Per una buona ragione 9788842096894

"La crisi del sistema democratico è oggi il terreno della battaglia politica. La nostra buona ragione risiede in un

490 120 2MB

Italian Pages 209 Year 2011

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD FILE

Polecaj historie

Per una buona ragione
 9788842096894

Citation preview

Saggi Tascabili Laterza 353

Pier Luigi Bersani

Per una buona ragione Intervista a cura di Miguel Gotor e Claudio Sardo

Editori Laterza

© 2011, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2011 www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel marzo 2011 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9689-4

Per una buona ragione

Prologo

UN SOGNO CON LE GAMBE PER CAMMINARE

D.  Onorevole Pier Luigi Bersani, forse è opportuno cominciare la nostra conversazione dalle ragioni che l’hanno convinta ad accettare l’impegno di questo libro-intervista. In un primo momento lei ci è sembrato perplesso. Per quale motivo? R.  Avevo una remora verso l’idea di scrivere un libro perché ho sempre pensato che per un politico l’umiltà di leggere dovesse prevalere sulla presunzione di scrivere. La formula dell’intervista lunga mi è sembrata una buona mediazione, e per me anche un’occasione di confronto dal momento che la conversazione è affidata al filtro delle vostre sensibilità. Ma la spinta decisiva ad accettare è venuta dalla convinzione che stiamo attraversando un passaggio cruciale della vita italiana, in cui la crisi di sistema, politica ma anche culturale e civile, si somma a una delle più gravi crisi finanziarie globali, destinata ad accelerare ulteriormente i mutamenti delle gerarchie mondiali. Una stagione italiana si sta concludendo. Aveva offerto sogni e promesso libertà: alla fine è stata drammaticamente inconcludente e ha lasciato il Paese più debole e smarrito di prima. I suoi ritardi strutturali si sono aggravati, molte energie sono state consumate, tante, troppe tensioni si sono scaricate sulle istituzioni. C’è il rischio che un vuoto di politica contagi le stesse prospettive sociali e civili e che la sfiducia prevalga ­3

sulla ricerca necessaria, vitale di una strada nuova. L’Italia dispone di grandi risorse: sociali, imprenditoriali, intellettuali, civili, etiche. E ognuno deve dare il meglio di sé per contribuire a costruire la nuova stagione. Vorrei provare a mettere a disposizione le buone idee del Pd e a trasmettere una tensione ideale senza la quale sfugge la visione di insieme, il senso di marcia. La politica ha un nesso inscindibile con il pensiero. Forse si è dimenticato che non è soltanto comunicazione. D.  Eppure molti sostengono che il principale problema del Pd stia nella sua narrazione debole, incapace di mobilitare speranze e passioni. E spesso proprio su questa base si fondano le accuse più severe, che provengono dall’interno del partito oppure da ceti tradizionalmente legati al centrosinistra. Si tratta di un problema di identità politica o di trasmissione del messaggio? R.  Si parla tanto di narrazione. Ma è una parola che non mi soddisfa. Mi riporta alle favole. Mi sembra che abbia a che fare con qualcosa di non autentico e comunque lontano dalla realtà. Preferisco restare all’antico detto rem tene, verba sequentur: se possiedi i contenuti, le parole verranno di conseguenza. Solo se le parole hanno una solidità e una base concreta, non diventeranno foglie al vento. Con ciò naturalmente non intendo sostenere che sia poco importante comunicare al meglio i propri contenuti e che il Pd o l’intero centrosinistra non abbiano qualche problema in tal senso. Questi problemi vanno affrontati con umiltà e serietà, anche se ritengo che siamo più avanti nei lavori di quanto non venga percepito. Ma la questione centrale resta quella di mobilitare le speranze e le passioni attorno a un progetto concreto per il Paese, sorretto dalla forza e dalla credibilità di quanti possono realisticamente realizzarlo. Viviamo nella società della comunicazione, ma la comunicazione non si riduce a mera tecnica persuasiva. Prima ancora è mediazione culturale, ­4

è la capacità di restituire una visione in grado di incarnarsi in un progetto. D.  Nella campagna elettorale delle primarie, lei disse che bisognava «dare un senso a questa storia». Stava parlando, appunto, di offrire una visione e un progetto al Partito democratico. Pensa che l’impresa stia riuscendo? R.  La nostra buona ragione è l’Italia. Non il partito, che certamente dobbiamo rendere più robusto e funzionale al progetto di cambiamento, ma che al fondo – lo dico da affezionato della ditta – resta uno strumento. La nostra buona ragione è il futuro del Paese e delle nuove generazioni, è l’innovazione legata ai valori di solidarietà, è una visione umanistica, capace di tenere insieme il concetto di democrazia con quello di uguaglianza. Penso che la nostra ragione si stia facendo strada. E che si percepisca il senso dei nostri sforzi: cercare una sintesi tra antiche culture riformiste che si erano a lungo contrapposte, metterle in comunicazione con nuove istanze e nuove culture, costruire un partito originale, portare in Europa la nostra esperienza, dare finalmente prospettiva e stabilità a una politica riformista che in Italia è sempre stata minoritaria. Vorrei che fosse il filo rosso della nostra conversazione, perché è tempo di pensare e costruire l’Italia oltre Berlusconi. D.  Andare «oltre Berlusconi» può diventare un orizzonte progettuale, ma anche essere solo uno slogan, destinato a rimanere un semplice auspicio. Resta il fatto che, in questi anni, gli oppositori di Berlusconi hanno assunto non pochi dei caratteri e della filosofia dominanti. Cosa pensa di questo processo? R.  Questi sono stati anni in cui abbiamo sofferto la prevalenza culturale della destra liberista e del berlusconismo. In particolare si è affermata l’idea di una politica affidata al leader, semplificata perché delegata, concepita come ­5

un’arena di tifosi, giocata al più in una ristretta oligarchia di capi. L’«uomo solo al comando» è stato lo schema e il metodo presentato come soluzione della complessa equazione italiana. Ma intanto la crescente esposizione mediatica della politica si è combinata a una gigantesca concentrazione di poteri in un solo uomo e ha finito per produrre un pericoloso esito populista e plebiscitario. Sarebbe ora un’illusione immaginare che le forze progressiste possano concepire un progetto alternativo, assumendo questi canoni come immutabili. Sarebbe un’illusione e anche una rinuncia. Il risveglio, la riscossa devono invece avere la cifra di un coinvolgimento ampio e senza deleghe in bianco, necessario per rianimare i valori civici e per rimettere in rete gli interessi sociali. Per questo bisogna anzitutto ricostruire un pensiero politico progressista e ciascuno di noi è chiamato a fare la sua parte. Un pensiero che abbia a che fare con un’idea di società legata da un destino comune: perché solo così si può accettare la parzialità dei risultati senza farsi travolgere dalla sfiducia. La politica ha bisogno di una società civile attiva, che domanda, che critica, che opera sulla base del principio di sussidiarietà, che non si contrappone ai partiti. Il progetto progressista passa oggi da una riforma repubblicana, che attualizzi i valori della nostra Costituzione e che sappia rimettere nel circuito democratico la linfa vitale del migliore spirito civico. Del resto, la riforma repubblicana è assolutamente necessaria anche per produrre quelle riforme economico-sociali che tutti invocano ma che il populismo inconcludente non può realizzare perché ne è strutturalmente incapace. I fatti lo hanno dimostrato. D.  In che misura questa visione anti-populista è condizionata da uno stato di necessità, e cioè dall’assenza di leader carismatici nel centrosinistra? Anche lei talvolta viene accusato di avere un carisma debole. R.  Se dieci naufraghi stanno in mezzo al mare, il capo non è colui che avoca a sé tutti i compiti, ma quello che ­6

offre maggiore sicurezza nel coordinare le attività di tutti. C’è sempre un’azione collettiva che dà senso e ragione a una leadership, che altrimenti rimane un guscio vuoto. Certo, c’è anche la fascinazione. Ma da sola è ingannevole e lascia poco a chi viene dopo. La concezione della leadership e del ruolo del leader è però un problema politico serio: al tempo stesso una questione istituzionale e culturale. Secondo Max Weber, che si occupò del tema, quella fascinazione, propria di alcuni capi politici dotati di buone capacità retoriche e di una forza di trascinamento, si lega spesso a una condizione di fragilità, di transitorietà e di instabilità. Non si può negare che oggi chi riveste un ruolo di vertice abbia responsabilità maggiori che nel passato, visti i ritmi sempre più veloci della comunicazione politica, ma al tempo stesso non bisogna rinunciare a collegare la leadership alla solidità di un’impresa collettiva. È questa, credo, la sfida che abbiamo di fronte: non limitare o negare la modernità della leadership, ma ricondurre il leader pro tempore alla maturazione politica di una comunità. Del resto, carisma è una parola che indica originariamente un dono di Dio a una persona. Chi se lo attribuisce come cosa propria, non è carismatico ma presuntuoso. D.  Il suo linguaggio, ricco di metafore e proverbi popolari, è giudicato in modo critico da alcuni commentatori che lo considerano troppo colloquiale o fuori moda ed è stato oggetto di una divertente satira televisiva. Ammetterà che non è consueto per un leader di partito. Come spiega lei il cosiddetto «bersanese»: è un meccanismo di difesa per resistere all’omologazione del gergo politico, o il tentativo di semplificare in modo originale il suo discorso comunque provando a collocarsi entro i canoni della comunicazione televisiva? R.  Ognuno di noi si serve di registri di linguaggio diversi a seconda del contesto in cui opera e perciò non vorrei essere inchiodato a una variante sola («il bersanese») perché mi sembrerebbe una caricatura. Facendo politica mi ­7

pongo l’obiettivo di essere capito dal maggior numero di persone possibile e cerco di esprimermi come gli italiani in carne e ossa. Aggiungo che si è trattato di un processo di crescita: all’inizio della mia attività parlavo in modo astratto e con venature filosofiche che derivavano dagli studi e dalle mie letture. Ma avvertivo un difetto, persino un’incoerenza, che mi lasciava inquieto. Del resto, mi aveva colpito la riflessione di Antonio Gramsci che individuava nel linguaggio aulico un sottile strumento di dominio, ravvisando la vera differenza tra padroni e subordinati nel numero di parole che conoscevano. Da un certo momento in poi lasciai andare il mio linguaggio verso modi più colloquiali, metafore comprese. Se vogliamo parlarne, io trovo che la metafora sia una figura retorica «democratica», che sostituisce ai termini propri o specialistici delle parole figurate più accessibili e comprensibili. Il bello e l’utile della metafora è che traspone l’intero concetto senza semplificarlo e si basa su un’intuizione immediata alla portata di tutti. Chi ha meno strumenti non deve essere costretto a ricevere un messaggio parziale e impoverito. Credo che questo sia il dovere di ogni buon politico, che altrimenti veste i panni del demagogo o del retore. D.  Quanto in questa sua ricerca di un sermo humilis c’è il tentativo di sottrarre il Partito democratico al rischio corrente di essere percepito come troppo elitario, eccessivamente legato ai valori, agli interessi e ai linguaggi della media borghesia dei centri urbani? R.  In effetti, le analisi dei nostri flussi elettorali ci dicono che incontriamo le maggiori difficoltà a comunicare il nostro progetto al cosiddetto elettorato profondo, che coincide largamente con gli strati popolari. Mi rendo conto che il mio modo di parlare possa non soddisfare una parte dei cittadini che si aspetta dal politico un linguaggio superiore al suo e con effetti speciali, ma le tantissime persone che incontro almeno un merito me lo riconoscono: quello di ­8

parlare chiaro e di farmi capire. Certo, «pettinare le bambole» potrei dirlo anche in latino ma desidero che la voce del mio partito sia pienamente compresa anche in una nuova dimensione popolare, che non è affatto di per sé una dimensione di incultura. Il modernissimo problema di ogni partito progressista è quello di non essere percepito in modo elitario, giacobino e iper-razionale, senza per questo diventare populista o vacuamente retorico. Nell’uno e nell’altro caso c’è una punta di disprezzo che la gente percepisce. Se vuoi essere un partito popolare, la gente deve piacerti davvero. Stanno in questo fondamentalmente il messaggio e l’emozione che devi trasmettere. D.  Lei è definito come un pragmatico, anzi come un «emiliano pragmatico». Una formula che probabilmente pretende di tenere insieme molti concetti, dalle sue esperienze di amministratore e di ministro nei governi dell’Ulivo fino alla considerazione che, nella storia della sinistra italiana, l’Emilia Romagna ha dato sempre le più alte percentuali di voti, ma mai un leader nazionale. Lei comunque in più occasioni ha dichiarato di rifiutare l’attributo di pragmatico: perché? R.  Questa storia dell’Emilia Romagna incapace di esprimere leader nazionali è un pregiudizio tanto diffuso quanto inconsistente. Per limitarsi al solo Pci, due storici sindaci di Bologna come Giuseppe Dozza e Renato Zangheri avevano la statura politica e culturale per essere autorevoli leader di governo e comunque hanno svolto un ruolo rilevantissimo nel partito. Ma se allarghiamo il nostro sguardo, in tempi più recenti, Romano Prodi è stato il primo presidente del Consiglio di un governo che ha visto partecipe tutta la sinistra italiana e dall’Ulivo che lui ha guidato è poi nato il Partito democratico. Tornando indietro alla storia del pensiero del centrosinistra come si possono trascurare figure emiliano-romagnole quali Andrea Costa, Camillo Prampolini, Giuseppe Dossetti? Vogliamo poi dimenticare Benigno Zaccagnini? Ma non intendo eccedere ­9

in campanilismo. Confesso che proprio non mi va giù questo modo superficiale di attribuire patenti di pragmatismo. Penso, al contrario, che proprio la storia di auto-organizzazione dell’Emilia Romagna abbia definito nel tempo una particolare forma di espressività politica e di leadership ideal-valoriale, magari talvolta persino ideologica o visionaria, comunque vincolata alla prova dei fatti, secondo un principio elementare della civiltà contadina. Il pragmatismo dà supremazia ai fatti, collocandoli prima dei valori. Invece la storia migliore dei progressisti muove da un altro paradigma: i valori devono diventare fatti, anche parziali, e lì farsi riconoscere. Non c’è esperienza di solidarietà o di crescita in comune se alle spalle manca un orizzonte ideale. Non credo sia un caso che oggi, in mezzo alla tenaglia tra l’antipolitica, da un lato, e la giusta critica per i costi eccessivi della politica dall’altro, la prima regione in Italia ad aver ridotto in misura significativa le indennità dei suoi consiglieri e ad aver soppresso il vitalizio sia stata proprio l’Emilia Romagna. Eppure è una regione ricca. Questo non è banale pragmatismo, ma la necessità di dare forme concrete ai valori che si enunciano. Vorrei provare a farlo anch’io in questa intervista, in cui parleremo dei fondamenti del pensiero politico e dell’universo di valori che ispirano il Pd, ma dove proveremo ad approfondire in special modo tre temi-chiave del nostro tempo che mi stanno particolarmente a cuore: la conoscenza, il lavoro e l’ambiente. Altro che pragmatismo! Spero di riuscire a mostrare che il nostro progetto democratico è un sogno con le gambe per camminare... Cominciamo.

I

LA DEMOCRAZIA È LIBERTÀ E UGUAGLIANZA

D.  Lei è dall’ottobre 2009 il segretario del Partito democratico, nato dall’esperienza dell’Ulivo. L’aggettivo «democratico», nella cultura occidentale, rimanda a una storia millenaria, ma questi ultimi decenni non hanno sciolto il dubbio se esso sia davvero capace di definire un’identità forte oppure se il suo carattere ecumenico finisca per indebolire il senso stesso del nuovo partito. Qual è la sua opinione? R.  Quell’aggettivo, «democratico», è il vessillo della battaglia più importante del nostro tempo. L’accelerazione del mondo globale ci pone davanti a un bivio: o la democrazia è uno squillo di tromba o diventa una resa, un’ipocrisia. Il politologo John Dunn sostiene che siamo diventati tutti democratici, proprio quando è diventato impossibile organizzare la nostra vita in modo democratico. Penso che abbia più di qualche ragione. Ma lo stesso Dunn dice anche, con un’espressione che a me piace molto, che la democrazia «è il nome di ciò che non posso avere e non posso smettere di volere». Il Partito democratico è nato anche per sfidare. Le nostre società sono segnate dal limite, spesso persino dall’impotenza delle forme tradizionali della rappresentanza e la stessa torsione populista del berlusconismo, pur con i suoi tratti di originalità, va iscritta dentro questa crisi. ­11

D.  La crisi democratica è un’evidenza globale, se non altro perché il potere finanziario prevale decisamente sulla politica e tende a svuotare la sovranità popolare. Ma evocare questa crisi non rischia di diventare un esercizio rituale e un po’ consolatorio? R.  La crisi democratica è il terreno della battaglia politica, né più né meno. Gli ultimi tre secoli sono stati dominati dalla fiducia in un avanzamento progressivo, ineludibile della democrazia. Ci sono state cadute, anche drammatiche e sanguinose. Ma le abbiamo considerate un prezzo da pagare a una storia di emancipazione. Oggi invece il dubbio sull’efficacia della democrazia si fa più radicale. Proprio mentre da più parti del mondo, a cominciare dai Paesi della sponda meridionale del Mediterraneo, l’esigenza di attivare processi democratici mobilita oggi milioni di persone. Il primo punto critico, il più evidente, riguarda la sovranità popolare, intesa nella dimensione nazionale. Una lunga tradizione di pensiero occidentale ha convenuto sul fatto che, al di là della dimensione nazionale, c’era solo una terra incognita. C’era la guerra o la pace, o poco altro. Ora il globale è entrato nella quotidianità dell’economia, della finanza, della ricerca, delle migrazioni. E la democrazia, nelle forme fin qui costruite, si mostra incapace di controllare e regolare la forza di questa globalizzazione. Peraltro, la democrazia fu inventata dai greci non per partecipare, ma anzitutto per decidere: decidere attraverso la partecipazione. Una democrazia che non è in grado di assumere decisioni rilevanti è destinata a deperire perché perde credibilità agli occhi dei cittadini. D.  Eppure la globalizzazione ha diffuso straordinarie opportunità. Di informazione, di mobilità, di conoscenza. Non crede che Internet possa diventare uno strumento per ampliare la partecipazione democratica? R.  Tutti i sistemi di comunicazione, dalla Tv a Internet, sono uno straordinario arricchimento per l’uomo, la socie­12

tà e la cultura. Ma è sbagliato pensare che possano rappresentare da soli la soluzione agli affanni della democrazia nel nostro tempo. Bisogna evitare di confondere l’informazione con la conoscenza fino a sovrapporre i due ambiti. Internet, ad esempio, è senz’altro un’immensa risorsa, che offre opportunità straordinarie e con un potenziale ancora in parte inesplorato. Ritengo, però, che sia ingenua l’idea di affidare la soluzione della crisi della democrazia rappresentativa agli strumenti della comunicazione e della globalizzazione informatica. Il grave rischio è di costruire una democrazia senza partecipazione. Il cittadino, nella sua solitudine di utente, non riesce sempre a decodificare le informazioni e a trasformarle in vera conoscenza. Se le informazioni restano nelle mani di pochi, rischia di affermarsi una democrazia «che si affida a dei custodi», come dice Giovanni Sartori. Ma affidarsi non è partecipare. Se è vero che anche la democrazia ateniese non era al riparo dalla demagogia dei capi-popolo, oggi però non può sfuggire che è la stessa tecnologia a concedere, da un lato, una libertà e a esercitare, dall’altro, un controllo. Questo non significa che non si possa sperimentare una democrazia della rete, ma è nevralgico ridurre l’asimmetria di conoscenze. Forse i partiti, in quanto associazioni volontarie, potrebbero diventare un laboratorio per mettere alla prova forme di democrazia informatica, tenendo così al riparo le istituzioni dal rischio di deformazioni non meno gravi di quelle attuali. D.  Se questo è il quadro, non le sembra troppo ardua la missione del Pd? R.  La realtà ci sta mostrando come, per via democratica e rappresentativa, si prendono sempre più curvature autoritarie o populiste. Si risponde all’inefficacia con scorciatoie illusorie. Il populismo, non solo da noi, sta diventando una tendenza, quasi una fase di sviluppo delle democrazie avanzate in Occidente. Il Pd è nato in questo contesto per ­13

alzare una bandiera, promuovere una speranza, rappresentare un impegno civico volto al cambiamento. Noi pensiamo che anche in tempi moderni si possa determinare una governance con un significativo grado di partecipazione e che si possa arginare lo svuotamento della democrazia rappresentativa riformandola. Ma per raggiungere questi obiettivi è necessario, assolutamente necessario, che la battaglia per la democrazia si connetta con quella per l’uguaglianza, anzi ne riscopra i legami profondi. C’è una reciprocità tra il grado di partecipazione democratica e l’impegno politico a ridurre la forbice sociale. La storia dei secoli scorsi ce lo insegna. È vero che la finanza ha preso il comando delle operazioni su scala mondiale progressivamente, senza guerre dichiarate, quasi senza che ce ne accorgessimo. Ma non è onnipotente. La democrazia può pretendere la regolazione dei fatti economici, può dare voce a chi è svantaggiato, può costruire i beni comuni e i servizi sociali e può contribuire alla formazione di un Pil buono. Perché il Pil, ossia la ricchezza nazionale, si può produrre attraverso un incidente stradale o costruendo un acquedotto. Dipende da noi e dalle scelte che facciamo. D.  La politica. Qualcuno l’ha data per morta, insieme con la storia. Ma al di là delle filosofie conservatrici più radicali, resta avvolta dalla sfiducia e dal sospetto. Peraltro, oltre che dalle idee e dai programmi, la politica è sempre stata sospinta dagli interessi concreti di gruppi e classi sociali. Non ritiene che anche questo radicamento stia sfumando? R.  Anzitutto sono convinto che sia destinato a crescere lo spazio per l’impegno civico, per le speranze collettive di cambiamento, per una rilevanza anche economica della solidarietà. La recente crisi finanziaria globale ha dimostrato in quale baratro ci hanno portato quelle filosofie conservatrici che pronosticavano la fine della storia e investivano sull’inessenzialità della politica. Ma non voglio sfuggire alla questione che mi è stata posta: politica e in­14

teressi possono anche entrare in contraddizione. Io voglio un Pd radicato nel lavoro, perché nel lavoro c’è tanto della vita dell’uomo e perché il lavoro diventa il valore numero uno quando ti manca. Tuttavia so bene che una persona non si riduce al lavoro. Gli interessi pesano, però non sono la sola molla dell’agire umano. Ci sono valori profondi, che motivano i nostri comportamenti nella società e che si ispirano a scelte di valore antropologico. Un partito moderno deve riuscire a stare dentro questa complessità. Se il Pd non tornasse a radicarsi negli interessi perderebbe gravità e forse non sarebbe più capace di dare una spina dorsale al suo programma. Ma il suo progetto deve tenere in equilibrio la composizione degli interessi con un’idea di società. Perché non ci può essere una politica senza un’antropologia, senza un’idea, una discussione sull’uomo, e senza una visione del mondo e della società. D.  Della necessità di una «nuova visione antropologica» a fronte della crisi del modello ultraliberista, egemone da almeno vent’anni, ha parlato anche Giovanni Bazoli. Mentre Alfredo Reichlin sostiene che la sinistra deve tornare a porsi l’obiettivo di un «nuovo umanesimo» dopo che il riformismo dall’alto si è dimostrato inefficace ad affrontare questa crisi democratica. Il filo che lega le vostre riflessioni è lo stesso? R.  Non abbiamo intenzione di costruire nuovi schemi ideologici. Sarebbe un’impresa sbagliata, oltre che inutile. Le radici di un partito come il Pd sono in un’idea solidaristica e personalistica dell’uomo, che non può non contrastare il paradigma egoistico dominante. Il modello egoistico si fonda sul primato dell’individuo isolato, portatore esclusivo di interessi e libertà private. Il modello solidale si basa invece sul primato delle persone, intese nella complessità delle loro relazioni e perciò capaci di arricchire la dimensione comunitaria. La vulnerabilità della vita indifesa, il bisogno di giustizia e libertà, la protezione ­15

degli stessi diritti individuali possono trovare una risposta efficace solo recuperando il valore del bene comune. È proprio questa visione umanistica che ci fa dire quanto siano legati tra loro i concetti di democrazia e di uguaglianza insieme con quelli di libertà dell’individuo e di dignità della persona umana. E che ci spinge continuamente a rendere inclusivi i diritti politici e civili. Credo che questa sia una delle pietre angolari del Pd. Leggendo le riflessioni di Bazoli e di Reichlin, un giurista e banchiere di formazione cattolica e un autorevole dirigente del Pci, si può toccare con mano quale rimescolamento culturale, quale osmosi costituisca oggi il retroterra valoriale del Pd. D.  Democratico è il partito di Roosevelt, Kennedy, Clinton, Obama. Non pensa che anche il modello o il mito americano abbia influito sulla nascita del Pd italiano, avvenuta nel contesto di una indubbia crisi delle socialdemocrazie europee? R.  Certamente l’esperienza del Partito democratico americano è di grande interesse per il Partito democratico italiano. Così come lo è la speranza di costruire una rete sempre più robusta di dialogo e di cooperazione tra le forze democratiche e progressiste del mondo. Non si può negare che la socialdemocrazia europea, pur con i suoi meriti, abbia subito delle smentite. Il Pd nasce non per sfuggire, ma per sfidare anche in questo campo e resta un partito europeo. Per noi «democrazia» è una parola meno leggera di quanto non lo sia per la cultura liberal americana. Il suo maggior peso è dato proprio dal rilievo sociale, dal legame con il tema dell’uguaglianza. Democrazia è libertà, ma non solo libertà. È una libertà che fa lo sforzo di qualificarsi anche come emancipazione e riduzione delle disparità sociali. Stiamo parlando della forbice dei redditi, dell’universalità dei servizi primari, dell’economia sociale di mercato. Ecco, penso che il motore dell’innovazione non possa stare solo nella spontaneità del mercato. ­16

D.  Non le pare che la questione democratica così posta non sia più risolvibile in un solo Paese, e forse neppure in un solo continente? R.  Ne sono consapevole. Per questo credo che i partiti democratici e progressisti debbono trovare al più presto le modalità e gli strumenti per condurre insieme una battaglia per alzare il livello di sovranità della democrazia. Tra G2 e G20, Fondo monetario e Nazioni Unite, bisogna porre con più forza e più concretezza il tema del governo democratico del mondo. Non può più esserci il riformismo in un Paese solo. Il riformismo presuppone, pretende la democrazia mentre oggi quasi tutte le dinamiche dominanti hanno scala globale e sfuggono spesso alle regole democratiche. Il conservatorismo invece può ripiegare sulla dimensione nazionale, usando la globalizzazione per offrire speranze di ulteriore arricchimento a pochi e per dilatare le paure per tutti gli altri, a cominciare dal ceto medio. Le paure, si badi bene, sono proprio quelle degli effetti della globalizzazione: l’immigrato, il territorio come rifugio, il futuro incerto nella competizione, la chiusura che fortifica le corporazioni. È il vantaggio competitivo dei conservatori sui riformisti, tanto più in un’Europa che, a differenza di altri continenti, avverte di avere molto da perdere o comunque da rischiare. D.  Qualcuno, anche nel suo partito, sostiene che Bersani abbia un’inclinazione «laburista» e voglia fare del Pd un «partito del lavoro» riveduto e corretto, dando a queste affermazioni un contenuto critico e passatista. Cosa risponde? R.  Che ho sempre pensato al Pd come a un partito di lavoratori e di cittadini, accomunati da valori di solidarietà, impegnati in un programma di riforme. Il tema del lavoro comunque merita un approfondimento, perché resta cruciale nella concreta presenza sociale del Pd. La considerazione e il valore del lavoro si sono profonda­17

mente trasformati nei secoli: per i greci era soprattutto fatica servile, per la Bibbia uno strumento di riscatto per l’uomo, per Pico della Mirandola e la cultura rinascimentale un modo per trasformare la natura, per la riforma protestante il portato di un’etica della predestinazione, per la società industriale un’immanenza denunciata da Marx come fattore alienante: se si libera il lavoro si libera anche l’uomo, se il lavoro è ridotto a merce allora anche l’uomo è merce. C’è stato poi il filone riformista e socialista che si è impegnato per dare dignità al lavoro e per affermare il rispetto dei diritti del lavoratore. C’è stato anche il personalismo cristiano che ha posto il tema della ricomposizione tra persona e lavoro. Nelle culture postmoderne c’è stato anche un ridimensionamento della produzione in uno spazio più limitato della vita, regalando tempo al loisir e all’otium grazie alla tecnologia, ma in questa posizione sembra riaffiorare a volte un disprezzo per il lavoro in quanto tale e comunque una sua svalutazione. Per una forza di centrosinistra sarebbe un gravissimo errore sottovalutare il lavoro, sia perché è esso stesso fattore di una compiuta cittadinanza, sia per il rilievo che il capitale umano ha nello sviluppo economico e sociale. Il lavoro deve essere messo al centro della riscossa del nostro Paese contro la rendita, le resistenze corporative e i privilegi. Quando si pronuncia la parola «lavoro», ci si accorge subito della sua densità: chi lo ha, sa bene che la vita non si riduce a questo, ma per chi non ha lavoro, è senza dubbio questa la priorità assoluta. Senza di esso una persona è dimidiata. Senza lavoro non c’è piena cittadinanza, né piena dignità della persona in quanto il lavoro non è solo produzione, ma anche rete di relazioni, dimensione psicologica, progetto e speranza: è la parte di possibilità che ciascuno di noi ha di trasformare il mondo in cui vive. D.  Democrazia del lavoro, diceva tempo fa la sinistra. Repubblica fondata sul lavoro, recita l’art. 1 della nostra ­18

Costituzione. Ma il concetto di cittadinanza non ha ormai superato per universalismo quello di lavoratore? R.  Non c’è dubbio che la cittadinanza riguardi un insieme più grande del mondo del lavoro. Ma quel che conta in un corpo sociale moderno è l’interdipendenza tra la dimensione del lavoro e quella della cittadinanza. Un’interdipendenza crescente. Una democrazia deve essere oggi capace di garantire diritti di cittadinanza sia nella fase della produzione, che in quella della riproduzione della ricchezza e del consumo. Questa interrelazione fra diritti del lavoro e diritti di cittadinanza è l’orizzonte nuovo della politica e spiega, almeno in parte, anche la progressiva estensione e il rilievo sociale di quello che chiamiamo il ceto medio. Di certo nel suo legame con il mondo del lavoro, legame che spero si rafforzi, il Pd non può farsi tentare da una visione vetero-classista. Il suo impegno per ridurre le disuguaglianze di reddito e di opportunità, per migliorare le condizioni dei ceti più poveri e disagiati, non deve essere disgiunto da un’attenzione e da una presenza rinnovata nelle classi intermedie. È questa una rappresentanza decisiva non solo sul piano elettorale, ma anche su quello dei valori di cui abbiamo parlato. D.  Il lavoro dipendente non è più maggioritario. La gran parte dei giovani entrano a fatica nel mondo del lavoro con contratti atipici o a tempo. Le professioni coprono un ventaglio ampio nella scala dei redditi. Il lavoro autonomo comprende segmenti nuovi, dall’artigiano al commerciante, all’ex dipendente che si mette in proprio, al piccolo imprenditore. È capace il Pd di promuovere, se non proprio una nuova alleanza sociale, almeno una presenza in settori fin qui ostili alle culture del centrosinistra? R.  Questa è una sfida che la società rivolge a noi. E che il Pd deve affrontare con determinazione. Oggi la barriera che ha fatto dei lavoratori dipendenti una classe a sé stan­19

te si è molto ridotta. In fondo anche l’idea democratica, nel senso dell’estensione della cittadinanza, ha posto dipendenti, lavoratori autonomi e liberi professionisti in un medesimo universo di diritti e di doveri, in una comunità dove le regole interagiscono con lo sviluppo per tutti. In questo universo condiviso, però, ci sono esigenze di regolamentazione e debolezze sociali da tutelare: questa è la radice ancora viva del diritto del lavoro. L’obiettivo è quello di un nuovo patto sociale che non può essere derubricato a un mero compromesso tra interessi difensivi e corporativi. Del resto, i conflitti non sono certo finiti. La coppia collaborazione/conflitto si è spostata piuttosto in una dimensione parziale e relativa, a fronte di un mercato globale e di regole sempre più inafferrabili che provocano un comune sentimento di incertezza. Da questa nuova realtà scaturisce la necessità per il Pd di radicare la sua rappresentanza in quella parte dei ceti medi che tradizionalmente sono stati lontani dalla sinistra. Riuscire a farlo è condizione per nutrire la sua ambizione riformista di governo. Ma l’aggettivo «democratico» resta esigente: il lavoro senza cittadinanza e senza regole è quello di Rosarno, è quello dell’imprenditore che non paga le tasse, è quello del dipendente che si sottrae ai suoi compiti. D.  Abbiamo accennato a Rosarno, città calabrese simbolo dell’immigrazione illegale e del suo sfruttamento da parte della malavita organizzata. L’immigrazione è appunto per l’idea democratica uno dei crocevia più scomodi, riserva di lavoro senza cittadinanza. È possibile parlare dei diritti degli immigrati senza subire contraccolpi in termini di consenso elettorale? R.  L’opportunismo sarebbe in questo caso un cinismo insopportabile. Se la nostra idea democratica ha una corposità maggiore perché legata al tema dell’uguaglianza, allora la cittadinanza non può non avere l’inclusività come valore. Ad esempio è assurdo, inaccettabile che i bambi­20

ni, figli di immigrati nati in Italia, non possano essere per questo cittadini italiani al pari dei loro coetanei con cui giocano e vanno a scuola. Certo, le contraddizioni della realtà pulsano anche sotto i bei discorsi. L’equilibrio va trovato nelle regole, perché senza il rispetto di regole certe si dà alimento e benzina a reazioni incontrollate e irriflesse. Diritti e doveri, dunque. E una distribuzione equa, sul piano sociale, dei disagi che inevitabilmente vengono dai fenomeni di immigrazione. D.  Torniamo così ai compiti della politica, la cui crisi strut­ turale è dimostrata anche dall’ossessiva frequenza con la quale i leader oggi consultano i mutevoli sondaggi demoscopici. Anche se lei è indicato spesso come un uomo realista, più volte ha evocato un’idea della politica come atto di volontà capace di andare oltre l’equilibrio delle forze in campo. Non teme così di allargare il divario tra le ambizioni di un centrosinistra oggi minoritario e la rappresentanza concreta degli interessi prevalenti? R.  Nella politica si sono sempre scontrate due opposte filosofie. Da un lato un filone utopico secondo il quale l’uomo era originariamente buono e libero, ma la società gli ha cucito addosso abiti e corazze che lo hanno imprigionato, per cui una rivoluzione è necessaria a ricondurlo allo stato primordiale di libertà. Dall’altro un filone realistico, che ha cercato di sottrarre la politica a una prospettiva messianica affidandole piuttosto il compito di leggere meglio la condizione umana e la convivenza fra le persone e di migliorarle. La concezione cristiana del peccato originale, sia nella visione che ne ha un credente, sia nel suo significato metaforico, mi sembra utile per risolvere questa eterna contraddizione tra utopismo e realismo. È vero, l’idea del peccato originale spesso ha dato luogo a una concezione pessimistica della politica, rinunciataria o addirittura cinica, ma quella idea può anche essere messa a fondamento di una politica che conoscendo il suo limite inevitabile veda il ­21

suo possibile riscatto. L’umanità è imperfetta, un impasto di bene e male, interessi particolari e slanci universalistici. Ma proprio per questo non è statica, può sempre superare i momenti più bui, a patto di avere buone idee senza presumere di essere onnipotenti, di possedere il monopolio della verità. In fondo è anche la percezione del limite e dell’insufficienza a metterti in guardia da esiti totalitari e a indicarti la direzione di marcia. Nessun politico può promettere il paradiso; che la condizione umana si diriga verso il meglio non è una legge storica; tuttavia è una possibilità reale sulla quale vale la pena di impegnarsi. C’è quindi un atto di volontà alla base della politica: è un atto di volontà e di libertà cercare maggiore uguaglianza, perché implica la decisione di ingaggiare una battaglia culturale e lotte concrete contro le disuguaglianze. Del resto le affermazioni che siamo tutti figli dello stesso Dio oppure che ci troviamo insieme su una palla smarrita nello spazio sono state entrambe storicamente compatibili con enormi disuguaglianze. L’uguaglianza insomma è un desiderio, l’obiettivo complesso di un grande progetto ideale la cui realizzazione non è affatto scontata né conseguita una volta per tutte. Se vuoi raggiungerlo, devi farlo con gli altri, metterti in compagnia. D.  Dunque, possiamo definire il Partito democratico come un’associazione di «volontari»? R.  Certo, un’associazione di volontari unita da un sentimento forte dell’uguale libertà e dignità degli uomini. Un’associazione che non si considera una avanguardia o una società separata, ma che vuole promuovere una democrazia più partecipata ed efficace, perfezionando quei meccanismi della rappresentanza oggi piegati dal populismo e imponendo anche a partiti e sindacati regole più rigorose e trasparenti. Un’associazione che coltiva, senza pretendere di essere autosufficiente, un progetto riformista fondato sulla convinzione che il modello solidale sia superiore, e ­22

anche più conveniente, del modello egoista. Un’associazione, infine, che ha radici negli interessi reali, che rappresenta parti significative del lavoro e della produzione, e che spinge per allargare gli orizzonti della cittadinanza e dello sviluppo, consapevole che più si amplia la base dell’economia reale minori diventano i rischi delle bolle speculative e delle crisi, cioè delle mannaie che si abbattono periodicamente sulle classi più povere e sui ceti medi. D.  Quanto è grande il rischio che il populismo vinca la sua battaglia anche all’interno della sinistra? R.  Il populismo è anche a sinistra, nella forma di una cultura o di una tentazione. Non si può minimizzare. La vena utopica della sinistra rousseauiana si è innestata nel tempo in vari ceppi producendo, talvolta, persino ibridi congeniali al potere dominante. Il populismo ha bisogno di nemici. Spesso il nemico del populismo di sinistra sono diventati i riformisti, le loro politiche o le loro forme organizzative. Ma stiamo parlando di fenomeni minoritari nel popolo del centrosinistra, benché il vento dell’antipolitica abbia soffiato a loro favore in questi tempi. Il tema è ora l’energia, la combattività, la capacità del riformismo di offrire una realistica alternativa di governo. Fermo restando, però, che non si può ridurre tutto al programma. L’atto di volontà deve combinarsi con la razionalità, il valore deve stare accanto all’interesse. Democrazia e uguaglianza. Questo è il riformismo: valori che pretendono in qualche modo di diventare fatti. D.  Rispetto alle convinzioni che hanno prevalso negli ultimi anni sembra difficile riproporre la parola uguaglianza anche soltanto nel significato di una riduzione della forbice dei redditi. R.  Tanto più dopo la crisi, ridurre la disparità di reddito è una necessità per un Paese come il nostro. Almeno se ­23

vuole ricominciare a crescere. Se si concentra la ricchezza nel 10% della popolazione, non succederà che queste persone si metteranno a mangiare dieci volte al giorno. La ruota deve girare in modo da far stare meglio tutti. D’altra parte, lo stesso vale anche su scala globale: non è immaginabile che ci sia una parte di mondo che produce ed esporta e un’altra che consuma e si indebita. Serve equilibrio. Il pensiero riformista offre oggi contenuti di realismo che altrove non ci sono.

II

QUEL TANTO DI ANARCHICO CHE È IN ME

D.  Lei, onorevole Bersani, ha sempre protetto la sfera personale con un filtro di riservatezza e poco si conosce degli anni della sua formazione e delle ragioni che l’hanno portata all’impegno politico. Era studente nel ’68 ed entrò nel Pci nei tormentati anni Settanta. Ma, se permette, potremmo cominciare la storia dalla sua famiglia e dal suo paese. R.  Si sarà capito che l’eccesso di personalizzazione nella politica mi infastidisce. Dirò ciò che potrà essere utile a dare ragione delle mie convinzioni di oggi e a farle comprendere meglio. Nasco nel ’51 in un piccolo paese dell’Appennino piacentino, Bettola. Se hai voglia di pensare, in una realtà così periferica, l’universalismo ti arriva in testa per forza. Un paese politicamente molto bianco e di tradizione antifascista. Famiglia di artigiani: officina meccanica e pompa di benzina. Ci si lavorava un po’ tutti, anche io e mio fratello nel tempo libero dalla scuola. Ambiente cattolico, con la mamma che teneva il senso e le regole. Mio padre e suo fratello erano soci, gestivano entrate e spese su un blocchetto che conservavano in tasca. A fine settimana le mogli facevano i conti e dividevano a metà, nella totale fiducia e senza mai una lite, per quarant’anni: questa onestà era l’aria che respiravo. D.  Ha avuto un’educazione cattolica? ­25

R.  Certo. È in parrocchia che ho cominciato a capire com’ero. Mi interessava, confusamente, comprendere se la fede fosse un dovere o un dono. Organizzai persino uno sciopero di chierichetti, che mi procurò grossi guai in casa. Un giorno chiesi al parroco, don Vincenzo, se fosse vero che per andare a lavorare all’Agip ci volesse la sua garanzia: mi accorgevo che al paese i comunisti facevano i muratori e gli operai, e gli altri andavano all’Agip o all’Enel. Con queste premesse, come avrei potuto nel futuro diventare statalista? Quanto a quel carissimo parroco, il giorno che diventai ministro suonò le campane della chiesa. D.  Ci tolga almeno la curiosità riguardo a questo sciopero dei chierichetti. Cosa avvenne? R.  In occasione delle cerimonie più importanti, battesimi e matrimoni, le famiglie lasciavano la mancia ai chierichetti ma, siccome noi ragazzi non maneggiavamo soldi, il parroco li sequestrava e poi ci regalava dolci e torroni a Pasqua e Natale. Non mi sembrava giusto. Così una sera di maggio, durante la funzione mariana, insieme agli altri chierichetti lasciammo il nostro posto, ci svestimmo di tonaca e cotta in sacrestia e, tra lo stupore dei presenti, andammo a sederci in fondo alla chiesa. Il giorno dopo don Vincenzo parlò con mia madre: non era arrabbiato, si chiedeva piuttosto se avesse sbagliato qualcosa. Mia madre invece non la prese bene e mi fece passare un brutto quarto d’ora. Da quel giorno, a ogni buon conto, si cambiò sistema: il Natale successivo il parroco distribuì ai ragazzi in parti uguali le mance dell’anno. Imponendo una condizione: le mamme dovevano conoscere la cifra esatta. D.  Lei frequentò il liceo classico a Piacenza. Il vento del ’68 soffiò proprio in quegli anni: quanto ha inciso quella stagione nella sua formazione? ­26

R.  Il liceo Melchiorre Gioia è stato per me, insieme con la famiglia e con la parrocchia, l’altra grande agenzia formativa. Per andare a Piacenza con la corriera mi alzavo alle 6 e 20. Avevo professori molto preparati, per lo più conservatori. Con i miei compagni crescevo, sentivo la radio, ascoltavo la musica. Al primo impatto scoprii di conoscere meglio di loro la metrica ma di non sapere bene come funzionavano i semafori, che a Bettola non c’erano. Eppure non fu scontato l’approdo in quella scuola. Al paese i licea‑ li erano uno o due e fu la preside delle medie a convincere i miei. A casa i soldi per studiare c’erano, ma mio padre aveva l’ansia del lavoro e pensava che l’istituto tecnico gli avrebbe restituito in poco tempo due figli capaci di rilevare l’officina. Mia madre però si impose e mio fratello aprì la strada del liceo classico. Poi è diventato medico chirurgo, vincendo il concorso in Lombardia. Avrebbe potuto trasferirsi in seguito in Emilia Romagna, ma non ha mai fatto domanda per non creare problemi a me che intanto ero diventato amministratore regionale. D.  Il suo ’68 fu di contestazione? Ripensando a quegli anni è d’accordo con chi sostiene che quel movimento ebbe, nonostante una cultura politica di sinistra e una grande partecipazione collettiva, una preponderante radice individualista? R.  Al contrario, per me fu il passaggio dall’individuale al collettivo, dal particolare al desiderio di un cambiamento per tanti. Il vento allora soffiava in quella direzione. La circolare Sullo del gennaio ’69, che per la prima volta concesse l’assemblea a scuola, mi trovò che ero già rappresentante di classe. Facevo il secondo liceo e toccò a me preparare la bozza del regolamento e mettere ai voti la norma che impediva ai professori di intervenire in assemblea. La vera contestazione comunque iniziò poco dopo. Una volta feci lo sciopero da solo: dal portone della scuola la professoressa di latino e greco richiamò tutti, uno a uno, ­27

ma io non entrai. La mattina dopo mi chiese la giustificazione e risposi che non l’avevo perché avevo fatto sciopero. Apriti cielo! Ricordo che la sfuriata cominciò con lo sfottò: «Sciopero? Ma lo sapevate, ragazzini, che ieri c’era sciopero?». Qualcuno, però, scrisse di nascosto sulla lavagna: viva Bersani! La passione per la politica cominciò così, animando le discussioni a scuola, organizzando l’autogestione, i cortei, i contatti con gli altri istituti della città. Ancora non c’erano partiti nella mia vita, ma su «la Libertà», giornale piacentino, talvolta comparve il mio nome e giunse anche a Bettola la voce che ero una «testa calda». La professoressa di latino e greco diceva a mia madre: «È bravo ma così si rovinerà». E questo alzava la tensione a casa. Gli otto e i nove in pagella per fortuna tennero in piedi un compromesso con la famiglia. D.  Perché scelse la facoltà di filosofia?E perché, partendo da Piacenza, preferì l’università di Bologna a quella di Milano? Cercava gli studi o la «rivoluzione»? R.  La filosofia è stata una scelta di libertà. La libertà di intraprendere studi e letture senza subordinarli a obiettivi di lavoro. La scelta di Bologna fu invece una sfida con me stesso: cambiare e ricominciare, senza calcoli. Altre volte nella vita mi è poi capitato di ripartire da zero, di rimettere tutto in discussione. I miei compagni del liceo si trasferirono in maggioranza a Milano. Per me, che venivo dalla periferia, Bologna e l’Emilia Romagna sono sempre stati un’intenzione più che un’appartenenza. E il voler bene all’Emilia Romagna non mi ha impedito di mantenere uno sguardo dal di fuori. Certo, all’università crebbe la mia partecipazione al movimento degli studenti. Il comunismo mi attraeva per la sua idea egualitaria, ma approfondivo i filoni critici e le testimonianze delle persone tradite dal comunismo, come ad esempio Trotskij. Nella mia testa l’Unione Sovietica è stata sempre sinonimo di oppressione. Può darsi che un po’ abbia influito l’anticomunismo familiare. Nel ’96, appena ­28

diventato ministro, Fabrizio De Andrè venne a Piacenza per un concerto e lo incontrai. Mi disse: «Ti ho visto in Tv, mi piaci perché non sembri uno che gliene importa molto». Gli risposi: «Quel tanto di anarchico che è in me, lo devo alle tue canzoni». Ancora adesso, quando qualcuno mi dà del burocrate, lo lascio dire e mi faccio due risate tra me e me. A Bologna fui uno dei fondatori di «Avanguardia operaia»: promuovevo incontri, facevo il portavoce, distribuivo volantini. Contestavo il Pci da sinistra ma quell’impianto strutturalmente minoritario mi lasciava un senso di impotenza. Nel ’72 maturai un cambiamento. Era arrivato il tempo di decidere: se la politica era una cosa seria, allora bisognava farla seriamente, insieme agli altri, mettendo in conto le diversità di opinione, ma partecipando a una forza capace di incidere davvero. Fare sul serio, voleva dire anche fare il Pci a Bettola. Quando andai dal segretario di sezione, un muratore appunto, a chiedergli la tessera, mi rispose che l’aveva già fatta da un anno a mia insaputa. L’iscrizione al Pci mi costò rapporti più tesi in casa. Nel ’74 mi presi la prima, vera soddisfazione a Bettola: anche lì il risultato del referendum sul divorzio registrò una larga propensione dell’elettorato cattolico verso il No. Per il servizio militare, però, fui spedito a Macomer, provincia di Nuoro: destinazione punitiva, credo, su segnalazione del maresciallo dei carabinieri del paese. D.  Quando ha conosciuto sua moglie? R.  Daniela viveva anche lei a Bettola. Ma dall’altra parte del fiume che attraversa il paese. Cercare la morosa di là del ponte fu, a suo modo, una piccola prova di ardimento. Abbiamo cominciato a 18 anni e non ho mai avuto occasione di pentirmi. Quando il lavoro mi ha portato a Roma, lei ha preferito restare con il suo lavoro di farmacista dipendente a Piacenza. Abbiamo due figlie, Elisa che è fresca di laurea in storia medievale e Margherita che sta ultimando il liceo scientifico. ­29

