Per una società ecologica

La via d’uscita dalla trappola “ecocida” – e dunque suicida – in cui l’umanità s’è cacciata è nella ricerca di una diver

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Per una società ecologica

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Murray Bookchin Per una società ecologica

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Indice I – Ecologia e società II – Gerarchie, classi, stati III – Punti cruciali della storia IV – Ideali di libertà V – Il progetto rivoluzionario VI – Ricostruire la società

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Questo

libro non sarebbe stato scritto senza i suggerimenti, l’incoraggiamento e l’aiuto di diversi amici carissimi. In particolare sono grato a Dimitri Roussopoulos di Black Rose Books ed a Rossella Di Leo e Amedeo Bertolo di Elèuthera, i quali non solo mi hanno spinto a scrivere Per una società ecologica ma ne hanno seguito attentamente la stesura. Non potrò mai ringraziarli abbastanza per la loro assistenza. Gli altri che m’hanno in varia misura aiutato sono troppo numerosi per menzionarli.

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PERCHÉ HO SCRITTO QUESTO LIBRO

Da molto tempo pensavo di scrivere un libro che brevemente e chiaramente riassumesse il mio pensiero sull’ecologia sociale. Mi sembrava (e sembrava a diversi miei amici) che potesse essere utile condensare in un paio di centinaia di pagine — pagine non troppo difficili per il lettore medio — quelle idee che avevo sviluppato in diversi libri ponderosi. Questo è, per l’appunto, quel libro. Esso non è, beninteso, un surrogato dei miei libri precedenti, in particolare de L’ecologia della libertà, ma è una sorta di rassegna dei principali temi che ho affrontato ed un’introduzione generale alle mie idee di fondo. Inoltre ho profittato dell’occasione per aggiungere qualche idea nuova. Le idee fondamentali che ho sviluppato in quasi tutti i miei scritti sono riconducibili al concetto che la maggior parte dei nostri problemi ecologici ha le sue radici in problemi sociali e che l’attuale disarmonia tra umanità e natura può essere ricondotta

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essenzialmente ai conflitti sociali. Non credo che si possa giungere ad un equilibrio tra umanità e natura se non si trova un nuovo equilibrio — basato sulla libertà dal dominio e dalla gerarchia — in seno alla società. Per l’appunto, ho chiamato «ecologica» questa nuova società ipotizzata ed ho definito il mio pensiero come ecologia sociale. L’ecologia sociale non è nè ecologia «umana» nè ecologia «profonda», termini e concezioni che tendono a deviare la nostra attenzione dagli aspetti sociali dell’attuale crisi ecologica. E necessario affrontare onestamente il fatto che, se non trasformiamo la società in senso libertario, gli atteggiamenti e le istituzioni che ci spingono folle- mente verso il disastro ecologico continueranno ad operare, nonostante tutti gli sforzi che si possono dedicare a riformare il sistema sociale dominante. Quel che ritengo della massima importanza è di mostrare che l’ecologia sociale è un corpus teorico coerente, che cerca non solo di spiegare il perché dell’attuale sfascio ecologico ma anche di trovare un terreno comune, una base unificante per le tematiche ambientaliste, femministe, classiste, urbane e rurali. Fu dal nascente dominio di esseri umani su altri esseri umani, cominciato tanto tempo fa — prima ancora che emergessero le classi economiche e lo Stato — che si sviluppò l’idea del dominio sulla natura (in realtà non ci è possibile dominare la natura più di quanto ci si possa sollevare tirandosi per le stringhe). Quello che si andava affermando nell’ambito sociale era invece dominio reale: dominio dei vecchi sui giovani nelle gerontocrazie, degli uomini sulle donne nel patriarcato, di un gruppo etnico su un altro gruppo etnico nelle gerarchie razziali, della città sulla campagna nelle civiltà urbane... Tutte queste forme di dominio hanno un’origine e una natura comune: sono sistemi di comando-obbedienza basati su istituzioni gerarchiche. Le implicazioni ecologiche di questi sistemi sono più rilevanti ancora delle loro determinazioni economiche, in quanto comportano la distruzione di valori ecologici quali la complementarità, il mutuo appoggio, il senso del limite, un profondo sentimento comunitario ed una concezione organica fondata sull’unità nella diversità. Questi valori e le istituzioni in cui si sono incarnati sono ora sostituiti dalla competizione, dall’egoismo, dalla crescita illimitata, dall’anomia e da una razionalità puramente strumentale, vale a dire dalla convinzione che la ragione non è altro che uno «strumento», una «destrezza» nell’adeguare i mezzi ai fini e non un carattere inerente ad una

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realtà ordinata e comprensibile. Questo vasto insieme di categorie «moderne», che gioca un ruolo alienante sia nelle nostre interrelazioni umane sia nel nostro rapporto collettivo con la natura, trova la sua espressione più nefasta nel capitalismo — sia il capitalismo privato all’Ovest sia il capitalismo burocratico all’Est — cioè in un sistema di «crescere-o-morire» (vale a dire di accumulazione senza fine di capitale come funzione di sopravvivenza in un mercato concorrenziale), che minaccia di distruggere tutta la biosfera a meno che non venga sostituito da un nuovo assetto sociale radicalmente diverso. Una tale trasformazione sociale non implica semplicemente l’istituzione di nuove relazioni economiche relative al possesso o al controllo della proprietà. Essa comporta l’acquisizione d’una nuova sensibilità antiautoritaria, lo sviluppo di nuove tecnologie che armonizzino il nostro rapporto con la natura, di nuove comunità urbane che vivano in equilibrio con la campagna, di nuovi rapporti sociali basati sull’assistenza e sulla responsabilità reciproca, di nuove forme di sviluppo qualitativo sostitutive d’una crescita quantitativa fine a se stessa. Come queste idee siano tra loro interconnesse e siano alla base di recenti movimenti sociali come quello ecologico, quello femminista e quello comunitario, e come esse consentano anche un nuovo approccio a movimenti tradizionali legati a problemi come la miseria, lo sfruttamento economico, il dominio di classe, il razzismo e l’imperialismo... tutta questa tematica attraversa il presente libro, sviluppata in una prospettiva ecologica. Se il movimento ecologico, alla cui nascita negli Stati Uniti ho contribuito una trentina d’anni fa, si ritraesse dall’arena sociale, alla ricerca di una vita privata «sana», o se ingenuamente si volgesse ad una pura pratica elettorale, alla ricerca di influenza e potere, la perdita per tutti noi sarebbe irreparabile. Ho visto i cosiddetti «verdi» europei fare continui compromessi con il sistema sociale dominante, allo scopo di acquisire «potere»...con l’unico risultato d’essere progressivamente assorbiti da quello stesso potere che cercavano di trasformare. Il pensiero ecologico può oggi fornire la più rilevante sintesi d’idee che si sia vista dopo l’illuminismo. Può aprire prospettive per una pratica che possa veramente cambiare l’intero paesaggio sociale dei nostri tempi. Lo stile «militante» che i lettori troveranno in questo libro nasce da un preoccupato senso d’urgenza. E urgente e di vitale importanza non lasciare che un

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modo ecologico di pensiero ed il movimento che ne può derivare finisca con il degenerare in nuove forme di politica statai-nazionale ed in tornei partitici, da un lato, e/o in variopinte mode mistiche e spiritualistiche portatrici di quietismo e passività sociale, dall’altro. C’è una via, che non è nè quella della politica convenzionale — cioè la politica statuale — nè quella del quietismo mistico: è la politica diretta, la politica «di base», fondata sulla mobilitazione comunitaria e sul federalismo municipale, un federalismo che può mettere in crisi la centralizzazione statalistica e la concentrazione capitalistica che segnano in modo nefasto la nostra epoca. E di questo mi occupo nella parte finale del libro. La verità non è mai stata semplice, unidimensionale. Spesso è un sottile filo rosso, per così dire, che attraversa un labirinto di errori in cui facilmente cadiamo se qi manca una visione chiara e coerente della realtà. E questo sottile filo rosso che ho cercato di seguire. Ed è questo filo che il lettore o la lettrice deve cercare e seguire fino alla fine, con la sua propria capacità di guardare oltre il presente stato delle cose. Per il resto il libro parla da sé. Giugno 1989

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ECOLOGIA E SOCIETÀ

Molti hanno oggi il problema di «definire» se stessi, di sapere «chi sono», e di ciò si nutre una vasta industria psicoterapeutica. Ma questo non è soltanto un problema individuale, è anche un problema sociale, della società nel suo complesso. Socialmente, viviamo nella disperata incertezza delle relazioni che debbono intercorrere tra le persóne. L’alienazione e la confusione circa la nostra identità e il nostro destino non ci concernono solo in quanto individui: tutta la nostra società, intesa come un unico essere, stenta-a riconoscere la propria natura e il proprio orientamento. Le

società di un tempo tendevano a promuovere la fiducia nelle virtù della cooperazione e dell’amore, dando così un senso etico alla vita associata; la società moderna promuove invece la fiducia nelle virtù della competizione e dell’egotismo, e così facendo priva il consesso umano di qualsiasi senso (se non, forse, quello di essere uno strumento di accumulo e consumo insensati). Gli uomini e le donne del passato erano guidati da convinzioni e speranze certe, da valori che li definivano in quanto esseri umani e davano così significato alla vita associata. Usiamo parlare del Medio Evo come di un’età «di fede», e dell’Illuminismo come di un’epoca «di ragione». Anche il periodo precedente alla seconda guerra mondiale e gli anni subito successivi ci appaiono come un’affascinante epoca di innocenza e speranza, nonostante la Grande Depressione e i terribili conflitti che l’hanno macchiata. In un recente (e piuttosto sofisticato) film di spionaggio c’è un vecchio che dice di sentire la mancanza della «chiarezza» della seconda guerra mondiale, alludendo evidentemente alla presenza di uno scopo, un’idea, che guidava i comportamenti. Oggi, questa «chiarezza» non c’è più. Il suo posto è stato preso dall’ambiguità. La certezza che la tecnologia e la scienza avrebbero migliorato la condizione umana è stata vanificata dalla proliferazione degli armamenti^ nucleari, dalla fame diffusa in tutto il Terzo Mondo, e dalla povertà nel mondo industrialmente

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avanzato. La fiducia che la libertà avrebbe trionfato sulla tirannia è stata smentita dalla crescente centralizzazione in tutti gli Stati e dall’esautoramento del popolo ad opera delle" burocrazie, delle fòrze di polizia, di sofisticate tecniche di controllo; e ciò nelle nostre «democrazie» non meno che nei paesi apertamente autoritari. La speranza di costruire «un unico mondo», una vasta comunità di gruppi etnici diversi che collaborano per migliorare la vita in ogni luogo, è stata distrutta dal montare di una marea di nazionalismo, razzismo, miope individualismo e indifferenza per le disgrazie che affliggono milioni di altri. I nostri valori ci appaiono meno validi di quelli delle popolazioni di appena due o tre generazioni fa. La generazione attuale sembra essere più egocentrica, chiusa nel privato, mediocre, rispetto alle generazioni del passato. Manca il supporto offerto dalla famiglia estesa, dalla comunità, dal mutuo appoggio. A quanto pare il rincontro dell’individuo con la società avviene più attravèrso fredde agenzie burocratiche che non attraverso persone attente e sensibili. Questa mancanza di identità e di senso sociale è l’aspetto saliente dei problemi che ci stanno di fronte. La guerra è una condizione cronica della nostra epoca. L’incertezza economica è una presenza costante. La solidarietà umana, un mito sfuggente. E, non ultimo dei nostri problemi, ci sta davanti l’apocalisse ecologica, la distruzione catastrofica del sislema che garantisce la stabilità del pianeta. Viviamo sotto la minaccia costante che il mondo vivente possa irrevocabilmente essere compromesso da una società impazzita nel suo sviluppo, una società che sostituisce sempre più l’organico con l’inorganico, il suolo con il cemento, le foreste con iì deserto, la ricca diversità delle forme di vita con ecosistemi semplificati, in breve una società che sta «mettendo indietro» l’orologio dell’evoluzione, riportandola ad un mondo passato, più inorganico, minerale, incapace di offrire sostentamento a forme di vita complesse, esseri umani inclusi. Questa ambiguità del nostro destino, del nostro significato, del nostro scopo, genera così una domanda angosciante: è forse una maledizione, la società, un cancro per tutte le forme di vita? Non c’è rimedio a questo nuovo fenomeno chiamato «civiltà» che pare sul punto di distruggere il mondo naturale prodotto in milioni di anni di evoluzione organica? In effetti, esiste oggi tutta una letteratura, che attira l’attenzione di milioni di lettori, centrata su questo pessimismo nei

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confronti della civiltà in sé e per sé. Tale letteratura presenta la tecnologia come contrapposta ad una presunta natura organica «vergine», la città come contrapposta alla campagna, e la campagna contrapposta alla natura «selvaggia», la scienza contrapposta al «rispetto» per la vita, la ragione contrapposta all’«innocenza» dell’intuizione, insomma l’umanità contrapposta a tutta la biosfera. Stiamo perdendo la fiducia nelle nostre caratteristiche tipicamente umane, nella nostra attitudine al pensiero concettuale e sistematico, nella nostra capacità di vivere in pace con gli altri, di prenderci cura dei nostri compagni e delle altre forme di vita. Questo pessimismo è alimentato, un giorno dopo l’altro, da sociologi che attribuiscono i nostri difetti ai cromosomi, da antiumanisti che deplorano la nostra sensibilità «antinaturale», e da «biocentristi» che disprezzano le nostre qualità razionali pretendendoci non diversi nella nostra unicità dalle formiche. In breve, assistiamo ad un attacco diffuso contro la ragione, la scienza, la tecnologia, contro la loro capacità di migliorare il mondo, per noi stessi e per la vita in generale. Storicamente, questa concezione che vede la civiltà come inevitabilmente contrapposta alla natura, come una corruzione della natura umana, risale ai tempi di Rousseau e ci viene ripresentata oggi, quando è più che mai necessaria una civiltà umana ed ecologica, se vogliamo davvero salvare il pianeta e noi stessi. La civiltà, con il suo maschilismo razionalista e tecnicista è vista sempre più come una nuova peste. Anzi, la società in se stessa viene messa in discussione, al punto di considerare come pericolosamente «innaturale» il ruolo che essa svolge nella formazione dell’umanità, ed intrinsecamente distruttivo. L’umanità viene diffamata dagli stessi esseri umani e, paradossalmente, accusata di' essere una forma di vita perversa, che non fa che distruggere le altre forme di vita e minacciare l’integrità del loro complesso. Cosicché, oltre alla confusione per l’incertezza della nostra epoca e della nostra identità, abbiamo anche la confusione circa la condizione umana, vista come un elemento di caos frutto delle nostre tendenze assassine e della nostra abilità ad esercitarle con terribile efficienza, essendo dotati di ragione, scienza, tecnologia. Bisogna riconoscere che sola pochi antiumanisti, «biocentristi» e misantropi che si dedicano ad indagare sulla condizione umana

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sono pronti a seguire la logica delle loro premesse fino a certe assurdità. E di vitale importanza, per queste misture di sensazioni e idee precise, che le varie forme, istituzioni, relazioni che costituiscono ciò che chiamiamo «società» siano in larga misura ignorate. Proprio come vengono usati termini tipo «umanità» o vocaboli zoologici come homo sapiens, che celano le grandi differenze, e spesso gli aspri conflitti, che esistono tra i bianchi privilegiati e la gente di colore, tra gli oppressori e gli oppressi, allo stesso modo parole vaghe come «società» o «civiltà» nascondono l’esistenza di grandi differenze tra le società libere, non gerarchiche, senza classi e senza Stato, e quelle più o meno gerarchiche, classiste, statalizzate e autoritarie. La zoologia rimpiazza un’ecologia ad orientamento sociale e le cosiddette «leggi naturali», basate sulle oscillazioni di popolazione tra gli animali, rimpiazzano i conflitti di interesse economici e sociali. La semplicistica contrapposizione tra «società» e «natura», tra «umanità» e «biosfera», tra «ragione», «tecnologia», «scienza» e le forme di relazione umana col mondo naturale meno sviluppate o addirittura primitive, ci impedisce di prendere in considerazione le complesse differenze e divisioni che sono presenti in seno alla società, il che è invece indispensabile per definire i nostri problemi e la loro soluzione. L’antico Egitto, ad esempio, aveva verso la natura un atteggiamento significativamente diverso da quello babilonese. Gli egiziani nutrivano «reverenza» nei confronti di un gruppo di divinità della natura essenzialmente animistiche, molte delle quali erano anche fisicamente in parte umane e in parte animali, mentre i babilonesi avevano un pantheon di dei di tipo politico, molto umani. Eppure l’Egitto non è stato meno gerarchico di Babilonia nel trattare la popolazione, e fors’anche più oppressivo di questa nei confronti degli individui in quanto tali. Certe società di cacciatori, a dispetto delle loro profonde concezioni animistiche, hanno distrutto la flora e la fauna naturale tanto quanto le culture urbane che fanno esclusivo riferimento alla ragione. Il termine «società» non fa che inghiottire tutte queste differenze, insieme alla gran varietà di modelli sociali, e questo equivale a far violenza al pensiero e anche all’intelligen- za pura e semplice. Accade così che la società in sé diventi qualcosa di «innaturale». La ragione, la tecnologia, la scienza, diventano elementi «distruttivi», senza che vengano tenuti in alcun conto i fattori sociali che ne condizionano l’uso. Qualunque tentativo di

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modificare l’ambiente è visto come una minaccia, come se la nostra «spècie» potesse fare ben poco, o niente del tutto, per migliorare la vita del pianeta in senso generale. Non siamo meno animali degli altri mammiferi, è vero, eppure siamo qualcosa di più chè mandrie di erbivori brucanti sulle praterie africane, ed è questo qualcosa di più (vale a dire, il tipo di società che costituiamo ed il modo in cui ci dividiamo in gerarchie e classi) che condiziona profondamente il nostro comportamento e gli effetti di esso sul mondo naturale. Infine, separando così radicalmente l’umanità e la società umana dalla natura e riducendoli a mere entità zoologiche, non riusciamo più ad accorgerci di come la natura umana derivi dalla natura non umana e l’e>- voluzione sociale dalla evoluzione naturale. In quest’«epoca di alienazione», non solo l’umanità si aliena, si separa da se stessa: si separa anche dal mondo naturale, del quale un tempo faceva parte in quanto formanti vita complessa e pensante. In sintonia con simili concezioni, gli ambientalisti progressisti e misantropi ci ammanniscono una dieta costante di rimbrotti circa il modo in cui «noi», in quanto specie, siamo responsabili del degrado ambientale. Non c’è bisogno di andare in California per trovare un’accozzaglia di mistici e guru che hanno del problema ecologico e dei suoi fondamenti questa visione asociale e centrata sulla specie. New York va altrettanto bene. Non dimenticherò tanto facilmente la mostra «ambientalista» organizzata negli anni ’70 dal Museo di Storia Naturale di quella città, con una lunga serie di scenografie che mostravano al pubblico esempi di inquinamento e distruzione ecologica. L’ultima di esse, quella che concludeva la mostra, portava l’incredibile titolo «L’animale più pericoloso della Terra», e consisteva unicamente di un grande specchio che rifletteva l’immagine del visitatore che si fosse trovato a sostare di fronte ad esso. Ho ancora in mente l’immagine di un bambinetto nero che guardava lo specchio, mentre il suo maestro bianco cercava di spiegargli il messaggio che l’arrogante scenografia tentava di comunicare. Non c’erano scenografie rappresentanti gli staff dirigenziali delle industrie che decidono di disboscare montagne intere o funzionari governativi che agiscono in collusione con essi. Il messaggio della rappresentazione era uno solo, fondamentalmente antiumano: sono gli individui come tali, non la società rapace e coloro che ne

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Beneficiano, ad essere responsabili degli squilibri ecologici, i ceti poveri tanto quanto quelli ricchi, la gente di colore non meno dei bianchi privilegiati, le donne non meno degli uomini, gli oppressi non meno degli oppressori. Una mitica «specie umana» rimpiazza così le classi, gli individui rimpiazzano le gerarchie, i gusti personali (molti dei quali sono modellati dai media) rimpiazzano i rapporti sociali, e i diseredati che vivono magre ed isolate esistenze rimpiazzano le multinazionali, le burocrazie aggressive e le manifestazioni violente dello Stato. Società e natura Ma lasciamo da parte certe scandalose rappresentazioni che mettono allo stesso livello i privilegiati e i non privilegiati. A questo punto appare giustificato attirare l’attenzione su di una necessità importante: che la società venga ricondotta in seno al quadro ecologico. Una volta di più bisogna ricordare che praticamente tutti i problemi ecologici sono problemi sociali e non semplicemente, o principalmente, il risultato di concezioni religiose, spirituali o politiche.,Che tali concezioni generino un approccio antiecologico in persone di ogni ceto è evidente. Ma più che prendere le ideologie per il loro valore nominale, per noi è cruciale chiederci da dove esse provengano. Molto spesso, le necessità economiche possono indurre le persone ad agire anche contro i loro impulsi più genuini, anche contro valori sentiti fortemente come naturali. I boscaioli assunti per radere al suolo qualche meravigliosa foresta di norma non nutrono alcun «odio» per gli alberi. Eppure non possono far altro che tagliare gli alberi, esattamente come gli addetti ai macelli non possono far altro che uccidere animali domestici. Ogni comunità ha certamente fra i suoi componenti qualche individuo sadico o distruttivo, ivi compreso qualche ambientalista misantropo che amerebbe vedere l’umanità sterminata. Ma per la maggioranza delle persone, certi tipi di lavoro, come anche quelli particolarmente faticosi (il minatore, ad esempio) non sono occupazioni liberamente scelte. Al contrario, sono il frutto di bisogni materiali e soprattutto sono il prodotto di assetti sociali sui quali le persone comuni non hanno possibilità di controllo. Al fine di capire i problemi attuali, ecologici così come politici ed economici, dobbiamo prènderne in esame le cause sociali e risolverli con strumenti sociali. I vari tipi di ecologia, «profonda», «spirituale», antiumanista, misantropica, sono gravemente

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mistificanti perché focalizzano la nostra attenzione sui sintomi sociali piuttosto che sulle cause sociali. Mentre è imperativo guardare alle modificazioni dei rapporti sociali al fine di capire le più importanti modificazioni ecologiche, queste ecologie ci distolgono dal sociale per indirizzarci verso il «culturale», lo «spirituale», o verso una «tradizione» vagamente definita. La Bibbia non ha creato l’antinaturalismo europeo. Essa è servita a giustificare un antinaturalismo preesistente sul continente fin dai tempi pagani, a dispetto di certi tratti animistici delle religioni precristiane. È certo che l’influenza antinaturalistica della cristianità è aumentata significativamente in seguito all’emergere del capitalismo. Non solo dobbiamo portare la società in seno al quadro ecologico, allo scopo di capire perché la gente tenda ad assumere atteggiamenti competitivi (fortemente naturalistici in certi casi, fortemente antinaturalistici in altri), ma dobbiamo anche esaminare più profondamente la società stessa. Dobbiamo scoprire perché la società distrugga il mondo naturale e, contemporaneamente, perche essa abbia stimolato e spirato, e tuttora stimoli e spinga, l’evoluzione naturale. Parlando di «società» in senso astratto e generale (ricordiamoci che ogni società è unica e completamente diversa dalle altre, dal punto di vista storico), dobbiamo obbligatoriamente prendere in esame ciò che, più che «società», andrebbe definito come socializzazione». La società è un assetto dei rapporti che spesso prendiamo come dati, come qualcosa di «fisso». A molti, oggi, una società di mercato, fondata sullo scambio e sulla competizione, può apparire come «sempre» esistita, anche se c’è qualcuno che sa vagamente dell'esistenza di società pre-mercantili, fondate sul dono e sulla cooperazione. Per socializzazione, invece, si intende un processo, allo stesso modo che l’esistenza umana. Storicamente, il processo di socializzazione umana può essere visto, come per l’individuo, come una specie di infanzia sociale nella quale l’umanità viene faticosamente educata alla maturità sociale. Non appena si comincia a considerare la socializzazione da un punto di vista approfondito, ciò che colpisce è il fatto che la società nelle sue forme più antiche deriva dalla natura. Ogni evoluzione sociale, infatti, è virtualmente un’estensione dell’evoluzione naturale in un ambito unicamente umano. Per usare le parole pronunciate più di duemila anni fa dal grande oratore e filosofo

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romano Cicerone: «... con le nostre mani, portiamo in seno al regno della Natura una seconda natura per noi stessi». L’osservazione di Cicerone, certo, è incompleta: il «regno della Natura» primigenio, presumibilmente incontaminato, anche detto «prima natura», viene rimodellato, totalmente o parzialmente, e trasformato in una «seconda natura» non solo «con le nostre mani». Il pensiero, il linguaggio, ed un complesso di importantissime modificazioni biologiche, giocano un ruolo cruciale, e a tratti decisivo, nella creazione della «seconda natura» in seno alla «prima». Uso a ragion veduta il termine «rimodellare», allo scopo di sottolineare che la «seconda natura» non è semplicemente un fenomeno che si sviluppa al di fuori della «prima». Non a caso Cicerone diceva «... in seno al regno della Natura...». E sottolineare che la «seconda natura», o più esattamente la società, intesa nel senso più ampio del termine, emerge dall'intemo della «prima natura» originaria, significa ristabilire il fatto che la vita sociale ha sempre una sua dimensione naturale, anche se nel nostro pensiero la società è contrapposta alla natura. L’ecologia sociale dice chiaramente che la società non è un’«eruzione» improvvisa nel mondo. La vita sociale non si contrappone necessariamente alla natura come un avversario, in una guerra senza quartiere: l’emergere della società è un fatto naturale che trae la sua origine dalla biologia della socializzazione umana. Questo processo di socializzazione da cui emerge la società (quale che ne sia la forma: famiglia, bande, tribù, o modelli più complessi di interrelazioni umane) trae la sua origine dai rapporti di parentela, in particolare quelli tra madre e figli. Ma la madre biologica può essere rimpiazzata da molti surrogati, come il padre, i parenti o anche tutti i membri di una certa comunità: quando dei «genitori sociali», dei «parenti sociali» per così dire, intervengono a prender parte ad un sistema di cure che di norma è compito dei genitori biologici in senso stretto, è allora che comincia a prendere forma la società pro- , priamente intesa. In tal modo, la società oltrepassa il mero gruppo riproduttivo per indirizzarsi verso relazioni umane istituzionalizzate, passando da quella che potremmo definire una quasi uniforme comunità animale ad un ordine sociale chiaramente strutturato. AI primo costituirsi della società, sembra più che verosìmile che gli esseri umani si siano socializzati a formare questa «seconda natura» per effetto di

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vincoli di sangue, specificamente materni. In seguito, le strutture e le istituzioni che segnano il progredire dell’umanità da semplici forme di comunità animali verso una società vera e propria, cominciano a modificarsi, e tali modificazioni assumono grande importanza dal punto di vista dell’ecologia sociale. Positivo o negativo che sia, le società si sviluppano intorno a gruppi di status, gerarchie, classi e formazioni statali. Cionondimeno, la riproduzione e le cure parentali continuano ad essere le basi biologiche costanti in ogni forma di vita associata, nonché il fattore originario della socializzazione dei piccoli e quindi della formazione della società. Come ha avuto modo di osservare Robert Briffault all’inizio di questo secolo, in The Evolution of Human Species, «l’unico fattore conosciuto che determina una profonda distinzione tra la costituzione dei più rudimentali gruppi umani e tutti gli altri gruppi animali [è] l’associazione delle madri e dei loro nati, che tra gli animali rappresenta la sola forma di vera solidarietà sociale. In seno a tutti gli ordini di mammiferi la durata di questa associazione tende continuamente ad aumentare, come conseguenza del protrarsi del periodo di dipendenza infantile». Secondo Briffault, il protrarsi di tale periodo è correlato con il prolungarsi del periodo di gestazione e con il progresso dell’intelligenza. La dimensione biologica che Briffault attribuisce a ciò che chiamiamo società non può essere dimenticata. Essa è una presenza decisiva non solo per le origini della società dopo secoli di evoluzione animale, ma anche per la quotidiana riproduzione della società nella vita di tutti i giorni. Le cure attente che ogni nuovo nato riceve per molti anni ci dicono che ci troviamo in presenza non semplicemente della riproduzione di un nuovo essere umano, ma della riproduzione della società stessa. A paragone dei piccoli di altre specie, i bambini crescono lentamente e nell’arco di un periodo assai lungo. Vivendo in stretta associazione con i genitori, i fratelli e le sorelle, i parenti di vario grado, e quindi con una comunità in continua espansione, essi mantengono una plasticità mentale che rende creativi gli individui e formativi i gruppi sociali. Per quanto gli animali non umani possano avvicinarsi in diversi modi alle forme tipiche degli umani, essi non arrivano a creare una «seconda natura» dotata di tradizione culturale, né a possedere un linguaggio complesso ed una elaborata capacità di concettualizzazione, e nemmeno l’impressionante attitudine a ristrutturare consapevolmente il

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proprio ambiente a seconda delle proprie necessità. Uno scimpanzé, per esempio, resta nello stadio infantile solo per tre anni, ed in quello adolescenziale per sette; a dieci anni di età è completamente adulto. I bambini, invece, vengono considerati come tali per circa sei anni e come giovani altri quattordici. Ciò significa che uno scimpanzé si sviluppa mentalmente e fisicamente circa nella metà del tempo a ciò necessario per un essere umano, e la sua capacità di imparare e di pensare è fìssa, a paragone di quella di un umano, le cui attitudi possono svilupparsi nelcorso di molte decadi. Per lo stesso motivo, le associazioni di scimpanzé sono spesso labili e limitate. Le associazioni umane, invece, sono fondamentalmente stabili, altamente istituzìonalizzate e segnate da un grado di solidarietà e creatività che non hanno eguali, per quanto ne sappiamo, tra le specie non umane. Tale prolungarsi di un periodo di plasticità mentale, di dipendenza e di creatività sociale, porta a due risultati di importanza decisiva. Prima di tutto, le forme più antiche di associazione umana devono aver favorito una forte predisposizione all'interdipendenza tra i membri di un certo gruppo, e non al «rozzo individualismo» che generalmente associamo con l’indipendenza. Esiste una ricchissima massa di dati antropologici che indica come partecipazione, mutuo soccorso, solidarietà ed empatia fossero le virtù sociali più apprezzate all’interno dei primi raggruppamenti umani, proprio perché l’idea della reciproca dipendenza delle persone ai fini della sopravvivenza era la conseguenza naturale del lungo periodo di dipendenza dei giovani dagli adulti. L’indipendenza, per non parlare della competizione, doveva sembrare certamente qualcosa di estraneo, e comunque molto strano, ad una creatura che per molti anni era stata educata in una condizione di grande dipendenza. L’amore reciproco doveva apparire come il prodotto del tutto naturale di un essere altamente acculturato chiaramente bisognoso di cure continue. La nostra moderna versione dell’«individualismo», o più precisamente dell’egotismo, non avrebbe potuto convivere con l’antica concezione di solidarietà e aiuto reciproco, senza la quale, vorrei aggiungere, un animale fisicamente così fragile come un essere umano difficilmente avrebbe potuto sopravvivere da adulto, e ancor più da bambino. In secondo luogo, l’interdipendenza tra gli uomini deve aver

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assunto una forma altamente strutturata. Non esiste alcuna prova che anche tra gli esseri umani sia normale il sistema di legami notevolmente lassi che esiste tra i nostri cugini primati. Ovviamente, è possibile che i vincoli umani possano sciogliersi, o de-istituzionalizzarsi, in particolari momenti di radicale trasformazione o decadimento culturale. Ma in condizioni relativamente stabili, la società umana non è mai stata l’orda che secondo gli antropologi del secolo scorso stava alla base della vita sociale primordiale. Al contrario, le prove di cui disponiamo indicano che tutti gli umani, e forse anche i nostri antenati ominidi, sono vissuti in qualche forma di gruppo familiare strutturato, e più tardi in bande, tribù, villaggi e simili. In breve, come ancor oggi accade, si riunivano non semplicemente su basi affettive o morali, ma anche strutturalmente, attraverso istituzioni programmate, chiaramente definite e relativamente stabili. Gli animali non umani possono formare lasse comunità e anche assumere atteggiamenti di difesa collettiva allo scopo di proteggere i propri piccoli dai predatori. Ma non si può definire tali comunità come strutturate, se non in senso molto ampio. Gli animali umani, invece, creano comunità altamente formalizzate, che nel corso del tempo tendono a diventare sempre più strutturate. Queste non sono semplici comunità, ma quel fenomeno nuòvo ché definiamo società. L’incapacità a distinguere le comunità animali dalle società umane contiene in sé il rischio di ignorare la peculiarità che distingue la vita sociale umana da quella delle comunità animali, vale a dire la possibilità di modificare la società, nel bene e nel male, e i fattori che producono siffatte modificazioni. Riducendo ad una semplice comunità quella che è una società complessa, non riusciamo a capire l’evoluzione delle differenze di status in gerarchie consolidate, e delle gerarchie in classi economiche. In somma, rischiamo di perdere completamente il senso più vero di concetti come «gerarchia», cioè di sistemi di comando e obbedienza altamente organizzati, nettamente distinti dalle differenze personali, individuali, di status, spesso di breve durata e non necessariamente caratterizzate da azioni coercitive. In effetti, tendiamo a confondere le forme istituzionali della volontà umana, dei conflitti di interesse, della tradizione, con manifestazioni fisse della vita comunitaria, come se avessimo a che fare con caratteristiche intrinseche, inalterabili, della società, e non con strutture artificiali, che in quanto tali possono essere

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modificate, migliorate, peggiorate, o semplicemente abbandonate. Dall’inizio della storia fino ai giorni nostri, il gioco di ogni elite dirigente è stato di identificare il proprio sistema gerarchico di dominio con la vita comunitaria come tale, cosicché istituzioni fatte dall’uomo vengono ad assumere sanzione divina o biologica. Accade così che una certa società, con le sue istituzioni, si trasformi in un’entità permanente e intoccabile, che acquista misteriosamente una sua vita propria al di fuori della natura, in quanto prodotto di una apparentemente fissa «natura umana» che è il risultato di una programmazione genetica ai primordi della vita sociale. All’opposto, può anche accadere che una certa società, con le sue istituzioni, si dissolva in seno alla natura, come nient’altro che una delle tante forme di comunità animali con i suoi «maschi alfa», «guardiani», «capi» ed altre forme esistenziali tipiche dell’«orda». Quando si producono fatti incresciosi come guerre o conflitti sociali, vengono imputati all’attività dei cromosomi, che contengono quel certo gene che origina la «guerra», o quello della «cupidigia». In entrambi i casi, sia in quello di una «società» astratta che esiste al di fuori della natura, che nel caso altrettanto astratto di una comunità naturale indistinguibile dalla natura, si manifesta un dualismo che divide nettamente la società dalla natura, o un rozzo riduzionismo che dissolve la società nella natura. Tali concezioni, apparentemente contrapposte ma in realtà strettamente correlate, sono semplicistiche, ed appunto per questo seducenti. Nonostante vengano spesso presentate in forme sfumate, ad opera dei loro sostenitori più sofisticati, si riducono presto o tardi a veri e propri slogan di piazza, a loro volta «congelati» in dogmi popolari. L’ecologia sociale Il modo con cui l’ecologia sociale affronta il problema della società e della natura sembra richiedere un maggior sforzo intellettuale, ma evita i semplicismi delle concezioni dualistiche e la rozzezza del riduzionismo. L’ecologia sociale si sforza di mostrare come la natura evolva lentamente nella società, senza ignorare né le differenze tra questa e quella né l’entità della loro reciproca commistione. La socializzazione quotidiana del giovane in seno alla famiglia è biologicamente fondata tanto quanto le cure tributate ogni giorno agli anziani dall’establishment medico sono socialmente motivate. Del pari, mentre non cessiamo di essere mammiferi con

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determinate necessità naturali, istituzionalizziamo tali necessità e la loro soddisfazione in un’ampia gamma di forme sociali. Dunque il sociale e il naturale si fondono reciprocamente nelle attività più normali della vita quotidiana, senza per questo perdere la propria identità, in un mutuo processp interattivo. A prima vista tutto ciò può apparire ovvio, se riferito a certi problemi di tutti i giorni. Ciononostante l’ecologia sociale solleva questioni di grande importanza, che riguardano i diversi modi con cui natura e società hanno interagito nel corso del tempo e i problemi che da tale interazione sono scaturiti. Come si è instaurata questa separazione tra l’umanità e la natura, questo conflitto? Quali istituzioni, quali ideologie, l’hanno reso possibile? Era evitabile, stante lo sviluppo dei bisogni umani e della tecnologia? E potrà essere superato in futuro, in una società ecologicamente orientata? Come può una società razionale ed ecologicamente orientata inserirsi nel processo dell’evoluzione naturale? E da un punto di vista ancora più generale, c’è qualche motivo di credere che la mente umana (essa stessa un prodotto dell’evoluzione naturale, come anche la cultura) rappresenti il culmine decisivo dello sviluppo naturale, vale a dire del lungo processo di sviluppo della coscienza, dalla sensibilità e capacità di sopravvivenza delle forme di vita più semplici alla consapevolezza ed intelligenza di quelle più complesse? Sono domande provocatorie, queste, ma non celano alcuna arroganza nei confronti delle forme di vita non umane, segnata da una ricca capacità intellettuale, sociale, immaginativa e costruttiva, ad una sintonia con la fecondità, diversità e creatività della natura. Contesto che tale sintonia possa essere raggiunta contrapponendo la natura alla società, le forme di vita non umane a quelle umane, la fecondità naturale alla tecnologia, o una qualche soggettività naturale alla mente umana. In effetti, dalla considerazione del rapporto esistente tra natura e società emerge l’importante risultato che l’intèlligenza (carattere che tanto apprezziamo come tipicamente umano) ha anch’essa una profonda base naturale. Il nostro cervello, il nostro sistema nervoso, non è comparso all’improvviso, senza una lunga storia naturale antecedente. Ciò che più ci appare come parte integrante della nostra umanità (la nostra straordinari capacità di pensiero concettuale) ha le sue origini nel tessuto nervoso degli invertebrati primitivi, nei gangli cerebrali dei molluschi, nel midollo spinale dei

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pesci, nel cervello degli anfibi, nella corteccia cerebrale dei primati. Anche qui, nel più intimo dei nostri attributi umani, siamo prodotti dell’evoluzione naturale non meno che dell'evoluzione sociale. In quanto esseri umani, incorporiamo in noi stessi millenni di differenziazione ed elaborazione organica; come tutte le forme di vita complesse, non siamo solo un prodotto dell'evoluzione naturale: ne siamo anche gli eredi, prodotto della fecondità naturale. Ma nello sforzo di mostrare come la società lentamente emerga dalla natura, l’ecologia sociale deve ugualmente mostrare come anche la società vada incontro a differenziazione ed elaborazione. E così facendo, deve prendere in considerazione i momenti dell’evoluzione sociale nei quali si sono prodotte rotture che hanno lentamente portato la società in contrapposizione con il mondo naturale, e spiegare il prodursi di questa contrapposizione dalla sua prima comparsa nella preistoria fino ai nostri giorni. In effetti, Se è vero che la specie umana è una forma di vita capace di valorizzare coscientemente il mondo naturale e non semplicemente di danneggiarlo, è importante per l’ecologia sociale riuscire a spiegare come molti esseri umani si siano trasformati in parassiti delle altre forme di vita, invece che essere partner attivi dell’evoluzione organica. Tale progetto deve essere intrapreso in modo non casuale, sforzandosi seriamente di riunire reciprocamente lo sviluppo sociale e quello naturale, il che è di vitale importanza per noi e per la costruzione di una società ecologica. Forse uno dei più importanti contributi dati dall’ecologia sociale all’attuale discussione ecologica, è la constatazione che i problemi fondamentali che pongono la società contro la natura nascono all’interno dello sviluppo sociale stesso, e non tra la società e la natura. Ciò equivale a dire che la contrapposizione tra società e natura ha le sue radici in contrapposizioni che esistono in seno alla società, vale a dire nei conflitti profondi tra I diversi esseri umani che spesso celiamo con lruso allargato del termine «umanità». Questa concezione contrasta con il corrente pensiero ecologico e sociale, nella quasi totalità. Il pen- siero ecologico attuale ha in comune con il liberalismo, il marxismo e il conservatorismo l’idea

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che per «dominare la natura» sia necessario dominare gli esseri umani. Praticamente tutte le ideologie sociali contemporanee hanno al centro delle loro teorie il concetto della dominazione umana. Dall’epoca classica ad oggi, è universalmente accettata l’idea che per impedire che «l’uomo sia dominato dalla natura» sia indispensabile il dominio dell’uomo sull’uomo come primo mezzo di produzione e come strumento per sottomettere il mondo naturale. Per secoli, è stato asserito che per sottomettere il mondo naturale era necessario sottomettere gli esseri umani, sotto forma di schiavi, o di servi, o di salariati. Che tale concezione pervada l’ideologia di quasi tutte le elite dirigenti, ed abbia fornito ai movimenti sia conservatori che «progressisti» la giustificazione per il mantenimento dello status quo, non ha bisogno di dimostrazione. Il mito di una natura «avara» è stato sempre usato per giustificare l’avarizia degli sfruttatori e la crudeltà del trattamento da essi riservato agli sfruttati, e non ha mancato di fornire alibi all’opportunismo politico tanto di destra come di sinistra. Agire «all’interno del sistema» ha sempre implicato l’accettazione del dominio come modo di «organizzare» la vita sociale, £ nel nvigliofè dei casi come mezzo per liberare gli esseri umani dalla presunta sudditanza alla natura. E forse poco noto che anche Marx ha giustificato l’emergere della società di classe e dello Stato come momenti di passaggio verso il dominio sulla natura e l’ipotetica liberazione dell’umanità. È stato sulla scorta di tale visione storica che Marx ha formulato la propria concezione del materialismo storico, ed ha fondato la sua convinzione che la società di classe fosse un passaggio obbligato sulla strada del comunismo. Paradossalmente, gran parte dell’attuale ecologia «antiumanistica» contiene esattamente lo stesso pensiero, ma in forma invertita. Al pari dei loro avversari, anche questi ecologisti accettano l’idea che l’umanità sia dominata dalla natura, sia che ciò si presenti come «leggi naturali», sia come un’ineffabile «saggezza della terra» che deve guidare il comportamento umano. Ma mentre gli avversari rivendicano la necessità che la natura «si arrenda» all'umanità «conquistatrice», l’ecologia antiumanistica si adopera perché sia l’umanità ad arrendersi alla natura che «tutto conquista». Per quanto possano differire le due concezioni, nell’uso dei termini e nel tipo di religiosità, in entrambe è presente la medesima idea fondamentale, il dominio: il mondo naturale è concepito come un dittatore, dal quale

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bisogna liberarsi o cui bisogna obbedire. L’ecologia sociale sfugge a questa trappola, riconsiderando l’intero concetto di dominazione, sia nei rapporti tra natura e società che nelle cosiddette «leggi naturali» e «leggi sociali». Ciò che normalmente viene definito come «dominio» in natura, non è che una proiezione dei nostri organizzatissimi sistemi di controllo sociale sulle forme comportamentali proprie delle comunità animali, individualistiche, asimmetriche e il più delle volte solo blandamente coercitive. In altre parole, gli animali non «dominano» nel medesimo modo in cui le elite umane dominano, e spesso sfruttano, i gruppi sociali oppressi; e nemmeno «comandano» per mezzo di forme istituzionalizzate di violenza sistematica, come invece accade nelle società umane. Tra le scimmie, ad esempio, non esiste vera e propria coercizione e il cosiddetto comportamento «dominante» è solo occasionale. I gibboni e gli oranghi sono noti per l’atteggiamento pacifico verso i membri della propria specie. I gorilla sono altrettanto tolleranti, nonostante l’emergere di qualche maschio adulto di «rango superiore» nei confronti dei giovani e dei più deboli di «rango inferiore». I cosiddetti «maschi alfa» degli scimpanzé non hanno uno status «fisso» all’interno dei loro raggruppamenti, che restano sempre alquanto fluidi, e lo «status» che raggiungono può essere dovuto a cause le più diverse. Certo è possibile passare tranquillamente da una specie animale all’altra alla ricerca di individui di «rango superiore» da contrapporre ad altri di «rango inferiore», ma una tale operazione si rivela piuttosto stupida, quando termini come «rango», status, vengono usati tanto elasticamente da poter includere anche mere differenze di comportamento di gruppo e funzioni piuttosto che azioni coercitive. Lo può dirsi del termine «gerarchia». Tanto come etimologia che come significato proprio, esso ha un senso profondamente sociale, non zoologico. Di origine greca, usata inizialmente per indicare i livelli nei quali erano ordinate le diverse divinità e in seguito la struttura del clero (Hierapolis era un’antica città frigia dove veniva adorata la dea madre), successivamente essa è stata senza motivo ampliata nel suo significato fino a includere tutto, dalle relazioni che esistono negli alveari all’azione erosiva dei corsi d’acqua, dei quali si dice che «dominano» il proprio alveo. Le femmine degli elefanti vengono denominate «matriarche» quando svolgono un ruolo di vigilanza, e i maschi delle scimmie che

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mostrano grande coraggio nella difesa della comunità, in cambio di qualche modesto «privilegio», sono spesso designati come «patriarchi». L’assenza di un vero e proprio sistema organizzato di dominio (presente invece nelle comunità gerarchiche umane e sottoposto alla possibilità di mutamenti istituzionali radicali, rivoluzioni popolari incluse) è completamente ignorato. Inoltre, le diverse funzioni che le presunte «gerarchie» animali svolgono, vale a dire le cause che fanno sì che un individuo occupi uno status «alfa» ed altri uno inferiore, sono minimizzate, se mai vengono considerate. Con lo stesso tipo di approccio, le sequoia più alte potrebbero essere considerate come «superiori» rispetto a quelle più piccole, oppure arrivare a considerarle come una sorta di elite in seno alla «gerarchia» di un bosco misto, dove «sottomettono», ad esempio, le quercie (che, tanto per complicare le cose, sono più avanzate evolutivamente). La tendenza ad estendere meccanica- mente le categorie sociali al mondo naturale è altrettanto fallace che la tendenza ad estendere i concetti biologici alla geologia. I minerali non si «riproducono» allo stesso modo degli esseri viventi. Le stalagmiti e le stalattiti delle grotte certamente aumentano di dimensione, col passare del tempo. Ma in nessun modo «crescono» in un modo anche lontanamente simile a quello degli esseri viventi. Prendendo similitudini superficiali e usandole per costituire raggruppamenti identificativi, si finisce col credere al «metabolismo» delle rocce e alla «moralità» dei cromosomi. Tutto ciò pone il problema dei continui tentativi di individuare nel mondo naturale caratteri etici, oltre che sociali, quando esso è invece solo potenzialmente elico, nel senso che può costituire la base per un’etica sociale oggettiva. E' vero: in natura esiste la coercizione, ed anche il dolore e la sofferenza. Ma non la crudeltà. L’intenzionalità e la volontà animale sono troppo limitate per poter produrre un’etica del bene e del male, o della bontà e della crudeltà. Ci sono prove assai scarse della presenza di pensiero inferenziale e concettuale tra gli animali, ad eccezione dei primati, dei cetacei, degli elefanti e forse di pochi altri. Ed anche tra gli animali più intelligenti, le forme di pensiero sono comunque estremamente limitate se paragonate alle capacità degli esseri umani socializzati. Bisogna riconoscere, anzi, che òggi non siamo ancora completamente umani, se pensiamo che le nostre potenzialità di creatività, amore e razionalità sono ancora in gran parte sconosciute. La società dominante serve più ad inibire che a

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porre in atto le nostre potenzialità umane. Non riusciamo ancora ad immaginare quanto le nostre più infime caratteristiche potrebbero espandersi se le vi-, cende umane fossero realmente affrontate in modo etico, ecologico e razionale. Per quanto ne sappiamo, invece, il mondo non umano conosciuto ha dei limiti insuperabili quanto a capacità di sopravvivere alle modificazioni ambientali. Se davvero, come credono molti biologi, il segreto del successo evolutivo risiede nell’adattamento alle modificazioni ambientali, allora gli insetti andrebbero posti ad un livello superiore a qualunque forma di mammifero... i quali insetti, peraltro, non sono in grado di formulare una così elevata valutazione di sé più di quanto un’ape regina possa anche solo vagamente essere conscia del proprio status «regale». Uno status, vorrei aggiungere, che solo gli esseri umani (che hanno dovuto sopportare l’imperio di re e regine stupidi, inetti e deboli) potrebbero attribuire ad un insetto praticamente privo di intelligenza. Nessuna di queste osservazioni ha lo scopo di contrapporre in senso metafisico la natura alla società, o viceversa. Anzi, esse intendono sostenere che ciò che unisce la società alla natura in un ininterrotto continuum evolutivo è la possibilità per gli esseri umani di incarnare la creatività della natura, vivendo in una società razionale e ecologicamente orientata, al di là di un criterio di successo evolutivo inteso in un senso puramente adattativo. Le grandi realizzazioni del pensiero umano, dell’arte, della scienza e della tecnologia non servono solo ad erigere monumenti all’evoluzione, dimostrano che l’apice della grande capacità creativa della natura è rappresentata da una forma di vita a sangue caldo, meravigliosamente versatile ed intelligente, e non da un insetto geneticamente programmato e privo di intelletto. Le forme di vita che si limitano ad adattarsi alle modificazioni ambientali sono un esempio di evoluzione incompleta, per quanto possa essere utile la loro presenza nell’ambito di un certo ecosistema. Le forme di vita che creano e modificano coscientemente il proprio ambiente, auspicabilmente con l’intento di renderlo più razionale ed ecologico, rappresentano invece il proseguire, ampio e certamente non definito, dell’evoluzione naturale, l’evoluzione verso una natura cosciente di sé, che nessun tipo di insetto potrebbe mai raggiungere. Per sua parte, la natura non è come un bel panorama da ammirare attraverso la finestra, uno spettacolo immobile come in

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una cartolina. Questo modo di concepire la natura può anche elevare lo spirito, ma è ecologicamente fuorviante, perché ci induce a dimenticare che la natura non è una rappresentazione statica del mondo naturale, ma la storia dell’evoluzione, lunga e comprensiva di tutti gli avvenimenti che l’hanno caratterizzata. Tale storia contiene tanto l’evoluzione della materia inorganica quanto quella della materia organica. In un campo, come in una foresta, o in vetta ad un monte, i nostri piedi poggiano su ere di sviluppo, strati geologici, fossili di forme di vita ormai estinte, resti in decomposizione di esseri morti di recente, e nuovi esseri che silenziosamente prendono vita. La natura non è una «persona», una «madre amorosa», e nemmeno, nel crudo lessico materialista dell’ultimo secolo, «materia e morte». Né un puro e semplice «processo» fatto di cicli che si ripetono come stagioni, un susseguirsi di attività metaboliche costruttive e distruttive, cpn buona pace di certe «filosofie del processo». Invece, la storia naturale è un evoluzione cumulativa verso forme e relazioni sempre più diverse, sempre più differenziate e complesse. Tale sviluppo evolutivo di esseri continuamente più variegati, cioè di nuové forme di vita, è anche uno sviluppo che contiene, latenti, eccitanti possibilità. La varietà, la differenziazione, la complessità, aprono alla natura, man mano che questa si espande, nuove direzioni per un ulteriore sviluppo e linee alternative di evoluzione. Man mano che gli animali divengono più complessi e consapevoli di sé, più intelligenti, cominciano a compiere quelle scelte elementari capaci di influenzare la loro stessa evoluzione. Sono sempre meno oggetti passivi della «selezione naturale» e sempre più soggetti attivi del proprio autosviluppo. La mutazione bianca di una lepre a mantello scuro che si accorge delle possibilità mimetiche offerte da un terreno coperto di neve, non si limita, semplicemente, ad «adattarsi» per sopravvivere, ma agisce in funzione della propria sopravvivenza. Non è solo l’ambiente che la «seleziona», ma anch’essa seleziona il proprio ambiente e compie una scelta che esprime una sia pur modesta capacità di giudizio e soggettività. Maggiore è la varietà degli habitat che emerge nel corso dell’evoluzione, maggiore è il ruolo attivo e ragionato che le forme di vita, specie quelle neurologicamente più complesse, svolgono nella propria sopravvivenza. Nella misura in cui l’evoluzione naturale segue questa via di sviluppo neurologico, essa da origine ad. esseri viventi dotati di una sempre maggiore capacità di scelta

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e libertà nel determinare il proprio sviluppo. Con questa concezione della natura, intesa come storia complessiva dei livelli via via più differenziati di organizzazione materiale (specialmente di forme di vita) e di crescente soggettività, l’ecologia sociale stabilita la base per comprendere l’umanità e dare un senso alla collocazione della società nell’evoluzione naturale. La storia naturale non è un fenomeno meramente casuale. È segnata da tendenze, da direzioni, e per quanto concerne gli umani da fini consapevolmente perseguiti. Gli esseri umani, con il mondo sociale da essi creato, possono allargare significativamente l’orizzonte dell’evoluzione naturale, trasformandolo in un orizzonte segnato dalla coscienza, dalla riflessione e da una libertà di scelta e creatività volontaria mai viste prima. I fattori che obbligano molti esseri viventi a ruoli in gran parte adattativi, nella trasformazione ambientale, potrebbero essere sostituiti dalla capacità di adattare coscientemente l’ambiente alle forme di vita esistenti o alle nuove che potrebbero svilupparsi. L'adattamento, in effetti, libera la creatività e introduce in misura crescente una componente di libertà nelle apparentemente ferree «leggi naturali». Ciò che uri tempo veniva definita come «cecità» della natura, alludendo alla mancanza in essa di ogni direttiva morale, si rivela oggi come «libertà» della natura, nella misura in cui questa, sia pur lentamente, trova la sua voce e i mezzi per alleviare le inutili sofferenze di tutte le specie in una umanità consapevole ed in una società ecologica. In ogni caso, perché abbia un qualche senso il «principio di Noè» avanzato dall’antiumanista David Ehren-feld (The Arrogance of Humanism), secondo il quale qualunque forma di vita esistente deve essere conservata per la semplice ragione che esiste, bisogna presupporre l’esistenza di un «Noè», cioè di una forma di vita cosciente (l’umanità) che si assume il compito di salvare specie che la natura avrebbe condannato all'estinzione durante qualche glaciazione, o desertificazione, o collisione con asteroidi. Orsi grizzly, lupi, puma ed altri animali del genere non sono al sicuro dall’estinzione soltanto perché lasciati nelle mani «amorose» di una presunta «Madre Natura». Se è vero che i grandi rettili del Mesozoico sono stati distrutti da modificazioni climatiche successive alla probabile collisione della Terra con un asteroide, la sopravvivenza dei mammiferi oggi esistenti potrebbe essere altrettanto precaria di fronte all’eventualità di una qualche

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calamità naturale, a meno che non vi sia una forma di vita consapevole, ecologicamente indirizzata, in possesso degli strumenti tecnologici idonei a salvarli. Non si tratta quindi di stabilire se l’evoluzione sociale sia, o meno, in contrasto con l’evoluzione naturale. Si tratta invece di stabilire come l’evoluzione sociale possa inserirsi nell’evoluzione naturale, e perché sia invece stata (senza motivo, vorrei dire) contrapposta all’evoluzione naturale a scapito della vita nel suo complesso. La capacità di essere razionali, o liberi, non garantisce che tale capacità debba automaticamente essere messa in atto. Se l’evoluzione sociale viene vista come l’occasione potenziale di aprire l’orizzonte dell’evoluzione naturale ad una creatività mai sperimentata prima, e se gli esseri umani vengono considerati come la via attraverso cui può realizzarsi la potenzialità della natura di essere libera e cosciente di sé, ciò che dobbiamo stabilire è perché tali potenzialità siano state tarpate e come possano essere nuovamente messe in atto. L’ecologia sociale ha fede (una fede assolutamente antitetica all’immagine «scenica» della natura) che tali potenzialità siano reali e possano essere realizzate. Il divario tra evoluzione naturale ed evoluzione sociale, tra vita umana e vita non umana, tra la natura considerata come «avara» e indocile, e un’umanità avida e distruttiva, tutto ciò è specioso e fuorviante se è visto come inevitabile. Né meno fuorvianti sono stati i tentativi riduzionisti di includere il sociale nell’evoluzione naturale, di seppellire la cultura nella natura in un’orgia di irrazionalismo e misticismo, di assimilare l’umano alla pura animalità, di imporre una presunta «legge naturale» ad una società umana sottomessa. Ciò che ha trasformato gli esseri umani in «alieni» nel mondo naturale sono le mutazioni sociali che hanno fatto di molti esseri umani degli «alieni» nel loro stesso mondo sociale: la dominazione del giovane da parte degli anziani, delle donne da parte degli uomini e degli uomini da parte di altri uomini. Ancor oggi, come nei secoli passati, esistono esseri umani che possiedono la società ed altri che da essa sono posseduti. Fintantoché la società non sarà restituita ad un’umanità indivisa capace di usare la sua saggezza collettiva, le sué conquiste culturali, le sue innovazioni tecnologiche, le sue conoscenze scientifiche, la sua creatività innata, a beneficio proprio e del mondo naturale, tutti i problemi

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ecologici avranno le proprie radici in problemi sociali.

