’) ; cf. aussi Men. 77 s. Iuventus nomen fecit Peniculo mihi, / ideo quia mensam, quando edo, detergo ; Stich. 174–178 (cité supra n. 51) ; Antiphanes fr. 193,10 s. ; dans son dialogue du Parasite (48,2), Lucien joue avec ce qui constitue clairement un topos. Pour un autre jeu de mots sur le nom du parasite, cf. encore Plaut. Persa 102. Sur la question des noms dans les comédies de Plaute, voir Petrone 2009, 13–41.

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un rustre campagnard qui n’a pas l’habitude de l’arène judiciaire et ne comprend pas le grec, son discours est peut-être plus lettré qu’il n’y paraît. Reprenons la phrase d’ouverture du discours : on notera d’abord l’élégance de la subordonnée concessive, marquée par un balancement qui souligne la paronomase et les répétitions sonores (quamquam non a forensi c o n t e n t i o n e solum, sed ab u n i v e r s a civitatis c o n v e r s a t i o n e longe remotus … paternae a n i m a d v e r s i o n i s ) ; on remarquera ensuite que la combinaison paterna animadversio n’est attestée en latin classique qu’à deux autres endroits : dans la Petite déclamation 260,27 et dans un passage du Pro Roscio Amerino énumérant les conditions dans lesquelles un parricide pourrait éventuellement se produire et qui mentionne l’influence d’amis peu recommandables.54 Au vu de la notoriété de ce discours (voir n. 42) et de sa proximité thématique avec la déclamation qui nous occupe (une relation conflictuelle entre un père et son fils, l’opposition ville-campagne), l’écho n’est sans doute pas dû au hasard. Du point de vue de sa structure, le discours de notre rusticus est conforme aux règles de la rhétorique. Avec son prologue, sa narration, son argumentation et sa péroraison, il se présente comme une déclamation miniature en bonne et due forme.55 Le discours se fonde sur l’efficacité des lieux communs, qui s’enchaînent les uns aux autres tout en s’adaptant au cas en question et se doublent de références littéraires. Ainsi l’opposition attendue entre ville et campagne et le topos de la décadence urbaine trouvent leur place une première fois au sein de la narratio, où ils sont retravaillés, ajustés à la mesure de ce conflit opposant un père rusticus et son fils parasitus : Mihi rus paternum erga labores gratissimum, n o n f r u g a l i t a t i t a n t u m suffecturum s e d e t d e l e c t a t i o n i, si coleretur a dominis duobus. Hoc cum †dio evenissem† ne haec quidem d u c e n d a e u x o r i s e t e d u c a n d o r u m l i b e r o r u m onera recusavi, ut r e l i c t u m a parentibus meis r e l i n q u e r e m filio meo. De quo ipso non questus sum ; nam videbatur laboriosus. Misi in civitatem ; delicatior venit, et redire properavit. Et p r i m o quidem deformavit tantum d i l i g e n t i o r c u l t u s ; dehinc procedente tempore saepe fragrantem m e r o vidi, redolentem u n g u e n t a, et iam plura p e r d i t a e v i t a e signa. Ps. Quint. decl. min. 298,4 s.

|| 54 Cic. S. Rosc. 68 Accedat huc oportet odium parentis, animadversionis paternae metus, amici improbi, servi conscii, tempus idoneum, locus opportune captus ad eam rem ; on retrouve la combinaison chez Firm. math. 7,10,3. 55 ‘Miniature’ tout au moins par rapport aux dix-neuf Grandes déclamations. Le recueil des Minores contient plusieurs exemples de déclamations entières, mais condensées, à côté d’autres morceaux qui sont plutôt des sortes de listes de points à traiter : voir Oppliger dans ce volume.

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J’ai une propriété à la campagne qui me vient de mon père et qui est d’un très bon rapport ; elle offrirait bien assez de quoi manger et de quoi se réjouir si nous étions deux propriétaires à la cultiver. Si je n’ai pas renoncé à la charge d’épouser une femme et d’élever des enfants, c’est pour pouvoir remettre à mon fils ce que mes parents m’avaient remis. Je n’ai pas eu à me plaindre de lui : il paraissait être travailleur. Je l’ai envoyé en ville. Il est revenu plus délicat, et il s’est dépêché d’y retourner. Au début, il avait changé seulement dans son apparence, plus recherchée. Puis avec le temps, j’ai remarqué qu’il sentait souvent le vin, qu’il exhalait le parfum, à quoi s’ajoutèrent bientôt d’autres signes d’une vie perdue.

Dans la première partie de l’extrait, qui dessine l’ethos du brave paysan attaché à la terre de ses pères, on peut noter une certaine recherche stylistique, qui se traduit par des balancements euphoniques (non frugalitati tantum … sed et delectationi), des polyptotes (ducendae / educandorum, relictum / relinquerem) et un écho probable à Sénèque, dont on sait par Quintilien qu’il était très apprécié des élèves de rhétorique :56 Et liberi et coniuges spem fefellerunt, tamen et educamus et ducimus. Sen. benef. 1,1,10 Les enfants et les épouses sont des sujets de déception, et pourtant, nous en élevons et nous nous marions.57

La métamorphose du fils, dès le moment où son père l’envoie en ville (pour sa formation ?) est évoquée au moyen de phrases courtes, dépourvues de toute fioriture, mais qui présentent elles aussi un possible écho à Sénèque , grand pourfendeur de vices, comme le reconnaît Quintilien :58 Vbi luxuriam late felicitas fudit, c u l t u s p r i m u m corporum esse d i l i g e n t i o r incipit. Sen. epist. 114,9 Lorsque la prospérité a étalé son luxe, c’est d’abord l’apparence extérieure qui se fait plus recherchée.59

|| 56 Quint. 10,1,125–131 ; étudiant les liens entre philosophie et rhétorique dans les Grandes déclamations, Pasetti 2008 a montré les points de convergence qu’elles présentent avec Sénèque le Jeune. 57 La juxtaposition se retrouve en Ps. Quint. decl. min. 301,6 renforcée par un chiasme : Hoc paraveram mihi non pecunia, non emptione, sed uxorem ducendo, educando hanc puellam. 58 Quint. 10,1,131 (Seneca) egregius tamen vitiorum insectator fuit ; dans ce passage, Quintilien émet des réserves sur le style de Sénèque. 59 Cf. aussi Sen. epist. 122,3 Licet in vino unguentoque tenebras suas exigant, licet epulis et quidem in multa fericula discoctis totum perversae vigiliae tempus educant, non convivantur, sed iusta

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Après la narratio, l’argumentatio prend la forme d’une suasoire, le père s’adressant directement à son fils pour lui enjoindre de retourner à la campagne : Nondum te, iuvenis, ad comparationem voco utriusque vitae ; in praesentia hoc uno contentus sum : suspice laboris tui partem. Satis sine te laboravimus. Iam deficit aetas, iam quietem poscit senectus : et ego delicatus sum. Abdicent me licet boni mores, tamen clamo : ‘ego te mihi genui.’ Non ergo cogitabis quid mihi debeas ? Illae terrae gratiam referunt, nec quicquam inveniri potest in rerum natura in quo labor pereat. Ps. Quint. decl. min. 298,7 Je ne t’invite pas encore, mon garçon, à comparer nos deux modes de vie. Pour le moment, je me contente d’une seule chose : assume ta part de travail. J’ai assez travaillé sans toi. Mes forces m’abandonnent, mon grand âge exige que je me repose : moi aussi je suis délicat. Et tant pis pour ma réputation, on pourra me critiquer, je le dis quand même haut et fort : ‘C’est pour moi que je t’ai mis au monde !’ Alors comme ça, tu n’auras pas une pensée pour ce que tu me dois ? Ces terres, elles, se montrent reconnaissantes. Dans la nature, il n’y a aucun effort qui puisse être gaspillé.

Le mot comparatio évoque un autre exercice de rhétorique, que le père réserve pour la péroraison (§ 13 s. : voir infra),60 préférant brandir ici l’argument topique du devoir de reconnaissance,61 en l’adaptant à sa situation de paysan fatigué par les travaux des champs. Dans la suite de son discours, le père dénonce le mode de vie du parasite pour justifier sa décision de le chasser et insiste tout particulièrement sur un point : en plus d’être devenu un bouffon asservi à son ventre qui se laisse malmener pour quémander un peu de nourriture, il a abdiqué sa condition d’homme libre, il est devenu un esclave : Si bona paterna c o n s u m p s i s s e s , iure abdicareris : libertatem et ingenuum pudorem c o n s u m p s i s t i . Qui melior ille cui s e r v i s ? Pudet dicere quo pretio hereditatem emancipaveris : gulae servis, et sicut muta animalia obiectis cibis in istam cecidisti s e r v i t u t e m . I u v a t a u t e m c i b u s p o s t o p u s . Multa quidem video diversa ge-

|| sibi faciunt. La combinaison topique vinum – unguentum se trouve déjà chez Plaut. Bacch. 1181 ; Pseud. 947 ; comparer Petron. 105 ; Apul. met. 6,11 e convivio nuptiali vino madens et fraglans balsama Venus remeat. 60 L’exercice de la comparaison ou du parallèle (σύγκρισις en grec), est lié à l’éloge et au blâme ; cf. e.g. Quint. 2,4,21 ; Theon, Prog. 10, pp. 78–82 P. (voir Patillon 1997, LXXX–LXIII) ; Ps. Hermog. Prog. 8, pp. 199 s. P. ; Ps. Quint. decl. mai. 5,2 s., pp. 86 s. H. (comparaison entre un fils vertueux (frugi) et son frère débauché (luxuriosus) ; 18,3, pp. 355 s. H. et 19,4, pp. 375 s. 61 Pour ce lieu commun, voir e.g. Sen. contr. 2,5,12 ; 7,6,13 ; Ps. Quint. decl. min. 278,8 ex meis ille beneficiis natus est (un père ayant recueilli et élevé un enfant exposé, en réponse au père naturel affirmant pour sa part : genui) ; Ps. Quint. decl. mai. 5,8, pp. 92 s. H. et 10, pp. 94 s. ; sur cette question, voir Marchese 2005, 29–62 ; Lentano 2009, 15–43.

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nera vitae, nec probabilia omnia ; ceterum tamen h o c n o v u m e s t e t i n a u d i t u m , contumelias in quaestu habere et iniuria pasci. I u v a t illa te residua potio et ex locupletis cena nescio quid intactum. Caedentis manus oscularis et ferrum portas, fame periturus si ille nihil malefecerit. Alios enim fortasse parasitos ars aliqua commendet : tu quid potes, miser, nisi vapulare ? Habent hoc quoque deliciae divitum malum, quaerere o m n i a c o n t r a n a t u r a m . Gratus est ille debilitate ; ille ipsa infelicitate distorti corporis placet ; alter emitur quia coloris alieni est. Haec (ut res est) accessit nova elegantia, inter p e r v e r s a s d e l i c i a s h a b e r e r u s t i c u m . R i d i c u l u m hoc, quod durus, quod inhabilis, quod filius meus. Ps. Quint. decl. min. 298,10–12 Si tu avais dilapidé la fortune de ton père, c’est à bon droit que tu serais chassé. Mais c’est ta liberté et l’honneur d’un homme libre que tu as dilapidés. Quel est cet être supérieur que tu sers ? J’ai honte de mentionner le prix pour lequel tu as renoncé à ton héritage : tu sers ton ventre et tu es tombé dans cette servitude comme les animaux privés de langage auxquels on jette de la nourriture. Mais c’est après avoir travaillé qu’il est bon de manger. Je vois beaucoup de styles de vie différents et tous ne sont pas recommandables. Voici pourtant qui est nouveau et original : tirer profit des insultes et se repaître d’injures. Tu aimes finir les verres et manger n’importe quoi que le riche n’a pas touché. Tu baises les mains qui te frappent et tu leur apportes le fer. Tu mourras de faim s’il ne te maltraite pas. Peut-être les autres parasites ont-ils quelque tour qui peut les mettre en valeur. Toi, que sais-tu faire à part être roué de coups ? Les plaisirs des riches consistent aussi en ce vice : rechercher tout ce qui est contre nature. Celui-ci, il amuse parce qu’il est infirme, celui-là plaît parce qu’il a le malheur d’avoir un corps difforme ; un autre, on l’achète parce qu’il a une autre couleur. Il semble que le nouveau chic, c’est d’avoir un paysan au milieu de ses plaisirs pervers. Ce qui est drôle, c’est qu’il est grossier, maladroit et qu’il est mon fils.62

On relèvera encore une fois la recherche stylistique du discours de notre rusticus, qui enchaîne polyptotes, anaphores, effets de rythme et de rimes (consumpsisses / consumpsisti, servis / servis / servitutem, cibus post opus). À noter également l’humour de la formule hoc novum est et inauditum, à la saveur cicéronienne,63 pour qualifier un comportement de parasite absolument conforme à la tradition littéraire : si le mode de vie de son fils paraît des plus singuliers à son père, il ne l’est en rien par rapport à la comédie ou à la satire. L’expression habere rusticum,

|| 62 Pour l’idée du parasite servile, cf. Plaut. Stich. 172 Venalis ego sum ; Damon 1997, 32 s. 63 Cf. Cic. leg. agr. 2,26 iam hoc inauditum et plane novum ; de orat. 1,137 ; orat. 30 ; Caecin. 36 novum est, non dico inusitatum, verum omnino inauditum ; Lig. 1 ; Rab. Post. 10 hoc vero novum est ante hoc tempus omnino inauditum. La tournure se retrouve dans la Petite déclamation 327,3 pour qualifier le comportement inhabituel d’une marâtre : Novum et inauditum antea crimen : noverca nimium dicitur amare privignos. Ce topos de l’inouï se retrouve encore chez Ps. Quint. decl. mai. 7,6, pp. 143, 16 s. H. novum, iudices, inauditumque … exemplum ; 9,9, pp. 182– 184 H. ; 19,6, pp. 377 s. : voir Breij 2015, 464 s., n. 220 ad loc.

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ensuite, est une variante de la formule habere parasitum, employée pour dénoncer la perversion des mœurs (voir supra) : une reformulation qui pourrait indiquer que le surnom de notre parasite est Rusticus – comme le veut d’ailleurs le titre de cette déclamation.64 Quant à l’adjectif ridiculum qui clôt cette tirade, il renvoie au topos du bouffon de comédie (voir supra n. 51). Le père reproche donc à son fils de ne pas travailler à la campagne et de se soumettre volontairement aux injures et aux coups – allusion aux brimades et autres bastonnades qui défigurent les parasites de la comédie.65 Le ton de ce discours est proche de la cinquième satire de Juvénal, mais aussi des leçons de morale de Sénèque. L’expression iuvat … cibus post opus, les mots omnia contra naturam et la combinaison perversas delicias en particulier évoquent une lettre à Lucilius, qui développe le lieu commun de la corruption des mœurs autour du thème du non-respect de l’ordre naturel ; le cadre y est aussi celui du repas décadent : O m n i a v i t i a c o n t r a n a t u r a m pugnant, omnia debitum ordinem deserunt : hoc est luxuriae propositum, g a u d e r e p e r v e r s i s nec tantum discedere a recto, sed quam longissime abire, deinde etiam e contrario stare. Non videntur tibi c o n t r a n a t u r a m vivere ieiuni bibunt, qui vinum recipiunt inanibus venis et ad cibum ebrii transeunt ? ... Post prandium aut cenam bibere vulgare est. H o c p a t r e s f a m i l i a e r u s t i c i f a c i u n t et verae voluptatis ignari ... Illa ebrietas i u v a t, quae in vacuum venit. Sen. epist. 122,5 s. C’est que tout vice est révolte contre la nature, séparation d’avec l’ordre légitime. Principe dans le monde du plaisir : mettre sa joie en une existence bouleversée, ne pas dévier seulement de la droite raison, mais s’en éloigner tant qu’on peut, dès lors s’aller camper carrément dans la déraison même. Ne penses-tu pas qu’ils vivent au rebours de la nature, ces gens qui boivent à jeun, qui logent le vin dans leur estomac vide et ne passent aux aliments qu’une fois soûls ? ... Ne boire qu’après le déjeuner ou le souper, procédé du vulgaire, façons de propriétaires ruraux qui ne se connaissent pas en plaisir. ... L’ivresse bienfaisante est celle qui s’installe en place libre.66

|| 64 Surtout, comme me le fait remarquer Lucia Pasetti, rusticus parasitus fonctionne comme un oxymore, le parasite étant un personnage citadin par excellence ; il s’agit donc d’un type paradoxal comme la sacerdos prostituta (Sen. contr. 1,2). 65 Cf. e.g. Plaut. Curc. 392–395; Men. 156 s. ; Ter. Eun. 244 s. 66 Trad. H. Noblot, CUF. L’expression perversae vigiliae se trouve au § 3 de cette même lettre (cité supra n. 59). Cf. encore id. 78,22 Magis iuvat bibere sitientem … gratior est esurienti cibus ; Hor. epist. 1,14,35 cena brevis iuvat et prope rivum somnus in herba. Pour la combinaison contra naturam, cf. aussi Sen. contr. 10,4,17 Principes … viri contra naturam divitias suas exercent … ; Quint. 2,5,11 (cité par Winterbottom 1984, 422 ad loc.).

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Ce motif est filé dans la péroraison, où le père s’efforce encore de persuader son fils de rentrer à la maison, non plus, cette fois, en lui rappelant son devoir d’obéissance et de gratitude, mais en faisant appel à son ventre. La comparaison entre ville et campagne, déjà amorcée dans la narratio et annoncée dans l’argumentation, est développée ici pour montrer que si le parasite revient à la campagne, il y trouvera luxe et volupté … à l’état naturel : Intellego cum quo mihi filio res est : non commendabo illi laborem honestum et bonam cotidie conscientiam et operam etiam civitatibus servientem. Agam causam per vices anni, [non] numerabo fructus : luxuriosum filium a d d e l i c i a s v o c o p a r a t a s . Ingentis pecuniae concupiscis feras ? Demens, ipse venare. Avibus onerari fercula gaudes ? Fructus nostros, nisi succurris, infestant. Quidquid illic lautum est, nos misimus, et f r u c t u s c u r v a t i s r a m i s ad manum p a r a t o s habemus. C o m p a r a, si videtur, vestris nivibus meos fontes, c o m p a r a inclusis intra parietes aquis perennes fluminum lapsus. Quae tanta vobis nemora ? Quid est istic admirabile nisi ruris imitatio ? A d h a s t e d e l i c i a s p a t e r v o c o. Ps. Quint. decl. min. 298,13 s. Je vois à quelle sorte de fils j’ai affaire : je ne vais pas lui recommander un travail honnête, une bonne conscience au quotidien et une activité au service de nos villes. Je plaiderai ma cause avec le changement des saisons, j’énumérerai les fruits qu’on récolte. J’invite mon fils perverti à des plaisirs qui sont à portée de sa main. Tu as envie de manger des animaux qui coûtent une fortune ? Espèce de fou, chasse-les toi-même. Tu aimes des plats chargés d’oiseaux ? Ils ravagent nos arbres fruitiers si tu ne viens pas en aide. Tout ce qui est magnifique là-bas, c’est nous qui l’y avons envoyé ; les branches ploient sous les fruits, ils sont à portée de main. Compare, si tu veux bien, mes sources avec vos neiges, compare les fleuves qui s’écoulent éternellement à l’eau enfermée entre vos murs. Ces grands bois que vous avez, qu’est ce que c’est ? Qu’y a-t-il là d’admirable si ce n’est l’imitation de la nature ? C’est à ces plaisirs que moi, ton père, je t’invite.

On reconnaît ici le motif du luxe excessif et celui du repas décadent cher à la satire, mélangés, entremêlés, tissés avec celui de la nature comme lieu d’abondance où survit un Âge d’or. Le style est toujours recherché (noter le trikôlon croissant : laborem honestum – bonam … conscientiam – operam … servientem), mais le ton a changé. Le discours n’est plus moralisateur,67 il se fait pressant, lyrique (noter la répétition ad delicias voco paratas … ad has delicias pater voco, qui s’oppose aux perversas delicias du § 12) et poétique. On pense bien sûr à la description des temps primitifs, à Lucrèce notamment, cité par M. Winterbottom dans son commentaire.68 Le plaidoyer reste néanmoins celui d’un paysan pratique, qui sait || 67 Cf. Sen. epist. 68,10 Otium tibi commendo, in quo maiora agas et pulchriora quam quae reliquisti. 68 Winterbottom 1984, 422 ad loc. ; cf. Lucr. 5,939–952. ; comparer aussi pour le ton exalté Sen. Phaedr. 483–539.

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bien que la nature a besoin de l’homme : les fruits sont à portée de main (delicias … paratas, fructus … paratos), mais il faut les protéger des oiseaux ravageurs. Tout n’est pas simplement offert, il faut chasser et travailler pour jouir de ces délices. De ce point de vue, on peut rapprocher notre passage d’un autre poème didactique, les Remèdes à l’Amour, où Ovide recommande aux amoureux de se livrer à une activité pour affranchir leur cœur amoureux.69 Parmi diverses suggestions, le poète recommande de s’adonner à l’agriculture, ainsi qu’à la chasse et à la pêche, dans des vers qui offrent la description idyllique d’une nature foisonnante et des travaux à accomplir année après année, saison après saison.70 Les mots du père rusticus évoquant les arbres ployant sous les fruits (curvatis ramis) font écho à ceux du poète didactique : Aspice curvatos pomorum pondere ramos, Vt sua, quod peperit, vix ferat arbor onus. Ov. rem. 175 s. Vois ces branches courbées sous le poids des fruits : l’arbre a peine à porter le fardeau qu’il a produit.71

En somme, notre déclamateur n’apparaît pas moins cultivé que le pauvre apiculteur de la treizième Grande déclamation, dont le discours est truffé de références aux Géorgiques de Virgile.72 Sous le masque du rusticus, c’est la voix du maître du recueil qui se fait entendre pour une démonstration magistrale : comment composer un discours, comment enchaîner les lieux communs en les adaptant au sujet de la controverse et à ses acteurs, comment glisser des références à la littérature, des motifs topiques évoquant la comédie et la satire, ou des allusions intertextuelles plus précises à des œuvres littéraires en prose ou en vers entrant dans la formation de l’apprenti orateur. Telle est la leçon que nous offre la mise en scène de ce rusticus et de son fils parasitus.

|| 69 Ov. rem. 53 s. Vtile propositum est … nec servum vitii pectus habere sui. 70 Cf. en part. Ov. rem. 169–212 ; Verg. georg. 2,401 – 407. 71 Trad. H. Bornecque, CUF ; la combinaison est employée dans une métaphore en ars 2,179 Flectitur obsequio curvatus ab arbore ramus ; Verg. georg. 1,187 Contemplator item, cum se nux plurima silvis / induet in florem et ramos curvabit olentis. 72 Voir Tabacco 1977–78 ; 1978 ; 1979 ; Krapinger 2005 ; Berti 2015, 35–44.

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Julien Pingoud

Le théâtre dans les Petites déclamations La comédie de la prostituée aux yeux crevés Si quelque visiteur étranger débarquait à Sophistopolis,1 ville fictionnelle de la déclamation, il se heurterait, stupéfait, à tout un microcosme chamarré, pittoresque : des pirates avides de rançons, de malfaisantes belles-mères, une ribambelle de sans-le-sou, souvent brouillés avec leurs amis pleins aux as, une myriade de héros de guerre, de viri fortes. À chaque détour de ruelle, ce visiteur aurait aussi de bonnes chances de tomber nez à nez avec une prostituée, qu’elle soit poule de luxe ou racoleuse bas de gamme, qu’elle travaille pour son propre compte ou pour celui d’un proxénète, d’un leno. Selon toute probabilité, cette prostituée se trouverait impliquée de près ou de loin, comme presque tous les habitants de la ville, dans l’un des innombrables procès qui marquent leur quotidien. Indice du peu de considération sociale dont elle jouit dans la cité, une courtisane a très rarement le privilège d’être défendue par un avocat, aussi bien dans le quartier latin que dans le quartier grec – car la ville est séparée en deux parties bien distinctes sur le plan administratif, quoiqu’interdépendantes du point de vue culturel. Du côté latin, de mémoire de Sophistopolitain, le cas s’est présenté seulement trois fois, ou plutôt deux fois et demie. Pour la demi fois, on pense à cette ex-meretrix aspirante-prêtresse (en réalité une citoyenne enlevée par des pirates puis vendue à un tenancier de bordel) qui était parvenue, disaitelle, à préserver sa virginité ; un consortium d’avocats plaida sa cause lors d’un procès rapporté par Sénèque, fameux verbalisateur.2 On se souvient aussi de cette prostituée à laquelle il fut reproché d’avoir fait boire à son amator pauvre une potion magique destinée à faire cesser son amour pour elle. Tous ont oublié quelle fut l’issue de ce procès aberrant mais on sait, grâce aux deux discours que le temps a conservés, que le défenseur et son adversaire firent preuve d’une égale compétence ; on raconte parfois, bien que le fait semble incroyable, que la défense et l’accusation furent assumées par un seul et même orateur dont l’éloquence imitait celle de Quintilien, qui inspira tant de talents déclamatoires.3

|| 1 Pour l’invention du nom ‘Sophistopolis’ désignant l’univers des déclamations, voir Russell 1983, 21–39. 2 Cf. Sen. contr. 1,2. 3 Cf. Ps. Quint. decl. mai. 14 et 15.

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La moins célèbre peut-être de ces courtisanes, une meretrix aveugle, fut défendue par un autre admirateur du grand maître – sa ressemblance avec lui était telle que certains le confondaient avec Quintilien. Même les coureurs de tribunaux, ceux qui ne manquent d’assister à aucun procès, n’évoquent son histoire que très rarement, et on ignore pourquoi un jour son client, l’un de ces nombreux héros de guerre qui déambulent dans la ville, lui creva les yeux. La raison pour laquelle il tenait tant à subir la peine du talion, plutôt que de servir de guide à la prostituée comme elle le désirait, est également obscure. Qui était cette prostituée, d’où venait-elle ? Comment son avocat essaya-t-il de convaincre les juges qu’un homme respecté de toute la communauté devait se plier à la volonté d’une femme mise en marge de la société ? Ces mystères méritent d’être éclaircis. Il faut tout d’abord rappeler les faits, consignés dans la Petite déclamation 297, sans oublier la loi qu’il fallait observer dans le cadre de ce litige : Qui excaecaverit aliquem, aut talionem praebeat aut excaecati dux sit. Meretricis amator fortiter fecit. Occurrentem sibi meretricem excaecavit. Petit illa ut eodem duce utatur ; recusat ille et offert talionem. Ps. Quint. decl. min. 297, th. Quiconque a rendu quelqu’un aveugle doit soit subir le talion, soit être le guide de l’aveugle. L’amant d’une courtisane s’illustra à la guerre. Comme elle venait à sa rencontre, il rendit aveugle la courtisane. Elle fait la demande de l’utiliser comme guide ; lui refuse et propose le talion.4

À côté de l’énoncé des deux peines encourues par un excaecator, on peut s’étonner de l’absence d’une loi qui apparaît dans un très grand nombre de déclamations mettant en scène un vir fortis. La législation de Sophistopolis prévoit en effet que l’auteur d’une action glorieuse reçoive la récompense de son choix.5 Que ce soit sous la forme vir fortis optet quod volet ou celle, plus concise, viro forti praemium, cette loi est citée dans l’incipit de quatre Minores.6 La Petite déclamation 315 montre bien quelle était sa notoriété auprès des élèves de rhétorique. Tandis que le droit d’un vir fortis à une prime n’est pas mentionné en préambule au || 4 Sauf mention contraire, je cite le texte des Minores d’après l’édition de Winterbottom 1984. Le texte des Grandes déclamations et celui de Sénèque le Père sont cités d’après les éditions de Håkanson 1982 et Håkanson 1989, celui de Calpurnius Flaccus d’après l’édition-commentaire de Sussman 1994. En principe, les autres textes sont tirés de la CUF (Belles Lettres). Toutes les traductions sont miennes. Vobis habeo merito magnas gratias : Yasmina Benferhat, Alfredo Casamento, Marc Mouquin, Lucia Pasetti, Mary-Laurence Pingoud, Danielle van Mal-Maeder. Cet article est issu d’un projet financé par le Fonds national suisse de la recherche scientifique (FNS). 5 Pour le lien récurrent entre récompense et vir fortis, voir e.g. Lentano 1998, 10–12 ; 17–21. 6 Cf. Ps. Quint. decl. min. 258 ; 293 ; 304 ; 371.

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thème, un héros de guerre demande, en échange de ses exploits, la permission de ne pas tuer de sa main son fils déserteur, alors qu’il y est contraint légalement. Dans le sermo, le maître laisse entendre que, même si la loi n’a pas été rappelée, elle peut être invoquée dans le plaidoyer. Commentant la phrase praemium peto énoncée par le soldat, il dit à ses apprentis-déclamateurs : illa communia nostis, ‘c’est un lieu commun que vous connaissez’.7 Pourquoi la loi du praemium, si célèbre, est-elle totalement absente de la Petite déclamation 297 ? La mentionner avant le thème aurait généré un cas de lois contradictoires, comme il arrive souvent dans les déclamations dont un protagoniste est un vir fortis.8 Telle n’est pas la question traitée par le maître : il se concentre, comme le note Michael Winterbottom, sur l’aequitas, en montrant qu’ôter la vue à un homme valeureux n’est juste ni pour lui-même, ni pour la res publica.9 De plus, si la peine du talion se rencontre dans d’autres déclamations, l’alternative proposée dans la loi de la Petite déclamation 297 est un unicum.10 En même temps que l’ambiguïté de cette loi, c’est probablement aussi son originalité qui crée le besoin et l’occasion, pour le déclamateur, d’interpréter la voluntas legis, afin de déterminer qui a le droit de choisir la peine de l’excaecator.11 Or l’examen de l’intention du législateur n’exclut pas a priori l’application d’autres status.12 D’autre part, il y a fort à parier que tout déclamateur, s’il avait dû écrire le discours opposé, se serait empressé, pour appuyer la requête du vir fortis, de faire valoir sa prétention légitime, sinon légale, à une récompense. Dans le plaidoyer pour la meretrix, que le maître imagine être prononcé après le discours de son adversaire, on pourrait donc s’attendre à retrouver une trace de cette loi dans le cadre d’une prolepse ou, plus exactement, d’une objection postposée. Mais peut-être faut-il chercher bien ailleurs la raison de cette absence : doit-on comprendre que le soldat avait déjà obtenu sa récompense avant de blesser la prostituée ? On peut tenter d’expliquer l’omission d’une autre façon encore. Dans l’univers déclamatoire, les courtisanes ont très mauvaise réputation. On leur associe généralement un caractère rapace et une action subversive. Qu’une prostituée

|| 7 Ps. Quint. decl. min. 315,1 s. La Petite déclamation 306, dans laquelle le droit au praemium n’est pas cité comme loi, présente également le cas d’un vir fortis demandant à choisir une récompense. À propos de l’application de la loi du praemium dans cette déclamation, voir Citti 2015, 118 s. 8 Cf. Stramaglia 2013, 114 s. Pour une définition du status des leges contrariae, voir Calboli Montefusco 1986, 166–178. 9 Cf. Ps. Quint. decl. min. 297,5–7 ; Winterbottom 1984, 417. 10 À propos de la peine du talion et de la loi de la déclamation 297, voir Santorelli 2014, 32 ; 114 s. 11 Cf. Ps. Quint. decl. min. 297,8–10. 12 À propos de la concurrence entre plusieurs status, voir Calboli Montefusco 1986, 51–59.