D.  Anche in famiglia quindi qualcuno ha seguito le orme paterne degli studi medievisti. Ma cosa le è rimasto delle letture filosofiche? Le sono tornate utili nella successiva esperienza politica? R.  Ho studiato filosofia medievale e storia del cristianesimo mentre cresceva in me la passione politica. Possono sembrare interessi contrastanti. Ma la vita non è monotematica o unidirezionale: ho sempre evitato di chiudermi in una sola dimensione. Gli studi danno una riserva critica e allungano il respiro. La storia e la filosofia sono lo scaffale più grande che abbiamo nella nostra testa, dove sistemare quel che è successo e quel che è successo che l’umanità pensasse. Peraltro, la politica è una grande parafrasi della teologia. Per fare una schematico esempio: la teologia che afferma che il bene è bene perché lo vuole Dio, in fondo, è una chiave del modello autoritario, mentre invece quella che descrive Dio come buono perché vuole il bene ha a che fare con i modelli contrattualistici, quindi con la democrazia. Feci la tesi di laurea su «Grazia e autonomia umana nella prospettiva ecclesiologica di san Gregorio Magno». Gregorio fu un papa straordinario, che ristrutturò la Chiesa dando a Roma quel primato che prima non aveva, che fu capace di una grande predicazione popolare e che, non ultimo, salvò l’Italia dall’invasione dei Longobardi. Era agostiniano e non sconfessò mai l’idea della predestinazione. Anche se la sua vita fu segnata da cruciali decisioni, che hanno plasmato la storia. Restando nella parafrasi: ho sempre pensato che la grazia presupponga la libertà e non la predestinazione. E questo rovello mi è rimasto dentro perché, credo, riguardi l’insaziabile desiderio di senso, o forse la riserva a cui attingere per riaffermare l’umanità dell’uomo oltre ogni forma di condizionamento. D.  Lei crede in Dio? R.  Potrei rispondere che questa è la più classica delle domande premature. Preferisco, però, fare mia una citazione ­30

di Albert Camus: «Non credo, ma considero l’irreligiosità la più grande forma di volgarità». D.  Riprendendo il filo della sua storia, intanto, negli anni Settanta il militante Bersani diventa presto un dirigente del Pci piacentino ed emiliano-romagnolo. R.  Il ’75 è l’anno della laurea e della mia prima elezione al consiglio comunale di Bettola. Dal comune, ovviamente, non prendevo una lira e così per un paio d’anni ho girato come insegnante supplente in varie scuole, medie e superiori, lavorando anche in un istituto privato. Ho cominciato a frequentare la federazione del Pci di Piacenza, che aveva meno iscritti di un quartiere di Bologna ma stava arrivando pure lì la nuova ondata proveniente dai movimenti studenteschi. Ho avuto la fortuna di incrociare la linea di Enrico Berlinguer, che disse ai giovani: «Venite dentro e cambiateci». Un giorno il segretario della federazione mi propose di fare il funzionario. L’offerta mi colse di sorpresa, ebbi timore, ma dissi di sì: la politica per me non è mai stata tutto, ma l’avrei fatta comunque. Cominciando a lavorare a tempo pieno nel Pci, le responsabilità aumentarono. Gli stipendi invece arrivavano con intermittenza e talvolta erano decurtati. L’amministratore mi spiegò che, nonostante tutto, mi avrebbe sempre versato i giusti contributi. D.  Che scuola fu il Pci di quegli anni per lei? R.  Anzitutto una scuola di umiltà. Il rigore morale era assoluto: non si scherzava su questo. Lo imponevano norme non scritte e lo esigeva la base. Mi piaceva questo rigore, che diventava misura di un impegno altruistico. E poi c’era gente vera nelle sezioni. Che dava molto e per questo chiedeva ai dirigenti altrettanto. Ti venivano ad ascoltare in sezione: ma se poi non li aiutavi a montare la festa dell’Unità, se non ti rimboccavi le maniche, ti guardavano ­31

male, con disonore. La formazione della classe dirigente comprendeva pure la scuola vera e propria. Appena accettai di fare il funzionario, mi mandarono ad Albinea, provincia di Reggio Emilia, per un corso di quindici giorni. In quell’occasione conobbi Maurizio Migliavacca, anche lui della provincia di Piacenza, di Fiorenzuola d’Arda. Ci incontrammo sul treno. Poi entrammo insieme nella segreteria della federazione: la nuova generazione fu subito sperimentata in posti di comando, anche perché tra il ’75 e il ’76, per la prima volta, il Pci vinse sia il comune di Piacenza che la provincia e diversi dirigenti vennero chiamati a cariche pubbliche di governo. D.  Le responsabilità di governo arrivarono presto. Ci vuole ricordare le sue prime prove? R.  Il mio primo impegno è del ’78: vicepresidente della comunità montana di Bobbio. Il primo impatto con la soluzione concreta dei problemi. Intanto da componente della segreteria provinciale cominciavo anche a frequentare Bologna per le riunioni regionali. Qualcuno notò questo giovane di Piacenza, che veniva dall’università e che ora si dava da fare nel partito. Non nascondevo allora il mio spirito critico verso il compromesso storico. Tuttavia il Pci cercava sempre di andare oltre i suoi confini: questa è stata una delle ragioni della sua supremazia culturale nella sinistra italiana. In Emilia il comitato regionale del partito era in mano ai modenesi, visto che Bologna esprimeva il presidente della regione. I modenesi nel Pci sono stati storicamente gli interpreti del contado, cioè delle federazioni minori. Erano loro, forti di una federazione con tantissimi iscritti, a comporre gli equilibri tra Bologna e gli altri. Nel ’78 il segretario regionale Luciano Guerzoni, modenese, mi propose di fare il presidente dell’Arci. Aveva già avviato una piccola consultazione: dunque, era quasi impossibile dire di no al segretario. Invece rifiutai. Non era nelle mie corde. E con Guerzoni concordammo che sarebbe stato ­32

motivato con ragioni strettamente personali. Poi, due anni più tardi, fu lui stesso a propormi per il consiglio regionale. Non facevo parte di cordate, ma bisognava pure dare una mano a una piccola federazione come Piacenza. D.  A proposito di questioni personali: a quel punto il suo impegno politico era stato accettato in famiglia? R.  I miei si rassegnarono, ma non erano contenti. Certo, rispetto allo shock della mia candidatura con il Pci a Bettola, le tensioni si sono via via sopite con il crescere delle responsabilità in regione, da assessore fino a presidente. Con mia madre comunque le discussioni non sono mai finite. Lei aveva la quinta elementare ma è sempre stata un osso duro. Ricordo il tema più ricorrente: alcune persone le chiedevano di intercedere presso di me per ottenere qualche aiuto in regione e mia madre prendeva le loro parti. Se ognuno facesse qualcosa nel senso della solidarietà, diceva, il mondo sarebbe migliore. Rispondevo che se avessi privilegiato alcuni, solo perché si erano rivolti alla nostra famiglia, avrei commesso un’ingiustizia. Trovammo un compromesso: di fronte a casi di indigenza estrema o di grave menomazione fisica, allora bisognava fare il possibile e presto. Tutto il resto no. E mi sono sempre regolato così. Ma la vera, piena riconciliazione familiare avvenne più tardi, nel ’96 con l’Ulivo. È stato Romano Prodi a chiudere per sempre il ciclo dei contrasti politici in casa. D.  Ci sono libri o film che, nella sua formazione, hanno segnato momenti di svolta o comunque passaggi importanti? R.  Fatico a scegliere un solo libro o un solo film. Invece, se dovessi indicare un autore che più di altri ha scavato dentro l’uomo e che mi ha restituito nella lettura una voglia di continuare a cercare nella complessità dei sentimenti, questo è Fëdor Dostoevskij. Anche i registi che mi piacciono di più sono quelli che provano a raccontare gli ­33

uomini, senza classificarli in buoni o cattivi. Tra questi Sam Peckinpah, Akira Kurosawa e Clint Eastwood. Ricordo il film di Peckinpah nel quale uno scostumato predicatore pronuncia una memorabile orazione funebre: «Non si può dire che fosse un uomo buono, non si può dire che fosse cattivo, ma era un uomo». D.  Il suo cursus honorum è stato molto accelerato. Nel 1980, a soli 29 anni, appena eletto nel consiglio regionale dell’Emilia Romagna, divenne assessore. Qual è stata la chiave della sua ascesa in una regione, dove certo il Pci non improvvisava la scelta dei propri dirigenti? R.  Un fattore casuale giocò a mio favore. Nel 1980, causa il contrasto con i socialisti, la legislatura regionale cominciò con un monocolore comunista. I posti di assessore divennero per il Pci più del previsto e fu deciso di darne uno anche a Piacenza. Ricordo che fu una segretaria del gruppo a dirmi per prima che sarei entrato al governo, io neppure lo immaginavo. Venni messo alla prova: il Pci era un partito che sperimentava. La mia prima delega fu ai servizi sociali: settore dove gli assessori provinciali e comunali erano quasi tutti donne. Quando scoppiò la bomba alla stazione di Bologna fui tra i primi ad arrivare sul luogo della tragedia: era il 2 agosto, il sindaco Renato Zangheri si trovava in Russia e anche la regione era sguarnita. Nelle primissime ore tenni i contatti con la macchina dei soccorsi e con i vertici della Stato. Un grande apprezzamento pubblico ebbe poi l’efficienza degli aiuti regionali alle popolazioni colpite dal terremoto in Irpinia e Basilicata, sempre nel 1980. L’Emilia Romagna si prese in carico la provincia di Potenza e nei comuni colpiti le carovane del mio assessorato arrivarono prima degli uomini e dei mezzi della prefettura di Potenza. Nel Pci venivano tenute in gran conto le capacità organizzative. Ma le esperienze di governo – nei diversi assessorati, alla vicepresidenza e alla presidenza regionale, nel ruolo di ministro – mi hanno tut­34

te insegnato che non basta il pragmatismo per governare. Anzi, che il carburante per governare sono le intenzioni, i valori, le idee che si vogliono tradurre nei fatti. Senza questa benzina, non c’è autonomia e coraggio per fare le cose e si resta in balia di altre forze. D.  Onorevole Bersani, in cosa consiste il «modello emiliano»? Lei se ne sente interprete? Se per tanti anni il governo dell’Emilia Romagna è stato il vessillo del Pci, la sua credenziale riformista, l’anticipazione di un nuovo blocco sociale, non crede che anche nell’eredità ulivista di Prodi, quella che lei vuole raccogliere, ci sia qualcosa di quell’impronta e di quella cultura? R.  Amo l’Emilia Romagna, ma la mitologia del «modello» non mi ha mai convinto. Anzi, mi sono affermato in Emilia Romagna mettendo a critica l’impostazione modellistica ed evitando sempre di pronunciare la formula «modello emiliano». Il Pci aveva bisogno di dimostrare agli italiani la sua distanza dall’Est europeo e voleva proporre un patto alla borghesia, appunto «come in Emilia». Tuttavia rievocare quella formula rischiava di incoraggiare un riflesso di conservazione, teso più a sottolineare le acquisizioni del passato che i problemi e le sfide nuove. Piuttosto le buone cose fatte dovevano indurci a riprodurre quei valori nella modernità, aprendoci criticamente alle cose nuove. Quando nel ’99 perdemmo il comune di Bologna, la causa fu precisamente un riflesso di conservazione e di chiusura. Governare vuol dire cambiare. Chi governa deve chiedersi ogni mattina: cosa cambiamo oggi? Il contrario esatto del berlusconismo che nega i problemi. Chi governa ha la postazione migliore per dire le cose che non vanno e deve cercare la sintonia con i cittadini dimostrando anzitutto che comprende i loro problemi. Ciò che più ho ammirato in Romano Prodi è stato il suo coraggio di uomo di governo. Faceva le sue mediazioni, ma quando selezionava l’obiettivo aveva un coraggio dell’innovazione ­35

che non è frequente in politica. Gli portavo cosucce tipo l’abolizione dalla sera alla mattina delle licenze del piccolo commercio o lo spezzatino dell’Enel e lui non si spaventava. L’ultima prova l’ho avuta nel 2006 con le lenzuolate delle liberalizzazioni: se il cambiamento è giusto, bisogna affrontare a testa alta rischi e resistenze. D.  Nel ’96 fu Prodi a chiamarla nel suo primo governo come ministro dell’Industria. Come maturò la scelta di Bersani? Fece premio la competenza tecnica del presidente regionale o l’impresa politica di aver costruito in Emilia Romagna uno dei primi laboratori dell’Ulivo? R.  Quelli furono anni di grande cambiamento, in cui la sinistra ritrovò la sua funzione nazionale. La costruzione del centrosinistra è stata la premessa dell’Ulivo prima e del Pd poi. Fui eletto presidente della regione nel ’94, prendendo il posto del socialista Enrico Boselli. Silvio Berlusconi vinse le elezioni di lì a poco e mi presentai subito in consiglio regionale, indicando senza diplomazie un percorso di convergenza a tutte le forze disposte a costruire un’alternativa al nuovo centrodestra. A Roma il centrosinistra stava ancora maturando dopo la sconfitta dei Progressisti: io, guardando alle imminenti regionali del ’95, mi rivolsi anzitutto al Partito popolare italiano (Ppi) e battezzai la nostra alleanza «Progetto democratico». Credo di essere stato il primo a usare l’aggettivo «democratico» in una grande competizione elettorale: ci presentammo insieme, il Partito democratico della sinistra (Pds), i popolari, i repubblicani, i socialisti e i verdi. Un «Ulivone» che precedette l’Ulivo, che portò ad un grande successo in Emilia Romagna e contribuì a comporre quel quadro nel quale poi l’Ulivo nacque per davvero. Non so poi l’anno dopo chi fece il mio nome come possibile ministro. Penso che sia stato Mauro Zani, bolognese, allora coordinatore della segreteria del Pds. Massimo D’Alema fu il primo a chiamarmi al telefono: «Ma tu sei capace di fare il ministro?» ­36

mi disse. «Questo è un giudizio che lascio a te» risposi. Non so se Prodi abbia spinto sul mio nome, oppure si sia limitato ad attendere che il Pds lo proponesse. Sono sicuro però che, tra i possibili candidati emiliano-romagnoli, ero il preferito di Prodi. Con lui avevo un rapporto di stima e simpatia. Anche di lavoro: mi diede ad esempio delle idee quando si trattò di cancellare decine di enti regionali. Ma con Romano, fino al ’96, mi ero trovato a ragionare più di società che di politica. D.  I primi anni Novanta furono un periodo assai travagliato per la sinistra italiana di matrice comunista. In poco tempo il Pci venne sciolto e il neonato Pds passò per la bufera di Tangentopoli, per i referendum elettorali, per il trionfo di Berlusconi, e approdò addirittura al governo: era la prima volta dopo la stagione del Cnl e della Costituente. Come si schierò Bersani in questi passaggi cruciali? R.  Confesso che la Bolognina fu un trauma per me come per tutto il nostro popolo, e tuttavia un trauma atteso e sperato. Dobbiamo inchinarci al gesto visionario di Achille Occhetto. Da anni pensavo che stavamo andando contro un muro e che cambiare strada era quasi impossibile. Ci voleva qualcuno che rovesciasse il tavolo. Occhetto lo fece. È vero, poi siamo entrati in uno stato di confusione e in una dimensione di indeterminatezza. Abbiamo commesso errori politici e dopo il ’94 il cambio alla guida del partito era necessario. Nella famosa sfida D’AlemaVeltroni per la segreteria votai D’Alema ma, fosse stato per me, avrei preferito una terza persona da cercare tutti insieme. Poi comunque la barra si è addrizzata. Ci siamo messi decisamente in marcia in direzione del centrosinistra e dell’Ulivo. E la vittoria del ’96 contro Berlusconi e la Lega ha aperto una pagina della storia nazionale di cui dobbiamo essere fieri: l’ingresso nell’euro ancora oggi è un’ancora di salvezza per il nostro Paese. ­37

D.  A quali ricordi di quegli anni di governo è particolarmente affezionato? R.  Il rapporto di amicizia e di stima di cui Carlo Azeglio Ciampi mi ha onorato. Per me era un’autorità, a cui mi avvicinavo con deferenza. Ciampi invece teneva ai miei giudizi, faceva spesso appello alla mia concreta esperienza di amministratore. Ricordo i mesi difficili, a tratti drammatici, del nostro avvicinamento all’euro, quando Ciampi giocò tutto il suo prestigio per convincere i nostri partner, la Germania anzitutto, della serietà e dell’affidabilità dei nostri programmi. Ricordo che mi mandò in Germania per spiegare la liberalizzazione del commercio: una riforma di struttura che da quelle parti non sarebbe stata così semplice da realizzare. «Dobbiamo darci credibilità» ripeteva Ciampi. Ho applicato negli anni del governo l’essenziale di quello che avevo imparato amministrando. Governare ti costringe a dire dei sì e dei no. E dire di no è difficile. Lo devi motivare, inserire in un messaggio trasmissibile. È un grande, quotidiano allenamento che emancipa da una politica fatta soltanto di applausi e costringe ad avere sempre una visione in testa. Del resto, cos’è il consenso se non un capitale da reinvestire? Se lo investi c’è un rischio, ma se non lo investi il capitale deperisce. È come nella parabola evangelica dei talenti. Il ritmo del governare è sincopato: devi determinare un po’ di squilibrio, se vuoi che il consenso torni domani, magari accresciuto. D.  C’è qualcuno che considera come un suo maestro? R.  Ho avuto tanti maestri nella vita e negli studi, ma non mi sento di eleggerne uno solo con la maiuscola. Nella storia mi piacciono i costruttori, non i fuochi di paglia. Mi appassionano i protagonisti delle riscosse nazionali, gli uomini-simbolo delle riunificazioni: Garibaldi, Mandela, Helmut Kohl. Uno straordinario esempio di riformatore è stato per me Giovanni XXIII: un papa che è riuscito ­38

a cambiare le cose rassicurando, a promuovere passaggi cruciali, anche destabilizzando, senza indurre ansie. Oltre questi personaggi, una figura ideale che mi ha sempre affascinato è quella del capo-lega operaio o contadino di fine Ottocento. Erano uomini forti che andavano nelle stalle a parlare con gli analfabeti: costruttori del sociale con una visione della politica nobile e una speranza per il futuro. Fossimo capaci noi, nei nostri tempi, di far camminare la storia come fecero loro!

III

LIBERARE L’ITALIA DALLA GABBIA POPULISTA

D.  Gli affanni della democrazia hanno una dimensione globale, ma in Italia hanno assunto caratteri specifici. La transizione istituzionale, avviata nel nome della democrazia diretta dopo l’esplosione di Tangentopoli, e il successo dei referendum elettorali hanno prodotto un «presidenzialismo di fatto» che mortifica il Parlamento e un bipolarismo di coalizione che non garantisce governi efficaci. Qual è la sua lettura di questa ormai lunga stagione? R.  Con la torsione plebiscitaria che Silvio Berlusconi ha imposto al sistema istituzionale e con la legge elettorale, giustamente battezzata Porcellum, abbiamo raggiunto un punto molto critico: è a rischio la tenuta stessa dell’equilibrio costituzionale, e non sappiamo cosa sarebbe già accaduto se nel ruolo di garante al Quirinale non ci fosse un uomo della statura di Giorgio Napolitano. Per rispondere alla domanda sulla transizione, ovvero sul perché e sul come siamo giunti fin qui, ritengo però necessario ripercorrere un tratto più lungo della storia repubblicana. A me non convince questa periodizzazione fondata sulla separazione tra Prima e Seconda Repubblica e non mi persuade l’idea che la transizione sia cominciata negli anni tra il ’92 e il ’94. Per cogliere l’inizio della crisi democratica si deve tornare almeno agli anni Settanta. La nostra transizione comincia lì, non con i referendum elettorali che semmai furono un ­40

tentativo di uscire dall’involuzione e dal blocco di sistema degli anni Ottanta e che certo produssero cambiamenti nella configurazione e nelle regole della rappresentanza. Se vogliamo davvero chiudere questa lunga stagione, è necessario comprendere le ragioni più profonde della crisi della politica, perché cercare la soluzione solo in un meccanismo istituzionale o in un modello elettorale rischia di essere illusorio. D.  Onorevole Bersani, spieghi meglio come intende dividere i tempi della storia della Repubblica. R.  La prima fase della Repubblica, che affonda le radici nella Resistenza e nel Cnl, va dall’Assemblea costituente alla fine degli anni Sessanta. Sono gli anni della ricostruzione e dello sviluppo dopo il dramma della guerra. È il tempo in cui i partiti che hanno fatto la Costituzione si caricano di importanti e riconosciute funzioni nazionali: fare uscire il Paese dalla miseria, imparentarlo con la democrazia, accompagnare l’emancipazione civile e culturale di un popolo. Erano appunto grandi partiti popolari che, pur nei rigidi confini imposti dalla logica dei blocchi, innervavano la società e animavano le istituzioni rappresentative. Un libro, uscito di recente, ha raccolto le relazioni di un convegno sul decennale della morte di Benigno Zaccagnini. Ecco, la vita di Zaccagnini è uno degli esempi più limpidi di ciò che sto dicendo: Zaccagnini ha fatto la Resistenza, ha partecipato alla Costituente, nei comizi parlava dei suoi valori e del suo progetto di società futura, ma in Parlamento dal primo giorno in cui è entrato si è messo a lavorare su leggi che riguardavano la vita materiale dei cittadini: la mezzadria, la colonìa, i cantieri-scuola, l’artigianato. La legittimità di quella politica si fondava proprio sulla saldatura tra crescita economica, ruolo delle istituzioni e riduzione della forbice sociale. Allora non c’era bisogno di dire: «l’onesto Zac». Quando è diventato necessario dirlo, la crisi era già esplosa. ­41

D.  Ma quando e perché, secondo lei, è entrato in crisi quel modello? R.  Alla fine degli anni Sessanta la società ha cominciato a conoscere un certo benessere e a pretendere di più. La nuova generazione, quella dei baby boomers cresciuti sen­ za il trauma della guerra, ha cercato nuovi orizzonti, si è ribellata alle regole patriarcali, ha moltiplicato le istanze libertarie. Il ’68 è il punto di svelamento più clamoroso della crisi del vecchio equilibrio politico, anche se le tracce della crisi si possono trovare prima. Nelle sue memorie Giorgio Amendola racconta di una direzione del Pci in cui con preoccupazione si cominciò a parlare di un crescente disimpegno dei giovani dalla militanza politica: eravamo a pochi giorni dalla rivolta delle «magliette a strisce» del 1960 a Genova contro il governo Tambroni! A contribui­ re alla crisi è anche la scoperta che la crescita economica non ha una progressione infinita. Gli italiani conoscono la «congiuntura» e classificano presto la parola come ne­ gativa. Già negli anni Sessanta emergevano pulsioni ed esperienze che oggi chiameremmo di «società civile» che pretendevano politicità e che non trovavano espressione convincente nell’assetto politico. Sono le emergenze (il pe­ trolio, la guerra del Kippur, poi il terrorismo) a ridare ruo­ lo e funzione ai partiti popolari e a tacitare quei fermenti. Sono Aldo Moro ed Enrico Berlinguer i leader autorevoli che fanno appello alle radici costituenti, al capitale di cre­ dibilità ancora disponibile, per difendere i capisaldi della Repubblica, e con essi i partiti che sono stati i principali artefici dell’allargamento della sua base democratica. Fu quella l’ultima possibilità di uscire dalla logica dei bloc­ chi restando nel solco di una politica che continuasse a essere legittimata dalla fase costituente e potesse aprire prospettive di rinnovamento per la democrazia italiana. Ma il deterioramento della politica, intanto, scorreva co­ me un fiume carsico. Ho un ricordo vivissimo della festa nazionale dell’Unità del ’77, a Modena, perché ero tra i vo­ ­42

lontari: Berlinguer aveva appena finito di parlare davanti a una folla sterminata, aveva detto che pochi «untorelli» a Bologna non sarebbero bastati per far deragliare il Pci dalla sua linea di responsabilità nazionale, ma un paio d’ore dopo un’altra folla gigantesca, in parte composta dalle stesse persone che avevano applaudito Berlinguer, invase l’arena per ascoltare il concerto di Edoardo Bennato con il suo «sono solo canzonette» contro gli impresari di partito, e in fondo contro gli stessi partiti. Ecco, quel sentimento, che negli anni si è nutrito, da un lato, di autoreferenzialità della politica, dall’altro di crescente sfiducia e distacco, ha prodotto il nodo di una rappresentanza irrisolta che ha progressivamente coinvolto sia i partiti che le istituzioni. D.  Secondo un’interpretazione diffusa questa sarebbe la storia dell’antipolitica che alla fine ha prevalso sulla politica. Lei cosa ne pensa? R.  La realtà è più complessa e sarebbe assurdo classificare come antipolitica tutto l’intreccio di fenomeni, di domande sociali, di umori libertari, di modernità e di secolarizzazione che si è dipanato negli ultimi quattro decenni. Noi abbiamo conosciuto un blocco politico, dovuto a ragioni di carattere internazionale, che ha impedito l’alternanza fisiologica e che poi negli anni Ottanta, ai tempi del cosiddetto «Caf» è diventato una cappa insopportabile. Una vera strozzatura democratica in cui le staffette a Palazzo Chigi tra leader del pentapartito non poteva valere come surrogato di una vera democrazia dell’alternanza. Il sentimento antipolitico e antipartitico, che pure ha origini antiche nella cultura del nostro Paese, è un fiume che ha corso lungo questo alveo e si è gonfiato progressivamente, talvolta alimentato anche da sinistra. Va detto che una grande spinta è venuta dall’incapacità dei partiti e delle istituzioni di riformarsi e di ricostruire circuiti trasparenti di partecipazione. Così, quando è caduto il Muro, mentre la Germania ha avviato la straordinaria macchina ­43

dell’unificazione e in tutti i paesi che uscivano dal blocco sovietico si aprivano delle speranze nuove, da noi invece c’è stato solo il vuoto d’aria. La crisi dei partiti nascosta, occultata, devastata dal dilagare della corruzione, è esplosa fragorosamente e non ha risparmiato nessuno. La crisi è diventata discredito diffuso, i referendum hanno espresso una grande voglia di cambiare, ma è stato Berlusconi a occupare meglio quel vuoto. Anche perché con i partiti non funzionanti, si sono diffusi il culto del «leader» e la cultura della «supplenza». La personalizzazione della politica ha animato suggestioni presidenzialiste, ovviamente senza delineare i necessari contrappesi istituzionali. Da un lato la magistratura e dall’altro i maggiorenti dell’economia nazionale si sono assunti invece compiti di moralizzazione: non che mancassero le buone ragioni per intervenire, ma non si può negare che da parte dei magistrati ci siano state invasioni di campo e che i poteri economici abbiano agito in difesa di interessi molto concreti. Ecco, nel motore di Berlusconi questa antipolitica accumulata è diventata la benzina che lo ha spinto, il propellente che aveva bisogno di una strutturale sfiducia della politica per dare energia al progetto. E si comprende bene come l’antipolitica in questo caso sia stata l’altra faccia del populismo: non sostengo certo che questa sia la sola ragione del successo berlusconiano, tuttavia è il fattore di maggiore squilibrio istituzionale. La cosiddetta transizione, in realtà, non si è mai chiusa proprio perché Berlusconi non vuole chiuderla: pensa di utilizzare a proprio vantaggio le deformazioni che l’hanno determinata e il discredito della politica e dei partiti che ne consegue. D.  Nel popolo del centrosinistra è ancora aperta la ferita del ’97, quando Massimo D’Alema tentò nella Bicamerale la strada delle riforme condivise con Berlusconi. Fu un errore quel tentativo oppure l’attuale squilibrio tra i poteri di oggi è proprio il frutto avvelenato del mancato compromesso di allora? ­44

R.  Fu giusto scandagliare, provarci. Del resto la Bicamerale per le riforme era il primo punto del programma elettorale con cui l’Ulivo vinse le elezioni del ’96. E la ricerca di riforme condivise sta nella nostra cultura costituzionale. Probabilmente se il compromesso della Bicamerale fosse stato confermato dal Parlamento, oggi vivremmo un diverso rapporto tra istituzioni e società, tra politica e partiti: la riforma da sola non basta a ripristinare una relazione di fiducia tra i cittadini e la politica, ma se i partiti non sono neppure capaci di mettere ordine e ritrovare un equilibrio tra i poteri, allora l’impresa si fa quasi impossibile. Invece Berlusconi decise di far saltare tutto. E lo fece, non a caso, sul tema della giustizia. Dopo aver cavalcato Mani Pulite con piglio giustizialista, quando finì lui stesso al centro di inchieste con accuse piuttosto pesanti, cominciò a coltivare l’idea che all’indubbio squilibrio esistente bisognasse rispondere con un drastico recupero del primato della politica sulla giustizia. Si badi bene: la sua risposta non era un nuovo equilibrio tra governo, Parlamento e potere giudiziario, ma un diverso sbilanciamento, peraltro accentuato dalle forzature leaderistiche e dalla distorsione del concetto di sovranità attribuita in modo populistico direttamente alla funzione di governo. Sono tendenze che, negli anni 2000, hanno poi assunto curvature pericolose e che ora producono continui e intollerabili conflitti istituzionali. Ma già da allora, dal ’98 in poi, fu chiaro che Berlusconi avrebbe puntato le sue carte non sulla riforma, bensì sull’acuirsi della crisi. E da quel momento il precario equilibrio post-referendario tra istanze di democrazia diretta e regole della democrazia rappresentativa cominciò a saltare, a piegarsi verso esiti plebiscitari, a travolgere la divisione dei poteri. Se dunque fu giusto tentare nel ’97 con la Bicamerale un accordo di sistema con il leader del maggiore partito d’opposizione, ora non possiamo dimenticare quell’esito. D.  Nei primi anni Novanta la sinistra si immedesimò nel movimento referendario. La bandiera della democrazia di­45

retta e la «religione del maggioritario» furono gli arieti che contribuirono a sfondare le porte del Palazzo, portando a un ricambio della classe dirigente e a uno stravolgimento della mappa politico-partitica. Ora invece nel centrosinistra si sentono molte voci autocritiche, si parla di equilibri costituzionali da ritrovare, si chiede un recupero del ruolo del Parlamento. È il riflesso della vittoria di Berlusconi nel braccio di ferro istituzionale di questi ultimi anni? R.  Il movimento per le riforme aiutò l’Italia a superare un momento drammatico. Non c’erano solo un sistema che non aveva in sé le condizioni per riformarsi e una corruzione dei meccanismi di riproduzione del consenso che alimentava sfiducia e disillusione: non va dimenticato che allora, nell’Italia che aveva appena sottoscritto il trattato di Maastricht, scattò anche l’allarme rosso sulla tenuta dei conti pubblici e arrivammo a un passo dal baratro. Il ricambio della classe dirigente ebbe modalità traumatiche, e non tutto ciò che accadde in quella fase fu limpido ed esemplare, tuttavia quei referendum contribuirono a introdurre nel nostro Paese la democrazia dell’alternanza. Anch’essi dunque rappresentarono un passo importante verso l’Europa. Tra i meriti di quel movimento voglio ricordare la battaglia per i collegi uninominali-maggioritari che – nella forma del doppio turno – ritengo ancora la migliore modalità di selezione dei parlamentari e che spero la riforma elettorale recepisca in misura significativa. Ma il tempo è maturo per riconoscere anche errori e contraddizioni: la domanda di semplificazione politica fu rilanciata spesso senza neppure distinguere tra sistema presidenziale e sistema parlamentare; la richiesta di democrazia diretta venne spinta fino a indebolire il telaio della nostra Costituzione e a proporre come forma di governo un «sindaco d’Italia» che non avrebbe avuto uguali in Occidente. Anche su queste contraddizioni Berlusconi ha fatto leva per imporre la sua accelerazione e per giungere all’attuale «presidenzialismo di fatto» che ci sta allontanando dal costituzionalismo europeo. ­46

D.  Lei ritiene che sia stata la legge elettorale del 2006 la principale leva che ha consentito a Berlusconi di piegare il sistema verso un «presidenzialismo di fatto»? R.  La torsione plebiscitaria del nostro sistema non è imputabile solo alla pessima legge elettorale, così come non sarà soltanto una riforma elettorale a farci uscire dalla crisi democratica. Il mito del premier scelto direttamente dai cittadini circolava prima ancora che i nomi dei candidati cominciassero a essere inclusi nei simboli elettorali; i poteri del governo in Parlamento si erano già dilatati attraverso prassi e strumenti non coordinati, talvolta attraverso veri e propri strappi come l’abuso delle ordinanze in deroga, comunque al di fuori di un quadro organico e di un bilanciamento dei poteri; il maggioritario di coalizione, già prima di un inaccettabile premio di maggioranza, aveva mostrato l’anomalia del bipolarismo italiano, con governi in continuo affanno e una frammentazione politica pressoché inarrestabile. A questo il Porcellum ha aggiunto il carico delle liste bloccate: uno scandalo, una violenza istituzionale, che sottrae ai cittadini il diritto di scegliersi il proprio parlamentare per consegnare questo potere a ristrettissime oligarchie di partito. È chiaro perché un Parlamento così sfregiato stenti persino a rivendicare la rappresentanza della sovranità popolare, mentre invece la pretende per sé un governo a cui la Costituzione non l’assegna. D.  Quali sono oggi le linee di una riforma elettorale secondo Bersani? R.  Mi preme fare una premessa prima di rispondere alla domanda. Ho sempre detto che non mi impiccherò a una formula. C’è una gamma di soluzioni che possono restituire ai cittadini la scelta dei parlamentari, ridurre la frammentazione politica, assicurare una trasparenza delle alleanze tra i partiti, e dunque consentire che la sera dei risultati elettorali sia di norma già chiaro quale governo si ­47

formerà in Parlamento. Dico questo perché, da segretario del Pd, voglio lavorare per costruire un’intesa con altre forze, convinto che nella temperie di oggi questo accordo possa valere più di una mera convergenza sulle regole. Ma sottolineo questo aspetto anche perché giudico sbagliati nel Pd alcuni eccessi, persino fanatismi, su questo o quel modello. Non è vero che il dna del Pd è compatibile solo con una particolare forma di bipolarismo, come non è vero che il Pd possa vivere soltanto con determinati sistemi elettorali. Il Pd non è nato da alchimie politologiche o da ingegnerie istituzionali, ma dall’esperienza dell’Ulivo ed è di per sé un tentativo di rispondere alla crisi democratica di cui abbiamo parlato. Anzi, direi che da parte nostra è il tentativo più importante che abbiamo compiuto per affrontare questa fase storica e politica italiana. È il nostro più grande contributo alla riforma della politica, all’attivazione di un nuovo circuito di partecipazione democratica, alla costruzione di un partito moderno capace di collegare la società viva con le istituzioni. Il Pd è in sé una proposta per uscire dalla transizione con una nuova qualità della politica e della partecipazione, dopo che la personalizzazione estrema e la cultura della supplenza hanno dimostrato di non essere soluzioni ma aggravio dei problemi. D.  Fatta la premessa, però, deve dirci qualcosa di più sui progetti di riforma, dopo aver manifestato la sua preferenza per una consistente quota di collegi uninominali-maggioritari. R.  Un’efficace clausola di sbarramento può ridurre la frammentazione e dare maggiore autorevolezza ai pochi partiti che poi animeranno la vita parlamentare. Strumenti assai meno distorsivi e molto più efficaci del premio di maggioranza (che peraltro nel Porcellum scatta senza soglia alcuna, peggio addirittura della legge Acerbo promulgata sotto il fascismo) possono garantire stabilità agli esecutivi: ad esempio, la sfiducia costruttiva. Un sistema uninominale a doppio turno, che per me resta il preferito, può essere ­48

ad esempio bilanciato con una quota proporzionale che assicuri la rappresentanza alle forze intermedie e renda così più mite e meno ingessato il nostro bipolarismo. In ogni caso penso che una riforma elettorale oggi in Italia debba prevedere anche un meccanismo di trasparenza, tale da rendere esplicite le alleanze agli elettori prima del voto. D.  A questa sua ultima affermazione si può obiettare che in nessun Paese europeo c’è un vincolo preventivo di al‑ leanza. E, se fosse codificato, si rischierebbe di riprodurre quel «presidenzialismo di fatto» da lei contestato, irrigidendo le coalizioni e dunque legandole a un leader. R.  Intendo battermi per un sistema che riporti l’Italia in Europa. Per un sistema parlamentare rafforzato, in cui davvero il governo possa disporre di poteri efficaci, prendere le necessarie decisioni in modo rapido, guidare in maniera migliore la macchina amministrativa, pur nel confronto con un Parlamento forte e pienamente legittimato nell’esprimere il proprio giudizio sul governo in carica e i suoi atti. Tuttavia, penso che dobbiamo avere delle accortezze per recuperare quella fiducia nella politica che tanti cittadini non hanno più. La linearità, la trasparenza delle alleanze altrove è garantita dalla sanzione elettorale, in Italia serve un impegno preventivo in più. Da noi, perché la riforma sia da subito accettata, è necessario che i partiti si assumano in anticipo la responsabilità delle alleanze. Non saremo capaci di chiudere la transizione se le forze politiche non si faranno garanti di un nuovo patto con i cittadini. Il sospetto del trasformismo, dell’oligarchia che decide con logiche autoreferenziali, va allontanato perché anch’esso può separarci dall’Europa non meno del plebiscitarismo berlusconiano. Penso che anche quando metteremo mano alle riforme istituzionali dovremo prevedere qualche procedura aggravata per assicurare che il sistema parlamentare funzioni da noi con la stessa linearità e coerenza di altri Paesi: ad esempio, se si cambia gover­49

no durante la legislatura, si può stabilire un ritorno alle elezioni in un tempo ravvicinato. Sarebbe un’assunzione di responsabilità che nulla toglierebbe alla sovranità e alla libertà del Parlamento. D.  Perché allora non imboccare direttamente la strada presidenziale, o semi-presidenziale, ovviamente eleggendo il Parlamento in un tempo diverso dal vertice dell’esecutivo? Questa ipotesi non è del tutto minoritaria nello stesso campo del centrosinistra. R.  Non sono presidenzialista per due motivi. Il primo: la nostra tradizione costituzionale ha un peso e sono anche convinto che interpreti il sentimento della stragrande maggioranza dei cittadini. È vero che la vulgata dominante di questi anni ha spinto verso una sorta di bi-leaderismo, ma ora sono evidenti le storture e i prezzi da pagare. Il secondo motivo è il rischio plebiscitario. Siamo un Paese diviso, tra Nord e Sud, tra localismi e reti corte: rinunciare ad un presidente-garante per aprire la competizione sul vertice dell’esecutivo, che a quel punto sarebbe anche Capo di Stato, può portarci direttamente in Sudamerica senza neppure transitare da Washington o Parigi. È un rischio che non voglio correre. D.  La sua critica al presidenzialismo si spinge fino a rimettere in discussione anche l’elezione diretta dei sindaci, dei presidenti di provincia e dei presidenti di regione? R.  I comuni e le province esercitano poteri amministrativi. L’elezione diretta è stata in questi quindici anni un’esperienza largamente positiva, che ha consentito di valorizzare le responsabilità di chi è chiamato a funzioni di governo, emancipandolo dalle dinamiche, e spesso dalle convulsioni, della politica locale, e favorendo anche l’azione concreta laddove il confronto con i cittadini è spesso basato sul tu per tu. Non c’è alcun motivo per rivedere ­50

l’elezione diretta dei sindaci, fermo restando il limite dei due mandati, che può arrivare fino a tre per le realtà più piccole. Le regioni esercitano invece un potere legislativo, come quello del Parlamento nazionale. E il potere legislativo è enormemente cresciuto per quantità e qualità dopo la riforma del titolo V della Costituzione. L’elezione diretta del governatore ha anch’essa conquistato una certa popolarità, ma va detto onestamente che una forma di governo presidenziale così rigida non si concilia con un’assemblea chiamata a compiti di legislazione complessa. Siamo a un bivio per il federalismo. Un fattore di equilibrio potrebbe essere fornito da un vero Senato delle regioni. Tuttavia penso che per il governo regionale sia meglio tornare alla regola del ’95, quella dell’indicazione del presidente: se il presidente si dimette, la sua maggioranza deve essere in grado di eleggere un successore senza l’obbligo di tornare alle urne. La continuità di una assemblea legislativa non può essere affidata a una persona sola. D.  Il Pd si proclama «partito della Costituzione», mentre il centrodestra distingue volentieri tra Costituzione formale e Costituzione materiale. Non temete di passare per conservatori? Soprattutto non avete paura che la vostra preferenza per il sistema parlamentare venga letta come nostalgia dei governi deboli? R.  Questa Costituzione è amata dagli italiani. È tra i pochi simboli che accomunano davvero il Paese. Per questo difenderla, richiamarsi a essa è quasi sempre un vantaggio, non un pericolo. E poi la Costituzione corre ancora davanti a noi che dobbiamo inseguirla: altro che conservatorismi! Le cose migliori dell’Italia sono state fatte proprio rincorrendo alcuni articoli della Carta. Nei miei discorsi cito spesso e volentieri l’art. 3: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge... È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto la libertà e l’egua­51

glianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana...». A cos’altro meglio che a questo il Pd potrebbe ispirarsi per legare democrazia e uguaglianza? Mentre invece quei discorsi sulla Costituzione materiale muovono da presupposti ambigui: è forse una presunta investitura popolare diretta del premier o del governo ad autorizzare un cambiamento costituzionale di fatto senza passare dalle forme rigide che la Carta impone per le sue modifiche? Ma ciò non è la conferma che nel centrodestra qualcuno immagina che il consenso venga prima delle regole? Noi non vogliamo governi deboli, come invece sono deboli i governi di questi anni. E non abbiamo nostalgie. Vogliamo riforme, vogliamo uscire dalla gabbia di questo sistema che non funziona. Le nostre proposte sono note: un Parlamento più snello e autorevole, con meno deputati e senatori ma con più efficaci funzioni di controllo; un superamento del bicameralismo perfetto con un vero Senato delle regioni; un governo forte, dotato di strumenti moderni e rapidi, ma capace di confrontarsi alla Camera con la sua maggioranza e con le opposizioni. Governi forti ne abbiamo avuti solo per piccoli tratti nella cosiddetta Seconda Repubblica. Se saremo capaci di fare un salto verso un governo parlamentare rafforzato penso che finalmente si potrebbero definire nuovi equilibri tra legislativo ed esecutivo. Perché è chiaro che non siamo più a Montesquieu, che la separazione dei poteri non è più segnata dai confini di un tempo, che c’è una crisi della legislazione ordinaria con cui fare i conti. C’è bisogno di un nuovo patto tra governo forte e Parlamento forte: più leggi-delega e procedure snelle sulle materie dove la competizione internazionale impone al sistema-Paese adeguamenti rapidi ed efficaci; completo affidamento all’iniziativa parlamentare invece per i grandi quadri di riforme, come la scuola, la sanità, l’università, la ricerca, dove le scelte devono necessariamente guardare a un futuro lontano e non sopportano rivolgimenti a ogni cambio di maggioranza politica come è avvenuto in questi anni. ­52

D.  La giustizia ha bisogno di riforme strutturali. Il mal funzionamento della macchina giudiziaria, in campo penale e ancora più in campo civile, è ormai un’emergenza del Paese. Non pensa che anche il centrosinistra abbia le sue colpe, non essendo riuscito spesso a distinguersi dal «partito dei giudici»? R.  I magistrati hanno assunto ruoli di supplenza nella crisi della politica, la maggior parte di loro spinti da fattori oggettivi e animati da buona fede. Recuperare un equilibrio e un’ordinata divisione dei poteri è un problema che riguarda l’ordinamento, ma anche i comportamenti e la responsabilità di tutti. Certo, Berlusconi lavora in direzione opposta per impedire un percorso che porti alla normalizzazione. La sequenza delle leggi ad personam, la centralità che queste assumono nello stesso programma di governo, gli incessanti, volgari, sconclusionati attacchi ai magistrati costituiscono gravissimi problemi istituzionali. Riformare la giustizia è una necessità per il Paese che richiede una serenità che al momento viene negata. Nessuna riforma sarà possibile finché Berlusconi cercherà di introdurre norme ad personam, per via ordinaria o costituzionale, al fine di garantirsi una impunità a spese dei cittadini e del regolare funzionamento del sistema giudiziario. Invece la riforma della giustizia è un nodo ineludibile in quanto il suo malfunzionamento attuale reca anche danni all’economia e al mercato. Non solo perché la corruzione costa, bensì perché una giustizia lenta non garantisce imprenditori e piccoli artigiani che, ad esempio, non hanno difese davanti alla prassi, sempre più frequente in tempi di crisi, dei mancati pagamenti. Inoltre va considerato che il ruolo del magistrato è cresciuto in questi decenni non solo perché la sua azione talvolta travalica i confini della politica, ma anche perché la crisi della legge e la moltiplicazione delle fonti ha reso più ampio e incerto il campo dell’interpretazione. Noi vogliamo riformare la giustizia e vorremmo farlo sul serio. Partendo ovviamente dai problemi più ­53

acuti per i cittadini, anzitutto il processo civile: il tempo dei processi si deve accorciare e questo richiede risorse e interventi organizzativi e normativi. Anche la giustizia penale ha bisogno di riforme. E includere disposizioni serie sulla responsabilità dei magistrati non può essere inteso come una limitazione dell’autonomia degli stessi. Il Csm stesso va riformato, senza separare l’ordine dei giudici da quello dei pm, semmai includendo in un unico Consiglio tutte le magistrature, e magari collocando all’esterno la commissione disciplinare chiamata a giudicare sull’operato dei magistrati. D.  A proposito di mancato equilibrio del sistema, un’accusa rincorre il centrosinistra da più di un decennio: non essere riuscito a far approvare una legge sul conflitto di interessi. Per molti l’accusa si è dilatata fino a delineare quasi una complicità con Berlusconi. Qual è la sua opinione? R.  Dovevamo fare di più. I conflitti di interessi in Italia si allargano, incrinano l’etica pubblica, contribuiscono a indebolire lo stesso principio di legalità. Tuttavia le polemiche nel centrosinistra sono state talvolta fuori misura. Si tratta di una materia molto complessa: basti pensare che in un Paese come la Gran Bretagna non esiste una legge omnicomprensiva sui conflitti di interesse. Dobbiamo muoverci su due binari. Il primo: l’Italia ha bisogno di una legge più rigorosa ed equa sulle incompatibilità. Non è giusto che il signor Bricchi di Bettola non possa fare l’assessore del suo paese perché ha la minuscola concessione delle affissioni comunali e invece il signor Berlusconi, proprietario di un impero multimediale e titolare di concessioni dello Stato di enorme portata, possa guidare il governo nazionale, scaricando sul suo amministratore delegato, Fedele Confalonieri, il divieto di ricoprire incarichi pubblici. Il secondo binario è quello della legislazione anti-trust, che da noi ha lacune gravi in diversi settori, compreso quello delle comunicazioni e dell’informazione. In ogni caso, ­54

però, sarebbe un errore affidare tutto alle norme e pensare che queste, da sole, possano risolvere i problemi. La necessaria legislazione anti-trust, per essere efficace, deve poggiare su un pluralismo effettivo degli operatori, su una libertà del mercato e una concorrenza maggiori di quelle attuali. A questo devono essere orientate le politiche pubbliche. Ciò che concretamente ha consentito a Berlusconi di resistere nel conflitto di interessi è stato assai più il duopolio televisivo che non la carenza di norme. Berlusconi ha fatto di tutto per mantenere i caratteri monopolistici e da quella posizione anche le leggi più severe sarebbero state aggirabili, ad esempio trasferendo la proprietà ai figli o a un fiduciario. La mia idea invece è quella di aggiungere nuovi soggetti e dunque maggiori libertà e un principio di autentica concorrenza nel settore delle telecomunicazioni. Penso che il destino del centrosinistra italiano sia quello di fare le liberalizzazioni che il centrodestra da noi si è dimostrato strutturalmente incapace di fare. D.  Il discorso si sposta così sulla televisione e sulla Rai. Come sarà possibile colmare i ritardi e correggere gli errori che si sono accumulati nel corso degli anni? R.  Occorre anzitutto distinguere il tema della responsabilità pubblica nel settore della comunicazione dalla questione della Rai. Il primo, essenziale compito è garantire che non si creino posizioni dominanti in un’epoca di grandi trasformazioni tecnologiche e di inedite convergenze multimediali. A mio giudizio è necessario riformare la stessa Autorità delle comunicazioni, evitando le attuali lottizzazioni e assumendo come modello l’Autorità per l’energia, dove tutti i componenti del consiglio di amministrazione devono avere il gradimento dei due terzi del Parlamento. L’Autorità, in un quadro normativo rinnovato, dovrà vigilare sul comune accesso alle reti e sull’equilibrio tra i vari operatori nell’approvvigionamento delle risorse. Un secondo importante compito riformatore riguarda le po­55

litiche industriali del settore: la banda larga, il sostegno ai processi di innovazione delle imprese, il dividendo che può derivare dal trasferimento dall’analogico al digitale. È a questo punto che si colloca la domanda sul futuro della Rai. Avrà ancora senso un’impresa pubblica se riusciremo a costruire un contesto finalmente più pluralista? La mia risposta è sì. E non perché immagino un ruolo pedagogico della Rai, ma perché penso che la nostra società sarà più ricca se avrà delle riserve a cui attingere per riparare agli inevitabili fallimenti del mercato. La Rai che immagino nel futuro è un soggetto capace di mettere un di più di libertà e di sperimentazione, una sorta di nave-scuola della creatività italiana. Si potrebbe discutere di una riorganizzazione della Rai, magari con una sua funzione totalmente a canone, con una società separata che sviluppi i contenuti in chiave commerciale, con una società per le infrastrutture alla quale potrebbero partecipare anche privati. Ma soprattutto è necessario modificare la governance per liberarla di questo insopportabile eccesso di presenza e di controllo politico: occorre fare in modo che la Rai diventi una vera azienda, con un Parlamento che ne indichi la missione e un amministratore delegato che, sulla base del codice civile, possa guidarla con piena e verificabile responsabilità come avviene per le altre società a controllo pubblico.