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GERARCHIE, CLASSI, STATI

Fin qui, ho cercato di dimostrare che l’umanità con la sua capacità di pensare è un prodotto dell’evoluzione, non un «alieno» nel mondo naturale. In effetti, che gli esseri umani siano il risultato di una tendenza evolutiva verso una crescente differenziazione, complessità, coscienza di sé, è intuitivo. Come la maggior parte delle intuizioni, anche questa ha la sua base fattuale: le prove paleontologiche di tale tendenza, dai semplicissimi fossili unicellulari del passato più remoto ai resti di ben più complessi mammiferi appartenuti a tempi recenti, testimoniano lo svolgersi di un grande dramma biologico. Tale dramma è la storia di una natura che va acquistando nuova capacità di pensiero concettuale, fino a dar vita ad un tipo di primati, detti esseri umani, che hanno il potere di scegliere, modificare e ricostruire il proprio ambiente. Come ho già detto, la natura non è la scena immobile che osserviamo dalla cima di un monte. Definita con maggior precisione di quella possibile in un adesivo da appiccicare sull’auto, la natura è proprio la storia della sua differenziazione evolutiva, e se appunto la pensiamo come evoluzione possiamo discernere la tendenza verso la consapevolezza e la libertà che è insita in essa. Che questa tendenza provi l’esistenza di un «fine» predeterminato, una «volontà-guida», o un «Dio», è del tutto irrilevante ai fini della presente discussione. Ciò che conta è che tale tendenza può essere dimostrata, dall’esame dei fossili, dal fatto che le forme di vita esistenti derivano da quelle precedenti, dall’esistenza della stessa umanità. Inoltre, chiedersi quale sia il «posto» dell’umanità nella natura significa riconoscere implicitamente che la specie umana si è evoluta come forma di vita in grado di costruirsi un posto nel mondo naturale, non semplicemente di adattarsi ad esso. La specie umana col suo immenso potere di modificazione dell’ambiente non è stata «inventata» dagli ideologi «umanisti», che hanno deciso che la natura è stata «fatta» per servire l’umanità e i suoi bisogni come vorrebbero certi «ecologi»

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misantropi. Il potere dell’umanita è emerso da ere di evoluzione e da secoli di sviluppo culturale. Il problema del «posto» che tale specie ha in seno alla natura non è più un problema di zoologia, riguardante la sistemazione tassonomica dell’umanità nel contesto di tutte le forme di vita, come era ai tempi di Darwin. Il problema dell’«origine dell’uomo», per usare il titolo della grande opera darwiniana, è considerato dai pensatori odierni altrettanto importante che le immani capacità possedute dalla nostra specie. Chiedersi quale sia il «posto» dell’umanità nella natura, oggi, è un problema morale e sociale, e nessun altro animale è in grado di porselo, con buona pace di molti antiumanisti che amerebbero veder l’umanità divenire una specie tra le tante, tutte partecipanti ad una cosiddetta «democrazia della biosfera». Per gli esseri umani chiedersi quale sia il «loro» posto nella natura significa chiedersi se il potere dell’umanità possa essere messo al servizio di un’evoluzione futura o se, al contrario, debba essere usato per distruggere la biosfera. Il che non è senza conseguenze sul tipo di società (o «seconda natura») che gli esseri umani possono costituire: gerarchica, fondata sullo sfruttamento e sulla sopraffazione, oppure libera, egualitaria ed orientata in senso ecologico. Misconoscere la base sociale dei nostri problemi ecologici, celarla tra le maglie di mistiche primitivistiche e antirazionali- ste, equivale letteralmente ad arretrare il pensiero ecologico al livello primordiale di sentimenti da quattro soldi, usabili per i peggiori scopi reazionari. Ma se tener presente la società è fondamentale per poter comprendere il senso dei nostri problemi ecologici, non per questo essa può essere vista come l’immagine statica che osserviamo dai vertici di una torre accademica, dal balcone di un palazzo di governo o dalle finestre della sede di una grande multinazionale. Anche la società proviene dalla natura, come ho cercato di dimostrare dando conto della socializzazione umana e della riproduzione quotidiana di tale processo fino ai nostri giorni. Considerare la società come «aliena» rispetto alla natura rafforza quel dualismo tra il sociale e il naturale tanto diffuso nel pensiero moderno. Una concezione così antiumanistica serve ad aprire le porte esattamente a tutte le forze antiecologiche che contrappongono la società alla natura e pretendono di ridurre il mondo naturale ad una semplice riserva di risorse. Del pari, dissolvere la società nella natura individuando l’origine dei problemi sociali in fattori genetici, istintivi, irrazionali e mistici,

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equivale ad aprire le porte a tutte quelle forze primitivistiche portatrici di tendenze razziste, misantropiche e sessiste in campo femminile così come in campo maschile. Ben lungi dall’essere una scena immobile che permette agli elementi reazionari di identificare la società esistente con la società come tale (allo stesso modo che oppressi e oppressori vengono riuniti in una singola specie detta Homo sapiens e pariteticamente considerati come responsabili dell’attuale crisi ecologica), la società è invece la storia della sua evoluzione e delle sue molteplici forme e possibilità. Sul piano culturale siamo il prodotto della nostra storia sociale, così come sul piano fisico siamo il prodotto dell’evoluzione naturale. Portiamo con noi, spesso senza rendercene conto, una massa di convinzioni, abitudini, atteggiamenti e sentimenti che generano idee «regressive», tanto per ciò che riguarda la natura quanto per i rapporti tra gli umani. Sia della «natura umana» che della natura non umana abbiamo, spesso inesplicabilmente anche per noi stessi, un’immagine fissa, ed è tale immagine che sottilmente informa un gran numero dei nostri atteggiamenti verso gli appartenenti a questo o quel sesso, verso i giovani, verso i vecchi, verso i legami familiari e di parentela, verso l’autorità politica, per non parlare dei diversi gruppi etnici, ideologici, sociali. Immagini arcaiche di gerarchia presiedono tuttora alle nostre opinioni circa le più elementari differenze tra le persone e tra tutti gli esseri viventi. Il modo in cui le più semplici differenze tra fenomeni vengono ordinate gerarchicamente nella nostra mente, deriva da distinzioni socialmente ancestrali che risalgono ad un tempo troppo lontano perché possa essere ricordato. Tali distinzioni gerarchiche si sono sviluppate nel corso della storia, spesso prendendo origine da innocue differenze di status successivamente trasformate in assetti gerarchici veri e propri, in rapporti di dominazione e obbedienza. Conoscere il presente e costruire il futuro comporta una comprensione attenta e coerente del passato, un passato che ci condiziona in vario grado ed influenza profondamente le nostre idee dell’umanità e della natura. Il concetto di dominazione Allo scopo di sottolineare l’influenza che il passato esercita sul presente, non posso fare a meno di prendere in esame una delle

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posizioni fondamentali dell’ecologia sociale, oggi trasmessa all’attuale pensiero ambientalista. Mi riferisco al concetto, proprio dell’ecologia sociale, che tutte le nostre idee di dominio sulle natura derivano dal dominio reale dell’uomo sull’uomo. Tale concetto deve essere preso esattamente nel suo senso letterale. Non è solo una visione storica della condizione umana, è anche una sfida alla nostra condizione contemporanea, con implicazioni di grande portata per quanto concerne la trasformazione sociale. Sul piano storico, essa afferma senza equivoci di sorta che il dominio dell’uomo sull’uomo è venuto prima dell’idea di dominare la natura. È stato il dominio dell’uomo sull’uomo che ha dato origine all’idea stessa di dominio sulla natura, deliberatamente evito di usare un termine oggi assai di moda, e cioè che il dominio sulla natura «comporta» il dominio dell’uomo sull’uomo. L’uso di questo verbo mi sembra particolarmente repellente, perché confonde l’ordine secondo cui il dominio si è presentato nel mondo e quindi l’importanza della sua eliminazione per raggiungere una società libera. Gli uomini non hanno mai pensato di dominare la natura se non dopo aver cominciato a dominare le donne, i giovani e gli altri uomini. E finché non elimineremo la dominazione in tutte le sue forme non potremo creare realmente una società razionale ed ecologica. Gli scritti di molti progressisti, oltre che di Marx, ingenerano la convinzione che siano stati i tentativi di dominare la natura che hanno «condotto» al dominio dell’uomo sull’uomo, ma un simile «progetto» non è mai esistito negli annali di ciò che chiamiamo «Storia». Mai nella storia dell’umanità è accaduto che gli oppressi di qualunque periodo abbiano gioiosamente accettato la propria oppressione in virtù della convinzione che la loro miseria avrebbe consentito ai discendenti di qualche era futura di potersi finalmente liberare dal «dominio della natura». Contestare l’uso di termini come «comportare» o «condurre», come fa l’ecologia sociale, non è una pedanteria da Medio Evo. Al contrario, il modo in cui tali parole vengono usate è il risultato di differenze radicali nell’interpretazione della storia e dei problemi che ci stanno di fronte. La dominazione dell’uomo sull’uomo non è sorta perché qualcuno ha creato un «meccanismo» socialmente oppressivo (la struttura di classe marxiana, o la «megamacchina» umana concepita da Lewis Mumford, o qualunque altra costruzione) allo scopo di «liberarsi» dal «dominio della natura». E' stata proprio

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questa nauseabonda idea che ha originato il mito che il dominio sulla natura «richiede», «presuppone» o «comporta» il dominio dell’uomo sull'uomo. Tale mito fondamentalmente reazionario implica la concezione che le diverse forme di dominio, come le classi o lo Stato, abbiano la loro ragione d’essere in condizioni e necessità economiche, e che la libertà possa essere ottenuta solo dopo aver realizzato «il dominio sulla natura» con la costituzione conseguente di una società senza classi. Il problema della gerarchia, qui, scompare misteriosamente, perdendosi nell’incertezza di idee confuse, oppure viene fatto rientrare in quello dell’abolizione delle classi, come se una società senza classi sia necessariamente una società senza gerarchia. Se accettiamo la concezione di Engels, e in un certo senso anche di Marx, dobbiamo infatti ammettere che la gerarchia sia più o meno «inevitabile» in una società industriale, anche in regime di comunismo. Progressisti borghesi, conservata, e anche qualche socialista, si trovano sorprendentemente d’accordo nel ritenere, come ho già avuto occasione di notare, che la gerarchia è indispensabile per l’esistenza stessa della vita associata, in quanto infrastruttura dell’organizzazione e della stabilità di fessa. Sostenendo invece che la concezione del dominio sulla natura scaturisce dal dominio sugli esseri umani, l’ecologia sociale capovolge radicalmente l’equazione dell’oppressione umana e amplia enormemente il proprio orizzonte. Essa appunta la sua indagine sui sistemi istituzionali di coercizione, di comando/obbedienza, che sono venuti prima dell’emergere delle classi economiche, vale a dire che non sono necessariamente motivati solo sul piano economico. La «questione sociale» della disuguaglianza e dell’oppressione, va dunque al di là dello sfruttamento inteso in senso puramente economico, e tocca le forme culturali del dominio, presenti nella famiglia, tra le generazioni e i sessi, tra i gruppi di diversa etnia, in seno alle istituzioni politiche, sociali ed economiche, fino alla nostra percezione della realtà nel suo complesso, ivi compresa la natura e le forme di vita non-umane. In breve, l’ecologia sociale pone il problema del comando e dell'obbedienza a livello personale, sociale, storico e ricostruttivo, in un modo che comprende e contemporaneamente supera le anguste interpretazioni economiciste della «questione sociale», che oggi vanno per la maggiore. L’ecologia sociale spinge la

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«questione sociale» ben oltre i confini ristretti della giustizia, per entrare nel campo illimitato della libertà, al di là di una razionalità, di una scienza e di una tecnologia del dominio, verso una razionalità, una scienza e una tecnologia libertarie, al di là di un orizzonte di riforme sociali, verso un orizzonte di ricostruzione radicale della società. Le prime comunità umane Noi che viviamo nell’era presente siamo tuttora vittime della nostra storia recente. Il capitalismo moderno, il più peculiare ed anche il più dannoso assetto sociale mai emerso nel corso della storia umana, identifica il progresso nella competizione e nella rivalità più aspre; lo status sociale nell’accumulazione rapace ed illimitata di ricchezza; i valori della persona nella meschinità e nell’egoismo; vede nella produzione di merci, di beni specificamente destinati alla vendita e al profitto, la forza propulsiva di ogni sforzo economico ed artistico; vede nel profitto e nell’arricchimento la ragion d’essere della vita associata. Nessun’altra società nota ha reso tali fattori tanto centrali nella propria esistenza, o, peggio, li ha identificati con la «natura umana» come tale. Tutti i vizi che nel passato erano visti come apoteosi del male, sono stati trasformati in «virtù», ad opera della società capitalista. Questi attributi borghesi sono tanto radicati nella nostra vita quotidiana e nel nostro modo di pensare che ci risulta difficile capire come le società precapitaliste abbiano potuto fondarsi su di una concezione dei valori umani nettamente opposta. E' difficile per la mentalità moderna comprendere come le società precapitaliste identificassero l’optimum sociale con la cooperazione piuttosto che con la competizione, con la distribuzione piuttosto che con l’accumulazione, con l’interesse pubblico piuttosto che con il vantaggio privato; con l’offerta di doni piuttosto che con la vendita di merci; con l’aiuto reciproco piuttosto che con il profitto e la rivalità. Questi valori erano identificati come tipici di una natura umana incorrotta. In certi casi fanno tuttora parte di un appassionato processo di socializzazione che tende a dar vita a rapporti di interdipendenza, e non alla cosiddetta «indipendenza», aggressiva, egoista, che sarebbe meglio definire come «rozzo individualismo». Per capire da dove veniamo, socialmente parlando, e come è

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accaduto che siamo diventati quello che siamo, è necessario liberarci dell’attuale sistema di valori ed esaminare, sia pur sommariamente, un corpo di idee in grado di fornirci un’immagine chiara di una società più organica, o addirittura ecologica, emersa dal mondo naturale. In tale società organica, in larga misura preletterata o «tribale», la dominazione era praticamente assente, non soltanto per quanto riguarda l’assetto istituzionale, ma anche nel linguaggio. Stando ai risultati di analisi linguistiche condotte da antropologi come Dorothy Lee, in certe comunità indiane (i Wintu della costa pacifica, ad esempio) mancavano i verbi transitivi («avere», «prendere», «possedere», ecc.) che indicano potere sugli individui e sugli oggetti. Al loro posto, si usava dire che una madre «andava» con il suo bambino (e non che lo «portava»), che il capo «stava» col suo popolo, e in genere che la gente «viveva» con gli oggetti, e non che li possedeva. Per quanto tali comunità possano essere state diverse tra loro, è possibile identificare nel loro linguaggio e nel loro comportamento elementi che rimandano ad un unico corpo di idee, valori e modelli esistenziali. Come ha osservato Paul Radin uno dei più valenti antropologi americani, era presente tra gli individui un fondamentale senso di rispetto e attenzione reciproca per la necessità materiali altrui, che Radin definisce il principio del «minimo irriducibile». Ognuno aveva diritto ad accedere ai mezzi di sussistenza, indipendentemente dall’entità del contributo produttivo fornito. Il diritto di vivere non era messo in discussione, cosicché concetti come «uguaglianza» erano privi di significato, in quanto le disuguaglianze che affliggono noi tutti, dal peso degli anni a quello delle malattie, venivano compensate dalla comunità. Le prime concezioni di «uguaglianza» formale, secondo cui siamo tutti ugualmente liberi di morire di fame o di abbandono, non erano ancora arrivate a sostituire l’uguaglianza sostanziale, secondo cui anche coloro che erano meno capaci di una completa attitudine produttiva venivano forniti in misura ragionevole del necessario a vivere. Secondo quanto ci dice Dorothy Lee in Freedom and Culture, l’uguaglianza esisteva «nell’intima natura delle cose, come effetto della struttura democratica della cultura, non come un principio che doveva essere applicato». In queste società organiche non c’era nessun reale bisogno di «ottenere» l’uguaglianza, in quanto esisteva in esse «un rispetto assoluto per

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gli esseri umani, per ciascun individuo, indipendentemente dalla sua età e dal suo sesso». L’interpretazione della Lee non poteva non essere recepita da Radin, che ha vissuto per decenni tra gli indiani Winnebago, godendo della loro totale confidenza. «Se dovessi descrivere brevemente le principali caratteristiche della civiltà aborigena, non avrei esitazipone a dichiarare che sono tre: il rispetto per l’individuo, Indipendentemente dall’età e dal sesso, l'impressionante livello di integrazione sociale e politica, l’esistenza di_ una sicurezza personale che trascende qualunque fornai di governo ed ogni tipo di interesse, o conflitto, tribale o di gruppo» (The World of Primitive Man). Il rispetto per l’individuo, che Radin pone al primo posto nell'elenco degli attributi aborigeni, merita particolare attenzione oggi, in un’epoca dove da una parte il collettivo viene identificato con la negazione dell'individualità, e dall'altra un'orgia di puro egoismo ha creato individui isolati e atomizzati privi di alcun limite al proprio ego. Una collettività forte può essere favorevole all’individuo, come sembrano dimostrare certi studi recenti sulle società aborigene, assai più di una società di «libero mercato» composta di esseri egoisti ed aridi. Non meno meraviglioso dell’uguaglianza sostanziale raggiunta da molte società organiche è il modo in cui l’armonia comunitaria veniva proiettata verso il mondo naturale nel suo complesso. Così come la società era organizzata senza strutture gerarchiche, anche la natura era concepita in modo nettamente non gerarchico. Le testimonianze di molte cerimonie delle comunità di cacciatori e orticoltori, indicano chiaramente che i partecipanti consideravano se stessi come membri di un più ampio mondo vitale. Le danze tendevano più a rappresentare la natura, specialmente gli animali, che ad esprimere la volontà di sottometterla, fosse la selvaggina o fenomeni atmosferici come la pioggia. La magia, definita nel secolo scorso «la scienza dell’uomo primitivo», aveva un duplice aspetto. Da una parte le veniva attribuito un ruolo che può essere inteso come «coercitivo», nel senso che un determinato rituale doveva necessariamente produrre un determinato effetto, così come oggi accade per la chimica. Ma esistevano anche rituali, specialmente di gruppo, che probabilmente hanno preceduto le più note attività magiche di causa-effetto ed avevano un carattere persuasivo, più che coercitivo. La vita selvaggia era vista come in un rapporto di «dare-avere», secondo il quale la selvaggina si

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concedeva al cacciatore in quanto parte del gran ciclo dell’esistenza, basato sulla propiziazione, sul rispetto e sul reciproco bisogno. L’umanità entrava in questo ciclo non meno che gli animali, e le forme di vita umane e non umane erano viste come legate da bisogno reciproco, più che da rapporti di conflitto, ed in questo senso concedevano se stesse le une alle altre.

Questo fortissimo senso di complementarità, riscontrabile nei rituali, sembra riflettere un senso di uguaglianza dove le differenze erano considerate parte di un tutto naturale, e non di una piramide strutturata geràrchicamente. Il tentativo della società organica di porre sullo stesso piano la vita umana e quella non umana, di vedere l’una come partner complementare dell’altra, ha prodotto una concezione della differenza altamente ugualitaria. Secondo tale concezione, un’entità differente non è né migliore né peggiore delle altre entità: l’insieme della differenziazione determina una maggiore ricchezza del tutto, non la superiorità di una parte sulle altre. Ciascu- na entità è complementare alle altre, cosicché un maschio e una femmina, per quanto diversi fisicamente e funzionalmente, apportano particolari attitudini alla comunità arricchendola culturalmente e materialmente. In tale mondo di uguaglianza sostanziale, la terra e le altre risorse che la nostra società definisce come «proprietà», erano disponibili a chiunque ne avesse bisogno. Ma in linea di principio non potevano essere oggetto di «possesso» personale e tanto meno di «proprietà». Quindi, a quanto sembra, le società organiche preletterate erano fondate, oltre che sul principio del «minimo irriducibile», sull’uguaglianza sostanziale, sull’arte della persuasione e su di una concezione della diversità vista come complementarità, anche sull’usufrutto. Gli oggetti erano disponibili alle persone e alle famiglie di una certa comunità in quanto necessari e non perché posseduti o creati dal lavoro del possessore. L’uguagliànza sostanziale delle comunità organiche preletterate non era soltanto il prodotto di strutture istituzionali o di costumi ancestrali. Faceva parte della sensibilità stessa dell’individuo, del modo con cui percepiva le differenze, gli altri esseri umani, la vita non umana, gli oggetti materiali, la terra e le foreste, insomma il mondo naturale nel suo complesso. La natura e la società, così

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nettamente separate nella nostra società, e nel nostro modo di pensare, nelle società organiche sfumavano gradualmente l'una e nell’altra, e venivano percepite come un continuum di interazioni ed esperienze quotidiane. E' inutile far notare che se l'umanità non «dominava» la natura, nemmeno la natura «dominava» l’umanità. A1 contrario, la natura era vista come una feconda sorgente di vita, un genitore benevolo e provvido, non un padrone «avaro» che deve essere costretto a cedere i mezzi di sostentamento ed i segreti che cela in sé. E' difficile capire completamente l’uguaglianza sostanziale esistente nelle società organiche, se non si riconosce che di quella visione egualitaria faceva parte anche la natura. Una concezione della natura come «avara» avrebbe invece prodotto delle comunità «avare» a loro volta, composte di esseri umani egoisti. Tale natura non era affatto l’entità quasi senza vita che oggi è diventata, oggetto di ricerche di laboratorio e «materia» di manipolazione tecnica. Era costituita di animali selvaggi che, secondo la mentalità aborigena, erano anch’essi organizzati secondo linee di parentela come i clan umani; era costituita di foreste, viste come luoghi capaci di offrire protezione; di forze cosmiche come venti, piogge torrenziali, il sole ardente, la luna benigna. La natura permeava letteralmente la comunità non solo in quanto ambiente provvidenziale, ma soprattutto come una linfa parentale che teneva uniti tra loro individui e generazioni. La reciproca lealtà di parentela in forma di vincolo di sangue (un vincolo in cui il senso del dovere nei confronti dei propri parenti comporta la vendetta contro chi reca loro offesa) era la fonte organica della continuità comunitaria. Per quanto questa fonte possa essere poi divenuta fittizia, specialmente in tempi più recenti dove la parola «parentela» è diventata un debole surrogato dei veri legami di sangue, non c’è ragione di dubitare della sua rilevanza al fine di stabilire il posto di ognuno in seno alle antiche comunità umane. Era l'affiliazione in funzione del sangue, determinata dal fatto di avere in comune sia gli avi sia i discendenti, che stabiliva se un individuo poteva essere accettato come parte di un gruppo, chi poteva sposare, le sue responsabilità verso gli altri nonché quelle degli altri nei suoi confronti, insomma l’intero assetto di diritti e doveri reciproci dei membri di una determinata comunità. Era grazie alla realtà biologica di questi vincoli di sangue che la natura penetrava nelle istituzioni fonda- mentali della società

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preletterata. La continuità dei vincoli di sangue era uno strumento atto a definire, letteralmente, l’associazione sociale e la stessa identità individuale. Che uno appartenesse o no ad un certo gruppo e quali dovessero essere le sue relazioni con gli altri era determinato, almeno a livello giuridico, dalla sua situazione genealogica. Ma c’era anche un altro fatto biologico che definiva la posizione delle persone in seno alla comunità: l’appartenenza al sesso maschile o femminile. A differenza dei vincoli di parentela! che erano destinati ad attenuarsi lentamente man mano che altre istituzioni di tipo non biologico, come lo Stato, andavano a sostituirsi gradualmente alla genealogia e alla paternità, la strutturazione sessuale della società è rimasta fino ad oggi, pur subendo modificazioni a causa dell’evoluzione sociale. Infine, c’era un elemento biologico che interveniva a definire gli individui in quanto membri di un gruppo, l’età. Come vedremo in seguito, i primi esempi di condizione fondata su differenze biologiche sono stati principalmente i gruppi d’età cui appartenevano i diversi individui, e le cerimonie che legittimavano la posizione di ciascuno da tale punto di vista. La parentela stabiliva il fatto fondamentale che l’individuo aveva una certa ascendenza in comune con i membri di una certa comunità. Definiva i diritti e le responsabilità degli appartenenti ad un medesimo lignaggio, diritti e responsabilità da cui derivava chi ciascuno poteva sposare in seno ad un certo gruppo genealogico, chi doveva essere aiutato e sostenuto di fronte alle normali necessità dell’esistenza, a chi poteva essere richiesto aiuto nell’eventualità di questa o quella difficoltà. Il lignaggio definiva, nel senso letterale del termine, l’individuo e il gruppo, così come la pelle segna il limite che separa una persona dall’altra. Le differenze di sesso, anch’esse biologiche all’origine, definivano il tipo di lavoro svolto da ciascuno nella comunità e il ruolo di ciascun genitore nell’allevamento dei figli. In genere, le donne raccoglievano il cibo e lo preparavano; gli uomini cacciavano e svolgevano una funzione protettiva verso la comunità nel suo complesso. Siffatti compiti fondamentalmente diversi hanno dato anche origine alle culture di solidarietà femminile, nelle quali le donne costituivano delle associazioni, a volte informali a volte strutturate, con cerimonie e divinità diverse da quelle degli uomini, che avevano una cultura propria.

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Comunque, nessuna di queste differenze di genere (e lo stesso può dirsi di quelle genealogiche) inizialmente conferiva posizioni di comando ad un certo gruppo sessuale né obbligava un altro all’obbedienza. Le donne avevano il pieno controllo del mondo domestico: la casa, il focolare di famiglia, la preparazione dei mezzi di sostentamento più immediati, come le pelli e il cibo. Spesso, la donna costruiva il proprio riparo, se era abbastanza piccolo, e tendeva ad avere orti propri, man mano che la società si evolveva verso un’economia orticola. A loro volta, gli uomini si occupavano di quelli che potremmo chiamare gli affari «civili», cioè l’amministrazione della «politica» comunitaria, sia pur ancora embrionale, come le relazioni tra le diverse bande, clan, tribù, e i casi di ostilità con altre comunità. Come vedremo, tali affari «civili» sarebbero poi divenuti assai complicati, in seguito ai conflitti intercomunitari provocati dagli spostamenti di popolazione. E così che in seno alle prime comunità hanno cominciato ad emergere associazioni di guerrieri, che finivano per specializzarsi nella caccia ad altri uomini, oltre che agli animali. , Sta di fatto, ad ogni modo, che nei primi momenti dello sviluppo sociale la cultura maschile e quella femminile erano complementari e contribuivano insieme alla stabilità sociale, oltre che provvedere al sostentamento della comunità nel suo insieme. Le due culture non erano in conflitto reciproco. Non appare credibile che una comunità umana primigenia avrebbe potuto sopravvivere se la cultura di uno dei due generi avesse tentato di esercitare un qualche predominio sull’altra, men che mai se si fosse messa in posizione antagonistica. La stabilità della comunità richiedeva il mantenimento di un equilibrio tra elementi potenzialmente ostili, affinché la comunità stessa potesse sopravviverè in un ambiente particolarmente precario. Oggi, se crediamo di poter individuare, a posteriori, un ruolo di comando degli uomini sulle donne delle comunità preletterate in virtù del loro monopolio degli affari «civili», è perché tali affari hanno assunto una enorme importanza presso di noi. Dimentichiamo che le prime comunità umane erano vere società domestiche, organizzate soprattutto intorno al lavoro delle donne, ed erano spesso influenzate fortemente, a livello sia reale che immaginario, dal mondo femminile. I gruppi di età, invece, hanno avuto implicazioni sociali più ambigue. Dal punto di vista fisico, i vecchi della comunità erano le persone più deboli, dipendenti, e

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anche più vulnerabili nei periodi diffìcili. In certe occasioni nelle quali l’esistenza della comunità era minacciata, erano quelli dai quali ci si aspettava che rinunciassero per primi alla vita. Erano quindi i membri più insicuri, psicologicamente oltre che fisicamente. Nello stesso tempo, però, i vecchi della comunità erano i depositari viventi delle tradizioni, delle conoscenze, dell’esperienza collettiva. In un mondo privo di linguaggio scritto, erano i custodi della cultura comunitaria, coloro che ne difendevano l’identità e la storia. Questa doppia posizione, di estrema vulnerabilità personale da una parte e di rappresentazione della tradizione comunitaria dall’altra, può aver dato origine ad una tensione che li ha spinti a migliorare il proprio status, circondandolo di un’aureola quasi religiosa, cioè di un potere sociale (di questo appunto si trattava) capace di renderli più sicuri man mano che la forza fisica veniva loro a mancare. Gerarchie e classi La logica, unita ad un buon numero di dati antropologici a nostra disposizione, suggerisce che la gerarchia sia scaturita dal prestigio degli anziani, che appaiono essere stati coloro che hanno dato avvio ai primi sistemi istituzionalizzati di comando e obbedienza. Tale gerontocrazia includeva anche le donne anziane, oltre che gli uomini. Praticamente in tutte le società esistenti, fino ai nostri giorni, si trovano tracce del ruolo fondamentale che essa ha svolto, nella forma di consigli degli anziani via via adattatisi a modelli di clan, di tribù, di città o di Stato, oppure in quella di manifestazioni culturali, come il culto degli antenati o le norme della buona educazione che prescrivono la deferenza verso i vecchi, in molte società diverse. Né il sorgere di un potere sociale maschile ha necessariamente significato la rimozione delle donne anziane dalla posizione di privilegio che avevano agli albori di tutte le gerarchie. A figure bibliche come Sara era riconosciuta grande autorità e prestigio pubblico, oltre che negli affari domestici, anche nella famiglia patriarcale e poligamica dei beduini ebrei. In realtà, Sara non è un personaggio atipico nel mondo delle famiglie esplicitamente patriarcali; in molte società tradizionali accade che le donne che hanno superato l’età di mettere al mondo figli acquistino lo status di ciò che viene definita una «matriarca», dotata di enorme influenza in seno alla comunità, superiore a volte a quella degli

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anziani maschi. Eppure, anche la gerontocrazia primigenia possedeva tratti ugualitari. Se una persona viveva abbastanza, poteva diventare «anziana» solo nel senso onorifico del termine, oppure poteva diventare un «patriarca» (o una «matriarca») dominante. In queste forme antiche, la gerarchia non era così rigida dal punto di vista strutturale, a causa di una sorta di «mobilità dal basso all’alto», di tipo biologico. La sua esistenza non era ancora antitetica allo spirito ugualitario delle prime società comunitarie. La situazione cambia, comunque, quando gli elementi biologici che inizialmente tengono in piedi la vita comunitaria diventano sempre più sociali, vale a dire man mano che la società funziona sempre più secondo una sua logica, trasformando forma e contenuto delle relazioni che si instaurano in seno ai gruppi e tra essi. E' importante notare che gli elementi biologici presenti nelle relazioni di sangue, nelle differenze di genere, nei gruppi di età, non scompaiono, una volta che la società comincia a generare le sue proprie forze di sviluppo endogeno. La natura continua ad essere presente in molti di tali mutamenti sociali. Ma la dimensione naturale della società viene modificata, complicata, alterata, dalla socializzazione degli elementi biologici, pur presenti nella vita sociale di tutti i tempi. Prendiamo in considerazione uno dei principali cambiamenti prodottisi nelle prime società, che avrebbe profondamente influenzato l’evoluzione sociale: l’incremento dell’autorità maschile sulle donne. È fuor di dubbio che la supremazia gerarchica dei maschi è stata il principale e comunque il più inflessibile sistema gerarchico intervenuto a corrodere le strutture ugualitarie della società umana primigenia. Probabilmente, però, la gerontocrazia è venuta prima della «patricentricità», dell'inclinazione sociale verso i valori maschili, fino alle forme più esasperate di gerarchia «patriarcale». In effetti, quelli che vengono definiti come tipi biblici di patriarcato non sono che modificazioni patricentriche della gerontocrazia, in cui tutti i membri giovani della famiglia, maschi o femmine che siano, sono totalmente sottomessi aH’imperio assoluto del maschio più vecchio, e spesso anche della sua anziana consorte, la cosiddetta «matriarca». Che i maschi giungano a detenere per nascita uno status speciale nei confronti delle femmine è ovviamente un fatto sociale. Ma poggia anche su elementi biologici rielaborati per particolari scopi sociali. I maschi sono fisicamente più grossi, più muscolosi,

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e normalmente possiedono più emoglobina delle femmine (nell’ambito dello stesso gruppo etnico); non si può fare a meno di aggiungere che producono anche quantitativi significativamente maggiori di testosterone, un ormone che non solo stimola la sintesi delle proteine e produce una muscolatura più sviluppata, ma sta anche alla base di quelle manifestazioni comportamentali che associamo con un grado elevato di dinamismo fisico. Negare tali adattamenti evolutivi, che hanno dato ai maschi una maggiore attitudine atletica alla caccia degli animali prima, e poi degli altri uomini, invocando questa o quella eccezione individuale alle caratteristiche maschili significa, né più né meno, voler ignorare un importante dato di fatto biologico. Nessuno di tali fattori, tuttavia, comporta di necessità la subordinazione delle donne agli uomini. Né è verosimile che l’abbia determinata. E' certo che il predominio maschile non aveva alcuna funzione quando il ruolo delle donne era tanto fondamentale per la stabilità delle prime comunità umane. Qualunque tentativo di istituzionalizzare la subordinazione delle donne, stante la ricchezza del loro mondo culturale ed il ruolo decisivo che svolgevano nel sostentamento della comunità, sarebbe stato quanto mai pernicioso per l’armonia interna del gruppo. In effetti, l’idea stessa di dominazione, per non parlare di quella di gerarchia, era totalmente estranea alle prime comunità che si erano socializzate intorno ai valori del minimo irriducibile, della complementarità, dell’uguaglianza sostanziale e dell’usufrutto. Questi valori non erano semplice- mente un credo morale: erano parte di una sensibilità generale nella quale rientrava tanto il mondo umano quanto quello non umano. Eppure sappiamo che gli uomini sono arrivati a dominare le donne e a considerare preminente la propria cultura «civile» rispetto alla cultura «domestica» femminile. Il fatto che ciò sia accaduto in modo sfumato, indistinto, non ha ricevuto l’attenzione che meriterebbe. Le due culture, quella maschile e quella femminile, hanno continuato ad essere notevolmente distanti l’una dall’altra per lungo tempo, anche perché quella maschile sembrava orientarsi verso il «fronte» sociale pratica- mente in tutti i campi di attività. Gli affari di tipo «civile», patrimonio dei maschi, a poco a poco hanno acquisito maggior rilevanza rispetto a quelli «domestici» pur senza subordinarli totalmente. Esistono molte cerimonie, nelle società tribali, dove le donne sembrano concedere agli uomini poteri che essi in realtà non hanno, come il rituale

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dell’attribuzione delle capacità di dare la vita. Ma man mano che la società «civile» diventava più problematica a causa di invasioni dall’esterno, conflitti tra comunità, e poi guerre vere e proprie, il mondo maschile diventava sempre più assertivo e agonistico, e queste caratteristiche inducono alcuni antropologi maschi ad attribuire alla sfera «civile» una maggior rilevanza, nella propria letteratura, specialmente quando non possono giovarsi di contatti significativi con donne di qualche comunità preletterata. Il fatto che il più delle volte le donne schernissero la bellicosità maschile e vivessero praticamente per proprio conto in rapporti personali assai stretti, è ritenuto tutt’al più meritevole di un accenno a pié di pagina nella maggior parte dei resoconti. La «capanna degli uomini» è apparsa così come la contrapposizione attiva della casa delle donne, e l’intensa vita sociale e familiare che qui si svolgeva, con l’allevamento dei figli e la preparazione del cibo, è stata quasi dimenticata dagli antropologi maschi, nonostante avesse un peso psicologico determinante per tutti gli accigliati guerrieri della comunità. In effetti, la solidarietà femminile ha continuato a mantenere una sua eccezionale vitalità anche molto tempo dopo il sorgere delle società urbane. Ma le discussioni femminili vengono disprezzate come «pettegolezzi» e il loro lavoro definito «servile», anche nelle società euroamericane. Per ironia della sorte, la degradazione delle donne, fino ad allora sempre variabile e incostante, fa la sua apparizione quando i maschi cominciano a dar vita a gerarchie tra loro stessi, come ha efficacemente dimostrato Janet Biehl nel suo splendido lavoro sulla gerarchia (What is Social Eco-Feminism, in «Green Perspectives»). Con l’aumentare dei conflitti tra comunità, con l’instaurarsi di stati di guerra sistematica e violenza istituzionalizzata, i problemi «civili» finiscono per diventare cronici. Richiedono sempre maggiori energie, maggiore mobilità degli uomini, imponendo un maggior impegno al settore di competenza femminile per le necessarie risorse materiali. Dalla pelle dell’abile cacciatore emerge così una creatura di nuovo tipo, l’«uomo forte», il «grande guerriero». Lentamente, ogni settore della società preletterata viene rimodellato in funzione del mantenimento di queste «superiori» funzioni «civili». Il vincolo di sangue è gradualmente sostituito da impegni di fedeltà verso i «compagni» di guerra, che potevano appartenere a clan diversi attraversando così i lignaggi tradizionali e la loro sacralità. E

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compaiono gli «uomini inferiori», obbligati a fabbricare le armi del grande guerriero, ad occuparsi del suo sostentamento, a costruire e abbellire le sue abitazioni, ed infine erigere le sue fortificazioni e tramandare ai posteri le sue imprese, costruendo imponenti monumenti funebri e splendidi palazzi. Anche il mondo femminile, con la sua riservatezza, viene rimodellato, in modo da poter fornire al grande guerriero giovani soldati o abili servi, vestiti di cui adomarsi, concubine con cui trastullarsi e, con lo sviluppo delle aristocrazie femminili, eredi cui affidare il proprio nome nel futuro. E compaiono tutti quegli atteggiamenti di plauso alla sua grandezza che sono comunemente considerati segni di debolezza femminile, dando rilevanza e predominio ad un assetto, culturale centrato sulla forza fisica maschile. L’ossequio verso i capi maschi, i guerrieri, i re, non era una condizione imposta dai guerrieri solo alle donne. A fianco della donna sottomessa sta l’immagine costante dell’uomo sottomesso, sulla cui schiena poggia iI piede arrogante del monarca o del capitalista prevaricatore. Lav sottomissione dell’uomo all’uomo cominciava già all’interno della «capanna degli uomini», dove ragazzi spaventati e inesperti erano costretti a sopportare le beffe dei maschi adulti, oppure quando «uomini piccoli» erano disprezzati per i compiti loro affidati, «inferiori» rispetto a quelli degli «uomini grandi». La gerarchia, nel suo tentativo di metter fuori la testa attraverso la gerontocrazia, non è comparsa da un momento all’altro, nella preistoria. Si è invece conquistata spazio lentamente, con cautela, senza farsi notare, crescendo in modo quasi metabolico man mano che i «grandi» dominavano i «piccoli», i guerrieri e i loro compagni dominavano i loro seguaci, i capi dominavano le comunità, e infine i nobili dominavano i contadini e i servi. Parallelamente, la sfera «civile» dei maschi ha cominciato a prevalere lentamente su quella «domestica» delle donne. Gradualmente, il mondo femminile è stato posto sempre più al servizio di quello maschile. E la solidarietà femminile, ben lungi dallo scomparire, è divenuta più nascosta, assumendo l’aspetto di una confidenza che le donne si scambiavano dietro le spalle degli uomini, celandosi al cospetto delle nuove relazioni «civili» create dai maschi. Pertanto, nelle relazioni tra generi come in quelle tra maschi, il

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passaggio dall’egualitarismo sessuale delle prime società preletterate alla «priorità» maschile non è stato improvviso. Come ha rilevato la Biehl, è impossibile separare la dominazione delle donne ad opera degli uomini dalla dominazione degli uomini ad opera di altri uomini. I due tipi di dominazione hanno sempre interagito dialetticamente, reciprocamente rafforzandosi con atteggiamenti di comando e obbedienza che hanno pian piano permeato l’intera società, producendo anche gerarchie tra le donne, sia pur di natura meno stabile. Al livello più basso di ogni scala sociale stava sempre lo straniero immigrato (maschio o femmina che fosse) e i prigionieri di guerra, che in seguito a mutamenti di ordine economico, sono poi andati a costituire la popolazione degli schiavi. La transizione da una società fondamentalmente «domestica» ad una fondamentalmente «civile» è stata condizionata da molti fattori non facilmente percettibili, ma comunque di grande importanza. Molto tempo prima che la dominazione fosse istituzionalizzata, la gerontocrazia aveva già dato luogo ad una mentalità strutturata intorno al concetto che i più vecchi dovessero comandare e i più giovani fossero obbligati ad obbedire. Tale mentalità andava ben oltre la cura e l’attenzione indispensabili perché i più giovani venissero istruiti nell’arte di sopravvivere. In molte comunità preletterate^gli anziani acquisivano potere decisionale occupandosi della celebrazione dei matrimoni, dèlie cerimonie di gruppo, delle dichiarazioni di guerra o dèi litigi tra persone e clan. Siffatta mentalità (o condizionamento, se preferite) era già una presenza preoccupante che faceva presagire la comparsa di inconvenienti anche più gravi man mano che la gerarchla andava estendendosi nella società. In queste prime società la gerarchia veniva anche rafforzata dagli sciamani e in seguito da gilde sciamaniche che acquisivano prestigio e privilegi grazie al loro monopolio delle pratiche magiche. Che fossero, o no, la «scienza dell’uomo primitivo», le arti sciamaniche erano comunque assai ingenue nel migliore dei casi e fraudolente nel peggiore, il che era l’eventualità più frequente, con buona pace di certi culti del giorno d’oggi e di tanta letteratura a buon mercato sull’argomento. Il ripetersi di insuccessi nell’uso delle tecniche magiche poteva risultare fatale, e non solo all’ammalato o alla comunità in crisi. Poteva essere

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pericoloso allo sciamano stesso, il quale poteva anche finire infilzato su di una lancia, invece che semplicemente cacciato in esilio. Pertanto, come fa notare Paul Radin nel suo eccellente lavoro sugli stregoni dell’Africa occidentale, le gilde sciamaniche erano sempre alla ricerca di alleati influenti che ne proteggessero i membri dall’ira popolare o dall’incredulità. Questi alleati potevano essere anziani che cercavano così di compensare il senso di insicurezza risultante dal decadere delle loro energie, o capi in ascesa alla ricerca di legittimazione ideologica dal mondo degli spiriti. Un ulteriore affinamento della gerarchia è venuto quando dallo status relativamente semplice di «uomo forte», il cui prestigio dipendeva principalmente dai doni che poteva distribuire grazie all’abilità nella caccia, si è passati a quello di capo ereditario. Assistiamo qui alla trasformazione dell’«uomo forte», che per guadagnarsi l’ammirazione pubblica deve continuamente compiere azioni valorose di tutti i tipi, in un consigliere avveduto che riceve rispetto pur senza aver alcuna prerogativa di potere, fino a diventare una figura quasi regale che incute timore, per l’impressionante entourage di «compagni» armati che gli stanno attorno oppure grazie ad uno status di semidio dotato di poteri soprannaturali, o entrambe le cose. Questa lenta evoluzione dell’«uomo forte» verso una speciedi autocrate è stata innescata dal determinarsi di profonde alterazioni nella rilevanza attribuita al vincolo di sangue. Se non vengono stravolti, i legami di parentela sono straordinariamente ugualitari. Evocano un senso immediato di lealtà, di responsabilità, di mutuo rispetto e appoggio. Essi si fondano sulla forza morale di un comune senso della stirpe, sulla convinzione che siamo tutti «fratelli» e «sorelle» (per quanto tali legami ancestrali possano risultate fittizi nella realtà) e non sulla base di interessi materiali, potere, paura o coercizione. L'«uomo forte» prima, poi il capo e infine l’autocrate, minano alla base tale legame fondamentalmente ugualitario. Ciò avviene, ad esempio, attraverso l’asserzione della supremazia di una certa linea di parentela sulle altre, nel qual caso è un clan intero che acquisisce uno status regale o dinastico, di fronte agli altri clan della comunità. Oppure può accadere che il singolo individuo abbandoni i propri parenti e chiami a sé un gruppo di «compagni», siano essi guerrieri, servi, o simili, scelti

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unicamente in funzione della loro abilità o della loro fedeltà, senza alcuna considerazione per i legami di sangue. Quello che si mette in moto è un processo corrosivo. Di nuovo viene creato un nuovo tipo di «persona»: una persona che non appartiene alla genealogia dell’«uomo forte» e nemmeno alla comunità. Come i mercenari del Rinascimento, costui forma con i suoi «compagni» una «compagnia» di tipo militare, priva di tradizioni o legami di fedeltà sociale. Siffatte «compagnie» potevano facilmente essere usate contro la comunità o trasformate in una monarchia e aristocrazia oppressive. Nella famosa epica sumera, Gilgamesh adotta lo straniero Enkidu come suo «compagno», compromettendo così l’integrità di tutto il sistema di parentele che teneva unita la società e quindi la complessa rete di relazioni che da esso derivava, fondamentale per la conservazione dei valori ugualitari della società preletterata. Ciò che intendo mettere in evidenza, qui, è come la differenziazione gerarchica abbia rimodellato le rèlazioni esistenti nelle società primigenie, dando origine ad un sistema di status, assai prima che emergessero le relazioni strettamente economiche che stanno alla base di quelle che noi definiamo «classi». Lo status legato all'età si è mescolato con le modificazioni di quello legato al genere; la società «domestica» è stata posta al servìzio di quella «civile»; le gilde sciamaniche si sono intrecciate con le gerontocrazie e i gruppi guerrieri; e questi ultimi hanno rielaborato i legami di parentela, finendo col ridurre le comunità tribali fondate sul sangue in comunità territoriali fondate invece sulla residenza, composte di contadini, servi e schiavi. Il nostro mondo moderno non è che l’erede di quest’opera di rimodellamento e differenziazione dell’umanità, che si è sviluppata, assai prima del sorgere delle classi, in gerarchie dove le classi sono state, per così dire, tenute in incubazione. Queste gerarchie costituiscono ancor oggi il terreno fertile su cui crescono le prevaricazioni attuate dai gruppi di età, dagli uomini sulle donne e dagli uomini su altri uomini, insomma il terreno che produce quel vasto panorama di dominazione che dà origine a sua volta allo sfruttamento soprattutto economico, fondato sulle classi. Solo più tardi questo immenso sistema di dominazione sociale ha prodotto la concezione che la natura doveva essere dominata dall’«umanità». Nessuna società ecologica, per quanto i suoi ideali possano essere comunitari o pacifici, è in grado di rimuovere

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questo obiettivo finale di dominare il móndo naturale, se non riesce ad eliminare radicalmente la dominazione dell’uomo sull’uomo, e quindi l’intera struttura gerarchica della società, nella quale risiede il principio stesso della dominazione. Una tale società ecologica deve riuscire a liberarsi dello strato di gerarchia che la ricopre, che incrosta le relazioni familiari fra generazioni e generi, chiese e scuole, amici e amanti, sfruttati e sfruttatori, insomma il modo stesso di concepire il mondo nel suo complesso. Come recuperare e anche superare il mondo non gerarchico che un tempo costituiva la società umana, con i suoi valori tipici (il minimo irriducibile, la complementarità e l’usufrutto), sarà oggetto della parte finale di questo libro. Per il momento, è sufficiente ricordare che l’ecologia sociale ha fondato sulla capacità di comprendere la gerarchia (la sua origine, i suoi scopi, le sue conseguenze) il proprio messaggio di una società razionale, liberatoria, ecologica. A rischio di ripetermi, voglio sottolineare che il termine «gerarchia» deve essere considerato rigorosamente in senso sociale. Estenderlo a tutte le forme di coercizione significa fondare tutti i sistemi istituzionalizzati e organizzati di comando e obbedienza nella «natura» e ammantarli di un alone di eternità che si ritrova soltanto nella programmazione genetica degli insetti cosiddetti «sociali». In realtà, abbiamo assai più da imparare dalla storia dei nostri monarchi umani che non da quella delle «regine» che si trovano negli alveari. Personaggi come Luigi XVI di Francia o Nicola II di Russia, ad esempio, non sono diventati autocrati grazie ad un físico o una personalità geneticamente programmati, ed ancor meno per la loro acutezza mentale. Essi erano persone inette, goffe, psicologicamente fragili e piuttosto stupide (il che è riconosciuto anche dai biografi realisti dell’epoca), vissute in tempi di convulsioni rivoluzionarie. Eppure hanno goduto di un potere praticamente assoluto, fintantoché non è intervenuta la rivoluzione a ridimensionarlo. Qual era l’origine di tale potere? Esso non può essere spiegato se non con la presenza di specifiche istituzioni di supporto (burocrazia, esercito, polizia, magistratura) che coscientemente sostenevano l’assolutismo, oltre ad una Chiesa ad esso asservita (e strutturata anch’essa secondo un assetto eminentemente gerarchico); insomma un vasto apparato istituzionale, che aveva richiesto secoli per essere messo a punto (e che è stato

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rovesciato in poche settimane). A parte gli insetti geneticamente programmati, nel mondo non umano non abbiamo nulla di lontanamente simile a queste gerarchie. Se togliamo il termine «gerarchia» dal contesto sociale dell’esistenza umana, quindi, non facciamo che creare confusione sulle sue origini e sugli strumenti per rimuoverla (il che, vorrei aggiungere, è una attitudine che solo gli esseri umani posseggono). Del pari, anche la parola «dominazione» andrebbe usata strettamente nella sua accezione sociale, se non vogliamo perdere di vista le sue diverse forme istituzionalizzate, specifiche degli esseri umani. Certo, occasionalmente può accadere che gli animali fra loro esercitino qualche forma di coazione, in genere come individui, a volte come piccole «bande» che cercano di accedere a quelli che appaiono come «privilegi» (anche questa è una parola dai molti significati, come si può vedere se si paragonano «privilegi» di specie diversa tra loro). Ma tale atteggiamento di «dominazione», tra gli animali, è non solo individuale o comunque legato ad un numero limitato di individui. Esso è anche episodico, informale, incostante e, in particolare tra le scimmie, assai diffuso. E i «privilegi» che vengono reclamati dai nostri più stretti parenti animali variano considerevolmente da una specie all’altra, anche da un gruppo all’altro. Istituzioni durature come gli eserciti, la polizia, la criminalità organizzata, nel mondo animale sono sconosciute, e dove riscontriamo qualcosa di simile (ad esempio tra i «soldati» di insetti come le formiche) esse sono il frutto di comportamenti genetica- mente programmati, non di istituzioni socialmente concepite, che possono anche andare incontro a mutamenti radicali in caso di ribellione. E' necessario chiedersi perché tali istituzioni coercitive sorgano principalmente tra gli esseri umani, non solo come sorgono. In altri termini, in virtù di quali cause si è formata la dominazione istituzionalizzata e la sottomissione, quale che sia la storia della loro emergenza e del loro sviluppo? Come ho già avuto occasione di notare, lo status è comparso tra i gruppi di età, anche se in forma inizialmente benevola. Quindi un atteggiamento psicologico di deferenza verso gli anziani era presente già nelle antiche società, anche prima che quelli cominciassero a pretendere dai giovani veri e propri privilegi. Ho già citato le infermità e le insicurezze che l’età avanzata produce, e la capacità degli anziani di mettere al servizio della propria

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posizione, di crescente importanza, la loro esperiènza e le loro conoscenze. Che la gerontocrazia abbia costituito il presupposto di una coscienza di status, è fuor di dubbio l’apparizione di gerarchie legate all’età il più delle volte non è stata che una questione di tempo : il processo di socializzazione, con la sua necessità di istruzione, di conoscenza, di esperienza, garantiva agli anziani la giustificazione del rispetto loro tributato e, in situazioni difficili, la possibilità di ottenere una certa quantità di potere. La forma di status sociale più importante è probabilmente quella connessa con il potere degli «uomini forti», inizialmente concentrato nella loro persona, in seguito nelle loro «compagnie» sempre più istituzionalizzate. Siamo in presenza, qui, di un fenomeno complesso e molto sottile. I «grandi uomini», come abbiamo visto, erano rinomati per la generosità, non solo per l’abilità. La loro distribuzione rituale di doni al popolo (un sistema di redistribuzione della ricchezza che assumeva a volte caratteri nettamente nevrotici, come nei potlatch degli indiani del NordOvest, dove gli aspri conflitti tra i diversi «grandi uomini» portavano alla «disaccumulazione» orgiastica di ogni loro avere allo scopo di «accumulare» prestigio in seno alla comunità) può essere stata assai positiva alle origini. La generosità, la propensione a donare, rientravano in una sorta di «galateo» sociale che promuoveva l’unità, e quindi la stessa sopravvivenza della comunità. Col tempo, e stante la tendenza umana ad ottenere l’approvazione della comunità, è verosimile che la condizione di un «uomo forte» abbia finito col significare qualcosa di più che la generosità e l’apprezzamento per l’abilità e il coraggio. Questi erano caratteri maschili assai apprezzati da tutte le comunità preletterate, così come esistevano molte particolari abilità femminili ugualmente apprezzate in quanto tali. Tali caratteri, come le cerimonie del potlatch sembrano indicare, potevano facilmente diventare un fine in se stessi. Oppure, in certe comunità come gli Hopi, ad esempio, ciò veniva visto come socialmente negativo, a causa dell’individualismo che vi si esprimeva, ed era quindi contrastato. In effetti, quando gli «educatori» euro-americani hanno cercato di insegnare ai bambini Hopi certi sport competitivi, hanno trovato grande difficoltà. Le abitudini hopi erano contrarie alle rivalità e all’asserzione individuale, che venivano considerate dannose alla solidarietà

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comunitaria. In definitiva, di fronte al manifestarsi delle prime potenziali gerarchie, le comunità hanno avuto atteggiamenti diversi. In alcuni casi hanno permesso ad esse di svilupparsi, ritenendole scarsamente pericolose per la coesione comunitaria, in altri le hanno fieramente avversate fin dall’inizio. Presso certe comunità il fenomeno ha condotto alla costituzione di gerarchie vere e proprie, altrove è stato arrestato a vari livelli della sua evoluzione o è stato ricacciato indietro totalmente, con il ripristino di una condizione più ugualitaria. Le abitudini, la socializzazione, nonché principi fondamentali come quelli del minimo irriducibile, della complementarità e dell’usufrutto, possono aver favorito l’attenuazione della gerarchia, più che il suo sviluppo. Ciò sembra provato, nella storia euroamericana, dal gran numero di comunità umane totalmente prive, o quasi, di istituzioni gerarchiche. Sorprendentemente, solo una porzione limitata dell’umanità ha prodotto società strutturate attorno al prevalere di gerarchie, classi e Stato. La maggioranza di esse ha in varia misura evitato questa strada perversa dell’evoluzione sociale, o l’ha accettata in modo limitato. Un fatto, però, deve essere notato chiaramente: quando una comunità si sviluppa verso la gerarchia, le classi, lo Stato, la sua presenza non può mancare di influenzare profondamente le altre comunità che continuano a seguire una direzione ugualitaria. Una comunità guerriera guidata da capi aggressivi spinge le comunità vicine, per quanto pacifiche, a creare anch’esse le loro formazioni militari e i loro capi, se vogliono sopravvivere. Accade così che una regione intera possa radicalmente cambiare, culturalmente, moralmente e istituzionalmente, semplicemente in conseguenza del formarsi di gerarchie aggressive in seno ad una singola comunità. Ciò è esemplificato con precisione dall’evoluzione subita dalle sepolture presso una comunità andina, dove inizialmente insegne del grado e armi erano del tutto assenti nelle tombe, per poi gradualmente comparire nelle strutture funerarie successive. Tale cambiamento è attribuibile all’emergere di una comunità vicina che assai prima si era sviluppata verso modelli sociali aggressivi e guerrieri, condizionando così la vita intera delle pacifiche comunità che la circondavano. E questo è certamente accaduto in molte parti del globo, anche non reciprocamente in comunicazione.

