Polis e economia nella Grecia antica. Testi di Esiodo, Eschilo, Protagora, Sofocle, Democrito, Solone, Pseudo-Senofonte, Senofonte, Platone, Aristotele

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Polis e economia nella Grecia antica. Testi di Esiodo, Eschilo, Protagora, Sofocle, Democrito, Solone, Pseudo-Senofonte, Senofonte, Platone, Aristotele

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Polis e economia nella Grecia antica a cura di Mario Vegetti Testi di Esiodo, Eschilo, Protagora, Sofocle, Democrito, Solone, Pseudo-Senofonte, Senofonte, Platone, Aristotele.

Zanichelli Bologna

Indice

p.

1 Introduzione

Copyright © 1976, Nicola Zanichelli S.p.A., Bologna

Archeologia della città: le metamorfosi del mito di Prometeo

Redazione: Alfredo Trombetti Copertina: Raimondo Biscaretti

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Esiodo: la stirpe del ferro e la decadenza dell’uomo Eschilo: Prometeo e il trionfo delle tecniche Protagora: dalle tecniche alla politica Sofocle: l’uomo e la sua responsabilità morale Democrito: le tecniche senza mito La storia della città: il conflitto e il consumo

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Solone: la politica e la legge Pseudo-Senofonte: la democrazia e il mare Senofonte: dal mare alla miniera La città e l’anima: l’utopia di Platone

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Platone, La genesi della città: il bisogno Platone, L ’analogia di anima e città Platone, La degenerazione della città: la ricchezza Platone, La degenerazione della città: il mare e i commerci 65 Platone, La città contro la moneta 71 Platone, Un’economia segregata Storia naturale della città: Aristotele

Finito di stampare a Bologna nell’aprile 1976 dalla Tipografia Leonelli, via Merighi 6 per conto della N. Zanichelli Editore S.p.A. via Irnerio 34, Bologna

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Aristotele, Aristotele, Aristotele, Aristotele, Aristotele,

La città dal bisogno al bene Giustizia, scambio e bisogno Economia: buona e cattiva Ancora il mare: la città dall’anima al corpo La città dall’utopia alla « concretezza »

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Introduzione

Il racconto. I testi raccolti in questa antologia narrano, com­ mentano, interpretano la storia di una società: la società ateniese fra il VII e il IV secolo, nell’epoca di quella sua pe­ culiare organizzazione che va sotto il nome di polis, « città ». Parlando di storia di una società non ci si riferisce, natural­ mente, a quella successione di eventi politico-militari che ne costituiscono la periferia o la superficie: nell’antologia non è stato infatti utilizzato il maggior cronista di questi eventi, Tucidide. Ci si riferisce invece alla genesi e al funzionamen­ to di un modello di organizzazione sociale, con i suoi carat­ teri costitutivi e invarianti, le sue contraddizioni, i suoi spe­ cifici modi di riproduzione e infine le sue crisi. In partico­ lare, al centro di questa storia è il problema del rapporto fra l’assetto politico della società ateniese e l’economia, cioè il problema dell’acquisizione e della distribuzione della ric­ chezza sociale. Da un certo punto di vista, l’intera cultura ateniese del perio­ do indicato può essere interpretata come uno sforzo per chia­ rire e risolvere questo problema: certo non nelle forme di pensiero cui noi siamo avvezzi (quelle della sociologia e del­ l’economia politica), bensì attraverso una varietà assai este­ sa di espressioni intellettuali, dal mito all’utopia, dalla pro­ posta politica alla profezia morale. I testi da presentare per documentare il racconto, e il problema, dovevano dunque ri­ flettere questa pluralità di voci, questo coinvolgimento tota­ le di una cultura nel problema di fondo della società che la aveva espressa. Di qui la presenza, nell’antologia, di poeti come Esiodo, Eschilo, Sofocle, di politici così diversi fra lo­ ro come Solone e l’anonimo autore della Costituzione degli ateniesi, di filosofi come Democrito, Senofonte, Platone e Ari­ stotele. Ne risulta — nella dissonanza degli stili, dei punti di vista politici, dei « manifesti » ideologici — il quadro di una riflessione costante, profonda, a volte spietata, che una cul­ tura compie sulle origini, i problemi, il destino del proprio universo sociale. Ne risulta, anche, un racconto corale sul percorso storico della società ateniese, le cui fasi si possono qui schematizzare, sia pure con qualche inevitabile forza­ tura.

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a. Le origini Le origini della città, la sua genesi, si collocano in un pas­ sato troppo profondo perché la loro « archeologia » possa ve­ nir rappresentata altrimenti che nella forma del mito. Ed è, infatti, il mito di Prometeo che narra l’evento remoto della nascita della città e della definitiva frattura che essa produs­ se fra la cultura dell’uomo e la natura, fra la nuova società e le antiche civiltà agricole, fra la nuova morale e la vecchia tradizione religiosa. Strumento decisivo di questa frattura, dell’instaurazione, nella città, di una nuova condizione uma­ na, risultano essere — secondo il mito — le tecniche. Grazie ad esse l’uomo, da parte della natura, se ne fa signore, tra­ sformandola in un magazzino di risorse da cui trarre i mezzi per soddisfare i suoi bisogni. Le valutazioni di questa gene­ si traumatica della polis variano naturalmente secondo i pun­ ti di vista ideologici: secondo Esiodo, essa comporta un irre­ parabile allontanamento dell’uomo dalla divinità e dunque dalla giustizia che da essa promana; secondo l’ateniese Eschilo, al contrario, le tecniche garantiscono agli uomini la loro libertà, affrancandoli da una lunga soggezione a dèi ingene­ rosi e vendicativi; con Sofocle e poi con Protagora, le tec­ niche più che risolvere un problema lo aprono, lasciando l’uomo solo alle prese con la sua responsabilità morale, con le questioni di una vita sociale che ripropongono, al di là dell’abilità tecnica, un decisivo rapporto con la giustizia. b. La storia della città: dal VI al IV secolo. Costituita comunque la società della polis, si esce, nel raccon­ to che offrono i nostri testi, dalla fase del mito per entrare in quella del dibattito politico, dunque della « storia » della città. Ne vengono esemplificati tre momenti. Il primo, all’ini­ zio del VI secolo, è quello in cui Solone si presenta come il mediatore del conflitto sociale in nome della proposta di una città in cui regni la legge e in cui, quindi, lo scontro possa trasformarsi in confronto e in armonica collaborazione fra ceti non più contrapposti. Il secondo si situa alla metà del V secolo: il problema di un consumo crescente da parte del­ la città pone in modo drammatico l’esigenza di allargare il suo repertorio di risorse, dunque di sviluppare le attività ma­ rittime e commerciali; ne consegue un sovvertimento degli equilibri politici tradizionali di cui è testimone l’aristocratico autore della Costituzione degli ateniesi. Il terzo momento, alla metà del IV secolo, vede il tradizionale modello di espan­ sione, basato sul controllo del commercio marittimo, ormai definitivamente inceppato e quindi incapace di assicurare le risorse necessarie al consumo: di qui la proposta, da parte di Senofonte, di tornare a un più diretto sfruttamento della na­ tura, non più tanto nella forma agricola quanto in quella

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mineraria. Una proposta destinata a fallire, nell’epoca della crisi politica della città. c. L ’utopia e l’ideologia. In questo stesso periodo di crisi, la cultura ateniese produ­ ce, con Platone e con Aristotele, due grandi tentativi di inter­ pretazione e di risposta complessiva ai suoi problemi di ba­ se: con la loro documentazione si conclude il racconto pre­ sentato in questa antologia. Per Platone, la causa della crisi sta proprio nella bramosia di consumo, nelle pratiche per sod­ disfarla e nei conflitti che ne derivano; la soluzione, nell’uto­ pia di una rigenerazione etica della città fondata sull’anima. In Aristotele, la diagnosi è simile a quella platonica; la ri­ sposta è cercata nell’istituzione di un sapere scientifico sulla città e, insieme, in una sistemazione ideologica della società che ne fissi le strutture permanenti al di là del variare delle forme istituzionali e degli equilibri politici. E questo è, in de­ finitiva, l’eredità che la cultura della polis lascia alle organiz­ zazioni politiche che le succedono nella scena storica del mon­ do antico. La scena. Questo racconto, lo si è anticipato, si svolge sulla scena di uno specifico organismo sociale, la polis. La polis si sviluppa in Attica fra l’VIII e il VII secolo come risposta ad una acuta crisi della vecchia società agricola, che vedeva contrapporsi frontalmente un’aristocrazia vincolata alla ric­ chezza terriera, e un largo ceto di medi e piccoli contadini in via di rapido impoverimento, su un territorio ormai inca­ pace di alimentare una popolazione crescente. In questa si­ tuazione, la città capoluogo, Atene, vede affluire dalle cam­ pagne masse notevoli di contadini senza terra o con terre in­ sufficienti; al tempo stesso, vede accrescersi il proprio ruolo come centro di scambio di servizi specializzati, di prodotti artigianali, di derrate alimentari d’importazione. Ma ciò che fa della città propriamente una polis è la funzione politica che essa viene ad assumere. Nella città si istituiscono infatti or­ gani politici e giuridici di gestione dell’intero territorio (in qualche modo simili al governo, al parlamento e alla magi­ stratura), che sottraggono per la prima volta l’esercizio di­ retto del potere alle grandi famiglie aristocratiche e lo trasfe­ riscono, almeno in linea di principio, all’intera comunità dei cittadini. Si appartiene alla cittadinanza, dunque si condivi­ de il potere collettivo, se si è nati, nella condizione di libe­ ri, sul territorio della polis, e si appartiene a una famiglia dotata di una proprietà terriera anche minima. Quest’ultima clausola si sarebbe allentata, nel corso del V secolo, ma non sarebbe mai sparita: verso la fine del V secolo i cittadini ate­ niesi di pieno diritto erano circa 20.000, e di essi solo 5.000 appartenevano alla condizione di feti, cittadini senza terra

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(nello stesso periodo la popolazione complessiva del territo­ rio ammontava ad almeno 2-300.000 persone: i non cittadi­ ni comprendevano donne, giovani non ancora in età di cit­ tadinanza, stranieri privi di diritti politici — i meteci — , e in­ fine schiavi in numero non inferiore alle 150.000 unità). La effettiva possibilità dei cittadini di incidere sulla gestione del potere comune, attraverso l’assemblea e i vari organi rappre­ sentativi, è certo diseguale, e risulta direttamente proporzio­ nale alla ricchezza e al prestigio sociale di ognuno. Tuttavia l’istituzione della polis produce un effetto decisivo: essa sposta l’inconciliabile conflitto sociale che si era aper­ to nelle campagne sul terreno del confronto e della mediazio­ ne politica, rende possibile la realizzazione di compromessi, di alleanze, di equilibri. Soprattutto essa torna ad assicura­ re quella coesione del corpo sociale che pareva ormai irre­ parabilmente perduta, grazie alla comune partecipazione al­ la cittadinanza e all’universale ossequio alla legge, intesa co­ me patto istitutivo della polis stessa e come regola del gioco politico che vi si svolge. Al tempo stesso, l’esistenza di un po­ tere politico accentrato e non più disperso fra le famiglie ari­ stocratiche, consente alla polis di darsi un’organizzazione po­ litico-militare che la mette in grado, a partire dal VI secolo, di iniziare una vigorosa espansione imperialistica: si spezza così l’isolamento della vecchia economia agricola e si ven­ gono progressivamente acquisendo nuove risorse per il finan­ ziamento dei bisogni sociali. Il problema delle risorse e della loro distribuzione è quello centrale dell’esistenza della polis ateniese per tutto il V e il IV secolo. La contraddizione sociale principale non è più quella fra aristocrazia e contadini, bensì tra un’aristocrazia ormai urbanizzata e una popolazione cittadina che integra o sostituisce i proventi dell’agricoltura con attività artigianali, commerciali, professionali, spesso legate al mercato e al ma­ re: il demos. Il demos (« popolo ») non è una classe di lavoratori produt­ tivi. La sua composizione è estremamente disomogenea: ne fanno parte marinai e medici, artigiani e commercianti al minuto, manovali e pittori, tutti coloro insomma che vivono nello spazio della divisione del lavoro, della dinamica di scam­ bio di beni e servizi che la città ha incrementato con la sua stessa esistenza. Liberi e cittadini, gli uomini del demos si distinguono da un lato dall’aristocrazia perché sono costretti per l’assenza o l’insufficienza della rendita agricola, a compie­ re un lavoro retribuito; dall’altro dagli schiavi rispetto ai quali il loro livello sociale resta incommensurabilmente su­ periore. Il peso politico del demos è notevole grazie ai mec­ canismi « democratici » della polis, che riflettono il presup­ posto di una sua comune proprietà da parte del corpo dei cittadini: senza il suo consenso, è impossibile ottenere una

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qualsiasi maggioranza nell’assemblea popolare di Atene. L ’aristocrazia, che continua a detenere le ricchezze e le com­ petenze necessarie per governare la città, deve quindi otte­ nere l’appoggio del demos urbano al suo potere (salvo cede­ re, nei periodi di crisi più acuta, alla tentazione di un colpo di stato violento mirante all’instaurazione di una « tiranni­ de », per la quale tuttavia non esistevano i necessari rapporti di forza). Si stabilisce così un «patto sociale » fra aristocra­ zia e demos, che dà luogo a un duraturo equilibrio politico, e che ha i suoi momenti alti nel V secolo, l’epoca di distene e di Pericle. In virtù di questo patto, l’aristocrazia si assicu­ ra il potere nella polis, e con esso la sicurezza dì mantenere il possesso delle terre, resistendo a qualsiasi richiesta di ri­ forma agraria da parte contadina; si assicura inoltre la possi­ bilità di partecipare vantaggiosamente alle crescenti attività commerciali della città investendovi le eccedenze prodotte dallo sfruttamento delle campagne. In cambio di tutto questo, l’aristocrazia deve naturalmente accogliere le richieste provenienti dal demos. Queste richie­ ste non vanno affatto nel senso di una espansione delle atti­ vità produttive, di un allargamento dei mercati o di maggio­ ri opportunità di lavoro. Il demos tende anzi a delegare pro­ gressivamente a schiavi e meteci sia il lavoro manuale sia le attività commerciali; i suoi membri, in quanto cittadini liberi, si sentono comproprietari della polis, quindi in diritto di par­ tecipare alla distribuzione della ricchezza sociale per una quota sufficiente a finanziare i loro bisogni, anzitutto in ter­ mini di consumi alimentari. In altre parole, il demos tende a vivere di rendita della città come l’aristocrazia vive di ren­ dita della terra. Solo a questa condizione, il demos accetta il « patto sociale » istitutivo della polis, e accetta quindi, nel­ le forme della politica, l’accordo istituzionale con l’aristocra­ zia. Il problema della città diventa allora quello di disporre di una ricchezza sufficiente a finanziare i consumi del demos urbano: un finanziamento che prende le forme della retribu­ zione diretta per impieghi nelTamministrazione, nella flot­ ta, nell’esercito; della distribuzione pubblica di grano e di al­ tre derrate alimentari nelle epoche di carestia; della retribu­ zione per l’espletamento delle attività tipiche del cittadino, quali l’assemblea, gli spettacoli teatrali, i riti religiosi. Il cit­ tadino viene così retribuito dalla città per la sua partecipa­ zione complessiva alla vita politica, in virtù cioè della sua stessa qualità di cittadino, a prescindere dalla sua attività produttiva di beni o servizi, che tende a divenire progressi­ vamente secondaria, e sostituita dal lavoro di schiavi e me­ teci. Ma come reperire le ricchezze necessarie a questo tipo di fun­ zionamento della polis? Non certo grazie alle esportazioni: la città produce, ed esporta, molto meno di quanto deve im­

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portare per soddisfare i suoi consumi, proprio in seguito al restringimento della sua base produttiva. La risposta sta nel­ lo sfruttamento della « natura » circostante la città, che essa è in grado di dominare grazie alla sua organizzazione poli­ tico-militare. In primo luogo si tratta, naturalmente, del ter­ ritorio, con le sue campagne e le sue miniere; poi dei meteci e degli schiavi, anch’essi « natura » da cui estrarre lavoro e denaro. Ma questo non basta: Atene riesce a sottomettere al proprio controllo, grazie alla sua potenza marittima, una va­ sta area di città dell’Egeo e dell’Asia minore, che ne accetta­ no il dominio, inizialmente, in cambio della sua protezione contro i Persiani, poi perché costretti dalla forza (e anche perché interessati alla formazione di un ampio sistema com­ merciale unificato). Lo sfruttamento delle città suddite si at­ tua in molti modi: con la confisca di terre, che vengono di­ stribuite a contadini ateniesi poveri; con l’imposizione di un tributo da versare annualmente nelle casse della polis, e di dazi sulle attività commerciali; con l’imposizione di servizi obbligatori, quali la centralizzazione in Atene dei principali procedimenti giudiziari, e così via. Tutto questo procura alla polis un gettito monetario in grado, fino alla fine del V seco­ lo, di finanziare i suoi consumi, e di cementare quindi l’al­ leanza fra aristocrazia e demos; si tende, naturalmente, ad al­ largare di continuo l’area del dominio, mediante tutta una serie di imprese militari che costituiscono, già per se stesse, una fonte di guadagno per il demos, nella forma sia della re­ tribuzione a marinai e soldati, sia del bottino di guerra in ter­ mini di beni e di schiavi. Questa forma di riproduzione del sistema della polis è in gra­ do di funzionare, naturalmente, finché esiste un’area esterna di « natura » suscettibile di sfruttamento. Essa non è esen­ te da tensioni sia interne (il conflitto fra aristocrazia e demos per la ripartizione della ricchezza sociale tocca momenti as­ sai acuti, come testimonia l’autore della Costituzione degli ateniesi) sia esterne, nei riguardi in primo luogo dei conta­ dini e degli aristocratici più direttamente legati alle campa­ gne, e in secondo luogo delle città suddite; ma è su di essa, comunque, che poggia il grande sviluppo di Atene fino alla fine del V secolo. Qui è importante notare alcune conseguenze assai rilevanti da un punto di vista anche ideologico. Da produttore di be­ ni e servizi, il demos tende a trasformarsi in una fascia so­ ciale di consumatori parassitari che vivono della città, così come la città a sua volta tende a vivere parassitariamente del mondo esterno soggetto al suo dominio. Questo spiega perché Platone — uno spietato critico di questo assetto del­ la polis — potrà inscrivere il demos nella figura morale e psi­ cologica della bramosia, del desiderio sfrenato, che appare a prima vista in contraddizione con la natura originariamente produttiva del demos stesso. E spiega l’indebolimento progres­

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sivo del peso sociale e del prestigio ideologico di questo ceto legato alla città per la propria sopravvivenza ma via via più inutile al suo sviluppo economico. La seconda conseguenza è che le attività propriamente produttive e di lavoro — insom­ ma la sfera economica della vita sociale — vengono avverti­ te come imposte dal bisogno, dall’esigenza insopprimibile ma perturbatrice di consumo, quindi come estranee alla vita au­ tentica della città che è essenzialmente politica. Rifiutata dal cittadino e delegata per quanto possibile a schiavi e meteci, l’attività economica tende quindi a venir rimossa dal corpo della città, segregata in un ghetto privo di interesse cultura­ le e di valore etico e sociale. I protagonisti. Nonostante ogni compromesso con il demos, l’aristocrazia mantiene la direzione della polis durante tutta la sua durata storica: essa è l’unico ceto dotato del peso eco­ nomico, del prestigio sociale, della capacità culturale di ela­ borare strategie complessive, necessari per governare questo ambizioso esperimento politico. Poche grandi famiglie — e in particolare i Pisistratidi e gli Alcmeonidi — esprimono gli uomini che esercitano direttamente il potere nella città dalla metà del VI secolo fino alla fine del V; nel IV secolo, con la formazione di un personale politico relativamente professio­ nalizzato, il controllo dell’aristocrazia diviene più indiretto ma certo non meno efficace. Accanto però alla gestione del potere, la tradizione culturale aristocratica viene via via elaborando schemi, modelli, ideo­ logie, che rendono pensabile e comprensibile la polis, nella sua struttura e nel suo funzionamento, e che tendono a giu­ stificarne l’ordinamento, o a convalidare proposte di riforma. Tre sono i momenti alti di questa riflessione aristocratica sul­ la polis, e si esprimono, in modo emblematico, nel pensiero di Solone, di Platone e di Aristotele. Non tanto questi « au­ tori », quanto le svolte che essi segnano nel modo di rappre­ sentare le città, di assicurarne i fondamenti, possono venir assunte come protagonisti del nostro racconto. La saggezza: Solone. Il modello che Solone propone alla cit­ tà è quello della famiglia retta da una ‘buona legge’, in cui i necessari rapporti di subordinazione sono ben accetti da par­ te di tutti e basati sul reciproco rispetto. La coesione della città-famiglia si fonda su di una saggezza morale che Solone deriva direttamente dal sacerdozio di Delfi, il centro religio­ so della Grecia: e cioè sulla consapevolezza da parte di ognu­ no della propria posizione e dei propri limiti (« conosci te stesso »), sulla conseguente accettazione del proprio ruolo sociale, rinunciando all’arrogante pretesa di modificarlo arbi­ trariamente (« nulla di troppo »). La sanzione di questa sag­ gezza è nell’atteggiamento della divinità, benevolo con gli equilibrati, i giusti, i saggi, implacabilmente punitivo verso

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chi trasgredisce la norma che regola l’armonia della comuni­ tà. Solone trasferisce in questo modo alla città tutta una serie di valori che reggevano un tempo il mondo delle campagne, e che non apparivano più praticabili in quella sede per la vio­ lenza del conflitto sociale. Sia l’aristocrazia, impegnata in una corsa alla spoliazione dei contadini e al proprio smisurato arricchimento, sia i contadini, che rispondono con la richiesta di una nuova spartizione delle terre, si sono allontanati dalla misura e dalla giustizia. La polis, coi nuovi equilibri che con­ sente, le può ripristinare nella sua legge, presentandosi così come l’erede della migliore tradizione del vechio mondo ru­ rale. L ’anima·. Platone. Il modello soloniano di città-famiglia ap­ pare logorato, al principio del IV secolo, da una lunga sto­ ria di conflitti politici, dal rilievo drammatico dei problemi del bisogno e del consumo, e soprattutto dall’emergere di si­ stemi di valori contrapposti, di progetti divergenti sul desti­ no della polis, che non possono più venir mediati da una sag­ gezza tradizionale a base religiosa. Occorre pensare la città in modo nuovo, in un modo cioè che consenta di accettare la realtà del conflitto e al tempo stesso assicuri la possibili­ tà di ricomporlo su basi non soggettive, non legate cioè al­ l’arbitrario predominio di un individuo o di un ceto sugli altri. Platone tenta di rispondere a questa esigenza con la sua teoria della similitudine fra anima e città. Ciò che conta dav­ vero nell’uomo, al di là dell’esteriorità rappresentata dal cor­ po, dall’appartenenza a una famiglia e a una classe sociale, è l’anima: dall’ordine che regna nell’anima dipendono la giu­ stizia e insieme la felicità di ognuno. Ma l’anima non è una entità unitaria: essa è divisa in tre parti, quella razionale, quella del coraggio e dell’ira, quella del desiderio e della bra­ ma. Queste tre parti, inscindibili, devono stabilire fra loro una armonia in cui la ragione assicura la guida, il coraggio la forza; la terza parte ha pure una sua virtù, l’autocontrollo, la temperanza, che si esprimono nella soggezione alle prime due. La giustizia e la felicità dell’uomo sono il frutto di que­ sta armonia. Ora, a somiglianza dell’anima, la città deve pure ordinatamente articolarsi in tre parti, e raggiungere un’analoga armo­ nia. Ai detentori del sapere e della ragione — i filosofi ari­ stocratici — toccherà la guida; ai coraggiosi, i soldati, toc­ cherà di garantire la forza della città, nell’obbedienza a quel­ la guida; alla terza parte, ai produttori-consumatori, di limi­ tare la propria bramosia e di accettare, nel nome della co­ mune giustizia e felicità, la subordinazione ai primi due grup­ pi. Molti temi della saggezza soloniana tornano, come si ve­ de, in Platone; ma il modello dell’anima è più potente di quello della famiglia, perché è in grado di dar conto dell’ar­ ticolazione e delle tensioni che esistono nella città, e di fon­

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dare la proposta di equilibrio non più sull’ossequio ad una esterna autorità religiosa, bensì sul richiamo a valori mora­ li, a bisogni di giustizia e di felicità, radicati nel profondo di ogni uomo. Il richiamo a questi valori, a questi bisogni, consente anche a Platone di trasformare l’analogia fra anima e città in una proposta politica, nel « manifesto » di una riforma della po­ lis che deve aver luogo se la città vuole tornare giusta e fe­ lice; la teoria si rovescia così immediatamente — passando at­ traverso il richiamo alla morale — in azione politica, che Platone e gli altri filosofi riuniti nell’Accademia gestiscono in prima persona, per la rifondazione della città. Gli insuc­ cessi di questa azione politica non avrebbero, nel futuro, per nulla diminuito la potenza ideologica del modello platonico della città-anima; certo avrebbero contribuito a trasferirlo sempre più lontano dalla concreta vicenda politica, e a re­ spingerlo verso le zone dell’utopia e anche della profezia re­ ligiosa. Il corpo: Aristotele. Nel giro della prima metà del IV seco­ lo, venne rapidamente in chiaro che gli equilibri economicosociali del sistema della polis erano troppo rigidi per venir modificati da un programma di rifondazione a base morale, e che gli spazi esterni erano ormai troppo ridotti, per la pres­ sione dei vecchi sudditi e dei nuovi nemici, come i Macedoni, per consentire una ulteriore espansione a quello stesso siste­ ma. Si logora così anche la funzione del modello dell’anima come base per una riforma della città che ne assicuri la giu­ stizia e la felicità. Diventa per contro essenziale compren­ dere non come la città dovrebbe essere, ma come è, come funziona, quali sono i fattori patologici che ne comprometto­ no il buon funzionamento: alla città-anima si sostituisce dun­ que la città-corpo, alla profezia della giustizia si sostituisce la diagnosi della salute, la prevenzione di quanto la possa turbare. Questa svolta si verifica nell’ambito del pensiero politico di Aristotele, in cui la dominante etico-psicologica di Platone è rimpiazzata da quella biologica. Per Aristotele, le varie par­ ti della città — politici e soldati, magistrati e lavoratori — funzionano come le membra di un organismo: non è tanto importante stabilire il valore morale del comportamento di questo organismo quanto la sua capacità di vivere, di funzio­ nare, insomma la sua salute complessiva. Di questo funzio­ namento può darsi una scienza, che si modella sull’esempio della biologia, e che viene a sostituire la morale platonica: quello che conta non è più proclamare mete da raggiungere, ma comprendere leggi oggettive. La svolta aristotelica com­ porta due conseguenze importanti. In primo luogo i filosofi, che occupano il luogo dell’anima razionale, sono svincolati dall’esigenza di guidare la città nella pratica politica effettiva,

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e incaricati invece di elaborare il sapere teorico intorno alle leggi che governano impersonalmente questa pratica. In se­ condo luogo, alla luce di queste leggi, il politico può interve­ nire chirurgicamente per sopprimere i fattori che disturbano il buon funzionamento dell’organismo sociale: così lo strato dei produttori-consumatori, con le sue bramosie, può, nella prospettiva aristotelica, venir estirpato con vantaggio dal cor­ po della città, mentre in Platone esso rappresentava pur sem­ pre una parte dell’anima, subordinata ma comunque non eliminabile. L ’oggettività del sapere di Aristotele, che si presenta come scienza della politica, sembra così porsi come estranea e su­ periore a qualsiasi interesse soggettivo e di classe. Le sue pro­ poste politiche (risanare la città espellendone l’elemento per­ turbatore rappresentato dal demos) sembrano dettate dalla legge stessa delle cose; la verità di questa legge sembra va­ lere per qualsiasi aggregato sociale, al di là del deperimento storico della polis; la polis stessa, in quanto oggetto primario di una tale scienza, inizia a rappresentare, nell’ideologia, il prototipo di qualsiasi configurazione sociale.

te tutti i cittadini più poveri, viene privata del diritto alla cittadinanza (i cittadini si riducono nel 321 a 9.000, contro i 20.000 della fine del V secolo), quindi del diritto al mante­ nimento pubblico. L ’espulsione di questi cittadini, costretti a vivere ai margini della città, come aveva preconizzato Ari­ stotele, oppure ad emigrare, compensa largamente l’aristocra­ zia ateniese della perdita dei sudditi esterni, e le consente di tornare rapidamente ad accumulare notevoli ricchezze. L ’in­ staurazione, da parte di Filippo, di Alessandro e dei suoi suc­ cessori, di grandi monarchie dotate di un forte apparato burocratico-militare, rappresenta una rivoluzione solo sul pia­ no politico. L ’organizzazione sociale dominante nel mondo an­ tico rimane quella della polis, una polis in cui il dominio aristocratico si è ormai assicurato una base di forza sufficiente a rescindere il vecchio patto soloniano con il demos; una polis che può vivere, come sempre, dello sfruttamento delle campagne, dei meteci (rinforzati dagli ex-cittadini espulsi), degli schiavi, e ora anche delle grandi popolazioni barbari­ che via via soggiogate dall’espansione degli imperi ellenisti­ ci e poi di quello romano.

Lo scioglimento. Alla metà del IV secolo, un duplice ordine di fenomeni, sia interni sia esterni, rendono impossibile la so­ pravvivenza della polis come organizzazione politica della società greca. All’interno, c’è la crescita di un demos sempre più parassitario le cui richieste di sostentamento pubblico non possono più venir fronteggiate a causa dell’impossibi­ lità di perpetuare, all’esterno, lo sfruttamento degli alleati; questo rende via via più intollerabile all’aristocrazia il rispet­ to di quel « patto sociale » su cui si fondava la polis. E c’è, inoltre, la crescita di fenomeni economici di tipo mercantile o bancario, che comportano l’accumulazione di ingenti ric­ chezze monetarie nelle mani di un ceto socialmente anonimo come i meteci: questo può portare, al limite, alla messa in discussione dello stesso primato economico-sociale dell’aristo­ crazia. All’esterno, i sudditi di Atene trovano forti alleati pri­ ma in Sparta e nella Persia (ciò che determina una prima sconfitta di Atene nella guerra del Peloponneso), poi nella po­ tenza militare del regno di Macedonia. E’ in questo regno che l’aristocrazia ateniese, come quella delle altre poleis, vede la unica garanzia di salvezza del proprio primato minacciato dal demos e dallo sviluppo dell’economia mercantilistica. Re­ ciprocamente, i Macedoni trovano nell’aristocrazia delle sin­ gole città il miglior alleato per la propria politica espansio­ nistica. Negli ultimi decenni del IV secolo, le poleis, nono­ stante la tenace opposizione del demos al loro interno, si sot­ tomettono ai re macedoni, cedendo loro la propria autonomia politica e ottenendone in cambio la forza militare sufficiente a ristabilire gli equilibri interni a vantaggio dell’aristocrazia. Nel caso di Atene, una parte ingente del demos, comprenden­

Mario Vegetti

Le traduzioni utilizzate sono state quasi sempre leggermente mo­ dificate per ragioni di omogeneità. Desidero ringraziare il dott. Francesco Sircana per la Sua collaborazione nella redazione di questo volume. [Μ. V.]

La stirpe del ferro e la decadenza dell’uomo

Archeologia della città: le metamorfosi del mito di Prometeo

Esiodo: la stirpe del ferro e la decadenza deH’uomo Il mito di Prometeo racconta il furto del fuoco agli dèi e il dono che ne vien fatto agli uomini. Il fuoco è il principio delle tec­ niche: si segna così, nel mito, la rottura dell’immediata vicinan­ za degli dèi agli uomini, il passaggio dalla natura alla cultura. Ne presentiamo qui alcune varianti, che mostrano come il mito si trasformi nel suo significato man mano che viene assunto da autori diversi, come materiale di riferimento per le posizioni che essi assumono. La più antica è in Esiodo, un poeta gnomico che visse in Beo­ zia nell’VIII secolo. Tra le sue opere ci sono pervenute integre la Teogonia, che narra la genealogia degli dèi, e le Opere e i giorni, un poema sugli aspetti etico-religiosi del lavoro agricolo. Legato alla civiltà contadina della terraferma greca, Esiodo ne esprime il disagio e la crisi nel momento della comparsa della tecnologia del ferro, della circolazione monetaria, della città co­ me centro di consumo e di scambio. La sua valutazione del furto del fuoco, letto come gesto inaugu­ rale del passaggio da uno stato di natura a una civiltà delle tecniche, è esplicita: nella genealogia delle cinque stirpi, il furto prometeico segna l’introduzione dell’età della massima degene­ razione, quella del ferro, il momento di una drammatica e forse irreversibile scollatura tra gli dèi e gli uomini, tra gli uomini e la natura. Alla necessità del lavoro, prodotta dal turbamento del rapporto con la natura, un tempo ricca dispensatrice di doni a una ridotta e pacifica popolazione agricola, si accompagnano il rifiuto degli dèi, il dilagare della violenza, dello scontro fra padri e figli, re e sudditi, del reciproco saccheggio tra le città; mentre sorgono le nuove tecniche del discorso retorico, parole tortuose per in­ gannare, coscienza e rispetto abbandonano la comunità umana, e trovano rifugio tra gli dèi.

Gli dei trattengono, infatti, dopo averli nascosti, i beni ne­ cessari alla nostra esistenza, ché altrimenti con facilità po­ tresti lavorare in un giorno, così da possedere per un anno, stando ozioso; ben tosto potresti porre al fumo del focolare Esiono, Opere e giorni, trad. it. di A. Colonna, Istituto Editoriale Italiano, Milano 1968, vv. 42 e segg.

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il timone della nave, e sparirebbe il lavoro dei buoi e dei muli pazienti alla fatica. Ma Zeus nascose il vitto, adirato nell’animo, quando l’ingan­ nò Prometeo dai tortuosi pensieri; per questo invero agli uo­ mini impose lacrimevoli affanni, e nascose il fuoco; ed ecco che di nuovo il forte figlio di Japeto 1 lo sottrasse di nasco­ sto, per darlo agli uomini, occultandolo a Zeus adunator di nembi: « O Japetonide, esperto sopra tutti e prudente, tu go­ di di avere trafugato il fuoco e ingannato l’animo mio, gran­ de sciagura per te stesso e per gli uomini futuri. Io intanto a loro invece del fuoco darò un male, del quale tutti godran­ no nell’animo, alimentando con amore il loro malanno ». Così disse, e proruppe a ridere il padre degli uomini e degli dèi, quindi dette ordine all’inclito Efesto, che al più presto mescolasse terra con acqua e modulasse aspetto e vigore uma­ no, e ne traesse un grazioso amabile corpo di vergine, simile nel volto alle dee immortali; inoltre comandò ad Atena di insegnare a questa creatura la sua arte, di tessere cioè la tela variopinta, e all’aurea Afrodite, di versare tutt’attorno al suo capo la grazia e la passione struggente, e gli affanni che fìaccan le membra; e ancora di riporre in lei un animo sfacciato ed un costume volubile, Zeus comandò ad Ermes, il messag­ gero. Così disse, ed essi ubbidirono al sovrano Zeus Cronide. Ben presto l’inclito Ambidestro plasmò con la terra un essere si­ mile ad una casta vergine, per volere del Cronide; le dette il suo cinto e la ornò la dea Atena dagli occhi splendenti. A lei tutt’intorno al collo, la dea Cariti e la veneranda Peito2 po­ sero delle auree collane, e le Ore dalle belle chiome la recin­ sero di ghirlande fatte di fiori di primavera, ed attorno al suo capo adattò ornamenti di ogni specie Pallade Atena. Quindi nel suo petto il messaggero Ermes creò menzogne e discorsi ingannatori, e uno spirito astuto, per volere di Zeus dal tuono profondo, e le dette la parola il messaggero degli dèi, e chiamò per nome questa donna Pandora (poiché tutti gli abitanti dell’Olimpo le diedero un dono), sciagura per gli uomini che si nutron del grano. Quindi, dopo aver terminato l’arduo inganno, senza rimedio, il padre degli dèi mandò ad Epimeteo3 l’inclito Ermes, il messaggero veloce, per portare il dono degli dèi, ed Epimeteo non si diede pensiero che Prometeo gli aveva detto di non accettare mai un dono da parte dell’Olimpio Zeus, ma di ri­ mandarlo indietro, perché non accadesse alcun malanno ai mortali; egli allora, dopo averlo accettato, se ne accorse, quando già aveva il malanno! 1. Si tratta sempre del titano Prometeo [JV.d.C.]. 2. Rispettivamente dee della grazia e della seduzione (Peito è appel­ lativo di Afrodite) [N.d.C.]. 3. Titano fratello di Prometeo [N.d.C.].