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participe à l’intrigue d’un thème de déclamation ou qu’elle soit seulement évoquée en passant dans un plaidoyer en tant que spécimen d’un groupe social bien défini, son intervention consiste le plus souvent à semer la discorde au sein d’une famille et à la ruiner financièrement. Ce stéréotype est largement en vigueur dans le recueil des Minores, dans lequel une meretrix apparaît tantôt comme la cause de la dilapidation honteuse du patrimoine par un fils de famille,13 tantôt comme la séductrice d’un jeune homme qui, privé de sa présence, ne songe qu’au suicide,14 tantôt comme une briseuse de ménage,15 tantôt comme un être si peu enclin aux sentiments que pour s’assurer de son attachement, un philtre d’amour est nécessaire.16 Dans la Petite déclamation 297, on peut supposer que le maître a délibérément passé sous silence la loi du praemium, estimant que son rappel ne laissait aucune chance à la meretrix de l’emporter face à un personnage émérite. Difficile à vérifier, cette hypothèse appelle l’interrogation qui forme l’objet de cette étude : quelle stratégie le déclamateur met-il en place pour défendre un personnage que son statut rend a priori indéfendable ? La question peut être formulée différemment : sur quel(s) modèle(s) se base-t-il pour construire une image positive, et crédible, de la meretrix caecata ? On sait bien, et plusieurs critiques l’ont relevé, que c’est souvent à partir de situations tirées de la littérature dramatique que les thèmes de déclamation sont élaborés.17 On sait aussi, sur le témoignage de Quintilien dans l’Institution oratoire, que le théâtre grec et latin fournit tout un stock de protagonistes dont les élèves de rhétorique s’inspirent pour nourrir la description des personnages apparaissant dans le canevas d’une déclamation.18 Pour façonner le caractère d’une courtisane, plus spécifiquement, on se tourne volontiers vers les genres théâtraux qui mettent en scène de nombreux rôles de meretrix : la comédie nouvelle, son homologue latin la fabula palliata, et

|| 13 Cf. Ps. Quint. decl. min. 260,8 ; 260,19 ; 279,3 ; 298,9. Les déclamations 330 et 356, évoquées infra de manière plus détaillée, s’appuient également sur ce stéréotype. 14 Cf. Ps. Quint. decl. min. 344. 15 Cf. Ps. Quint. decl. min. 262,8. 16 Cf. Ps. Quint. decl. min. 385,8, où le déclamateur semble mettre en doute qu’une meretrix puisse vraiment aimer son amator. 17 Cf. e.g. Bonner 1949, 37 s. ; Paoli 1953, 181 ; van Mal-Maeder 2007, 36 ; Zinsmaier 2009, 18– 21. Pour une étude approfondie des liens entre la déclamation et la tragédie, voir Casamento 2002. À propos de l’acte de la déclamation comme une performance théâtrale, cf. e.g. Bonner 1949, 20 s. ; Calboli 2010, 149–152. Pour un bon panorama des différents rapports entretenus par la déclamation avec le théâtre, voir Nocchi 2015. 18 Cf. e.g. Quint. 10,1,69–71 ; 97. Pour un exemple de personnage inspiré de la comédie, voir dans ce volume l’article de Danielle van Mal-Maeder à propos du parasite.

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encore le mime. Danielle van Mal-Maeder l’évoque en ces termes : ‘s’ils dépeignent une prostituée, les déclamateurs ont recours aux stéréotypes de la comédie en la comparant, au positif ou au négatif, aux courtisanes de théâtre’.19 Il s’agit donc de vérifier si cette affirmation s’applique au cas de la meretrix caecata. Malgré le sort tragique de ce personnage, sa caractérisation a-t-elle un ancrage dans le répertoire comique ?

1 Qui dit meretrix, dit comédie Dans la perspective d’un ‘oui’ on peut observer, pour commencer, qu’une corrélation entre courtisane et comédie se manifeste clairement dans d’autres Minores. Un passage en revue de ces déclamations permettra de repérer quelques éléments associés par le maître au genre comique. Remarquons tout d’abord qu’une situation évoquant des mœurs malséantes, semblables à celles que la comédie représente, peut faire surgir le mot meretrix. Dans la Petite déclamation 298, un homme de la campagne s’adresse ainsi à son fils devenu parasite : Obicio tibi luxuriam ; si hoc tantum diceremus : ‘Vivis inter meretrices et lenones.’ Dignus es abdicatione etiamsi parasitum habes. Ps. Quint. decl. min. 298,9 Je te reproche ta vie de débauche. Il suffirait que je dise : ‘Tu vis au milieu des prostituées et des maquereaux.’ Et on est digne d’être déshérité même quand on a un parasite.20

Le personnage du parasite est présent dans la plupart des comédies. Quant au motif du différend entre un père sévère et son fils débauché, il rappelle par exemple le sujet des Adelphes de Térence. Plus loin dans le plaidoyer, une remarque du père à propos de sa propre persona, du ‘rôle’ qu’il joue dans cette déclamation, puis une autre portant sur le ‘ridicule’ du mode de vie de son fils (cf. ridiculum), renforcent l’atmosphère scénique qui règne dans cette déclamation.21 Dans ce contexte, la mention de meretrices et de lenones semble faire une appa-

|| 19 Van Mal-Maeder 2007, 13. 20 Le texte latin est cité d’après l’édition de Shackleton Bailey 2006. À propos du topos du compagnon parasite utilisé dans la déclamation comme un argument diffamatoire (cf. parasitum habes), voir l’article de Danielle van Mal-Maeder dans le même volume. 21 Cf. Ps. Quint. decl. min. 298,10 ; 12.

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rition toute naturelle dans l’argumentaire du rusticus. Ce dernier laisse ainsi entendre que son parasite de fils fréquente les maisons closes, lieu privilégié de l’univers comique, décor notamment du Truculentus de Plaute.22 La Petite déclamation 330 fournit des éléments très intéressants du point de vue du lien entre courtisane et comédie.23 Elle présente le cas d’un fils qui, demandant de l’argent à son père sous le prétexte de fréquenter une prostituée, se sert en réalité de cet argent pour nourrir sa mère, répudiée en tant qu’adultère. En l’occurrence, la courtisane n’a pas d’existence réelle dans le cadre de la fiction de cette déclamation. Tout inventé que soit ce personnage, l’utilisation qui en est faite amène le fils, dans le prooemium de son discours, à ironiser sur la situation paradoxale dont il est victime et à la comparer à une intrigue de théâtre : Nunc omnis iudicii scaena, omne periculum meae dignitatis ex hoc oritur, quod pecuniam non meretrici dedi. Ps. Quint. decl. min. 330,2 Toute la mise en scène de ce procès, tout le danger encouru par mon honneur naissent du fait que je n’ai pas donné mon argent à une prostituée.24

La référence à la scaena est développée plus loin, lorsque le fils se justifie, de manière humoristique, du mensonge raconté à son père. Son plaidoyer dévoile alors une véritable poétologie de la comédie : ‘Tu tamen’ inquit ‘mentitus es patri et amorem meretricis finxisti.’ Ita innocentior eram si verum dixissem ? Plena est huiusmodi artibus vita, plena sunt etiam theatra : circumscribuntur et servorum artibus patres et mendaciis filiorum, et ignoscunt cum meretricibus pecunia datur, cum aliqua a lenone redimitur ancilla. Ps. Quint. decl. min. 330,11 ‘Toi cependant’, dit-il, ‘tu as menti à ton père et tu as prétendu aimer une prostituée.’ Ainsi donc, je serais plus innocent si j’avais dit la vérité ? La vie est pleine de ruses de cette sorte, tout comme les pièces de théâtres en sont pleines : les pères sont trompés à la fois par les ruses des esclaves et les mensonges des fils, et ils leur pardonnent de donner de l’argent à des prostituées, de racheter une esclave à son proxénète.

|| 22 À propos de l’évocation récurrente du lupanar dans la comédie grecque et latine, voir e.g. Pasetti 2007, 299. 23 Pour l’observation du lien entre la Petite déclamation 330 et la comédie, cf. Winterbottom 1984, 508. 24 Une ligne de défense analogue s’observe dans la déclamation 260, lorsque l’avocat du jeune homme accusé de lèse-majesté pour avoir nourri des personnes déshéritées dit : non meretricibus donat, non in parasitos profundit (Ps. Quint. decl. min. 260,8).

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Il est question ici non pas des theatra dans un sens vague, du ‘genre théâtral’ dans son ensemble, mais plus précisément de la comédie. On le saisit à la mention de personnages dont se passe rarement la palliata : l’esclave, le père, le fils, la courtisane bien sûr, et l’entremetteur. Ces personnages se trouvent d’ailleurs dans la fameuse liste du prologue de l’Eunuque dans lequel Térence se défend d’une accusation de plagiat (on lui reproche d’avoir copié des pièces de Naevius et de Plaute traitant d’un soldat fanfaron, et lui le nie puisque, dit-il, son modèle était une pièce de Ménandre) : Quod si personis isdem huic uti non licet, qui magis licet currentem servom scribere, bonas matronas facere, meretrices malas, parasitum edacem, gloriosum militem, puerum supponi, falli per servom senem, amare, odisse, suspicari ? Denique nullum est iam dictum quod non sit dictum prius. Ter. Eun. 35–41 Et s’il n’est plus permis à l’auteur que je suis de se servir de ces mêmes personnages, qui aura davantage le droit d’écrire sur un esclave qui court, de représenter d’honnêtes matrones, de méchantes courtisanes, un parasite glouton, un soldat fanfaron, un enfant substitué, un vieillard trompé par un esclave, de dépeindre l’amour, la haine, la suspicion ? Finalement, plus rien n’est dit qui n’ait été dit auparavant.

Outre cette similarité dans la liste des personnages évoqués, on voit dans la Petite déclamation 330 que le rachat d’une prostituée à son proxénète est présenté comme un ingrédient classique de la comédie ; le locuteur, évoquant ainsi la situation de l’adulescens amoureux d’une meretrix, semble bien connaître par exemple la Mostellaria ou l’Asinaria de Plaute.25 Il faut également souligner que, telle qu’il la conçoit, l’intrigue type de la comédie prévoit toutes sortes de mystifications, de fourberies et de mensonges (cf. artibus, circumscribuntur, artibus, mendaciis). On peut supposer sans trop de risque que cette conception est non seulement celle du fils embobineur, mais aussi, surtout, celle du rédacteur des Minores. Le maître, en laissant son public entrer dans les coulisses des theatra, comparés plaisamment avec la vraie ‘vie’, paraît lui adresser un clin d’œil et porter un regard amusé sur l’imitation des comiques dont témoigne l’invention de sujets déclamatoires.

|| 25 Le même type de référence est sans doute à l’œuvre dans la Grande déclamation 14 : cf. Hömke 2002, 258 s.

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Le thème de la Petite déclamation 356, comme le note M. Winterbottom,26 fait également beaucoup penser à une intrigue de comédie : un jeune homme, ayant reçu une somme destinée au rachat de la courtisane aimée par son père, utilise l’argent pour racheter la prostituée dont il est lui-même amoureux. La référence théâtrale n’a peut-être pas échappé à Calpurnius Flaccus, se confrontant à un cas de figure pratiquement identique dans la déclamation 37 de son recueil. Avec Lewis Sussman,27 on peut en effet remarquer que dans une phrase prononcée par le fils, l’emploi du verbe ridere paraît consacrer l’origine comique de la persona du vieillard amoureux : rideri me, iudices, opinabar a patre, cum se quoque amare dicebat, ‘je pensais, juges, que mon père se riait de moi, lorsqu’il disait être amoureux lui aussi’.28 Quant au maître des Minores, il invite ses élèves à plaider en faveur du père. Dans son sermo, il préconise pour ce personnage une couleur qui ne jurerait pas dans une pièce de Plaute : cherchant un moyen d’éloigner le jeune homme de sa meretrix, le père a feint d’aimer une prostituée et lui a donné l’argent nécessaire à son rachat, espérant que la courtisane aimée de son fils, apprenant la transaction effectuée par son amant, penserait avoir été abandonnée, se vexerait et romprait toute relation.29 Ce scénario pour ainsi dire vaudevillesque fait écho à la vision de la comédie évoquée plus haut, selon laquelle les paroles fallacieuses et les entourloupes appartiennent de plein droit à la trame du récit comique. Comme dernier exemple d’un lien fort entre la courtisane et la comédie, on peut citer la Petite déclamation 344, à laquelle il a déjà été fait allusion plus haut. Les deux fils d’un pauvre et d’un riche sont amoureux de la même prostituée. Après que son leno a fixé le prix du rachat, le fils pauvre, dans l’incapacité de payer, est désespéré. Le père riche le rencontre alors qu’il semble sur le point de se suicider, pleurant, l’épée à la main, et lui offre la somme dont il a besoin. Le père pauvre accuse le père riche d’inscriptum maleficium, de ‘crime non inscrit dans la loi’, et lui reproche d’avoir ‘commis le plus grave des forfaits sous le couvert de la générosité’, plus exactement d’avoir cherché à préserver sa propre famille du déshonneur.30 On relève le motif, déjà présent dans les déclamations évoquées précédemment, du rachat de la prostituée. On souligne également la || 26 Cf. Winterbottom 1984, 561. 27 Cf. Sussman 1994, 200. Un senex amator apparaît particulièrement souvent dans les pièces de Plaute, cf. As. ; Bacch. ; Cas. ; Cist. ; Merc. ; Stich. À propos du ridicule dont Plaute affuble ce personnage défiant les conventions socio-culturelles (ce sont les jeunes gens qui sont amoureux, pas les vieillards), voir Bianco 2003, 55–67. 28 Calp. decl. 37. 29 Cf. Ps. Quint. decl. min. 356,2. 30 Cf. Ps. Quint. decl. min. 344,2 rem gravissimam fecit specie liberalitatis.

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thématique du stratagème mensonger ; d’ailleurs, dans deux autres Minores, une accusation d’inscriptum maleficium apparaît dans un contexte qui évoque l’univers comique et dans lequel un personnage est soupçonné de s’être livré à une ruse malhonnête.31 On peut encore signaler en passant le thème de la rivalité entre deux amatores riche et pauvre, qui rappelle aussi bien le théâtre de Plaute que celui de Térence.32 L’appartenance de cette déclamation au monde de la comédie est suggérée dans la péroraison, au moment où le père pauvre reproche au père riche d’avoir gâché sa vie et celle de son fils : Vivit itaque filius tuus et honeste vivit et iam sine fabula vivit. At tu mihi nurum meretricem dedisti, tu domum meam lupanar fecisti. Ps. Quint. decl. min. 344,14 Ainsi, ton fils à toi est en vie, et il a une vie honnête, il a désormais une vie sans histoires. C’est toi qui m’as donné une courtisane comme bru, oui, toi qui as fait de ma maison un lupanar.

Dans cet extrait, le terme fabula apparaît dans son sens bien particulier de ‘rumeur’, ‘parole médisante’.33 La séquence sine fabula, associée ici à l’adverbe honeste, est à nouveau employée dans la Petite déclamation 301, dans laquelle un pauvre, accusé de convoiter le patrimoine de son ami riche, se prétend integer, sine crimine, sine fabula.34 C’est de manière comparable qu’Apulée, dans l’Apologie, conforte l’honorabilité de son épouse (cf. sine culpa) par l’absence de on-dit à son sujet (cf. sine fabula).35 Il est donc permis de rendre sine fabula en français par la tournure ‘sans histoires’, par laquelle on atteste d’une bonne réputation. Or cette traduction peine à rendre le jeu sémantique qui se fait jour dans le passage de la Petite Déclamation 344. Le mot fabula renvoie aussi, en l’occurrence, à la production dramatique. Le père pauvre constate que le fils du riche, contrairement au sien, ne vit pas comme dans une ‘pièce de théâtre’, qu’il ne loge pas dans un ‘lupanar’, lieu qui évoque la comédie par métonymie. Ces quelques exemples montrent une utilisation récurrente de la culture théâtrale dans les déclamations traitant de prostituées, et ils révèlent aussi l’intentionnalité qui préside à cette utilisation. S’ils n’apportent évidemment pas la

|| 31 Voir les déclamations 252 et 370, mettant toutes deux en scène un parasite. 32 Cf. e.g. Plaut. Truc. ; Ter. Eun. Le motif de la rivalité amoureuse entre un pauvre et un riche est également présent dans la Grande déclamation 15 : cf. Hömke 2002, 257. 33 Cf. ThlL VI.1 25,41–26,20, s. v. 34 Ps. Quint. decl. min. 301,4. 35 Cf. Apul. apol. 69. Pour un autre emploi de fabula dans le sens de ‘rumeur’ et précédé de sine, cf. Hist. Aug. Hadr. 23,9 Sabina uxor non sine fabula veneni dati ab Hadriano defuncta est.

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preuve que le personnage de meretrix qui apparaît dans la déclamation 297 soit modelé à partir de stéréotypes comiques, ils autorisent cette hypothèse.

2 Gloriosus mais pas trop Avant de s’intéresser à la courtisane aveugle, on peut se pencher sur les traits de caractère attribués à son adversaire. Comme le dit Mario Lentano, le personnage du vir fortis plaît beaucoup aux déclamateurs, et cet intérêt pour lui a généré un ‘tourbillon chaotique’ de scénarios divers et variés.36 Dans le cas de la Petite déclamation 297, le héros de guerre qui a frappé une prostituée a des affinités avec un personnage type de la comédie : le miles gloriosus. Il semble que, pour motiver sa requête, le soldat en appelle à la religio.37 Selon l’avocat de la prostituée, l’argument principal qu’il invoque pour ne pas devenir guide d’aveugle est que les dieux lui interdisent, en tant que héros, de se montrer au bras d’une meretrix : negat fas esse ut vir fortis manum meretrici praestet, ut iter demonstret, ‘il dit qu’il est sacrilège qu’un brave tienne la main d’une prostituée, guide son chemin’.38 Une idée similaire, cette fois plutôt centrée sur les relations humaines, est contenue dans une phrase du soldat qui exprime sa crainte de la honte, et que rapporte l’avocat : ‘at enim forti viro turpe est hoc officium subire’.39 La haute estime que le vir fortis a de lui-même et de ses actes est soulignée dans un autre passage par la qualification adrogans.40 Dans cette perspective, notre personnage fait penser au soldat fanfaron de l’Eunuque, Thrason, qui agit de sorte à ce qu’on ne le voie pas en compagnie de la courtisane Thaïs. L’esclave Parmenon, évoquant la suffisance de Thrason et sa peur du jugement social, se moque du fait qu’il se prenne pour un imperator, alors qu’il n’est que miles : ... Haud convenit
 una ire cum amica imperatorem in via. Ter. Eun. 494 s. Il est inconvenant pour un grand général de marcher dans la rue avec sa petite copine.

|| 36 Cf. Lentano 1998, 10–12. 37 Sur la distinction entre droit humain et droit divin, cf. e.g. Calboli Montefusco 1986, 96. 38 Ps. Quint. decl. min. 297,4. 39 Ps. Quint. decl. min. 297,13. 40 Cf. Ps. Quint. decl. min. 297,6.

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Dans notre déclamation, l’avocat affirme que l’argument du vir fortis ne doit pas être pris en considération, car sa requête recèle une tout autre motivation, beaucoup plus retorse. Il cherche en réalité à obtenir l’inverse de ce qu’il demande : Atque id tamen praetenditur modo, iudices. Ceterum causa postulationis istius manifesta est. Videt miseram feminam durare in hoc non posse, ut excaecet, neque id agit ut graviorem patiatur poenam, sed ut neutram : oculos habeat, quos haec eruere noluit, ducis opera fungatur, quoniam recusat. Ps. Quint. decl. min. 297,4 Et de toute façon, cela n’est qu’un prétexte, juges. La raison de sa requête est d’ailleurs manifeste. Il voit que cette femme malheureuse ne peut supporter l’idée qu’on le prive de la vue, et il ne plaide pas dans le but d’endurer la plus lourde des deux peines, mais pour n’en subir aucune : sauver les yeux que la femme ne veut pas détruire, et ne pas fournir un travail de guide, puisqu’il s’y refuse.41

Il faut interpréter la fin très laconique de ce passage, dont le texte est du reste controversé. Le vir fortis espère qu’il gagnera le procès, qu’on le destinera à devenir aveugle. Il compte ensuite sur le fait que la meretrix refusera de le voir souffrir et reviendra sur sa requête, préférant le laisser libre de toute compensation. En réclamant une chose qu’il ne veut pas, il use d’un type bien particulier de controversia figurata, condamné tout autant par le Quintilien de l’Institution oratoire que par le maître des Minores.42 Le déclamateur souligne de la manière suivante l’aspect sournois de cette démarche : Nos tamen necesse habemus his respondere quae proponuntur, et adversus fallacem sic agere tamquam excaecari voluerit. Ps. Quint. decl. min. 297,5 Nous, cependant, nous estimons nécessaire de répondre aux arguments qui nous sont proposés et de plaider face à cet imposteur comme s’il voulait vraiment devenir aveugle.

Si la tentative de manipulation du soldat peut être considérée comme le produit d’une certaine rhétorique, la stratégie qu’il met en place fait aussi beaucoup penser aux ruses auxquelles s’adonnent les personnages de la comédie, ainsi que –

|| 41 Texte de Shackleton Bailey 2006. 42 Cf. Quint. 9,2,81–91 ; Ps. Quint. decl. min. 337,1 s. Cf. Desbordes 1993, 79–81 ; Franchet d’Espèrey 2016. Le débat à propos de ce type de controversia figurata se reflète également dans quelques passages des Grandes déclamations qui présentent, d’après la formulation d’Antonio Stramaglia, un caractère ‘métarhétorique’ : cf. Stramaglia 2016, 28–30.

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nous l’avons vu plus haut – le maître l’envisage.43 Dans le cas présent, le déclamateur met en scène un jeu de dupes dans lequel l’arrosé fait semblant d’entrer dans le jeu de l’arroseur, dans le but de mieux l’arroser, comme le montre la suite. Pour étayer son discours de pseudo-dupe, en effet, l’avocat encourage le jury à laisser la cité bénéficier d’un homme qui a fait ses preuves à la guerre. Il le formule ainsi : Illa etiam quae ab ipso iactata sunt nos quoque referemus, fuisse istum virum fortem, pugnasse pro republica, plurimum nobis profuisse manus eius atque oculos. His enim omnibus profecto hoc efficitur, ut illum excaecari non necesse sit. Ps. Quint. decl. min. 297,5 s. Nous rappellerons à notre tour tout ce que lui-même s’est vanté d’avoir fait, à savoir que cet homme, là, a fait preuve de courage, qu’il a combattu pour le bien commun, que ses mains, ainsi que ses yeux, se sont révélés extrêmement utiles pour nous. Oui, toutes ces raisons font assurément qu’il ne doit pas devenir aveugle.

Un détail de ce passage révèle un autre point commun du vir fortis avec le soldat de comédie : son caractère fanfaron, signalé par le verbe iactare. Un aspect le détache toutefois clairement du miles gloriosus : s’il est vantard, il se vante d’exploits avérés, au contraire du personnage de la comédie, qui se glorifie généralement de hauts faits qu’il n’a pas accomplis. Il y a deux raisons possibles au fait que l’avocat laisse passer l’adversaire de la meretrix pour réellement courageux. D’une part, l’héroïsme de ses actes donne du poids à l’argument selon lequel la sauvegarde de ses yeux promet d’autres services rendus à la cité. De l’autre, le déclamateur ne peut introduire dans sa description un élément propre à contredire le thème, qui stipule sans équivoque que l’amator ‘s’est illustré par son courage’. On sait d’ailleurs à quel point le respect des données du thème est primordial aux yeux du maître, qui aborde ce point à plusieurs reprises dans ses sermones à propos de la caractérisation de personnages.44 On assiste ainsi à un beau numéro d’équilibriste de la part du déclamateur, qui réussit le portrait d’un soldat à la fois fortis et gloriosus.

|| 43 Cf. supra, pp. 162 s., à propos de la déclamation 330. 44 Cf. Ps. Quint. decl. min. 316,3 ; 309,1 ; 337,1.

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3 Jeu d’apparences Nous avons vu comment l’avocat de la prostituée s’adaptait à la ruse tentée par le vir fortis et la retournait contre lui. Un autre argument en faveur de la protection des yeux du soldat découle également du motif de la mystification construit dans le plaidoyer. L’avocat feint à nouveau, semble-t-il, de défendre son adversaire contre son gré lorsqu’il tâche de convaincre les juges que, malgré son arrogance, il n’est pas homme à blesser intentionnellement sa maîtresse : Neque tamen nobis adhuc persuaderi potest ut vir fortis qui amaverit aperte, qui non erat laesus ulla meretricis iniuria, oculos volens eruerit. Fortunam illud putamus fuisse. Ps. Quint. decl. min. 297,7 Et pourtant cela ne suffit pas à nous persuader que ce héros, qui ne cachait pas son amour, qu’aucune offense de la courtisane n’avait insulté, ait dévasté ses yeux à dessein. Nous pensons qu’il y a eu là l’œuvre du Destin.

Le déclamateur cherche à sauver les yeux du vir fortis. Mais croit-il vraiment au caractère involontaire de la blessure ? Il semble que la phrase évoquant la Fortuna ait une valeur ironique. Pour l’illustrer, on peut se référer à la Petite déclamation 301, qui montre que la justification d’un événement par l’action d’un destin incontrôlable ne doit pas nécessairement être prise au pied de la lettre. Cette déclamation (déjà mentionnée) met un père, pauvre, en proie à une accusation de circumscriptio qui rappelle une nouvelle fois les meilleures comédies. Ce père invite chez lui un ami riche à un repas lors duquel sa fille fait le service. Ignorant qui elle est et s’en enquérant, le riche reçoit du pauvre la réponse qu’elle est une servante. Il la viole au sortir du repas. La fille, en vertu de la fameuse loi sur le viol, choisit d’épouser le riche, qui accuse ensuite le pauvre de ‘tromperie’. Dans son plaidoyer, le pauvre déclare, avec un certain culot : eum mihi Fortuna ipsa generum dedit quem maxime diligebam, ‘le Destin lui-même m’a donné comme gendre cet homme que j’aimais par-dessus tout’.45 Or il semble bien difficile d’attribuer ce mariage à la chance uniquement. Ou alors, il faut considérer la Fortuna comme une force qui sourit surtout à ceux qui la provoquent, celle par exemple de la fameuse formule virgilienne audentis Fortuna iuvat.46 Dans le cas de la Petite déclamation 297, qui traite d’un vir fortis, le maître pourrait avoir en tête le vers d’Ennius évoquant la faveur accordée par la fortune aux ‘hommes courageux’ :

|| 45 Ps. Quint. decl. min. 301,3. 46 Verg. Aen. 10,284.

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Fortuna est fortibus viris data.47 De plus, d’un point de vue purement logique – quoique ce ne soit pas toujours celui qui est privilégié dans les déclamations – est-il possible de crever les deux yeux de quelqu’un sans le faire exprès ? Admettre l’ironie de l’avocat de la prostituée, c’est préférer la version du titre de la déclamation proposée par l’éditeur David Roy Shackleton Bailey, meretrix ab amatore f o r t i caecata, plutôt que celle de l’édition de M. Winterbottom, qui établit d’emblée comme certain que la meretrix a été rendue aveugle ‘par hasard’ : meretrix ab amatore f o r t e caecata.48 Et surtout, supposer que l’avocat doute de l’action de la Fortuna permet d’interpréter d’une manière nouvelle la déclaration selon laquelle la prostituée n’a commis aucune iniuria envers son client. Dans l’esprit du déclamateur, peut-être le soldat a-t-il voulu se venger de la prostituée parce qu’il croyait qu’elle l’avait offensé. Ainsi, on peut envisager que le déclamateur cherche à la fois à provoquer le repentir du soldat, en lui laissant entendre qu’il a mutilé quelqu’un sans aucune raison valable, et à la fois à donner de lui l’image d’un homme assez innocent pour que les juges ne lui fassent pas subir le talion. L’avocat de la prostituée se livre donc, comme le vir fortis, au jeu de la controverse figurée. Lui, en revanche, montre comment se servir de manière honorable et efficace de cette figure. Si son discours recèle un sens caché, conformément au procédé de l’emphasis ou de l’ornatus recommandé par Quintilien, il veut effectivement ce qu’il demande.49 Il est possible de considérer la duperie, les motivations fantômes et les jeux d’apparences sous le rapport d’un autre aspect tout à fait caractéristique de notre déclamation : le recours au champ sémantique des yeux et de la cécité, qui vient renforcer la thématique de l’illusion, souligner la particularité de deux argumentaires qui reposent aussi bien sur le visible que sur l’invisible. Bien sûr, l’utilisation des termes oculus et excaecare (ou ses dérivés) semble toute naturelle au vu des données fournies par le thème. Mais on peut noter que ces mots apparaissent de façon très fréquente, respectivement une quinzaine et une dizaine de fois dans un texte court, d’environ 640 unités verbales. De plus, le handicap de la meretrix n’est à aucun moment plus émouvant que lorsque, dans un passage déjà cité, son avocat annonce que les vraies raisons de la requête du vir fortis sont ‘manifestes’ et suppose que ce dernier ‘voit’ bien qu’elle n’a aucune intention de le rendre || 47 Enn. ann. 7,233 Sk. 48 C’est moi qui souligne. La séquence amatori forti (Shackleton Bailey) est tout à fait envisageable dans la mesure où fortis, en tant qu’adjectif substantivé ou épithète, s’accorde à un substantif dans plusieurs autres titres des Minores : cf. Ps. Quint. decl. min. 246 fortis privignus ; 258 patri forti ; 315 fortis pater ; 367 pater fortis ; 375 fortis filius. 49 Pour cette définition de la controversia figurata telle qu’approuvée par Quintilien, voir Franchet d’Espèrey 2016, 76–80.