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Non meno importanti sono i cambiamenti che risultano essere avvenuti nelle società indiane d’America, passate da «imperi» centralizzati, guerreschi e quasi statizzati, a comunità relativamente non-gerarchiche, pacifiche e decentralizzate. Nella fase centralista e militarista, l’oppressione di tali «imperi» è diventata sempre più gravosa e insopportabile per le comunità che essi controllavano, al punto che sono stati rovesciati da ribellioni locali o sono semplicemente crollati sotto il loro stesso peso. Gli indiani del Midwest, o anche i Maya del Messico, dopo una vigorosa espansione militaristica hanno finito per scomparire dalla scena quando non sono più stati in grado di sostentarsi o di farsi obbedire dalle popolazioni sottoposte. Questa continua oscillazione delle istituzioni comunitarie tra centralizzazione e decentralizzazione, tra comunità guerriere e comunità pacifiche, tra società in espansione e società isolate, è tipica delle comunità occidentali, fino alla nascita degli Stati nazionali in Europa, durante il quindicesimo e il sedicesimo secolo. Le donne sono state ridotte al ruolo di spettatrici delle modificazioni intracomunitarie che hanno dato origine alla gerarchia, partecipando in maniera poco significativa allo sviluppo. In tale condizione, hanno condiviso con gli strati inferiori della gerarchia maschile l’oppressione e la degradazione che tutte le elite dominanti infliggono ai loro sottoposti. Gli uomini non si limitavano a degradare, opprimere le donne, spesso usandole come oggetti: essi opprimevano e uccidevano anche altri uomini, in un’orgia di massacri e crudeltà. I primi re del Medio Oriente erano riluttanti a prendere prigionieri di guerra, considerandoli come ribelli potenziali, quindi i nemici catturati erano normalmente messi a morte piuttosto che fatti schiavi. In seguito, quando si è cominciato ad impiegare schiavi di sesso maschile, essi erano sfruttati senza pietà, specie nelle miniere e nelle produzioni agricole su vasta scala. La forza fisica maschile, usata per lo sfruttamento, diventava così una disgrazia, più che un vantaggio. Insomma, le cause della gerarchia non sono un mistero. Sono pienamente comprensibili quando risaliamo alle loro origini considerando gli aspetti più normali della vita quotidiana quali la famiglia, l’educazione dei figli, la segmentazione della società in gruppi di età, le attese riposte nei singoli individui in quanto maschi o femmine, tanto nella sfera quotidiana «domestica» e in quella «civile» quanto negli aspetti più personali dell’acculturazione o nelle cerimonie comunitarie. E la gerarchia

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continuerà ad esistere, se non modifichiamo questi aspetti della vita quotidiana radicalmente e non solo in senso economico con l’abolizione delle classi. Bisogna dunque riconoscere che le gerarchie hanno preceduto le classi, ma anche (come ha dimostrato la Biehl) che in genere la dominazione degli uomini su altri uomini è venuta prima della dominazione degli uomini sulle donne. Le donne sono diventate le spettatrici degradate di una civiltà maschile che si nutriva a, spese della cultura femminile, la corrodeva, dando vita alla sua sistematica manipolazione. Nel tentativo di assorbire la cultura femminile, gli uomini l’hanno piegata e subordinata, ma solo in parte. La solidarietà femminile, i rapporti affettivi, i modelli di vita femminile, hanno continuato ad esistere dietro le spalle dei maschi, e spesso fuori del loro campo visivo, in ciò che si possono definire come le alcove segrete della storia. A loro volta, gli uomini erano spesso oggetto della derisione femminile, anche nell’ambito di culture insopportabilmente patriarcali. Né si può dire che le donne abbiano aspirato sempre a partecipare alla società «civile», che era verso gli uomini anche più brutale che verso gli animali domestici. Non dimentichiamo che non erano buoi che trascinavano giganteschi macigni su per le pendici delle piramidi dell’antico Egitto, bensì uomini, servi e schiavi maschi, valutati più convenienti che il bestiame. Lo Stato L’apice istituzionale della civiltà maschile è rappresentato dallo Stato. Anche qui troviamo una sottile dialettica che, se ignorata, può condurci ad una visione semplicistica della formazione dello Stato, secondo la quale le istituzioni statali compaiono nella storia all’improvviso, già pienamente sviluppate e apertamente coercitive. In realtà, tali «eruzioni» statali, da forme istituzionali apparentemente «democratiche» ad altre profondamente «autoritarie», sono un fenomeno più moderno che premoderno, soprattutto la repentina sostituzione delle strutture repubblicane con Stati totalitari. Tranne che in periodi di invasioni, quando aristocrazie esterne sono state rapidamente imposte a comunità relativamente ugualitarie, i mutamenti rapidi in seno alle istituzioni statali hanno costituito sempre una certa rarità. A meno di limitarsi a considerare come uno Stato è sorto, quanto si è sviluppato e quale sia stata la sua solidità, troviamo notevoli difficoltà nel

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definire lo Stato, ma le difficoltà sono inferiori se esploriamo le forme sotto cui esso si è presentato nelle diverse società. A livello minimale, lo Stato può essere considerato come un sistema professionale di coercizione sociale e non un semplice organo amministrativo, come è ingenuamente considerato dalla maggior parte della gente oltre che da diversi esperti di politica. Il termine «professionale» ha la stessa importanza rivestita dal termine «coercizione». La coercizione esiste in natura, nelle relazioni inter/personali e anche nelle comunità non gerarchiche prive di Stato. Se lo Stato viene definito soltanto attraverso il concetto di «coercizione», non possiamo che ricondurlo ad un fenomeno prettamente naturale, il che è falso. Solo quando la coercizione si istituzionalizza, e diventa una forma di controllo sociale professionale, sistematico, organizzato, cioè, quando la gente viene espropriata della propria vita quotidiana in seno ad una comunità e tale vita viene «amministrata», da una istituzione che ha il monopolio della violenza, allora possiamo propriamente parlare di Stato. Possono esistere diversi livelli di Stato, vale a dire Stati incipienti, quasi-Stati, Stati parziali. Ignorare tale gradualità di coercizione, professionalizzazione e istituzionalizzazione significa dimenticare che lo Stato, così come lo conosciamo oggi, è il prodotto di un’evoluzione lunga e complessa. I quasi-Stati, e anche quelli completi, sono stati frequentemente assai instabili, ed hanno spesso subito emorragìe di potere nel corso del tempo, dando origine a società essenzialmente prive di Stato. Da qui gli spostamenti storici da imperi ad elevatissimo livello di centralizzazione alle società feudali, ed anche alle «città-Stato» di impostazione nettamente democratica, con frequenti ritorni agli imperi e agli Stati nazionali, autocratici o repubblicani che fossero. Il concetto semplicistico che vede gli Stati «venire alla luce» come bambini, dimentica l’importantissimo processo di gestazione dello sviluppo statale e genera un bel po' di confusione. Facciamo tuttora, confusione, infatti, in merito a concetti come Stato, politica, società, che invece andrebbero attentamente distinti l’uno dall’altro. Né è vero che tutti gli Stati sono necessariamente un sistema istituzionalizzato di violenza che opera negli interessi di una classe dirigente specifica, come il marxismo ci chiede di credere. Ci sono molti esempi di Stati che erano essi stessi la «classe dirigente» e i cui interessi erano separati, e anche antitetici, da quelli di altre

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classi privilegiate, «dirigenti», in una certa società. Il mondo antico ci fornisce casi di diverse classi capitalisti- che, spesso anche dotate di grandi privilegi e di grande capacità di sfruttamento, che sono tuttavia state tratte in inganno dallo Stato, circoscritte e quindi divorate, il che in parte spiega perché una vera società capitalistica non sia mai emersa dal mondo antico. E nemmeno si può dire che lo Stato «rappresenta» gli interessi di determinate classi, come proprietari terrieri, mercanti, artigiani e simili. Lo Stato tolemaico dell’Egitto ellenistico era un interesse di per sé e non rappresentava altri che se stesso. Lo stesso può dirsi dello Stato azteco, o incaico, fino a che non sono stati abbattuti e sostituiti dall’invasore spagnolo. Sotto l’imperatore Domiziano, lo Stato romano era diventato il principale «interesse» dell’impero e veniva anteposto all’aristocrazia terriera che pure aveva la supremazia nella società mediterranea. Ci saranno altre occasioni per parlare dello Stato in seguito, quando si tratterà di distinguere tra Stato e politica e tra politica e società. Per il momento, dobbiamo dare un’occhiata alle formazioni di tipo statale che a volte hanno dato origine a diversi tipi di Stato. Una struttura in cui è prevista la presenza di un capo circondato da una «compagnia» di guerrieri che lo sostengono, come nel caso azteco, è già un tipo di Stato incipiente. Il monarca apparentemente assoluto veniva scelto nell’ambito di un clan regale da un consiglio di anziani, era attentamente saggiato per le sue qualità e poteva essere rimosso nel caso si fosse mostrato incapace di far fronte alle sue responsabilità. Come anche nel caso del militaristico Stato spartano, i capi (o re che fossero) erano ancora circondati da tradizioni tribali, rimodellate al fine di produrre la centralizzazione del potere. Gli Stati mediorientali come l’Egitto, Babilonia, la Persia, in pratica non erano che l’estensione della famiglia del monarca. Formavano una notevole amalgama tra una società «domestica» e una società territoriale: l’«impero» era primariamente visto come un’estensione diretta del palazzo reale, piuttosto che un’unità amministrativa rigorosamente territoriale. Faraoni, re e imperatori, nominalmente detenevano la terra (spesso insieme al clero) per conto di divinità, che si incarnavano nel monarca o erano rappresentate da questi. Anche gli imperi dei re asiatici e dell’Africa del Nord erano «famiglie», e la popolazione era considerata come «servitori del palazzo» e non come cittadini nel

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senso occidentale del termine. In effetti, tali «Stati» non erano semplicemente una macchina di sfruttamento e controllo nell’interesse di una qualche «classe» privilegiata. Erano famiglie con burocrazie ed entourages dispendiosi, che costituivano Stati fini a se stessi, autoperpetuantesi. L’amministrazione era vista come il mantenimento di una struttura familiare molto costosa, con monumenti eretti per glorificarne il potere, il che gravava sull’economia del paese e spesso la metteva in crisi. Nell’Egitto del Regno Antico, le risorse disponibili venivano devolute in ugual misura tanto alla costruzione di piramidi, templi, palazzi e castelli, quanto al mantenimento dell’importantissimo sistema irriguo della valle del Nilo. Lo Stato egiziano era molto reale, ma non rappresentava altro che se stesso. Concepito come una «casa», con un territorio sacro all’interno del quale il Faraone incarnava la divinità, lo Stato quasi coincideva con la società stessa. In effetti era un massiccio Stato sociale, nel quale la differenziazione di una politica estranea alla società era minima. Lo Stato non esisteva al di sopra della società o al di fuori di essa: Stato e società erano essenzialmente la stessa cosa, cioè una famiglia sociale estesa, non un assortimento di istituzioni coercitive separato dalla società come tale. La polis greca dell’età classica non ci offre un’immagine dello Stato più completa di quella mediorientale. Atene può essere considerata come l’apogeo di una politica distinta sia dalle attività sociali (vita familiare, lavoro, amicizie, bisogni materiali), sia dall’amministrazione degli apparati militari, delle burocrazie, del sistema giudiziario, della polizia, attività che possono invece essere indicate come statali. Dal punto di vista di questa triplice distinzione (sociale, politica e statale) la polis ateniese è assai difficile da definire. Lo Stato, più esattamente il quasi-Stato creato dagli ateniesi durante l’età di Pericle, manteneva caratteristiche tribali in virtù delle quali buona parte della cittadinanza di sesso maschile veniva coinvolta in attività apparentemente statali: gli ateniesi avevano inventato la politica, cioè l’amministrazione diretta della cosa pubblica ad opera della comunità nel suo complesso. È giusto riconoscere che questa comunità politica, o «pubblico dominio», come è stato chiamato, faceva parte di un ambito più vasto nel quale rientravano cittadini senza alcuna garanzia, e cioè stranieri, tutte le donne (di qualunque classe sociale) e gli schiavi.

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Questa vasta popolazione non garantita provvedeva i mezzi di sussistenza necessari a che molti cittadini ateniesi maschi potessero riunirsi in pubbliche assemblee, partecipare a giurie pòpolari, in una parola amministrare collettivamente gli affari della comunità. Assistiamo qui alla prima differenziazione della politica come tale dal livello sociale della famiglia e del lavoro. Ma era davvero uno Stato, la polis? Che gli ateniesi dell’età classica usassero la coercizione contro schiavi, donne, stranieri e polis rivali è più che certo. Nell’ambito del Mediterraneo orientale, l’influenza ateniese era diventata sempre più di tipo imperiale, man mano che la città forzava altre città ad unirsi alla Lega di Deio, controllata da Atene, e le sottoponeva a tassazioni per procurarsi i fondi necessari al sostentamento dei propri cittadini e all’abbellimento della polis. Le donne, di basso come di alto ceto, erano per lo più confinate in casa e obbligate a mantenere l’ambito domestico indispensabile per la vita pubblica dei mariti. I limiti della democrazia ateniese non vengono attenuati dal fatto che le donne fossero vessate in tutto il mondo mediterraneo, a volte anche più che ad Atene. O che gli Ateniesi fossero in genere meno crudeli dei Romani nel trattare gli schiavi. Ciononostante, non possiamo ignorare il fatto che Atene nell’epoca classica abbia rappresentato un caso unico, mai visto prima nella storia dell’umanità, grazie alle istituzioni democratiche ivi esistenti, alla loro estensione, alla fiducia riposta nella competenza dei cittadini nell’amministrazione delle faccende pubbliche. Come vedremo, tali istituzioni erano un vero esempio di democrazia diretta, nata da una generale avversione per ogni tipo di burocrazia, sicché si può dire che lo Stato ateniese non fosse un’entità pienamente sviluppata. In effetti, non sarà mai sufficientemente sottolineato che Atene, come altre città-Stato, avrebbe potuto evolversi in un’oligarchia, considerando il fatto chq numerose città indipendenti sono diventate sempre più autoritarie e stratificate al loro interno. Così è accaduto a Roma, alle città-Stato italiane del tardo Medio Evo, alle federazioni cittadine tedesche, alle municipalità americane del New England. Il numero di città indipendenti, evidentemente libere e decentralizzate che si sono trasformate da comunità prettamente democratiche in aristocrazie, è praticamente infinito. Ciò che invece è singolare, di Atene, è che la tendenza apparentemente «normale» verso l’oligarchia è stata volontariamente invertita grazie alle radicali riforme introdotte da

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Solone, distene, Pericle, nella struttura istituzionale della polis. Le istituzioni aristocratiche sono state costantemente indebolite e deliberata- mente abolite, o comunque ridotte a semplici corpi cerimoniali, mentre quelle democratiche sono state dotate di potere crescente fino a comprendere tutta la cittadinanza di sesso maschile, indipendentemente dalla proprietà e dal censo. L’esercito è stato trasformato in una milizia di fanti, la cui forza era superiore alla cavalleria aristocratica. Insomma, le caratteristiche negative della democrazia ateniese, così comuni nell’ambito del Mediterraneo di quell’epoca, devono essere considerate nel contesto di un’inversione rivoluzionaria della tendenza verso l’oligarchia normalmente presente nella maggior parte delle città-Stato. E' facile rimproverare a questa democrazia il fatto di poggiare su di una base formata da schiavi e di degradare la condizione femminile. Ma far ciò con arroganza, dopo duemila anni di pensiero arricchito da un continuo dibattito sociale, significa voler ignorare uno dei rari momenti di creatività democratica apparsi in occidente, che hanno nutrito molte tradizioni utopiche e libertarie. In effetti, lo Stato inteso come apparato specifico e professionistico radicato negli interessi di classe non compare se non con l’emergere delle nazioni europee moderne. Lo Stato nazionale, così come lo conosciamo oggi, spoglia la politica di tutte le sue caratteristiche tradizionali: democrazia diretta, partecipazione dei cittadini agli affari di governo, sensibilità per il benessere comunitario. La stessa parola «democrazia» subisce una degradazione. Diviene «rappresentativa» invece che diretta, intensamente centralizzata invece che frutto di una libera federazione tra comunità relativamente indipendenti, e privata comunque delle sue istituzioni originarie. I cittadini, da persone istruite e consapevoli, diventano meri contribuenti, gente che paga in cambio di «servizi», e l’istruzione abbandona il suo orientamento civico per arrendersi a programmi intesi a stimolare nei giovani attitudini finanziariamente remunerative. E ancora da vedere dove ci condurrà tale spaventevole tendenza, in un mondo che sta diventando preda di robot meccanici, di computer che possono facilmente essere impiegati per scopi di sorveglianza, di manipolatori genetici quasi totalmente privi di scrupoli morali. Assume quindi un’immensa importanza conoscere come siamo arrivati a questa condizione, nella quale il nostro millantato «controllo» sulla natura ha in realtà sottomesso noi stessi ad una

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società più oppressiva che nel passato. Del pari, è decisivo conoscere con precisione le realizzazioni storiche umane che, per quanto imperfette, rivelano come la libertà può essere istituzionalizzata e auspicabilmente estesa al di là di ogni orizzonte del passato. Certo non c’è alcuna possibilità di ritornare all’ugualitarismo del mondo preletterato, o alla polis democratica dell’antichità classica. Né è il caso di desiderarlo. Ogni illusione di atavismo, primitivismo, ogni tentativo di ricatturare un’epoca ormai lontana con tamburi, sonagli, rituali appositi e canti la cui ripetizione dovrebbe portare tra noi una qualche presenza sovrannaturale, tutto ciò, «innocente» o no che sia, ci distoglie dalla necessità di discussione razionale, di ricerca nel campo comunitario, di critica rigorosa dell’attuale sistema sociale. L’ecologia si fonda sulle meravigliose qualità, sulla fecondità, sulla creatività dell’evoluzione naturale, non su divinità antropomorficamente concepite, «immanenti» o «trascendenti» che siano. Né gioverebbe alla creatività ecologica che ci mettessimo a quattro zampe, ululando alla luna come lupi o coyotes. Gli esseri umani sono un prodotto dell’evoluzione naturale come gli altri mammiferi, parte integrante del mondo naturale. Grazie alla loro stessa natura, all’origine biologica del loro potere intellettuale, essi sono costruiti proprio per intervenire nella biosfera. La loro presenza tra gli esseri viventi, per quanto corrotta dall’attuale situazione sociale, rappresenta una modificazione decisiva dell’indirizzo evolutivo, da una forma in larga misura adattativa ad una potenzialmente creativa. La natura umana è in gran parte una costruzione sociale, frutto della dipendenza prolungata, dell’interdipendenza societaria, del progressivo aumento della ragione, dell’uso di strumenti tecnici per scopi volontariamente perseguiti. Tutti questi attributi sono contemporaneamente sia biologici che sociali, e questo rappresenta una delle più grandi realizzazioni dell’evoluzione naturale. Le gerarchie, le classi, gli Stati, distorcono le capacità creative dell’umanità. Decidono se la creatività ecologica dell’umanità debba essere posta al servizio della vita o al servizio del potere e del privilegio. Che l’umanità debba irrevocabilmente separarsi dal mondo vivente a causa della società gerarchica oppure essere ricondotta ad esso per mezzo di una società ecologica, dipende dalla nostra capacità di capire le origini, l’evoluzione e soprattutto la portata della gerarchia, l’entità della

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sua penetrazione nella nostra vita quotidiana, il modo in cui ci divide in gruppi reciprocamente contrapposti, età contro età, genere contro genere, uomo contro uomo, assorbendo ogni dimensione sociale e politica nell’ambito totalizzante dello Stato. I conflitti che nascono in seno ad un’umanità divisa, strutturata intorno alla dominazione, conducono inevitabilmente a conflitti con la natura. La crisi ecologica, con la sua contrapposizione tra umanità e natura, sorge prima di tutto dalle divisioni all'interno dell’umanità stessa. La nostra epoca sfrutta con grande abilità tali divisioni, mistificandole. Le divisioni vengono presentate non come sociali, ma come personali. I conflitti tra la gente vengono attenuati, o anche celati, attraverso appelli ad una «armonia» sociale priva di qualunque realtà nella nostra società. Come negli atavici rituali, vari gruppi associativi, con appelli nemmeno troppo nascosti al mondo degli spiriti e ad uno «spiritualismo» evanescente, sono diventati un’arena privatizzata dove si impara la «riconciliazione»; e ciò mentre ovunque intorno a noi si scatenano tempeste di conflitti che minacciano di distruggerci. Non è un caso che quest’uso dei «gruppi di incontro» e della «spiritualità», con intenti edulcoranti e attenuativi, sia diventato così di moda, partendo dai loro territori d’origine nella sunbelt americana. E il frutto di una vera e propria campagna tesa, sotto il nome di «post-modernismo»,-a dimenticare il passato, a diluire la nostra conoscenza della storia, a mistificare l’origine dei nostri problemi, a stimolare l’oblio e l’abbandono dei nostri ideali più illuminati. Mai come ora, quindi, è stato tanto necessario recuperare il passato, approfondire la nostra conoscenza della storia, demistificare l’origine dei nostri problemi, ritrovare la memoria della antiche forme di libertà, dei progressi fatti nella liberazione dell’umanità dalle superstizioni, dall’irrazionalità, dalla sfiducia nelle potenzialità umane. Se dobbiamo rientrare nel flusso dell’evoluzione naturale e svolgere in essa un ruolo creativo, dobbiamo anche rientrare nel flusso dell’evoluzione sociale e svolgere anche in essa un ruolo creativo. È certo che non sarà possibile ritrovare il nostro «incanto» per la natura se non ritroveremo prima il nostro «incanto» per l’umanità e le potenzialità della ragione umana.

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PUNTI CRUCIALI DELLA STORIA

Fin qui, ho cercato di dimostrare che è necessario addentrarsi nelle pieghe più intime della vita quotidiana, se davvero vogliamo sradicare l’idea del dominio sulla natura. Ho sottolineato come il dominio dell’uomo sull’uomo abbia preceduto l’idea di dominio sulla natura, ed anche l’emergere delle classi e dello Stato. Mi sono chiesto (cercando di rispondere) come siano nate le gerarchie e perché, e come abbiano potuto differenziarsi sempre più, fino a diventare gruppi di status dapprima temporanei e successivamente stabili, che in seguito hanno prodotto classi e Stati. La mia intenzione è stata quella di lasciare che tali tendenze si manifestassero attraverso la loro stessa logica, esaminando le diverse sfumature man mano che si presentavano. Ho continuamente ricordato al lettore che l’umanità, con le sue origini sociali, è un prodotto dell’evoluzione naturale, così come lo sono gli altri mammiferi con le loro comunità, e che tuttavia gli esseri umani possono portare una creatività consapevole nello sviluppo evolutivo della natura e possono migliorarlo, non semplicemente interromperlo o invertirlo. Che l’umanità sia in grado di svolgere un simile ruolo dipende dal tipo di società che sappiamo creare e dalla sensibilità che può derivarne. Adesso è quindi importante prendere in esame i «punti cruciali» della storia, là dove essa ha avuto la possibilità di indirizzarsi verso una società ecologica e razionale, invece che antiecologica e irrazionale. guerrieri La prima modificazione sociale che ha mosso la società in una direzione preoccupante sia per l’umanità che per il mondo naturale, è stata la crescita in senso gerarchico del settore civile di pertinenza maschile, vale a dire l’ascesa delle gerontocrazie maschili, dei gruppi guerrieri, delle elite aristocratiche, nonché dello Stato. Ridurre tali sviluppi altamente complessi a

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«patriarcato», come molti autori sono propensi a fare, è ingenuo e semplicistico. Gli «uomini» (termine altrettanto generico quanto quello di «umanità», che ignora l’oppressione dell’uomo sull’uomo, oltre che dell’uomo sulla donna) non si sono semplicemente «impadroniti» della società. Né la società civile maschile si è limitata a sovvertire il mondo domestico femminile in seguito alle invasioni di pastori indo-europei e semiti a cultura patriarcale, per quanto tali invasioni abbiano avuto un peso notevole nella sottomissione di molte antiche comunità dedite all’orticoltura. La rilevanza che certe ecofemministe, insieme ad accoliti di religioni cristiane e non, attribuiscono a tale teoria della «conquista» e dell’«invasione» non fa che spostare il problema: come è successo che un cambiamento tanto importante quanto il patriarcato si sia prodotto nelle società pastorali invadenti? Esistono prove che l’ascesa dell’ambito civile maschile, con la sua attenzione privilegiata per le questioni intertribali e belliche, sia stata piuttosto lenta, e d’altra parte non sono mancati casi di comunità pastorali che lasciavano al controllo femminile settori vitali come la discendenza e la trasmissione del diritto di proprietà, pur essendo siffatte comunità guidate da guerrieri bellicosi. In molti casi, la predominanza del settore civile si è sviluppata gradatamente, ed è probabile che abbia guadagnato importanza in seguito ad incrementi numerici delle popolazioni vicine. In effetti, gli uomini erano necessari al fine di proteggere là comunità nel suo complesso (donne comprese) dalle scorrerie di altri uomini. Potevano verificarsi conflitti provocati da comunità orticole apparentemente «pacifiche» e matricentriche che tentavano di cacciare popolazioni «primitive» di cacciatori-raccoglitori da territori boschivi che erano destinati ad essere trasformati in terreni agricoli. Siamo onesti: per quanto matricentriche e pacifiche, le prime comunità di agricoltori dovevano apparire assai bellicose agli occhi dei cacciatori che esse cercavano di sfrattare, i quali per parte loro non erano assolutamente disposti ad abbandonare la loro vita nomade per intraprendere attività di coltivazione. A proposito del dissodamento delle terre a fine agricolo, le parole di Wovoka, il messia degli indiani Paiute ai tempi della Danza degli Spettri, verso la fine dell’ottocento, sono un esempio di questa mentalità: «Dovrò io piantare una lama nel cuore di mia madre, la Terra?». È fuori di dubbio, comunque, che lo spostamento graduale

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dall’iniziale dominio degli anziani verso quello del maschio più vecchio (il patriarca), la perdita di influenza degli sciamani animistici in favore di un clero adoratore di divinità, e l’ascesa di gruppi guerrieri culminata in monarchie assolute, abbiano costituito la principale «svolta» storica in direzione della dominazione, deile classi, della formazione dello Stato. È possibile che comunità matricentriche avrebbero dato origine ad un’evoluzione totalmente diversa. Basata sull’orticoltura, sull’uso di strumenti semplici, sui principi dell’usufrutto, del minimo irriducibile, della complementarità, e sui valori cosiddetti «femminili» dell’affetto e delle cure amorevoli (che in ogni caso sono stati tramandati fino a noi nella socializzazione dei piccoli), la società avrebbe potuto dare un corso relativo alla storia. L’attenzione che tutte le madri nutrono per i loro figli avrebbe potuto generalizzarsi nell’amore reciproco di tutti per i propri simili. Uno sviluppo tecnologico fondato su bisogni limitati avrebbe potuto assumere gradualmente forme anche sofisticate e generare una profonda sensibilità culturale. Evitabile o no che fosse, comunque resta il fatto che, al bivio, la storia ha preso la direzione del patriarcato, del clero, delle monarchie e degli Stati, e non quella matricentrica e antigerarchica. I valori guerrieri del combattiménto, della dominazione di classe, dell’imperio statale, sono andati a costituire l’infrastruttura fondamentale di ogni evoluzione verso la «civiltà», in Asia come in Europa, nel Nuovo Mondo (Messico e Ande, ad esempio) come nel Vecchio. L’aspirazione di molti, nel movimento ecologista o femminista, a tornare a vivere come in un tranquillo villaggio del Neolitico può essere compresa, considerati quali sono i risultati della cosiddetta «civiltà». Ma l’idea che questi hanno di quel mondo lontano, nonché il loro odio crescente per la «civiltà» come tale, lasciano spazio a più di un dubbio. Certo, non è verosimile che le primitive comunità di cacciatori-raccoglitori amassero le ugualmente primitive comunità di orticoltori più di Wovoka, che ne condividessero o meno la fede nella medesima Dea Madre. Né è verosimile che con l’aumento della popolazione le società di orticoltori abbiano conservato i teneri sentimenti celebrati da certe femministe d’oggi, tanto innamorate del passato. E' possibile che pastori patricentrici e invasori venuti dal mare abbiano accentuato un’evoluzione che forse, senza di essi, sarebbe stata meno perversa, ma che sarebbe stata comunque difficile da evitare. Il

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«peccato originale» della «civiltà», ammesso che ne esista uno, è probabilmente quello che ha messo i coltivatori contro i cacciatori (indipendentemente dal fatto che entrambi siano stati matricentrici e animisti) e, molto tempo dopo, i pastori contro i coltivatori. In ogni caso, che le società fossero di coltivatori o di cacciatori, in esse erano presenti molti aspetti negativi. Prima di tutto, le società tribali e i villaggi sono notoriamente «chiusi». L’esistenza di una discendenza comune, fittizia o reale che sia, porta all’esclusione degli stranieri, eccetto forse quando intervengono le regole dell’ospitalità. Sebbene le norme dell’esogamia e le imprescindibili necessità del commercio tendano a favorire alleanze tra gli «interni» di un villaggio e gli «esterni» ad esso, un «esterno» può sempre essere ucciso senza conseguenze da un «interno». Le sanzioni contro il furto, l’aggressione e l’omicidio valgono esclusivamente per gli «interni» e i loro parenti, e non riconoscono alcuna autorità estranea alla discendenza comune. In realtà, le società tribali sono società molto chiuse nei confronti di ogni estraneo, a meno che questi non risulti necessario per qualche suo talento, oppure per ripopolare la comunità dopo guerre o epidemie che hanno provocato numerose vittime, o per un matrimonio. E sono società chiuse non solo nei confronti degli estranei, ma spesso anche nei confronti di qualunque innovazione tecnica o culturale. Nonostante molti elementi culturali possano diffondersi lentamente da una comunità tribale ad un’altra, tali comunità tendono ad essere estremamente conservatrici di fronte alle innovazioni radicali. Nel bene e nel male, i modelli esistenziali tradizionali tendono a sclerotizzarsi col passare del tempo. Ogni nuova tecnologia che non sia stata elaborata all’interno della comunità tende ad essere rifiutata, e per comprensibilissime ragioni se si pensa agli effetti socialmente distruttivi che le nuove tecnologie possono avere su costumi ed istituzioni consacrati dal tempo. Il fatto importante, comunque, è che siffatto conservatorismo rende le comunità tribali assai vulnerabili al controllo, esercitabile su di esse da altre comunità in possesso di tecnologie più efficienti. Un secondo aspetto negativo delle società tribali è rappresentato dalle loro limitazioni culturali. Esse sono società verosimilmente incapaci di elaborare sistemi complessi di scrittura, da cui i termini di «non letterate» e di «preletterate» che molti antropologi usano per designarle. Oggi che l’irrazionalismo, il

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misticismo e il primitivismo sono diventati piuttosto alla moda tra la gente bene della classe media (generalmente per conoscenza attraverso opere scritte), incapacità dei popoli non letterati di conservare le testimonianze storiche o di comunicare graficamente è guardata con grande simpatia. Ma si dimentica fin troppo facilmente che l’assenza di scrittura alfabetica, oltre a limitare drasticamente l’ampiezza del panorama culturale nell’epoca primitiva, ha anche favorito la gerarchia. La conoscenza delle tradizioni, dei legami ancestrali, dei riti nonché delle tecniche di sopravvivenza, è ben presto diventata territorio riservato degli anziani che, attraverso l’esperienza e l’insegnamento di formule da imparare a memoria, si trovavano nella condizione strategica per manipolare i più giovani. La gerontocrazia, che a mio giudizio è stata la prima forma di gerarchia, si è resa possibile poiché i giovani dovevano ricorrere agli anziani per «sapere le cose». Non c’erano pergamene o libri che potessero sostituire la sapienza racchiusa nella mente degli anziani. E gli anziani hanno usato efficacemente tale monopolio della conoscenza allo scopo di istituire la più antica forma di dominazione della preistoria. Lo stesso patriarcato deve una porzione rilevante del proprio potere alla conoscenza detenuta dal maschio più anziano di un clan in virtù dell’esperienza conferitagli dall’età. La scrittura avrebbe potuto facilmente democratizzare l’esperienza e la cultura sociale, il che era ben noto alle elite dominanti e specialmente al clero, che ha sempre esercitato un severo controllo sull’alfabetizzazione e ha confinato la capacità di scrivere nelle mani di «impiegati» o chierici. Oggi esiste tanta letteratura mistificatoria sulla vita primitiva. E importante ricordare alle persone intelligenti che l’umanità non è nata in un mondo hobbesiano in cui «tutti erano contro tutti»; che i due sessi erano un tempo reciprocamente complementari, sul piano culturale oltre che su quello economico; che la disaccumulazione, le donazioni, il minimo irriducibile e l’uguaglianza sostanziale costituivano i fondamenti delle antiche società organiche; che l’umanità viveva in relazione armonica con la natura in quanto aveva una situazione di armonia al proprio interno, in seno alle comunità. Allo stesso modo, però, non è possibile ignorare che questo mondo innocente ma vulnerabile di fronte a tendenze interne verso la gerarchia o ad invasori che potevano assoggettarlo al potere di minoranze guerriere, non era esente da difetti che impedivano agli esseri umani di realizzare

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pienamente le proprie potenzialità. L’idea di una humanitas da tutti ugualmente condivisa, in grado di riunire genti etnicamente e tribalmente diverse, accomunandole nel progetto di costruire per tutti una società realmente cooperativa, era totalmente assente. Certamente si sono dati, nel tempo, casi di confederazioni tribali, ma esse avevano per lo più lo scopo di mitigare un sanguinoso stato di guerra intertribale, oppure il fine espansionistico di cacciare le «altre» genti dalla propria terra. La Confederazione Irochese, ad esempio, che pure è uno dei casi più celebrati di cooperazione intertribale fondata su forti tradizioni democratiche, era totalmente finalizzata al raggiungimento dei propri interessi, e si era guadagnata l’odio feroce di altre popolazioni indiane, come gli Uroni e gli Illinois, che da essa si erano viste invadere le terre e devastare le comunità. Le città Dopo il passaggio da uno sviluppo matricentrico ad uno patricentrico, la successiva «svolta» storica che incontriamo è stata l’emergenza e la crescita delle città. La città ha formato un’area sociale totalmente nuova, un ambito territoriale nel quale le affinità ancestrali basate sui vincoli di sangue sono state permanentemente sostituite dal luogo di residenza e dagli interessi economici. La portata di tale passaggio e il suo impatto sulla storia, sono difficili da apprezzare ai giorni nostri. L’urbanesimo è ormai parte integrante della vita sociale moderna, al punto che non viene nemmeno posto in discussione. Inoltre è sempre stato sottolineato il fatto che la città ha accelerato lo sviluppo culturale (letteratura, arte, religione, filosofia, scienza) e ha dato impulso allo sviluppo economico (tecnologia, classi, divisione del lavoro tra artigianato e agricoltura), sicché non è sempre agevole accorgersi delle nuove forme di associazione umana prodotta dall’urbanesimo. Forse per la prima volta, almeno per quanto ne possiamo siamo sapere, gli esseri umani si sono trovati nella condizione di interagire gli uni con gli altri senza eccessivo riguardo per i vincoli ancestrali e di sangue. Il concetto che le persone sono fondamentalmente simili, indipendentemente dalla loro ascendenza tribale e di villaggio, comincia a prendere il sopravvento sulle differenze etniche. La città va sempre più sostituendo il dato di fatto biologico del lignaggio e della nascita in seno ad un particolare gruppo di parentela, con il dato di fatto

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sociale della residenza e degli interessi economici. Nella città, la condizione sociale non è semplicemente il frutto della nascita, ma può, entro certi limiti, essere scelta ed essere cambiata. Le istituzioni sociali, insieme alla formazione di un universo unicamente umano, vengono, a porsi in primo piano in seno alla società, spingendo gradualmente la comunità paesana ai margini della vita sociale. La parentela si ritira sempre più nell’ambito del privato, degli affari di famiglia, e le relazioni di clan tendono a scomparire, limitandosi a rapporti con i parenti più immediati, senza tenere in conto la rete estesa dei «cugini» di clan. Di capitale importanza nel nuovo ordine sociale crea- c to dalla città è il fatto che ora lo straniero, l’«esterno», può avere un suo posto sicuro nell’ambito di una vasta comunità di esseri umani. Inizialmente, tale posto non conferiva agli «esterni» una vera uguaglianza. L’Atene di Pericle, ad esempio, nonostante la sua dichiarata apertura verso gli stranieri residenti, raramente dava ad essi la cittadinanza ed il diritto di difendere in tribunale i propri diritti, se non per bocca di cittadini ateniesi. Cionondimeno le prime città davano agli stranieri maggior protezione contro gli abusi degli «interni». In molti casi, le città che andavano formandosi raggiungevano un compromesso tra i valori tribali fondati sui vincoli di sangue e quelli sociali basati sul dato di fatto della residenza, conferendo agli «esterni» alcuni diritti basilari che raramente avrebbero potuto avere nella società tribale, pur limitando la cittadinanza agli «interni» e riconoscendo ad essi uno spettro più ampio di diritti civili. Più che ospitalità, dunque, la città offriva agli «esterni» giustizia, de facto e de jure che fosse, in forma di protezione garantita da un monarca o, pi ù tardi, da leggi scritte. Sia gli «esterni» che gli «interni» erano visti come esseri umani aventi in comune almeno un minimo definito di diritti, derivanti dal fatto della loro umanità e delle loro necessità. Con la nascita e l’ascesa delle città, l’idea embrionale che tutti i popoli sono in un certo senso un solo popolo prende corpo e raggiunge una nuova universalità storica. Non è mia intenzione fingere di credere che questo passo gigantesco verso lo sviluppo dell’idea di una humanitas comune sia avvenuto da un giorno all’altro, o che non sia stato accompagnato da cambiamenti negativi nella condizione umana, come vedremo subito. Le città più liberali, come le poleis greche ed in particolare l’Atene democratica, hanno ad esempio smesso di concedere la cittadinanza agli stranieri residenti al tempo di

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Pericle, come ho già avuto occasione di notare. Circa un secolo prima, Solone garantiva senza difficoltà la cittadinanza a tutti gli stranieri che fossero in grado di portare ad Atene talenti ed abilità ritenuti necessari. Pericle, che pure è stato il più democratico dei leader ateniesi, ha poi disgraziatamente abbandonato la liberalità soloniana, trasformando la cittadinanza in un privilegio destinato solo agli uomini di consolidata stirpe ateniese. Le prime città erano anche permeate di credenze e istituzioni tribali: arcaici atteggiamenti religiosi; deificazione degli antenati (seguiti dai capi tribali che potevano così trasformarsi in monarchi divini); aristocrazie feudali ereditate dalle società di villaggio del tardo Neolitico e dell’età del bronzo. D’altra parte, ad Atene e Roma l’antica decisionalità assembleare di tipo tribale non solo era mantenuta, ma era stata riportata in auge e, almeno ad Atene al tempo di Pericle, dotata di autorità suprema. Vi era tensione tra la città e questi atteggiamenti e istituzioni. La città ha continuamente cercato di rimodellare le religioni tradizionali, per trasformarle in religioni civiche che favorissero la fedeltà nei propri confronti. Il potere della nobiltà veniva continuamente eroso, ed il diritto patriarcale sulla vita dei figli era continuamente preso di mira, allo scopo di suscitare nei giovani lealtà verso istituzioni civiche come la burocrazia e l’esercito. Siffatta tensione non è mai scomparsa completamente. Anzi, per circa tremila anni, essa ha costituito il dramma continuo della politica civica, manifestandosi attraverso conflitti anche violenti, come i tentativi delle città medievali di sottomettere la nobiltà territoriale ed vescovi. Le città erano portatrici di razionalità, di giustizia imparziale, di cultura cosmopolita e di individualismo, di fronte ad un mondo permeato di misticismo, di arbitrarietà del potere, di chiusura parrocchiale, di subordinazione dell’individuo alla comunità e, significativamente, all’imperio delle elite aristocratiche e religiose. Almeno legalmente, la città non ha raggiunto la vera maturità fino a che l’imperatore Caracalla nel terzo secolo non ha proclamato tutti gli uomini liberi dell’impero romano cittadini di Roma. Le ragioni che hanno spinto Caracalla possono giustamente essere guardate con sospetto: egli era manifestamente interessato ad un allargamento della base tributaria dell’impero per far fronte alle crescenti spese di questo. Cionondimeno, tale provvedimento, pur solo a livello legale, ha diffuso in tutto il mondo la concezione che tutti gli esseri umani, schiavi compresi, appartengono alla

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stessa specie, indipendentemente dalla loro etnia, dal loro censo, dalla loro occupazione, dalla loro età. Il concetto di un universo umano riceveva così legittimazione, ad un livello fino ad allora sconosciuto, se non tra i filosofi ed in certe religioni (il giudaismo, oltre che il cristianesimo). La legge di Caracalla, per certo, non è stata sufficiente a dissolvere le barriere che dividevano i diversi gruppi etnici, le città, i villaggi. Sia all’interno, vicino alle frontiere dell’impero, sia al di là di esse, tali differenze erano ancora forti come nei millenni precedenti. Eppure la legge di Caracalla, rafforzata più tardi dell’idea cristiana di un mondo unificato dalla sottomissione ad un’unica divinità creatrice e dall’accettazione del libero arbitrio individuale, ha dato un nuovo assetto all’affinità tra esseri umani, che non avrebbe potuto emergere senza la città ed i suoi valori sempre più cosmopoliti, razionalistici ed individualistici. Non a caso il famoso trattato di Agostino in difesa del cristianesimo si chiamava la «Città di Dio», e i padri del cristianesimo nutrivano per la città di Gerusalemme la stessa affezione che avevano per essa gli ebrei. L’avvento della città ha comportato la perdita di molti importanti elementi tipici della vita degli antichi villaggi. Attraverso la proprietà comunale della terra e delle cosiddette «risorse naturali», si è arrivati alla proprietà privata. Le classi, categorie basate sulla proprietà e sulla gestione di tali «risorse», hanno sostituito le antiche gerarchie di status cristallizzandosi in gerarchie economiche, sicché gli schiavi si sono contrapposti ai padroni, i plebei ai patrizi, i servi ai signori feudali e, in seguito, i proletari ai capitalisti. Comunque, non è detto che le gerarchie più antiche, strutturatesi intorno ai gruppi di status (gerontocrazie, capitanati e poi burocrazie) fossero scomparse. Al contrario, esse formavano la base invisibile di ben più visibìli e tempestose relazioni di classe. L’esistenza dei gruppi di status non veniva posta in discussione, ed i giovani, le donne, i figli e le masse del popolo minuto hanno cominciato inconsapevolmente a diventare complici della stessa dominazione che subivano ad opera delle varie elite. La gerarchia è entrata a far parte integrante dell’inconscio umano, mentre le classi, la cui legittimità era più facile da porre in questione per via dell’evidente sfruttamento, diventavano l’aspetto più rilevante di un’umanità conflittuale ed aspramente divisa. Dal punto di vista negativo, quindi, la città ha consolidato la privatizzazione della proprietà, la struttura di classe e la

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statizzazione completa o quasi. La tensione tra le realizzazioni conseguenti all’emergere della città e il decadimento di certi valori, arcaici ma profondamenti sentiti, tra cui l’usufrutto, la complementarietà ed il principio del «minimo irriducibile», ha dato origine a quella problematica dello sviluppo umano definita come la «questione sociale». Questa espressione, un tempo così popolare nella sinistra, alludeva al fatto che la civiltà, nonostante le sue molteplici realizzazioni, non è mai stata pienamente razionale e priva di sfruttamento. In questa sede, l’espressione viene usata in un’accezione più etica, per sottolineare come tutte le più straordinarie conquiste dell’umanità, ottenute grazie alla civiltà, siano state sempre inquinate dal «male» della gerarchia. Marx non avrebbe parlato di «male», nel suo tentativo di trasformare la critica del capitalismo in una scienza «oggettiva», priva di connotazioni moralistiche. E' invece a Bakunin che va riconosciuto il merito di aver introdotto la considerazione del «male» nella sua concezione, mostrando come numerose trasformazioni sociali, per quanto «necessarie» o comunque inevitabili, si siano rivelate in seguito come «malefiche» nel dramma generale della storia. In Federalismo, socialismo e anti-teologismo, Bakunin osserva: «E non esito a dire che lo Stato è un male anche se storicamente necessario, tanto necessario in passato quanto necessaria sarà presto o tardi la sua estinzione, tanto quanto sono state necessarie per il passato la bestialità primitiva e le divagazioni teologiche». A parte il riferimento alla «bestialità primitiva» (un pregiudizio assai diffuso più di un secolo fa, dal quale neanche Bakunin era immune), c’è qui il riconoscimento che l’umanità si è sviluppata sia attraverso il «male» come attraverso il «bene», sfiorando il problema della dialettica della stessa «civiltà». La maledizione biblica nei confronti dell’umanità non era vana: riconosceva in qualche modo che alcuni mali non potevano essere facilmente evitati man mano che l’umanità stessa emergeva dall’animalità. Gli esseri umani non avevano coscienza di creare gerarchia quando riconoscevano autorità agli anziani, non più di quanto ne avessero allorché riconoscevano autorità al clero. La capacità di prevedere quali saranno gli effetti di determinate premesse non è poi così sviluppata negli esseri umani, che restano, dopo tutto, dei primati in larga misura inconsapevoli, dalla razionalità più potenziale che reale. Da tale punto di vista, per quanto concerne

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l’attitudine ad affrontare i problemi evolutivi della loro realtà sociale, i popoli preletterati non erano meglio equipaggiati di quelli che sono stati colpiti dagli aspetti peggiori della «civiltà». La «questione sociale» come la vediamo noi oggi, dipende dal fatto che ci siamo elevati verso la luce della libertà con occhi non completamente aperti, abbagliati da oscuri atavismi, da antiche gerarchie, da pregiudizi profondamente radicati di cui è facile essere preda, con effetti disastrosi. Abbiamo tra le mani il classico coltello a doppio taglio: l’emancipazione da una parte, la nostra rovina dall’altra. Gli Stati nazionali e il capitalismo Una terza «svolta» storica è stata quella rappresentata dall’avvento degli Stati nazionali e del capitalismo industriale. Stato nazionale e capitalismo industriale non vanno necessariamente insieme, ma il capitalismo ha seguito tanto rapidamente l’ascesa degli Stati nazionali da poter essere considerato un fenomeno ad essi congiunto. Come fatto in sé, la costruzione delle nazioni risale al dodicesimo secolo, quando Enrico II d’Inghilterra e Filippo Augusto di Francia hanno tentato di centralizzare il potere della monarchia ed acquisire i territori che avrebbero dovuto costituire le proprie rispettive nazioni. In seguito il potere nazionale avrebbe lentamente assorbito ogni potere locale, pacificando in modo definitivo le meschine rivalità tra baronie e città. I patrimoni imperiali del mondo antico avevano creato Stati immensi, ma non durevoli. Risultanti dall’unione di gruppi etnici diversi, tali imperi vivevano in precario equilibrio con le comunità di villaggio che avevano subito ben poche modificazioni, sia culturali che tecnologiche, dai tempi del Neolitico. La funzione principale di tali società rurali era di fornire ai monarchi tributi e corveé lavorative. Per il resto, erano lasciate a se stesse. La vita locale era quindi sotterranea, ma intensa. Intorno a questi villaggi esisteva una certa quantità di terreno comune, che chiunque poteva coltivare, e sembra provato che anche i territori «privati» venissero regolarmente redistribuiti alle varie famiglie a seconda del modificarsi delle loro necessità. Le interferenze provenienti dall’alto erano minime, in genere. I pericoli maggiori per queste società di villaggio derivavano dall’invasione di qualche esercito o dalle vessazioni dei nobili.