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Esiodo

Infatti, in un primo tempo vivevano sulla terra le stirpi degli uomini, prive di mali e prive della gravosa fatica e delle in­ fermità fastidiose, che agli uomini recan la morte: tosto in­ fatti nel male invecchiano i mortali. Ma quella donna levan­ do con la mano il grande coperchio dell’anfora, disperse i doni e sugli uomini riversò lacrimose sciagure. Soltanto là dentro restò la Speranza, nelle pareti infrangibili, sotto l’or­ lo del vaso, e non potè involarsi al di fuori, perché alla pri­ ma aveva riposto il coperchio sull’anfora, per volere di Zeus adunatore di nembi. Ed ecco che altri guai, infiniti, si aggirano tra gli uomini; piena è infatti la terra di mali, pieno il mare di essi; le ma­ lattie giungono agli uomini, alcune di giorno, altre di notte, a loro piacere, recando i malanni ai mortali, in silenzio, per­ ché il saggio Zeus ha negato loro la favella. Così dunque non esiste alcun modo di sfuggire al volere di Zeus! Se poi tu vuoi, io ti dirò per sommi capi un altro racconto, in maniera bella e acconcia, e tu riponilo nell’animo tuo: co­ me cioè provengono dalla stessa discendenza gli dèi e gli uo­ mini mortali. Nei primissimi tempi una stirpe aurea di uomini mortali fu creata dagli dèi immortali che hanno dimora sull’Olimpo. Essi furono al tempo di Crono, quando regnava nel cielo, e vivevano come dèi, con l’animo sgombro dai dolori, lontani e al sicuro dalle fatiche e dalla sventura; non incombeva su di loro la triste vecchiaia, ma sempre con lo stesso vigore nel­ le mani e nei piedi godevano in festa al di fuori di tutti i ma­ lanni. Morivano come presi dal sonno; ogni cosa bella essi avevano, la terra feconda recava i frutti, spontaneamente, molti e senza risparmio; essi quindi contenti e sereni si go­ devano i loro beni, in mezzo a gioie infinite, ricchi di greg­ gi, cari agli dèi beati. Dopo che questa stirpe ricoperse la ter­ ra, facendola scomparire, essi sono i genii, per volere del grande Zeus, quelli buoni, terrestri, custodi degli uomini mor­ tali, i quali stanno a guardia delle opere giuste e delle ingiu­ ste, ricinti di nebbia, vagando dappertutto sulla terra, datori di ricchezza, ché questo dono regale essi ebbero. Quindi una seconda stirpe, molto inferiore, di argento, crea­ rono in seguito gli abitanti dell’Olimpia dimora, né per aspet­ to né per carattere simile a quella aurea. Ma per cento anni il fanciullo cresceva fiorente accanto alla fida madre, igna­ ro del tutto, nella sua casa, ma quando diventava uomo, e toccava le soglie della giovinezza, allora poco tempo essi vi­ vevano, soffrendo dolori, a causa della loro stoltezza, poiché non avevano la forza di tenere lontana la loro tracotante vio­ lenza, né venerare gli dèi immortali essi avevano in animo, né compiere sacrifici sui santi altari degli dèi beati, che è pio dovere degli uomini secondo le tradizioni locali. Or quelli in seguito Zeus Cronide li spinse sotterra, mosso a sdegno perché essi non rendevano gli onori ai beati che stanno sul­

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l’Olimpo. Così, dopo che anche questa stirpe nascose la ter­ ra, essi hanno il nome di mortali beati, genii degli inferi — i secondi —, ma pur tuttavia anche a loro spetta venerazione! E Zeus padre creò una terza stirpe, diversa, di uomini mortali, quella del bronzo, per nulla simile all’argentea, nata dai fras­ sini, terribile e possente: ad essi stavano a cuore le opere di Ares funeste e la violenza, e non mangiavano il grano, ma possedevano un cuore intrepido come il diamante, spavento­ si all’aspetto, una forza immensa delle mani invincibili ve­ niva dagli omeri al corpo possente. Di bronzo erano le loro armi, di bronzo le dimore, con il bronzo essi lavoravano: non c’era ancora il nero ferro! E poi, abbattuti dalla forza stessa delle loro braccia, quelli se ne andarono alla casa di Ares tremendo, senza una fama qualsiasi; la morte tenebrosa li prese, quantunque terribili, e lasciarono così la luce splen­ dente del sole. Ed ecco, dopo che anche questa stirpe ebbe nascosto la terra, di nuovo un’altra razza, la quarta fece Zeus Cronide sulla terra nutrice di molti, più giusta e più buona, la stirpe divina degli eroi, i quali hanno il nome di semidei, quella che ha preceduto la nostra sulla terra infinita. Questi distrusse quindi la guerra nefasta e la terribile mischia, al­ cuni presso Tebe dalle sette porte, sulla terra di Cadmo, men­ tre lottavano per le greggi di Edipo; altri anche sulle navi, al di là della grande distesa del mare; dopo che la guerra li aveva spinti a Troia per causa di Elena dalla bella chioma4. Quivi alcuni nascose sotterra il fato della morte, mentre ad altri Zeus Cronide concesse una vita ed una dimora, lontano dagli uomini, verso i confini della terra, lungi dagli immor­ tali sui quali regna Crono. Ed essi abitano là, con l’animo sgombro di affanni, nelle isole dei beati, presso l’Oceano dai vortici profondi, gli eroi venerandi, per i quali tre volte nel­ l’anno la terra ricca di doni porta un soave pingue raccolto... E poi, volesse il cielo che non mi fosse toccato di stare insie­ me agli uomini della mia stirpe, ma di morire prima o di nascere dopo! Adesso infatti c’è proprio la stirpe del ferro; né mai di giorno cesseranno gli uomini dall’avere fatiche e miserie, e la notte di struggersi, poiché gli dèi assegneranno gravi angosce. Ma tuttavia pure ad essi qualche bene giun­ gerà, misto ai malanni! Quindi Zeus distruggerà anche que­ sta stirpe di uomini mortali, nel tempo in cui verranno al mondo, nascendo con le tempie candide; ed allora il padre non sarà più simile ai figli né i figli al padre, né l’ospite al­ l’ospite o l’amico all’amico sarà più caro, come è stato sem­ pre nel passato. Questi terranno in dispregio i genitori, appena varcheranno le soglie della vecchiaia, e li caricheranno di rampogne, espri4. Si allude al mito di Tebe e di Edipo, poi narrato nelle tragedie di Eschilo e Sofocle, e all’impresa di Troia che forma l’oggetto dei poe­ mi omerici [N.d.C.].

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Eschilo

mendosi con villane parole — gli sciagurati — incuranti del vigile occhio degli dèi, e neppure ai vecchi genitori daranno il vitto necessario, usando per diritto la forza, e saccheggeranno a vicenda le loro città. Allora non vi sarà più il rispet­ to per l’uomo che mantiene il giuramento né per il giusto né per il buono, ma piuttosto terranno in onore l’uomo arte­ fice di malanni e impersonante la violenza; la giustizia starà nella forza delle mani e la coscienza non vi sarà più; l’uomo malvagio recherà danno a quello buono, esprimendosi con parole tortuose, e vi aggiungerà il giuramento; agli uomini tutti, infelice, diverrà compagna la gelosia dell’amaro lin­ guaggio, che gode del male dall’orribile aspetto. E proprio allora verso l’Olimpo, lasciando la terra dalle larghe vie, na­ scondendo il bel corpo col candido manto, se ne andranno in mezzo alla stirpe degli immortali, abbandonando gli uo­ mini, la Coscienza e il Rispetto, e in tal modo rimarranno la­ crimevoli angosce per gli uomini mortali, e non ci sarà più difesa dal male.

Eschilo: Prometeo e II trionfo delle tecniche Eschilo, il più antico dei grandi tragici ateniesi, nacque nel 525 da una nobile famiglia di Eieusi nell’Attica. Della sua produzio­ ne ci sono pervenute sette tragedie, fra cui il Prometeo incate­ nato del quale viene qui riportato l’inizio del secondo episodio. Eschilo morì nel 456 a Gela, in Sicilia. Nel suo racconto — scritto al principio del V secolo, nell’am­ biente della polis avviata al suo splendore storico —, il furto compiuto da Prometeo produce un effetto completamente diver­ so da quello che aveva in Esiodo: se l’introduzione del sapere tecnico segna ancora la rottura dell’antico rapporto tra gli uo­ mini e gli dèi, qui il costo di questa scissione viene pagato in­ teramente dalle divinità, e la questione che appare ora decisiva è quella del rapporto tra Zeus, Prometeo e il Fato. Quanto al mondo degli uomini, gli dèi sembrano avervi perso qualsiasi ca­ pacità di intervento. L ’ultimo gesto della divinità fra gli uomini è stato, evidentemente, il dono di Prometeo; ma la rottura di questo rapporto perde il carattere nefasto che rivestiva nella rappresentazione esiodea, ed emerge come la possibilità, per gli uomini, di un destino di potere e di felicità. Nell’elenco delle technai donate ai mortali, Prometeo enumera le capacità tecniche più disparate: accanto al numero e all’alfa­ beto, strumenti essenziali nell’articolazione e nella trasmissione di un sapere che non ha più la densità e l’immediatezza della rivelazione divina, incontriamo la lavorazione del legno, la me­ dicina, l’arte del vaticinio e dell’interpretazione dei sogni, l’agriE schilo , Prometeo incatenato, trad. ìt. di D. Ricci, Rizzoli, Milano

1952.

Prometeo e il trionfo delle tecniche

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coltura, l’architettura. La prospettiva secondo la quale queste tecniche vengono unificate nel discorso di Prometeo non è quel­ la di un’analisi intorno a un ipotetico concetto di scienza — do­ ve esse apparirebbero del tutto disomogenee —: l’elenco è piut­ tosto quello di una serie di servizi, che, nelle piazze delle città, sono offerti per denaro al pubblico da figure sociali (i demiourgoi, gli artigiani), che si identificano secondo un criterio di com­ petenza specifica. P rometeo

Non crediate che per indifferenza 0 per orgoglio io taccia; anzi nel cuore dilaniato sono nel vedermi posto a ludibrio. Tuttavia chi mai, se non io, fece dono ai nuovi numi della lor dignità? Ma taccio quello che vi è noto. Piuttosto le miserie dei mortali ascoltate: come prima fossero stolti, e savii io li rendessi, del loro senno signori. Lo dirò senza biasimo alcuno pei mortali, ma solo per mostrarvi di che cuore feci i miei doni. Or essi primamente guardando non vedevano, ascoltando non udivano, e come ombre di sogno trascorrevan la lunga e sciocca vita; né conoscean le case solatie costrutte di mattone, e non il legno lavorato, ma simili a formiche brulicanti vivean nelle caverne, negli antri fondi dalle eterne tenebre. Né avevan segni per l’inverno o per la fiorente primavera o per l’estate feconda: tutto senza intendimento facevano, sin ch’io loro insegnai la nascita e il tramonto delle stelle difficili da scorgere. Per essi il numero trovai, somma saggezza, e l’arte d’unir lettere, memoria di tutte le cose, madre infaticata delle Muse. E costrinsi primo al giogo indomiti cavalli, ed alla soma, a ciò che nelle più dure fatiche sovvenissero gli uomini; ed al cocchio, ornamento di splendida ricchezza, primo addussi i cavalli obbedienti al freno. E primo e solo congegnai 1 velivoli carri dei nocchieri, vaganti per il mare. Tutto questo pei mortali scopersi ed io, me misero!,

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Dalle tecniche alla politica

Eschilo

non so trovare un mezzo, con che possa dall’affanno presente liberarmi. CORO

Caduto in una indegna pena, privo di senno, erri e somigli ad un cattivo medico, che, malato, si sconforti, né sappia con qual farmaco guarire. P rometeo

Ma più ti maravigli se odi il resto; se odi le arti ingegnose che inventai. Anzitutto se un uomo da malore fosse colto, rimedi non aveva, non balsami, non cibi, non pozioni: gli uomini, ignari di medicamenti, inaridiano prima ch’io mostrassi le miscele dei farmachi benigni, con le quali ora vincon tutti i morbi; e molti modi loro anche insegnai di vaticinii e fui primo a chiarire quali tra i sogni realtà saranno; e pei viaggi rivelar mi piacque pronostici non facili a discernere. Con diligenza il volo degli uccelli d’ugna adunca fissai, mostrando se naturalmente fausti siano, ovvero infausti, e di qual cibo ciascun d’essi si nutra e come amori e convivenze e inimicizie esistano tra loro. Quale levigatezza anche mostrai e qual tinta aver debbano le viscere, perché gradite tornino agli dèi; e il multiforme aspetto favorevole della bile e del fegato. Le membra adipose bruciando e l’osso sacro delle vittime, gli uomini iniziai ad un’arte difficile; e i segnali del fuoco chiari alla lor vista io resi, mentre da prima eran velati e oscuri. Questi i miei doni... Ma poi quel che d’utile per l’uomo era celato ancor sotterra, rame, ferro, argento, oro, chi oserebbe dire d’aver prima di me scoperto? Nessuno, che sia conscio dei suoi detti. Alfine eccoti tutto in breve: ogni arte ai mortali pervenne da Prometeo.

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Se infrangere saprai codesti ceppi, sarai di nuovo forte come Zeus. P rometeo

Non questo vuol la Moira esecutrice che avvenga, ma da mille e mille pene affannose sarò domato prima ch’io sfugga ai miei tormenti: l’Arte è sempre della Necessità meno potente. CORO

E chi dunque di questa è reggitore? P rometeo

Son le tre Moire e le memori Erinni. CORO

Forse che Zeus può meno di costoro? P rometeo

Non gli è concesso di sfuggire al Fato. CORO

Ma Zeus non regna per l’eternità? P rometeo

Questo non puoi saperlo; e non pregarmi. CORO

Misterioso è quello che mi celi. P rometeo

D’altro parlate, poi che non è tempo ancora di far motto, ma nascondere si deve con gran cura: custodendo l’arcano, mi sarà dato fuggire le indegne e tormentose mie catene.

Protagora: dalle tecniche alla politica Una diversa variante del mito compare nel discorso di Protagora ritento dall omonimo dialogo platonico. Uno fra i primi e mag­ giori Sofisti, Protagora nacque in Abdera intorno al 485 e morì verso il 411. Soggiornò a lungo in Atene, dove fu in amichevoli rapporti con Pericle, che gli conferì l’incarico di elaborare la costituzione della colonia panellenica di Turii in Magna Grecia. Studioso del linguaggio, sia nel suo aspetto logico-grammaticale

CORO

Troppo hai giovato ad essi, e giunta è l’ora di pensare a te stesso in tanti affanni.

P latone, Protagora, 320 e segg., trad. it. di F. Adomo, in Platone, Dialoghi, Laterza, Bari 1971.

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Protagora

sia in quello persuasivo, come maestro di retorica — lo stru­ mento principale di pratica politica davanti alle assemblee^ della città democratica — , Protagora realizzò in Atene enormi gua­ dagni, destando l’indignazione degli intellettuali di tradizione aristocratica, che ne condannavano la professionalizzazione del sapere. . Nella sua versione del mito, il sapere tecnico viene presentato come l’insieme delle capacità offerte agli uomini da Prometeo, all’atto della divisione delle facoltà fra gli animali. Concesso dopo che Epimeteo aveva già profuso agli altri animali tutte le doti naturali disponibili, il sapere tecnico è, ancora una volta, estraneo allo spazio della natura, e il possesso del fuoco segna il momento che istituisce il mondo culturalizzato. Ma questa prima frattura, per un uomo come Pitagora che agisce nella di­ mensione politica dell’Atene periclea, non è più sufficiente. Attraverso l’esercizio delle tecniche gli uomini non sono in gra­ do di fondare quelle comunità — le città — che sole possono metterli al riparo dalle offese di una natura ostile e anche dalla reciproca violenza che essi, per natura, tendono a portarsi. L in­ tervento decisivo è, così, quello di Zeus, che distribuisce agli uomini la capacità politica: rispetto e giustizia, tornati dal loro esilio presso gli dèi, sono gli elementi che consentiranno agli uomini di vivere secondo istituzioni comunitarie. Si fa strada, a questo punto, l’enunciazione di una differenza decisiva nella mo­ dalità di distribuzione della capacità politica rispetto al sapere tecnico: questo veniva ripartito secondo un criterio di divisione e di specializzazione, mentre l’attribuzione della capacità politi­ ca deve essere omogenea e generalizzata. La differenza tra il carattere specialistico della competenza tecnica e la diffusione indiscriminata della capacità politica introduce la questione de­ cisiva, la discussione che concerne i temi della gestione della città. Qui il sofista Protagora si scontra con l’aristocratico Pla­ tone: per il primo, la politicità potenziale di ognuno giustifica l’esistenza di un gruppo di intellettuali — i sofisti appunto — la cui professionalità consiste nell’insegnamento delle tecniche adatte a renderla efficace, come la retorica; per il secondo, la capacità politica deve tornare ad essere il retaggio di un ceto separato, in cui si incontrino potere e sapere: i filosofi-re di ma­ trice aristocratica.

Tempo vi fu in cui esistevano gli dèi, ma non le stirpi mor­ tali. Poi che giunse anche per le stirpi mortali il momento fa­ tale della loro nascita, gli dèi ne fanno il calco in seno alla terra mescolando terra e fuoco e tutti quegli elementi che si compongono di terra e di fuoco. Ma nell’atto in cui sta­ vano per trarre alla luce quelle stirpi, ordinarono a Prometeo e a Epimeteo di distribuire a ciascuno facoltà naturali in modo conveniente. Epimeteo chiede a Prometeo che spetti a lui la cura della distribuzione: « E quando avrò compiuto la mia distribuzione — dice — tu controllerai ». E così, aven­ dolo persuaso, si pone a distribuire. Ora, nel compiere la sua distribuzione, ad alcuni assegnava forza senza velocità, men­ tre forniva di velocità i più deboli; alcuni armava, mentre

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per altri che rendeva per natura inermi, escogitava qualche altro mezzo di salvezza. A quegli esseri che rinchiudeva in un piccolo corpo, assegnava ali per fuggire o sotterranea di­ mora; quelli che, invece, dotava di grande dimensione, pro­ prio con questo li salvaguardava. E così distribuiva tutto il resto, sì che tutto fosse in equilibrio. Ed escogitò tale princi­ pio preoccupandosi che una qualche stirpe non dovesse estin­ guersi. Dopo che li ebbe provvisti di mezzi per sfuggire le reciproche distruzioni, escogitò anche agevoli modi per pro­ teggerli dalle intemperie delle stagioni di Zeus: li avvolse, così, di folti peli e di dure pelli, che bastavano a difendere dal freddo, ma che sono anche capaci di proteggere dal caldo e tali inoltre da essere adatti quali naturale e propria coperta a ciascuno, quando avessero bisogno di dormire. E sotto i pie­ di ad alcuni dette zoccoli, ad altri unghie e pelli dure prive di sangue; ad alcuni procurava un tipo di alimento, ad altri un altro tipo; ad alcuni erba della terra, ad altri frutti degli alberi, ad altri ancora radici; ad alcuni poi dette come ci­ bo la carne di altri animali, ma a questi concesse scarsa prolificità, mentre a quelli che n’erano preda abbondante pro­ lificità, sì che la specie loro si conservasse. Solo che Epime­ teo, al quale mancava compiuta sapienza, aveva consumato, senza accorgersene, tutte le facoltà naturali in favore degli esseri privi di ragione: gli rimaneva ancora da dotare il ge­ nere umano e non sapeva davvero cosa fare per trarsi di im­ barazzo. Proprio mentre si trovava in tale imbarazzo soprag­ giunse Prometeo a controllare la distribuzione: vede che tut­ ti gli altri esseri viventi armoniosamente posseggono di tutto, e che invece l’uomo è nudo, scalzo, privo di giaciglio e di ar­ mi: era oramai imminente il giorno fatale, giorno in cui an­ che l’uomo doveva uscire dalla terra alla luce. Prometeo al­ lora, trovandosi appunto in grande imbarazzo per la salvez­ za dell uomo, ruba a Efesto e ad Atena il sapere tecnico, in­ sieme con il fuoco — ché senza il fuoco sarebbe stato impos­ sibile acquistarlo o servirsene — e così ne fece dono all’uo­ mo. L ’uomo, dunque, ebbe in tal modo la scienza della vita, ma non aveva ancora la scienza politica: essa si trovava pres­ so Zeus; né più era concesso a Prometeo di andare nell’acropoli, ov’è la dimora di Zeus (e davvero temibili erano, per di più, le guardie di Zeus); riesce, invece, a penetrare di na­ scosto nella comune dimora di Atena e di Efesto dove essi la­ voravano insieme, e, rubata l’arte del fuoco di Efesto e l’al­ tra propria di Atena, le dona all’uomo, che con quelle si pro­ curò le agiatezze della vita. Solo che, come si narra, più tar­ di Prometeo dovette, a causa di Epimeteo, pagare la pena del furto. Come dunque l’uomo fu partecipe di sorte divina, innanzi tutto per la sua parentela con la divinità, unico tra gli esse­ ri viventi, credette negli dèi, e si mise ad erigere altari e sa­ cre statue; poi, usando l’arte, articolò ben presto la voce in

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Protagora

parole e inventò case, vesti, calzari, giacigli e il nutrimento che ci dà la terra. Così provveduti, da principio gli uomini vivevano sparsi, ché non v’erano città. E perciò erano distrut­ ti dalle fiere, perché in tutto e per tutto erano più deboli di quelle, e la loro perizia pratica, pur essendo di adeguato aiu­ to a procurare il nutrimento, era assolutamente insufficiente nella lotta contro le fiere: non possedevano ancora l’arte po­ litica, di cui quella bellica è parte. Cercarono, dunque, di ra­ dunarsi e di salvarsi fondando città: ma ogni qualvolta si ra­ dunavano, si recavano offese tra di loro, proprio perché man­ canti dell’arte politica, onde nuovamente si disperdevano e morivano. Allora Zeus, temendo per la nostra specie, minac­ ciata di andar tutta distrutta, inviò Ermes perché portasse agli uomini il pudore e la giustizia affinché servissero da or­ dinamento della città e da vincoli costituenti unità di ami­ cizia. Chiede Ermes a Zeus in qual modo debba dare agli uomi­ ni il pudore e la giustizia: « Debbo distribuire giustizia e pudore come sono state distribuite le arti? Le arti furono distribuite così: uno solo che possegga l’arte medica basta per molti profani e lo stesso vale per le altre professioni. Anche giustizia e pudore debbo istituirli negli uomini nel me­ desimo modo, o debbo distribuirli a tutti? ». « A tutti, rispo­ se Zeus, e che tutti ne abbiano parte: le città non potreb­ bero esistere se solo pochi possedessero pudore e giustizia, come avviene per le altre arti. Istituisci, dunque, a nome mio una legge per la quale sia messo a morte come peste della cit­ tà chi non sappia avere in sé pudore e giustizia ». E così, So­ crate, anche per questa ragione, gli Ateniesi e tutti gli altri, qualora si debba discutere della capacità architettonica o di qualche altra attività artigianale, ritengono che solo pochi ab­ biano il diritto di dare consigli, e se qualcuno che non appar­ tenga a quei pochi pretenda di dare il proprio parere, non lo sopportano, come hai detto, e non a torto come dico io; qualora, invece, si accingano a deliberare su questioni relati­ ve alla capacità politica, che si impernia tutta sulla giustizia e sulla saggezza, è ragionevole che tutti vengano ammessi, poiché si ritiene necessario che ognuno sia partecipe di que­ sta dote, o non esistano città. Ecco, Socrate, quale ne è la causa. Ma perché tu non creda d’essere ingannato, sostenen­ doti che tutti ritengono che ogni uomo partecipa della giusti­ zia e di ogni altro aspetto della capacità politica, tieni un’al­ tra prova. In tutte le altre capacità, come hai detto, ad esem­ pio nell’arte di suonare il flauto o in qualche altra, se qual­ cuno sostiene d’esser virtuoso e poi non lo è, o viene deriso o ci si sdegna, e i suoi familiari gli si stringono intorno per ammonirlo come se fosse impazzito. Quanto alla giustizia, invece, e agli altri aspetti della virtù politica, sia pur sapen­ do che qualcuno è ingiusto, se costui spontaneamente, a suo danno, confessi la verità di fronte a molti, quel che nell’al­

L ’uomo e la sua responsabilità morale

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tro caso si riteneva saggezza, dire cioè la verità, in questo è ritenuto pazzia e si sostiene che tutti debbono sembrare di essere giusti, lo siano o no, e si dice matto davvero chi non si atteggia a giusto, quasi fosse necessario che ognuno, in una qualche maniera, partecipi della giustizia, oppure sia fuo­ ri dell’umanità.

Sofocle: l’uomo e la sua responsabilità morale Sofocle fu il secondo grande poeta tragico di Atene, dove nac­ que nel 496 e morì nel 406. Attivamente impegnato nella vita politica e religiosa della città, Sofocle fu stratega al fianco di Pericle nella guerra contro Samo del 441, e patrocinò l’introdu­ zione in Atene del culto di Asclepio intorno al 420. Della sua vasta produzione poetica ci sono conservate integral­ mente sette tragedie, fra le quali l'Antigone, rappresentata nel 441. Nel suo primo stasimo, dove Sofocle riprende il tema dell’intro­ duzione delle tecniche, la presenza demiurgica di Prometeo viene ulteriormente ridimensionata, e l’uomo si rappresenta come l’e­ roe unico della situazione, il protagonista assoluto di un proces­ so di dominio sulla natura nel quale, scisso ormai il rapporto con la divinità, rimane solo, fiancheggiato dal mito della propria responsabilità mqrale. Anche qui, come in Protagora, il sapere tecnico, necessario, è però insufficiente, inferiore al livello che rende possibile la relazione sociale: compaiono allora i noinoi, le leggi della città, a ricoprire il posto che nel mito di Protagora occupavano le figure del rispetto e della giustizia. L ’ambiente pericleo è lo spazio sociale nel quale si inscrivono questi discorsi enfatici sulla sorte dell’uomo e della polis: pochi anni prima del 441 Protagora aveva redatto la legislazione della nuova co­ lonia panellenica di Turii, in cui si consacrava la capacità di espan­ sione politica e ideologica della città. CORO

Molte sono le cose mirabili al mondo, ma l’uomo le supera tutte. Anche oltre il mar spumeggiante, col vento impetuoso del sud, procede egli e trascorre sotto onde rigonfie, che mugghiano intorno. Ed affatica la Terra, suprema divinità, non mai stanca, immortale, d’anno in anno volgendo gli aratri e sommuovendola con prole equina. S ofocle, Antigone, primo stàsimo; trad. it. di D. Ricci, Rizzoli, Mi­ lano 1952.

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Sofocle

E le famiglie gioiose degli uccelli egli insegue e depreda. Progenie di fiere selvagge, di creature marine, usando reti cattura l’acuto ingegno dell’uomo. Con la sua astuzia anche doma le belve agresti e montane, e aggioga il crinito cavallo e il toro dei monti instancabile. La parola, l’alato pensiero, i civili costumi conosce, e sa fuggire i colpi che gli inospiti geli lanciano, a cielo sereno, e le scroscianti piogge. Sagace affronta senza téma il futuro. Solo all’Hade non potrà opporre scampo veruno, pur sapendo guarire mali senza rimedio. E quantunque egli trovi espedienti saggi ed utili oltre ogni speranza, ora va verso il male, or verso il bene. Se rispetta le leggi della patria e dei numi, fa grande la città. Ma ne è la rovina, se orgoglio al male lo spinge. Non mi sia mai d’accanto, non parli mai con me, chi agisce in tal maniera.

Democrito: le tecniche senza mito Democrito nacque ad Abdera, in Tracia, verso il 460, e visse fino al 370 circa. Insieme con il suo maestro Leucippo, fu l’au­ tore dell’unico sistema coerentemente materialistico che compaia in tutta la tradizione greca: l’atomismo, una concezione del mon­ do che riduce ogni fenomeno reale alla struttura atomica della materia e alla meccanica dei suoi movimenti. Democrito si collega così in uno spazio ideologico alternativo e periferico rispetto ai motivi dominanti nei canali di diffusione del sapere nella Grecia urbana della fine del V secolo. Traci, it. di V.E. A lfieri, ne 1 presocratici, a cura di G. Giannantoni, Laterza, Bari s.d.

Le tecniche senza mito

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Anche il suo disegno, tutto razionalistico, della genesi della so­ cietà vi compare privo di quell’ottimismo che dava il colore ideologico alla tradizione ateniese. L’articolazione dell’ambiente sociale avviene secondo i movimenti di un automatismo mecca­ nicista, in un contesto al quale sono estranee le questioni intorno al senso e alle finalità di questo processo, tipiche dell’ambiente ateniese. L ’introduzione del fuoco e delle tecniche perde il suo aspetto etico, prometeico, e la differenziazione dell’uomo dagli altri animali mediante l’articolazione del linguaggio e il lavoro tecnico compiuto con le mani non viene valorizzata con l’enfasi che l’accompagna nei testi visti finora. Legato culturalmente alla tradizione del materialismo ionico, e politicamente a ceti artigianali e commerciali dell’area soggetta all’egemonia ateniese, Democrito non può consentirsi alcun ot­ timismo nella fase storica che assiste al consolidarsi della dire­ zione aristocratica di questa egemonia e allo sviluppo delle gran­ di filosofie idealistiche, in primo luogo quella platonica. Questo dà ragione del suo isolamento e della perdita pressoché comple­ ta della sua vasta produzione scientifica.

Ed è approssimativamente quanto ci è stato tramandato in­ torno alla prima origine delle cose. Dicono poi che gli uomi­ ni di quelle primitive generazioni, conducendo una vita sen­ za leggi e come quella delle fiere, uscivano alla pastura spar­ si chi di qua chi di là, procacciandosi quell’erba che era più gradevole di sapore ed i frutti che gli alberi producevano spontaneamente. Erano continuamente aggrediti dalle fiere, e l’utilità apprese loro ad aiutarsi a vicenda; e, riunitisi in so­ cietà sotto la spinta del timore, cominciarono a poco a poco a riconoscersi all’aspetto. E mentre prima emettevano voci prive di significato e inarticolate, gradatamente cominciarono ad articolar le parole; e, stabilendo tra di loro espressioni convenzionali per designare ciascun oggetto, vennero a crea­ re un modo, noto a tutti loro, per significare tutte le cose. Ma poiché simili raggruppamenti di uomini si formarono in tut­ te le regioni abitate della terra, non ci potè essere una lin­ gua di ugual suono per tutti, poiché ciascuno di quei grup­ pi combinò i vocaboli come capitava; ecco perché svariatis­ simi sono i caratteri delle lingue e perché quei primi gruppi furono la prima origine di tutte le varie nazioni. Quei primi uomini, dunque, vivevano in mezzo ai disagi, perché nulla si era ancora trovato di quanto è utile alla vita: erano ignu­ di di ogni vestimento, non abituati ad avere un’abitazione e ad usare il fuoco, del tutto ignari di un vitto non selvag­ gio. Giacché, non avendo idea che si potesse conservare il loro vitto agreste, non facevano punto provviste di frutti per l’eventualità del bisogno: per cui, durante l’inverno, molti di essi morivano, e per il freddo e per mancanza di vitto. Ma non tardò molto che essi, ammaestrati dall’esperienza, si rifu­ giarono d’inverno nelle spelonche e riposero quei frutti che erano atti ad esser conservati. Conosciuto poi il fuoco e le

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Democrito

altre cose utili alla vita, poco dopo si trovarono anche le arti e tutti gli altri mezzi che possono recar giovamento alla vita in società. Così, in generale, maestro di ogni cosa agli uomi­ ni fu il bisogno stesso, rendendo familiare l’apprendimento di ciascuna abilità a questo essere ben dotato e che ha come cooperatrici per ogni occorrenza le mani e la ragione e la versatilità della mente.

La storia delia città: il conflitto e il consumo

Solone: la politica e la legge

I tre testi raccolti in questa sezione sono distanziati di un secolo l’uno dall’altro: quello di Solone risale al principio del VI se­ colo, quello, anonimo, sulla Costituzione degli ateniesi alla metà del V, quello di Senofonte, infine, alla metà del IV. In questo arco di tempo si svolgono lo sviluppo, l’espansione e la crisi di Atene, costituitasi come il prototipo della città, il modello del­ l’organizzazione politica e sociale. Al centro di tutti e tre i testi è il problema del conflitto che la­ cera la città contrapponendo aristocrazia e popolo, ricchi e po­ veri, c delle vie da percorrere per superarlo. Solone nacque nel 640 da una nobilissima famiglia ateniese; no­ minato « legislatore e mediatore », con poteri eccezionali, nel 594, morì dopo il 560. L’ascesa di Solone al potere avviene nel quadro di un violento scontro di classe, che vede contrapposte una popolazione agricola esasperata dal progressivo impoveri­ mento cui è costretta nel chiuso dell’economia rurale dell’Attica (un impoverimento spesso culminante nella schiavitù per debiti), e un’aristocrazia terriera nelle cui mani si vanno concentrando le terre dei contadini poveri e le prime, scarse, disponibilità monetarie. Di fronte al rischio di una rottura violenta degli equi­ libri sociali, Solone compie un’operazione radicale, intesa a ri­ solvere i motivi economici del conflitto grazie all’istituzione di un livello in cui sia possibile operare una mediazione fra gli stra­ ti sociali contrapposti: quello della politica e delle sue strutture istituzionali. Queste strutture organizzano la città come il luo­ go in cui la società può ritrovare una sua omogeneità, ricono­ scere — al di là del conflitto degli interessi — la comune ap­ partenenza a uno spazio territoriale e ideologico, sperimentare compromessi e nuovi equilibri. Solone elimina la schiavitù per debiti dei contadini poveri; sopprime l’antica divisione in stirpi e la sostituisce con una comune appartenenza alla città, omo­ genea in linea di principio anche se stratificata secondo i livelli di ricchezza; dota infine la città di organismi come la boulé, una sorta di parlamento che rappresenta il corpo sociale e ne garan­ tisce politicamente gli equilibri. Soprattutto, Solone dota la città di un insieme di leggi scritte, quindi accessibili a tutti e sottratte, in linea di principio, all’arbitrio dei potenti, anche se tali da san­ cire nei fatti il sistema delle diseguaglianze sociali. E’ da notare Trad. it. di A. M asaracchia, Solone, La Nuova Italia, Firenze 1958.

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Solone

che l’ideologia della legge — una regola impersonale del gioco sociale che impone ad ognuno il rispetto del proprio posto, vie­ ta gli eccessi e gli arbitri, garantisce della stabilità sociale — de­ riva direttamente a Solone dalla saggezza del santuario apollineo di Delfi. Assumendosi il compito di gestire la legge, il politico viene così a sostituire il sacerdote nel contesto della città. E’ in questo quadro etico-politico che nasce il progetto della « demo­ crazia » ateniese: dove democrazia significa non potere popolare ma raggiungimento della coesione sociale attraverso la media­ zione anziché lo scontro violento. La politica può però spostare la scena in cui si rappresentano i conflitti sociali, non cancellar­ ne la base economica. Solone pensava probabilmente che, una volta regolati dalla legge gli eccessi e le sopraffazioni, la natura — cioè la terra — sarebbe tornata, come nel mito di Esiodo, a nutrire copiosamente tutti i cittadini. Ma, al contrario, proprio lo sviluppo della città come centro di consumi, e la necessità di non precipitare nuovamente le masse dei poveri nella spirale della miseria per evitare una nuova rottura degli equilibri so­ ciali, mette crudamente in luce l’insufficienza delle vecchie ri­ sorse agricole. Occorre reperire, fuori dalla terra, una nuova « natura » in grado di nutrire la città. Vedremo, nei passi che seguono, lo sviluppo di questo problema.

Frammento 1. La nostra città non andrà mai in rovina se­ condo il decreto di Zeus e l’intenzione dei beati dèi immor­ tali, ché tale magnanima custode, Pallade Atena dal terribile padre, le tiene sopra le sue mani dall’alto. Sono i cittadini stessi che vogliono rovinare la grande città, dando ascolto a delle parole e ingiusta è la mente dei capi del popolo, per i quali è inevitabile soffrire molti mali per la loro grande vio­ lenza, ché non sanno frenare la loro tracotanza né sanno go­ dere in ordine e in tranquillità le gioie che offre loro attual­ mente il banchetto... Si arricchiscono subendo la tentazio­ ne di agire ingiustamente... e senza risparmiare né le terre sa­ cre né quelle pubbliche rubano rapinando chi in un modo chi in un altro e non rispettano le norme venerande di Giusti­ zia che, pur tacendo, conosce sia il futuro che il passato e a suo tempo in ogni modo sopraggiunge a far pagare il fio. Questa ferita inevitabile giunge ormai su tutta la città ed es­ sa ben presto cade in vergognosa servitù, che desta la lotta delle fazioni e la guerra civile che dorme, per la quale va perduta la giovinezza di molti; presto infatti per colpa dei nemici ramatissima città si logora nelle riunioni che sono care agli ingiusti. Questi sono i mali che si aggirano nel pae­ se; ma inoltre molti dei poveri vanno in terra straniera, ven­ duti e legati in disonorevoli ceppi... Così il male di tutti va in casa a ciascuno e neppure le porte del cortile sono in grado di trattenerlo, ché esso salta il muro, per quanto alto, e sco­ va comunque anche chi fuggendo si trovi nel recesso del ta­ lamo. Questo desidero insegnare agli Ateniesi, che l’assenza di legge procura moltissimi mali alla città, mentre la Buona Legge rende ogni cosa ordinata e perfetta e contemporanea­

La politica e la legge

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mente pone in ceppi gli ingiusti, liscia le asperità, fa cessare il Conflitto, fiacca la Violenza, dissecca i fiori in rigoglio di Odio, raddrizza i giudizi storti e mitiga le azioni superbe, pone termine alla lotta fra le fazioni, pone termine all’ira che nasce dalla rovinosa Contesa, sotto di lei tutto tra gli uomini è perfetto e assennato. Frammento 5. Al popolo ho dato tanta dignità quanta è sufficiente, poiché non ho tolto né aggiunto niente alla sua consistenza sociale; quanto a quelli che avevano il potere e che erano oggetto di ammirazione per le loro ricchezze, an­ che nei loro riguardi ho stabilito che non possedessero nulla di illecito; mi sono levato cingendo sia gli uni che gli altri di un saldo scudo e non permisi né agli uni né agli altri di vin­ cere ingiustamente... Il popolo seguirà ottimamente i suoi ca­ pi a condizione che non sia lasciato troppo libero e che non subisca prepotenze... Frammento 54. Splendide figlie di Mnemosine e di Zeus Olimpio, Muse Pieridi, ascoltate la mia preghiera: concede­ temi la piena felicità da parte degli dèi beati e di aver sempre buona fama da parte di tutti gli uomini, in modo che così possa essere dolce agli amici e amaro ai nemici, rispettato e venerato dagli uni, temibile alla vista degli altri. Quanto al­ le ricchezze, io desidero averne, ma non voglio procacciarme­ le ingiustamente: in ogni caso, in seguito, suol sopraggiun­ gere Giustizia. La ricchezza che dànno gli dèi è per l’uomo duratura dal fondo alla cima; quella invece che gli uomini imbrigliano sotto la suggestione della loro violenza, non com­ postamente procede, ma obbedendo alle loro ingiuste azioni contro voglia li segue, e ben presto però si mescola con la Punizione. Piccolo è l’inizio di questa, come d’un fuoco: è prima insignificante, ma doloroso alla fine: per i mortali le opere della violenza non durano a lungo. Ma Zeus guarda al compimento di ogni cosa e all’improvviso — come le nubi tosto disperde il vento di primavera, che dopo aver sconvol­ to gli abissi dell’ondoso infecondo mare ed avere devastato i bei lavori agricoli nella fertile terra sale all’alta sede degli dèi, il cielo, e fa nuovamente vedere il sereno; risplende vi­ goroso e bello il sole sulla pingue terra e non si vedono più nubi — tale è la punizione di Zeus, né (il dio) è pronto alla ira contro ciascuno come un uomo mortale, ma mai gli sfug­ ge chi ha sentimenti malvagi e in ogni modo alla fine si ri­ vela; e c’è chi sconta subito e chi dopo, e se anche (i colpe­ voli) sfuggono con la loro persona e la punizione divina non li coglie, giunge in ogni caso dopo e, pure innocenti, pagano le loro colpe o i loro figli o i loro nipoti. Questo è invece l’at­ teggiamento di noi uomini: sia il capace che l’incapace ha una eccezionale stima di se stesso, prima che gli capiti qual­ che sciagura; allora geme; fino ad allora noi, da stupidi, ci dilettiamo di vane speranze. E chi è afflitto da gravi malat­ tie, s’illude che guarirà; un altro, pur essendo un uomo da

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Pseudo-Senofonte

poco, s’illude di essere capace e, se il suo aspetto non è gra­ dito, di essere bello; se qualcuno è senza mezzi, e lo oppri­ me la povertà, s’illude di poter procurarsi in ogni caso gran­ di ricchezze. Chi si affanna per un verso, chi per un altro: c’è chi va vagando per il mare pescoso, desiderando portarsi a casa sulle navi un qualche guadagno; ed è sbattuto da terri­ bili venti ed espone senza riguardo la sua vita; un altro, sol­ cando la terra ricca di alberi, per un anno si adatta a servire (sono coloro che lavorano coi ricurvi aratri); un altro si pro­ cura i mezzi di vita con le mani, esperto nelle opere di Atena e dell’operoso Efesto *, un altro li procura avendo appreso i doni delle Muse dell’Olimpo e conoscendo la tecnica della amabile poesia; un altro è stato reso indovino dal signore Apollo che da lontano saetta, qualora lo secondino gli dèi; ma in ogni caso nessun vaticinio, nessun rito religioso potrà evitare ciò che è decretato; altri sono medici e attendono al­ l’opera di Peone12 ricco di farmachi, e neppur essi conclu­ dono nulla, ma spesso da un piccolo inconveniente scaturisce un grande dolore e non vi si può porre rimedio da nessuno con farmachi lenitori; talora invece egli col semplice tocco delle mani rende sano chi è gravemente agitato da terribili mali. E’ la Moira 3 divina che porta agli uomini il bene e il male: è impossibile sfuggire alla sorte inviata dagli dei im­ mortali.