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aveugle.50 La seule personne qui ne puisse voir de ses yeux le spectacle que constitue ce procès est celle qu’il concerne au premier plan. À côté de cet effet de pathos, on sent poindre l’humour du maître des Minores, qui s’amuse avec le vocabulaire de la vue et sa polysémie. L’insistance sur ce lexique génère un écho avec la comédie. Plaute, en particulier, souligne dès qu’il le peut, par ce biais métapoétique, les ruses orchestrées par ses personnages, ainsi que la tromperie que constitue la fictionnalité de la pièce de théâtre pour son spectateur. Le Miles gloriosus en est un exemple très parlant, et il suffit de citer la phrase emblématique prononcée par l’esclave Palestrion, sur le point de jouer un tour à Sceledrus, de lui faire croire qu’il a eu la berlue, le rendant ainsi aveugle dans un certain sens : faciemus ut quod viderit non viderit, ‘faisons en sorte qu’il n’ait pas vu ce qu’il a vu’.51

4 Une bona meretrix ... Venons-en enfin au personnage féminin de notre déclamation. On peut se demander tout d’abord quelle sorte de courtisane est la meretrix caecata, et quel type de relation elle avait avec son client avant de devenir aveugle. Car en latin, le mot meretrix peut se référer à plusieurs réalités prostitutionnelles. En grec, l’ambiguïté est moins grande, puisqu’on distingue grosso modo la pornê, la prostituée de bas étage, de l’hetaira, la compagne-concubine.52 Dans la Petite déclamation 297, il semble que l’on ait affaire à une meretrix-hetaira. À l’appui de cet étiquetage, on peut rappeler l’amour que le vir fortis ressentait pour elle, et souligner que cet amour était dévoilé ‘au grand jour’ (cf. aperte).53 Elle, de son côté, éprouvait, et éprouve toujours après l’incident, une grande tendresse envers lui : Detegemus tibi etiam huius mulierculae adfectus, quo magis te rem tam gravem fecisse paeniteat. Haec excaecare te non potuit. Meminit temporum superiorum, meminit illarum quas aliquando communes habuit voluptatum, meminit amoris tui. Ps. Quint. decl. min. 297,12 Nous allons aussi te révéler l’affection de cette pauvre femme, pour que tu te repentes davantage d’avoir commis une chose aussi grave. Cette femme n’a pas pu te rendre aveugle.

|| 50 Cf. Ps. Quint. decl. min. 297,4 ceterum causa postulationis istius manifesta est. Videt miseram feminam durare in hoc non posse ... Le passage est cité supra, p. 167. 51 Plaut. Mil. 149. À propos des nombreuses occurrences du vocabulaire de la vision et de leur signification métathéâtrale dans cette pièce, voir Dumont 2014. 52 Pour la différenciation entre ces deux types de prostituée, voir e.g. Waddell Gruber 2008, 110. 53 Cf. supra, p. 169.

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Elle se souvient des jours anciens, elle se souvient des plaisirs qu’elle a partagés autrefois avec toi, elle se souvient de ton amour.

Le caractère à la fois notoire et réciproque de l’attachement des deux personnages peut rappeler certains couples de la Rome antique. Flora, dont s’était épris Pompée, supporta si mal leur rupture qu’elle fut longtemps malade de tristesse.54 Il semble que Volumnia, maîtresse de Marc-Antoine, désignée ironiquement par Cicéron comme son ‘épouse’, prenait part à la vie sociale et politique de son amant.55 Mais l’amour partagé entre un citoyen et une prostituée est surtout un motif comique. D’ailleurs, le cas de Volumnia le confirme dans une certaine mesure, puisque Cicéron, pour donner d’Antoine une image aussi bouffonesque que possible, ne se prive pas de préciser que cette courtisane est une comédienne de mime. Le fait que le maître des Minores, nous l’avons vu, associe aux theatra le thème du rachat d’une prostituée par un adulescens montre bien que pour lui, la comédie est un lieu où la relation entre un homme libre et une meretrix est monnaie courante. Si l’affection de la courtisane aveugle envers son client était inspirée d’une pièce, cette pièce pourrait être l’Eunuque de Térence, qui représente une Thaïs sincèrement amoureuse de Phédria. Se retrouvant seule après avoir vu son amant, auquel elle a assuré n’aimer que lui et expliqué avoir ouvert sa porte à un autre client, le soldat Thrason, dans l’unique but de sauver sa demi-sœur devenue l’esclave de ce dernier (il s’agit plus exactement d’une citoyenne de naissance qui a été confiée à la mère de Thaïs et élevée par elle comme sa fille), elle se parle ainsi à elle-même : Ego pol, quae mihi sum conscia, hoc certo scio neque me finxisse falsi quicquam neque meo cordi esse quemquam cariorem hoc Phaedria. Ter. Eun. 199–201 Par Pollux, moi qui me connais bien, je suis tout à fait certaine de n’avoir rien inventé de faux, et que personne n’est plus cher à mon cœur que ce Phédria.

Quant au fait que l’amour entre la courtisane aveugle et le vir fortis était de notoriété publique, il pourrait aussi tirer ses racines des intrigues de théâtre. Pour n’appuyer cette supposition que par un exemple, il convient de rappeler le gag métathéâtral que constitue une réplique de Pamphile dans l’Hécyre. L’adulescens espère que la relation qu’il a eue avec Bacchis restera secrète pour son père, et il

|| 54 Cf. Plut. Pomp. 2,5–8. 55 Cf. Cic. Phil. 2,20 ; 2,58 ; 2,61.

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demande à celle-ci de ne pas lui en toucher mot (or le spectateur sait pertinemment qu’elle sait très bien que le père sait que son fils la fréquentait) : Adeo muttito ; placet non fieri hoc itidem ut in comoediis, omnia omnes ubi resciscunt. Ter. Hec. 866 s. Surtout, n’en parle que tout bas ; je ne veux pas que cela se passe comme dans les comédies, où tout le monde finit par tout savoir.

Le modèle comique de la relation entre une prostituée et son client se trouve également dans la déclamation grecque.56 Et il apparaît aussi dans d’autres déclamations latines. Dans la Controverse 2,4 de Sénèque, par exemple, Romanius Hispon attaque une prostituée et son amoureux, un jeune homme déshérité dont elle a eu un enfant, en évoquant leur concubinage comme un ‘mariage’ tel qu’on peut le représenter dans le mime : Incidit in meretricem inter omnia mala etiam fecundam. Vere mimicae nuptiae, quibus ante in cubiculum rivalis venit quam maritus. Sen. contr. 2,4,5 Il est tombé sur une courtisane qui, parmi tous ses autres défauts, s’est révélée féconde. Un véritable mariage de farce, lors duquel le rival s’est retrouvé avant le mari dans la chambre à coucher.

Ce jeu consacrant le lien entre meretrix et genre comique amène à penser qu’un couple formé par une courtisane et son client est volontiers identifié par un déclamateur à un couple de théâtre.57 Pour enchaîner sur le thème du mariage, j’aimerais ouvrir une parenthèse à propos du possible mobile de l’excaecatio, qui ne peut être dissocié des circonstances dans lesquelles la blessure est survenue. Comme le souligne Shackleton Bailey, le thème reste très imprécis sur le second point, et on sait uniquement que l’incident s’est déroulé ‘lors d’une rencontre’ (cf. occurentem sibi).58 Je voudrais suggérer qu’au vu de la concision du thème, la possibilité est laissée au déclamateur d’imaginer que le vir fortis a blessé la courtisane par jalousie et qu’il assimilait son amour envers elle à un lien matrimonial. Cette lecture s’appuie sur la || 56 Cf. Waddell Gruber 2008, 109–126. 57 Pour l’idée d’un jeu auquel se livre Romanius Hispon, voir van Mal-Maeder 2007, 13 s., qui renvoie à d’autres exemples similaires : cf. Sen. contr. 6,7,2 ; Ps. Quint. decl. min. 279,17. 58 Cf. Shackleton Bailey 2006, 358.

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symbolique liée à l’excaecatio dans l’univers déclamatoire. Avant d’y venir, il faut mentionner l’hypothèse intéressante de M. Winterbottom et le parallèle qu’il établit, sur la base d’une communauté lexicale et thématique, entre notre déclamation et la Controverse 1,2 de Sénèque le Père.59 Dans cette dernière, alors qu’une ancienne prostituée demande à devenir prêtresse, Cestius Pius, qui plaide contre elle, prétend que tout licteur, habitué à escorter des vestales, l’écarterait de son chemin si elle le rencontrait (cf. occurrentem illi).60 Ainsi, d’après le commentateur des Minores, le vir fortis aurait pu blesser la prostituée lors de la cérémonie du triomphe qui le consacrait en voulant l’éloigner de lui, se sentant souillé par sa présence. Le rapprochement avec Sénèque est pertinent dans la mesure où, on l’a évoqué, le soldat motive son refus de devenir guide en prétendant qu’il est sacrilège qu’un homme tel que lui soit au service d’une prostituée.61 Or selon l’avocat de la meretrix, cette peur du jugement des dieux est fallacieuse. Rien n’empêche donc de se représenter que l’excaecatio se soit produite dans un contexte autre que celui du triomphe, et sur une autre impulsion que celle de la crainte de l’impiété. Même si l’on retient l’idée du triomphe, il n’est pas interdit, au vu du caractère retors attribué au vir fortis par l’avocat de la prostituée, de penser que la cérémonie constitue pour le soldat une occasion masquant son vrai mobile. Car si les aveugles sont nombreux et de types très divers dans le monde de la déclamation (il y a par exemple le fils qui perd la vue en tentant de sauver ses parents d’un incendie, ou l’épouse qui cesse de voir à force de pleurer sur l’absence de son mari62), ceux que l’on dépossède de l’usage de leurs yeux sont à la rigueur les violeurs,63 mais surtout ceux qui ont commis le crime de l’infidélité conjugale. L’objectif, sans doute, est d’éviter une récidive, dans la mesure où on considère que le sentiment amoureux naît de la vue et que les aveugles, de ce fait, y sont moins enclins.64 Ce châtiment dérive vraisemblablement de la loi édictée

|| 59 Cf. Winterbottom 1984, 417. 60 Sen. contr. 1,2,7. 61 Cf. supra, p. 166. 62 Cf. Ps. Quint. decl. mai. 2. Cf. Sen. contr. 7,4 ; Ps. Quint. decl. mai. 6. Pour une liste plus complète de personnages aveugles dans la déclamation latine, voir Krapinger/Stramaglia 2015, 29–31. 63 Cf. Quint. 7,4,8 ; Calp. decl. 43. 64 À propos de l’amour provoqué par la vue, cf. e.g. Lucr. 4,1076–1078 ; Catull. 51. Pour un lien de causalité entre absence de vue et absence de sentiment amoureux, voir Ps. Quint. decl. mai. 1,6 , p. 7,10–13 H. où l’avocat du jeune aveugle accusé de parricide utilise la cécité de son client comme un gage de son innocence et évoque l’amor comme l’un des ‘vices’ auxquels ne peut se livrer qu’une personne voyante : vitiis enim nostris in animum per oculos via est. Aliis tradidit in parentum sanguinem luxuria ferrum : luxuria videntium crimen ; aliis meretriculae amor inmodica poscentis : amor, cui renuntiant oculi.

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par le légendaire Zaleucos qui, selon le récit de Valère-Maxime, se résolut à rendre borgne son fils adultère et à se priver lui-même d’un œil, afin de respecter tant bien que mal sa propre législation.65 Si l’on se fie à un passage de l’Institution oratoire, l’association des mots adulter et caecus est tout aussi convenue que l’est le topos du ‘joueur sans le sou’ (aleator pauper).66 Et c’est précisément la peine de l’excaecatio qui échoit au mari infidèle de la Petite déclamation 357. La cécité évoquée dans la Petite déclamation 297 peut être rapprochée de ce cas de figure. Compte tenu du fait que le vir fortis aimait la meretrix, qu’il avait probablement une relation suivie avec elle, que ce type de relation peut être perçu par un déclamateur comme un ‘mariage’ (de mime : mimicae nuptiae, cf. Sen. contr. 2,4,5 cité supra), il est permis de conjecturer que, dans le scénario implicite du déclamateur, le soldat, jaloux à tort ou à raison, se soit attaqué aux yeux de la prostituée plutôt qu’à une autre partie de son corps dans l’idée de lui infliger une punition réservée aux adultères. Pour que ce scénario soit vraisemblable, il faut évidemment envisager la possibilité d’une excaecatio intentionnelle.67 Evoquons maintenant la personnalité de la meretrix caecata et ses possibles chablons comiques. Pour la description de prostituées antipathiques, de pompeuses d’argent sans vergogne, le portrait qui ressort du monologue initial du Truculentus de Plaute est apte à servir de modèle au maître des Minores. Phronésie, telle que la décrit son amant Diniarque en la comparant implicitement à toutes les meretrices, est l’une de ces femmes qui, ‘avant même qu’on leur donne une seule chose, se préparent à en demander cent’, et qui, quand il leur arrive de se fâcher contre leur client amoureux, font périr à la fois ‘sa fortune et son cœur’.68 Egoïste et insensible, Phronésie a mis son amant sur le carreau, dit-il, ‘dès qu’elle en a trouvé un autre, susceptible de lui faire davantage de cadeaux’.69 Quant à la courtisane de la Petite déclamation 297, elle est faite d’un tout autre moule. Si elle veut que la peine du talion ne soit pas appliquée, si elle demande à ce que les yeux du vir fortis soient sauvés, c’est notamment parce que, dit son avocat, ‘elle éprouve de la pitié pour son cher ancien amant’, miseretur quondam amatoris sui.70 Elle se révèle ainsi d’un grand altruisme, d’une bonté exceptionnelle envers un homme qui l’a privée de la vue et qui, comme le laisse entendre la désignation quondam

|| 65 Cf. Val. Max. 6,5,3. 66 Quint. 2,4,22. 67 Cf. supra, pp. 169 s. 68 Plaut. Truc. 51 ; 46 s. 69 Plaut. Truc. 81 s. 70 Ps. Quint. decl. min. 297,2.

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amator, ne se soucie plus d’elle, ou du moins ne la fréquente plus. Sa magnanimité la rapproche du personnage de Bacchis, dans l’Hécyre de Térence, victime peu rancunière du monde patriarcal dans lequel elle vit. Cette courtisane doit rompre sa relation avec son amant Pamphile, puisque son père Lachès l’a forcé à épouser Philumène, qu’il ne se rappelle pas avoir violée auparavant lors d’une nuit d’ivresse et dont il ignore, par la même occasion, qu’elle est déjà enceinte de lui au moment du mariage. Philumène, ne connaissant pas l’identité de son violeur, honteuse de sa grossesse, repart chez sa mère pour accoucher. Lachès demande à Bacchis, qui se trouve avoir fait la lumière sur cet imbroglio, d’expliquer la situation à Philumène pour qu’elle retourne chez son époux. Après avoir accompli cette tâche de bon cœur pour le compte de l’homme qui a causé sa rupture avec son ex-client qu’elle aime, Bacchis se félicite d’avoir sauvé le mariage de Pamphile : Haec tot propter me gaudia illi contigisse laetor ; etsi hoc meretrices aliae nolunt ; neque enim est in rem nostram ut quisquam amator nuptiis laetetur ; verum ecastor numquam animum quaesti gratia ad malas adducam partis. Ter. Hec. 833–836 Je me réjouis que ces si nombreuses joies lui soient arrivées grâce à moi, même si ce n’est pas le genre de choses que veulent les autres courtisanes, tant il est vrai qu’il n’est pas dans notre intérêt qu’un amant soit heureux en ménage ; pour ma part, je le jure, jamais il ne me viendra à l’esprit de jouer un mauvais rôle par amour du gain.

Ce passage, entre autres, est célèbre pour avoir fait l’objet d’un commentaire de Donat à propos de la caractérisation morale de Bacchis, une caractérisation selon lui tout à fait propre au théâtre de Térence. Bacchis est, selon ses termes, une bona meretrix, formule devenue courante, chez les spécialistes de l’Antiquité, pour désigner une courtisane qui, comme la protagoniste de l’Hécyre, ainsi que celle de l’Eunuque d’ailleurs, agit au détriment de ses intérêts et laisse de côté ses sentiments personnels.71 Si Donat semble considérer la bonne prostituée comme une nouveauté térentienne, le théâtre de Ménandre se profile cependant comme un réservoir de modèles possibles, et celui de Plaute, principalement, fournit tout autant de contre-modèles, qui resurgissent notamment dans la Thaïs de l’Eunuque.72

|| 71 Cf. e.g. Don. ad Hec., pr. 1,9, p. 190 W. ; ad Hec. 834 ; ad Eun. 198. Pour une étude récente du concept de la bona meretrix chez Donat selon une perspective qui appuie l’originalité de Térence dans le cadre du théâtre latin, cf. Totola 2004. 72 Pour une conception de Ménandre comme un grand contributeur à la constitution du personnage de la bona meretrix, sinon comme son inventeur, voir e.g. Henry 1985 ; Auhagen 2009,

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Ajoutons à la définition de la bona meretrix un élément sur lequel insiste Rachel Mazzara et qui n’est qu’implicite dans les comédies de Térence : ses actes servent les intérêts de la communauté citoyenne.73 Bacchis, pour ne s’arrêter qu’à ce personnage, assure la continuité de l’ordre social préétabli, de l’institution du mariage en l’occurrence, autrement dit des valeurs qui désavouent son propre statut social. L’élément du service rendu à la cité apparaît également dans le plaidoyer prononcé en faveur de la courtisane aveugle. Sa requête recèle en effet bien davantage qu’un besoin personnel, comme le suggère un passage déjà mentionné. Par l’argument selon lequel les yeux du vir fortis doivent être sauvés parce que ses exploits passés en présagent d’autres, utiles à tous, un peu de gloire rejaillit sur la courtisane : puisqu’elle désire préserver la vue d’un sauveur de la res publica, sa demande peut avoir l’effet de protéger toute la collectivité.74 On voit là toute l’habileté du déclamateur, qui présente indirectement la courtisane comme une sorte de femina fortis. Parallèlement à la constitution de cet ethos positif, l’avocat de la Petite déclamation 297 remet en question la pertinence du nom meretrix par lequel on désigne sa cliente. Au moment où il donne son interprétation de la loi qui accompagne le thème, il tente de convaincre les juges que la décision de la peine revient à la lésée. Ce faisant, il minimise l’avantage que son adversaire pourrait tirer de la profession infamante de sa cliente : Oculos eruisti mulierculae sine dubio, et adice, si vis, meretrici : tamen quos eruere non licebat. Non es dignus qui patiaris quod vis. Ps. Quint. decl. min. 297,10 Tu as détruit les yeux d’une femme sans conteste misérable et qui, si tu tiens à l’ajouter, est une courtisane : des yeux que, malgré tout, tu n’avais pas le droit de détruire. Tu n’es pas digne de subir le châtiment de ton choix.

Dans ce passage, la désignation meretrix est une concession faite à un adversaire (cf. adice, si vis), un adversaire tel qu’il choisit ses arguments en fonction du nom que portent les choses. L’avocat signifie ainsi que le statut de sa cliente ne doit pas entrer en ligne de compte dans le cadre de ce procès, que le mode de vie associé à son nom ne peut pas servir de prétexte à une requête injuste. Cette amorce

|| 80–123. Pour une comparaison entre la bona meretrix de l’Eunuque et les courtisanes de l’œuvre de Plaute, voir Delignon 2008, 6–8 ; 13–15. 73 Cf. Mazzara 2013. 74 Cf. Ps. Quint. decl. min. 297,5 s., cité supra, p. 168.

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de réflexion sur la superficialité des clichés, sur la valeur que l’on peut accorder au titre d’une courtisane pour la juger, s’inscrit dans une tradition rhétorique qui, on le verra, a son parallèle dans la comédie. Dans la déclamation latine, le mot meretrix est diffamatoire a priori, comme l’illustre bien une sententia de la Controverse 2,4 de Sénèque. Dans cette déclamation, déjà rencontrée plus haut, un père se trouve avoir déshérité l’un de ses deux fils amoureux d’une prostituée. Le fils, parti vivre avec elle, lui fait un enfant avant de tomber malade et de mourir. Le père décide d’adopter ce petit-fils illégitime, et il est accusé de folie par son autre fils. Dans un plaidoyer contre le père, Albucius Silus se fait un plaisir d’activer la stéréotypie négative liée à la courtisane en apostrophant la concubine du fils comme une mulier quae sine praefatione honeste nominari non potes, ‘une femme dont prononcer le nom sans faire de circonlocutions est déshonorant’.75 À l’inverse, les extraits de déclamations en faveur du père et de sa volonté d’adoption cités par Sénèque tendent à créer le doute sur le bien-fondé de l’appellation meretrix, et à décrire la prostituée comme une matrone idéale. Sénèque donne cette analyse : Cum hoc unum puero noceat, quod ex meretrice natus est, omnes operam dederunt ut, quantum controversia licebat, huic vitio mederentur efficerentque ne quicquam in illa videretur meretricis fuisse nisi nomen. Sen. contr. 2,4,7 Puisque seul peut nuire à l’enfant le fait qu’il soit né d’une courtisane, tous tâchèrent, dans les limites accordées au respect de la controverse, de remédier à ce défaut et de faire en sorte que chez la femme, rien d’autre que son nom ne rappelle la prostitution.

Ainsi, pour créer un contraste entre son caractère et son nomen meretricis, le discours que met par exemple Porcius Latron dans la bouche du père, racontant sa visite à son fils mourant, dépeint la prostituée comme une épouse attentionnée au chevet de son mari. Notamment, la femme se révèle si triste qu’elle a ‘les cheveux non seulement en désordre, mais tout arrachés’.76 Un tel désintérêt pour sa toilette, aucune prostituée digne de ce nom ne pourrait se le permettre. On observe une stratégie analogue dans la Grande déclamation 15, dont la figure principale – j’y ai fait allusion plus haut – est une courtisane accusée d’avoir empoisonné son client par une potion de haine. Selon l’image que son avocat veut renvoyer d’elle, sa situation professionnelle est indépendante de sa

|| 75 Sen. contr. 2,4,6. 76 Cf. Sen. contr. 2,4,1 qualem vidi ! Ipsa fungebatur officiis ; sedula circa aegrotantis lectum in omnia discurrebat ministeria, non incultis tantum, sed laniatis capillis. ‘Vbi est’, inquam, ‘meretrix ?’

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volonté. Son nomen contredit ses mores puisque, conformément à la probitas qui la caractérise, elle préférerait mener une vie honnête d’épouse : Timeo, ne, si coepero simplicissimae puellae laudare mores, referre probitatem, amare rursus pauper incipiat. Sive enim, iudices, malignitas est persuasionis humanae formam vacantem vocare meretricem, seu miserae nomen istud inposuit aliquis amator, cui cum corporis bonis fortuna non dederat unde severi matrimonii castitati sufficeret, laboravit necessitatium suarum custodire probitatem. Ps. Quint. decl. mai. 15,2 , pp. 302,24–303,7 H. Je crains que, dès que j’aurai commencé à louer le caractère de cette jeune fille si ingénue, à faire état de son intégrité, le pauvre ne retombe amoureux d’elle. En effet, juges, soit que l’opinion humaine, dans sa malveillance, ait attribué à un concept vide de sens le mot ‘courtisane’, soit que quelque amant ait imposé ce nom à la malheureuse, à laquelle, en même temps que l’avantage de son physique, la fortune n’avait pas donné les ressources suffisantes aux honneurs d’un mariage en bonne et due forme, elle s’est efforcée de subvenir à l’intégrité de ses propres besoins.

Pour attirer la bienveillance de l’auditoire envers cette courtisane, dont d’ailleurs la description d’ensemble, comme l’a montré la critique, doit beaucoup aux stéréotypes du théâtre comique,77 le Pseudo-Quintilien met donc lui aussi en discussion la valeur du statut de meretrix pour sa cliente. La malignitas humaine est prompte à diffamer n’importe quelle jeune femme non mariée, même une puella simplicissima.78 La mise en question du nomen, topos de la rhétorique, peut servir dans la caractérisation d’une foule d’autres personnages, décrits en bonne ou en mauvaise part. Dans un passage célèbre du Pro Cluentio, par exemple, Cicéron profère contre Sassia une accusation d’infamie (quoique le terme ignominia ou infamia n’apparaisse pas explicitement à propos d’elle). Il décrit cette femme comme un monstre qui pervertit les ‘noms attribués aux liens de parenté’, nomina necessitudinum, puisqu’elle se révèle ‘l’épouse de son gendre, la marâtre de son fils, la rivale de sa fille’.79 Dans la déclamation, en particulier, l’utilisation qui en est faite par les défenseurs de prostituées peut rappeler le théâtre comique. La bona meretrix de l’Hécyre, pour revenir à son exemple, soucieuse de l’opinion que l’on se fait de ses mores, redoute qu’on la juge en fonction de son nomen. À Lachès, père

|| 77 Cf. Hömke 2002, 262 s. ; Calboli 2010, 140–149 ; Longo 2008, 33 ; Nocchi 2015, 195–197. 78 Sur l’infamia et l’ignominia dans le droit romain et dans la déclamation, voir l’article de Giuseppe Dimatteo dans ce volume. 79 Cf. Cic. Cluent. 199. À propos de ce passage et de son imitation dans la Grande déclamation 6, voir Pingoud/Rolle 2016, 158–160.

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de son ancien amant, qui devine sa surprise d’être convoquée par lui, elle répond : Ego pol quoque etiam timida sum, cum venit mihi in mentem quae sim. Ne nomen mihi quaesti obsiet ; nam mores facile tutor. Ter. Hec. 734 s. Ma foi oui, et j’ai même peur, en songeant à qui je suis, que le nom de ma profession ne me porte préjudice ; mon caractère, tel qu’il est, je l’assume sans peine.

Et si l’on veut élargir le propos, le genre de la comédie tout entier témoigne d’un jeu sur les noms propres des personnages et les traits psychologiques auxquels ils renvoient – ou ne renvoient pas d’ailleurs –, autrement dit d’un jeu de noms parlants. Ce jeu s’applique évidemment, entre autres, à des courtisanes. Dans le Truculentus, Diniarque dit à propos de sa maîtresse qui le rend fou par ses caprices excessifs : Suum nomen omne ex pectore exmovit meo Phronesium ; nam phronesis est sapientia. Plaut. Truc. 78a–78b Son nom tout entier, elle l’a chassé de mon âme, ‘Phronésie’ ; car phronesis veut dire ‘intelligence’.80

Plaute nous fournit ainsi un exemple de ‘nom non parlant’, si je puis dire, qui encourage le spectateur à se défier des enveloppes verbales, à envisager la possibilité qu’elles ne révèlent rien de ce qu’elles désignent. C’est au même type de défiance qu’est invité l’auditeur de la Controverse 2,4, de la Grande déclamation 15 et, bien sûr, de la Petite déclamation 297.

5 ... un peu blanda, forcément Pour autant, la caractérisation de la meretrix caecata n’est pas univoquement positive. Commençons par observer un phénomène qui se produit dans la comédie, où tout est souvent une question de point de vue. N’importe quelle prostituée de

|| 80 Sur les nomina loquentia dans le théâtre de Plaute en général, voir Petrone 2009. En particulier, à propos du nom Phronesium signalant la ‘qualité scénique’ de la meretrix du Truculentus, cf. ibid. 36.

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théâtre est susceptible de se révéler mala, même la Thaïs au grand cœur de l’Eunuque : elle apparaît implicitement sous un jour peu flatteur dans le prologue de son créateur, qui suggère s’être inspiré dans sa pièce des ‘méchantes courtisanes’ que d’autres ont déjà représentées.81 Car qu’elle soit plutôt bonne ou mauvaise, une courtisane de comédie se doit de faire preuve de blanditia, de manipulation séductrice. Être blanda, c’est être ‘caressante’, à la fois dans son attitude et ses paroles, c’est faire croire à son client à une relation consentie, volontaire, qui n’est pas basée sur l’argent, et c’est l’amadouer en provoquant son désir sexuel.82 Dans un passage des Amours, Ovide associe ce même adjectif aux courtisanes du théâtre de Ménandre, pourtant un promoteur de la bonne prostituée : Dum fallax servus, durus pater, inproba lena vivent et meretrix blanda, Menandros erit. Ov. am. 1,15,17 s. Tant qu’il y aura un esclave trompeur, un père sévère, une entremetteuse malhonnête et une prostituée enjôleuse, Ménandre existera.

On peut encore citer un passage de l’œuvre de Plaute, parmi tant d’autres montrant un lien inévitable entre la meretrix et la blanditia. Dans le Truculentus, l’esclave Cyame parle en ces termes de Phronésie : Velut haec meretrix meum erum miserum sua blanditia intulit in pauperiem. Plaut. Truc. 572 s. Par exemple cette courtisane, par ses cajoleries, a failli mettre mon maître dans la pauvreté.

Très vraisemblablement, quand il décrit une prostituée, tout déclamateur a en tête le cliché de la blanditia. On peut l’affirmer en se basant sur la Controverse 1,2 de Sénèque, dans laquelle, pour prouver que la requérante a vraiment exercé le métier de prostituée et / ou montrer qu’elle ne convient pas à la fonction de prê-

|| 81 D’après l’étude de Gilula 1980, le concept de la bona meretrix est galvaudé car les prostituées du théâtre de Térence sont toutes empreintes de méchanceté. Comme le montre de manière plus nuancée celle de Auhagen 2009, certaines courtisanes, Thaïs en tête, méritent pleinement de recevoir ce label ; toutefois, Térence s’adapte au goût d’un public habitué aux malae meretrices du théâtre de Plaute et fait en sorte que chaque prostituée qu’il met en scène apparaisse à un moment ou à un autre de la pièce comme une figure négative, que ce soit à travers ses actes ou à travers des jugements – parfois erronés – émis à son propos : cf. Auhagen 2009, 228–262. 82 Pour une définition analogue de la blanditia liée aux prostituées, cf. e.g. Mazzara 2013, 14.