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Altrimenti, quando non erano tormentate dagli aristocratici o dai gabellieri, erano lasciate in pace. In questo tipo di società, la giustizia era spesso arbitraria. Le lamentele del contadino greco Esiodo circa il comportamento egoistico e scorretto dei baroni locali echeggiano problemi che solo raramente affiorano nella letteratura storica a nostra disposizione. I codici legislativi elaborati dal monarca assoluto di Babilonia, Hammurabi, non costituivano la regola nel mondo pre-romano. Più di frequente, accadeva che nobili esosi proclamassero ciascuno «leggi» proprie, fatte a misura delle proprie necessità. Il contadino poteva a volte ottenere dal nobile protezione per sé e la propria comunità contro le razzie di qualche invasore, ma giustizia mai. Gli imperi erano già troppo grandi per poter essere gestiti sia dal punto di vista amministrativo sia, ancor più, da quello giudiziario. L’impero romano è stato un’eccezione a questa regola, soprattutto perché era costituito in larga misura da territori costieri assai urbanizzati, più che da plaghe interne con rare città. Al contrario, le nazioni europee si sono formate su una base territoriale continentale che la storia ha forgiato fino a farle divenire sempre più facilmente gestibili. Certo, la rete stradale era scarsa e le comunicazioni primitive. Ma con l’ascesa al trono di sovrani energici come Enrico II d’Inghilterra e Filippo Augusto di Francia, la giustizia regale ed i burocrati hanno cominciato a penetrare fin nelle zone più remote, incidendo sempre più profondamente nella vita quotidiana delle popolazioni. E' sicuro che la «giustizia del re» venisse accolta favorevolmente dalla gente comune, poiché i suoi funzionari costituivano un «cuscinetto» tra l’arroganza nobiliare e le masse asservite. In effetti, lo sviluppo degli Stati nazionali è stato accompagnato all’inizio da un senso genuino di aspettativa e sollievo. Ma il potere regale era un centro di interessi in se stesso, non un’agenzia morale per il raddrizzamento dei torti subiti dal popolo, ed ha finito per diventare altrettanto oppressivo che quello dei nobili locali che aveva sostituito. Inoltre, non era un docile strumento per l’ascesa della borghesia emergente. I sovrani inglesi di casa Stuart, che nel 1640 hanno catapultato l’Inghilterra nella rivoluzione, consideravano la propria nazione come un appannaggio personale, che sia la potente nobiltà sia la ricca borghesia minacciavano di sovvertire. L’idea che lo Stato nazionale sia stato «formato» dalle borghesie è una falsità che fin d’ora va ridimensionata. Intanto,

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ciò che chiamiamo «borghesia» nel tardo Medio Evo non era niente di simile agli «industriali», o capitalismo industriale, che oggi conosciamo. Se si eccettuano alcuni ricchi banchieri e commercianti che importavano ed esportavano merci su vasta scala, il borghese nascente era generalmente un mastro artigiano che agiva all’intemo di un sistema associativo altamente controllato. Era raro che sfruttasse anche un solo proletario, nel senso che oggi attribuiamo al termine. Chiaramente, non era impossibile che le disparità economiche permettessero l’ascesa di artigiani che emarginavano i propri apprendisti e trasformavano le proprie gilde in società privilegiate ad uso e consumo proprio e dei propri figli. Ma questa non era la regola. Nella maggior parte dell’Europa, le gilde fissavano i prezzi, determinavano la quantità e la qualità dei beni prodotti, ed erano aperte agli apprendisti che con il tempo sarebbero divenuti a loro volta mastri. E' difficile definire tale sistema, a crescita attentamente regolata, come capitalistico. Il lavoro era compiuto prevalentemente a mano, in piccole botteghe dove il mastro sedeva fianco a fianco dell’apprendista, rifornendo un mercato molto limitato e personalizzato. Nel tardo Medio Evo, l’economia curtense con la sua elaborata gerarchia ed i suoi servi della gleba era in disfacimento, anche se non era ancora completamente scomparsa. Cominciavano a vedersi agricoltori relativamente indipendenti, che lavoravano come proprietari della loro terra o come fittavoli di nobili assenteisti. Guardando il vasto panorama europeo nel periodo tra il quindicesimo e il diciottesimo secolo, ciò che risulta è l’immagine di un’economia mista. Oltre a servi, fittavoli e piccoli proprietari, c’erano artigiani (alcuni abbienti, altri menò) che coesistevano con veri capitalisti, la maggior parte dei quali, però, si dedicava al commercio più che all’industria. L’Europa era il centro di un’economia mista, non esclusivamente capitalistica, e la sua tecnologia, nonostante alcuni progressi compiuti nel corso del Medio Evo, era ancora artigianale, non industriale. Anche la produzione di massa, come quella del grande arsenale veneziano (dove lavoravano 3.000 addetti), faceva affidamento sugli artigiani, ciascuno dei quali lavorava secondo schemi assolutamente tradizionali, in piccole botteghe e officine. Queste caratteristiche del mondo così com’era subito prima della rivoluzione industriale sono molto importanti, perché hanno condizionato le opzioni sociali che si offrivano all’Europa. Prima

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della monarchia Stuart in Inghilterra, Borbone in Francia e Asburgo in Spagna, le città europee godevano di uno straordinario livello di autonomia. Le città italiane e tedesche, in particolare, anche se non esclusivamente, costituivano veri e propri Stati, forti del proprio diritto, con assetti politici che variavano dalle semplici democrazie dei primi tempi alle oligarchie delle epoche successive. Esse si riunivano anche in confederazioni contro signorotti locali, invasori stranieri o monarchi assoluti. In questi secoli, la vita cittadina era florida, non solo economicamente, ma anche culturalmente. I cittadini dovevano fedeltà in primo luogo alla propria città e solo subordinatamente ai propri feudatari territoriali e alle nazioni emergenti. Il potere crescente degli Stati nazionali, dal sedicesimo secolo in poi è diventato una fonte di conflitti, così come era stato una fonte di ordine nei confronti della nobiltà riottosa. I tentativi compiuti dai sovrani al fine di imporre la sovranità regale sulle città di quel periodo ha prodotto un’era di attacchi quasi insurrezionali contro i rappresentanti della corona. Venivano distrutti i registri regali, assaliti i funzionari, demoliti i loro uffici. Nonostante alla persona del re fosse tributato il rispetto consuetudinariamente dovuto ai capi di Stato, i suoi editti venivano frequentemente ignorati e i funzionari incaricati di farli rispettare perfino linciati. La Fronda, una serie di conflitti avviati dalla nobiltà francese e dalla cittadinanza parigina contro il crescente potere del re, durante la gioventù di Luigi XIV, aveva pratica- mente demolito l’assolutismo e spinto il giovane sovrano ad abbandonare Parigi nell’attesa che il suo potere venisse ristabilito. Dietro queste rivolte in molte parti dell’Europa, è possibile scorgere il montare della resistenza contro la pretesa degli Stati nazionali centralizzati di limitare le prerogative delle città. Queste rivolte municipali hanno raggiunto il proprio apice all’inizio del sedicesimo seco lo, quando le città della Castiglia sono insorte contro Carlo II di Spagna, cercando di costituire ciò che era essenzialmente una confederazione municipale. La lotta, durata più di un anno, è finita con la sconfitta delle città castigliane, dopo alcune vittorie iniziali, dando l’avvio al declino economico e culturale della Spagna, per quasi tre secoli. Dal momento che la monarchia spagnola era a quell’epoca all’avanguardia dell’assolutismo reale e svolgeva un ruolo fondamentale nella politica europea, la ribellione delle città castigliane (detta anche dei comuneros, dal nome attribuito ai loro

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partigiani) ha fornito l’indicazione di uno sviluppo alternativo a quello verso gli Stati nazionali, cioè di una evoluzione verso una confederazione di città. Per un certo periodo, l’Europa è stata in bilico tra queste due alternative, e solo alla fine del diciassettesimo secolo lo stato nazionale ha preso il sopravvento sulla concezione federativa. Ma questa concezione non è morta. Già era affiorata tra gli estremisti della rivoluzione inglese che i seguaci di Cromwell avevano condannato come «anarchici svizzeri». Ed è riapparsa nelle confederazioni cui gli agricoltori progressisti hanno tentato di dar vita nel New En- gland, all’indomani della rivoluzione americana. E poi ancora in Francia, tra i movimenti radicali come le assemblee di quartiere a Parigi e nelle altre città, durante la Grande Rivoluzione, e infine durante la Comune di Parigi nel 1871, che chiedeva la costituzione di una «Comune di Comuni» e la dissoluzione dello Stato nazionale. Nel periodo immediatamente precedente la formazione degli Stati nazionali, quindi, l’Europa si è trovata ad un bivio. Legato alle fortune dei comuneros spagnoli o dei sans culottes che affollavano le sezioni parigine nel ’93, il futuro degli Stati nazionali è stato non poco incerto, all’inizio. Se il continente si fosse mosso nella direzione delle confederazioni urbane, la sua storia avrebbe preso un corso certamente più favorevole, e forse anche più rivoluzionario, democratico e cooperativo del corso assunto nel diciannovesimo e ventesimo secolo. Per i motivi fin qui esposti, non è affatto certo che l’evoluzione verso il capitalismo industriale che oggi conosciamo fosse storicamente preordinata. Il capitalismo ha accelerato lo sviluppo tecnologico in misura che non ha precedenti nella storia, e ciò è un fatto che non ha bisogno di essere ulteriormente comprovato. Avrei parecchio da dire sugli effetti che tale sviluppo tecnologico ha prodotto nei confronti dell’umanità e della natura, e su quelli che avrebbe potuto produrre in una società genuinamente ecologica. Certo è, comunque, che anche il capitalismo, come lo Stato nazionale, non è stato una «necessità» inevitabile, e neppure il «presupposto» per l’instaurarsi di una democrazia cooperativa o socialista. In effetti, c'erano forze non irrilevanti che tendevanp a inibire lo sviluppo e l’ascesa del capitalismo. In quanto sistema mercantile aspramente competitivo, basato sulla produzione per lo scambio e l’accumulo dei profitti, il capitalismo (e la mentalità capitalistica,

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con l’importanza accordata all’egoismo individuale) si è trovato in grande conflitto con tradizioni e abitudini profondamente radicate, ed anche con il vissuto reale delle società precapitalistiche. Tutte le società precapitalistiche privilegiavano la cooperazione rispetto alla competizione quantunque tali tendenze venissero comunemente disattese o anche usate per mobilitare forza-lavoro collettiva al servizio delle elite o dei sovrani. Nonostante ciò, la competizione intesa come sistèma di vita era semplicemente inconcepibile. Certo, anche nel Medio Evo era possibile imbattersi in comportamenti maschili competitivi, ma questi erano generalmente orientati, in un modo o nell’altro, verso il servizio pubblico, non al fine di raggiungere l’arricchimento personal. Nel mondo precapitalistico, il sistema mercantile era essenzialmente marginale, essendo le società fondate sull’autosufficienza. Dove il mercato assumeva una qualche rilevanza, durante il Medio Evo, esso veniva attentamente regolato dalle gilde e dai precetti cristiani contro l’interesse ed il profitto eccessivo. E' vero che il capitalismo è sempre esistito (come ha osservato Marx) «negli interstizi del mondo antico» (e del mondo medievale, si potrebbe aggiungere), ma esso non ha mai raggiunto uno status socialmente dominante. In effetti, la prima borghesia non aveva vere aspirazioni capitalisti- che, nel senso che modellava i suoi fini ultimi su quelli dell’aristocrazia e quindi investiva i profitti in terreni, per poter ritirarsi dagli affari e vivere come l’aristocrazia feudale. L’ideale del «limite», la fiducia della Grecia classica nell’«aurea mediocrità», non ha mai perso interamente la propria influenza nel mondo precapitalistico. Dalla preistoria dell’epoca tribale fino al tempo della Storia, la virtù è stata intesa nel senso di dedizione individuale al bene della comunità, ed il prestigio si conquistava distribuendo la propria ricchezza sotto forma di doni, non accumulandola. Non è un caso, quindi, che il mercato capitalistico e lo stesso «spirito» capitalistico, che propugnavano crescita continua, accumulo, competizione, e ancora crescita e ancora accumulo, abbiano incontrato infiniti ostacoli nelle società precapitalistiche. I primi capitalisti del mondo antico non hanno quasi mai raggiunto uno status superiore a quello di funzionari dei sovrani imperiali, che avevano bisogno di mercanti che acquistassero per loro merci rare ed esotiche in posti lontani. I loro profitti erano fissi e le loro ambizioni sociali ridotte.

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Certo, gli imperatori romani hanno concesso maggiore libertà d’azione ai borghesi della loro epoca, ma ciononostante li tosavano per benino con le tasse ed espropri occasionali. Il mondo medievale in Europa ha dato alla borghesia mano ancor più libera, soprattutto in Inghilterra, nelle Fiandre e nell’Italia settentrionale. Eppure, anche nel più individualistico mondo cristiano, i capitalisti hanno dovuto vedersela con l’insorgere di sistemi di gilde associative, che in breve circoscrivevano il mercato, e sono stati contagiati dai valori aristocratici del lusso e della vita dispendiosa che si contrapponevano alla virtù borghese della parsimonia finalizzata all’accumulo di ricchezza. E' certo che in tutta Europa la borghesia era vista come una sotto-classe alquanto disprezzabile nella sua passione per la ricchezza, volgare nella sua ambizione di appartenere alla nobiltà, culturalmente incostante nella sua propensione per ii crescere, pericolosa nella sua mania di innovazione tecnologica. La sua supremazia nell’Italia e nelle Fiandre durante il Rinascimento era altrettanto instabile. Signori dalle mani bucate come i Medici, che erano riusciti ad avere il controllo delle principali città dell’Italia settentrionale, hanno letteralmente divorato i profitti del commercio in spese folli per la costruzione di palazzi e monumenti, oltre che per la guerra. Semplici modificazioni subite dai percorsi commerciali, come lo spostamento dal Mediterraneo all’Atlantico negli anni immediatamente successivi alla presa di Costantinopoli da parte dei turchi (1453), hanno finito col costringere le città-Stato italiane ad occupare un posto secondario in Europa. Con l’esplosione del capitalismo in Inghilterra tale economia ha guadagnato supremazia nazionale prima e infine mondiale. Ma anche quest’esplosione non è stato un fatto inevitabile della storia, né è stata predeterminata da forze sociali che agiscono al di sopra dell’uomo. L’economia e lo Stato inglese erano di costruzione assai lassa, forse la più lassa di tutta l’Europa. La monarchia inglese non ha mai raggiunto l’assolutismo di un Luigi XIV in Francia, né l’Inghilterra era una nazione chiaramente definita. Essa è sempre stata in conflitto con i suoi vicini celtici della Scozia, del Galles e soprattutto dell’Irlanda, nonostante infiniti tentativi di incorporare costoro nella società anglosassone. Né il feudalesimo era profondamente radicato, nonostante la continua preoccupazione inglese per lo status. Era una società porosa, con una storia instabile, dove il mercante prima e poi

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l’industriale hanno trovato più che altrove la libertà necessaria a svilupparsi. La nobiltà inglese, a sua volta, era in gran parte un’elite nuova installata dai sovrani Tudor dopo che l’originaria nobiltà normanna si era completamente distrutta nella sanguinosa Guerra delle Rose, nel quindicesimo secolo. I nuovi nobili, spesso di umili origini, non erano contrari a investire qualche spicciolo nel commercio. Allo scopo di guadagnare denaro vendendo lana all’industria tessile delle Fiandre, essi hanno incamerato astutamente le terre in comune della popolazione rurale trasformandole in pascoli per pecore. Inoltre, lo sviluppo del sistema capitalistico, nel quale i cosiddetti «fattori» portavano la lana alle abitazioni delle famiglie, da dove passava alla tessitura e quindi alla tintura, ba portato al concentramento di tutti gli addetti in «fabbriche», dove erano obbligati a lavorare in condizioni di estremo sfruttamento e inflessibile disciplina. In tale modo, la nuova borghesia industriale riusciva ad eludere le tradizionali restrizioni imposte dalle gilde nelle città, dando origine ad una classe di proletari spossessati tenuti al proprio servizio. Ogni lavoratore poteva così essere sostituito da altri, in un mercato del lavoro che si presentava come «libero», dimodoché i salari tendevano a diminuire e i profitti potevano crescere a dismisura nel nuovo sistema industriale che si sviluppava in prossimità dei principali centri urbani inglesi. Nella cosiddetta «Gloriosa Rivoluzione» del 1688 (da non confondere con la tempestosa Rivoluzione Inglese del 1640) gli esosi nobili inglesi e le loro controparti borghesi sono venuti ad un compromesso. All’aristocrazia veniva concesso di dirigere lo Stato, mentre la monarchia diventava un puro simbolo dell’unità tra le classi, e la borghesia veniva lasciata libera di occuparsi dell’economia. Messe da parte le liti tra le varie classi dirigenti, la classe capitalista inglese si è trovata a godere del diritto praticamente illimitato di saccheggiare l’Inghilterra e spingere anche all’estero le proprie manovre, reclamando l’india, larghe porzioni dell’Africa e basi commerciali strategiche in Asia. Le economie mercantili esistevano già prima del capitalismo, coesistendo in realtà con diverse economie comunali. Ci sono periodi del Medio Evo che ci portano la testimonianza di un affascinante equilibrio tra città e campagna, tra artigianato e agricoltura, tra le innovazioni tecnologiche ed il conservatorismo culturale. Tale mondo, nel diciannovesimo secolo, sarebbe stato

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idealizzato dagli scrittori romantici e da P. Kropotkin, l’anarchico russo particolarmente sensibile alle varie alternative al capitalismo offerte dalle società (e mentalità) cooperativistiche in vari periodi storici. Lo sviluppo del capitalismo inglese nel diciottesimo secolo, e la sua vittoria nel diciannovesimo, hanno alterato radicalmente tali prospettive. Per la prima volta, la competizione veniva vista come «salutare», il commercio come «libero», l’accumulo di ricchezza come prova di «parsimonia», e l’egoismo come prova di un interesse per se stesso che ha lavorato come «mano nascosta» al servizio del «bene pubblico». Concetti come «salute», «libertà», «parsimonia» e «bene pubblico» sarebbero serviti a giustificare l’espansione illimitata e il saccheggio spudorato della natura, e degli esseri umani. Durante la rivoluzione industriale i proletari inglesi non hanno sofferto meno delle grandi mandrie di bisonti sterminati nelle praterie americane. I valori e le comunità umane non sono stati oggetto di minor violenza che gli ecosistemi animali e vegetali distrutti nelle foreste dell’Africa e dell’America Latina. Parlare del saccheggio perpetrato dall’«umanità» ai danni della natura significa mistificare la realtà della selvaggia spoliazione perpetrata da uomini ai danni di altri uomini, così efficacemente descritta nei romanzi di Dickens e di Zola. Il capitalismo ha separato da se stessa la specie umana altrettanto brutalmente e crudelmente di quanto abbia separato la società dalla natura. La competizione ha cominciato così a permeare di sè ogni aspetto della società, non limitandosi a mettere i capitalisti l’uno contro l’altro per il controllo del mercato. Ha messo i compratori contro i venditori, il bisogno contro l’avidità, l’individuo contro l’individuo ai livelli più elementari dei rapporti umani. Sul mercato, ogni persona affronta le altre con un ringhio, anche tra i lavoratori, ciascuno dei quali cerca per ragioni di semplice sopravvivenza di avere la meglio sull’altro. Nessun moralismo, nessun pietismo può cambiare il fatto che la rivalità, ai livelli financo molecolari della società, è una regola borghese di esistenza, nel senso più stretto del termine «esistenza». Accumulare per togliere, far fuori o comunque assorbire il concorrente è una condizione essenziale all’esistenza in un assetto economico capitalistico. Che anche la natura sia una vittima di questa furia sociale competitiva, accumulativa ed espansiva, dovrebbe essere ovvio, se non fosse che esiste una forte tendenza a fame risalire le origini alla tecnologia e all’industria come tali.

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Che la tecnologia moderna esalti certi fondamentali fattori economici, cioè lo sviluppo inteso come regola di vita in un’economia competitiva e la mercificazione dell'umanità e della natura, è un fatto evidente. Ma la tecnologia e l’industria come tali non trasformano ogni ecosistema, specie, porzione di suolo, corso d’acqua, e anche gli oceani e l’aria, in un mero oggetto di sfruttamento. Essi non monetizzano né danno un prezzo a tutto ciò che può essere sfruttato nell’ambito della lotta competitiva per la sopravvivenza e lo sviluppo. Parlare di «limiti di crescita» in seno ad un’economia di mercato capitalistica non ha alcun senso, così come non ne ha parlare di limiti della guerra in una società guerriera. Gli scrupoli morali cui oggi danno voce tanti ambientalisti sapientoni sono tanto ingenui quanto quelli delle multinazionali sono fasulli. Il capitalismo non può essere «persuaso» a porre un freno al suo sviluppo^ così come non si può «persuadere» un essere umano a smettere di respirare. I tentativi di realizzare un capitalismo «verde», o «ecologico», sono condannati all’insuccesso a causa della natura stessa del sistema, che è un sistema di crescita continua. In effetti, i concetti più fondamentali dell’ecologia, come l’attenzione all’equilibrio, lo sviluppo armonioso verso una maggiore differenziazione, e infine l’evoluzione verso una maggiore soggettività e consapevolezza, si contrappongono radicalmente ad un’economia che omogeneizza città, natura e individuo, e che mette gli esseri umani gli uni contro gli altri e contro la natura, con una ferocia che finirà per distruggere il pianeta. Per generàzioni i pensatori di sinistra hanno detto la loro circa i «limiti intrinseci» del sistema capitalistico, i «meccanismi interni» che l’avrebbero portato inevitabilmente all’autodistruzione. Marx si è guadagnato il plauso di schiere infinite di autori per aver previsto che il capitalismo sarebbe crollato e sarebbe stato sostituito dal socialismo, in seguito ad una crisi cronica che avrebbe comportato perdita di profitto, stagnazione economica e lotta di classe da parte di un proletariato sempre più impoverito. Osservando oggi gli immensi squilibri biogeochimici che hanno aperto buchi nello strato di ozono dell’atmosfera ed innalzato la temperatura del nostro pianeta in seguito all’«effetto serra», tali limiti appaiono chiaramente di natura ecologica. Quale che possa essere il destino del capitalismo come sistema con i suoi specifici «limiti interni» sul piano economico, possiamo comunque affermare apertamente che esso

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ha dei limiti esterni sul piano ecologico. Certo, il capitalismo incarna totalmente la nozione bakuniniana di «male», senza peraltro essere «socialmente necessario». Dopo il sistema capitalistico non ci sono altre «svolte» della storia. Esso segna il termine del percorso di un lungo sviluppo sociale in cui il male ha permeato di sé il bene e l’irrazionalità ha prevalso sulla razionalità. Per la società e il mondo naturale, in effetti, il capitalismo costituisce un punto di negatività assoluta. Non è possibile migliorarlo, ricostruirlo o rinnovarlo, semplicemente aggiungendo al termine un prefisso di moda («eco-capitalismo»). L’unica alternativa possibile è distruggerlo, perché esso incarna tutte le malattie della società, patriarcato, sfruttamento, statalizzazione, egoismo, militarismo, sviluppo fine a se stesso, che hanno afflitto la «civiltà» e inquinato tutte le sue conquiste.

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IDEALI DI LIBERTÀ

Ho parlato dei tentativi popolari di resistere al precipitare della società nel «male», ad esempio la resistenza opposta allo Stato nazionale dai comuneros spagnoli o dai sanculotti francesi, e quella meno diretta degli artigiani e degli agricoltori indipendenti al capitalismo. Ma all evoluzione delle istituzioni patricentriche, urbane ed economiche in senso sempre più antiumanistico ed antiecologico, i popoli si sono opposti in scala ben più vasta e con idee più esplosive di quanto ho indicato. Oggi, mentre corriamo il rischio di perdere ogni coscienza della Storia, ed in particolare della tradizione rivoluzionaria con la sua carica di utopia alternativa, è importante esaminare i movimenti libertari emersi ad ogni «svolta» storica e le idee di libertà di cui essi sono stati portatori. Vedremo così quanto numerose siano le concezioni che hanno tentato di frenare il precipitare della «civiltà» nel male. E troveremo il progresso nel suo vero significato, quello cioè che porta i conflitti sociali ad affrontare problemi di portata sempre maggiore, fino ad approfondire il concetto stesso di libertà. Per cominciare, voglio operare una distinzione che mi sembra importante: quella tra l’idea di libertà e l’idea di giustizia. I due termini sono stati usati tanto frequentemente l’uno al posto dell’altro che sono praticamente diventati sinonimi. In realtà, però, la giustizia è qualcosa di profondamente diverso dalla libertà, ed è indispensabile che tale differenza venga qui sottolineata. Sul piano storico, le due idee hanno dato origine a conflitti assai diversificati ed hanno postulato opzioni radicalmente differenti, fino ai giorni nostri. La distinzione tra le semplici riforme e le modificazioni fondamentali dell’assetto sociale corrisponde in gran parte a quella tra la richiesta di giustizia e la richiesta di libertà, nonostante le due richieste, in situazioni di particolare mobilità sociale, si siano spesso strettamente intrecciate. Giustizia significa richiesta di equità, di «correttezza» (fair play), cioè il godimento dei benefici dell’esistenza in misura

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proporzionale al contributo di ciascuno- Per dirla con le parole di Thomas Jefferson, la giustizia è «uguale e congrua...», .fondandosi sul rispetto del principio di equivalenza. La congruità, o equivalenza, del trattamento che ciascuno riceve (socialmente, giuridicamente, materialmente) in cambio di ciò che dà, viene espressa nella rappresentazione tradizionale della Giustizia intesa come divinità romana, che tiene in una mano la bilancia, nell’altra la spada, ed ha gli occhi bendati. I due piatti della bilancia simboleggiano là possibilità di quantificare, determinare, l’equità; la spada allude al potere della violenza che sta dietro al giudizio (in situazione di «civiltà» la spada simboleggia lo Stato); la benda sugli occhi indica la presunta «oggettività» del giudizio medesimo. Non è qui il caso di prendere in esame le complesse teorie della giustizia elaborate a partire da Aristotele nel mondo antico, fino a John Rawls ai tempi nostri. Esse considerano argomenti come la legge naturale, il contratto, la reciprocità, l’egoismo, che non hanno attinenza diretta con la nostra trattazione. Ma la benda che copre gli occhi della Giustizia e la bilància che questa tiene in mano simboleggiano una relazione problematica che non è possibile ignorare. Di fronte alla Giustizia, tutti gli esseri umani sono presumibilmente «uguali», «nudi», cioè spogliati di ogni privilegio sociale, di particolari diritti, di status. La famosa «esigenza di giustizia» ha un’ascendenza lunga e complessa, Fin dalle origini dell’oppressione sistematica e dello sfruttamento, i popoli hanno dato alla Giustizia, bendata o no che fosse, una voce, e ne hanno fatto l’interprete degli sfruttati di fronte all’iniquità insensibile e alle violazioni del principio di equivalenza. All’inizio, la giustizia è stata contrapposta al canone tribale della vendetta di sangue, della ritorsione irragionevole per il male fatto ad un proprio parente. La famosa «legge del taglione» (occhio per occhio, dente per dente, vita per vita) veniva applicata esclusivamente nel caso di torti commessi ai danni di parenti, non di persone qualsiasi. Per quanto possa apparire razionale sotto il profilo dell’equivalenza di trattamento, l’equità tribale era quindi meschina e chiusa. Nessuno insorgeva per lo straniero offeso o ucciso, se non qualche suo parente nella patria d’origine. La ritorsione, inoltre, era frequentemente del tutto arbitraria. Ben più di una vita veniva comunemente reclamata per delitti che esistevano solo agli occhi dell’interessato, con l’atroce risultato di faide sanguinose che potevano proseguire per generazioni,

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coinvolgendo comunità e popoli interi evidentemente non responsabili di crimini tanto lontani da scomparire dalla memoria dei contendenti. La famosa Orestiade di Eschilo (tragica trilogia greca sull’assassinio di una madre ad opera del figlio, in ritorsione dell’omicidio compiuto da essa ai danni del padre di questo) ha molteplici implicazioni. Tra esse, è importante notare il maggior peso dell’obbligo filiale (indipendentemente dal sesso) nei confronti della madre, in un sistema di cosiddetta «legge matriarcale», dove le donne, e non gli uomini, costituivano presumibilmente i nodi socialmente riconosciuti della parentela e del lignaggio. Ma non meno importante (e forse più importante, almeno per gli Ateniesi dell’età classica, che apprezzavano questa trilogia) era l’allusione alla necessità di far uscire la giustizia dal mondo arcaico di vendetta irragionevole, per portarla in un ambito di equità razionale e oggettiva, per rendere cioè la giustizia «uguale e congrua». Il che non significa che la giustizia abbia avuto la sua origine in Grecia. Nel periodo successivo al passaggio dalle società tribali alle aristocrazie feudali e monarchie assolute, il bisogno di giustizia (cioè di codici scritti che indicassero con chiarezza le pene corrispondenti ai vari delitti) era diventato particolarmente sentito tra gli oppressi. L’equivalenza intesa come giustizia «uguale e congrua» è stata pian piano depurata delle sue connotazioni di classe, nel Deuteronomio ebraico come nelle riforme di Solone ad Atene. La legge romana, che ancor oggi costituisce il fondamento di gran parte del diritto occidentale, ha enormemente affinato le prime conquiste popolari, riconoscendo nel jus naturale e nel jus gentium il fatto che gli uomini sono realmente uguali per natura, sebbene possano essere resi disuguali dalla società. Perfino la schiavitù veniva interpretata come un «contratto», nel quale lo schiavo era una persona cui era stata risparmiata la vita in guerra e che in cambio impegnava il proprio corpo e il proprio lavoro a vantaggio del vincitore. Il problema della giustizia «uguale e congrua», però, è che non tutte le persone sono uguali naturalmente, a dispetto dell’uguaglianza formale ad esse riconosciuta in una società «giusta». Alcuni individui nascono fisica- mente forti, mentre altri al loro confronto sono più deboli. Oppure esistono marcate differenze quanto a salute, età, talento, intelligenza, risorse materiali a disposizione. E tali differenze possono essere banali,

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ma anche terribilmente importanti, per quanto concerne le richieste che esse determinano nella vita di tutti i giorni. Paradossalmente, quindi, il concetto di uguaglianza può essere subdolamente usato per trattare con la gente in modo molto disuguale: pesi uguali vengono imposti ad individui assai diversi tra loro, che hanno cioè diversa capacità di sopportarli. I diritti così acquisiti, per quanto possano essere «uguali e congrui», perdono qualunque significato per coloro che non sono in grado di esercitarli a causa ai qualche inettitudine fisica o materiale. E la giustizia diviene quindi sostanzialmente assai disuguale, proprio perché viene definita solo formalmente. Da una società che si preoccupa solo dell’uguaglianza giuridica, cioè che non prende in considerazione le condizioni fisiche o mentali delle persone, può nascere facilmente una disuguaglianza tra uguali. Invece, le società tribali ugualitarie si rendevano conto dell’esistenza di tali importanti disuguaglianze e cercavano di mettere a punto meccanismi di compensazione allo scopo di realizzare un’uguaglianza sostanziale. Il principio del «minimo irriducibile», ad esempio, creava una base in grado di superare le differenze economiche che, nella società moderna, rendono enormemente disuguali persone formalmente uguali. Chiunque, indipendentemente dal sesso, dallo status, dalle capacità, aveva il diritto di accedere ai principali mezzi di sostentamento, anche chi non aveva voglia di contribuire alla comunità sul piano materiale. Tali mezzi non potevano essere rifiutati a nessuno dei membri della comunità. Ogni qual volta era possibile, agli infermi, ai deboli e ai vecchi veniva riservato un trattamento speciale, allo scopo di «ugualizzare» la loro posizione materiale e minimizzare il loro senso di dipendenza. Sembra che tale concezione risalga alle comunità neanderthaliane di cinquantamila anni fa. E' stato ritrovato, ad esempio, lo scheletro di un uomo maturo affetto da un grave handicap fisico risalente verosimilmente alla nascita, che non gli avrebbe permesso di sopravvivere se non avesse ricevuto una particolare attenzione da parte della comunità. Relativamente alla vita economica, il principio informatore della giustizia (disuguaglianza tra uguali) non si era ancora fatto sentire. Le popolazioni preletterate erano guidate da un altro principio, quello dell' uguaglianza tra disuguali, che costituisce il fondamento dell ideale di libertà. Il tentativo di ugualizzare disuguaglianze inevitabili, di compensare ad ogni livello esistenziale, o quasi, le deficienze

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frutto di circostanze che sfuggono alle possibilità di controllo (impedimenti fisici di qualunque tipo o la mancanza di certi diritti per limitazioni dovute a fattori ineluttabili) costituiscono il punto di partenza di una società libera. Alludo qui non soltanto agli ovvi meccanismi compensativi messi in atto per far fronte a situazioni di malattia o impedimento individuale. Parlo anche di atteggiamenti, di un modo di vedere le cose tale da produrre un senso di affetto, di responsabilità, di seria preoccupazione per gli esseri umani ed anche per quelli non umani, nella convinzione che le sofferenze, i guai e le difficoltà di questi e quelli possono essere alleviati o rimossi grazie al nostro intervento. Il concetto di uguaglianza tra disuguali trova verosimilmente il proprio fondamento emozionale in un atteggiamento di simpatia e di comunione, in una tradizione che dà risalto alla solidarietà, perfino in una sensibilità estetica che riconosce la bellezza della natura e la libertà della vita selvaggia. L’idea essenzialmente libertaria che quanto passa per giustizia «congrua ed uguale» può facilmente condannare un numero illimitato di persone ad una esistenza miserabile o peggio, è la chiave di volta della libertà concepita come etica. In effetti, realizzare «liberamente» le potenzialità di ognuno e soddisfarle pienamente presuppone che tali potenzialità siano realmente realizzabili, il che significa costruire l’etica della società Sul principio dell’uguaglianza tra disuguali. Sottolineo la parola «etica», qui. Il principio dell’uguaglianza tra disuguali secondo le quali vivevano le comunità preletteratie, era il frutto di un costume, una sorta di tradizione tramandata. A causa della chiusura di tali comunità, inoltre, il costume valeva solo per i membri della comunità stessa, non per gli «estranei». Visti nel panorama generale della società primitiva, i popoli preletterati erano vulnerabili alle invasioni da parte ai comunità tecnicamente più avanzate, tanto quanto lo erano ad attacchi portati contro le loro abitudini. Non era difficile che costumi come l’uguaglianza tra disuguali si dissolvessero, per essere sostituiti da sistemi fondati sul privilegio, totalmente privi di ogni idea di giustizia. Una volta persasi la pratica consuetudinaria della libertà, è emerso in primo piano il «bisogno di giustizia», surrogato magro ma necessario per imbrigliare il potere assoluto dei nobili e dei re. Obblighi morali, che più tardi sarebbero diventati leggi, hanno così cominciato a limitare l’arbitrio di questi. I profeti biblici, in particolare l’anarchico Amos, non hanno solo scagliato tuoni e fulmini di retorica contro i privilegiati e i re dei Giudei. Hanno anche esteso i

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confini delle consuetudini, fondate sulla tradizione, fino all’ambito della moralità. Quindi gli oppressi non hanno più dovuto andare a cercare negli oscuri recessi della tradizione l’autorità per fronteggiare l’ingiustizia. Hanno potuto stabilire codici morali, fondati sui sistemi di valori esistenti, con i quali sostenere gli scarsi diritti che reclamavano. Non è però stato fatto alcun serio tentativo di formulare in termini razionali questi diritti, cioè di trasformarli in un’etica coerente per renderli accessibili alla ragione e alla discussione. La giustizia è così rimasta per molti secoli un fatto morale che assumeva la forma più di comandamenti quasi religiosi e spesso dichiaratamente sovrannatura che di giudizi razionali. L’essere «uguale e congrua» alludeva alla precisione, non alla distinzione ragionata tra diritto e torto. In effetti, il diritto e il torto erano considerati come stabiliti dal cielo e venivano frequentemente trattati più in termini di «virtù» e «peccato» che di «giusto» e «ingiusto». Dobbiamo aspettare i Greci e i Romani, con i loro filosofi oltre che i loro giuristi, per trovare dibattiti ragionati sulla giustizia, e qualche volta sulla libertà, condotti nel linguaggio secolare del mondo reale. E' stato tra questi pensatori che la giustizia, concepita come un fatto razionale e secolare, ha cominciato ad assumere la forma di un problema etico. La gente ha cominciato a interrogarsi circa le differenze tra atti giusti e ingiusti, senza più adottarle acriticamente come ingiunzioni divine o consuetudini sancite dal tempo. La libertà, a sua volta, ha cominciato ad emergere non solo come esigenza, ma anche come un complesso articolato di idee, affinato dalla ^critica e da precisi progetti di ricostruzione sociale. E' iniziata così una nuova era dell’evoluzione, che è diventata non solo naturale e sociale ma anche etica ed emancipatoria. Gli ideali di libertà hanno cominciato ad essere parte dell’evoluzione della società giusta, quella che noi oggi chiamiamo società ecologica. Libertà e mito Ho operato una distinzione piuttosto netta tra consuetudine, moralità ed etica perché gli ideali di libertà nel corso della storia hanno preso forme assai diverse, partendo da un approccio tradizionale per volgersi poi ad uno prescrittivo e infine razionale. Tali distinzioni non hanno semplicemente un interesse storico.

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Oggi, la giustizia è ben più intrecciata alla libertà che nel passato, cosicché accade che banali riforme vengano impensabilmente confuse con trasformazioni sociali radicali. Tentativi di realizzare una società giusta attraverso poco più che qualche modesta correzione di una società sostanzialmente irrazionale come l’attuale, si mescolano con tentativi di realizzare una società libera, che richiede invece una ricostruzione radicale. La società d’oggi, in effetti, non viene ricostruita, viene semplicemente modificata più con interventi di natura cosmetica che con trasformazioni fondamentali. Le riforme in nome della giustizia vengono fatte più per gestire una crisi profonda e in crescita, che per, risolverla. Non meno preoccupante è il fatto che la ragione, con le sue esigenze di critica rigorosa, di analisi, di coerenza intellettuale, viene sovvertita da un moralismo da quattro soldi, spesso di natura religiosa, mentre miti misticheggianti invadono anche le interpretazioni morali della libertà, evocando immagini di liberazione primitivistiche e potenzialmente reazionarie. Questi ritorni al passato atavico, di norma, sono indirizzati in senso egoistico più che sociale. La terapia personale va sostituendo la politica sotto l’egida dell’«auto-liberazione», i fabbricanti di miti si accompagnano a quelli di religioni per produrre una giungla lussureggiante di misticismo esotico. E tutto ciò viene contrapposto alla ragione in nome dell’ «Unicità» cosmica, una «notte in cui tutte le vacche sono nere», per usare l’espressione di Hegel. Il carattere regressivo di questa evoluzione deve essere attentamente preso in considerazione. Le prime idee di libertà erano confinate nell’immaginario mitico. Quindi non potevano essere realizzate, principalmente perché si esprimevano attraverso oniriche fantasticherie di un ritorno ad un’epoca ormai inaccessibile, a causa dell’abisso che separa anche l’umanità primitiva da un presunto stato di primigenia animalità. Solo nel mito, come in quello omerico dell’isola dei Lotofagi, era possibile immaginare una condizione in cui la natura predominasse totalmente e l’animalità pervadesse la comunità umana al punto da dissolvere perfino la memoria. La serenità dei Lotofagi, che non hanno volontà né senso della propria identità, li spoglia di ogni percezione del tempo, passato e futuro, ponendoli in quella che si presenta come un’eternità «naturale». I marinai di Ulisse, che hanno l’ordine di perlustrare l’isola, vengono ricevuti con «gentilezza» e invitati a cibarsi del «frutto mielato del loto», che

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toglie loro «ogni desiderio di ritornare» alla propria nave. Essi non solo diventano «contenti di stare», ma «dimenticano la loro casa» e se stessi in quanto individui. Come accade nella nostra epoca terapeutica e mistica, essi non hanno alcun «senso di sé» da realizzare perché non hanno un «sé» cui far riferimento. Questa fantasia mitica della preistoria, questo sogno di una perduta armonia con la natura che è più vegetativa che animale, è un affronto agli esseri umani nel loro complesso, ad esseri che possiedono l’intelligenza oltre alle funzioni fisiologiche. Che la mente e il corpo siano stati erroneamente contrapposti l’una all’altro dalla religione e da certa filosofia, non toglie il fatto che siano comunque due cose diverse sotto numerosi aspetti. Nessuna di queste osservazioni vuole negare che l’umanità, nel passato, sia effettivamente vissuta in vari gradi di armonia con la natura. Ma tal armonia non è mai stata così statica, immutabile nel tempo, priva di ogni forma di evoluzione, come quella descritta nel mondo dei Lotofagi e nelle sue diverse rappresentazioni mitiche. Qui, lo spiccato carattere di arbitrarietà del mito, la sua indisponibilità all’intervento critico della ragione, si arrende alla più completa menzogna. Da un punto di vista primitivistico, la «libertà» assume la connotazione mistificatrice di assenza di desiderio, di attività, di volontà, una condizione tanto priva di scopo che l’umanità cessa di riflettere razionalmente su se stessa e quindi diviene incapace di prevenire l’eventuale emergere di minoranze dirigenti in grado di dominarla completamente. In questo mondo mitico e mistificato non c’è alcuna necessità di guardarsi dalla gerarchia o di resisterle. La natura, per quanto primigenia e «selvaggia», non è così immota nel tempo, così priva di dinamismo, così eterna, come potrebbe apparire dal belvedere di una residenza estiva per gente «bene». Tale immagine tipicamente «cittadina» della natura tradisce la sua fecondità, la sua ricchezza di cambiamento e di evoluzione. La natura è incessantemente attiva, mentre i Lotofagi non lo sono. Come vedremo, l’ideologia dominante favorisce tale visione statica e inconsapevole del paradiso proprio per rendere remota la libertà e il desiderio di essa impossibile da realizzare. Senza dubbio l’isola dei Lotofagi è un mito regressivo, che sogna un ritorno all’infanzia e alla passività, allo stato in cui il neonato non fa che rispondere alle carezze, al seno materno pronto a nutrirlo e si lascia cullare in una tranquilla ricettività da una madre amorosa. Il fatto che l’espressione più antica per indicare la libertà

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sia la parola sumerica amargi, che significa anche «ritorno alla madre», ha un interpretazione ambigua. Può avere un’accezione regressiva, ma può anche alludere alla convinzione che in passato la natura fosse benigna e che la libertà possa esistere solo nell’ambito di una società matricentrica. Che la libertà dovesse essere conquistata attraverso l'attività, la volontà e la coscienza, dopo l’evoluzione della società oltre le semplici consuetudini, e che fosse necessaria la speranza di poter raggiungere un rapportò nuovo, razionale ed ecologico tra l’umanità e la natura, era un fatto ancora da scoprire. In effetti, una volta spezzati i legami tra l’umanità e la natura, questo è stato il duro compito della storia. Ritornare al mito, oggi, significa porre le basi di un quietismo pericoloso che abbandona le conquiste della storia per immergersi nel mondo atavico, spesso solo immaginario, della preistoria. Un simile ritorno ci spinge a dimenticare la storia e la ricca esperienza che essa può offrirci. La personalità umana si dissolve nell’ambito di uno stato puramente negativo che precede lo sviluppo evolutivo naturale verso livelli superiori di sensibilità e coscienza di sé. Avviene così che la «natura prima» venga denigrata, degradata, che la sua ricca dinamica sia negata a favore di un’immagine fissa e statica del mondo naturale, dove l’evoluzione multicolore della vita è ridipinta di tinte tenui e sbiadite, senza forma, senza attività, senza movimento e direzione propria. Queste immagini vegetative dell’«età dell’oro», che vengono ripescate oggi dalle correnti mistiche del movimento ecologista americano, inglese e centro-europeo, non sono generazione diretta delle classi oppresse della storia. Vero è che, quando la vita tribale ha lasciato il passo alla «civiltà» in Medio Oriente, Egitto ed Asia, i sogni utopici delle classi inferiori si sono impregnati di un senso di «perdita» e della nostalgia di un ritorno al giardino dell’Eden. La gente parlava con desiderio dell'età in cui il leone e l’agnello vivevano fianco a fianco e la natura forniva ad un’umanità armoniosa tutto il necessario per vivere. La condizione umana era concepita in termini di un’età dell’oro successivamente seguito da un’età dell’argento meno paradisiaca, per poi concludersi quella del ferro, che aveva aperto la porta a conflitti, guerre e ingiustizie, il tutto destinato a ripetersi per l’eternità come le stagioni dell’anno. La storia non era vista in senso evolutivo, ma semplicemente come la continua ripetizione ciclica di degenerazione e rinascita.

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Non si creda, comunque, che tale immaginario fosse proprio esclusivamente degli oppressi. La fede in una relazione puramente passiva con la natura e gli esseri viventi non umani era più funzionale, storicamente, agli interessi delle classi al potere che a quelli delle classi subalterne, anche se veniva frequentemente evocata nei sogni ad occhi aperti degli oppressi. Prima di tutto, tali immagini non erano altro che sogni, appunto, miti funzionanti come valvole di sicurezza per le insoddisfazioni reali e concrete degli inferiori, atte a deviare l’attiva volontà di cambiamento verso rituali catartici e desideri innocui. Organizzati da preti e sacerdotesse, venivano sfruttati come rappresentazioni sceniche attentamente coreografate al ritmo dei tamburi e al suono dei flauti, incanalando in una liturgia programmata la rabbia che altrimenti avrebbe potuto sfociare nell’azione, generando radicali trasformazioni sociali. Nessuna società è mai ritornata al suo passato «d’oro». Al contrario, l’immagine di ciclo inevitabile, con la sua speciosa promessa di un «eterno ritorno», rafforzava la manipolazione pretesca dei fedeli sottomessi. Estrema ironia, l’immagine di una perduta «età dell’oro» veniva usata per giustificare la tirannia di quella «del ferro». Preti, monarchi e nobili concordavano nello spiegare la perdita dell’«età dell’oro» come la pena imposta all’umanità per un qualche «peccato originale». Per colpa di Èva, che aveva indotto Adamo a cibarsi del frutto dell’albero della conoscenza, oppure di Pandora, che aveva aperto il vaso contenente i mali del mondo, il paradiso era stato perduto, si diceva, perché l'uomo aveva violato il proprio patto con l’entità soprannaturale. In somma, il male aveva colpito l’umanità per sua stessa colpa, non per l’emergere della gerarchia, della proprietà, dello Stato, delle elite dirigenti. Quindi era necessario un governo, nelle sue varie forme, allo scopo di disciplinare un’umanità riottosa e priva di quel senso dell’obbedienza indispensabile per mantenere in ordine il mondo. Ecco che i miti retrospettivi dell’«età dell’oro» risultano significativamente presenti non solo tra gli oppressi, ma anche nella letteratura dei loro oppressori. Tali miti sono stati capziosamente usati per giustificare la dominazione sulle donne, nella storia di Pandora, e il dominio sugli uomini, nell’Odissea, un poema profondamente aristocratico in cui l’isola che Ulisse incontra subito dopo quella dei Lotofagi è retta dal bieco patriarcato dei Ciclopi. Tutto ciò dimostra sorprendentemente come queste rappresentazioni non facciano distinzione di sesso

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quando si tratta di giustificare la sottomissione. Non meno delle donne, anche gli uomini cadono vittime dei vari esseri demoniaci che governano le isole toccate da Ulisse nel suo viaggio, ciascuna delle quali sembra essere la rappresentazione di un’era mitica. I pur goffi tentativi del razionalismo greco di individuare un senso nella storia, intendendola come progresso più che come ritorno al passato, sono decisamente più avanzati delle immagini basate sulle false concezioni di una natura ciclica e fondamentalmente statica. La storia del popolo greco scritta da Tucidide, nella parte introduttiva dell’opera La guerra del Peloponneso, è impeccabilmente secolare e naturalistica. Non vi sono miti a intralciare la sua cronaca rigorosa basata sui fatti, mentre descrive l’insediamento della comunità greca e la nascita della polis. Secoli dopo, Diodoro Siculo ha un approccio nettamente realistico nella sua storia dell’evoluzione umana dalla preistoria alla storia, una rappresentazione drammatica di mutamenti che rompe ogni legame con miti, cicli, provincialismo. L’attenzione di Diodoro non è attirata soltanto dai Greci, ma dalla «razza di tutti gli esseri umani e la loro storia nelle porzioni conosciute della terra abitata». Il cristianesimo, nonostante la sua ambivalenza ed il rifiuto del secolarismo dei cronisti greci, ha portato un senso della storia e del futuro, offrendo redenzione alle masse prigioniere nei cicli dell’eterno ritorno. Che padri cristiani come Agostino abbiano parlato della perdita dell’innocenza nel Giardino dell’Éden non è strano in una religione che non ha fatto che adattarsi all’autorità e allo Stato romano. Ma alle origini, quando il cristianesimo era un movimento popolare giudaico, anche sovversivo, il problema veniva affrontato in modi assai diversi, che lasciavano spazio tanto ad interpretazioni conservatrici che «rivoluzionarie». La religione giudaica, in virtù della sua visione trascendente e dualistica di un dio creatore chiaramente separato dalla sua creazione, ha rimosso la divinità dalla vita sociale, oltre che dalla natura. Questo ha permesso, come hanno osservato H. e H.A. Frankfort, di affrontare i problemi sociali da un punto di vista in larga misura secolare. Essi non erano più intrecciati al mito e alle pretese soprannaturali dell’autorità. Negli imperi antichi, la tirannia era ammantata d’autorità divina e giustificata dalla pretesa dei monarchi di ricevere il potere dal cielo. L'esistenza di un «cosmo sacro» implicava l’esistenza di una «società sacra», cosicché l’oppressione sociale veniva ad assumere le caratteristiche mistiche della natura. Tale concezione, come ha sottolineato Janet Biehl, rivive nei

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moderni tentativi di considerare il mondo naturale come «sacro» e di restaurare la superiorità del culto divino, propri ad un «ecofemminismo» mitico e non sociale. Questa tradizione è stata ereditata dalla Chiesa, che però si è impegnata a modificarla. Ernst Bloch ha osservato: «...per la prima volta nella storia appare un’utopia politica [il corsivo è mio — M.B]. In effetti, essa produce storia; la storia diviene la storia della salvezza in direzione del Regno, un unico processo ininterrotto che va da Adamo fino a Cristo...». L’utopia, in effetti, veniva ad assumere un carattere terreno éd assai più che in passato aveva il potere di determinare il futuro. Nonostante la sua configurazione religiosa, la salvezza poteva essere raggiunta in terra con il ritorno di Cristo e la sconfitta del male a vantaggio della virtù. Non si può negare che le scritture ebraiche contenessero un attivismo e un interesse per gli oppressi pratica- mente sconosciuti alle altre religioni del Medio Oriente. Come hanno rilevato i Frankfort (The Emancipation of Thought from Myth), i testi egiziani che descrivevano i rivolgimenti sociali seguiti al collasso del Regno Antico dei costruttori di piramidi, «vedevano con orrore... il turbamento dell’ordine stabilito». Il potere acquisito dagli oppressi è sintomo di «...dolore e disagio...», nelle parole del cronista, il quale lamenta che «... l'infimo è diventato supremo» e «... il povero diventa ricco». Al contrario, le scritture ebraiche trattano con esultanza le rivolte sociali degli oppressi. La nascita del profeta Samuele, ad esempio, è celebrata con le seguenti parole: «Spezzati sono gli archi dei potenti... Quelli che erano gonfi si sono venduti per un tozzo di pane. E quelli che avevano fame non l’hanno più». I poveri vengono sollevati «dalla polvere», il mendicante è «tolto dallo strame, ed essi sono posti tra i principi, ed erediteranno il trono della gloria...». Non solo vengono spazzati via gli effetti oscurantisti del mito, come postumi letargici di un potente sedativo, ma la fissità e il conservatorismo di esso sono rimpiazzati da un senso di dinamismo che produce ideali sempre più avanzati di libertà. I Gioachimiti, una delle tendenze più sovversive della Cristianità medievale, hanno rotto con la fumosa e calcolata imprecisione temporale delle scritture ufficiali e hanno provocatoriamente diviso la storia in epoche precise della liberazione umana. Anche più importanti dei grandi movimenti popolari chiliastici, come gli ascetici (e mezzi folli) Flagellanti e i Pastorelli (Pastoureaux) che

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nel loro girovagare attaccavano ciecamente il clero e gli ebrei, i monaci come Gioacchino da Fiore hanno posto le basi di tendenze libertarie ben più durature. Era questi un abate cistercense di Corazzo, un villaggio calabrese, che nel dodicesimo secolo sottopone a revisione il concetto di trinità trasformandolo da mistico riferimento alla natura una e trina della divinità in una cronologia sovversiva. Secondo lui il Vecchio Testamento rappresentava l’era del Padre, il Nuovo quella del Figlio e lo Spirito Santo era un «Terzo Regno» ancora da venire, nel quale non ci sarebbero stati padroni e la gente sarebbe vissuta in armonia, senza alcun riguardo per il credo religioso di ognuno, mentre la natura provvida avrebbe fornito a tutti di che sostentarsi. Nel periodo che va dal quattordicesimo secolo in Inghilterra al sedicesimo secolo in Germania (e anche durante le guerre ussite in Boemia che avevano prodotto burrascosi movimenti comunistici come quello dei Taboriti) contadini e artigiani hanno coraggiosamente dato vita a croniche insurrezioni per la conservazione dei propri diritti comunali, locali e di associazione. Possono apparire movimenti conservatori alla luce della «modernità» e dei suoi valori urbani, tecnologici e individualistici, eppure questa marea secolare di conflitti mai sopiti ha dato alla libertà un’accezione morale che nella nostra era di «socialismo scientifico» e fredde analisi economicistiche è andata perduta. Nei secoli culminati con la Riforma Protestante, la religione è diventata via via più terrena e meno soprannaturale di quanto fosse stata in passato, nonostante la sua costante influenza sui movimenti contadini e artigiani. Al tempo della Rivoluzione Inglese del 1640, il movimento democratico dei Levellers aveva un approccio prevalentemente secolare, e si faceva beffe del pietismo opportunistico di Cromwell. Non il cristianesimo, ma una sorta di panteismo naturalistico (ammesso che si possa parlare comunque di teismo) aveva influenzato il pensiero di rivoluzionari comunistici come Gerard Winstanley, che era a capo del piccolo movimento dei Diggers durante la guerra civile del 1650. Il termine libertà, piuttosto esotico se paragonato all’invocazione di giustizia, aveva acquistato un contenuto marcatamente realistico. Uomini e donne hanno cominciato a combattere non solo per la libertà di religione, ma anche per la libertà dalla religione. Hanno cominciato a combattere non solo contro forme specifiche di dominazione, ma anche contro il dominio in quanto tale, per il libero accesso ai mezzi di

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sostentamento in una società comunitaria. L’attivismo ha cominciato a sostituire l’inerzia vegetativa volta al passato. La morale ha cominciato a prevalere sulla consuetudine; il naturalismo ha preso a tagliar fuori il sovrannaturalismo; l’opposizione alla gerarchia ecclesiastica ha cominciato a produrre opposizione alle gerarchie civili. Un gradevole senso di sviluppo ha cominciato a sostituire la fissità dei fabbricanti di miti, i rituali ripetitivi e la morsa atavistica in cui un passato oscuro e superstizioso stringeva presente e futuro. Libertà e ragione Se c’è un fatto fondamentale che segna l’espansione degli ideali di libertà, è rappresentato dall’influenza che su di essi ha avuto la ragione. Contrariamente a quanto sostengono filosofie, religioni e moralismi, il razionalismo non è mai stato abbandonato nei secoli del mondo antico e del Medio Evo. A dispetto dell’epidemia del Culto di Iside e di altre religioni ascetiche provenienti dall’Oriente, durante il tardo impero romano lo sforzo ellenico di dare un’interpretazione razionale del mondo non solo si era mantenuto ma aveva lentamente dato origine ad una serie di nuove interpretazioni di cosa dovesse intendersi per ragione. In realtà, viviamo in uno stato di ignoranza paralizzante per quanto riguarda i diversi tipi di logica e di razionalità elaborati dai vari pensatori fino ai nostri giorni. L’idea che esista un unico tipo di razionalità, cioè Fa logica prettamente statica, cosiddetta «lineare», formale, essenzialmente sìllogiètica, definita da Aristotele nel suo Organum, è completamente falsa. In realtà, Aristotele stesso ha usato un tipo di razionalità «evolutiva» ed organica negli altri suoi scritti. Tale razionalità organica era modellata sulla biologia e si contrapponeva alla razionalità formale modellata sulla matematica ed in particolare sulla geometria. La razionalità organica, o per meglio dire dialettica, poneva l’accento sullo sviluppo più che sulla fissità; sulla potenzialità più che su di una successione inferenziale di proposizioni; sulla eduzione fluida di fenomeni che vanno differenziandosi da una serie di presupposti generali, generando qualcosa di compiuto e di altamente sviluppato, più che sulla deduzione schematica di conclusioni fisse da premesse rigidamente definite. In breve, una dialettica riccamente speculativa, organica, coesisteva con la logica tradizionale, fondata sul senso comune, che usiamo per

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problemi concreti della vita di tutti i giorni. La teologia stessa era un tentativo di comprensione razionale delle vie perseguite dalla divinità-creatrice nella interazione di questa con ciò che aveva creato, in particolare con l’umanità. Nell’«Età della Fede», che poi non era altro che il mondo medievale, venivano usati entrambi i sistemi di pensiero, allo scopo di spiegare ben più che la fede, cui il misticismo, nella sua nostalgia per l’innocenza perduta, si è volto assai più rapidamente della cultura scolastica clericale. Francesco d’Assisi sentiva realmente e profondamente la sofferenza dei poveri e, più problematicamente, vedeva nelle forme di vita non umana un tributo alla gloria della divinitàcreatrice. Ma l’ordine francescano è stato facilmente cooptato dal Papato e trasformato, all’epoca dell’inquisizione in persecutore da perseguitato che era, coinvolgendolo perfino nella persecuzione degli stessi spirituali gioachimiti. L’innocenza, l’intuizione e i desideri atavistici non sono barriere molto resistenti contro l’aggressione da parte di manipolazioni sofisticate. Più di frequente, erano pensatori acuti del tipo di Galileo che venivano messi a tacere con gli arresti domiciliari, o razionalisti speculativi come Bruno, bruciato dall’inquisizione, e non mistici come Francesco e Meister Eckhart. La mia idea, comunque, è che la ragione non è tagliata da un unico pezzo di stoffa. Nella sua forma dialettica, la ragione ha dato al pensiero un senso della storia, dell’evoluzione, del processo, e non strumenti di analisi «lineari», proposizionali, sillogistici. Allo stesso modo, i primi tentativi di approccio organico e non meccanicistico al mondo hanno cominciato a rivivere con le indagini in campo biologico e fisico. Il concetto di evoluzione era già nell’aria nel quindicesi secolo, stando agli scritti di Leonardo da Vinci sui fossili marini trovati nelle montagne dell’interno. Leonardo ha anche osservato che, in un mondo in continuo cambiamento, il fiume Po avrebbe «portato probabilmente terra asciutta all’Adriatico, così come ha già fatto in gran parte della Lombardia». Nel diciottesimo secolo, l’evoluzione era un fatto accettato tra i filosofi francesi, grazie all’opera di Maupertuis, Diderot e Buffon. La riscoperta del corpo, le necessità dei sensi, il diritto al piacere fisico e non semplicemente ad una felicità addormentata, hanno cominciato a mettere in. discussione l’ascetismo (e non solo quello) della Cristianità ufficiale, ma anche degli spiritualisti rivoluzionari. La convinzione, così frequente tra i ceti poveri che i

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privilegiati avrebbero dovuto ricevere ancn’essi la propria parte di dolori e rinunzie secondo il presunto volere di dio, era sempre meno accettata anche presso la gente comune. I piaceri corporei e la piena soddisfazione dei bisogni materiali venivano sempre più spesso visti come un dono del cielo durante il Rinascimento. Utopie sensuali come quella del Paese di Cuccagna, dove il lavoro era sconosciuto e pernici arrosto cadevano dal cielo, cominciavano a circolare tra le masse, spesso in aperto contrasto con le rinunce della vita monastica predicate dai mistici. A differenza dei sovversivi millenaristici e anche degli spirituali gioachimiti, le masse non rimandavano tali utopie ad un futuro lontano, oppure al paradiso. Erano considerate come esistenti, localizzate geograficamente in Occidente, fuori dai territori allora conosciuti, ed erano quindi siti reali, da scoprire per mezzo dell’esplorazione attiva, non semplici giochi della fantasia. In effetti, gli ostacoli maggiori a queste tendenze naturalistiche non erano posti dal razionalismo della Scolastica cristiana, quanto piuttosto da mistici medievali come Savonarola, il monaco che voleva essere la voce degli oppressi e che aveva fatto bruciare le opere d’arte fiorentine predicando un vangelo di aspre rinunce. Paragonati all’ampio ventaglio di concezioni liberatorie apparse con l’approssimarsi dell’«Età della Ragione», i movimenti popolari come i Pastoreaux o i Flagellanti o gli stessi Gioachimiti, appaiono incerti o insensati. Facendo emergere le tendenze più secolari del razionalismo greco, che si era inquinato di teologia cristiana e islamica, il Rinascimento ha dato voce a idee riccamente speculative e critiche. Di queste, è importante notare la straordinaria omogeneità, quale che fosse la forma sotto cui erano presentate, dissertazioni, dialoghi, o utopie fantastiche. Sono concezioni non solo razionali (anche in senso dialettico) ma sensuali: portano il messaggio di una nuova società in cui tutto ciò che è umano è fondamentalmente buono e merita di poterai esprimere pienamente. Dal punto di vista sociale, sono idee ecologiche, in quanto partecipatorie: tutti gli aspetti dll’esperienza svolgono un ruolo complementare nel determinare un risultato completo e riccamente differenziato. In queste nuove ecocomunità, il corpo ha diritto di cittadinanza pari alla mente; l’organico pari all’inorganico; la passione pari alla ragione; la natura pari alla società; le donne pari agli uomini. Per, quanto tali idee possano a volte apparirci come superate dal punto di vista della nostra