Pseudo-Senofonte: la democrazia e il mare La Costituzione degli ateniesi fu scritta, verso la metà del V secolo, da un anonimo autore oligarchico (noto come lo PseudoSenofonte), ferocemente ostile a Pericle e all’esperimento della « democrazia » ateniese. Egli è convinto della illusorietà di uno spazio politico che si raffigura come il luogo neutro della legge e della mediazione fra gruppi sociali; il suo proposito è di de­ nunciare — ponendosi così al di fuori della tradizione ateniese a partire da Solone — il carattere mistificante della politica, dietro la quale non v’è che la realtà dello scontro implacabile delle classi. La « democrazia » ateniese è, secondo l’oligarca, il dominio che il demos, il popolo urbano ha imposto sull’aristo­ crazia. Scontato un giudizio di valore assolutamente negativo nei confronti dell’ordinamento politico ateniese, l’analisi si dichiara tuttavia rivolta alla individuazione della sua razionalità interna, della coerenza sistematica che la regge a vantaggio del potere 1. Atena è la protettrice delle arti, Efesto delle tecniche, specie della metallurgia [N.d.C.]. 2. Divinità protettrice dei medici [N.d.C,]. 3. Il destino guidato dagli dèi [N.d.C.]. P seudo -Senofonte, La costituzione degli Ateniesi, trad. it. di M.j. Fontana, Palumbo, Palermo 1969.

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del demos. La conflittualità radicale viene enucleata come regola del rapporto sociale all’interno della città, e la polemica più dura si rivolge contro i tentativi di violare questa norma e di operare una mediazione fra gli opposti strati sociali. In questo senso, l’analisi dell’oligarca non tiene conto degli ef­ fettivi equilibri realizzati in Atene, che certo impongono costi notevoli all’aristocrazia, ma non ne minano in effetti il potere. Dove essa è estremamente lucida, comunque, è nell’individua­ zione del nesso strutturale che connette l’assetto della polis ate­ niese con il suo sviluppo marittimo. Grazie al potere navale, la città è in grado di esportare i costi dei suoi equilibri interni. Lo sfruttamento degli alleati-sudditi mediante il tributo, l’imposizio­ ne di dazi sul flusso di scambi commerciali marittimi, l’obbligo per gli stranieri di utilizzare i servizi offerti dalla città, le con­ sentono di finanziare i suoi consumi in modo parassitario, e al tempo stesso di assicurarsi il flusso di beni che devono soddi­ sfare quei consumi. Una nuova « natura » si è così resa dispo­ nibile alla città: il mare, con gli isolani che lo popolano, con i commerci che lo percorrono. La relazione fra dominio del ma­ re e democrazia viene identificata dall’oligarca nel rilievo che, grazie all’attività marittima, assumono i meteci (stranieri che vi­ vono nella città), e larghi strati sociali estranei all’aristocrazia e alla forma militare in cui essa si esprime, la milizia oplitica legata alla terra. E’ un motivo, quello della vicinanza al mare, che ritornerà in Platone, quando sarà letto nel contesto di una questione più generale intorno agli equilibri etici della città.

La costituzione degli Ateniesi, che scelsero questo modo di governarsi, io non l’approvo per questa ragione, che, cioè, scegliendo siffatta forma, preferirono che i cattivi stessero me­ glio dei buoni; e perciò dunque io non l’approvo. Ma poiché questo a loro sembrò giusto, come bene conservino la loro linea politica, anche compiendo atti che gli altri Greci giu­ dicano disdicevoli, io lo dimostrerò. Prima di tutto, questo dirò, che a buon diritto qui i poveri ed il demos sembra che godano vantaggi sui nobili e sui ric­ chi, perché è il demos che conduce le navi e assicura potenza alla città, e i timonieri, i capiciurma, i pentecontarchi, i pro­ reti e gli armatori sono questi che forniscono forza alla città molto più che gli opliti e i nobili e i migliori. Poiché dunque le cose stanno così, appare giusto che a tutti sia dato di par­ tecipare alle pubbliche cariche, sia a quelle per sorteggio sia a quelle elettive e che qualsivoglia cittadino abbia liber­ tà di parola. Poi tutte le cariche, che portano al demos inte­ ro sicurezza, se buone, e pericolo, se cattive, a queste il de­ mos non chiede di partecipare (non credono che sia conve­ niente per essi aspirare al sorteggio delle strategie né delle ipparchie); sa infatti il demos che trarrà maggiore giovamento non assumendo tali magistrature ma lasciando che le ricopra­ no i più dotati. Invece quelle cariche che sono ricompensate e redditizie per il proprio patrimonio, queste il demos anela a ricoprire. Inoltre alcuni stupiscono che (gli Ateniesi) in ogni

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campo attribuiscono maggiore importanza al volgo, ai poveri, al popolo che ai migliori, ma proprio in questo apparirà chia­ ro che essi sono i custodi della democrazia. Poiché i poveri, il popolo e i peggiori, quando se la passano bene, e quando diventano numerosi quelli che si trovano in tali condizioni, accrescono la democrazia. Se al contrario fossero avvantag­ giati i ricchi e i buoni, il popolo renderebbe più forti i suoi stessi nemici. In ogni parte della terra l’aristocrazia è nemi­ ca della democrazia; ché negli aristocratici pochissima smo­ deratezza ed ingiustizia può trovarsi, e molto zelo verso ciò che è onesto, nel demos si trova invece grandissima ignoran­ za e indisciplina e indegnità; la povertà li sospinge più che altro verso cose indegne e così anche l’ineducazione e l’igno­ ranza, per alcuni di questi uomini dovuta a mancanza di mezzi. Si potrebbe obiettare che sarebbe stato opportuno concede­ re libertà di parola e diritto di deliberare non a tutti ma sol­ tanto ai più saggi e ai migliori; ebbene, anche in questo es­ si decidono per il meglio, permettendo che il volgo interven­ ga. Infatti, se a parlare e a decidere fossero i migliori, ne ver­ rebbe il bene per i loro simili ma non il bene per il popolo; ora invece, levandosi a parlare un qualsivoglia uomo del vol­ go, viene ad ottenere il bene per sé e per i suoi simili. Qual­ cuno potrebbe chiedere: che bene può ravvisare per sé o per il demos un siffatto uomo? Ma essi sanno che riescono più vantaggiose l’ignoranza e l’indegnità di costui, unite al favo­ re, che il valore e la saggezza del nobile, uniti allo sfavore. Una città sorretta da tali istituzioni non diverrebbe mai per­ fetta, ma la democrazia sarebbe così salvaguardata. Il demos non desidera essere schiavo in una città retta da un buon go­ verno, ma essere libero e governare; se a prezzo del mal go­ verno, gli importa poco. Proprio da un governo che non cre­ di sano, il demos trae la sua forza ed è libero. Se invece de­ sideri il buon governo, vedrai anzitutto i più capaci formula­ re le leggi per essi; inoltre i migliori freneranno gli indigeni e governeranno la città né permetteranno ad uomini folli di decidere né di intervenire nelle discussioni né di riunirsi in assemblee. Da siffatti provvedimenti dei buoni immediatamen­ te il demos verrebbe soggiogato. Enorme è in Atene la sfrontatezza degli schiavi e dei meteci e non ti è possibile qui punirli né il servo ti cederà il passo. E quale sia il motivo di questo costume lo dirò io: se per leg­ ge un servo o un meteco o un affrancato potesse essere battu­ to da un libero, spesso un Ateniese potrebbe essere scambia­ to per uno schiavo e ricevere percosse; infatti da noi il demos o gli schiavi e i meteci non si distinguono nell’abbigliamento e nell’aspetto dagli aristocratici. Se poi qualcuno stupisse an­ che di questo, che qui gli schiavi abbiano licenza e alcuni vivano sfarzosamente, si potrebbe vedere che anche questo fanno di proposito. Laddove, infatti, v’è una potenza fonda­

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ta sul mare, è necessario che gli schiavi servano per guadagno, per ottenere le percentuali al fine di liberarsi riscattandosi; dove gli schiavi sono danarosi non giova che il mio schiavo abbia timore di te. Invece a Sparta il mio schiavo ti temeva; e se il tuo schiavo mi teme, sarà probabile che consegni an­ che i suoi proventi per non correre rischi. Dunque abbiamo concesso uguale libertà di parlare ai servi e ai liberi, ai me­ teci e ai cittadini per la ragione che la città ha bisogno dei meteci per il gran numero delle attività e per la marineria; per questo verosimilmente abbiamo dato ai meteci tale li­ bertà. [...] Per quanto riguarda gli alleati — sembra che (gli Ateniesi) una volta giunti presso di loro li calunniano e odiano i mi­ gliori —, sanno bene che ineluttabilmente è odiato chi co­ manda da colui che subisce; ora se divenissero potenti i ric­ chi e i forti nelle città, pochissima vita rimarrebbe al potere del demos in Atene; per questo dunque discreditano i miglio­ ri, li privano dei beni, li allontanano, li uccidono e accresco­ no invece il potere degli indegni. I migliori degli Ateniesi, d’altra parte, proteggono i migliori delle città alleate, essen­ do consapevoli che torna a loro vantaggio appoggiare sempre gli aristocratici nelle altre città. Si potrebbe dire che la forza stessa di Atene poggi sulla possibilità degli alleati di fornire ricchezze; certo sembra cosa migliore ai democratici che cia­ scuno degli Ateniesi abbia le ricchezze degli alleati e che que­ sti abbiano quanto basti per vivere e fatichino, restando pri­ vi della possibilità di ribellarsi. [...] Inoltre per loro fortuna accade anche qualcosa di simile: quelli che sono soggetti alla potenza di forze terrestri posso­ no riunirsi dai piccoli centri in un sol punto ed attaccare; quelli che sono soggetti alla potenza di forze navali, gli abi­ tanti delle isole, non possono riunirsi: c’è di mezzo il mare e quelli che hanno il potere sono signori del mare; e se anche fosse possibile agli isolani radunarsi di nascosto in un’unica isola, sarebbero annientati dalla fame. Dalle città della terra­ ferma che sono soggette ad Atene, le più grandi lo sono per timore, le più piccole per necessità; poiché non ve n’è nes­ suna che non abbia bisogno di importare o di esportare, e ciò non è possibile se non ubbidiscano ai signori del mare. Poi chi è potente per mare può compiere imprese che puòcompiere chi è potente per terra, qualche volta, come il sac­ cheggio della terra di chi è più forte: infatti possono appro­ dare là dove non vi siano nemici o ve ne siano pochi, e, tro­ vandoseli davanti, imbarcarsi e salpare; comportandosi così hanno minori difficoltà di quelli che combattono con l’eser­ cito terrestre. Inoltre a quelli che sono signori del mare è possibile navigare quanto vogliono lontano dal loro paese, a coloro che hanno il predominio in terraferama non è pos­ sibile allontanarsi dai loro territori per una distanza di molti giorni; gli spostamenti sono infatti lenti e non è possi­

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bile per chi marcia a piedi portare con sé vettovaglie suffi­ cienti per molto tempo. E chi marcia a piedi deve o attra­ versare regioni amiche o combattere e vincere, mentre chi naviga può sbarcare là dove sia più forte o, dove non lo sia, non sbarcare e continuare finché non giunga in paese amico o incontri forze inferiori alle sue. E ancora coloro che hanno la supremazia per terra mal sopportano i cattivi raccolti che Zeus manda, coloro che dominano il mare sopportano ciò agevolmente; infatti non viene colpita contemporaneamente ogni parte della terra, così che, dalla regione in cui c’è stata abbondanza giunge rifornimento, a coloro che dominano il mare, dei prodotti dei quali ha penuria la regione colpita. Se poi dobbiamo ricordare anche cose più minute, attraverso il dominio del mare primamente trovarono i prodotti più raf­ finati commerciando gli uni con gli altri; sicché le cose più deliziose in Sicilia o in Italia o in Cipro o in Egitto o in Li­ dia o nel Ponto o nel Peloponneso o altrove, tutte quante so­ no state raccolte in un sol punto proprio a causa del domi­ nio del mare. Inoltre, ascoltando tutti i dialetti, presero un po’ da uno e un po’ dall’altro; gli Elleni hanno una lingua, un modo di vivere, un modo di vestire peculiari, gli Atenie­ si un miscuglio tratto da tutti i Greci e i Barbari. Per quanto riguarda i sacrifici, i templi, le feste, i santuari — sapendo il demos che ciascun povero non ha la possibilità di sacrificare, banchettare, innalzare templi ed abitare una città bella e ric­ ca —, trovò modo di ottenere tutto ciò. Fanno ricchi sacrifici in nome della città ma è il demos che banchetta e si sparti­ sce le vittime. Le palestre, i bagni e gli spogliatoi solo alcu­ ni ricchi li possiedono privatamente, il demos invece appron­ ta per sé palestre, spogliatoi e bagni in quantità; e di tutto questo gode più la massa che i pochi e i benestanti. Sono i soli (gli Ateniesi) idonei a detenere la ricchezza fra i Greci e i Barbari. Se qualche città produce legno per navi, dove lo venderà senza l’appoggio dei signori del mare? O se una città produce ferro o bronzo o lino, dove li venderebbe senza l’appoggio di costoro? Le mie navi son fatte di tut­ te queste cose prodotte da altre città, da una il legno, da un’altra il ferro, da un’altra il bronzo, da un’altra il lino, da un’altra la cera. Inoltre gli Ateniesi impediranno ai nostri av­ versari di portare altrove questi prodotti a meno che non rinunzino ad avvalersi del mare. Ed io, pur non ricavando niente dalla terra, ho tutto per mezzo del mare, e invece nes­ sun’altea città possiede due prodotti; né alla stessa è legno e lino, ma se produce più lino il suo territorio è in pianura e non ha foreste; né si possono avere bronzo e ferro da una stessa città e nessuna città possiede due o tre prodotti, ben­ sì una un prodotto una un altro.

Senofonte: dal mare alla miniera Senofonte, un intellettuale aristocratico legato al gruppo di So­ crate (del cui pensiero egli accentuava il versante etico-religio­ so), fu un testimone e anche un protagonista diretto della crisi della polis ateniese. Nato intorno al 430, nel 401 lasciò Atene per prendere parte, come mercenario, alla spedizione del princi­ pe persiano Ciro contro il fratello regnante, Artaserse. Per av­ versione alla democrazia ateniese, si legò in seguito a Sparta, nel cui territorio soggiornò a lungo. Scrisse dialoghi socratici, opere storiche, e il breve trattato Sulle entrate pubbliche (da cui è tratto il passo che segue), sui problemi economici di Atene e sui mezzi per risolverli. Verso la metà del IV secolo, la crisi del dominio marittimo di Atene, dovuta alla rivolta degli alleati-sudditi e a una coalizio­ ne di potenti nemici (da Sparta alla Persia alla crescente poten­ za macedone), ripropone in modo drammatico il problema di finanziare i consumi collettivi della città garantendone così l'e­ quilibrio politico. La legge soloniana, la mediazione politica, la coesione del corpo sociale possono venir mantenuti in vita solo nell’equilibrio fra potere dell’aristocrazia e mantenimento pub­ blico del demos urbano; esso deve vivere di rendita sulla città, ma la città non può più vivere di rendita sul mare. In questo contesto, Senofonte tenta un’indagine sulle condizioni di possi­ bilità dell’autonomia economica della città. Anche a lui resta to­ talmente estranea l’idea di assicurare questa autonomia median­ te lo sviluppo della produzione di merci e l’espansione delle at­ tività di esportazione; anche per lui, la città resta un centro di consumi, il cittadino in quanto tale mantiene il diritto alla di­ stribuzione dei beni necessari alla vita da parte della collettività. Ma come reperirli? Senofonte resta tenacemente legato all’idea di una « natura » esterna alla città e destinata a nutrirla. Se la terra è avara, se nonostante ogni sforzo il mare (con i suoi com­ merci e i meteci che li attivano, dunque con il gettito fiscale che se ne può prelevare) non è più sufficiente, occorrerà rivolgersi a un’altra natura: la miniera, con il suo argento facilmente con­ vertibile in beni e in moneta. L ’argento delle miniere del Laurio aveva in effetti giocato un ruolo di rilievo nel consentire il fi­ nanziamento dell’espansione marittima di Atene al principio del V secolo. Senofonte pensa che basti incrementare il lavoro nella miniera di un’altra « natura » — gli schiavi — perché esso torni a fluire copioso nelle casse della città. Ma il progetto era desti­ nato a fallire: anche questa natura si è fatta avara, i filoni — a dispetto del tenace ottimismo senofonteo — si sono davvero esauriti.

1. Ho sempre pensato che la costituzione di uno stato ri­ fletta la natura di chi lo governa. E poiché alcuni capi politi­ ci ateniesi hanno detto di conoscere la giustizia non meno degli altri uomini, ma di essere stati costretti, per la povertà S enofonte, Le entrate, trad. it. di G. Bodei Giglioni, La Nuova Italia, Firenze 1972.

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delle masse, ad essere piuttosto ingiusti nei confronti delle cit­ tà confederate, mi sono proposto di vedere se gli Ateniesi possano in qualche modo essere mantenuti dalle risorse del loro paese — soluzione questa che è anche la più giusta — , convinto che in tale caso Atene porrebbe rimedio alla loro povertà e contemporaneamente eviterebbe di essere sospetta ai Greci. Esaminando questo progetto, mi è sembrato subito chiaro che la nostra regione è per natura in grado di offrire moltissime rendite. Per dimostrare quanto ho appena detto, descriverò la natura dell’Attica. Che le stagioni siano molto miti lo te­ stimoniano i prodotti stessi; infatti qui fruttificano piante che in molti luoghi non potrebbero neppure germogliare. Co­ me la terra, anche il mare che circonda l’Attica è apportato­ re di ogni ricchezza. Quei beni, appunto, che gli dèi concedo­ no nelle varie stagioni, tutti compaiono qui precocemente e vengono a mancare molto tardi. E questa regione non solo è superiore alle altre per ciò che ogni anno sboccia e appassi­ sce, ma possiede anche beni che durano eterni. La natura infatti le ha dato abbondanza di marmo, con cui si costrui­ scono magnifici templi, magnifici altari e le statue più belle per gli dèi. Questo marmo è ricercato da molti, sia Greci che Barbari. Vi è poi della terra che, seminata, non dà frut­ ti, ma, scavata, nutre assai più gente che se producesse grano. Essa infatti contiene filoni d’argento, certo per disposizione divina, dato che in nessuno dei numerosi stati vicini, sia al­ l’interno che sul mare, arriva la benché minima vena di mi­ nerale d’argento. Si può ragionevolmente pensare che il no­ stro paese si trovi al centro di tutta la Grecia, anzi di tutta la terra abitata, poiché, quanto più ci si allontana da esso, tanto più difficili da sopportare sono i freddi e i caldi; e chi poi vuole andare da un capo all’altro della Grecia, deve pas­ sare da Atene, come al centro di un cerchio, sia viaggiando per mare che per terra. Infatti, pur non essendo circondato dalle acque, col favore di tutti i venti importa ciò di cui ha bisogno ed esporta ciò che vuole, come se fosse un’isola; in­ fatti è bagnato da due mari, ma, essendo sul continente, ri­ ceve, grazie al commercio, molti beni anche per via di terra. La maggior parte degli stati sono vicini ai Barbari e vengo­ no da essi molestati, Atene invece ha vicini proprio quegli stati che sono essi stessi molto lontani dai Barbari. 2. Tutti questi vantaggi, come ho già detto, credo siano do­ vuti alla natura del suolo. Se, oltre alle risorse indigene, ci si interessasse in primo luogo dei meteci, avremmo, io penso, una delle migliori fonti di rendita, in quanto i meteci si man­ tengono da soli, non ricevono alcun compenso per i molti van­ taggi che procurano agli stati e pagano per di più una tas­ sa speciale. Questo interessamento sarebbe sufficiente, mi sem­ bra, se li dispensassimo da quegli obblighi che, pur non gio­

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vando allo stato, sembrano imprimere ai meteci un marchio di disonore, e se li esentassimo dal militare nella fanteria pe­ sante con i cittadini. Senza contare i rischi personali, è an­ che un grave inconveniente per loro dover lasciare occupa­ zioni e case. Del resto sarebbe un vantaggio anche per lo sta­ to se i cittadini militassero fra di loro, senza essere mescola­ ti come ora a Lidi, Frigi, Siri e altri Barbari di ogni stirpe, com’è buona parte dei nostri meteci. Oltre all’utilità di esclu­ derli dal servire nell’esercito con i cittadini, per lo stato sa­ rebbe anche motivo di onore se, nel combattere, gli Ateniesi mostrassero di contare più su se stessi che su gente straniera. Facendo poi ai meteci altre concessioni che sarebbe bello fare e concedendo loro in particolare il diritto di militare nel­ la cavalleria, mi pare che accresceremmo la loro benevolen­ za verso di noi e renderemmo lo stato più forte e più gran­ de. Inoltre, poiché dentro le mura vi sono molte zone prive di case e molte aree fabbricabili, se lo stato concedesse a co­ loro che ne faranno richiesta e saranno giudicati degni la proprietà dei terreni su cui avranno costruito, sono convinto che per questo molti più e migliori stranieri desidererebbero abitare ad Atene. Se, infine, si istituisse una magistratura per la tutela dei meteci, simile a quella esistente per la tutela degli orfani, e si proponessero onori per chi avrà presentato il maggior numero di meteci, anche questo accrescerebbe la loro benevolenza nei nostri confronti, e, come è probabile, tutti i senza patria cercherebbero di ottenere in Atene la con­ dizione di meteco, incrementando così le nostre rendite. 3. Dirò ora come la nostra città offra le maggiori attrattive e i più grandi vantaggi a chi esercita il commercio. In primo luogo possiede ripari eccellenti e molto sicuri, dove le navi, una volta ancorate, possono stare tranquillamente malgrado le tempeste. In quasi tutti gli altri porti i mercanti sono co­ stretti a prendere un carico di ritorno, perché la moneta lo­ cale non ha corso altrove; ad Atene invece hanno la possibi­ lità di portare via, in cambio delle loro merci, moltissimi pro­ dotti di cui c’è richiesta, o, se non vogliono il carico di ri­ torno, portando via argento, esportano una bella merce, per­ ché, dovunque lo vendano, ne ricavano sempre più del capi­ tale iniziale. Se si proponessero ricompense per i magistrati del mercato per risolvere le liti con maggiore giustizia e ce­ lerità, in modo che chi vuol salpare non sia trattenuto, i mer­ canti verrebbero ad Atene più numerosi e più volentieri. Sa­ rebbe inoltre conveniente e lodevole riservare dei posti privi­ legiati e offrire occasionalmente ospitalità ai mercanti e agli armatori che, per l’importanza delle loro navi e la qualità del­ le loro merci, sembrano giovare allo stato. Fatti segno di ta­ li riguardi si affretterebbero a venire qui come tra amici, non solo per motivi di guadagno ma anche per godere di simili onori. Col crescere del numero dei residenti e dei visitatori,

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si avrebbe un corrispondente incremento delle importazioni, delle esportazioni, delle vendite, degli stipendi e delle tasse Per ottenere questo aumento delle entrate non occorre alcuna spesa, ma soltanto leggi benevole e misure di controllo. Tut­ te le altre fonti di rendita che ho in mente so bene che richie­ deranno un impiego di capitale. Tuttavia non dispero che i cittadini contribuiscano volentieri a tali spese, se penso che la città dette forti contributi quando soccorse gli Arcadi sotto la guida di Lisistrato e poi al tempo di Egesileo. So che spes­ so vengono inviate fuori triremi con grande spesa, pur ignoran­ do se la spedizione avrà esito felice o no, anzi con la certezza che nessuno riprenderà mai il danaro sottoscritto né potrà re­ cuperarne una parte. Ma nessun investimento renderà tanto ai cittadini quanto il denaro da essi anticipato per la forma­ zione del capitale. Infatti chi contribuirà con dieci mine, ri­ cevendo tre oboli al giorno, ricaverà quasi il venti per cento, come nell’interesse del commercio marittimo; chi contribuirà con cinque mine più del trentatré per cento. Così la maggior parte degli Ateniesi riceverà ogni anno più di quanto avrà versato, perché chi avrà anticipato una mina ne trarrà una rendita di quasi due e ciò senza uscire dallo stato, il che tra le umane cose sembra la più sicura e durevole. Sono convin­ to che se costoro fossero registrati per sempre come benefat­ tori dello stato, anche molti stranieri concorrerebbero alla contribuzione e perfino alcuni stati, attratti dalla prospettiva della registrazione. Spero che anche alcuni re, tiranni e satra­ pi desiderino partecipare a tale riconoscimento. Una volta costituito il capitale, sarebbe un bel progetto co­ struire presso i porti altri alberghi per gli armatori oltre quel­ li che vi sono già, locali adatti all’acquisto e alla vendita per i mercanti ed alberghi pubblici per i visitatori. Se inoltre si costruissero per i piccoli rivenditori del mercato abitazioni e botteghe al Pireo e ad Atene, queste sarebbero al tempo stesso un ornamento per la città ed una notevole fonte di ren­ dite. Sarebbe bene, a mio avviso, provare se lo stato, come possiede triremi pubbliche, possa acquistare anche navi da carico pubbliche e darle a nolo dietro garanzia, come gli altri beni pubblici. Se anche questo si potesse attuare, se ne rica­ verebbero introiti considerevoli. 4. Per quanto riguarda le miniere d’argento, io credo che, se il loro sfruttamento fosse organizzato come si deve, procu­ rerebbero una grande quantità di denaro, indipendentemente dalle altre rendite. Voglio mostrare la consistenza di queste miniere a coloro che la ignorano, perché, quando ve ne sarete resi conto, possiate decidere meglio come trarne i maggiori vantaggi. E ’ noto a tutti che esse sono in attività da moltissi­ mo tempo, anzi nessuno si azzarda a dire da quando. Ma, sebbene il minerale sia scavato ed estratto fin da epoca anti­ ca, osservate come siano piccoli i cumuli di scorie rispetto ai

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colli argentiferi ancora allo stato naturale. Si vede chiaramen­ te che l’area di sfruttamento del minerale, anziché diminuire, si estende sempre di più; ed anche nel periodo in cui vi è sta­ to il maggior numero di uomini non è mai mancato il lavoro a nessuno, anzi non erano mai sufficienti al fabbisogno. Ed anche ora non vi è proprietario di schiavi minerari che ne di­ minuisca il numero, ma l’aumenta quanto più può. Perché, quando sono in pochi a fare gli scavi e le ricerche, credo sia scarso anche il minerale trovato, ma quando sono in molti esso viene estratto in quande quantità. Così, di tutte le attivi­ tà che io conosco, solo in questa succede che nessuno invidi i nuovi imprenditori. Infatti tutti i proprietari di campi sono in grado di dire quante coppie di buoi e quanti braccianti occorrano per coltivare il loro terreno e ritengono dannoso adoperarne più del necessario; ma per le miniere dicono che tutti sono a corto di minatori. Un aumento del numero dei ramai, ad esempio, produce un abbassamento del prezzo dei manufatti di rame e costoro abbandonano il mestiere; così pu­ re i fabbri ferrai. E quando il grano e il vino sono abbondan­ ti, il prezzo di questi prodotti diminuisce, le coltivazioni non danno alcun profitto e molti agricoltori, abbandonato il la­ voro dei campi, si rivolgono al commercio all’ingrosso, alla vendita al minuto e all’usura. Ma nel caso delle miniere, quanto più è abbondante il minerale scoperto e l’argento che ne deriva, tanto più numerosi sono gli uomini che si dedi­ cano a questa attività. Infatti, quando uno ha acquistato le suppellettili necessarie alla casa, non ne compra molte altre, ma di argento nessuno ne ha mai tanto da non desiderarne di più, e, se qualcuno ne possiede una grande quantità, sot­ terra il sovrappiù, non provando meno piacere che se ne fa­ cesse uso. Quando gli stati sono fiorenti cresce il bisogno di argento. Gli uomini vogliono adoperarlo per armi belle, otti­ mi cavalli, case e arredi magnifici; le donne se ne servono per vesti costose ed ornamenti d’oro. Quando poi gli stati si trovano in cattive condizioni, in seguito alle carestie o alla guerra, divenuta la terra incolta, allora molto di più c’è biso­ gno di denaro per procurarsi viveri e difensori. E se qual­ cuno dice che l’oro non è meno utile dell’argento, io non lo contraddico, ma so che anche l’oro, quando è abbondante, diminuisce il suo valore e fa crescere quello dell’argento. Ho detto tutto questo perché mandiamo tranquillamente nelle miniere il maggior numero possibile di uomini e senza timore impiantiamo lavori in esse, sicuri che il minerale non si esau­ rirà mai né l’argento perderà mai di valore. Mi sembra del resto che lo stato l’abbia capito prima di me, visto che per­ mette anche agli stranieri che lo vogliono di lavorare nelle miniere alle stesse condizioni dei cittadini. [...] 5. Se risulta evidente che c’è bisogno della pace per rica­ vare tutte le rendite possibili dallo stato stesso, non sarebbe

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giusto creare dei custodi della pace? Una magistratura isti­ tuita a queso scopo farebbe amare di più la nostra città e la renderebbe più frequentata da visitatori. Ma se alcuni ritengo­ no che una pace durevole diminuisca la potenza, la gloria e la fama della nostra città in Grecia, anche costoro non capi­ scono quello che dico. E ’ noto infatti che gli stati ritenuti i più felici sono quelli che rimangono in pace più a lungo pos­ sibile. Ed Atene è per natura nelle condizioni di prosperare durante la pace più di ogni altro stato. Chi infatti, essendo lo stato tranquillo, non avrà bisogno di noi, a cominciare da armatori e mercanti? E i grandi proprietari di grano, di vino ordinario e vino scelto, di olio e di bestiame, le persone ca­ paci di arricchirsi con la loro iniziativa e con il loro denaro; gli artigiani, i sofisti, i filosofi; i poeti e quelli che fanno uso delle loro opere, coloro che desiderano vedere o udire cose sacre o profane degne di essere vedute o udite; chi vuol ven­ dere o comprare senza perder tempo molte merci — dove possono tutti costoro riuscire nello scopo meglio che ad Ate­ ne? Questo nessuno può negarlo. Se alcuni, desiderando che lo stato riacquisti l’egemonia, pensano che questo obiettivo possa essere raggiunto piuttosto con la guerra che con la pa­ ce, si ricordino, tanto per cominciare, delle Guerre Persiane. Se ottenemmo allora il dominio del mare e la carica di Ellenotami fu con la violenza o con i servigi resi ai Greci? E dopoché Atene, per l’eccessiva durezza nell’esercizio dell’au­ torità, fu privata del comando, gli abitanti delle isole non ci hanno ridato spontaneamente l’egemonia del mare, quando ab­ biamo cessato di comportarci ingiustamente? E i Tebani, mossi dai benefici ricevuti, non si sottomisero alla suprema­ zia degli Ateniesi? E gli Spartani, non costretti dalla forza, ma indotti dalla riconoscenza, permisero agli Ateniesi di di­ sporre come volevano dell’egemonia. Nello stato di turba­ mento che regna oggi in Grecia, mi sembra che si presenti ad Atene l’occasione propizia di riacquistare l’amicizia dei Gre­ ci senza fatica, senza pericoli e senza spesa. Possiamo infatti tentare di riappacificare gli stati in guerra fra loro e di ricon­ ciliare le eventuali fazioni in lotta. Se appare chiaro che è vo­ stra preoccupazione che il tempio di Delfi ritorni autonomo come prima, non con una confederazione armata ma con am­ bascerie a tutta la Grecia, credo che non debba far meraviglia se troverete tutti i Greci unanimi e legati da uno stesso giu­ ramento, pronti a combattere con voi contro quelli che vor­ ranno impadronirsi del tempio di Delfi, una volta che sia stato abbandonato dai Focesi. Se infine si vedrà che cercate di instaurare una situazione di pace in ogni terra e in ogni mare, credo che tutti, dopo la salvezza della loro patria, si augureranno soprattutto quella di Atene. Forse qualcuno può credere che la guerra sia più utile della pace per le finanze del­ lo stato. Io non so come si possa ancora giudicarla più van­ taggiosa quando si consideri l’esperienza del nostro stato nel

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passato. Si troverà infatti che prima affluiva nelle casse dello stato una grande quantità di denaro, che poi è stato speso tutto in tempo di guerra; e si vedrà che anche oggi a causa della guerra molte rendite sono venute a mancare e quelle rimaste sono state spese tutte per usi diversi. Ma da quando la pace regna sul mare le rendite si sono accresciute ed i cit­ tadini possono disporne come vogliono. Se poi qualcuno mi chiedesse: « Ritieni che si debba mantenere la pace anche nei confronti di chi reca offesa al nostro paese? », non dico que­ sto. Dico piuttosto che lo puniremo con maggiore rapidità se non commetteremo alcuna ingiustizia, perché allora non avrà nessun alleato. 6. Se dunque delle proposte che ho fatto nessuna è irrea­ lizzabile o difficile da eseguire, mettendole in pratica diver­ remo più cari ai Greci, vivremo con maggiore sicurezza e godremo di migliore fama. Il popolo avrà abbondanti mezzi di sussistenza, i ricchi saranno liberati dalle spese della guer­ ra, le larghe eccedenze permetteranno di celebrare le feste con più splendore di ora, di restaurare i templi, di riparare le mu­ ra e gli arsenali, di restituire ai sacerdoti, alla Buie, ai ma­ gistrati e ai cavalieri i loro antichi privilegi. Non conviene allora metter mano al più presto a quest’impresa, perché la nostra generazione possa ancora vedere la città sicura e fio­ rente? Se decidete di realizzare le mie proposte, vi consiglio di mandare ambasciatori a Dodona e a Delfi, per chiedere agli dèi se un tale progetto sia più conveniente e preferibile per lo stato, sia ora che in futuro. In caso di responso favore­ vole, sono del parere che si chieda ancora quali dèi dobbiamo propiziarci perché l’opera intrapresa risulti la più bella e per­ fetta possibile. Prima di incominciare sarà bene offrire sa­ crifici quali si convengono agli dèi designati dall’oracolo. E’ naturale infatti che le azioni intraprese con il favore della divinità riescano sempre molto vantaggiose per lo stato.

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La città e l’anima: l’utopia di Platone

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Platone morì, nel 347, subito dopo aver terminata la stesura delle Leggi. In quegli stessi anni la polis, come luogo di speri­ mentazione politica e di progettazione utopica, stava irreversi­ bilmente deperendo a vantaggio dei nuovi grandi stati monar­ chici a struttura burocratico-militare.

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Platone nacque ad Atene nel 428 da Aristone, della stirpe di Codro, l’ultimo re di Atene, e da Perittione, che vantava Solone fra i propri ascendenti. Tra le parentele più prossime quella con Crizia, zio materno, che fu tra i capi del colpo di mano oligar­ chico che nel 404 portò al potere i Trenta tiranni, e perì l’anno dopo cercando vanamente di contrastare la controffensiva demo­ cratica. Nell’ambiente di Crizia Platone venne anche in contatto con Socrate, la cui condanna a morte nel 399, dopo la restaura­ zione democratica, fu da lui interpretata come segno dell’impos­ sibilità di un intervento nella vita politica secondo i canali tra­ dizionali. Eppure a questo intervento Platone era portato sia dalla stessa tradizione familiare, sia da una profonda vocazione personale. Tutta la sua vita e la sua opera possono venir lette come il cul­ mine del grande progetto della aristocrazia greca: quello di uni­ re sapere e potere, filosofia e politica, in vista di una rifondazio­ ne della città su basi «g iu ste ». Questa giustizia è ancora essen­ zialmente quella di Delfi e di Solone: il primato della legge, l’ar­ monica distribuzione dei ruoli all’interno del corpo sociale — concepito come un organismo vivente, o meglio ancora come un’anima — che ne assicuri la gerarchia e al tempo stesso la funzionalità, l’accordo fra l’organizzazione della città e un piano di valori « perenni », in cui si esprime il disegno divino del mon­ do. A questo progetto Platone dedicò uno sforzo teorico pari al­ l’enorme complessità della situazione politico-sociale del IV se­ colo; e dedicò uno strenuo sforzo personale, che lo vide impe­ gnato da un lato in numerosi viaggi a Siracusa (dove tentò un accordo con i tiranni della città per trasformarla secondo que­ sto piano), dall’altro nella costituzione in Atene dell’Accademia, concepita come centro di formazione intellettuale capace di svi­ luppare ed esportare il disegno di rifondazione della città. I due dialoghi da cui vengono riportati i passi seguenti, la Re­ pubblica e le Leggi, sono i maggiori documenti di questo lavoro di Platone: ma se il primo ne segna in qualche modo la fonda­ zione e l’avvio, rappresentando il « manifesto » dell’Accademia, il secondo registra nettamente lo scacco dell’utopia, e appare piuttosto destinato a fornire l’orientamento ideologico-costituzionale del potere: di un qualsiasi potere a base aristocratica, non di quello rinnovato dei filosofi-re. P latone, Repubblica, 369 B e segg., trad. it. di F. Adorno, in Platone, Opere politiche, UTET, Torino 1953.

