Nuova introduzione a Carlo Levi 8881671727

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Nuova introduzione a Carlo Levi
 8881671727

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Frammenti così sono semine di pensieri. Potranno certo esservi

molti granelli sterili; purché ne germogli qualcuno! NOVALIS

Giovanni Caserta er (i

Nuova introduzione a

Garlo&lFeri Fani

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Edizioni Osanna Venosa

ISBN 88-8167-172-7

© 1996 EDIZIONI OSANNA VENOSA

via appia 3/a 85029 venosa (pz) tel. 0972.35952 fax 35723

7

Premessa

NUOVA INTRODUZIONE A CARLO LEVI

10

Avvertenza

11

Capitolo Primo L’ideologia e la poetica

29

Capitolo Secondo L’orologio (1950)

37

Capitolo Terzo Le parole sono pietre (1955)

46

Capitolo Quarto Ilfuturo ha un cuore antico (1956)

60

Capitolo Quinto La doppia notte dei tigli (1959)

2.

Capitolo Sesto Tutto il miele èfinito (1964)

87

Capitolo Settimo Cristo si èfermato a Eboli (1945)

142

Capitolo Ottavo Quaderno a cancelli (1979)

146

Capitolo Nono Per le Lucanie e i «lucani» di tutto il mondo

155

Scheda biobibliografica

PERUESMIESS«STA

Dopo l’inumazione di Carlo Levi nel piccolo cimitero di Aliano, un amico di Alianello chiese se era possibile credere in Carlo Levi scrittore. A suo parere, Carlo Levi era solo un grande pittore, forse un saggista, ma non certo uno scrittore, nel senso classico del termine. A confrontarlo infatti con altri scrittori “canonici”, ci si accorge subito che egli è di una razza diversa, perché non ha la dote divina dell’invenzione poetica, cioè della creazione. “C’è da domandarsi, perciò — continuava l’amico alianellese —, che cosa, fra cinquant'anni, diranno di lui le storie letterarie e se, addirittura, se ne ricorderà ancora il nome”,

Intanto, cadenzando isuoi pensieri, soffiava attraverso un tubo di ferro sul fuoco, che, ravvivandosi di un rosso intenso, subito

dopo si avvolgeva di una fiammata rapida, presto risucchiata nel collo del camino. Erano riflessioni fatte alla buona la sera del 26 gennaio del 1975, subito dopo la tumulazione dello scrittore torinese. Eppure, nella loro semplicità e schiettezza, come suole accadere, esse

ponevano questioni complesse e difficili. Oggi, dei cinquant’anni ipotizzati dall’amico, ne sono passati già venti. E anche accaduto che, non molti mesi fa, un professore, addentro a queste cose, per giunta proveniente da Torino, e quindi a conoscenza della situazione culturale della sua città, faceva osservare che, a

conti fatti, ormai la memoria di Carlo Levi è affidata alle sole commemorazioni che, di tanto in tanto, se ne fanno a Matera.

Dissoltosi infatti il gruppo degli intellettuali torinesi, che si era formato tra gli anni Trenta e Quaranta sulle orme di Gobetti e sull’onda di “Giustizia e libertà”, in una città fattasi ormai spersonalizzata e spersonalizzante quanto le altre metropoli continuava quel professore — la figura di Carlo Levi appare decisamente datata e immobilizzata nel tempo, quasi mummificata nell’argilla del cimitero di Aliano, dove egli, per tanti aspetti affine e diverso da D'Annunzio, si è costruito il suo Vittoriale alla rovescia, cioè un Vittoriale contadino. Ecco per-

chéè necessaria una rilettura della sua figura e della sua opera.

Nuova introduzione a Carlo Levi

A Luigi Guerricchio, pittore

della condizione contadina e di ogni umanità offesa

AVVERTENZA

Il presente saggio è nato sulla spinta delle celebrazioni del ventesimo anniversario della morte di Carlo Levi. Si è trattato di una vera e propria rivisitazione, condotta direttamente sui testi. Volutamente, perciò, si è evitato ogni riferimento alla bibliografia critica. Si vuol dire che, delle cose scritte in questo saggio, non si è debitori a nessuno, se non in quanto nessun libro nasce mai dal nulla. Tuttavia corre l’obbligo di citare almeno i quattro saggi critici, che, sia pure con molti limiti di impostazione, hanno affrontato il problema Carlo Levi nella sua totalità. Non mette conto, invece, citare inumerosi articoli, che, apparsi occasionalmente qua

e là, solo parzialmente o incidentalmente o strumentalmente, o anche “amichevolmente”, si sono occupati di Levi. Si ricorderanno, dunque: G. De Donato, Saggio su Carlo Levi, Bari, De Donato,

1974, che è certamente il saggio più ampio e documentato, ancorché, qua e là, piuttosto prolisso; G. Falaschi, Carlo Levi, Firenze, La Nuova Italia, 1971; M. Miccinesi, Invito alla lettura di Carlo Levi, Milano, Mursia, 1973; V. Napolillo, Carlo Levi, Cosenza, Brenner, 1984.