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concezione di modernità, bisogna riconoscere che in esse non v’era parte del panorama, tanto umano che naturale, che sfuggisse all’indagine critica ed ai tentativi di miglioramento. Esse affrontavano non solo i problemi dell’orcanizzazione sociale, della cultura, della moralità, della tecnologia e delle istituzioni politiche, ma anche quelli delle relazioni all’interno della famiglia, dell’istruzione, della condizione femminile, oltre a tutti gli aspetti banali della vita quotidiana. Nel Rinascimento, e poi nell'illuminismo, tutto viene esaminato secondo la ragione e giudicato come positivo o negativo alla luce di un emergente secolarismo e naturalismo. Ovviamente non possiamo pretendere che i pensatori di allora andassero totalmente al di là del proprio tempo. Al contrario, la grande portata delle loro idee, stante l’epoca in cui sono state espresse, merita la nostra generosità di giudizio. Una delle grandi verità del sapere dialettico è che tutte le grandi idee, per quanto possano essere apparse limitate al proprio tempo e inadeguate al nostro, perdono la propria relatività se vengono viste come parte di un tutto in via di differenziazione, allo stesso modo che un blocco di marmo cessa di essere un pezzo di pura e semplice materia minerale quando viene scolpito in una meravigliosa opera d’arte. Visto come parte di un ambito più grande, non può più essere considerato un semplice minerale, così come anche gli atomi che compongono un organismo vivente non possono essere considerati mere particelle. Con la vita nasce il metabolismo, che non esiste a livello inorgànico, né può essere imputato all’attività atomica o alle proprietà elettromagnetiche. Così è giusto che i pensatori della tradizione liberatoria, o rivoluzionaria se preferite, vengano apprezzati per quello che hanno apportato tanto al proprio tempo quanto al nostro, se si vuole cogliere il carattere di continuità della loro opera. E' possibile distinguere diverse grandi tendenze nell’evoluzione degli ideali di libertà: la prima di esse è l’interesse per il «secolo», cioè per il mondo reale, non quello che sta in cielo o fuori delle rotte conosciute. Questo non significa che i pensatori rivoluzionari egli utopisti del Rinascimento, dell’illuminismo o della prima parte dell’ultimo secolo, si adeguassero «realisticamente» al mondo in cui vivevano. Al contrario, facevano il possibile per guardare al di là di esso, cercando di poggiare i propri ideali su quanto di meglio l’epoca in cui vivevano era in grado di esprimere. Il che ci conduce alla seconda delle tendenze prima ricordate: il

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riconoscimento della necessità di una società strutturata in modo da impedire convulsioni come quelle provocate dalla nobiltà riottosa, in Inghilterra e nel continente europeo. In particolare durante il Rinascimento, l’aristocrazia aveva trascinato la società in una condizione di guerra cronica. Tra le rovine lasciate dalla Guerra delle Rose in Inghilterra e dalle guerre di religione in Europa centrale, utopisti e pensatori rivoluzionari non potevano concepire una società umana che non fosse totalmente stabile e quasi «meccanica», quanto a simmetria cooperativa delle sue parti in movimento. Ben prima che Cartesio avesse fatto del meccanicismo una concezione filosofica del mondo, le convulsioni sociali ne avevano fatto uno dei desiderata dei filosofi progressisti. Il fatto che molti pensatori utopistici abbiano preso a modello i ben ordinati monasteri, è già un fatto rivoluzionario in sé: sarebbe stato più facile optare per gli Stati nazionali che già stavano sorgendo, come si è verificato poi nel movimento socialista, nel diciannovesimo secolo. Essendo a quel tempo avvertita l’esigenza di una pianificazione economica, in parte per frenare il disordinato comportamento della nobiltà, in parte per tenere sotto controllo le ruberie perpetrate dall’emergente borghesia commerciale a spese dei contadini e dei ceti urbani meno abbienti, le regole tradizionali e socialmente responsabili adottate nella gestione dei conventi per la regolamentazione della vita quotidiana apparivano più etiche e umane delle altre alternative allora possibili. Solo più tardi, nel diciannovesimo secolo, una società ordinata ed una economia pianificata sarebbero state identificate con lo Stato nazionale, in nome di un «socialismo scientifico» e del tentativo di realizzare un’economia «nazionalizzata». Una terza tendenza che ha contribuito all’espansione degli ideali di libertà durante il Rinascimento e l’illuminismo, è stata l’alta considerazione in cui era tenuto il lavoro. Tommaso Moro, Tommaso Campanella, Valentin Andreae, Francesco Bacone, non sono stati gli unici ad onorare il ruolo dell’artigiano e del coltivatore: Diderot ha portato le loro abilità e il loro contributo alla società sulle pagine dell’Enciclopedia francese, dove queste arti vengono gratificate di un’attenzione senza precedenti ed esplorate nei minimi dettagli. Kropotkin, ne II mutuo appoggio, cita un’ordinanza medievale che recita: «Ognuno deve amare il proprio lavoro, e nessuno che stia ozioso potrà appropriarsi di ciò che altri ha prodotto con applicazione di opera, poiché la legge deve proteggere

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l’applicazione e l’opera». Tale costellazione di tradizioni ed idee non ha precedenti nel mondo antico. Profondi valori umani permeavano l’economia mista dei secoli immediatamente precedenti l’ascesa del capitalismo industriale in Inghilterra, un’economia in cui coesistevano coltivatori diretti e braccianti, artigiani e proletari.. In quest’epoca poco conosciuta, spesso mal interpretata, vennero persino fissati limiti al lavoro manuale. Come osserva Maria Luisa Berneri nella sua opera Viaggio attraverso Utopia, «... l’idea utopica di una breve giornata lavorativa che a noi, abituati a pensare al passato nei termini del diciannovesimo secolo, appare come un’idea molto rivoluzionaria, non risulta essere una grande innovazione se viene messa a confronto con un’ordinanza di Ferdinando I sulle imperiali miniere di carbone, che stabiliva in otto ore la giornata lavorativa dei minatori. E secondo Thorold Rogers, nell’Inghilterra del quindicesimo secolo, gli uomini lavoravano quarantotto ore la settimana». Infine, tra le varie tendenze di questa società mista, in particolare durante il Rinascimento, c’è l’alta considerazione in cui era tenuta la comunità. Era questa un’epoca costretta ad assistere alla disintegrazione di villaggi e città ad opera di un mercato capillare e continuamente in crescita. La nuova borghesia doveva essere tenuta sotto controllo. Essa non solo minacciava i fragili legami che tenevano le persone unite attraverso un medesimo interesse comunitario, ma colpiva anche le associazioni, le società religiose che si prendevano cura dei poveri e degli ammalati, i legami familiari, i valori di solidarietà umana. Man mano che tutto, dalla terra coltivata in comune alle responsabilità di parentela, finiva sotto le sue grinfie, i teorici progressisti e gli alfieri dell’utopia rafforzavano le proprie concezioni contro il comportamento asociale dei nuovi borghesi e dell’aristocrazia commerciale. Non dobbiamo dunque essere troppo critici, se un pensatore come Tommaso Moro ha ritenuto necessario, nella sua Utopia, mantenere solidi legami familiari e restare fedele all’ortodossia cattolica di fronte a Enrico VIII, la cui «riforma» non faceva altro che sostituire la tiara del vescovo di Roma con la corona di un re inglese. Come molti dei suoi rinascimentali contemporanei, Moro era orientato verso l’ecumenismo umanistico che vedeva espresso nel principio del papato, piuttosto che verso il nazionalismo

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incarnato da un monarca egoista. Le riserve avanzate da Moro a proposito della sottomissione ad un sovrano nella sua società ideale, sono espresse per bocca di Hythloday, il narratore di Utopia che rappresenta l’autore: «... la maggioranza dei principi si dedica alle cose guerresche piuttosto che alle arti della pace, e di quelle io non ho né esperienza né desiderio di apprenderle; servono in genere per acquisire nuovi regni, giusto o sbagliato che sia, più che per governare quelli che già possiedono...». Anche maggiore è la portata dell’ideale societario di Valentin Andreae nella sua Christianopoli, una austera comunità che impone regole severe al comportamento, ma con un atteggiamento di profonda umanità verso i bisogni e le sofferenze degli individui. Christianopoli è senz’altro una polis, cioè una città a misura d’uomo con confini ben definiti, non uno Stato nazionale. Ma è anche altamente standardizzata nei suoi edifici e nella quasi matematica suddivisione delle funzioni e delle zone, oltre che nell’equilibrio tra industria e agricoltura. Nessuna di queste utopie (altro carattere monastico) è basata sulla proprietà privata e i mezzi di sostentamento vengono distribuiti secondo i bisogni di ognuno. Che siano descritte comé isole, come nel caso di Utopia, o come comunità, come Christianopoli, in realtà sono città, e per quanto le loro popolazioni vivano bene hanno tutte connotazioni ascetiche. Questi elementi significativamente pre-nazionali e precapitalistici non devono essere trascurati: l’ideale monastico di servizio, lavoro, comunione dei beni e inquadramento, nell’interesse di ciò che appare come il bene della comunità, permeava il pensiero progressista di quell’epoca, soprattutto tra i pensatori utopistici. Ciò è visibile anche nella Città del Sole di Campanella, dove le donne godono di una considerazione particolarmente alta, sulla scorta di una concezione eugenetica di tipo platoniano e di un particolare interesse per le scienze naturali. Il mondo che presentano, ordinato, amante del lavoro, letterato, riunisce insieme la tradizione medievale e l’innovazione moderna. I teorici e gli utopisti sociali del Rinascimento erano affascinati dalle possibilità di progresso umano offerte dalla scienza, come risulta dalla descrizione della Nuova Atlantide di Bacone, e attribuivano una grandissima importanza al ruolo dell’istruzione nella ricostruzione della società. Questi temi (l’illuminazione attraverso l’apprendimento, l’applicazione della ragione e dell’ordine alle cose umane, il fascino

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esercitato dalla scienza, l’alta considerazione del lavoro) sarebbero stati ripresi e ampliati daH’Illuminismo del diciottesimo secolo. Ma a quel tempo lo Stato nazionale si era ormai definitivamente consolidato e la città aveva cessato di rappresentare l’unità fondamentale dell’innovazione rivouzionaria. Con Montesquieu, che ha dato il tono all’intero secolo, le istituzioni politiche hanno cominciato a 'soppiantare l’interesse per la proprietà, le relazioni familiari e i temi culturali. E' interessante notare che i programmi comunistici elaborati dagli abati Mably e Morelly sono del tutto marginali al lavoro dei filosofi; a tutt’oggi non conosciamo nemmeno il nome di battesimo di Morelly, e l’influenza che egli ha esercitato è stata assai scarsa; bisogna arrivare al periodo conclusivo della rivoluzione francese perché il suo Codice della Natura venga letto da Gracco Babeuf, lo sfortunato leader della «Congiura degli Uguali». L’Illuminismo è stato più particolaristico del Rinascimento. Intere discipline sono state create da singoli individui con uno svolazzo di penna, e l’orientamento era più verso i diritti individuali che la conservazione della comunità. Il coinvolgimento con l’autorità ecclesiastica, che Voltaire chiamava «l’infamia», nonché la presenza di un corpo politico strutturato gerarchicamente, hanno trasformato la vita monastica in un anacronismo, nel migliore dei casi, e in una bestemmia nel peggiore. Più psicologi che razionalisti, i pensatori illuministici erano spesso preoccupati dalla natura umana, non solo dalla ragione umana. Sia Diderot che Rousseau, forse i personaggi più importanti dell’epoca, erano uomini di «cuore», oltre che brillanti intelletti, e la spontaneità delle passioni svolgeva nella loro opera un ruolo altrettanto fondamentale che la ragione. Le utopie libertarie Dall’evoluzione subita dalle idee di rinnovamento sociale, tra il sedicesimo e il diciottesimo secolo, diversi temi sono emersi e venuti in reciproca contrapposizione. Era possibile, in un’epoca di profondo disagio economico, che il benessere materiale delle persone venisse ottenuto solo a patto di sottomettere l’individuo ad una società ben ordinata, basata sulla disciplina di tipo monastico e, più tardi, sull’autorità statale? Era indispensabile che l’uguaglianza a livello materiale venisse realizzata subordinando la libertà a piani economici coattivi? Davvero un’esistenza gioiosa e sensuale era in contrasto con la necessità che tutti lavorassero,

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necessità di cui si era nutrito l’ascetismo che affliggeva tante utopie e ideali progressisti di società? Era possibile l’abbondanza per tutti in un’epoca che ancora non era riuscita a garantire la soddisfazione dei più elementari bisogni della sopravvivenza? E in che misura gli uomini (per non parlare delle donne) potevano creare una vitale cultura politica partecipatoria dedicando otto ore di lavoro, o meno, ai compiti indispensabili per ii soddisfacimento delle loro necessità materiali fondamentali? Alla base di tutti gli ammonimenti morali promossi dagli ideali di quel tempo straordinario, stavano evidentemente domande di questo tipo. E semplicemente impossibile comprendere le possibilità e le limitazioni di quelle concezioni senza prendere in considerazione questo tipo di problemi. Nel passaggio da città a nazione, dal monastero allo Stato, dall’etica alla politica, dalla proprietà comune a quella privata, infine da un mondo artigianale ad uno industriale, è emersa un’affascinante combinazione di concezioni spesso contenenti il meglio (e il peggio) di ognuna di queste antinomie sociali. Uso il termine «antinomie» coscientemente, perché ciò di cui parlo sono idee contraddittorie ma coesistenti, delle quali solo poche hanno completamente soppiantato le immagini precedenti nella mente dei pensatori progressisti del diciannovesimo secolo. Anzi, come vedremo, sono anche riemerse ai giorni nostri, sia pur sotto l’aspetto di richieste sensibilmente riformulate, in una sintesi totalmente nuova che viene definita come ecologia sociale. E' vero che, messe a confronto, fra molte di esse è stata poi compiuta una scelta da parte dei teorici progressisti. Per esempio, il marxismo ha scelto nettamente la concezione nazionale invece che quella cittadina e la concezione statale invece che quella di una comunità monastica autodisciplinata, come invece ha sostenuto in particolare Andreae, le cui idee hanno spesso anticipato il «villaggio industriale» di Robert Owen. Ma altre forme di pensiero rivoluzionario dovevano presentarsi, producendo una sintesi adatta al proprio tempo (tempo di rapida industrializzazione e urbanizzazione) che i rivoluzionari non possono più permettersi il lusso di ignorare. Mi riferisco qui alle utopie libertarie ed alle idee esplicitamente anarchiche apparse nel diciannovesimo secolo: una tradizione che ha prodotto ideali di libertà tanto razionali quanto etici, tanto meditati quanto appassionati. E' semplicemente impossibile ignorare le penetranti analisi di William Godwin, oppure il

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complesso degli scritti di Pierre-Joseph Proudhon, o la critica incisiva di Mikhail Bakunin, e il lavoro di ricostruzione operato da Piotr Kropotkin, soprattutto le sue preveggenti intuizioni ecologiche, e le visioni utopiche di Robert Owen o di Charles Fourier. Né questi pensatori possono essere trattati come semplici «precursori» visionari del «socialismo scientifico» di Karl Marx. Con la medesima arroganza il naturalismo di Aristotele potrebbe essere considerato inferiore all’idealismo filosofico di Hegel, o l’opera storica di Tucidide a quella di Charles Beard. In realtà, tutti questi pensatori si completano a vicenda, e anche quando sono in disaccordo gettano comunque luce su problemi importanti, ciascuno dei quali è affrontato da un punto di vista sociale differente, in un dramma storico ancora ampiamente incompleto. Il corso degli eventi umani si è mosso in direzioni chiaramente definite e necessariamente «progressive» non più di quanto sia accaduto per la storia delle idee. Se dovessimo tornare ad una società maggiormente decentrata, un Aristotele o un Tucidide sarebbero più importanti per noi, in quanto esprimono la saggezza della polis greca assai più di un Hegel o di un Beard, così interessati allo Stato nazionale. Il senso della storia umana, i percorsi che essa avrebbe potuto seguire e quindi le idee più idonee per la ricostruzione in senso razionale della società sono ancora tutti da definire. I teorici progressisti e gli utopisti seguiti alla rivoluzione francese hanno avuto ideali di libertà più aperti di quelli nutriti dai loro predecessori illuministi, e tali ideali avrebbero potuto costituire un’alternativa al corso seguito dalla storia, se non fossero stati scioccamente ignorati dai successori socialisti di quelli. La grande portata di quegli ideali e l’alternativa che essi hanno offerto all’umanità sono due eredità, entrambe immensamente importanti per il radicalismo moderno. I pensatori anarchici e gli utopisti libertari erano profondamente sensibili alle scelte che sarebbe stato necessario compiere nel reindirizzare la società umana in senso razionale e liberatorio. Essi hanno sollevato problemi di grande portata: se fosse possibile ricondurre comunità ed individuo ad una reciproca armonia; se davvero la nazione fosse il successore necessario, o per meglio dire etico, della comunità o «comune»; se lo Stato dovesse essere il successore inevitabile della città e delle confederazioni regionali; se l’uso in comune delle risorse dovesse essere soppiantato dal possesso privato; se la produzione artigianale dei beni e l’attività agricola a misura d’uomo fossero destinate per «necessità storica»

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ad essere sostituite da gigantesche catene di montaggio e da sistemi meccanizzati di agribusiness. Infine, si sono chiesti se l’etica doveva sottomettersi allo statalismo e quale sarebbe stato il destino della politica uno volta che essa avesse cercato di adattarsi agli Stati centralizzati. Essi non vedevano contraddizione tra il benessere materiale e una società ben ordinata, tra l’uguaglianza sostanziale e la libertà, tra la giocosità, il piacere, e il lavoro. Essi immaginavano una società dove fosse possibile l’abbondanza, dove potesse emergere una cultura politica non condizionata dal sesso, grazie alla diminuzione della settimana lavorativa, della produzione superflua e del consumo eccessivo. Tali richieste, avanzate già due secoli fa e infusi della passione morale di duemila anni (e più) di movimenti ereticali come i Gioachimiti, sono state violentemente riproposte in quest’ultimo tratto del ventesimo secolo. Termini come «precursori» sono diventati semplicemente privi di significato in una società in crisi come la nostra, che si trova nella necessità di rivalutare tutta la storia delle idee e delle alternative che la storia sociale ha tracciato nel passato. Né è possibile ignorare le differenze che distinguono i teorici anarchici e gli utopisti libertari del secolo scorso da quelli di un passato più lontano. Tendenze anarchiche come quelle rappresentate dai primi Cristiani, gli Gnostici rivoluzionari, i Fratelli del Libero Spirito del Medio Evo, i Gioachimiti e gli Anabattisti, vedevano la libertà più come il risultato ai una visitazione soprannaturale, che come la conseguenza dell’attività umana. E' importante notare questa mentalità sostanzialmente passiva-recettiva, fondata su basi mistiche. Che alcune tendenze premoderne abbiano agito allo scopo di cambiare il mondo, non cambia il fatto che le loro stesse azioni erano considerate come espressione della predeterminazione divina. Ai loro occhi, l’azione fioriva dalla trasmutazione del volere di Dio nella volontà umana. Era il prodotto di un’alchimia sociale resa possibile da una decisione soprannaturale, non dall’autonomia umana. La «pietra filosofale» del cambiamento, in questo caso, stava in cielo, non sulla terra. La libertà doveva «arrivare», portata da forze sovrumane, come il «secondo avvento» di Cristo o la predicazione di un nuovo Messia. La Storia, in effetti, era vista come un orologio che segnava il trascorrere di una specie di tempo metafisico, fino a che i peccati del mondo sarebbero divenuti così intollerabili da muovere la divinità, che non avrebbe più benedetto

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la sua creazione, né sopportato le sofferenze dei poveri e degli oppressi. Questa ingenua concezione è stata radicalmente modificata dal Rinascimento, dall’illuminismo e soprattutto dal diciannovesimo secolo. L’«Età delle Rivoluzioni», per definire adeguatamente il periodo che va dalla fine del 1770 alla metà del ventesimo secolo, ha bandito le visitazioni soprannaturali e l’atteggiamento passivorecettivo da parte degli oppressi. Questi dovevano agire se volevano emanciparsi. Dovevano volontariamente costruire la propria storia, concetto fondamentale che Jean-Jacques Rousseau ha aggiunto alla storia delle idee rivoluzionarie e per il quale, nonostante i suoi errori, merita l’immortalità. Anche gli oppressi dovevano ragionare. Non potevano fare appello ad altre forze che quella della loro mente. La combinazione di ragione e volontà, di pensiero e azione, di riflessiòne ed intervento, ha cambiato l’intero panorama del radicalismo, spogliandolo dei suoi attributi mitici, mistici, religiosi ed intuitivi. Ed è triste che tali attributi stiano cominciando a ritornare di moda oggi, in questo mondo senza energia e psicoterapizzato. Il radicalismo dell’«Età delle Rivoluzioni», comunque, è andato oltre. La storia vista nell’ottica gioachimita, e in parte anche in quella marxista, procede al ritmo dell’approssimarsi inevitabile di un «tempo finale», un termine, anche un assoluto hegeliano, dove tutto ciò che è stato, in un modo o nell’altro, e tutto ciò che accade segue la guida di una «mano segreta», Dio, lo Spirito, l’«astuzia della ragione» (per usare il lessico hegeliano), o l’interesse economico, per quanto esso possa essere celato a coloro che ne sono influenzati. Non ci sono alternative a ciò che è stato, è o sarà, come si sentiva dire negli assurdi dibattiti circa «l’inevitabilità del socialismo», una o due generazioni fa. Invece, l’importanza attribuita dagli utopisti anarchici e libertari alla capacità di scelta in sede storica ha stabilito un punto di partenza totalmente nuovo, separandosi dalle visioni sempre più teleologiche del socialismo religioso e poi «scientifico». In gran parte, ciò spiega l’attenzione che gli anarchici e gli utopisti libertari del diciannovesimo secolo hanno tributato all’autonomia individuale, alla capacità di ogni individuo di scegliere sulla base di giudizi etici e razionali. Tale impostazione è nettamente diversa dalla tradizione liberale che è stata associata alle idee anarchiche dagli oppositori, in particolare dai marxisti. Il liberalismo ha offerto all’individuo un quid di «libertà», certo, ma un quid limitato dalla

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«mano invisibile» della concorrenza mercantile, non dalla capacità di agire conformemente a determinate norme etiche. Il «libero imprenditore» su cui il liberalismo ha modellato la propria immagine di autonomia individuale era, in effetti, completamente condizionato dalla comunità mercantile, per quanto potesse sembrare «emancipato» dal mondo comunitario medievale di gilde e vincoli religiosi. Era l’oggetto di una «legge superiore» di interazioni mercantili fondate su di una moltitudine di egoismi e competizioni, che annullandosi reciprocamente generavano un interesse sociale generale. L’anarchismo e gli utopisti libertari non hanno mai visto l’individuo libero in questa luce. L’individuo doveva essere libero per funzionare come una creatura etica, non come un meschino egoista, compiendo scelte razionali e auspicabilmente disinteressate tra alternative storiche razionali e irrazionali. L’accusa marxista che l’anarchismo è un prodotto dell’«individualismo» liberale o borghese, ha le sue radici in ideologie che sono esse stesse borghesi, come quelle basate sul mito della «mano invisibile» (liberalismo), dello spirito (hegelianesimo), o del determinismo economico (marxismo). L’importanza attribuita dagli anarchici e dagli utopisti libertari alla libertà individuale comportava l’emancipazione della storia medesima da una predeterminazione a-storica, e la prevalenza dell’etica nella determinazione delle scelte. L’individuo è realmente libero, ed esprime realmente la sua individualità, quando è guidato da una coscienza razionale, umana e profonda, del bene comune e sociale. Infine, la concezione anarchica di un mondo nuovo, così come è espresso nelle utopie libertarie, implica che la società può sempre essere ricostruita. In effetti, l’utopia è per definizione la rappresentazione del mondo come dovrebbe essere conformemente ai canoni della ragione, in contrasto con il mondo come è, risultato deTl’interazione cieca di forze incomprensibili. La tradizione anarchica del diciannovesimo secolo, pur meno «pittorica» di quella degli utopisti che dipingevano tele piene di immagini nuove e dettagliate, ha elaborato le proprie teorie, in accordo razionale con la storia umana, non con la storia teologica o metafisica. Il mondo è da sempre il frutto dell’attività di esseri umani in carne ed ossa, che hanno compiuto scelte concrete nei momenti cruciali della storia, e può esser ricostruito seguendo linee evolutive alternative, già presentatesi in passato.

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La gran parte della tradizione anarchica non è «pri- mitivistica» nostalgia per il passato, come vorrebbero farci credere certi storici marxisti del tipo di Hobsbawm, ma rivalutazione delle possibilità passate rimaste inattuate, come la comunità, la confederazione, l’autogestione dell’economia, e un nuovo equilibrio tra umanità e natura. La famosa asserzione di Marx che i morti devono seppellire i morti è priva di senso, per quanto lodevoli fossero le sue intenzioni di fronte ad un presente che cerca di imitare il passato. Solo i vivi possono seppellire i morti, e ciò può avvenire soltanto se essi sono in grado di capire cosa è realmente morto e cosa è ancora in vita tra i cadaveri che affollano i campi di battaglia della storia. Ecco dunque il motivo dell’interesse nutrito da William Godwin per l’autonomia individuale, per l’essere etico il cui intelletto è libero dal peso di concetti soprannaturali e da ogni forma di dominazione, divina, statale o consuetudinaria. Ed ecco anche l’interesse di Proudhon per il municipalismo e il confederalismo intesi come principi associativi, come modi di vita dove la libertà non è impedita né dallo Stato nazionale né dall’opera nefasta della proprietà. Ecco la rivalutazione bakuni- niana della spontaneità popolare e della funzione trasformatrice dell’atto rivoluzionario, dell’azione come espressione di volontà libera dai compromessi e dal cretinismo parlamentare. Ecco infine l’ecologismo di Kropotkin, il suo interesse per la misura umana e la decentralizzazione, e per l’armonia tra umanità e natura contrapposta allo sviluppo esplosivo dell’urbanizzazione e del centralismo. Ritornerò in seguito sulle idee di questi importantissimi, benché scarsamente apprezzati, pensatori a proposito dei problemi che oggi abbiamo di fronte e della necessità di una società ecologica. Per il momento, voglio occuparmi di un altro tipo di emancipazione, l’emancipazione del corpo, sotto forma di nuova sensualità, e dello spirito sotto forma di sensibilità ecologica. Sono argomenti che raramente figurano nella maggior parte delle discussioni sulla trasformazione sociale, nonostante abbiano un posto privilegiato nel pensiero utopico. Il senso di joie de vivre fa parte integrante della tradizione anarchica, a dispetto di qualche espressione d’ascetismo apparsa qua e là. L’ammonimento di Emma Goldman («Se nella vostra rivoluzione non potrò ballare, non la voglio!»), è frutto di un’impostazione tipicamente anarchica. E' una tradizione che risale a secoli addietro, agli artigiani ed anche a certi contadini

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anarchicheggianti, che chiedevano l’emancipazione dei sensi oltre a quella delle loro comunità. Fin dall’antichità gli Ofiti avevano riletto le scritture bibliche per identificare la chiave della salvezza: Eva e il serpente, agenti di libertà; l’abbandono estatico della carne, strumento per la liberazione dell’anima. I Fratelli del Libero Spirito, un movimento che si è presentato in Europa sotto molti nomi diversi, rifiutavano la reverenza ecclesiastica per la negazione di sé e celebravano una propria versione del cristianesimo, inteso come un messaggio di vero e proprio libertinaggio, oltre che di liberazione sociale. Nell’Abbazia di Thélème di Rabelais, la massima «Fa ciò che vuoi!» liberava da ogni limitazione i membri di quell’ordine giocoso, dove era lecito coltivare tutti i piaceri del corpo e dell’intelletto. I limiti tecnologici delle ere passate, il fatto che il piacere potesse ben di rado separarsi dal parassitismo in un mondo segnato dalla necessità di lavoro continuo, hanno reso elitari questi movimenti e queste utopie. Ciò che i Fratelli del Libero Spirito toglievano ai ricchi, i ricchi a loro volta toglievano ai poveri. Ciò che i membri dell’Abbazia di Thélème apprezzavano come un loro diritto, era stato espropriato al lavoro di operai, coltivatori, cuochi e servitori. La natura non era generosa, si diceva, se non in ristrette aree privilegiate del mondo. L’emancipazione dei sensi era spesso considerata, dai poveri e dai loro profeti rivoluzionari, come un privilegio della classe dirigente, sebbene fosse diffusa nelle città e nei villaggi più di quanto saremmo portati a credere. E anche gli oppressi avevano i loro sogni di utopici piaceri, immagini di una natura davvero generosa, con fiumi di latte e di miele. Ma, sempre, questa condizione meravigliosa proveniva da un qualche «essere» che accordava il dono dell’abbondanza sotto forma di una «terra promessa» — fosse questo una divinità o un demone capriccioso piuttosto che la tecnologia o una nuova e più equa organizzazione del lavoro e della distribuzione dei suoi frutti. I grandi pensatori utopici del diciannovesimo secolo hanno rappresentato un cambiamento radicale rispetto all’approccio tradizionale ed è per questo che meritano la nostra attenzione. I primi «villaggi industriali» di Robert Owen, che combinavano le tecnologie più avanzate del tempo con l’agricoltura per la costituzione di comunità a misura d’uomo, erano concepiti sulla base delle possibilità tecnologiche offerte dalla Rivoluzione Industriale. La «prima natura» può essere generosa o no, ma è la «seconda natura», chiaramente, cioè la società umana, ad essere

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economicamente produttiva. E' l’umanità a realizzare la sua utopia sociale, piuttosto che attendere il dono messianico da parte di esseri sovrumani. E ciò avviene grazie all’ingegno tecnico, alla capacità di cooperazione e di immaginazione sociale. Certamente, si è anche presentata un’utopia tecnologica, culminata nel nostro secolo nell’immagine di un mondo tecnocraticamente amministrato, creata da H.G. Wells e ispirata alla Nuova Atlantide pensata qualche secolo prima da Bacone, utopista «scientifico» del sedicesimo secolo. All’opposto, l’utopia di William Morris era più artigianale e nostalgicamente medievale, ma nettamente libertaria nella sua essenza. Nel suo Notizie da Nessun Luogo, Morris rovescia il capitalismo e ricrea il comune del Medio Evo, con i suoi valori cooperativi. L’industria sparisce, insieme con l’autorità, e la produzione di qualità compensa gli apparenti vantaggi della produzione in massa di beni scadenti. L’utopia di Morris è certamente la romantica rivalutazione di un mondo perso per sempre, eppure non è priva di insegnamenti per la sua e la nostra epoca. La produzione di qualità e l’abilità artigiana continuano ad affascinarci, in quanto modello di eccellenza e strumento per la fabbricazione di beni destinati a durare per generazioni, in contrapposizione alla nostra economia «usa e getta», i cui prodotti sono effimeri e di pessimo gusto. I valori cui Morris si ispirava erano chiaramente ecologici. Portano un messaggio di misura umana, di integrazione tra agricoltura ed artigianato, di prodotti durevoli ed artistici e di una società non gerarchica. Il pensatore utopico che avrebbe riunito queste tradizioni apparentemente contrastanti (intelletto e sensualità, industria e produzione di beni durevoli, lavoro e gioco) non era né un socialista né un inetto visionario. Era Charles Fourier, che ha creduto di trasformare l’immaginazione in una scienza e i modelli newtoniani di ordine cosmico in una fantasia cosmologica. Ai fini della presente trattazione, non è importante considerare il senso missionario di Fourier, o la profondità dei suoi principi sociali. Egli non solo non era socialista, non era nemmeno egualitario. Le sue opere sono percorse da contraddizioni, pregiudizi grossolani, e dal tentativo fallito di fare del suo sistema di «interazione passionale» un sistema matematico, ricorrendo all’appoggio dei ricchi e potenti per istituire i suoi ideali falansteri (enormi palazzi in grado di ospitare almeno 1.620 persone dal carattere adatto e complementare, che avrebbero dato luogo a comunità

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emozionalmente equilibrate). I suoi falansteri avrebbero dovuto essere, ovviamente, il più possibile autosufficienti, con officine, terreno coltivato intorno, residenze, centri per l’istruzione e sale da ballo, il tutto collegato da gallerie coperte per proteggere gli abitanti dell’inclemenza del tempo e metterli in condizione di accedere facilmente alle diverse parti. Ciò che ci interessa, del falansterio di Fourier, non sono i suoi principi strutturali, ma quelli che ne dovevano guidare lo stile di vita, molti dei quali si contrapponevano alla monotonia dell’attività industriale, ai valori puritani dell’epoca, al fardello di limitazioni che allora veniva imposto ai sensi come a tutto il corpo. Secondo tali principi, la libertà sessuale avrebbe spazzato via le tradizionali inibizioni familiari e le convenzioni ipocrite. «La voluttà è l’unica arma che Dio può impiegare per padroneggiarci» egli scrive con eretica ironia, «e per indurci a seguire i suoi disegni: egli regola l’universo attraverso l’attrazione, non con la forza». Era certamente un punto di vista nuovo e socialmente sovversivo. L’ordine poggia sulla soddisfazione personale, non sull’obbedienza all’autorità. La risposta alla disciplina industriale è la rotazione giornaliera del lavoro, infra- mezzata da piaceri intellettuali e corporei, alimentazione sontuosa per la gioia del palato, una gamma di suggerimenti fantasiosi per rendere piacevole la vita, nonché la convinzione fondamentale che il fastidio del lavoro possa essere trasformato in piacere, rendendolo più affascinante, inventando festività, lavorando in compagnia di colleghi con natura e carattere complementari. Fourier tentava così di sconfiggere l’esigente «regno della necessità», che teneva tutti sotto il giogo del lavoro manuale, con l’artistico «regno della libertà», che poteva trasformare anche il più duro dei lavori in piacere. Il «Mondo dell’Armonia» concepito da Fourier, fondato sull’attrazione e non sulla coazione, è poi diventato un programma sociale, al quale i seguaci del maestro hanno dato un più netto carattere anarchico, dopo la morte di lui. Secondo Fourier non c’era contraddizione tra l’arte umana e la fecondità della natura, come non c’era contraddizione tra mente e corpo, gioco e lavoro, libertà e ordine, unità e diversità. Erano intuizioni ribelli che successivamente sarebbero state affinate attraverso una versione naturalistica della dialettica, come vedremo quando ci occuperemo della collocazione dell’umanità nella natura e dello sviluppo di una natura libera attraverso sia la «prima» che la «seconda natura». Per il momento, è necessario rimarcare che gli scritti di Fourier

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collimavano, come tempo se non come luogo, con il «villaggio industriale» di Owen, che realisticamente riuniva officine e fabbriche con le fattorie, in comunità totalmente integrate, secondo uno schema che avrebbe poi formato il prototipo dell’idea kropotkiniana di comunità libertaria. Tra la fine della Rivoluzione Francese e la metà del diciannovesimo secolo, gli ideali di libertà avevano acquisito una solida base naturalistica, tecnologica e materiale. Siamo di nuovo in presenza di una svolta storica, in corrispondenza della quale l’umanità poteva, quale che fosse il modo, abbandonare la direzione di un’espansione condizionata dal mercato e dal profitto, e incamminarsi verso un futuro di armonia orientato in senso comunitario ed ecologico, un’armonia tra esseri umani che poteva generare a sua volta, grazie ad una nuova sensibilità, l’armonia tra umanità e natura. Mentre nella seconda metà del secolo diciannovesimo la società si è ingolfata nello sviluppo industriale tanto da ricostruire ex novo il mondo naturale e quasi fame uno sintetico, nella prima metà del secolo essa è stata piena di promesse di una nuova integrazione tra società e natura e di comunità cooperative dove i più generosi impulsi verso la libertà avrebbero potuto realizzarsi. Se ciò non è avvenuto, è stato perché lo spirito borghese ha via via pervaso la società mista euro-americana del secolo passato, infettando anche il progetto rivoluzionario di rifondazione della società che aveva avuto la sua maggior forza espressiva negli utopisti, socialisti e anarchici, seguiti alle ultime convulsioni della Rivoluzione Francese. Tale progetto rivoluzionario aveva ricevuto un’eredità intensamente etica, un impegno a riconciliare la divisione tra mente, corpo e società, che contrapponeva la ragione alla sensualità, il lavoro al gioco, la città alla campagna e infine l’umanità alla natura. I pensatori anarchici e utopisti, nelle loro migliori espressioni hanno visto chiaramente queste contraddizioni, ed hanno cercato di superarle attraverso un ideale di libertà fondato sulla complementarità, sul minimo irriducibile, sull’uguaglianza dei disuguali. Le contraddizioni erano considerate una prova che la società era invischiata nel «male», oppure che la «civiltà», per usare parole di Fourier, si era rivoltata contro l’umanità e la cultura a causa della direzione irrazionale che fino ad allora aveva seguito. La ragione, col suo potere di speculare lare al di là delle situazioni di fatto, stava diventando un rozzo razionalismo, finalizzato allo sfruttamento del lavoro e delle

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risorse naturali. La scienza, con la sua ricerca della realtà e dell'ordine delle cose, stava trasformandosi in scientismo, cioè in programmazione razionale del controllo delle persone e della natura. La tecnologia, con la sua promessa di alleviare il lavoro, stava rivelandosi come un insieme tecnocratico di strumenti atti allo sfruttamento del mondo umano e non umano. I pensatori anarchici e gli utopisti libertari, nonostante la loro fiducia che ragione, scienza e tecnica potessero essere forze creative per la ricostruzione della società, hanno dato voce ad una protesta collettiva contro l’asservimento di tali forze a finalità puramente strumentali. Essi erano profondamente consapevoli della rapida evoluzione cui il secolo sarebbe andato incontro, e la constatazione dell’attuale malessere storico conferma l’esattezza delle loro intuizioni. La loro pressante richiesta di un cambiamento immediato in senso liberatorio è pervasa dall’angoscia per «l’imborghesimento» della società, per usare il termine usato da Bakunin a proposito dei timori che lo turbavano negli ultimi anni della sua vita. Nonostante il giudizio ipocrita di Gerald Brenan e Hobsbawn, l’importanza attribuita dagli anarchici alla «propaganda del fatto» non era una rivalutazione primitiva di azioni violente e catartiche, contrapposte alla generale passività di fronte agli orrori del capitalismo industriale. Al contrario, tali azioni erano per lo più la conseguenza della disperata constatazione che si stava perdendo un’occasione storica per lo sviluppo sociale, e che tale perdita avrebbe prodotto ostacoli immensi per la realizzazione futura del progetto rivoluzionario. Sulla base della loro concezione etica ed utopica, vedevano giustamente il proprio tempo come disponibile all’emancipazione immediata dell’umanità, non semplicemente come uno «stadio» fra i tanti, nella lunga storia dell’evoluzione umana verso la libertà, con le sue infinite «precondizioni» e le sue «infrastrutture» tecnologiche. Ciò che i teorici anarchici e gli utopisti libertari non hanno visto è che gli ideali stessi di libertà erano segnati dal pericolo di «imborghesimento». Nessuno, forse nemmeno Marx che pure ha avuto una parte decisiva in tale infezione, poteva immaginare che il tentativo di trasformare in «scienza» il progetto emancipatorio, sotto il nome di «socialismo scientifico», ne avrebbe fatto una scienza anche più «lugubre» dell’economia, cioè che l’avrebbe spogliato del suo animo etico, del suo spirito visionario, della sua sostanza ecologica. Non meno importante, il «socialismo

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scientifico» di Marx avrebbe contribuito, in tandem con la borghesia, allo smantellamento dell’obiettivo principale del progetto rivoluzionario, nonché delle sue premesse ideologiche, giustificando l’assorbimento delle unità decentrate in seno allo Stato centralizzato, il dissolvimento delle concezioni federative in seno alle nazioni scioviniste, lo snaturamento delle tecnologie a misura d’uomo nei sistemi fagocitanti della produzione di massa.

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IL PROGETTO RIVOLUZIONARIO

Per quanto inquinati, ideali di libertà continuano ad esistere fra noi. Eppure il progetto rivoluzionario non è mai stato così compromesso dall’«imborghesimento» temuto da Bakunin nell’ultimo periodo della sua vita. Né si è presentato in termini tanto ambigui come oggi. Parole come «radicalismo» e «sinistra» sono diventate di significato misterioso, ed esiste il serio pericolo che perdano completamente di senso. Quanto oggi passa per rivoluzione, radicalismo e sinistra, solo un paio di generazioni fa sarebbe stato rifiutato come riformismo ed opportunismo politico. Il pensiero sociale si è lasciato attrarre così addentro le viscere dell’attuale società che le persone che si considerano «di sinistra» (socialisti, marxisti o radicai che siano) rischiano di venirne digeriti senza neppure accorgersene. Semplicemente, in molti Paesi euroamericani non esiste una sinistra consapevole che abbia una qualche rilevanza. Non esiste neppure un radicalismo criticamente indipendente, eccezion fatta per ridotti circoli di teorici rivoluzionari. A lungo termine, fors’anche più pericoloso è il fatto che il progetto rivoluzionario rischia di perdere la sua stessa identità, la propria capacità di autodefinirsi, il senso della propria direzione. Oggi constatiamo l’assenza non solo di un vero approccio rivoluzionario, ma anche della capacità di definire cosa si intenda con l’espressione «trasformazione rivoluzionaria», o col termine di «capitalismo». La preoccupazione bakuniniana circa l'«imborghesimento» della classe operaia si affianca al timore marxista che un giorno le generazioni future di lavoratori possano considerare il capitalismo qualcosa di tanto scontato da apparire una forma «naturale» del vivere umano, non un tipo di società che si è presentata nel corso di un periodo storico specifico. Definire come «capitalista» la società euro-americana suscita perplessità, nel migliore dei casi, e nel peggiore dà origine a speciose contrapposizioni con le società cosiddette «socialiste», come la Russia o la Cina. Che qui si tratti di capitalismo imprenditoriale e là di capitalismo burocratico appare spesso

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incomprensibile al buonsenso tradizionale. E certamente possibile che ancor non sia stato compreso cosa sia realmente il capitalismo. Dallo, scoppio della prima guerra mondiale, le sinistre hanno descritto ogni fase del capitalismo come «ultimo stadio», mentre il sistema, invece, ha continuato a crescere, assumendo dimensioni internazionali e tecnologie nuove che fino a poche generazioni fa nemmeno la fantascienza era in grado di prevedere. Il capitalismo ha anche mostrato una stabilità, e una capacità di cooptare le forze che ad esso si oppongono, che un secolo fa avrebbe scosso profondamente i pionieri del socialismo e dell’anarchismo. E' possibile che non sia ancora arrivato ad incarnare completamente il male della società (per usare il termine di Bakunin), cioè a produrre un sistema di continua rivalità sociale tra le persone ad ogni livello dell’esistenza e un’economia fondata sulla concorrenza e l’accumulazione. Una cosa, comunque, dev’essere ben chiara: è un sistema che deve espandersi continuamente fino a distruggere tutti i vincoli tra società e natura, come dimostrano i buchi nello strato di ozono e l’aumento dell’effetto serra. È letteralmente il cancro della vita sociale. Se le cose stanno così, la natura non marcherà di attuare la propria «vendetta», rendendo il pianeta inabitabile per le forme di vita complesse come la nostra e quella dei nostri cugini mammiferi. Ma stante la celerità con cui si sviluppano le innovazioni tecnologiche, ivi compresi gli strumenti per scandagliare i segreti stessi della materia e della vita (sotto forma di scienza nucleare e ingegneria genetica) è anche possibile che alla distruzione dei cicli naturali verrà posto rimedio per mezzo di sostituti completamente sintetici, con giganteschi impiapti industriali che soppianteranno i processi naturali. E' da ciechi non accorgersi che esiste tale possibilità, e quindi quella di un’evoluzione in senso totalitario della società, frutto della gestione tecnocratica e su scala mondiale della società e della natura. Se così fosse, il pianeta da sistema autoregolato di forze tendenti all’equilibrio, come figura nella «ipotesi Gea», diverrebbe un sistema a parziale o totale controllo tecnologico, una sorta di «ipotesi Dedalo» senza la coscienza greca del limite. Finché tale sinistra prospettiva continuerà ad essere all’ordine del giorno, avremo la disperata necessità di ripristinare il progetto rivoluzionario, con gli elementi nuovi che ad esso sono stati aggiunti nell’ultima metà del secolo. L’affermazione di un presunto

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«settarismo» o «dogmatismo di sinistra» che sarebbe insito nell’idea stessa di progetto rivoluzionario, non deve turbarci. Chi oggi si definisce «moderato», o di «centro-sinistra», per usare il prudente lessico della nostra epoca, è troppo debilitato intellettualmente per distinguere il «settarismo» da un’analisi approfondita dei problemi sociali ed ecologici contemporanei. Dobbiamo quindi prendere risolutamente in considerazione i periodi passati e recenti nei quali il progetto rivoluzionario si è manifestato, come l’era del «socialismo operaista», la «New Left» (Nuova Sinistra) e l’attuale cosiddetta «Era dell’Ecologia». Senza un riesame critico delle soluzioni già proposte, non faremo che brancolare nell’oscurità di una Storia sconosciuta, che invece ha tanto da insegnarci. Il socialismo operaio È importante rendersi conto, oggi, che uno dei più grandi progetti rivoluzionari dell’epoca moderna ormai non è più vitale. Mi riferisco in parte all’analisi sociale marxista, ma anche, come vedremo, al socialismo operaio nel suo complesso, che è andato al di là del marxismo, assumendo contenuti libertari ed anche utopici. Dire che «l’essere determina la coscienza», o in termini meno filosofici che i fattori materiali determinano la vita culturale, è troppo semplicistico per spiegare il peso che questa ha avuto nella seconda metà del secolo scorso e nella prima metà dell’attuale, proprio quando il capitalismo ha plasmato la mente europea e americana secondo modelli prettamente economicistici. Osservando più attentamente la storia si vedrà che questa immagine essenzialmente borghese della realtà, che il marxismo ha trasformato in un’ideologia apparentemente «di sinistra», è limitata ad un’epoca ben precisa per quanto predominante appaia oggi. Sarebbe impossibile comprendere perché in molti momenti dell’epoca antica il capitalismo non sia riuscito a diventare un assetto sociale dominante, se non si tenesse presente l’esistenza di tradizioni culturali che hanno ostacolato e segretamente compromesse le spinte in direzione capitalistica. E' possibile portare innumerevoli esempi di come, al contrario, sia la «coscienza» a determinare l’«essere» (per usare siffatto linguaggio «deterministico»), volgendo lo sguardo verso l’Asia, l’Africa o l’America indigena, per non parlare di molti Paesi europei nei primi tempi dell’epoca moderna. Il marxismo riporta ogni questione al rapporto generale tra coscienza ed essere, che

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continua a avere un gran peso in seno all’accademia marxista, anche se tutto il resto della teoria è ormai in pezzi. Osservando le cose da un punto di vista economicistico e borghese, esso definisce in termini appunto borghesi una massa di problemi che hanno invece una base nettamente non economica e non borghese. La stessa resistenza delle società precapitalistiche a divenire Capitalistiche, ad esempio, è spiegata come «mancanza» di sviluppo economico, inadeguatezza scientifica e, come spesso accade in molte delle opere marxiane meno rigorose (come i Griindrisse), presenza di fattori culturali, che pure dovrebbero essere considerati dipendenti dai fattori economici. Ben più utile del modo circolare di ragionare che caratterizza gran parte del marxismo, è cercare di definire il progetto rivoluzionario prendendo in considerazione l’ideale socialista ed i miti storici sviluppatisi intorno ad esso. I progetti rivoluzionari hanno sempre assunto le caratteristiche proprie del periodo in cui sono stati concepiti, nonostante il tentativo di universalizzare le proprie idee e la volontà di parlare in nome dell’umanità di ogni tempo. Il radicalismo contadino è quasi contemporaneo alle prime manifestazioni di agricoltura stanziale e di insediamento in villaggi. Ispirato da una moralità religiosa universale, ha sempre sostenuto di parlare in nome di valori eterni, centrati sulla libertà della terra e del villaggio. Ha anche assunto forme anarchiche e populiste. Personaggi come l’anarchico ucraino Nestor Machno nel 1917-21 e il populista messicano Emiliano Zapata, più o meno nello stesso periodo, hanno lottato per scopi praticamente identici. Del pari, il radicalismo degli artigiani è apparso nel Medio Evo, raggiungendo il proprio apice nel movimento degli Enragés durante la Rivoluzione Francese e la Comune di Parigi nel 1871. Il suo portavoce forse più consapevole è stato Pierre-Joseph Proudhon, sebbene le sue idee municipaliste e federaliste abbiano avuto implicazioni ben più ampie di quelle di qualunque specifica classe di cui si facesse portavoce. Il socialismo operaio, che ancor oggi è un ideale coltivato da molti socialisti e sindacalisti indipendenti, ha un «pedigree» più complesso e complicato. Esso prende origine in parte dalla trasformazione che, ad opera del capitalismo, molti artigiani pienamente autosufficienti hanno subito, diventando operai salariati durante gli anni esplosivi della Rivoluzione Industriale. Come movimento — lasciando da parte gli aspetti teorici — esso è stato influenzato dalle sue origini rurali e provinciali, vale a dire

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dalla proletarizzazione dei contadini indotti a lasciare i propri villaggi e la propria cultura rurale. Il fatto che essi abbiano portato tali culture precapitalistiche, con i loro ritmi e valori naturalistici, in seno alle città industriali è di capitale importanza al fine di spiegarne lo scontento e la militanza. Fino agli anni’20 e ’30, in America e in Europa, le classi lavoratrici del capitalismo industriale tradizionale non erano costituite da proletari «per nascita». I metalmeccanici americani del settore auto, ad esempio, nella prima metà del presente secolo sono stati reclutati nelle valli dei monti Appalachi. Molti lavoratori francesi (e ancor più spagnoli) sono stati reclutati nei villaggi e nelle cittadine, e a volte non erano altro che artigiani provenienti da grandi città come Parigi. Lo stesso può dirsi delle classi lavoratrici che hanno fatto la rivoluzione russa del 1917. E' interessante notare che Marx, nella sua continua confusione, considerava questi strati sociali estremamente volatili come der alte scheisse («la vecchia merda», letteralmente) e non attribuiva ad essi alcun peso rivoluzionario. Tale background rurale ha prodotto un mosaico altamente complesso di atteggiamenti, valori e tensioni tra le culture preindustriali e industriali, contribuendo a dare un carattere fiero e quasi millenaristico ad uomini e donne che, anche se lavoravano con macchinari moderni e vivevano in grandi centri urbani, spesso notevolmente acculturati, si sentivano guidati da valori in gran parte artigianali e contadini. I «meravigliosi operai anarchici» (per usare le parole di un socialista, Ronald Fraser, in Blood of Spaiti) che bruciavano il denaro trovato saccheggiando le armerie di Barcellona, durante i giorni febbrili dell’insurrezione nel luglio 1936, erano persone che agivano spinte da profondi impulsi utopici ed etici, e non semplicemente dagli interessi economici che il capitalismo avrebbe instillato col passar del tempo nelle classi lavoratrici. I proletari della fine del diciannovesimo secolo e dell’inizio del ventesimo, erano di una razza assai speciale. Si sentivano déclassé, un naturalismo vitale orientava spontaneamente il loro comportamento, provavano rabbia per la perdita della propria autonomia, ed erano forgiati da valori che si rifacevano ad un mondo ormai perduto di abilità artigianale, amore per la terra, solidarietà comunitaria. Ecco dunque lo spirito rivoluzionario che si è manifestato nel movimento operaio, dalle barricate parigine del giugno 1848, quando una classe lavoratrice in gran parte artigiana ha levato le bandiere rosse della «repubblica sociale», alle barricate del

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maggio 1937 a Barcellona, dove una classe operaia socialmente anche più consapevole ha innalzato le bandiere rosso-nere dell’anarco-sindacalismo. Ma col passare del tempo, questo movimento ha subito una drastica trasformazione: la composizione sociale, la cultura politica, la tradizione e gli scopi del proletariato attuale sono profondamente mutati. Il mondo rurale e le tensioni culturali nei confronti di quello industriale, che hanno dato origine al fervore rivoluzionario proletario, sono scomparsi dalla scena storica. E scomparse sono le persone, quelle particolari personalità umane nelle quali quel background e quelle tensioni si erano incarnate. La classe operaia di oggi si è completamente industrializzata, e non radicalizzata, come avevano sperato ardentemente socialisti ed anarchici. Essa non ha spirito né tradizioni antagoniste, e nessuna delle attese millenaristiche che aveva un tempo. Non soltanto è modellata e definita nelle sue aspettative dai mass media (una spiegazione, questa, che piace a chi ama vedere ovunque il potere dei media moderni); ma come classe, il proletariato è diventato la controparte della borghesia, non il suo antagonista irriducibile. Tanto per usare il linguaggio dell’operaismo contro i suoi stessi miti, si può dire che la classe operaia oggi è semplice- mente uno degli organi del corpo capitalistico, e non un «embrione» della società futura. Ciò cui assistiamo non è semplicemente il suo fallimento in quanto «agente storico» della trasformazione rivoluzionaria, bensì il suo perfezionamento come prodotto generato dal capitalismo nel corso del suo sviluppo. Nella sua forma «pura», il proletariato non ha mai costituito veramente una minaccia per il sistema capitalistico. Sono state proprio le sue «impurità», invece, come i pezzi di stagno e di zinco che trasformano il rame in solido bronzo, che hanno costituito il nerbo della sua antica militanza e del fervore millenaristico che in certi momenti cruciali ha saputo generare. Siamo qui di fronte ad un modello quanto mai difettoso di cambiamento sociale, un modello che è stato introdotto nel progetto rivoluzionario degli ultimi cent’anni e poi accettato implicitamente anche dalla sinistra non marxista. Esso è fondato sull’opinione decisamente errata che la nuova società debba nascere nel seno stesso della vecchia, crescendovi e sviluppandosi come un figlio vigoroso capace di imporsi ai suoi genitori odistruggerli.