Nel corso dell’indagine definitoria intorno alla nozione di giu­ stizia, che costituisce il motivo conduttore della Repubblica, So­ crate propone di spostare la ricerca sull’essenza della giustizia in un contesto più ampio dell’individuo, e, quindi, di più facile lettura: la città. Successivamente, l’indagine si applicherà nuo­ vamente all’uomo, per « cogliere nelle caratteristiche del minore la somiglianza con il maggiore ». L ’analogia tra la città e l’indi­ viduo costituisce così, nell’economia della ricerca platonica sulla giustizia, lo spazio per una descrizione della genesi della città, in cui reperire la misura della giustizia stessa e le sue degene­ razioni. La città, dunque, nasce dal bisogno, anzi dall’incapacità di ciascuno a soddisfare i propri bisogni che porta all’unione di più individui in un regime di specializzazione delle funzioni (quella stessa specializzazione che costituisce, secondo Platone, un criterio decisivo della correttezza della polis: la città giusta è quella nella quale ciascuno svolge il proprio compito, secondo una versione aggiornata della vecchia saggezza delfica). Nella misura in cui costituisce una unità economica, la città ri­ chiede l’esistenza di un mercato come luogo di scambio dei ser­ vizi, punto di incontro tra la produzione e il consumo, spazio di circolazione della moneta. L’impossibilità che la città, per quanto articolata, sia perfettamente autosufficiente, genera inoltre la necessità di eccedenze produttive che rendano possibili gli scambi con altre comunità economiche, e di conseguenza rende inevitabile la comparsa di un gruppo sociale specializzato nella pratica degli scambi, i commercianti. Se queste sono le condi­ zioni dell’esistenza della città, non sono certamente quelle della sua opulenza; così Socrate passa a descrivere gli elementi di una città « gonfia di lusso », e indica il criterio di distinzione fra questa e quella descritta precedentemente, che egli giudica una « città sana ». Il discrimine risiede nella qualità morale dei cit­ tadini, secondo che covino in sé una « sconfinata brama di ric­ chezza », o rispettino il « necessario » come limite all’espansione dei loro consumi. Quella di bisogno è la nozione chiave nell’articolazione di que­ sto passo, dove essa interviene come il fattore genetico della cit­ tà, come il criterio di distinzione fra il sano e il patologico e, in­ fine, come l’elemento che istituisce la legittimità e la necessità della pratica commerciale. La città ripete il tentativo dell’uomo di rendersi autosufficiente, ed è sul fallimento di questo tentati­ vo che si istituisce la relazione sociale tra individui e tra città.

Il sorgere della città — dissi — io credo sia dovuto al fatto che ciascuno di noi si trova nell’impossibilità di bastare a se stesso, avendo bisogno di una infinità di cose. O quale altro

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principio vuoi che abbia la fondazione di una città? — Nessun altro — disse lui. — E così per un certo bisogno ci si aggrega l’uno all’altro, per altri bisogni ad altra gente ancora, finché la molteplicità dei bisogni raccoglie in uno stesso luogo più uomini che si asso­ ciano insieme per darsi reciproco aiuto, ed è a questa convi­ venza che noi abbiamo dato il nome di polis. Non è così? — Certamente. — E quando l’uno fa partecipe l’altro di ciò che c’è da divi­ dere, quando si fanno scambi, ciascuno agisce in vista del proprio interesse? — Senza dubbio. — Ricostruiamo, dunque — dissi io — sin dal principio le fondamenta della polis, seguendo un procedimento logico; fon­ damenta che, senza dubbio, saranno le nostre stesse necessità. — Come no? — La prima e la più importante delle quali è quella di prov­ vedere al nutrimento per sussistere e vivere. — Senz’altro. — La seconda quella dell’abitazione, la terza quella del vesti­ re e di altre cose simili. — Sì. — Ma come — proseguii — può essere sufficiente la cit­ tà a fornire tante cose? Non ci sarà bisogno che uno faccia il contadino, un altro l’architetto, un altro il tessitore? Vi ag­ giungeremo anche il calzolaio o qualche altro artigiano an­ cora, a cura degli altri bisogni materiali? — Senza dubbio. — La polis nelle sue linee essenziali potrebbe, dunque, com­ porsi di quattro o cinque persone. — Sembra. — E va bene! Ma ciascuno di costoro deve far sì che la pro­ pria opera serva a tutta la comunità. Per esempio, l’agricol­ tore, che è uno, ha da fornire il nutrimento per quattro e spendere quadruplo tempo e fatica a preparare il pane per farne parte agli altri, oppure, senza preoccuparsi di costoro, provvedere per sé solo soltanto un quarto di questo pane, in una quarta parte del suo tempo, e occupare gli altri tre quar­ ti uno per metter su casa, un altro per le vesti, il terzo per le scarpe, e, senza affatto darsi pensiero della comunità, pen­ sare a sé e ai propri fatti? E Adimanto disse: — Probabilmente, Socrate, è più facile così che a quel modo. — Per Zeus! — io risposi — non c’è proprio nulla di strano, ché mentre tu parlavi stavo pensando anche io che innanzi tutto è vero che nessuno di noi nasce uguale all’altro, anzi ciascuno è per sua natura diverso dall’altro, e v’è chi nasce per fare una cosa, chi un’altra. Non ti sembra? — A me sì. — Benissimo! E, dunque, chi farà meglio, colui che da sé

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solo eserciterà più mestieri, o chi ne eserciterà soltanto uno? — Chi ne eserciterà uno soltanto — rispose. — Non solo, ma penso che sia altrettanto evidente che se una cosa non è fatta a suo tempo è già perduta. — E’ chiaro. — E proprio perché l’opera, io credo, non sta lì ad aspettare il comodo di chi la compie, e l’autore non deve lasciare in tronco la sua opera, come se fosse un passatempo soltanto. — Per forza. — Ma più e meglio e con maggior voglia si opera quando uno naturalmente si dedichi ad una sola cosa e a tempo op­ portuno, senza occuparsi delle altre. — Senza dubbio. — Più di quattro cittadini, dunque, ci vorranno, o Adiman­ to, per provvederci delle cose di cui parlavamo; ché l’agri­ coltore, a quel che sembra, non si costruirà da se stesso il suo aratro, se ha da essere un buon aratro, né il bidente, e nessu­ no degli altri strumenti agricoli; e lo stesso si dica per il mu­ ratore, e sì che anche lui ha bisogno di molti strumenti; co­ sì il tessitore, così il calzolaio. No? — Vero. — E, dunque, falegnami, fabbri ferrai ed altri molti simili ar­ tigiani, entrando a far parte della nostra cittaduzza, ne ven­ gono, e non poco, aumentando il primo nucleo. — Eh sì! — Ma non sarebbe ancora troppo grande se vi aggiunges­ simo i bovari e i pecorari e gli altri tipi di pastori, sì che i contadini abbiano a loro disposizione buoi da lavoro, e i mastri muratori, come d’altra parte gli stessi contadini, bestie da tiro per i loro trasporti, e pei tessitori e i calzolai vi sia­ no pelli e lane. — Né più sarebbe piccola una simile città con tutte queste cose — egli disse. — Non solo — proseguii — ma sarebbe quasi impossibile poter fondare codesta città in un luogo ove non vi sia biso­ gno di nessuna importazione. — Impossibile. — Ci vorrà, dunque, chi si dedichi a trasportare dagli altri Stati tutto ciò di cui essa manca. — Ci vorrà sì. — Già! Ma se questo agente vi andasse a mani vuote, sen­ za portare con sé ciò che manca a quella gente presso cui va a cercare ciò che fa bisogno a noi, tornerebbe indietro a mani ugualmente vuote. No? — Mi sembra. — Sarà bene, dunque, che qui da noi si produca non soltanto ciò che basta ai nostri bisogni, ma che i nostri prodotti siano in tal quantità e qualità che possano servire anche a quegli altri. — E’ necessario.

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— La nostra città ha quindi bisogno di un maggior numero di contadini e di altri artigiani. — Ce ne vorranno di più. — E vi dovranno essere anche quei tali agenti che si occu­ pino delle importazioni e delle esportazioni e questi sono i cosiddetti mercanti. Non è vero? — Sì. — Avremo, dunque, bisogno anche di mercanti. — Senz’altro. — E se il commercio è marittimo ci sarà bisogno di molta altra gente, di coloro cioè che sappiano i mestieri del mare. — Di molti altri. — Ma per quanto concerne i rapporti economici interni, in che modo i cittadini si scambieranno i prodotti del proprio lavoro? Ché proprio in vista di ciò ci siamo riuniti in società ed abbiamo fondato una polis. — Vendendo e comperando, si capisce — rispose. — E ’ dunque necessario un mercato, e una moneta corrente che, per facilitare gli scambi, possa essere usata come sim­ bolo. — Senza dubbio. — Se d’altra parte, un contadino o un qualche altro artigia­ no portando al mercato qualcuno dei suoi prodotti vi giunge senza che ancora vi siano coloro che ne abbian bisogno, do­ vrà, standosene inoperoso in piazza, abbandonare il lavoro? — Ma no! — disse — Ché vi son di quelli che, speculando su questo, si prestano proprio a tale ufficio, e nelle città ben ordinate questo lavoro lo fanno, quasi esclusivamente, colo­ ro che sono cagionevoli di salute ed incapaci di ogni altro lavoro. Costoro debbono, standosene sul mercato, comprare in moneta da quelli che vogliono vendere, e vendere, sempre in moneta, a chi abbia bisogno di comprare. — Ecco come — io dissi — nella nostra città questo servi­ zio farà sorgere anche i rivenditori al minuto. O non si chia­ mano così coloro che, rimanendo fermi in mercato, traffica­ no in compre e vendite, mentre si dicono mercanti alFingrosso quelli che van girando di paese in paese? —- Proprio così. — E vi sono anche altri, io penso, che rendono alla città un utile servizio, non certo troppo degni, quanto a intelletto, di far parte della comunità, ma che per la loro forza fisica sono adatti ai lavori pesanti. Costoro, vendendo l’utilità che deriva dalla propria forza fisica, poiché dicono salario il cor­ rispettivo del loro lavoro, si chiamano, io credo per questo, salariati. Così, no? — Perfettamente. — E tali salariati, mi sembra, vengono a riempire la città. — Mi sembra. — Così, o Aduliamo, In nostra città si è tanto accresciuta,

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sì da essere compiuta? — Direi. — E allora, dove si può rintracciare in essa la giustizia e la ingiustizia? E a quale degli elementi che abbiamo esaminato è essa connaturata? — Non lo so, o Socrate, — egli disse —, a meno che non consista proprio nel modo onde avviene il reciproco scambio dei prodotti. — Forse dici bene — proseguii —, ma esaminiamo il pro­ blema senza perderci d’animo. Esaminiamo innanzi tutto come vivranno coloro che così ab­ biamo organizzato. E che altro faranno se non produrre pa­ ne, vino, vesti, scarpe? Si costruiranno case e attenderanno ai loro lavori, d’estate semi nudi e scalzi, d’inverno vestiti e calzati a dovere. Per nutrirsi, poi, faranno con orzo e con frumento della farina che abbrustoliranno o impasteranno, e manipoleranno ottime focacce e pani che verranno serviti su tralicci o su ben pulite foglie; e, sdraiati su giacigli di fron­ de sparsi di mirto e di vilucchio, banchetteranno, essi ed i lo­ ro figliuoli, su bevendoci vino, coronati di fiori e cantando in­ ni con gli altri, non facendo figli se non per quanto i loro mezzi consentano, temendo guerra e povertà. Ma Glaucone, interrompendo, disse: — Senza companatico, a quanto sembra, tu inviti a banchetto questa gente. — Vero — risposi —, dimenticavo il companatico, sale, cioè, e ulive e formaggio e cipolle e legumi da lessare, che si è so­ liti fare in campagna; ed anche leccornie serviremo, fichi, ceci e fave; e sotto la cenere arrostiranno coccole di mirto e di faggio, bevendoci poi dietro parsimoniosamente. Così, passando l’intera loro vita in santa pace e sani, com’è natu­ rale, moriranno vecchi e lasceranno in eredità ai propri di­ scendenti una identica vita. Ed egli: — Ma Socrate — disse — se tu mettessi insieme una città di maiali non l’ingrasserai in altro modo da questo! — Ma Glaucone, che si ha da fare allora? — risposi. — Quello che si usa — affermò — ; per non stare a disagio giacere, come credo, su lettucci, mangiar dalla mensa, e ave­ re prelibati bocconcini quali usano oggi, ed anche frutta. — E va bene — dissi — ho capito. Ma così, a quanto sem­ bra, non ricerchiamo più soltanto come nasca una città qual­ siasi, ma come una città lussuosa. E forse non è male, ché lo studio di un simile Stato ci farà comprendere meglio ove, negli stati, s’impianti la giustizia e l’ingiustizia. Ad ogni mo­ do la vera città a me sembra quella che ho gà descritto, in quanto è sana; ma se volete che se ne prenda un’altra in esa­ me, città malata, nulla ce lo impedisce. Alcuni, infatti, co­ me credo, non saranno contenti di queste regole, né del no­ stro regime; ad essi faran comodo letti, tavole, ed altri arre­ di, non solo ma prelibati bocconi ed unguenti, e profumi e

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cortigiane, e dolci, e tutto in abbondanza e di cjualita diverse. E fra le cose necessarie non saran più messe soltanto quel­ le di cui prima abbiam parlato, come le case, i vestiti, le cal­ zature: ma ci sarà bisogno anche della pittura, degli orna­ menti, e ci vorrà oro, avorio, ed ogni altro tipo di prezioso. No? — Eh sì — disse. — E così la città dovrà essere ingrandita, ché, la prima, quella sana, non basta più: occorrerà, dunque, riempirla di gran quantità di cose e di innumerevole folla, che pur non essendo necessarie si trovan tuttavia nelle città: come, ad esempio, cacciatori di ogni specie e coloro che son dediti al­ l’arte imitativa, come quei molti che si occupano di forme e di colori, e gli altri che si occupano di musica, poeti e loro esecutori, rapsodi, attori, ballerine, impresari: e fabbricanti di ogni specie di suppellettili, soprattutto di belletti e cosme­ tici da donna. E avremo così bisogno di una sempre maggiore quantità di servizi. Non pare anche a te che occorreranno pedagoghi, balie, nutrici, pettinatrici, barbieri e cuochi e ma­ cellai? Ed avremo bisogno anche di porcai. Tutto questo, in­ vece, non si trovava affatto nella nostra prima città, ché non ne avevamo bisogno; in questa, invece, tutto è indispensabi­ le. E ci occorreranno anche animali d’ogni specie, dal momen­ to che c’è chi se ne nutre. Non è così? — E come no! — E poi, con un tale tenore di vita, molto più di prima avre­ mo bisogno di medici? — Molto più. — E così il paese che prima bastava a nutrire i suoi abitanti diverrà troppo piccolo per tutti i bisogni: o non è da dirsi? — Proprio così! — affermò. — Occorrerà quindi occupare, a nostro favore, territorio dei vicini, se vogliamo avere terra sufficiente ai nostri pascoli e ai nostri coltivati. Ma anche i vicini avranno lo stesso biso­ gno del territorio nostro, se, presi dalla smania di oltrepas­ sare i limiti del giusto, come noi si abbandonino ad insazia­ bile desiderio di ricchezze. — Per forza, o Socrate — egli rispose. — E di qui la guerra, Glaucone; oppure no? — Proprio così — disse. — Non è ora il momento di dire — affermai — se la guer­ ra sia un bene o un male: limitiamoci a dire che intanto ab­ biamo scoperto l’origine della guerra proprio in questa pas­ sione che è per la città ed i privati il più funesto flagello che possa toccare. — Senz’altro. — Occorre, quindi, amico mio, ingrandire ancora la polis e non di poco, ma di un intero esercito che per difendere i pos­ sessi dello stato e delle varie persone ora dette, scenda in cam­ po a combattere gli aggressori.

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— E non bastano — disse — gli stessi cittadini? — No — risposi io —, se tu e noi tutti ci siamo rettamen­ te convinti, quando abbiamo plasmato la città, che, se ti ri­ cordi, è impossibile a ciascun uomo compiere a dovere più mestieri. — E’ vero — disse. — E non ti sembra — domandai — che l’esercizio della guer­ ra sia anche esso un’arte? — Eh sì! — esclamò. — Occorrerà, dunque, darsi più cura dell’arte del cuoiaio che dell’arte militare? — In nessun modo. — Ebbene, noi abbiamo negato al calzolaio di fare al tempo stesso il contadino, il tessitore, il muratore: faccia soltanto il calzolaio sì che l’arte del cuoio ci dia davvero degli otti­ mi prodotti: e ad ogni altro artigiano abbiamo ugualmente affidato un unico mestiere, quello per cui sia veramente adat­ to, e vi dedichi tutta la vita, lasciando da parte ogni altro la­ voro, se non vuole lasciarsi sfuggire il momento opportuno per compiere perfettamente il suo mestiere. E, dunque, non è del massimo interesse che anche l’arte del­ la guerra si compia a dovere? O tanto facile è tale arte che un contadino, un cuoiaio, o non importa chi, possa essere al tempo stesso uomo di guerra, quando non è possibile divenir abili nel giuoco del tavoliere e dei dadi se non dedicandovisi fin dall’infanzia, e non soltanto per passatempo? O basta for­ se imbracciare lo scudo, o un’altra arma qualsiasi, o strumen­ to di guerra per divenir subito buon soldato di fanteria pe­ sante o di qualsiasi altro corpo combattente, mentre si avrà un bel maneggiare strumenti che servono agli altri mestieri, mai soltanto per questo diverremo abili nel costruirli e nell’arte a cui servono, se non saremo prima profondi conoscito­ ri di ciascun mestiere, e lunga ne sia stata la pratica?

L’analogia di anima e città La divisione dei cittadini in tre gruppi, descritta in questo passo, si presenta come il perfezionamento e la cristallizzazione di quel­ la specializzazione delle funzioni che, come abbiamo visto, co­ stituiva la regola d’ordine della polis. E’ necessario rilevare co­ me questa divisione non percorra la direzione che va dalla rile­ vazione del compito svolto da ciascuno nella città alla colloca­ zione di chi lo compie in uno dei tre gruppi sociali, ma proceda secondo la direzione opposta, cioè dalla conoscenza della natu­ ra dell’anima di ciascuno alla sua dislocazione di classe, operata secondo il controllo dei governanti (anche se, com’è ovvio, il Platone, Repubblica, 415 B e segg.; trad. it. di F. Adorno, cit.

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senso dell’operazione può venir letto come la fondazione etica della stratificazione sociale esistente fra un ceto che detiene il potere, un’aristocrazia militare e la massa dei lavoratori della terra, della bottega artigianale e del commercio). . La tripartizione della città si fonda così non solo sulla divisione del lavoro, ma sulla struttura dell’anima, che, secondo la dottri­ na platonica, risulta a sua volta tripartita. Le tre parti dell’anima sono quella razionale, quella «irascib ile» (1 intenzionalità, il co­ raggio, la magnanimità), e quella « concupiscibile » (il desiderio, la brama). Nel Timeo, a questa tripartizione ne vien fatta cor­ rispondere una dell’organismo biologico: la ragione avrà « sede » nel cervello, la magnanima intenzionalità nel cuore, il desiderio e la brama nei visceri. Le tre parti determinano la qualità morale complessiva dell’anima di ciascuno secondo il loro rapporto di forza al suo interno. A livello sociale, la ragione corrisponderà ai governanti, la magnanimità ai guerrieri, il desiderio ai lavora­ tori (concepiti allora piuttosto come consumatori che come pro­ duttori). II problema del reciproco rapporto dei tre elementi al­ l’interno dell’anima rispecchia quello delle tre « classi » all inter­ no della città. In entrambi i casi la soluzione è costituita dalla eunomia, la buona legge che assicura il controllo sul desiderio (i lavoratori) operato dalla ragione (i governanti) con 1 appoggio dell’anima « irascibile » (i guerrieri). Questa analogia tra le parti della città e quelle dell’anima com­ porta, nella Repubblica, una ristrutturazione del mito esiodeo (chiamato, nel nuovo quadro, a fungere da « nobile menzogna » per irrigidire, nella coscienza dei cittadini, la stratificazione tri­ partita). Le cinque stirpi vengono ridotte a tre, mediante la ri­ conduzione a un unico gruppo delle anime cui sono mescolati ferro e bronzo, e la soppressione della stirpe degli eroi. Il funzionamento della città come organizzazione collettiva per la soddisfazione del bisogno secondo il criterio della specializ­ zazione delle funzioni determina conseguenze di rilievo sulla fi­ gura dei « guardiani » (governanti e guerrieri), che, sottratti a qualsiasi occupazione non direttamente finalizzata alla salvaguar­ dia della città, devono venir sollevati, in primo luogo, dal pro­ blema del proprio sostentamento. Gli altri cittadini (i produtto­ ri-consumatori privati) provvederanno loro una disponibilità di mezzi adeguata al loro bisogno, ed essi la godranno collettiva­ mente, in un consumo comunitario che li purificherà dalla pro­ prietà, dalla moneta e da tutti gli altri elementi che, distoglien­ doli dalla loro funzione nella polis, potrebbero portare alla de­ generazione di loro stessi e della citta nel suo insieme. Il « comuniSmo » dei guardiani (che è naturalmente di puro con­ sumo, non di produzione) realizza così il segno dell’unità della polis; al tempo stesso costituisce la misura paradigmatica della antropologia platonica, istituendo il bisogno come norma d’uso delle ricchezze.

__ Ed ora — seguitai — , quale mezzo ci sarebbe per far cre­ dere una magnifica menzogna (una di quelle menzogne ne­ cessarie di cui poco fa parlavamo), innanzi tutto agli stessi reggitori, o almeno alla massa dei cittadini? — Che menzogna? — chiese.

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— Oh, niente di nuovo — risposi —, ma una specie di fa­ vola fenicia, che in passato avveniva in molti luoghi, come di­ cono e convincono i poeti, ma più non si è vista ai tempi nostri, e non so se più si ripeterà, e che è ben difficile dare ad intendere. — Sembra — disse — che tu abbia un certo timore a rac­ contarla. — Quando te l’avrò detta — affermai — vedrai che avevo ra­ gione d’essere indeciso. — Dilla — pregò —, non aver paura. — E va bene, ma non so dove troverò il coraggio e le pa­ role adatte. Innanzi tutto, dunque, tenterò di persuadere gli stessi reggitori ed i soldati, poi gli altri cittadini, che quel nostro modo di allevarli ed educarli, di cui credevano provare e sentire gli effetti, non era che visione di sogno, mentre, in realtà, allora erano plasmati ed allevati sotto terra, in seno ad essa, essi medesimi, le armi loro, ogni altra suppellettile, già tutto fatto, e che, quando furono perfettamente pronti, la terra, madre loro, li dette alla luce; ora dunque, conside­ rando il paese in cui si trovano quale madre e loro nutrice, debbono provvedervi e difenderlo da chi lo aggredisca, e con­ siderare gli altri cittadini come fratelli, come nati dalla stes­ sa terra. — Non a torto — disse — sei stato in forse così a lungo prima di raccontare tali frottole. Sì che avevo ragione — risposi — ma, oramai, ascolta ugualmente il seguito del mito. E così, favoleggiando, noi di­ remo loro: tutti voi cittadini, siete tutti fratelli, ma il dio che vi ha plasmati, oro mischiò nella genesi di quelli fra voi che hanno attitudine al comando, ché i più preziosi essi sono; ed argento mischiò nei difensori; e ferro, e rame in chi nasce contadino, in chi nasce operaio. E poiché tutti sortite dallo stesso ceppo, per lo più generate figli che vi dovrebbero asso­ migliare; ma può anche darsi che dal ceppo d’oro nasca un pollone d’argento, e da quello d’argento un pollone d’oro, e così avvenga reciprocamente per le altre classi. E il dio co­ manda ai governanti di essere, innanzi tutto e soprattutto, at­ tentissimi custodi ed osservatori acutissimi dei fanciulli, e di quale metallo siano composte le loro anime; e, se i loro stessi figli hanno in sé o ferro o rame, di non aver pietà, e dando alla natura il valore che a natura è dovuto, li caccino fra i contadini e gli operai; e se, invece, questi ultimi hanno avu­ to figlioli in cui s’intravveda oro o argento, di riconoscerne il valore e di elevarli a governanti o a difensori. Vi è, difatti, un oracolo che dice che la città morrà quando sia governata da chi ha in sé o ferro o rame. Sai tu dirmi ora quale mezzo trovare perché sia creduta questa favola? — Nessuno — rispose — perché vi credano gli uomini di oggi, ma sì perché la credano i figli loro, e i figli dei figli e gli uomini dell’avvenire.

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__ Ma anche questo — dissi — sarebbe un gran bene, affin­ ché abbiano maggiore interesse per la città e reciprocamente fra loro stessi. — Sì, perché, all’incirca, capisco quel che vuoi dire. — Ma questo si attuerà sì come verrà determinandosi attra­ verso la pubblica opinione. Quanto a noi, armati questi figli della terra, facciamoli avan­ zare sotto la guida dei loro capi. Vengano così a vedere qua­ le sia il luogo migliore della città ove accamparsi, sì che pos­ sano più facilmente sorvegliare coloro che vi abitano, se ve ne sia qualcuno che si ribelli alle leggi, e respingere chi at­ tacchi dal di fuori, se un qualche nemico come lupo assalisse il gregge. Dopo essersi accampati, dopo aver fatto i sacrifici a chi di dovere, preparino gli alloggi. Che ne dici? — Proprio così — disse. — E questi alloggi debbono esser tali da proteggerli durante l’inverno, e adatti per l’estate? __ Certo — rispose — , tanto più che mi sembra tu voglia parlare delle loro abitazioni. — Sì, ma da soldati — dissi —, non da signori. — E in che senso — domandò — tu pensi che le une debba­ no differire dalle altre? — Cercherò di spiegartelo — risposi — . Nulla di piu gra­ ve e di più vergognoso potrebbe capitare ai pastori quanto allevare a difesa del proprio gregge cani tali che per ferocia, o per fame, o altra qualsivoglia cattiva abitudine, proprio es­ si, faccian del male agli armenti, e invece di cani siano come lupi. — Grave, sarebbe: eccome! — esclamò. . __ Non bisogna, dunque, stare attenti in tutti i modi che t nostri ausiliari non si comportino similmente verso i cittadi­ ni, e, poiché sono più forti di loro, da benevoli protettori non si trasformino in crudeli padroni? — Bisogna starci attenti — disse. __ Ma il modo migliore di prepararli con precauzione non consiste forse nel fatto che siano stati ottimamente educati? — Lo sono già — disse. Ed io risposi: — Questo non lo si può assiomaticamente af­ fermare, caro Glaucone; possiamo affermare invece, quel che dicevamo poco fa, e cioè che essi debbono ricevere una retta educazione, qualunque sia, se debbono possedere ciò che so­ prattutto importa affinché siano miti, fra di loro e con quelli che hanno in custodia. — Giusto — disse. . . . , . ,— Oltre questa educazione poi, chi abbia un po di cervello direbbe che anche le loro abitazioni e tutto ciò che loro ap­ partiene debbono esser tali da non permettere ai nostri di­ fensori di non essere quanto più è possibile perfetti, e da non incitarli a soverchiare gli altri cittadini. — Direbbe proprio la verità.

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Perché riescano — dissi — come dicevamo, guarda, dun­ que, se non è necessario che abbiano un vitto e un alloggio del genere: innanzi tutto nessuno possieda personalmente al­ cuna sostanza, se non in caso di assoluta necessità: in secon­ do luogo nessuno abbia abitazione o dispensa ove non possa entrare chiunque voglia: il vitto, quanto è necessario ad atle­ ti di guerra saggi e valorosi, secondo gli accordi, lo riceve­ ranno dagli altri cittadini, quale ricompensa per la guardia, e tanto quanto^ è necessario per un anno, sì che non ne avan­ zi o ne manchi: abbiano mense comuni e vita in comune co­ me al campo. Diremo loro che posseggono oro ed argento, oro ed argento divini, sempre, nell’anima, dono degli dèi, e che, dunque, non hanno bisogno dell’oro e dell’argento uma­ ni, e che è empio mescolare al possesso del divino il pos­ sesso dell’oro mortale e così contaminarlo, ché molte empietà sono avvenute a causa di codesto denaro volgare, mentre pu­ ro è l’oro che hanno in sé: anzi, essi soli, fra tutti i cittadi­ ni non debbono maneggiare, né toccare oro ed argento, né abitare ove essi siano, né adornarsene, ma neppure bere in coppe d’oro o in coppe d’argento. Soltanto così potranno sal­ vare se stessi e lo stato. Nel caso che, invece, possedessero per­ sonalmente campi, case, quattrini, sarebbero amministratori, agricoltori, ma non più difensori, non più alleati: padroni e nemici degli altri cittadini; e tutta la vita passerebbero odian­ do e odiati, insidiando e insidiati, molto più ed in maniera peggiore temendo i nemici interni che non gli esterni, preci­ pitando sé e lo stato verso la rovina. Per tutte queste ragioni — conclusi —, affermiamo che così deve essere disposto per i difensori, circa le loro abitazioni e tutto il resto, e ciò san­ zioneremo per legge: no? — Assolutamente — disse Glaucone. E Adimanto, interloquendo, disse: — Ma come, Socrate, ti difenderesti se qualcuno obbiettasse che tu non fai davvero felici questi uomini valorosi, e proprio per colpa loro, ché, avendo in mano la polis, non ne godono affatto alcun vantag­ gio, come altri che posseggono terre, hanno vaste e magnifi­ che case che adeguatamente ammobiliano, ed offron sacrifici agli dèi in proprio nome, danno ospitalità, posseggono oro ed argento e tutti quei beni che si ritiene occorrano per es­ sere beati? In verità — si potrebbe obbiettare — costoro sembrano starsene nella città non altro che come ausiliari assoldati, che nulraltro hanno da fare se non montare la guardia. 1— Sì — dissi —, e aggiungerei che non hanno gratis che il vitto, senza ricevere, come gli altri, nessuna paga oltre gli alimenti, sì che, ove lo volessero, non potranno neppure fare un viaggio da privati, né pagar donne, né spendere in altri piaceri di propria volontà, come coloro che son detti felici. Queste, e molte altre, son le cose che la tua accusa tralascia.

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— Va bene — disse —, siano formulate anche queste ac­ cuse. — Come dunque ci difenderemo? Tu domandi. — Precisamente. — Proseguendo — dissi — per la nostra via, troveremo, mi sembra, cosa occorra rispondere. Diremo, infatti, che non ci sarebbe affatto da stupirsi se costoro fossero felicissimi an­ che in queste condizioni; ad ogni modo il nostro fine nel fondare la polis non è di rendere specialmente felice un’uni­ ca classe di cittadini, ma che sia felice, quanto più è possi­ bile, la città nella sua totalità: pensavamo, infatti, che so­ prattutto in una simile città avremmo trovato la giustizia, e l’ingiustizia, invece, in una città pessimamente abitata, ed avendo veduto questo, avremmo potuto giudicare ciò che da tempo stiamo cercando. Il nostro impegno, per ora, è, tuttavia, almeno così credia­ mo, quello di dar forma alla città felice, non distinguendo, in esso, una parte di pochi cittadini da rendere felici, ma vo­ lendo la felicità di tutti. [...] Così tu non ci costringere a dare ora ai difensori una felici­ tà che tutto li farebbe tranne che difensori. Perché anche noi sapremmo, rivestiti di strascichi i contadini e ricopertili di oro, dar loro il permesso di lavorar la terra soltanto come un divertimento, e fatti sdraiare in fila i vasai, dinanzi al fuo­ co, farli bere e mangiare, la loro ruota accanto, liberi di la­ vorare a proprio piacimento, e così rendere beati anche tutti gli altri, allo stesso modo, sì che fosse felice la città intera. Ma non ci dare tali consigli, perché, se ti ascoltassimo, il con­ tadino non sarebbe più contadino, non più vasaio il vasaio, e non ci sarebbe più nessuno che si manterrebbe in quei tipi di cui lo stato si costituisce. Per gli altri la conseguenza di un simile disordine sarebbe sempre meno grave; se infatti dei ciabattini divengono cattivi ciabattini, si viziano e, pur non essendolo più, si spacciano per tali, niente di grave per la città, ma se i custodi delle leggi e della polis non lo sono dav­ vero, ma appaiono tali, vedi bene che trascinerebbero la cit­ tà ad una totale rovina, mentre essi soli avrebbero la possi­ bilità di organizzarla bene e renderla felice. Se dunque noi facciamo dei veri difensori, assolutamente incapaci di porre in pericolo la città, se il nostro obbiettatore, invece, ne fa dei contadini, anzi gente in lieto convito festoso, e non in un governo, ad altro egli pensa ma non ad una polis. Si trat­ ta, dunque, di vedere se dobbiamo stabilire i nostri custodi avendo questo scopo, che abbiano cioè la maggiore felicità, o, se tenendo d’occhio la città intera, sia da considerare il be­ ne pubblico, e costringere quindi, con la forza o con la con­ vinzione, i nostri ausiliari e custodi a divenire i migliori arte­ fici del proprio lavoro, ed ugualmente tutti gli altri, e così, quando la città intera fiorirà e si governerà saggiamente, la-

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sceremo che ogni classe si prenda quella parte di felicità che la natura concede ad ognuna. [...] Sei veramente ingenuo — dissi —, se credi potersi chiama­ re polis una polis che non sia quale questa che stavamo formando. — Perché? — chiese. — Un più ampio nome — risposi — dovremmo dare agli al­ tri stati, poiché ciascuno di essi non è uno, ma più stati in­ sieme, come agli scacchi. In ogni caso ne avremo sempre due in uno, l’uno nemico dell’altro, lo stato dei poveri e quel­ lo dei ricchi, e ciascuno dei due si suddivide a sua volta in molti ancora. E se li consideri come una polis sola non colpi­ resti certamente nel segno; se, invece, li consideri come mol­ ti, dando agli uni il denaro, la potenza, le persone stesse de­ gli altri, avrai molti alleati e pochi nemici. E finché la tua po­ lis si reggerà saggiamente secondo l’ordine che si è stabilito ora, sarà grandissima e non soltanto per fama, ma di fatto, anche se non avesse che mille difensori. Ed una polis sì gran­ de non troverai facilmente né tra i Greci né tra i barbari, sebbene molti a prima vista sembrino di gran lunga più va­ sti di questo. O pensi in altro modo? — No, per Zeus! — disse. — Questo, dunque — affermai —, sarebbe il miglior limite che i nostri magistrati dovrebbero fissare all'espandersi del­ la polis e all’estensione del suo territorio, rinunciando poi ad ogni altra annessione. — Quale limite? — disse. — Questo, io penso — risposi — : finché il suo accrescimen­ to non ne comprometta l’unità, fin lì estenderlo: non oltre. — Bene — affermò. — Ed ecco un altro incarico che daremo ai nostri difensori: stare attenti cioè che la città non sia né troppo piccola, né troppo grande, ma che mantenga una sua giusta misura e resti una. — Questo sarà forse per loro un incarico da nulla — disse. — E quest’altro — seguitai — sarà meno importante anco­ ra, e ne abbiamo già parlato quando dicemmo che se ad uno dei custodi nasca un figlio degenere, costui deve esser relega­ to nelle classi inferiori, mentre elevato al grado di custode, chi, pur nato da altra classe, ne abbia le qualità. E con que­ sto si voleva chiarire che dobbiamo indirizzare ogni cittadi­ no a ciò per cui è nato, sì che ogni singolo compia un singo­ lo dovere, ciascuno, esplicando soltanto ciò che gli è proprio, esso stesso sia uno e non si frantumi in molti: soltanto così una sarà la polis senza spezzarsi in molteplicità.

La degenerazione della città: la ricchezza

La degenerazione della città: la ricchezza Nel quadro dell’analogia tra le parti della città e quelle dell’ani­ ma, Platone descrive il progresso degenerativo della polis « sa­ n a » , progettata e retta dai filosofi, seguendo il filo conduttore offerto dalle vicissitudini dell’anima del suo cittadino. In questo contesto, nel quale ogni mutamento costituzionale viene fatto corrispondere ad un’alterazione dell’equilibrio tra le parti del­ l’anima individuale, Platone descrive quattro forme di governo, e i tipi psicologici ad esse corrispondenti: timocratico, oligar­ chico, democratico e tirannico. Dalla degenerazione della città perfetta, che ha luogo in seguito a un deficit di sapere dei guardiani circa la struttura matemati­ ca che ne regola il ritmo di riproduzione, nasce la città timocra­ tica, in cui il prevalere dell’elemento animoso, « irascibile », isti­ tuisce il dominio dell’ambizione. Quando l’amore per il denaro, prima latente, vi diviene palese, sorge la città oligarchica, domi­ nata dal desiderio di guadagno: la ricchezza, anziché la virtù, vi si costituisce come il discrimine secondo il quale viene operata la differenziazione sociale. E’ questo il primo limite di una si­ mile costituzione: la divaricazione fra un’articolazione censitaria della città e le istanze del sapere e della virtù. Sul piano indivi­ duale, anzi, il principio razionale viene addirittura finalizzato all’accumulazione delle ricchezze. Inoltre l’assetto censitario^ del­ la città la dividerà al suo interno costituendo poveri e ricchj come due sotto-città conflittuali fra loro, e la stessa frattura si riproporrà all’interno dell’anima individuale: si torna, insomma, alla situazione che la Costituzione degli ateniesi aveva descritta storicamente, e che l’utopia platonica aveva tentato di superare. Colpisce la violenza della polemica di Platone contro la ricchez­ za, e il presentarsi di un’antitesi fra ricchezza e virtù. Il filosofo valuta positivamente la ricchezza nella misura in cui questa ga­ rantisce all’individuo le condizioni della sua sopravvivenza, in quanto rende possibile la soddisfazione dei « bisogni necessari ». Questo uso, il solo corretto, della ricchezza è l’effetto del domi­ nio della parte razionale dell’anima su quella bramosa, che pre­ me per la soddifazione dei suoi smisurati desideri. Esiste tuttavia — come si è visto nel primo passo della Repubblica __ un margine entro il quale il discorso platonico sull eco­ nomia rimane estraneo a questo tipo di problemi, e si svolge in maniera autonoma, senza confrontarsi direttamente con la questione della virtù. E’ questo lo spazio per una valutazione positiva del commercio, nel quadro dell’articolazione della polis e della divisione del lavoro. Questo discorso sull’economia, relativamente autonomo, può pe­ rò sempre venire trascritto in un contesto moralistico, mediante la correlazione dei produttori, dei mercanti e dei consumatori alla facoltà « concupiscibile » dell’anima, e la fondazione della loro attività in una smodata brama di soddisfazione dei propri desideri. Vi sono così due differenti livelli del discorso platonico: nel pri­ mo, mercato e commercio vengono approvati in ragione della P latone, Repubblica, 550 C e segg.; trad. it. di F. Adorno, cit.