IV

L’EUROPA CHE VOGLIAMO

D.  Il mondo vive rivolgimenti profondi. La globalizzazione sta cambiando le gerarchie del pianeta a sfavore dell’Europa, e dunque anche dell’Italia. La razionalità dovrebbe spingere a rafforzare l’Unione europea, se non altro perché è la sola dimensione che può consentire al vecchio continente di competere e di far sentire la voce della propria civiltà, ma la crisi economica, la più pesante dal crollo di Wall Street del ’29 e dalla Grande depressione, genera paure, chiusure localistiche, pulsioni populiste. È possibile spezzare questa tenaglia e come? R.  Anzitutto bisogna comprendere, definire la globalizzazione. Solo così risulterà evidente quanto grande sia il bisogno di Europa, da parte dei suoi cittadini come del mondo intero. Questa non è la prima impetuosa globalizzazione che la storia conosce. Anche tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento ci fu uno straordinario salto tecnologico: in pochi anni vennero inventati la bicicletta, la ferrovia, l’aereo, l’automobile, il transatlantico, l’energia elettrica, la radio, si fece l’ora di Greenwich e tutto il mondo registrò l’orologio. Pure allora la tecnica moltiplicò e accelerò produzioni e scambi commerciali. Fu una globalizzazione sostenuta da idee positiviste, dove l’aspirazione a una nuova umanità si incrociava con l’ottimismo scientista, dove l’euforia della Belle époque si combinava con ­57

la diffusione delle idee socialiste e le prime battaglie per l’emancipazione del mondo del lavoro, ma ciò non impedì meccanismi difensivi e chiusure nazionaliste che precipitarono nella Prima guerra mondiale. Le piazze delle capitali europee divennero spettatrici di manifestazioni di popolo a favore della guerra: il desiderio bellico penetrò nel cuore dell’Europa e con lo sguardo di oggi possiamo dire che ci restò fino al termine della Seconda guerra mondiale. La storia non si ripete mai ma ama le rime e le assonanze. Dobbiamo avere per certo che la faccia oscura dei processi di globalizzazione è sempre e comunque, in qualche forma, un istinto al ripiegamento. D.  Eppure sembra arduo accostare quanto sta avvenendo all’esordio del nuovo millennio con ciò che è accaduto più di un secolo fa. Il salto tecnologico di questi anni ha rimpicciolito il mondo, non solo negli scambi ma anche nella comunicazione, nelle conoscenze, nella cultura, tanto da produrre quasi uno sconvolgimento antropologico. R.  È vero, il mondo si è così rimpicciolito che ora te lo trovi alla porta di casa. Internet sembra aver travolto ogni barriera. E tutti siamo finiti in un frullatore: straordinarie opportunità si mescolano a indebite intrusioni e ingiustizie. Eppure ci sono duri fattori strutturali che delineano la nostra globalizzazione e che spiegano anche le cause della crisi economica e finanziaria. Comprendere similitudini e differenze rispetto al passato è necessario per elaborare una strategia riformista e contrastare ciò che sembrava imporsi come «pensiero unico». Il salto tecnologico del nostro tempo ha prodotto e incrociato un enorme incremento della dinamica produzione-scambi, ma, a differenza di ogni altra epoca precedente, l’aumento degli scambi ha superato di molto quello della produzione. Sono state distribuite inedite chances di crescita, sono cambiate le gerarchie mondiali, ma gli squilibri strutturali sui quali poggiava la globalizzazione hanno avuto come conseguenza la terribile ­58

crisi economico-finanziaria dai cui effetti non ci libereremo presto. Oggi molti concordano sull’analisi della crisi: si è creato denaro senza un adeguato sviluppo dei mercati interni; l’economia più forte, quella americana, è cresciuta sul debito, finanziata in larga parte dalla Cina che accumulava risorse con l’export, ma anche dai Paesi produttori di petrolio che investivano in titoli i loro ricavi concentrati in pochissime mani; si è pensato che invece di remunerare il lavoro si potessero garantire con il debito privato i consumi della classe media; l’autonomia della finanza ha inventato moltiplicatori che hanno prodotto una gigantesca bolla speculativa, convincendo i cittadini che persino il debito privato potesse produrre ricchezza; la grande illusione è stata infine completata dalla bassa inflazione, dovuta principalmente a merci confezionate in Asia a costi ridottissimi. Insomma, non c’erano più termometri per misurare la febbre. Ma poi la febbre è esplosa lo stesso. D.  La globalizzazione comunque non è solo la crisi economico-finanziaria. Altrimenti bisognerebbe concludere che la globalizzazione è cattiva e che occorre tentare un’improbabile retromarcia. R.  Non sono certo i progressisti a dire che la globalizzazione è cattiva. Come potremmo farlo? Se rinunciassimo alla speranza che «il mondo diventi una cosa sola», come cantava John Lennon, rinunceremmo anche al seme di un nostro pensiero alternativo. Piuttosto sono le destre populiste a prosperare con le demagogie nazionaliste e localiste. Da noi è l’ampolla di Umberto Bossi il rito anti-globalizzazione per antonomasia. Ma provi Bossi a riempire l’ampolla nel Pacifico e vediamo se riesce a fermare la globalizzazione! In realtà mentre le destre populiste agivano all’interno sulle paure dei ceti popolari, le forze conservatrici al governo dell’Europa hanno dato campo libero al pensiero unico e alla «politica unica». Nel 2001 uscì una bozza Tremonti, ispirata al modello americano dei mutui, ­59

la quale muoveva dal presupposto che gli italiani fossero in larga maggioranza proprietari di case cresciute di valore nel tempo: obiettivo del suo progetto era monetizzare quel plusvalore per trasformarlo in consumi individuali. Per fortuna non se ne fece nulla, grazie alle denunce dell’opposizione. Ma la filosofia era la stessa quasi ovunque: nessun investimento sui salari e sull’ammodernamento del welfare, disattenzione rispetto all’economia reale. Il limite dei progressisti, soprattutto negli anni Novanta in cui hanno avuto responsabilità di governo in gran parte dell’Europa, è stato quello di confidare un po’ ingenuamente nelle magnifiche sorti della globalizzazione che allora avanzava. Erano gli anni di Bill Clinton, e l’influenza sulle sinistre europee si è sentita. La comunicazione globale offriva inedite potenzialità di emancipazione, apriva i mercati dell’Asia a beneficio sicuramente della crescita di Cina e India (ma oggi cosa ne sarebbe della nostra industria senza l’aumento della domanda asiatica?), lasciava intravedere un ciclo di espansione anche della democrazia. L’errore è stato far correre la finanza senza regole, non comprendendo la sua propensione egemonica: la finanza ha affinato i propri strumenti esattamente nel punto in cui il ciclo tecnologico dell’informatica ha raggiunto la massima velocità. Con la net economy in quegli anni si è scomposto e ricomposto il capitalismo. La manifattura sembrava non valere più e a dare i più alti rendimenti erano i titoli immateriali. Non si stava formando solo una bolla: era una cultura, una nuova scala di valori, un’evoluzione del mercato che veniva imposta non solo come auspicabile ma come l’unica possibile. D.  Nel libro La paura e la speranza, che diventò nel 2008 una sorta di manifesto elettorale della coalizione Pdl-Lega, Tremonti assegnò alle forze di centrosinistra la responsabilità maggiore di essersi arrese alla cultura «mercatista», mentre invece riservò al centrodestra le principali riserve valoriali per rimettere la persona e la società al centro dell’economia. ­60

R.  Non ho negato le responsabilità delle forze progressiste negli anni Novanta. Ma quelli di Tremonti mi sembrano giochi di parole per evitare il confronto con la realtà e tentare semmai di rovesciarla. Il tempo del «mercatismo» è stato soprattutto lo scorso decennio, dominato da un lato dall’amministrazione del repubblicano George W. Bush, dall’altro dai governi conservatori nella maggioranza dei Paesi europei. Queste forze sono riuscite, è vero, a interpretare meglio le paure delle classi medie ma intanto l’Europa ha perso drammaticamente terreno nella competizione globale e la politica si è mostrata incapace di regolare, persino soltanto di contenere lo strapotere di una finanza che si concepiva ormai come la padrona del mercato. Sia chiaro, non mi sfugge la differenza tra i partiti conservatori classici, ancorati ai valori costituzionali e ai fondamenti della cultura europea, e i fenomeni populisti e regressivi che compaiono in varie lande del continente e che mostrano di condizionare in qualche misura le destre costituzionali. Comunque, le politiche conservatrici non hanno graffiato. Il loro vantaggio competitivo è stato fin qui nella risposta alla crisi, tutta interna alla dimensione nazionale, mentre invece risulta sempre più evidente che un progetto riformista non può limitarsi a un Paese solo. I riformisti hanno bisogno di una scala più grande: questo è il nostro problema. La crisi sta dimostrando a tutti che la chiusura nazionale è un’illusione. Purtroppo, tornando a Tremonti, la realtà dei fatti è che la «paura» riguarda i poveri e le classi medie mentre la «speranza» è riservata ai ricchi. E per cambiare queste cose bisogna incidere nelle strutture, immettere dosi di uguale libertà e uguale dignità negli ordinamenti e nello stesso mercato. Solo una crescita equilibrata e regolata, questa è la sfida, può garantire anche una crescita più duratura. D.  La scala più grande, a cui lei fa riferimento, si chiama Europa. Eppure a Bruxelles continua a prevalere la dimensione intergovernativa e l’Unione viene rappresentata dagli ­61

stessi governi nazionali più come un vincolo che come una opportunità per tornare a giocare un ruolo da protagonista nel mondo. R.  Il troppo debole investimento sull’Europa rispetto alle esigenze delle nostre società è sicuramente un punto critico. Ma l’Europa comunque esiste. Anzi l’Unione europea è un miracolo vivente, se pensiamo soltanto a cos’era il continente mezzo secolo fa, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, o all’indomani della caduta del Muro. Il calabrone vola, anche se noi vogliamo che voli meglio. E proprio perché vola i nostri progetti hanno un fondamento tangibile. Il bisogno di più Europa nasce dalle contraddizioni della globalizzazione di cui abbiamo parlato e dalla profondità strutturale della crisi economica. Le gerarchie del mondo sono cambiate e, guardando indietro, non si può nemmeno dire che la Cina sia emersa all’improvviso dalle retrovie dei Paesi in via di sviluppo: la Cina ha alle spalle una storia millenaria di protagonismo economico, culturale e politico che la relativa marginalità degli ultimi 150 anni non può occultare. In questa nuova realtà geopolitica, seguita alla fine dell’era di Yalta, dove i Paesi emergenti hanno il calibro di Cina e India, è evidente che solo l’Europa dispone della massa critica e della forza politica sufficiente per svolgere una funzione equilibratrice. D.  Cina e India però non sono solo competitori esterni dell’Europa. L’effetto dumping sui prezzi di produzione e sul costo del lavoro li trasforma in concorrenti e in costanti minacce alla nostra stabilità sociale. Come rispondere? R.  La Cina e l’India stanno diventando la «fabbrica del mondo». Ma ciò che è una minaccia per il singolo sistema-Paese può esserlo meno per l’Europa presa nel suo insieme, che ha in sé una grande forza di compensazione, data anzitutto dal suo mercato interno di 550 milioni di cittadini. Il problema è che neppure il mercato interno ­62

oggi è liberato da persistenti barriere. Finché le risposte restano nazionali il rischio è che, nella competizione con l’Asia, i Paesi europei continuino a essere schiaffeggiati dalla parte del welfare e dei diritti del lavoro, aprendo altri territori alla precarietà dei giovani e dunque all’instabilità delle nostre società. Invece un’Europa più unita può trasmettere una maggiore fiducia ai suoi cittadini, dando vigore al suo mercato interno e sfruttando meglio le opportunità che l’apertura dei mercati e la crescita del Pil in Asia offrono alle sue aziende, alle sue tecnologie, al suo export. Fino a pochi anni fa gli Stati Uniti guardavano con freddezza, anzi persino con qualche sospetto al processo di integrazione dell’Europa: ora mi pare significativo che pure la Casa Bianca abbia cambiato idea e manifesti un tangibile bisogno di Europa. Come del resto la stessa Cina: è il mondo che chiede al vecchio continente di tornare a essere una locomotiva di sviluppo. D.  Alle porte dell’Europa, nella riva Sud del Mediterraneo, si sta propagando una protesta popolare dalle forme e dalle dimensioni inattese. In Tunisia, in Egitto, in Libia sono stati abbattuti o scossi regimi che sembravano indistruttibili. È un vento di democrazia che l’Europa deve sostenere con fiducia oppure c’è il rischio di aprire la strada al fondamentalismo islamico? R.  L’Europa deve stare con il cambiamento. La stabilità non può venire da autocrazie senescenti: dovremmo essercene finalmente convinti! Bisogna che l’Europa metta a disposizione in modo convergente e unitario risorse politiche, diplomatiche ed economiche per accompagnare un’evoluzione pacifica che consegni a quei popoli nuovi diritti politici, sociali e civili: libertà di espressione e di associazione, pluralismo politico, elezioni vere, ruolo e dignità della donna. Quei popoli devono udire una nostra parola chiara e ferma e percepire una disponibilità e una amicizia vera. L’estremismo islamico prospera solo dove ­63

può coltivare sentimenti di risentimento e di rivincita verso l’Occidente. Quel che facciamo oggi accompagnando davvero i desideri delle popolazioni potrà pesare domani. C’è anche da augurarsi che l’Europa finalmente comprenda l’esigenza di spostare il suo baricentro verso i grandi problemi e le straordinarie opportunità del Mediterraneo. Questo fin qui non è avvenuto. L’Italia a sua volta avrebbe dovuto e dovrebbe svolgere in questo senso un ruolo primario e di guida. Purtroppo questo rapido e drammatico passaggio storico ci ha sorpresi nel momento di massima debolezza della nostra immagine internazionale, dopo anni nei quali la diplomazia berlusconiana delle «relazioni speciali» ha rotto delicati ed antichi equilibri della nostra politica estera fino a farci perdere ruolo e perfino dignità. D.  Comunque evolva la situazione in Nord Africa, siamo di nuovo davanti a un problema: è possibile o no l’esportazione del modello occidentale di democrazia? R. L’Occidente identifica storicamente la democrazia con il pluralismo politico espresso attraverso libere elezioni e questa è la richiesta che viene rivolta alle altre civilizzazioni. Tale evoluzione è stata più volte avviata, ma spesso ha subìto rapide smentite e arretramenti. Anche alla luce della nostra storia di europei dovremmo aver compreso che la costruzione della democrazia presuppone un processo più complesso e profondo che, secondo me, ha il suo autentico punto di partenza nel riconoscimento culturale del concetto di libertà religiosa. La democrazia non può germogliare se la libertà religiosa è limitata o coartata. Forse dovremmo assumere questo criterio su scala internazionale come standard ineludibile per un vero radicamento dei principi democratici. D.  Non si può dire che il processo europeo sia fermo. Il rafforzamento del Patto di stabilità, con norme più rigorose per il controllo del debito pubblico, avrà certamente conse­64

guenze rilevanti nelle politiche di bilancio dei singoli Paesi. Da questo punto di vista, dopo l’introduzione dell’euro, non si può negare una progressiva cessione di sovranità da parte dei singoli Stati. Non le pare che il problema resti l’Europa politica che non va di pari passo con quella economica? R.  La moneta è sempre stata conseguenza di uno Stato sovrano. Nell’Unione invece l’euro è arrivato prima dello Stato europeo. Ovviamente c’è una robusta ragione storica: l’euro nasce dopo la caduta del Muro di Berlino per sancire un nuovo patto tra Germania ed Europa. Il via libera all’allargamento a Est fu scambiato con la rinuncia al marco. Il risultato è stato la stabilizzazione monetaria secondo l’impostazione «tedesca»: un beneficio di cui gli europei oggi godono (e, a ben guardare, i tedeschi in modo particolare dal momento che esportano prevalentemente nell’area euro) e che privilegia rigore dei conti e bassa inflazione su ogni altra scelta di politica economica potenzialmente in grado di intaccare le regole di stabilità. Si è detto che i parametri di Maastricht fossero «stupidi»: in effetti, l’eccesso di rigidità ha prodotto fenomeni singolari. La Spagna, ad esempio, veniva considerata fino a ieri la pupilla dell’Europa, con i numeri sempre a posto e una politica economica dinamica trainata dall’edilizia. Poi, con la crisi della finanza, si è scoperto che quel traino era una bolla e la Spagna nel breve volgere di un paio d’anni è diventata l’ultima della classe. L’integrazione non si può fermare alla moneta e alle banche. Può sembrare un paradosso, ma tanto più dopo la crisi finanziaria globale c’è bisogno di andare oltre. Ci vogliono politiche economiche, sociali, infrastrutturali comuni. E dunque istituzioni più forti che colmino il deficit di politica. Senza una maggiore integrazione non sarà possibile conseguire obiettivi di lavoro, sviluppo, crescita e giustizia sociale. Non basta un’Europa intergovernativa o mercantilista, tutta orientata alle esportazioni, che cerca il suo equilibrio finanziario nella riduzione del modello sociale. È il tempo di rilanciare ­65

l’idea di un’Europa federale, con istituzioni democratiche orientate alla crescita, al lavoro e ai diritti, con un adeguato sviluppo anche del mercato interno. D.  Ma le sembra realistico parlare di Europa federale se anche nei Paesi più forti dell’Unione crescono elettoralmente i partiti nazionalisti e populisti, se i Paesi dell’Est e la Gran Bretagna continuano a manifestare il loro euroscetticismo, se persino i Paesi fondatori sembrano rassegnati alla dimensione intergovernativa? R.  Questa è la grande sfida dei progressisti: guidare il rilancio di un processo di integrazione europea. Un’impresa difficile, ma non si parte dal nulla. L’Europa è già un corpo di istituzioni che va oltre i singoli Stati nazionali. Ciò che le manca è la giusta vitalità democratica. Sconta un deficit di politica che fa apparire ai cittadini gli apparati di Bruxelles come una burocrazia occhiuta e pesante. Tocca a noi rimettere in moto l’Europa politica, non solo perché è giusto e può tutelare le generazioni future nel modo più efficace, ma perché è la dimensione che corrisponde meglio ai nostri interessi. In fondo, anche nel dopoguerra l’Europa nacque da un accordo, da un patto di volenterosi e non da un moto di popolo. E solo pochi utopisti come Altiero Spinelli intravedevano fin da allora, oltre le prime istituzioni sovranazionali, il disegno di un’Europa comunitaria e federale. Oggi, dopo aver compiuto tanti passi in avanti e dopo aver commesso anche errori, siamo giunti a un bivio. Con l’integrazione monetaria della maggior parte dei Paesi dell’Unione si può dire che i governi nazionali, pur mantenendo decisioni cruciali nella sfera intergovernativa, abbiano ceduto significative quote del potere di indirizzo e di controllo sulla finanza pubblica, e dunque sulla stessa politica economica. All’indebolimento della dimensione nazionale tuttavia non ha corrisposto nessun nuovo potere democratico a livello europeo. Il deficit di politica nasce qui: e rischia di minare l’intera costruzione, a partire dalla sua credibilità presso i ­66

cittadini. Senza nuovi poteri democratici, la sottrazione di autorità ai governi nazionali favorisce la regressione a dimensioni subnazionali, a regionalismi, a localismi. Come è noto, sono un grande sostenitore del ruolo delle regioni in Europa. Ma qui non parliamo di sussidiarietà e della necessità di un loro ruolo attivo nei processi decisionali. Parliamo del rischio di ripiegamenti particolaristici, che, a loro volta, alimentano pulsioni populiste: e questo è esattamente il rovescio della medaglia dell’Europa burocratica. C’è una sorta di entropia della democrazia: la perdita di ruolo della dimensione nazionale non si traduce in partecipazione collettiva alla dimensione sovranazionale. D.  Come immagina in queste condizioni politiche un rilancio dell’Europa comunitaria? I leader nazionali devono vincere le elezioni nei rispettivi Paesi e spesso spiegano le loro politiche di rigore con l’argomento che l’Europa sia un vigile o un poliziotto cattivo. R.  Penso che il rilancio dell’Europa comunitaria passi da un nuovo patto di volenterosi, come fu all’atto costitutivo della Ceca. Una nuova locomotiva dell’Europa può, deve partire dall’interno dell’attuale Unione: un gruppo di Pae‑ si, dentro l’area Euro, disposti a realizzare una maggiore integrazione e a dare gambe a un comune processo democratico, dovrebbero firmare un accordo e stabilizzare una nuova sovranità. Non sto parlando di atti traumatici per l’Unione esistente: il Trattato di Lisbona prevede le cooperazioni rafforzate e questa Europa «rafforzata» potrebbe nascere all’interno dell’attuale quadro comunitario, lasciando i Paesi che rifiutano la maggiore integrazione nella cerchia dei 27, anzi favorendo persino un ulteriore allargamento di quest’area, ad esempio verso i Balcani. Già funzionano in Europa cooperazioni rafforzate molto impegnative, come la moneta unica e il trattato di Schengen: si tratta di cerchi più ristretti dell’insieme dei Paesi dell’Unione. Credo sia giunto il tempo di delineare un nuovo cerchio, composto ­67

magari dai membri fondatori, dai Paesi iberici e da qualche altro volenteroso dell’area Euro, per far nascere una più intensa Europa politica e trainare così l’intero continente verso le opportunità e le responsabilità che ha nel mondo. Se l’istinto e la diplomazia britannica non riescono a eliminare lo scetticismo verso l’Europa comunitaria, non possiamo noi adeguarci ai tempi e agli interessi di Londra, ma neppure possiamo fare a meno della Gran Bretagna nell’Unione a 27. Così per alcuni Paesi dell’Europa dell’Est: per loro l’Unione è stata sin dall’inizio il luogo del libero mercato, dove esprimere quella dimensione nazionale prima compressa, quasi negata. Restino pure nel cerchio europeo più largo. Tuttavia non possono fermare anche noi perché diventeremmo complici di un declino europeo complessivo. Sarebbe un errore imperdonabile. D.  Fin qui la ragion politica. Non ritiene tuttavia che l’Europa abbia bisogno di rilanciarsi anche agli occhi dei suoi cittadini, diventando protagonista di concrete politiche sociali e non solo di astratti principi di convergenza, che poi si traducono in norme, divieti e limitazioni? R.  Abbiamo visto che nel ripiegamento nazionale vince la destra e crescono pericolosamente i populismi. Le forze progressiste devono darsi da subito un’agenda europea, con forti priorità. Ne indico cinque, la cui evidenza è a mio giudizio netta. Primo: un piano europeo per il lavoro finanziato con eurobond per ricerca e innovazione, politiche industriali, infrastrutture strategiche; secondo: una regolazione stringente e una vigilanza federale dei mercati finanziari (hedge funds, fondi sovrani e attività speculative); terzo: l’apertura del mercato interno secondo le linee guida predisposte nel rapporto di Mario Monti del maggio 2010; quarto: il coordinamento delle politiche fiscali, la lotta ai paradisi fiscali, la tassa sulle transazioni finanziarie speculative; e infine: l’apertura in sede Wto di un’iniziativa per introdurre standard sociali e ambientali ­68

minimi negli scambi di merci e servizi. Sono convinto che il piano europeo per il lavoro finanziato con eurobond possa diventare la bandiera di questa agenda: se l’Europa riuscisse a intestarsi qualche azione importante contro la crisi diventerebbe improvvisamente popolare presso i suoi cittadini. La stessa tassazione delle speculazioni finanziarie è proponibile su scala mondiale solo se a sostenerla è un’istituzione del peso e della massa critica dell’Europa, in grado peraltro di far rispettare la regola in un continente che è anche un mercato di grandi qualità e quantità. Io resto convinto che la tassa sulle transazioni speculative sia non soltanto giusta, ma realizzabile. Nei miei incontri internazionali, anche negli Stati Uniti, non ho ancora sentito nessuno che, in linea di principio, abbia contestato la validità tecnica della proposta di Vincenzo Visco: trasferire in una bad company il surplus del debito pubblico mondiale accumulato in questi mesi per salvare banche e/o pagare ammortizzatori sociali; garantire i pagamenti attraverso la tassa sulle attività speculative. Sarebbe questo il modo per far pagare alla finanza il debito che ha provocato. Altrimenti quel debito pubblico aggiuntivo che grava ora su tutti i Paesi, sarà caricato ancora una volta sulle spalle dei cittadini. E sarà pesantissimo: basti pensare che per assorbirlo senza traumi le nostre economie dovrebbero crescere del 4% per dieci anni consecutivi. D.  Lei propone alle forze progressiste di guidare un nuovo processo di integrazione e di battersi per un piano europeo per il lavoro. Perché nella seconda metà degli anni Novanta, quando i partiti socialisti erano al governo in quasi tutti gli Stati europei non sono stati realizzati questi programmi e l’Europa politica non è andata avanti? R.  È stata davvero, bisogna riconoscerlo, un’occasione perduta. Le forze di centrosinistra sono storicamente legate al welfare. E la dimensione nazionale è stata da sempre l’ambito delle politiche redistributive e di welfare. Credo ­69

che abbia inciso in quegli anni questo riflesso difensivo. Era una fase di impetuosa globalizzazione e di relativo ottimismo. Forse a sinistra si è anche pensato che l’ambito statuale potesse offrire una cornice securitaria, tale da non deprimere la fiducia dei cittadini. È stata comunque l’ultima stagione positiva, prima del rallentamento e della crisi. Ma la sua punta di diamante – l’accordo di Lisbona – ha segnato l’avvio della parabola discendente. L’accordo doveva essere il corrispettivo sociale e culturale della Maastricht economico-finanziaria, invece l’impresa ha mancato i suoi obiettivi. I parametri della «Maastricht sociale» non prevedevano il ripiegamento della crescita e il sopraggiungere delle crisi. Soprattutto, quei parametri erano irrealizzabili in una dimensione nazionale. Senza un investimento nell’Europa politica, senza un nuovo processo democratico non è possibile riprogettare il welfare europeo. D.  Per il Pd l’Europa è stata anche una ragione di scontro interno. Il travaglio sull’adesione all’eurogruppo dei Socialisti e dei Democratici è diventato una complicata questione identitaria. Ritiene che quello attuale sia un approdo definitivo? R.  Il Pd nasce nella storia italiana, dalla peculiarità di culture affini sul terreno sociale e popolare. Ma penso che il ricongiungimento operato dal Pd possa essere utile anche in altri luoghi dell’Europa. La tradizione socialdemocratica ha bisogno di un ripensamento programmatico e politico, ma ancor più di ampliare i suoi orizzonti e di essere maggiormente inclusiva. I dibattiti interni ai partiti della sinistra in Europa, ma anche il consenso che fuori di essi raccolgono formazioni nuove, come i Verdi in Germania e in Francia, dimostrano che nel centrosinistra europeo c’è oggi un’articolazione, una pluralità che non è più possibile comprendere solo nell’identità e nella simbologia socialista. Il Pd, che non è un partito socialista, può aiutare ad ampliare e ridefinire il campo del centrosinistra europeo. L’esperienza del gruppo dei Socialisti e ­70

dei Democratici a Strasburgo è certamente positiva. E noi vogliamo continuarla con questo spirito perché va nella giusta direzione. D.  Dopo l’esperienza del gruppo si potrà arrivare a un Partito dei Socialisti e dei Democratici in Europa? Oppure alla fine avranno ragione quanti sostengono che il declino delle famiglie politiche tradizionali sia inarrestabile e che presto la dialettica in Europa sarà tra i federalisti europei, da un lato, e gli euroscettici dall’altro? R.  Forse non basterà da solo il Pd per raggiungere quel traguardo. Ma la direzione di marcia è quella che porta a un nuovo Partito dei democratici, dei socialisti e dei progressisti europei, capace anche di mettere in relazione l’esperienza riformista dell’Europa con le altre esperienze democratiche e progressiste oggi vincenti negli Stati Uniti, in Brasile e in India. Il nostro partito ha con il Pse un rapporto di stima e di dialogo. Non entreremo nel partito che c’è, ma possiamo lavorare insieme per un nuovo partito. E di sicuro la forza progressista di domani non potrà che avere, per le ragioni che abbiamo descritto, un chiaro indirizzo europeista. È la politica stessa del centrosinistra a fondarsi su una scala europea. D.  Ha ancora senso parlare di governo democratico del mondo di fronte al dominio del mercato e della finanza? L’Europa ha delle carte da giocare nelle istituzioni mondiali? R.  Non rinuncio alla speranza e all’obiettivo di un governo democratico del mondo. Nessun democratico può rinunciarci. Ovviamente si tratta di collocare queste aspirazioni nei processi reali. È chiaro che il G7 o il G8, intesi come comitato direttivo delle grandi scelte di politica economica, finanziaria e commerciale mondiale, sono ormai insufficienti a rappresentare i nuovi equilibri. È chiaro che quel formato non potrà avere, d’ora in avanti, dimensioni ­71

inferiori al G20. E che, a sua volta, il G20 contiene un G2 (Usa-Cina). Ma il problema del governo mondiale è che il G20 non può limitarsi a mettere qualche pezza alla crisi. Deve anche porsi il tema di un maggiore equilibrio tra le economie, cominciare a discutere di standard ambientali e sociali, imprimere qualche impulso anche alla ricerca, soprattutto laddove il mercato non basta e anzi distorce lo sviluppo armonioso delle risorse intellettuali. Per parlare di governo democratico del mondo sono necessarie anche istituzioni che diano voce e rappresentanza a chi vive sulla propria pelle il maggiore squilibrio. La prima di queste istituzioni sono le Nazioni Unite, che restano il grande luogo di prospettiva per la regolazione democratica dei fatti mondiali. Anche il segretario generale dell’Onu dovrebbe partecipare al G20 e avere il diritto di inserire i suoi temi all’ordine del giorno. Solo utopie? Non credo. Se l’Europa fosse politicamente più unita e avesse piena coscienza del suo ruolo nel mondo, sarebbero obiettivi più ravvicinati. D.  Il tema della governance mondiale è legato anche all’uso legittimo della forza. A quali condizioni e con quale mandato è possibile inviare missioni militari internazionali? La domanda ha una particolare rilevanza in Italia, la cui Costituzione proclama il «ripudio della guerra» e dove i governi di centrosinistra hanno rischiato più volte la crisi su questo tema tanto delicato. R.  L’Italia ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali e consente quelle limitazioni della sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia. È al crocevia di queste due proposizioni dell’art. 11 che deve collocarsi la nostra politica estera e il nostro impegno nelle missioni militari di pace. La vocazione italiana è quella di essere costruttore di pace. Ciò vuol dire che non dobbiamo tirarci indietro quando la presenza militare è legittimata, anzi richiesta, nelle sedi internazionali che riconosciamo e di cui con­72

dividiamo le finalità. Ma ciò non significa che dobbiamo rinunciare al discernimento e a una nostra visione delle relazioni internazionali. La missione Unifil 2 in Libano è stata un vanto dell’Italia: la sua ragione e la sua azione hanno corrisposto pienamente ai principi costituzionali. La missione in Afghanistan è stata necessaria, ma proprio il nostro impegno all’interno della Nato deve consentirci ora di dire francamente le cose che non vanno e di spingere verso soluzioni politiche. La missione in Iraq invece è stata un errore storico dell’amministrazione Bush che il governo Berlusconi ha colpevolmente assecondato: se fossimo stati noi al governo avremmo detto no come la Germania e la Francia. Una politica di pace concreta: questo è il nostro orizzonte. E credo che l’Italia possa dare al mondo anche un contributo specialistico sia nella cooperazione allo sviluppo, sia nel ripristino della legalità e dell’ordine pubblico in alcuni territori usciti dall’incubo della guerra. Sono i settori dove i nostri volontari e i nostri carabinieri costituiscono una riconosciuta eccellenza mondiale.

V

UN PARTITO NUOVO RADICATO IN UNA LUNGA STORIA

D.  Il Pd è nato nel 2007 ma ha alle spalle una lunga storia che rischia di essere persino un po’ ingombrante se non rielaborata. Quali sono, secondo lei, le principali radici storiche di questo partito? Lei si richiama spesso a una tradizione di valori e di simboli ottocentesca, legata al mondo del lavoro, della solidarietà e delle cooperative. Fin dove si può risalire indietro nel tempo? R.  Un partito che si propone come partito dei progressisti del secolo nuovo deve avere una sua visione della storia e coscienza delle proprie radici. Quelle più profonde e lontane del Pd si collocano, a mio giudizio, nella fase in cui il processo di costruzione dell’unità nazionale del Paese si collegò con le istanze popolari delle prime cooperative socialiste e dei movimenti solidaristici di estrazione cattolica e laico-popolare, sostenendo per la prima volta in Italia principi di emancipazione, fratellanza e autorganizzazione dei lavoratori. Tali valori costituiscono le fondamenta della cultura democratica del Pd. La loro affermazione è stato un processo lungo e conflittuale che, da un lato, ha contribuito a completare il movimento unitario italiano e, dall’altro, conteneva al suo interno una critica alle modalità con cui quel cammino nazionale stava avvenendo. Propongo di liberarci dai troppi condizionamenti della storia degli ultimi trent’anni e di provare a recuperare le nostre ­74

radici più profonde. Queste radici insegnano che, se parti dagli ultimi, dai più deboli e sfortunati, sarai capace di costruire una società migliore per tutti. Non classista, non ribellista, ma in grado di essere solidale e aperta. Il Pd è abbastanza antico per non essere solo nuovo, e troppo recente per non avere nel futuro la sua vera sfida. La nostra scommessa sta anche nel rinverdire una storia passata senza imbarazzi o schemi mentali, una storia italiana, legata alle origini della nostra identità nazionale e alle idee guida di lavoro, giustizia e solidarietà. D.  L’impressione è che nelle fondamenta del Pd prevalga soprattutto l’incontro tra cattolici democratici e comunisti italiani. Ma non rischia ciò di dare adito alla solita polemica contro il «cattocomunismo»? R.  Vuole fare un grave torto al Pd chi cerca di ridurlo a una riedizione della cosiddetta politica del compromesso storico. Per quanto mi riguarda, è inaccettabile restare ancora avvitati nella polemica in un orizzonte temporalmente chiuso e limitato agli anni Settanta. Non solo perché le culture riformatrici che animano il Pd vengono da più lontano, ma anche perché Aldo Moro o Enrico Berlinguer appartengono per i giovani di oggi a un passato distante e sempre più sfumato. Peraltro, rileggere la storia con animo aperto serve anche a far ragione di altri pregiudizi. La sinistra italiana non nasce dal bolscevismo ma da processi di autorganizzazione popolare di fine Ottocento. Il Partito socialista è venuto dopo le cooperative e i sindacati, il Partito popolare e quello comunista dopo ancora. E la profondità di uno sguardo retrospettivo può aiutarci a recuperare nella nostra cultura politica il contributo attivo dei socialisti, quello laico radicale e della cultura azionista. Quando parlo dell’apporto di diversi filoni riformatori li immagino come tanti affluenti che ingrossano tutti il fiume nazionale della cultura democratica: la realtà cattolica popolare, l’impegno socialista, ma anche la presenza di ­75

una vena radicale, laica e repubblicana come, ad esempio, il mazzinianesimo in Romagna. È vero, c’erano contraddizioni profonde come la disputa intorno al concetto di proprietà privata tra socialisti e cattolici. Il primo, vero momento di ricongiungimento di queste diverse culture è rappresentato dalla Costituzione, che ha edificato una casa comune per tutti ed è l’impasto che ci tiene insieme. Ecco, se dovessimo individuare nel percorso storico nazionale il crocevia dove è collocata la pietra angolare del Pd, non avrei dubbi nell’indicare il lavoro e la temperie dell’Assemblea costituente. Il Pd è soprattutto il partito della Costituzione e della Repubblica. D.  Per lunghi anni ha prevalso il cosiddetto «nuovismo». Il presente e il futuro sono stati descritti come la negazione della storia anche recente. Non manca chi cerca di far dimenticare di essere stato democristiano o comunista. Non crede, onorevole Bersani, che la retorica del «nuovismo» nasconda in realtà un vuoto di prospettive, se non addirittura un’attitudine gattopardesca? R.  Sono sempre stato assai critico con i cultori del «nuovismo», anche perché quel che è nuovo veramente lo giudicherà la storia. John Keynes diceva: «Non so cosa rende l’uomo più conservatore: se conoscere solo il presente o conoscere solo il passato», anche se poi giudicava i primi più conservatori degli altri. Il nuovo è davanti a noi, ma per affrontarlo bisogna essere nelle condizioni adatte. Conosco la fatica del cambiamento, ma per cambiare devi sapere chi sei e da dove vieni. Questi temi non riguardano solo il centrosinistra, ma la politica nel suo insieme, che per essere degna di essere vissuta deve muoversi dentro un solco che segna una direzione. Se non percepisci di avere qualcosa alle spalle – e non si tratta di una questione intellettualistica, ma di un sentimento, di un’urgenza intima – allora non stai facendo politica, ma carriera. La politica, almeno io così l’ho sempre concepita, ha un elemento di ­76

gratuità e di generosità fondamentali e va fatta nella consapevolezza di portare avanti ciò che ti è stato consegnato. Io ho sempre rivendicato di essere stato un comunista italiano e questa mia propensione a vedere nel Pd un tratto popolare e un’aspirazione di carattere umanista potrebbe dare di me l’idea di una personalità troppo continuista; ma non è così, questa è un’interpretazione troppo superficiale. Chi taglia i ponti con il proprio passato e si fa nuovista, pensando di non avere niente dietro di sé, produce una politica debole e incapace di affrontare i temi veri, rischiando anche di mettersi al margine di culture e fermenti rinnovatori che si muovono nella società. C’è una bella differenza tra rinnovamento e nuovismo. Il Pd mi piace proprio perché è uscito da una curvatura storicista che ha caratterizzato la storia del Pci e perché, nello stesso tempo, non si è arreso alle esperienze della socialdemocrazia e ha cercato nuovi orizzonti: l’impronta costituzionale, una prospettiva di solidarietà e di emancipazione di carattere umanistico. In questo senso il Pd incarna l’idea che io ho della politica. D.  Ci sorprende questo accenno critico allo storicismo della cultura politica del Pci come limite, anche perché lo storicismo è un tratto comune a gran parte della cultura nazionale. Possiamo approfondire tale aspetto? R.  Il Pci era culturalmente un partito intriso di una forma di storicismo, debitrice della tradizione dell’idealismo italiano e tedesco, che spiegava ogni fenomeno secondo lunghe continuità senza strappi. Si tracciavano ampie campate affascinanti sul piano delle proiezioni teoriche, ma che non sempre aiutavano a capire la realtà e a comprendere i suoi mutamenti. È per questo motivo che ho sempre mantenuto una riserva critica nei confronti del compromesso storico: mi sembrava una proposta politica intrisa di una dimensione organicistica che voleva per forza inserirsi dentro uno sviluppo a tappe obbligate, e in armoniosa successione evo­77

lutiva, del rapporto tra Pci e storia nazionale. L’ambiguità di fondo, che percepivo già quando ero un giovane dirigente emiliano-romagnolo, riguardava il fatto di considerare la democrazia la via per arrivare al socialismo mentre restava inespresso il modello di società alla quale aspiravamo. Con lo storicismo ammetto di avere sempre avuto un rapporto difficile: che esista una direzione della storia è solo una delle possibilità, ma non è vero che andiamo dritti verso un obiettivo perché la vicenda umana è sempre il frutto di atti volontari, mai predeterminati, in cui l’uomo, al fondo, è libero e quindi inevitabilmente soggetto a scarti imprevedibili e ad arretramenti. D.  Gli ultimi vent’anni della cultura politica sembrano dominati dal ruolo determinante della comunicazione e dei suoi linguaggi. Come brucia il tempo la società della comunicazione? Non teme che siano proprio i suoi canoni a indebolire la prospettiva storica? R.  Sono consapevole che alcuni argomenti affrontati in questa intervista possano dire poco alle nuove generazioni. È normale che sia così perché ciascuno è figlio del proprio tempo. Vorrei tuttavia che i più giovani riuscissero a mettere le loro aspirazioni nel solco di una riflessione che abbia radici e un orizzonte. Dunque propongo loro un metodo che non si fermi alla presa d’atto del paesaggio che ci circonda. Mi rendo perfettamente conto che questa visione dell’impegno politico immerso nella storia rischia di entrare in conflitto con l’accorciamento dei tempi imposto dalla società della comunicazione. È la comunicazione stessa con i suoi meccanismi a mangiarsi il giorno dopo quello che è stato detto e fatto il giorno prima. Ma ciò non può diventare l’alibi per avere una politica debole: sono in tanti oggi a dire che la politica non serve a nulla o a screditarla sempre di più per meglio difendere i propri interessi. La pretesa leggerezza della politica finisce per allearsi con la conservazione e l’indifferenza. La politica ­78