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tresse, ses détracteurs n’ont qu’un adjectif à prononcer : blanda. Cette ligne d’attaque est, notamment, celle de Vinicius : si quis dubitabat an meretrix esset, audiat quam blanda sit, ‘s’il y avait quelqu’un pour douter qu’elle est une gagneuse, qu’il entende combien elle est séductrice’.83 Quant à la courtisane de la Petite déclamation 297, même si elle ne s’exprime pas au discours direct, elle semble par moments parler à travers son avocat. Lorsque ce dernier évoque l’empathie qu’elle éprouve pour ‘son cher ancien amant’, quondam amatoris sui, il exprime la tendresse qu’elle ressent au moyen de l’adjectif possessif, adjectif que toute prostituée de théâtre utilise, dans sa forme de la première personne du singulier, pour entrer ou rester dans les bonnes grâces d’un client en l’apostrophant.84 On entend presque la meretrix s’adresser au vir fortis en l’appelant mi quondam amator. On peut reconsidérer aussi dans la perspective de la blanditia la signification d’un passage déjà cité plus haut. Lorsqu’il évoque les souvenirs qui incitent la courtisane à épargner les yeux du vir fortis, son avocat procède, en quelque sorte, à une prosopopée indirecte : Meminit temporum superiorum, meminit illarum quas aliquando communes habuit voluptatum, meminit amoris tui. Ps. Quint. decl. min. 297,12 Elle se souvient des jours anciens, elle se souvient des plaisirs qu’elle a partagés autrefois avec toi, elle se souvient de ton amour.85

Tout d’abord, notons que le triple emploi du verbe meminisse comporte une tonalité élégiaque, si l’on pense par exemple à un cas d’intertextualité ovidienne célèbre chez les philologues : usant de l’incise memini, l’Ariane des Fastes, trompée par Bacchus, se rappelle et cite les paroles qu’elle a exprimées dans le carmen 64 de Catulle alors qu’elle avait été abandonnée par Thésée.86 Surtout, on remarque que la meretrix caecata, en invoquant la réciprocité des plaisirs qu’elle a connus avec le soldat (cf. communes), donne à penser au vir fortis que leur relation était complètement consentie de sa part, sans intérêt financier. De plus, les ‘plaisirs’ dont il s’agit dans ce contexte sont d’ordre érotique ; leur rappel peut

|| 83 Sen. contr. 1,2,12. Voir aussi ibid. 1,2,2 ; 5. 84 Pour un relevé statistique de l’utilisation du possessif par les prostituées de comédie, cf. e.g. Adams 1984, 68–73. 85 Le passage est cité supra, pp. 171 s. 86 Cf. Conte 1985, 35–45 ; Hinds 1998, 3 s.

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viser à exciter sexuellement le soldat et à le rendre ainsi plus accommodant. À moins que les juges ne soient eux la cible de ces blanda verba ? C’est d’une manière analogue que le passage dans lequel l’avocat évoque la vie malheureuse de la meretrix doit selon moi être analysé : Haec quae excaecata est, cui erepta lux est, cui omnis vita in tormentis agenda est... Ps. Quint. decl. min. 297,2 Cette femme qu’on a rendue aveugle, à laquelle la lumière a été arrachée, qui doit vivre une vie entière de tourments...

Bien entendu, l’objectif de ce tricolon riche en pathos est de provoquer la pitié du soldat et des juges envers cette femme au sort cruel. On peut détecter cependant un double sens érotique pour chacune des trois parties. 1) Le dysfonctionnement oculaire et la perte visuelle sont un thème privilégié de l’élégie, qui fournit de nombreuses métaphores dénotant la souffrance, parfois violente, dont les yeux d’un amant peuvent être victimes.87 2) Le terme lux, dans la poésie érotique, désigne la personne que l’on chérit : Properce et Ovide l’utilisent dans la tournure mea lux (ou lux mea).88 3) Le mot tormentum peut être utilisé, dans la poésie comme dans la déclamation, pour décrire la souffrance causée par l’amour.89 Ainsi, à côté de l’évocation de la cécité physique de la courtisane, on peut percevoir, à travers les mots de l’avocat, la plainte d’une femme 1) qui est aveugle d’amour, 2) que l’homme illuminant sa vie a quittée, 3) qui est en proie aux tourments provoqués par le manque de l’être aimé. Ce soupir élégiaque semble destiné, à nouveau, à attendrir le vir fortis, à mieux le faire accéder à la demande de la meretrix. Accessoirement, l’interprétation que je propose comporte l’avantage de résoudre un problème de compréhension lié au troisième élément du tricolon : le fait d’être non-voyant peut-il vraiment consister en une ‘torture’ permanente ? Car une fois passée la douleur de la blessure, une personne aveuglée ne souffre plus, ou du moins pas physiquement. C’est probablement dans l’esprit de cette

|| 87 Cf. e.g. Prop. 2,25,39 s. at vos qui officia in multos revocatis amores, / quantus sic cruciat lumina nostra dolor ; Ov. am. 2,19,19 tu quoque, quae nostros rapuisti nuper ocellos. Sur le thème de la transformation du regard opérée par l’amour dans l’élégie, voir Raucci 2011, 89–118. 88 Cf. e.g. Prop. 2,14,29 ; Ov. ars 3,524 ; am. 1,4,21 ; trist. 3,3,51. 89 Cf. Prop. 3,8,17 ; Ov. met. 14,716 ; Calp. decl. 37. La description du sentiment amoureux comme une torture est d’ailleurs déjà présente dans la comédie. Si le mot tormentum n’y apparaît pas en tant que tel, il convient de citer le monologue de l’adulescens de la Cistellaria décrivant les cruciabilitates dont il est victime : Iactor, crucior, agitor, / stimulor, vorsor / in amoris rota, miser exanimor / feror, differor, distrahor, diripior (Plaut. Cist. 206–209). À propos de ce passage, voir le commentaire de Traina 20005, 63 s.

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légère incohérence que M. Winterbottom évoque la possibilité, dans son apparat critique, que le mot tenebris se cache derrière celui de tormentis. Tenebris constituerait un écho, dans ce contexte, au vers de l’Enéide dans lequel Sinon se lamente auprès des Troyens : adflictus vitam in tenebris luctuque trahebam.90 Si la conjecture, acceptée par D. R. Shackleton Bailey dans son édition des Minores, est très jolie, elle n’est peut-être pas nécessaire sous le rapport des allusions érotiques que l’on peut repérer dans ce passage. Le déclamateur continue donc son numéro de funambule : tout en montrant la courtisane sous son meilleur jour possible, il la fait correspondre au stéréotype, plutôt négatif, de la blanditia. Quelle peut être la raison de ce choix ? D’une part, faire voir ce profil moins avantageux de la meretrix rend le personnage crédible en fonction de l’horizon d’attente du lecteur / auditeur. De l’autre, la blanditia est, somme toute, un moyen de persuasion parmi d’autres, et l’avocat aurait tort de s’en passer.

6 La Petite Déclamation 297, un autre Pro Caelio ? La validité des nombreux liens que l’on peut établir entre notre déclamation et la comédie est renforcée par le biais d’une allusion au Pro Caelio que l’on trouve dans le texte. La Petite déclamation 297 commence par une longue phrase, aux subordonnées diverses et variées, qui souligne la situation paradoxale occasionnant le plaidoyer : S i q u i s , i u d i c e s, lege adversus eos qui excaecaverunt ita composita ut aut talionem patiantur aut aliquatenus solacium iniuriae praestent, l i t e m e s s e a u d i a t , altera parte similem fortunam exigente, altera mitiorem partem legis amplectente, p r o f e c t o existimet hanc mulierem id postulare ut excaecetur is qui sibi oculos eruit, illum autem virum fortem fiducia meritorum erga rem publicam sperare posse fieri ut contra voluntatem quoque eius quae vindicatur oculos defendat. … Id omne diversum est. Ps. Quint. decl. min. 297,1 s. Si quelqu’un, juges, compte tenu du fait qu’une loi contraint les gens ayant rendu quelqu’un aveugle soit à subir le talion, soit à fournir une sorte de compensation au dommage causé, apprenait qu’il y a litige, que l’une des parties exige la parité du sort tandis que l’autre s’attache à l’option la plus charitable de l’alternative légale, il penserait aussitôt que cette femme demande à ce que l’homme qui lui a détruit les yeux soit privé de la vue, et que

|| 90 Verg. Aen. 2,92.

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ce héros, quant à lui, fort de ses mérites envers l’Etat, espère pouvoir protéger ses yeux contre la volonté même de la lésée. Toute différente est la situation.

Ce début est comparable à l’exorde du Pro Caelio, également rempli de phrases enchâssées, et qui met aussi en évidence une absurdité, celle de l’importance donnée à une affaire dont Cicéron présente le futur verdict comme évident S i q u i s , i u d i c e s, forte nunc adsit ignarus legum, iudiciorum, consuetudinis nostrae, miretur p r o f e c t o quae sit tanta atrocitas huiusce causae, quod diebus festis ludisque publicis, omnibus forensibus negotiis intermissis, unum hoc iudicium exerceatur, nec dubitet quin tanti facinoris reus arguatur, ut eo neglecto civitas stare non possit ; idem cum a u d i a t e s s e l e g e m, quae de seditiosis consceleratisque civibus, qui armati senatum obsederint, magistratibus vim attulerint, rem publicam oppugnarint, cotidie quaeri iubeat, legem non improbet, crimen quod versetur in iudicio, requirat. Cic. Cael. 1 Si quelqu’un, juges, se trouvait ici par hasard étranger à nos lois, à nos tribunaux, à nos coutumes, il se demanderait aussitôt quelle atrocité énorme sous-tend une telle affaire, dans la mesure où, en ces jours de fêtes et de jeux publics, alors que toutes les autres activités judiciaires sont suspendues, seul ce procès se déroule, et il ne douterait pas que l’accusé est inculpé pour un crime si grand que le négliger ferait s’écrouler l’Etat ; quand cette même personne apprendrait qu’il y a une loi ordonnant que, quel que soit le jour, on étudie le cas des citoyens fauteurs de troubles et criminels qui ont assiégé le Sénat par les armes, fait violence à des magistrats, attaqué l’Etat, il ne désapprouverait pas cette loi, il demanderait sur quelle accusation repose le procès.

Cicéron donne d’emblée la réponse à la question que poserait un ignarus : l’accusation basée sur la lex de vi91 est une pure fiction, et il ne valait pas la peine de convoquer un tribunal pour si peu, surtout en un jour qui devrait être dédié à l’otium. Joachim Dingel n’ayant signalé qu’en passant la similarité du début de la Petite déclamation 297 et de celui du Pro Caelio, on peut tenter de décrire l’effet d’écho et d’interpréter ses implications sur la compréhension du texte.92 Outre l’usage commun de la figure de rhétorique consistant à amoindrir l’importance d’une chose qu’un interlocuteur considère comme primordiale, identifiée par Matthew Leigh comme meiosis,93 trois similarités verbales peuvent être relevées : 1) l’identité parfaite des trois premiers mots ; 2) l’effet de chiasme phonique produit entre audiat esse legem et litem esse audiat ; 3) l’emploi de l’adverbe profecto,

|| 91 Pour l’identification de cette loi, voir e.g. Austin 19603, 42 s. 92 Cf. Dingel 1988, 43 s. 93 Cf. Leigh 2004, 302.

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qui dénote dans les deux prooemia le caractère immédiat de la réaction que pourrait avoir une personne externe au procès. Pour écarter tout doute possible concernant l’intentionnalité qui préside à ces similitudes, il convient de noter que la référence au grand orateur fait partie des habitudes du maître, qui imite ou cite clairement Cicéron à d’autres reprises.94 De plus, le public des Minores est probablement censé connaître par cœur le Pro Caelio, et surtout ses premières phrases, si l’on songe que ce discours est mentionné comme modèle une trentaine de fois dans l’Institution oratoire, dont deux fois à propos de l’exorde.95 L’écho au Pro Caelio paraît constituer davantage que la simple imitation d’une technique oratoire limitée à un endroit précis du discours. Sa fonction est, je crois, de révéler un aspect important de l’ensemble de la Petite déclamation 297, de signaler au public, dès les premiers mots de l’exorde, une réécriture du discours entier de Cicéron. Si l’on compare les deux textes, on peut recenser plusieurs similitudes. La déclamation des Minores, nous l’avons vu, décrit un monde de ruses et de manipulations qui rappelle la comédie. Il en va de même dans le discours de Cicéron, comme le montre la suite de l’exorde. D’après l’orateur, on l’a dit, l’accusation n’est pas du tout fondée. Elle n’est qu’un stratagème inventé par la partie adverse, dont deux des représentants ont un intérêt personnel et inavoué à faire tomber Caelius. Atratinus, l’un des accusateurs, cherche à éviter des ennuis à son père, en poursuivant l’homme qui traduit ce dernier en justice pour la seconde fois (cf. accusari ab eius filio, quem ipse in iudicium et vocet et vocarit). Et on comprend déjà vaguement que le témoin à charge, Clodia, a fait des ‘caprices’ (cf. libidinem muliebrem) lorsque Caelius a rompu leur relation, et qu’elle veut se venger de lui.96 La thématique des faux semblants, de même que dans la Petite déclamation 297, va de pair avec une caractérisation comique des personnages. Les individus qui apparaissent dans le Pro Caelio, comme l’a bien mis en évidence la critique contemporaine, sont modelés à partir de figures théâtrales.97 Dès l’exorde, Caelius est évoqué comme un adulescens, bien qu’au moment du procès il ait près d’une trentaine d’année et déjà une belle carrière derrière lui (cf. adulescentem nobilem inlustri ingenio, industria, gratia). Clodia apparaît comme une meretrix, || 94 Cf. Ps. Quint. decl. min. 259,12 ; 307,2 ; 388,11 ; 29 ; 32. 95 Cf. Quint. 4,1,31 ; 39 ; 9,2,39. 96 Cette rupture reste d’ailleurs évoquée à demi-mot dans tout le discours. Elle n’est jamais plus explicite que dans l’hypothèse proposée au § 61 : sin autem iam suberat simultas, exstincta erat consuetudo, discidium exstiterat, hinc illae lacrimae nimirum et haec causa est omnium horum scelerum atque criminum. 97 Cf. e.g. Geffcken 1973 ; Leigh 2004 ; Moretti 2006 ; Tatum 2011.

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alors qu’elle vient d’une famille influente de la noblesse (cf. opibus meretriciis). La désignation de l’un et l’autre de ces anciens amants nous amène au thème de l’amour tel qu’il est dépeint dans la comédie. On peut relever dans le discours de nombreuses autres références au théâtre, dont les plus évidentes sont : la description d’Herennius, un autre accusateur, comme un père sévère à l’encontre de l’adulescens Caelius (§ 25) ;98 un jeu de rôle de Cicéron, s’adressant à Caelius comme s’il était lui aussi son père et lui reprochant son imprudence d’avoir fréquenté une meretrix, jeu de rôle qui fournit l’occasion de citer des vers de Caecilius et de Térence (§§ 37 s.) ; l’assimilation des manigances de Clodia, que Cicéron soupçonne d’avoir inventé une accusation d’empoisonnement, au ‘sketch d’une vieille comédienne qui a joué bien d’autres pièces’ (fabella veteris et plurimarum fabularum poetriae) ou encore, plus spécifiquement, à une intrigue de mime (§§ 64 s.). À ces éléments s’ajoute le recours à une prosopopée dans laquelle Cicéron laisse la parole à Appius Caecus, blâmant pour sa conduite sa descendante Clodia (§ 34).99 L’orateur, commentant l’irruption de cette illustre figure romaine dans son discours, note avoir ‘introduit sur scène un personnage austère’ (cf. gravem personam induxi) (§ 35). La technique de la prosopopée est également bien présente dans la Petite déclamation 297. Outre l’entreprise de séduction dont semble faire preuve la courtisane à travers le discours de son avocat, outre la citation des paroles du vir fortis motivant sa requête, il faut souligner la mise en scène, plus surprenante peut-être, des réflexions du législateur ayant édicté la loi sur l’excaecatio. Le déclamateur imagine, au discours direct, la cogitatio qui sous-tend l’énoncé de l’alternative.100 Pour accompagner le réseau d’allusions à la comédie qu’il met en place, Cicéron insiste, de manière analogue au maître des Minores, sur le champ lexical de la vision. Contentons-nous de mentionner, avec Katherine Geffcken, les multiples occurrences du verbe videre, qui apparaît sous des formes variées dans l’ensemble du discours, et notamment dans ce passage très révélateur : Si quae non nupta mulier domum suam patefecerit omnium cupiditati palamque sese in meretricia vita conlocarit, virorum alienissimorum conviviis uti instituerit, si hoc in urbe, si in hortis, si in Baiarum illa celebritate faciat, si denique ita sese gerat non incessu solum, sed ornatu atque comitatu, non flagrantia oculorum, non libertate sermonum, sed etiam

|| 98 La numérotation entre parenthèses renvoie aux paragraphes du Pro Caelio. 99 À propos de la technique de la prosopopée dans le Pro Caelio, cf. e.g. Moretti 2007. Sur ce même aspect dans le Pro Milone, voir Casamento 2012. 100 Cf. supra, pp. 166 et 182 s. et Ps. Quint. decl. min. 297,9. Pour une théorie de la prosopopée comme un élément reliant la déclamation au théâtre, cf. van Mal-Maeder 2007, 42–46.

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188 | Julien Pingoud

complexu, osculatione, actis, navigatione, conviviis, ut non solum meretrix, sed etiam proterva meretrix procaxque videatur, cum hac si qui adulescens forte fuerit, utrum hic tibi, L. Herenni, adulter an amator, expugnare pudicitiam an explere libidinem voluisse videatur ? Cic. Cael. 49 Imaginons qu’une femme non mariée ait ouvert sa maison au plaisir du monde entier et qu’elle se soit livrée, devant les yeux de tous, à une vie de prostituée, qu’elle ait entrepris de fréquenter des banquets donnés par de parfaits inconnus, imaginons que cette femme agisse de la sorte à la ville, dans ses jardins, au milieu de la foule qui afflue à Baïes, imaginons enfin que non seulement par sa démarche, mais aussi par sa parure et sa suite, non seulement par l’ardeur de ses yeux, par la licence de ses propos, mais aussi par ses enlacements, ses baisers, sa gestuelle, ses excursions aquatiques, ses banquets, elle paraisse se comporter non pas tant comme une simple prostituée que comme une prostituée effrontée et sans vergogne : si d’aventure un jeune homme avait une relation avec elle, Herennius, vous semblerait-il être un pervers sexuel, ou bien un client de courtisane ? Donnerait-il l’air de vouloir plutôt attenter à la pudeur, ou assouvir un fantasme ?101

À part videatur, présent deux fois à la fin du passage dans l’évocation de l’adulescens Caelius, on relève d’autres termes liés à la vision (ou au paraître) dans la description du train de vie de Clodia : patefecerit, palam, celebritate. Comme le suggère Cicéron, cette non nupta mulier, telle une comédienne ou un personnage de théâtre, se donne en spectacle sans relâche. Parachevant son rôle de meretrix, elle peut d’ailleurs à son tour se révéler une spectatrice vorace lorsqu’elle utilise le ‘feu de ses regards’ (cf. flagrantia oculorum). Au vu des parallèles signalés dans les deux textes, on peut affirmer que dans la Petite déclamation 297, l’écho initial au Pro Caelio a une valeur programmatique. Tout comme Cicéron, le maître des Minores structure son projet rhétoricolittéraire, dans sa globalité, par une référence au théâtre. Tout comme lui, peuton dire, il invite implicitement son auditeur, par le recours au thème de la vue, à assister de ses propres yeux à la comédie qui se joue dans son discours.

7 Conclusion : puis ils se marièrent ? En incitant son public à comparer la personnalité de la meretrix caecata avec celle de l’être odieux décrit par Cicéron, l’avocat de la Petite déclamation 297 fait ressortir la grandeur d’âme de sa cliente : elle refuse que l’on mutile son ex-amator, tandis que Clodia tente de perdre son ancien amant. En Clodia, femme de la noblesse, se cache la plus vile des courtisanes. Quant à la protagoniste des Minores, || 101 Cf. Geffcken 1973, 18 ; 47–50.

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Le théâtre dans les Petites déclamations | 189

en bona meretrix, elle se révèle telle que la meilleure matrone peut l’être. Les comédies, parfois, se terminent par le mariage d’une meretrix dont on apprend qu’elle est en réalité une honnête citoyenne.102 On peut alors envisager que l’objectif inavoué de la courtisane aveugle est de conclure avec son héros de guerre le contrat d’un ‘véritable mariage de farce’. On peut s’imaginer, en tout cas, qu’en se servant de son arme la plus efficace, la blanditia, elle cherche à convaincre le soldat non seulement d’assumer une fonction de dux ‘guide’, mais aussi de redevenir le dux ‘amant’ qu’il était pour elle auparavant, de reprendre son statut d’amator. Elle aimerait qu’envers elle il se comporte, comme l’amant tibullien par exemple, en dux milesque bonus.103 Elle rêverait d’être, comme la puella décrite par Ovide, le trophée d’une guerre érotique menée par un ‘homme courageux’ : io ! forti victa puella viro est.104 Si quelque visiteur romain de la même époque, débarquant à Sophistopolis, avait assisté par hasard au procès intenté par la courtisane à son ancien amant, auraitil saisi tout de suite les intentions réelles que cachaient leurs demandes respectives ? Oui, c’est possible. Si en tout cas ce visiteur avait été Tacite, la culture et les procédés littéraires qu’il partage avec le maître des Minores ne lui auraient laissé aucun doute sur l’identité de la meretrix caecata et du vir fortis. L’auteur des Annales, en effet, se sert lui aussi du répertoire comique pour la caractérisation de personnages : dans l’épisode de la conjuration de Pison, on retrouve les modèles de la bona meretrix et du miles gloriosus appliqués au couple formé par l’affranchie Epicharis et l’officier Volusius Proculus.105 Leur histoire à eux, du moins, ne s’est pas terminée par un mariage.

|| 102 Voir par exemple la Perikeiromene et le Misoumenos de Ménandre, ainsi que l’Eunuque de Térence. 103 Tib. 1,1,75. 104 Ov. am. 1,7,38. 105 Voir à ce sujet Benferhat 2013.

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Alfredo Casamento

Come un figlio: variazioni tematiche e modalità narrative A proposito di Sen. contr. 10,2 e decl. min. 258

1 Introduzione Secondo la versione drammatica virgiliana, una celebre immagine tratta dalla notte della caduta di Troia trae inizio da una domanda, all’apparenza ingenua, con cui, ormai a suo agio all’interno del banchetto allestito da Didone, Enea intende soddisfare la probabile curiosità della regina circa la morte di Priamo (2,506 forsitan et Priami fuerint quae fata requiras). La scena parte da lontano – Enea che guarda dall’alto, impotente, la strage dei Troiani dentro il palazzo reale – per poi ‘stringere’, puntando, in un intenso primo piano, sul re che indossa le sue vecchie armi. Così costruita, tale vivida rappresentazione è un caso da manuale della tecnica epica virgiliana: tutto trasuda pathos e compartecipazione, senza che una sola incrinatura faccia abbassare, anche per un momento, la tensione della narrazione.1 Il gesto di Priamo, velleitario ma non per questo inutile, concentra al suo interno molti significati, ma, soprattutto, sintetizza un modo di pensare l’eroismo, che travalica i limiti imposti al fisico dall’età che avanza.2 Si tratta di una maniera

|| 1 Ottima la ricostruzione di Heinze 1996, 64: ‘è penoso, se non ridicolo, immaginarsi Enea spettatore impotente sul tetto mentre accadono questi tragici fatti. Per attenuare questa sensazione, Virgilio è ricorso ad un espediente originale… la narrazione procede in modo che il narratore scompare dal nostro orizzonte e noi non abbiamo più la sensazione di ascoltare un testimone oculare: anzi, siamo autorizzati a dubitare che Enea sia stato spettatore diretto dei fatti così come egli li riporta’. Per Austin 1964, 198 il resoconto di Enea ha le fattezze del racconto di un messaggero (‘it is also possible to regard the scene as something corresponding to a Messenger’s speech: although in one sense the whole Book has an affinity with a “messenger” narrative… this scene, the heart of the tragedy, shows the manner in a stricter sense: Aeneas personal participation has taken on the objectivity of a mere reporter’. Sul punto anche Caviglia 1988b. 2 Mi pare riproduca bene tale simbologia un passo dei Tristia ovidiani (4,1,71–74), in cui, come ben dimostra Degl’Innocenti Pierini 2007, Ovidio riprende l‘immagine, di conio virgiliano, di Priamo senior con le armi in pugno.

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192 | Alfredo Casamento

molto romana di concepire l’atto eroico e infatti della scena non si rintracciano antecedenti immediati nell’epica greca.3 Armi desuete, spalle tremanti, spada ‘inutile’ che cinge il fianco: così il re intende gettarsi nella mischia, pronto a morire (2,509–511 arma diu senior desueta trementibus aevo / circumdat nequiquam umeris et inutile ferrum / cingitur ac densos fertur moriturus in hostis). È noto come andrà a finire: alla vista del vecchio sposo con le armi di un tempo ormai remoto, Ecuba lo rimbrotterà bonariamente, esortandolo piuttosto a raggiungere lei che, insieme alle figlie, cercava rifugio presso un altare (2,515–525). Ma poi la morte del figlio Polite,4 straziato da Pirro, accenderà nel vecchio re un intenso desiderio di rivalsa: sic fatus senior telumque inbelle sine ictu / coniecit (vv. 544 s.).5 Naturalmente, il giovane figlio di Achille non avrà esitazioni a respingere la lancia, prontamente bloccata dal suo scudo, fino a quando, trascinato Priamo che scivola sul sangue di Polite, con un colpo di spada gli staccherà la testa dal busto, abbandonando i resti dispersi lungo la riva del mare (vv. 545–558). Il racconto di una morte è, piuttosto che una fine, l’inizio di un motivo, destinato a incidere con forza nella memoria letteraria, che parla con linguaggio chiaro e solenne di virtù e atti eroici estremi in considerazione del contesto in cui avvengono – un palazzo ormai interamente conquistato dai nemici – e dell’età del protagonista. Se ne potrebbero derivare molte conclusioni. Una su tutte colpisce ed è quella che riguarda le armi giovanili, che Priamo indossa dopo averle dismesse da tempo. Con una probabile sovrapposizione di sensi si tratta di ‘armi desuete’ in una

|| 3 ‘In Virgilio la scena (della morte sc.) è arricchita da una serie di motivi complementari: il ricorso di Priamo alle armi, la presenza di Ecuba … non conosciamo alcuna versione del mito che avesse qualcosa del genere’ così Heinze 1996, 65, che tuttavia esprime molti dubbi sul fatto che l’intera scena possa essere considerata una novità virgiliana, anche alla luce di alcuni particolari figurativi, dove sembrerebbe identificarsi un qualche richiamo alle armi. Sulla tradizione mitografica della morte del re, oltre ad Heinze 1996, 65 s., cf. anche Heyne 1832, 429 s. 4 Sul trattamento virgiliano di Polite, ‘esangue personaggio iliadico’, cf. Caviglia 1988a. 5 Per quanto non abbia precedenti diretti, l’episodio della morte di Polite ha valenza strutturale in quanto serve ad elevare la narrazione fornendola di intonazione drammatica: Priamo ‘ha deciso di morire da guerriero e … nel veder cadere il figlio il vecchio eroe ha un sussulto d’orgoglio e muore da guerriero’ (Heinze 1996, 66). La tradizione vascolare prevedeva Astianatte morente davanti agli occhi del nonno. Forse in considerazione della fortuna che ebbe l’altra versione della morte del giovane figlio di Ercole e Andromaca dalle mura di Troia, Virgilio introduce quella di Polite, personaggio di cui si ricordano poche imprese in Omero. Austin 1964, 209 rileva il singolare ricorso all’aggettivo imbellis, solitamente adoperato per indicare chi si trovi a vario titolo a non poter combattere come donne o bambini: così ‘the spear is “feeble”, with non fight in it, an old man’s weapon, just as Priam’s sword is inutile’.

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Come un figlio: variazioni tematiche e modalità narrative | 193

doppia accezione: sono certamente dismesse, in quanto abbandonate da tempo ma anche, con enallage dell’aggettivo, potrebbe essere Priamo disabituato alle armi, perché ormai molto avanti negli anni.6 Il risultato è straordinario:7 il discorso risulta come sospeso tra un’attribuzione letterale pienamente legittima e dotata di senso ed una trascinata dall’effetto di eco dettato dalla figura retorica: ne emerge un rapporto strettissimo, come una marca inscindibile, tra Priamo e le armi. Tanto più vero e netto l’atto eroico, quanto più inverosimile data l’età e le spalle tremanti, a malapena in grado di sorreggere l’armatura. Nondimeno, la pagina virgiliana dice molto di più: vi si scorge infatti una singolarissima triangolazione tra figli, che muoiono riaccendendo il coraggio bellico di anziani ormai prostrati dalla vecchiaia – è il caso del rapporto tra la morte di Polite e l’atto eroico di Priamo –, e giovani che tralignano dalla memoria delle imprese familiari, macchiandosi di azioni contro l’etica bellica paterna (si tratta naturalmente di Neottolemo e dei tristia facta che Priamo, una volta sceso nell’Ade, dovrà narrare ad Achille in relazione a quel figlio degener, vv. 547–549). Nella figurazione di Priamo, un vecchio con le armi in pugno, si scorge dunque il nucleo di una decisa, per quanto non canonica, costruzione eroica; un modulo che, in maniera tutt’altro che sorprendente, parla ad un pubblico romano con linguaggio assolutamente romano. Vorrei fornire un ulteriore esempio tratto dal fertile campo delle declamazioni.8

2 Eroismi di famiglia Nel ricco dossier che riguarda le contese tra padre e figlio9 proprio del repertorio declamatorio si segnala un motivo, all’apparenza minoritario ma di sicura efficacia, che pone il confronto/conflitto generazionale nel più ampio scenario di una guerra e di ciò che essa impone in termini di atti eroici.

|| 6 Il che puntualmente contempla Servio (ad Aen. 2,509): ARMA DESUETA: ab hominis consuetudine: sensum ad arma transtulit. ARMA DESUETA: Id est quae iam pugnare desierant. 7 Vd. Conte 1996, 18 dove peraltro si afferma che ‘l’enallage, per la sua intrinseca economicità, potrebbe essere considerata il procedimento più rappresentativo del classicismo virgiliano’. 8 Esiste un’ampia e consolidata relazione tra declamazione e poesia, che in qualche misura intendiamo qui richiamare. Su di essa indaga, facendo anche il punto sulla letteratura critica precedente, Berti 2015a. 9 Tema ormai ampiamente al centro degli studi sulle scuole di declamazione: cf., oltre a Thomas 1983, Sussman 1995; Bloomer 1997; Richlin 1997; Lentano 1998 e 2009; Gunderson 2003; Vesley 2003; Fantham 2004; Corbeill 2007; Lupi 2015, in relazione alle declamazioni 5 e 6 di Coricio.