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necessaria autosufficienza della città, nel secondo gli stessi ele­ menti vengono interpretati nel loro potenziale eversivo rispetto agli equilibri dell’anima e della città entrambe tripartite. Il discorso sull’economia può allora venire recuperato al conte­ sto di una valutazione moralistica della ricchezza, che giustifica il denaro solo in rapporto alla sopravvivenza dell’uomo, e pone il limite del « necessario » come criterio della soddisfazione del bisogno.

— Credo che sia l’oligarchia la forma di governo che viene dopo quella (timocratica) che ora abbiamo discusso. — Ma in che consiste — chiese — quella che tu dici costi­ tuzione oligarchica? — La costituzione — risposi — che ha per fondamento il censo, ove cioè soltanto ai ricchi è concesso il potere, potere da cui, invece, sono esclusi i poveri. — Capisco — affermò. — Ma non è dunque il caso di spiegare prima com’è che dal­ la timarchia si sfocia nell’oligarchia? — Sì. — Per la verità — aggiunsi — anche un cieco vedrebbe co­ me avviene il passaggio. — Come? — Quel deposito pieno d’oro che ciascuno possiede — dis­ si —, ecco la causa per cui questa forma di governo va in rovina: innanzi tutto perché trovano la scusa per fare grandi spese; e per far questo rovesciano il valore delle leggi e più non vi obbediscono, costoro e le loro donne. -— Naturalmente! — esclamò. — In secondo luogo, mi sembra, perché l’uno tenendo d’oc­ chio l’altro e volendosi imitare, tutti si riducono allo stesso modo. — Naturalmente. — Quindi, quanto più sono tesi ad accumulare denaro e quanto più l’onorano — seguitai — di tanto viene meno il rispetto per la virtù; o non è forse vero che fra la virtù e la ricchezza corre questa differenza che, poste ciascuna sui due piatti della bilancia, l’una tira sempre in senso contrario al­ l’altra? — Proprio così — egli disse. — Se, dunque, la ricchezza ed i ricchi vengono onorati in uno Stato, di tanto la virtù e gli uomini virtuosi vengono disprezzati. — E’ chiaro. — D ’altra parte si pratica sempre ciò che si apprezza, men­ tre ciò che si disprezza viene accantonato. — Esatto. — E così, da uomini desiderosi di supremazia e di onori qua­ li erano, finiscono invece per essere cupidi trafficanti di ric­ chezze, cupidi avari, ed applaudono ed ammirano il ricco,

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al ricco offrono le più alte cariche governative, mentre di­ sprezzano il povero. ___ Esattamente — Stabiliscono allora per legge quali siano i limiti della costi­ tuzione oligarchica, fissando una certa quantità di ricchezza, maggior ricchezza ove più forte sia l’oligarchia, via via mino­ re, quanto meno forte essa sia, mettendo al bando dalle cari­ che pubbliche chi non abbia sostanze tali da raggiungere il censo stabilito. Ora, queste misure o si impongono con la for­ za delle armi, oppure, senza giungere a questi estremi, tale forma di governo s’impone, per la paura che i ricchi incuto­ no. Non è così? — Proprio così. __ Ecco, in linea di massima, come sorge una simile forma di governo. __ Sì — disse —, ma quale il carattere di questo stato/ h quali i difetti che dicevamo essergli proprii? — Il primo è proprio questo — affermai —, lo stesso prin­ cipio per cui esso è quello che è: pensa un po’, se per le na­ vi si scegliessero i piloti con un simile criterio, in base al censo, e uno perché povero non venisse scelto nonostante fos­ se un ben più abile navigatore... — Navigherebbero molto male — interruppe. — E lo stesso non avverrebbe nel governo di qualunque altra cosa? — Lo credo bene. — Meno che per lo stato? — domandai — O vi rientra an­ che lo stato? . . , — Tanto più anzi — rispose —, ché qui il governo è piu grande e più arduo. __ Questo, dunque, il primo e fondamentale vizio che po­ trebbe esser proprio dell’oligarchia. — Pare. — E che? Forse quest’altro è minore? — Quale? — Che questa non è una polis, ma due e due per forza, una dei poveri, l’altra dèi ricchi, e l’una polis e l’altra vivono sul­ lo stesso suolo, in una continua, reciproca insidia. __ Per Zeus! — esclamò — Non è certo questo un difetto minore. — Ma neppure quest’altra è una gran bella cosa: che, molto probabilmente, essi non sarebbero capaci di sostenere alcuna guerra, ché o son costretti ad armare il popolo ed a temerlo quindi più del nemico stesso, o, non facendo questo, a mo­ strare che anche in battaglia son veramente oligarchici [cioè pochi di numero], mentre al tempo stesso per la loro avarizia non vogliono contribuire alle spese generali. — Non è bello davvero. __ Non solo, ma ciò che già da un pezzo abbiamo biasima­ to, e cioè che in questo tipo di stato le stesse persone eser­

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citano più occupazioni, agricoltura, commerci, guerra, ti pa­ re che sia questa una cosa che vada bene? — Per niente. — Guarda ora se di tutti questi mali quest’altro non sia il maggiore e l’oligarchia, appunto, la prima costituzione che lo ammetta. — Quale? Che uno possa dar via tutto ciò che gli è proprio sì che se ne rivesta un altro, e una voltaiche se ne sia spogliato pos­ sa seguitare a vivere nella città senza, in effetti, fame più parte, né come finanziere, né come operaio, cavaliere, solda­ to, ma col solo titolo di povero e indigente. — Sì, è la prima costituzione che lo ammetta — disse. Né può esser vietato che un caso simile avvenga nei go­ verni oligarchici, se no non vi sarebbe gente ricca all’eccesso ed altri invece totalmente poveri. — Giusto. —E considera anche questo: quando quel tale era ricco e spendeva, ne derivava un qualche vantaggio alla città rispet­ to a quei fini di cui ora abbiamo parlato? o egli appartene­ va soltanto in apparenza alla classe dominante, ma in realtà non aveva nella polis nessuna funzione, né di capo né di ultima ruota del carro, ed altro non era che uno scialacquato— Esatto! — esclamò — Sembrava chi sa che, ma altro non era che uno scialacquatore. E allora - dissi — vuoi che di lui si dica che, come in una cellula il fuco nasce a flagello dello sciame, così code­ sta razza d ’uomo nasce in una casa come un fuco, a flagello della polis? — Proprio così, o Socrate — affermò. — Soltanto che, o Adimanto, i fuchi alati dio li fece tutti senza pungiglione, mentre i fuchi con due piedi li ha fatti al­ cuni sì senza pungiglione, ma altri con terribili punte: e quelli senza sono coloro che finiscono la vita in povertà, men­ tre quelli che hanno il pungiglione formano quell’insieme di uomini cui si dà il nome di farabutti. — Verissimo — disse. — E’ chiaro, dunque — seguitai —, che ovunque tu veda mendicanti in una città, là sono nascosti ladri, tagliaborse, saccheggiatori di templi, ed altri malfattori d’ogni specie. — E’ chiaro — affermò. — Ebbene, negli stati oligarchici non ci vedi dei pitocchi? — Tutti si può dire! — esclamò — tranne coloro che sono al governo! — Non dobbiamo ritenere, dunque, che vi siano anche molti malfattori col pungiglione, che le autorità, con gran cura e con la forza, cercano di tenere a freno? — domandai. — Sì che lo dobbiamo ritenere — rispose. — E non dovremo dire che è proprio per colpa dell’dgno-

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ranza, della cattiva educazione, della costituzione stessa della polis che tale gente si viene generando in essa? — Lo diremo sì! — Tale, dunque, in generale, uno stato oligarchico, e que­ sti, ma forse anche altri, i mali che gli sono proprii. — Più o meno sì — disse. __ E così abbiamo concluso anche su questa forma di go­ verno — affermai —, che ha nome oligarchia, ed i cui reggi­ tori sono tali per censo: veniamo ora ad esaminare l’uomo che corrisponde a tale costituzione, come si formi e, una vol­ ta formato, quale sia. — Va bene — disse. [...] _ Non le somiglierebbe innanzi tutto in quanto tiene ugual­ mente in altissima stima il denaro? — Come no? __ Ed anche le somiglia in questo, che risparmia, lavora e non dà soddisfazione se non ai bisogni necessari, vietandosi ogni altra spesa, e soggiogando come frivolezze gli altri de­ sideri. — Esattamente. — Anima non liberale, egli di tutto fa danaro seguitai di tutto fa tesoro, uno di quelli, insomma, che viene lodato dal volgo. E non dovrebbe essere questa l’immagine di colui che sia simile a quella forma di governo che è l’oligarchia? __ Mi pare — disse —, perché tanto un tale uomo quanto quel tale stato onorano soprattutto il denaro. — Non credo, infatti — aggiunsi —, che costui si preoccupi dell’educazione. — Non mi sembra — affermò — : ché, altrimenti, non avreb­ be posto a guida del coro un cieco [Pluto, il dio della ric­ chezza] , e non lo terrebbe in così alto onore. __ Bene! — esclamai — Ma poni attenzione anche a questo; non dovremo affermare che appunto questa mancanza di educazione ha fatto sbocciare in lui quelle passioni proprie alla natura dei fuchi, alcune di pitoccheria, altre malvage, passioni che sono contenute a forza dagli altri interessi? — Sicuro! — esclamò. — E sai — aggiunsi — ove devi guardare se li vuoi cogliere nelle loro mascalzonate? — Dove? — chiese. — Quando si occupano della tutela degli orfani o quando si offra loro un’altra occasione del genere, in cui facilmente vi è la possibilità di far del male. — Vero. — Ne possiamo dedurre chiaramente che negli altri negozi, ove si possa acquistare buona fama mostrandosi apparente­ mente giusto, costui tiene a freno gli altri malvagi desideri con una sua opportuna forza che egli fa a se stesso, ma non perché li persuada che così è meglio, né perché, ragionando,

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addolcisca quegl’istinti; per necessità soltanto e per paura, tremando sempre per il resto delle proprie sostanze. — Certo — disse. — Eh sì, per Zeus, amico mio! — esclamai — Ma quando si tratterà di spendere i beni altrui, allora troverai nella mag­ gior parte di costoro quelle inclinazioni proprie alla natura dei fuchi. — Senza dubbio e come! — affermò. — Si capisce, dunque, come un uomo simile sia interiormen­ te discorde, non più interiormente uno, ma in un certo senso doppio; ad ogni modo, nel conflitto delle sue passioni, quel­ le buone vincerebbero più spesso le peggiori. — Proprio così. — Per questo mi sembra che un uomo tale farebbe miglior figura di altri, ma certo quella che è la vera virtù, che consi­ ste nell accordo e nell’armonia dell’anima, fuggirà ben lonta­ no da lui. — Mr sembra. — Non solo, ma quest’uomo così parsimonioso non si mo­ strerà certo nella propria città un grande antogonista nelle ga­ re che vi si svolgeranno o in qualche altra nobile competi­ zione, non vorrà spendere per farsi onore, ma neppure per queste specie di agonali, avendo paura di risvegliare in sé le proprie inclinazioni alla prodigalità e chiamarle in causa ad aiutarlo nella impresa, e scenderà in campo mettendo in bal­ lo poca parte delle proprie sostanze, da quel puro oligarchico che è; ed il più delle volte viène vinto, ma riesce a rimanere ricco. — Esatto! — esclamò. — E, dunque, avremo ancora dei dubbi nel paragonare allo Stato oligarchico quest’uomo tutto economie e traffici? — io chiesi. — Nessun dubbio — rispose.

La degenerazione della città: il mare e i commerci Questo passo delle Leggi esemplifica efficacemente la valutazione moralistica della ricchezza, che qui si definisce in opposizione alla virtù. II criterio dell’autosufficienza, grazie al quale si ren­ deva possibile una valutazione positiva del commercio, viene qui trascritto all’interno di una contrapposizione fra « sopravvivere » e « migliorare se stessi », con l’inevitabile privilegiamento del se­ condo termine. In questa prospettiva viene istituito un rapporto tra la costitu­ zione di una flotta, il commercio marittimo e l’acquisizione di un maggiore peso, all’interno della città, da parte di « una risma P latone, Leggi, 704 A e segg.; trad. it. di A. Zadro, in Platone, Opere Laterza, Bari 1971.

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di uomini non certo onorevoli » — evidentemente plebei, estra­ nei all’aristocrazia e alle sue virtù legate alla terra, sia per la produzione agricola sia per il combattimento oplitico, che incri­ na la compagine di una città la cui salvezza si fonda sulla virtù dei migliori cittadini. Nella filigrana di questo discorso si può leggere, naturalmente, la storia della « democrazia » ateniese del V secolo; per un certo aspetto Platone riprende qui l’analisi del­ la Costituzione degli ateniesi, alla quale restava tuttavia estra­ nea la valenza morale così forte nella prospettiva platonica. Di nuovo c’è la consapevolezza della corruzione che la ricchezza — e soprattutto la ricchezza monetaria — introduce necessariamen­ te nel quadro della polis.

1 Avanti dunque. Io vorrei sapere ora come occorre che noi ci raffiguriamo la nuova polis. Non vi chiedo il suo nome, quale esso sia ora, né con quale nome bisognerà chia­ marla in avvenire — sarà probabilmente la sua conformazio­ ne ad imporgliela oppure un luogo, o le denominazioni di un fiume, di una fonte, degli dèi indigeti potrebbero dare il loro nome alla città nuovamente sorta. Ma quello che io credo piuttosto e desidero sapere di essa, è se sarà sul mare o al­ l’interno, nel continente, c l i n . La capitale dello stato di cui abbiamo ora parlato dista dal mare quasi ottanta stadi, ospi­ te. a t e n . E dimmi, ha dei porti da quella sua parte che guar­ da il mare o ne è del tutto priva? c l in . I porti sono il più possibile belli da quella parte, ospite, a t e n . Ahimè, che co­ sa dici! Ma dimmi della regione che la circonda. E’ fertile di ogni prodotto o manca di qualche cosa? c l in . Non manca di nulla, direi, a t e n . E ci sarà qualche altra città vicina, molto vicina? c l i n . Affatto, è anche per questo che è stato scelto quel luogo per fondarla; una volta, molto anticamente, di lì si emigrò e non è possibile dire da quanto tempo quel­ la regione ne è stata fatta deserta, a t e n . Parlami ancora delle pianura e dei monti e delle foreste. Dimmi in quale proporzione ci è toccata ciascuna di queste cose. c l in . La regione assomiglia alla natura complessiva del resto di Cre­ ta. a t e n . Così la diresti più accidentata che pianeggiante. c l i n . Così come dici. a t e n . E allora ti dico che in tale sta­ to non ci sarebbero ostacoli insormontabili per realizzare uno stato in possesso della virtù. Se dovesse essere sul mare e anche ben fornito di porti dalla natura, ma non fertilissima la regione, priva invece di molti prodotti, io ti dico che esso avrebbe bisogno di un uomo non comune per guidarlo a sal­ vezza e di legislatori divini se, per la sua stessa configura­ zione naturale, non volesse accogliere in sé dal mare una va­ rietà disordinata di costumi cattivi. Ma questo ha gli ottanta stadi a suo conforto. Certo è più sul mare di quello che do-1

aten.

1. La discussione, fra un visitatore ateniese in cui va riconosciuto Pla­ tone, e due nobili cretesi, Clinia e Megillo, verte sul progetto di fon­ dazione di una nuova città sul territorio di Creta, destinata ad essere abitata dalla popolazione dei Magneti.

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vrebbe, quasi di quanto più tu lo dici ricco di buoni porti, ma anche questa condizione può essere accettata con favore. Il mare vicino alla regione abitata è cosa piacevole giorno per giorno, ma in sostanza è una molto salata e amara vicinanza. Perché ciò riempie la città allora di traffici e di piccoli affari commerciali, e facendo nascere in essa, nei suoi cittadini, co­ stumi di incostanza nelle promesse e di falsità, la rende infi­ da e nemica di sé nei suoi rapporti interni e parimenti nei ri­ guardi degli altri uomini all’esterno. E’ vero che essa ottie­ ne a sollievo da questo male anche l’essere fertile di ogni prodotto, ma se tu dici che la sua terra è accidentata è chia­ ro che la fertilità del suo suolo non potrebbe essere illimita­ ta come nella quantità anche nella qualità dei prodotti. Se fosse così la regione le permetterebbe d’esportare, e in grande quantità, e si riempirebbe in cambio di moneta d’oro e di argento; e di questo, per così dire, non c’è più gran male e più grande ostacolo, confrontandoli uno per uno, perché uno stato consegua costumi nobili e giusti; questo lo dicevamo, se ci ricordiamo, nei discorsi fatti prima, c l in . Ci ricordia­ mo sì, e conveniamo anche ora che allora si è detto bene. a t e n . Dimmi allora, come ne è provvisto quel luogo della no­ stra regione che ha il legname per le costruzioni navali? c l in . Non ci sono in quantità degna di menzione né abeti né pini di mare, ed anche i cipressi non sono molti; rari si po­ trebbero trovare anche i pini comuni e i platani, e di questi i carpentieri è necessario sempre si servano per costruire le parti interne delle imbarcazioni, a t e n . E questa non è una deficienza per la natura della regione, c l in . Perché? a t e n . E’ un bene per uno stato non poter facilmente imitare i ne­ mici con imitazioni nocive, c l in . Dicci a quale delle cose già citate ti riferisci ora. a t e n . O uomo divino, veglia su me e pensa a quello che abbiamo detto in principio, quando par­ lavamo delle leggi di Creta e abbiamo detto che esse mira­ vano ad un unico scopo, e voi due dicevate che questo era la guerra, ma io ho ripreso il discorso dicendo che il fatto che tali leggi fossero state costituite in funzione della virtù mi pareva cosa ottima, ma in quanto fatte per uno solo degli aspetti di questa, e non per tutta, direi, questo era per me da disapprovare in modo assoluto. Ora state in guardia a vostra volta per la mia presente legislazione e seguitemi e giudicate se non legifererò sempre in funzione della virtù, oppure in grazia di un solo aspetto di essa. Io affermo che una legge è formulata in maniera perfetta solo se, come un arciere, ha ogni volta di mira solo ciò cui sempre e continuamente con­ segue qualcuna di queste cose buone e trascura tutto il resto, sia una qualche ricchezza, sia qualsiasi altra delle simili co­ se che si trovino ad esser prive della virtù. E dicevo che la imitazione dannosa dei nemici si verifica quando vivendo gli uomini sul mare sono tormentati dai nemici stessi, per esem­ pio — e se dirò così, sia certo, non è perché abbia io nelle

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mie intenzioni alcun risentimento contro di voi — per esem­ pio Minosse, che aveva grande potenza navale, una volta ob­ bligò ad un grave tributo gli abitanti dell’Attica, e quelli an­ cora non avevano come ora flotte da guerra, né la terra loro era ricca di legni da imbarcazioni, sì da poter agevolmen­ te allestire una forza navale per sé. Non furono dunque in grado di allontanare immediatamente i nemici imitando la lo­ ro arte navale e facendosi essi marinai. E, è certo, sarebbe stata cosa utile a loro perdere ancora molte volte sette fan­ ciulli 2 prima di avvezzarsi, divenuti marinai da fanti e solidi opliti che erano, a sbarcar di frequente e poi lestamente a fuggir di nuovo correndo sulle navi, senza ritenere di commet­ tere alcuna azione vile non osando di morire resistendo sul posto ai nemici accorrenti e l’aver invece sempre pronte scu­ se fittizie per giustificare l’abbandono delle armi da parte lo­ ro e le fughe fuggite, secondo loro, non vergognosamente. Questi sono i discorsi che sogliono fare gli opliti di marina e sono degni del contrario delle lodi che spesso loro si soglio­ no dare senza limite. Non bisogna mai infatti indulgere alla abitudine di costumi non buoni e specialmente non lo deve fare la parte migliore dei cittadini. Anche da Omero si pote­ va in qualche modo comprendere che siffatto costume era co­ sa non bella. In Omero Odisseo rimbrotta Agamennone, quan­ do, premuti gli Achei nella mischia dai Troiani, ordinava di trascinare le navi in mare, lo rimprovera e dice: Tu comandi, e c’è ancora guerra e battaglia, che le navi dai forti ponti siano tratte in mare, perché meglio si compia la preghiera ch’è in cuore ai Troiani, e si rovesci su di noi tremenda la sventura. Gli Achei non soffriranno più la lotta quando le navi vedranno tratte in mare, ma cercheranno indietro con gli occhi la fuga, si spegnerà il loro ardimento. Allora sarà rovinoso il tuo consiglio, che tu vai predicando. E questo sapeva anche lui, che cioè sono un male le triremi calate nel mare presso i fanti in battaglia: anche i leoni fug­ girebbero per abitudine i cervi se educati a questi costumi. Inoltre la potenza dello stato ottenuta con la flotta da guerra, e insieme la sua stessa salvezza, porta onore non certo ai mi­ gliori dei soldati; risultando essa infatti dall’arte del timonie­ re, da quella di comandare le navi di cinquanta remi, dall’ar­ te di remare, da una risma di uomini non certo onorevoli, nessuno potrebbe rettamente attribuire gli onori e i premi a ciascuno. E allora come potrebbe una costituzione riuscire bene priva di questa possibilità? c l in . L o credo quasi im­ possibile. Ma, ospite, almeno noi Cretesi diciamo che la bat­ 2. Per il tributo a Minosse, mitico re di Creta.

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taglia navale di Salamina dei Greci contro i barbari ha sal­ vato la Grecia, aten . C osì infatti dicono i più, sia dei Gre­ ci che dei barbari. Ma noi, amico, io e questo, Megillo, noi diciamo che la battaglia di Maratona, battaglia campale, e quella di Platea sono state la prima il principio della salvez­ za greca, e l’altra il compimento, e delle battaglie, alcune han­ no reso i Greci migliori, non certo le altre, così dobbiamo di­ re delle battaglie che allora ci hanno tutte insieme salvati, parlo anche della battaglia dell’Artemisio, vinta essa pure sul mare e te la voglio aggiungere a quella di Salamina. Infatti solo per il fatto che noi guardiamo ora a quello che è il va­ lore di virtù della costituzione, noi esaminiamo anche la na­ tura della regione in cui deve attuarsi e anche l’ordine delle leggi, e non pensiamo che il sopravvivere o l’esistere soltan­ to sia la cosa più degna d’onore per uomini, come credono i più, ma il migliorare se stessi, quanto più è possibile il farlo, e Tesserlo poi per tutto il tempo di vita. Abbiamo detto an­ che questo prima, mi pare.

La città contro la moneta L ’organizzazione economica della polis platonica si costituisce sulla base di un principio etico: le cose degli amici sono comuni. Una costituzione che realizzi questo principio raggiungerà la per­ fezione etica della Città: la sua massima unità. Le virtù che devono abitare la città sono quattro: sapere, corag­ gio, temperanza (autocùntrollo), e giustizia. Le prime due pertengono, rispettivamente, alla parte razionale e a quella intenziona­ le dell’anima, quindi spettano la prima ai governanti e la secon­ da ai guerrieri. La temperanza, che significa soprattutto auto­ censura da parte dell’anima « concupiscibile », e quindi pertiene in primo luogo al ceto dei produttori-consumatori, deve comun­ que essere diffusa fra tutti i cittadini, e, mantenendo ognuno al proprio posto, funziona come regola della differenziazione so­ ciale: è, la temperanza, virtù delfica per eccellenza. La giusti­ zia è l’effetto della presenza delle prime tre nella città, l’armonia che ne deriva. In questo senso, l’unità della polis è il segno del­ la presenza, in essa, della giustizia. E’ possibile constatare a que­ sto punto, l’esistenza nei testi platonici di due diversi modelli dì polis: uno, centrato intorno alla nozione di bisogno, dove la città viene generata dall’impossibilità che Tindividuo isolato sod­ disfi le proprie esigenze vitali, e si costituisce come un sistema regolato di funzioni, tra le quali il commercio; l’altro è quello di una comunità tesa alla realizzazione di valori etici, dunque dell’autentica felicità che viene dalla giustizia, dove l’articola­ zione che consentiva Tautosufficienza della città deve venir ri­ condotta a una suprema armonia. La relazione fra questi due modelli è regolata dalla possibilità di trascrivere la divisione del lavoro nel contesto di una tripartizione della polis determinata sulla base di differenze nella qualità delle anime. Qui il bisoP latone, Leggi, 739 C e segg.; trad. it. di A. Zadro, cit.

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gno, che aveva generato la comunità, viene rappresentato da una delle tre istanze che la costituiscono, quella inferiore, e deve venire sottoposto a un limite, la cui norma è gestita dalla parte razionale dell’anima (in essa è agevole ravvisare la figura del filosofo platonico, depositario di un sapere che ne legittima l’e­ sercizio del potere). Di fronte a questo segno, le dinamiche dell’accumulazione di ric­ chezze monetarie rischiano di costituirsi come un elemento di­ sgregante, base di un potere alternativo a quello politico-raziona­ le, di un comportamento privo di temperanza e dunque di giu­ stizia. Il pericolo andrà esorcizzato imponendo nella città la cir­ colazione di una moneta convenzionale, impossibile da cambiare con valute correnti sul mercato internazionale (va ricordato che proprio nell’attività dei cambiavalute che agivano presso i grandi porti è da ravvisare, storicamente, l’origine del sistema bancario e la radice di un’accumulazione monetaria sganciata dalla pro­ duzione di eccedenze agricole in mano all’aristocrazia fondiaria). Reso così innocuo il fattore patologico principale nella vita della città, la moneta, occorrerrà inoltre controllare minuziosamente, a livello politico, ogni transazione di ricchezza fra cittadini, vie­ tandole in occasione dei matrimoni (il sistema delle doti rappre­ sentava un cospicuo fattore di arricchimento in una società in cui le terre non erano direttamente commerciabili), e registran­ do, con una sanzione addirittura sacerdotale, l’ammontare del pa­ trimonio di ciascuno.

Dico quindi che lo stato che tutti precede e la forma di co­ stituzione e l’ordinamento legislativo più perfetti si trovano là dove in tutta la vita dello stato si realizzi al massimo gra­ do possibile quel detto antico, si dice cioè che in verità le cose degli amici sono comuni. [...] Prima di tutto si divida­ no fra loro i cittadini le terre e le case, e non lavorino la ter­ ra in comune: questo è già stato detto superiore aU’origine e all’allevamento dei nostri contemporanei e alla loro educa­ zione; dividano dunque fra loro pensando però così in qual­ che modo, e cioè che ciascuno cui è toccata questa parte de­ ve ritenere che quella è proprietà comune di tutto lo stato, e sua patria essendo la terra egli la deve venerare e curare più che i figli la madre, terra che è dea e per questo signora di chi è uomo mortale, e pensi allo stesso modo degli dèi e dei dèmoni di quella regione. E perché per sempre duri quest’or­ dine così com’è, è inoltre necessario pensare che quanti sono focolari costituiti e distribuiti ora da noi, tanti essi devono essere sempre e non mai crescere di una unità né calare di una. Ed è così che ogni stato conserverà solidamente questa struttura: ogni cittadino che abbia avuto un lotto lasci sem­ pre erede della sua porzione uno solo dei suoi figli, quello che gli è più caro; questo gli succederà anche nella cura degli dèi, della stirpe, dello stato e dei vivi e di quanti in quel tem­ po abbiano già finito la loro vita; quanto agli altri figli, quelli che ne hanno in numero maggiore di uno, maritino secondo le leggi che stabiliremo le femmine, e distribuiscano i maschi come figli adottivi ai cittadini senza discendenza, specie sul­

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la base di un ricambio di favore; quando poi manchino a qualcuno i favori da ricambiare oppure ci sia un numero di discendenti di ciascuno, maschi o femmine, che ecceda questa soluzione, o anche se al contrario siano i figli troppo pochi per scarsità di nascite, allora l’autorità che massima per po­ tere e stima avremo preposto a tutte queste cose, studiando il da farsi per il caso dei troppi figli o dei troppo pochi, fornisca il mezzo più adatto perché i 50401 patrimoni familiari ri­ mangano sempre così esattamente. I mezzi sono molti; e in­ fatti si può proibire di prolificare ulteriormente a chi è trop­ po fecondo, e per il caso opposto ci sono modi di curare e di promuovere un incremento dei nati mediante onori e bia­ simi, ed esortazioni date dai vecchi ai giovani con discorsi per incitarli; tutto ciò accadendo può farci ottenere ciò che di­ ciamo. E finalmente se la difficoltà di mantenere immutato il numero delle 5040 famiglie sarà gravissima, se sorgerà af­ flusso incontestabile di nostri cittadini per l’amore reciproco dei coabitatori, trovandoci in tale difficoltà insuperabile, re­ sta sempre, direi, l’antico rimedio, di cui spesso si è parlato, la deduzione delle colonie; amici che si staccano da comuni amicizie, scelti secondo la ravvisata opportunità. Ma se av­ viene il contrario, se mai si abbatterà una larga ondata recan­ te un diluvio di malattie, o la strage che reca la guerra, e i cittadini scendano molto al di sotto del numero stabilito per i vuoti avvenuti così, non bisogna volontariamente introdur­ re nello stato cittadini di dubbia educazione. Nemmeno dio, si dice, può piegare la necessità. Ed ora poniamo che il nostro stesso discorso ci esorti dicen­ do così: « Voi cittadini che siete i migliori degli uomini, non tralasciate mai di onorare secondo natura la somiglianza e l’uguaglianza, attenendovi a ciò che è identico, a ciò che è stabilito di comune accordo; valga ciò per il numero e per ogni capacità di nobili opere. Ed ora come prima cosa fate che sia conservato immutato quel numero enunciato sopra, per tutto il tempo della vostra esistenza, e poi non vogliate far torto all’ammontare e alle dimensioni dei patrimoni qua­ li avete ricevuto in parte all’inizio e che è giusta misura, fra di voi comperando e vendendo le vostre cose (infatti, così, la sorte che vi ha assegnato la terra non vi sarebbe più allea­ ta, cioè il dio, e con lui il legislatore) — ed è qui che per la prima volta la legge comanda a chi disobbedisce, avendo pri­ ma su ciò già ordinato che chi vuole può o no partecipare al­ la distribuzione per sorteggio della terra, ora comanda che, la terra essendo prima di tutto cosa sacra a tutti gli dèi e poi i sacerdoti e le sacerdotesse dovendo fare dei voti nei pri­ mi, nei secondi e nei terzi sacrifici, il compratore e il vendi1. Il numero delle famiglie che devono comporre la polis teorizzata da Piatone nelle Leggi. Il numero è ottenuto con procedimenti mate­ matici ma corrisponde alla necessità che la polis non sia troppo po­ polata.

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tore delle case ricevute in sorte o della terra subisca pene adeguate a ciò. Questi sacerdoti riporranno nei templi tavolet­ te di cipresso scritte da loro, memorie redatte per i giorni futuri, e inoltre anche affideranno la custodia di queste nor­ me, affinché siano realizzate, a quella magistratura che sembri avere la vista più acuta, perché le trasgressioni che ne avven­ gano, ogni volta che ciò accade, non sfuggano loro mai, ma punisca essa chi disubbidisce alla legge e al dio. Quanto gran­ de bene valga questa disciplina a tutti gli stati che si sotto­ mettono con convinzione, bene cui si sia aggiunto un ordina­ mento coerente a queste premesse, non lo potrà mai sapere nessuno che sia malvagio, dice così il proverbio antico, ma so­ lo chi ne ha fatto esperienza e ha costume di onestà. Non c’è affatto posto in tale ordinamento per gli affari e le specula­ zioni, anzi segue questo ordinamento che nessuno debba né possa mercanteggiare in nessuna speculazione degna di schia­ vi in quanto un mestiere così vergognoso, tale vien detto, tra­ volge il costume dei liberi, né l’ordinamento ammette affatto l’usare di simile mezzo per raccoglierne denaro ». Inoltre a tutte queste norme segue direttamente un’altra leg­ ge e cioè che neppure è lecito a nessun cittadino privato ave­ re affatto oro e argento, ma solo la moneta utile allo scambio giornaliero, quello che è necessario, direi, per gli artigiani e per pagare a tutti i salariati, di cui v’ha bisogno, il salario per simili cose, cioè agli schiavi ed agli stranieri. Perciò di­ ciamo che è necessario posseggano una moneta che abbia solo valore interno e sia nulla per tutti gli altri popoli. E se qual­ cuno vorrà pensare alla possibilità di una moneta comune a tutta la Grecia, per le spedizioni militari e per ogni sorta di Viaggi presso popoli stranieri, come è per le ambascerie per esempio o per qualche altra ambasciata necessaria allo stato, quando occorre inviare qualche cittadino fuori dai suoi con­ fini, per questi soli bisogni è necessario che lo stato ogni vol­ ta abbia acquistato moneta a corso valido in tutta la Grecia. E se un privato avrà bisogno di espatriare faccia il suo viag­ gio solo col permesso dei magistrati, e se tornerà a casa da qualche luogo con un residuo di denaro straniero lo versi allo stato cambiandolo con un equivalente in moneta locale. A chi lo trattiene e viene scoperto sia confiscato il denaro, e chi è a conoscenza del fatto e non lo denuncia sia condan­ nato alla maledizione e al disprezzo insieme al colpevole e inoltre sia come lui multato di una somma non inferiore al denaro straniero importato. Chi prende moglie o dà in moglie la figlia non deve rispettivamente ricevere né dare nessun ti­ po di dote assolutamente; nessuno poi può depositare denaro presso chi non è di sua fiducia, né darlo in prestito per inte­ resse; la legge non obbliga affatto chi ha ricevuto il prestito a pagare l’interesse o a restituire il capitale. Queste usanze sono quanto c’è di meglio per uno stato da osservare come costume, e uno le osserverà tali e le giudicherà correttamen­

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te riportandole sempre ai princìpi ed alle intenzioni sopra esposte. L’intenzione del politico che ha intelletto, diciamo, non è ciò che direbbero i più quando affermino che il bra­ vo legislatore deve voler quanto più è possibile vasto lo sta­ to in funzione del quale dà le sue buone leggi, e ricco quan­ to più è possibile di oro e d’argento posseduti, signore per terre e per mari del maggior numero di uomini, e poi aggiun­ gerebbero anche che per legiferare bene si deve volere lo sta­ to virtuoso e felice al massimo grado. Di tutto ciò se una parte è possibile che si realizzi, non lo è l’altra. E l’ordina­ tore dovrebbe voler realizzare ciò che può realizzare; ciò che non si può né dovrebbe volere, con atti vani di volontà, né intraprendere. Infatti è necessario, direi, che chi è felice sia anche uomo retto — dovrebbe volere questo il legislatore — ma è impossibile essere insieme molto ricco ed onesto, è impossibile che lo siano quelli almeno che i molti scel­ gono come ricchi. Si dicono in genere ricchi quei pochi uo­ mini che hanno acquisito per sé proprietà di alto valore in denaro, ciò che potrebbe acquisire anche un disonesto. Se le cose stanno così, non potrei mai convenire coi più che il ric­ co diventi veramente felice anche se non sia retto; ed è im­ possibile che chi è tale in alto grado sia pure notevolmente ricco. « Perché? », si potrebbe forse domandare. « Perché, diremmo, la rendita dell’attività giusta e di quella ingiusta è più che doppia di quella solo giusta, e le spese di chi non ama spendere né per il bene né per il male sono minori della metà di quelle buone di chi ama distribuire la sua ricchezza in opere buone; e così non potrà darsi mai che diventi più ricco chi agisce in via opposta a chi ha doppi possessi e me­ tà spese. Di questi il primo è uomo retto, l’altro può non es­ sere malvagio se è economo, ma talvolta è al massimo gra­ do cattivo; comunque retto ed onesto mai, come ora si è detto. Chi infatti acquista la sua ricchezza sia con mezzi one­ sti che disonesti, e non spende né giustamente, né ingiusta­ mente, quando sia anche economo, resterà anche ricco, ma chi è del tutto cattivo, essendo per lo più incapace di limitarsi, è povero del tutto. Chi invece spende le sue sostanze per ope­ re buone e le acquista solo onestamente di solito né potreb­ be diventare facilmente molto ricco né mai del tutto povero. Così è vero quanto abbiamo detto col nostro discorso, che non sono uomini retti quelli ricchissimi; se poi non sono uo­ mini retti non sono nemmeno felici ». Ora, la premessa di tutta la nostra legislazione guardava a questo: cercare che i cittadini raggiungano il massimo grado di felicità e di concordia reciproca. E i cittadini non potran­ no essere mai di certo concordi dove sono molte le cause in tribunale dell’uno contro l’altro, e molte le ingiustizie com­ messe a carico di altri, lo saranno invece dove quelle e que­ ste saranno pochissime e di minima importanza, il più pos­ sibile. Noi diciamo quindi che nello stato non ci deve essere

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oro né argento, né grosse speculazioni finanziarie realizzate per vile mestiere e con l’usura e nemmeno turpi guadagni nell’allevamento del bestiame, ma soltanto i doni che offre la coltivazione della terra e questi in misura da non costrin­ gere chi li raccoglie a trascurare il fine naturale di ogni ric­ chezza: parlo dell’anima e del corpo che senza la ginnastica e il resto dell’educazione non possono diventare degni di nes­ suna stima. E’ per questa ragione che abbiamo ripetuto più volte che bisogna lasciare all’ultimo posto per l’onore merita­ to la cura della ricchezza; essendo tre sole le cose fra tutte per cui ogni uomo si dà cura, il pensiero della ricchezza se vuol esser al giusto posto dev’essere al terzo e ultimo, in mezzo la cura del corpo e avanti a tutto l’attenzione rivolta all’anima. E se gli onori saranno distribuiti così nella costituzione che veniamo disegnando, potremmo dire che sia stata ben orga­ nizzata con le leggi. Se invece una delle leggi prestabilite per essa mostrerà di preferire, onorando di più nello stato, la sa­ lute del corpo alla saggia temperanza o la ricchezza alla sa­ lute e alla saggia temperanza, evidentemente sarà mal posta. Bisogna dunque che il legislatore di frequente si chieda: « Che cosa mi sono proposto di fare? » e « Mi accade di far questo o dal mio obiettivo mi discosto? ». Forse così potrà venire a capo della legislazione sgravando gli altri, in nessun altro modo mai. Così dunque alle condizioni qui sopra espo­ ste, diciamo, possegga ognuno la parte di terra e le case che la sorte gli ha assegnato. Sarebbe veramente bello che ciascu­ no venisse nella colonia avendo uguali anche tutte le altre cose che porta con sé; ma dato che ciò non è possibile e ci sarà chi giungerà possedendo più roba e chi con meno, per molte ragioni e per avere l’eguaglianza di molte opportuni­ tà nello stato, è necessario che ci siano classi censuarie di­ verse, affinché le cariche, le contribuzioni e le distribuzioni che sono regolate secondo il grado di onore proprio del va­ lore di ciascuno non siano attribuite solo per la virtù degli avi o propria, oppure per la forza del corpo e la sua perfezione di forme, ma anche secondo l’impiego della ricchezza e la po­ vertà, in modo tale però che ricevendo i cittadini gli onori e le cariche sulla base di una proporzione diversa siano però a questa misura il più possibile commisurati e non ne sor­ gano dissensi fra loro. Bisogna per questo suddividere i citta­ dini in quattro classi, sulla base dell’entità del patrimonio, chiamandoli ‘primi’, ‘secondi’, ‘terzi’ e ‘quarti’ o con qualche altra denominazione; questo non solo nel caso che rimanga­ no nella stessa classe, ma anche se si fanno più ricchi da po­ veri o più poveri da ricchi e così passino ciascuno nella clas­ se adeguata alla nuova condizione di ciascuno. Su questa pre­ messa io porrei come conseguenza questo schema di legge. Diciamo infatti che nello stato che si preserverà in qualche modo dalla più grave malattia, e bisognerebbe più correttamente chiamare questa ‘discordia’ piuttosto che ‘rivolta’, non

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deve inerire una troppo dura miseria di una parte dei suoi cit­ tadini, né l’eccessiva ricchezza, poiché l’una e l’altra gene­ rano la condizione opposta. E ora il legislatore deve enuncia­ re un limite sia all’una che all’altra di queste. Sia il limite della povertà il censo che risulta dalla prima distribuzione sorteggiata, esso deve rimanere fìsso e nessun membro del governo e parimenti nessuno degli altri che ambisca primeg­ giare per virtù permetterà, stando inoperoso a guardare, che per qualcuno mai diminuisca. Fissata questa come unità di misura il legislatore permetterà che se ne possegga il doppio, il triplo; fino al quadruplo. E chi giungerà a possedere di più di questo limite per aver trovato beni di fortuna, o perché gli siano stati donati da chiunque, li abbia guadagnati o ne sia venuto comunque in possesso per qualche altro caso, beni che siano oltre la misura stabilita, avrà buona fama e non sarà soggetto a pena se rimetterà l’eccedenza allo stato e agli dèi che reggono lo stato; ma chi non obbedisce a questa leg­ ge, sia denunciato da chi vuole con la condizione di ricevere per sé la metà dell’eccedenza, e pagherà lo stesso colpevo­ le, dal suo avere, un’altra parte uguale al totale dell’illecito acquisto; l’altra metà di questa va agli dèi. Ogni acquisto di patrimonio oltre la misura base della distribuzione sorteggia­ to per tutti sia trascritto in pubblici registri dati in custodia ai magistrati, quelli ai quali l’avrà prescritto la legge, perché tutte le questioni giudiziarie relative alla proprietà delle ric­ chezze siano, così, facili e del tutto chiare. Un'economia segregata Nel primo passo Platone trae nettamente le conclusioni dalle analisi fin qui riportate. L’esclusione rigorosa dei cittadini da ogni attività commerciale e anche produttiva (ad eccezione di quella agricola), si prospetta come l’unico mezzo per difenderli dalla venalità, che appare come il movente e la regola di fun­ zionamento della pratica economica. Questa separazione dei cit­ tadini dalla produzione e dallo scambio, che conferma il carat­ tere della città platonica come una comunità di consumatori, può esser resa possibile soltanto dall’esistenza, ai margini della città e sotto il suo controllo, della pratica produttiva e commerciale esercitate da schiavi e meteci. E se il controllo sugli schiavi av­ viene nelle forme tradizionali, all’interno della famiglia, il con­ trollo pubblico sui meteci richiede e assume la forma della legge, quando pone la necessità di produrre, sulla base delle regole del­ la giustizia, una normativa sull’attività economica articolata secon­ do una casistica minuziosa e censoria. Il passo successivo riprende e riassume la gran parte dei temi finora esaminati. Va qui messo in rilievo che la proposta platonica di una segreP latone, Leggi, 846 D e segg., 913 A e segg., trad. it. di A. Zadro,

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gazione dell’economia rispetto alla comunità politica non rimase senza un seguito storico. Di impossibile realizzazione nel qua­ dro degli equilibri della polis, in cui i rapporti di forza fra ari­ stocrazia e demos non consentivano alcuna soluzione radicale, essa divenne praticabile grazie agli apparati burocratico-militari delle grandi monarchie ellenistiche. La linea seguita si può così schematizzare: espulsione dalla cit­ tadinanza dei contadini senza terra e dei lavoratori urbani po­ veri, costretti a praticare direttamente attività produttive e di piccolo commercio; libero sviluppo delle attività mercantili, an­ che su larga scala, ma canalizzate fuori della società cittadina (grazie all’istituzione di porti franchi, di rigidi controlli daziari, di zone e di ceti segregati rispetto alla vita politica e sociale del­ l’aristocrazia e dello Stato). Il mondo ellenistico sarà appunto caratterizzato da una crescita impetuosa delle attività di mercato e da una loro crescente se­ parazione rispetto all’organizzazione politica del sociale, che con ogni cura viene resa impermeabile rispetto agli effetti di quelle attività.