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Nell’antichità non è mai accaduto alcunché che possa giustificare questa «teoria dell’embrione», se così vogliamo chiamarla, a proposito della rivoluzione. Il feudalesimo europeo ha sostituito la vecchia società sulle coste settentrionali del Mediterraneo (ed ivi soltanto) perché le relazioni feudali erano in genere il prodotto della decomposizione delle precedenti relazioni tribali, quando queste non venivano rimodellate in monarchie assolute del tipo apparso in Oriente. Il grande hinterland del nord Europa ha rapidamente perduto le proprie caratteristiche tribali quando ha incontrato la società romana. Il capitalismo non è nato dal ventre del nuovo feudalesimo europeo, né la sua nascita è stata inevitabile, come pretendevano di farci credere gli storici marxisti del passato, o Ferdinand Brandel e Immanuel Wallerstein più di recente. Come credo di aver già dimostrato in The Rise of Urbanization and thè Decline of Citizenship, l’Europa tra il quattordicesimo e il diciottesimo secolo era assai composita, socialmente ed economicamente, ed offriva diverse alternative al capitalismo e alla costituzione degli Stati nazionali. Il mito di uno sviluppo «embrionale» del capitalismo, e quello della sua presunta «inevitabilità», non poteva che nuocere al progetto rivoluzionario del socialismo operaio. In primo luogo, infatti, ha generato l’idea che il proletariato fosse l’equivalente moderno della borghesia, e come la borghesia medievale si sarebbe presumibilmente sviluppato in direzione rivoluzionaria in seno al capitalismo stesso. Il fatto che il proletariato non abbia mai avuto, nemmeno lontanamente, il predominio economico che Marx riconosceva alla prima borghesia, e che quindi avrebbe dovuto conquistare il potere economico oltre che politico, tutto ciò avrebbe dovuto dimostrare quanto fosse assurda per il proletariato la teoria dell’«embrione», anche nel caso che la borghesia medievale avesse davvero il potere che le veniva attribuito. In particolare, in che modo la classe operaia avrebbe potuto elevarsi al di sopra dei suoi interessi particolari in una struttura economica alla quale era totalmente subordinata, a causa delle sue richieste miranti unicamente ad ottenere salari più alti, orari ridotti e migliori condizioni di lavoro all’interno del sistema, era un mistero impenetrabile. La dottrina economica marxista, nonostante le sue mirabili analisi sulle relazioni tra merci e processo di accumulazione, è stata in larga misura concepita per dimostrare che il capitalismo avrebbe spinto alla rivolta il proletariato, a causa

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deH’impoverimento progressivo e delle crisi croniche. Il fatto che la fabbrica, invece, avrebbe decisamente «addomesticato» il proletariato, attraverso la routine mortale del lavoro industriale; che ne avrebbe sottomesso la riottosità con la sottomissione ad una gerarchia manageriale ed a metodi di produzione standardizzata; che la mera disperazione non avrebbe spinto il proletariato alla rivoluzione, ma a stratificarsi contro se stesso, dimodoché i meglio pagati e quelli di razza «superiore» si sarebbero contrapposti ai meno pagati e di razza «inferiore»; che le previsioni di una cronica crisi economica sarebbe stata vanificata da abili tecniche di gestione delle crisi; che il nazionalismo e perfino lo sciovinismo patriottardo avrebbero preso il sopravvento sulla solidarietà internazionale di classe; infine, che il progresso tecnologico avrebbe ridotto numericamente il proletariato e l’avrebbe condotto alla collusione con il suo stesso sfruttamento secondo un modello gestionario di tipo giapponese, tutto ciò non è stato nemmeno lontanamente previsto come logica dello sviluppo capitalistico. In secondo luogo, il mito marxiano di uno sviluppo «embrionale» ha mistificato la storia, rimuovendone gli elementi essenziali di spontaneità. In tale teoria non c’era posto che per un’unica evoluzione, non erano possibili direzioni alternative. Nell’evoluzione sociale, la capacità di scelta aveva un ruolo insignificante. Il capitalismo, gli Stati nazionali, l’innovazione tecnologica, la distruzione di tutti i vincoli tradizionali che un tempo limitavano la ricerca del profitto, la perdita dei legami comunitari che in passato generavano un senso di responsabilità sociale, tutto ciò è stato considerato non solo come inevitabile, ma anche come desiderabile. La storia, in effetti, lasciava agli uomini un’autonomia minima. «La storia è fatta dagli uomini...» ha scritto Marx, una dichiarazione piuttosto ovvia che, molto tempo dopo la sua morte, i marxisti di orientamento culturale avrebbero ripreso per togliersi d’impaccio dalle crescenti contraddizioni tra le teorie e la realtà oggettiva. Ma essi hanno dimenticato di notare che la frase di Marx era stata pronunciata per dare rilievo a quella successiva: «...ma in condizioni che non sono scelte da loro». Il progetto rivoluzionario marxiano (ma non solo marxiano) è stato bardato con «stadi», «sottostadi» e «sotto-sottostadi», fondati sulle cosiddette «precondizioni» tecnologiche e politiche. In contrasto con la pratica anarchica di pressione continua contro la società alla ricerca dei suoi punti deboli, per aprire spazi atti a

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rendere possibile il cambiamento rivoluzionario, la teoria marxiana si è strutturata secondo una strategia dei «limiti storici» e degli «stadi di sviluppo». La Rivoluzione Industriale è stata accolta come una delle «precondizioni» tecnologiche del socialismo e le tendenze luddiste sono state denunciate come «reazionarie»; l’avvento degli Stati nazionali è stato visto come un passo fonda- mentale in direzione della «dittatura del proletariato» e il federalismo è stato bollato come arretrato. Dovunque si verificasse, la centralizzazione dell’economia e dello Stato è stata accolta come un progresso verso «l’economia pianificata», cioè verso un’economia altamente razionalizzata. Questa specie di fatalismo era così forte tra i marxisti, ed in particolare in Engels, che nel 1920 i socialdemocratici tedeschi sono stati riluttanti ad accettare le leggi anti-monopolio (con dispiacere dei picco- io-borghesi tedeschi, che si sono ben presto rivolti ai nazisti per ottenere soddisfazione) poiché la concentrazione dell’industria in poche mani era vista come «storicamente progressista» e favorevole ad un’evoluzione verso un’economia pianificata! In terzo luogo, c’è il fatto che lo stesso proletariato, già ridotto ad un docile strumento di produzione del capitalismo, è stato trattato nel medesimo modo anche dall’avanguardia marxista. I lavoratori sono stati visti principalmente come esseri economici, incarnazione di interessi economici. I tentativi compiuti da pensatori di sinistra come Wilhelm Reich di richiamarsi alla sessualità, o di artisti rivoluzionari come Mayakovsky di richiamarsi alla sensibilità estetica, sono stati considerati bestemmie dai partiti marxisti. L’arte e la cultura sono state trattate soprattutto come veicoli di propaganda da porre al servizio delle organizzazioni operaie. Il progetto rivoluzionario marxista si è anche distinto per il suo completo disinteresse verso i problemi urbani estetici e comunitari: argomenti che sono stati rigettati come «sovrastrutturali» e ininfluenti rispetto ai più fondamentali problemi economici. Gli esseri umani con la loro vasta gamma di interessi in quanto persone creative, genitori, figli, amici, sono stati ricostruiti artificialmente e trasformati in esseri economici, cosicché il progetto rivoluzionario marxista ha rafforzato quella stessa degradazione e spersonalizzazione dei lavoratori operata dal sistema industriale. Il lavoratore doveva esprimere il meglio di sé come buon sindacalista o devoto funzionario di partito, non

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come un essere culturalmente sofisticato con ampi interessi umani e morali. Infine, il risultato estremo di questa innaturale trasformazione degli esseri umani in vuoti prodotti di classe è stato lo snaturamento della natura stessa. Le preoccupazioni ecologiche non erano soltanto estranee al progetto rivoluzionario marxista, erano viste come insidiosamente controproducenti, nel senso letterale del termine. Impedivano lo sviluppo dell’industria e lo sfruttamento del mondo naturale. La natura è stata considerata «avara», «cieca», crudele «regno della necessità», un insieme di «risorse» che il lavoro e la tecnologia dovevano sottomettere, dominare, modellare. Il grande progresso storico del capitalismo, salutato come «necessario» da Marx, è stata la sua spietata capacità di abolire ogni limite al saccheggio del mondo naturale. Infatti Marx lodava l’industrializzazione prodotta dal capitalismo come, a suo giudizio, «permanentemente rivoluzionaria», in quanto riduceva la natura ad un «semplice oggetto» di utilizzazione umana. Il linguaggio di Marx e le sue opinioni circa l’uso illimitato della natura a scopo sociale, non riflettono il cosiddetto «umanismo» o «antropocentrismo» che oggi viene denigrato da tanti ambientalisti angloamericani. L’«umanismo» marxiano, in realtà, poggiava sull’insidiosa riduzione degli esseri umani a forze oggettive della «storia», sottomessi a leggi sociali su cui non avevano alcuna possibilità di controllo. Tale mentalità è anche più sconcertante di qualunque forma di «antropocentrismo». La natura viene vista come «risorse naturali» perché gli esseri umani sono concepiti come «risorse economiche». L’opinione marxista che il lavoro umano è il mezzo attraverso cui l’uomo si scopre in conflitto con la natura, implica sinistramente che il lavoro sia l’essenza dell’umanità, un carattere diverso da tutti gli altri caratteri umani. Sotto questo aspetto, Marx si distacca completamente dalla tradizione autenticamente umanista del passato, che vedeva l’unicità degli esseri umani nella loro coscienza, moralità, sensibilità estetica ed empatia per tutti gli esseri viventi. Peggio, se nella teoria marxiana gli esseri umani non sono che «strumenti della storia», la felicità e il benessere dell’attuale generazione possono essere sacrificati per l’emancipazione delle generazioni future, un concetto immorale che i bolscevichi in generale, e Stalin in particolare, avrebbero

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usato con effetti distruttivi su larga scala, «edificando il futuro» sui cadaveri del presente. Il contributo dato dal socialismo operaio al progetto rivoluzionario è stato di natura soprattutto economica. La critica marxiana dell’economia borghese, per quanto limitata soprattutto al suo tempo, è magistrale. Ha rivelato la latente capacità della merce di diventare una forza corrosiva, in grado di cambiare la storia, e il potere sovvertitore del mercato, che può cancellare tutte le forme tradizionali della vita sociale. Ha previsto che il potere d’accumulo capitalistico sarebbe arrivato al punto di generare monopoli e automazione, come risultato logico della tendenza all’innovazione. Marx capì altresì che l’ascesa del capitalismo aveva dato origine ad un acuto senso di penuria, che nessuna società precedente aveva conosciuto. Un’umanità alienata viveva in timorosa soggezione dei prodotti del suo stesso lavoro. Le merci erano diventate feticci in grado di governare i popoli attraverso le fluttuazioni mercantili, con il misterioso potere di condizionare la sopravvivenza economica. Una società libera poteva sperare di porre fine alle proprie intime paure, all’insicurezza materiale e ai desideri artificialmente indotti, solo quando la tecnologia avesse raggiunto un livello tale da rendere la penuria priva di senso, grazie all’abbondanza dei beni; dopo di che in una società ecologica e razionale gli esseri umani avrebbero forse avuto desideri non distorti dal mistificato mondo economico del capitalismo. E' importante porre la necessità di una tecnologia che sappia liberare il progetto rivoluzionario dalla paura moderna di un’insufficienza di beni. Ma tale tecnologia deve essere vista nel contesto dello sviluppo sociale, più che come una «precondizione» dell’emancipazione umana in ogni tempo e situazione. Nonostante tutte le loro pecche, le società precapitalistiche erano strutturate in base ad alcuni potenti limiti morali. Ho già citato l’ordinanza medievale, citata a sua volta da Kropotkin, che stabiliva che «...ciascuno deve trovar piacere nel suo lavoro...». Non era assolutamente una rarità. Il concetto che il lavoro dovesse essere piacevole, e che bisogni e ricchezze non dovessero espandersi all’infinito, contribuiva notevolmente a condizionare la stessa idea popolare di penuria. In effetti, la ricchezza era spesso vista come qualcosa di demoniaco e il soddisfacimento eccessivo dei bisogni come moralmente riprovevole. Donare, liberarsi del superfluo, come già abbiamo visto, era considerato superiore

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all’accumulazione dei beni e all’espansione dei desideri. Non che le società precapitaliste abbiano tutte costantemente aborrito il lusso e le cose buone della vita, certo non la Roma imperiale, almeno. Ma questi erano comunque visti come «vizi» e ad essi si reagiva prima o poi con l’ascetismo e l’esaltazione della rinuncia. Proprio queste tradizioni sarebbero state oggetto di aspre critiche da parte di Marx, il quale ha elogiato il capitalismo per aver scalzato «...la tradizione che vuole un soddisfacimento limitato di bisogni, confinati entro limiti ben definiti, e la riproduzione dei modi di vita tradizionali...» (Griindrisse). La produzione fine a se stessa — il capitalismo tipico disprezza la qualità e l’utilità e ama solo la quantità e il profitto — doveva essere accompagnata dal consumo fine a se stesso. Certo, questo è un concetto relativamente recente. Ma è comunque un concetto profondamente radicato presso grandi masse di persone nel mondo occidentale. Stante fa feticizzazione delle merci e l’identificazione del benessere con la sicurezza materiale, gli attuali concetti di consumo non possono più essere significativamente modificati dalla semplice persuasione morale, per quanto impegnata. Bisogna invece dimostrare quanto siano irrilevanti, perfino ridicoli, in virtù del fatto che la tecnologia è in grado di produrre benessere per tutti, è che l’idea stessa di benessere può essere ridefinita in termini razionali ed ecologici. In ogni caso, il marxismo in quanto progetto rivoluzionario ha iniziato ad entrare in crisi quando dopo il secondo conflitto mondiale il capitalismo si è riconsolidato, senza che alcuna delle tanto attese «rivoluzioni proletarie» fosse arrivata a porre fine alla guerra salvando la società dalla barbarie. Il declino è stato ulteriormente accelerato dall’evidente degenerazione della Russia sovietica in un altro Stato nazionale, anch’esso pervaso di sciovinismo nazionalistico e ambizioni imperialistiche. La ritirata del marxismo negli enclavi accademici testimonia la sua morte come movimento rivoluzionario. Ormai è così intrinsecamente borghese nella sua impostazione generale da essere innocuo e disarmato. I Paesi capitalisti, per parte loro, hanno nazionalizzato larghi settori delle loro economie. In un modo o nell’altro, anch’essi pianificano la produzione ed hanno neutralizzato le fluttuazioni economiche con una vasta gamma di riforme. La classe operaia è divenuta una forza in gran parte devitalizzata per quanto concerne i cambiamenti sociali radicali, per non parlare della rivoluzione. La bandiera rossa del socialismo marxista

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avvolge ormai una bara piena dei miti che inneggiano alla centralizzazione politica ed economica, alla razionalizzazione industriale, alla teoria semplicistica del progresso lineare, all’atteggiamento fondamentalmente anti-ecologico, tutto in nome della sinistra. Con la bandiera rossa o no, è pur sempre una bara. I miti in essa contenuti hanno tragicamente distratto il pensiero e l’azione sovversiva dai generosi ideali di libertà della prima metà del diciannovesimo secolo. La New Left e la controcultura Il progetto rivoluzionario, però, non è morto con la crisi del marxismo, nonostante sia stato ancora inquinato dalla volgarizzazione delle idee marxiane per diverso tempo dopo gli anni ’30. Tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60, una costellazione di idee totalmente nuove ha cominciato a farsi avanti. L’ascesa del movimento per i diritti civili negli Stati Uniti ha dato impulso sociale alla semplice richiesta di uguaglianza etnica, che per molti versi risentiva di spinte ugualitarie risalenti ai tempi delle rivoluzioni democratiche del diciottesimo secolo ed ai loro ideali di fratellanza tra gli esseri umani. I discorsi di Martin Luther King, ad esempio, avevano un taglio nettamente millenaristico, in parte precapitalistico. Erano discorsi apertamente utopici e quasi religiosi. Contenevano riferimenti a «sogni», ad ascese «alla sommità del monte» come quella di Mosé, e facevano appello ad un fervore etico che andava oltre gli interessi particolari e i pregiudizi provinciali. Erano tenuti con un sottofondo di musica e cori che lanciavano messaggi come «Freedom Now!» (libertà ora) e «We Shall Overcome» (vinceremo). Il diffondersi dell’ideale di emancipazione, la sua santificazione attraverso l’uso di una terminologia religiosa e atteggiamenti ieratici aveva rimpiazzato la pseudoscienza del marxismo. Era un preciso messaggio etico di redenzione spirituale e una visione utopica di solidarietà umana che trascendeva classi, proprietà e interessi economici. Era la riaffermazione degli ideali di libertà, nel gergo del progetto rivoluzionario pre-marxista, cioè in un linguaggio che sarebbe risultato comprensibile ai romantici Puritani della Rivoluzione Inglese e forse anche ai coloni progressisti della Rivoluzione Americana. Gradatamente, il movimento è diventato

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più secolare. Le pacifiche proteste indette dal clero e dai pacifisti neri per «testimoniare» in favore delle libertà umane fondamentali, hanno lasciato il passo alla rabbia e alla resistenza violenta contro l’autorità. Le normali assemblee si sono spesso trasformate in rivolte e, dal 1964 in avanti, ogni estate è stata segnata da sollevamenti nei ghetti neri degli Stati Uniti, con proporzioni quasi insurrezionali. Ma il movimento per i diritti civili non ha monopolizzato gli ideali egualitari emersi negli anni ’60. Precedute dal movimento antinucleare degli anni ’50, ivi compresa la campagna per il disarmo nucleare in Inghilterra e lo sciopero delle «Donne per la Pace» negli Stati Uniti, diverse tendenze hanno cominciato a manifestarsi, fino a convergere producendo la cosiddetta New Left, un movimento che si distingueva nettamente dalla vecchia sinistra per scopi, forme organizzative e strategie di trasformazione sociale. Il progetto rivoluzionario veniva recuperato, ma in sintonia con gli ideali libertari pre-marxisti, non con il socialismo operaio. In tale progetto sono confluite le diverse forme controculturali della «rivolta giovanile», con la sua ricerca di nuovi modelli esistenziali e di libertà sessuale e col suo ricco insieme di valori comunitari e libertari. Un variegato orizzonte di idee sociali, sperimentazioni e relazioni è così emerso, illuminato da «folli» speranze di cambiamento radicale. Certo la luce non veniva soltanto dall’ideologia. Era alimentata da un’importante transizione in atto nella società euroamericana, a livello tecnologico, economico e sociale. Tra la fine della seconda guerra mondiale e l’inizio degli anni ’60 non era morto soltanto il socialismo operaio. Altre caratteristiche determinanti della vecchia sinistra erano andate scomparendo: la capacità dei partiti operai gerarchici di rappresentare le tendenze sovversive, la disperazione tipica degli anni ’30, l’arcaica eredità tecnologica fondata su giganteschi impianti industriali con l’impiego di lavoro intensivo e sovradimensionato. La struttura industriale negli anni della Grande Depressione non era tecnologicamente molto innovativa. Gli anni ’30 sono stati forse anni di speranza ardente, ma cupi. Gli anni '60, all’opposto, sono stati segnati da esuberanti promesse, anche quella di ottenere l’immediata realizzazione dei propri desideri. Il capitalismo, ben lungi dal ricadere nella cronica depressione che aveva preceduto la guerra, si era riorganizzato e le sue fondamenta non erano mai state così solide. Esso ha creato

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un’economia pianificata basata sulla produzione militare e tenuta in piedi da eccezionali progressi tecnologici, nell’elettronica, nell’automazione, nell’uso del nucleare, nell’agribusiness. Un’infinita quantità e varietà di beni è uscita come dal corno dell’abbondanza. La ricchezza prodotta era tale, in effetti, che notevoli porzioni della popolazione potevano vivere usando semplicemente gli scarti della società. Oggi, a distanza di anni, è difficile rendersi conto di quanto quell’epoca sembrasse promettere. Erano promesse chiaramente materialistiche. La controcultura di allora rifiutava i beni materiali, eppure consumava senza avvertire contraddizione impianti stereo, dischi, apparecchi televisivi, farmaci che «aprivano la mente», vestiti esotici e cibi altrettanto esotici. Trattati progressisti come Triple Revolution incoraggiavano l’idea, apparentemente più che giustificata, che almeno in Occidente la tecnologia fosse entrata in un’era di abbondanza senza precedenti e di libertà dal lavoro. Che la società potesse essere riorganizzata in modo da godere pienamente di tutto questo ben-di-dio materiale e sociale era fuori di dubbio, una volta che tale benessere venisse strutturato sulla base di una nuova visione etica. Tali aspettative permeavano ogni strato della società, anche quelli più diseredati e sfavoriti. Il movimento per i diritti civili non nasceva dal semplice risentimento covato dai neri nel corso di tre secoli di oppressione e discriminazione. Negli anni ’60 esso si è originato anche più prepotentemente dalla speranza popolare di accedere ad un tenore di vita pari a quello della classe media bianca, e dalla convinzione di aver raggiunto ormai un’abbondanza più che sufficiente per tutti. Il messaggio etico di King e dei suoi discepoli affondava le proprie radici nella tensione esistente tra l’indigenza dei neri e il benessere dei bianchi, una tensione che rendeva l’oppressione dei neri anche più intollerabile che in passato. Allo stesso modo, anche la New Left si è andata radi- calizzando in conseguenza dell’iniquità con cui la ricchezza americana era distribuita e dell’irrazionalità con cui era impiegata (ad esempio in avventure militari all’estero). La controcultura e le sue richieste sono diventate sempre più utopiche, nella misura in cui le comodità della vita divenivano accessibili a tutti. I giovani, i famosi «emarginati» degli anni ’60, hanno dato un significato etico al fatto di poter vivere decentemente rovistando nelle immondizie e

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con un «po’ di aiuto da parte degli amici», come diceva una famosa canzone dei Beatles. Non dico questo perché intendo denigrare il radicalismo della New Left e le utopie della controcultura. Cerco piuttosto di spiegare perché abbiano assunto certe forme stravaganti ed anche perché siano scomparse non appena le tecniche di «gestione della crisi», messe in atto dal sistema, hanno reinventato il mito della penuria di beni e messo il freno ai programmi assistenziali (un mito della penuria accettato anche da certe tendenze reazionarie del movimento ecologista, come vedremo più avanti). E nemmeno voglio sostenere che gli ideali etici di libertà siano meccanicamente legati alla contrapposizione tra povertà e abbondanza. Cinquecento anni di rivolte contadine con le loro visioni utopiche, oppure le rivolte degli artigiani durante lo stesso lasso di tempo e con visioni simili, o quelle di sovversivi religiosi come gli Anabattisti e i Puritani, o infine quelle di anarchici e utopisti libertari di impostazione razionalistica (movimenti che hanno spesso lanciato messaggi di ascetismo in epoche tecnologicamente non sviluppate), tutto ciò sarebbe inesplicabile. Tutti questi progetti rivoluzionari hanno accettato concezioni della libertà basate sulla povertà, non sull’abbondanza. Ciò che in genere li ha messi in moto sono state le asprezze della transizione dal villaggio alla città, dalla città agli Stati nazionali, dalle forme di lavoro artigianale a quelle industriali, da società miste al capitalismo, situazioni ciascuna delle quali era peggiore di quella precedente, sia sul piano psicologico cne materiale. Ciò che ha spinto la New Left verso il suo progetto rivoluzionario e la controcultura verso la sua caotica utopia sono state invece concezioni di libertà basate sull’abbondanza, sul trapasso ad una situazione migliore della precedente. In effetti, per la prima volta sembrava che la società potesse dimenticarsi delle potenzialità tecnologiche finalizzate a produrre benessere materiale per tutti, concentrandosi invece sul benessere etico per lutti. L’abbondanza, almeno quella che esisteva per le classi medie, ed una tecnologia dalla produttività incalcolabile, hanno generato una loro etica: la ragionevole certezza che l’abolizione di qualsiasi forma di oppressione (imposta ai sensi, al corpo o alla mente) potesse essere ottenuta anche sul terreno borghese della strumentalità economica. A motivare l’impostazione progressista dei primi documenti della New Left (come la «Dichiarazione di Port Huron») c’era la convinzione che la tecnologia fosse ormai così

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produttiva da poter essere usata per tranquillizzare i ricchi e rimuovere la loro tradizionale paura di perdere i propri beni. I ricchi avrebbero potuto serenamente godere la ricchezza e la società (a parte i problemi di potere e controllo) avrebbe ugualmente a disposizione di che garantire ampio benessere a tutti. In effetti capitalismo e Stato sembravano aver perso la propria «ragione d’essere», in quanto la disponibilità di mezzi di sostentamento creata dalla tecnologia sembrava renderne inutile la distribuzione secondo criteri gerarchici. Anche il lavoro, dunque, cessava di essere un fardello per le masse. La repressione sessuale non era più necessaria al fine di deviare le energie libidinali verso l’intensa attività lavorativa. Gli ostacoli convenzionalmente frapposti sulla via del piacere in queste nuove condizioni diventavano insopportabili e il bisogno poteva essere sostituito dal desiderio, inteso come impulso genuinamente umano. Il «regno della necessità» poteva finalmente essere sostituito dal «regno della libertà», e ciò spiega l’interesse suscitato all’epoca, in molte parti del mondo, dalle opere di Charles Fourier. Nella loro fase iniziale, la New Left e la controcultura erano profondamente anarchiche e utopiche, come è dimostrato dal contenuto dei progetti che cominciavano ad affiorare alla coscienza collettiva. Uno dei primi è stato il modo realmente democratico, faccia a faccia, di prendere le decisioni. Il termine «democrazia partecipativa» divenne di gran moda per indicare la necessità di controllo dal basso su tutti gli aspetti dell’esistenza, non soltanto su quelli politici. Era sottinteso che chiunque poteva accedere alla sfera politica e trattare la gente nella vita di tutti i giorni in modo «democratico». Con ciò si intendeva in realtà che le persone avrebbero dovuto essere «trasparenti» in tutte le loro relazioni e in tutte le idee professate. Tanto la New Left quanto, in ugual misura, la contro- cultura emergente che l’affiancava, avevano un atteggiamento ferocemente antiparlamentare che spesso tendeva apertamente all’anarchismo. È stato scritto molto sul «fuoco nelle strade» che a quell’epoca era parte integrante delle attività della sinistra, ma bisogna riconoscere che c’erano anche forti impulsi verso l’istituzionalizzazione dei processi decisionali che oltrepassavano il livello della protesta di piazza e delle dimostrazioni così comuni in quel tempo.

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La principale organizzazione americana della New Left, gli «Studenti per una Società Democratica» (SDS) e il suo equivalente tedesco, l’«Unione degli Studenti Socialisti» (anche in questo caso SDS) erano caratterizzate da un certo formalismo nelle loro conferenze e riunioni di lavoro. Ma tutti potevano parteciparci, con ben poche limitazioni, e ciò ha esposto tali organizzazioni all’invasione cinica da parte di sette della sinistra dogmatica. Ad eccezione di quelle di grandi dimensioni, queste conferenze e riunioni avevano in gran parte acquisito una loro propria geometria egualitaria, il circolo, dove non esisteva alcun presidente formale o capo. Chi aveva avuto la parola indicava chi dovesse parlare dopo di lui semplicemente scegliendo una delle persone che avevano alzato la mano per indicare la volontà di esprimere il proprio punto di vista. Tale geometria e procedura non erano una forma di simbolismo democratico e organizzativo fine a se stesso. Al contrario, esprimevano una genuina fiducia nel dialogo faccia a faccia e nella discussione spontanea. Le leadership venivano viste con sospetto, al punto che gli incarichi erano spesso assunti a rotazione e l’esistenza di quadri strutturati aborrita come un cedimento verso il controllo autoritario. Le assemblee della New Left contrastavano drammaticamente con le riunioni, molto formali e spesso accuratamente orchestrate, che qualche generazione prima avevano caratterizzato il movimento operaio. In effetti, la democrazia applicata in modo estremo al processo decisionale era considerata come marginale dal socialismo operaio, particolarmente da quello di impostazione marxista. In un certo senso, la New Left stava quasi consapevolmente riportando in vita tradizioni elaborate nel corso delle rivoluzioni democra'tiche di due secoli addietro. Proprio perché i mezzi di sussistenza apparivano potenzialmente disponibili in abbondanza per tutti, la New Left sembrava capire che la democrazia e una concezione etica della libertà costituivano il mezzo per arrivare direttamente a quell’ugualitarismo sociale che il socialismo operaio aveva cercato di raggiungere con mezzi economici e partitici. Era un notevole spostamento d’accento verso l’importanza dell’etica, in un’epoca in cui tutti i problemi materiali dell’umanità apparivano solubili, almeno in linea di principio. In effetti, l’epoca premarxista delle rivoluzioni democratiche si era mescolata con le forme di socialismo e pensiero utopico premarxista sotto l’egida della democrazia partecipativa. L’economico diveniva ora veramente

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politico, e il politico cominciava a perdere la patina di statalità che per un secolo l’aveva avvolto, un cambiamento dalle implicazioni decisive ed anarchiche. In secondo luogo, un’impostazione così democratica nella vita sociale non aveva senso senza decentramento. Se la struttura della democrazia non veniva ricondotta ad un livello umano, comprensibile, da «toccare con mano», la democrazia stessa non poteva acquisire una vera forma partecipativa. Bisognava creare nuove unità di rapporto sociale e nuove modalità tra le persone. In breve, la New Left cominciava a cercare, sia pur a tentoni, nuove forme di libertà. Tuttavia non è mai riuscita ad esportare queste nuove forme al di là delle assemblee che in genere si tenevano nei campus delle università. In Francia, durante la rivolta del maggio-giugno 1968, sembra che in diversi arrondissements parigini si siano tenute assemblee di quartiere. Anche negli Stati Uniti erano state avviate attività nei quartieri, ma senza vero interesse, soprattutto da parte di gruppi che agivano in sostegno di scioperi o di collettivi attivi nei ghetti. Comunque l’idea di dar vita a nuove forme di attività municipale libertaria, come contropotere alternativo alle forme statizzate, non ha preso piede, tranne che in Spagna dove il Movimento dei Cittadini, a Madrid, ha avuto un ruolo non secondario nel coagulare i sentimenti popolari contro il regime franchista. La richiesta di decentramento è rimasta uno slogan cui ispirarsi, senza riuscire ad esprimersi tangibilmente fuori delle università, dove gli interessi sovversivi erano centrati sul «potere studentesco». La controcultura ha dato la sua versione del decentramento sotto forma di vita comunitaria. Gli anni ’60 sono stati il decennio «per eccellenza» per le comunità di tipo anarchico, come le definivano molti testi sull’argomento. Gli esperimenti comunitari si sono moltiplicati nelle città e nelle campagne. Più che sviluppare una nuova politica, essi intendevano sperimentare nuovi modelli di esistenza, antitetici a quelli convenzionali. Erano dei veri e propri nuclei di contro cultura. I nuovi modelli prevedevano la messa in comune della proprietà, la pratica dell’usufrutto, la rotazione degli incarichi di lavoro, la cura collettiva dei figli da parte di entrambi i sessi, costumi sessuali radicalmente nuovi, il tentativo di raggiungere una certa autonomia economica, e la creazione di nuova musica, poesia, arte, nell’intento di interrompere ogni contatto con i canoni estetici dominanti. Il corpo umano e la sua

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rivalutazione, quale che possa essere il giudizio sui modelli adottati, diventava parte di un più generale tentativo di abbellire l’ambiente. I veicoli, le stanze, l’esterno dei palazzi, perfino le pareti di mattoni delle case popolari venivano decorati e coperti di murales. Questo tipo di comuni, in certi casi, costituivano porzioni intere di questo o quel quartiere, e ciò ha portato alla costituzione di associazioni intercomunita- rie e strutture di supporto anche se informali, come quelle chiamate «consigli di tribù». L’idea del «tribalismo», che la controcultura ha preso in prestito abbastanza facilmente dalla tradizione degli indiani americani, si è espressa più in un linguaggio gergale di «amore» e nell’adozione di usanze indiane (rituali e specialmente gioielli) che in una realtà di relazioni durevoli e di mutuo appoggio. Ci sono stati gruppi che hanno tentato di vivere nel rispetto di siffatti principi tribali e in qualche caso schiettamente anarchici, ma sono stati rari. Buona parte dei giovani che hanno contribuito alla creazione della controcultura erano transfughi provvisori provenienti dai sobborghi della classe media, ai quali avrebbero fatto ritorno al termine degli anni ’60. Ma i valori di molte comunità erano ideali consolidati che sarebbero filtrati nella New Left, la quale ha dato anch’essa vita ai suoi collettivi, per compiti specifici come la stampa di articoli, la direzione di «scuole libere» e altre iniziative del genere. Termini anarchici come «gruppi di affinità» (che nel movimento anarchico spagnolo erano l’unità-base per l’azione) hanno cominciato a diventare di moda. Presso gli anarchici spagnoli questi gruppi erano stati concepiti come forme associative contrapposte alle sezioni dei vari partiti socialisti fondate sulla residenza o sul luogo di lavoro; nella New Left, le personalità più libertarie vi portavano anche altri elementi della controcultura, come lo stile di vita, oltre all’attività politica. In terzo luogo, l’accumulo di proprietà era oggetto di derisione. La capacità di «espropriare» cibo, vestiario, libri o altro dai grandi magazzini e dagli shopping center era considerata un merito. Tale mentalità, e pratica, divennero così diffuse da infettare perfino le classi medie rispettose delle convenzioni. Il taccheggio nei negozi assunse proporzioni epidemiche negli anni ’60. La proprietà veniva generalmente vista come una specie di bene pubblico, da usare liberamente o da «espropriare». Anche i valori estetici, che erano rimasti seppelliti nei manifesti artistici e politici del passato, hanno avuto una rinascita

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straordinaria. I musei venivano contestati in quanto si riteneva che gli oggetti ivi contenuti dovessero essere esposti in luoghi pubblici in modo da divenire parte di un ambiente vivo, reale. Si tenevano pubbliche rappresentazioni teatrali (Street theatre) nei posti più incredibili, come sui marciapiedi dei quartieri finanziari; complessi rock tenevano i propri concerti per strada o nelle piazze; i parchi erano usati come aree per le manifestazioni, o per le discussioni, o semplicemente come luoghi all’aperto dove giovani seminudi fumavano tranquillamente marijuana sotto il naso dei poliziotti. Infine, l’immaginario della società occidentale è stato surriscaldato da immagini insurrezionali. In seno alla New Left ha cominciato a circolare la convinzione che il mondo intero fosse ineluttabilmente prossimo ad una trasformazione rivoluzionaria violenta. La guerra in Vietnam ha messo in moto folle immense a Washington, a New York e in altre città americane ed europee, come non si vedeva dai tempi della Rivoluzione Russa. Le sommosse nei ghetti neri diventarono comuni, con i loro scontri sanguinosi con l’esercito e la polizia, che hanno spesso subito perdite. L’uccisione di personaggi pubblici come Martin Luther King e Robert Kennedy sono state solo quelle più famose, in un elenco che comprende attivisti per i diritti civili, studenti e (crimine orrendo) un gruppo di bambini neri nel corso di una funzione religiosa. Queste morti spinsero alcuni settori della New Left verso attività terroristiche individuali. L’anno 1968 ha visto la più spettacolare rivolta di movimenti studenteschi e neri. In Francia, in maggio- giugno, milioni di operai hanno seguito gli studenti in uno sciopero generale durato settimane. L’eco di questa «quasi-rivoluzione» (come è stata definita di recente) è giunto in tutto il mondo in svariate forme, ma ha ottenuto scarsa simpatia presso le classi operaie e aperta ostilità presso gli operai tedeschi e americani, il che è stato una specie di sigillo di chiusura definitiva apposto sul socialismo operaio. Nonostante una massiccia sollevazione degli studenti americani nel 1970, in seguito all’invasione della Cambogia, tutto questo movimento, più che una vera insurrezione, era la sua proiezione immaginaria. In Francia, i lavoratori hanno battuto in ritirata, agli ordini dei loro partiti e sindacati. Le classi medie erano sinceramente combattute tra i benefici materiali ottenuti dall’establishment e l’appello etico proveniente dalla New Left, cioè

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dai suoi stessi figli. Libri come quelli di Theodor Roszak e di Charles Reich, che tentavano di spiegare alle generazioni più anziane il messaggio della New Left e in particolare la controcultura, hanno incontrato un successo sorprendente. Fors’anche milioni di persone attaccate alle convenzioni avrebbero avuto un’atteggiamento di simpatia attiva per le dimostrazioni pacifiste, e perfino per la stessa New Left, se l’ideologia di questa fosse stata presentata secondo le forme populiste e libertarie proprie della tradizione rivoluzionaria americana. La fine degli anni ’60, in effetti, è stato un periodo di grande importanza per la storia degli Stati Uniti. Se la New Left e la controcultura avessero avuto una crescita più lenta, più paziente e graduale, larghi settori della coscienza popolare sarebbero cambiati. Il famoso «sogno americano», forse alla pari di altri sogni «nazionali», aveva radici ideologiche profonde, non solo radici materiali. Gli ideali di libertà, di comunità, di mutuo appoggio, anche di federalismo decentrato, sono arrivati in America con i primi insediamenti di Puritani progressisti. Il loro particolare protestantesimo, contrario ad ogni forma di gerarchia ecclesiastica, faceva riferimento al comunalismo del cristianesimo primitivo piuttosto che ad un rozzo individualismo (un ideale essenzialmente da cowboy, un «anarchismo» puramente personale dove il «fuoco del bivacco» dell’eroe armato e solitario è sostituito dal focolare familiare dei proprietari terrieri del villaggio). I Puritani attribuivano grande importanza alle assemblee popolari «faccia a faccia» o ai raduni cittadini che consideravano più come strumenti di autogoverno che di governo centralizzato. Pur senza essere rispettata rigorosamente, tale concezione ha continuato ad esercitare un’immensa influenza sull’immaginario americano, al punto che se fosse stata accolta dalla New Left e dalla controcultura le avrebbe caricate di un senso etico che molti americani avrebbero accettato. Ma la New Left, invece di seguire questa tradizione, verso la fine degli anni ’60 ha sciaguratamente fatto l’esatto contrario. Si è staccata dalle sue origini anarchiche ed utopiche e, quel che è peggio, ha acriticamente fatto proprie ideologie provenienti dal Terzo Mondo, ispirate ai modelli sociali vietnamiti, cinesi, nordcoreani e cubani. Tali ideologie sono state introdotte dai residui del settarismo marxista ancora in circolazione dagli anni ’30, non solo negli Stati Uniti ma anche in Europa, ed oggi costituiscono il curriculum accademico, sia pur in forma più

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sofisticata, del corpo insegnante della New Left. Proprio le tendenze democratiche della New Left sono state usate contro di essa dagli autoritari filo-maoisti, allo scopo di «conquistare» l’SDS in America e in Germania. Nel tentativo di rifiutare una presunta ascendenza piccolo-borghese, questi movimenti si sono imbevuti di atteggiamenti operaisti e di riverenza per l’estremismo nero, esibendo uno zelo ultrarivoluzionario che li ha totalmente marginalizzati e demoralizzati. Gli anarchici presenti nell’SDS americana e tedesca, ed in altre organizzazioni simili, non sono riusciti a dar vita ad un loro movimento bene organizzato, e l’ostentazione di «ultra-rivoluzionarismo» ha giocato a favore delle più strutturate tendenze maoiste, con risultati disastrosi per tutta la New Left. Ma non è stato soltanto un difetto di ideologia ed organizzazione che ha portato alla morte la New Left e la controcultura. L’economia in espansione, surriscaldata, degli anni ’60 è stata sostituita in modo definitivo dall’economia raffreddata e fluttuante degli anni ’70. La rapidità dello sviluppo economico è stata deliberata- ménte bloccata e la sua direzione invertita, almeno in parte. Sotto la guida di Nixon negli Stati Uniti e della Thatcher in Inghilterra, così come dei loro colleghi in altre nazioni europee, è stato creato un nuovo clima politico ed economico che ha sostituito la sobbollente mentalità degli anni ’60 con un senso di incertezza economica. L’insicurezza materiale degli anni ’70, e la reazione politica successiva alla vittoria elettorale del conservatorismo in America e in Europa, ha dato origine a una tendenza individuale a ritirarsi dalla sfera pubblica. Il privato, la carriera, l’interesse personale hanno preso a prevalere sempre più marcatamente sul senso sociale, sull’impegno etico, sulla volontà di cambiamento. La New Left è scomparsa anche più rapidamente di come era comparsa, e la controcultura è diventata un fenomeno commerciale per boutiques e per interpretazioni in chiave pornografica della libertà sessuale. La cultura della «droga per aprire la mente», tipica degli anni ’60, ha aperto la strada negli anni ’70 ad una cultura della «droga-sedativo», mettendo in crisi la società euroamericana con la scoperta di nuovi farmaci e delle più bizzarre combinazioni di questi per sentirsi «su» o «giù», a seconda delle necessità. Una storia completa della New Left e della controcultura, con la descrizione approfondita delle sue origini, del suo sviluppo e della

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sua decadenza, deve ancora essere scritta. La gran parte del materiale oggi disponibile è sentimentale o autogiustificativo. Il radicalismo della New Left era essenzialmente intuitivo. La New Left non era teoricamente così preparata come la vecchia sinistra, alla quale essa ha tentato di succedere più con l’impegno attivo che con l’analisi. Nonostante la massa di volantini propagandistioi dal lessico roboante, essa non ha prodotto analisi intellettualmente acute degli eventi che provocava o delle possibilità reali che aveva di fronte. A differenza della vecchia sinistra che, con tutti i suoi difetti, era pur sempre parte di una tradizione secolare ricca di esperienze e valutazioni critiche, la New Left è apparsa più come un fatto storico isolato, difficile da spiegare nel contesto di una fase storica più ampia. Più interessata all’azione che alla riflessione, la New Left ha utilizzato versioni rinfrescate dei più consunti dogmi marxisti per avallare la propria riverenza, nutrita da sensi di colpa, per i movimenti del Terzo Mondo, per curare le sue stesse insicurezze di classe media, nonché per nascondere l’elitarismo dei suoi leader più opportunisti, prova vivente di come il potere, di fatto, corrompa. I più impegnati dei giovani estremisti degli anni ’60 andavano a lavorare in fabbrica per brevi periodi, allo scopo di «conquistare» una classe operaia per lo più indifferente, mentre altri si volgevano al «terrorismo», con azioni che in alcuni casi non erano che una parodia del terrorismo vero e in altri una tragedia che è costata la vita a tanti giovani intensamente (pur se erroneamente) impegnati. Ecco dunque che errori già fatti in passato son stati così riciclati: disprezzo per la riflessione seria, sopravvalutazione dell’azione, tendenza a ricadere nei dogmi più frusti, con il risultato certo della sconfitta e della demoralizzazione. Ed è proprio quello che è successo negli anni ’60, quando si è giunti alla stretta finale. Ma non è detto che tutto sia perduto. Il socialismo operaio aveva centrato il proprio progetto rivoluzionario sugli aspetti economici della mutazione sociale, cioè sulla creazione, specialmente sotto il capitalismo, delle condizioni materiali necessarie per una successiva liberazione dell’umanità. In accordo con l’opinione di pensatori famosi come Aristotele, era logico pensare che i popoli dovessero essere ragionevolmente liberi dai bisogni materiali per poter svolgere le proprie funzioni nella sfera politica. La libertà che si voleva dotare di basi materiali, atte a

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permettere alle persone di agire come individui o collettività responsabili ed autonome, era la libertà formale della disuguaglianza fra uguali, il regno astratto della giustizia. Il socialismo operaio è morto in parte a causa della sua aridità e mancanza di immaginazione, ma ha anche apportato le necessarie correzioni alla concezione puramente etica delle istituzioni politiche, mostrandosi in grado di concepire le strutture economiche necessarie alla piena partecipazione popolare nella ricostruzione della società. La New Left ha recuperato le visioni utopiche ed anarchiche del progetto rivoluzionario pre-marxista, ma ha anche intuito che esse potevano essere allargate per porle in sintonia con le nuove possibilità di benessere che la tecnologia aveva messo a disposizione dopo la seconda guerra mondiale. Alla solidità delle fondamenta economiche necessarie per una società libera, la New Left ha così aggiunto alcuni attributi tipici del fourierismo. Ha proposto l’immagine di una società sensuale e non soltanto ben nutrita; libera dal lavoro e non solo dallo sfruttamento; una democrazia sostanziale, non solo formale; l’abbandono al piacere, non solo la soddisfazione dei bisogni. I valori antigerarchici, decentralisti, comunitari ed edonistici avrebbero continuato a manifestarsi fino agli anni ’70, nonostante le contorsioni ideologiche della New Left che si andava decomponendo e precipitava in un mondo immaginario di insurrezioni, «rabbia» e terrorismo. Mentre, come ben sappiamo, i leader e i luogotenenti avrebbero finito per trovare la propria strada in auelle stesse strutture universitarie che tanto avevano disprezzato negli anni precedenti, il resto del movimento ha pagato un pesante scotto di suicidi, morti in scontri a fuoco con la polizia, detenzioni e rovina psicologica. Ma la New Left ha anche significativamente ampliato la definizione di libertà e l’orizzonte del progetto rivoluzionario, spingendoli al di là dei loro confini economici tradizionali, verso concezioni politiche e culturali più aperte. Nessun movimento futuro potrà mai dimenticare l’eredità etica, estetica ed antiautoritaria lasciata dalla New Left e dagli esperimenti comunitari fioriti in seno alla controcultura, nonostante le due tendenze non siano assolutamente assimilabili. La dimensione anarchica degli anni ’60 non è scomparsa. Due problemi, comunque, sono rimasti insoluti. Quali forme specifiche dovrebbe assumere un futuro movimento che volesse arrivare alla gente? E quali possibilità e nuove idee ci sono a disposizione per allargare

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gli ideali di libertà? Il femminismo e l’ecologia Quando ancora la New Left e la controcultura erano pienamente vitali, già queste domande cominciavano ad avere risposta attraverso due nuove problematiche: l’ecologia e il femminismo. I movimenti protezionistici, ed anche quelli ambientalisti volti a correggere particolari eccessi dell’inquinamento, hanno una antica tradizione nei Paesi di lingua inglese e nell’Europa centrale, dove il misticismo naturalistico risale al tardo Medio Evo. L’ascesa del capitalismo con i danni terribili da esso inflitti al mondo naturale ha dato a questi movimenti un rinnovato senso d’urgenza. L’accertamento che talune malattie come la tubercolosi (la famosa «peste bianca» del diciannovesimo secolo) traevano la propria origine dall’indigenza e dalle malsane condizioni di lavoro, ha spinto molti medici socialmente impegnati, come il liberale tedesco Rudolph Virchow, ad occuparsi attivamente della mancanza di igiene tra le popolazioni povere. Movimenti simili sono sorti in Inghilterra e si sono diffusi in tutto il mondo occidentale. Il rapporto tra ambiente e salute, così, è stato visto per più di un secolo come un problema di generale importanza. Nella maggioranza dei casi, tale rapporto era concepito in termini eminentemente pratici. Il bisogno di pulizia, alimentazione adeguata, abitazioni sane e condizioni di lavoro decenti, veniva affrontato in modo molto angusto, senza coinvolgere l’ordine sociale. L’ambientalismo era un movimento riformista. Non sollevava alcun problema di grande portata al di là del trattamento umanitario dei ceti poveri e operai. Una volta che fossero state attuate alcune specifiche riforme, i suoi adepti ritenevano che non ci sarebbe mai stato attrito serio tra il sistema capitalistico e il loro orientamento stretta- mente ambientalistico. Un altro movimento ambientalista, soprattutto americano, ma diffuso anche in Inghilterra e Germania, è emerso da una passione quasi mistica per la vita selvaggia. In esso sono confluite diverse correnti, troppo complesse per darne conto in questa sede. Protezionisti americani come John Muir trovavano nella vita selvaggia una forma di contatto con la vita non umana che ritenevano spiritualmente vivificante, capace di destare desideri ed istinti umani sopiti. E' una concezione che può essere fatta risalire all’idilliaca passione di Rousseau per la vita solitaria in mezzo alla

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natura. Come modo di sentire è sempre stato segnato da una buona dose di ambiguità. Il mondo selvaggio, o ciò che oggi ne resta, può dare un senso di libertà, una più intensa percezione della fecondità della natura, un amore per le forme di vita non umane, ed un più ricco apprezzamento - estetico dell’ordine naturale. Ma c’è anche un lato meno innocente. Il mondo selvaggio può indurre anche a rifiutare la natura umana, e ogni rapporto sociale, e a dar vita ad un’inutile opposizione tra vita selvaggia e vita civile. Rousseau tendeva ad assumere posizioni di questo tipo, nel diciottesimo secolo, per ragioni che qui non è il caso di considerare. L’accusa di essere «un nemico dell’umanità», mossa a Rousseau da Voltaire, non è del tutto esagerata. L’entusiasta della vita selvaggia che si ritira in montagna e sfugge la compagnia umana non fa che ingrossare la tribù di misantropi, che si sono manifestati innumerevoli in tutte le epoche. Per le popolazioni tribali, tali temporanei ritiri hanno lo scopo di ritornare poi alla tribù con un maggior bagaglio di saggezza; per il misantropo, invece, è una rivolta contro la sua propria specie, un rifiuto dell’evoluzione naturale incarnatasi negli esseri umani. Questa contrapposizione tra una presunta «prima natura» selvaggia e una «seconda natura» sociale, riflette la cieca e tortuosa incapacità di distinguere quanto di irrazionale ed antiecologico è presente nella società capitalistica da quanto di razionale ed ecologico potrebbe esistere in una società libera. La società viene invece condannata in quanto tale, all'ingrosso. L'umanità, senza che vengano tenuti presente i conflitti ad essa interni tra oppressi ed oppressori, è riunita sotto l’etichetta di un’unica «specie», dannosa al mondo naturale, primigenio, supposto «innocente» ed «etico». Tale impostazione porta ad un rozzo biologismo che impedisce qualunque possibilità di dare alla società e all’umanità un posto nella natura, o più precisamente nell’evoluzione naturale. Il fatto che anche gli esseri umani siano prodotti dell’evoluzione naturale e che anche la società esca dal medesimo processo è considerato con scarsa attenzione e viene generalmente subordinato ad un’immagine molto statica della natura. In tale semplicistico immaginario, la natura è vista come un paesaggio riprodotto in cartolina. E' una concezione ben poco naturalistica e, comunque più estetica che ecologica. L’appassionato di vita selvaggia è in genere un turista in vacanza, che entra in un mondo

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fondamentalmente alieno rispetto all’ambiente in cui normalmente vive. Che lo sappia o no, questo turista porta con sé quell’ambiente, proprio come porta appeso alle spalle lo zaino, prodotto ai una società altamente industrializzata. La necessità di superare questo ambientalismo tradizionale è emersa all’inizio degli anni ’60, e precisamente nel 1964, quando alcuni autori anarchici hanno tentato di rimodellare il pensiero libertario secondo linee ecologiche. Pur senza negare l’urgenza di fermare l’inquinamento ambientale, il disboscamento insensato, la creazione di centrali nucleari et similia, l’approccio riformista e settoriale veniva abbandonato per un approccio rivoluzionario, fondato sull’esigenza di ricostruire totalmente la società secondo principi ecologici. L’aspetto più significativo di questo nuovo approccio, che ha le sue radici nel pensiero di Kropotkin, era il riconoscimento di una relazione tra la gerarchia e il concetto di dominio sulla natura. In parole povere, si diceva, l’idea stessa di dominare la natura deriva dall’esistenza del dominio dell’uomo sull’uomo. Come ho già avuto modo di osservare, siffatta interpretazione ribaltava totalmente la tradizionale concezione marxista e liberale secondo la quale il dominio dell’uomo sull’uomo prende origine dalla necessità storica di dominare la natura per mezzo del lavoro umano, allo scopo di vincere un mondo naturale apparentemente «avaro», rapace, dal quale bisogna disserrare i «segreti» per metterli poi a disposizione di tutti e creare così una società felice. Nessun’altra ideologia, dai tempi di Aristotele, ha fatto di più per giustificare la gerarchia e il dominio di questo mito della necessità di dominare «sugli uomini» per poter dominare «sulla natura». Il liberalismo, il marxismo ed altre ideologie precedenti hanno indissolubilmente legato il dominio sulla natura alla libertà umana. Estrema ironia, il dominio sugli esseri umani, l’ascesa della gerarchia, delle classi e dello Stato, sono stati visti come «presupposti» per la loro successiva eliminazione. L’opposta concezione di derivazione anarchica è stata deliberatamente definita ecologia sociale, allo scopo di sottolineare come i principali problemi ecologici hanno radici in problemi sociali, i quali a loro volta risalgono alle origini della cultura patriarcale. L’ascesa del capitalismo, con le sue caratteristiche di competizione, accumulazione e crescita illimitata, ha portato la situazione (ecologica e sociale) ad un punto critico, come mai si è visto precedentemente, in qualunque epoca della storia umana. La

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società capitalista, riciclando il mondo organico e trasformandolo in un crescente, inanimato e inorganico cumulo di merci, sta semplificando la biosfe'ra, interrompendo la sua millenaria evoluzione verso la differenziazione e la diversità. Affinché la tendenza venga invertita, il capitalismo deve essere sostituito da una società ecologica fondata su relazioni nongerarchiche, su comunità decentrate, su ecotecnologie come l’energia solare, sull’agricoltura organica e su industrie a misura umana, insomma forme di insediamento veramente democratiche, economicamente e strutturalmente coerenti con l’ecosistema in cui si trovano collocate. Siffatte concezioni sono state pionieristicamente esposte in alcuni articoli, come i miei Ecology and Revolutionary Thought (Ecologia e pensiero rivoluzionario) del 1964 e Toward a Liberatory Technology (Verso una tecnologia liberatoria) del 1965, qualche anno prima che venisse proclamato l’«Earth Day» (Giorno della Terra) e una misteriosa parola, «ecologia», cominciasse a entrare nelle discussioni di ogni giorno. Ciò che deve essere sottolineato è che questa letteratura, per la prima volta, legava la problematica ecologica alla gerarchia e non semplicemente alle classi economiche. Veniva compiuto un serio tentativo di superare l’ambientalismo settoriale per affrontare il problema di una crisi ecologica dalle proporzioni monumentali, mentre il rapporto tra natura e società, precedentemente visto sempre in termini antagonistici, veniva visto come un lungo continuum nel quale la società era emersa dalla natura come risultato di un processo evolutivo complesso. Forse era chiedere troppo ad una New Left sempre più maoista e ad una controcultura sempre più commerciale (entrambe caratterizzate da una spiccata predilezione per l’azione a discapito del pensiero) di assorbire l’ecologia sociale in toto. L’uso di termini come gerarchia, raramente impiegati nella retorica della New Left, ha cominciato a comparire sempre più frequentemente nei discorsi dei tardi anni ’60, assumendo una particolare rilevanza in seno ad un nuovo movimento, il femminismo. Con l’idea che la donna è vittima in quanto tale della «civiltà» maschile, indipendentemente dalla sua «posizione di classe» e status economico, il termine «gerarchia» ha assunto un peso notevole nelle prime analisi femministe. L’ecologia sociale è stata via via rimodellata dalle prime scrittrici femministe, fino a diventare una critica non solo delle classi, ma della gerarchia in tutte le sue forme. In senso lato, l’ecologia sociale e il primo femminismo hanno

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messo in discussione l’enfasi economicistica posta dal marxismo alla base dell’analisi e della ricostruzione sociale. Hanno reso più esplicito l’approccio antiautoritario della New Left, ponendo in evidenza il problema della dominazione gerarchica. La degradazione dello status femminile come genere e gruppo sociale è apparso chiaramente visibile di fronte all’uguaglianza solo apparente di un mondo guidato dalla disuguaglianza tra uguali garantita dalla giustizia. Mentre la New Left si andava decomponendo in una serie di sette marxiste e la controcultura si trasformava in una nuova forma di business commerciale, l'ecologia sociale e il femminismo allargavano l’ideale di libertà oltre i confini fino ad allora stabiliti. La gerarchia in quanto tale, intesa come modo di pensare, rapporti umani e sociali, oppure come relazioni tra la società e la natura, poteva ora essere liberata dalla tradizionale analisi classista, che l’aveva nascosta sotto un tappeto di interpretazioni economiche della società. La storia poteva ormai essere esaminata in termini di libertà, solidarietà ed empatia per i propri simili, cioè il bisogno di essere parte dell’equilibrio naturale. Tali interessi cessavano di essere specifici di una particolare classe, genere, razza o nazionalità. Erano interessi universali, di tutta l’umanità nel suo complesso. Non che si dovessero ignorare i problemi economici e i conflitti di classe, ma limitarsi ad essi significava lasciare in vita una serie di atteggiamenti e relazioni perverse che andavano affrontati e corretti in una prospettiva sociale più vasta. In termini più precisi di quanto fosse mai stato fatto negli anni ’60, o prima di essi, il progetto rivoluzionario poteva ora essere definito come 1'abolizione della gerarchia, la riarmonizzazione dell’umanità con la natura attraverso la riarmonizzazione degli esseri umani tra loro, la costruzione di una società ecologica strutturata sulla base di tecnologie ecologicamente valide e di comunità a democrazia diretta. Il femminismo ha saputo evidenziare il significato della gerarchia in termini esistenziali. Facendo ampio ricorso agli scritti e al lessico dell’ecologia sociale, ha reso la gerarchia concreta, visibile e drammaticamente reale, attraverso la condizione femminile in tutte le classi, impieghi, istituzioni e rapporti familiari. Rivelando l’inferiorità sofferta in particolare dalle donne, ha demistificato le sottili forme di dominio perpetrate nella culla, a letto, in cucina, nei giochi, a scuola, e non solo sul posto di lavoro e in generale nella sfera pubblica. Di conseguenza, quindi, l’ecologia e il femminismo si sono

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reciprocamente influenzati e completati, in un comune processo di demistificazione è hanno reso manifesto l’incubo che aveva pervertito ogni progresso della «civiltà» col veleno della gerarchia e del dominio. Sono stati messi all'ordine del giorno problemi ben più importanti di quelli affrontati all’inizio dalla New Left e dalla controcultura, problemi che richiedevano elaborazione, oltre che un’attività ed una organizzazione serie, per raggiungere le persone in quanto tali, non questo o quel settore particolare della popolazione. Il progetto poteva essere rafforzato facendo proprie problematiche del tutto staccate da quelle tradizionali di tipo classista: il rovesciamento dei cicli naturali, l’inquinamento crescente, l’urbanizzazione incontrollata, l’aumento delle malattie di origine ambientale... L’area delle persone interessate ai problemi ambientali è cominciata a crescere. I problemi dello sviluppo e del profitto, il futuro della Terra, hanno assunto, in modo autonomo, un carattere che si può definire planetario: non erano più problemi isolati, o problemi di classe, ma problemi umani ed ecologici. Il fatto che varie elite e classi privilegiate continuassero a perseguire i propri interessi borghesi poteva servire a confermare come il capitalismo in sé stesse diventando un interesse settoriale tale da non poter più essere giustificato. Contrariamente all’opinione marxiana, diventava evidente che il capitalismo non è una forza storica universale ed ancor meno un interesse umano universale. La fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70 ha costituito un periodo pieno di alternative straordinarie. Il progetto rivoluzionario era tornato in piedi. Gli ideali di libertà, di cui il marxismo aveva interrotto la tendenza, si erano ripresi ed avanzavano lungo principi anarchici ed utopici per abbracciare l’interesse umano universale, l’interesse della società nel suo complesso, non dello Stato nazionale, o della borghesia, o del proletariato, o di qualunque ceto sociale particolare. Era forse possibile che dal processo di decomposizione seguito al ’68 si salvasse una parte della New Left e della controcultura in grado di accogliere il grande progetto rivoluzionario cui l’ecologia sociale e il femminismo avevano dato l’avvio? Potevano le sinistre mobilitare nuovamente energie e sentimenti tanto da pareggiare per ampiezza e intelligenza il progetto rivoluzionario cui queste due tendenze avevano dato vita? Le vaghe richieste di democrazia partecipativa, giustizia

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sociale, disarmo e simili, dovevano essere collegate insieme, in un’unica prospettiva coerente. Richiedevano un senso, una direzione che poteva essere ottenuta soltanto attraverso un’analisi, programmi e organizzazioni più approfondite, più coerenti e meglio definite di quanto abbia saputo produrre la New Left negli anni ’60. L’appello lanciato alla SDS tedesca da Rudi Dutsch- ke per una «lunga marcia attraverso le istituzioni», che significava poco più che un semplice adattamento alle istituzioni esistenti, senza sforzarsi di crearne di nuove, ha avuto come unico risultato la perdita di migliaia di compagni nelle istituzioni. Ci sono entrati e non ne sono più usciti.