Ai quali saggi, ovviamente, si rimanda anche per una bibliografia più completa ed esauriente.

CHART

OMZONPERIMIO

L’ideologia e la poetica

È un dato certo che, prima del Cristo si è fermato a Eboli, Carlo Levi non scrisse nulla che facesse pensare a lui come ad uno scrittore inteso secondo l’accezione corrente, cioè di im-

maginazione e fantasia. Fino a quel momento aveva scritto articoli di politica sulla “Rivoluzione liberale” di Gobetti e su “Giustizia e libertà”. Nel 1939, quando era in esilio sulla costa atlantica francese, aveva compilato Paura della libertà, in cui l’origine del fascismo, quale simbolo di ogni totalitarismo moderno,

era ritrovata in una sorta di inerzia spirituale, tipica della classe borghese, ma anche della società europea tutta del tempo, che,

riluttante ad essere libera, cioè ad assumersi le proprie responsabilità, si abbandonava fiaccamente alla guida di un Capo che pensava a tutti e per tutti. Esercitare la libertà, infatti, costa fatica; di qui la tendenza, che è propria dei deboli e dei fiacchi,

a rifugiarsi nella tenda del Partito o dello Stato, dello stemma familiare o della religione. Si trattava di motivi che sarebbero comparsi, più tardi, nel

Cristo si èfermato a Eboli, sia pure, spesso, simbolicamente quanto felicemente raffigurati. C’è paura della libertà, infatti, in tan-

ti personaggi di questo libro. L'esempio emblematico è costituito da don Luigino, maestro di paese, cui sembra di aver trovato il modo per riscattarsi dal grigiore della vita quotidiana e della 11

sua povera professione, nel momento in cui si è inserito in un ordine sociale, che vuole e decide per lui. Don Luigino crede di essere ormai qualcuno che conta; in realtà è un “indifferenziato”, ovvero una anonima pedina di un regime che, mentre sembra esaltarlo, in realtà lo schiaccia, uniformandolo, negli atteggiamenti interni e in quelli esterni, cioè nei modi di vestire e in quelli di pensare e cantare, all’indistinto della massa. Si diceva che, fino al Cristo si è fermato a Eboli, Carlo Levi sembrava lontano dalla letteratura in senso stretto. Era piuttosto un intellettuale, che sentiva il richiamo urgente della realtà e del collegamento con la vita collettiva, in un clima di particolare fervore civile, quale si era creato nella Torino di inizio secolo. La immediata e naturale forma scritta di tale impegno era costituita, come è ovvio, dal giornalismo e dal saggio. Sarebbe come dire che, fino a quel momento, egli alla parola scritta affidava, non la

funzione della creazione poetica, ma quella della partecipazione e comunicazione. Il momento creativo, invece, era realizzato at-

traverso la pittura, che costituiva la più naturale forma espressiva, pur sempre in funzione di testimonianza. Si potrebbe approssimativamente dire che, mentre la pittura coglieva intuitivamente e immediatamente il senso della vita, alla parola, tutt’al più, com-

peteva il compito di spiegare la pittura e il suo ruolo. Ma è anche vero che la parola scritta, essendo più esplicita e chiarificatrice, oltre che più logica, colpiva più dura e più sicura. Le parole, insomma, possono essere delle pietre, mentre il quadro, il colore, le linee, rappresentano solo un momento contemplativo-espressivo, che, anche per ragioni pratiche, quale la sua scarsa diffusione a livello di massa, difficilmente si muta

in processo attivo e rivoluzione. Forse proprio la consapevolezza che “il domani - scriverà in Paura della pittura — non si prepara con i pennelli, ma nel cuore degli uomini”!, dovette spingere successivamente Carlo Levi, mentre intorno infuriava il momento collettivo della Resistenza armata, a dipingere con le parole. Il Cristo si è fermato a Eboli diventava, per dir così, la 1 C. LEVI, Paura della pittura, in Paura della libertà, Torino, Reprints

Einaudi, 1975, p. 134.