Per quanto riguarda gli artigiani, di cui dobbiamo ancora parlare, bisogna fare così. Prima di tutto nessun indigeno o servo d’indigeno sia compreso fra quelli che lavorano alle arti degli artigiani. Infatti il cittadino, che in quanto tale con­ serva e acquisisce il comune ordinamento dello stato, possie­ de già un’arte sufficiente, arte che ha bisogno di esercizio e di molte conoscenze, e quel suo compito egli non può met­ tere in pratica come un di più. E nessuna natura umana, di­ rei, è in grado di dedicarsi col voluto rigore alla pratica di due occupazioni o di due arti, né può esercitare adeguatamente l’una e sorvegliare un altro che esercita la seconda. Nel nostro stato deve dunque essere presente anzitutto que­ sta condizione: nessun fabbro sarà anche falegname, né, se falegname, si interesserà, piuttosto che di questa sua arte, di dirigere altri fabbri, adducendo come scusa che, curando mol­ ti schiavi che lavorano per lui come artigiani, verosimilmen­ te per mezzo di questi la sua cura è maggiore per il fatto ap­ punto che da tal fonte risulta per lui maggiore il profitto della sua propria arte; invece nello stato ciascun individuo deve possedere una sola arte e da questa ottenga anche di provvedere alla sua esistenza. Questo ordinamento sia con ogni sforzo garantito dai magistrati: essi puniranno l’indige­ no con pubbliche note di biasimo e privazioni di diritti se inclina più a qualche mestiere che alla cura della virtù, fino a farlo tornare sulla sua strada retta, e se uno straniero pra­ tica due arti, lo puniscano con carcere, multe e finalmente anche con l’espulsione dallo stato e lo costringano ad essere un sol uomo e non molti. Per quanto riguarda il pagamento degli artigiani e l’assunzione da parte loro del lavoro da com­ piere, se qualcuno reca loro ingiustizia o essi a qualche altro, giudicheranno i magistrati fino a cinquanta dracme, oltre a ciò giudichino secondo la legge i tribunali pubblici, fino al­

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la sentenza definitiva. Nessuno pagherà nell’ambito dello sta­ to alcuna imposta per i beni esportati o importati. Per nes­ suna necessità nessuno importi incenso e tutti gli altri simili profumi esotici da usarsi nei sacrifici agli dèi, né porpora, né altre tinture che non vengono prodotte dalla terra della re­ gione, e neppure qualsiasi altra materia che sia necessaria a qualche altra arte abbisognante di qualcosa da importare dal­ l’estero. Sia d’altra parte vietato esportare quanto è neces­ sario rimanga nello stato. La ricognizione e la vigilanza su tutto ciò tocca ai dodici custodi delle leggi che seguono im­ mediatamente per età, una volta fatta eccezione per i cin­ que più anziani. Se c’è bisogno, per le armi e per tutti gli strumenti bellici, di importare o qualche arte che viene dal di fuori, o pianta, o metallo, o materiale per legare, o qual­ che animale, appunto per i suddetti usi, decidano i coman­ danti generali della cavalleria e gli strateghi con decisione su­ prema sia dell’importazione che della esportazione in nome di tutto lo stato che dà o riceve, e i custodi delle leggi daran­ no a queste operazioni la regolamentazione adatta e suffi­ ciente. Ma valga il principio che il commercio al minuto di queste e di ogni altra cosa fatto a scopo di lucro deve essere bandito da tutto il territorio e dalla città capitale. Per il sostentamento e la ripartizione dei prodotti della re­ gione sembra che un ordinamento che segua da vicino la leg­ ge cretese sia quello che per noi risulterà giusto. Ciascuno de­ ve dividere in dodici parti tutti i prodotti della regione e su questa base essi debbono essere consumati. Ogni dodicesima parte, per esempio di grano e di orzo, cui seguirà con la stes­ sa suddivisione anche tutto il resto dei prodotti stagionali e, per ciascuna delle dodici parti, tutti gli animali pronti per essere venduti, sarà suddivisa in tre parti proporzionali: una per i liberi, una per i loro schiavi e una terza per gli arti­ giani e tutti gli stranieri, sia quelli che come residenti vivo­ no nello stato ed hanno bisogno del vitto necessario, sia quel­ li che per qualche necessità dello stato o di un cittadino pri­ vato volta per volta vi giungono. Di tutti i generi necessari quest’ultima terza parte, una volta suddivisa, sarà la sola ad essere posta in vendita obbligatoriamente, mentre, obbli­ gatoriamente, nessuna delle altre due parti potrà essere ven­ duta. Quale sarà la più giusta divisione di queste cose? E ’ prima di tutto evidente che nella nostra divisione per certi aspetti ci sarà uguaglianza, non per altri, c l in . Come dici? At e n . E’ necessario che la terra dia e nutra ciascuno di quei prodotti facendolo qui migliore là peggiore, c l in . E come no? a te n . Da questo punto di vista, nessuna delle parti che sono tre, abbia nulla in più, né quella attribuita nella divi­ sione ai padroni o agli schiavi, né quella degli stranieri, ma invece la distribuzione attribuisca a tutti la stessa uguaglianza nella somiglianza. Ciascuno dei cittadini, prese due parti, ab­ bia completo potere di suddividerle fra schiavi e liberi, di­

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stribuendole nella quantità e qualità per quanto riguarda mi­ sure e numeri: preso il numero di tutti gli animali che devo­ no ricevere il sostentamento dalla terra, si suddivida appun­ to così. Dopo di ciò bisogna parlare delle case disposte se­ paratamente per le persone di cui si è detto; questo è l’ordi­ namento che conviene a questa materia. Devono esserci do­ dici villaggi ciascuno al centro di ciascuna delle dodici parti del territorio dello stato. In ciascuno sia riservato prima di tutto il posto per la piazza del mercato e per i templi degli dèi e dei dèmoni che seguono gli dèi. La fabbricazione edi­ lizia comincerà intorno a questi templi nei luoghi più eleva­ ti, in tal modo si costruirà un riparo per le guardie, fortifi­ cato quanto più è possibile. D ’altra parte bisogna organizza­ re tutto il resto del territorio dividendo gli artigiani in tredici corpi; uno starà nella città, anche questo suddividendolo in dodici sezioni, che sono quelle della città nel suo complesso; essi saranno distribuiti verso l’esterno e circolarmente; in ogni villaggio poi abiteranno i generi degli artigiani utili agli agri­ coltori. Il controllo di tutti questi sarà curato dai capi dei magistrati agricoli; essi determineranno il numero e la spe­ cialità degli artigiani di cui abbisogna ciascun luogo e il po­ sto delle loro abitazioni in modo che siano di massimo aiuto e di minima noia per gli agricoltori. Nello stesso modo per gli artigiani di città, la responsabilità resta ai magistrati per i singoli casi e permanentemente. I magistrati del mercato sono responsabili di ciascuna cosa avviene nella piazza del mercato. La loro cura, dopo la vigi­ lanza sui templi che sono nella piazza affinché nessuno com­ metta qualcosa d’ingiusto, sarà, in secondo luogo, quella de­ gli scambi di servizi fra le persone, e, come ispettori della osservanza dei limiti e delle infrazioni, puniscano chi ha bi­ sogno di castigo. Per quanto riguarda le cose venali, specialmente quelle che si è stabilito che i cittadini vendano agli stranieri, vedano se tutto avviene regolarmente. Questa è la legge per ciascun caso: il primo giorno del mese la parte del­ le derrate che devono essere vendute agli stranieri portino sul mercato gli incaricati, quanti sono per i cittadini gli stranie­ ri o gli schiavi che ne sono incaricati, e così, prima di tut­ to, la dodicesima parte del grano, e gli stranieri quel giorno facciano provvista di frumento e delle altre granaglie per tut­ to il mese, in questo primo mercato. Il decimo giorno del me­ se si effettuerà la vendita da parte degli uni, la compera da parte degli altri, dei liquidi, anche questi in quantità suffi­ ciente per l’intero mese. Il ventitreesimo giorno la vendita degli animali: tutti quelli da ciascuno destinati alla vendita, o quelli da acquistarsi da coloro che ne hanno bisogno, e inoltre la vendita agli agricoltori di tutti gli utensili e i beni, come pelli, vesti di ogni tipo, tessuti, feltri e simili che gli stranieri sono nella necessità di comperare acquistandoli da altri. Per quanto riguarda le altre forme di commerciare al

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minuto queste cose e il grano e l’orzo macinati, ogni altra der­ rata alimentare, nessuno venda ai cittadini né ai loro schiavi e nessuno comperi da nessuna di siffatte persone, sia invece permesso agli stranieri nei mercati riservati a loro di vende­ re agli artigiani ed ai loro schiavi, facendo scambi di vino e frumento, sotto forma di vendita, ed è ciò che i più dicono ‘commercio al minuto’. I macellai potranno esporre e vende­ re la carne degli animali a pezzi solo a stranieri, artigiani ed ai loro servi. Lo straniero che lo voglia potrà ogni giorno comprare ogni tipo di legna da ardere, all’ingrosso, dagli ad­ detti locali alla vendita di questa merce e venderne agli stra­ nieri quanta e quando vuole. Tutte le altre merci ed oggetti di cui v’è esigenza in ciascuno si vendano portandoli al mer­ cato comune, ogni cosa nel luogo dove i custodi delle leggi e i magistrati avranno indicato come la sede conveniente, ed essi fisseranno i limiti di spazio fra le cose da comperare. En­ tro questi limiti soltanto possono avvenire gli scambi di^ de­ naro con merci e di merci con denaro, senza concedere l’uno all’altro lo scambio a credito dell’una o dell’altra cosa; chi concede lo scambio perché ha fiducia nel compratore, sia che riceva, sia che non riceva il denaro o la merce, stia con­ tento perché sulle siffatte transazioni non ci sarà più nessun procedimento giudiziario. Per quanto riguarda la merce com­ prata o venduta in maggior quantità o a prezzo maggiore di quanto è stato stabilito per legge, e la legge avrà già detto per quanto in più o in meno non bisogna compiere nessuna del­ le due operazioni, il di più sia subito annotato in tal caso presso i custodi delle leggi e il di meno sia cancellato. Lo stes­ so vale per gli stranieri residenti nello stato relativamente al­ l’iscrizione del patrimonio. Venga chi vuole a vivere nello sta­ to a queste condizioni. La residenza è aperta a tutti gli stra­ nieri che vogliono e possono immigrare, purché abbiano un mestiere e rimangano non più di venti anni, contati da quan­ do sono stati iscritti alla loro venuta, senza pagare neppure una piccola tassa di residenza all’infuori di una buona condotta, senza che sia loro imposto nessun altro contributo sugli affa­ ri di compravendita che effettueranno. Quando sia trascorso il loro periodo di tempo, prendano la loro roba e se ne va­ dano. Se però in questi vent’anni a qualcuno di loro accade di esser diventato noto per qualche servizio di un qualche valore reso allo stato, e confida di persuadere il Consiglio e l’assemblea dei cittadini, ritenendo giusto ottenere a buon di­ ritto o una dilazione della sua emigrazione, o anche in asso­ luto il diritto di rimanere nello stato per tutta la vita, si pre­ senti e una volta persuaso lo stato, ciò di cui lo avrà persua­ so, divenga per questo del tutto valido. Ai figli di questi stra­ nieri, se artigiani e giunti all’età di quindici anni, sarà com­ putato il periodo della permanenza come stranieri residenti a cominciare da dopo compiuto il quindicesimo anno, e chi è ri­ masto venti anni, oltre ai suddetti, vada dove gli piace. Se

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preferisce rimanere, rimanga se abbia persuaso lo stato con la stessa procedura dei padri. Quello che se ne va, vada dopo aver cancellato le iscrizioni, che precedentemente siano state fatte per lui presso i magistrati. [...] A questo punto, dopo quanto si è detto, ci sarebbe biso­ gno di un conveniente ordinamento per i nostri contratti re­ ciproci. Un principio semplicissimo, direi, è questo: ‘Nessu­ no, per quanto è possibile, tocchi la mia proprietà, nessuno ne sposti neppure la minima parte senza avermene persuaso in qualche modo. Io, se non sono stolto, farò altrettanto per la proprietà degli altri’. Parliamo prima di tutto, nell’ambi­ to di questa materia, di un tesoro che un uomo abbia con cu­ ra conservato e riposto per sé e per i suoi, un uomo che non sia uno dei miei padri; non preghi io mai gli dèi di trovarlo e trovatolo non lo rimuova; e neppure io comunichi la sco­ perta ai cosiddetti indovini che in un modo o nell’altro mi consiglierebbero di prelevare ciò che fu affidato alla terra in deposito. Non mi gioverei mai infatti di tanto nell’acquisizio­ ne delle ricchezze prendendolo, di quanto in grandezza pro­ gredirei verso la virtù dell’anima e la giustizia lasciandolo stare, acquistando un acquisto migliore al posto di un altro in una sede migliore e preferendo possedere la giustizia nell’ani­ ma piuttosto che ricchezza nel patrimonio e infatti il prover­ bio che per molti casi si dice bene, e cioè che non si deve muovere l’immobile, anche in questo caso, come se fosse que­ sto caso uno di quelli, si potrebbe dire. E inoltre bisogna cre­ dere anche a quanto si racconta a questo proposito e cioè che tali colpe nuocciono alla generazione dei figli. E chi non si dà cura dei figli e trascura anche chi ha posto la legge e si pren­ de ciò che né lui né un progenitore dei suoi progenitori han­ no riposto, senza il permesso di chi l’ha deposto per sé, e di­ strugge la legge più bella e più semplice e frutto della legi­ slazione di quell’uomo assolutamente nobile che disse « Non sollevare quello che non hai deposto », e con dispregio di questi due legislatori colui prende quello che non ha depo­ sto, e si tratta di un valore rilevante, o qualche volta di un grande ed enorme tesoro, quale pena dovrà subire? Il castigo che gli daranno gli dèi, lo conosce la divinità. Ma l’uomo che primo lo vede lo denunci ai giudici se il fatto avviene in cit­ tà, ai magistrati di mercato se in qualche luogo del mercato della città, lo riferisca a quelli della campagna e ai loro capi se è nel restante territorio. Denunciati i fatti, lo stato mandi ad interrogare l’oracolo a Delfi; ciò che il dio dirà come re­ sponso a proposito delle ricchezze e di colui che le ha aspor­ tate, questo lo stato, obbedendo all’oracolo del dio, farà. Il delatore, se è uomo libero, avrà pubblica reputazione di vir­ tù, ma, se non lo fa, pubblico biasimo di malvagità; se è schiavo e farà la denuncia, sarà giustamente liberato dallo sta­ to che ne pagherà il prezzo del suo valore al padrone. A que­ sto che si è detto dovrebbe tener dietro immediatamente che

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per quanto riguarda le cose piccole e quelle grandi segua la medesima norma. Se uno abbandona una cosa sua in qual­ che luogo volontariamente o no, chiunque vi si imbatte la la­ sci stare pensando che c ’è un demone femminile che proteg­ ge le strade e che custodisce gli oggetti perduti, per legge consacrati a questa dea. E se qualcuno disobbedisce e va ol­ tre questa norma e raccogliendola la porta a casa, ed è una cosa di poco valore, se si tratta di uno schiavo, il primo che lo sorprende lo frusti con molte sferzate, se questo non ab­ bia meno di trent’anni; se è un uomo libero, oltre ad essere pubblicamente ritenuto come uomo illiberale ed estraneo e ri­ belle alle leggi, sia tenuto a versare una somma pari al decu­ plo del valore dell’oggetto rimosso a quello che l’ha abban­ donato. Se uno accusa un altro di trattenere cose di sua pro­ prietà, di un maggiore o minor valore, e l’altro ammette di averle, ma dichiara che non sono di quello, se si tratta di pro­ prietà già iscritta nelle tavole dei magistrati come vuole la legge, il primo chiami chi le ritiene in giudizio, davanti alla magistratura competente, e l’altro sia tenuto a comparirvi. Divenuto così evidente l’oggetto, se nei rescritti risulta iscrit­ to di quale dei due contendenti è, questo prenda in consegna la cosa e se ne vada. Se risulta che la cosa appartiene a qualche altro che non è presente, quello dei due che potrà dare un mallevadore sufficiente la porti via con sè a nome del­ l’assente, sulla base del diritto che avrebbe avuto l’assente di portarla via e per rimetterla all’assente cui è stata sottrat­ ta. Se l’oggetto contestato non ha documentazione presso i magistrati, rimanga giacente fino al processo presso i tre ma­ gistrati più anziani; se è un animale ciò che sia stato così sequestrato, chi perde su di esso la causa è obbligato a risar­ cire ai magistrati il nutrimento dato alla bestia durante il pe­ riodo di sequestro. La causa deve essere risolta entro tre gior­ ni con sentenza definitiva, dai magistrati. E’ facoltà di ogni cittadino che lo vuole e sia sano di men­ te, di condurre il suo schiavo e di fare di lui ciò che vuole entro i limiti di tutto ciò che è lecito e santo. Potrà anche tenere e condurre in luogo di un altro, familiare od amico, al fine di conservarlo al padrone, lo schiavo che sia fuggito. Se qualcuno rivendica la libertà di qualcuno, in quanto condotto schiavo, chi lo detiene dovrà concedergliela; chi rivendica però la libertà di uno schiavo, lo faccia dopo aver presen­ tato tre mallevadori sufficienti, così appunto e in altro modo no. Se qualcuno rivendica la libertà di uno schiavo contro queste norme, sia perseguibile per violenza e una volta di­ mostrato colpevole sia tenuto a pagare, a colui cui lo schiavo sia stato sottratto, usa somma pari al doppio del valore regi­ strato del danno. Chi vuole può rimettere le catene allo schia­ vo affrancato se non è rispettoso o non è sufficientemente ri­ spettoso di chi l’ha liberato. Rispetto è per l’affrancato pre­ sentarsi tre volte al mese al focolare di chi l’ha liberato e an-

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nunciatgli che farà ciò che bisogna fare purché si tratti di pre­ stazioni giuste e insieme possibili, e quanto al matrimonio fare ciò che sembrerà opportuno all’ex-padrone. Non sarà le­ cito allo schiavo affrancato di arricchirsi più di chi l’ha libe­ rato; in tal caso il di più diverrà dell’altro. L ’affrancato non rimarrà più di vent’anni nello stato, dopo vent’anni se ne andrà come gli altri stranieri con tutta la sua roba, a meno che non abbia ottenuto il permesso di rimanere dai magi­ strati e da chi l’ha liberato, convincendoli di ciò. [...] Il commercio al minuto, quello che si fa nello stato, in tutti i suoi aspetti, è nato secondo la sua natura, non per danneg­ giare, ma per giovare agli altri. Come non dovrebbe essere un benefattore ognuno che rende uniformi e proporzionati tut­ ti i beni di ogni tipo, nel loro essere, essi che sono senza pro­ porzione e uniformità? E noi dobbiamo dire che questo è rea­ lizzato anche dal potere che ha la moneta, e si deve anche di­ re che il commerciante all’ingrosso è stato ordinato a questo. E i salariati, gli albergatori e il resto, mestieri di cui alcuni sono più decorosi, altri meno, hanno tutti in questo il loro po­ tere, e cioè fornire in abbondanza a tutti un aiuto per i loro bisogni e dare, per tutti, uniformità di distribuzione ai beni. Vediamo ora che cos’è mai questo loro non essere ritenuti cosa bella e decorosa, e che cos’è che in essi si trova ad esse­ re screditato; vediamo ciò, affinché possiamo risanare se non il tutto, almeno, allora, le parti, con la legge. E ’ evidente che si tratta di una cosa difficile e tale da non richiedere po­ ca virtù, c l i n . Che vuoi dire? a t e n . Caro Clima, solo un piccolo genere di uomini, limitato nel suo numero dalla stes­ sa natura, di uomini educati in modo eccezionale, sanno fer­ marsi stabilmente ai limiti della moderazione, quando cadono nei bisogni e nei desideri di qualcosa, e quando si offre lo­ ro il destro di accumulare ricchezze in grande quantità sanno sobriamente preferire il giusto al molto; ma le moltitudini degli uomini hanno comportamento a questi del tutto contra­ rio e, se hanno un bisogno, il loro bisogno è illimitato, e se possono guadagnare il giusto scelgono di guadagnare senza sazietà. Così tutti i generi di attività che hanno contatto con il commercio al minuto, con quello all’ingrosso e con il me­ stiere dell’albergatore, sono stati screditati e vengono disprez­ zati come cosa vergognosa. Poiché se uno costringesse, cosa che non avvenga mai e non avverrà certo mai, se uno co­ stringesse (fa ridere dirlo, però sarà detto lo stesso) gli uomi­ ni di ogni luogo i migliori a fare per un certo tempo gli al­ bergatori, o i commercianti al minuto o un mestiere analogo, e anche le donne fossero costrette a partecipare di un simile modo di vita da un destino fatale, allora noi ci renderemmo conto che ciascuno di questi mestieri è cosa amica e amabile, e se poi ciascuno di essi divenisse incorruttibile in modo coe­ rente ai nostri princìpi, io penso che tutti essi sarebbero ono­ rati come una madre o una nutrice. Ora invece che, a scopo

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di attività commerciale, qualcuno costruisce edifìci in luoghi solitari, case che in ogni direzione hanno lunghezza di stra­ de, dove vengano accolti nel desiderato ristoro quelli che si trovano in difficoltà o coloro che vi sono sospinti dalla furia selvaggia delle tempeste, offrendo a costoro tranquilla bonac­ cia o un refrigerio alla calura, ora che, dopo tutto questo, co­ lui non li accoglie affatto come amici, né porge loro i doni che attendono gli ospiti e fanno seguito, come testimonianza di amicizia, al loro ricevimento, ma come nemici fatti prigio­ nieri che egli libererà esigendo da loro .i riscatti più grandi, ingiusti e infami — ora in tutte le simili circostanze giusta­ mente questi e simili misfatti hanno malfamato questo me­ stiere di soccorrere le difficoltà. E così il legislatore deve pre­ pararvi una medicina per sempre. E’ giusto l’antico detto che è diffìcile combattere contro due opposti avversari, come ac­ cade nelle malattie e in molti altri casi; e anche ora la batta­ glia che riguarda questi uomini e su queste cose è su due fronti opposti, la povertà e la ricchezza, l’una che ha corrot­ to l’anima degli uomini con la mollezza, l’altra che l’ha trasci­ nata col dolore alla impudenza. Quale soccorso contro que­ sto male ci sarà in uno stato dotato di intelligenza? Prima di tutto restringere al minimo possibile l’uso di quel genere di uomini che sono i commercianti al minuto, secondo, affi­ dare il commercio al minuto agli uomini che, anche corrom­ pendosi, non ne verrebbe grave danno allo stato, terzo tro­ vare il mezzo per impedire che a coloro proprio che parteci­ pano di siffatte occupazioni accada che nelle loro indoli di­ ventino facilmente partecipi dell’essere illimitatamente sfron­ tati e di animo vile. Dietro alle cose ora dette, la legge su questa materia sia questa per noi e abbia buona fortuna; Quanti dei Magneti sono quelli che ora il dio, risollevando la loro sorte, ricolloca nel nuovo stato, quanti di quelli cioè so­ no i proprietari fondiari cui sono toccati in sorte i 5040 fo­ colari, nessuno di questi, né per sua volontà, né contro la sua volontà, si dedichi al commercio al minuto o all’ingrosso, né mai assuma qualsiasi servizio per privati che non siano della sua stessa condizione, all’infuori che per il padre, la madre e per quelli che sono dietro di questi nella discendenza della stirpe, e liberamente per tutti i più vecchi di lui che vivano come liberi cittadini. Non è facile distinguere nella legisla­ zione, con esattezza, ciò che si addice o no ad un libero; ciò sia giudicato da chi ha ottenuto i primi onori per altissima virtù, grazie all’avversione o l’inclinazione nei confronti del­ le cose di cui si parla. Se qualcuno nell’ambito di qualche arte che esercita partecipa del commercio al minuto indegno di un uomo libero, sia accusato, davanti ai cittadini giudica­ ti primi per virtù, da chiunque vuole farlo, con l’accusa di di­ sonorare la sua stirpe, e se risulti insudiciare con una pratica indegna il focolare suo e dei suoi padri, condannato a un an­ no di carcere, sia allontanato da quella occupazione; se re-

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cidivo, sarà condannato ad altri due anni di carcere, e ad ogni ricaduta nella condanna continuerà a fare dei raddoppi in re­ lazione al tempo di detenzione precedente. Seconda legge: Chi vuole fare il commerciante al minuto deve essere o uno straniero residente o uno straniero di passaggio. In terzo luo­ go, terza legge: I custodi delle leggi affinché un siffatto coa­ bitatore del nostro stato sia quanto più è possibile virtuo­ so e malvagio il meno possibile, devono ritenere di essere cu­ stodi non solo di quelli cui è facile custodire al fine di impe­ dire loro di commettere violazioni della legge e di corromper­ si, quanti cioè sono ben educati sia per origine familiare sia per il modo in cui sono stati allevati, ma anche, e di più, di quelli che sono lungidall’esser tali, questi deb­ bono custodire, questi che attendono ad occupazioni che hanno grande peso nel volgerli al male. E così in rela­ zione al commercio al minuto che ha molti aspetti e com­ prende molte siffatte forme di occupazione,su tutto ciò che dal punto di vista di cui si è detto ne sarà lasciato soprav­ vivere in quanto appare per stretta necessità dover essere pre­ sente nello stato, su tutto ciò i custodi delle leggi dovranno riunirsi insieme agli esperti di ogni branca di questa attività commerciale, come abbiamo già stabilito per le falsificazioni, materia di genere uguale a questa, e, convenuti insieme, essi esamineranno i ricavati e le spese, che cosa cioè dà in rela­ zione a questi un guadagno giusto al commerciante al minuto e prendendone nota stabiliranno la spesa e il ricavo che ne risultano, e ne affideranno la custodia in parte ai magistrati del mercato, in parte a quelli della città e in parte a quelli del­ la campagna. Io penso che così il commercio al minuto, da una parte, a ciascun gruppo di cittadini diventerà utile e, dall’al­ tra, saranno ridotti al minimo i danni che porta ai cittadini che ne fanno uso negli stati. Per quante cose qualcuno conviene di fabbricare e non fa secondo i termini fissati nell’accordo, a meno che non gliele impediscano leggi o decreti, a meno che raccordo non sia sta­ to da lui preso sotto la coercizione di ingiusta necessità, a me­ no che non sia ostacolato nell’assolverlo da un accidente for­ tuito e imprevisto e contro la sua volontà, per tutti gli altri casi si istruiscano processi per accordi non mantenuti o at­ traverso il giudizio dei vicini. Ad Efesto e ad Atena è sacro il genere degli artigiani, che con le loro arti organizzano la nostra vita civile, e quelli che con altre arti di difesa garan­ tiscono la conservazione delle opere degli artigiani sono sacri ad Ares e ad Atena; e giustamente anche il genere di questi è sacro a queste divinità. Essi tutti vivono al servizio del pae­ se e del popolo, gli uni assolvendo una funzione di primaria importanza per le prove da sostenersi in guerra, gli altri por­ tando a termine la fabbricazione di strumenti ed oggetti a pagamento; ad essi dunque non sarebbe affatto conveniente mentire su queste cose, se osservano il rispetto che devono

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agli dèi da cui derivano. Se un artigiano per sua colpa non compie l’opera nel tempo promesso, senza rispetto alcuno del dio che gli ha insegnato i mezzi per guadagnarsi la vita, pensando, senza usare gli occhi della mente, che il dio lo per­ donerà in quanto a lui familiare, prima di tutto renderà con­ to al dio, poi questa legge sia così stabilita in modo adatto a lui: Sia tenuto a pagare il prezzo delle opere a proposito delle quali ha ingannato il committente sul tempo della con­ segna, e poi compia l’opera di nuovo e dal principio nel tem­ po già stabilito precedentemente, senza nessuna ricompensa. A colui che assume un’opera da compiere, la legge fa da con­ sigliere delle stesse cose che già consigliava al venditore, e cioè di non attentarsi ad elevare il prezzo oltre il valore, ma di attenersi nel modo più rigoroso nella stima al semplice va­ lore, la stessa cosa appunto ordina a chi prende la commis­ sione di un lavoro (l’artigiano infatti conosce bene quanto va­ le il suo lavoro). Nelle città di uomini liberi non è lecito che proprio l’artigiano, usando la sua arte, che per la sua stessa natura è cosa chiara e scevra da falsità, metta alla prova i pri­ vati cittadini, e debbono esserci processi su queste cose, per chi subisce l’ingiustizia contro chi la fa. Se d ’altra parte chi ha commesso ad un artigiano un lavoro non gli corrisponde esattamente la ricompensa pattuita legittimamente, e si ren­ de colpevole anche mancando di rispetto verso Zeus, pro­ tettore della polis, ed Atena, con lui partecipi della costitu­ zione, per amore di un piccolo guadagno, e così provoca la dissoluzione di grandi società politiche, sia questa la legge che con l’aiuto degli dèi porterà soccorso alla compagine so­ ciale: Chi, avendo ricevuto, in anticipo sul pagamento, una prestazione di opera, non la ricambia pagando la ricompensa nel tempo convenuto, sia condannato a pagare il doppio; pas­ sato un anno pur essendo proibito in ogni altro caso trarre in­ teressi dal danaro, e cioè per quante ricchezze si danno a pre­ stito per interesse, in questo caso costui pagherà anche l’in­ teresse di un obolo al mese per ogni dracma del prezzo del lavoro. Queste cause si discutano nei tribunali tribali.

Storia naturale della città: Aristotele

Aristotele è una figura nuova nella tradizione culturale greca, non potendo venir identificato né nel profilo del filosofo di deri­ vazione aristocratico-sacerdotale (figura nella quale ancora si in­ scriveva Platone), né in quello del sapiente legato al mondo de­ gli artigiani e delle loro tecniche. Proveniente dalla corte della monarchia macedone, con la quale non interruppe mai i con­ tatti, e vissuto in seguito sempre all’interno della scuola, come discepolo prima, poi come maestro, egli costituisce il prototipo della figura del grande intellettuale ellenistico, sempre chiuso, appunto, nel tragitto fra corte e scuola. ^ Aristotele nacque nel 384 a Stagira, una piccola città periferica, da Nicomaco, medico di corte del re Aminta di Macedonia. Nel 367 si recò ad Atene, per frequentare l’Accademia platonica, e vi restò 20 anni, fino alla morte del maestro. Costretto a lascia­ re Atene per la reazione antimacedone che vi si sviluppava in seguito alla politica espansionistica del nuovo re, Filippo, Aristo­ tele si recò ad Asso, possedimento di Ermia, un tiranno amico di Filippo. Nel 342 fu chiamato in Macedonia come precettore del principe Alessandro. Dopo la vittoria di Cheronea (338), che sanciva la supremazia macedone sull’intera Grecia, Aristotele po­ tè rientrare in Atene (335) e fondarvi una sua scuola, il Liceo (o Peripato), in concorrenza con l’Accademia. Alla morte di Ales­ sandro, nel 322, dovette abbandonare la città per sfuggire ad una nuova sollevazione antimacedone, e si rifugiò a Calcide, in Eubea, dove morì l’anno seguente. Per testamento, lasciò la cura della scuola al discepolo Teofrasto, quella degli affari familiari ad Antipatro, il nuovo governatore macedone di Atene. Aristotele rimase sempre estraneo alla pratica politica, per una necessità (la sua condizione di straniero in Atene e di suddito in Macedonia gli precludeva qualsiasi accesso alla lotta per il potere), presto trasformatasi in opzione teorica: compito dell’in­ tellettuale, del caposcuola, è per lui produrre un sapere tanto rigoroso quanto « inutile » rispetto a una fruizione immediata nell’esistenza quotidiana. I suoi testi etici e politici vanno dun­ que interpretati come una lettura critica della politica e dell’an­ tropologia platonica, di cui perdono la finalizzazione come pro­ spettiva di intervento nel sociale, per acquistare, di contro, il carattere di una distaccata teorizzazione, di una « storia natura­ le » della città e dell’uomo. Il tono naturalistico di questi scritti aristotelici è accentuato dal ricorso alla metafora biologica (la società come organismo vivente, la storia come processo neces­ sario e finalizzato di crescita di questo organismo), che vi fun­ ge da potente strumento di organizzazione del discorso teorico.