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194 | Alfredo Casamento

La storia che con qualche variazione due testi in particolare si fanno carico di raccontare ha per protagonisti due uomini, un padre ed un figlio, entrambi viri fortes.10 Su questo dato, per così dire neutro, non vi sarebbe nulla da osservare: un padre ed un figlio che combattono sullo stesso fronte, distinguendosi per il loro valore, inverano qualcosa su cui la mentalità latina si è da sempre esercitata, in quanto offrono una prova immediatamente tangibile e ‘in sincrono’ di quella trasmissione ereditaria di comportamenti che deve virtuosamente scandire i rapporti funzionali padre/figlio. Se, come ci è noto da innumerevoli testi letterari ed epigrafici, pensare al maschile la trasmissione ereditaria di fatto coincide, se non proprio si esaurisce, in una esatta ‘replicazione’ dei comportamenti esemplati dal padre – ed è questa la ragione per la quale Virgilio a buon diritto potrà dire che Neottolemo, che pure ha ucciso il re nemico, ha degenerato da Achille –, il caso determinatosi su un medesimo campo di battaglia in cui padre e figlio combattono l’uno a fianco dell’altro da viri fortes sembrerebbe offrire una riuscita saldatura tra educazione familiare, atto eroico e riproduzione dei paterna facta.11 In questa circostanza, l’esempio paterno non sarebbe virtualmente affidato al ricordo, ma colto in atto e immediatamente replicato. Ora, se questo è certamente vero, a giudicare da come funziona il complesso mondo delle declamazioni,12 dovrà essere vero solo in parte: così da un riuscito e convincente accordo, che promuove proiettandola sullo scenario aperto della guerra l’importante missione sociale di una gens (identificando in essa il suo tratto costitutivo, quello determinato dal rapporto agnatizio pater / filius), l’esito finale giunge a turbare il quadro apparentemente idilliaco. Il dopo sconvolge il

|| 10 Sulla figura del vir fortis nelle declamazioni di scuola ottimo Lentano 1998. Le idee qui discusse trovano in quel saggio molto più che un ancoraggio preciso. Vd. adesso Bernstein 2013, 62–64. 11 Qualcosa del genere ho affrontato, nella prospettiva d’indagine volta a sondare i rapporti tra retorica declamatoria e tragedia a partire dai rapporti padre-figlio, in Casamento 2012a. Il richiamo ai facta paterna quale motivo ispiratore delle scelte di vita di un figlio è esemplarmente tracciato nell’elogium di Gneo Cornelio Scipione Ispano (CIL I2 15= ILS 6), in cui cruciale nella vita del defunto (nonché elemento di lode per la gens) è l’aver accresciuto le virtù del genus attraverso i mores, l’aver generato figli, l’aver ripercorso le imprese paterne (virtutes generis mieis moribus accumulavi / progeniem genui, facta patris petiei. / Maiorum optenui laudem, ut sibei me esse creatum / laetentur: stirpem nobilitavit honor). Sul testo Till 1970; Courtney 1995; Massaro 1997; Hölkeskamp 2004; McDonnell 2006, 38 s. 12 A ben guardare, non è solo in ambito declamatorio che una concomitante presenza di padre e figlio in battaglia risulta problematica. Lentano 1998, 33 ricorda come non siano ‘rari, nella tradizione storica e biografica romana, casi di padri e figli presenti contemporaneamente sul campo di battaglia’; aggiungendo che in tali circostanze ‘che padre e figli combattano insieme è … una situazione “marcata”, narrativamente feconda’.

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Come un figlio: variazioni tematiche e modalità narrative | 195

prima, determinando una radicale inversione di prospettiva. Elemento determinante di tale cambiamento è il premio. Ed è proprio su questo dato fattuale che l’universo ficzionale13 della retorica declamatoria dà il meglio di sé. Se infatti esiste una legge declamatoria che accorda al vir fortis di poter optare tutto ciò che desidera,14 ve n’è un’altra che limita ad uno solo l’ottenimento di tale privilegio. Non tanti premi quanti sono i viri fortes, ma un solo premio che la platea potenziale di viri fortes dovrà dunque contendersi. Nell’ampio universo declamatorio il praemium ha una sua considerevole fortuna, come il regesto curato da Michael Winterbottom a conclusione della sua edizione delle Declamationes minores testimonia.15 Va da sé, tuttavia, che in questa circostanza la menzione del riconoscimento che spetta al vir fortis interviene con determinazione non tanto quale elemento generatore di un conflitto tra due uomini che hanno entrambi ben operato a salvaguardia dello Stato, ma come realtà che mette in discussione i rapporti tra un pater ed un filius, ‘catalizzatore del conflitto padre-figlio’ secondo una definizione felice di Lentano.16 Si ha davvero la sensazione che quello che si realizza all’interno delle scuole di declamazione funzioni un po’ come un esperimento da laboratorio: cosa succederebbe se ad un dato insieme di elementi se ne aggiungesse un altro? Che tipo di reazione si potrebbe attendere?17 Vir fortis (o viri fortes) e premio costituiscono dunque il binomio su cui ruotano i testi selezionati, che, come vedremo, presentano una significativa alternativa in

|| 13 Sull’impiego del termine in relazione alla narrativa declamatoria mi rifaccio all’importante lavoro di van Mal-Maeder 2007. Cf. adesso Casamento 2015. 14 Il motivo è topico delle scuole di declamazione. Attestata in due formulazioni, vir fortis optet quod volet e viro forti praemium, la lex declamatoria compare (o vi si allude) ripetutamente nella prassi declamatoria tanto nelle Declamationes minores (258; 266; 294; 295; 367; 371; 387, cf. Lanfranchi 1938, 389; Winterbottom 1984, 597; Wycisk 2008, 217–219 e in generale Bonner 1949, 88; Lentano 1998 e Stramaglia 2013, 83 s.), quanto negli altri corpora (Sen. contr. 8,5 e 10,2; Calp. decl. 26, 27, 28, 32, 36; decl. mai. 4) e nella trattatistica anche con qualche variante (Quint. 7,1,25; 7,5,4; Fortun. rhet. 1,4, p. 84, 5 H. = 70, 20–22. Calb. Mont.; Iul. Vict. ars, p. 383, 36 H. = 17, 1 Giom. Cel.). 15 Winterbottom 1984. Per l’essenziale, vd. già Bonner 1949, 88. Sul punto adesso Wycinsk 2008, 215: ‘Die rhetorischen Schriften problematisieren die Thematik der militärischen Belohnungen häufig’. 16 Lentano 1998, 19. 17 Ha ragione Lentano 2009a, 49 a ricordare come nel codice costitutivo delle declamazioni debba esserci la necessità di un forte contraltare. In tal modo sarà necessario ‘contrapporre all’autorità paterna poteri o istanze cui il codice culturale riconosca analoga legittimazione’.

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196 | Alfredo Casamento

relazione al modo di risolvere il conflitto: processo o duello.18 Il primo dei due testi, la controversia 10,2 della raccolta di Seneca il Vecchio, presenta in prima battuta la citazione diretta delle leggi che inquadrano la vicenda, seguita dal thema: Vir fortis quod volet praemium optet; si plures erunt, iudicio contendant. Pater et filius fortiter fecerunt. Petit pater a filio sibi cederet; ille non vult. Iudicio contendit; vicit patrem. Praemio statuas patri petivit. Abdicatur. Sen. contr. 10,2, th. L’eroe di guerra scelga il premio che preferisce; se ve ne sarà più di uno, faranno valere i loro diritti in un processo. Padre e figlio hanno combattuto eroicamente. Il padre ha chiesto al figlio di farsi da parte; quello non ha voluto. Va a processo e sconfigge il padre. Ha poi chiesto quale ricompensa che si erigano statue al padre. Viene ripudiato.

In questa circostanza il thema declamatorio prevede l’immediato sorgere del conflitto in coincidenza con il riconoscimento da parte della collettività dell’eroismo dimostrato dai due uomini. Allorquando entrambi fortiter fecerunt, condizione per la quale sono dunque riconosciuti quali viri fortes, il padre sollecita il figlio a farsi da parte.19 Rispetto dunque a quel che in casi di questo genere sarebbe prescritto dalla legge, secondo la quale in presenza di più viri fortes solo uno dovrà riscuotere il premio, ottenendolo dopo un iudicium, in forza della propria autorità || 18 Se la controversia 10,2 è l’unico testo declamatorio in cui la soluzione del conflitto appare affidata al iudicium, la variante del ricorso alle armi è presente oltre che in decl. min. 258 anche in decl. min. 271. Su questi testi, fondamentale Lentano 1998, spec. 17–23. Il premio come elemento di disturbo della relazione padre-figlio doveva trovare spazio anche in un altro testo, giuntoci purtroppo in forma di excerptum: si tratta della controversia senecana 8,5 in cui, dopo aver subito l’abdicatio, un giovane, divenuto frattanto vir fortis, chiede come ricompensa il ritorno dal padre, che però si oppone. Divenuto poi il padre a sua volta vir fortis desidera anch’egli il ritorno del figlio, che a questo punto si oppone. Anche in questo testo appare dunque, sia pur sotto traccia, l’idea di una competizione generazionale su chi tra i due uomini possa considerarsi più meritevole del premio. Questo il thema: Abdicavit quidam filium; ille tacuit. fortiter fecit; petit praemio ad patrem reditum; pater contradixit. postea pater fortiter fecit; petit ad se filii reditum; filius contradicit. 19 Così deve ovviamente intendersi l’espressione sibi cederet. Dissento, di conseguenza, dalla traduzione di Zanon Dal Bo: ‘il padre ha chiesto al figlio di lasciargli il premio’. È ovvio che il padre intende rivendicare il premio per sé, ma per farlo deve evitare di avere un rivale. La semplice acquisizione dello status di vir fortis non comporta di per sé l’ottenimento del premio in presenza di un altro vir fortis. Dunque, il padre non può effettivamente chiedere al figlio di lasciargli il premio, ma di ritirarsi (Winterbottom 1974, 388: ‘the father asked the son to give way to him’), rinnegando di fatto il proprio ruolo di vir fortis e dunque impedendo che le procedure relative al riconoscimento del vincitore possano esser avviate. Peraltro, il padre non può chiedere al figlio di cedere il premio, perché ciò equivarrebbe ad un riconoscimento esplicito della superiorità del giovane.

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il padre chiede al figlio di violare lo spirito che anima la legge, sottraendosi al iudicium per consentirgli di ottenere il premio. Davanti al diniego del giovane, l’iter fissato dalla legge segue il suo corso procedurale: il processo viene celebrato, vedendo il successo del ragazzo. Giunge a questo punto la soluzione del conflitto con cui nei fatti si apre la controversia: da una parte, il giovane sceglie come ricompensa che vengano erette statue per il padre, dall’altra, il padre risponde con l’abdicatio. Da questa rapida disamina del thema emerge come padre e figlio siano solo all’apparenza alla pari: entrambi sono viri fortes, quindi virtualmente vincolati a seguire il dettato della legge che imporrebbe lo svolgimento del processo; ma questa situazione di parità sembra nei fatti solo un aspetto della questione e nemmeno il più importante. Il padre infatti fa appello ad un’autorità, superiore alla legge, che coincide con le prerogative statutarie riconosciute ai patres latini. A Roma, per dirla in breve, un padre deve venir prima. Sempre e comunque. E proprio su questo il padre della nostra controversia sembra mantenere il punto. Se, come si dice in un passo molto noto agli studiosi di declamazione, il nomen del padre è più forte di qualsiasi legge,20 tanto più dunque nella prospettiva ridotta, ma tutto sommato sufficientemente rappresentativa, di questo testo, anche il iudicium deve venire dopo. Cioè non celebrarsi affatto. Essere costretti al processo è dunque già di per sé una sconfitta. Il ricorso al verbo cedo appare da questo punto di vista particolarmente eloquente: indica la pretesa paterna di non uscire dal centro della scena. Il padre della nostra controversia non soltanto non ama rivali, ma, soprattutto, non accetta che possa essere il figlio a rivaleggiare con lui. Che questo sia l’asse portante del discorso appare dal primo degli interventi dei retori antologizzati. Si tratta di un ampio stralcio di Gallione pro filio. Il retore immagina che sia il giovane a parlare nel corso di un ulteriore processo evidentemente legato all’abdicatio, dopo quello in cui ha ottenuto il riconoscimento del premio. Di questo intervento è intanto interessante che il giovane si presenta come il portavoce di istanze più ampie che coinvolgono un’estesa platea di coetanei. Dinnanzi all’ipotesi di cedere alle richieste paterne, un gruppo di giovani si sarebbe presentato in massa da lui per invitarlo a non ritirarsi (10,2,2 volui cedere; concurrerunt iuvenes, aetatis causa agebatur).21 Si assiste in questa maniera

|| 20 Ps. Quint. decl. mai. 6,14, p. 126,7 H. pater iussi. Hoc nomen omni lege maius est. 21 Altrove, in Calp. decl. 18 (Armati abdicati), dei giovani abdicati compaiono in senato dove sono riuniti i patres (mai come in questa circostanza il termine risulta adoperato con precisione per indicare i senatori che sono anche padri dei giovani che protestano). Sul testo Sussman 1994, 150–153 e adesso Citti 2015, 111; me ne sono di recente occupato in Casamento cds.

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ad una plateale ufficializzazione dello scontro, che assume i tratti di un fenomeno sociale, anche se, tuttavia, esso verrebbe per dir così derubricato ad un duello tra un uomo più giovane ed uno ormai avanti negli anni.22 Dunque, non sarebbe la prerogativa del pater ad essere messa in discussione, quanto quella di un senex. È evidente come dietro questo apparente spostamento del nodo del contendere (non è un figlio ad attaccare un padre, ma un giovane a chiedere ad un senex uno spazio che ritiene legittimo) si celi comunque un’erosione delle prerogative paterne. Quello che il giovane teorizza, anche attraverso una forte enfatizzazione dei toni, è un ruolo di comprimario: ecce commilitoni ego tibi possum cedere, seni non possum (10,2,2). In questa circostanza, sull’immagine di due uomini che combattono insieme schierati in un medesimo campo di battaglia e sullo stesso fronte, il figlio mette in atto una prospettiva di tipo egualitario, in virtù della quale potrà rivendicare il principio per cui a vincere debba essere il migliore. Se il padre pretende che il giovane si faccia da parte, questi ribatte ‘abbassando’ il rapporto con il genitore a quello che può intercorrere tra due commilitoni, cioè alla pari.23 Un modo solo all’apparenza neutro e rispettoso di porre la questione. Ne deriva un’intensa considerazione della legge e della sua prioritaria centralità: quod contendi, legis, quod vici, iudicum, quod pugnavi, patris est (10,2,2). In questa maniera, infatti, il giovane può rivendicare di essersi limitato a fare quanto gli era imposto. Peraltro, se ogni rivendicazione del figlio passa dalla certezza di aver agito correttamente sul piano della legge, il rispetto delle istituzioni cittadine è tanto più ribadito, mostrando come in effetti l’accusa rivoltagli sia in buona sostanza di aver vinto (10,2,1 cum crimen meum sit vicisse). Il giovane può orgogliosamente vantare di avere speso le sue migliori energie in difesa della comunità e che da essa è stato ripagato con il successo processuale; ma è proprio la vittoria ad aver messo in crisi il rapporto con suo padre: quia patriae iudicium habeo, patris perdidi (10,2,2). Ciò che in ultima analisi Gallione sottende al suo ragionamento è che quel che il padre pretende appare quanto di più lontano dalla mentalità latina: una negazione dell’atto eroico che ha come contropartita – e non è poco, naturalmente – la soddisfazione dei doveri nei confronti di un’autorità costituita, quale quella incarnata dal pater. Proprio la crisi di questa modalità || 22 Osserva opportunamente Lentano 1998, 58–60 come il dato, statisticamente apprezzabile, di una contrapposizione tra classi d’età rilevabile nei testi declamatorȋ lasci ipotizzare l’indisponibilità, almeno in termini di riflessione se non di vero e proprio dibattito, da parte dei giovani a restare confinati ‘in una posizione di inferiorità, ad affidare ai più anziani i posti di comando o a riconoscerne in ogni caso il primato’. 23 Singolarmente, il protagonista dell’exc. 8,5 afferma che se anche fosse stato un commilitone del figlio e non suo padre per l’eroismo dimostrato meriterebbe di esser adottato quale padre: 8,5,1 post tam similia opera, si tantum commilito essem, patrem me adoptare debueras.

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sta nella divaricazione tra gli interessi della patria e quella di un padre. Per la prima volta un pater e la patria stanno su due poli opposti, differenza tanto più marcata ove si pensi alle parole con cui Cicerone ricorda che se si intende considerare ‘a chi si debba maggior obbligo, i primi siano la patria ed i genitori’ (off. 1,58 sed si contentio quaedam et comparatio fiat, quibus plurimum tribuendum sit officii, principes sint patria et parentes24). Si tratta di una tensione senza eguali e in fondo davvero dobbiamo ai processi genetici che sovrintendono ai percorsi di formazione di una controversia una capacità, rigorosa e fertilissima, di confermare e insieme relativizzare verità consolidate del pensiero degli antichi.25 D’altra parte, le parole che i retori mettono in bocca al figlio, che rivendica la possibilità, dal suo punto di vista non solo pienamente legittima ma addirittura necessaria e doverosa, di far bene per lo Stato appaiono idealmente non lontane da un frammento della parte proemiale del De re publica ciceroniano. In questo frammento, che ci giunge per il tramite di Nonio (426,9 L.) e che Konrat Ziegler poneva come primo di sei nella lacuna proemiale del primo libro,26 Cicerone sembra giustificare l’intenzione di uno studio approfondito sulle costituzioni alla luce del fatto che ‘poiché la patria abbraccia un numero maggiore di benefici, ed è genitore più antico di colui che ci ha messo al mondo, ad essa si deve una gratitudine più grande che al padre’27 (sic, quoniam plura beneficia continet patria, et est antiquior parens quam is qui creavit, maior ei profecto quam parenti debetur gratia).

|| 24 In relazione all’immagine Dyck 1996, 180 ipotizza una derivazione da Lucil. fr.1337–1338 M.= 1353–1354 K. commoda praeterea patriai prima putare, / deinde parentum, tertia iam postremaque nostra: ‘Lucilius should perhaps be seen as representing, not Panaetian influence, but an independent (though similar) Roman tradition’. 25 Un esempio, per converso, della necessità di riportare entro un binario tradizionale tale erosione dei convenzionali rapporti di forza tra generazioni è ad esempio offerto da Sen. contr. 8,5, in cui il padre afferma la propria superiorità (ego fortior sum), ricordando che dopo le azioni virtuose del figlio si è comunque continuato a combattere, mentre solo dopo la sua partecipazione la guerra è stata vinta (Sen. contr. 8,5,1 post tuam pugnam pugnavimus, post meam vicimus; 8,5,2 tu fregisti bellum, ego sustuli). 26 Cic. rep. 1, fr. 1a Z. 27 Trad. F. Nenci 2008. Per un commento al passo cf. Büchner 1984, 75 s.; Nenci 2008, 149–151; 236–238.

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3 Un giovane non luxuriosus Va poi segnalata un’altra serie di argomentazioni con cui, singolarmente, il declamatore mette in bocca al figlio valoroso alcune delle promesse tipiche dei giovani delle controversie (e, all’indietro, della commedia28) volte a stornare le accuse che conducono al tradizionale ricorso all’abdicatio: Dicam abdicanti: ‛non luxuriabor, non amabo.’ Hanc emendationem criminum meorum non possum promittere: 29 Sen. contr. 10,2,2 Potrei promettere a chi mi ripudia: ‘non mi darò al lusso, né alle donne.’ Non potrei però promettere questa sconfessione delle mie colpe: ‘non combatterò eroicamente.’

L’effetto è straordinariamente riuscito perché le sue colpe non sono quelle tradizionalmente attribuite ai giovani, di fare cioè la bella vita indugiando nei piaceri, ma di essersi speso al servizio della collettività; ragione per cui non ritiene di dover fornire delle scuse. Analogamente, il protagonista della controversia 2,1, abdicatus perché ha rifiutato l’adozione da parte di un ricco che aveva a sua volta disconosciuto i tre figli, chiede al padre le ragioni che giustificherebbero il ricorso all’abdicatio, ricordando come non gli si possa imputare né un atteggiamento prodigo, né amori vergognosi né vita dissoluta.30 Anche in questa circostanza, ad una somma di motivi topici dei giovani allegri della commedia i declamatori fanno ricorso per presentare, al contrario, il caso di un ragazzo dalla condotta irreprensibile31. Un riferimento analogo si trova poi nella decl. min. 260, dove, a

|| 28 Circa l’attitudine propria dei declamatori ad adoperare forme stereotipe di derivazione comica (il figlio luxuriosus, la prostituta etc.) vd. van Mal-Maeder 2007, 10–15. Vi riflettono in questo volume van Mal-Maeder e Pingoud. Sull’importante funzione attribuita ai testi comici nella formazione dei futuri oratori vd. adesso Nocchi 2013, 183–200. 29 Non fortiter pugnabo è integrazione di Winterbottom 1974, accolta anche da Håkanson 1989. 30 Cf. Sen. contr. 2,1,6 Quid est quod aut negandum mihi aut excusandum sit? Non insanissimum dispendiorum malum, non erubescendos amores neque luxuriantem habitum neque potatus obicis filio. Haec si non potes, aliqua saltem ex commentariis amici tui describe: madentem unguentis externis, convulneratum libidinibus, incedentem ut feminis placeat femina mollius; e ancora 2,1,14 Quid mihi obicit? meretricis amo? aes alienum feci?; 2,1,15 Quare abdicas? Numquid dies noctesque inpendo turpibus conviviis? plurimum vivo in lupanari? Sulla presenza di motivi di derivazione comica nelle declamazioni ho scritto in Casamento 2007. 31 Atteggiamento, questo, che seppur meno quantitativamente apprezzabile ha anch’esso qualche eco comica. Si osservi ad es. il caso di Lisitele, il giovane protagonista del Trinummus plau-

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difesa di un giovane ricco che dà ricetto a coetanei abdicati, spendendo così i suoi averi, si dice: Non meretricibus donat, non in parasitos profundit, non illi magno cupiditates suae constant: sumptuosus est misericordiae (260,8).32 Quella del luxuriosus è notoriamente una figura ricorrente nell’immaginario antico ed è uno di quei casi in cui si mostra una consonanza di vedute tra teatro comico e retorica.33 Nondimeno, la colpa che accomuna i protagonisti delle controversie appena citati risiede nell’aver trasgredito a voleri superiori (un padre in un caso, la comunità nell’altro); solo che, a differenza dei casi menzionati, il giovane della 10,2 potrà affermare non solo di non aver fatto nulla di male per meritare l’abdicatio, ma di aver agito a difesa e sostegno dello Stato, sia pur disattendendo il volere paterno. Il figlio valoroso della nostra controversia può dunque rivendicare di non esser incorso in nessuno di quei comportamenti che per il comune sentire meriterebbero l’abdicatio; potrà peraltro aggiungere che il suo eroismo è un bene al servizio della comunità. E come tale va rappresentato attraverso quella sorta di restituzione sociale del successo bellico che, nelle controversie, è incarnato dal praemium.

4 A Scipione non si può dire di tacere (né a Muzio di tener nascosta la mano) Non vi è dubbio che in questa controversia vi sia un approccio molto ‘visuale’: lo si vedrà a proposito della ricompensa che a conclusione di questo lungo contendere il figlio richiederà come premio della propria condotta eroica. Vorrei però soffermarmi sulla presenza di alcuni exempla storici che tornano insistentemente negli

|| tino, che impegna il proprio patrimonio per aiutare Lesbonico. Che poi questa commedia plautina offra un singolarissimo spunto di riflessione sul tema del buon impegno del denaro lo dimostrano le sue frequenti riprese da Cicerone a Lattanzio (inst. 6,11). 32 Sul testo adesso Corbeill 2016. 33 Cf., a riprova di tale contiguità, il celebre passaggio della pro Caelio, in cui Cicerone gioca a teatralizzare una delicata fase del dibattimento affermando di dubitare se incarnare il modello di padre duro, Caecilianum, con conseguente citazione di frammenti di Cecilio Stazio (230 R3, 49 R3, 232 R3), per poi passare all’altro, per lui molto più utile, incarnato dal Micione degli Adelphoe terenziani con cui la difesa di Celio sarebbe semplicissima (Cic. Cael. 37 s., su cui cf. Geffcken 1973).

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interventi dei declamatori.34 Anche in questo caso, infatti, alla rievocazione di esempi tratti dalla storia è per così dire consegnata una spessa dimensione visuale. In sequenza, Gallione mette in bocca al figlio il ricordo di Orazio, che respinge le schiere etrusche con il proprio corpo,35 di Mucio, che brucia la mano sull’ara del nemico,36 e di Decio Mure, che aveva fatto voto della propria vita nella battaglia di Ascoli contro Pirro del 279 a.C., seguendo l’esempio del padre protagonista di un medesimo gesto in Etruria nel 295 a.C.:37 Parui adulescens magnis exemplis. Deceptus sum dum cogito mecum Horatium Etruscas acies corpore suo summoventem et Mucium in hostili ara manum urentem et dum te, Deci, cogito, qui et ipse noluisti patri cedere. Sen. contr. 10,2,3 Io, pur giovane, ho obbedito a grandi esempi. Sono stato tratto in inganno, mentre tra me e me pensavo ad Orazio, che trattiene con il suo corpo le schiere nemiche, a Mucio, che dà fuoco alla propria mano sull’altare nemico, e mentre pensavo a te, o Decio, proprio tu che non hai voluto esser da meno di tuo padre.

Della sequenza va rilevato intanto il fatto che solo il terzo esempio, quello di Decio Mure, mostrerebbe una piena pertinenza alla causa del figlio, in quanto a spingere il console, inviato a combattere contro Pirro, al sacrificio di sé sarebbe stato il ricordo dell’analogo gesto compiuto dal padre e forse anche dal nonno. Da questo punto di vista è invece la premessa a rendere piuttosto interessante la materializzazione sulla scena fittizia degli altri exempla storici. Gallione fa dire al giovane che egli è cresciuto obbedendo ad importanti esempi. I nomi evocati dal giovane costituiscono elemento centrale di un patrimonio di memorie condivise, che ispira a grandi cose; i tre protagonisti illustri ‒ e giovani ‒ di un mitico e glorioso passato sono un riferimento attivo che spinge e motiva ad un eroismo che non può tollerare freni né censure. È quanto ribadisce anche il retore Clodio Turrino:

|| 34 Per un sguardo d’insieme sull’impiego di exempla storici nei corpora declamatorî, oltre a Bonner 1949, 62, Fairweather 1981, 184 s., vd. adesso Van der Poel 2009. Più in generale ottime considerazioni in Nicolai 2008 e nel volume miscellaneo Malosse/Noël/Schouler 2010. Sugli exempla Romanae virtutis, sempre valido, sia pur non direttamente ispirato ai testi declamatorȋ, Litchfield 1914. 35 Altra citazione di Orazio Coclite in Sen. contr. 9,2,9 exsurgite nunc, Bruti, Horatii, Decii et cetera imperi decora. 36 Ricordato anche in exc. 8,4 non aliud Scaevolae Mucio cognomen dedit et capto contr Porsennam regem libertatem reliquit quam vilitas sui. 37 Sulla presenza dei Decii nella letteratura retorica cf. oltre a 9,2,9 anche Val. Max. 5,6,5 s. Vd. Masselli 1999.

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Tu Mucio diceres: ‘non est quod ostendas istam manum?’ Tu Scipioni post deletam Carthaginem: ‘tace?’ Loquax est virtus nec ostendit se tantum sed ingerit. Sen. contr. 10,2,5 Avresti detto a Mucio: ‘non mostrare questa mano?’ E a Scipione dopo la distruzione di Cartagine: ‘Taci?’ Il valore non può restare in silenzio, non si mostra soltanto ma s’impone.

ipotizzando uno scambio di battute tra figlio e padre, nel quale il primo rinfaccia al secondo che obietterebbe perfino a Mucio di tenere nascosta la propria mano o a Scipione, vincitore di Cartagine, di tacere dei suoi stessi successi. In un passo della controversia 7,5, Seneca se la prende con gli scholastici, affetti a suo dire dal gravis morbus consistente nel voler forzatamente ricondurre gli exempla che hanno appreso, desunti dalla storia o dal mito, alle controversie che tocca loro affrontare.38 In tali parole si evidenzia una netta censura nei riguardi di un uso spesso molto libero, talvolta perfino eccentrico. Al di là della pur interessante considerazione, che in quel contesto viene dimostrata immediatamente con la citazione di un grossolano e non molto azzeccato riferimento al celebre figlio muto di Creso,39 nel nostro passo l’esempio appare di particolare significato e dà mostra, al contrario, di un suo uso sapiente e ben dosato, anticipando il noto giudizio quintilianeo secondo il quale l’oratore dovrà abundare di exempla storici,40 perché la commemoratio rei gestae aut ut gestae risulta particolarmente proficua ai fini della persuasione.41 Ciò che colpisce della nostra controversia è la ‘pertinentizzazione’ di tali campioni del passato: modelli vir-

|| 38 Gravis scholasticos morbus invasit: exempla cum didicerunt, volunt illa ad aliquod controversiae thema redigere (7,5,12). Per una ricostruzione accurata del passo e della sensibilità senecana nei confronti delle tendenze degli scholastici vd. Berti 2007, 198–202; Van der Poel 2009, 338 s. 39 Sen. contr. 7,5,13 Fecit in hac controversia Musa, qui, cum diceret pro filio locum de indulgentia liberorum in patres, venit ad filium Croesi et ait: mutus in periculo patris naturalia vocis inpedimenta perrupit, qui plus quam quinquennio tacuerat. Quia quinquennis puer ponitur, putavit ubicumque nominatum esset quinquennium sententiam fieri, quia Latroni bene cesserat, qui, cum elusisset vulnus exiguum, dixit: aspicite istam vix apparentem cicatricem; rogo vos: non putetis puerulum fecisse et ne puerulum quidem quinquennem? 40 Quint. 12,4,1 in primis vero abundare debet orator exemplorum copia cum veterum tum etiam novorum, adeo ut non ea modo quae conscripta sunt historiis aut sermonibus velut per manus tradita quaeque cotidie aguntur debeat nosse, verum ne ea quidem quae sunt a clarioribus poetis ficta neglegere; ma cf. in particolare tutta la sezione dedicata agli exempla in 5,11. 41 Quint. 5,11,6 Potentissimum autem est inter ea quae sunt huius generis quod proprie vocamus exemplum, id est rei gestae aut ut gestae utilis ad persuadendum id quod intenderis commemoratio. Ampia ricognizione dei passi quintilianei relativi all’uso di exempla desunti dalla storia in Franchet d’Espèrey 2010.