12

trasposizione, per una comunicazione più ampia, di quanto egli aveva dipinto a Grassano e ad Aliano. Il libro, diventava, per ciò stesso, un bellissimo e affascinante affresco della realtà del Sud, o, come felicemente avrebbe detto Rocco Scotellaro, un

“memoriale” dei paesi meridionali. Al tempo delle celebrazioni di “Italia ’61”, invece, per ragioni contingenti, si può dire che Carlo Levi abbia operato in senso inverso, trasportando in una grande tela, e in una sintesi altrettanto felice, tutto il mon-

do del Cristo si èfermato a Eboli. Dopo la prima esperienza letteraria, dunque, e dopo il grande successo che ad essa toccò, tutti i libri di Carlo Levi manife-

starono la stessa ambizione a farsi affreschi di un mondo e di una società, o anche di un momento particolarmente significativo, che generalmente era di trapasso o di profonda trasformazione o solenne separatezza. Come è noto, infatti, tutti i libri

successivi di Carlo Levi sarebbero nati da improvvise immersioni che lo scrittore faceva tra popoli lontani e diversi, nella segreta illusione di ripetere il miracolo di Aliano. E se anche il racconto era in prima persona, l’autore, in effetti, voleva essere

soltanto il tramite fra la realtà lontana e il lettore. Perciò fu sempre una sorta di suggestionato e complessivamente suggestivo “corrispondente”, proprio come faceva anche da pittore,

quando “mandava” immagini dalla remota valle del Basento, o dal cimitero e dai calanchi di Aliano, sotto lo sguardo strabiliato dell’ingenuo carabiniere e degli ammaliati ragazzi del paese, che non credevano a sé stessi, nel veder “ritratti”, sulla tela, le loro terre, i loro animali e i loro visi. E tuttavia non si trattava mai

di riferire come potrebbe fare un fotografo o un sociologo, o come ambivano a fare gli scrittori realisti dell'Ottocento, o anche i neorealisti contemporanei. Dal punto di vista della poetica leviana, infatti, questo era lavoro poco utile ai fini della educazione e della formazione di una coscienza libera ed eticamente sana. Molte affinità, invece, nonostante tutto, intercorrevano tra Carlo Levi e Cesare Pavese, o anche Italo Calvino, tutti usciti, e non casualmente, dallo stesso clima della stessa Torino, in cui

forte era stata, fra le altre, la presenza di Antonio Gramsci, che 13

insegnava a non perdersi mai nel dettaglio. La realtà, infatti, secondo Carlo Levi, non è mai nel particolare in sé considerato, cioè in quel che appare. La realtà viva — aveva scritto in Paura della libertà — è il punto d’incontro fra l’indeterminato e il determinato, fra l’infinito e il finito, fra il collettivo e l’individuale. Non sempre, tuttavia, tale incontro avviene nel giusto mez-

zo, e quindi in maniera equilibrata. Nel concreto della vita, infatti, a volte può prevalere l’indifferenziato, altre volte può prevalere il differenziato. Quando si dà il primo caso, tutto è confusione e massa informe, cioè “ripetizione infinita, infinita

uniformità, infinita impossibilità di rapporti, assoluta impossibilità di Stato”?. A livello più strettamente politico, in particolare, massa è “tutto ciò che nel popolo non ha forma ... Massa non è quindi il popolo, e neanche la sua parte più bassa, la plebe; né è una determinata classe sociale — ma è la folla indeterminata, che cerca, con l’angoscia del muto, di esprimersi ed

esistere”. Quando invece prevale l’opposto, e cioè l’individualismo puro e assoluto, allora è l’anarchia sfrenata e la dissoluzione di tutti i rapporti umani, sicché “è perso ogni senso di comunità, e ... non solo lo Stato non è deificato, ma neppure esiste, poiché non esistono passioni”*. In altre parole, come spesso succede, le due condizioni, pur opposte, finiscono, in ultima

istanza, col coincidere con due particolari modi di essere, ugualmente disumani e barbarici. Pertanto, “i soli momenti vivi nei

singoli uomini, i soli periodi di alta civiltà nella storia, sono quelli in cui i due opposti processi di differenziazione e indifferenziazione trovano un punto di mediazione, e coesistono nell’atto creatore”5. La massa, nello specifico, è lo stato tipico delle origini, cioè della preistoria. Non per niente “i panettieri chiamano massa la pasta, che attende di essere divisa in parti e di diventare pane nel forno”, allo stesso modo che i fonditori chiamano massa “il 2 C.LEVI, Paura della libertà, cit., p. 109.

3 Ivi, p. 106. 481v11p127; >Ivi, p.23.

14

metallo fuso, che aspetta di essere colato nel suo stampo”*. La massa è dunque il Caos iniziale “comune agli uomini tutti, fluente nell’eternità, natura di ogni aspetto del mondo, memoria

di ogni tempo nel mondo”. E solo lentamente che, partendo dal Caos iniziale, si vanno liberando gli individui, i quali, tuttavia, sono, nel loro processo di formazione, “continuamente ri-

portati da una oscura necessità a riattaccarsi e fondersi in lui”. E tutte le volte che si ritorna, in un modo o nell’altro nella

massa, puntualmente è il ritorno dello statalismo onnivoro, che è tutt'altra cosa dallo Stato ordinatore, liberatore e democratico. Infatti, “poiché la massa non ha confini, il suo equivalente

statale, nella sua precisione simbolica e gerarchica, è un idolo di sconfinata potenza, cui nulla può essere estraneo, il cui mistero è assoluto; e a cui tutto deve essere sacrificato, e libertà e sangue

... La teoria dello Stato di massa è dunque espressa nel modo più completo in quella legge veramente sublime di precisione: ‘Credere, obbedire, combattere’”?.