La città dal bisogno al bene Aristotele apre la Politica con la definizione della città come una comunità finalizzata alla realizzazione del « più eccellente di tut­ ti i b en i»; la polis aristotelica, come quella platonica, si deter­ mina come una organizzazione destinata alla realizzazione di va­ lori morali, e la sua differenza rispetto alle forme meno comples­ se di vita sociale viene identificata nella qualità assoluta del bene che essa garantisce. Ma la compiutezza della città si manifesta, oltre che nella sua finalizzazione al bene, anche nel raggiungi­ mento, che essa sola realizza, di « quello che si chiama il livello dell’autosufficienza ». Al termine di un processo di aggregazione che, dall’unione della relazione riproduttiva maschio/femmina e di quella produttiva padrone/schiavo, genera la famiglia e il villaggio, la polis si costituisce, come già in Platone, come la ri­ sposta definitiva dell’uomo al bisogno. La determinazione concettuale della città vede così confluire nel testo aristotelico i due temi, quello etico — legato al bene — e quello economico — connesso al bisogno — già presenti nell’a­ nalisi platonica. La confluenza è agevolata dal piano del discor­ so di Aristotele: la genesi della città non dipende da una scelta o da una retta intenzione, la sua crescita non richiede il sapien­ te potere dei filosofi. La crescita della polis è del tutto analoga a quella di un organismo vivente che durante il suo sviluppo si attrezza progressivamente a sopravvivere nel suo ambiente, e a realizzare le potenzialità latenti nel suo principio. Soddisfazione del bisogno e raggiungimento del fine fanno così tutt’uno, risul­ tando come progressive esplicitazioni dell’essenza dell’uomo che è il principio della città. La città è il dispiegamento della natura umana: quel che resta fuori di essa è, comunque, innaturale, de­ viente rispetto all’ordine del mondo. 1. R isulta subito evidente che ogni città è una comunità e che ogni com unità si costituisce proponendosi per scopo un qualche bene (perché tutti com piono ogni loro azione per raggiungere ciò che ad essi sem bra essere un bene). Ciò posto, possiam o dire che soprattutto vi tende e tende al più eccel­ lente di tutti i beni quella com unità che regge e comprende in sé tutte le altre: e questa è quella che si chiam a città e co­ m unità politica. E ’ un uso linguistico non appropriato quello di coloro che credono di poter stabilire l’identità tra il go­ vernante di una città, il re, l ’am ministratore ed il padrone sul fondam ento che le loro differenze si baserebbero solo sul m aggiore o minor numero delle persone cui sono preposti e non sulla specificazione delle loro funzioni. Padrone, secon­ do costoro, sarebbe quello che è preposto a pochi, ammini­ stratore quello che è preposto ad un m aggior numero di di­ pendenti, governante di città e re quello che è preposto ad un numero ancora m aggiore — come se non ci fosse nessuna dif­ ferenza tra una grande casa privata ed una piccola città — e A ristotele , Politica, I 1-2, trad. it. di C.A. Viano, UTET, Torino

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il re sarebbe poi quello che ha in sé la fonte del potere, go­ vernante di città, secondo i concetti di questa scienza poli­ tica, chi è in parte governante ed in parte governato. Ma ciò non è vero, come risulterà chiaramente a chi indagherà con il metodo qui proposto. Come nelle altre indagini, anche qui è necessario analizzare il composto fino alle parti semplici (che sono i costituenti minimi di ogni cosa); così, esaminando le parti di cui è costituita la città, vedremo meglio in che co­ sa esse differiscano Luna dall’altra e se è possibile assumere qualcosa di scientificamente valido sul conto di ciò che si è precedentemente detto.

famiglia, i cui membri Caronda chiama commensali, Epimenide di Creta compagni di tavola o compagni di focolare. La prima comunità, che deriva dall’unione di più famiglie volte a soddisfare un bisogno non strettamente giornaliero, è il vil­ laggio. Anzi si potrebbe dire che il villaggio è per natura una colonia della casa i cui componenti alcuni chiamano fratelli di latte, e figli e figli di figli. Perciò dapprima le città erano rette da re, come ora lo sono ancora i popoli che provengo­ no da nuclei retti da re, perché ogni casa è il regno del più vecchio; e anche le colonie di case, che a queste sono affini, hanno lo stesso regime. Ed è ciò che dice Omero:

2. Se si indagherà la genesi delle cose dal loro principio, anche in questo campo, come negli altri, la ricerca otterrà ot­ timi risultati. Prima di tutto è necessario unire i termini che non possono sussistere separatamente, per esempio la femmi­ na e il maschio in quanto strumenti di generazione (e tali non sono per libera scelta, ma perché è naturale per l’uomo come per gli altri animali e piante il mirare a lasciare un qualche altro essere simile a sé), e chi è naturalmente disposto al co­ mando a chi è naturalmente disposto ad essere comandato, in quanto la loro unione è ciò per cui entrambi possono soprav­ vivere, perché chi per le sue qualità intellettuali è in grado di prevedere per natura comanda ed è padrone, mentre chi ha doti inerenti al corpo per natura deve essere comandato ad esercitarle ed è naturalmente schiavo, sicché la stessa cosa è vantaggiosa al padrone ed allo schiavo. La natura, dunque, distingue la femmina ed il servo perché essa non fa nulla di così misero come il coltello di Delfi 1 fabbricato dagli arti­ giani, ma destina ogni cosa ad una sola funzione: ed ogni strumento che non servisse a più usi, ma ad uno solo condur­ rebbe a termine la sua funzione nel migliore dei modi. Pres­ so i barbari la femmina e lo schiavo hanno la medesima po­ sizione perché per natura essi non hanno chi sia in grado di esercitare il comando, sicché presso di loro si ha l’unione di uno schiavo con una schiava. Perciò dicono i poeti

ciascuno regna sui figli e sulle mogli;

che sui barbari i Greci imperino è naturale come se per natura fosse la stessa cosa l’essere barbaro e Tesser schiavo. Da queste due comunità sorge prima di tutto la famiglia, sic­ ché giustamente Esiodo disse poetando innanzitutto la casa, la donna e il bue che ara; perché il bue presso i poveri sostituisce il servo. La comunità che si costituisce per la vita di tutti i giorni è per natura la 1. Strumento adibito a più usi diversi [N.d.C.].

ed infatti le famiglie abitavano separatamente, come era co­ stume degli antichi. E per questa ragione, cioè perché i popoli stessi, gli uni ancora oggi, gli altri in antico, avevano un re e perché gli uomini foggiano non solo le sembianze degli dèi, ma anche il loro modo di vita prendendo a modello sé stessi si dice che gli dèi hanno un re. La comunità perfetta di più villaggi costituisce ormai la città, che ha raggiunto quello che si chiama il livello delPautosufficienza e che sorge per rende­ re possibile la vita e sussiste per produrre le condizioni di una buona esistenza. Perciò ogni città è un’istituzione naturale, se lo sono anche i tipi di comunità che la precedono, in quanto essa è il loro fine e la natura di una cosa è il suo fine; cioè diciamo che la natura di ciascuna cosa è quello che essa è quan­ do si è conclusa la sua generazione, come avviene per l’uo­ mo, il cavallo, la casa. Ora, lo scopo ed il fine sono ciò che vi è di meglio; e l’autosufficienza è un fine e quanto vi è di meglio. Da ciò dunque è chiaro che la città appartiene ai pro­ dotti naturali, che l’uomo è un animale che per natura deve vivere in una città e che chi non vive in una città, per la sua propria natura e non per caso, o è un essere inferiore o è più che un uomo: è il caso di chi Omero chiama con scherno senza patria, senza leggi, senza focolare. E chi è tale per natura è anche desideroso di guerra, in quan­ to non ha legami ed è come un pezzo da gioco posto a caso. Perciò è chiaro che l’uomo è animale più socievole di ogni ape e di ogni altro animale che viva in greggi. Infatti, se­ condo quanto sosteniamo, la natura non fa nulla invano e l’uomo è l’unico animale che abbia la favella: la voce è sem­ plice segno del piacere e del dolore e perciò l’hanno anche gli altri animali, in quanto la loro natura giunge fino ad ave­ re e a significare agli altri la sensazione del piacere ed il dannolore. Invece la parola serve ad indicare l’utile ed il danno­ so e perciò anche il giusto e l’ingiusto: e questo è proprio dell’uomo rispetto agli altri animali, in quanto egli è Funi-

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co ad avere nozione del bene e del male, del giusto e del­ l’ingiusto e delle altre virtù: la comunità di uomini costitui­ sce la famiglia e la città. E nell’ordine naturale la città pre­ cede la famiglia e ciascuno di noi. Infatti il tutto precede ne­ cessariamente la parte, perché tolto il tutto, non ci sarà più né piede né mano, se non per omonimia, che si ha, per esem­ pio, quando si parla di una mano di pietra; ma questa in real­ tà è una mano morta. Ma tutte le cose sono definite dalla funzione che compiono e dalla loro potenza, sicché non posse­ dendo più né l’una né l’altra, non potranno più essere dette le stesse di prima se non per omonimia. E’ dunque chiaro che la città è per natura e che è anteriore all’individuo perché se l’individuo, preso da sé, non è autosufficiente, sarà rispet­ to al tutto nella stessa relazione in cui lo sono le altre parti. Perciò chi non può entrare a far parte di una comunità o chi non ha bisogno di nulla, bastando a se stesso, non è parte di una città, ma o una belva o un dio. Per natura, dunque, c’è in tutti lo stimolo a costituire una siffatta comunità: chi per primo l’ha fondata è stato la causa dei maggiori beni. Infatti l’uomo, che, se ha realizzato i suoi fini naturali, è il migliore degli animali, quando non ha né leggi, né giustizia è il peggiore. La più dannosa è l’ingiustizia armata e l’uomo nasce con le armi necessarie per la saggezza e la virtù, seb­ bene possa usarle anche per scopi contrari alla saggezza ed alla virtù. Perciò senza la virtù l’uomo è il più empio ed il più feroce degli esseri, dedito solo ai piaceri d ’amore e del ventre. Ma la giustizia è virtù politica perché la sanzione del diritto è -l’ordine della comunità politica; e la sanzione del diritto è la determinazione di ciò che è giusto.

Giustizia, scambio e bisogno Il testo analizza la giustizia come regola delle relazioni sociali. Nei capitoli precedenti Aristotele aveva elaborato una distinzio­ ne tra giustizia distributiva e giustizia regolativa. La prima, « che consiste nella ripartizione degli onori, delle ricchezze e di tutte le altre cose divisibili per chi fa parte della cittadinanza », ha come proprio criterio la proporzione geometrica: il rapporto tra i beni attribuiti deve riflettere quello che intercorre tra i sogget­ ti cui questi vengono assegnati. La seconda, che regola le rela­ zioni di scambio, segue lo schema della proporzione aritmetica: la legge considera eguali le persone che entrano in rapporto, e la giustizia tende alla ricomposizione di una relazione di ugua­ glianza, quando « toglie ciò per cui la parte maggiore supera la metà e la aggiunge alla parte minore ». E ’ interessante notare che, mentre la « giustizia distributiva » riA ristotele , Etica nicomachea V 5; trad. it. di A. Plebe, Laterza,

Bari 1965, modificata.

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flette perfettamente l’etica di una società di status, nella quale più deve avere chi più vale, per nascita e merito, la giustizia « regolativa » tiene conto dei processi di scambio che pure devo­ no aver luogo all’interno di questa società, e che richiedono una certa parità dei contraenti. In concreto, nella pratica dello scambio, l’applicazione della giu­ stizia regolativa garantisce l’istituzione di un rapporto di com­ pleta reciprocità fra i membri, impedendo che la perdita di al­ cuni generi il guadagno di altri. Lo scambio di servizi deve dun­ que svolgersi, all’interno della polis, secondo un regime di omo­ geneità, che renda commisurabili ed equamente permutabili ser­ vizi diversi prestati reciprocamente da individui diversi. In que­ sto quadro, la moneta compare nella sua funzione positiva di « misura comune » che rende possibile lo scambio e che mate­ rializza l’omogeneità di base dei contraenti. Dietro questa valu­ tazione positiva dello scambio e della moneta che lo media, ri­ compare la figura antropologica del bisogno, che rende neces­ sario lo scambio stesso: « il bisogno sostiene la società come una sorta di legame ».

Alcuni ritengono che la -reciprocità sia assolutamente il giu­ sto; e così affermarono i Pitagorici: essi, infatti, definirono il giusto in senso assoluto come il rendere agli altri il contrac­ cambio. Ma la reciprocità non si accorda con la giustizia di­ stributiva né con quella regolativa, per quanto interpretino in questo senso anche la giustizia di Radamanto: « Se uno subisce ciò che fece, si compie direttamente la giu­ stizia ». Spesso, anzi, discorda dalla giustizia: ad esempio, se un ma­ gistrato -che ne ha il potere colpisce, non deve essere colpi­ to a sua volta; se, invece, uno colpisce un magistrato, non solo deve venire colpito, ma anche punito. Inoltre vi è mol­ ta differenza tra un atto compiuto con o senza il consenso dell’altra parte. Invece, nei rapporti di scambio proprio que­ sta giustizia istituisce la relazione: la reciprocità, secondo proporzione e non secondo uguaglianza. E la città si conso­ lida, appunto, sul contraccambiare in ragione della proporzio­ ne. O, infatti, si cerca di ricambiare il male, o, in caso con­ trario, sembra di essere in schiavitù; altrettanto per il bene: altrimenti non vi è -lo scambio dei benefici, sul quale si basa l’unione civile. Per questo si è costruito il tempio delle Gra­ zie accessibile a tutti, affinché vi sia la gratitudine: questo, infatti, è proprio della gratitudine: bisogna, cioè, contraccam­ biare il servizio a chi ci gratificò, e di nuovo prendere l’ini­ ziativa di gratificarlo. E bisogna contraccambiare secondo la proporzione espressa dall’unione in diagonale. Ad esempio, sia A un architetto, B un calzolaio, C una casa, D un calzare. Occorre, dunque, che l’architetto prenda dal calzolaio parte della sua opera, e che egli stesso gli dia, a sua volta, parte della propria. Se dunque anzitutto vi è l’identico rapporto, allora si verifica la reciprocità, e avverrà ciò che si è detto.

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Se invece non è così, non vi sarà identità e non sussisterà il rapporto: nulla impedisce, infatti, che l’opera dell’uno sia mi­ gliore di quella dell’altro: in tal caso bisogna pareggiare la differenza. E ciò si verifica anche per le altre tecniche: esse, infatti, si distruggerebbero, se ciò che fa parte attiva in quan­ tità e in qualità non fosse remunerato dalla parte passiva in tale quantità e qualità. Infatti tra due medici non sorge co­ munanza di affari, bensì tra un medico e un contadino, e, in genere, tra persone diverse e non eguali: e bisogna poi che costoro si pareggino. Perciò tutte le cose di cui vi è un reci­ proco scambio bisogna che si rendano in qualche modo com­ mensurabili. Per questo sorse la moneta, ed essa è, in certo modo, un termine medio: essa, infatti, misura ogni cosa, co­ sicché misura anche l’eccesso e il difetto, e quanti calzari ci vogliono per permutarsi con una casa o con del cibo. Quin­ di, per quanto riguarda l’architetto nei rapporti con il calzola­ io, occorrono tanti calzari per una casa, e lo stesso per del ci­ bo (e se non si raggiunge questo, non vi sarà né scambio né relazione): e ciò non si verificherà se quelle cose non so­ no in certo modo pari. Occorre, quindi, che ogni cosa sia mi­ surata con una misura comune, come prima si è detto. E que­ sta misura è, in realtà, il bisogno, che le comprende tutte (se, infatti, non si avesse bisogno di niente, o non se ne avesse bi­ sogno allo stesso modo, non vi sarebbe lo scambio, o lo scam­ bio avverrebbe diversamente). Quindi la moneta è sorta per convenzione come strumento di commutazione del bisogno. E per questo la moneta è detta in greco « cosa legale », per­ ché sorge non per natura ma per legge, e sta in nostro potere il mutarla o il renderla fuori corso. [...] Che poi il bisogno sostenga la società come una specie di le­ game è evidente dal fatto che, qualora due persone non abbia­ no reciprocamente bisogno l’una dell’altra, o anche una sola di esse, esse non producono scambi; come invece avviene se uno ha qualcosa di cui qualcuno ha bisogno, ad esempio, vino, e gli concedano in cambio l’esportazione del frumento. In­ fatti bisogna instaurare qui un pareggio. Per gli scambi fu­ turi, poi, se al momento non si ha bisogno di nulla, la moneta ci è come garante che vi saran scambi futuri, se ve ne sarà bisogno: infatti bisogna che a chi dispone di questa moneta sia possibile acquistare. Effettivamente la moneta subisce pure questo inconveniente (infatti non ha sempre eguale valore); tuttavia essa tende piuttosto a rimanere stabile. Per questo conviene che ogni cosa sia valutata: infatti così vi sarà sem­ pre scambio e, se vi è scambio, vi è anche rapporto sociale. La moneta quindi, come una misura, serve a pareggiare le co­ se, rendendole commensurabili: infatti se non vi fosse scam­ bio non vi sarebbe rapporto sociale, non vi sarebbe scambio se non vi fosse eguaglianza, non vi sarebbe eguaglianza se non vi fosse commensurabilità. Invero, è impossibile che oggetti tanto differenti diventino proprio commensurabili, ma

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per il bisogno pratico ciò può essere accettato in misura suf­ ficiente. JLa moneta dev’essere quindi qualcosa d ’unico ed essere ciò per via di una convenzione legale: per questo in greco essa e detta 'cosa legale’: ed essa rende tutte le cose “ Z rab]h: RtUtr ° .'nfattÌ Può misurarsi con la moneta. B ck>è b? V 16C· mme’ c un Iett0· Sia A Ia metà di mine l decimamm6’ di cinque mine sii sia il il lettoVrg letto C la parte ° di/ ecluivalente B: sarà allora chiaro quanti letti equivalgono ad una casa, cioè cinque Ed è noto

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to di questa norma; ancora una volta la virtù sÌ realizza nefia repressione dell istanza del desiderio. La distinzione tra le dite e r e m itic h e ha però in Aristotele il risultato di sc^gliem Ϋ nodi dell antropologia di Platone: essa sopprime definitivamente l’amA m sto tele , Politica 18-11; trad. it. di C.A. Viano, cit.

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biguità del giudizio platonico sul commercio, approvato ^come elemento indispensabile alla sopravvivenza della comunità, ma condannato per le sue conseguenze eversive in rapporto all’armonia etica della polis. Lo scioglimento del rapporto tra etica ed economia consente ad Aristotele una eccezionale lucidità scientifica nell’individuare la legge dello scambio mercantile, che si articola non più nella figura di uno scambio fra un bene pos­ seduto in eccedenza, il suo equivalente monetario, ed un bene di cui si ha bisogno (M-D-M); bensì come passaggio da un « ca­ pitale » monetario a una merce di scambio per tornare al capitede accresciuto Questa dinamica mercantilistica incominciava a conoscere un suo sviluppo nella Grecia del IV secolo, ad opera di figure sociali esterne alla polis come ex-schiavi e meteci; la concentrazione di ricchezza monetaria nelle mani di questi personaggi, a scapito dei canali politico-sociali tradizionalmente riconosciuti, era av­ vertita come uno scandalo e un pericolo grave per la città. Nel momento stesso in cui perviene a descrivere esattamente questo ordine di fenomeni, Aristotele — erede di Platone e garante dell’ideologia della città — ne formula un duro giudizio mora­ le, basato sulla loro estraneità alla « natura », dunque sul loro carattere patologico rispetto a quell’organismo naturale, dai bi­ sogni limitati, che è la città. . . . . , La durezza del giudizio moralistico di Aristotele sull economia di mercato c una delle ragioni che spiegano l’assenza, dopo di lui, di significativi sviluppi della teoria economica nell ambito della cultura antica.

Indaghiamo ora in generale ogni tipo di proprietà e la cre­ matistica, nel modo che ci è solito, dal momento che è sta­ to stabilito che anche lo schiavo è una parte della proprietà. Innanzitutto qualcuno potrebbe porre il problema se la crematistica sia identica con l’economia o se ne sia una parte o se le sia subordinata e in questo caso se sia nel rapporto in cui è l’arte di fabbricare le spole rispetto all’arte del tessere o in quello in cui è la metallurgia con la scultura. Infatti i rap­ porti di subordinazione non sono identici tra le prime due e le seconde due arti, ma la prima delle arti subordinate for­ nisce gli strumenti, la seconda fornisce la materia: intendo per materia ciò che è dato e da cui si trae un’opera compiu­ ta, per esempio nel caso dell’arte tessile la lana, per la scul­ tura il bronzo. Che l’economia e la crematistica non siano identiche è chiaro: infatti alla seconda spetta procurare i beni, alla prima usarli; e quale arte se non quella economi­ ca sovraintenderà all’uso delle proprietà familiari? E si di­ scute se la crematistica è una parte dell’economia o un’altra specie di attività rispetto ad essa. Infatti se spetta alla cre­ matistica cercare le fonti delle ricchezze e della proprietà, e poiché la proprietà e le ricchezze comprendono molte funzio­ ni specifiche, allora prima di tutto ci si deve chiedere se la agricoltura sia una parte della crematistica o un genere diver­ so da essa e, in generale, se ne facciano parte le attività volte

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alla ricerca dei nutrimenti ed il possesso di questi ultimi. Ma vi sono molte specie di cibi e perciò anche molte specie di vi­ ta e tra gli animali e tra gli uomini, perché non è dato vivere senza cibo, sicché le differenze dei cibi determinano tipi di vi­ ta animale differenti. Degli animali selvatici alcuni vivono isolati, altri in gruppi, a seconda del modo in cui più facil­ mente possono procurarsi il cibo, dal momento che alcuni sono carnivori, altri erbivori, altri onnivori, e perciò la natu­ ra ha determinato i loro tipi di vita a seconda delle loro co­ modità e della loro preferenza, non essendo naturalmente la stessa cosa gradita a tutti, in quanto agli uni piacciono certe cose, agli altri altre; e ben diversi l ’un dall’altro sono il tipo di vita che conducono gli animali carnivori e gli erbivori. Al­ trettanto dicasi degli uomini: infatti ben diversi sono d loro modi di vivere. I più pigri sono nomadi: vivono nell’ozio e traggono il loro sostentamento senza fatica dagli animali do­ mestici; senonché, dovendo questi trasferirsi alla ricerca di pascoli, anch’essi sono costretti a seguirli, come se si dedi­ cassero ad una agricoltura vivente. Altri vivono della caccia praticandone diversi tipi: per esempio alcuni traggono il lo­ ro cibo dal ladrocinio, altri dalla pesca (quelli che abitano presso laghi, paludi, fiumi o qualche mare pescoso), altri an­ cora si procurano uccelli o animali selvatici. La maggior par­ te degli uomini, però, trae il suo sostentamento dalla terra e dalle piante coltivate. Ecco dunque quasi tutti i tipi di vita che hanno in sé un’occupazione autosufficiente con la quale si procurano il sostentamento senza bisogno di ricorso al com­ mercio piccolo o grande: la vita nomade, agricola, brigan­ tesca, piscatoria e venatoria. Altri vivono bene mescolando questi generi di vita, completando ciò che manca a ciascuno di essi per essere soddisfacente nella sua autosufficienza: per esempio gli uni praticano contemporaneamente la vita noma­ de e brigantesca, altri quella agricola e venatoria, applican­ do via via in casi diversi questo criterio, a seconda delle ri­ chieste del bisogno. Il possesso del nutrimento, dunque, sem­ bra concesso dalla stessa natura a tutti gli esseri viventi, co­ me al primo momento della nascita, così anche al compimen­ to del loro sviluppo. E fin dalla nascita alcuni animali pro­ ducono cibo in quantità sufficiente fino al momento in cui il nato possa procurarsene da sé, com’è il caso degli animali che si riproducono sotto forma di vermi e degli ovipari, men­ tre i vivipari hanno in sé stessi, come nutrimento, sufficiente ai loro nati per un certo periodo di tempo, un qualcosa della stessa natura di quello che si chiama latte. Perciò è ugualmen­ te chiaro che anche per gli esseri cresciuti bisogna estendere il suddetto principio e stabilire che le piante esistono in vista degli animali e gli altri animali in vista dell’uomo, gli ani­ mali domestici in quanto servono all’uso ed al nutrimento, e i selvatici, se non tutti, almeno per la maggior parte, in quanto servono a fornire cibo e ad altri usi, come materiale

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per vesti ed altri strumenti. Se dunque la natura non fa nulla di inutile né di imperfetto, è necessario che essa abbia fat­ to tutte queste cose in vista dell’uomo. Perciò anche l’arte del­ la guerra sarà per natura una parte dell’arte di acquisto e l’ar­ te venatoria è quella parte di essa, della quale bisogna far uso con gli animali e nei riguardi di quegli uomini che, nati ad obbedire, non si sottomettono; e questa è una guerra natu­ ralmente giusta. Una sola specie di acquisto è una parte na­ turale dell’economia: quella che si deve praticare o che ci si deve mettere in condizione di poter praticare per raccogliere i mezzi necessari ed utili alla vita ed alla comunità politica e familiare. Ed è ragionevole affermare che la vera ricchezza consiste in questi mezzi. La quantità di simili mezzi suffi­ ciente per una vita buona non è infinita, nonostante ciò che dice Solone: nessun chiaro confine di ricchezza v’è per gli uomini. Infatti un confine è stabilito in questo caso come per tutte le altre arti, dal momento che nessuno strumento di nessuna arte è illimitato per numero e per grandezza e la ricchezza è l’insieme degli strumenti economici e politici. Possiamo allo­ ra concludere che c’è un’arte di acquisto naturalmente pro­ pria degli amministratori domestici e dei politici; per quale ragione essa ci sia, è chiaro. C’è un altro modo di acquistare richezza, che giustamente è stato chiamato crematistica nel senso pregnante del termine: per essa pare che non ci sia nessun limite alla ricchezza e al­ l’acquisto della proprietà. Molti credono che sia assolutamen­ te identica con quella di cui abbiamo parlato prima, per la sua affinità con essa: in realtà, se non è identica con quella non ne è neppure troppo lontana. La prima è un modo natu­ rale per acquistare beni, la seconda no, ma deriva piuttosto dall’esperienza e dall’arte. Cominciamo di qui a trattarne. Di ogni proprietà è possibile un doppio uso, l’uno e l’altro ine­ rente alla natura dell’oggetto, ma non allo stesso modo, in quanto uno è proprio e l’altro improprio rispetto alla cosa usata, per esempio una calzatura può essere calzata o scam­ biata con altri prodotti. L ’uno e l’altro sono usi della calza­ tura, perché chi la scambia con chi ne ha bisogno, traendone denaro o nutrimento usa la calzatura in quanto calzatura, ma non ne fa un uso proprio, dal momento che essa non è stata fatta per essere scambiata. La stessa cosa accade anche per le altre proprietà. Lo scambio viene esercitato con tutti i tipi di proprietà a cominciare dai prodotti naturali dei quali al­ cuni hanno abbondanza, altri scarsezza. Dal che è chiaro che il commercio al minuto non è una parte naturale della cre­ matistica, perché in esso è necessario esercitare lo scambio prendendo come unità di misura quanto basta a sé stessi. Nella prima forma di comunità (che è la famiglia) non sussiste

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evidentemente il compito proprio dello scambio, che invece c’è nelle lorme di comunità già più estese. I membri della fa­ miglia, infatti, hanno tutte le cose in comune, quelli delle altre forme di comunità, invece, vivendo separati, posseggono gli uni molte cose diverse da quelle degli altri; e proprio di esse è necessario fare scambi, a seconda dei bisogni, come ancora fanno molti popoli barbari servendosi del baratto. Essi danno cose utili in cambio di cose utili, non andando oltre questa forma di commercio, limitandosi per esempio allo scambio di vino in cambio di grano o di altre cose del genere. Questa forma di scambio non è innaturale e non appartiene neppure alla crematistica, in quanto è volta a soddisfare le condizioni naturali dell’autosufficienza; ma logicamente da questo tipo di scambio è derivata la crematistica. Quando la soddisfazione dei bisogni ricorse a fonti straniere con l’importazione delle cose necessarie e l’esportazione delle superflue, necessaria­ mente si ricorse all’uso della moneta. Infatti non tutte le cose naturalmente necessarie erano di facile trasporto: perciò per facilitare gli scambi si convenne di dare e di accettare un qualche cosa che, avendo un valore esso stesso, possedesse il vantaggio di essere facilmente permutato per le necessità della vita, per esempio una qualche cosa di ferro o di argen­ to o anche qualche altro materiale, dapprima definito sempli­ cemente nella sua dimensione e nel suo peso, poi con l’im­ pressione di un segno, che potesse dispensare dall’effettuazio­ ne della misurazione, e che servisse da marchio indicante Tammontare del valore. Procurato il denaro, dal commercio esercitato per necessità sorse un’altra specie di crematistica, il commercio che, dapprima forse rudimentale, in seguito con l’esperienza e con accorgimenti tecnici riguardanti le origini e le modalità degli scambi, fu in grado di aumentare di molto il guadagno. Perciò pare che la crematistica concerna soprat­ tutto il denaro e che suo compito sia il poter indagare d’on­ de sia possibile acquistare abbondanza di ricchezza, quasi che essa stessa sia produttrice di ricchezza e denaro. E spesso si afferma la coincidenza della ricchezza con l’abbondanza di denaro, appunto perché al denaro mirano la crematistica ed il commercio. Talvolta, al contrario, il denaro pare una cosa vana e puro frutto di convenzione, senza un fondamento na­ turale, perché, se quelli che lo usano preferiscono una mone­ ta ad un’altra, la prima perde valore e non serve più a soddi­ sfare nessuna delle necessità della vita, e chi è ricco di dena­ ro potrà spesso mancare del nutrimento necessario. Tuttavia sarebbe una ben strana ricchezza quella, la cui ab­ bondanza non salvasse dalla morte di fame, come narrano di quel Mida il quale, con la sua esagerata preghiera, ottenne che tutte le cose che gli venivano accanto si mutassero in oro. Perciò a ragione alcuni cercano un altro tipo di ricchezza e perseguono un’altra specie di crematistica. C’è infatti un’altra crematistica ed un’altra ricchezza che sono naturali, e appar­

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tengono all’economia, mentre la crematistica innaturale si fonda sul commercio ed è produttrice di ricchezze non in sen­ so assoluto, ma solo attraverso lo scambio dei valori, dal mo­ mento che pare presupporre il denaro, che è l’elemento ed il fine dello scambio. E questo tipo di ricchezza che deriva dal­ la crematistica non ha limiti: infatti come la medicina perse­ gue il risanamento senza porsi un limite e ciascuna arte cerca indefinitamente di raggiungere il suo scopo (in quanto ognu­ na vuole soddisfarlo nella misura più alta possibile), e tut­ tavia i mezzi per il raggiungimento del fine non sono infiniti (in quanto il fine agisce esso stesso da limite), così anche in questo tipo di crematistica non c’è confine al raggiungimen­ to dello scopo, e lo scopo è il raggiungimento di questo tipo di ricchezza e l’acquisto di beni. Ma se non ce l’ha la cre­ matistica un limite ce l’ha l’economia che non si propone lo stesso scopo che è proprio della prima. Perciò da una parte sembra necessario che ogni tipo di ricchezza abbia un limi­ te, mentre in realtà avviene il contrario: infatti tutti quelli che si preoccupano di arricchire aumentano illimitatamene il loro denaro. La causa di ciò risiede nell’affinità di queste ar­ ti: infatti si passa dall’una all’altra, in quanto ad entrambe appartiene l’uso della proprietà, sebbene dall’una e dall’altra essa non venga usata allo stesso modo, in quanto l’una si propone un fine che è estraneo alla proprietà stessa e l’altra si propone solo il suo accrescimento. Perciò ad alcuni sembra che questo sia il compito dell’economia e si continua a cre­ dere che essa debba salvaguardare o aumentare all’infinito la consistenza del patrimonio pecuniario. La causa di questo at­ teggiamento è l’affaticarsi intorno a quelle cose che permet­ tono di vivere, senza preoccuparsi di vivere bene, e poiché il desiderio di affermare la propria vita non ha limiti, si desi­ derano mezzi produttivi illimitati. Ma quanti aspirano an­ che al vivere bene, cercano quanto può soddisfare i piaceri corporali e, poiché questo pare risiedere nella proprietà, si in­ dustriano in ogni modo nell’acquisto della ricchezza, dando così vita ad un’altra specie di crematistica. E poiché il piace­ re consiste in una sovrabbondanza, essi cercano i mezzi con cui produrre la sovrabbondanza che dà il piacere; e se non possono procurarsi questi mezzi con la crematistica, tenta­ no di farlo con un qualche altro espediente, valendosi di cia­ scuna delle loro capacità in modo non conforme alla natura di esse: infatti non spetta al valore produrre ricchezze, ma audacia, né all’arte della guerra o a quella medica, la prima delle quali si propone il raggiungimento della vittoria e la seconda quello della salute, ma essi ne fanno altrettante forme di crematistica, come se questo fosse il loro fine e a questo fine tutto dovesse tendere. Abbiamo dunque parlato della crematistica non necessaria dicendo in che cosa consista e per quale causa ne facciamo uso; e della crematistica neces­ saria che, in quanto diversa dalla prima, è per natura econo­

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mia e si preoccupa soprattutto di procurare i mezzi di sosten­ tamento, non essendo perciò illimitata, ma avendo un confine ben stabilito. Così si può risolvere anche il problema sollevato all’inizio, cioè se la crematistica sia parte dell’economia e della politi­ ca, rispondendo che deve fame parte: infatti come la poli­ tica non fa gli uomini ma ne fa uso prendendoli come sono dalla natura, così la natura deve dare il nutrimento per mez­ zo della terra o del mare o in qualche altro modo, e l’ammi­ nistratore della famiglia deve poi disporne nel modo dovuto. Analogamente non spetta all’arte del tessitore produrre la la­ na, ma solo l ’usarla e saper distinguere quale sia usabile ed adatta e quale scadente e inadatta. E tuttavia qualcuno po­ trebbe chiedere perché la crematistica e non la medicina do­ vrebbero essere parte dell’economia, sebbene sia necessario che i membri della famiglia siano in salute, così come che vi­ vano e che non manchino del necessario. Poiché in un certo senso spetta al capo della famiglia e all’autorità politica badare alla salute, mentre in un altro non ad essa, ma al me­ dico tocca questo compito; analogamente in un certo senso spetta al capo della famiglia procurare le cose che servono al­ la vita familiare, mentre in un altro questa mansione rientra in un’arte ausiliaria. Ma innanzitutto queste cose devono es­ sere fomite dalla natura, come si è detto prima, in quanto è compito della natura fornire all’essere generato il suo nutri­ mento, che consiste in ciò che sovrabbonda all’essere gene­ ratore. Perciò la forma naturale di crematistica è disponibile a tutti, in quanto consiste nel trarre partito dai frutti e dagli animali. Ed essendo possibili due forme di crematistica, co­ me dicemmo, l’una consistente nel commercio e l’altra perti­ nente all’economia — e quest’ultima necessaria ed approva­ ta, la prima, che consiste negli scambi, giustamente disappro­ vata, perché non è naturale, ma fondata sullo sfruttamento re­ ciproco —, ben ragionevolmente si nutre odio per l’usura, in quanto trae guadagno dal denaro stesso e non dal fine per cui esso fu escogitato: infatti esso fu prodotto per gli scambi, mentre l’usura si preoccupa soltanto di aumentarne la quan­ tità. Di qui essa ha tratto il nome con cui la si designa in gre­ co *: infatti i figli sono simili ai genitori e l’usura genera denaro da denaro; costituendo appunto per questo il più in­ naturale di tutti i modi di arricchire. Poiché abbiamo sufficientemente definito la posizione teori­ ca, bisogna analizzare l’effettivo uso fatto di queste arti. In­ fatti tutte queste cose permettono libere interpretazioni teo­ riche, ma in pratica rivelano la loro necessità. Vi sono delle parti utili della crematistica, come l’essere esperti intorno al­ le varie proprietà, cioè sapere quali siano le più utili, in quali1. In greco l’interesse e l’usura si indicano con il termine tokos che; significa anche « figlio » [N.d.C.].

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luoghi e in quali condizioni, per esempio quale acquisto sia più utile, se di cavalli, di buoi o di pecore, e così via per gli altri animali (bisogna infatti aver l’esperienza sufficiente per distinguere quali razze di animali siano più redditizie rispet­ to alle altre ed in quali luoghi richiedano di essere allevati: perché le diverse razze prosperano in luoghi diversi), poi la perizia concernente l’agricoltura, sia quella erbacea che quel­ la arborea, e l’allevamento delle api e degli altri animali ac­ quatici e volatili, dai quali è possibile trarre risorse. Queste sono le parti ed i fondamenti della crematistica in senso pro­ prio, mentre di quella fondata sugli scambi fondamento più importante è il commercio all’ingrosso il quale si divide in tre parti, la navigazione, il trasporto per terra e lo smercio, che differiscono tra loro o perché sono più sicure o perché danno maggior guadagno. In secondo luogo viene l’usura e infine il salario, che è proprio dei lavori manuali e di quelli che non richiedono una competenza tecnica, ma si giovano solo delle capacità del corpo 2. Una terza specie di crematistica sta in mezzo tra la prima e la seconda specie (in quanto ha qual­ cosa della crematistica naturale e qualcosa di quella basata sugli scambi) e consiste nell’utilizzazione di ciò che si estrae dalla terra e di ciò che nasce dalla terra e che, pur non avendo frutto, è tuttavia utile, per esempio il taglio dei boschi e lo scavo di miniere di ogni tipo. L ’arte delle miniere comprende poi molti generi, perché vi sono molte specie di prodotti estratti dalla terra attraverso le miniere.

Ancora il mare: la città dall’anima al corpo Il problema della natura del territorio della città e della sua distanza dal mare ritorna in Aristotele in relazione al tema dell’au­ tosufficienza. Ai vantaggi economici e militari di cui può godere una citta costiera, viene contrapposto il pericolo di una sua degenerazione etico-sociale. La questione si ripresenta nei termini di Platone: la prossimità al mare è vantaggiosa dal punto di vista economico, ma comporta conseguenze negative sulla qua­ lità etica della costituzione; la soluzione è ancora platonica, e consiste nel controllo politico sugli operatori economici e nella loro segregazione dal corpo della città: « la folla di persone de­ stinate ai servizi marittimi non va ad aumentare la popolazione (anche questa era una preoccupazione platonica), perché non farà mai parte della cittadinanza vera e propria ». 2. Accanto alla forma principale di crematistica, il commercio (D-MD’). Aristotele annovera il prestito a interesse (D-D’) e, del tutto ideo­ logicamente, il lavoro salariato, in cui il lavoro viene scambiato con denaro (L-D) [N.d.C.]. A ristotele, Politica VII 4-9; trad. it. di C.A. Viano, cit.