per me, invece, è lo strumento che serve a cambiare e a migliorare le cose, le condizioni del lavoro, i diritti degli uomini e delle donne. Per questo mi appassiona parlare sia di radici che di orizzonti. D.  A partire dalla metà degli anni Sessanta, in Italia come nel mondo si è diffusa la cultura della cosiddetta «nuova sinistra» e del «marxismo critico». Lei, peraltro, è di Piacenza dove fu fondata la rivista «Quaderni piacentini» che nel 1968-69 divenne strumento di elaborazione e diffusione delle idee del movimento studentesco e dell’area extra-parlamentare. In questi fermenti innovativi c’è ancora qualcosa di utile da conservare sul piano culturale e politico? R.  La «nuova sinistra» ha rappresentato fermenti critici che hanno avuto la capacità di leggere le novità dello sviluppo capitalistico, quelle prodotte in particolare nell’ambito dell’organizzazione del lavoro. Tuttavia, ho una critica radicale da muovere verso i caratteri di volontarismo e di elitarismo di quella galassia, caratteri che l’hanno portata in molte sue frange a sottovalutare o addirittura a ripudiare pericolosamente la democrazia come condizione ineludibile dell’uguaglianza. In quella galassia comunque vivevano anche istanze che oggi chiameremmo di società civile e che esprimevano un bisogno di politicità intesa come partecipazione, riconoscimento dei diritti, autogoverno, senza trovare risposte adeguate nell’assetto degli anni Settanta e Ottanta. Il Pd ha oggi anche questo obiettivo: provare a dare risposte che la società civile attende da tempo e per farlo ha la necessità di essere il più possibile capiente e amichevole nei confronti delle domande di modernizzazione rimaste inevase nel corpo sociale e civile italiano. Questo ci deve aiutare ad affrontare meglio temi radicalmente nuovi come l’ambiente e lo sviluppo sostenibile, il rapporto fra democrazia e nuove tecnologie, le sfide poste dalla globalizzazione, le relazioni fra culture e religioni diverse. E ancor di più ci deve aiutare a valorizzare ­79

e a dare nuova prospettiva al grande lascito novecentesco del processo di emancipazione femminile, la vera e autentica rivoluzione del secolo scorso. D.  Nel 2011 ricorrono i 150 anni dell’Unità d’Italia. In cosa consiste per lei il valore dell’unità nazionale? È possibile trarre un bilancio positivo di questo secolo e mezzo oppure deve necessariamente prevalere lo stereotipo interpretativo delle occasioni mancate? R.  L’Italia è sempre stata riconoscibile dal mondo per i tratti comuni del suo particolarismo: il campanile, la fontana, la piazza, il palazzo comunale, il mercato. La storia della penisola è stata profondamente condizionata dall’assenza di uno Stato unitario, ma l’Italia come Paese si è progressivamente costruita, a partire dall’XI secolo, attraverso un intreccio sempre più fitto e stratificato di elementi umani, sociali e culturali (dalla moneta alla mercatura, dalla lingua alla religione, dai giardini alla moda, dalla cucina alla musica) che nel tempo hanno forgiato il carattere originale degli italiani rendendolo specifico nel mondo. Il nostro farci nazione è stato tardivo, ma non abbiamo solo mancato delle occasioni, le abbiamo anche sapute cogliere. La nostra storia ci consegna alcuni caratteri strutturali quali la presenza di reti corte sul piano delle relazioni interpersonali e una pronunciata individualità di carattere sociale, territoriale e famigliare. Per queste ragioni, non la nazionalità, ma la statualità italiana è più difficile che altrove: perché non abbiamo avuto una vera e propria rivoluzione e l’unità è stata raggiunta largamente per via diplomatica, e anche perché questo sentirsi nazione è molto legato alla somiglianza e alla prossimità dei caratteri locali, a una sorta di teoria degli insiemi. Elementi dissociativi possono sempre avere aggio sull’esigenza di sentirsi Paese e di manifestare quotidianamente la volontà di continuare a esserlo. Quando il Pd si propone di essere un grande partito della nazione non vuole avere un riflesso difensivo ­80

o retorico, ma rappresentare un impegno a riprogettare nelle condizioni nuove l’unità italiana, il vincolo e l’intenzione del nostro stare insieme. D.  Il Risorgimento è stato un processo lungo e conflittuale che solo dopo vari decenni ha elaborato la triade patriottica Cavour, Mazzini, Garibaldi. Un discorso simile potrebbe essere fatto per la Resistenza. Sono esistite tante Resistenze (civili, militari, comuniste, anticomuniste, socialiste, cattoliche, azioniste). È giusto ricordarle tutte? C’è un rapporto storico tra Risorgimento e Resistenza? R.  Il Risorgimento e la Resistenza sono due grandi processi storici che io vedo in continuità ideale: ci sono forze e culture che si innestarono criticamente nella vicenda unitaria del Paese ma che hanno poi trovato una direzione di marcia comune con la Resistenza e la Carta costituzionale. Queste buone radici sono state la bussola dello sviluppo italiano. Anche per questo è giusto ricordare tutte le Resistenze al nazifascismo che hanno percorso la vita politica e civile italiana: da diversi lati e prospettive si sono creati grumi di visione ideale comune che hanno consentito di scrivere la Costituzione e poi di difenderla. La democrazia politica in Italia, quella che implica il suffragio universale, nasce dopo il fascismo come frutto della Resistenza: quanti hanno costruito la democrazia politica in Italia erano giovani, per lo più cresciuti sotto la dittatura, e provenivano da storie politiche molto diverse, eppure riuscirono a edificare una piattaforma condivisa nel fuoco di quella drammatica vicenda. All’inizio del Novecento, in particolare con Giovanni Giolitti, si gettò per la prima volta uno sguardo verso le grandi forze popolari e si provò a legittimarle. Il fascismo scaturì proprio dal fallimento di quel disegno politico, dal tentativo sconfitto di arrivare a una evoluzione senza traumi della democrazia liberale italiana, sulla quale si abbatté la scure della Prima guerra mondiale che mutò la composizione sociale e politica del Paese. Per ­81

questa ragione chi ha scritto la Costituzione, dopo oltre vent’anni di dittatura fascista, ha dovuto inventarsi tutto o quasi, e forse proprio grazie a questa libertà e possibilità di sperimentare ha dato vita a una delle carte più ricche del costituzionalismo moderno: dico sempre che abbiamo la Costituzione più bella del mondo! Se leggiamo i principi fondamentali della Carta possiamo continuare ancora oggi a vederci riflesso il nostro presente e il nostro futuro di cittadini italiani ed europei. D.  Le vicende politiche e istituzionali del dopoguerra sono state sintetizzate nella formula coniata da Pietro Scoppola della «Repubblica dei partiti». La condivide? Quali considera i principali successi, limiti ed errori dei grandi partiti popolari? R.  Sì, la condivido. Ho un giudizio complessivamente positivo sulla cosiddetta Prima Repubblica sino alla fine degli anni Sessanta in cui i partiti sono riusciti a garantire uno sviluppo di carattere progressivo della società italiana. In quella fase ci sono stati grandi leader democratico-cristiani a cominciare da Alcide De Gasperi, ma gli stessi comunisti italiani hanno avuto un ruolo importante nell’avvicinare il popolo alla democrazia politica e nel condividere la chiave della crescita economica dando vita a una reciprocità conflittuale. I grandi partiti di massa navigavano nelle stesse acque in modo concorrenziale: è stata questa reciprocità competitiva a fare il Paese, tenuto diviso dalla logica dei blocchi contrapposti, ma unito dalla saggezza di fondo della classe dirigente cresciuta con la Costituzione. A partire dalla crisi degli anni Settanta è come se il meccanismo si fosse inceppato dando origine a una torsione degenerativa della politica che non è riuscita più a formulare risposte all’altezza dei problemi che via via si presentavano in agenda. Ritengo che il tramonto del berlusconismo potrebbe essere un punto di svolta di questo lungo ciclo. Berlusconi ha costruito le sue fortune ­82

sul discredito della politica: ora siamo a un bivio, davanti a noi c’è la deriva o la riscossa e ne avverto tutto il peso e la conseguente responsabilità. D.  Da un paio di decenni è cresciuta la domanda di federalismo, non solo al Nord ma anche nelle regioni tradizionalmente amministrate dalla sinistra. Qual è il modello federalista auspicato dal Pd e in cosa si differenzia dalla proposta della Lega? Considera la secessione un pericolo effettivo per l’Italia? R.  Il tema dell’unità italiana non va sviluppato in modo retorico: dentro l’idea di unità devono essere sempre presenti i concetti di sistema e di reciprocità, altrimenti ci si limita a sventolare una bandiera. Considero il Pd un partito patriottico, riformatore e autonomista. E intendo usare la parola patriota in quanto si tratta di un valore sempre legato al coraggio e all’innovazione, mai alla conservazione. Nel 1796 Melchiorre Gioia vinse un concorso indetto dalla Società di Pubblica Istruzione di Milano sul tema «Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità d’Italia»: parteciparono tanti intellettuali, ciascuno con la propria ricetta, ma una parte di questi aveva un comune denominatore, ossia l’idea che l’unità si sarebbe potuta realizzare solo mobilitando le risorse locali, diffondendo la cultura democratico-radicale e favorendo meccanismi di partecipazione dal basso. Già allora si contrapponeva a questo modello unitario uno schema di carattere confederale, il quale partiva dal presupposto che eravamo troppo vicini per essere separati, ma troppo diversi per stare insieme e dunque sarebbe servita un’autorità di coordinamento: per alcuni era il papa, per altri la Francia o i Savoia. Ricordo questi aspetti per sottolineare il fatto che una visione legata a impulsi di carattere locale è un tratto distintivo di lunga durata dell’identità italiana, non solo sul piano teorico, ma anche su quello pratico. Il Pd si nutre di questi valori: la fiducia che un forte meccanismo autonomista possa ­83

portare in modo più efficiente al riconoscimento di diritti comuni è parte integrante della nostra cultura di governo. Il federalismo, dunque, è un obiettivo positivo se aiuta a far crescere i livelli di cittadinanza, altrimenti diventa un impoverimento per il Paese. La definizione degli standard di servizio deve avvenire in via preliminare per consentire poi di governare il processo federalista in termini di incentivi e di disincentivi. Solo facendo così è possibile evitare conseguenze di carattere separatista che sono presenti nel patto politico tra il ministro del Tesoro Giulio Tremonti e la Lega, i quali, in ultima analisi, identificano nel Sud l’albero storto da tagliare. Insomma, nella mia idea di federalismo vi è la centralità delle forze locali, ma non la perdita di una visione e di una intenzione nazionale, che anzi ne ­deve uscire rafforzata. Voglio fare un esempio concreto: in Emilia Romagna oggi trenta bambini su cento frequentano gli asili-nido, in Calabria solo due. A quale risultato deve condurre il federalismo? Avvicinare l’Emilia Romagna alla Calabria o la Calabria all’Emilia Romagna? Il federalismo che abbiamo in mente noi deve portare progressivamente tutto il Paese sugli standard migliori, stimolando e incentivando le responsabilità locali. Per questa ragione il federalismo della Lega è ideologico: quel partito, quando è al governo, strumentalizza questo concetto per far passare l’idea difensiva che organizzarsi secondo territori omogenei metta al riparo dai problemi del mondo. Appunto perché è un’ideologia, essa si sposa con un dato di fatto clamoroso, che la propaganda, nonostante i suoi sforzi, non riesce a coprire: i comuni italiani, sia del Nord sia del Sud, non sono stati mai trattati peggio come oggi dall’autorità centrale. Per essere federalisti non basta mettere un fazzoletto verde nel taschino. Per me il colore di un comune è quello del suo gonfalone. Peraltro tutto quello che è stato in termini di politiche locali lo hanno inventato le nostre culture, dagli asili-nido alle aree artigianali, dall’urbanistica ai consorzi sociosanitari, e quindi alla sanità pubblica. La Lega fin qui ha inventato solo le ronde, che si sono perse nel bosco. ­84

D.  Non pensa che ci sia stata nei confronti della cultura e del linguaggio leghista una grave sottovalutazione, la quale ha indotto a derubricare come caratteriali e folkloristiche alcune prese di posizioni pubbliche, che invece hanno pesantemente inciso sul sentire comune? R.  Il populismo è la rottura del politicamente corretto nel linguaggio. Che, certo, ha conseguenze. Io non penso affatto che gli elettori della Lega siano razzisti, né che lo siano i loro dirigenti. Ma la cultura del «ciascuno a casa sua», cioè di un localismo ispirato al mito della comunità omogenea, può aprire spazi a tentazioni e derive razziste. Quando Umberto Bossi era autonomista, nei primi anni Ottanta, io andavo a sentirlo e da subito capii che il fenomeno leghista non poteva essere sottovalutato perché esposto, soprattutto davanti a crisi economiche, a un ripiegamento di carattere regressivo. Come spiegavo in precedenza, esiste un localismo positivo quando ci si attrezza a organizzare e mettere in rete le diverse vocazioni territoriali. Bisogna però evitare di fare tante repubbliche separate dove tutto ciò che sta da te è per definizione buono! La sfida è quella di mettere in rete specificità e competenze locali creando un sistema interdipendente e virtuoso. Dalla mia esperienza di presidente dell’Emilia Romagna ho capito che la regione non è un popolo, ma una istituzione che fa sistema al suo interno, che è proiettata verso l’esterno, che deve aiutare le singole realtà locali a connettersi con il livello nazionale e con quello globale per aumentare la qualità della vita dei suoi cittadini. La vera sfida federalista non è nel ripiegamento identitario, ma nel portare il livello locale e regionale dentro una dimensione nazionale e globale, tenendo però ferme le vocazioni simboliche e le tradizioni comunitarie di un territorio. D.  Nel primo capitolo abbiamo parlato dell’immigrazione come problema che genera paura. L’immigrazione nondimeno è anche una risorsa e la realtà occupazionale dei ­85

nuovi immigrati è sotto gli occhi di tutti. Svolgono lavori spesso mal pagati, privi di garanzie, che gli italiani si rifiutano di fare, pagano le tasse e finanziano il nostro Stato sociale. Urge la definizione di una nuova cittadinanza, di un patto che coniughi insieme diritti e doveri. Non è forse anche questa l’occasione per ridefinire cosa significhi essere italiani? R.  Il locale è anche il luogo che potrebbe dare una mano a uscire dalla spirale clandestinità-illegalità nei processi di immigrazione. Non si capisce, ad esempio, perché sia necessario passare di sanatorie in sanatorie gestite a livello nazionale e non si possa usare il livello territoriale per stabilire se una badante ucraina è una persona per bene. Le migrazioni hanno una portata epocale e ciascuna persona razionale sa che si tratta di un dato ineluttabile che richiede capacità di governo. Tra le cause che le determinano c’è anche l’andamento socio-economico e quello demografico di un Paese come il nostro. La realtà è semplice: noi non saremmo in grado di mantenere lo Stato sociale che abbiamo e la stessa base produttiva senza il contributo degli immigrati. Allora compito della politica è quello di far maturare un approccio ragionevole al problema, senza piegarlo ai propri fini elettoralistici. Come tutti i grandi fenomeni scorre simile a un fiume fangoso che trascina accanto a comportamenti virtuosi anche problemi, instabilità e gravi disturbi dell’equilibro sociale. Il più grave è che il disagio provocato dall’immigrazione si scarica totalmente sui ceti più deboli perché gli immigrati vanno a vivere accanto ai nostri poveri. Per questa ragione, in queste zone di disagio bisognerebbe moltiplicare gli sforzi e le risorse offrendo servizi, lavoro, condizioni abitative sostenibili. Come finanziare questi interventi che dovrebbero per l’appunto partire dalle zone più disagevoli ove si concentra l’emigrazione? A proposito di federalismo sarebbe utile applicare una fiscalità locale che consentisse a un comune di dire: ho la disponibilità di dieci posti in case popolari o asili-nido, ma per ogni soluzione che offro a ­86

un immigrato devo essere in grado di creare un posto nuovo per un povero italiano. E a fornire le risorse necessarie dovrebbe essere anzitutto chi non è toccato direttamente da questi disagi, e magari trae dall’immigrazione il maggior beneficio. D.  Non trova che sia profondamente ingiusto che gli stranieri che pagano le tasse in Italia non possano votare, neppure a livello amministrativo? R.  È ingiusto. Nelle elezioni locali dovrebbero poter votare. Va detto che l’accoglienza non significa di per sé cittadinanza, ma tuttavia il percorso di cittadinanza resta la più formidabile modalità di integrazione. Che questo processo avvenga nel modo migliore è un assoluto interesse anche per noi. Abbiamo 50.000 bambini che nascono nel nostro Paese ogni anno da immigrati e che oggi non sono italiani, né stranieri. È grave, gravissimo che noi non siamo capaci di dire loro chi sono. Dal mio punto di vista sono italiani e riconoscere la cittadinanza a chi nasce nel nostro Paese è una priorità. Se facciamo un computo del dare e dell’avere, la verità è che gli immigrati sono in credito con noi perché quello che arriva in termini di contributi da loro è enormemente superiore a quanto ci costano in servizi. Naturalmente, è necessario stabilire un sistema di quote ben regolato ed efficiente. Ma si dovrebbero anche individuare strumenti selettivi per favorire una immigrazione di qualità. Invece non usciamo dal circuito vizioso sanatoria generalizzata/demonizzazione dello straniero che non produce sviluppo e non consente di governare il fenomeno, ma crea bacini di rancore e di diffidenza che sarà sempre più difficile prosciugare.

VI

AMBIENTE E CRESCITA MAI PIÙ DIVISI

D.  Il pianeta vive una grave emergenza ambientale. La domanda di energia continua a crescere ma, aumentando i ritmi di consumo delle materie prime, di emissione di CO2 , di desertificazione, vengono minacciate le condizioni stesse di vita delle generazioni future. Non le sembra che questi temi fatichino a entrare nella cultura, nei programmi e nell’identità delle forze progressiste? R.  Energia e ambiente sono due gemelli che litigano. Ma le forze progressiste possono, devono battersi per comporre o almeno ridurre il conflitto e costruire, nel vivo di questo impegno, nuovi modelli di crescita. Quattro sono le piste da percorrere: efficienza energetica; sviluppo delle fonti rinnovabili; nuove tecnologie di utilizzo con minore impatto ambientale delle fonti tradizionali, come il petrolio, il gas, il carbone; ricerca e promozione industriale per smantellare il vecchio nucleare e partecipare allo sviluppo del nuovo nucleare pulito, avvicinando la quarta generazione. Si tratta di linee tracciate su scala planetaria. E alla politica non può sfuggire che ognuno di questi settori ha già, e avrà ancor più nel futuro, enormi ricadute non solo sull’equilibrio ecologico e sull’ambiente domestico, ma anche sulle politiche industriali, sul potenziale di ricerca e di tecnologia, insomma sullo sviluppo dei sistemi-Paese. ­88

D.  Quando la sinistra ha incrociato le battaglie ambientaliste spesso è prevalsa la politica dei «no»: no a produzioni inquinanti e pericolose, no a infrastrutture importanti, no a interventi sul territorio. Non teme che questi atteggiamenti, peraltro causa non marginale della fine dell’ultimo governo Prodi e dell’Unione, possano ripetersi? R.  Non nego che le culture politiche tradizionali abbiano fatto fatica a prendere le misure delle tematiche ambientali. E i movimenti verdi, nel portare alla luce problemi vitali per le nostre società, hanno dimostrato come questi problemi fossero spesso più grandi di loro. Tuttavia rifiuto l’identificazione della sinistra con la politica del «no». Questa immagine sbagliata è anche il frutto avvelenato di una propaganda di destra che vorrebbe proporsi come il «partito del fare»: la verità è che nell’energia le uniche grandi riforme sono state fatte dalla sinistra, mentre la destra non ha fatto nulla, anzi ha in parte disfatto quello che avevamo avviato. Se oggi abbiamo un nuovo parco di centrali elettriche più efficienti, più pulite e più economiche è perché, con il primo governo Prodi, riuscimmo a liberalizzare il settore elettrico. Grazie a quella riforma sono stati realizzati investimenti privati per oltre 20 miliardi di euro, si sono ridotte le emissioni di oltre 20 milioni di tonnellate di CO2 all’anno e, secondo l’Autorità dell’energia, si sono ridotti i costi di 4 miliardi di euro l’anno. Da allora non si è fatto un passo avanti nelle liberalizzazioni del settore energetico, ed invece ce ne sarebbe un gran bisogno sia nel settore del gas che in quello dei carburanti. D.  Non negherà che, al di là delle scelte operate dai governi di centrosinistra, esiste una diffusa resistenza a interventi che possono modificare gli equilibri di un territorio. R.  La questione centrale, a mio giudizio, è che, prima di occuparsi dell’ideologia del «no», occorre rimuovere quella rete di interessi che nasce dai grandi e piccoli monopoli ­89

e che trae vantaggio dalla conservazione e dall’amplificazione dei conflitti. Poi occorre occuparsi concretamente dei fattori sociali e territoriali che producono i «no»: basta guardarsi attorno per scoprire che contro una discarica, o un impianto, o un sito potenzialmente inquinante si muove la politica più trasversale e le barriere ideologiche vengono travolte dall’interesse locale. Ma, se occorre fare una nuova discarica, vogliamo occuparci ad esempio del fatto che il valore delle abitazioni intorno diminuisce? O pensiamo che la gente non lo sappia? Solo se si affrontano e si risolvono i problemi reali si può avere la credibilità per superare la presunta contrapposizione tra ambiente e crescita, o meglio la diffusa percezione dell’ambiente come limite e freno pur necessario alla crescita. Ecco questo è il paradigma che le forze progressiste devono riuscire a ribaltare: un paradigma che sta a monte dei «sì» e dei «no» da comporre diversamente in un progetto-Paese. Per vent’anni i sondaggi demoscopici hanno rivelato come la sensibilità ambientale crescesse nell’opinione pubblica in tempi di fiducia e ottimismo sullo sviluppo, diminuendo invece nei periodi di crisi. Da qualche anno però non è più così. Sta aumentando la consapevolezza che l’ambiente non sia solo una doverosa ricerca di compatibilità, ma un motore nuovo per una crescita con maggiore qualità. Mettere l’ambiente nel cuore delle politiche produttive, industriali, di crescita è una grande chance per le forze progressiste, perché la cultura conservatrice è più attardata sulla contrapposizione ambiente-sviluppo. D.  Non sarà comunque facile per nessuno comporre in un governo gli inevitabili contrasti tra il ministro dello Sviluppo e quello dell’Ambiente. R.  Penso che sia arrivato il tempo di concepire un ministero dell’Economia e del Territorio, capace di incorporare i temi ambientali e di fare della green economy un vettore di politiche industriali, di piani territoriali di ­90

riconversione, di progetti-Paese. La separazione tra Sviluppo e Ambiente produce riflessi difensivi, che rallentano l’azione: ne abbiamo avuto esperienza nel governo dell’Unione. Dobbiamo andare oltre e compiere una scelta di innovazione coraggiosa, portando l’ambiente da fattore complementare dello sviluppo all’interno del motore della crescita nazionale. Non sarà un incontro pacifico. L’architettura di questo progetto ha elementi problematici, a partire dall’equilibrio dei costi. Ma questa è la sfida. Quando, da ministro, presentai il programma «Industria 2015» la questione del risparmio e dell’efficienza energetica era in cima alla gerarchia delle priorità. E l’aumento dei prototipi e dei brevetti in questo campo era il primo obiettivo da raggiungere. Ho lavorato al ministero dello Sviluppo con ambientalisti veri e sono convinto che questa sia la strada del futuro, collaborare avendo in mente un progetto nazionale per il Paese. D.  Vuol dire che, se il Pd andrà al governo, non ci sarà un ministro dell’Ambiente? Non teme che ciò possa essere letto come un passo indietro nella sensibilità ecologista anziché come un passo in avanti? R.  Sarebbe decisamente un passo avanti un ministro dell’Economia e del Territorio, che tenga insieme le attuali competenze dei ministeri dello Sviluppo e dell’Ambiente, che sia pilastro delle politiche economiche al pari del ministero del Tesoro e delle Finanze, che sappia portare avanti e dare il giusto rilievo ai programmi nei diversi settori della green economy. Penso che sia arrivato il momento di fare un salto nell’organizzazione delle politiche pubbliche. Togliere all’ambiente la simbologia del limite e togliere allo sviluppo la simbologia prometeica dell’illimitato, è un’operazione di grande valore culturale, oltre che politico, di cui proprio il centrosinistra può farsi protagonista. Ma la nuova organizzazione non avrebbe solo un valore simbolico. Deve essere funzionale a introdurre nell’ammi­91

nistrazione i tre valori-guida per conseguire un’efficienza vera: la trasparenza e la partecipazione delle decisioni, il coordinamento operativo con gli enti locali e, soprattutto, la cultura del controllo. La diffidenza della gente non si supera con cento autorizzazioni diverse, ma assicurando un controllo indipendente, affidabile ed efficace, attrezzato tecnicamente e insensibile alle lusinghe del mercato e della politica. È questa semmai la nuova funzione che va strutturata e organizzata. D.  È convinto davvero che la green economy possa diventare un vettore rilevante del sistema produttivo? Non c’è il rischio, invece, che, quando si parla di risparmio e di efficienza energetica come di fonti rinnovabili, si mettano in moto operazioni ad alti costi e scarsa remunerazione economica? R.  Il vero rischio è l’opposto: che l’Italia perda altro tempo, che non decida su cosa puntare. Perché non si può dire: facciamo quel che viene o facciamo un po’ di tutto. Senza fissare delle priorità, senza progetti-Paese, senza una politica industriale, ci condanniamo a una progressiva marginalità nei mercati. Noi siamo indietro. L’Italia è un Paese importatore di energia e da noi l’energia costa di più che altrove. Ma la ricetta per abbassare le bollette non è certamente il costoso nucleare che vuole il governo. Su questo tema la propaganda ha raggiunto il paradosso di promettere la riduzione del 30% delle bollette producendo il 25% di energia nucleare: sono promesse che offendono l’intelligenza degli italiani visto che i conti non tornerebbero neanche se il nucleare fosse gratis. La ricetta è invece quella di abbassare il più possibile, con le liberalizzazioni e la concorrenza, il costo delle fonti, come il metano, che ancora a lungo saranno le principali risorse energetiche dell’Italia. E nel frattempo investire in un progetto-Paese fondato sull’efficienza energetica e le fonti rinnovabili. Per crescere bisogna investire e i progetti di efficienza energetica sono in primo luogo un’opportunità ­92

di investimento profittevole, sia per i privati, che possono beneficiare della riduzione indotta dei costi della bolletta, sia per lo Stato, che può ben compensare i minori introiti dalle imposte sull’energia con le maggiori entrate della fiscalità diretta e indiretta attivata dagli investimenti. Ma il progetto-Paese dell’efficienza energetica non consiste solo nel realizzare buoni investimenti: è creare un nuovo sistema industriale. Ovviamente non parlo soltanto di progetti di singole aziende, di ricambio dei motori elettrici delle fabbriche: è l’intero campo del risparmio e dell’efficienza energetica che può diventare una specialità italiana, incrementando brevetti e prototipi, dunque favorendo l’export di tecnologie italiane. Abbiamo già punte di eccellenza: si tratta di medie imprese con importanti commesse in India, in Asia e in ogni parte del mondo. Bisogna crederci, definire incentivi mirati, sostenere le innovazioni. Peraltro, l’efficienza energetica offre buoni margini pure nel settore delle abitazioni e delle costruzioni, dove è possibile mobilitare il capitale privato: la green economy può dare una mano persino al più tradizionale e consolidato vettore di crescita economica del nostro Paese. Ma nel Pil buono che si produce devono trovare sempre spazio ricerca, brevetti, nuove tecnologie, perché questa è la competizione globale a cui l’Italia non può sottrarsi. D.  Anche le fonti rinnovabili hanno questo potenziale espansivo? L’obiettivo del «20-20» (20% di energia prodotta da fonti rinnovabili entro l’anno 2020) fissato dall’Unione europea non rischia di costare troppo alle imprese e al Paese? R.  Le fonti rinnovabili non producono gas serra, né scorie: quindi costituiscono un valore e certamente non debbono essere messi in discussione né il «se», né il «quanto» degli obiettivi europei. Però dobbiamo discutere del «come» perché oggi le rinnovabili presentano un problema di costi e un problema di opacità nella gestione delle ­93

autorizzazioni, entrambi generati anche (ma non solo) da un livello eccessivo delle incentivazioni pubbliche. Il progetto-Paese delle rinnovabili non può risolversi solo nel fissare obiettivi e incentivi più o meno decrescenti: occorrono scelte che mettano a sistema la ricerca, l’industria e le infrastrutture. Se vogliamo cogliere tutte le opportunità che le rinnovabili offrono dobbiamo evolvere da Paese importatore a Paese esportatore di impianti e di tecnologia. D.  Non le pare un proposito troppo ambizioso per essere realistico? R.  Non possiamo diventare un Paese esportatore per tutte le fonti rinnovabili e per tutte le possibili applicazioni, ma possiamo giocarci le nostre carte se avremo la capacità di fare scelte sulla base dei punti forza, attuali e potenziali, delle nostre imprese: penso ad esempio alla geotermia, al solare termico e fotovoltaico integrato nei tetti, al solare termodinamico, al mini-eolico, al mini-idroelettrico, alle biomasse nell’agricoltura e nella silvicoltura. Ma non basta: il progetto-Paese deve anche fare in modo che le fonti rinnovabili realizzate non abbiano limitazioni nella produzione per problemi di rete, come oggi accade sempre più frequentemente. Se non faremo questo e altro ancora non basterà il fascino del grande obiettivo europeo del «20-20». Quando l’Unione europea fissa l’asticella molto in alto c’è il rischio che tanta gente passi sotto senza neppure provare a saltare. Insomma, da noi c’è il rischio che l’incentivo si ribalti in disincentivo. Invece dobbiamo mirare all’obiettivo selezionando i settori su cui puntare. È una partita decisiva che non riguarda solo noi, ma anche i nostri figli. D.  Il drammatico incidente nell’impianto di Fukushima peserà a lungo sugli orientamenti dell’opinione pubblica interna e internazionale. Non ritiene comunque che la rinuncia al nucleare abbia comportato per l’Italia, oltre che uno svantaggio competitivo, anche un grave ritardo tecnologico? ­94

R.  La vicenda del Giappone mostra che i timori dell’opinione pubblica a proposito del nucleare non possono essere liquidati come irrazionali. Per quanto se ne riducano le probabilità, le drammatiche conseguenze di un incidente «improbabile» allarmano, e non a torto, come si è visto. Peraltro ancora non si trova soluzione al problema delle scorie e anche questa non mi pare una preoccupazione irrazionale. Nel caso italiano si pongono poi ulteriori domande: dopo più di vent’anni di interruzione è davvero conveniente ricominciare? I progressi tecnologici sono tali da ridurre significativamente i problemi? I vantaggi in termini di produzione di energia riusciranno a compensare i costi di realizzazione delle nuove centrali? Le risposte a questi quesiti sono decisamente negative. Anche prima del dramma del Giappone, il «fantapiano» nucleare del governo mi era apparso sbagliato e irrealistico, perché si rivolgeva a un Paese impreparato. In Italia le università e gli enti di ricerca hanno perso gran parte delle risorse umane e delle competenze, le poche industrie sopravvissute hanno bisogno di riqualificazione e di certificazioni, i soggetti istituzionali deputati al controllo devono ancora nascere e quindi acquisire affidabilità, competenze e credibilità. In queste condizioni, che non si cambiano in pochi anni, non solo il costo di installazione dei nuovi impianti è straordinariamente alto, ma non ci saranno né sconti nella bolletta energetica, né benefici per il sistema industriale che riusciranno a compensarlo. Inoltre la tecnologia non sarebbe italiana, ma nel caso del­ l’Epr scelto dall’Enel, francese: dunque l’affare sarebbe anzitutto francese. Non va poi nascosto che siamo ancora lontani da quel salto generazionale in grado di risolvere i problemi di economicità e di smaltimento delle scorie, e soprattutto i problemi di una sicurezza intrinseca in modo completamente convincente. In Italia non è stato neppure individuato il deposito temporaneo di superficie che dovrebbe ospitare le scorie delle vecchie centrali, mentre il governo ha tentato addirittura di definire un sito geo­95

logico a Scanzano Ionico! Neppure gli Stati Uniti hanno ancora stabilito un loro sito geologico: da noi invece il governo ha sparato la balla di Scanzano e poi, dopo la rivolta popolare, è fuggito in ritirata. Sono dati di fatto, senza coloriture ideologiche. Insomma, innalzare oggi la bandiera del nucleare è sbagliato e irrealistico e devia l’attenzione dalle politiche di liberalizzazione e di promozione dell’efficienza energetica e delle fonti rinnovabili, che dovrebbero avere per noi un carattere prioritario e che invece negli ultimi due anni sono state completamente disarticolate. Solo specializzandoci, il che vuol dire mobilitare industria e ricerca, possiamo trasformare il nostro ritardo sull’energia in opportunità. D.  Eppure alcuni ambientalisti di antica data sono diventati col tempo nuclearisti. Dalle cose che ha detto sulla sicurezza e sulla difficile gestione delle scorie, non sembra condividere questo percorso. R.  La piena sicurezza intrinseca e il destino delle scorie sono tuttora un grande problema irrisolto: inutile nasconderci dietro un dito. Ritengo anch’io probabile che si trovi una soluzione nei prossimi decenni, ma non c’è certezza. Arriverà una tecnologia che dovrebbe superare, o almeno ridurre fortemente il problema della sicurezza e delle scorie: per questo non dobbiamo rimanere indietro rispetto al contesto mondiale nella ricerca verso un nucleare sicuro, più gestibile e pulito. Non ritengo irraggiungibile, nonostante quel che è avvenuto, una prospettiva tecnologica che garantisca la piena sicurezza del nucleare e il controllo dei suoi esiti. Non ci siamo ancora. Nel frattempo dovremmo occuparci d’altro. Ho organizzato da ministro il trasferimento in un deposito francese delle scorie della centrale di Caorso: e credo che il decommissioning (cioè l’attività di dismissione delle centrali chiuse e di sistemazione delle scorie nucleari) sia un settore in cui la nostra tecnologia potrebbe competere con qualche possibilità di successo con quella internazionale. Registro ­96

infine che non è vero che la produzione elettrica da impianti nucleari stia percentualmente crescendo nel mondo in misura significativa: larga parte delle nuove realizzazioni, almeno nei Paesi occidentali, sono destinate a sostituire i molti impianti realizzati negli anni Settanta e Ottanta ormai prossimi alla fine della loro vita tecnica. Il «fantapiano» del governo per reimpiantare il nucleare in Italia, lo ripeto, è in questo contesto una scelta gravemente sbagliata e che deve essere radicalmente rivista. D.  La parola ambiente richiama quelle di territorio, vivibilità, aria pulita. Nel «bel Paese» sono risorse particolarmente preziose, perché incidono sui tesori del paesaggio e della cultura, dunque anche su economie vitali come, ad esempio, il turismo. Il deterioramento invece avanza su diversi fronti. Non riterrà mica possibile affrontare tutte le emergenze ecologiche con la sola chiave della politica industriale? R.  Penso di aver chiarito che il Pd che ho in mente non è un partito del divieto, ma il partito di una crescita consapevole dei propri limiti. La crescita però dovrebbe contenere anche una forte idea comunitaria. E il territorio è il clou di questa idea comunitaria. È ovvio che in questo contesto non tutte le scelte possono essere dettate da ragioni economiche. Ma quando la politica pone una regola, deve anche saper indicare una direzione di marcia. Deve insomma far capire come sia possibile uno sviluppo migliore, sostenibile. Facciamo l’esempio delle città: abbiamo bisogno di una nuova generazione di piani urbanistici, capaci di stabilire nuove priorità. La prima convenienza è, a mio giudizio, la ristrutturazione, il riuso. Ristrutturazione di abitazioni per ottenere risparmio energetico, ristrutturazione di quartieri per migliorare vivibilità e servizi, ristrutturazione e bonifica di aree industriali dismesse. Non basta dire: qui non si può costruire. Occorre predisporre incentivi affinché interventi pubblici e risparmio privato possano convergere su altri obiettivi altrettanto appetibili. ­97

D.  Ma la manutenzione del territorio, l’enorme problema del traffico e del dissesto idrogeologico non richiedono risorse superiori alle nostre attuali disponibilità? R.  Torniamo così al punto di partenza: la politica per il territorio, per avere risorse, deve muoversi su progettiPaese, ossia produrre valore aggiunto e incrociare nuove politiche industriali. Viviamo in un territorio stretto e scarso. Se togliamo gli Appennini, la concentrazione antropica dell’Italia è superiore persino a quella dell’Olanda. Ma per superare lo stress da territorio non basta questo o quell’intervento straordinario: dobbiamo diventare campioni della ristrutturazione e del riuso, intendo dire anche campioni di ricerca e di tecnologia che possono consentire quest’attività. Non è un sogno, è una possibilità. Da ministro dello Sviluppo economico lanciai il progetto per le bonifiche delle aree industriali dismesse. Il governo Berlusconi lo ha abbandonato. Ma lo ritengo ancora valido. In un Paese dal territorio scarso non si possono lasciare all’incuria aree industriali ormai inattive ma ugualmente inquinate e inquinanti. La mia proposta consisteva in un patto con l’impresa disposta a subentrare: lo Stato paga la bonifica, poi si rivarrà su chi ha inquinato. Intanto quell’area torna a vivere e il Paese non si de-industrializza. Anche la bonifica produce investimenti e lavoro, mentre aiuta l’ambiente e affina le tecniche che le aziende italiane possono esportare. D.  Lei pensa che lo schema dei progetti-Paese possa servire anche per contrastare l’inquinamento dovuto al traffico automobilistico? R.  Certamente. L’inquinamento da traffico dipende dal­ l’età, dal numero e dal tempo di utilizzo in strada dei veicoli. Il rinnovo del parco auto può essere favorito da una fiscalità più attenta all’ambiente: ad esempio, perché non collegare il bollo auto alle emissioni di CO2 per chilometro invece che alla cilindrata? E la riduzione di emissioni di CO2 nelle ­98

nuove automobili è funzione di sviluppo tecnologico e industriale. L’impresa italiana non è tagliata fuori, bisogna però lavorare sul limite degli standard come fanno i tedeschi: la Germania adotta gli standard ecologici più rigorosi, così le loro imprese sono costrette a correre e poi il loro governo spinge in sede europea, a Bruxelles, perché gli standard europei si adeguino a quelli tedeschi. Ma si può lavorare anche sulla riduzione dei tempi di percorrenza delle strade, migliorando e affinando le tecniche di utilizzo dei sistemi satellitari. C’è poi una necessaria innovazione nel campo della logistica: per aumentare l’efficienza di un settore allo stato così debole ci vogliono imprese di maggiori dimensioni. Oggi la polverizzazione delle piccole imprese nella logistica aumenta i costi, il traffico su strada, l’inquinamento e non ci consente di utilizzare al meglio il trasporto ferroviario, le autostrade del mare, gli interporti. Infine, e soprattutto, occorre affrontare con tempestività e determinazione gli scenari, ormai assai probabili, di diffusione dell’auto elettrica. Un settore nel quale avremmo delle possibilità che, però, per la latitanza congiunta di grande impresa e politiche pubbliche, stiamo tranquillamente abbandonando. D.  Non teme che la vostra opposizione alla costruzione del Ponte sullo Stretto appaia oggi come la prosecuzione di antiche resistenze a sinistra nei confronti di grandi interventi infrastrutturali? Non teme che parlare di green economy anziché di nucleare, di ristrutturazioni e bonifiche di aree industriali anziché di nuove costruzioni, di tecnologia per ridurre il traffico anziché di nuove strade, sembri una fuga dalle vere responsabilità? Potrebbe sembrarlo ancor più nel Mezzogiorno dove il deficit infrastrutturale è molto pesante. R.  Se ci sono state resistenze in passato, non ci sono più da un pezzo. È stato il governo dell’Ulivo a realizzare la variante di Valico, a consentire il raddoppio della principale linea ferroviaria del Paese con l’avvio dell’Alta capacità. Ma il Ponte sullo Stretto è esattamente la fuga demagogica ­99

della destra per evitare di misurarsi con i problemi di quel territorio e del Mezzogiorno più in generale. Il Ponte ha un costo economico che lo rende decisamente sconveniente. E la verità tecnica sul Ponte è che ancora i progettisti non sono in grado di garantire in sicurezza il passaggio delle auto nelle giornate di vento forte! Ma andiamo... cerchiamo di essere seri. È più saggio, più utile al Sud, maggiormente vantaggioso in termini economici e sociali investire in altre infrastrutture, visto che le carenze di strade e ferrovie sono in Sicilia e Calabria molto gravi. Noi vogliamo la crescita. E sappiamo che è più difficile misurarsi con politiche complesse, anziché creare cattedrali nel deserto, o peggio inventare simboli da spendere nel mercato elettorale. D.  L’emergenza rifiuti a Napoli diventò per Berlusconi l’ariete della campagna elettorale del 2008. Ma l’emergenza non è finita, anzi le emergenze si diffondono nel Mezzogiorno e nel Paese. Se il processo di smaltimento dei rifiuti si intoppa in molte regioni italiane è colpa di un ritardo culturale o politico? R.  Berlusconi ha sfruttato un dramma senza risolverlo. Le immagini di Napoli con i rifiuti in strada sono state una grave ferita per l’Italia. Ma l’intervento d’emergenza è sempre un tampone, mai la soluzione. La soluzione passa dal governo di un ciclo complesso. È proprio questo che ci manca. Il caso dei rifiuti è il paradigma di un problema più generale. Quando si governa un ciclo, non si saltano i passaggi. Chi per primo apre le discariche, in genere è anche il primo che le chiude; chi ha il termovalorizzatore è anche quello che fa più raccolta differenziata. Quanti escludono totalmente i termovalorizzatori mettendoli in contrapposizione con la raccolta differenziata, non danno una mano ma contribuiscono a rendere il ciclo ingovernabile. È vero, la responsabilità è della politica, ma la sua efficacia è legata anche al tessuto comunitario dei progetti. Per ridurre i rifiuti, ad esempio, bisogna intervenire pure ­100

sugli imballaggi per ridimensionarli, evitare gli sprechi di plastica, incrementare l’utilizzo di materiali biodegradabili o riciclabili e così via. Ma queste politiche presuppongono l’idea del «ciclo» e di un suo razionale governo. D.  Quello dei rifiuti è un settore dove anche la legalità sta diventando un’emergenza. Non c’è bisogno di citare Gomorra per indicare gli intrecci tra gestione dei rifiuti, uso spregiudicato del territorio e gli interessi delle organizzazioni criminali. R.  Abbiamo bisogno dell’ordinario, non dello straordinario. Il dramma dell’Italia è che i problemi si affrontano per lo più con l’intervento straordinario. Perché solo così si trovano i soldi, che altrimenti vengono negati. Con lo straordinario si guadagna e lo sanno anche le organizzazioni criminali, che si insinuano nella zona grigia tra discrezione e corruzione. Nel decennio berlusconiano gli interventi straordinari si sono moltiplicati, sono diventati modalità di governo attraverso le dichiarazioni di stato di emergenza e le ordinanze in deroga. È esattamente ciò che non dovremmo fare. È una resa, i cui costi si pagano in termini di legalità e nella mancanza di un progetto a medio e lungo termine. D.  La campagna sull’acqua pubblica ha riscosso grande successo nell’associazionismo cattolico e nel popolo di sinistra. Lei cosa pensa dei referendum proposti? È questa la battaglia-simbolo della difesa dei beni comuni in un sistema che tende a trasferire tutto al mercato? R.  Condivido il senso del primo dei quesiti referendari, teso a contrastare la privatizzazione forzosa dei servizi pubblici locali. Come spesso nei referendum rimane inevasa una proposta positiva, della quale noi ci siamo caricati. La destra cerca di confondere le privatizzazioni con le liberalizzazioni e lo fa peraltro dopo aver cancellato le ­101

liberalizzazioni del centrosinistra. Non ha senso obbligare un comune o un ente territoriale a privatizzare ogni società a prevalente capitale pubblico. Come si può fissare un obbligo generale che non tenga conto di diversità, di convenienze temporali, di interessi locali? La battaglia referendaria sull’acqua muove da qui. Anche se contiene una carica politica e simbolica più grande. L’acqua come bene comune? Di più. Per me l’acqua è di Dio! E se l’acqua è di Dio dobbiamo restituirla come ce l’ha data. Il pubblico deve avere il comando programmatico dell’intero processo di distribuzione e le infrastrutture essenziali come le dighe, i depuratori, gli acquedotti devono essere sotto il pieno controllo pubblico. Ma ciò non vuol dire che il pubblico non possa affidare a privati parti di gestione del ciclo, ovviamente dopo regolare gara e con un’autorità indipendente che vigili costantemente sul rapporto tra capitale investito, tariffe per il consumatore e remunerazioni. D.  Anche se lei ha chiaramente posto l’accento sul comando programmatico del pubblico, la presenza dei privati nel ciclo di distribuzione dell’acqua rischia di diventare un tema serio di scontro con la sinistra radicale. R.  La battaglia dell’acqua viene dal raduno di Porto Alegre e ha un po’ l’impronta da teologia della liberazione. Ne apprezzo il valore culturale. Noi però non siamo in Sud America o in Africa. Da noi l’acqua è già pubblica, ma non basta la parola «pubblica» per risolvere i problemi, perché in questo settore non è che oggi vada tutto bene: in certe zone del Mezzogiorno ancora adesso d’estate i rubinetti sono asciutti e non per motivi di siccità. Il problema maggiore per noi è che sprechiamo tantissima acqua – oltre il 50% in alcuni acquedotti – perché non ci sono soldi da investire nelle manutenzioni e in nuove infrastrutture. La risposta che ha dato il centrodestra è sbrigativa e penalizzerà gli utenti. La risposta che vuol dare il Pd è un sistema dell’acqua in cui il pubblico deve restare il responsabile, in ­102

termini di programmazione, tutela dei consumatori, controllo e vigilanza, non solo della distribuzione ma dell’intero ciclo dell’acqua. In questa idea di servizio pubblico possono trovare spazio anche i privati, e i loro investimenti a vantaggio della comunità devono trovare una remunerazione giusta, che eviti speculazioni. Dettare gli obiettivi, fissare le regole, possedere le reti, controllare la gestione e la qualità dei servizi: questa è un’idea di pubblico che ritengo più moderna ed efficiente.