Il pericolo, in altre parole, è sempre dietro l’angolo, ad insidiare il difficile cammino verso la libertà, cioè verso l’umanità

vera. E tuttavia nessuno Stato di massa uccide mai del tutto l’anelito alla libertà e alla liberazione. Per fortuna di tutti e della civiltà, anzi, “finché vi sono dieci uomini giusti, la città non viene distrutta; finché ce n’è uno solo, essa continua ad esiste-

re, e solo quando anch’egli sarà partito, Sodoma perirà nella confusione”!°. Cioè ci sarà il ritorno nel Caos. Tra un Caos e l’altro, dunque, si svolge la storia, come creazione continua, in cui, in rapporto dinamico, convivono il particolare e il Tutto. Ma non la ragione, intesa come intelletto o facoltà logica, è in grado di cogliere tale scorrere della vita o slancio vitale, bensì l’intuizione, e quindi l’arte. Solo l’artista,

infatti, ha il potere di avvertire il magico momento dell’incontro fra il determinato e l’indeterminato. “L’arte è totalità, per6 Ivi, p. 105. 7 Ivi, p. 23. 8 Ivi, p. 23.

? Ivi, pp. 112-113. 10 Ivi, p. 114. 15

ché in essa nascono insieme il momento dell’indifferenziato e quello del particolare, l’abisso vi prende forma senza diminuir. l’uomo vi è intero, senza legami, sufficiente a se stesso”. Essa, dunque, coglie il flusso del progredire della vita, riuscendo a rinvenire l’antico nel presente e “profetizzando” il futuro, che, perciò, vive sempre di un cuore antico. È persino ovvio che, nel momento stesso in cui individua il ritmo autentico

delle cose, l’artista getta anche il seme della rivoluzione, in quanto egli crea il mito “di una felicità assoluta, di una totale, giovanile libertà”, che diventa il lievito del progresso e della civiltà!!. Tutti questi pensieri e sentimenti, di certa ascendenza bergsoniana, ma, lontanamente, anche schellinghiana, Carlo

Levi raccolse nella dolce figura di zio Luca, affettuosamente rievocato nell’Orologio. Proprio zio Luca, infatti, sarà il suo maestro di vita e di pensiero, perché in lui, simbolicamente, sembra raccogliersi una saggezza remota, di tipo mistico-religioso, tanto cara a Carlo Levi, in cui, certamente, operavano, magari

solo a livello inconscio, anche lontane suggestioni ebraiche. La saggezza di zio Luca era tutta nel fatto che egli era un uomo d’altri tempi. Era “un sapiente medioevale, intento a scoprire la chiave del mondo, bianca o gialla essa fosse, a raccoglier insie-

me ogni conoscenza, terrena e ultraterrena, magica, naturale o religiosa, estraneo e indifferente a ogni contingenza per quanto potesse riguardarlo, e distrarlo dalla sola verità, ma curioso di

tutte le contingenze, per trovare in ciascuna di esse quell’uno eterno che tutte contengono, e che le spiega e giustifica. Anche il suo aspetto fisico pareva portasse un ricordo di luoghi e secoli lontani, forse una eredità di medici arabi e di cabalisti ebrei, e

della grande Spagna dei Tempi di mezzo”!?. Zio Luca era uno scienziato, che però della scienza, soprattutto di quella positivista, non era contento, perché la scienza, troppo attenta al contingente, ignorava il senso del Tutto. Via via, perciò, partendo dal mistero della vita, in cui gli sembrava che agissero due eterne forze - una maschile e l’altra femminiL'Tvaipozo; 12 C. LEVI, L’orologio, Torino, Einaudi, 1974, pp. 236-237.