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RICOSTRUIRE LA SOCIETÀ

La porta che conduce alla New Lefit del futuro, quella che sarà capace di riassumere in sé l’esperienza degli anni ’30, degli anni ’60 e dei decenni successivi, è lì che sbatte avanti e indietro, girando sui suoi cardini. Non è né aperta né chiusa. Le sue oscillazioni dipendono in parte dalla dura realtà della vita sociale di tutti i giorni, dall’economia in calo oppure in ascesa, dal clima politico presente in varie parti del globo, da quel che succede nel Terzo Mondo ma anche nel Secondo e nel Primo, dal vigore della sinistra in patria e fuori, e dai profondi cambiamenti ambientali che aspettano l’umanità negli anni a venire. Dal punto di vista ecologico, l’umanità deve fare i conti con rilevanti mutazioni climatiche, incremento dell’inquinamento, comparsa di nuove malattie. Ogni anno tremendi flagelli come fame, carestie e malnutritizione impongono il sacrificio di milioni di vite. Numeri incalcolabili di specie animali e vegetali rischiano l’estinzione in conseguenza del disboscamento e delle piogge acide. Alterazioni del regime idrico e crescita del livello dei mari, a causa dell’effetto serra, minacciano di distruggere aree naturali ancora relativamente incontaminate. Le modificazioni globali che vanno degradando l’ambiente naturale rendendolo inabitabile hanno una rilevanza di livello praticamente geologico e si verificano ad un ritmo sempre più catastrofico per tutte, o quasi, le forme di vita. Si poteva sperare che siffatti cambiamenti planetari avrebbero catapultato il movimento ecologista sul proscenio del pensiero sociale, con nuovi apporti per gli ideali di libertà. Ma non è andata così. Esso si è invece diviso in diverse tendenze spesso reciprocamente contrapposte. Alcune di queste sono improntate ad un semplice ambientalismo pragmatico e mirano a riforme settoriali riguardanti problemi come il controllo degli scarichi tossici, l’opposizione alla costruzione di centrali nucleari, limitazioni allo sviluppo urbano, e simili. Certamente queste sono lotte necessarie, che non possono essere disprezzate per il

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semplice fatto di avere una portata limitata. Servono a rallentare la corsa verso disastri come Chernobyl e Love Canal. Ma non per questo rendono meno necessario andare alla radice dei problemi ecologici. Inoltre, essendo orientati in senso meramente riformistico, possono anche creare la pericolosa illusione che l’attuale aspetto sociale sia in grado di correggere i propri eccessi. E' necessario invece che la distruzione dell’ambiente sia vista sempre come intrinseca al capitalismo, come il prodotto inevitabile della sua logica di funzionamento in quanto sistema tendente all’espansione e all’accumulazione illimitata. Ignorare la natura intimamente anti-ecologica del presente assetto sociale, sia nella forma manageriale occidentale che in quella burocratica orientale, significa contribuire a distogliere l’attenzione pubblica dalla drammaticità della crisi e dalla necessità di risolverla. L’ambientalismo, concepito come un movimento di riforme settoriali, cede facilmente al fascino dello Stato, cioè al gusto di partecipare alle elezioni, alla vita parlamentare e partitica. Un gruppo di pressione che si trasforma in partito non richiede un grande salto di consapevolezza, e nemmeno l’estensore di una petizione che diventa deputato. Tra chi si rivolge umilmente al potere per ottenere qualche favore e chi detiene ed arrogantemente esercita il potere stesso esiste una sorta di sinistra e perversa simbiosi. Entrambi ritengono che le cose possono essere cambiate solo attraverso il potere? vale a dire attraverso quel corpo professionale e corrotto di legislatori, burocrati e militari che chiamiamo Stato. Fare appello a questo potere inevitabilmente funge da' legittimazione per lo Stato, e lo rafforza, mentre parallelamente espropria di ogni potere i popoli. Il potere non lascia vuoti nella vita pubblica. Ogni aumento del potere statale avviene a spese del potere popolare, ed ogni aumento del potere popolare avviene a spese del potere statale. Legittimare il potere statale, dunque, significa delegittimare il potere popolare, e viceversa. Le organizzazioni ecologiste che si volgono all’attività parlamentare non solo legittimano lo Stato a spese del popolo, ma sono anche obbligate a funzionare all'interno dello Stato, e finiscono per diventare sangue del suo stesso sangue. Devono «stare al gioco», cioè devono adattare le proprie priorità all’esistenza di regole predeterminate sulle quali non hanno alcun controllo. Il che non solo dà origine ad una serie infinita di

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relazioni che equivalgono alla partecipazione vera e propria al potere statale, ma mette anche in moto un progressivo processo di degradazione, una continua rinuncia ai propri ideali, attività e strutture organizzative. Ogni richiesta per l’esercizio «effettivo» del potere parlamentare crea il bisogno di un ulteriore allontanamento dai propri standard di idee e condotta. Se lo Stato è il regno del «male», come enfaticamente diceva Bakunin, agire nell’ambito dello Stato significa scegliere tra mali minori o maggiori, e non agire eticamente in funzione di ciò che è giusto ed ingiusto. L’etica stessa viene radicalmente ridefinita, dalla classica e tradizionale ricerca del bene e del male alla contemporanea e sinistra concezione del compromesso tra mali minori e maggiori, cioè quanto ho in altra sede chiamato l’etica del male. Questa fondamentale ridefinizione dell’etica ha avuto conseguenze disastrose durante il corso della storia recente. Il nazismo è riuscito ad arrivare al potere in Germania, quando la socialdemocrazia si è trovata a dover scegliere tra liberali e centristi prima, tra centristi e conservatori poi, e tra conservato- ri e nazisti infine. Un decadimento continuo, concluso da un presidènte conservatore, il maresciallo Hinden- burg, con l’attribuzione della carica di Cancelliere del Reicb al capo dei nazisti, Adolf Hitler. Il fatto che questa attribuzione sia stata tollerata da parte della classe operaia tedesca senza la minima resistenza, nonostante i suoi grandi partiti e sindacati, è un triste evento storico solitamente dimenticato. E tale decadimento morale non si è verificato soltanto a livello statale, ma anche a livello degli stessi movimenti popolari, presi anch’essi in un processo crudele di degenerazione politica e decomposizione etica. I movimenti ambientalisti non hanno avuto miglior successo nelle loro relazioni con il potere statale. Hanno dato via foreste intere in cambio di qualche simbolica riserva di alberi. Immensi territori selvaggi sono stati scambiati con qualche parco nazionale e grandi porzioni di paludi costiere con pochi ettari di spiaggia intatta. Se si pensa al numero degli ambientalisti che sono entrati nei parlamenti nazionali come Verdi, bisogna riconoscere che hanno in genere ottenuto ben poco oltre all’attenzione con cui sono guardati i loro deputati, e non hanno fatto molto per arrestare il degrado ambientale. La coalizione Hesse tra Verdi tedeschi e governo socialdemocratico, verso la metà del 1980, è finita ignominiosamente. Non solo i principi più puri del partito Verde tedesco sono stati inquinati dai compromessi dell’«ala realista»,

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ma il partito è anche diventato più burocratico, manipolatorio e professionale, in una parola più simile ai rivali che un tempo denunciava. Comunque, il riformismo e il parlamentarismo hanno per lo meno una loro concretezza e affrontano problemi reali di politica e di indirizzo sociale. Ma esiste un’altra tendenza del movimento ambientalista, la più recente, che è del tutto evanescente e inconsistente. Essa consiste nel tentativo di trasformare l’ecologia in una religione popolando il mondo naturale di divinità, ninfe, elfi e simili, il tutto officiato da un corpo di guru indiani finanziariamente astuti, di loro concorrenti nostrani, di streghe di varia connotazione e chi più ne ha più ne metta. È il caso di spendere due parole per dire come questa tendenza abbia preso origine negli Stati Uniti. Questi sono attualmente il Paese più incolto, peggio informato e culturalmente più illetterato di tutto 1'Occidente. La controcultura degli anni ’60 non si è limitata a rompere col passato, ma ha anche spazzato via la conoscenza del passato, ivi compresa la storia, la letteratura, l’arte e la musica. I giovani cretini che arrogantemente rifiutavano «di credere a chiunque avesse più di trent’anni», per usare uno slogan assai in voga all’epoca, hanno tagliato tutti i loro legami con le migliori tradizioni del passato. Fantasie inequivocabilmente contraddittorie sono state coagulate dalle droghe e dalla musica rock in uno squallido essudato di religioni atee, sovrannaturalismo naturale, politica privata, progressismo reazionario, e via dicendo. Se tale abbinamento di termini del tutto opposti appare irrazionale, il lettore tenga a mente che siffatta amalgama era made in America, cioè fatta là dove tutto è ritenuto possibile e l’assurdo ne è normalmente il risultato. L’ecologia è una disciplina dall’approccio essenzialmente naturalistico, e può quindi apparire strana tale infestazióne di elementi sovrannaturali. Ma diventa spiegabile sè essa viene vista nell’ambito dei suoi confini americani. È stupefacente, comunque, il fatto che questo miasma si sia diffuso anche in Europa, specialmente in Inghilterra, in Germania e in Scandinavia. Tempo permettendo, finirà per invadere anche i Paesi dell’area mediterranea. Questo ecologismo di natura quasi teologica viene applicato anche alle relazioni di genere, e in questa forma di «femminismo culturale» sta riscuotendo un seguito crescente in Inghilterra e in Germania. La speranza che l’ecologia potesse arricchire il

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femminismo ha assunto l’aspetto bizzarro di un «ecofemminismo» teistico, strutturato intorno alla presunta unicità del ruolo «educativo» della donna nella biosfera. Le «ecofemministe» hanno essenzialmente capovolto il ruolo privilegiato che le culture patricentriche assegnano agli uomini, attribuendolo alle donne. Le donne sono privilegiate in seno alla natura così come gli uomini sono considerati privilegiati in seno alla storia, con l’unico risultato che allo sciovinismo maschile viene sostituito uno sciovinismo femminile. Allo stesso modo, divinità femminili presumibilmente «pacifiche» sostituiscono gli dei guerrieri maschili, come se scambiare un dio con un altro non fosse un’estensione negli affari umani della religione e della superstizione, per quanto possano essere definite «immanenti», «pagane» o «giudaico-cristiane». Miti di tipo femminile sostituiscono quelli a impostazione maschile, come se i miti non fossero sempre intrinsecamente arbitrari e ingannevoli, per «naturalistici», «sovranna- turalistici», «terreni» o «celesti» che siano. Il mondo, da complessa biosfera che dovrebbe indurre alla meraviglia e all’ammirazione, stimolando una sensibilità estetica oltre che un’attitudine premurosa, viene «riconcepito» come un territorio fondamentalmente femminile, occupato da gnomi, streghe e divinità varie, regolato da riti e mistificato da miti appositi, il tutto appoggiato da una lucrativa marea di libri, oggetti e ornamenti vari. In siffatto teistico terreno, l’attività politica e l’impegno sociale tendono a ridursi, passando dall’attivismo alla passività, dalle organizzazioni sociali ai gruppi di autocoscienza. Basta dare ad un qualsiasi problema personale una riverniciatura di «gepere» (ad un amore in crisi come ad un infortunio sul lavoro) ed esso diventa subito «politico». Il concetto che «il personale è politico» viene artificialmente esteso, fino a che il «modo» di presentare le idee diventa più importante della sostanza. La forma sostituisce sempre più il contenuto, e la capacità dì argomentazione viene disprezzata come capacità di «manipolazione», con il risultato di una mortale mediocrità di forma e contenuto in qualunque discorso politico. L’indignazione morale che un tempo sommuoveva gli spiriti attraverso le parole tonanti dei profeti ebraici, viene denunciata come «aggressività» e «comportamento maschile». Quello che conta, oggi, non è ciò che si dice, ma come lo si dice, anche se sono dichiarazioni sommamente stupide, o immorali, o vuote. L’«amore» può regredire e diventare

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infantilismo e bamboleggiamento. Tutto ciò non vuole assolutamente negare l’affermazione femminista che la donna è stata il paria di una storia principalmente maschile, che non ha peraltro impedito ai maschi medesimi di dominarsi, sfruttarsi, torturarsi e uccidersi fra loro, al di là di ogni possibile descrizione. Ma vedere la donna come la vittima-tipo della gerarchia e la sua oppressione come l’origine di tutte le gerarchie, come pretendono alcune femministe, significa semplificare l’evoluzione della gerarchia in modo rozzamente riduttivo. La nostra comprensione di un fenomeno non si esaurisce nell’accertamento delle origini di esso, così come le origini del cosmo non esauriscono la nostra comprensione della sua evoluzione da massa compatta e indifferenziata a forme estremamente complesse. E le gerarchie maschili sono estremamente complesse. Esse esprimono interazioni assai delicate tra padri, fratelli, figli, lavoratori, tipi etnici, e interessano anche lo status culturale e le inclinazioni personali. Il padre amorevole, con il quale la figlia ha spesso un rapporto più stretto che con una madre competitiva, è lì a ricordarci che la gerarchia è assai complicata a livello familiare, e quindi ancora di più a livello sociale. Né la considerazione della donna come vittima-tipo della gerarchia è inequivocabilmente provata dall’antropologia. Le donne anziane, in effetti, hanno sempre goduto di uno status privilegiato nelle gerontocrazie primitive, insieme agli uomini anziani. Né le donne sono state le uniche vittime del patriarcato, o le più oppresse. I figli maschi dei patriarchi dovevano frequentemente far fronte a richieste estremamente impegnative, ed in molte occasioni erano trattati dai propri padri in modo ben più severo che le proprie madri e sorelle. Né mancavano i casi in cui il potere patriarcale era apertamente condiviso con le mogli di età avanzata, come è testimoniato nella Bibbia dalla condizione di prestigio di Sara. Infine, non è affatto certo che le donne non tendano a costituire gerarchie al proprio interno, o che la pura e semplice abolizione del dominio maschile sia sufficiente a rimuovere la gerarchia come tale. La gerarchia è presente in ampi spazi della vita sociale oggi, come le burocrazie, i gruppi etnici, le nazionalità, le classi occupazionali, per non parlare della vita domestica in tutti i suoi aspetti. Essa pervade l’inconscio umano in modi che spesso non hanno alcuna relazione diretta (e nemmeno indiretta) con le

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donne. Riguarda modi di guardare al mondo naturale che non hanno assolutamente rapporto con la presunta propensione femminile ad essere istintivamente «amorevoli» e «custodi della vita» in quanto tali (un atteggiamento rozzamente biologistico che disconosce il ruolo che le donne hanno sempre avuto nella genesi di una cultura veramente umana, dedicandosi all’agricoltura e producendo manufatti come vasellame, tessuti, vestiario). D’altronde, sono anche esistite (e tuttora esistono) sciamane, streghe e sacerdotesse con uno status gerarchico superiore a tutte le altre donne facenti parte del gruppo dei fedeli e degli accoliti. Per l’interesse umano generale Le tentazioni antirazionali, teistiche e financo antisecolari che vanno manifestandosi in seno ai movimenti femministi ed ecologisti pongono un problema di fonda- mentale rilevanza per la nostra epoca. Sono il sintomo di una sinistra tendenza antiilluministica che si diffonde nella società occidentale contemporanea. In America e in Europa, la maggior parte dei nobili ideali illuministici vengono attualmente posti in discussione: la tensione verso una società razionale, la fede nel progresso, le speranze riposte nell’istruzione, l’esigenza di un uso umano della tecnologia e della scienza, l’amore per la ragione e la fiducia eticamente fondata nella capacità dell'uomo di costruire un mondo materialmente e culturalmente vivibile. Non solo tutto ciò viene sostituito da un cieco ritorno al passato, in certi settori dell’ecologismo e del femminismo, ma si va diffondendo anche all’esterno, sotto forma di un nichilismo da yuppy che si autodefinisce postmoderno, di una mistificazione della natura selvaggia presentata come «realtà vera», di una sociobiologia che degenera nel razzismo, e di un rozzo neo-malthusianesimo che puzza di fascismo. Certamente l’illuminismo del diciottesimo secolo aveva limiti non indifferenti, dei quali erano consapevoli i suoi stessi portavoce più in vista. Diderot, forse uno dei più brillanti, ha cercato di temperare il razionalismo dell’illuminismo con il sentimento (la sensibilité, come diceva) e ne ha criticato il meccanicismo e il dualismo. Altri, come Rousseau, sono giunti a porre le basi del romanticismo che è poi seguito. Ciononostante l’illuminismo ha lasciato alla società dei secoli successivi valori e ideali eroici. Ha

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portato l’intelletto umano dal cielo giù sulla terra, dal regno del sovrannaturale a quello della natura. Ha contrapposto all’oscuro mondo mitico del feudalesimo, della religione e del dispotismo regale, una chiara visione secolare. Ha messo in discussione il concetto di disuguaglianza politica, di supremazia aristocratica, di gerarchia ecclesiastica, ponendo le basi della sensibilità antigerarchica delle generazioni seguenti. Soprattutto, l’illuminismo ha concepito l’idea di un interesse umano generale, contrapposto al provincialismo feudale, nonché l’idea di un’unica natura umana che poteva sollevare l’umanità al di sopra dei particolarismi paesani, tribali e nazionalistici. Il fatto che tali ideali siano stati sfruttati dal capitalismo per giustificare la mercificazione del mondo, non ne inficia la validità in sé e per sé. L’Illuminismo ha espresso in tema di ragione, scienza e tecnologia concezioni di gran lunga superiori a quelle oggi dominanti. La ragione, secondo pensatori come Hegel, era una dialettica dello sviluppo eduttivo, un processo simile a quello che si manifesta nella crescita organica, non la semplice inferenza deduttiva della geometria e delle altre branche della matematica. La scienza, nel pensiero di Leibniz, si prefiggeva lo studiò della dimensione qualitativa dei fenomeni, non la definizione di modelli cartesiani di un mondo meccanico e matematico. La tecnologia èra intesa da Diderot da un punto di vista prevalentemente artigianale, con particolare considerazione per l’abilità e la perizia, più che per la produzione di massa. E Fourier, il vero erede della tradizione illuministica, avrebbe dato alla tecnologia un senso nettamente ecologico, sottolineando l’importanza dei processi naturali nel soddisfacimento dei bisogni materiali. Il fatto che il capitalismo abbia distorto questi ideali, riducendo la ragione, da nobile esercizio dell’intelletto, a razionalistica ricerca dell’efficienza industriale, che abbia usato la scienza per quantificare il mondo e separare il pensiero dall’essere, che abbia usato la tecnologia per lo sfruttamento della natura, ivi compresa la natura umana, trae le proprie origini dalla società e dalle ideologie che giustificano il dominio sull’umanità e sulla natura. Le attuali tendenze che disprezzano la ragione, la scienza e la tecnologia sono forse reazioni comprensibili a queste distorsioni borghesi degli ideali illuministici, specie se si tiene presente il senso di esautoramento che avvertono gli individui in quest’epoca di supercentraliz- zazione del potere ad opera dello Stato e delle grandi imprese, l’anonimato generato dall’urbanizzazione, dalla

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produzione di massa e dal consumo di massa, e la condizione di fragilità in cui si trova la personalità umana, stretta tra forze sociali misteriose e incontrollabili. Ma queste pur comprensibili tendenze diventano profondamente reazionarie quando i surrogati che offrono comportano la dissoluzione dell’interesse generale umano e la sua trasformazione in meschini particolarismi di sesso, la sostituzione dell’umanesimo empatico con il tribalismo paesano, e un cosiddetto «ritorno alla natura» al posto di una società ecologica. Diventano rozzamente passatiste quando attribuiscono la responsabilità della crisi ecologica alla tecnica e non alle multinazionali o alle istituzioni statali, che della tecnica si servono. E si ritirano nell’oscurità mitica del tribalismo, quando evocano il timore per «l’intruso» (che può essere il maschio, o l’immigrato, o il membro di un altro gruppo etnico) e lo presentano come una minaccia per l’integrità del gruppo. Il diritto all’identità culturale di questo o quel gruppo di persone non è messo in discussione, almeno se si parla di caratteri veramente culturali e non «biologici», ma è necessario tenere a mente che esso è un diritto di tutta l’umanità in quanto tale, non di una sola porzione di essa. L’ecologia ha un senso della complementarità, del mutualismo, delle relazioni nongerarchiche,’che è completamente antitetico a qualunque particolarismo, sia esso di natura razziale, sessuale o nazionale. La più preziosa delle eredità che ci sono state lasciate dall'illuminismo è la concezione dell’umanità come unità in una società libera, un’umica umanità accomunata dalla ragione e dall’empatia. Mai come oggi è necessario difendere con decisione questa eredità, quando l’irrazionalismo, lo sviluppo insensato, il potere centralizzato, minacciano di avere il sopravvento sulle conquiste umane del passato. Mai come oggi è necessario non solo arginare tutto ciò, ma ricacciarlo indietro, rimandarlo nelle profondità della storia demoniaca da dove è emerso. Il «qui» che ho descritto porta con sé il peso dei molti secoli che ho rapidamente passato in rassegna in queste pagine: il graduale comparire della società, o «seconda natura», dall’evoluzione della «prima natura»; l’emergere della gerarchia, inizialmente sotto forma di semplice gerontocrazia, poi come classi, infine come Stato, specialmente nella configurazione completa di Stato nazionale; l’ampliarsi dei vincoli di sangue in legami civici, il mutare delle tribù in città, l’evoluzione di una comunità paesana chiusa in una comunità di

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cittadini, l’ascesa, dai resti di un mondo sociale eterogeneo che pur limitava le incursioni dell’umanità nella natura, del capitalismo, che ha messo le merci al posto dei doni, lo sviluppo al posto del limite, l’accumulo al posto della distribuzione. Ho cercato di dimostrare che la storia dell’Occidente non è stata un’avanzata unidirezionale da uno stadio all’altro, da una «precondizione» all’altra, una tranquilla ascesa verso un controllo sempre maggiore su di una «prima natura» cieca, avara e intrattabile. Al contrario: la preistoria ha fornito alternative all’emergenza definitiva delle società guerriere, e forse se tali alternative avessero prevalso devoluzione sociale sarebbe stata più benigna di quella storicamente data. Altre alternative si sono create all’«epoca delle città», prima che la comparsa degli Stati nazionali precludesse totalmente le opportunità aperte dalle confederazioni urbane con le loro comunità a misura d’uomo, con le loro tecnologie artigianali, con l’equilibrio intelligente tra città e campagna. E più recentemente, appena due secoli fa, all’«epoca delle rivoluzioni democratiche», il mondo occidentale precapitalistico con la sua società ad economia mista è apparso sull’orlo di un assetto sociale anarchico. Dovunque, accanto all’antico «bisogno di giustizia» con la sua disuguaglianza tra uguali, sono comparsi ideali di libertà basati sull’uguaglianza tra disuguali. Man mano che le consuetudini tradizionali sono state assorbite da una morale imperativa divenendo poi parte di un’etica razionale, la libertà ha cominciato a guardare avanti invece che indietro, passando dalla nostalgia per l’«età dell’oro» alla speranza fervida nell’utopia. Gli ideali di libertà hanno assunto così un carattere secolare più che sovrannaturale, «lavorativo» più che di fiducia nella generosità della natura o di una classe privilegiata. E sono diventati sensuali, oltre che intellettualmente sofisticati. Il progresso tecnologico e scientifico ha messo la sicurezza materiale ed il tempo libero necessario per una democrazia partecipatoria all’ordine del giorno di un progetto rivoluzionario radicalmente nuovo. In tale progetto erano presenti elementi apparentemente contrastanti, e forse anche antitetici, specialmente nell’economia mista esistita in Europa tra i secoli quattordicesimo e diciottesimo, sicché varie scelte erano possibili, tra città e nazione, tra confederazioni e Stato, tra prodim^ne artigianale e produzione di massa. L’anarchismo, che si é espresso in modo pienamente autonomo durante «l’epoca delle rivoluzioni», ha sottolineato l’importanza

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della scelta, mentre il marxismo ha creduto nell’inesorabilità delle leggi sociali. L’anarchismo è rimasto sensibile alla spontaneità dello sviluppo sociale, sia pure arricchita dalla consapevolezza e dalle esigenze di una società strutturata. Il marxismo si è fissato sulla «teoria embrionale» della società, e ha sciaguratamente messo a tacere per più di un secolo tutte le altre voci rivoluzionarie, trattenendo la storia stessa nella gelida morsa di una teoria del dominio sulla natura e della centralizzazione del potere. Abbiamo notato che il capitalismo deve ancora definirsi completamente. Non è dato vedere alcun «ultimo stadio» di esso, così come l’«ultimo stadio» salutato come prossimo dai rivoluzionari dopo la prima e la seconda guerra mondiale non è mai stato raggiunto. I limiti del capitalismo, se esistono, non sono limiti interni, dovuti all’insorgere cronico delle crisi o al perseguimento degli interessi specifici del proletariato. Il socialismo operaista e la vecchia sinistra si sono affidati a questi miti ed ora sono in briciole. Il successo del progetto rivoluzionario, oggi, è legato all’emergere di un interesse umano generale che metta da parte qualunque interesse particolare di classe, di nazionalità, di etnia o di genere. La New Left, nutrita dagli incredibili progressi tecnologici successivi alla seconda guerra mondiale e dalla soddisfazione dei bisogni ordinari resa possibile dall’eccezionale incremento produttivo, si è liberata dalla presa economicista del marxismo ed ha riportato per un momento gli anni ’60 al radicalismo etico ma sensuale dell’epoca premarxista. L'interesse generale che deve stare alla base del nuovo programma libertario va riformulato tenendo presente il più certo dei limiti del capitalismo: il limite ecologico che il mondo naturale oppone alla crescita incontrollata. E se questo interesse generale può incarnarsi in una richiesta non gerarchica, questa è la richiesta femminile di una sostanziale uguaglianza dei disuguali cioè l’ideale allargato della libertà. Il problema è se il movimento ecologico e quello femminista sono in grado di farsi interpreti di questa sfida storica. Cioè, se ìrssi sapranno ampliarsi fino a divenire un movimento sociale, generando una New Left anarchica che parli di un interesse umano generale, oppure se si frammenteranno nella molteplicità di interessi particolari che si aggregano intorno al parlamentarismo riformista, al misticismo nelle sue varie forme, allo sciovinismo sessuale.

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Infine, quale possa essere stata in passato la possibilità di raggiungere una società libera ed ecologica; è certo che essa non può essere raggiunta oggi se l'umanità non riesce ad abbandonare il concetto borghese di abbondanza, proprio perché l’abbondanza è accessibile a tutti. Non viviamo più in un mondo dove il dono è più stimato dell’accumulo di beni, o dove ci sono vincoli morali che limitano lo sviluppo. Il capitalismo ha distorto i valori del mondo antico ad un punto tale che solo la prospettiva dell’abbondanza può eliminare il consumo insensato ed insieme il senso ai penuria esistente presso i ceti meno privilegiati. Non v’è interèsse umano generale che possa emergere quando «chi ha» costituisce il costante contrappunto della rinuncia ai beni materiali espressa da «chi non ha», e quando i nullafacenti scherniscono con la propria stessa esistenza la vita di lavoro imposta alla classe operaia. Né è possibile una democrazia partecipativa fintantoché la vita pubblica è accessibile solo a coloro che hanno tempo libero per, appunto, parteciparvi. Considerata la possibilità dell’umanità di compiere scelte decisive ai fini della direzione sociale da seguire, bisogna dire che le scelte fin qui fatte sono state negative. Il risultato in genere è stato che l’umanità non è stata veramente umana. Essa hà solo raramente realizzato le sue potenzialità quanto a pensiero, sentimento, giudizio etico e razionalità sociale. Gli ideali di libertà oggi non mancano, come ho già avuto occasione di notare, e possono essere descritti con ragionevole chiarezza e coerenza. Abbiamo di fronte non solo l’esigenza di migliorare la società, o modificarla; abbiamo di fronte la necessità di ricostruirla. Le crisi ecologiche e i conflitti che ci hanno divisi in lotte che fanno del nostro il secolo più sanguinoso della storia, possono essere risolti soltanto se riconosciamo che ciò che viene qui messo in discussione è la civiltà dominante, non semplicemente un assetto sociale malamente organizzato. La nostra attuale civiltà non è altro che un Giano bifronte, un ammasso di ambiguità. Non è possibile limitarci a criticarla come maschilista, sfruttatrice e dominatrice, senza riconoscere anche che ci ha almeno in parte liberato dai vincoli angusti del tribalismo, dal senso di dipendenza collettiva spesso antitetico al rispetto dell’individuo, dall’obbedienza abbietta alla superstizione che ci rendeva vulnerabili alla dominazione. Del pari, non possiamo limitarci a lodarne l’universalismo crescente, la spinta verso l’autonomia individuale, il senso secolare apportato alle cose

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umane, senza anche riconoscere che queste conquiste sono state ottenute al prezzo della schiavitù, della degradazione massificata, del dominio di classe, del potere statale. Solo una dialettica che riunisca la ricerca critica e la creatività sociale può enucleare la parte migliore del nostro decadente universo e porla al servizio della ricostruzione di un mondo nuovo. Ho sostenuto l’urgenza di definire un interesse generale umano che unifichi l’umanità nel suo complesso. A livello minimale, questo’ interesse è centrato attorno all’instaurazione di un rapporto armonico con la natura. La nostra vitalità come specie dipende dal rapporto che sapremo creare in futuro con il mondo naturale. Tale problema non può essere risolto dall’invenzione di nuove tecnologie che sappiano soppiantare i processi naturali senza contemporaneamente rendere la società più tecnocratica, più centralizzata e in ultima analisi più totalitaria. Sostituire i cicli naturali che determinano il rapporto tra anidride carbonica e ossigeno nell’atmosfera, creare un surrogato dello strato di ozono che protegge tutte le forme di vita dalle radiazioni solari letali, mettere a punto soluzioni idroponiche da usare al posto del suolo, tutto ciò, ammesso che sia realmente possibile, richiederebbe un disciplinatissimo sistema di controllo sociale, totalmente incompatibile con la democrazia e la partecipazione popolare alla vita politica. Questo stato di cose mette in discussione il futuro dell’umanità come mai, nelle epoche passate, è stato dato vedere. Le soluzioni di tipo «eco-tecnocratico», per così dire, comportano un livello tale di coordinazione sociale da far impallidire i più centralizzati dispotismi della storia. E comunque resta ancora da vedere se tale «eco- tecnocrazia» abbia una base scientifica affidabile, e non possa invece condurre, a causa della delicatezza degli equilibri che verrebbero ad essere interessati, a catastrofici errori di valutazione. Ma se i processi vitali del nostro pianeta non possono essere regolati da un sistema totalitario, la società moderna deve seguire alcuni fondamentali principi ecologici. In queste pagine, ho sostenuto che l’armonia con la natura non può essere perseguita senza perseguire anche l’armonia tra gli esseri umani. Ciò significa che il nostro stesso concetto di umanità deve sottostare ad una chiarificazione. Se continuiamo ad essere delle classi in conflitto, dei generi o delle etnie in conflitto, o delle nazionalità in conflitto, è ovvio che non è possibile alcuna armonia tra gli esseri umani.

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L’appartenenza a classi, sessi, etnie e nazionalità non farà che restringere il senso di ciò che si deve intendere per umanità, a causa degli interessi particolari che ci mettono esplicitamente gli uni contro gli altri. Il messaggio ecologico è un messaggio di diversità, ma anche di unità nella diversità. La diversità ecologica, inoltre, non poggia sul conflitto, poggia sulla differenziazione, cioè su di una globalità che viene esaltata dalla varietà dei costituenti. Socialmente, questa concezione è quella espressa nell’ideale greco di una personalità individuale completa e multiforme, e di una società anch’essa completa e multiforme. Gli interessi di classe, sesso, etnia e nazionalità hanno tutti la stessa preoccupante capacità di restringere la visione del mondo ad una visione angusta, dove gli interessi minori prevalgono e la complementarità si tramuta in conflitto. Cionondimeno gli interessi di classe, sesso, etnia e nazionalità sono drammaticamente radicati nelle principali manifestazioni di conflittualità. Un messaggio di mera riconciliazione sarebbe quindi assurdo, è certo. La nostra contraddittoria civiltà deve fare i conti con un passato in cui quelle che erano semplici differenze (di età, sesso, parentela...) sono state rielaborate in senso prima gerarchico, poi classista e infine trasformate in strutture statali. L’origine stessa dei conflitti di interesse deve essere affrontata e risolta in modo rivoluzionario. La terra non può più essere oggetto di possesso; deve èssere oggetto di partecipazione. I frutti di essa, ivi compresi quelli derivanti dalla tecnologia e dall’attività umana, non possono più essere espropriati a vantaggio di pochi; devono essere messi a disposizione di tutti, in funzione delle necessità. Il potere e i beni materiali devono essere sottratti al controllo delle elite; devono essere redistribuiti in modo da permettere a tutti di parteciparvi. Finché questi problemi fondamentali non saranno risolti, non potrà prendere forma l’interesse generale sulla base del quale affrontare la crisi ecologica e l’incapacità di risolverla da parte della società di oggi. Ciò che mi interessa sottolineare, comunque, è che siffatto interesse generale non può essere perseguito con i mezzi particolaristici tipici dei precedenti movimenti rivoluzionari. L’attuale crisi ecologica ha una potenzialità di mobilitazione che va ben oltre le classi, ed è destinata ad accrescersi col passare del tempo. Né un’eventuale sua mistificazione ad opera di movimenti religiosi o lacchè del potere economico potrà rendere meno visibile

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il rischio cui va incontro il futuro della biosfera. Ma non dobbiamo nemmeno ignorare la storia recente del progetto rivoluzionario e i progressi compiuti. Le rivoluzioni del passato sono state in gran parte lotte per la giustizia, non per la libertà. Gli ideali di libertà, uguaglianza e fraternità tanto generosamente avanzati dalla Rivoluzione Francese, sono venuti meno per mancanza di un’adeguata definizione dei termini. Non insisterò sul fatto che gli interessi particolari della borghesia hanno interpretato la libertà come libertà di commercio, l’uguaglianza come diritto ad acquistare forza-lavoro, la fraternità come obbedienza alla supremazia capitalista. Dietro i classici slogan repubblicani si nascondeva una concezione secondo cui la libertà era intesa quasi esclusivamente come diritto individuale di perseguire i propri interessi, l’uguaglianza coincideva con il principio di giustizia, e la fraternità alludeva, in senso letterale, ad una società maschile di «fratelli», anche se alcuni sfruttati ed altri sfruttatori. Gli slogan della Rivoluzione Francese non sono mai arrivati a toccare il campo della libertà. Da qualunque punto di vista venga osservata, essa è stata un progetto in sintonia con la disuguaglianza degli uguali, non un tentativo di raggiungere l’uguaglianza dei disuguali. La rivoluzione spagnola del 1936-37, pur tragicamente abortita, ha tentato di andare oltre questo progetto limitato, ma è rimasta isolata. Gli elementi più rivoluzionari di essa, gli anarchici, non sono mai riusciti ad ottenere dal Paese quell’appoggio di cui avrebbero avuto bisogno per realizzare i propri obiettivi emancipatori. Negli anni seguiti all’epoca del socialismo operaio, il capitalismo è cambiato. Dai tempi della rivoluzione industriale, il suo impatto sulla società e sulla natura è diventato anche più devastante. Il progetto rivoluzionario moderno, iniziato negli anni ’60 con l’appello della New Left per una maggiore partecipazione democratica, è andato oltre la dimensione particolaristica delle rivoluzioni tradizionali. Il concetto di «popolo», che nel diciottesimo secolo, quando la società stava cominciando a differenziarsi in classi chiaramente definibili, poteva essere un concetto fuorviante, ha preso un significato nuovo oggi che le classi tradizionali si stanno decomponendo, mentre emergono temi di natura trans-classista, come l’ecologia, il femminismo e un senso di responsabilità civica e comunitaria. Movimenti come i Verdi, in Germania e altrove, e i gruppi di iniziativa civica che

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vanno sorgendo in un numero crescente di città e piccoli centri, affrontano problemi di portata umana più ampia che quelli strettamente salariali o sindacali. Con l’ascesa dei movimenti ecologisti, femministi e dei gruppi di iniziativa civica, si vanno creando nuove possibilità per una generalizzazione degli ideali di libertà, per un loro ampliamento in senso umano e popolare. Parlare genericamente di «popolo», comunque, senza tenere presente i rapporti tra il comune cittadino e gli obiettivi da raggiungere, rischia di riprodurre il tipo di astrazioni che hanno caratterizzato il marxismo per più di un secolo. Al di là e al di sopra dell’esigenza di condividere la terra, di distribuire i frutti secondo i bisogni e di dar vita al senso di un interesse generale umano capace di superare i particolarismi del passato, il progetto rivoluzionario deve prendere le mosse da un fondamentale principio anarchico: ogni essere umano normale ha la competenza per gestire i problemi della società e, più specificamente, della comunità di cui è membro. Questo principio è una sfida ad astrazioni come il «popolo» dei giacobini o il «proletariato» dei marxisti, postulando la necessità che la società sia «popolata» da esseri vivi e reali, liberi di decidere i destini propri e della comunità in cui vivono. Esso mette in discussione il parlamentarismo come surrogato di un’autentica democrazia, con la classica osservazione di Rousseau: «La sovranità, per la ragione stessa che la rende inalienabile, non può essere rappresentata. Essa risiede essenzialmente nella volontà generale, e la volontà non ammette rappresentazione: o è la stessa, o è un’altra, non v’è possibilità intermedia. I deputati del popolo, quindi, ne sono solo gli incaricati e non possono prendere decisioni in sua vece. Ogni legge che non sia stata ratificata dal popolo in persona è nulla e vuota, cioè non è una legge. Il popolo d’Inghilterra si considera libero: ma si sbaglia grossolanamente; è libero solo durante le elezioni dei membri del parlamento. Appena questi sono stati eletti, diviene preda della schiavitù e non è più nulla». Qualsivoglia interpretazione possa essere attribuita alla «volontà generale» di Rousseau, il senso fondamentale della frase costituisce un ideale inalterabile e non negoziabile di libertà umana. Implica che non esiste democrazia sostanziale e vero autogoverno se il popolo non partecipa in assemble aperte, faccia a faccia, alla definizione della politica sociale. Nessuna politica è legittima sul piano democratico se non è stata proposta, discussa

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e decisa direttamente dal popolo, non attraverso rappresentanti, deputati o surrogati di qualunque tipo. La gestione di tale politica può essere poi lasciata a consigli, commissioni o collettivi di persone qualificate ed elette che, sotto stretto controllo pubblico e in piena aderenza alle delibere delle assemblee, curano l’esecuzione del mandato popolare. Tale distinzione tra decisionalità politica e gestione (sfuggita a Marx, nei suoi scritti sulla Comune ai Parigi del 1871) è decisiva. Le assemblee popolari sono la mente di una società libera; gli amministratori ne sono il braccio. Quelle possono in qualunque momento revocare questi e porre fine alla loro attività, in caso di necessità, insoddisfazione e simili. Questi si limitano ad eseguire ciò che quelle decidono e restano totalmente dipendenti dalla loro volontà. Grazie a questa distinzione, l’assemblea popolare non pone problemi strutturali, ma solo problemi essenzialmente funzionali di procedura democratica. In linea di principio, le assemblee possono funzionare in ogni situazione demografica e urbana, a livello di stabile, di quartiere o di città. Necessitano soltanto un opportuno coordinamento confederale per diventare forme di autogoverno. Con i moderni mezzi di comunicazione e di trasporto, non v’è emergenza tanto grande da impedire che le assemblee possano essere rapidamente indette per prendere a maggioranza importanti decisioni politiche, che verranno poi attuate dalle commissioni addette, indipendentemente dalle dimensioni della comunità o dalla complessità dei suoi problemi. A maggioranza, dicevo. Dobbiamo infatti abbandonare l’idea di dover sempre raggiungere l’unanimità in larghi consessi. La minoranza non ha il diritto di impedire una decisione della maggioranza. Certo, se la «volontà generale» di Rousseau si trasformasse in volontà generalizzata, se cioè si potesse pensare che persone razionali, che non hanno altro interesse se non quello della comunità, non possano fare a meno di pensarla allo stesso modo su questioni chiare e precise, l’unanimità non potrebbe mancare. Ma un simile risultato non è necessariamente desiderabile. La tirannia segreta della consuetudine è, in effetti, un passo indietro verso epoche in cui la pubblica opinione aveva un potere altrettanto coercitivo della violenza aperta (la quale, almeno, aveva il vantaggio di essere appunto aperta). Una tirannia dell’unanimità degrada una società libera, tende a uccidere

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l’individuo in nome della comunità e il dissenso in nome della solidarietà. E quando l’espressione individuale è impedita dalla disapprovazione altrui, quando le idee «de- vianti» vengono «normalizzate» dalla pressione dell’opinione pubblica, non c’è né vera comunità né solidarietà. Dietro lo sviluppo di assemblee dirette e autogestite esiste un certo numero di problemi etici ed educativi che riguardano la formazione di individui competenti. L’assemblea ha raggiunto la sua forma più sofisticata nella polis ateniese, che era vista dalla maggior parte degli antichi come una «plebocrazia» ed ha mantenuto tale cattiva reputazione fino ài nostri giorni. Che i progressisti di oggi, che guardano ad essa da una distanza di più di duemila anni, si sentano autorizzati a denunciarne il carattere di «tirannia» perché opprimeva donne, schiavi e stranieri residenti, fa un poco sorridere. Stanti gli eccessi raccapriccianti del mondo antico per quanto concerne patriarcato, schiavitù e dispotismo, la democrazia ateniese emerge come un faro luminoso. L’idea che la democrazia occidentale debba essere rigettata senz’altro, perché tradizione «maschile», e che si debba ritornare alle tradizioni «tribali», quali che siano, è profondamente retrograda. Nella polis, la natura bifronte della civiltà occidentale (quella orientale, credo di poter aggiungere, non offre alcun particolare miglioramento sotto tale riguardo) mostra realmente il suo volto migliore nella storia della libertà. E il caso dunque di chiedersi quali siano state le basi etiche dell’assemblea e i suoi tradizionali modelli di competenza. Nel primo caso si tratta dell’ideale di solidarietà, o amicizia (philià), secondo il quale la lealtà verso la comunità veniva nutrita dalle intense relazioni esistenti tra i membri di essa. Tra molti dei membri della polis ateniese, delle gilde medievali, delle infinite società esistenti nei centri urbani del modo precapitalista, esisteva un rapporto vivo e vitale, e profondamente sentito. Il «simposio» greco, in occasione del quale gruppi di amici si riunivano a cenare, bere e discutere, aveva qualcosa di simile alla intensa «vita di caffè» di molte città francesi, spagnole e italiane. La comunità nel suo insieme risultava dall’unione di «comuni» più piccole, e ciò ha dato origine, grazie alla controcultura degli anni ’60, a vere e proprie forme di vita comunitaria. L’ideale di una Comune di comuni è stato apertamente formulato nel 1871 durante la breve esistenza della Comune di Parigi. Le società popolari si sono raggruppate intorno alle sezioni parigine del 1793, fornendo modi

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associativi che hanno trasformato la rivoluzione in un esercizio di affinità civica. Un altro aspetto etico era l’importanza attribuita alla completezza. I greci avevano in sospetto gli specialisti, nonostante l’idea favorevole che ne aveva Platone, perché l’eccesso di esperienza in qualcosa sembrava una distorsione del carattere individuale verso un interesse particolare. Conoscere un po’ di tutto e non troppo di un unico argomento era considerato sintomo di una personalità completa che, in caso di bisogno, poteva esprimere idee intelligenti con cognizione di causa. Siffatta propensione per il «dilettantismo», che pura non ha impedito ai greci di porre i fondamenti della filosofia, della scienza, della matematica e dell’arte d ra m m a t i c a dell’Occidente, ha continuato a rappresentare u n i d e a l e anche nei secoli a venire, dopo che la polis è s c o m p a r s a dalla scena storica. La completezza implicava anche una certa dose di mi tosufficienza. Essere «l’uomo non d’altri che di se stesso» indicava ad un tempo completezza ed indipendenza. All’inizio, si supponeva che una persona di questo genere fosse libera da rapporti clientelari. Un interesse specifico poteva rendere l’individuo vulnerabile, mentre chi era in grado di svolgere diverse mansioni era considerato capace di comprendere un ampio spettro di problemi. Chi era indipendente materialmente, ad esempio un agricoltore proprietario in grado di far fronte alla maggior parte dei propri bisogni grazie al proprio lavoro ed abilità, era verosimilmente capace di giudicare obiettivamente, senza essere influenzato dalle opinioni altrui. I greci credevano nella proprietà non perché fossero avidi: al contrario, la generosità verso amici e concittadini era oggetto di grande considerazione nella società greca. Ma il possesso di un pezzetto di terra che potesse garantire al proprietario e alla sua famiglia il necessario per vivere lo liberava dalle manipolazioni dell’aristocrazia terriera e dei mercanti. Impiegare il proprio tempo libero al servizio della polis era un altro ideale, che spesso conduceva a sforzi agonistici per ottenere il pubblico riconoscimento, una caratteristica greca che è stata frequentemente biasimata ma anche scarsamente compresa. Lo zelo con cui i greci servivano le proprie comunità, in effetti, era idealizzato come una forma nobile di dedizione civica. Ottenere il riconoscimento di tale impegno spesso richiedeva notevole sacrificio personale, peraltro affrontato

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volentieri nella speranza di raggiungere l’immortalità sociale. Distruggere una città greca significava distruggere la memoria, e quindi l’immortalità, dei suoi personaggi, più eroici, cioè l’identità stessa dei suoi abitanti. Per evitare che l’eccesso di ambizione civica potesse compromettere l’equilibrio relativamente delicato di una società divisa in classi che poteva facilmente cedere alle tentazioni insurrezionali, i greci avevano formulato il concetto di «limite», la «media aurea» secondo la quale nulla doveva essere «in eccesso», che sarebbe poi entrato profondamente a far parte dell’etica occidentale. La nozione di limite ricompare infatti nelle città medievali, fino al Rinascimento. Nelle città-Stato italiane del tardo Medio Evo erano presenti regole non scritte di comportamento civico che limitavano l’eccesso di ambizione e le tendenze frazionistiche, nonostante l’emergere finale di oligarchie e signorie. Come ha sottolineato M.I. Finley, la polis ateniese (ed anche molte città democratiche che l’hanno seguita, vorrei aggiungere) ha messo a punto un sistema di deontologia civica atta a tenere sotto controllo l’eccesso di ambizione. Le città italiane del Medio Evo, ad esempio, avevano creato un equilibrio che impediva che alcuni interessi interni potessero prevalere su altri, un equilibrio che già prima era stato attuato dall’antica polis greca. Autolimitazione, dignità, cortesia e un’intensa dedizione alla moralità civica erano tra gli attributi psicologici che molte città precapitaliste a struttura assembleare trasferivano nelle loro istituzioni, dando origine ad un sistema di controllo che produceva armonia, per quanto incompleta possa sembrare. Il potere veniva spesso diviso e suddiviso, sicché l’esistenza dì forze contrastanti impediva il prevalere di questo o quell’organismo e dei suoi interessi. Nel suo complesso, questo insieme di attributi etici si è personificato in un individuo di nuovo tipo, il cittadino. Egli non era membro di una tribù né di un gruppo di parentela, nonostante nelle città precapitaliste esistessero intense relazioni familiari e i vincoli di sangue giocassero un ruolo non secondario nei conflitti politici. Per essere un cittadino nel senso tradizionale bisognava essere qualcosa di più che un «parente» di qualcuno. Il legame principale del cittadino era quello con la sua polis, città o comune, almeno fino a che l’ascesa degli Stati nazionali non ha trasformato l’identità civica in. una parodia del

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suo significato originale. I cittadini, inoltre, diventavano tali attraverso una sorta di addestramento, un processo di costruzione del carattere che i greci chiamavano paideia, traducibile con qualche approssimazione dal termine «istruzione». Bisognava imparare le responsabilità civiche, saper presentare le proprie ragioni con scrupolosa precisione, controbattere le argomentazioni contrarie con chiarezza, e con modelli di alto valore etico. In più, un cittadino doveva imparare le arti marziali, lavorare con altri cittadini in seno alle truppe della milizia, spesso doveva sapersi comportare correttamente nel corso delle campagne militari. Il cittadino di una città democratica precapitalista, dunque, non era il sémplice membro di una «rappresentanza» o un «contribuente», per usare il gergo civico moderno. Era invece, in genere, un essere umano consapevole, civicamente impegnato, attivo e capace di autogovernarsi, il quale con grande autodisciplina aveva fatto del benessere della comunità, e non del proprio tornaconto personale, il centro dei propri interessi. Tutti questi principi etici formavano una unità senza la quale la democrazia civica e le assemblee popolari non sarebbero state possibili. L’importante notazione di Rousseau, che sono i cittadini che fanno le città, non verrà mai ripetuta abbastanza. Senza i cittadini intesi nel senso classico, le città sarebbero stati meri agglomerati di edifici con la tendenza a degenerare in oligarchie o ad essere assorbite negli Stati nazionali. Il municipalismo libertario Da quanto precedentemente detto, risulta chiaro che l’insieme del popolo ha trovato la propria realizzazione nella città, o meglio in città molto speciali. Il carattere bifronte della civiltà occidentale ci obbliga a tener separati gli elementi negativi della città (l’aver legittimato la proprietà privata, le classi e lo Stato) dai grandi progressi segnati a favore della civiltà come nuovo ambiente per una humanitas universale. Oggi, in un’epoca in cùi tendenze antiurbane hanno gettato sulla città stessa una pessima luce sociale, può essere opportuno notare il grande progresso che essa ha rappresentato fornendo un ambito comune a gente con background etnico, con occupazione e status diversi. La «civiltà», termine che trae la propria etimologia dalla parola latina che significa ,città, appunto, non è stata

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soltanto un «banco da macellino», per dirla con Hegel. Come lo stesso Hegel sapeva fin troppo bene, è stata bifronte nel senso letterale del termine, guardando da una parte nella prospettiva dell’umanità e contemporaneamente dall’altra verso barbarie da giustificare in nome del progresso. Certamente la democrazia partecipativa e le assemblee popolari hanno avuto origine nelle comunità tribali e di villaggio. Ma non sono diventate, ivi, forme consapevoli di associazione, viste come fini in se stesse. Ciò è avvenuto con la nascita della città. Pare che siano esistite fin dai tempi dei Sumeri, nelle città della Mesopotamia. E' stata comunque la polis greca e più tardi i comuni medievali a rendere siffatte democrazie consapevoli di rappresentare un modo di vivere, non una semplice tecnica di gestione, e che andavano quindi costituite secondo principi etici e razionali conformi a ideali di giustizia e benessere, non semplici istituzioni sancite dalla consuetudine. Le città hanno costituito un passo avanti decisivo nella vita sociale é nonostante tutti i loro limiti ci hanno tramandato opere come la Repubblica di Platone e la Politica di Aristotele, che per secoli sono state una presenza costante nell’immagina- rio occidentale. La coscienza di sé ha fatto della città un’istituzione umana praticamente unica e significativamente creativa. Per Aristotele la città, o per meglio dire la polis, doveva adeguarsi a certi modelli strutturali al fine di assolvere alia propria funzione etica. Doveva essere di dimensioni tali da consentire ai cittadini il soddisfacimento della maggior parte dei propri bisogni, ma non doveva contemporaneamente superare i limiti di ampiezza che permettevano agli abitanti di avere reciproca familiarità e prendere decisioni in modo assembleare diretto. Struttura ed etica, funzioni e ideali di libertà erano inseparabili. Pur con tutti i suoi errori, Aristotele, insieme a molti ateniesi del suo tempo, ha cercato di mettere la forma al servizio del contenuto, opponendosi sempre ad ogni separazione tra i due, anche in progetti dettagliati di varie città. Tale approccio è diventato la chiave di volta della tradizione democratica occidentale. Era già forse nella mente di personaggi come i fratelli Gracchi dell’antica Roma, Cola di Rienzo nella Roma medievale e Etienne Marcel nella Parigi del quattordicesimo secolo, tutti uomini che hanno guidato le masse urbane in aspre rivolte per la confederazione tra città e per la democrazia civica. Era presente tra le città spagnole che nel sedicesimo secoio si sono