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Il progetto di padroneggiare le conseguenze negative del com­ mercio marittimo sugli equilibri della legge politica viene con­ dotto da Aristotele sulle linee tracciate da Platone, ma è radicalizzato grazie alla prospettiva dell’espulsione dal corpo della cit­ tà di larghi strati sociali, suscettibili di venir contaminati dalle pratiche « crematistiche » (non solo, come si dice nella Politica, il commercio e l’usura, ma anche il lavoro salariato). Questa prospettiva viene fondata su di un modello biologico: l’analogia fra la città e l’organismo da un lato, e, dall’altro, fra gli addetti ai servizi produttivi e commerciali e quei cibi e residui organici che, pur indispensabili alla sopravvivenza dell’organismo, non ne fanno tuttavia intrinsecamente parte. Così, attraverso la distinzione fra « le condizioni senza le quali la città non potrebbe sussistere » e « quelle che noi chiamiamo propriamente parti della città », Aristotele riproduce, nel conte­ sto di un’analogia con il mondo biologico, la condanna platonica del commercio. Disegnare la città secondo il modello di un cor­ po, di un organismo biologico, piuttosto che su quello di un’ani­ ma tripartita, sposta però il modo della condanna e la disloca­ zione, nella città aristotelica, di quell’elemento che Platone col­ locava nell’anima « concupiscibile ». Si spezza, in Aristotele, la tensione che connetteva le parti del­ l’anima, e dunque della città, in quella difficile mediazione che costituiva, propriamente, la « giustizia ». Da un lato si espelle — come un corpo espelle i suoi residui — la parte del sociale dedita alla bramosia dell’arricchimento; dall’altro la giustizia è concepita come una funzione specializzata del corpo stesso, e dunque delegata a un suo organo particolare, a un ceto in via di professionalizzazione: i magistrati, cui spetta la conduzione etica della città. I due temi di fondo del problema della polis, quello etico e quello politico, rimangono dunque in Aristotele, ma al di fuori del singolare rapporto che intrattenevano, non senza ambiguità, nel testo platonico; le loro interferenze sono, ormai, del tutto ideologiche. Occorre aggiungere che fu proprio l’amico ed esecutore testa­ mentario di Aristotele, il governatore macedone Antipatro, a rea­ lizzare in certo modo le aspettative del filosofo, privando del di­ ritto di cittadinanza lavoratori manuali, artigiani poveri, piccoli commercianti: in tutto, circa metà della popolazione ateniese, che andò a ingrossare verso la fine del IV secolo il numero dei meteci o fu obbligata all’emigrazione nelle nuove colonie asiati­ che di Alessandro Magno. 4. Fatta questa prem essa e prese in considerazione tutte le form e possibili di costituzione, incominciamo la trattazione che ancora ci resta d a com piere con il chiederci innanzitut­ to quali presupposti si debbano ammettere per la fondazione di una città che risponda al modello ideale. N on è possibile dar vita alla costituzione migliore senza condizioni adeguate, sicché bisogna supporre un certo numero di ipotesi, nessuna delle quali im possibile, con la speranza che si realizzino: es­ se possono concernere, per esem pio, il numero dei cittadini e la regione in cui la città dovrebbe sorgere. Com e anche gli altri operai, quali, per esem pio, il tessitore ed il fabbricatore

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di navi, devono disporre di una materia adatta al lavoro che vogliono fare — e quanto più essa lo è tanto meglio, necessa­ riamente, riuscirà la loro opera —, così anche il politico ed il legislatore devono avere una materia appropriata ed adatta. La prima condizione dell’attività politica è la popolazione di cui si deve determinare la quantità e la qualità naturali; al­ trettanto dicasi per il territorio per il quale deve compiersi la medesima ricerca. I più credono che la città felice debba es­ sere grande; ora, anche se ciò fosse vero, non si saprebbe an­ cora quale città sia grande e quale piccola. In genere si giu­ dica la grandezza della città dal numero dei suoi abitanti, mentre criterio più conveniente non è quello della quantità della popolazione, ma quella della sua potenza. Del resto la città ha un suo compito specifico, sicché conviene ritenere maggiore quella che è in grado di compierlo nel modo miglio­ re; così come si direbbe che Ippocrate è un medico più gran­ de e non un uomo più grande di chi avesse un corpo impo­ nente. Pertanto se come criterio di grandezza di una città si deve scegliere l’entità della popolazione, non bisogna poi compiere questo computo a casaccio (perché bisogna tener conto che probabilmente in una città c’è un alto numero di schiavi, di meteci e di stranieri), sicché bisogna comprende­ re solo quelli che appartengono propriamente alla città e ne sono vere e proprie parti. Il loro alto numero è indice signi­ ficativo della grandezza di una città, sebbene una che dia molti operai, ma pochi opliti, non possa dirsi una grande cit­ tà: perché non è una stessa cosa una città grande e una ric­ ca di abitanti. Del resto gli stessi fatti dimostrano come sia difficile, se non impossibile, dar buone leggi ad una città trop­ po popolosa. E le città che paiono avere i migliori ordinamen­ ti politici si sono sempre preoccupate — come si può vede­ re — di imporre un limite all’aumento della popolazione. Ri­ sultato cui si perviene anche con un ragionamento. La legge è un ordine e la buona legge è necessariamente un buon or­ dine che non può essere realizzato con un numero eccessivo di abitanti [...] Una città che abbia un numero troppo esi­ guo di cittadini non basterà a sé stessa (e la città deve basta­ re a se stessa), mentre quella che ne ha troppi basta sì a sé stessa per il soddisfacimento delle sue necessità, come un po­ polo, ma non è più una città, perché difficilmente potrà avere una costituzione. E, del resto, chi potrebbe mai essere il ge­ nerale di una massa così numerosa? E chi potrebbe fare l’aral­ do se non uno che avesse la voce di Stentore? Perciò la città ideale ha come sua condizione necessaria che la popolazione sia il minimo indispensabile per bastare a sé stessa in una vita prospera realizzata in una comunità politica. Può anche darsi che la città si accresca per aumento di popolazione, ma anche questo non può essere indefinito. Quale sia il limite di questo accrescimento si può facilmente constatare esami­ nando i fatti. Nella città agiscono i governanti ed i govema-

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ti; compito dei primi è il comandare ed il pronunciare giu­ dizi. Ora, per pronunciare giudizi e per distribuire cariche secondo il merito è necessario che i cittadini conoscano gli uni le qualità degli altri, perché, in caso contrario, giudizi e distribuzioni di cariche non riusciranno bene. Nell’uno e nell’altro caso non bisogna procedere improvvisando, come evidentemente si fa nelle città troppo popolose. Infine è facile per meteci e stranieri infiltrarsi in queste condizioni nella cittadinanza vera e propria, perché il gran numero di cittadini permette loro di passare inosservati. E’ chiaro allo­ ra che questo è il miglior limite che la città possa imporsi: il maggior numero di abitanti conciliabile con queste condizio­ ni: 1) che possano conoscersi reciprocamente; 2) che possano condurre una vita politica autosufficiente. E ciò può bastare per l’entità della popolazione cittadina. 5. Quasi le stesse cose si possono ripetere per il territorio. Quanto alla sua qualità tutti ammettono che esso deve esse­ re tale da assicurare nel più alto grado possibile l’autosuffi­ cienza. Ma per realizzare questa condizione deve produrre prodotti di ogni specie, perché l’autosufficienza consiste nel­ l’avere tutto e nel non avere bisogno di nulla. Quanto a gran­ dezza ed estensione il territorio deve essere tale che i suoi abitanti possano vivere senza preoccupazioni, liberamente e saggiamente. [...] Quanto alla natura del terreno, non è dif­ ficile dire (per quanto qui si debba in parte dipendere dal pa­ rere degli esperti in arte militare) che esso deve esser pieno di difficoltà per i nemici che volessero invaderlo e agevole per gli abitanti. Ciò che abbiamo detto della popolazione — che deve essere tale da poter essere abbracciata da un solo colpo d’occhio — vale anche per il territorio: e questa è la con­ dizione alla quale soltanto si può accorrere in aiuto in un qualsiasi punto di esso. Quanto alla posizione della città, se dovessimo sceglierla secondo il nostro ideale, indicheremmo quella che fosse vantaggiosa rispetto al mare ed al retroterra. Una delle condizioni della possibilità di difesa del territorio è quella che abbiamo già enunciato — cioè che un unico siste­ ma difensivo basti per tutti i suoi punti — l’altra è che esso permetta di trasportare facilmente i prodotti agricoli, il le­ gname e ogni altra materia prima di cui la regione sia ricca. 6. Il problema se la vicinanza del mare sia utile o dannosa ai buoni ordinamenti legislativi riceve risposte controverse. Alcuni sostengono che non giovino al buon ordine l’ospitare persone vissute sotto leggi diverse e l’aumento di popolazio­ ne, effetti dovuti al continuo scambio per mare di commer­ cianti numerosi; e ciò sarebbe contrario ad ogni buon ordi­ namento politico. E tuttavia non è difficile capire che, se si riuscissero ad evitare queste conseguenze, la vicinanza della città al mare sarebbe una buona condizione per il raggiun­

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gimento della sicurezza e delPabbondanza dei prodotti ne­ cessari ai bisogni immediati. Per poter sostenere le aggres­ sioni nemiche e salvarsi da esse, città e territorio devono pre­ sentare condizioni di difesa vantaggiose da entrambi i lati, per mare e per terra; quanto all’attacco contro eventuali ag­ gressori, se entrambi i lati non saranno ugualmente propizi, tuttavia uno lo sarà più dell’altro, se si posseggono entram­ bi. Dalla vicinanza del mare la città ha poi la possibilità di soddisfare una necessità fondamentale, cioè di importare quan­ to le manca e di esportare i prodotti che ha in eccesso, rea­ lizzando da questo commercio dei guadagni per sé stessa e non per gli altri. Coloro che praticano il commercio con tutti lo fanno a scopo di guadagno e la città che non voglia averne parte non deve intrattenere rapporti commerciali di questo tipo. Poiché ora vediamo che molte città e territori hanno porti e baie opportunamente situate nei rapporti con la zona cittadina, in modo tale, cioè, che non facciano parte del cen­ tro cittadino pur non essendone troppo lontani, sì da poter essere difesi dalle mura e da godere della protezione delle al­ tre opere di difesa, è evidente che, se un qualche bene deve derivare dalla vicinanza del mare, queste città ne godono, mentre, se vi fosse la possibilità di un qualche danno esse se ne potrebbero difendere facilmente stabilendo e determinan­ do con leggi le persone tra le quali possono e quelle tra le quali non possono intercorrere rapporti. Quanto alla forza navale ognuno sa che il partito migliore è che la città possegga una flotta di una certa entità, perché non basta che essa sia in grado di provvedere alla difesa e di in­ cutere timore ai nemici, per mare come per terra, in proprio favore soltanto, ma deve accomunare anche i vicini. L ’entità e la grandezza della flotta può essere determinata solo dall’e­ same delle condizioni di vita della città: se essa ha funzioni di primato politico, allora deve necessariamente avere una flotta adeguata. D ’altra parte la folla di persone destinate ai servizi marittimi non va ad. aumentare la popolazione, per­ ché non farà mai parte della cittadinanza vera e propria, mentre i soldati di marina sono degli uomini liberi e ad essi è affidato il comando ed il controllo della navigazione. Dove poi c ’è un gran numero di meteci e di contadini non manca­ no i marinai, come si vede da ciò che sta accadendo oggi in alcune città, per esempio Eraclea dove si armano molte tri­ remi sebbene essa sia una città inferiore ad altre per gran­ dezza. Possiamo così ritenere che i chiarimenti dati sul terri­ torio, sui porti, sulla posizione delle città, sul mare e sulla potenza marittima siano sufficienti. [...] 8. Come in tutti i composti naturali non sono vere e proprie parti del composto quelle senza le quali esso non potrebbe sussistere, così non si devono considerare come vere e pro­ prie parti della città o di qualche altra comunità, che costitui­

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sca un che di organicamente unitario, tutte quelle che sono ne­ cessarie alla sussistenza stessa di esse. Tutti i membri di una comunità devono partecipare in parti uguali o disuguali ad un che di comune, sia esso il cibo, il territorio o qualcos’al­ tro del genere. Quando si tratta di rapporto tra mezzi e fini tra essi non c’è nulla in comune se non la relazione per cui gli uni fanno ciò che gli altri diventano. Questo è, per esem­ pio, il rapporto che intercede tra ogni strumento di lavoro e l’operaio che lo usa: tra la casa ed il costruttore non c’è nul­ la di comune se non che la casa è il fine dell’arte del costrut­ tore. Perciò anche se l’istituzione della proprietà è condizione imprescindibile per la costituzione di una citta, non fa tutta­ via parte della città; e la proprietà comprende molti esseri animati. Ma la città è una comunità di simili che si propone come scopo il raggiungimento della miglior vita possibile. Ora, poiché la felicità è il massimo bene, e consiste nell’attua­ zione della virtù e nel godimento finale di questo stato, di es­ sa gli uomini hanno parte in modi diversi, alcuni in quantità minima ed altri addirittura non ne hanno parte; e da questo evidentemente deriva la differenza tra i varii tipi di città e la molteplicità delle costituzioni. Gli uomini perseguono la felicità in modi diversi e con mezzi disparati foggiando modi di vita diversi e diverse costituzioni. Bisogna ora cercare quante sono le condizioni senza le qua­ li la città non potrebbe sussistere, nelle quali sono compre­ se quelle che noi chiamiamo propriamente parti della città. Un’utile guida potremo trarre dall’enumerazione dei compiti della città. Innanzitutto essa deve fornire il cibo, poi favorire le arti (ché la vita ha bisogno di strumenti), in terzo luogo le armi (che sono necessarie ai membri di una comunità po­ litica e per sostenere l’autorità contro i ribelli e per rintuz­ zare le offese che possono venire da nemici esterni), in quar­ to luogo abbondanza di denaro e per gli usi interni e per le guerre, in quinto luogo, sebbene sia la prima funzione in or­ dine di importanza, il culto divino, che porta il nome di sa­ cerdozio; al sesto posto collochiamo la funzione più necessa­ ria di tutte le altre, cioè il giudizio di quali cose siano utili alla comunità e dei diritti reciproci dei cittadini. Queste dun­ que sono le funzioni di cui ogni città deve disporre, perché la città non è una massa di uomini raggruppati a casaccio, ma un qualcosa che può vivere da sé, come usiamo dire, e, se manca di qualcuna di queste prerogative, è assolutamente im­ possibile che possa ancora costituire una comunità autosuffìciente. Bisogna, perciò, che la città comprenda in sé queste funzioni: deve cioè avere un certo numero di contadini che le procurino il cibo, degli artigiani, dei guerrieri, dei com­ mercianti, dei sacerdoti e delle persone adatte alla discrimina­ zione delle cose utili per la città e alla sanzione dei diritti. 9.

Ciò posto, resta ora da vedere se tutti i cittadini debbano

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esercitare tutti questi compiti (perché potrebbe darsi che tut­ ti fossero nello stesso tempo contadini, artigiani, consiglieri e giudici) oppure se a ciascuno di essi deve essere preposta una persona specifica o, ancora, se alcuni di questi compiti spettino in proprio a persone ad hoc, mentre altri debbano necessariamente essere messi in comune. A questo problema non si può dare una soluzione che valga per tutte le costitu­ zioni. Come dicemmo, può darsi che tutti i cittadini eserci­ tino tutte le funzioni, o che invece siano ben differenziati a seconda delle funzioni che esercitano. I diversi criteri usati nella distribuzione delle funzioni costituiscono le differenze che intercorrono tra le costituzioni di vario tipo: nelle demo­ crazie tutti i cittadini hanno parte in tutte le funzioni, menre nelle oligarchie avviene il contrario. Non dobbiamo di­ menticare tuttavia che stiamo cercando la migliore costituzio­ ne, che essa è quella che è in grado di rendere una città la più felice di tutte e che ciò è impossibile, come abbiamo det­ to prima, senza la virtù. Orbene da ciò risulta che nella città che ha i migliori ordinamenti politici e che possiede cittadi­ ni giusti in senso assoluto e non solo in relazione ad un qual­ che modello limitato, non si deve praticare un ideale di vita particolare quale è quello dell’operaio o del commerciante (ché sono modelli di vita ignobili e contrari alla virtù) o di quelli che intendono praticare l’agricoltura (perché la nasci­ ta della virtù e l’esercizio delle funzioni politiche esigono li­ bertà dagli impegni di lavoro quotidiano). Ora le funzioni pertinenti alla guerra, quelle riguardanti le deliberazioni sul­ la politica della città e quelle giudiziarie paiono essere le at­ tività più importanti della città, sicché ci si può chiedere se esse debbano essere affidate alle stesse persone o distribuite tra persone diverse. Un primo elemento è subito chiaro e cioè che in un certo senso esse debbano essere affidate alle stesse persone, sebbene in un altro senso debbano essere mantenu­ te distinte come mansioni di persone diverse. In quanto que­ ste funzioni richiedono prerogative diverse, l’una l’assenna­ tezza e l’altra la forza, i loro titolari debbono essere perso­ ne diverse; ma poiché, d’altra parte, è impossibile che coloro che hanno la possibilità di esercitare la violenza e di coman­ dare si assoggettino all’autorità di qualche altra persona, biso­ gna che quelle funzioni in un qualche modo appartengano al­ le stesse persone, perché coloro che hanno in mano la forza militare hanno anche in mano i destini della costituzione. Resta ora da risolvere il problema di dare questi poteri poli­ tici alle stesse persone, ma non nello stesso tempo. Ora, na­ tura vuole che i giovani abbiano la forza ed i vecchi l’assen­ natezza, sicché è utile e giusto dividere i poteri politici tenen­ do conto di questo fatto: e si farà una distribuzione secondo il merito. Un’altra condizione è che coloro che esercitano que­ ste cariche siano proprietari, perché i cittadini debbono avere abbondanza di mezzi e questi sono cittadini. Gli operai non

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fanno propriamente parte della città così come non ne fanno parte tutti coloro che non compiono opere virtuose. Del re­ sto ciò risulta dallo stesso presupposto da cui siamo partiti: cioè che la felicità si realizza solo con la virtù e che non si può dichiarare felice una città tenendo presente soltanto una parte di essa, perché bisogna considerare la completa totali­ tà dei cittadini. Del resto è chiaro che le proprietà debbano appartenere a costoro se i contadini debbono essere schiavi o barbari perieci. Per esaminare tutte le categorie di persone che abbiamo enu­ merato dobbiamo ancora occuparci dei sacerdoti. Le mansio­ ni sacerdotali non possono essere affidate né ai contadini, né agli operai, perché è conveniente che gli dèi siano onorati da veri e proprii cittadini. D’altra parte tutta la cittadinanza è stata divisa in base a due compiti diversi, quello di prestare il servizio militare e quello di prendere parte alle sedute dei consigli deliberativi, sicché la soluzione migliore è quella di affidare il culto degli dèi alle persone gravate dall’età, che in questa funzione possono trovare un riposo. A costoro per­ tanto si devono affidare le mansioni sacerdotali. Con il che si è detto quali sono le condizioni imprescindibili per l’esistenza della città e quali sono le parti vere e proprie di essa. I contadini, gli artigiani e in genere tutti coloro che attendono ad un lavoro servile fanno parte delle condizioni necessarie all’esistenza di una città, mentre ne sono vere e proprie parti solo i guerrieri ed i consiglieri; queste funzioni possono poi essere assegnate a vita a persone diverse oppu­ re possono essere date successivamente alle stesse persone.

La città dall’utopia alla « concretezza » In Aristotele l’antropologia platonica si incontra con una ideo­ logia della natura, descritta come un sistema che è dotato in se stesso delle condizioni per la propria sopravvivenza. Ma la natura è un magazzino di risorse sufficienti alla città solo se, nel suo consumo, si rispetta l’istanza del limite, che l’antropolo­ gia definisce secondo la norma del soddisfacimento del bisogno. Se la città è l’organizzazione comunitaria della soddisfazione del bisogno, il progetto di un controllo razionale sulle condizioni della sussistenza può venir realizzato solo a condizione di tene­ re il bisogno sotto il segno del limite. Questo comporta in primo luogo un controllo politico del rapporto fra città e territorio, e del numero degli abitanti della prima. E’ l’istanza del limite come condizione della pianificazione razionale del consumo che determina la posizione aristotelica a favore della regolazione delle nascite. In questi brani il problema cruciale della città è dunque identi­ ficato nell’utilizzazione delle risorse naturali; in questa direzioA ristotele , Politica IV 6-11; trad. it. di C.A. Viano, cit.

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ne, la tripartizione platonica della città in « classi » etiche vie­ ne francamente sostituita da una nuova divisione, fra poveri e ricchi, disposta secondo una discriminante economica e orientata ad una più « concreta » ricerca di equilibrio. La polemica con Platone, in tutto il passo, dipende dalla con­ cretezza e dalla realizzabilità, nelle quali Aristotele pone la spe­ cificità del proprio discorso politico, rispetto alla valutazione che egli dà del platonismo come « utopia ». L’ideologia della concretezza dipende in Aristotele, intanto, dal nuovo stile di razionalità che egli impiega nella costruzione del­ la sua politica. L’etica perde il ruolo dominante che essa dete­ neva in Platone, facendo perdere al discorso sulla polis ogni ca­ rattere di rigida normatività; essa è sostituita dal ricorso a mo­ delli di ricerca naturalistica che fondano, appunto, la pretesa di una più tangibile concretezza. Ma ciò che si è modificato è soprattutto il profilo del soggetto e del destinatario dei due con­ trapposti discorsi sulla politica: in Platone, chi parla è il sapien­ te, che enuncia il suo « manifesto » all’indirizzo del fondatore di città e del legislatore; in Aristotele, il soggetto del discorso si cela dietro l’impersonale procedere della strumentazione con­ cettuale della « scienza », adeguata a descrivere, più che a fon­ dare, il funzionamento della città, e ad offrire al suo abitante garanzie intellettuali tali da sostituire l’effettivo esercizio del progetto e del potere politico. Si ha qui, alle soglie del mondo dei regni ellenistici, l’atto di nascita della scienza politica. 6. Quasi le stesse cose valgono anche per le Leggi, scrit­ te dopo la Repubblica: perciò sarà bene esaminare brevemen­ te anche il progetto di costituzione contenuto in esse. Del re­ sto nella Repubblica Socrate ha sviscerato fino in fondo solo un esiguo numero di questioni, quale quella della comunione delle donne e dei figli, dell’applicazione di questo sistema, della proprietà e dell’ordinamento politico della città. Qui egli divide la massa degli abitanti in due parti, l’una di con­ tadini e l’altra di guerrieri, dai quali trae poi una terza par­ te di cittadini che deliberano e governano la città, ma non stabilisce se i contadini e gli operai debbano partecipare o no a qualche carica politica, se debbano possedere armi e com­ battere insieme con gli altri cittadini o no, ammette che le donne debbano prendere parte ai combattimenti e ricevere la stessa educazione dei custodi; quanto al resto ha riempito il dialogo con discorsi estranei all’argomento e concernenti la educazione che bisogna impartire ai custodi. La maggior parte delle Leggi è dedicata ai singoli ordinamenti, mentre ben po­ co si dice intorno alla costituzione e sebbene ci sia l’intento di elaborarne una che possa essere meglio accetta alle città reali, si finisce con il riprendere a poco a poco il progetto del­ la Repubblica. Eccetto che per la comunanza delle donne e della proprietà, per il resto egli dà gli stessi ordinamenti ai due Stati: sostiene lo stesso tipo di educazione, la vita pura da ogni occupazione attinente alle necessità della vita e gli stessi ordinamenti delle mense comuni con la sola differenza

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che nelle Leggi ammette che alle mense comuni debbano par­ tecipare anche le donne e che il numero dei cittadini armati, che nella Repubblica era di mille, sia di cinquemila. Tutti i di­ scorsi di Socrate sono davvero eccellenti, acuti, nuovi, pieni di spirito di ricerca, ma difficile è raggiungere la perfezione completa. E perciò non bisogna nascondersi che anche il nu­ mero ora stabilito richiederebbe un’estensione quale quella di Babilonia o di una qualche altra regione smisurata, perché vi potessero trarre il sostentamento cinquemila cittadini sfaccen­ dati, ai quali si deve aggiungere tutto lo sciame di donne e servi molte volte più numerosi. Si formulano ipotesi su ciò che si desidera, ma non si devono formulare ipotesi assurde. Si dice che il legislatore deve stabilire le leggi badando a due cose, il territorio e gli uomini. Ma non sarebbe male aggiun­ gere che deve avere riguardo anche ai luoghi confinanti, se la città deve condurre una vita politica, perché non basta che in guerra si valga di quelle armi che sono utili sul suo pro­ prio territorio, ma deve servirsi anche di quelle che valgono sui territori stranieri. E se anche non si accettasse un ideale eroico di vita, né come regola per un privato né come regola per una città, tuttavia non verrebbe meno la necessità di es­ sere temuti dai nemici, non solo quando invadono il nostro paese, ma anche quando se ne ritirano. L ’ammontare della proprietà assegnata a ciascuno deve esse­ re riveduto e possibilmente stabilito in maniera diversa e più chiara. Infatti Platone dice che essa deve essere tanta da ba­ stare ad una vita saggia, il che vuol dire ad una vita soddi­ sfacente (questo termine è più comprensivo; del resto è pos­ sibile condurre una vita saggia, ma misera). Ma sarebbe stato meglio dire « quanto basta ad una vita saggia e liberale » (perché se questi termini vengono presi separatamente si avrà lusso o vita stentata) poiché queste sono le sole direzioni di comportamento che si possano scegliere nei confronti dell’uso della ricchezza, in quanto non è possibile, per esempio, usare la ricchezza con mitezza o con coraggio, ma solo con saggez­ za o con liberalità, sicché è necessario che gli usi della ric­ chezza ricevano queste qualificazioni. Ed è strano che chi si preoccupa di livellare le ricchezze non pensi a sistemare il numero di cittadini, ma lasci che la riproduzione resti illimi­ tata, come se bastasse la sterilità naturale dei matrimoni a mantenere invariato il loro numero, perché questo pare ora avvenire nelle nostre città. Ma questo problema non richie­ de la stessa cura nelle nostre città ed in quella platonica; ora infatti nessuno è in difficoltà poiché si dividono le ricchez­ ze in un numero qualsiasi di parti, mentre in quella città, es­ sendo le ricchezze indivisibili, i figli in soprannumero non avranno necessariamente più nulla, siano essi in molti o in pochi. Si potrebbe pensare che è più urgente porre un limi­ te alle nascite che non alle ricchezze, perché non venga gene­ rato nessuno oltre il numero stabilito; nel fissare il quale li­

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mite bisognerebbe tenere conto dei casi della sorte, per cui al­ cuni nati muoiono, e della sterilità dei matrimoni. Il lasciare libere le nascite, come avviene nella maggior parte delle città, genera necessariamente la povertà dei cittadini e la povertà provoca rivoluzioni e delitti. Fidone di Corinto, uno dei legi­ slatori più antichi, stabiliva che le famiglie e il numero dei cittadini restassero costanti, anche se i lotti assegnati all’ini­ zio non fossero uguali in grandezza; proprio il contrario vie­ ne stabilito nelle Leggi. Ma diremo più tardi quale secondo noi è la migliore sistemazione di queste cose. Un’altra mancanza delle Leggi consiste nel non aver stabilito la differenza tra i governanti ed i governati. Socrate dice che tra governanti e governati deve intercedere lo stesso rapporto che passa tra tessuto e trama dei quali l’uno deriva da una lana e l’altro dall’altra. Ma poiché egli permette che tutto il capitale sia aumentato fino al quintuplo, perché non c’è un limite anche per la proprietà terriera? E bisogna badare che la divisione delle abitazioni non finisca con l’essere un danno dell’amministrazione domestica: infatti si assegnano due case separate per ciascun cittadino, ma è difficile abitare due case. L ’ordinamento politico nel suo complesso non vorrebbe es­ sere né una democrazia né un’oligarchia, ma un qualcosa di mezzo tra queste, ciò che si chiama politici: esso infatti è co­ stituito dai cittadini che portano le armi. Se Platone nelle Leggi si propone di costruire la costituzione più comune tra quelle applicate nelle altre città, allora forse ha ragione, ma se si propone di fornire la costituzione migliore dopo quella ideale, allora non raggiunge il suo scopo; perché qualcuno sarebbe forse più disposto a concedere le sue lodi alla costi­ tuzione degli Spartani se non a qualche altra ancora più ari­ stocratica. Alcuni dunque sostengono che la costituzione migliore deve essere costituita dalla mescolanza di tutti i tipi di costituzione e perciò lodano quella degli Spartani: infatti sostengono che essa deriva dalla monarchia, dall’oligarchia e dalla democra­ zia, in quanto l’autorità regia vi costituirebbe l’elemento mo­ narchico, quella dei geronti l’elemento oligarchico e la demo­ crazia sarebbe esercitata con l’eforato in quanto gli efori pro­ vengono dal popolo; secondo altri l’eforato è una tirannide e la democrazia si esercita nelle mense comuni e nella vita di tutti i giorni. Nel trattato delle Leggi, che andiamo esaminan­ do, si dice che la forma migliore di costituzione deve essere costituita dalla democrazia e dalla tirannide, che o non si do­ vrebbero neppure considerare come forme di costituzione o per lo meno come le forme di costituzione peggiori. Migliore è il partito di quelli che intendono mescolare i varii tipi di costituzione, perché migliore è la forma di costituzione deri­ vata dalla fusione di molti tipi diversi. Inoltre pare che la costituzione platonica non abbia nulla di monarchico, ma ten­ da piuttosto al tipo oligarchico e democratico; anzi, tende più

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al primo che al secondo. Il che appare dal sistema di elezio­ ni dei magistrati, in quanto oligarchia e democrazia sorteg­ giano i magistrati tra i candidati scelti, ma 1 oligarchia co­ stringe i cittadini più ricchi a prendere parte alle assemblee, a nominare i magistrati, a sbrigare qualche altra mansione politica, mentre dispensa gli altri da questo compito e tenta di far sì che il maggior numero possibile di ricchi arrivi alle cariche politiche e che le più importanti siano occupate dai ricchi più potenti. Anche il sistema elettorale del consiglio, proposto da Platone, è oligarchico, perché tutti sono costret­ ti a votare, ma solo per i membri della prima classe, poi per un numero uguale di membri della seconda classe, infine per quelli della terza; senonché non tutti i membri della terza e della quarta classe sono obbligati a votare, ma, tra le quattro classi, solo quelli della prima e della seconda. Aggiunge poi che da questi delegati deve essere eletto un numero di consi­ glieri identico per ciascuna classe. Il maggior numero degli eletti apparterrà alle classi più ricche e sarà composto dalle persone migliori, in quanto non scelte dal popolo, non co­ stretto a votare. Che dunque questa costituzione non debba essere ritenuta come composta dalla democrazia e dalla mo­ narchia è evidente da queste considerazioni e lo sarà da quel­ le che faremo quando ci occuperemo di questa costituzione. Tutto il sistema della doppia elezione porta con sé un peri­ colo; perché se alcuni, anche in pochi, decidono di costituire un gruppo elettorale, riusciranno sempre eletti. Questo è quan­ to contiene la costituzione esposta nelle Leggi. [...] La comunità è fondata sulla solidarietà ed i nemici non vo­ gliono far la strada insieme. Una città vuol essere costituita, per quanto le è possibile, da cittadini uguali e simili tra loro e ciò accade soprattutto con cittadini che appartengano alle classi medie: perciò la città meglio governata sarà quella in cui si realizzano quelle condizioni da cui per natura deriva la possibilità della comunità cittadina. Del resto proprio la clas­ se che fonda questa possibilità, cioè la classe media, è quella la cui esistenza è garantita nella città. Infatti quelli che appar­ tengono ad essa, in quanto non sono poveri, non desiderano la condizione degli altri, né gli altri desiderano la loro, co­ me avviene per i ricchi la cui posizione è invidiata dai poveri. Perciò, quelli, non tramando contro gli altri e non essendo og­ getto di trame, passano la loro vita senza pericoli, tanto che giustamente Focilide invocava Molte cose sono ottime per la loro medietà ed in essa io vorrei essere nella città. E’ chiaro, dunque, che la miglior comunità politica è quella che si fonda sulla classe media e che le città che sono in que­ ste condizioni possono essere ben governate, quelle — di­ co — in cui la classe media è più numerosa e più potente

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delle due estreme o almeno di una di esse. Essa, infatti, le­ gandosi all’una o all’altra farà pendere la bilancia dalla sua parte ed impedirà che uno degli estremi contrari raggiunga un potere eccessivo. Perciò è una grande fortuna che i cittadini effettivi abbiano una ricchezza sufficiente e intermedia, per­ ché dove gli uni posseggono troppo e gli altri nulla si giunge alla democrazia estrema o all’oligarchia pura o alla tirannide determinata dagli eccessi degli uni o degli altri, perché la ti­ rannide sorge soprattutto dalle democrazie più recenti e dalle oligarchie; molto meno dalle forme intermedie e più vicine tra loro. Ne diremo la causa più tardi quando parleremo dei mutamenti delle costituzioni. Che la forma intermedia sia la migliore è chiaro, dal momento che essa è la più lontana dal pericolo delle rivoluzioni, perché dove la classe media è numerosa raramente avvengono complotti e rivoluzioni tra i cittadini. E per questa ragione le città grandi sono in genere le meno colpite dalla rivoluzione, cioè perché la classe media vi è numerosa. Invece nelle città piccole è facile dividere tutti i cittadini in due partiti soltanto, sicché non resti nessuna via di mezzo e tutti appartengano alla classe dei ricchi o a quella di poveri. Le democrazie sono più sicure e più dura­ ture delle oligarchie per la posizione che vi hanno gli apparte­ nenti al ceto medio, che sono più numerosi e hanno una più ampia sfera di potere nelle democrazie che nelle oligarchie; perché quando viene a mancare il ceto medio ed i poveri ac­ quistano la prevalenza numerica la vita politica si corrompe e le città cadono rapidamente in rovina. A segno di ciò valga il fatto che i migliori legislatori appartennero alla classe media: ad essa appartenne Solone (come provano le sue poesie), Li­ curgo (che non era re), Caronda e si può dire la maggior par­ te degli altri. Da ciò è chiaro perché la maggior parte delle costituzioni è democratica od oligarchica: infatti, per la scarsità della clas­ se media, prevale sempre uno degli opposti partiti, o quello dei ricchi o quello dei poveri, sicché gli uni o gli altri piega­ no il governo al loro interesse oltrepassando la giusta misu­ ra e instaurando un’oligarchia o una democrazia. Oltre a ciò, nelle rivoluzioni e nelle lotte reciproche tra popolo e ricchi, chiunque sia riuscito a soggiogare gli avversari non instaura una costituzione equa e fondata sull’uguaglianza, ma cerca di prendere il premio della vittoria acquistandosi una prevalen­ za nel governo della città: e così alcuni fondano la democra­ zia ed altri l’oligarchia. Inoltre le città che hanno esercitato l'egemonia in Grecia hanno dato la vita a varie specie di co­ stituzione badando esclusivamente al proprio tipo di gover­ no, sicché gli uni fondarono delle democrazie e gli altri del­ le oligarchie mirando non all’interesse delle città poste sotto l ’egemonia, ma al proprio interesse. Per queste ragioni la co­ stituzione media o non sorge mai o sorge raramente e presso pochi: infatti un uomo ed uno solo tra tutti quelli che ebbe-

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ro l’egemonia nelle città ebbe l’animo di elargire questa co­ stituzione L Ma già nelle città si è perso l’abito a perseguire l’uguaglianza e lo si è sostituito con la ricerca di dominio o con la rassegnazione nell’oppressione.

1. Aristotele allude probabilmente all’oligarchico moderato Teramene, che tentò senza successo di rovesciare la democrazia ateniese negli ul­ timi anni della guerra del Peloponneso.

Bibliografia

Un’altra collana Zanichelli: Letteratura e Problemi a cura di Giampaolo Borghello

Per un quadro d’insieme dei problemi della società e dell’econo­ mia antiche, insieme rigoroso e divulgativo, si veda M.I. F inley , L ’economia degli antichi e dei moderni, Laterza, Bari 1974. Mol­ to importante nello stesso senso è anche M. A u st in - P. V idal N aquet , Economies et sociétés en Grèce ancienne, Colin, Paris 1972 (contiene anche una antologia di testi e documenti). Il mito di Prometeo, i problemi del lavoro e delle tecniche so­ no trattati nell’ottimo libro di J.P. V ernant, Mito e pensiero presso i Greci, tr. it. Einaudi, Torino 1965. Sul problema del la­ voro è ormai classico il libro di B. F aruington, Lavoro intellet­ tuale e lavoro manuale nell’antica Grecia, trad. it. Feltrinelli, Mi­ lano 1953. Un quadro complessivo dei rapporti fra società, politica e ideo­ logia nell’Atene del V secolo è delineato nel saggio di D. L anza M. V egetti , L ’ideologia della città, in « Quaderni di storia » n. 2, 1975. Una presentazione suggestiva anche se molto discussa del pen­ siero politico di Platone è nel libro di K. P opper , La società aper­ ta e i suoi nemici, voi. I, trad. it. Armando Armando, Roma 1974. Sul pensiero economico di Aristotele è fondamentale il saggio di K. P olanyi, Aristotle discovers Economy, in « Trade and Mar­ ket in thè Early Empires », New York - London 1957. Per argomenti attinenti questa antologia, si segnalano inoltre le seguenti opere: G. C ambiano , Platone e le tecniche, Einaudi, Torino 1971; V. G ordon C h ilde , Il progresso nel mondo antico, trad. it. Einaudi, Torino 1949; J. H asebroek , Trade and Politics in Ancient Greece, tr. ingl. New York 1965; S.C. H u m ph reys , Economy and Society in classical Athens, in « Annali della Scuo­ la Normale Superiore di Pisa », 1-2, 1970; V. M agalhaes-Vilhe na, Progrès technique et blocage social dans la cité antique, « La Pensée », n. 102, 1969; A. M asaracchia , Solone, La Nuova Ita­ lia, Firenze 1958. Per un inquadramento storico-filosofico dei problemi e degli au­ tori presi in esame, si veda infine M. V egetti - F. A l e ssio - R. F abietti - F. P a pi , Filosofie e società, voi. I, parte I, Zanichelli, Bologna 1975.

Queste antologie di ricerca letteraria, come suggerisce il titolo della collana che le ospita, mirano a delineare il quadro dei rapporti intercorrenti fra la letteratura e singoli campi o tecniche di studio oppure fra la letteratura e certe ideologie o momenti o valori di particolare tensione culturale. Il punto di riferimento è, dunque, la letteratura, ma da questa il discorso si allarga programmaticamente affrontando questioni, di volta in volta, storiche, politiche, sociali, metodologiche; senza proporne con troppa ambizione soluzioni defi­ nitive c totali, ma semplicemente inventariando con onestà professio­ nale c segnalando con chiarezza divulgativa alcuni dei nodi, spesso interdisciplinari, che la caratterizzano nelle loro connessioni e implica­ zioni sulla, e dalla, letteratura. Ogni volume, di mole limitata, si apre con un’introduzione del curatore che rende disponibili i dati necessari a una prima delimitazione storica e teorica dell’argomento in discussione. Segue la scelta dei passi - di studiosi, critici, ricercatori, italiani e stranieri - sintetica­ mente presentati e annotati, che illuminano da diverse angolazioni alcuni aspetti del problema, restituendone una visione aperta in tutte le direzioni; infine, una breve bibliografia ragionata. La collana si rivolge sia agli studenti delle scuole medie superiori sia al più vasto pubblico dei non «addetti ai lavori» che di tali lavori, tuttavia, hanno la curiosità di conoscere i risultati; e vuole offrire un’informazione attiva o un innesco stimolante di nuove indagini o di più approfonditi dibattiti anche al di fuori di ristretti circuiti specialistici. LP 1. LP 2. LP 3. LP 4. LP 5. LP 6.

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e psicoanalisi, a cura di R. Bodei e marxismo, a cura di G. Borghello e strutturalismo, a cura di L. Rosiello e filologia, a cura di B. Basile e dialetto, a cura di G. L. Beccaria e cinema, a cura di G. P. Brunetta