16

le, “lo Jin e lo Jen della filosofia cinese” -, “di deduzione in deduzione [...] si perse nella contemplazione di un universo fatto di ritmo, di pulsazione, di alternativa infinita fra quei due

poli eternamente coincidenti nel bene, e separati soltanto nell'errore e nel peccato [...]), Ne nasceva un universo legato da

infiniti legami, che si riducevano ad uno, sempre uguale e diverso, dove tutte le cose avevano un senso, e si tenevano insieme come manifestazioni equivalenti di una sola verità”!3. In una visione siffatta, così mistica e rapita, così estatica e così stupita, era inevitabile, dunque, l’approdo all’arte, e, in particolare, ad una delle forme più immediate di essa, cioè la

pittura. Zio Luca divenne pittore nel segreto della sua casa e della sua anima. E proprio attraverso zio Luca, Carlo Levi scoprì egli stesso il fascino e la funzione morale della pittura. Era ancora un bambino quando, recatosi a casa dello zio Luca, dalla sua ca-

meriera, la Mariona, si ebbe, perché giocasse, “dei fogli di carta, e una busta di pastelli colorati”. Giocando giocando, ruppe uno dei pastelli. Con gran timore attese allora l’arrivo dello zio, im-

maginandosi chissà quali urla e clamorose punizioni. Invece zio Luca guardò con amore e affetto il bambino e, con sorriso compiaciuto, disse: “Ne hai rotto uno? Ebbene, tienli tutti. Sono tuoi”!. Quella fu una vera rivelazione - commenta Carlo Levi. “Seppi, nello stesso giorno, che cos'era la pittura; e che cos'era la bontà, e che, per l’una e per l’altra le cose inaccessibili sorrido-

no... Passai in un istante da un’epoca a un’altra, imparai a adoprare le mani e a riconoscere una libertà fatta di amore, per cui non esiste il peccato, e a non considerare lontane e separate quelle due cose, arte e coscienza morale, ma amiche e congiunte, e nate insieme, sulle rovine della terrificante trascendenza”!. A nessuno, tuttavia, deve sfuggire l'ambiguità di tale modo di concepire la pittura e l’arte nel suo complesso. È inevitabile, infatti, cogliervi, in sottofondo, l’insidia del misticismo ata

ziano e del decadentismo in genere, da cui Carlo Levi, in segui13 Ivi, pp. 237-239. 14 Ivi, p. 242. 15 Ivi, pp. 241-242. 17

to, tenne sempre, troppo ostentatamente, a distinguersi, accentuando il rifiuto di ogni estetismo. Ma l’insidia c’era. E lo si vedeva leggendo il citato Paura della pittura, un saggio scritto nel 1942, dopo l’esperienza di Aliano, ma ancor prima che, a Firenze, fosse composto il Cristo si èfermato a Eboli. Quando si dice “ambiguità”, ci si riferisce innanzitutto allo stile troppo astratto e simbolico, che lo stesso Levi, più tardi,

riconosceva come tale, sicché, pur giustificando la cosa con gli eventi cupi di quegli anni, poteva affermare che, senza nulla cambiare di sostanziale, quel saggio egli avrebbe riscritto, se ne avesse sentito la necessità, “in forme o del tutto e puramente razionali, o del tutto e puramente narrative”!°. Ma l'ambiguità riguarda persino il titolo, perché non risulta molto chiaro se si ha paura della pittura, oppure la paura è un tratto tipico della pittura, nel senso che è essa ad aver paura, o anche nel senso che essa registra uno stato di paura e di crisi più generale. Né si capisce bene fino a che punto Carlo Levi condivida le esperienze della pittura contemporanea, astratta e informale. I dubbi vengono sciolti, sia pur parzialmente, solo alla luce dei successivi interventi dello scrittore, che continuamente cercava di

chiarire il pensiero di quell’antico saggio, che pure egli ritenne fondamentale e rivelatore. Un dato certo è che Paura della pittura fu scritto come integrazione e completamento di Paura della libertà. La paura della pittura sembrava, cioè, essere la stessa “paura del mondo, della vita, della libertà, dell’uomo”. La pittura di quegli anni di crisi, infatti, secondo Carlo Levi,

era una pittura che registrava ansie, tensioni e insicurezze più generali, che si manifestavano in tutta la vita del tempo e che presto avrebbero trovato il loro concreto riscontro nella guerra e nel dilagare della ferocia nazista, giunte ad occupare e devastare la stessa capitale dell’arte contemporanea, cioè Parigi. Forse si potrebbe anche concludere, in forma di chiosa, che, nel regi-

strare la paura, quell’arte finiva con l’incutere paura, perché ri-

MEcTEVI, Paura e coraggio dei miti (1961-192) in Coraggio dei miti (Scritti contemporanei di Carlo Levi 1922-1974 ), a cura di Gigliola De Donato, Bari, De Donato, 1975, p. 157.

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fletteva un mondo senza certezza alcuna, cioè di alienazione e

dissociazione. “Per gli uomini, ombre spaventate, il mondo da cui sono assenti perde ogni concretezza, cioè ogni connessione simpatica, e diventa un mondo d’ombre e di spavento, un mondo senza relazione, un mondo astratto. L’arte astratta è l’arte dell’individuo astratto, l’arte della massa”.