VII

LA SCOMMESSA INDUSTRIALE MADE IN ITALY

D.  L’industria italiana produce circa il 20% del Pil nazionale, poco meno della Germania, il doppio della Gran Bretagna. Eppure quando lei, da ministro, lanciò il progetto «Industria 2015» (marzo 2008), fu accusato di avere un’impostazione old style, come se la modernità fosse ormai soltanto finanza e terziario. In seguito, con la crisi, l’economia reale si è presa la sua rivincita. Ma perché nel nostro dibattito pubblico la parola industria viene pronunciata con tanta ritrosia? R.  Sapevo di fare una provocazione titolando quel progetto «Industria 2015». Eravamo, allora, alla vigilia della grande crisi e non pochi autorevoli commentatori giudicavano come un fattore di arretratezza la presenza industriale nel nostro Paese, di peso proporzionalmente analogo alla Germania e al Giappone. Sostenevano che avremmo dovuto fare come gli Stati Uniti e l’Inghilterra: rinunciare alla produzione per dedicarci alla finanza. A me sembravano matti. Da mille anni facciamo questo mestiere: comprare materie prime all’estero, trasformarle con il gusto, la tecnica e la creatività italiani e venderle in tutto il mondo. Un mestiere per il quale siamo apprezzati, che sul mercato globale è competitivo e tale può restare finché noi abbiamo voglia di competere. Eppure la questione industriale è stata espulsa anche dal senso comune: ci dà da mangiare ma non si vede in Tv un laboratorio, una fabbrica, un cantiere. ­104

Nel resto d’Europa non è così. E non è semplice spiegare tanta leggerezza. Per un verso, penso che abbia avuto un peso anche la forza simbolica della parabola di Berlusconi, il quale non è un industriale vero, avendo sempre avuto nel commerciale e nella comunicazione il baricentro del proprio business e quindi una prevalente attenzione in quei settori. Ma di sicuro ha inciso anche l’interdipendenza tra l’industria e la rete sempre più ampia dei servizi a monte e a valle: ricerca, tecnologia, finanza, supporti professionali, distribuzione. Sono stati anni di cambiamenti impetuosi nei mestieri complementari alla manifattura. Ma non vedo perché non dovremmo chiamare tutto questo «industria», ampliando così gli orizzonti oltre i cancelli della fabbrica. Se non diamo il giusto nome alle cose rischiamo di smarrire oggetto e coordinate di una politica. Ed è esattamente ciò che sta accadendo in questi anni: per il centrodestra italiano la politica industriale è un grande buco nero. D.  Politica industriale è da noi un’espressione che rimanda all’Iri e alla stagione delle Partecipazioni statali. Su di essa grava l’accusa di dirigismo. Peraltro, negli altri Paesi, la politica industriale è spesso il sostegno alle alleanze o agli accordi internazionali dei grandi gruppi nazionali, mentre noi difettiamo di imprese di grossa taglia. Non avverte il rischio che la sua posizione non sia compresa dall’opinione pubblica? R.  È una sfida. Ma non mi arrendo: l’Italia ha bisogno di politiche industriali se vuole crescere e giocare un ruolo nel mondo. Insieme con Romano Prodi e a differenza di tanti, non ho paura di parlare di politica industriale. Ovviamente non c’è alcun proposito dirigista. La filosofia di «Industria 2015» era quella dei progetti-Paese, cioè l’individuazione di grande aree tecnologiche verso le quali sollecitare e sospingere il sistema delle imprese: il risparmio e l’efficienza energetica, la mobilità sostenibile, le tecnologie del made in Italy, le scienze della vita, le tecnologie legate ­105

all’arte, alla cultura e ai beni di valore storico. Non settori esclusivi, ma campi dove l’innovazione e la competizione possono incrementare i nostri talenti. I progetti-Paese peraltro non avevano caratteri pianificatori, pedagogici o intrusivi. Erano concepiti come servizi alle dinamiche d’impresa verso il varo di nuovi prodotti, verso la collaborazione a rete fra le imprese, verso l’accesso alla ricerca sostenuto da robusti crediti di imposta. Un tratto caratteristico dell’iniziativa era l’istituzione del project manager, un manager italiano già affermato nel settore, disposto a svolgere, gratuitamente a titolo di servizio civile, il ruolo di coordinatore del singolo progetto-Paese. Ricordo quando Alberto Piantoni, patron della Bialetti, ha tenuto al ministero la prima riunione sul progetto delle nuove tecnologie del made in Italy: sono venuti in tanti, imprenditori medi e piccoli. Non c’erano dirigenti del ministero in cattedra a spiegare cosa fare: questo sì avrebbe suscitato diffidenza in quel mondo. Era invece un imprenditore come loro che, con spirito di servizio, aiutava a prendere una rotta che avrebbe potuto portare benefici ai singoli e al sistema. Lo stesso avvenne con Pasquale Pistorio, coordinatore del progetto sull’efficienza energetica, e con altri manager. Tutto questo impianto è stato poi distrutto dal governo Berlusconi. Secondo me era invece il cantiere più avanzato in Europa. E, con opportuni aggiustamenti, potrebbe esserlo ancora. D.  Ma il made in Italy può espandersi ancora oppure la distribuzione mondiale del lavoro e la competizione sui costi ci condanna a gestire una progressiva marginalità? R. Il made in Italy è tradizionalmente legato a specifici prodotti: la moda, gli alimenti tipici, una certa meccanica, il design e così via. Lo sviluppo del made in Italy nella competizione globale sta, a mio giudizio, nel passaggio dai singoli prodotti all’idea di un modo di produrre. Il made in Italy può diventare un gusto, una cultura del prodotto, ­106

una capacità di flessibilità e di adattamento che sono tratti specifici dell’imprenditorialità italiana. Facciamo cose che fanno anche altri, ma le facciamo con qualità singolari e siamo capaci di costruirle su misura per il cliente. Siamo campioni mondiali di co-progettazione. Chi ha bisogno di un partner speciale si rivolge a un italiano. Mi hanno raccontato la storiella di un’impresa americana che cercava una ditta capace di realizzare una particolare macchina industriale di colore rosso: in Germania si è sentita rispondere che la potevano produrre ma non di quel colore e in Giappone che purtroppo non l’avevano nel campionario. Quando quell’impresa americana è venuta in Italia, le hanno domandato: «Ma che tipo di rosso vuole precisamente?». Siamo i migliori adattatori di tecnologie nuove e nell’adattarle le implementiamo. Ma per sostenere questa risorsa imprenditoriale, che spesso ha le gambe di una media azienda con clienti sparsi in mezzo mondo, ci vuole, appunto, una politica industriale. D.  Quanto pesa sul futuro della nostra industria l’assetto strutturale del capitalismo italiano, con pochi grandi gruppi e capitali scarsi, concentrati prevalentemente nelle aziende di maggiori dimensioni? R.  Da sempre il primo dei nostri problemi è stato la difficoltà nel reperire i capitali necessari ai progetti industriali. L’Iri nacque dopo la crisi delle banche, cominciata da noi con il fallimento della Commerciale. E, nonostante le critiche ideologiche, quando all’Assemblea costituente si pose il problema se mantenere o meno in vita l’Iri, il presidente di Confindustria Angelo Costa non esitò a schierarsi contro la soppressione: nessun altro può reggere industrie come l’Ansaldo, disse. L’industria pubblica, pur con i suoi difetti, ha mantenuto a lungo un equilibrio con l’industria privata, costruendo persino qualche sinergia. Da parte loro, le «grandi famiglie» del capitalismo nazionale ebbero grandi meriti nella stagione dello sviluppo industriale del Paese. ­107

Tuttavia l’istantanea di oggi è impietosa: le «grandi famiglie» non sono riuscite a reggere la sfida globale, e intanto l’Italia non ha conosciuto public company sul modello anglosassone e il nostro sistema banco-centrico continua a frammentare i finanziamenti, inseguendo così più le occasioni che le strategie. Sostenere oggi una sfida industriale globale, anche una sfida di nicchia, richiede capitali stabili e strategici. Noi fatichiamo ad averli: questo è un problema strutturale. Del resto, le privatizzazioni sono state una grande occasione per mettere alla prova il capitalismo italiano e il risultato è stato che, salvo Eni, Enel, Finmeccanica, cioè le aziende dove c’è ancora il capitale pubblico, nessun campione nazionale solo privato ha saputo affermarsi sul mercato globale. Il caso Telecom è emblematico. Si sono cimentati tutti (il grande, il medio, il nuovo, il vecchio, l’emergente, la cordata), sia pur con diversa capacità e diversi risultati, ma alla fine la nostra più grande impresa nel cruciale settore delle telecomunicazioni ha trovato altrove, in Spagna, la sponda fondamentale del proprio assetto proprietario. Nei passaggi tra i vari attori nazionali non si sono mai trovati capitali e risorse stabili. D.  Le privatizzazioni sono figlie degli anni Novanta, e in prevalenza sono state gestite da governi di centrosinistra o comunque sostenuti dal centrosinistra. Col senno del poi direbbe oggi che sono state fatte bene? Avete ricevuto critiche da destra e da sinistra. R.  Bisogna distinguere bene tra liberalizzazioni e privatizzazioni. Le prime sono state e sono indispensabili anche per risvegliare l’impresa pubblica e mettere in movimento gli investimenti. Le seconde sono state in buona parte legate alle esigenze finanziarie di riduzione del debito. Le privatizzazioni hanno funzionato meglio laddove è rimasta una presenza significativa di capitale pubblico e laddove il processo di liberalizzazione era compiuto. Prendiamo il caso dell’Enel: era la seconda azienda elettrica del mondo, ­108

distribuiva energia solo in Italia ma aveva i bilanci in rosso e investimenti a zero. Dopo le liberalizzazioni, il sistema ha prodotto nell’insieme 20 miliardi di investimenti e all’Enel parzialmente privatizzata sono tornati gli utili. Non solo: l’Enel è oggi la società di energia più internazionalizzata. Prendiamo la telefonia: qualcuno può seriamente pensare che se avessimo mantenuto il monopolio statale oggi staremmo meglio? È vero che il capitalismo italiano non è stato in grado di assumere la guida della Telecom, ma le liberalizzazioni almeno hanno messo i nostri utenti nelle condizioni di usufruire delle novità tecnologiche e delle condizioni di mercato degli altri cittadini europei. Penso che il pubblico debba mantenere il primato e il controllo sulle reti: la rete energetica, quella delle telecomunicazioni e delle ferrovie. Poi, se il capitalismo italiano non ce la farà a sviluppare i servizi, verrà inevitabilmente quello tedesco, spagnolo o americano. Fui io a liberalizzare il sistema ferroviario in modo che, oltre ai binari e alla nuova rete di Alta capacità, potessimo avere anche i treni e i servizi di trasporto. Adesso arriverà la concorrenza e il guaio vero è che, con il centrodestra, l’operazione di liberalizzazione non è stata completata e, per esempio, non abbiamo ancora definito il servizio universale (comprendente le linee «fuori mercato») da mettere a carico di tutti gli operatori, né un’autorità indipendente che garantisca i viaggiatori. D.  A proposito di Telecom, lei fu criticato durante il governo D’Alema per aver sostenuto l’opa di Roberto Colaninno (1999). Si parlò allora di una merchant bank a Palazzo Chigi, intendendo con ciò un ruolo attivo dell’esecutivo nella formazione della cordata che rilevò il comando di Telecom dopo il fallimento della prima public company. Si rimprovera qualcosa nelle scelte di allora? R.  Con la privatizzazione della Telecom, un round dopo l’altro, si sono misurati in tanti: lo abbiamo già detto. E l’esito non è stato soddisfacente. Quell’opa ebbe requisiti ­109

di trasparenza e di tutela dei piccoli azionisti, come poi non si è più verificato. Ovviamente ogni critica di merito è sempre legittima, ma va ricordato che allora furono rigorosamente rispettate le condizioni di offerta pubblica d’acquisto introdotte dalla legge Draghi. L’asino cascò più tardi, quando si trattò di dare una base strutturale più solida a quell’avventura industriale. Era possibile farlo, ma tra i partner di quella cordata c’era qualcuno interessato soprattutto a operazioni di carattere speculativo. D.  Il grande conflitto tra la sinistra e il capitalismo italiano avvenne qualche anno più tardi (2005), quando Unipol, legata al mondo delle cooperative, tentò la scalata della Banca Nazionale del Lavoro. La cooperazione, grazie anche alla crescita finanziaria prodotta dai supermercati e dalla distribuzione, oltre che dalle assicurazioni, avrebbe potuto aumentare la capienza e il dinamismo del sistema, rompendo il cerchio esclusivo delle «grandi famiglie» protetto dalle banche. Ma non fu incauto lanciare quell’opa viste le dimensioni di Unipol e le sue fragili alleanze? R.  Il mio più grande rammarico è la scarsa laicità con cui  viene tuttora trattato il tema della cooperazione. Ognuno naturalmente è libero di criticare la scelta dell’opa sulla Bnl. Lo stesso vertice di Unipol adotta oggi strategie diverse dal passato. Tuttavia, ciò che continuo a considerare inaccettabile è il veto pregiudiziale contro il movimento cooperativo. Come se nel resto d’Europa le cooperative non fossero già forti nelle banche. La cooperazione è da noi la tipologia d’impresa che più cresce per dimensione grazie all’obbligo di reinvestire gli utili. La cooperazione ha consentito al nostro Paese di tenere una presenza significativa nella grande distribuzione, così come nell’agricoltura, nelle costruzioni, nei servizi: e ciò è avvenuto grazie a migliaia di micro-imprese che si sono messe insieme facendo sistema. Si potrebbe forse dire che la cooperazione è una singolare public company ­110

italiana, che si è sviluppata laddove per ragioni storiche le public company non sono riuscite a insediarsi. Quando si affronta con serietà questo tema, sono il primo a dire che la governance delle cooperative presenta anche problemi: ad esempio, il potere dei soci è limitato e il rischio di autoreferenzialità richiede nuove riflessioni. Ma bisogna riconoscere che il capitalismo italiano ha una sua varietà biologica: c’è l’impresa privata, c’è l’impresa pubblica, c’è l’impresa cooperativa e tutte possono volgere al meglio le rispettive peculiarità. È scritto anche nella nostra Costituzione. D.  Lei direbbe agli imprenditori: arricchitevi, perché con la vostra ricchezza potete aiutare lo sviluppo del Paese? R.  Agli imprenditori dico: arricchite le vostre aziende, rafforzate i loro capitali. Questo è il grande contributo, non solo economico ma anche civile, che potete dare all’Italia, alla crescita del lavoro, della qualità, della competitività. È un cambio di orizzonte, a cui dovrebbero contribuire pure le politiche fiscali: se i guadagni li tieni per te le tasse sono alte, se li investi in azienda si abbattono. È quello che proponiamo nella nostra riforma fiscale. Un’impresa più forte economicamente compete meglio, dà lavoro e rende tutti più ricchi. Quando invece un’impresa si impoverisce, trasmette sfiducia e il conto in banca dell’imprenditore resta solo una questione privata. C’è bisogno di un’inversione logica e civica. Bisogna rimettere in circolo fiducia perché nel mondo c’è spazio, eccome, per una nuova industria italiana. D.  Ma quali dimensioni dovrebbe avere la nuova industria italiana? Ha ancora senso puntare su settori come la chimica o la siderurgia, traino per decenni, ma oggi in evidente declino? È possibile dar vita a una politica industriale che aiuti la grande azienda e, al tempo stesso, la media impresa che si specializza in segmenti di nicchia? ­111

R.  La politica industriale di un Paese come l’Italia deve muovere dalle diversità. E deve essere capace di suonare tutti i tasti del pianoforte. Non c’è futuro industriale per noi se si rinuncia completamente alla chimica, alla siderurgia, all’auto, settori niente affatto in declino ma in evoluzione. Ovviamente nei settori a larga economia di scala, o hai il fisico per correre da solo, o devi metterti in compagnia. E i governi possono favorire i grandi accordi industriali extranazionali, come anche possono aiutare a sbagliare. Spendere tre miliardi di euro per fare una nuova compagnia aerea italiana è stato un grave errore da parte del governo Berlusconi perché sarebbe bastato ben meno di un miliardo di euro per integrare l’Alitalia con Air France e Klm e mettere la nostra voce in un soggetto più grande. E avremmo così difeso meglio l’italianità: sono certo che nel futuro sarà facile capirlo. Per aziende come Finmeccanica, la cui committenza fa spesso riferimento agli Stati nazionali, si può addirittura parlare di diplomazia economica. Ma non è vero che questo interesse per le grandi dimensioni debba andare a scapito delle realtà più piccole. Il made in Italy oggi viaggia attraverso medie imprese che operano in settori anche di nicchia, con una rete commerciale internazionale. La strategia deve essere duplice: da un lato, bisogna comunque favorire il rafforzamento dimensionale dell’impresa e dare quantomeno un carattere stabile ai finanziamenti necessari, dall’altro è necessario intensificare la rete di collegamenti interni fra i singoli produttori. Il pubblico può aiutare la media impresa a internazionalizzarsi e la piccola a rafforzarsi in un sistema a rete. Anche attraverso il supporto dei servizi e la liberalizzazione delle professioni: negli anni Settanta i commercialisti aiutarono l’espansione della piccola impresa, oggi abbiamo bisogno di una nuova generazione di professionisti che aiutino l’impresa nell’export e nella competizione sui mercati emergenti. Il rifiuto della destra corporativa a consentire l’avvio di un modello italiano di società professionali è stato ed è, secondo me, un danno gravissimo. ­112

D.  Nella storia italiana le politiche industriali sono state spesso condizionate dagli interessi della Fiat. Quali cambiamenti produce oggi l’internazionalizzazione della Fiat? Non avverte il rischio che la testa dell’azienda passi negli Usa e le fabbriche italiane diventino solo piattaforme manifatturiere sempre a rischio per la concorrenza di altre fabbriche europee? R.  L’internazionalizzazione della Fiat è stata certamente un fatto importante. La competizione nel settore auto è spietata perché nel mondo c’è una capacità produttiva ormai largamente superiore alla possibilità di assorbimento del mercato. Senza alleanze, senza strategie valide, non si può sopravvivere. Ma ora si tratta di capire dove si collocherà il baricentro della nuova Fiat e quali progetti prenderanno forma in Italia. Sono molto interessato al piano Fabbrica Italia annunciato da Sergio Marchionne. I contenuti, però, sono ancora da chiarire. Del piano annunciato si conosce solo una piccola parte e, in particolare, non si sa abbastanza delle fondamentali attività di ricerca, che restano un punto cruciale per comprendere quale sarà il ruolo del nostro Paese anche nella produzione. D.  Intanto a Pomigliano e a Mirafiori gli accordi aziendali prima e il referendum poi hanno provocato una frattura tra Cgil, Cisl e Uil e tra gli stessi lavoratori che rischia di pesare come un macigno sul futuro delle relazioni sindacali e sulle stesse politiche del centrosinistra. R.  Compito della politica, e in primo luogo del Pd, davanti alle drammatiche divisioni tra i lavoratori non è sollevare questa o quella bandiera sindacale, ma lavorare sulle linee di una possibile ricomposizione del patto sociale. Il governo non ha fatto nulla di tutto questo: per mesi ha osservato Marchionne senza riuscire a mettere in chiaro né gli impegni della Fiat, né le possibili sponde di politica industriale. Berlusconi non ha una politica industriale e ­113

ha scommesso sulla divisione sindacale per incassare un dividendo politico. Per noi il lavoro di ricomposizione sociale ha molti fronti. Uno di questi è costituito dalle regole di partecipazione e di rappresentanza dei lavoratori. La contrattazione nazionale deve diventare più essenziale ma non scomparire. Abbiamo bisogno di un modello nuovo di decentramento delle relazioni, non di soluzioni caso per caso che porterebbero alla disarticolazione e non all’innovazione delle relazioni sociali. Il nuovo modello deve indicare le forme per rendere esigibili i contenuti degli accordi sottoscritti, attraverso meccanismi meglio definiti di partecipazione, di rappresentanza e di rappresentatività, in modo da prevedere comunque la voce delle minoranze negli organismi di base, che qualcuno vorrebbe invece far scomparire in Fiat e altrove. In questo ambito, compito della politica è anche quello di affermare il valore della legge. Credo che nessuno abbia in testa di inseguire i cinesi. Per questo ci vuole un argine di civiltà nel diritto del lavoro. È vero che nella globalizzazione imprenditori e lavoratori sono tutti sempre più sulla stessa barca, ma quella barca non può essere lasciata in mezzo al mare. Politiche industriali e nuove regole di rappresentanza devono essere affiancate, ad esempio, da interventi di contrasto alla precarizzazione. Lo ha riconosciuto pure il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi. Un’ora di lavoro precaria non può costare meno di un’ora di lavoro stabile a parità di costi per l’azienda. È arrivato il momento di definire un salario minimo per i lavoratori non coperti dalla contrattazione nazionale. C’è infine un’ultima questione che un governo serio dovrebbe affrontare con una visione d’insieme: è la produttività del sistema. La politica industriale può essere uno dei vettori, ma servono anche misure che contrastino l’egoismo sociale e aumentino la produttività dell’intero sistema, che non può essere scaricata solo sul lavoratore della catena. Quanti turni deve fare un operaio perché un banchiere rinunci a un bonus milionario o un petroliere accetti un po’ più di liberalizzazione? ­114

D.  Non è un alibi scaricare le divisioni sindacali sulle responsabilità del governo di centrodestra? Non ritiene che, a partire dall’accordo separato sui modelli contrattuali, si sia allargata una frattura tra Cisl e Cgil che rinvia a concezioni sindacali poco conciliabili tra loro? R.  Nei diversi ruoli di governo che ho ricoperto mi è sempre risultata chiara la diversa ispirazione sindacale di Cisl, Cgil e Uil. Ma ho sempre cercato da ciascuno il contributo migliore. Quando ero in regione la Cisl mi aiutò molto nella formazione e nei rapporti con le autonomie sociali, anche extra-sindacali. La Cgil fece altrettanto su certe traiettorie industriali. Composizione unitaria non vuol dire rinuncia alla propria identità e alle legittimamente diverse culture sindacali. Il vero problema è se un governo ritiene l’unità del lavoro un bene comune, un asse fondamentale per tenere insieme un Paese lacerato, oppure se pensa che sia meglio dividere, magari calcando su pregiudiziali ideologiche. Conosco le obiezioni all’idea di patto sociale: c’è troppo corporativismo, troppa burocratizzazione e conservazione nelle rappresentanze tradizionali. Sarebbe sbagliato negare questi limiti. Oggi per tutti, non solo per la politica, la verifica si fa più impegnativa. Anche le rappresentanze sindacali e imprenditoriali devono mettersi alla prova dell’efficienza e sottoporsi a forme di democrazia diretta. È una sfida per tutti. L’innovazione è condizione di recupero di una vitalità sociale. Tuttavia il confronto e la convergenza tra le parti sociali restano un valore, non un problema da evitare. D.  In Germania, nelle grandi aziende, i rappresentanti dei lavoratori partecipano anche alla gestione. E qualcosa del genere accade anche a Detroit, nella Crysler-Fiat. Secondo lei, è possibile immaginare una simile evoluzione delle relazioni sindacali e superare le storiche ostilità all’applicazione dell’art. 46 della Costituzione? R.  Nessuna obiezione di principio all’applicazione dell’art. 46 della Costituzione, quello che prevede il diritto ­115

dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti previsti dalla legge, alla gestione delle aziende. Sul piano pratico, tuttavia, trasferire il modello tedesco in Italia mi pare piuttosto complicato e di sicuro non è consigliabile provare a imporlo seguendo la via legislativa. L’universo è un altro: da noi il 99% delle imprese è sotto i 50 dipendenti. Piuttosto si può pensare a un’azione graduale e progressiva, con patti e norme di sostegno a forme più incisive di partecipazione, fino a sperimentazioni che tocchino il livello gestionale. Abbiamo proposte di legge in questo senso. D.  Il risparmio italiano è tradizionalmente forte. Lo stock del risparmio ha un valore comparabile con quello del debi­to pubblico ed è certo un bene che anche l’Europa abbia d­ eciso di considerare questo parametro. Abbiamo detto, però, che questo risparmio non incontra e non favorisce nuovi programmi industriali perché privilegia la finanza rispetto all’economia reale: è possibile correggere la rotta? E in che modo? R.  Sono contento che sia stato riconosciuto anche il valore macroeconomico del risparmio privato italiano. Ma è una soddisfazione da poco. Al posto del ministro Tremonti farei meno ideologia sul punto: il risparmio privato, che peraltro la crisi sta ridimensionando, non può automaticamente essere trasferito in investimento pubblico, né può ridurre lo stock del debito. Peraltro la questione più importante è un’altra: non riusciamo a convogliare il risparmio privato in risorse utili alla crescita. Il caso Parmalat è forse il simbolo più negativo in questo campo. Bisogna continuare a lavorare: si possono, ad esempio, studiare forme di obbligazioni interessanti come quelle che si propongono di sviluppare bond per il sostegno di piccole imprese e di distretti industriali: il rischio è basso quando si finanzia una rete di aziende. Purtroppo il sistema italiano è banco-centrico perché le imprese sono sottocapitalizzate. Meccanismi come i consorzi di garanzia e i consorzi fidi restano importanti. È vero che fin qui l’equilibrio dei conti delle banche italiane ­116

ci ha tenuto lontani da pericolose avventure e dai contraccolpi più duri della crisi economica. Ma l’altra faccia della medaglia è che i costi delle banche da noi sono più alti che altrove, sia per i singoli utenti sia per le imprese, e andranno armonizzati a quelli europei. E comunque, purtroppo, i problemi non mancano, nemmeno per le nostre banche. D.  La nostra industria alimentare è robusta, ma sconta una debolezza della filiera agricola della produzione. È ancora possibile rilanciare l’agricoltura in Italia nel quadro di gerarchie che sembrano ormai stabilizzate a livello europeo? R.  Anche sull’agricoltura italiana c’è un silenzio inaccet­ tabile benché si tratti di un settore di assoluto rilievo per l’economia nazionale. E la distrazione del governo di cen­ trodestra è doppiamente colpevole, dal momento che vi­ viamo una fase di cambiamenti globali, segnata da una crisi di approvvigionamento dei prodotti alimentari che fa lievitare i prezzi, da un deficit di risorse fondamentali a cominciare dall’acqua, dalla concorrenza tra coltivazioni per alimentazione e agro-energia, dai problemi derivanti dai mutamenti climatici. In questo contesto di movimento bisognerebbe adeguare sia le politiche europee che quelle nazionali. Invece c’è inerzia e silenzio. La caduta dei redditi dei nostri agricoltori sta producendo effetti negativi anche sull’occupazione. E persino la solida industria agroalimentare – settore anti-ciclico per eccellenza – vive contingenze non brillanti. Bisognerebbe sostenere la figura dell’agricoltore, che ormai evolve verso funzioni di tutela della qualità e della tipicità dei cibi, di presidio contro il degrado ambientale, di salvaguardia del territorio. Bisognerebbe battersi in sede europea per correggere le politiche comunitarie, fin qui basate sulle quantità di prodotto e sulle dimensioni dei terreni coltivati, e orientarle verso riqualificazioni strutturali, verso gli aumenti dimensionali e i passaggi generazionali delle aziende, verso l’estensione delle filiere dalla produzione alla commercializzazione. 117

D.  Ma c’è spazio nel mondo per il made in Italy agricolo e agro-alimentare? R.  Il punto cruciale è proprio questo: quale mestiere dovrà fare l’agricoltore italiano nel mondo? La competizione è aperta e abbiamo potenzialità e cultura per affrontarla. Ma bisogna pensare il futuro, anziché proteggere i pochi trasgressori delle quote latte a scapito dei tanti produttori onesti. Ovviamente alcune misure difensive sul mercato interno e su quello europeo vanno preservate: le assicurazioni contro le avversità, gli stoccaggi a fronte della volatilità dei prezzi, la salvaguardia della sicurezza alimentare in modo tale che, pur senza protezionismi, gli standard dei prodotti d’importazione siano progressivamente adeguati ai nostri. Il nodo principale da sciogliere però riguarda proprio il made in Italy. È un tratto distintivo che deve restare legato alla cultura, alla tipicità, alla territorialità del cibo oppure le politiche dei marchi doc possono essere affiancate da un’altra tipicità italiana, da un altro made in Italy, legato alle trasformazioni dei prodotti? Tra queste due politiche, e quindi fra agricoltura e industria, c’è un margine di contraddizione che va governato, ma, secondo me, è possibile trovare un punto di equilibrio nella complessità del made in Italy. Un governo serio dovrebbe tenere aperto un tavolo dell’agricoltura e dell’agro-alimentare, anche per maneggiare con cura la questione degli ogm. Non seguo mai i fondamentalismi, ma da noi, nei territori del made in Italy, le limitazioni agli ogm potrebbero diventare una non banale posizione commerciale. Magari affidando a spazi ridotti e controllati la sperimentazione di biotecnologie.

VIII

GLI INSEGNANTI EROI MODERNI

D.  Sono vent’anni che il sistema formativo italiano di ogni livello è sottoposto a una costante instabilità: ogni governo ritiene che sia necessaria una riforma diversa da quella precedente. Per quale ragione su un asse tanto cruciale dello sviluppo nazionale non si riesce a fare sistema e a compiere alcune scelte condivise? R.  La scuola è una specie di Carta costituzionale, costituisce il grado di civiltà di un Paese. Purtroppo tra i frutti avvelenati del berlusconismo c’è quello di avere rotto un’attitudine al dialogo sui temi scolastici sempre presente nella storia repubblicana. Noi dell’Ulivo, alla fine degli anni Novanta, abbiamo prolungato questo metodo coinvolgendo i diversi orientamenti culturali nella scrittura delle indicazioni per la scuola elementare e media. Poi è arrivata la Moratti con uno slogan inequivocabile: «Punto e a capo». Ciò nonostante, quando siamo tornati al governo non abbiamo sconvolto la riforma precedente, anche se non l’avevamo votata. Cosa che non ha fatto la Gelmini la quale ha di nuovo rimesso tutto in discussione con l’obiettivo sostanziale di sottrarre alla scuola otto ­miliardi di euro, mentre si lasciavano galoppare altre spese correnti. Dopo dieci anni a grande prevalenza di governi di destra è tempo però di trarre un bilancio: i vecchi problemi si sono aggravati e le cose che funzio­119

navano bene come la scuola elementare sono state messe in sofferenza. D.  Quali sono, secondo lei, i principali problemi di cui soffre il sistema scolastico italiano? È solo un problema di scarse risorse la mancata definizione di un criterio di selezione degli insegnanti di scuola primaria e secondaria? R.  Con una riduzione di organici di 130 mila persone – quasi due Fiat – si chiude la porta ai giovani insegnanti per i prossimi anni. A mio giudizio, una scuola di qualità avrebbe bisogno di valutazione a tutti i livelli come esercizio della responsabilità, consapevolezza dei risultati raggiunti e stimolo al miglioramento. Tutto ciò è possibile solo se si accompagna a un impegno volto a riconquistare la fiducia degli insegnanti verso una vera riforma della scuola. Mi è capitato di parlare degli insegnanti come di eroi civili, pensando a quei maestri di scuola che nelle situazioni più difficili di certe periferie restituiscono ai ragazzi il sorriso e la fiducia nel futuro. Da troppo tempo ci occupiamo solo di tagli, di norme e di ingegneria dei cicli scolastici. È giunto il momento di mettere al centro la qualità dell’insegnamento e aiutare gli insegnanti a esprimersi nelle migliori condizioni di lavoro. Conta però prima di tutto il valore che attribuiamo a questa professione. Ciascuno di noi ricorda con affetto almeno un insegnante che gli ha trasmesso una motivazione culturale o civile. E ciascuno di noi sa che nessuna altra figura incide così in profondità nel patrimonio morale di una nazione. Deve tenerlo presente chi coltiva ambizioni per il futuro italiano. Non si riforma la scuola se non si hanno grandi ambizioni per il Paese: ecco il punto di fondo che mi interessa sottolineare. Nei primi quaranta anni della Repubblica la scuola ha aiutato il progresso civile ed economico. Ha quasi debellato l’analfabetismo dopo un ritardo secolare. Ha accompagnato la transizione dal mondo agricolo alla società industriale. Ha seminato la coscienza democratica in ­120

un terreno inaridito dal fascismo. Queste trasformazioni hanno ispirato le migliori riforme scolastiche, dalla media unificata agli istituti tecnici, alla nuova scuola elementare, fino all’integrazione dei disabili. Un primato di livello internazionale che oggi viene messo in discussione. Sapremo in futuro ritrovare questo nesso tra riforma della scuola e ambizioni nazionali? Questa è una sfida decisiva. E si gioca su obiettivi diversi dal passato. Oggi si tratta di formare i ragazzi con la pelle di diverso colore, quei nuovi italiani che le leggi non riconoscono neppure quando sono nati in Italia. Per riuscire ad accoglierli come cittadini la scuola dovrà fare un grande salto di qualità che può renderla migliore anche per i figli delle famiglie italiane. D.  L’impressione è che rispetto al passato si sia verificata la rottura dell’alleanza educativa tra insegnanti e genitori. E che, a questo riguardo, pesi la perdita di prestigio professionale e sociale dei professori. Come recuperare una visione strategica? R.  Certo, un tempo il titolo di professore era «diritto» di qualsiasi insegnante, dal professore del liceo cittadino a quello delle scuole medie del piccolo paese. Oggi sembra quasi uno sfottò. La scuola ha perduto il monopolio della formazione e non è più un’autorità indiscutibile. Nell’esperienza quotidiana tanti insegnanti si sentono parte di un’istituzione sempre più indebolita e tuttavia chiamata a supplire tante carenze della società. Non può reggere. Bisogna conferire di nuovo alla scuola la centralità che le spetta. Sarebbe prezioso estendere a tutto il Paese le migliori esperienze scolastiche per i bambini da zero a sei anni, un’età decisiva per preparare la formazione successiva. È necessario dotarci di un’alta istruzione professionale dopo la scuola secondaria superiore, anche per sottrarre all’università alcuni compiti professionalizzanti che non può assolvere. Per raggiungere questo scopo bisogna essere al passo coi tempi: non basta limitarsi a trasmettere con­121

tenuti che rischiano di diventare rapidamente obsoleti, bisogna insegnare ad apprendere nell’arco della vita, fornire le chiavi di accesso alla crescita della conoscenza, preparare alle trasformazioni del lavoro, offrire gli strumenti critici per una cittadinanza consapevole. Una visione strategica della scuola passa infine per il recupero della sua centralità, come luogo comunitario del quartiere o del Paese. E anche l’apprendimento dei ragazzi sarà più ricco se dopo la lezione potranno vivere lo spazio scolastico per lo studio individuale, lo sport, la musica, il teatro, la socializzazione e lo scambio generazionale. Solo in questa nuova scuola si può ritrovare l’alleanza con le famiglie e potrà maturare un nuovo prestigio professionale e sociale dei professori. D.  L’università è forse il principale «grande ammalato» del Paese. È d’accordo con questa immagine? Da dove bisognerebbe incominciare a intervenire? Qualche commentatore arriva persino a dire che sarebbe meglio lasciarla morire e ricominciare daccapo. Cosa ne pensa? R.  Questo «riformismo dannunziano» che cerca sempre il gesto eclatante, distruttivo e catartico ha ormai stancato. Riformare è una cosa ben diversa. Richiede un’analisi accurata dei problemi, un intervento che aiuta senza distruggere, un’offerta di diverse opportunità. Preferisco, insomma, un «riformismo calviniano» ispirato ad alcuni titoli delle Lezioni americane: Esattezza, Leggerezza e Molteplicità. Credo serva un ottimismo civile per vedere le cose buone della nostra università. Ci sono scienziati che tengono alto il prestigio italiano nel mondo pur non ricevendo alcun aiuto dallo Stato e punte di eccellenza in ambito umanistico che sarebbe sbagliato trascurare se si pensa alla storia culturale del nostro Paese. Ci sono atenei che hanno saputo creare relazioni positive con il territorio, le società e le imprese. Si tratta allora di riconoscere i punti di forza per incoraggiarli, estenderli e assumerli come riferimento di un cambiamento di rotta. Concretamente ­122

questo significa valutare i risultati degli atenei – per davvero, non a chiacchiere – e aumentare i finanziamenti ai più meritevoli. Significa mobilitare i migliori dipartimenti per la realizzazione di grandi progetti nazionali di ricerca, prendere a esempio le esperienze di qualità della didattica maggiormente riuscite e adeguare i servizi per gli studenti agli standard europei in termini di laboratori, di residenze e di borse di studio. Se partiamo dai meriti dell’università, la riforma viene meglio perché aiuta i riformatori che già stanno facendo qualcosa di buono ad andare avanti. Se invece si guarda solo ai difetti rimane il «riformismo dannunziano» e basta. In realtà, nell’università convivono sia i meriti sia i difetti come accade in tutta la società italiana di oggi, nella politica, nell’economia, nelle professioni e nel giornalismo. Quello che conta è allora l’intenzione che ci mette il riformatore: se è positiva produce nuove opportunità di cambiamento, se è negativa distrugge senza distinguere tra meriti e difetti. D.  Una parolina magica domina il dibattito sull’istruzione in Italia da svariati decenni: meritocrazia. È disposto a inserirla nel vocabolario progressista? Come renderla effettiva? Come evitare che si identifichi con il privilegio dei già garantiti? R.  Dobbiamo curare la qualità della scuola. È l’unico modo per evitare di confondere il merito con il privilegio dei già garantiti, per dare al figlio dell’operaio le stesse opportunità del figlio del notaio. Mi chiedete il posto che la parola occupa nel nostro vocabolario? Per noi il merito è scritto nella Costituzione e va sempre accompagnato alla rimozione degli ostacoli sociali che ne impediscono la piena espressione personale. È il capolavoro dell’art. 3 e poi la condizione dell’art. 34 dei «capaci e meritevoli anche se privi di mezzi». La politica del Pd ha sempre seguito questa ispirazione. Dall’altra parte vengono invece segnali preoccupanti: si sente dire che con la Divina Commedia non si ­123

mangia oppure si consiglia alle giovani donne di costruirsi il futuro applicandosi a cercare un marito facoltoso. Se a dire queste cose sono i massimi responsabili del governo si rischia di inviare alle giovani generazioni messaggi devastanti. E purtroppo quando passano dalle parole ai fatti è anche peggio. Voglio ricordare che durante la discussione parlamentare sulla legge universitaria la Gelmini ha tentato di trasformare il Cepu in pubblica università con lo stesso rango della Bocconi. Questa è la meritocrazia delle chiacchiere. Infine, mi colpisce la confusione lessicale che si è creata intorno alla parola. Se il merito è un kratos, ossia un «potere», allora si ha il governo dei sapienti, che Aristotele riconduceva a una forma oligarchica, o più modernamente si trasforma nel primato delle tecnocrazie, che tanti guasti ha prodotto nell’economia globalizzata. Per noi il merito deve essere accessibile a tutti i cittadini come pari opportunità e in ogni caso anche la persona semplice ha diritto di partecipare alla vita pubblica. D.  La fuga dei «cervelli» è il paradigma della nostra debolezza, anche se, a rigor di logica, l’affermazione di talenti italiani all’estero sarebbe da ascrivere al merito del sistema educativo in cui quei giovani sono cresciuti. Forse il problema italiano non riguarda tanto la qualità della formazione, quanto la selezione, le politiche di investimento pubblico e privato e l’ingresso nel mondo del lavoro. Cosa si può fare per evitare che un ricercatore si realizzi professionalmente all’estero dopo che l’Italia ha investito migliaia di euro per formarlo? R.  Avete ragione, anzi questo dimostra i torti del «riformismo dannunziano». Sarà pure merito della nostra università se nei laboratori europei e americani ci sono vere e proprie colonie di giovani ricercatori italiani. In molti casi sono partiti non per scelta ma per sfiducia verso il proprio Paese. Li hanno presi perché da noi hanno fatto buoni studi. Ma il punto dolente è un altro: non che siano ­124

andati all’estero, ma che non desiderino tornare. Guardate all’esempio cinese che ha scelto la ricerca come vettore del proprio sviluppo aumentando ogni anno più del 10% l’investimento in conoscenza. Da qualche anno è cominciato un controesodo di cervelli dagli Usa. E di questo si preoccupano molto gli americani perché sanno bene che la loro ricchezza nel Novecento è dipesa anche dall’attrazione dei cervelli europei. La ricchezza cresce dove vanno i cervelli. Se è così, il ritorno dei ricercatori non si ottiene certo con piccoli provvedimenti, come ad esempio la detrazione fiscale, ma solo con una grande politica. Quando torneremo al governo noi dovremo rivolgere un appello ai giovani ricercatori che si trovano all’estero: «Il Paese ha bisogno di voi, questo è il vostro Paese, aiutateci a cambiarlo». E dai discorsi si dovrà passare subito ai fatti: più politiche non solo per attrarre cervelli, ma per usarli davvero. D.  Nei principali Paesi industrializzati i professori universitari vanno di norma in pensione a 65 anni. I migliori possono restare con contratti ad hoc. Un simile provvedimento in Italia svecchierebbe il sistema universitario rendendolo più dinamico. Su questa proposta c’era una larga convergenza in Parlamento: perché non se ne è fatto nulla? R.  È una proposta del Pd. Un bravo ricercatore trentenne è nel pieno della sua produttività scientifica e non deve essere tenuto ai margini dell’università. A trentasei anni il Nobel della fisica Konstantin Novoselov ha realizzato studi fondamentali sulla nuova tecnologia del graphene, ma da noi a quell’età non sarebbe diventato neppure professore. La crescita della conoscenza ha bisogno del ricambio generazionale. E ha bisogno anche dell’esperienza dei migliori professori che devono poter continuare a offrire un contributo al proprio dipartimento. Al contrario, quelli che a 65 anni hanno perduto la vocazione scientifica o didattica possono essere sostituiti da giovani più motivati con un effetto molto positivo sul sistema. La proposta ­125

era contenuta in un nostro emendamento alla legge per l’università, ma la Gelmini lo ha bocciato proprio mentre dichiarava in pubblico di essere d’accordo. Per loro la propaganda viene sempre prima del buon governo. D.  Tutti, maggioranze e opposizioni, affermano che la ricerca è un punto strategico dello sviluppo del Paese. Quali provvedimenti prenderebbe in questo campo se si trovasse a governare l’Italia? R.  Non sono d’accordo con questo quadretto unanime. Berlusconi è andato all’estero a dire: «Perché dovremmo pagare gli scienziati se fabbrichiamo le più belle scarpe del mondo». Anzitutto, non sa che anche le scarpe hanno bisogno di ricerca. Non credo siano solo parole buttate lì a caso: la pensa proprio così colui che ha governato quasi per l’intero decennio in cui l’Italia non è cresciuta. Negli ultimi dieci anni gli impulsi alla ricerca italiana sono venuti solo dal centrosinistra: nel 2001 con i proventi della vendita delle licenze Umts e nel 2007 con lo stanziamento di circa un miliardo di euro per il credito d’imposta e per il progetto Industria 2015, di cui abbiamo già parlato. Industria 2015, ad esempio, comprendeva anche i beni culturali, che è un settore dove gli investimenti mondiali sono in forte crescita per iniziativa di nuovi Paesi che vanno scoprendo i compiti della tutela. L’Italia, se solo lo volesse, avrebbe la possibilità di diventare un centro mondiale di alta formazione nei beni culturali e costruire un brand nazionale per le imprese internazionali che vendono tecnologie e competenze per il restauro. Al di là di questo esempio, se un giorno ci incammineremo su questa strada scopriremo tante pietre preziose che oggi ancora non vediamo, ma che ci sono all’interno delle università, degli enti di ricerca e delle imprese più innovative. Solo a guardare bene in questi mesi un piccolo gruppo di ricerca composto dal Politecnico di Milano e da La Sapienza di Roma ha guadagnato la copertina di una prestigiosa rivista ­126

internazionale con la realizzazione di un dispositivo che apre la strada alla realizzazione di un nuovo tipo di computer basato sulla fisica dei quanti. Ci vorranno decenni forse per realizzarlo e l’Italia si trova all’avanguardia senza neppure saperlo. Se però non ci sarà una politica mirata, quel vantaggio sarà effimero e altri faranno fortuna con i nostri risultati. Negli anni Cinquanta con l’Olivetti realizzammo un prototipo di computer prima degli americani perché il Paese allora sapeva mettere a frutto il proprio ingegno. Anche oggi non mancano le risorse scientifiche in Italia, quello che ci vuole è una strategia per riconoscerle, accrescerle e utilizzarle. D.  In questi anni sono finite sotto attacco tutte le vertebre dello scheletro educativo e culturale del Paese: gli insegnanti sono stati raccontati come dei fannulloni, i professori universitari come dei corrotti, gli archeologi come dei reperti inutili, gli attori di cinema e di teatro come dei parassiti, i giornalisti come dei camerieri al servizio del padrone. L’impressione è che questa lettura del mondo sociale, culturale e delle professioni sia funzionale alla formazione di cittadini arrabbiati ma impotenti, non di cittadini critici e liberi. È possibile invertire la rotta e ripartire? R.  In questi anni le cose sono andate piuttosto bene a quelli che vivono di rendita finanziaria e immobiliare, a quelli che presidiano i propri vantaggi corporativi, a quelli che evadono le tasse e poi ottengono un condono, a quelli che hanno un santo in paradiso, a quelli che hanno goduto dell’aumento vertiginoso di una spesa pubblica improduttiva a discapito degli investimenti. Questo è stato ed è ancora il Paese dell’incantesimo populista. Mentre l’insegnante era sul banco degli accusati, lo speculatore se la godeva. Ma il risultato alla fine è stato dannoso per tutti. Se la cultura viene messa in sofferenza soffre la democrazia e lo stesso clima civile del Paese diventa più uggioso. Da questa situazione scaturiscono quel diffuso senso di sfidu­127

cia, quella mancanza di mete collettive, quella difficoltà a guardare verso il futuro che tanti provano. Tutta la storia italiana può essere riassunta in un continuo tiro alla fune tra la rendita e l’ingegno. La prima vince nei periodi di decadenza. Il secondo si afferma nei grandi balzi in avanti. È evidente nei grandi cicli storici nell’età moderna, si pensi alla crisi del Seicento, e più limitatamente anche nella nostra storia repubblicana, dal miracolo economico alla stagnazione berlusconiana. È arrivato il momento di dare una strattonata dalla parte dell’ingegno. D.  La televisione e in generale i sistemi di comunicazione di massa hanno delle responsabilità nell’avere imposto alcuni modelli di comportamento antagonisti all’idea di lavoro come responsabilità verso la società e al valore dello studio e della cultura in generale. Lei è d’accordo con chi indica in Berlusconi il protagonista di questa «rivoluzione culturale»? R.  Berlusconi è stato certamente l’uomo simbolo di questa rivoluzione dei modelli sociali in Italia, anche se il problema è più ampio e non solo riconducibile alla sua persona. Il Rapporto Censis del 2010 ha acutamente messo in evidenza la complessità dei fattori che hanno provocato l’appiattimento e la passività delle soggettività sociali e quella tendenza all’indistinto che indebolisce la stessa capacità di reazione. Di conseguenza, l’impegno etico, culturale e civile richiesto per contrastare il declino del Paese e avviare una riscossa italiana dovrà essere molto grande e ognuno dovrà fare la sua parte: la politica, la società civile, l’imprenditoria, il mondo delle professioni. Riguardo al tema del lavoro, del quale abbiamo già parlato, mi interessa capire perché questo ha perso centralità e come si può invertire la tendenza. Senza dubbio ha pesato la pressione della globalizzazione che ha travolto alcune conquiste novecentesche. Eppure il mondo contemporaneo offre altre opportunità che sono rimaste compresse ­128

da una contraddizione: il lavoro diventa più prezioso nel ciclo produttivo e allo stesso tempo diminuisce il suo peso politico e sociale. Si chiede molto al lavoratore, un coinvolgimento sempre più totale della persona, sia nel lavoro creativo della produzione immateriale sia nel lavoro manuale dei servizi o della fabbrica. Ma è giunto il momento di domandarsi che cosa restituisce il lavoro alla persona non solo in termini materiali e di reddito, ma come legame sociale che rafforza la cittadinanza, come opportunità nella vita delle persone, come possibilità di disegnare un futuro individuale e collettivo. Il lavoro come questione di senso per la persona e per la società, ecco il tema nuovo che è di fronte a noi nei prossimi anni. D.  Viviamo in una società con sempre più vecchi e meno giovani. È forte il rischio che i giovani si sentano minoranza inattiva e precarizzata. Peraltro, rispetto alle medie europee, da noi faticano molto di più a rendersi autonomi dalle famiglie d’origine. Come affrontare il grande tema del futuro dei giovani, che è direttamente proporzionale al futuro della nostra società? R.  Non si può guardare al futuro del Paese se non con gli occhi delle nuove generazioni. Invece colpevolmente copriamo questa visuale. La principale ipoteca sul futuro riguarda il debito e la mancanza di crescita: se la nostra generazione non sarà capace di ridurre il debito e di innescare una nuova dinamica di sviluppo, priveremo i giovani di tante chances. Ma ci sono altri corposi ostacoli sulla loro strada. Primo: il nostro ciclo di studi è fuori dagli standard europei. Bisogna alzare l’obbligo scolastico e accorciare il ciclo portandolo a livello dei principali Paesi Ue. Secondo: la precarietà del lavoro è troppo accentuata. Bisogna ridurla incoraggiando, a parità di costi per le imprese, la stabilizzazione con misure contributive e fiscali. Nella precarietà c’è anche dispersione della cultura del lavoro. Terzo: la mobilità sociale, a livello giovanile, è in­129

sufficiente per l’assenza di serie politiche per l’affitto. La casa di proprietà, uno dei tratti specifici della società italiana, è diventata paradossalmente la forza gravitazionale che rende molto più difficile ai figli uscire di casa. Bisogna smettere di puntare tutto sulla proprietà della casa e cominciare a incoraggiare gli affitti, in modo che si crei convenienza per il proprietario e per l’affittuario. Ma l’agenda delle politiche per i giovani non finisce qui. Abbiamo un’organizzazione corporativa dei mestieri che blocca la mobilità sociale: ci vogliono liberalizzazioni, ma da noi i sedicenti liberali hanno cancellato diverse liberalizzazioni fatte dal centrosinistra. Gli stessi ammortizzatori sociali hanno un’impronta familistica e non familiare. Le tutele sono orientate verso il pater familias occupato e non verso il cittadino, che spesso è un giovane che non ha lavoro. La riforma del welfare deve tendere progressivamente verso l’universalità degli ammortizzatori sociali: noi avevamo cominciato a marciare in questa direzione e se il cammino negli ultimi due anni si è interrotto non è solo colpa della crisi economica. D.  Togliere ai padri e dare ai figli è stato per anni uno slogan corrente. Ritiene che sia ancora utilizzabile come motto della riforma del welfare in Italia? R.  Ridurre il debito e riattivare una crescita: questo devono i padri ai figli. Togliere i diritti ai padri, invece, non serve affatto a darne di più ai figli. Lo dimostra il fatto che la metà dei disoccupati provocati dalla crisi è costituita dai «garantiti» e quindi anche i padri sono vulnerabili nella globalizzazione. Non si può riformare il welfare con gli slogan. Abbiamo collegato le pensioni alla contribuzione e dunque alla vita lavorativa: è giusto allungare il tempo di lavoro e l’età pensionabile, ma occorre aumentare gli indici di trasformazione per i giovani, altrimenti la riforma è un imbroglio, è solo un taglio di costi, mentre i giovani non potranno avere una pensione decorosa. Il sistema delle tu­130

tele vitali va collegato ai diritti di cittadinanza e non più soltanto a una pregressa attività di lavoro: è necessario un salario minimo per chi è fuori dai contratti e va introdotto il principio della «fiscalità negativa», in modo che le fasce più povere, quelle che non arrivano neppure alla soglia fiscale minima, possano ricevere un più equo sostegno. La scelta, insomma, deve essere sempre più universalista per sottrarre al mercato ciò che giudichiamo essere dei bisogni fondamentali delle persone. Del resto questo è anche il principio che ispira il Servizio sanitario nazionale. E il principio va garantito nella pratica, non solo a chiacchiere. Ciò vuol dire che occorre garantire coperture certe ai costi ed evitare gli sprechi. Non è facile nel settore della sanità dove ogni giorno una nuova conquista, un nuovo medicinale, una nuova macchina sono in grado di fornire una cura migliore: saggezza vorrebbe che a ogni più moderna e efficace prestazione assicurata dal Servizio sanitario venisse esclusa dalla gratuità una vecchia prestazione divenuta meno essenziale, mettendola a pagamento, secondo criteri di equità, oppure affidandola alla sussidiarietà. D.  La sanità e in genere tutto il settore dei servizi sociali rimandano alla necessità di aggiornare il rapporto tra pubblico e privato. L’idea di pubblico non può più coincidere con quella di statale, ancor più in tempi di scarse risorse. Per lei la sussidiarietà è un valore strategico o è solo una necessità? R.  Il pubblico deve garantire la rete dei servizi sociali, la programmazione, gli standard, le verifiche. Poi, la gestione dei vari punti della rete può essere affidata al pubblico, al privato, al privato-sociale e, in limitati casi, alla società mista. Non è l’idea di pubblico che si restringe per ragioni di economicità. Semmai è l’idea di pubblico che si allarga e coinvolge maggiormente la società nelle sue diverse espressioni. La sussidiarietà può essere una chiave moderna per affrontare la complessità. A una condizione: che lo ­131