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tuosi di comportamento capaci di parlare alle generazioni future, elementi centrali di quel pantheon laico che costituisce il fondo di valori comuni alla collettività latina, in questo caso, tali esempi sono per così dire riconvertiti alla causa del figlio. Un modo di attingere alla lezione della storia, alla ricerca di figure esemplari lette e interpretate a parte iuvenis, producendo un inedito ribaltamento ideologico. Destinate ad offrire una sorta di rispecchiamento esemplare (e collettivo) alla comunità che quei valori deve condividere e riprodurre, esse sono in questa circostanza espressamente orientate a supporto della causa dei giovani, che di quei valori devono in prima battuta farsi carico. Pare altresì singolare che in tutte e due le citazioni l’esempio sia adoperato con uno sguardo attento all’effetto che esso potrà produrre, secondo l’assunto, recentemente ribadito da Bernstein, che nel mondo fittizio delle fittizie aule di giustizia immaginate dai declamatori qualsiasi processo di enargeia deve puntare ad intensificare la dimensione patetica.42 Così dunque, nel primo caso il declamatore sarà immaginato prima in un colloquio intimo con Decio, per poi lanciarsi con un balzo improvviso verso lo scranno dov’è assiso il padre per abbracciarlo; e siccome egli è più forte sarà anche più forte nel vincere le resistenze del genitore che a quell’abbraccio intenderebbe sottrarsi: transibo in subsellia tua, complectar invitum. licet repugnes, fortior sum (10,2,3). Quanto tutto ciò appaia lontano dal modo tradizionale di raccontare la storia è evidente dal semplice confronto con alcune delle versioni più note di padri e figli in battaglia. Il noto caso del ciclo dei Manli,43 ad es., prova come l’episodio di eroismo giovanile, ancorché esemplare nella sua carica di esibizione valoriale e successo militare, debba essere sempre e comunque sottomesso alla disciplina paterna. Ove si volesse ancor meglio mettere a fuoco la significativa novità di tale lettura di alcuni miti del passato basterebbe recare a confronto quei casi in cui, in una prospettiva del tutto tradizionale, vengano evocate figure di padri severi, che arrivano al sacrificio della prole, come avviene nella decl. min. 349, dove, a proposito di un figlio raptor, che non ha chiesto al padre il perdono come la legge gli imponeva, vengono evocati gli esempi appunto di Tito Manlio Torquato e del padre di Spurio Cassio che misero a morte i figli.44

|| 42 Bernstein 2013, 116: ‘since declamation is set in an imaginary courtroom, the declaimer cannot create an actual display fort the imaginary jurors. Enargeia must create pathos in the audience without the option of employing visual supplement, whether actual bodies or stage effects such as masks and bloodstained clothing’. 43 Vd. Bettini 1986, 18. 44 Cf. decl. min. 349, 8: sul passo vd. la lettura proposta da Lentano 2009, 74–79.

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In tal senso si può forse meglio precisare un intento polemico che pur sottotraccia appare animare la citazione di Gallione: dove il giovane dice che da adulescens ha obbedito a grandi esempi, si potrebbe in prima battuta ritenere che egli si riferisca all’esempio paterno, come peraltro poco prima Gallione aveva fatto dire al ragazzo: vidi patrem iam senem loricam induentem. Multum est pugnare cum exemplo (10,2,2); mentre, al contrario, in questa circostanza gli esempi da cui rivendica di aver tratto ispirazione sono quelli della grande storia di Roma, come tra l’altro conferma il riferimento al colloquio virtuale con Decio. Gli uni, i padri della patria, sono per forza di cose più grandi dell’altro, il pater del ragazzo. Si insinua così nel discorso del giovane un secondo tentativo di riconfigurare i rapporti di forza, in quanto egli intende dar prova di un comportamento più virtuoso e rispettoso dei valori incarnati da tali ‘mostri sacri’ della romanità. Peraltro, lo Scipione citato da Turrino è probabilmente lo stesso che in una celebre pagina sallustiana affermava che il suo animo era violentemente acceso alla virtù ‘tutte le volte che guardava le imagines dei maiores’ (Sall. Iug. 4,5).45 Solo che, con scarto evidente, quel che nella rievocazione sallustiana è un ricordo interno alle memorie familiari, dunque un implicito – e ortodosso – atto di omaggio alle prodezze del genus, assume un valore del tutto nuovo nel nostro testo. Nondimeno, la virtus del giovane, per certi versi un ossimoro, è loquace come quella del distruttore di Cartagine: non può dunque ammettere di essere ridotta al silenzio così come il padre avrebbe ottenuto se il figlio si fosse fatto da parte. Tacere, gesto cui pure penserebbe almeno a detta di Clodio Turrino, equivarrebbe ad una confessione: Dubito quid faciam. Taceam? sed silentium videtur confessio. Narrem virtutes meas? sed illud quoque mihi novum accidit, quod uni mihi abdicato eas narrare non . Sen. contr. 10,2,6 Sono incerto su cosa fare. Tacere? Il silenzio potrebbe sembrare una confessione. Narrare i miei atti di valore? Mi è toccato persino questo di strano: essere l’unico ripudiato a cui non giova narrarli.

Per di più, se ad un giovane abdicatus tocca di solito narrare le proprie imprese per discolparsi dalle accuse, egli sarebbe l’unico cui narrare costituisca un pericolo.

|| 45 Nam saepe ego audivi Q. Maximum, P. Scipionem, praeterea civitatis nostrae praeclaros viros solitos ita dicere, cum maiorum imagines intuerentur vehementissime sibi animum ad virtutem accendi. Che si tratti dell’Africano minore piuttosto che dell’Africano maggiore lo proverebbe tra l’altro quanto si legge in Polibio (31,24,10) circa il desiderio del Minore di essere degno della sua casa e dei suoi antenati. Sul passo Malcovati 1955.

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5 Una legge salutare Il pater della decl. min. 349 poc’anzi citata concludeva l’evocazione dei padri severi del passato, che non esitavano a sacrificare la discendenza, giustificandone la scelta. Siccome ricordavano bene di aver messo al mondo figli per il bene dello Stato, ritenevano che un loro sacrificio fosse di esempio per la collettività (349,8 illi vere fortes et viri fuerunt qui cum hoc meminissent, liberos a se rei publicae gratia procreatos, bene inpendi crediderunt exemplo). Dunque, in ultima analisi, la morte di un figlio, se così un padre ha deciso, è a salvaguardia della collettività e dei suoi valori, tiene insieme il sistema. Nella nostra controversia si fa invece largo l’idea diametralmente opposta; quella, cioè, secondo la quale è la virtus a possedere una dimensione talmente esemplare da non accettare limitazioni né censure. La virtus è più forte della disciplina. Proprio questo singolare contrasto, difficilmente sanabile, dialettizza la divisio, la cui parte iniziale è purtroppo segnata da una lacuna, dove si presume fosse contenuto il nome di Latrone.46 All’obiezione del figlio che nessuno ha dalla sua parte la legge e contemporaneamente ne ha paura (10,2,8) nemo, , in eadem re et habet legem et timet), il padre obietterebbe differenziando i piani tra ciò che è lecito e ciò che, pur essendo lecito, non conviene: Si quid fecerit quod non licet, lex vindicabit; si quid quod licet sed non oportet, pater. Sen. contr. 10,2,8 Se ha fatto qualcosa di illecito, ci penserà la legge a punirlo; se ha fatto qualcosa di lecito ma che sarebbe stato opportuno evitare, ci penserà il padre.

Alla contrapposizione tra ciò che licet e ciò che oportet corrisponde quella tra lex e pater. Dunque una visione tradizionale si fronteggia e scontra con la rivendicazione di una fondamentale libertà d’agire che va riconosciuta al figlio. In questo quadro s’inserisce il vero elemento di svolta, una copertura, offerta dalla legge, all’azione del giovane: Si potest abdicari etiam propter id quod lege permittente fecit, an abdicari etiam propter hoc non possit, quod praemium accepit. Non potest, inquit, in ea re privatim puniri in qua publice honoratur. Eidem rei non potest et praemium dari et nota denuntiari. Cetera iura puta paterno imperio subiecta esse: hoc ius maius est ceteris, quo de victoria,

|| 46 Il testo tràdito è stato così integrato da Johannes Schulting (apud Håkanson 1989): mittente lege fecit. Egli aveva congetturato anche la presenza del nome di Latrone, non accolto da Håkanson.

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de summa virtute quaeritur. Non potes propter hanc legem filium abdicare propter quam a filio victus es. Sen. contr. 10,2,8 Nell’eventualità in cui si possa venir ripudiati anche per aver fatto qualcosa che la legge consentiva, se almeno non si debba esser ripudiati per aver accettato un premio. Non si può – sostiene – esser puniti in privato per qualcosa per cui si ricevono pubblici onori. Una stessa azione non può esser onorata con un premio e marchiata da una censura. Considera pure che ogni altro diritto sia sottoposto al volere paterno: ma è più grande degli altri questo diritto per cui si discute di vittoria e di atti eroici. Non puoi ripudiare un figlio in base alla stessa legge per cui egli ha avuto la meglio su di te.

Come si vede, la questione non è soltanto posta nella prospettiva, tradizionale in ambito declamatorio,47 se sia possibile abdicare qualcuno per qualcosa che ha fatto sua lege; quel che viene a configurarsi è un’esaltazione della legge tout court. Se tutti gli altri iura soggiacciono all’autorità paterna, c’è uno ius più importante degli altri, ed è quello che riguarda victoria e virtus. Né si può punire in privato ciò che risulta oggetto di pubblico apprezzamento: un riferimento probabile, solo appena celato, al consilium domesticum con cui il pater procedeva a giudicare un figlio alla presenza di familiari e amici.48 Una strenua difesa della legge dunque, come nella parte dei colores prospetta Clodio Turrino, il quale, citando il motivo topico dei giovani accorsi in massa a dissuadere il filius in dubbio se farsi da parte, aggiunge che se ciò fosse accaduto non si sarebbe rispettata una legge molto salutare: Turrinus hoc colore usus est: ‘Volui, inquit, cedere, sed erant qui dicerent non licere; hoc enim [nobis] modo legem saluberrimam tolli.’ Sen. contr. 10,2,13 Turrino fece ricorso a questo color: ‘Ho voluto – disse – farmi da parte, ma c’era chi sosteneva che non era possibile; questo avrebbe comportato l’eliminazione di una legge molto salutare.’

Per chi tale legge possa esser molto salutare non sussistono dubbi. Per quel che concerne poi la variante rappresentata dalla decl. min. 258, il testo, in cui non c’è sermo ma solo la declamatio del pater, presenta un paio di

|| 47 Cf. ad es. Sen. contr. 1,4,6. In generale, sulle questioni riguardanti l’abdicatio come proiezione in ambito declamatorio delle prerogative senza confine del pater, ma anche, per altro verso, come obiettiva limitazione di tali prerogative, ‘imbrigliate’ e asservite alle regole elementari del dibattimento processuale vd. Lentano 2009, 61–70. 48 Sul consilium domesticum, cf. Thomas 2002 e adesso Lentano 2014, 75–83; Breij 2015, 23–25.

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208 | Alfredo Casamento

vistose differenze. Intanto la soluzione del conflitto tra due viri fortes è affidata ad un duello, e non ad un iudicium, benché, tuttavia, ad esso si alluda come per absurdum: Sane ita sit constituta lex ut in iudicio contendamus, ut citra periculum feratur de nostra virtute sententia: non erat aequum cedere te, ut non dicam patri, seni? Ps. Quint. decl. min. 258,3 Ammettiamo pure che la legge sia formulata in modo che la nostra contesa sia giudiziaria e che il verdetto sul nostro valore non comporti rischi: non sarebbe stato giusto che tu rinunciassi al premio in favore di un anziano, per non dire di un padre?49

La soluzione del processo è considerata come ipotesi meno grave – in essa non c’è un rischio per la vita (citra periculum) –, ma nella sua dimensione virtuale sembra confermare un sottile gioco narrativo che costituisce in fondo l’essenza stessa delle trame declamatorie: l’allusione è infatti all’ipotesi scartata, rappresentata, almeno per noi, dalla contr. 10,2. Se, dunque, in questa circostanza i declamatori devono seguire l’ipotesi che prevede il duello come risoluzione del conflitto, il richiamo ‘metateorico’ all’altra, quella che contempla il processo, dà prova del continuo alternarsi di combinazioni e variazioni sul tema cui essi sono chiamati a confrontarsi. Proprio tale dinamica, che presenta una concreta minaccia di morte derivante dallo scontro diretto, determina il ritiro di uno dei due competitors dalla contesa. Il pater si sottrae infatti allo scontro in armi, ma subito dopo abdicat filium, precisando che per il solo atto di avergli rifiutato qualcosa costui merita l’abdicatio (258,1 etiamsi dissimulari posset quae causa patri fuisset, ipsum tamen hoc abdicatione dignum erat, aliquid petenti negasse). Il pater della declamazione avrà quindi facile gioco a ribadire le prerogative statutarie di ogni padre romano, commisurando la grandezza della colpa del giovane al debito che alla nascita un figlio contrae con chi lo ha generato; la maniera con cui tale rivendicazione è condotta appare all’insegna di una apparente reticenza: Quantum enim mihi praestare poterat ut paria redderet? non iam imputo illa vulgaria, lucem et ius libertatis et usum vitae. Hoc, hoc imputo, quod fortiter fecisti. Robur istud corporis meum est; animus iste ad contemnenda pericula paratus ex meo fluxit. Ps. Quint. decl. min. 258,1

|| 49 Trad. di G. Dimatteo.

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Come un figlio: variazioni tematiche e modalità narrative | 209

E in realtà quanto avrebbe dovuto darmi per pareggiare i conti? Non sto ora rinfacciando le solite cose: la nascita, il diritto di essere libero e la possibilità di vivere. Ecco, cosa ti rinfaccio: di aver agito da eroe. Questo tuo vigore fisico è opera mia; questo tuo coraggio pronto al disprezzo del pericolo è derivato da me.

Lux, libertas e vita vengono evocate all’apparenza solo per esser negate, in quanto è il fatto stesso che il figlio abbia agito fortiter a costituire il vero oggetto di rivendicazione. Ogni virtù del giovane passa infatti dal padre, è sua. Anche in questo caso ci troviamo davanti ad un’immagine molto diffusa in ambito declamatorio.50 Si può tuttavia tentare un ulteriore passo in avanti a partire da quanto il declamatore fa pronunziare poco dopo al pater: ‘non sarebbe stato giusto che tu ti facessi da parte in favore di un anziano, per non dire di un padre?’ (258,3 non erat aequum cedere te, ut non dicam patri, seni?). È la provocatoria affermazione che, lo si è osservato in precedenza, il giovane della controversia senecana aveva recisamente respinto, ma è anche il segno di una crepa nella visione altrimenti monolitica con cui di norma vengono concepite le prerogative del pater. In questo discorso, s’insinua in qualche modo il dubbio che non sempre e non tutto ad un padre sia dovuto. Si tratta di una nota fortemente patetica, ma anche solo il fatto di prospettarla è un dato di un certo rilievo. Il discorso continua: ‘ci sarà sempre altro tempo per dar prova del tuo valore, puoi sperare in quello a cui oggi hai rinunciato’ (258,4 tibi approbandae virtutis multa tempora supersunt, tu sperare id quod hodie cesseris potes). Un padre viene prima perché l’atto stesso di dare la vita si configura nei termini di un primum incancellabile né sovvertibile. Ma quando così non sia, se per caso l’autorità di chi viene prima non riuscisse a mantenere saldo il suo potere sulla generazione più debole – ed è il caso di questo giovane che con le sue pretese tende a far passare in secondo piano le prerogative paterne –, è l’aspettativa del futuro a dover suggerire un rinvio. La gerarchia familiare trova così un appoggio in quella temporale. Un padre, specialmente se avanti negli anni, deve venir prima perché quasi sicuramente non gli sarà concessa un’altra possibilità di manifestare il proprio valore; un figlio può aspettare: la vita gli garantirà con buona probabilità un’altra occasione e quella volta sarà tutta per lui. Fin troppo eloquente dunque il ricorso all’espressione approbandae virtutis: solo se l’esibizione della virtus del giovane fosse venuta dopo quella dal pater avrebbe potuto esser considerata degna di approvazione, perché solo in quel caso avrebbe avuto, per così dire, il sigillo paterno.

|| 50 Che spesso giunge ad indicazioni ancor più dettagliate, come avviene, ad es., in Sen. contr. 8,5,1 isti oculi mei sunt, istae manus meae sunt, ista contumacia mea est.

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La strada che l’evoluzione del conflitto prevede è però differente: il pater designerà dunque in termini estremi le pretese del figlio, ponendole alla stregua di un parricidio.51 Egli interpreterà il possibile scontro in armi per il premio, che solo il suo nobile gesto ha scongiurato, come un modo comodo e lecito con cui il giovane intendeva sbarazzarsi di lui: Iam video quare non cesseris: hoc tibi praemio maius videbatur, committi cum patre et parricidium facere iure. Ps. Quint. decl. min. 258,6 Ora capisco perché non hai rinunciato: più del premio contava per te ingaggiare un duello con tuo padre e commettere un parricidio con la tutela della legge.

Per il figlio, la vera posta in gioco, svela il padre, non era il premio, ma proprio lo scontro in armi. Il parricidio, che gli antichi aborrivano a tal punto da considerare più prudente non ipotizzarne una sanzione perché se essa fosse esistita avrebbe costituito non un deterrente ma un incitamento,52 viene qui evocato come il vero motore dell’azione. La variante narrativa ipotizzata nella decl. min. 258 si dimostra quindi particolarmente feconda: il padre tenta di concludere a suo favore il dibattitto, evocando sulla scena processuale il crimine più grave che ad un giovane romano possa addebitarsi. Un cortocircuito logico, ma su cui il pensiero latino deve aver molto riflettuto: basterà qui recare a confronto il passo del settimo libro della Pharsalia nel quale Cesare arringa i suoi uomini, incitandoli a non commuoversi nell’eventualità in cui scorgano i padri disposti nel fronte avverso: Sed, dum tela micant, non vos pietatis imago ulla nec adversa conspecti fronte parentes commoveant; voltus gladio turbate verendos. Lucan. 7,320–322 Ma mentre le armi risplendono, non vi commuovano immagini di pietà, o il vedere i genitori schierati contro di voi; colpite di spada quei sembianti venerandi.

|| 51 Motivo frequente nella letteratura declamatoria su cui fa adesso il punto Lentano 2015, cui rinvio anche per la bibliografia precedente. 52 Almeno così la pensa Seneca in clem. 1,23, in risposta polemica a Cic. S. Rosc. 69 s. Sulla questione Petrone 1996, 52–55. Sul passo senecano Malaspina 2001, 363–365.

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Come un figlio: variazioni tematiche e modalità narrative | 211

La presenza dei padri schierati adversa… fronte non dovrà destare esitazione nei giovani soldati.53 L’alogon che nella controversia tiene insieme il gesto del parricidio all’ipotesi che esso possa svolgersi iure mi pare non molto distante dalle parole con cui Cesare sollecita le truppe – di figli – a sconvolgere con la spada il volto venerando54 di un padre.55 Con la differenza che quanto in Lucano può ottenere una sia pur debole giustificazione nella brutale efferatezza dello scontro civile,56 viceversa nella declamazione risulterebbe il frutto dell’ingiustificabile sete di affermazione di un figlio. La speranza in un futuro di successi avrebbe dovuto spingere il giovane a farsi da parte: almeno così la pensa il pater della decl. min. 258. Proprio quella aspettativa di vita e di successo mancata a Polite, che non sfugge nell’ultima notte di Troia ai colpi di Neottolemo. Da questa morte si potrebbe desumere una immediata risposta all’invito del padre della declamatio: aspettare non è sempre la soluzione migliore né garanzia di successo. Da quella morte, lo si è ricordato all’inizio, viene a Priamo l’ardore per un ultimo assalto. È il sangue del giovane morto che cola sugli anziani genitori a riaccendere il desiderio dell’azione. La storia della morte di Polite e di quella del re è dunque in qualche modo esemplare: quello di Priamo è un gesto innaturale o, a dir meglio, contro-natura, come è usuale pensare in tutti quei casi in cui sia un padre a dover assistere alla morte di un figlio invertendo una sequenza logica che prevedrebbe il contrario. Priamo in qualche misura si fa carico di un eroismo solo in potenza qual è quello del figlio, schiacciato da un nemico più forte. Come un figlio farebbe, in questo caso un padre difende la memoria di chi non c’è più. Uno scambio di ruoli, doloroso ma culturalmente accettabile.

|| 53 Narducci 2002, 230 rileva con precisione il richiamo ‘a rovescio’ ad una clausola virgiliana quale pietatis imago (cf. Verg. Aen. 6,405; 9,294; 10,824). Sul passo, perfettamente qualificante l’etica del personaggio di Cesare, adesso anche Coffee 2011, 424. 54 Giustamente nelle Adnotationes super Lucanum si rileva come verendus sia epiteto che rinvia con chiarezza ai padri: VERENDOS quibus reverentim debeatis, hoc est parentum. 55 Coglie pienamente la portata drammatica di questi versi Petrone 1996, 152, la quale afferma: ‘espressione di drammatica contraddizione, scissa al suo interno: se quei volti sono ‘da rispettare’ come profanarli? Se restano ancora degni, come vengono detti, di timorosa reverenza, come può trovare ascolto l’ordine di confonderli nel sangue?’. 56 Il discorso di Cesare riecheggia quello del centurione Lelio che in 1,352–391 promette una fedele e pronta esecuzione di quanto il comandante dovesse ordinare, compresa l’uccisione di un fratello, un padre, una moglie (pectore si fratris gladium iuguloque parentis / condere me iubeas plenaeque in viscera partu / coniugis, invita peragam tamen omnia dextra, 1,376–378).

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212 | Alfredo Casamento

Ben diverso lo scenario delle controversie dove è l’eccesso di somiglianza a creare problemi. Il padre della nostra controversia non può accettare che il figlio sia così tanto simile. Lo fa dire Gallione al giovane: dissidemus, quia nimium similes sumus (contr. 10,2,1); la contesa nasce dall’eccesso di somiglianza. ‘Do fathers matter?’: così s’intitola un libro recente di un celebre columnist americano, Paul Reaburn. Se volta al mondo latino, la risposta avrebbe esito immediato. Non se ‘contano i padri’, ma ‘quanto contano i padri’ sarebbe forse questione più interessante. Le due declamazioni analizzate suggeriscono un limite invalicabile: ciò che un padre non può proprio fare è di essere emulo di un figlio, come un figlio. La condivisione della scena è inaccettabile. Il rifiuto della statua mi pare ben si spieghi in questi termini: essa rappresenta sì un atto di omaggio, ma impone anche la dolorosa e permanentemente viva accettazione che il tempo, un certo tempo, si è concluso. La statua è la possibilità di rendere permanente l’esaltazione di un successo, che si considera ormai passato. Vi è una intensa pagina senecana,57 in cui, discutendo dell’apporto che dà la lettura di altri autori alla creazione di un’opera, Seneca invita Lucilio a non aver paura se per caso accada che ‘nella tua opera trasparirà l’autore che ammiri e che è impresso profondamente nel tuo animo’, aggiungendo: ‘vorrei che la somiglianza fosse quella di un figlio, non quella di un ritratto: il ritratto è una cosa morta’ (epist. 84,8 similem esse te volo quomodo filium, non quomodo imaginem; imago res mortua est). Un’opera d’arte, frutto dell’imitatio, dovrebbe essere per Seneca, letteralmente, come un figlio: benché in essa traspaia la presenza del modello, si dovrà trattare di una somiglianza dinamica, non fissa come quella che potrebbe offrire un ritratto. Una tensione trasformativa, sorretta dall’idea che ciò che viene dopo migliora quel che è venuto prima, lega un’opera alle sue fonti, così come un figlio a chi lo ha generato. Ma, al di là della immagine brillante, adattissima a questioni di imitatio letteraria,58 per un padre romano questo sarebbe davvero troppo da accettare.

|| 57 Si tratta dell’epist. 84 in cui Seneca affronta questioni riguardanti l’imitazione letteraria. Se ne occupa di recente Conte 2014, 21–26. 58 Se ne ricorderà infatti Petrarca in una lettera indirizzata a Boccaccio, nella quale preciserà: curandum imitatori ut quod scribit simile non idem sit, eamque similitudinem talem esse oportere non qualis est imaginis ad eum cuius imago est, que quo similior eo maior laus artificis, sed qualis filii ad patrem (fam. 23,19,78–94). Sul confronto tra epist. 84 e Petrarca vd. Conte 2014, 22–24.

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Elenco degli autori Alfredo Casamento è Professore associato di Lingua e letteratura latina presso l’Università di Palermo. I suoi studi riguardano in particolare la retorica latina e il fenomeno declamatorio (Finitimus oratori poeta. Declamazioni retoriche e tragedie senecane, Palermo, Flaccovio, 2002); le tragedie senecane (ha di recente commentato e tradotto la Fedra: Seneca, Fedra. Introduzione, traduzione e commento, Carocci, Roma 20142); la poesia epica lucanea (La parola e la guerra. Rappresentazioni letterarie del bellum civile in Lucano, Pàtron, Bologna 2005). Giuseppe Dimatteo è Dottore di Ricerca in discipline classiche e titolare di un assegno di ricerca presso l’Università di Bologna. I suoi interessi scientifici vertono sulla satira di Giovenale: è autore, oltre che di numerosi articoli sul tema, del volume: Giovenale, Satira 8. Introduzione, testo, traduzione e commento, De Gruyter, Berlin/Boston 2014. Di recente la sua attenzione si è rivolta sulla declamazione latina: collabora a un’edizione con traduzione italiana e commento delle Declamationes minores. Gernot Krapinger è ‘Doktor’ in Diritto e Filologia Classica presso la Karl-Franzens-Universität di Graz, dove svolge attività di ricerca e di didattica dal 1989. I suoi interessi riguardano in particolare la retorica e la filosofia antiche e la loro ricezione nel Medioevo e nella Modernità. Ha curato diverse edizioni e traduzioni dei testi greci e latini. Nel campo della declamazione si segnalano le edizioni commentate delle Declamazioni maggiori 2 (Der Blinde auf der Türschwelle, con Antonio Stramaglia), 9 (Der Gadiator) e 13 (Die Bienen des armes annes) per le edizioni dell’Università di Cassino (rispettivamente 2015; 2007 e 2005). Mario Lentano è Professore associato di Lingua e letteratura latina presso l’Università di Siena e membro del Centro di Antropologia e mondo antico del medesimo ateneo. I suoi interessi vertono sulla commedia latina, sulla ricezione del mito greco nel mondo romano, sulla declamazione di scuola e sulle relazioni di parentela (in particolare il rapporto padri-figli). Tra i suoi lavori recenti, Retorica e diritto. Per una lettura giuridica della declamazione latina (Lecce 2014); Un’altra storia di Roma. L’‘Origo gentis Romanae’ (Einaudi, Torino 2015); La declamazione latina. Prospettive a confronto sulla retorica di scuola a Roma antica (Liguori, Napoli 2015). Danielle van Mal-Maeder è Professore ordinario di Lingua e Letteratura latina all’Università di Losanna. Specialista di letteratura narrativa di carattere fittizio, ha pubblicato numerosi contributi sul romanzo (tra cui l’edizione commentata del libro II delle Metamorfosi apuleiane, Forsten, Groningen 2001) e sulla declamazione antica. È autrice del volume La fiction des déclamations (Brill, Leiden/Boston 2007) e, di recente, di una nuova traduzione in francese delle Metamorfosi di Apuleio nel volume Romans grecs et latins pubblicato per le edizioni ‘Belles Lettres’ (Paris 2016). Dirige un gruppo di ricerca sulla declamazione antica e la sua ricezione. Claire Oppliger è ‘Assistante diplȏmée’ presso l’Università de Losanna, dove nel 2012 ha conseguito un Master in Scienze dell’Antichità, con una specializzazione in storia del libro e delle edizioni critiche dei testi. La sua tesi di dottorato riguarda le Declamationes minores e si inserisce nel progetto del FNS ‘La déclamation antique et sa réception: approches croisées’.

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214 | Elenco degli autori

Lucia Pasetti è Professore associato di Lingua e letteratura latina all’Università di Bologna. Le sue ricerche riguardano in particolare la commedia plautina, il romanzo latino, la ricezione dell’antico. Nel campo della declamazione ha pubblicato un’edizione commentata della Declamazione maggiore 17 per le edizioni dell’Università di Cassino (Cassino 2011). Coordina un progetto PRIN finalizzato a produrre un nuovo commento delle Declamationes minores e alla creazione di un database dei temi declamatori greci e latini. Julien Pingoud è ‘Maître assistant’ presso l'Università di Losanna, dove nel 2012 ha discusso una tesi sulle traduzioni francesi dei Tristia e delle Epistulae ex Ponto di Ovidio apparse nei secoli XX e XXI. È autore di saggi sulla traduzione come forma di ricezione della poesia latina e, più di recente, sugli elementi letterari presenti nella declamazione antica. Biagio Santorelli è ‘Assistant Professor’ di Latino presso l’Università della Florida (Gainesville). Formatosi alla Scuola Normale Superiore e l’Università di Pisa, ha come ambiti di interesse la satira e la declamazione latina. Ha curato una traduzione italiana integrale di Giovenale (Mondadori, Milano 2011) e i commenti alle satire 4 e 5 (De Gruyter, Berlin/Boston 2012 e 2013). In ambito declamatorio ha allestito un’edizione commentata delle Declamazioni maggiori 11 e 16 (Università di Cassino, Cassino 2014) ed è coinvolto in diversi progetti finalizzati alla pubblicazione di traduzioni e commenti del corpus pseudo-quintilianeo. Chiara Valenzano, laureata all'Università di Pisa, è dottoranda di ricerca in Culture letterarie, filologiche e storiche presso l'Università di Bologna. Il suo lavoro di ricerca, inserito in un progetto PRIN di revisione testuale con traduzione e commento delle Declamationes minores, riguarda in particolare i testi della raccolta incentrati su paradigmi tragici.