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ribellate al potere centrale e anche nella Rivoluzione Francese e nella Comune di Parigi del 1871. Esiste ancor oggi nelle assemblee delle città del New England, alcune delle quali custodiscono vigili i propri diritti locali. Si può dire che la città abbia aperto alla gestione della società una dimensione dove non è necessario il ricorso alle istituzioni statali, e che pure non è l’ambito stretta- mente privato costituito da casa, posto di lavoro, scuola, chiesa e cerchia di amici. La città ha creato la politica (termine che deriva appunto da polis) cioè un mondo unico dove i cittadini si riuniscono per discutere razionalmente i problemi della comunità e amministrare i propri affari in modo diretto. Che una municipalità possa essere amministrata da un’unica assemblea di tutti i cittadini, o debba venir suddivisa in un certo numero di assemblee confederate tra loro, dipende in gran parte dalle dimensioni di essa. Di qui la raccomandazione aristotelica che una polis non dovesse essere tanto grande che un grido di allarme dalle mura non potesse essere udito. A divello di caseggiato, quartiere o piccolo centro, le assemblee possono funzionare come reti di collegamento, ma quando le città dove si tengono sono decentrate assolvono pienamente agli ideali tradizionali di democrazia civica. La concezione anarchica di comunità decentrate, unite in libere confederazioni o reti di collegamento per il loro coordinamento a livello regionale, è la versione moderna di questi antichi ideali di democrazia partecipativa. Oggi, in una realtà sociale dominante che getta un’ombra sinistra sul futuro della nostra epoca, stiamo perdendo di vista l’idea stessa di città e di politica intesa come autogestione municipale. Le città vengono confuse con vaste cinture urbane che potrebbero essere meglio definite come processi apparentemente illimitati di «urbanizzazione». Le entità a misura d’uomo che un tempo erano città sono oggi soffocate dal cemento e vanno diramandosi fin dentro la campagna. Allo stesso modo, i cittadini vengono ridotti allo status di anonimo «elettorato» per i loro rappresentanti. La loro funzione principale è di pagare le tasse, lavorare tutti i giorni per il mantenimento della società, riprodursi e astenersi decorosamente da ogni tipo di attività politica, perché questo è oggi compito riservato allo Stato e ai suoi apparati. Nel lessico distorto di oggi le distinzioni fondamentali tra città e agglomerato urbano,

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cittadinanza ed elettorato, impegno politico e sotto- missione allo Stato, tendono a svanire. La città intesa come municipalità a misura umana, autogovernantesi, liberamente federata con altre municipalità altrettanto umane ed emancipate, si va dissolvendo nelle gigantesche cinture urbane. Il cittadino inteso come operatore politico attivo viene ridotto a passivo contribuente, a utente dei servizi forniti da agenzie burocratiche. La politica è stata degradata a statalismo, alla cinica attività di professionisti del potere ai danni del popolo. Il tutto è gestito come un’impresa commerciale, che viene considerata attiva se produce «surplus» e fornisce i servizi richiesti, passiva se va incontro a «deficit» e funziona in modo caotico. Il significato etico della vita cittadina, la sua funzione di addestrare al culto delle virtù civiche e della responsabilità sociale, viene semplicemente cancellato, ed al suo posto si instaura una mentalità imprenditoriale che privilegia il gettito fiscale, le spese, lo sviluppo, l’occupazione. Contemporaneamente, il potere si va intimamente burocratizzando, centralizzando e concentrando nelle mani di gruppi sempre più ristretti. Il potere che potrebbe venire reclamato dal popolo viene preventivamente svuotato dallo Stato e da organizzazioni economiche semi-monopolistiche. La democrazia, ben lungi dall'assumere un carattere partecipatorio, diviene puramamente formale. In effetti, la New Left è stata l’espressione di un desiderio profondo di riappropriazione proseguito anche dopo gli anni ’60, un desiderio di riconquistare il senso civico della politica, sottraendola allo Stato. Tali problemi continuano ad essere all’ordine del giorno ancor oggi. La comparsa dei movimenti di iniziativa civica in Germania, dei movimenti municipalisti negli Stati Uniti, i tentativi di ripristinare gli ideali civici in diverse città europee, anche la riscoperta francese di parole come decentramento, sono tutti sintomi della volontà popolare di riappropriarsi della vita sociale. In molti Paesi lo Stato, in seguito ai tagli apportati ai servizi pubblici, ha lasciato un vuoto che le città non possono fare a meno di colmare, se solo vogliono restare funzionali. Accade che una porzione sempre maggiore di servizi come i trasporti, l’abitazione, la previdenza sociale sia garantita da organismi locali, ben più che nel passato. Gli abitanti delle città, obbligati a provvedere per proprio conto, stanno reimparando l’arte del lavoro associato e

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della cooperazione. Una frattura ideologica, oltre che pratica, divide sempre più lo Stato nazionale, vieppiù anonimo, burocratico e lontano, dalle municipalità, ormai l’unico ambito oltre a quello della vita privata in cui l’individuo sia in grado di agire in modo diretto. Non ci rivolgiamo allo Stato per trovare una scuola per i nostri figli, lavoro, cultura e luoghi decenti ove vivere. Che piaccia o no, la città è ancora l’ambiente più accessibile con cui avere a che fare, oltre alla sfera della famiglia e degli amici, allo scopo di soddisfare i nostri bisogni di esseri sociali. Potenzialmente, il senso di espropriazione che si è diffuso come un’epidemia potrebbe dare origine ad un potere parallelo nei grandi Stati nazionali del mondo occidentale. Ancora non sono sorti movimenti consapevoli che cerchino di muoversi da un «qui» statizzato e centralistico verso un «là» civico, decentrato e federativo, movimenti che possano porre la richiesta anarchica di una confederazione di comuni come alternativa popolare all’attuale centralizzazione del potere. A meno di coltivare (futilmente, credo) miti di insurrezioni proletarie, in un impari scontro con le armi nucleari degli Stati nazionali moderni, non possiamo far altro che cercare contro-istituzioni che possano contrapporsi al potere nazionale. Comuni, cooperative e collettivi vari costituiscono certamente scuole eccellenti dove imparare l’amministrazione di imprese autogestite. Ma sono anche progetti marginali, di durata spesso estremamente breve e dotati più di valore esemplare che di vera funzionalità. Nessuna cooperativa rimpiazzerà mai una gigantesca catena di supermarket mettendosi in concorrenza con essa, per quanto possa essere redditizia, e nemmeno una «Banca popolare» in stile proudhoniano potrà sostituire le grandi istituzioni finanziarie, per quanto numerosi possano essere i suoi clienti. Sono altre le cose che possiamo imparare da un Proud- hon, il quale ha visto nella municipalità un centro importante di attività popolare. Non esito ad usare qui la parola «politica» nel suo senso ellenico originario, e cioè intendendo l’amministrazione di una comunità (polis) per mezzo di assemblee popolari e non per mezzo dello Stato e di attività parlamentari. Ogni società contiene vestigia del suo passato, delle antiche e spesso libertarie istituzioni che si sono poi trasformate in quelle attuali. La Repubblica americana, ad esempio, contiene ancora elementi di democrazia come i raduni cittadini descritti da Tocqueville nel suo libro

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Democrazia in America. Le città italiane possiedono tuttora quartieri molto vitali, che potrebbero costituire la base per nuove relazioni comunitarie. Lo stesso può dirsi di tanti esempi di comunità in tutto il mondo, la cui solidarietà apre la prospettiva di una nuova politica fondata sul municipalismo libertario, che potrebbe infine porsi come contropotere agli Stati nazionali. Voglio sottolineare che, perché ciò sia possibile, è necessario che si produca un movimento, non semplici casi isolati di qualche municipalità amministrata attraverso assemblee di quartiere; un movimento capace di modificare una comunità dopo l’altra, dando origine ad un sistema di relazioni federative tra municipalità sì da formare un potere a livello per lo meno regionale. La portata pratica di una simile impostazione libertaria e municipalista è impossibile da giudicare senza conoscere in dettaglio le tradizioni autentiche di una regione, le risorse civiche possedute, f problemi che ha da affrontare. Stante l’esperienza di chi scrive, in materia di controllo locale negli Stati Uniti si può dire questo: niente come la domanda di controllo locale, una volta avanzata, è stata accolta con tanta resistenza dallo Stato. Lo Stato sa (assai più dei suoi avversari nei movimenti di sinistra) quanto il controllo locale possa essere destabilizzante per la sua autorità. L’idea del municipalismo libertario risale all’epoca delle rivoluzioni americana e francese e della Comune di Parigi, quando il confederalismo era una proposta accolta con favore da larghi strati della popolazione. Per quanto i tempi siano cambiati da allora, non v’è ragione di dubitare che quella medesima idea possa risorgere oggi, quando movimenti di squatters, organizzazioni di quartiere e gruppi comunitari continuano a prodursi testimoniando l’esistenza cronica di una tensione che lo Stato nazionale non è mai riuscito ad esorcizzare. Tecnologia e decentramento All’esigenza di un movimento municipalista libertario l’ecologia sociale ha portato una dimensione originale e nel contempo imperativa. La necessità di ridimensionare le comunità umane in modo da adeguarle alle risorse naturali del territorio in cui si trovano e di instaurare un nuovo equilibrio tra città e campagna (temi tradizionali del pensiero utopico ed anarchico del secolo scorso) è diventata oggi ecologicamente imprescindibile. Non rappresenta soltanto il perdurare dell’utopismo di ieri, i sogni e i desideri di pensatori solitari. E' diventata la condizione perché la

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specie umana possa continuare ad esistere, in armonia con un mondo naturale complesso, minacciato di distruzione. In effetti l’ecologia ha posto nettamente l’alternativa: o ci volgiamo alle soluzioni solo apparentemente utopiche basate sul decentramento, su di un nuovo equilibrio con la natura e sull’instaurazione di rapporti armonici nella società, o dovremo affrontare lo sconvolgimento delle basi materiali e naturali della vita umana su questo pianeta. L’urbanizzazione minaccia anche la campagna, non solo la città. Il famoso contrasto tra città e campagna che tanto rilievo ha avuto nella storia del pensiero sociale, è oggi del tutto privo di senso, superato dall’ invasione del cemento, anche in aree a vocazione agricola e in comunità rurali di grande valore storico. L’omogeneizzazione delle culture rurali ad opera dei mass media, del diffondersi dei modelli esistenziali urbani e di una penetrante mentalità consumistica, minaccia non solo di distruggere modi di vivere unici e interessanti, ma di devastare completamente il panorama naturale. Ciò che l’agribusiness non ha ancora avvelenato con i suoi pesticidi, fertilizzanti e macchinari, viene distrutto dalle piogge acide, dall’alterazione climatica di origine sociale, dal disboscamento e dall’aridità. L’urbanizzazione del pianeta va semplificando ecosistemi complessi eliminando strati di suolo che hanno richiesto millenni per formarsi, riducendo ad una finzione la vita selvaggia e alterando in senso peggiorativo, anche se a volte indirettamente, il clima ai interi territori. La tecnologia ereditata dalle precedenti rivoluzioni industriali, l’uso insensato di veicoli a motore individuali la concentrazione di strutture industriali gigantesche vicino ai corsi d'acqua il continuo ricorso a combustibili fossili e nucleari e un sistema economico che ha per unica léggé lo sviluppo, tutto ciò non mancherà di produrre in pochi decenni un degrado ambientale mai vistp prima. Quasi tutti i nostri corsi d’acqua sono fogne insopportabili. Anche negli oceani sono state scoperte «zone morte» che si estendono per centinaia di miglia. Non è il caso di insistere con questa fosca litania delle continue e forse mortali ferite inflitte ovunque al nostro pianeta. I danni perpetrati nell’atmosfera allo strato protettivo di ozono sono risaputi, e anche quelli chp colpiscono le aree più remote del globo, come l’Artico e l’Antartide o le antiche foreste equatoriali. Per sopravvivere, anche senza pretendere di voler applicare

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pienamente i nostri principi libertari, bisogna non solo che venga rivisto il nostro concetto di urbanizzazione, il rapporto tra le città e il loro substrato ecologico, ma la tecnologia e i beni che essa produce, insomma tutta la nostra idea della natura. Abbiamo bisogno di città più piccole, per realizzare le nostre concezioni libertarie ma anche per garantire le esigenze più elementari di un’esistenza che sia in qualche modo in equilibrio con la natura. I giganteschi agglomerati urbani generano omogeneità culturale, anonimato individuale e potere centralizzato, e inoltre danneggiano insostenibilmente le risorse idriche, l’aria che respiriamo e tutte le caratteristiche naturali delle aree che occupano. Congestione, rumore e lo stress prodotto dalla vita urbana d’oggi stanno diventando sempre più intollerabili, a livello psichico oltre che fisico. Le città che un tempo servivano a riunire individui di background differenti sotto l’egida di una medesima solidarietà comunitaria, oggi atomizzano i propri abitanti. La città moderna è un luogo nel quale nascondersi# non l’occasione per ricercare la vicinanza degli altri esseri umani. La paura tende a sostituirsi alla socialità, la scortesia inghiotte la solidarietà, rammassarsi della gente in abitazioni, mezzi di trasporto, uffici e negozi sovraffollati, sovverte il senso dell’individualità e produce indifferenza alla condizione umana. Quindi il decentramento delle grandi città in comunità a misura umana non è né la mistificazione romantica di un solitario amante della natura, né un remoto ideale anarchico. È invece una realizzazione indispensabile per una società ecologicamente stabile. Bisogna scegliere tra uri ambiente in rapida degradazione, che finirà per compromettere l’integrità e la complessità delle forme di vita del pianeta, e una società che viva in equilìbrio con la natura. Lo stesso può dirsi dell’esigenza di riconsiderare la base tecnologica della società moderna. La produzione non può più essere vista come una fonte di profitto o la realizzazione di interessi personali. I beni di cui gli esseri umani necessitano per la propria sopravvivenza, oltre che per il proprio benessere fisico e culturale, sono più importanti dei feticci mistificati delle varie religioni e culti superstiziosi. Il pane, se volete, è più «sacro» di una benedizione pretesca, ¡come i vestiti delle persone comuni sono più «sacri» dei paramenti ecclesiastici; le abitazioni personali hanno maggior significato spirituale delle chiese e dei templi;

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vivere bene su questa terra è più santificante che andare in paradiso. I mezzi di sussistenza devono essere considerati per quello che sono realmente, strumenti senza i quali la vita è impassibile. Negarli al popolo è più che un furto (per usare l’espressione di Proudhon), è omicidio. Nessuno ha il diritto di possedere beni dai quali dipende la vita altrui, moralmente, socialmente o ecologicamente. Né ha il diritto di adottare o imporre alla società tecnologie che danneggino la salute umana e del pianeta. Ecco che l’ecologia si compenetra totalmente con la società, per diventare ecologia sociale, sottolineando la stretta interdipendenza tra problemi sociali ed ecologici. La tecnologia (che dovrebbe essere usata per sostenere la vita umana e planetaria e che invece mette in pericolo entrambe) è uno dei «luoghi» più importanti dove i valori sociali ed ecologici si incontrano. In un’epoca di degradazione ecologica diffusa, non è ulteriormente possibile mantenere tecniche che danneggiano spudoratamente gli esseri umani e il pianeta tutto. La tragedia della nostra epoca è che la tecnica non è affrontata da un punto di vista etico. Nel pensiero greco la produzione di oggetti di alta qualità artistica era considerata un fatto morale comportante una speciale relazione tra l’artista e l’oggetto prodotto. Per molti popoli tribali, la manifattura di un oggetto corrisponde alla messa in atto delle potenzialità insite nel materiale grezzo, dando cioè alla pietra, al marmo, al bronzo, una «voce» attraverso cui vengono espresse le latenti capacità estetiche della materia prima. Il capitalismo ha completamente eliminato questo modo di pensare. Ha separato il produttore dal consumatore, eliminando ogni senso di responsabilità etica di quello nei confronti ai questo, mettendo da parte ogni altro tipo di considerazioni morali. L’unica dimensione morale ammessa nella produzione capitalistica è la presenza della cosiddetta «mano invisibile» del mercato che guida l’interesse individuale in modo che la produzione a scopo di profitto finisca per generare il «bene comune». Ma anche tale miserabile giustificazione è del tutto scomparsa oggi. Un egoismo illimitato, altro esempio della presenza di un’etica del male, ha sostituito ogni rispetto per il bene pubblico. Sebbene possa apparire facile dare alla tecnologia colpe che sono invece dell’interesse borghese, bisogna comunque ammettere che anche la tecnica può diventare demoniaca sotto il capitalismo

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liberata da ogni limitazione di tipo morale. Una centrale nucleare, ad esempio, è intrinsecamente male, non ha alcuna giustificazione della sua esistenza. Anche le operazioni industriali convenzionali stanno diventando problematiche a causa del progressivo degrado ecologico. L’agribusiness, che un tempo era un’attività marginale nell’azienda agricola di tipo familiare, si è talmente diffuso negli ultimi tempi da provocare seri problemi legati all’uso ai pesticidi e fertilizzanti sintetici. La continua emissione di fumi industriali e l’uso sconsiderato delle autovetture stanno modificando l’intero equilibrio ecologico naturale, in particolare quello dell’atmosfera. Basta un rapido esame dell’attuale panorama tecnologico per rendersi conto di quanto sia acuta la necessità di una sua ristrutturazione. Interessi non solo ecologici, ma anche di pura sopravvivenza umana, impongono il ricorso a tecnologie ecologiche che rendano il nostro rapporto con la natura creativo e non distruttivo. Mi sia concesso ripetere ancora una volta che tale cambiamento non può prodursi senza che una simile mutazione tocchi anche i rapporti umani con la elaborazione di un interesse generale che superi gli interessi particolari di gerarchia, classe, sesso, etnia e Stato. I «presupposti» di un rapporto armonico con la natura sono di tipo sociale, cioè l'instaurazione di armonici rapporti tra gli esseri umani. Ciò postula l’abolizione della gerarchia in tutte le sue forme (anche psicologiche e culturali, oltre che sociali), l’abolizione delle classi, della proprietà privata, dello Stato. Il passaggio da «qui» a «là» non sarà certo un’improvvisa esplosione, senza alcun preludio di preparazione intellettuale ed etica. Il mondo deve essere educato il più approfonditamente possibile se la gente deve cambiare la propria esistenza, in prima persona, non per l’effetto dell’opera di elite autonominatesi chè tendono a trasformarsi in oligarchie che aspirano al potere. La sensibilità, l’etica, il modo di vedere la realtà, il senso di' sé devono cambiare, per mezzo di strumenti educativi, di ragione, di sperimentazione, mettendo nel conto la possibilità di imparare dai nostri stessi errori, se davvero l’umanità è in grado di raggiungere la coscienza necessaria per la propria autogestione. I movimenti rivoluzionari non possono più trastullarli irriflessivamente con azioni fini a se stesse. Mai come oggi abbiamo avuto bisogno di approfondimento teorico e di studio, perché l’incultura politica ha raggiunto proporzioni spaventose e

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l’azione è feticizzata come un fine in sé. E abbiamo anche bisogno di organizzazione, non il caos nichilista dove ogni tipo di struttura è criticata come «elitaria» e «centralistica». La pazienza, il lavoro duro e quotidiano per la costruzione di un movimento servono assai più che le azioni teatrali di certe prime donne che aspirano a «morire» sulle barricate di una lontana rivoluzione, ma si sentono troppo intelligenti per dedicarsi al tran-tran di diffondere le idee e tenere in piedi un’organizzazione. Passare da «qui» a «là» è un processo, non un’azione esemplare. Sarà sempre segnato da incertezze, fallimenti, deviazioni e polemiche, prima di trovare il senso della sua direzione. Né è detto che lo spazio di una vita sia sufficiente perché una mutazione radicale si verifichi. I rivoluzionari di oggi devono trarre la propria ispirazione dai grandi idealisti del passato, come certi personaggi della storia francese o russa, che avevano ben poche probabilità di poter assistere ai sommovimenti menti da loro auspicati, ai quali peraltro hanno contribuito con l’esempio, l’impegno personale, il convincimento. La volontà rivoluzionaria non è solo un impegno per cambiare il mondo; è anche un imperativo interiore a salvaguardare la propria identità dalla corruzione di una società che degrada la personalità umana con la promessa di guadagno e status in un mondo totalmente privo di senso. Bisogna creare una nuova politica che sappia sfuggire alla trappola del parlamentarismo. Movimenti come i Verdi tedeschi sono già saturi di vedettes che inseguono il successo personale, distruggendo l’integrità, l’etica e lo slancio dei loro tempi più eroici. Bisogna che i programmi politici vengano elaborati tenendo presenti le condizioni ambientali degli individui, i problemi della casa, del quartiere, dei trasporti, l’inquinamento, il luogo di lavoro. Il potere deve continuamente essere restituito ai quartieri e alle municipalità, sotto forma di centri sociali, cooperative, centri per l’occupazione, e soprattutto assemblee cittadine. Il successo non è da misurarsi in funzione del favore immediato che un movimento di questo tipo riesce ad ottenere. Inizialmente solo un numero relativamente ridotto di persone lavorerà con un simile movimento, e pochi parteciperanno alle assemblee di quartiere e alle confederazioni municipali, eccetto forse nel caso di temi di particolare rilevanza pubblica. Le vecchie idee e i metodi interiorizzati nella vita di tutti i giorni sono lenti a morire; e i

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nuovi, lenti a crescere. Può accadere che gruppi di iniziativa civica compaiano all’improvviso con fervore, perché una comunità si trova ad affrontare problemi come, ad esempio, l’installazione di una centrale nucleare o la scoperta di una discarica di materiale tossico. Ma un movimento municipalista ad orientamento ecologico non deve mai illudersi che tali iniziative di massa siano necessariamente destinate a durare. Possono svanire altrettanto rapidamente come sono cominciate. L’unica speranza è che vadano a costituire una tradizione cui far riferimento in futuro e che l’attività educativa così svolta resti patrimonio della comunità. Contemporaneamente, i membri più impegnati di un tale movimento devono offrire una visione di ciò che la società dovrà diventare in futuro. Devono saper guardare lontano, in modo che altri siano spinti a realizzare quegli obiettivi. Il movimento deve avere un nucleo di persone capaci di fornire soluzioni storicamente valide, oltre che pratiche. E' sempre la società a dettare le regalo del gioco, alle quali anche i ribelli meglio intenzionati devono attenersi. Se ciò non viene tenuto presente, saranno inevitabili compromessi moralmente debilitanti, portatori di un’etica del male basata sulla ricerca del male minore, che conduce invece al male peggiore. Nessun movimento rivoluzionario può perdere di vista la sua concezione finale di società ecologica se non vuole. perdere, un pezzetto alla volta, tutti gli elementi della, sua stessa identità. Tale concezione deve essere espressa in modo chiaro e inequivocabile, in modo da non poter mai essere oggetto di compromessi. La fumosità degli scopi ultimi socialisti e marxisti ha apportato danni irreparabili permettendo che tali scopi potessero essere sottomessi alle esigenze di una politica «pragmatica», fino alla rinuncia della stessa ragion d’essere del movimento. Un movimento deve dare aipropri ideali un carattere visivamente esplicito, in modo che essi possano entrare a far parte di un nuovo immaginario politico e non di mere dichiarazioni programmatiche. Questo tipo di tentativi è stato fatto in passato, con discreto successo, da gruppi come People’s Architecture (Architettura popolare) che si è preso la briga di ripianificare interi quartieri di Berkeley, in California, dimostrando praticamente come potevano essere resi più abitabili, comunitari ed esteticamente attraenti.

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La società ecologica Oggi abbiamo uno splendido repertorio di nuove idee, progetti, concezioni tecnologiche e dati operativi che possono fornirci la rappresentazione visiva di una comunità ecologica e di una democrazia partecipatoria. E' un materiale particolarmente valido al fine di dimostrare che è possibile creare comunità in grado di sostentarsi con risorse rinnovabili, e non dovrebbe essere visto semplicemente come un insieme di tecniche volte a porre la società in equilibrio con un determinato ambientale naturale. Tutto questo repertorio ha anche implicazioni etiche di grande portata, che possono essere ignorate solo a patto di voler dare impulso ad una mentalità eco-tecnocratica per l’elaborazione di quelle che si usa definire come «tecnologie appropriate», un’espressione troppo ambigua per essere accettabile in un contesto ecologico più ampio. Che l’orticoltura organica possa esaudire le nostre richieste di cibo non trattato chimicamente, fornirci una più vasta gamma di alimenti, e migliorare il suolo invece di distruggerlo, sono le argomentazioni con cui convenzionalmente viene giustificato l’abbandono dell’agribusiness a favore di un’agricoltura ecologica. Ma l’orticoltura organica contiene in sé molto più di questo. Ci porta a contatto della coltivazione del nostro cibo, invece che del suo semplice consumo. Ci introduce nell’intimo della catena alimentare che prende inizio nel suolo, della quale siamo noi stessi componenti e attivi partecipanti. Ci riporta dunque vicino al mondo naturale da cui ci siamo allontanati, coinvolgendoci in un «balletto» ecologico, per così dire, assai più benefico del jogging su strade asfaltate e marciapiedi di cemento. In quanto occupazione praticabile a livello individuale nel corso della giornata, secondo il consiglio di Fourier, l’orticoltura organica arricchisce la diversità della nostra vita quotidiana, attiva la nostra sensibilità per i cicli biologici e ci mette in sintonia con i ritmi naturali. Quindi l’orticoltura organica, tanto per limitarci a questo singolo esempio, può avere nella società ecologica un ruolo più importante che risolvere i nostri problemi nutrizionali. Può diventare parte integrante della nostra stessa esistenza di individui culturalmente, socialmente e biologicamente consapevoli. Lo stesso può valere per l’acquacoltura, specialmente i sistemi auto-riproducentisi messi a punto presso il pionieristico Institute for Social Ecology (Istituto di Ecologia sociale) del Vermont, dove

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le deiezioni di pesci erbivori vengono riciclate attraverso piante acquatiche in modo da fornire cibo ai pesci medesimi, creando così un ciclo ecologico chiuso e autosufficiente, in grado di produrre proteine per una comunità umana. L'uso dell' energia solare, una tecnologia che ha raggiunto ormai una sofisticazione straordinaria, può essere considerato ecologico non solo in quanto energia rinnovabile, ma anche perché porta il sole, il mutare delle stagioni, insomma il cielo per così dire, nella nostra vita quotidiana in modo palpabile. E ciò può dirsi anche dell’energia eolica, dell'allevamento del bestiame, dell’agricoltura mista, delle tecniche di compostaggio che riciclano i rifiuti di una comunità trasformandoli in concime, insomma di un complesso modello ecologico dove ogni componente interagisce con gli altri producendo un ecosistema a misura umana che soddisfa i bisogni umani e nel contempo arricchisce l’ambiente naturale. Una società ecologica, strutturata come confederazione di comuni, ciascuna plasmata in modo da adattarsi all’ecosistema nel quale si trova allocata, attuerebbe questo ventaglio di tecnologie in modo artistico, ricorrendo alle risorse locali, molte delle quali vengono oggi abbandonate a causa delle tecniche di produzione di massa. Che ne sarebbe della proprietà, in tale società? Storicamente le sinistre hanno sempre messo l’accento sulla nazionalizzazione della terra e delle industrie, o sul controllo operaio di esse. Ma un’economia nazionalizzata presuppone, come hanno da tanto tempo fatto notare gli anarchici, l’esistenza dello Stato, e questo dovrebbe essere sufficiente a giustificarne il rifiuto. Inoltre l’economia nazionalizzata è la culla di burocrazie parassite, che hanno lasciato anche gli Stati cosiddetti socialisti dell’Est in un limbo di perpetua crisi economica. La responsabilità delle nazionalizzazioni come fonte di statizzazione ed anche di totalitarismo è quindi fuori discussione e gli stessi sostenitori di esse le vanno abbandonando, ironia del caso, per soluzioni di «libero mercatoto». Anche il controllo operaio, tanto apprezzato dalle tendenze sindacaliste in contrapposizione alle economie nazionalizzate, ha i suoi limiti. Ad eccezione che nella Spagna rivoluzionaria, dove un sindacato libertario come la CNT ha mantenuto uno stretto controllo su tutte le imprese che potevano assumere un indirizzo favorevole agli interessi capitalisti, in genere una fabbrica collettivizzata non è una comune, né ha un’impostazione

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necessariamente comunitaria. Non poche imprese a controllo operaio hanno funzionato in modo capitalistico, facendosi concorrenza per quanto riguarda materie prime, commesse, privilegi ed anche profitti. Molte cooperative si trasformano frequentemente in corporazioni oligarchiche, come ha ormai dimostrato l'esperienza scandinava e americana. Questo tipo di imprese diventano sede di un interesse particolare, anche se non eccessivamente aggressivo. Non sono diverse da quelle tipicamente capitalistiche e la pressione cui vengono assoggettate dal mercato nel quale si trovano a dover funzionare è la medesima. Siffatto particolarismo non manca di farsi sentire, alterando sempre più i contenuti etici dei fini originari, in genere in nome dell' «efficienza», della necessità di «crescere per sopravvivere», cedendo alla tentazione di ottenere maggiori profitti. Il municipalismo libertario ha un approccio olistico per quanto concerne l’economia ecologicamente orientata. Le decisioni e i programmi relativi all’agricoltura e alla produzione industriale sarebbero il risultato di assemblee cittadine, i cui partecipanti si esprimono in quanto cittadini e non-semplicemente come operai, agricoltori, professionisti o altro, e svolgerebbero comunque attività produttive diverse a rotazione, indipendente dalla loro specifica competenza. In quanto cittadini agirebbero al loro livello più elevato, il livello umano, non a quello di esseri socialmente ghettizzati , ed esprimerebbero quindi non interessi particolari ma un interesse generale umano. Invece di nazionalizzare o collettivizzare terra, fabbriche, officine, centri di distribuzione, una comunità ecologica ricorrerebbe alla municipalizzazione della propria economia, e si unirebbe ad altre municipalità in modo da integrare le proprie risorse in un sistema federativo su base regionale. Terra e industrie sarebbero controllate dalle assemblee popolari delle libere comunità, non da uno Stato nazionale, o da lavoratoriproduttori che potrebbero finire per nutrire interessi da proprietari. Qgni persona della comunità è un cittadino, non un individuo egoista e nemmeno il membro di un «collettivo» particolare. E questo ideale di cittadino razionale, di persona legata alle altre persone della comunità attraverso relazioni dirette e rapporti personali , acquisterebbe solidità economica e finirebbe col permeare ogni aspetto della vita pubblica. Un tale tipo di persona, scevro da interessi particolari perché vive in un ambiente dove tutti contribuiscono al bene della comunità, dando il meglio

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di se stessi e prendendo dal fondo comune quanto necessitano, darebbe alla condizione di cittadino una solidità materiale senza precedenti , superiore a quella ottenibile con la proprietà privata. Non è eccessivamente fantasioso pensare che una società ecologica matura dovrebbe essere costituita di municipalità di dimensioni contenute, ciascuna delle quali formata da una «comune di comuni» più piccoli, individuali o collettivi, perfettamente sintonizzati con l’ecosistema in cui si trovano. La decisione se vivere in comunità o individualmente non può che essere lasciata alla scelta delle generazioni future. La familiarità tra le singole comuni deve essere deliberatamente favorita. Nessuna municipalità dovrebbe essere tanto distante dalle altre da non poter essere raggiunta a piedi. I trasporti dovrebbero essere fondati sull uso di veicoli collettivi, quali che siano (monorotaie, treni, autovetture...) e non di veicoli individuali, che riempiono le grandi reti autostradali con macchine mezze vuote. Il lavoro dovrebbe ruotare tra città e campagna e tra incarichi giornalieri. L’ideale di Fourier di una giornata lavorativa costituita di attività diversificate potrebbe trovare applicazione devolvendo parte della giornata all’orticoltura, alla manifattura di oggetti, alla lettura, all’istruzione, e una parte cospicua alle installazioni edilizie. La terra verrebbe usata in modo ecologico, sicché le foreste sarebbero lasciate alle aree più idonee alla fiora arborea e le coltivazioni alimentari (in coltura mista) alle zone più adatte a tale impiego. Frutteti e filari di alberi sarebbero abbondanti/sì aa fornire nic chie e ricetto ad un’ampia varietà di esseri viventi, evitando il ricorso ai pesticidi grazie agli equilibri biolo gici che si verrebbero a instaurare. Grandi territori, anche più estesi di quelli attuali, verrebbero lasciati alla vita selvaggia. Verrebbe pro mosso l’irrobustimento del corpo e l’atletismo, grazie alla diversificazione del processo lavorativo. Grande uso verrebbe fatto dell’energia solare ed eolica, i rifiuti verrebbero raccolti e compostati, oppure riciclati. La produzione attribuirebbe maggior importanza alla qua lità che alla quantità: case, mobilia, utensili e vestiario verrebbero fabbricati per durare anni, o anche genera zioni. Questo modello municipale verrebbe adeguato con grande cura al caso specifico di ogni regione, in modo da conservare le caratteristiche naturali di essa nel maggior rispetto possibile delle forme di vita non umane degli equilibri naturali.

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Gli impianti industriali sarebbero basati su macchi nari di piccole dimensioni e polivalenti, sulle più avan zate tecnologie a misura umana, sulla produzione di beni di qualità con il maggior risparmio energetico possibile, e verrebbero posizionati in modo da poter servire il maggior numero possibile di comunità, evitan do la moltiplicazione dello stesso prodotto che si verifica nelle economie mercantili. Mi sia concesso affermare, anche, che particolare im portanza verrebbe attribuita agli strumenti che permet tono di risparmiare lavoro (computer o macchinari auto matici o altro...) in modo da liberare gli esseri umani da fatiche non necessarie e lasciar loro tempo libero da dedicare a coltivare se stessi come individui e cittadini. La simpatia che di recente, e particolarmente negli Stati Uniti, il movimento ecologista ha dimostrato per le tecnologie a lavoro intensivo, che dovrebbero risparmia re energia a spese del lavoro operaio, è un’affettazione scandalosa, tipica da ceto medio. La pletora di accade mici, studiosi, professionisti che hanno espresso simili opinioni, è costituita di persone che non hanno mai fatto un’ora di vero lavoro manuale in vita loro, che non sanno nemmeno cosa sia una fonderia o una catena di montaggio. Le attività di lavoro manuale intensivo di questa gente si riducono generalmente ad hobby tipo jogging, sport o rilassanti passeggiate nei parchi e nelle foreste nazionali. Qualche settimana in fonderia, d’estate, li farebbe rapidamente ricredere circa le virtù delle indu strie e delle tecnologie a lavoro intensivo. Tra il «qui» irrazionale e prodigo dei giganteschi quartieri industriali e urbani, dell’agribusiness chimico, del potere burocratico e centralizzato, della produ zione di terrificanti armamenti, dell’inquinamento ge neralizzato, dell’attività manuale insensata, e il «là» della società ecologica che ho cercato di descrivere nelle pagine precedenti, trova posto una zona indefinibile di complesse transizioni nella quale si sviluppa una nuova sensibilità e una nuova politica. Nulla può sostituire la consapevolezza e il sostegno della storia, al fine di mediare tale transizione. Nessun deus ex machina può essere invocato per farci compiere il salto da «qui» a «là», né è il caso di desiderarlo. Ciò che le persone non riescono a costruire da sole, non riescono nemmeno a controllare. Può essere loro tolto con la stessa facilità con cui viene loro concesso. In ultima analisi, ogni progetto rivoluzionario poggia sulla speranza che la gente sappia generare una nuova consapevolezza,

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una volta esposta alle idee che manife stamente concordano con i loro bisogni, una volta che la realtà oggettiva (la storia, o la natura, o entrambe...) l’ha resa suscettibile all’esigenza di una mutazione so ciale decisiva. Senza circostanze oggettive favorevoli alla creazione di una nuova consapevolezza e senza i mezzi per proporla in pubblico, non c’è possibilità di cambiamenti radicali, e nemmeno di evoluzione control lata. Ogni progetto rivoluzionario è, prima di tutto, un progetto educativo. Il resto viene dalla realtà in cui la gente vive e dalle trasformazioni cui essa va incontro. Qualunque processo educativo che non si tenga in contatto con la realtà, con le tradizioni e con la vita di tutti i giorni, è in grado di assolvere solo metà del suo compito. Ogni individuo ha il suo background libertario, come ho già avuto modo di sostenere, e i suoi sogni libertari, per quanto confusi dalla propaganda dei media e da immagini che li distorcono. Il «sogno americano» tanto in voga oggi, ad esempio, ha componenti anarchicheggianti, oltre che borghesi, ed ha assunto molti aspetti diversi. Una di queste può essere fatta risalire ai rivoluzionari puritani, che hanno attraversato l’oceano per creare una Nuova Gerusalem me quasi comunista. Nonostante tutti i loro difetti, costoro hanno dato origine a comunità unite e fonda mentalmente ugualitarie, che si autogovernavano per mezzo di raduni cittadini a democrazia diretta. Un’altra porzione del «sogno americano» è stata modellata dalla vita di frontiera del Far West, dove il focolare domesti co del New England era sostituito dal bivacco solitario nella prateria. Gli eroi di tale epopea erano i pistoleri ferocemente individualisti celebrati dagli «spaghetti western» di Sergio Leone, come l’internazionalmente famoso il buono, il brutto, il cattivo. E un altro «sogno americano» emerso al volgere del secolo scorso è stato quello degli emigranti che sognavano un’America «la stricata d’oro», cioè il mito delle illimitate possibilità di miglioramento offerte dagli Stati Uniti, terra dove «tutto è possibile». Cito queste visioni semi-utopiche, alle quali è possibi le sostituire altri «sogni» equivalenti dei Paesi europei, allo scopo di sottolineare che in un modo o nell’altro il progetto rivoluzionario deve restare in contatto con queste aspirazioni popolari e trovare il modo di rimodel larli sulla base di ideali attuali di libertà. L’anarchismo non è il prodotto delle ricerche di un genio che ha passato la vita nel Museo di Londra, imponendo alla propria epoca una visione «scientifica» del socialismo.

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Se non è un prodotto sociale, certamente affinato da persone assai abili sul piano teorico, ma comunque generato dalle più profonde aspirazioni libertarie di un popolo, l’anarchismo non è nulla. Così è stato per l’anar chismo spagnolo tra la fine del diciannovesimo secolo e gli anni ’30 di quello successivo, o per l’anarchismo italiano e russo prima dell’avvento di Mussolini e Sta lin, quando gli scritti di Bakunin, Kropotkin e Malate sta esprimevano in sede teorica le aspirazioni profonda mente sentite del popolo oppresso. Dovunque l’anarchi smo ha preso piede è stato perché ha saputo letteral mente diventare la voce libertaria del popolo, traducen do nella lingua di questo i suoi ideali e le sue più fervide speranze. E per la sua natura profondamente popolare, per i suoi legami con la vita sociale dei popoli e delle comunità che l’anarchismo è tanto ecologico, e i pensato ri anarchici possono a buon diritto essere considerati i veri fondatori dell’ecologismo rivoluzionario dei nostri tempi. Una natura libera L’anarchismo e l’ecologia sociale (cioè, l’eco-anarchismo) devono contare sulla possibilità che la gente nor male sia in grado di ragionare ad un livello non dissimile da quello dei più brillanti personaggi dell’umanità. L’eco-anarchismo deve partire dall’idea che l’umanità nel suo complesso sia qualcosa di assai peculiare. Essa occupa infatti una posizione praticamente unica nell’e voluzione, anche se ciò non giustifica affatto l’idea che debba (o possa) «dominare» la natura. Ciò che differen zia gli esseri umani da tutte le altre forme di vita è la loro straordinaria capacità di pensiero concettuale, di comunicazione verbale strutturata nell’ambito di un meraviglioso corpo di concetti, e di alterazione del mondo naturale in modo sia disastrosamente distrutti vo che magnificamente creativo. Possiamo rigettare tali capacità come puramente accidentali, meri incidenti dell’evoluzione naturale? Non è possibile confutare la famosa opinione di Ber trand Russel che la coscienza umana sia il prodotto fortuito di circostanze imprevedibili, una rapida scintil la nell’oscurità di un cosmo privo di vita e di significato, emersa dal nulla e destinata a ritornarvi senza lasciare tracce. Forse è così, ma ogni approccio filosofico al problema del «significato» dell’umanità è sempre fonda to su presupposti postulati, non provati. Nel secolo scorso, la fisica ha postulato l’importantissimo

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concetto che il moto sia un «attributo» della materia ed ha co struito su tale ipotesi non provata un assetto teorico altamente sofisticato. La migliore «prova» della validità di tale presupposto sta nella sua attitudine a chiarire il funzionamento della realtà. Anche l’ecologia moderna, e in particolare l’ecologia sociale, necessita di presupposti, se vuole diventare una teoria coerente, in grado di spiegare il posto dell'umanità nel mondo naturale. Esiste un certo numero di teorie ecologiche che tendono a negare l’unicità della colloca zione umana nella natura. Tale modo di pensare ha un nome («biocentrismo») e sostiene che gli esseri umani non abbiano più valore di una lumaca nel mondo natu rale (da ciò il mito di una cosiddetta «democrazia biocen trica»). Uomini e molluschi sarebbero semplicemente «diversi». Questa è una constatazione piuttosto ovvia, che però non ci dice nulla circa la natura di tale diversità e il significato che essa riveste in seno al mondo naturale. Negli Stati Uniti, dove questa concezione ha largo seguito, le idee semplici vengono sempre preferite a quelle che richiedono una certa dose di riflessione. Forse la funzione attribuita al «biocentrismo» è quella di con testare l’idea che il mondo sia stato «fatto» per essere sfruttato dalla specie umana. Ma ciò presuppone che il mondo sia stato «fatto», cioè creato da una qualche entità soprannaturale, e rende qualunque diatriba sul biocentrismo forse teologicamente interessante, ma socialmente irrilevante. Il problema importante è invece un altro. Qual è il posto dell’umanità nella natura? La risposta non può venire dalla considerazione della natura come uno stati co insieme di forme di vita. La natura è in realtà qualco sa di dinamico, un fenomeno di processi evolutivi che coinvolgono forme di vita tanto umane quanto non umane. La natura non è mai statica. E nemmeno è «avara» o «regno della necessità», come vorrebbe farci credere Marx, nel suo sforzo di giustificare l’emergere delle classi, lo Stato, e la necessità di «dominare» il mondo naturale come «presupposto» per la liberazione di quello sociale. Guardando indietro, anche intuitivamente, all’evolu zione dell’universo, possiamo constatare (come nessun altro animale può) resistenza di una tendenza general della materia attiva a svilupparsi dal semplice al com plesso, dal relativamente omogeneo al relativamente eterogeneo, dal semplice al variegato e al differenziato. L’attributo più straordinario della «sostanza»

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(termine che mi sembra giusto usare in senso dinamico e creati vo, in contrapposizione ad una «materia» statica e mor ta) è la sua capacità di evoluzione. Non intendo qui un semplice cambio di posto, quanto lo svolgersi delle pos sibilità latenti di un fenomeno, la messa in atto di ciò che esiste in potenza, lo sviluppo di ciò che non è compieta mente sviluppato. In seno alla sostanza, al suo livello più primitivo, è presente in modo implicito il dispiegar si di diversi gradi di sviluppo, ciascuno dei quali contie ne il germe di un’ulteriore differenziazione, di una ten denza ad una sempre maggiore soggettività e flessibili tà. Non parlo di teleologia preordinata, di uno scopo che imprima una direzione in qualche modo inesorabile allo sviluppo. Mi riferisco invece all’intrinseca tendenza verso una crescente differenziazione, complessità, indi vidualità (che diventa intelligenza solo nel caso degli esseri umani) e adattabilità fisica. Ad un certo punto, la tendenza dello sviluppo inorga nico verso la complessità raggiunge un livello chiara mente visibile, in corrispondenza del quale emerge la vita. La linea di separazione tra i due ambiti risiede nel fenomeno detto metabolismo, cioè nella capacità delle proteine, formatesi dagli aminoacidi, di automantenersi in maniera attiva e di acquisire conseguentemente un vago senso di «identità». I minerali e l’acqua che vi scorre sopra e li erode sono passivi. L’acqua semplicemente discioglie i costituenti inorganici dei minerali. Al confronto, anche la più semplice delle amebe è intensa mente attiva. Essa è quello che è in quanto mantiene un equilibrio dinamico tra i processi costruttivi e distrutti vi che ne determinano l’esistenza. Non ha un rapporto solo passivo con l’ambiente: è un «sé» incipiente, un essere identificabile, impegnata immanentemente nel la difesa di tale identità. Manifesta un certo senso di auto-orientamento che è già una forma embrionale di quella volontà, intenzionalità, che si ritrova via via più sviluppata nelle forme di vita degli stadi successivi dell’evoluzione. L’ulteriore differenziazione di organismi unicellulari come l’ameba in organismi pluricellulari come le spu gne, fino ad esseri complessi come i mammiferi, compor ta una sempre maggiore specializzazione degli organi e dei gruppi di organi. Ad un certo punto del processo assistiamo alla formazione di fasci di nervi, sistemi nervosi automatici, strati cerebrali, ed infine esseri coscienti di sé, nel corso di un lungo processo evolutivo che altro non è se non la testimonianza di una tendenza insita nella natura

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stessa, che parte dalla capacità degli atomi di interagire formando molecole complesse, ami noacidi e proteine. La vita acquista una maggiore flessi bilità con lo sviluppo di forme di vita a sangue caldo, più adattabili a climi diversi. Le specie interferiscono le une con le altre e con l’ambiente nel quale vivono, dando origine ad ecosistemi sempre più diversificati, molti dei quali aprono nuove vie all’evoluzione e allo sviluppo della coscienza soggettiva, la quale a sua volta comincia a scegliere, sia pur a livello elementare, nuovi percorsi evolutivi. La vita, a tali livelli di complessità, comincia a svolgere nella sua stessa evoluzione un ruolo che va facendosi sempre più attivo. Non è un oggetto del tutto passivo della «selezione naturale»: partecipa all’evolu zione, sicché la terminologia dei tempi di Darwin deve essere modificata in quella di «evoluzione partecipati va». Se passiamo in rassegna i diversi aspetti di questo processo evolutivo, nel quale le varie forme di vita riproducono nel proprio sviluppo manifestazioni degli sviluppi precedenti (reti di nervi che ricoprono la pelle, gangli nervosi che formano il midollo spinale e simili), risulta rafforzata l’ipotesi di una tendenza da parte della natura a dirigere la sua stessa evoluzione, un impulso verso uno sviluppo cosciente nel quale la pre senza di scelte, per quanto limitate, rivela che l’evolu zione biotica contiene in sé i germi della libertà. Parlare della natura come del «regno della necessità» significa trascurare la fecondità, la spinta alla diversificazione, la capacità sia pur rudimentale di soggettività, identità, scelta e volontà, in breve significa trascurare la poten ziale attitudine alla libertà che si realizza nella compar sa della vita intesa come base della coscienza e dell’au todeterminazione. Nella specie umana tale tendenza trova la sua piena attualizzazione, almeno nell’ambito della vita sociale e deH’orientamento razionale degli affari umani. L’umanità è la voce potenziale della natu ra che si fa cosciente di sé e si autodetermina. E così possibile parlare della natura pre-umana come di una «natura prima» in cui il senso di sé, la coscienza e le basi della libertà sono ancora troppo rudimentali per poter funzionare in senso attivamente autodiretti vo. Incontriamo già molte approssimazioni di coscienza, specie tra i primati, ma è solo con la comparsa degli esseri umani che le potenzialità presenti acquistano una dimensione sociale, generando la «seconda natura» che tende alla sua propria realizzazione: un prodotto dell’evoluzione dotato di intelligenza, di straordinarie doti di

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comunicazione, di associazione consapevole, nonché di capacità di cambiare deliberatamente se stes so e il mondo che lo circonda. Negare questi straordinari attributi umani, che si manifestano nella vita di tutti i giorni, affondarli in concezioni come quella di una «de mocrazia biocentrica» che vorrebbe umani e molluschi «uguali» quanto a «valore intrinseco» (quale che possa essere) è semplicemente folle. Inoltre, l’approccio «biocentrico» persegue significati vamente lo scopo di sminuire quello che è il tratto più caratteristico dell’umanità, la sua capacità di attività volontaria. Si vuol negare il potere dell’umanità di cambiare il mondo, cioè in gran parte di cambiare se stessa, disarmandola con un appello mortificante alla passività e alla recettività. Udiamo richiami quietistici che provengono dal Taoismo o dalle filosofie occidentali dell’«essere», dalle visioni statiche di Parmenide a quel le di Martin Heidegger, di cui non sarebbe difficile dimo strare la conformità agli ideali del partito nazista, cui Heidegger ha aderito per più di un decennio. I grandi pensatori rivoluzionari, da Owen, Fourier, Bakunin, Marx fino ai giorni nostri, hanno invece posto sempre l’accento sull’intervento attivo che l’umanità deve espletare nel mondo. E questi principi stanno alla base dei progetto rivoluzionario e degli ideali di libertà. L’emergere in seno al movimento ecologista di varie correnti che predicano la necessità di un rapporto passi vo tra umanità e natura, cioè di una totale sottomissio ne di quella alle «leggi» di questa, dove l’eventualità di carestie è accettata come strumento di «controllo della popolazione», può guadagnare all’ecologia una reputa zione anche peggiore di quella di cui gode l’economia. Se l’economia si è fatta il nome di «scienza triste», l’ecolo gia, in questa sua accezione reazionaria, può ben meri tare quello di «scienza crudele». Come ho già avuto occasione di notare, l’umanità non è ancora completamente umana. Stante la natura com petitiva, divisa e insensibile dell’attuale società, ha ancora molta strada da percorrere per arrivare a realiz zare appieno le sue potenzialità di ragione, amore e comprensione. Cionondimeno, tali potenzialità si espri mono in mille modi che non hanno uguali presso le altre forme di vita, e la loro completa attualizzazione dipende da fondamentali trasformazioni sociali che devono anco ra compiersi. Il più odioso misfatto di certi ecologisti è la facilità con cui hanno tolto la considerazione della condi zione sociale umana dal novero dei propri interessi. Questa abitudine di trattare le persone come

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una «spe cie» rende tutti gli esseri umani ugualmente complici non solo della propria degradazione ad opera di elite, classi e Stati, ma anche della degradazione della natura ad opera di una società che deve «crescere o morire». Se ci poniamo nella prospettiva di ciò che l’umanità può essere, vediamo emergere un rapporto tra gli esseri umani, e tra questi e la natura, che trascende sia la «prima natura» primitiva che la «seconda natura» socia le, per aprire la via ad una «natura libera» radicalmente nuova, dove un’umanità emancipata sarà la voce, l’e spressione, di un’evoluzione naturale divenuta coscien te di sé. Grazie alla razionalità dell’intervento umano, la natura acquisterà decisionalità, potere di sviluppare forme di vita più complesse e una capacità di autodiffe renziarsi che in precedenza è stata solo parziale. Sorge a questo punto il problema, di grande portata, di definire un’etica ecologica. L’intervento umano nel mondo naturale non è una perversa aberrazione evolu tiva. Gli esseri umani non possono rinunciare alla natu ra e alla loro animalità più di quanto le lumache possano fare a meno della propria epidermide. L’animale umano è un prodotto dell’evoluzione naturale non solo perché ha dei caratteri fisici da primate, ma anche perché esprime e attualizza una radicata tendenza evolutivi verso la coscienza e la libertà. E in ciò risiede la base di un’etica autenticamente oggettiva, concepita come una filosofia della potenzialità e dell’attualizzazione, e non come una meccanica relazione di causa ed effetto, o come l’agnosticismo causale di Hume e dei positivisti moderni che lo seguono. La realtà è sempre formativa. Non è un semplice «qui ed ora» che non va al di là di quanto siamo in grado di percepire con gli occhi o con il naso. Concepita come formativa, la realtà è sempre un processo di attualizza zione di potenzialità. Ciò che può essere è altrettanto «reale» e «oggettivo» di ciò che è in un momento dato. Concepita secondo questo concetto di causalità dialettica, l’umanità è quindi più di quanto è oggi; è anche ciò che può essere, ciò che forse sarà, domani o tra cento anni. Nella misura in cui'esiste una tendenza, una potenzialità, verso la libertà e la coscienza, la libertà e la coscienza non sono meno reali (o «attuali», nella più precisa terminologia hegeliana) nella società di quanto siano potenziali nella natura. Ciò che fa dell’animale umano un prodotto della natura è,

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oltre alla voce che egli fornisce alla natura stessa, anche il fatto di poter intervenire in questa proprio come un suo prodotto, cóffie quafcosa che si è organizzato attraverso millenni di sviluppo organico sì da poter fare quanto gli permette il posto che ha nel mondo naturale.. L’aspetto negativo della condizione umana non è il fatto di intervenire nella natura e di modificarla, quanto piuttosto di intervenire attivamente per distruggerla, a causa dell’evoluzione distorta subita dalla società. Rea gire irriflessivamente di fronte a tale distorsione socia le, postulando una «minimizzazione» dell’intervento umano in natura o addirittura una sua abolizione, come sostengono molti ecologisti, è un atteggiamento infanti le, come prendere furiosamente a calci la sedia in cui siamo inciampati. Il messaggio dell’ecologia sociale non è solo il messag gio di una società senza gerarchia e atteggiamenti ge rarchici. E' anche il messaggio di un’etica che attribuisce alla specie umana in seno alla natura il compito di rendere l’evoluzione (sociale e naturale) pienamente consapevole e il più possibile libera, attraverso la capa cità di far coincidere nel modo più razionale possibile le necessità umane e non umane. Non sto predicando una sorta di «ingegneria del mondo naturale», una sua rico struzione artificiale. Come ho detto più volte in altri scritti, il mondo naturale è troppo complesso per essere «controllato» dall'ingegno umano, dalla scienza, dalla tecnologia. Le mie propensioni anarchiche mi portano ad apprezzare di più la spontaneità, nel comportamen to umano come nello sviluppo della natura. L’immagi nazione ha un posto importante accanto alla ragione. L’intuizione, il senso estetico, la meraviglia, apparten gono agli esseri umani tanto quanto l’intelletto. L’evolu zione naturale non può disconoscere la propria sponta neità, fecondità, complessità e capricciosità, più di quan to non possa farlo l’evoluzione sociale. Ma non possiamo nemmeno disconoscere il ruolo del la razionalità nella vita, dimenticando che essa è un prodotto dell’evoluzione naturale, oltre che dello svilup po umano. Siamo a un bivio: o arrenderci ad un irrazio nalismo idiota, che mistifica l’evoluzione sociale attra verso miti, divinità e atteggiamenti particolaristici nel nome di questo o quel sesso o di elite misteriose (renden do l’evoluzione sociale muta e cieca, con lugubri effetti per la vita tanto umana quanto non umana) oppure ridare un senso all’attività umana, oggi contestata, e trasformare il mondo nel regno sempre più grande della libertà e della

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razionalità. Ciò comporta una nuova forma di razionalità, una nuova tecnologia, una nuova scienza, una nuova sensibilità e, soprattutto, una socie tà veramente libertaria.

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