Stato non la invochi come supplenza perché è incapace di assolvere ai suoi compiti fondamentali. La supplenza sarebbe nociva non meno della cultura statalista che afferma l’esclusività dello Stato. Perfino Hobbes diceva che nessuno può essere abbandonato alla carità privata. La sussidiarietà invece è un principio di solidarietà e di cooperazione sociale. Le formazioni politiche popolari in Italia sono nate a fine Ottocento con la sussidiarietà e l’autorganizzazione: lo statalismo è arrivato dopo. Peraltro la nostra è stata sempre una sussidiarietà che ha rivendicato diritti comuni: non a caso i primi asili pubblici sono sorti proprio laddove c’era la pratica del badantato delle corti bracciantili. Ora questo principio va coniugato con la programmazione. Perché bisogna evitare che la sussidiarietà sfoci nel privatismo e diventi un modo per consentire ai ricchi di arrangiarsi da soli. E la programmazione richiede non una centralizzazione, ma al contrario un rilancio delle politiche locali: solo a livello locale si può avere il quadro dei bisogni effettivi e ottenere il mix migliore delle risposte. Un privato non può fare una grande clinica di neurochirurgia vicino a una struttura pubblica efficiente in quel settore, ma la deve impiantare dove serve, se vuole una convenzione pubblica, altrimenti si riduce lo spettro dei servizi per il cittadino e a pagare alla fine è sempre Pantalone.

IX

LA QUESTIONE MORALE AL TEMPO DELLE CRICCHE

D.  La «questione morale» è un’espressione che insegue la sinistra da quando Enrico Berlinguer la pronunciò per la prima volta in una famosa intervista a Eugenio Scalfari. Era l’inizio degli anni Ottanta, la vigilia di una stagione che avrebbe messo ai margini il Pci. Marcare quel segno di «diversità» fu allora una ribellione etica o una scelta politica? È giusto collocare in quel punto l’avvio del filone giustizialista destinato poi ad avere un seguito crescente nell’opinione pubblica progressista? R.  Berlinguer parlava da capo dell’opposizione, elevando alla dignità di cruciale questione politica un uso abnorme degli incarichi di governo ai fini della riproduzione del consenso, una degenerazione dei comportamenti, uno scadimento dello spirito pubblico. Dopo l’assassinio di Aldo Moro e la fine traumatica della solidarietà nazionale, si consolidava l’alleanza di pentapartito che sarebbe diventata egemone per un decennio. Berlinguer coglieva un nesso tra quel blocco della politica, seguito al fallimento della transizione morotea verso la «democrazia compiuta», e il ripiegamento delle forze di governo verso pratiche di conservazione del potere. E cercava anche di attualizzare le sue stesse riflessioni di pochi anni prima sull’austerità e la sobrietà della politica. Fu un impegno generoso quello di Berlinguer perché voleva preservare tante buone ener­133

gie, nel suo campo e non solo. Il limite tuttavia stava nel carattere difensivo: la strategia politica seguita per 25 anni dal Pci non c’era più e non era formulato un programma per contrastare davvero alla base la corruzione che stava crescendo. La politica ha la sua cifra: il partito non è un’autorità morale. Sa che le risorse etiche e civiche sono risorse irrinunciabili, ma il suo compito è suscitarle e indirizzarle in un programma di riforme. Il Pci appariva allora impotente e quell’appello venne purtroppo percepito e rielaborato da molti in chiave moralistica: così si allargò lo scarto tra la drammatica validità dell’analisi e l’incapacità di fornire una risposta al problema. Non condivido, però, l’opinione di chi colloca nella questione morale di Berlinguer l’inizio del giustizialismo, tanto meno dell’antipolitica. La crisi della politica ha la sua matrice nelle troppe domande accumulate e inevase già negli anni Sessanta e Settanta. E la sua drammatica esplicazione negli anni del dopo Muro. Anche il giustizialismo ne è in qualche modo una conseguenza, peraltro alimentato da un sistema giudiziario percepito per lungo tempo come separato e conservativo. Non dipese certo da Berlinguer se, quando si arrivò alla sclerosi degli anni di Tangentopoli, qualche magistrato assunse ruoli di supplenza e riuscì a catalizzare in modo anomalo domande di rigenerazione politica. D.  Il giustizialismo negli anni recenti è diventato un ingrediente non secondario della cultura diffusa del centrosinistra. Si spiegherà pure con le peculiarità di Berlusconi, ma non ritiene che rappresenti un corpo estraneo rispetto alle tradizioni politiche del centrosinistra? R.  Vedo i problemi e mi preoccupano molto. Abbiamo l’esperienza di un governo che non rispetta la divisione dei poteri e, negli anni, non sono mancate invasioni di campo anche da parte di alcuni magistrati. La torsione plebiscitaria del nostro sistema provoca conflitti crescenti tra esecutivo, legislativo e giudiziario e uno dei primi ­134

compiti di ricostruzione della politica è proprio quello di ripristinare l’equilibrio costituzionale dei poteri. Non mi sento affatto un giustizialista. Anzi considero il giustizialismo un atteggiamento contrario ai nostri valori. Ma domando: che utilità ha polemizzare in astratto contro il giustizialismo? A volte il nostro dibattito pubblico sembra avere lo scopo di creare alibi per le mancate riforme, e così facendo porta fieno in cascina ai populismi. La giustizia ha bisogno di riforme vere e di investimenti. Bisogna ridurre i tempi dei processi per i cittadini. La giustizia penale, e ancor più quella civile, sono scandalosamente lente. La politica faccia questo. È in quel contesto di riforme, rivolte ad un servizio fondamentale per i cittadini e scevre di ogni riguardo per la politica, che la politica stessa riconquisterà anche l’autorevolezza per dire ai magistrati di rispettare con rigore i confini del proprio campo. Ma se ci mostreremo incapaci, non saranno le chiacchiere a ridurre, laddove si manifesta, la supplenza dei magistrati. D.  La corruzione in Italia è un problema antico accresciuto negli ultimi decenni. Non ha tuttavia l’impressione che ci sia sempre una notevole difficoltà nell’impostare una strategia efficace per combatterla e che lo scontro si trasferisca facilmente in un conflitto tra il bene e il male, tra il buono e il cattivo, peraltro scarsamente produttivo sul piano dell’etica pubblica? R.  La corruzione è una questione seria e grave nel nostro Paese. E non credo di fare dell’allarmismo sostenendo che la piaga sta crescendo. Corruzione e illegalità sono mali che possono pregiudicare pericolosamente lo sviluppo e la crescita dell’Italia. Le loro radici sono profonde e sarà un giorno felice quello in cui la moralità della politica sarà misurata sull’efficacia delle proposte anziché sulla tonalità delle denunce. Ho già ricordato che siamo un Paese dalle reti corte: la famiglia, la solidarietà locale, la corporazione. E se l’etica dei comportamenti ha un controllo sociale intenso su queste ­135

dimensioni, tende invece a indebolirsi di molto in ambito statuale. Anche così si spiegano il nostro civismo «a bassa statualità» e il sospetto di scarsa onestà con cui si guarda spesso al funzionario pubblico. La complessità e la farraginosità della struttura normativa costituiscono, poi, un altro propellente alla corruzione. Da noi si cerca di coprire con la legge tutte le fattispecie possibili, ma più si producono norme più si creano spazi per aggirarle. L’azione riformatrice deve muovere da qui, diventando anche la leva di una battaglia culturale a favore della semplificazione. C’è poca attenzione su questo. Porto un’esperienza personale: tutti sapevano che le licenze del piccolo commercio e le tabelle merceologiche erano fonte di micro-corruzione, ma quando dalla sera alla mattina, durante il primo governo Prodi, abolii le licenze, pochi commentatori sottolinearono questo aspetto decisivo. Resto convinto che la politica debba restare nel suo campo, ovvero il governo della cosa pubblica. Moralità è anche coscienza del limite: stiamo parlando di un’impresa a cui deve concorrere tutta la società, non solo i partiti. La semplificazione normativa può avere forti contenuti anticorruzione, così come possono averne l’automatismo nelle incentivazioni e meccanismi di incoraggiamento della fedeltà fiscale. Un ruolo importante possono svolgere le liberalizzazioni, perché i monopoli aumentano la discrezionalità, i costi di intermediazione, l’arbitrio dei prezzi. E un valore molto importante ha anche la riforma del fisco. Il civismo, che le buone riforme possono instillare, deve poi trasformarsi in una spinta in grado di produrre scelte ancora più impegnative sul piano della vita e dello spirito pubblico. D.  In cosa è diversa la corruzione delle «cricche» di oggi da quella degli anni di Tangentopoli? R.  Tangentopoli era un sistema pervasivo, che si era ordinato nel tempo attraverso vere e proprie regole. I partiti muovevano grandi interessi attraverso le loro decisioni e chiedevano illegalmente una parte di quei cospicui van­136

taggi. Non dico che era così ovunque, ma la diffusione del finanziamento illegale alla politica era ampia e, come hanno dimostrato i processi, nessuna area politica ne è rimasta immune, seppure con un coinvolgimento in proporzioni ben diverse. Al finanziamento illegale si è poi mescolato progressivamente l’arricchimento privato. E questo ha contribuito a scoperchiare la pentola, quando il ciclo economico ha curvato verso il basso e il risanamento imposto dai vincoli di Maastricht ha reso il dazio insopportabile alle aziende. La perversione del sistema stava anche nel fatto che la mazzetta spesso veniva consegnata sopra il tavolo: insomma, era dichiarata, ordinaria. Oggi la corruzione delle cricche sembra avere un carattere meno esplicito, ma non per questo è meno grave e neppure, forse, meno diffuso. Le cordate, cioè le cricche, si creano nell’area grigia della discrezionalità politica e/o amministrativa, si riproducono nel sostegno elettorale e poi si danno appuntamento nella successiva azione di governo. La malattia può e deve essere sconfitta, ma in questi anni non si è fatto nulla per arginarne la diffusione. Al contrario, il ricorso crescente a norme straordinarie, ordinanze in deroga, provvedimenti emergenziali ha costituito un potente diffusore di pratiche corruttive. È chiaro che se non si rende efficiente l’ordinario, la regola straordinaria diventa lo strumento tipico del potere discrezionale e dunque il collante delle cricche. Ad esempio, l’incredibile frequenza degli stati d’emergenza proclamati dal governo con la conseguente emanazione di ordinanze della Protezione civile, ha trasmesso un segnale esattamente contrario rispetto ai doveri che dovrebbero essere propri del potere politico. D.  Tornando a Tangentopoli molti hanno accusato il Pci di aver goduto di un trattamento di riguardo. E hanno anche sostenuto che le tangenti «democratiche» non erano poi moralmente così diverse dai rubli di Mosca arrivati nelle casse dei comunisti italiani durante la Guerra fredda. Qual è il suo giudizio? ­137

R.  La stagione della Guerra fredda e il finanziamento illecito ai partiti, derivanti dalle loro alleanze internazionali, non può essere accostata alla corruzione degli anni Ottanta che ha prodotto Tangentopoli. Sono così evidentemente diversi i contesti politici e sociali, le circostanze storiche, la stessa etica dei comportamenti da sollevare semmai un’altra domanda: perché taluni insistono con simili argomenti? Forse la risposta va cercata nel tentativo di riabilitare il sistema nel quale Tangentopoli è prosperata. Non si dice solo che i rubli sovietici e i dollari americani erano equivalenti alle mazzette della Milano da bere: si dice che anche la corruzione delle cricche è la continuazione di vecchie pratiche con altri mezzi. Insomma, è la solita notte dove tutte le vacche sono nere. Noi, invece, non abbiamo la minima nostalgia di quegli anni e di quel sistema. Nel denunciare le cricche, favorite dalle legislazioni speciali e d’emergenza, non diremo mai che erano migliori i vizi precedenti. Così come nel denunciare il mito presidenzialista, che ci ha allontanato dai modelli parlamentari di tipo europeo, non diremo mai che occorre tornare alla democrazia bloccata e ai vizi del parlamentarismo. Per quanto mi riguarda, non ho affanni nel dire che, in una certa misura, anche il Pci è stato toccato da Tangentopoli. Alcuni suoi uomini sono finiti sotto inchiesta e hanno pagato. Ma accomunarlo semplicemente a quelle pratiche devastanti non corrisponde alla verità storica. D.  Negli anni di Tangentopoli, però, ci sono stati anche errori giudiziari. Politici e imprenditori sono stati macchiati da sospetti, poi smentiti in sede processuale. Non le pare che la cultura delle garanzie e talvolta le stesse garanzie si siano assottigliate in questi anni? R.  Questo purtroppo è accaduto. E quando si indebolisce la cultura delle garanzie si ferisce anzitutto la democrazia. Per rafforzarla tuttavia è necessario che le istituzioni e la politica recuperino credibilità. Ciò richiede amministra­138

zioni più sobrie e trasparenti e un contrasto più visibile e vigoroso della corruzione. Per quanto riguarda gli uomini pubblici, comunque, penso che si potrebbe studiare una modalità veloce per rendere loro l’onore dopo insinuazioni o accuse infondate. L’onestà è per un politico un bene essenziale, ma penso anche che sia un bene pubblico il suo riconoscimento a fronte di una campagna di dossieraggio. Mi piacerebbe che un uomo pubblico, se investito da un sospetto, potesse chiedere alla Guardia di Finanza un check-up e che, a stretto giro riuscisse a ottenere una certificazione del suo stato patrimoniale e dell’assolvimento di tutti i suoi doveri tributari. Tale pratica di trasparenza potrebbe essere estesa anche ad altri comparti, attraverso l’istituzione di giurì d’onore: ne guadagnerebbe la credibilità della politica. D.  Quanto hanno inciso le scelte politiche di questi anni sulla diffusione della corruzione? Ci sono decisioni sbagliate da imputare ai governi di centrosinistra? R.  Come dicevo, la pratica degli stati d’emergenza e delle ordinanze in deroga va nel senso contrario alla trasparenza. Non solo è l’ombrello delle cricche, ma anche il propulsore di una cultura nociva: anziché costruire le riforme, l’obiettivo diventa bypassare le regole ordinarie, cercare le scorciatoie, affidarsi al demiurgo. C’è in questo uno spaccato della cultura di Berlusconi: scarso civismo, sfiducia nelle riforme e nello Stato, privatizzazione delle risposte pubbliche. A questo si aggiunge che la storica debolezza del civismo degli italiani va ben oltre il berlusconismo e sarebbe sbagliato nasconderselo. Ma il contrasto alla corruzione passa anzitutto attraverso una convinta, tenace azione di riforma delle strutture e dei servizi pubblici e di risanamento della spesa. Di questo abbiamo bisogno. E di continuità. I governi Ciampi, Prodi, D’Alema, Amato hanno fatto molte cose positive. Quando la politica ha nelle riforme e nel risanamento il suo baricentro, produce ­139

e promuove anche elementi di civismo. Quando si contrasta l’evasione fiscale, si trasmettono messaggi di sobrietà e serietà. Il centrosinistra non ha mai fatto condoni. E ha realizzato le sole liberalizzazioni che l’Italia ha conosciuto negli ultimi vent’anni. Per me è qui l’etica della politica. Sarebbe troppo invasiva una politica che pretendesse di insegnare alla società ciò che è giusto o sbagliato: piuttosto l’azione di governo deve favorire nel concreto la trasparenza, la convivenza civica, la competizione leale, la solidarietà. Ciò non toglie che anche al centrosinistra sia mancato qualcosa. C’era bisogno di maggiore radicalità nelle riforme almeno in due campi. Il primo: la semplificazione. Al di là dei decreti Bassanini, nella pubblica amministrazione, nel fisco, in molte procedure pubbliche bisognava e bisogna abolire il superfluo. A volte, infatti, non basta semplificare perché, semplificando, le cose possono persino complicarsi. Non è solo un fatto di moralità: laddove si riducono le intermediazioni burocratiche e aumentano gli automatismi, se ne avvantaggia tutta l’economia e i più deboli hanno maggiori opportunità. Il secondo campo nel quale sarebbe necessario intervenire con più decisione del passato è quello delle società miste. Non ho contrarietà di principio, ma va provato che siano assolutamente necessarie. Altrimenti è meglio che una società sia tutta pubblica o tutta privata. Ciò che sta avvenendo in tantissime amministrazioni locali deve far riflettere: le società miste, partecipate dai comuni, dalle province, dalle regioni sono spesso lo strumento per aggirare norme di trasparenza e criteri di controllo prescritti per la pubblica amministrazione (basti pensare ai recenti scandali di parentopoli). D.  Lei ha appena parlato del berlusconismo e dell’impatto, a suo giudizio, negativo sul senso civico degli italiani. Forse è il momento di chiederle un giudizio sul fenomenoBerlusconi, anche perché attorno al tema dell’etica pubblica, della legalità, dell’autonomia del potere giudiziario si sono consumate battaglie decennali. Quali sono le particolarità ­140

della leadership di Berlusconi? È possibile giustificare il suo successo solo grazie allo strapotere mediatico ed economico? L’Italia è stata ancora una volta un’eccezione, un’anomalia rispetto ad altre democrazie occidentali, oppure può considerarsi un laboratorio? R.  Penso che sia sbagliato dare al fenomeno Berlusconi una lettura esclusivamente domestica. Si assiste in Occi­ dente a un generale indebolimento delle democrazie rappresentative. E la competizione globale, che accorcia i cicli politici e ridisegna le gerarchie mondiali, produce uno spae­samento, un sentimento di paura che favorisce l’insorgenza di nuovi populismi. Berlusconi ha sfruttato queste condizioni, sollecitando un’«aggressività» dei moderati che ha cementato il suo blocco sociale e la stessa alleanza con la Lega. È vero che senza la forza economico-mediatica non sarebbe riuscito a inserirsi nel vuoto d’aria della politica seguito a Tangentopoli. Tuttavia quelle tendenze di fondo hanno trovato corrispondenze in altri Paesi europei, benché altrove non abbiano preso il sopravvento grazie anche al presidio delle culture costituzionali dei maggiori partiti di centrodestra. In questa dinamica Berlusconi ha aggiunto l’attitudine personale e il tratto originale. Nel ’96 – ero da poco ministro dell’Industria – Indro Montanelli volle conoscermi e al termine di una gradevole conversazione mi disse: «Non avete ancora risolto il problema di Berlusconi perché lui, a differenza di voi, non conosce la differenza tra verità e menzogna. E, non conoscendola, è capace di trasmettere sempre sincerità». Nonostante tutto, credo che la battaglia tra politica riformista e populismo sarà ancora molto dura, anche dopo Berlusconi. A lui, a Berlusconi, riconosco grandi doti di combattente, ma per il resto non saprei tirare fuori una nota positiva per il Paese. Ha allontanato la prospettiva delle riforme, ha evitato le scelte più impegnative perché non producevano immediato consenso, ha sempre e solo cercato il nemico in ogni campo, ha radicalizzato gli scontri, compresi quelli di ­141

natura istituzionale; e il bilancio economico, sociale, civile del primo decennio del 2000, segnato dalla sua prevalenza, è stato molto pesante per l’Italia. Certo, non ci ha aiutato chi ha descritto in questi anni Berlusconi come una caricatura, come un istrione che ha catturato l’anima del Paese, sottovalutando quanto egli abbia saputo effettivamente interpretare l’impostazione della destra mondiale ed europea: il fascino dell’antistato e della deregolazione, le pulsioni alla rivolta fiscale, la grande paura dell’immigrazione. Questa immagine del pagliaccio, peraltro, si è ritorta tutta contro il centrosinistra: se Berlusconi è solo così, chi gli si oppone allora è incapace. Nasce da questo atteggiamento la frustrazione del cosiddetto ceto medio riflessivo. In realtà, oltre le peculiarità del personaggio Berlusconi, i suoi conflitti di interesse, le torsioni che ha provocato nel sistema istituzionale, c’è un legame tra il berlusconismo e la ricomposizione di un blocco sociale che è diventato egemone nell’ultimo decennio. I riformisti – se vogliono vincere la sfida del governo – devono tenere in seria considerazione tutto questo, saper ripartire dal concreto di un progetto per l’Italia che coinvolga positivamente, senza dar l’idea che essere contro Berlusconi sia sufficiente. D.  Cosa risponde a chi dice che la corruzione è ovunque, nel centrosinistra come nel centrodestra, che i politici sono tutti uguali, che la politica è diventata per molti un mestiere dove si usa il potere esclusivamente per vantaggi personali? R.  Come non accetto la visione manichea della politica divisa tra il bene e il male, così mi ribello alla visione qualunquista che non vuole o non sa cogliere le differenze. Le differenze stanno nei programmi, nelle culture delle classi dirigenti, nei valori di riferimento, negli interessi sociali da tutelare e comporre. Per quanto forti siano le spinte all’omologazione, la politica è scelta, talvolta difficile e coraggiosa. Ne sono testimoni tanti nostri sindaci, molti dei quali giovani, che nel Sud amministrano la cosa pubblica ­142

sfidando quotidianamente le mafie. Ne è stato testimone Angelo Vassallo, sindaco di Pollica, nel Cilento, barbaramente ucciso e che aveva un legame intenso di stima e di affetto con i suoi concittadini. I principi ispiratori all’origine del Pd sollecitano comportamenti civici esigenti, sobrietà e rigore nell’azione di governo e sensibilità verso il problema e i rischi della corruzione. La sfida quotidiana della buona amministrazione sta nell’applicare canoni severi anzitutto verso se stessi e i propri amici. Ciò non vuol dire che il Pd sia immune da episodi di corruzione o che le virtù civiche siano assenti nell’altro campo. Penso, però, di stare nel vero se dico che l’elettorato di centrodestra è più indulgente con le sue classi dirigenti politiche: lo dimostrano, ad esempio, nel campo del centrosinistra, le dimissioni di Flavio Delbono da sindaco di Bologna, all’avvio di un’indagine a suo carico, a fronte della difesa a spada tratta che Berlusconi ha fatto in seguito alle condanne di Cesare Previti o di Marcello Dell’Utri per reati incomparabilmente più gravi o a fronte delle ripetute autoassoluzioni rispetto ai propri comportamenti. Forse il problema nel nostro campo è ingigantito proprio dalla sensibilità dell’opinione pubblica di centrosinistra verso il tema della corruzione: ma, sinceramente, considero questa sensibilità e la conseguente pressione sul Pd come un bene. La dignità, la sobrietà, il rispetto delle regole, la moralità dei comportamenti devono essere le fondamenta del nostro patto associativo. E la disciplina e l’onore, che la Costituzione pretende in chi svolge funzione pubblica, devono valere nel Pd come criterio stringente di selezione della classe dirigente. D.  Il secondo comma dell’art. 54 della Costituzione («I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore...») è stato molto citato, non solo da lei ma anche dal presidente della Conferenza episcopale, in occasione dell’inchiesta sulle feste serali ad Arcore, il cosiddetto «Rubygate», che ha coinvolto Silvio Berlusconi. Non teme che trasformare in un’arma di batta­143

glia politica uno scandalo a sfondo sessuale possa rivelarsi, alla fine, controproducente? R.  Il centrosinistra e le opposizioni non hanno organizzato alcuno scandalo e la loro battaglia politica continua ad avere al centro le questioni sociali, economiche, istituzionali. È stata un’inchiesta della magistratura a mostrare al Paese, e all’opinione pubblica internazionale, uno spaccato agghiacciante di degrado attorno al presidente del Consiglio, dove il potere pubblico viene usato per fini personalissimi, dove la logica del clan prevarica quel costume di sobrietà richiesto ai governanti, dove la dismisura del potere e della ricchezza riduce la donna a merce. In ogni caso noi non ci occupiamo di peccati, che sono materia della Chiesa, né di reati, che sono di competenza della magistratura. Ci occupiamo di Italia. Perché la Costituzione pretende che le funzioni pubbliche siano svolte con disciplina e onore? Perché l’uomo pubblico deve avere la credibilità sufficiente per agire nella collettività, per affrontare i problemi del Paese e per preservarne il prestigio nel mondo. Tutto ciò è venuto meno. Per questo dovevamo, dobbiamo reagire. Sarebbe gravissimo minimizzare simili comportamenti e la relativa svalutazione della politica che ne consegue. Chi oggi tace e sottovaluta, come potrà domani chiedere rigore, serietà, coerenza, moralità e risultare credibile? E come può oggi lamentare la supplenza della magistratura se non dà voce a questa esigenza civica? Stiamo parlando di una questione pubblica di primaria importanza, non di vicende personali. Guidare un camion è un mestiere che ha una rilevanza sociale, ma ci vuole la patente, che è un fatto personale. Così per fare politica e concorrere alle cariche istituzionali sono necessari dei prerequisiti personali. Ci vuole onestà e sobrietà nei comportamenti, bisogna essere e mostrare di essere una persona per bene. È vero, non c’è un giudice che possa esaminare questi titoli di ammissione: questo è un bene, un segno di laicità. Ma i partiti costituzionali devono essere capaci di ­144

dotarsi di un codice etico collettivo, di una sorta di filtro, altrimenti rischiano di compromettere qualunque principio di legalità. Non è moralista chi si ribella, è immorale chi tace per opportunismo. D.  Ammetterà che la politica non sembra più in grado di darsi un codice di autoregolamentazione autonomo dalla giustizia penale. Non trova che anche questo sia un ulteriore sintomo della sua crisi? R.  Credo che il lavoro di ricostruzione di una democrazia efficace e partecipata debba svolgersi contemporaneamente su diversi fronti. Ma, al fondo, il punto cruciale è la fiducia dei cittadini. La ricostruzione dei partiti passa da un rinsaldamento di questa fiducia. Ecco perché la responsabilità delle classi dirigenti, nella coerenza dei comportamenti, nella misura del loro tenore di vita, nella moralità personale, è oggi persino maggiore di un tempo. Non si può, ad esempio, fare spallucce quando l’immagine dell’Italia nel mondo viene sfregiata dagli stili di vita che emergono nelle abitazioni super-scortate del presidente del Consiglio. Ognuno, a partire dal proprio campo, deve oggi alzare la soglia dell’autodisciplina, proprio perché la crisi della politica è un tarlo che corrode le fondamenta democratiche. E penso che presto bisognerà portare questi temi anche al giudizio degli elettori: bisognerà dire, senza troppi giri di parole, che la politica deve recuperare un codice severo di moralità. Che questo è la premessa di riforme istituzionali e di un rilancio del ruolo dei partiti. Altro che remore moraliste. Questi temi devono diventare punti centrali di una campagna elettorale: poi giudicheranno gli elettori. D.  Un altro fenomeno protagonista degli ultimi anni è l’antipolitica, alimentata anche dalla controversia sui costi inutili ed eccessivi dei partiti, sull’elevato numero dei parlamentari e sulla presenza, talvolta parassitaria, di un vasto ­145

ceto di rappresentanti e funzionari che vivono attorno ai poteri e sottopoteri nazionali, regionali e locali. Lei cosa pensa della polemica contro «la casta» e del successo popolare del libro di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella? R.  Anche per sconfiggere l’antipolitica bisogna risanare la politica. Quantomeno avviare un cambiamento. Non si può affrontare efficacemente questo diffuso senso di disaffezione per la politica senza cogliere le critiche che hanno un reale fondamento: ritengo che questa sia la regola di base per i riformisti. Sarebbe sciocco discutere di possibili riflessi qualunquisti del libro sulla «casta» senza prima guardare in faccia alle storture e ai difetti documentati. Il tema dei costi della politica, dei suoi limiti e della necessaria sobrietà, va affrontato seriamente. La mia proposta è fare una Maastricht delle risorse destinate ai partiti e agli eletti. Prendiamo la media europea e fissiamo lì il numero dei parlamentari nazionali. Prendiamo la media europea e fissiamo a quel livello gli emolumenti e le prerogative di ministri e deputati: se scopriamo, ad esempio, che la differenza sta nel sistema dei vitalizi, noi dobbiamo superare quel sistema. Riduciamo sempre secondo standard continentali, la pletora degli eletti che dai consigli regionali ai consigli circoscrizionali vivono la politica in modo professionale o semi-professionale. E sfoltiamo i consigli di amministrazione degli enti pubblici locali e le società miste promosse da regioni, province e comuni. Tagliare le ramificazioni di questo sottopotere non ha solo ragioni economiche o morali: questo sottopotere appesantisce e condiziona la stessa vita democratica dei partiti, creando spesso una rete di fedeltà e dipendenza improprie attorno agli amministratori e agli eletti ai vari livelli. La riforma dei costi della politica non va vista oggi come un cedimento dei partiti, ma al contrario come una condizione di rilancio della loro autorevolezza. Con la riforma si potrà dire a testa alta che, nella misura della media europea, il finanziamento pubblico ai partiti è necessario se non si vuole lasciare la politica in mano ai miliardari. ­146

E che è giusto anche retribuire chi, pro tempore, svolge un mandato di rappresentanza politica. Così si combatte con efficacia il qualunquismo. D.  L’Italia è tragicamente anche il Paese delle mafie. Un Paese dove la criminalità organizzata è insediata territorialmente, vive, si trasforma. Perché non si riesce a debellare questo cancro? Quanto pesa questo insuccesso dello Stato nella diffusione della cultura della illegalità? R.  L’illegalità non è solo mafia. Ma le mafie prosperano nell’illegalità. C’è una necessaria azione di contrasto, che deve far capo alla responsabilità dello Stato, del governo, degli apparati pubblici preposti alla sicurezza. La battaglia contro le mafie passa anche dalla riduzione dell’abbandono scolastico, dalle politiche per l’occupazione nel Sud, dal radicamento delle strutture associative e del volontariato, dalla cultura e dai messaggi che le istituzioni, la società, la Chiesa sanno trasmettere. La capacità e la qualità mostrata da Roberto Saviano nel comunicare con tanti giovani, disvelando loro i meccanismi vecchi e nuovi della criminalità organizzata, è l’indice delle risorse positive a cui possiamo attingere. Ma non c’è dubbio che gli insuccessi dello Stato pesano su di noi e sulle nostre chances. Mafia, ’ndrangheta e camorra si sono modernizzate, sono entrate nelle regole della finanza globalizzata e hanno pure approfittato della crisi per far fruttare al meglio la loro liquidità. La presenza e l’oppressione territoriale non hanno più l’esclusività di un tempo. Oggi le mafie sono una questione Nord-Sud. Il riciclaggio riguarda anche investimenti produttivi, oltre che transazioni finanziarie. E le presenze mafiose nelle regioni settentrionali non sono più sporadiche. Per questo consiglierei alla Lega di evitare i soliti stereotipi razzisti contro gli uomini del Sud perché il problema deve essere affrontato e risolto con un impegno nazionale. Non mi stancherò mai di ripetere che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono eroi nazionali e non eroi siciliani. ­147

D.  La Lega rivendica anche i successi ottenuti dal governo Berlusconi nella lotta alla mafia e nella cattura di molti latitanti. R.  I successi delle forze di polizia, dei corpi dello Stato, della magistratura sono motivo di soddisfazione e di speranza per tutti. Se l’esecutivo se ne fa vanto, non ho nulla da eccepire purché riconosca il ruolo di chi è sul campo. Ma il governo dovrebbe alzare la guardia anche sul piano normativo: invece sulla tracciabilità delle transazioni finanziarie sono stati fatti passi indietro rispetto al governo Prodi. E il maxi-condono per favorire il rientro dei capitali portati all’estero è stato un gigantesco incentivo per il riciclaggio del denaro sporco. Purtroppo sono stati lanciati tanti messaggi contraddittori. Mentre la lotta alle mafie ha bisogno di coerenza e di costanza: la tracciabilità dei movimenti di capitale è il filo da tirare per arrivare alla testa del fenomeno criminale. Non è impossibile. Siamo ancora un Paese che non prevede il reato di autoriciclaggio. Ci vuole una politica rigorosa – che alzi ovunque il livello di fedeltà, di legalità fiscale e di trasparenza nelle transazioni – e una forte specializzazione nel contrasto criminale. Abbiamo grandi professionisti e uomini di valore tra i magistrati e le forze dell’ordine. Un buon modo di spendere le risorse europee sarebbe quello di sostenere un miglioramento organizzativo e tecnologico degli uffici giudiziari e delle forze dell’ordine. Forse sarebbe anche il caso di sperimentare progetti europei per potenziare i supporti informatici per la sicurezza e la lotta alla criminalità. D.  Il nostro è il Paese dei misteri e delle stragi impunite. Non pensa che lo scarso senso dello Stato e la sfiducia verso le istituzioni si sia alimentata anche così? R.  I misteri che sono alle nostre spalle non hanno sicuramente aiutato la democrazia italiana. Credo che si dovrebbe fare di tutto per svelare ciò che è ancora occulto e per ­148

rendere giustizia, non solo alle vittime e ai loro familiari, ma all’intero Paese. Non mi unirò mai a chi dice al magistrato che indaga sulla strage senza colpevoli di trent’anni fa, che farebbe bene ad occuparsi d’altro. Sarò sempre dalla parte di chi chiede di rimuovere segreti e silenzi di apparati, laddove questi effettivamente esistono. In ogni caso, e a differenza di quel che ha fatto il governo Berlusconi, il segreto di Stato va usato il minimo indispensabile e, comunque, non è possibile prorogarlo oltre i limiti stabiliti. Accanto a questo, però, dico anche che dobbiamo guardare avanti. Che, se è sempre giusto chiedere verità e giustizia, questa domanda non può distoglierci mai dall’esigenza di pensare e di costruire il futuro.