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Indice analitico abdicatio 68, 70, 78n., 81, 94 e n., 95, 107, 108 e n., 109 e n., 124n., 142n., 144 e n., 196n., 197, 200, 201, 207n., 208 Abinna (personaggio del Satyricon) 11 Achille 192, 193, 194, 202 Achille Tazio 8 actio 51, 52, 53, 54, 55, 57 – a. de dolo 52n. – a. de moribus 81 e n., 90 e n. – a. depositi 32, 36, 42 e n., 52 – a. depositi contraria 32 – a. famosa 52n. – a. fiduciae 52 – a. furti 39, 40 e n., 41, 52 e n. – a. ingrati 63n. – a. iniuriarum 48, 49 e n., 50, 52 e n., 54, 55, 56 – a. iniusti repudii 63n. – a. inscripti maleficii 138, 164, 165 – a. malae tractationis 63n. – a. mandati 52 e n. – a. pro socio 52 e n. – a. tutelae 52 e n. – a. vi bonorum raptorum 52 e n. – a. violati sepulchri/de sepulchro violato 12, 13, 14, 21, 22, 25 Adams J.N. 182n. Adriano (imperatore) 18, 19, 21 adulescens 10, 48, 163, 172, 183n., 186, 187, 188, 205 adultera 50n., 64, 65, 67, 69, 70, 71, 75, 76 e n., 78n., 79, 130, 131n., 134, 147n., 162 adulterio 7, 50, 54, 63–80, 108, 111, 119, 134, 141, 142 adultero 50 e n., 64, 65, 68, 69, 71, 73, 74 e n., 75, 77 e n., 91, 111, 131n., 141, 142, 175 adynaton 125n. aequitas 5, 59 e n., 159 Aerodius, Petrus 4 Agosti G. 135n. Agostino 32n. agroikos/ἄγροικος 85, 86 e n. Albucio Silo (retore) 178

Alcibiade 89 e n. Alcifrone 86, 145 Alessandro Severo 71 allegoria 24 Amato E. 66n., 107n., 110n., 139n. amator 157, 158, 160n., 165, 168, 170 e n., 176, 189 ambitio/ambitus 92, 93 e n., 96 amicitia 60 amplificatio 106, 116, 141 anaideia/ ἀναίδεια 87 Anderson G. 86n., 87n. Andromaca 192n. Antifane 138n., 149n. antilepsis 84 Antonino Pio 71 antonomasia/antonomastico 89, 117, 125n. Apollonio Rodio 127n. Appuleia Varilla 65n. Apuleio 8, 83 e n., 141n., 165 Arangio-Ruiz V. 32n., 34n., 38n., 40n., 45n., 51n. argumentatio/argomentazione 22, 103, 111 e n., 114, 115, 125, 126, 148, 150, 152, 155 – connettivi logici dell’a. 111 e n. argumentum v. tema Arianna 182 Aristofane 86 e n., 87 e n., 145 Ashburner W. 25n. asystaton v. status Augusto 72, 73, 74, 77 – normativa augustea 7, 65, 66, 69, 70 e n., 72, 76, 77, 79, 80 Auhagen U. 176n., 181n. Austin R.G. 91n., 92n., 95n., 100n., 185n., 191n., 192n. autodifesa (diritto di) 6, 24n., 26 e n., 27, 28 avaritia 35 avvelenamento/veneficium 14, 120 e n., 125, 126, 129, 133 avvelenatrice 9, 118, 120, 125, 128, 129, 135 Bacchide (meretrix terenziana) 172, 176, 177 Bacco 182

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232 | Indice analitico

Baldini Moscadi L. 121 e n. Battaglia F. 35n. Beard M. 47n. Behrends O. 14n., 18n., 24n., 27n., 28n., 29n., 30 e n. Belardinelli A.M. 85n. Benferhat Y. 141n., 147n., 189n. Bernstein N.W. 36n., 143n., 194n., 204 e n. Berti E. 43n., 57n., 59n., 78n., 105n., 107n., 108n., 110n., 112n., 138n., 139n., 142n., 156n., 193n., 203n. Bettinazzi M. 47n., 57n., 63n., 65n. Bettini M. 131n., 133n., 204n. Bianchi E. 51n. Bianco M.M. 164n. biasimo (discorso di) v. invettiva Billerbeck M. 82n., 83n., 94n., 97n. Bloomer W.M. 193n. Boccaccio 212n. Bolaffi E. 91n. Bonner S.F. 1, 15 e n., 36n., 47 e n., 57n., 59n., 63n., 91n., 103n., 107n., 108n., 138n., 142n., 160n., 195n., 202n. Bornecque H. 47 e n., 90n., 112n., 156n. Bost Pouderon C. 82n. boulesis 88 Boyle A.J. 123n. Branham R.B. 81n., 82n., 96n., 101n. Brasiello U. 51n. Breij B. 47n., 58n., 139n., 153n., 207n. Brescia G. 15n., 63n., 67n., 70n., 77n., 139n. brevitas 104, 113, 115 e n. Büchner K. 199n. Buffa Giolito M.F. 92n. Calboli G. 160n., 179n. Calboli Montefusco L. 43n., 48n., 69n., 87n., 101n., 105n., 159n., 166n. Caligola 12 Callia 76n. Calpurnio Flacco 63, 64, 76, 78 e n., 125, 131, 132, 133, 158n., 164 Cancik-Lindemaier H. 12n. Canne (battaglia di) 24 Cantarella E. 69n. Carawan E. 48n. Carisio 51n.

Carugno G. 87n. Casamento A. 10, 63n., 114n., 118n., 119n., 124n., 137n., 139n., 140n., 160n., 187n., 194n., 195n., 197n., 200n. Cassio Dione 100 Cassio Severo 88n. castitas 79 Catone Uticense 88 e n., 96 Catullo 182 Caviglia F. 191n., 192n. Cecilio Stazio 147, 187, 201n. cecità 170, 174n., 174 e n., 175, 183 Celso (giurista) 29 censore/censorio 65, 81 e n., 90 e n., 91n. Cesare (dictator) 54n., 210, 211 e n. Cestio Pio (retore) 174 Chiusi T. 51n., 58n. chreia 6 e n., 81n., 83 Cicerone 8, 9, 17n., 90n., 96, 97, 100n., 137n., 141n., 146, 147n., 153, 172, 179, 185, 186, 187, 188, 199, 201n. cinismo/Cinici 7, 81–101 circumscriptio 169 Citti F. 66n., 99n., 107n., 110n., 115n., 139n., 159n., 197n. Clodia (sorella di Publio Clodio) 10, 186, 187, 188 Clodio Turrino (retore) 202, 205, 207 Cocceio Nerva (giurista) 15, 16 Coffee N.A. 211n. cognitor 42, 53, 55 color 104, 112 e n., 113 e n., 115, 119, 127, 129, 131, 135, 139n., 145, 153, 164 commedia 7, 9, 86, 117, 118, 135, 137 e n., 157, 160 e n., 157–189, 200, 201 e n. – c. greca 7, 85 e n., 138n., 160 comparatio/synkrisis 143, 144, 152 e n., 155 conflitti 10, 63, 76, 119 – c. tra fratelli 63 e n. – c. tra marito e moglie 63 e n. – c. tra matrigna e figliastro 63 e n., 118, 120 – c. tra padre e figlio 63 e n., 81, 84, 85, 87, 94, 95, 97, 100, 106, 119, 139n., 150, 192, 193 e n., 195, 196 e n., 197, 208, 210 – c. tra ricco e povero 36, 37n., 38, 107, 113, 116, 139 e n., 165 e n. consilium domesticum 65, 133, 207 e n.

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Indice analitico | 233

contadino (personaggio del), v. anche rusticus 84, 85 e n., 86 e n., 87, 95, 138, 145, 146, 148, 151, 152, 153, 155, 161, 162 Conte G.B. 182n., 193n., 212n. controversia figurata 167 e n., 170n. Corbeill A. 103n., 107n., 139n., 141n., 143n., 193n., 201n. Coricio di Gaza 104n., 193n. Cornu Thénard N. 59n. corte centumvirale 73, 74n. Courtney E. 194n. Cousin J. 109n., 144n. Cratete (cinico) 82, 83 e n., 90n. Crawford M.H. 54n. Creusa (rivale di Medea) 123 e n., 124 culleus (supplizio) 140n. Cumont F. 12n. Damon C. 137n., 138n., 149n., 153n. Decio Mure 202, 204, 205 declamazione greca 4, 32n., 84–97, 137n. decorum 95 Degl’Innocenti Pierini R. 191n. delectatio 106, 116 Delignon B. 177n. De Maria L. 74n. Demetrio (cinico) 83, 100, 101n. Demonatte 82 e n. Demostene 24 De Nonno M. 104n. depositante 32, 33, 37, 39–45 depositario/depositarius 31–46 deposito/depositum 4, 31–46 – d. irregolare 32n., 33 – d. miserabile 36–38 – furto del d. 38–42 – frutti del d. 41 – gratuità del d. 44n. – infitiatio d. 6, 31–46 – infitiator d. 44 e n. – negazione del d. 32 e n., 36 – testimoni del d. 30, 42–45 Desbordes F. 103n., 167n. Desmond W. 82n., 83n. Dessauer H. 85n. Dettori E. 86n. de Visscher F. 14n.

Difilo di Sinope 25 Dimatteo G. 6, 208n. Dingel J. 15 e n., 47n., 54n., 185 e n. Diniarco (amator plautino) 175, 180 Diogene 81 e n., 82 e n., 87n., 90n., 96n. Diogene Laerzio 90n. Dione di Prusa 82 e n. diritto greco 15, 48n., 59n., 69 disertus 92, 95, 99, 100, 144, 147 divisio 105, 107, 111, 206 Dodici Tavole (leggi delle) 13, 49n. dolo/dolus 14, 35 dolor 70 e n., 71 e n., 72 e n., 73n., 74 e n., 75 Donato 176 e n. Dudley D.R. 83n., 101n. Dumont J.C. 171n. Dyck A.R. 146n., 199n. Ecuba 192 e n. ekpyrosis 99 elegia 8, 182, 183 e n. elogio 143, 146, 152n. Elvidio Prisco 101 emergenza (stato di) 6, 26, 27, 28, 29 Enea 144, 145n., 191 e n. Ennodio 119 epica (poesia) 8, 9, 192 Epicari (amante di Volusio Proculo) 189 epicureismo 95 e n., 99 Epicuro 89 e n. epilogus 113 epistola fittizia 86 Eraclio di Siracusa 48n. Ercole 192n. eredità 4 Ermogene 84, 129n. [Ermogene] 86n. Ernout A. 51n., 149n. eroe di guerra v. vir fortis esumazione 12 etica v. mores etopea (ethopoiia) 85, 86n., 135n., 137, 145, 151 Eubulo 85n. Euripide 121, 122, 123, 124n., 130 e n.

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234 | Indice analitico

excaecatio/excaecare 170, 171, 173, 174, 175, 187 excaecator 158, 159 exemplum 83n., 201, 202 e n., 203 e n. exordium 113 e n., 162, 186 fabula 165 e n. Fairweather J. 59n., 202n. Fantham E. 57n., 193n. Faverty F.E. 119n. Fayer C. 50n., 67n., 69n., 72n. Fedra 9, 119n., 122n., 130–135 Fedro 72, 73 e n., 74n. Ferrari F. 86n. Ferrari G. 48n. Ferri R. 104n. Ficca F. 45n. fiction/fittizio 2, 118, 195, 204 figliastro 118, 119, 120, 122, 125, 126, 130 e n., 131, 135 figure di suono 150, 151, 153 filosofo (personaggio del) 7, 82, 83, 85 e n., 87, 88 e n., 89 e n., 91, 92, 93, 94, 95, 98 e n., 100, 101 – f. cinico 7, 82, 83, 85 e n., 87, 88 e n., 89, 91, 92, 93, 94, 95, 98 e n., 100, 101 flagranza di reato 7, 34, 50n., 65, 66, 68, 69, 70, 71, 74, 76n., 78n., 141 Flavi (imperatori) 8, 91, 100 Fliniaux A. 48n. Flora (amante di Pompeo) 172 Fortunaziano 32n., 42n. Franchet d’Espèrey F. 167n., 170n., 203n. Frantzen M. 16n., 17n., 21n. Fronesio (meretrix plautina) 175, 180 e n., 181 Fronime 127n. furtum/furto 32n., 34, 35 e n., 38–43 Gaio (giurista) 26, 39n., 52, 53 Gallione (retore) 197, 198, 202, 205, 212 Gärtner U. 74n. Geffcken K.A. 186n., 187, 188n., 201n. Gerner E. 59n. Gerolamo 117, 118 gheorgos/γεωργός 84, 85 e n., 86 e n., 145

Giasone 122, 123 e n., 124, 127, 128 Gibson C.A. 92n. Giorgio (Grammatico) 135n. Giovanni Dossopatre 85 e n. Giovenale 45n., 72n., 74, 154 Girardet K.M. 24n. Giuliano (imperatore) 82 Giulio Vittore 34n., 81 gladiatore 53 Gnatone (parassita terenziano) 138n., 140n., 141n., 144 González Romanillos J.A. 71n. Goulet-Cazé M.-O. 82n., 83n., 101n. Goyet F. 141n. graphe paranomon/γραφή παρανόμων 59n. gravitas 78n., 95 Green P. 86n. Griffin M. 95n., 96 e n. Grimal P. 99n. Gunderson E.T. 193n. Hagemann M. 49n. Håkanson L. 1, 47n., 66n., 158n., 200n., 206n. Hansen M.G. 59n. Harich-Schwarzbauer H. 12n. Harris B.F. 101n. Harrison A.R.W. 48n. Hartmann A. 12n. Heinze R. 191n., 192n. Hellegouarc’h J. 93n. Heller E. 16n., 18n. Henderson J. 73n. Henry M.M 176n. Hensen A. 14n. Héritier F. 131n. Heyne C.G. 192n. Hill T.D. 15n., 16n. Hinds H. 182n. Hine H.M. 123n. Hinnard H. 146n. Hock R.F. 81 e n., 85n. Hofmann D 19n. Hofmann J.B. 51n. Hölkeskamp M. 194n. Hömke N. 118n., 163n., 165n., 179n. horti Lamiani 12

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Huelsenbeck B. 66n., 104n., 107n., 110n., 115n., 139n., 141n. Hunink V. 83n. ignominia 51 e n., 52n., 179 e n. ignominiosus 48, 50, 52n., 53 e n., 54, 55, 56, 57, 59n., 61, 65, 67n. Imperio O. 85n. incesto/incestuoso 63, 64, 130 e n., 131 e n., 134 infamia 6, 14, 18, 47–62, 94n., 111 e n., 179 e n. infamis 48, 49, 50, 53n., 55, 56, 58n., 60, 62 infanticidio 123, 124 e n., 127 iniuria/ingiuria 48, 49 e n., 50, 54, 55, 56, 57, 58, 61, 170 interdictio (aquae et ignis) 15 intertestualità 9, 119n., 156, 182 inventio 137 invettiva 83, 84, 93, 143, 144, 152n. Ippolito 122n., 125, 130 e n., 131, 134 e n., 135n. Ipsipile 122 ironia 29, 74n., 94, 169, 170, 172 iudicium 65, 90n., 196 e n., 197, 198, 208 ius 4, 51, 57, 62, 207 – i. accusandi 55, 56, 61 – i. occidendi 67, 69, 76 – i. sepulchri v. diritto di sepoltura – i. vitae necisque 76 – eductio in i. 55, 56 – quaestio iuris 59n. – regula iuris 6, 47 e n., 54n., 55, 57, 58 iusiurandum – i. delatum 40n. – i. necessarium 40 – i. voluntarium 40n. Jaeggi O. 12n. Johansson M. 108n., 142n. Jolles A. 8 Kaser M. 51n., 52 e n., 90n., 91n. Kindstrand J.F. 83n., 101n. Klingenberg G. 14n. Knosala T. 12n.

Knütel R. 18n., 24n., 27n., 28n., 29n. Kohl R. 88n. König J. 86n. König R. 17n. Konstantakos I.M. 86n. Krampe C. 25n. Krapinger G. 6, 108n., 139n., 142n., 156n., 174n. Krenkel W. 12n. Krueger D. 81n., 87n. Kupisch B. 18n., 24n., 27n., 28n., 29n. Labeone (giureconsulto) 14, 28 Lana I. 91n., 100n. Landgraf G. 147n. Landolfi L. 122n. Lanfranchi F. 15 e n., 39n., 40n.,47 e n., 63n., 108n., 111n., 138n., 142n., 195n. Langer V.I. 47n., 63n., 70n., 91n. La Penna A. 82n., 83n. Lattanzio 201n. Lécrivain C. 59n. Leff M. 141n. leges v. leggi leggi (declamatorie) 4, 5, 6, 15, 47, 49, 54n., 62, 66n., 107n., 138, 141 – abdicare liceat 25 – adulterum aut occidere aut accepta pecunia dimittere liceat 50n. – ignominioso ne qua sit actio 48, 55, 56 – inscripti maleficii sit actio 138 – parricidae insepulti abiciantur 14, 15 – qui depositum infitiatus fuerit, quadruplum solvat 33 – qui depositum perdiderit, iuret et sibi habeat 38 – qui iniuriarum damnatus fuerit, ignominiosus sit 48, 54 – qui in templo iniuriam fecerit, decem milia denariorum det … / si quis in templo iniuriam fecerit, decem milia det … 49, 138n. – qui ob adulterium pecuniam acceperit, ignominiosus sit 50, 54 – qui tribus rogationibus contradixerit nec tenuerit ignominiosus sit 59n.

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– raptor decem milia solvat / qui ingenuam stupraverit det decem milia 138, 139 e n. – si duo aut plures fortiter fecerint, de praemio armis contendant: 107n. – vir fortis optet quod volet 107 e n., 114n., 158, 195n., 196n. – viro forti praemium 114, 158, 195n. leggi (storiche) – lex Aquilia 26, 28 – lex Cornelia de iniuriis 49n. – lex Cornelia de sicariis et veneficis 15 – lex Iulia de adulteriis 50n., 65, 69 e n., 71, 72 e n., 74, 76, 80 – lex Iulia municipalis 54n. – lex Rhodia de iactu 24 Leigh M. 185 e n., 186n. Lenel O. 52 e n. lenocinium/lenocinio 50n., 58 lenone 50, 53, 54, 55, 88n., 138, 143, 145, 157, 161, 162, 163, 164 Lentano M. 7, 47n., 58 e n., 63n., 66n., 67n., 70n., 77n., 90 e n., 107n., 110n., 139n., 141n., 142n., 152n., 158n., 166 e n., 193n., 194n., 195 e n., 196n., 198n., 204n., 207n., 210n. Libanio 1, 2, 104n., 142n. Libby B.B. 73n. Licinio Macro 17n. Lisitele (adulescens plautino) 200n. Litchfield H.W. 202n. Lo Cascio E. 54n. locus (communis) 9, 31n., 106, 113, 118, 137–156, 161, 175, 179 – l. de tormentis 36 e n. Long A.A. 90n., 96n. Longo G. 179n. Lucano 211 Luciano 82 e n., 83n., 87, 149n. Lucilio (allievo di Seneca) 83, 93, 154, 212 Luck G. 125n. Lucrezia 79 Lucrezio 99n. Lupi S. 104, 193n. luxuriosus 35, 140n., 141, 152n., 155, 200 e n., 201

Maestro (delle Minores) 8, 9, 10, 103–116, 156, 159, 160, 161, 163, 164, 167, 168, 169, 171, 172, 175, 186, 187, 188, 189 – ‘io’ del M. 113, 115 Maganzani L. 48n. magia 118, 125n., 127, 157 Malaspina E. 210n. Malcovati E. 205n. Malosse P.L. 202n. Manlio Torquato 204 manoscritti e papiri – Monacensis Lat. 309 3 – Montepessulanus H 126 3 – Papyrus Londinensis Lit. 138 32n., 34n., 45n. – Parisinus (rescriptus) 7900 A 85n. Mantovani D. 5, 47n., 75n. Manzoni G.E. 91n. Marcellino (retore) 84, 85, 88 e n. Marchese R.R. 152n. Marco Antonio (triumviro) 90n., 141n., 172 Marco Celio 186, 187, 188, 201n. Massaro M. 194n. Masselli G.M. 202n. Mastrorosa I. 92n., 93n., 99n. matrigna v. noverca matrimonio 67, 79, 117, 123, 133, 134 matrona 81 e n., 91 e n. Mattiangeli D. 50n. Mauduit C. 145n. Mayer R. 36n. Mayor J.E.B. 74n. Mazzacane A. 51n. Mazzara R. 177 e n., 181n. McDonnell M. 194n. Medea 9, 117–135 – di Euripide 121 – di Ovidio 122, 123, 136, 156, 181, 182, 183, 189 – di Seneca 123 e n., 124 e n., 127n. – M. maga 121, 122, 123, 125n., 127, 128 medico (personaggio del) 92 e n., 94 Meillet A. 51n. Menandro 85n., 86, 87n., 145, 163, 176 e n., 181, 189n. Menippo di Gàdara 82 Mentone (retore) 126

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meretrix 9, 138, 140, 142, 143, 145, 158–189, 200 – m. blanda 180–184 – m. bona 10, 171–180, 181, 189 – m. (ex)caecata 157, 158, 160, 161, 166, 170, 171, 172, 175, 177, 180, 182, 183, 188, 189 – m. mala 163, 181 e n. – nome della m. 178, 179, 180 metaretorica 8, 44n., 121, 167n. metateatro 171n., 172 metodo didattico 103–116 metus poenae 19 Micione (senex terenziano) 201n. Migliario E. 63n. Milziade 76n. mimo 117, 118, 161, 172, 173, 175, 187 Mitteis L 48n. mores 5, 6, 8, 58, 60, 62, 78, 81 e n., 90n., 91, 97, 99, 100, 141, 144, 147, 154, 179 Moretti G. 186n., 187n. Mucio Scevola 202 e n., 203 Müller A.M. 18n. multae funerariae 49n. Narducci E. 211n. narratio 114, 115 e n., 149, 150, 152, 155 natura 96 e n., 97 e n., 98 e n., 99, 154 e n., 211 necessitas 23, 24, 38 Nenci F. 199n. Nerazio (giurista) 18, 41 Nerone 82 Nesselrath H.G. 149n. Nevio 163 Nicolao di Mira 85n. Noblot H. 154n. Nocchi F.R. 119n., 121n., 137n., 140n., 160n., 179n., 200n. Nöel M.P. 202n. nomi parlanti 148, 149, 154, 180n. Nonio 199 noverca 9, 25, 29, 31, 68, 117–134, 153n., 157 – bona n. 120

Oberg E. 73n. Odisseo 125 Olson S.D. 85n. omicidio 66, 68, 122, 124, 129, 132, 139, 141 O’Neil E.N. 81n. Opelt I. 147n. Oppliger C. 8 oratore (personaggio dell’), v. anche disertus 92, 94, 95 e n., 98, 100n. Orazio Coclite 202 e n. ornatus 170 Ortalli J. 12n. Ovidio 8, 74n., 121, 122 e n., 125, 145, 156, 181, 182, 183, 189, 191n. Palestrione (personaggio di Plauto) 171 Paoli U.E. 59n., 63n., 69n., 160n. Paolo (giurista) 26, 27, 35n., 71 Papiniano 71, 72n., 76, 77 parassita 9, 68, 85 e n., 86n., 137–156, 160n., 161 e n., 163, 165n. – p. rusticus 144–156 – p. servus 152, 153 e n. – nomi del p. 148 e n., 149 e n. – rex del p. 137 e n. – p. e suicidio 20, 21 parricidium/parricidio 6, 139n., 140n., 144, 146, 150, 210 e n., 211 Parroni P. 99n. Pasetti L. 7, 47n., 86n., 99n., 108n., 115n., 139n., 142n., 148n., 151n., 154n., 162n. pater familias 73n., 91n., 117 patientia 96 e n. Patillon M. 75n., 86n., 141n., 152n. pecunia – p. accepta 50n., 65 – p. certa 40 e n. – p. credita 32n. Penelope 125 Pepe L. 73n. Pernot L. 141n. peroratio 111, 113 e n., 150, 152, 155, 165 persona 104, 105, 106, 113, 115, 121 e n., 140 e n., 161, 164, 187 Petrarca 212n. Petrone G. 149n., 180n., 210n., 211n. Petronio 11

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Pfaff I. 49n. physis/φύσις v. natura pietas 76, 77 Pingoud J. 9, 119n., 179n. pirata 4, 25, 135, 139, 157 Pirro (re dell’Epiro) 202 Pirro/Neottolemo 192, 193, 194, 211 Platone 89 e n., 90n. Plauto 13, 149 e n., 162, 163, 164 e n., 165, 171, 175, 176, 177n., 180 e n., 181 e n., 201n. Plinio il Vecchio 16 Polibio 205n. Polite 192 e n., 193, 211 Pompeo Magno 172 Pomponio Labeone 17 pontefici/pontifices – diritto dei p. 12, 13, 29 Popillio 90n., 91n. Porcio Latrone (retore) 178, 206 e n. postulatio 53 potestas 67 – p. in causam educendi 55 – patria p. 108 Potiphar-motiv 119 e n., 130n., 135 povero (personaggio del), v. conflitti 36, 37n., 38, 107, 113, 116, 138, 139, 141, 143n., 157, 164, 165 e n., 169 praemium 107 e n., 112, 113, 114, 159 e n., 160, 195 e n., 201 praescriptio 48 e n., 49, 55 pretore/pretorio 32 e n., 37n., 49n., 52, 53 e n., 54, 55, 57, 58 e n., 60 Priamo 191 e n., 192 e n., 193, 211 privignus v. figliastro Procopio di Gaza 136n. Proculo (giurista) 28 procurator 42, 53, 55 proemio v. exordium progymnasma 81, 141 pronuntiatio 137, 138 Properzio 124, 183 prosopopea 182, 187 e n. Protagora 89 e n. quaestio (retorica) 14, 48, 50, 51, 88, 98, 99 e n., 107, 108, 109, 110, 111

Quintiliano 4, 8, 31 e n., 32n., 44n., 49n., 67, 81, 90, 91 e n., 92, 93, 95 e n., 98, 99, 100, 101, 106, 108, 113, 115, 116, 118, 119, 131, 132, 137, 138, 142, 143, 145, 146, 147, 151 e n., 157, 158, 160, 167, 170 e n. [Quintiliano] 2, 3, 10, 63, 78, 109n., 113, 119n., 179 Rau P. 13n. Raucci S. 183n. recusatio 107n. Reinhardt T. 31n., 118n., 143n Renda C. 74n. Ribbeck O. 86n. ricco (personaggio del), v. conflitti 36, 37n., 38, 44n., 45n., 70, 107, 113, 116, 138, 139 e n., 141, 142, 143 e n., 144, 149, 153, 164, 165, 169 Richlin A. 63n., 193n. ripudio 65, 68, 78, 79 rito funebre 11, 12 Ritter C. 3, 33n., 43n., 48n. Rizzelli G. 50n., 63n., 69n., 71n., 77n. Robinson O. 70n. rogatio 59 e n. Rohde E. 43n., 48n. Rolle A. 119n., 179n. Romanio Ispone (retore) 173 e n. Romano il Melodo 136n. romanzo 8 Rosenmayer P.A. 86n. Russell D.A. 1, 2, 3, 157n. Russo G. 32n., 34n.,45n. rusticus 144–156, 162, v. anche contadino sacerdotessa (personaggio della) 138 e n., 139, 154n., 157, 174 Santalucia B. 15 e n., 56n. Santorelli B. 31n., 36n., 64n., 74n., 107n., 137n., 139n., 159n. sanzione (pecuniaria) 14 – s. del quintuplo 34n. – s. del tantundem 42 – s. in duplum 32 e n., 34n., 37, 38, 46 – s. in quadruplum 32–35, 39, 46

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– s. in simplum 32, 35n., 37, 46 Sassia 179 satira 137n., 138, 153, 154, 155, 156 Scarpat G. 83n., 93n. Schanbacher D. 25n. schiavo 24, 43, 69, 138, 145, 163, 166, 171, 172, 181 – trattamento degli s. 4 – uccisione dello s. 26 Schiavone A. 5 Schiesaro A. 123n. Schneider C. 107n., 145n. Schönberger E. 20n., 22n., 24n. Schönberger O. 20n., 22n., 24n. Schouler B. 202n. Schulting J. 206n. Scipione Africano Maggiore 146n., 201, 203, 205 e n. Scipione Emiliano 205 e n. Scipione Ispano 194n. Seconda Sofistica 83, 86 Seiler H. 18n., 24n., 27n., 28n., 29n. Seneca 9, 83 e n., 93, 94, 97, 99n., 100, 101, 121, 123, 127 e n., 130, 135, 151 e n., 154, 210n., 212 e n. Seneca il Vecchio 1, 3, 20, 22, 23, 24, 31n., 63, 64, 66 e n., 76n., 78 e n., 88n., 90n., 97, 104n., 112, 113, 127, 132, 133, 141n., 157, 158n., 173, 174, 178, 181, 196, 203 e n., 209 sententia 94n., 178 sepoltura/sepulchrum – allestimento della s. 11 – definizione di s. 13 – diritto di s. 6, 14 e n. – divieto di s. 6 – spoliazione della s. 6 – violazione della s 11–30 sermo 8, 14, 15, 39, 42, 103, 104, 106, 107 e n., 109, 110n., 111n., 113, 115n., 116, 144n., 159, 164, 168, 207 Servio 193n. Sesto Roscio Amerino 146 Shackleton Bailey D.R. 22n., 33n., 34n., 64n., 70n., 106 e n., 107n., 109n., 110n., 112n., 113, 148n., 161n., 167n., 170 e n., 173 e n., 184