E tuttavia, nel momento stesso in cui la pittura —- almeno quella grande — registra la paura e incute paura, contemporaneamente getta il seme del riscatto, della rivolta e della liberazione. In certo qual modo lo si è già detto.“Ogni quadro è un grido — scrive icasticamente Carlo Levi —, un urto contro invisibili mura fatate: e il grido è un punto senza dimensioni”. Perciò, a conclusione del saggio — che, cosa molto significativa, era stato pubblicato a cura di Renato Guttuso sul numero unico di “Prospettive” -, Carlo Levi poteva, sia pure dubitativamente, avanzare l’ipotesi che, in quel 1942, mentre

cominciavano le prime decisive sconfitte del nazismo e del fascismo, “forse era nato chi preparava, nei quadri, l'annuncio

della fine della separazione, l’amoroso sorgere di una pittura senza terrore”!.

Qualche anno dopo, in una lettera ad Alicata, pubblicata sull’“Unità” del 23 marzo 1963, egli, commentando l’antico

saggio, avrebbe specificato che solo con il rinnovamento della società si sarebbe rinnovata la pittura, benché tra rivoluzione socio-politica e rivoluzione artistica non ci sia un rapporto di successione temporale. I due fenomeni avvengono, infatti, sempre contemporaneamente e impercettibilmente. Una rivoluzione sociale, nel 1963, sempre a parere di Carlo Levi, era in atto,

grazie al graduale avanzare, dappertutto, di una civiltà di cui erano protagonisti i popoli. Di tale evento epico e grandioso, cioè socialista, forse mancava ancora la forma espressiva. Esso non aveva ancora trovato la sua voce; ma l’avrebbe trovata, prima o poi. “Quello che dirà, che forse senza saperlo già dice, non può nascere dai vecchi residui o dal timore dell’esperienza. Può nascere soltanto, nel futuro del suo antico, dal coraggio e 17 C. LEVI, Paura della pittura, cit., pp. 129-134.

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dalla fantasia della libertà”!*. Ancor più esplicite riflessioni sul valore dell’arte, e sulla sua funzione liberatrice, Carlo Levi faceva pochi giorni dopo, in una lettera del 2 aprile 1963, inviata nientemeno che a Nikita Kruscev, allora segretario del Pcus e supremo capo dell’Urss, artefice della destalinizzazione e di quel primo processo di democratizzazione del sistema socialista, che tanta crisi, ma

anche tante speranze suscitò negli intellettuali progressisti del tempo. Trattando quasi alla pari con lui, e con la sicurezza di un uomo che aveva integralmente sposato la causa socialista e russa, Carlo Levi non esitava a definire il supremo capo del Soviet “come il maggior difensore della pace nel mondo, e insieme il rappresentante più vero di un grande popolo e di una grande rivoluzione liberatrice, che va continuando la sua opera di affrancamento dell’uomo e di creazione della nuova società socialista”. Proprio in quella lettera, e in margine ad una discussione che si era aperta in Unione Sovietica e, di riflesso, anche in

Italia, Carlo Levi si domandava quale debba essere il posto dell’arte e dell’artista in una autentica società socialista. Premesso che andava confutato il valore “di un’arte borghese che esprime la dissoluzione non solo della società, ma dell’uomo stesso”,

come del resto si poteva evincere già dal lontano saggio Paura della pittura, Carlo Levi prendeva subito le distanze dallo stesso “realismo socialista”, che gli sembrava essere “l’arte della burocrazia”, che allo scrittore, e artista in genere, toglieva qualsiasi forma di libertà, in contrasto col concetto stesso di arte, che è e

non può essere se non libertà e liberazione. Partendo quindi dalla propria condizione personale e dalla sua esperienza di intellettuale, per decenni impegnato sul fronte sociale e politico, Carlo Levi dichiarava di non essersi “mai sentito un pittore o uno scrittore professionale, ma realmente null’altro che un uomo che dipinge e scrive, realizzando così la sua libertà, la sua qualità totale di uomo”. In un sistema socialista, dunque, proprio a salvaguardia del18In Coraggio dei miti, cit., p. 176.

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l’arte e del sistema, che non ha alternative sul piano della liberazione dell’uomo, l’arte deve avere “la funzione reale e fonda-

mentale, che è ... quella dell’autonoma espressione della capacità creativa del mondo socialista, che dà norma a se stesso, costruisce originalmente le sue forme, e arricchisce il mondo di una nuova realtà”. È un’arte, tuttavia, che non deve confondersi o identificarsi con l’arte cha piace” al popolo, che altro non sarebbe se non “un residuo cristallizzato di una cultura precedente”; né essa è da confondersi col folklore, le canzoni popolari, i balli, le oleografie, le ninne-nanne delle balie o le favole

delle nonne, che possono anche piacere, e anzi piacciono, ma nulla hanno a che fare con l’arte vera, cioè quella della libertà e della liberazione. “Amo le poesie popolari - concludeva Carlo Levi —, ma so che esse non sono né Puskin né Dante”!9,