X

CREDENTI E NON CREDENTI PER UN UMANESIMO CONDIVISO

D.  Il Partito democratico è formato da credenti e non credenti. Ma, rispetto alle altre forze europee di centrosinistra, la presenza di cattolici è percentualmente più ampia, come dimostrano le rappresentanze elettive e le indagini demoscopiche. Quanto vale sul piano politico e culturale questa presenza? In che misura la scelta «democratica» e non socialista è dipesa dall’apporto dei cattolici? R.  Il Partito democratico è nato dalla confluenza di valori, culture, tradizioni riformiste, che hanno attraversato la storia nazionale o che sono emerse in tempi più recenti. L’impresa non sarebbe riuscita senza gli apporti socialisti, democratici, liberali, ecologisti, popolari, cattolico-democratici, che già diedero vita all’esperienza unitaria dell’Ulivo negli anni Novanta. È chiaro che in un contesto così radicato nel tessuto italiano, il valore politico e culturale del riformismo cattolico è rilevantissimo. In altri Paesi, la partecipazione dei cristiani alla vita pubblica è orientata in misura maggiore verso formazioni centriste o di centrodestra, tutte comunque con un saldo impianto costituzionale e liberale. Da noi, invece, la destra è storicamente esposta a tentazioni populiste e ha sempre mostrato scarso affetto per la Costituzione. Non parlo solo di Berlusconi. Alcide De Gasperi, prima ancora che Aldo Moro guidasse il Pae­se lungo la rotta del centrosinistra e dell’«allargamento delle ­150

basi democratiche», fissò a destra un argine alle al­leanze della Dc e ingaggiò nel ’52 un doloroso conflitto con lo stesso papa Pio XII per scongiurare alle elezioni comunali di Roma una coalizione di centrodestra che avrebbe spostato l’asse, e forse persino modificato la natura della Dc. Questo è nel dna del cattolicesimo politico italiano. E ciò dà conto di una nostra diversità rispetto agli altri Paesi europei. Lo stesso incontro con le culture riformiste laiche non è avvenuto per caso o all’improvviso. La scelta «democratica» dipende ovviamente da tutto questo ed è per noi una straordinaria opportunità. La differenza del Pd rispetto ai partiti socialisti e progressisti europei non è un’anomalia, ma un tratto distintivo positivo che porta il suo contributo a tutto il centrosinistra europeo perché si apra anch’esso a forze riformiste di tradizioni diverse e perché sposti in avanti i propri orizzonti culturali. D.  Qualcuno le attribuisce l’intenzione di voler spostare a sinistra l’asse del Pd per poi costruire un’alleanza con forze moderate di centro. Secondo questo schema, lei favorirebbe il trasferimento dal Pd al centro di una parte dei cattolici al fine di stabilizzare una coalizione tra i riformisti e i moderati. R.  Questo è il contrario di ciò che penso. Abbiamo costruito il Pd immaginandolo come il soggetto riformista di questo secolo: la sua prospettiva è semmai quella di rafforzarsi e di ampliare il proprio cantiere, di determinare un effetto gravitazionale attorno a un progetto autonomo. Altro che cessione di quote. Per quanto mi riguarda, non solo ritengo assurda l’ipotesi di costruire delle case all’esterno del Pd, pensando così di condizionarne l’azione politica, ma contrasterò in ogni modo anche la tentazione di dividerci per stanze all’interno della casa comune. Ciascuno ha portato i propri ingredienti, ma alle nuove generazioni possiamo e dobbiamo consentire di elaborare una nuova ricetta. E comunque bisogna liberarsi di questo politicismo che ha il solo effetto di accorciare la visuale. ­151

Il Pd, certo, cercherà di costruire alleanze credibili e coerenti per dare al Paese un’alternativa di governo. Ma non cambierebbe natura se si alleasse con forze moderate che hanno al loro interno altre presenze cattoliche. I cattolici del Pd hanno solide ragioni culturali e programmatiche per continuare a essere protagonisti nel partito dei riformisti e non mi pare che temano un confronto costruttivo con i cattolici moderati. D.  Ritiene possibile, dopo la Dc, la costituzione di una forza politica ispirata prevalentemente alla dottrina sociale della Chiesa? R.  Non credo a un ritorno all’unità politica dei cattolici, le cui condizioni storiche oggi sono superate. Dopo il Concilio Vaticano II, l’unità politica dei cattolici già faticava dentro la Chiesa ad avere una cornice teorica condivisa. La dottrina sociale, inoltre, dalla Rerum novarum di Leone XIII alla Caritas in veritate di Benedetto XVI ha sempre avuto ambizioni molto più grandi che non quelle di ispirare un partito: è stato il terreno del confronto con la modernità e il divenire storico, è stato il modo per entrare nel vivo della dialettica sociale e offrire orientamenti non solo ai credenti. Per un partito riformista il confronto con la dottrina sociale della Chiesa è ineludibile, ma nessun partito può pensare di imprigionare e tenere per sé quella riflessione. Con ciò non voglio negare in assoluto, e sul piano teorico, la possibilità di un partito di ispirazione cristiana: chi lo facesse però dovrebbe farsi carico di questa complessità, di un pluralismo irriducibile di opzioni politiche dei credenti e di un magistero cattolico che vuole giustamente interloquire nello spazio pubblico con tutti i soggetti sociali. D.  Come descriverebbe oggi lo stato delle relazioni tra il Pd e la Chiesa italiana? Si ritiene soddisfatto del dialogo e delle attenzioni riservatevi dalla Cei e dalla Santa Sede? ­152

R.  Non intendo giudicare ciò che la Chiesa italiana, nella sua libertà, pensa di noi. Non mi interessa una diplomazia strumentale. Ciò che mi preme è che il messaggio, i valori, la ricerca del Pd siano percepiti per quello che sono, senza il filtro di lenti deformanti. Il Pd non offrirà mai modelli da Patto Gentiloni, né è interessato alla tipologia degli «atei devoti», né accetta l’opportunismo di chi separa totalmente l’etica pubblica da quella privata. Il Pd vuole essere un partito fedele alla Costituzione repubblicana. Un partito consapevole dei limiti della politica e, al tempo stesso, delle proprie responsabilità. Un partito che rivendica l’autonomia delle proprie scelte e riconosce senza riserve la presenza pubblica nell’agorà delle Chiese e delle religioni. Un partito aperto al confronto sulle nuove frontiere della scienza e della vita e che non vuole chiudersi nei confini dei soli temi economico-sociali, che pure sente come più congeniali. Un partito sensibile ai vincoli insuperabili che una coscienza religiosa porta con sé e, semmai, intenzionato a offrire il suo contributo perché le scelte di coscienza non siano svilite da possibili usi strumentali e opportunistici. Questo ho sempre detto alle autorità ecclesiastiche e alle comunità di credenti che ho incontrato. Nel dna del Pd c’è una sensibilità più marcata sui temi etici e antropologici di quanto non avvenga nelle altre forze progressiste europee. Le nostre radici restano comunque in Europa e in quel filone dei diritti civili, che va liberato da incrostazioni ideologiche ma il cui contributo alle libertà non può essere negato. D.  La Cei guidata dal cardinale Camillo Ruini ingaggiò una dura polemica contro il governo Prodi sul riconoscimento dei diritti dei conviventi (i «Dico») e più volte è andata all’attacco del centrosinistra sui cosiddetti «principi non negoziabili». Che giudizio dà di quella stagione? R.  Non voglio essere ipocrita e nascondere un mio disagio, penso condiviso da molti cattolici, per alcune asprezze ­153

della Chiesa nei confronti del governo di centrosinistra, tanto più se paragonate con taluni atteggiamenti tenuti con il successivo governo Berlusconi. Romano Prodi si definì un cattolico adulto e ciò, forse, fu inteso come un atto di superbia. Sinceramente le esperienze di chi ha preso il suo posto mi sono sembrate assai più contraddittorie con l’insegnamento morale della Chiesa. Dico questo non per rivendicare alcunché, né per sminuire il contributo culturale e pastorale della Cei negli ultimi vent’anni, ma per testimoniare una sofferenza che ha riguardato anche me. Ora però è tempo di guardare al futuro da costruire. Io sono ottimista. D.  Fino a che punto il Pd può resistere a opinioni differenti al suo interno sui temi eticamente sensibili, cioè sulle leggi che riguardano l’inizio e la fine della vita? Stabilire la libertà di coscienza è certo un principio regolatore, ma non teme che nel concreto le tensioni interne possano determinare conseguenze difficili da governare? R.  Il Pd è sicuramente interessato a definire le modalità di espressione e il perimetro della libertà di coscienza nello svolgimento di una funzione pubblica. Non si tratta di una regolazione facile perché incombe il rischio di banalizzazioni: la coscienza è personale ma i partiti sono soggetti collettivi che hanno la responsabilità di costruire indirizzi di governo e decisioni di cui la comunità ha bisogno. Si tratta, insomma, di una frontiera delicatissima e mobile, anche perché le leggi cominciano a occuparsi della vita e della morte degli uomini e i progressi della scienza spostano continuamente termini e confini. Penso che si dovrebbe affidare a un’autorità, ad esempio a un comitato di autorevoli personalità del partito, il compito di fissare dei criteri che riconoscano la libertà di voto individuale come conseguenza coerente di un principio religioso o etico incomprimibile. Credo che in questo modo il Pd potrebbe dare così un contributo anche a definire un’area di questio­154

ni eticamente sensibili che, a mio giudizio, meriterebbero procedure rafforzate anche nelle decisioni pubbliche. D.  Il grande timore di parte cattolica è oggi la deriva «laicista» della sinistra europea. Ritiene il Pd immune da questo esito? E non vede, allo stesso modo e come reazione, il rischio di un integralismo da parte cattolica oppure di un collateralismo con il centrodestra? R.  Avverto questo timore di parte cattolica e vedo anche il rischio di reazioni difensive. Il confronto è impegnativo. Ma disponiamo delle energie culturali perché l’Italia diventi un luogo avanzato di dialogo tra credenti e non credenti e produca elementi di sintesi di un umanesimo largamente condiviso. So bene che non è facile e che non basta un po’ di irenismo. Ora che davanti a noi si pongono problemi inediti, di grande valenza etica e antropologica, dobbiamo essere capaci di tenere in relazione la crescita della responsabilità individuale con il principio di precauzione. Noi possiamo, anzi dobbiamo evitare un bipolarismo etico. Il bipolarismo politico, peraltro, incasserebbe un colpo micidiale, che andrebbe ad aggiungersi alla torsione plebiscitaria già subita nell’ultimo decennio. L’Italia può essere il Paese della ricerca in comune anziché della contrapposizione. L’Italia è favorita dalla presenza della massima guida spirituale cattolica, dall’impegno di credenti in tutte le forze politiche e, non da ultimo, dalla grande tradizione popolare della sinistra italiana che, anche nel tempo dello scontro più aspro, ha sempre cercato di armonizzare le spinte ideologiche dentro un senso comune profondamente intriso di volontà di dialogo sui valori della persona. Credo che l’attributo di laicista sia sempre stato improprio per la sinistra italiana: l’idea di laicità nella quale si è riconosciuta è quella iscritta nella Costituzione, alla cui stesura hanno contribuito in modo decisivo anche politici e giuristi di formazione cattolica. Tutto questo non deve andare disperso. È una responsabilità di tutti. ­155

D.  In Francia l’esposizione pubblica dei simboli religiosi è giudicata incompatibile con la neutralità dello Stato. Da noi invece c’è il Concordato, c’è l’ora facoltativa di religione nelle scuole e molti istituti religiosi sono parte del servizio scolastico pubblico. Si può dire che si è prodotta una laicità «italiana»? R.  Non scambierei l’equilibrio della nostra Costituzione con null’altro. Benché scritta oltre sessant’anni fa, il suo impasto di norme e valori ci consente oggi di affrontare le nuove migrazioni e le tematiche connesse al pluralismo religioso con una flessibilità che evita tanto il multiculturalismo generico di matrice anglosassone quanto l’integrazionismo rigido alla francese. Restando all’interno della cornice costituzionale, possiamo dire sì al velo per il rispetto dovuto alle tradizioni culturali e ai convincimenti religiosi, ma al tempo stesso no al burqa perché esso confligge, non con opposti principi religiosi, bensì con alcuni doveri prescritti a tutti dall’ordinamento. Possiamo dire sì alla costruzione della moschea perché la pratica di fede è un diritto universale e al tempo stesso dire sì al crocifisso nelle scuole perché le logiche del diritto non possono andare contro il buon senso, perché ci sono simboli religiosi che incarnano una storia e una cultura più ampie e perché la figura del Cristo in croce rappresenta sofferenza e generosità, non l’immagine di un Dio trionfante che vuole schiacciare il diverso. È tutto questo una specificità italiana? Sarebbe stato possibile se Roma non fosse diventata il centro della cristianità? È persino banale riconoscere che ogni cultura è figlia della propria storia. All’Assemblea costituente però la decisione di inserire il vecchio Concordato nel nuovo patto costituzionale non fu un mero atto di diplomazia. La consapevolezza e la responsabilità di ospitare la guida della Chiesa universale è un tratto nazionale, che è stato portato a dignità di Costituzione e che non ha impedito in seguito di ampliare i diritti con la stipula di altre intese con le religioni diverse da quella cattolica. La ­156

garanzia della libertà della Chiesa è parte della Carta costituzionale ed è una ricchezza per noi. Ovviamente si tratta di un patto che va sorvegliato con assoluto equilibrio, che comporta responsabilità da parte dello Stato come da parte della Chiesa, la quale non può pensare di avere una sorta di tutela verso i cittadini italiani. D.  Del magistero di papa Benedetto XVI è parte fondamentale la critica del relativismo e la riproposizione di una verità teologica, non ostile alla ragione ma capace di ristabilire un ordine naturale e una centralità dell’uomo. Spesso la cultura progressista mostra una certa diffidenza verso queste riflessioni, attribuendo loro un deficit di modernità e un rischio di dogmatismo. Non pensa invece che il relativismo sia un tarlo che corrode oggi tutte le culture solidariste, comprese quelle progressiste? R.  È impossibile separare la figura di Benedetto XVI dal suo profilo di intellettuale eminente e, mi sia consentito, di «intellettuale organico»: si tratta infatti di un teologo che ha sempre proclamato il limite della teologia e rivendicato l’insegnamento della Chiesa come elemento vitale della Rivelazione. A dispetto di qualche luogo comune e di qualche valutazione superficiale, mi sembra che questo papa abbia validi strumenti per mettersi in contatto con la modernità in modo amichevole e al tempo stesso sfidante. Benedetto XVI invoca una ragione che non si autoriduca a ciò che è sperimentabile e un diritto naturale che non accetti il perimetro definito da scienziati e biologi. È un’impostazione con la quale non si fatica a interloquire. Proprio in nome delle loro culture solidariste, i progressisti non possono bollare come irrazionale ciò che non si tocca con mano oppure delegare alla sola scienza la definizione di ciò che è giusto o sbagliato. Ma a un certo punto c’è un nodo da sciogliere: ciò che abbiamo descritto è, a mio giudizio, la base di un confronto che deve impegnare tutti gli uomini di buona volontà, perché se invece il ­157

dogma di fede tendesse a trasformarsi automaticamente in dogma della ragione, in nome di una ragione inaccessibile a chi non ha la fede, allora il confronto diventerebbe più difficile. Diventerebbe più difficile anche trasformare in impegno comune quella critica al relativismo, che non si può non condividere nel senso che gli essenziali elementi regolativi di una società poggiano sempre – lo si riconosca o meno – su una sorta di «verità comune». Non nego affatto inoltre che la fede sia per i credenti anche una via della conoscenza. Ma penso che ai credenti sia richiesta anche la coscienza di una loro propria dimensione del relativo, cioè il tentativo storico di avvicinarsi alla perfezione di Dio senza riuscire a possederlo pienamente sulla Terra. In base a quello che la storia del pensiero ci ha consegnato il relativismo non si presenta necessariamente come nichilismo, ma anche come incessante metodo di ricerca. Allo stesso modo, la pretesa di verità ineludibile, nelle fedi religiose non si presenta necessariamente come integralismo, se si riconosce che la verità stessa può manifestarsi in modo carsico e quindi se si ammette che chi ha già trovato debba continuare a cercare. È l’impegno comune, in condizioni di libertà e di pari dignità, che può consentire a credenti e non credenti di compiere passi avanti nel progresso morale e civile. E non va dimenticato che questo percorso comune ha costituito e costituisce la base essenziale della democrazia politica. D.  Se lei avesse partecipato alla Convenzione che ha elaborato il progetto di Costituzione europea (poi accantonato dopo i no di Olanda e Francia al referendum), sarebbe stato favorevole all’inserimento delle radici cristiane nella premessa o nei principi fondamentali della nuova Carta? R.  Sì, sarei stato favorevole a inserire le radici cristiane, non da sole, fra i tratti fondamentali della vicenda europea. Pur riconoscendo le contraddizioni della storia, quelle radici hanno avuto indiscutibilmente a che fare con la ­158

nascita e la crescita delle idee di democrazia, di laicità, di universalità dei diritti. D.  In che misura, secondo lei, la dimensione religiosa può contribuire oggi a motivare e a rilanciare l’impegno sociale e lo spirito civico? Pensa che possa farlo allo stesso modo un’antropologia senza trascendenza, priva di richiami a Dio? R.  La spinta religiosa è un’energia preziosa per la società perché offre motivazioni all’impegno volontario e diffonde il sentimento di fratellanza. Ma il rafforzamento della trama di solidarietà e di comunità, tanto più nella modernità, ha bisogno anche dell’impegno dei non credenti. Un impegno che nasce da motivazioni a volte più complesse e altrettanto profonde: pur senza trascendenza, l’impegno altruistico in nome dell’uomo ha avuto storicamente testimonianze di alto valore etico e di grande significato sociale. Questo è indiscutibile. Del resto, riconoscendo la possibilità che un’antropologia senza trascendenza possa dare buoni frutti, tanti credenti ci hanno visto l’impronta di Dio. D.  Anche l’Italia, come il resto dell’Europa, sta diventando una società sempre più multietnica e dunque multireligiosa. Come combinare le radici cristiane, la civiltà giuridica e la stessa cultura solidarista di matrice cattolica, con la pluralità delle fedi, dei riti, degli impianti valoriali di altre confessioni religiose? R.  Ancora una volta è la Costituzione italiana a venirci incontro. Essa incoraggia le Intese tra lo Stato italiano e le diverse confessioni religiose, garantendo luoghi di culto e spazi per una loro presenza sociale, ovviamente nel rispetto dei principi dell’ordinamento. La libertà religiosa apre alla libertà personale e viceversa. Mi auguro che si creino presto le condizioni anche per stipulare l’Intesa con la comunità musulmana in Italia, essendo questa ormai la seconda ­159

confessione religiosa per numero di fedeli. Può essere un passo importante sulla strada della condivisione di diritti e di doveri. Naturalmente, il rapporto con l’Islam presenta delle complicazioni che è impossibile nascondersi. C’è una radicale asimmetria rispetto alla Chiesa cattolica nel rapporto con la politica e le istituzioni, che può produrre contraddizioni e conflitti. Ma noi non possiamo rinunciare alla nostra civiltà del diritto, perché se lo facessimo rinunceremmo a noi stessi. Ovviamente il pieno riconoscimento dei diritti della persona e il processo di integrazione mantiene il proprio limite nella tenuta e nel rispetto dei principi costituzionali, che nessuno è legittimato a violare, neppure invocando il proprio credo religioso. D.  In occasione della Settimana sociale dei cattolici del settembre 2010 lei più volte è intervenuto per segnalare come la concreta applicazione della dottrina sociale della Chiesa incontri più facilmente la sensibilità e i programmi del centrosinistra che non quelli del centrodestra. Non ritiene, però, che l’affinità sui temi della bioetica, da un lato, e il timore per la diffusione dell’Islam, dall’altro, possano indurre la Chiesa a cercare l’alleanza con il fronte conservatore dei cosiddetti «atei devoti», anziché con chi condivide idee egualitarie, solidali e redistributive? R.  La Settimana sociale dei cattolici è stata un’occasione importante di confronto per la società e per la politica italiana. La Cei, sulla base di un documento molto interessante e impegnativo, ha favorito un approfondimento sugli effetti sociali della crisi economica, sulle potenzialità ancora inespresse del Paese, sulle necessarie riforme, sulle nuove sfide della solidarietà. Il Pd ha preso molto sul serio questo confronto. E tra l’altro, abbiamo dedicato una giornata di studi al documento del comitato organizzatore della Settimana sociale. Mi è stato detto che al convegno, a Reggio Calabria, molti partecipanti esprimevano una sensibilità sociale e politica molto vicina alla nostra. Può sembrare ­160

un’ovvietà, ma per me vale molto questa empatia, questo interscambio perché dimostra sia le possibilità del Pd, sia il grande apporto di cattolici alla sua cultura e al suo programma politico. Comprensibilmente la Chiesa non può riversare su questi aspetti politico-sociali le sue attenzioni pastorali in modo esclusivo. Se queste diventassero le priorità, qualcuno parlerebbe magari di collateralismo o di asse con il centrosinistra. Ci vuole rispetto per la missione della Chiesa che non può essere subordinata alle logiche della politica. Questo vale per noi, ma vale anche per il centrodestra, per i teocon e per gli atei devoti. Negli Stati Uniti i teocon hanno usato i valori religiosi per sostenere un’idea aggressiva dell’Occidente e la guerra contro l’Iraq è stata un errore storico di cui pagheremo a lungo le conseguenze. La Chiesa può anche essere attraversata da tendenze o tentazioni favorevoli a questi filoni conservatori. A mio giudizio, se queste tendenze prevalessero, la Chiesa rischierebbe una pericolosa riduzione del suo messaggio religioso a ideologia politica. Quale migliore sintesi del relativismo è quella rappresentata dagli atei devoti? Issano il baluardo del cristianesimo piegandolo, però, a religione civile dell’Occidente, giurano alle gerarchie una fedeltà senza fede, seguono alcuni comandamenti ma si sentono esentati da quelli che contrastano con i loro interessi. Non solo: rilanciano pure lo spirito miliziano, che serve ad alimentare le sacche di odio e non certo a risolvere problemi. Insomma, i matrimoni tra la Chiesa e la destra non hanno mai portato ad avanzamenti della società. Continuo a sperare che l’Italia diventi la frontiera più avanzata di un dialogo costruttivo tra credenti e non credenti, capace di rafforzare la laicità positiva e irrobustire un’etica condivisa: dobbiamo sentirci tutti partecipi di questo lavoro comune, anche il centrosinistra deve fare la sua parte con generosità. D.  La presenza organizzata di cattolici più significativa all’interno del Pd ha una matrice cattolico-democratica e un bagaglio politico-culturale che ha avuto nella Costituzione, ­161

nell’antifascismo e nel Concilio Vaticano II i pilastri fondamentali. Quale contributo lei pensa che questo filone possa oggi offrire al Pd? R.  Le donne e gli uomini, che hanno una formazione cattolico-democratica e che oggi sono iscritti, militanti, dirigenti nel Pd, sono anzitutto artefici del destino comune del nostro partito. Penso che l’elaborazione politica del Pd porterà nel tempo a produrre sintesi nuove, oltre le appartenenze originarie. Ovviamente i cattolici continueranno a dire la loro e a confrontarsi anche all’interno della propria comunità di fede. Questo sarà sempre un alimento, una fonte originaria di valori e testimonianze che contribuirà a formare il pensiero e l’azione del Pd. C’è, però, un «metodo» che i cattolici-democratici hanno elaborato nella loro storia e che oggi non è solo un contributo al Pd, ma è il nostro metodo fondativo. Sto parlando dell’idea della responsabilità autonoma della politica. Di una politica, cioè, che non volendo rinunciare a profonde e impegnative convinzioni etiche e religiose, affida alla responsabilità dei laici la mediazione e la scelta concreta, capace di incarnare i valori e di proiettarli verso il bene comune. È un principio di laicità positiva, è un’idea non aristocratica di autonomia della politica, anzi è l’impegno a tenere la politica aderente alla società, senza tuttavia ridurla a una mera registrazione degli interessi dominanti. I cattolici-democratici in Italia hanno sperimentato questo metodo prima ancora che il Vaticano II affermasse l’autonoma responsabilità dei laici credenti nell’ordine temporale. Hanno permeato della loro laicità prima la Costituzione, poi i documenti conciliari. Ecco, questa è oggi una pietra angolare della cultura politica del Pd e rappresenta il miglior antidoto sia al relativismo degli atei devoti, sia ai richiami di un laicismo ideologico.

XI

La scienza, la vita e i limiti della politica

D.  Nell’orizzonte culturale del Partito democratico – ne abbiamo già parlato nel corso dell’intervista – è presente l’aspirazione a un nuovo umanesimo. Indubbiamente negli ultimi decenni siamo di fronte a grandi cambiamenti antropologici che riguardano la stessa concezione della natura umana. Come si possono oggi concretamente coniugare le ragioni della libertà individuale, l’autonomia e la dignità della persona con l’attiva partecipazione alla comunità? R.  L’orizzonte di un umanesimo forte è necessario alla politica, proprio perché la politica ha bisogno di una sua visione autonoma. Il Pd ha l’ambizione di comporre risorse culturali di origini diverse, laica e religiosa, e per farlo non può avere un retroterra ideologico né agnostico. Deve cercare un punto di incontro intorno a una visione di dignità e di libertà dell’uomo che ne rispetti il tratto singolare: non siamo solo natura o cultura, bensì una sintesi originalissima che si realizza nella persona. Da questa visione scaturisce la necessità di un modello di costruzione sociale che sia solidale e inclusivo, a partire dalla percezione dell’uguale dignità di tutti gli uomini. Il compito della politica è mostrare che questo approccio è funzionale a una crescita sociale, civile ed economica e che lo è di più di un modello egoistico, arroccato intorno un’idea di individuo circoscritto ai propri interessi particolari. Penso che ­163

la crisi economica di questi anni abbia dimostrato tutta la caducità del paradigma neo-liberista, che ha dominato negli ultimi decenni. La visione umanistica ha in sé un carattere di generosità verso il destino comune che implica l’impegno a rispettare la pluralità e a guardare l’insieme. Per questo motivo non vedo contraddizioni tra la libertà individuale e la partecipazione a un progetto politico solidale: servono entrambi per camminare uniti. D.  In quale misura la nuova età della globalizzazione può influenzare questa ricerca culturale, filosofica e antropologica? R.  Come tutti i fenomeni nuovi e dirompenti la globa­liz­ zazione presenta oggi un aspetto contraddittorio e tumultuoso, ma sono convinto che il disordine si ridurrà via via anche per il ruolo che potrà svolgere la politica. Oggi l’idea che la Cina o l’India ci incalzino produce un sentimento di inquietudine, ma col tempo aumenterà la visione di interdipendenza globale e impareremo a convivere in modo più compreso e condiviso. La necessità principale sarà quella di pensare e organizzare la crescita di questo universo politico ed economico sempre più largo e di ampliare i confini della democrazia, intesa anche come estensione dei diritti e riduzione delle disuguaglianze, oltre le dimensioni nazionali e continentali. Sono persuaso che, se queste sfide entreranno nell’agenda della politica, provocheranno anche una ripresa di idealità e di valori. Sia chiaro, non voglio peccare di irenismo. Ci saranno dei contraccolpi perché il disordine del mondo potrà indurre ad atteggiamenti di ripiegamento e di chiusura: ma, se non ci fosse questo rischio, non avremmo neppure la sfida culturale e politica che ne consegue. Una sfida che interroga direttamente le ragioni dei democratici e dei progressisti del mondo, dagli Stati Uniti al Brasile, dall’India al Giappone sino all’Europa e dunque all’Italia: bisogna raccoglierla. D.  In che modo il solidarismo può tornare a rappresentare una carta vantaggiosa in campo politico e sociale? ­164

R.  Il solidarismo è un caposaldo della nostra cultura. Paradossalmente oggi la solidarietà si deve misurare più con i problemi di vicinato che con quelli della lontananza. Sono le reti corte e i territori quelli che soffrono maggiormente lo schiaffo della globalizzazione e possono reagire allo spaesamento che ne consegue in modo regressivo. Anche le nuove tecnologie possono portare a forme originali di solitudine: comunichi con tutti, ma puoi sentirti più solo. Una forza solidaristica come il Pd si deve impegnare a produrre una nuova cultura della vicinanza e del vicinato tra le persone che non vivono la stessa condizione lavorativa o sociale. Questo orientamento può essere favorito da pratiche di partecipazione e di cittadinanza attiva come il volontariato e l’associazionismo, dove sta crescendo la consapevolezza di dovere reagire in modo nuovo agli squilibri delle nostre società e che costituiscono comunque una straordinaria ricchezza del vivere italiano che va sempre incentivata. C’è bisogno di rinnovare la fisicità dei rapporti e anche il partito può essere una delle strutture e delle agenzie di volontariato al servizio di una rete di solidarietà umana. Penso che questo sia un compito nuovo e inaspettato della politica del nuovo millennio. Dico nuovo, ma non inedito perché già in passato essa ha svolto questa funzione di collegamento e di messa in rete di esperienze diverse. Per questo ripeto spesso che noi le feste del Pd dobbiamo raddoppiarle! Dobbiamo inoltre sperimentare modalità che aiutino a creare dei legami e a rispondere al bisogno di partecipazione che sale dalla società civile. La mia impressione è che stiamo assistendo al movimento di ritorno di un pendolo: prima c’è stata la fase fordista, con i partiti di massa in grado di rappresentare esperienze comuni di lavoro e di vita; poi è venuto il periodo della frantumazione dei percorsi lavorativi e la crisi di quella forma partito organicamente intesa; oggi si è aperta, grazie alla sfida della globalizzazione, una nuova fase culturale e organizzativa che richiede di ricongiungere aspetti relazionali e comunitari in un luogo reale, come possono essere il ­165

circolo, la festa, la vita di associazione, ma anche virtuale come Internet. D.  L’umanità dispone di saperi e di strumenti tecnici impensabili fino a poco tempo fa che concernono direttamente le relazioni tra l’uomo e la vita. Il dibattito odierno sui rapporti tra scienza, morale e antropologia è imperniato sul concetto di limite. È giusto secondo lei regolare i rapporti fra scienza e morale seguendo tale principio e quale deve essere il ruolo della politica in questo ambito? R.  Il confine tra scienza, etica e vita è in continuo movimento. Occorre vigilarlo consapevoli che la scienza è un’espressione positiva delle facoltà dell’uomo, ma può anche produrre un suo condizionamento. Voglio chiarire un punto preliminare: ritengo velleitario e anche sbagliato porre dei limiti alla ricerca con l’idea che ne possano derivare dei danni eventuali. Questo è un dilemma che accompagna la storia umana da sempre e che non si risolve proibendo, ma innalzando le energie razionali, etiche e democratiche per dominare la fase due della ricerca, quella relativa alle applicazioni. L’umanità è sempre andata avanti correggendo i propri errori, e le applicazioni sbagliate sono state contrastate favorendo una visione informata delle procedure e aumentando i processi democratici di controllo. Sostenere che una ricerca di cui si possono immaginare sviluppi contraddittori o pericolosi vada limitata o proibita preventivamente non è solo impossibile, ma non porterebbe da nessuna parte. La politica deve conservare una sua autonomia di giudizio e di indirizzo difendendo sia il valore della libertà di ricerca sia il principio di precauzione nelle applicazioni, che vanno osservati insieme. D.  La più importante rivoluzione del secolo scorso ha riguardato il protagonismo della donna nella famiglia, nel mondo del lavoro e nella società. Tuttavia uno dei principali problemi irrisolti resta quello dell’organizzazione dei tempi del lavoro femminile. Verso quale direzione è opportuno agire? ­166

R.  Stiamo parlando di uno dei più grandi mutamenti antropologici dei nostri tempi: penso che il secolo che abbiamo alle spalle sarà ricordato in particolare per l’enorme salto di qualità che ha avuto la condizione femminile e il ruolo della donna nella società. Per la prima volta nel corso della storia si sono affermati i diritti politici delle donne. Per la prima volta le donne sono entrate massicciamente nel mondo del lavoro, anche se non si è ancora risolto il tema del loro ingresso con pari opportunità e pari condizioni professionali; e ora abbiamo davanti il compito di consentire la crescita della presenza femminile anche nei ruoli di direzione in ambito imprenditoriale, amministrativo e politico. L’Italia purtroppo è il fanalino di coda dell’Europa e per risalire la china serve una grande spinta culturale che sostenga la parità e riconosca la differenza. Il Novecento ci consegna questo testimone, ma dobbiamo essere consapevoli che rischi di regressione sono sempre in agguato, soprattutto quando si perde la memoria delle battaglie svolte e dei diritti acquisiti, che devono essere ribaditi e rinnovati ogni giorno. È importante farlo perché la condizione della donna non è un tema a se stante, ma è il battistrada di tante altre questioni civili e vale come indicatore di progresso o di regresso. Mi ha colpito molto, nella recente rivolta a Tunisi, la grande scritta che campeggiava su un muro della via principale: «La femme tunisienne est libre et restera libre». Anche da questi segnali ci rendiamo conto come nel nuovo secolo il tema della dignità della donna sia il parametro più generale di civilizzazione e di democrazia. Per questo è necessario combattere sul piano culturale la rinascita di stereotipi reazionari sul ruolo della donna che il berlusconismo ha riportato in auge. Alla politica compete realizzare quelle norme, magari di carattere temporaneo, che garantiscano una maggiore presenza femminile nei ruoli di direzione del lavoro e della società. Inoltre va abolita la vergogna delle dimissioni in bianco – ristabilite dal centrodestra –, va riconosciuta la tutela della maternità come diritto universale, va introdotto il congedo parentale ­167

obbligatorio. Servono anche interventi per alleggerire i carichi familiari che ricadono ancora quasi totalmente sulla donna favorendo politiche di sostegno all’infanzia, agli anziani non autosufficienti e al lavoro giovanile: questi problemi condizionano la piena affermazione e realizzazione della donna nel mondo di oggi e pesano sulla stessa tenuta psicologica ed economica delle famiglie. D.  La famiglia è un nucleo vitale della società, la cui forma storica, però, è mutata nel corso del tempo. In che modo, a suo giudizio, le politiche pubbliche devono sostenerla? In Italia si fa pochissimo per le giovani coppie e spesso questo tema è trascurato anche nel dibattito sulle politiche familiari. Da noi i giovani vanno via dalla casa dei genitori molto tardi. Non crede che l’Italia abbia bisogno di una decisa svolta in senso europeo? R.  Il tema della famiglia è affrontato da tempo in Italia con una carica ideologica che paralizza ogni soluzione pratica. Così siamo il Paese con le politiche familiari meno efficaci in Europa, come ha denunciato anche il documento della Settimana sociale dei cattolici italiani. È ancora largamente presente un modello sociale centrato intorno alla figura del pater familias, il solo che lavora, che vive in una casa di sua proprietà e mantiene i figli, senza però aiutarli a rendersi autonomi. Questo schema deve essere cambiato perché ha prodotto una curiosa eterogenesi dei fini: l’Italia è il posto in Europa dove si parla di più della famiglia in astratto, ma meno si fa per essa e dove è maggiormente difficile costruir­ sene una. Ne consegue che l’istinto di fondo è di rimanere accucciati nella famiglia di origine. Fare politiche familiari significa invece attivare una fiscalità specifica e, sul piano culturale, non contrapporre l’emancipazione femminile alla famiglia come valore. Anche perché la crescita demografica è maggiore in Paesi dove la donna lavora di più ed è più indipendente. Paesi in cui vi sono politiche familiari con assegni ai nuclei più deboli o numerosi e con asili-nido che ­168

favoriscono una migliore organizzazione del tempo di lavoro e ritmi di vita più tollerabili. Il ruolo della donna è una guida per la determinazione di un equilibrio familiare e demografico positivo anche perché trascina con sé una certa politica dei servizi. Allo stesso modo occorre concepire e praticare politiche volte a inserire i giovani più rapidamente nel mondo del lavoro e ad assicurare loro una maggiore mobilità, a partire da costi minori per le case in affitto: in questo modo può svilupparsi un dinamismo utile a costruire nuove famiglie e ad avviare una migliore demografia. Essere a favore della famiglia significa assumere come prospettiva tutti i soggetti in carne e ossa che la compongono: è questo il punto che fin qui è stato oscurato. Se cominciamo a mettere al centro la donna e i figli e non il pater familias e basta, tutta la società ne trarrà degli indubbi vantaggi. D.  Lei riproporrebbe la legge sui «Dico», a suo tempo presentata, senza successo, dal governo Prodi? R.  Tutelare i diritti e riconoscere i doveri nelle relazioni tra persone stabilmente conviventi è compito ineludibile di uno Stato civile. Al tempo della discussione sui «Dico», la polemica si accese anzitutto sui nomi e sulla qualificazione degli istituti giuridici, mettendo purtroppo in secondo piano la tutela concreta delle persone. E non siamo ancora arrivati a una soluzione per colpa di questa nostra ipocrisia. Le coppie eterosessuali stabilmente conviventi possono ricorrere al matrimonio civile, che ha alle spalle il diritto di famiglia e, dunque, un corpo consolidato di norme, anche se penso sia opportuno, in questo ambito, offrire migliori forme di tutela pure a chi ha scelto di non sposarsi e soprattutto ai loro figli. Il problema resta aperto per le coppie omosessuali e purtroppo continua a essere difficile affrontarlo. Considero una questione di civiltà riconoscere alle coppie omosessuali un quadro giuridico che fissi reciprocità, diritti e doveri, e che non si blocchi davanti a problemi di definizione, per i quali dobbiamo rimetterci al quadro costituzionale. ­169

D.  Riconoscerebbe a una coppia omosessuale la possibilità di adottare un bambino? R.  Spesso mi viene fatta questa domanda alla quale non sento di poter dare una risposta positiva. Del resto come poterla dare mentre ancora stiamo lasciando nell’oscurità la condizione di migliaia di bambini che già vivono con coppie omosessuali? Siamo sicuri che quei bambini abbiano quelle tutele giuridiche e sociali che la Costituzione assegna, ad esempio, ai figli nati fuori dal matrimonio? Cerchiamo, prima di ogni altra cosa, di vedere e di accompagnare questa condizione. D.  L’adozione di un bambino in Italia è ancora oggi un percorso lungo e irto di ostacoli. Se fosse al governo cosa penserebbe di fare per renderlo più semplice e veloce? R.  La questione delle adozioni mi sta particolarmente a cuore. L’Italia è il primo Paese in Europa per accoglienza, secondo nel mondo solo agli Stati Uniti. Credo, però, che la pratica dell’adozione debba essere ancora più favorita poiché risponde a quei valori di generosità e di solidarietà familiare, di coraggiosa apertura al mondo che da sempre caratterizzano la storia e la cultura del popolo italiano. Non a caso, l’ultima seria riforma in questo campo la si deve al governo di centrosinistra che nel 2001 ha aumentato l’età utile degli aspiranti genitori adottivi e favorito la deducibilità fiscale di parte delle spese. Ma c’è ancora tanto da fare. Ad esempio, bisogna lavorare per ridurre i tempi e gli adempimenti per gli accertamenti dei requisiti dei genitori adottivi che oggi sono ancora esorbitanti. Per le adozioni internazionali occorre potenziare molto il sostegno, anche diplomatico ed economico, dato dall’Italia alle coppie nei Paesi di adozione e affiancare ulteriori momenti di solidarietà internazionale nei luoghi di origine. Credo che dobbiamo porci l’obiettivo di offrire a ogni bambino la possibilità di crescere all’interno di una famiglia. Una recente sentenza della Corte di Cassazione ­170

ha posto al Parlamento la questione dell’adozione anche per i single. Penso che questo sia un caso limite che affiderei alla valutazione del giudice tutelare. Ma va ribadito che lo scopo prioritario è togliere i bambini dagli istituti: ci sono tante coppie eterosessuali che vorrebbero adottare un bambino e ritengo che la funzione pubblica debba garantire soprattutto queste, dando loro la precedenza e snellendo il più possibile le procedure burocratiche. D.  La mappatura del genoma e la fecondazione assistita sono saperi scientifici e tecniche mediche che ci permettono di intervenire sul codice della vita. In questo modo una serie di questioni, un tempo affidate ad ambiti privatissimi hanno assunto una dimensione pubblica e richiedono una regolamentazione politica e legislativa. Quale deve essere, secondo lei, l’impostazione guida del Pd su questi temi? R.  Il Pd deve affrontare le questioni eticamente sensibili con lo spirito e la responsabilità di chi sta cercando soluzioni largamente condivise: in questo senso la presenza attiva di credenti e non credenti in uno stesso partito è un’enorme ricchezza. Il confronto al nostro interno non deve limitarsi a registrare una giustapposizione di diversi punti di vista, ma è bene che si sviluppi ricercando una sintesi nella quale possano riconoscersi il maggior numero di persone. Si tratta spesso di problemi inediti per l’uomo, dove a scontrarsi talvolta non sono neppure culture antagoniste ma sentimenti contrastanti, contemporaneamente presenti in ciascuno di noi. Prendiamo ad esempio il dibattito in corso sulla brevettabilità del genoma: per alcuni bisognerebbe brevettare il prodotto, per altri la tecnica di manipolazione, a prescindere dal risultato. È necessario che la discussione sia il più possibile pubblica e consapevole, perché si tratta di argomenti complessi e il rischio da evitare è che decida il mercato anziché la politica. Per questo vorrei si istituisse una sorta di autority della bioetica con il compito non di decidere, ma di istruire la necessaria fase informativa, individuare i punti critici in discussione e contribuire a una procedura rafforza­171

ta di decisione evitando che l’opinione pubblica sia lasciata in balia dell’ignoranza, della propaganda o della disinformazione. La deliberazione legislativa dovrebbe arrivare al termine di questo percorso democratico: comitato bioetico, coinvolgimento dell’opinione pubblica e decisione del Parlamento. Se non riusciremo ad allestire un meccanismo simile, la prima vittima sarà il principio di precauzione perché la soluzione rischia di essere imposta dalla logica del maggiore profitto. Questa mia proposta nasce dall’insoddisfazione dell’uso e dall’abuso dello strumento referendario in ambito bioetico avvenuto negli ultimi anni: continuare a procedere a colpi di referendum su temi di tale complessità sarebbe una pazzia. Dobbiamo evitare che alle storture attuali del nostro bipolarismo politico si sovrapponga, come ho già detto, addirittura una sorta di bipolarismo etico. Non solo rischieremmo di smarrire il significato alto della mediazione politica, ma faremmo la fine dei polli che si azzuffano mentre le decisioni vere le prendono altri. D.  L’infertilità di coppia riguarda migliaia di giovani di ogni provenienza sociale. Oggi il progresso scientifico consente tecniche di fecondazione assistita un tempo impensabili. Che giudizio ha della concreta applicazione della legge 40? È favorevole alla proibizione della fecondazione eterologa, consentita in Italia fino al 2004? Non teme che in questo modo ai più ricchi sia consentito di poter affrontare le spese della fecondazione assistita in Paesi dove la legislazione è più permissiva, mentre le limitazioni finiscano per colpire solo i ceti meno abbienti? R.  Certe decisioni andrebbero prese a livello europeo, perché è paradossale vietare in Italia delle pratiche permesse nei Paesi confinanti. La conseguenza che più salta agli occhi è proprio il vantaggio che i ricchi hanno rispetto ai poveri nell’accedere a questi interventi e l’ingiustizia sociale che ne consegue: per quale ragione un avvocato dovrebbe avere maggiori possibilità di avere un figlio che non una giovane operaia? Come ha scritto Stefano Rodotà, possiamo ­172

trovarci di fronte al rischio di una sorta di human divide. Naturalmente, so bene che la convergenza degli ordinamenti europei è un processo arduo e lungo e non può essere intesa come una mera omologazione. Per quanto mi riguarda, votai a favore della fecondazione eterologa e penso tuttora che dovrebbe essere consentita perché, rispetto ai rischi e ai problemi pur presenti, mi pare prevalente un concetto di paternità e di maternità più ampio e complesso, che riconosciamo, ad esempio, nel campo dell’adozione. La stessa applicazione della legge 40 ha mostrato delle incongruenze di ordine logico e morale che per fortuna la giurisprudenza sta correggendo con sentenze equilibrate. Penso, ad esempio, all’obbligo previsto dalla legge in vigore di impiantare un embrione anche se malato e contro la volontà della donna che poi ha la facoltà di abortire terapeuticamente. Stiamo parlando di materie in continua evoluzione, in cui la stessa definizione giuridica è destinata presto a subire cambiamenti perché incalzata da nuove scoperte scientifiche. La politica, a mio giudizio, deve essere capace di individuare i confini da non varcare e certamente uno di questi è l’eugenetica. Il rafforzamento dei percorsi democratici e di allargamento delle consapevolezze culturali nella costruzione delle decisioni è l’unica strada percorribile. D.  La drammatica vicenda di Eluana Englaro, oggetto di una spettacolarizzazione che ha ferito le coscienze di molti, ha riportato all’attenzione dell’opinione pubblica il tema del testamento biologico, ossia della necessità di una regolamentazione sul fine-vita. Come e in quale misura, a suo giudizio, la legislazione dovrebbe intervenire? R.  Nella discussione sul testamento biologico c’è stato qualcosa di ambiguo e di faticoso, e si capisce perché. Fino a un secolo fa il morire era un rito domestico e di vicinato, con il moribondo protagonista, con una trasmissione di valori, con la presenza di una rete familiare e amicale a sostegno e a servizio della persona, secondo la sua volontà espressa o interpretata. Adesso il morire è stato pressoché totalmen­173

te affidato ai moderni servizi sanitari e sociali che hanno medicalizzato quest’estrema esperienza umana. Tali servizi agiscono seguendo delle procedure contenute in norme, in linee guida, in regole di organizzazione, in deontologie. Ma tutto ciò può togliere umanità, pur in nome di una tutela certamente migliore della salute. Credo che ora le nostre decisioni debbano essere il più possibile umane e ispirarsi a criteri di rispetto della centralità del malato, coinvolgendo e non escludendo fin dove possibile il mondo vitale, fatto di affetti e di relazioni. Una volta espresse le valutazioni di un medico che in scienza e coscienza dichiara l’impossibilità di riabilitare le funzioni vitali, il sapere scientifico e tecnico deve mettersi a confronto e soprattutto a servizio di quel protagonista reale e dei suoi cari. Le decisioni verranno dalla volontà eventualmente espressa del paziente. Verranno dal giudizio del medico e dall’affetto delle persone più vicine al malato. Sarebbe paradossale che le nostre giuste cautele verso scienza e tecnica nella fase della vita nascente diventassero, invece, affidamento acritico alla tecnica nella fase finale della vita, quasi che, a quel punto, l’uomo valesse meno e, a poco a poco, potesse trasformarsi in un oggetto da subordinare alla tecnica. Io sostengo che l’uomo non possa essere mai privato della sua dignità e libertà e che il legislatore in questi ambiti debba procedere con assoluta cautela, rispetto e, direi, leggerezza: deve fare il meno possibile perché questo è uno dei territori in cui bisogna coltivare il limite della politica. Personalmente non riesco ad accettare che sia il Parlamento a decidere come devo morire, così come mi sembrerebbe anche sbagliato essere obbligati ad andare tutti da un notaio per formalizzare il proprio testamento biologico. Occorre, quindi, trovare un punto di equilibrio tra le crescenti possibilità della tecnica, la volontà del malato e il mondo dei suoi affetti: così potrà avere una risposta concreta e civile anche la battaglia del padre di Eluana, Peppino Englaro, che in quel clima di strumentalizzazione politica subì da Berlusconi persino l’oltraggio di sentirsi dire che Eluana avrebbe potuto avere dei figli. ­174

XII

IL PARTITO DEMOCRATICO E LA SFIDA RIFORMISTA

D.  Il Pd è nato proponendosi non solo come un nuovo partito, ma come un «partito nuovo», capace cioè di rispondere, nel mondo della comunicazione, a una domanda di partecipazione personale e diretta. Lei pensa che il Pd stia mantenendo la promessa? R.  Costruire un «partito nuovo» è un processo collettivo che coinvolge intelligenze, culture, passioni, interessi sociali e tanto impegno volontario. È un progetto dal quale dipende, non solo il destino della nostra parte politica, ma la stessa evoluzione del sistema democratico, segnato negli ultimi anni dalla personalizzazione e dal populismo. Stiamo lavorando su quella promessa. Continuiamo a credere nel progetto e a perseguirlo benché appaia controcorrente e, a volte, persino nel nostro campo, circoli la tentazione di scorciatoie di tipo leaderistico. Non è un percorso facile: se parlare di partito può suonare alle orecchie di tanti come un retaggio passatista, se il patto per un comune impegno politico viene percepito come una limitazione della libera espressione dell’individuo anziché come un’opportunità per contare e incidere maggiormente nelle decisioni pubbliche, oggi sempre più condizionate da interessi forti e oligarchie ristrette, vuol dire che dobbiamo metterci una forza e una determinazione maggiori. Noi vogliamo affermare il dettato della Costituzione, l’art. ­175