Silla 146, 147 Sinone (personaggio virgiliano) 184 Socrate 88, 89 e n., 90 e n. soldato (personaggio del) 42, 44n., 45n., 138, 145, 159, 211 – s. fanfarone/miles gloriosus 163, 166– 169, 189 Solimano G. 74n. somiglianza (tra padre e figlio) 129, 133 e n., 134 e n., 212 Sopatro Retore 8, 87, 88n., 89 sortitio 48n. Sprenger J. 47 e n., 49n. 59n., 63n. Spurio Cassio 204 Stahr A. 12n. status (dottrina degli) 5, 105, 159 e n. – s. coniecturalis 32n., 43 – s. delle leges contrariae 159 e n. – s. finitivus 50 – s. legalis 49, 110n., 114 – s. qualitatis 48, 59n. – s. translationis 48n. – mancanza di s./asystaton 75n., 87 e n., 88n. Stock F. 83n. stoicismo/Stoici 15, 96, 97n., 98, 99 e n., 101 Stramaglia A. 12n., 15n., 31n., 36n., 44n., 46n., 64n., 75n., 104n., 107n., 114n., 142n., 159n., 167n., 174n., 195n. Strepsiade 86 e n. Stroh W. 118n. Stroux J. 5, 75n. suasoria 88n., 152 suicidio/suicida 6, 15–21, 160 – s. di spada 16, 164 – s. per furor 19, 21n. – s. per impatientia doloris/valetudinis 19, 20 – s. per impiccagione 18 – s. per insania mentis 19 – s. per mala conscientia 18 – s. per pudor aeris alieni 19 – s. per taedium vitae 18, 19, 20 – s. sine causa 20 – confisca dei beni del s. 17 e n., 18, 19, 20, 21

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– punizione del s. 17 Sulpicio Vittore 90n. Sussman L.A. 36n., 158n., 164 e n., 193n., 197n. Svetonio 12 Tabacco R. 36n., 37n., 47n., 89n., 114n., 156n. Tabula Heracleensis 53n., 54n. Tacito 17, 18, 189 Taddeo Ugoleto 4 Taide (meretrix terenziana) 166, 172, 176, 181 e n. talio (supplizio) 49n., 158, 159 e n., 170, 175 Tarquinio Prisco 17 Tatum W.J. 186n. teatro/teatrale 9, 118, 119, 121 e n., 157–189 tema 5, 8, 9, 14, 37n., 40, 49 e n., 50, 54, 57, 76n., 77, 81 e n., 84–99, 101, 104, 106, 107 e n., 112, 116, 120n., 125, 126, 131, 132, 135, 136, 137, 138 e n., 139n., 141, 144, 145, 159, 160, 164, 168, 170, 172, 177, 196 e n., 197 e n. tempus lugendi 53, 58 Teocrito 147n. Teofrasto 145 Terenzio 138n., 140n., 144, 161, 163, 165, 172, 176 e n., 177, 181n., 187, 189n. Teseo 122 e n., 130, 134, 136n., 182 thema v. tema thesis 7, 84, 85n., 100 Thiele G. 73n. Thomas Y. 193n., 207n. Tiberio 15, 17, 72 Tibullo 189 Till R. 194n. tirannicida 4, 64, 89, 131 tiranno 31, 36 e n., 37 e n., 38, 64, 89 e n., 113 topos v. locus tortura/tormentum 36 e n., 43, 44, 68, 125, 126, 141, 143 e n. – t. (metafora amorosa) 183 e n. Tosi R. 129n. Totola G. 176n.

tragedia/tragico 9, 119 e n., 121, 123, 124n., 127 e n., 130 e n., 131n., 133, 134, 135, 137n., 160n., 190, 191, 194 Traina A. 183n. Trasone (miles plautino) 166, 172 Triario (retore) 128, 129 tricolon 155, 183 Trimalcione 11 Ulpiano 18 utilitas 4, 92 Valenzano C. 9 Valerio Massimo 17n., 24, 72, 74 Van der Poel M. 202n., 203n. Van Hooff A.J.L. 15n., 16 e n. van Mal-Maeder D. 36n., 63n., 85n., 103n., 104n., 115n., 116n., 118n., 119n., 137n., 142n., 158n., 160n., 161 e n., 173n., 187n., 195n., 200n. Vasaly A. 147n. veleno/venenum 119, 120, 121, 122, 127, 129 Verre 48n. Vesley M.E. 193n. Vespasiano 100, 101 e n. Viano C. 91n. vir fortis 10, 22, 29, 31, 75, 78n., 107 e n., 110 e n., 111, 114 e n., 115, 116, 120 e n., 157, 158 e n., 159 e n., 166, 167, 168, 169, 170, 171, 172, 173, 174, 175, 177, 182, 183, 187, 189, 194 e n., 195 e n., 196 e n., 197, 208 Virgilio 8, 144, 169, 191 e n., 192n., 193 e n., 194, 211n. virtus 95, 205, 206, 207, 209 Volumnia (amante di Antonio) 172 voluntas 159 Volusio Proculo 189 von Albrecht M. 47n. von Savigny F.C. 58n. Vozieno Montano (retore) 126 Wacke A. 16n., 17n., 18n., 21n., 24n., 26n., 28n. Waddell Gruber H.I. 171n., 173n. Walde A. 51n.

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Indice analitico | 241

Wessely C. 48n. Winterbottom M. 1, 3, 4, 14n., 31n., 36n., 48n., 57n., 59n., 64n., 65 e n., 66n., 81 e n., 84n., 86n., 88n., 91n., 92 e n., 95n., 96n., 97n., 99 e n., 103n., 104n., 107n., 109n., 111n., 112n., 113 e n., 115n., 118n., 120n., 129n., 138 e n., 143n., 146n., 148 e n., 154n., 155 e n., 158n., 159 e n., 162n., 164 e n., 170, 174 e n., 184, 195 e n., 196n., 200n. Wolf J.G. 51n., 52 e n., 53 e n., 54n., 55, 57n., 58n., 60n. Wolff H.J. 59n.

Wycisk T. 34n., 36n., 39n., 40n., 41n., 47n., 49n., 54n., 59n., 195n. Yohannan J.D. 119n. Zaleuco 175 Zanon Dal Bo A. 196n. Zenone (retore) 75, 76 Ziegler K. 199 Zimmerman M. 119n. Zimmermann R. 32n., 38, 40n., 41n., 42n. Zinsmaier T. 36n., 143n., 160n. Ziosi A. 122n.

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Indice dei luoghi Alciphron 2,38 86 Anon. Schol. ad Aphth. II 21,19 Walz 88n. Antiphanes fr. 193 Kassel-Austin 138n. fr. 193,10s. K.-A. 149n. Apollonius Rhodius 1,269–275 127n. 1,813–815 127n. Apuleius – apol. 22 83 e n. 69 165 e n. 100,4 141n. – flor. 9,9 83 14 83n. 22 83n. – met. 5,30 147n. 6,11 152n. 10,2,2–12 119n. Athenaeus 6,234c–235e 149n. Augustinus – rhet. p. 147, 10–14 Halm 42n. Caecilius Statius fr. 49 Ribbeck3 201n. fr. 230 R3 201n. fr. 232 R3 201n. Calpurnius Flaccus – decl. 12 125 18 197n. 22 131 23 76n., 78n. 26 195n. 27 195n. 28 195n. 31 78n.

32 195n. 36 195n. 37 164 e n., 183n. 40 132, 133 40, p. 33, 1s. Håkanson 133 40, p. 33, 8 H. 133 43 174n. Cassius Dio 65,13 100 Catullus 51 174n. 64 182 Cicero – Brut. 180 147n. – Caecin. 27 141n. 36 153n. – Cael. 1 185 25 187 34 187 35 187 37s. 187, 201n. 49 188 61 186n. 64s. 187 69s. 210n. – Cato 55–57 146n. – Cluent. 199 179n. – de orat. 1,137 153n. 3,42 147n. 3,44 147n. – fin. 3,59 45n. – Lael. 93 140n., 141n. – leg. 2,18,46 12n. – leg. agr. 2,26 153n.

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244 | Indice dei luoghi

– Lig. 1 153n. – Mur. 60 96 – off. 1,31 45n. 1,58 199 1,128 97n. 1,148 97n. 3,95 45n. – orat. 30 153n. 109 140n. 150 147n. – Phil. 2,15 141n. 2,20 172n. 2,58 172n. 2,61 172n. – Q. Rosc. 20 140n. – Rab. Post. 10 153n. rep. 1, fr. 1a Ziegler 199 – S. Rosc. 39 146n. 46s. 147n. 48 146n. 51 146 68 150n. 69s. 210n. 70–72 140n. 75 146n. 143 146 – Tusc. 1,36 11n. – Verr. II 2,37 48n. CIL I2 15 = ILS 6 194n. VI 1184 = ILS 1771 12n. Codex Iustinianus 3,26,2 19n. 6,22,2 19n. 9,2,12 19n. 9,6,5 19n. 9,50,1 19n.

Collatio Mosaicarum et Romanarum legum 4,3,5 50n. 4,12,1,4 71n. 10,2,6 39n. Demosthenes 35,10–13 25n. Digesta 2,4,10,12 52n. 3,2,2,5 53n. 3,2,4,5 52n. 3,2,7 52n. 3,2,11,3 18 4,3,11,1 52n. 9,2,3 26n. 9,2,4 26n. 9,2,5,2 26n. 9,2,29,3 28 9,2,45,4 26 9,2,49,1 28 11,7,39 12n. 12,2,7–9 40n. 14,2,1 24 14,2,2,3 25n. 14,2,9 25n. 16,3,1,1 37n., 38 16,3,1,1–4 32n. 16,3,1,14 43n. 16,3,1,21 41 16,3,1,24 41n. 16,3,7,1 42n. 16,3,24 33n. 16,3,25,1 33n. 16,3,28 33n. 16,6,5,2 41n. 28,3,6,7 21n. 30,104,4 40n. 37,15,2, pr. 58n. 39,4,1,3 34n. 42,2,1 19n. 43,24,7,4 28n. 45,1,8,9 40n. 47,2,1,3 35n. 47,2,10 39n. 47,2,14,3s. 39n. 47,2,68, pr. 35n. 47,2,77,1 39n.

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Indice dei luoghi | 245

47,9,7,3 28n. 47,10,5, pr. 49n. 48,2,3,3 50n. 48,4,11 18n. 48,5,2,2 50n. 48,5,3,23 (22),3 72n. 48,5,23 (22),4 77 48,5,30 (29), pr. 50n. 48,5,39 (38),8 71n. 48,8,9 27n. 48,21,2,4 19n. 48,21,3, pr. 19n. 48,21,3,1s. 19n. 48,21,3,5 21n. 48,21,3,6 19, 20 48,21,3,8 19n. 49,14,45,2 19n. Dio Chrysostomus – or. 32,9 82n. 34,2 82n. Diogenes Laertius 6,54 90 7,2s. 90 Diphilus – Zograph. fr. 42,10–17 Kassel-Austin 25n. Donatus – ad Eun. 198 176n. – ad Hec. pr. 1,9, p. 190 Wessner 176n. 834 176n. Ennius – ann. 7,233 Skutsch 170n. Ennodius – dict. 15 119n. Eubulus fr. 137 Kassel-Austin 85n. Euripides – Alc. 304–310 127n. – Med. 384s. 121

Firmicus – math. 7,10,3 150n. Fortunatianus – rhet. 1,4, p. 83, 15–19 Halm = 69, 15–19 Calboli Montefusco 42n. 1,4, p. 84, 5 H. = 70, 20–22. Calb. Mont. 195n. Gaius – inst. 2,214 40 3,196 35 3,203 39n. 3,207 39 4,182 52 e n., 53 Gellius 17,18 50n. Georgius grammaticus – Anacr. 1–2 135n. 3 135n. 4 135n. 5 135n. 6a 135n. 6b 135n. Hermogenes – Id. 2,4,17, p. 51 Patillon 129n. – Stat. 2,5, p. 13 P. 84 4,2, p. 40 P. 88 [Hermogenes] – Prog. 8, p. 199 Patillon 152n. 9,6, p. 201 P. 86n., 145n. Herodotus 4,154s. 127n. Hieronymus – epist. 54,15 117 Historia Augusta – Adr. 23,9 165n.

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246 | Indice dei luoghi

Homerus – Il. 22,338–344 11n. Horatius – epist. 1,14,35 154n. 1,15,27 144n. – epod. 5,9 117n. – sat. 1,2,43 50n. 1,2,133 50n 2,6,79–117 146n. Ioannes Doxopater – In Aphthonium II 500, 7 Walz 85n. Ioannes Sardianus – Commentarium in Aphth. Prog. p. 204, 5 Rabe 86n. Institutiones Iustiniani Augusti 4,1,6 34 4,3,2 27n. 4,6,17 37 Iulius Victor – ars: p. 377, 37 Halm = 8, 15 Giomini Celentano 34n. p. 378, 5 H. = 8, 23 Giom. Cel. 34n. p. 383, 36 H. = 17, 1 Giom. Cel. 195n. p. 385, 12 H. = 19, 7 Giom. Cel. 34n. p. 390, 31 H. = 26, 11s. Giom. Cel. 81n. p. 396, 27 H.= 34, 10s. Giom. Cel. 49n. Iuvenalis 5,14–23 137n. 7,166–170 46n. 9,70–83 142n. 10,314–317 74n. 13,60–63 45n. 13,75–77 45n. Lactantius – inst: 5,7,6 = fr. 6 Lenhert 64n. 6,11 201n.

Libanius – decl. 28 137n. – or.: 64,67 135 Livius 21,14 24n. Lucanus 7,320–322 210 1,352–391 211n. 1,376–378 211n. Lucianus – Dem.(9): 9 82n. – De salt.(45): 2 135 – Fug.(56): 14 82 14–21 83n. 18 91n. – Par.(48): 2 149n. Lucilius fr. 1337–1338 Marx =1353–1354 Krenkel 199n. Lucretius 2,410s. 99n. 4,1076–1078 174n. 5,939–952 155n. 6,225–227 99n. Menander fr. 114 Kassel-Austin 85n. fr. 193 K.-A. 85n. – Gn. pap. 189 Jäkel 117n. Nicolaus Mirensis – Prog. 10, p. 63, 15–21 Felten 85n. Ovidius: – am. 1,15,17s. 181 1,7,38 189 1,7,63 74n.

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Indice dei luoghi | 247

1,4,21 183n. 2,19,19 183n. 3,4,37 147n. – ars 2,179 156n. 3,524 183n. – epist. 4,132 145n. 6 122 6,126 117n., 122n. 6,126–128 122 12 123 12,187s. 123 12,188 117n. – met. 1,147 117n. 7,404–424 122n. 14,716 183n. 15,498 117n. – rem. 53s. 156n. 169–212 156n. 175s. 156 – trist. 3,3,51 183n. 4,1,71–74 191 Paulus – sent. 1,21,4 13n. 2,26,8 50n. Petronius 1–3 118 1,3 36n., 118 71,4–12 11n. 105 152n. 111,6 11 Phaedrus 3,10,9–50 73 3,10,25 74 3,10,28 74 Plautus – Amph. 515 142n. – Asin. 919 137n.

– Bacch. 573–605 142n. 1181 152n. – Capt. 69–72 149 92 137n. 470 148n. 477 149n. – Cist. 206–209 183n. – Curc. 392–395 154n. – Men. 77s. 149n. 156s. 154n. – Mil. 149 171n. – Persa 102 149n. – Pseud. 361–364 13 947 152n. – Stich. 171–177 148n. 172 153n. 174–178 149n. 217–221 148n. 455 137n. – Truc. 46s. 175n. 51 175n. 78a–78b 180 81s. 175n. 572s. 181 Plinius maior – nat. 36,107 17 Plinius minor – epist. 10,68s. 12n. Plutarchus – Pomp. 2,5–8 172n. – Sol. 21 49n. Polybius 31,24,10 205n.

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248 | Indice dei luoghi

Problem. Rhet. in Status VIII 413–18, 20 Walz 91n. Propertius 2,14,29 183n. 2,25,39s. 183n. 3,8,17 183n. 4,5,9s. 125 Quintilianus 1, pr. 15 91n. 1, pr. 16 147n. 1,8,7s. 137n. 1,10,69–72 137n. 1,11,12 137n. 2,4,21 152n. 2,4,22 143n., 175n. 2,4,22s. 143n. 2,4,24 146n. 2,4,27–32 142n. 2,5,11 154n. 2,6,1–5 116n. 2,10 4 2,10,4s. 31n. 2,10,5 118 2,10,5s. 116n. 2,10,8 119 2,15,9 56n. 2,21,16 147n. 3,1 32n. 3,5,8 88n. 3,8,51 145n. 4,1 113n. 4,1,28 121n. 4,1,31 186n. 4,1,39 186n. 4,1,46s. 121n. 4,2,3 90, 146n. 4,2,19 146n. 4,2,24–26 115n. 4,2,30 81n., 95 4,2,94 31n. 4,2,95 143n. 4,2,96 144 4,2,98 131 5,4,1 143n. 5,7,35 31n. 5,10,26s. 145n.

5,10,104 67n. 5,11 203n. 5,11,6 203n. 5,11,19 147n. 6,1 113n. 6,1,16 49n. 6,2,17 145n. 6,3,13 147n. 6,3,17 147n. 7,1,7s. 67n. 7,1,42–62 147n. 7,1,25 195n. 7,2,2 146n. 7,2,23 146n. 7,2,50s. 31n., 43n., 44n. 7,4,8 174n. 7,4,27–29 108 7,4,36 138n. 7,5,4 195n. 8,6,75 147n. 9,2,30 121n. 9,2,39 186n. 9,2,42s. 132 9,2,53 146n. 9,2,81–91 167n. 10 8 10,1,55 147n. 10,1,69–71 160n. 10,1,71 145n. 10,1,97 160n. 10,1,125–131 151n. 10,1,131 151n. 10,3,16 147n. 10,5,14 31n. 11,1,39 121n. 11,3,74 138n., 145n. 11,3,112 138n. 11,3,178 138n. 12,2,9 91n. 12,2,6 100n. 12,2,23–26 91 12,2,24 95n. 12,2,29s. 98n. 12,3,12 92 12,4,1 203n. 12,6,4 146n. 12,10,52 106n.

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Indice dei luoghi | 249

12,10,53 147n. [Quintilianus] – decl. mai. 1,6, p. 7, 10–13 Håkanson 174n. 2 174n. 4 195n. 4, th. 107n. 4,21, p. 83, 12 H. 93n. 5 79n. 5,2s., p. 86s. H. 152n. 5,8, p. 92s. H 79n., 152n. 5,10, p. 94s. H. 152n. 6 174n., 179n. 6,14, p. 126, 7 H. 197n. 7,6, p. 143,16s. H. 153n. 9 144n. 9,9, p. 182–184 H. 153n. 10,6, p. 205, 12 H. 145n. 10,14, p. 212, 21 H. 145n. 10,15, p. 214, 12 H. 145n. 14 8, 157n., 163n. 15 8, 157n., 165n., 178, 180 15,2, p. 302,24–303,7 H. 179 17,3, p. 334,14 H. 93n. 18,3, p. 355s. H. 152n. 19,4, p. 375s. H. 152n. 19,6, p. 377s. H. 153n. 19,11, p. 383,8 H. 127n. – decl. min. 244 67, 68, 113n. 244,5 79n. 245 6, 32, 34, 35, 44, 107n. 245, th. 33 245,1 121n. 245,2 33n., 35n. 245,3 35n. 245,5 35n. 245,6 33n. 245,7 33n., 35n. 246 120 e n., 170n. 246,2 121 246,3 104, 115n. 246,9 111n. 247 115n. 247,1 104 249 64, 79 249,1 112

249,2 64n. 249,19 79n. 250 6, 47–51, 54 e n., 55, 56, 60, 61, 62 250, th. 48 250,2 48 250,3 55 250,4 60, 62 250,5 57 250,6 57 250,7 56 250,8 57 252 138 e n., 141 e n., 165n. 252, th. 138 e n. 252,10 141 252,10–13 139n. 254 107n. 257 144n. 258 10, 107n., 114n., 158n., 170n., 191, 195n., 196n., 207, 210, 211 258,1 208 258,3 208, 209 258,4 209 258,6 210 259 107n. 259,1 109n. 259,2 121n. 259,12 186n. 260 103 n., 142, 162n., 200 260,1–3 113n. 260,2 143n. 260,8 142n., 160n., 162n., 201 260,18 142n. 260,19 160n. 260,27 51n., 94n., 148n., 150 260,32 143n. 262 139n. 262,8 160n. 263 6, 7, 8, 47, 51 e n., 59, 62, 116n. 263, th. 59n. 263,8 59 265 6, 47, 49, 51, 55, 54n., 57, 60, 62 265, th. 49 265,6 61 265,10 138n. 266 107n., 195n. 268 92, 94, 95n., 99, 100 268,5 92, 93

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250 | Indice dei luoghi

268,7 98n. 268,11 99n. 269 6, 36 e n., 37, 44 269, th. 36 269,1 37n., 44n. 269,2 44n. 269,3 38n., 44n. 269,5 37n., 44n. 269,9 38n., 45n. 269,15 44n. 270 139n. 271 107 e n., 144n., 196n. 271,1s. 108 271,2 144n. 271,3 109 271,4 109 271,5 110 e n. 271,6 110 271,7 111n. 271,8 110 271,9 107n., 111n. 271,10 111 271,11–18 111n. 271,18 94n., 148n. 273 65, 107n. 273,1 121n. 274 107n., 116n. 275 6, 47, 48, 50, 51, 54 e n., 57, 62, 65, 77 e n. 275, th. 50 275,1 54 275,5 78n. 276 139n. 277 67, 68, 70 277,2 70n. 278,8 152n. 279 65, 68, 70, 74n. 279, th. 50n. 279,3 160n. 279,12 70 279,13 71n. 279,17 173n. 280 113n. 280,1 109n. 280,3 121n. 282 115n. 283 81 e n., 84, 92, 94, 95, 99, 100

283, th. 81n., 86n. 283,1 93 283,2 95 283,3 93, 96 283,4 96, 98, 99n. 283,5 94, 96 283,15 94 284 67, 112n. 284,5 34n. 285 107n., 113n. 286 67, 77, 112n. 286,1 108n., 110n. 286,8 140n. 287 112n. 287,1 108n. 291 67, 77, 144n. 291,1 140n. 293 113, 116, 158n. 293,1s. 114 294 107n., 195n. 295 195n. 296 139 296,1–7 140 296,6 121n. 297 9, 158, 159 e n., 160, 166, 169, 171, 175, 177, 180, 182, 184, 185, 187, 188 297, th. 158 297,1s. 184 297,2 175n., 183 297,4 166n., 167, 171n. 297,5 167, 177n. 297,5s. 168 297,5–7 159n. 297,6 166n. 297,7 169 297,8–10 159n. 297,9 187n. 297,10 177 297,12 171, 182 297,13 166n. 298 9, 144, 161 298, th. 85 298,1 148 298,3 148 298,4s. 150 298,6 149 298,7 152

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Indice dei luoghi | 251

298,9 160n., 161 298,10 161n. 298,10–12 153 298,12 148, 155, 161n. 298,13s. 155 298,16 145 299 6, 15 e n., 19, 20, 21, 29 299, th. 14 300 65, 78 300,7 78n. 301 165, 169 301,3 169n. 301,4 165n. 301,6 151n. 303 107n. 303,7 179n. 304 114n., 158n. 306 159n. 307,2 186n. 308 107n. 309 107n. 309,1 109n., 168n. 310 51n., 65 312 6, 42, 44 312, th. 43 312,3 45n. 312,4 44n. 314,1 105 315 107n., 111n., 158, 170n. 315, 1s. 159n. 315,1–7 115n. 316 106, 107n., 113n., 116 316,2 105 e n. 316,3 168n. 316,5 106n. 316,7 106 316,9 106n. 317 112n. 319 129 319, th. 129 319,4 130 319,18 51n. 320,1 105 325 107n. 327 120 327,3 120, 153n. 328 107n.

330 65 e n., 78, 160n., 162 e n., 163, 168n. 330,2 162 330,4 79n. 330,5 65 e n. 330,11 162 331 107n., 116n. 331,7 51n. 331,9 56n. 335 68, 71, 131 335, th. 131n. 335,6 71 337,1 168n. 337,1s. 167n. 338 113 338,1–7 113 338,4 121n. 339,8 51n. 339,14 51n. 342 107n. 344 138n., 160n., 164, 165 344,2 164n. 344,14 165 347 68 349 204, 206 349,8 204n., 206 350 121n. 352 107n. 353 6, 43, 44, 107n. 353, th. 43 353,4 44n. 354 107n., 132 354, th. 132 355 107n. 356 107n., 160n., 164 356,2 164n. 357 65, 107,n., 113n., 175 358 107n. 359 107n., 112n. 361 6, 38, 39, 44 361, th. 38 361,1 40n., 41n., 42n. 361,2 39n., 40, 41n., 42n. 362 107n. 363 107n., 113n. 364 107n., 113n. 365 51n.

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252 | Indice dei luoghi

366 107n. 367 170n., 195n. 369 6, 21, 22 369, th. 21 369,2 22 369,4 23 370 115n., 138n., 139n., 165n. 371 114n., 158n., 195n. 373 6, 25, 115n. 373, th. 25 374 107n. 375 170n. 378 115n. 379 68, 115n., 141, 142 379,4 142 379,5 143 381 125, 128 381, th. 125 381,1 121n., 128 381,4 128 384 107n., 112 384,1 112 385 107n. 385,2 51n. 385,8 160n. 387 195n. 388,11 186n. 388,29 186n. 388,32 186n. Romanus Melodus 44 Maas-Trypanis = 6 Grosdidier de Matons 136 Sallustius – Iug. 4,5 205 Seneca filius – benef. 1,1,10 151 2,17,2 94n. 4,10,1 45n. 7,1,3 83n. 7,2,1 83n. 7,8,3 83n. 7,10,3 97

– clem. 1,23 210n. – epist. 5,1 83 e n. 5,3 93 5,4 97 15,8 147n. 20,9 83n. 60,2–4 146n. 62,3 83n. 67,14 83n. 68,10 155n. 78,22 154n. 84 212n. 84,8 212 86,5 146n. 86,11 146n. 90,43 146n. 91,19 83n. 94,70 146n. 114,9 151 122,3 151n., 154n. 122,5s. 154 – Med. 1–55 122n. 920–925 123 927 127n. 934s. 124 – nat. 3,13,1 99n. – Phaedr. 165 130n. 171–173 130 357 117n. 483–539 155n. 646s. 134 697 122n. – prov. 1,3,3 83n. 1,5,5 83n. – v. beat. 17,1 94 18,3 83n. Seneca pater – contr. 1,2 138n., 154n., 157n., 174, 181

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Indice dei luoghi | 253

1,2,2 172n. 1,2,5 182 1,2,7 174n. 1,2,12 182n. 1,4 66, 70, 78n., 144n. 1,4,6 207n. 1,4,7 78n. 1,5 139n. 2,1 143n., 144n. 2,1,6 200n. 2,1,11s. 146n. 2,1,14 200n. 2,1,15 200n. 2,3,12 108n. 2,4 173, 178, 180 2,4,1 178n. 2,4,5 173, 175 2,4,6 178n. 2,4,7 178 2,5 63n. 2,5,12 152n. 2,6,9 140n. 2,6,10 147 3, pr. 8 88n. 3, pr. 7–18 118n. 4,4, th. 22 4,4,1 23, 28 4,4,2 29 4,7 64 5,1 138n. 6,6 132, 133 6,7,2 173n. 7,1 64n. 7,1,16 64n. 7,1,19 64n. 7,1,22–24 66n. 7,1,26 66n. 7,2 90 7,3 144n. 7,4 174n. 7,5 202 7,5,12 203n. 7,5,13 203n. 7,6,13 152n. 7,8,10 147n. 8,4 202n.

8,4,3 20 8,5 195n., 196n., 198n., 199n. 8,5,1 198n., 199n., 209n. 8,5,2 199n. 9,1 66, 76n. 9,2,9 202n. 9,6 125,126, 127 9,6,1–7 126 9,6,3 126 9,6,6 126 9,6,9 128, 129 9,6,20 128 10, pr. 9 97 10,1,7 137n. 10,2 10, 191, 195n., 196 e n., 201, 208 10,2, th. 196 10,2,1 198, 212 10,2,2 197, 198, 200, 205 10,2,3 202, 204 10,2,5 203 10,2,6 205 10,2,8 69n., 206, 207 10,2,8 s. 144n. 10,2,13 207 10,4,17 154n. 10,5,14 32n. Servius ad Aen. 2,509 193n. 12,603 11 Sopater rhetor – Quaest. div. VIII 2, 1a Walz = p. 9, th. Weissemberger 89n. VIII 4, 6–9 W. = p. 10, 22 Weiss. 89n. VIII 4, 13–16 W. = p. 10, 1–4 Weiss. 89n. VIII 115, 6 W. = p. 77, 40 Weiss. 121n. VIII 319, 16 W.= p. 203, 13 Weiss. 121n. VIII 384, 19 W. = p. 245, 2 Weiss. 121n. – Schol. ad Herm. Stat. V 3, 8–14 W. 98 V 38, 3–8 W. 87n. Sophocles – Ant. 198 11n.

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254 | Indice dei luoghi

Suetonius – Cal. 59 12 – Vesp. 13 101 Sulpicius Victor p. 349,36 Halm 90n. Syriani Sopatri et Marcellini in Hermogenis status IV 218, 18–20 Walz 88n. IV 228, 28s. W. 88n. IV 237, 30–32 W. 85 IV 352, 10–19 W. 88n. IV 486, 16s. W. 88n. IV 487, 14–18 W. 89n. IV 490, 11s. W. 88n. IV 502, 12s. W. 88n. IV 509, 11s. W. 88n. IV 608, 18–21 W. 84 Tacitus – ann. 2,50,3 65n. 6,26,1 16 6,29,1 17 – dial. 35 118n. 35,5 36n. Terentius – Eun. 35–41 163 199–201 172 234 144n. 243s. 149n. 244s. 154n. 494s. 166n. 1053–1060 142n. – Hec. 734s. 180 833–836 176

866s. 173 Theon, Aelius – Prog. 6, p. 62 Patillon 49n. 8, p. 70s. P. 145n. 10, pp. 78–82 P. 152n. Tibullus 1,1,75 189 Valerius Maximus 5,6,5s. 202n. 6,1,13 72n. 6,5,3 175 7,6,1 24 9,12,7 17n. Velleius 2,119,5 11n. Vergilius – Aen. 2,92 184n. 2,506 191 2,509–511 192 2,515–525 192 2,544s. 192 2,545–558 192 2,547–549 193 4,620 11n. 5,55 145n. 6,405 211n. 9,294 211n. 10,284 169n. 10,824 211n. 12,603 16n. – ecl. 3,33 117n. – georg. 1,187 156n. 2,128 117n. 2,401–407 156n. 3,282 117n.

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