In quegli stessi giorni, altrove, in un albergo di Palermo, si costituiva il cosiddetto “Gruppo ’63”, che metteva sotto accusa l’arte realista o neorealista, e pretendeva di tornare a forme di avanguardie e sperimentalismi, che Carlo Levi non esitava a definire “arcadie”, vizio tipico dell’arte italiana. Proprio in quegli anni, invece, e in contrasto con le nuove mode, egli continuava

a proporre l’esempio di Rocco Scotellaro, vero suo mito e rappresentazione clamorosa di un’arte diversa, cioè autentica. Era l’arte “contadina”, contrapposta all’arte “luigina”. L’arte “contadina”, secondo Carlo Levi, essendo arte vera, è universale nel particolare, ovvero ha, contemporaneamente, il

carattere dell’ambiguità o indeterminatezza e quello del realismo, nel senso che, in essa, tutto è mitico e vero, tutto è nome e

oggetto nello stesso tempo?°. L’arte “luigina”, invece, è l’arte completamente “staccata dal popolo”, cioè estetizzante e vuota, formalistica e bizzarra. In realtà, Carlo Levi sapeva bene che una distinzione del genere era del tutto fuori luogo; né poteva

condannare tanto pregiudizialmente un secolo di arte moderna. Sapeva bene, anche, che, in un modo o nell’altro, ogni ma-

nifestazione artistica è sempre il rispecchiamento della società. 19 In Coraggio dei miti, cit., pp. 177-184. 20 C. LEVI, Il contadino e l’orologio, in Coraggio dei miti, cit., p. 60.

*4l

Lo diceva la stessa estetica marxista, ormai liberatasi dal dogma del realismo socialista. E sapeva bene, infine, che la distinzione

fra “contadini” e “luigini” è così sottile, che non c’è mai il contadino puro, così come non c’è mai il luigino puro. In ognuno c'è sempre un po’ del contadino e un po’ del luigino. A_maggior ragione ciò vale per l’arte. Il problema era un altro, in quanto ciò che conta è sapere quanto di società un’arte rappresenta. Perciò, prevenendo facili obiezioni, Carlo Levi correggeva il suo pensiero, osservando come “quella che si chiama in generale l’arte moderna esprime o meglio esprimeva ... la società”. Ma “tutta la società o soltanto una sua parte?”. Questo è il nocciolo della questione. I grandi - conveniva — sono tali perché hanno rappresentato sempre l’intera società, cioè le più profonde aspirazioni o delusioni dell’umanità. Per fare solo qualche esempio, la squallida solitudine della civiltà moderna, cioè la solitudine “senza speranza”,

ha ben trovato “la sua espressione nell’arte e talvolta anche in modo tragico e gigantesco, come in Kafka e in Picasso. Anzi ha trovato la sua espressione persino nella vita individuale o nel rifiuto di vivere, come nel suicidio di Cesare Pavese”.

Non è dunque, quella di Kafka e di Picasso, l’arte luigina, che, invece, è da ritrovarsi nei tanti attardati epigoni e nipotini loro, cioè nei tanti “nipotini di padre Bresciani”. Kafka e Picasso, al contrario, proprio perché rappresentano non sé stessi e la loro classe o ceto, ma, piuttosto, una condizione generale, sono

da considerarsi “contadini”, cioè poeti dell’uomo e della verità. In definitiva, “ogni volta che - concludeva Carlo Levi — leggerete in un libro o ... vedrete in un film, in un quadro, qualcosa che suona con l’inconfondibile senso della verità, vi troverete

di fronte a un’espressione dell’arte contadina, di quella che annuncia la fine della crisi del nostro tempo: la possibilità di un mondo riunificato e senza terrore”?!, A titolo esemplificativo, nel 1955, aveva citato quanto gli era capitato in una sua visita a Grassano, dov'era tornato per dipingervi un quadro. “Lavorai — racconta — tutto il giorno, in una 21 C. LEVI, L’arte contadina e l’arte luigina, ivi, pp. 61-70. 22

stradetta fra le povere case dei braccianti, i ‘lamioni’, dove non c’è altra apertura che la porta, e vivono insieme, nell’unica stanza, la famiglia contadina, e l’asino, e la capra”. Mentre dipingeva, intorno lo osservavano, estasiati, come ad Aliano, i bambi-