49 che recita: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». E siamo a un bivio: o riusciamo a interpretare l’essere partito in chiave moderna oppure i partiti si sfibreranno, trasformandosi nella corte di un capo o, al più, in una sorta di comitato elettorale. Ma è troppo poco ridurre la partecipazione democratica al solo momento elettorale, è troppo al di sotto della soglia indicata dalla Carta costituzionale e non è sufficiente a dare governabilità e direzione di marcia al Paese e a garantirne l’unità. D.  Il Pd è al momento la sola forza politica a usare il sostantivo «partito» nel suo nome. Dopo la crisi della «Repubblica dei partiti», dopo anni di cultura anti-partito, è davvero ancora possibile ispirarsi a questo modello? R.  La sempre maggiore articolazione delle società sviluppate e i mutati paradigmi culturali hanno messo in crisi i partiti di massa in tutta Europa. Da nessuna parte, però, è avvenuta, come da noi, una delegittimazione dei partiti tale da contestare la loro stessa funzione democratica. Ciò è legato alla particolare vicenda dell’ultimo ventennio, anche se le radici della crisi, come abbiamo detto, affondano nei nodi irrisolti di una stagione ancora precedente. I grandi partiti popolari sono nati nel secolo scorso per contrastare il notabilato, per ridurne lo spazio e combattere il trasformismo diventato pratica di governo. Poi il fascismo ha piegato quel modello di partito al servizio di una visione totalitaria. Ma i partiti popolari sono rinati con la Liberazione nel contesto per la prima volta aperto del suffragio universale: e sono stati i partiti gli strumenti principali per imparentare il nostro popolo con la democrazia. Qualcuno ha scritto acutamente: «da militanti a cittadini». Tuttavia la democrazia bloccata e la storica debolezza delle istituzioni hanno indotto i partiti a dilatare progressivamente le loro funzioni e a svolgere sempre di più impropri ruoli di sup­176

plenza, fino alle degenerazioni e alle occupazioni del potere che hanno causato la sclerosi del sistema. Così, dopo il tempo dei collateralismi, si è aperto un conflitto con la società civile. È a questo punto che ha fatto irruzione l’idea che la società possa farcela da sola e che al «regime» dei partiti debba opporsi una democrazia dei cittadini, imperniata sulla mobilitazione della sola società civile. Questo schema oggi non solo è entrato in affanno, ma si è rivelato insufficiente per provare a risolvere la crisi italiana. D.  Il conflitto sembra ancora in corso. E sui partiti grava un discredito difficile da rimuovere. Peraltro non le sembra di avere di fronte avversari troppo potenti, con in mano i mezzi di comunicazione adatti a influenzare l’opinione pubblica? R.  Non c’è dubbio che la semplificazione tutta italiana di immaginare una società civile buona e capace di autogoverno su linee orizzontali, se non ci fossero i partiti cattivi che pretendono un’impropria verticalizzazione del potere, si è diffusa grazie al patrocinio di interessi forti e di potentati economici e mediatici, i quali hanno pensato di trarre vantaggio da una politica meno autonoma e da istituzioni più deboli. Niente di simile è accaduto in Europa e in altre democrazie occidentali. Silvio Berlusconi è stato un vettore di questo fenomeno, ma non il solo. Anche il centrosinistra è stato attraversato da questi umori. Sia chiaro, i partiti hanno le loro gravi colpe per l’impotenza nelle riforme. Ma penso sia arrivato il tempo di un bilancio anche per questa cultura anti-partito. D.  Ricostruire i partiti è una nostalgia del passato, dice qualcuno. Cosa risponde? R.  Che semmai è nostalgia di futuro. È un progetto che ha il sapore di una sfida. Anche in termini di efficienza del sistema, visto che il populismo italiano ha prodotto incapacità di governo. In sostanza le domande sono: chi ­177

ha il compito di ridurre le complessità? Chi porta le parzialità anche nobili dei territori, dei gruppi sociali, delle espressioni della società civile alla dimensione nazionale e statuale? Chi garantisce maggioranze che diano stabilità all’indirizzo politico? Chi impedisce l’atomizzazione e la dissociazione in particolare in una società già divisa come quella italiana? O scegliamo l’illusione di un capo o parliamo ancora di partiti, seppure in una chiave nuova che siamo impegnati a progettare. D.  Lei è stato eletto segretario contestando l’idea di partito «leggero», fondato su un rapporto con l’opinione pubblica anziché sulla presenza territoriale dell’organizzazione e degli iscritti. Ma al giorno d’oggi può ancora vivere un partito «pesante», con i circoli e le tessere? R.  Vorrei un partito il più possibile leggero, ma capace di svolgere quel ruolo di vettore democratico di cui parla la Costituzione e di cui c’è bisogno nella modernità. La consistenza minima è quella in grado di assicurare le due funzioni vitali di un partito: la capacità di avere una propria visione della società e quella di rappresentarla in modo autonomo. Senza visione e autonomia non ci sono partiti, ma surrogati. La sovranità degli iscritti non può essere negata, anche se è necessario ampliare la partecipazione, coinvolgere, dove possibile, fasce più ampie della società in alcune importanti decisioni, fino a rimettere agli elettori scelte determinanti. L’organizzazione del partito non può rinunciare ai suoi elementi di base, pena l’interruzione del circuito democratico, ma anch’essa deve avere una tensione costante all’apertura: oggi più del passato un partito ha bisogno di scambi e di ascolto con la società, con le espressioni civiche, con i movimenti portatori di singole issues. Un partito deve avere anche codici di disciplina trasparenti: dopo un libero confronto vanno rappresentate nelle istituzioni le decisioni della maggioranza, salvo i casi di scelte individuali di coscienza, perché un partito deve ­178

essere in grado di sostenere coerentemente l’azione di un governo. Un partito, infine, deve garantire un equilibrio tra decentramento e coesione nazionale, tanto più in un momento in cui questa è una sfida cruciale per il destino del Paese. È questo un partito «pesante»? Sinceramente non credo che si possa definire così. È piuttosto un partito di comunicazione e di collegamento, che riconosce le autonomie e si confronta con le diverse istanze cercando di proporre una propria sintesi. È un partito trasparente, che non nasconde il confronto interno e sa produrre decisioni. D.  Sull’attuazione dell’art. 49 della Costituzione, quello che riconosce ai cittadini il diritto di associarsi liberamente in partiti, è aperta da sempre una discussione. Finora i partiti hanno sempre rifiutato una legge che entrasse nelle loro vicende interne. Non pensa che sia giunto il momento di intervenire per restituire una maggiore trasparenza e autorevolezza alla loro vita democratica? R.  Penso che il Pd debba sfidare le altre forze politiche ad approvare finalmente una legge di attuazione dell’art. 49 della Costituzione: per riqualificare il loro ruolo, i partiti devono garantire l’aggiornamento dell’albo degli iscritti, regole chiare di partecipazione per l’elezione delle cariche interne, trasparenza nelle scelte delle candidature, pubblicità dei finanziamenti e dei bilanci. Una simile legge è stata sempre osteggiata nei 60 anni di Repubblica: ma ora non ci sono più ragioni per rinviare. Bisognerebbe prevedere sanzioni per i trasgressori, dal taglio dei contributi pubblici fino, nei casi estremi, all’esclusione dalla competizione elettorale. A mio giudizio, come indice di democrazia interna, si potrebbe anche pretendere che gli statuti dei partiti stabiliscano un limite alla durata o al numero dei mandati di direzione. Sia chiaro, avverto anch’io il rischio di una istituzionalizzazione dei partiti, ma oggi mi sembrano maggiori altri rischi: o si prosegue sulla strada della ­179

personalizzazione e del presidenzialismo, oppure la sola alternativa sta nella democrazia parlamentare e nella formazione di partiti più moderni e dinamici. D.  Lei spesso, di fronte a contrasti interni, si appella al bene comune della «ditta». Ma c’è chi la contesta, sostenendo che il patriottismo di partito è congeniale a vecchie politiche di alleanze mentre il Pd dovrebbe farne a meno, organizzando la competizione pre-elettorale interna in modo aperto, come avviene negli Stati Uniti con le primarie. Che cosa replica a questa obiezione? R.  Dobbiamo decidere se prendere le caravelle e andare in America oppure se restare in Europa. Nel nostro continente ci sono governi con coalizioni difficili e governi espressione di una sola forza maggioritaria. Ovunque, però, ci sono dei partiti che svolgono un ruolo. Quando parlo di «ditta» mi riferisco a quell’elemento coesivo irrinunciabile in una libera associazione, che peraltro è chiamata a sostenere una rilevante funzione pubblica come quella di assicurare la vita di un governo. Certo, in un partito c’è anche competizione, battaglia di idee. Che va regolata assicurando libertà e trasparenza. Il ricatto populista, in base al quale il confronto tra opinioni diverse è classificato come scontro e litigio, è inaccettabile. Tuttavia in un partito che funziona le discussioni devono alla fine condurre a decisioni che impegnano tutti. Vale per un voto di fiducia a un governo nazionale o locale, vale per un voto su una singola legge. La questione si fa indubbiamente più complessa quando ci si avvicina alla frontiera critica della biopolitica. La libertà di coscienza va garantita sui temi che riguardano la vita e la morte e le convinzioni più profonde delle persone. Al tempo stesso, però, un partito non può essere agnostico sulle materie eticamente sensibili. Non può limitarsi a dire: non me ne occupo, ognuno dica la sua. Il punto di equilibrio sta nel cercare comunque insieme, prima di fare appello alla coscienza individuale, ­180

le convergenze possibili e nel provare a definire soluzioni giuridiche, capaci di interpretare un’etica condivisa, di rispettare la scienza e al tempo stesso il principio di precauzione. Del resto, le esigenze di cautela e di paziente ricerca di condivisione su questi temi non dovrebbe riguardare solo un partito, ma l’insieme dell’universo politico. Ho già detto che come possa o debba morire una persona non dovrebbe essere affidato, in premessa, a una metà del Parlamento contro l’altra. D.  È d’accordo con chi sostiene che le primarie sono nel dna del Pd e che il Pd non può farne a meno, pena una rinuncia a se stesso? R.  Il Pd è un partito di iscritti e di elettori. Nel suo dna c’è la tensione ad ampliare la partecipazione, ad aprirsi alla società, a coinvolgere nel circuito della decisione democratica il maggior numero di cittadini interessati. Le primarie sono uno strumento di questa partecipazione. Uno strumento importante, che grazie al Pd è stato per la prima volta sperimentato nel nostro Paese. Tuttavia, si tratta pur sempre di uno strumento e non di un totem. La sovranità in un partito appartiene ai suoi associati, i quali in determinate circostanze la rimettono agli elettori per via statutaria o per ulteriori scelte politiche. D.  Ma come è possibile tenere insieme nel vostro statuto primarie di partito e primarie di coalizione? Non le pare contraddittorio far eleggere direttamente il segretario nei gazebo, con l’impegno statutario che questo sarà il futuro candidato del Pd alla presidenza del Consiglio, e poi stipulare alleanze che possono comportare nuovi negoziati per la leadership? Perché fare le primarie di coalizione anche nei sistemi a doppio turno (ad esempio, per l’elezione dei sindaci) quando il primo turno è fatto apposta per selezionare i candidati migliori? Non crede che il Pd debba rimettere mano alle regole delle primarie se non vuole diventarne la vittima, anziché il protagonista? ­181

R.  Sono temi statutari sui quali ovviamente non decide il segretario. La mia opionione è questa. Dobbiamo riformare le primarie per evitare che in taluni casi inducano alla dissociazione anziché all’unità, che indeboliscano uno schieramento di governo anziché rafforzarlo, che vengano usate per regolare conti tra partiti o all’interno dei partiti anziché per selezionare la migliore candidatura possibile e costrui­re attorno a essa una sintesi politica. Abbiamo inventato le primarie per aprire il partito alla società e non debbono volgere a un ripiegamento verso dinamiche interne al ceto politico. Nella riforma statutaria manterrei un principio cardine: l’elezione attraverso le primarie – magari costruendo un vero e proprio albo degli elettori delle primarie che consenta poi di tenere vivo un dialogo e una consultazione – del segretario nazionale del Pd. Gli iscritti del Pd sono una parte rappresentativa dell’elettorato e, come è avvenuto al tempo della mia elezione a segretario, penso che le opinioni degli associati tendano a coincidere con quelle degli elettori delle primarie. Tuttavia, qualora ci fosse discordanza, sarebbe quanto mai utile la verifica di un corpo elettorale più ampio, vista l’esposizione del segretario nazionale e la sua responsabilità in funzioni di direzione ed, eventualmente, di governo. Per quanto riguarda le elezioni di tutte le altre cariche di partito, le affiderei di norma agli iscritti, attraverso procedure che prevedano il più ampio coinvolgimento possibile. Lascerei agli organi dirigenti locali le decisioni, da prendere a maggioranza, di attivare le primarie di partito o di coalizione per la scelta dei candidati alle cariche monocratiche, dal presidente della regione al candidato sindaco. E qualora si decida per primarie di coalizione, il Pd dovrebbe a mio avviso selezionare, attraverso regole democratiche interne, una sola candidatura. In ogni caso per le primarie dobbiamo definire procedure di migliore certificazione della base elettorale. Finché resta questa mostruosa legge elettorale con le liste bloccate, bisognerà anche adottare metodi nuovi per la selezione delle candidature al Parlamento nazionale. Penso che le scelte degli organi di partito debbano essere precedute ­182

da consultazioni ampie e il coinvolgimento dovrebbe riguardare quanto meno tutti gli iscritti. Ricostrui­re un rapporto tra eletti ed elettori è condizione vitale di una democrazia e un partito democratico deve uscire anche unilateralmente dallo schema imposto dal Porcellum. D.  Lei riconosce al Pd quella «vocazione maggioritaria» che per il suo predecessore Walter Veltroni è il tratto essenziale e distintivo del partito? Che significato dà a quella espressione? R.  La vocazione maggioritaria del Pd è per me anzitutto la responsabilità di costruire un progetto vincente di alternativa e di proporlo agli italiani. Il Pd è il fratello maggiore: ha la responsabilità più grande, sia nel delineare le scelte di fondo, sia nel comporre uno schieramento coerente. Purtroppo, al nostro interno, la discussione sulla vocazione maggioritaria ha subito qualche distorsione. Penso che non ci sia contraddizione tra crescita del partito e costruzione di un campo di alternativa. Anzi, penso che se il progetto e la coalizione di governo saranno positivi per il Paese, il Pd, che ne è il muro portante, verrà premiato. Il Pd è il soggetto ineludibile per l’alternativa, ma proprio per questo impegnato a caricarsi di esigenze nazionali e di sistema. D.  Che ruolo ha, a suo giudizio, il leader in un partito moderno? È possibile immaginare ancora una guida collettiva, una corresponsabilità di un largo gruppo dirigente, in un sistema di comunicazione che tende a personalizzare e a semplificare i messaggi? Lei ha annunciato che non metterà mai il suo nome sul simbolo elettorale del Pd: si tratta di una sfida a Berlusconi, o piuttosto a Vendola, a Di Pietro, al suo stesso partito? R.  È chiaro che il ruolo del leader è cresciuto nella società della comunicazione. La politica deve ora fare i conti con un tasso elevato di personalizzazione e di semplificazione ­183

dei messaggi. Questo richiede alle personalità mediaticamente più esposte caratteristiche, propensioni, e anche un’etica dei comportamenti diverse e più esigenti rispetto al passato. Ma continuo a giudicare inaccettabile, perché troppo povera, l’idea dell’uomo solo al comando. La leadership può essere il frutto, l’esito di un progetto collettivo. Se ritiene di soppiantare la fatica di un lavoro in comune, avrà il più delle volte un carattere illusorio ed effimero, oppure un tratto padronale. È vero che l’onda montante del populismo sembra trasformare la politica in lotta tra persone, separate dalla corposità degli interessi sociali, e di proiettarla all’infinito. Ma questa è esattamente la cultura che dobbiamo contrastare. Il leader ancorato a un progetto collettivo non è un leader dimezzato, ma deve essere chiaramente un leader pro tempore. L’incarico di vertice deve avere un inizio e una conclusione fissata al massimo in due mandati. Così si coglie anche la dimensione di servizio che deve essere parte integrante della vocazione politica e del suo agire. Con una provocazione ho detto: toccasse a me, non metterei il mio nome sul simbolo elettorale. Già siamo il solo partito che non ha paura di chiamarsi partito: speriamo di non essere i soli prossimamente a non avere cognomi sul simbolo. È questo un messaggio che contiene la sua semplificazione e la sua forza comunicativa. È ora di dire quale strada si intende prendere. Noi vogliamo uscire dal berlusconismo e costruire un sistema politico diverso da quello attuale. Forse qualcuno pensa, anche dalle nostre parti, che personalizzazione estrema e populismo non siano poi tanto male. Bisognerà convincerli del contrario. D.  I cosiddetti «rottamatori», guidati dal sindaco di Firenze Matteo Renzi, chiedono un rinnovamento generazionale. È indubbio che la guida del Pd sia ancora nelle mani di quanti dalla metà degli anni Novanta hanno avuto le maggiori responsabilità nella nascita del centrosinistra e dell’Ulivo, nelle campagne vincenti di Prodi come nelle sconfitte con Berlusconi. Perché il rinnovamento è così difficile? ­184

R.  Sono convinto che il ricambio sia più facile se un partito funziona bene. Il mancato rinnovamento degli anni recenti dipende molto, a mio avviso, dalla perdita di senso e di ruolo del partito, oltre che da diverse ostruzioni nel circuito democratico. Quando sono stato eletto segretario avevo preso l’impegno di far girare la ruota generazionale e penso di aver già ottenuto risultati importanti. Il 75% dei segretari provinciali del Pd sono attorno ai quarant’anni. La segreteria nazionale è composta quasi esclusivamente da giovani. Tanti sindaci sono espressione di una nuova generazione nata alla politica con l’Ulivo. La ruota continuerà a girare, è certo. Ma avverto anch’io che non basta: il rinnovamento avvenuto nei territori, sia nelle amministrazioni pubbliche che nei ruoli dirigenti del partito, è meno visibile al centro. E questo non è dovuto all’egoismo di chi ha svolto in passato ruoli di primo piano e oggi non ha più incarichi di direzione, ma soprattutto al deperimento delle funzioni del centro del partito. Quale sindaco di una città importante oggi rinuncerebbe al suo secondo mandato per assumere un incarico nella segreteria nazionale? Qui c’è un punto cruciale che non abbiamo ancora ben chiarito: rafforzare il centro è una condizione ineludibile di un vero assetto federale; il volto di un partito è una proprietà indivisa e una scelta locale può danneggiarlo nazionalmente e anche in tutte le altre dimensioni locali. Quanto al tema della «rottamazione», comprendo i disagi che si manifestano davanti ai nostri limiti. Ma credo che tutti debbano concorrere al miglioramento senza ricorrere a immagini negative e ostili. Una classe dirigente giovane mostra maggiore solidità se riconosce le qualità di quella che l’ha preceduta, e invece mostra minore sicurezza se si limita ad evidenziarne solo i difetti. Anche perché ci sono tantissimi della nuova generazione, non certo privi di spirito critico, che lavorano nel partito e nelle amministrazioni per rottamare la destra rinunciando alla facile visibilità che verrebbe dal rompere la cristalleria in casa propria. ­185

D.  Lei ha detto più volte che il cantiere del Pd è ancora aperto e ha parlato di un Nuovo Ulivo come orizzonte del centrosinistra. A cosa pensa? R.  Il Pd nasce dalla ricomposizione riformista maturata nel decennio berlusconiano, in particolare dopo l’infelice esperienza dell’Unione, la coalizione di centrosinistra del 2006. L’Ulivo è una delle sue principali matrici ma credo che sia ancora una direttrice del suo futuro. Il Pd è per natura un partito aperto, di collegamento con le autonomie sociali e con le esperienze civiche. Quindi, non può che essere accogliente nei confronti di altre esperienze riformiste. Il discrimine è dato dalla coerenza con cui si persegue il progetto di governo, dalla convergenza su punti programmatici non eludibili, dagli impegni che si assumono davanti al Paese. Una coalizione come l’Unione non potrà mai più ripetersi. Per questo, le forze di centrosinistra che si presenteranno insieme alle prossime elezioni non potranno limitarsi ad auspici generici: dovranno dimostrare agli elettori che il vincolo di solidarietà è solido e non revocabile nella contingenza. Un modo per dimostrare che l’Unione non c’è e non ci sarà più, per dare certezze strutturali al patto politico potrebbe essere, per esempio, la costituzione di gruppi parlamentari unitari di quell’area riformista più ampia che ho chiamato Nuovo Ulivo. Non per questo il Pd perderà la propria autonomia, ma non vedo nulla di male, né di contraddittorio con il nostro impianto, se un domani questo processo potrà generare un partito ancora più grande. La sola cosa che considero inac­cettabile è che si parli di una «rifondazione» del Pd. Il Pd esiste, il Pd è il motore di un’alternativa di governo al centrodestra, il Pd può favorire un ulteriore processo di aggregazione nella dignità di ciascuno: non ci sto, però, ad azzerare il lavoro prezioso fatto fin qui in nome di una rifondazione dagli incerti paradigmi culturali e politici. D.  Secondo lei in futuro anche Sinistra e Libertà di Nichi Vendola potrebbe convergere nel Pd? La porta è aperta pure all’Idv di Antonio Di Pietro? ­186

R.  Il Pd è un partito di centrosinistra. Sul suo percorso ci sono formazioni ecologiste, riformiste, socialiste, laiche, ci sono movimenti civici, gruppi locali nati dal volontariato cattolico. L’apertura, l’avvicinamento ad altre esperienze non può che partire da questi interlocutori, ovviamente tenendo fermi l’ambizione di dare un governo riformista al Paese e i principi fondamentali del programma. In questa prospettiva ritengo possibile aprire un confronto anche con Sinistra e Libertà. Ovviamente bisognerà chiarire bene le questioni che hanno portato nel biennio 2006-2008 alla disarticolazione del governo Prodi. Non è pensabile che si ripeta la scena di un governo di centrosinistra, impegnato nelle sedi internazionali per coinvolgere i Paesi confinanti in una conferenza di pace sull’Afghanistan, che viene bocciato all’interno da una sinistra radicale, la quale rifiuta pregiudizialmente una politica di responsabilità, anche militare, nel quadro delle organizzazioni internazionali, delegittimando così la nostra politica di distensione. Non è neppure immaginabile che le politiche sociali, fiscali e del lavoro che dovrà fare un centrosinistra di governo siano condizionate da ripiegamenti classisti e di carattere massimalista. Se maturerà una convergenza seria, sui contenuti, penso che il Pd possa essere un interlocutore e un riferimento solido. In un futuro non calcolabile non metto nessun limite a possibili ulteriori evoluzioni. Lo stesso discorso riguarda l’Italia dei Valori. Con chiunque sarebbe sbagliato procedere sulla base di pregiudiziali. Ci sono evidenti differenze di cultura politica e di linguaggio tra noi e Di Pietro. Ma il futuro dipenderà dall’evoluzione del profilo politico di queste forze e dagli orientamenti dei loro elettori. Lo dico con rispetto: Sel e Idv sono partiti con una forte impronta personale. Ma le persone passano, a cominciare da me, mentre sono convinto che il valore di una ricomposizione riformista resterà un valore attuale per decenni nel nuovo secolo. D.  C’era una volta il collateralismo e la cinghia di trasmissione con i sindacati e le associazioni. Sono dinamiche che ­187

hanno riguardato i comunisti, i socialisti, i cattolici, anche se la cultura cattolica delle autonomie sociali ha contribuito a spezzare prima i legami di dipendenza dal partito. Oggi il Pd non corre il rischio di un collateralismo «alla rovescia», di fronte al protagonismo intermittente dei sindacati e di altri movimenti della società civile? R.  Nessuno ha nostalgia del collateralismo, che in realtà era un’affermazione dei preminenti interessi del partito sulle formazioni sociali. Si tratta di un’epoca che non c’è più e che nessuno potrà far rivivere. Il Pd nasce con una cultura delle autonomie sociali che è maturata nel tempo in tutto il campo riformista, non solo in quello di matrice cattolica. Solo la pigrizia intellettuale o il desiderio di polemica può giustificare accuse di dipendenza del Pd dalle forze sociali: sarebbe come dire che, se non c’è più la cinghia di trasmissione, deve esserci per forza una subordinazione rovesciata. È la pigrizia di chi pretende che il Pd aderisca ufficialmente a uno sciopero. Oppure di chi, in occasione di certe manifestazioni di piazza, fa le classifiche tra i dirigenti del Pd che partecipano e quelli che non partecipano e trae da queste le prove di una irriducibile frattura interna. Invece proprio la cultura delle autonomie sociali porta ad assegnare al partito un compito diverso: il compito di esprimere un’idea di società, un progetto di sintesi, un indirizzo di governo, una sua propria e autonoma posizione. Se non è il governo presente è quello che si prepara per domani. Le formazioni sociali hanno una loro parzialità, che è garanzia di genuinità e di libertà della loro azione. Anche la politica ha un limite, non solo verso i singoli ma anche verso le autonomie dei mondi vitali, delle associazioni, dei movimenti, dei sindacati. Per i riformisti, però, il dialogo e il confronto con i soggetti sociali restano irrinunciabili. Perché nell’esigenza di esprimere un progetto e di dare un orizzonte al Paese c’è un’idea di governo capace di muovere le forze e creare condivisione e corresponsabilità.

Conclusione

UNIRE LE FORZE DELLA RICOSTRUZIONE

D.  Onorevole Pier Luigi Bersani, dopo aver parlato a lungo delle radici storiche, culturali, sociali del Pd, dopo aver discusso dei grandi cambiamenti globali e dei mutamenti antropologici del nostro tempo, dopo aver affrontato il tema della ricostruzione della politica e dei partiti, è arrivato il momento di definire in modo sintetico la proposta del Pd per il Paese. Il primo decennio del nuovo secolo è stato segnato dai governi di Berlusconi. Che traguardi si pone per il secondo decennio? R.  Da quanto abbiamo detto fin qui credo che emerga un progetto forte, capace di ispirare un programma di governo volto a una riscossa civica, a un risveglio italiano, a una nuova crescita del sistema Paese, più equilibrata sul piano sociale e maggiormente orientata verso la qualità, perché oggi è la qualità la condizione necessaria per creare più lavoro. Le due colonne portanti del nostro progetto democratico sono la riforma repubblicana e un nuovo patto sociale per la crescita e per il lavoro. Non due capitoli separati, ma parti interconnesse del medesimo programma. Questione democratica e questione sociale si tengono per mano. L’ho detto parlando delle fondamenta del Pd. A maggior ragione lo ripeto pensando all’impegno che dovrà accompagnare l’intera comunità nazionale verso il 2020. Un progetto per l’Italia di domani, però, presuppone la ­189

verità sull’Italia di oggi e sull’eredità del decennio passato. Anzi, direi che la verità è la condizione della riscossa. Quella verità occultata dal populismo berlusconiano e dall’opportunismo di tanti, motivato da ragioni più o meno inconfessabili. Il decennio che abbiamo alle spalle ha aggravato i nostri problemi economici e sociali. Se non siamo capaci di guardarli in faccia, rischiamo di costruire sulla sabbia. D.  È vero, i problemi italiani in questi ultimi anni si sono aggravati. Ma non poco è dipeso dal mutare dei fattori esterni. E comunque nella cosiddetta Seconda Repubblica c’è stata alternanza tra centrosinistra e centrodestra: non le pare semplicistico attribuire ogni responsabilità ai governi presieduti da Berlusconi? R.  Molti problemi certamente preesistevano a Berlusconi. Avevamo un’economia con bassi ritmi di crescita e una crisi democratica irrisolta già prima del suo ingresso in politica. Berlusconi però nel 1994 si è presentato offrendo agli italiani due soluzioni miracolistiche: la rivoluzione liberale come chiave di una nuova ricchezza diffusa e il presidenzialismo come risposta a una democrazia non decidente. Alla prova dei fatti invece ha fallito su entrambi i fronti, in particolare nel decennio segnato dai suoi governi. E queste illusioni hanno appesantito i nostri ritardi strutturali. Il mercato globale ha frustato l’Europa, ma l’Italia si è allontanata dai Paesi più vicini e la torsione leaderistica impressa alle istituzioni ha ridotto, anziché aumentare, la stessa capacità di governo. Spero che verrà presto il tempo per analizzare in modo più accurato gli ultimi vent’anni ma rifiuto assolutamente di mettere sullo stesso piano l’azione dei governi di centrosinistra con quella degli esecutivi guidati da Berlusconi. Il centrosinistra ha commesso errori e ha avuto insuccessi, ma ha dato all’Italia quel risanamento indispensabile negli anni Novanta che ha consentito l’aggancio all’euro. Si è trattato di un traguardo storico, ritenuto possibile da pochi osservatori: anche alla luce dell’attuale crisi economica co­190

sa sarebbe questo Paese fuori dall’Europa? E cosa sarebbe senza tutte quelle riforme che accompagnarono la stagione dell’euro, liberalizzazioni comprese? D.  Negli anni Novanta Berlusconi è rimasto a Palazzo Chigi meno di nove mesi. Nel primo decennio del Duemila ha governato otto anni. Sta suggerendo una lettura in termini di contrapposizione tra questi due periodi, come in fondo lo furono anche gli anni Settanta e Ottanta? R.  Ho già detto che non tutto può essere attribuito all’ultimo decennio, ma ribadisco che nell’ultimo decennio c’è stata una micidiale accelerazione del nostro scivolamento. Si tratta di dati scioccanti che vengono totalmente ­rimossi e che spingono l’Italia dalle aree più forti a quelle più debo­li dell’Europa. Nel 2000 la quota della popolazione italiana relativamente povera, cioè con un reddito inferiore del 75% della media Ue, era pari al 22%. Mantenendo il confronto con gli stessi Paesi oggi la quota è salita al 29%. Nello stesso periodo gli italiani relativamente ricchi, con redditi superiori al 125% della media Ue, sono calati dal 57% al 25%. Vuol dire, nel concreto, che il nostro Sud si è allontanato dal Nord, ma allo stesso tempo il nostro Nord si è allontanato dall’Europa. Se si prende come parametro la produzione industriale del 2005, oggi quella dell’Italia è scesa all’86% della produzione di allora, a fronte di una Germania al 98,3% e di una media Ue del 95,4%. Il tasso di occupazione giovanile è in Italia molto più basso che nel resto d’Europa (20,5% a fine 2010 contro il 38,1%) ed è addirittura in diminuzione. Siamo in coda alle classifiche anche per l’occupazione femminile, che da noi raggiunge il 45,8% rispetto a una media europea del 59,6%. Le statistiche sui salari reali mostrano una forbice crescente a nostro sfavore nei confronti dell’Unione europea. Le ricchezze si concentrano su fasce sempre più ridotte della popolazione, ma ciò non ha riscontri in termini di prelievo fiscale: secondo un’analisi della Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie dal 1993 al 2006, ­191

l’incidenza delle persone a basso reddito per classe sociale aumenta dal 27 al 31% per gli operai, mentre diminuisce di 11 punti per i lavoratori indipendenti, tuttavia la quota di Irpef pagata dai lavoratori dipendenti è balzata dal 52 al 56%. Va detto ancora che negli ultimi tre anni siamo passati dal 104 al 118% di debito pubblico sul Pil senza aver dovuto salvare alcuna banca. In Europa abbiamo il triste primato dell’abbandono scolastico. E anche lo scenario demografico è assai preoccupante: il numero medio di figli per donna è stimato intorno a 1,4. Se queste tendenze restassero invariate avremmo problemi molto seri sul piano sociale, economico, previdenziale: l’età media della popolazione nel 2051 passerebbe dagli attuali 42,8 anni a 49,2; l’indice di vecchiaia aumenterebbe da 142 anziani (oltre 65 anni) ogni 100 giovani (sotto i 14 anni) a 256; la popolazione in età lavorativa (15 anni-64 anni) si ridurrebbe dagli attuali 39,7 a 33,4 milioni. Sono forse problemi da poco? Non siamo forse a una vera emergenza? E per uscirne non ci vorrà almeno un decennio di politiche nuove? D.  Taluni sostengono, in polemica con il centrosinistra, che i cattivi numeri del primo decennio del nuovo secolo sono anche la conseguenza delle mancate scelte dei governi degli anni Novanta, i quali hanno goduto di un ciclo economico positivo e a questo devono le loro migliori performance. Lei cosa risponde? R.  Che negli anni Novanta sono state fatte le ultime riforme strutturali. Basti pensare a quella sulle pensioni, su cui ancora poggia l’equilibrio di finanza pubblica. Ma comprendo l’imbarazzo di chi deve tentare improbabili difese d’ufficio dei governi di Berlusconi. La realtà, purtroppo drammatica, è che nell’ultimo decennio a indicare il grave pericolo che corre l’Italia non sono solo i dati numerici, ma anche le performance immateriali. Sono cresciuti ad esempio i fattori di dissociazione del tessuto nazionale. L’illusoria filosofia del laisser faire, che la politica di Berlu­192

sconi ha incoraggiato fin quasi a farne una bandiera, è diventata nel corso della crisi una sorta di «si salvi chi può», che ripropone nei fatti la legge del più forte. Così, mentre stiamo celebrando i 150 anni della nostra storia, l’Italia si trova intimamente più divisa, e dunque più debole nella capacità di reagire alle difficoltà: si sono attenuati i legami tra i territori, si è ampliato il divario economico e sociale, si assiste a crescenti ripiegamenti corporativi e a lacerazioni del tessuto sociale, mentre anche dal punto di vista culturale rischia di aprirsi un fossato sempre più profondo tra Nord e Sud e, intanto, si indebolisce lo spirito civico di tutta la nazione. La stagione berlusconiana non ha arginato questo corso, anzi ha pensato di avvantaggiarsi favorendo la piena. L’accentuarsi dell’evasione fiscale è anch’esso un indicatore civico, culturale, non solo rilevante ai fini della finanza pubblica. L’Italia può farcela solo se riscopre la sua dimensione di comunità e la capacità di fare sistema e di produrre nuova cultura della coesione. Non possiamo permettere, dopo il fallimento del «ghe pensi mì» di Berlusconi, che il «si salvi chi può» corroda e consumi anche le chances di riscossa. Non possiamo consentire che, assumendo il quadro di dissociazione come definitivo, energie civiche positive vengano dirottate verso una contrapposizione tra politica e società civile. Compito dei ricostruttori è favorire una nuova coesione nazionale e democratica. Le energie morali e civiche della società sono senz’altro il carburante indispensabile, ma solo con una rinnovata vitalità democratica dei partiti e con un ammodernamento delle istituzioni, capace di attualizzare lo spirito della Costituzione, questo carburante può attivare il motore e far muovere la macchina che necessita di entrambi. La politica deve liberarsi della camicia di forza del populismo, che ha piegato le istituzioni, perché questa è la condizione per collegarsi a un risveglio civico, morale, legalitario. Come si vede, torniamo alle strutture portanti del nostro progetto: riforma repubblicana e nuovo patto sociale per il lavoro e per la crescita. ­193

D.  Non le pare che le condizioni prioritarie e ineludibili di qualunque progetto per il Paese siano, da un lato, il recupero di competitività, e, dall’altro, l’alleggerimento della zavorra del debito pubblico? R.  Competitività e abbattimento del debito sono parametri fondamentali dell’Agenda per l’Italia del 2020. Nessun progetto potrà farne a meno. Un programma di riforme ci potrà dare competitività e crescita: ne deriverà una riduzione del debito se sapremo accompagnare tutto questo con un controllo rigoroso e duraturo della spesa corrente e con una nuova fedeltà fiscale. Dovremo inoltre rafforzare i fattori di coesione, e tra essi il più importante di tutti: l’equità sociale. Per una lunga stagione, potremmo dire dagli anni Ottanta in poi, si è progressivamente affermata l’idea in base alla quale la disuguaglianza è in fin dei conti un fattore positivo di competitività. Ora questo paradigma culturale va capovolto. La condizione di crescita e di sviluppo è la riduzione della forbice della disuguaglianza. Lo è in via diretta perché aumenta le potenzialità di consumo. Ma ancora di più lo è in via indiretta perché può favorire la percezione del bene comune. Si discute su quale sia l’indice che meglio possa registrare nel prossimo futuro la crescita sociale: il Pil o la produttività oppure il reddito pro-capite. Suggerisco piuttosto di scegliere come indicatore-guida nel prossimo decennio il tasso di occupazione. Si tratta di un indicatore trainante anzitutto dell’occupazione femminile e giovanile, i cui dati oggi sono tra i peggiori d’Europa. Dobbiamo rimontare e fissare un grande traguardo per il Paese: 70% di occupazione tra i 20 e i 65 anni entro il 2020. Un traguardo raggiungibile solo creando nuovo lavoro per le donne e nel Sud. E non ci possono essere dubbi sul fatto che si tratti di un obiettivo generale perché, se aumenterà l’occupazione, vuol dire che avremo risolto i problemi di crescita, di produttività e anche di risanamento della finanza pubblica. È ciò che dobbiamo alle nuove generazioni, ragione vera e speranza del progetto per l’Italia. ­194

D.  Oggi l’Italia, però, non è un Paese favorevole ai giovani: ne abbiamo parlato nel corso dell’intervista. E la demografia non aiuta neppure la politica. Se invecchiano i cittadini-elettori, i partiti inevitabilmente sono portati ad adeguare messaggi e proposte ai sentimenti medi di chi vota. Come rompere questa spirale? R.  La politica deve essere più giovane della demografia degli italiani e deve riuscire a sfidarla. O siamo capaci di pensare il futuro e di metterlo fin d’ora al centro delle nostre scelte, oppure il futuro ci punirà. L’Italia dispone di grandi risorse sociali, imprenditoriali, civiche. Ma la riscossa non può che avere le nuove generazioni come driver. E anche simbolicamente l’impegno per dimezzare la disoccupazione giovanile, oggi sempre più vicina al 30%, va integrato all’obiettivo-guida della crescita del lavoro nel decennio. Se questa è la riforma delle riforme, vuol dire nel concreto che la politica fiscale deve aiutare in misura maggiore le famiglie con figli; che la politica della casa deve preoccuparsi di ampliare e calmierare il mercato degli affitti; che gli incentivi alle imprese devono premiare chi assume giovani ricercatori; che le politiche del lavoro devono far costare i contratti a tempo indeterminato meno di quelli a tempo determinato e che la flessibilità non può toccare solo ai giovani; che il welfare pensionistico, mentre innalza l’età pensionabile, deve preoccuparsi di aumentare i rendimenti per chi oggi è giovane e vive condizioni di precarietà; che le politiche scolastiche devono innalzare l’età dell’obbligo e accorciare i cicli di studio; che la riforma universitaria deve fissare a 65 anni la pensione per i professori ordinari. Ecco, questo è un telaio programmatico coerente con un progetto di alto profilo per l’Italia del 2020. Un telaio all’interno del quale andrebbero poi inseriti altri criteri qualificanti. D.  Ci può indicare qualcuno di questi criteri? R.  Penso a quattro criteri-guida in grado di definire le riforme sociali e liberali di cui l’Italia ha assoluto bisogno. Il ­195

primo: la produttività e la competitività vanno incrementati a livello di sistema. Lo sforzo non può essere chiesto solo all’operaio della catena di montaggio, al piccolo imprenditore o al giovane che cerca di entrare nel mondo del lavoro. Bisogna disturbarci un po’ tutti e deve disturbarsi un po’ di più chi fino a oggi è stato al riparo. Il secondo: stabilità e crescita devono darsi la mano. Se non c’è un po’ di crescita non potrà esserci nemmeno stabilità. Ciò non vuol dire venir meno al rigore ma accompagnarlo con meccanismi che sollecitino investimenti e occupazione. Il terzo criterio: bisogna continuamente promuovere politiche per ridurre le disuguaglianze. Ci hanno accusato, senza motivo, di voler introdurre la patrimoniale quando invece è stato il governo Berlusconi a incrementare le tasse sugli immobili delle imprese nel decreto sul federalismo municipale. Il cuore della nostra proposta fiscale sta invece in una redistribuzione dei pesi tra rendita e lavoro: 20% per la prima aliquota Irpef, 20% per i redditi da impresa e da lavoro autonomo e professionale, 20% per le rendite finanziarie (esclusi i titoli di Stato). E in una lotta seria all’evasione fiscale. Il quarto criterio: la sussidiarietà tra Stato, privato sociale e mercato è un principio fondamentale, ma lo Stato non può trasformarlo in un alibi per scaricare i suoi compiti. Il motto non può essere «più società meno Stato»: Stato e società invece devono camminare insieme sulla strada dell’innovazione e delle riforme. D.  Sempreché queste politiche riescano davvero ad aumentare le opportunità delle giovani generazioni, resta aperta la questione di una loro maggiore partecipazione e incidenza nella vita sociale e negli indirizzi della politica. Quale messaggio si sente di trasmettere ai più giovani? R.  Che bisogna guardare al futuro alzando la testa. Che si può avere più fiducia di quanto ne esprimano oggi le generazioni più adulte. Che la politica si può cambiare e non è vero che è immutabile. Ma se non la fai tu, la politica ­196

te la fanno gli altri. Noi non vogliamo stare con chi tiene le porte chiuse, ma con chi bussa per entrare. I riformisti nei governi e nelle istituzioni devono fare la loro parte chiedendo a tutti di scomodarsi un po’ per dare ai giovani più libertà, più opportunità, più conoscenze. Ma anche i giovani sono chiamati a un loro impegno e a pronunciare, nei modi originali che sceglieranno, i loro sì e i loro no, e a dire «noi» e non solo «io». D.  Con quali alleanze politiche pensa di portare avanti questo progetto? Alle prossime elezioni il Pd cercherà di comporre una coalizione di centrosinistra con l’Italia dei Valori e Sinistra e Libertà oppure lancerà un appello a tutte le opposizioni, e dunque anche al cosiddetto Terzo Polo? R.  Se questo è il compito che il Paese ha di fronte, se questa è la riscossa necessaria per risalire la china e arrivare al 2020 offrendo un futuro ai giovani, il messaggio più coerente che il Pd possa lanciare è l’unità delle forze della ricostruzione. Non si tratta di evocare una consociazione di carattere difensivo. Al contrario, si tratta di chiamare alla responsabilità tutti coloro che vogliono ridare all’Italia una piattaforma europea condivisa. Sono un sostenitore del bipolarismo e della democrazia dell’alternanza ma ciò non può significare, particolarmente in una situazione di emergenza, una riduzione pregiudiziale dell’ampiezza del nostro schieramento. Da noi il populismo berlusconiano rende impossibile larghe coalizioni per riscrivere insieme le regole del gioco e per definire obiettivi condivisi di stabilità economica e di crescita sociale. Il berlusconismo ha bisogno del nemico: sia esso l’avversario politico, il magistrato o lo straniero. Non è vero che Berlusconi è il presidio del bipolarismo e dell’alternanza. È esattamente il contrario: per lui l’alternanza può essere solo o un imbroglio elettorale o un complotto dei magistrati. Il Pd ha proposto più volte, con insistenza, una soluzione sul «modello Ciampi» del ’93. Ma Berlusconi non la accetta. E allora per andare ­197

oltre Berlusconi bisognerà passare attraverso le griglie di questa legge elettorale di dubbia costituzionalità, presentando chiaramente ai cittadini italiani l’unità delle forze della ricostruzione, un’alleanza costituzionale e repubblicana. Un’impresa comune di forze anche strategicamente diverse e di differente ispirazione politico-culturale, che però intendono frenare il processo di frammentazione e rilanciare insieme democrazia, istituzioni, società e valori civici perché hanno a cuore l’Italia. D.  Questa è la proposta del Pd. Ma non è detto che il Terzo Polo la accetti. Perché Casini e Fini non dovrebbero presentarsi alle elezioni da soli, viste anche le particolari propensioni del loro elettorato che confina con quello di Berlusconi? R.  Parliamo di un Terzo Polo che in realtà deve a­ ncora definirsi. Noi ovviamente non siamo interessati al pur nobile obiettivo di una riorganizzazione del centrodestra. Siamo interessati ad un incontro con forze di centro che guardano oltre Berlusconi. Inoltre qui purtroppo non si tratta di un’alternanza in un sistema che funziona. Non stiamo discutendo di una competizione tra programmi economici in un contesto consolidato di sicurezza nazio­nale. La posta in gioco è il funzionamento delle istituzioni democratiche e il patto fondamentale in campo economico e sociale su terreni fondativi come la fiscalità e le relazioni sociali. Per questo è necessario all’Italia un impegno comune dei moderati e dei progressisti. Sarebbe una drammatica illusione da parte di un Terzo Polo pensare di condizionare Berlusconi, nel caso questi riuscisse a conquistare il premio di maggioranza alla Camera. In ogni caso, c’è un punto semplice che dovrebbe essere meglio compreso: il problema non è pronosticare quel che faranno gli altri, ma è affermare quel che proponiamo noi. Sono i cittadini elettori, alla fine, che giudicano la proposta di un partito. Anche se un Terzo Polo decidesse di andare da solo alle elezioni, e mi auguro che non lo faccia, noi continueremo a dire, prima e ­198

dopo le elezioni, che al Paese serve l’unità delle forze della ricostruzione. E il Pd sarà comunque pronto a favorirla il giorno in cui vincerà le elezioni. D.  Potrebbero porre un veto i vostri alleati del centrosinistra. Peraltro Nichi Vendola ha già lanciato la sfida delle primarie per contendere al Pd la leadership. E Antonio Di Pietro non intende essere marginalizzato. Che messaggio manda loro? R.  Per tutti abbiamo la stessa parola. Ci muove un’acuta percezione della crisi italiana. Da quando sono stato eletto segretario parlo di un’alleanza democratica, che deve promuovere una stagione costituente. Dopo resistenze e sospetti, mi pare che molti si stiano convincendo che questa è la strada da intraprendere. Il Pd intende porsi al servizio del Paese. E ovviamente la mia speranza è che l’intero centrosinistra faccia altrettanto. La nostra proposta è inclusiva, non nasce per chiudere le porte a qualcuno. Con una condizione. L’Unione del 2006 non può riproporsi in alcuna veste: l’ho già detto e lo ripeto. I fatti l’hanno bocciata per sempre. Un governo può nascere solo su una solida base di condivisione progettuale. E su un’assunzione di responsabilità. Per questo, nel quadro di una auspicata unità delle forze della ricostruzione, ho proposto di lavorare a un Nuovo Ulivo alle forze di centrosinistra disposte ad assumersi la responsabilità di governo. Si tratta di intensificare un confronto e di stabilire reciprocamente alcune regole comuni per dare coesione e stabilità al patto politico, che deve garantire un’intera legislatura. Quanto alle primarie, è davvero singolare che si tiri per la giacca l’unico segretario di partito eletto con le primarie in Italia e in Europa. Le primarie restano uno strumento che nella normalità possono favorire scelte largamente partecipate dagli elettori del centrosinistra. Ma non si può mettere lo strumento prima della politica necessaria al Paese. Dalle scelte che noi faremo oggi dipenderà il prossimo decennio. Sarebbe una re­199

sponsabilità gravissima anteporre un vantaggio personale o di partito al bene comune. Oggi ci è chiesto anzitutto il coraggio e la determinazione nell’aprire una via nuova. D.  Lo statuto del Pd indica nel segretario nazionale il candidato premier, o comunque il solo candidato del partito in primarie di coalizione. Per le prossime elezioni lei si sente in corsa come sfidante di Berlusconi alla presidenza del Consiglio anche nel caso di un’alleanza più ampia del centrosinistra oppure l’unità da lei auspicata delle «forze della ricostruzione» conduce a un candidato diverso, magari un esterno alle attuali leadership di partito? R.  Non mi sono mai tirato indietro in tutta la mia vita politica davanti alle responsabilità. Ma non ho mai messo la mia persona davanti ai progetti che ritenevo importanti. Verrà il momento per decidere insieme a quanti saranno con noi – con le primarie o senza – chi sarà il candidatopremier nella competizione elettorale. La mia più grande aspirazione è che il Paese inverta la rotta, che i giovani ritrovino lo spazio per costruire il loro futuro, che nella nostra Italia ci sia un po’ più di giustizia, di civismo, di solidarietà. E che in questo percorso il Pd si consolidi come partito nuovo e come propulsore del cambiamento. Questo è il mio impegno. Dobbiamo voltare pagina. Dobbiamo coinvolgere, come nei momenti migliori della nostra storia, le forze più responsabili e assieme a loro promuovere un risveglio italiano.

­

Gli autori

Pier Luigi Bersani, tra i protagonisti della nascita del Partito democratico, ne è stato eletto segretario nazionale nel novembre 2009 dopo essere stato scelto dalla maggioranza degli iscritti e avere vinto le primarie con oltre un milione e mezzo di voti. Presidente della Regione Emilia-Romagna negli anni 1993-1996, nel 1995 è stato rieletto alla testa di una lista di centrosinistra denominata «Progetto Democratico» che ha anticipato la stagione dell’Ulivo. Come ministro dell’Industria nei governi Prodi e D’Alema (dal 1996 al 1999) ha varato la riforma del commercio e liberalizzato il mercato elettrico. È stato poi ministro dei Trasporti nei governi D’Alema e Amato (1999-2001), dove ha liberalizzato le ferrovie, e successivamente ministro dello Sviluppo economico nel secondo governo Prodi dal 2006 al 2008. In questo ruolo ha promosso il decreto sulle liberalizzazioni per rendere più dinamico il mercato, tutelare i consumatori, facilitare la lotta all’evasione fiscale e aumentare la concorrenza. Nel 2001 è stato eletto per la prima volta deputato e dal 2004 al 2006 è stato parlamentare europeo. Miguel Gotor insegna Storia moderna presso l’Università di Torino. Claudio Sardo è giornalista politico del quotidiano «Il Messaggero». ­201

Indice



Prologo Un sogno con le gambe per camminare

I.

La democrazia è libertà e uguaglianza

11

II.

Quel tanto di anarchico che è in me

25

3

III. Liberare l’Italia dalla gabbia populista

40

IV. L’Europa che vogliamo

57

Un partito nuovo radicato in una lunga storia

74

VI. Ambiente e crescita mai più divisi

88

V.

VII. La scommessa industriale made in Italy 104 VIII. Gli insegnanti eroi moderni

119

IX. La questione morale al tempo delle cricche

133

X.

Credenti e non credenti per un umanesimo condiviso ­203

150

XI. La scienza, la vita e i limiti della politica

163

XII. Il partito democratico e la sfida riformista

175

Conclusione Unire le forze della ricostruzione

189



201

Gli autori