ni, sotto certi aspetti affini ai poeti e agli artisti in genere. A sera, i contadini, tornando dalla campagna, si fermarono a guardare. E vi si riconobbero. Allora presero quel quadro “e lo portarono, attraverso le stradette del villaggio, alla piazza. Lo portavano con fierezza e gloria, come si portavano un tempo le antiche Maestà e le Madonne ... Nei loro visi era viva la luce della speranza”. L’arte, cioè, come è giusto che sia, si faceva religione, fede e speranza di un intero popolo, che riscopriva, attraverso essa, e quasi specchiandosi in essa, il valore della propria identità e libertà??. In realtà, identificare l’arte con la religione, e fare dell’arte

una religione, è tutt’altro che fare del realismo. Lo si è già detto. Si è, invece, nell’ambito del più puro decadentismo, o del populismo, che del decadentismo è un aspetto. Ed è l’aspetto equivoco e non risolto della poetica leviana. Ma si tratta, certamente, di un aspetto non poco segnato da contingenti polemiche con la cultura o le mode del tempo, che potevano indurre ad atteggiamenti forzati e voluti. C’è di fatto, e d’importante, che essa esprimeva l’esigenza di andare oltre il contingente e l’apparente, cioè oltre lo stesso realismo e neorealismo, pura copia dell’esistente. L’arte, insomma, nasceva presupponendo l’inesistenza o l’immobilità dell’orologio. E spesso l'orologio di Carlo Levi si fermò. Ciò accadde nei momenti culminanti e cruciali dei grandi passaggi, quando il passato non c’era più e non c’era ancora il futuro. Allora l’anima di Levi poteva spaziare nell’infinito e, quindi, afferrare il palpito vero che è dell’universo intero, cogliendo quella che egli chiamò “la contemporaneità dei tempi”. Come quando, nel silenzio della mezzanotte di Aliano, si passò dal 1935 al 1936. “Volli attendere la mezzanotte secondo l’usanza — racconta. - Ero solo nella mia cucina, davanti a un fuoco che 22 C. LEVI, L’arte e gli italiani, ivi, p. 89.

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sfriggeva e soffiava e cigolava, mentre fuori urlava la tempesta di vento e di neve. Avevo un bicchiere di vino, ma a che cosa

avrei potuto brindare. Il mio orologio si era fermato, e nessun rintocco di fuori poteva giungermi e indicarmi il passare del tempo, dove il tempo non scorre. Così finì, in un momento indeterminato, l’anno 1935, quest'anno fastidioso, pieno di noia legittima, e cominciò il 1936, identico al precedente, e a tutti

quelli che sono venuti prima e che verranno poi, nel loro indifferente corso disumano”?). i Il tempo dell’orologio è infatti il tempo della storia e, in genere, del contingente. Ed è anche il tempo dell’adulto, la cui vita è segnata dalla cadenza delle cose e degli eventi. L’adulto, perciò, non è mai perfettamente libero e poeta. Il tempo dell'orologio, in realtà, a dispetto di quel che può apparire, è l’opposto del tempo vero, perché è un tempo meccanico e martellante. E il tempo della non libertà. E difficile, infatti, resistere al suo ritmo. “Il nostro cuore non se ne accorge, dapprima, e continua svagato”; ma poi, lentamente, se ne lascia sedurre e

corrompere. Al ticchettio monotono e uniforme, “i nostri piedi pare si muovano da soli ... Quella cadenza, quella andatura militare, si accelera, il nostro cuore la segue, non sa più staccar-

sene, ed il tempo corre e vola. Così la catena d’oro che teneva legato l’innocente orologio, diventa la catena che ci lega e ci trascina, ed è la piccola macchina del taschino che tiene ormai dal suo capo, come un padrone, la catena ben salda, e ci mena alla cavezza, come buoi da sgozzare, sempre più in fretta, sempre più in fretta, chissà dove”, Se il tempo con l’orologio è quello dell’adulto, per logica conseguenza si può dire che quello senza orologio, cioè quello vero e indeterminato, sia il tempo dell’infanzia, durante il quale vivono soltanto le nostre illusioni e le nostre speranze. Certo, queste sono ben anche nel cuore degli adulti; ma spesso gli adulti le respingono e le ignorano, per correre sotto l’urgente incalzare dei fatti e, per dir così, delle scadenze. Il tempo del23 C.LEVI, Cristo si èfermato a Eboli, Torino, Einaudi, 1967, p. 182. 24 C. LEVI, L’orologio, cit., Dez:

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l’infanzia è quello stesso del Paradiso terrestre, cioè quello dell’Eden, anteriore al peccato originale. Per ritrovarlo, bisognerebbe astrarsi dalla vita e regredire proprio verso la condizione dell’infanzia. Non succede di frequente nella vita di un adulto, tranne che nei momenti di sogno, di contemplazione e, quindi, di creazione artistica. E solo allora “noi siamo su una riva sicura, in un letto morbido, fuori del tempo, degli orologi e delle

campane, e vediamo cose che non avvengono”. Era la precisa

sensazione che Carlo Levi provava in una casa contadina, sperduta nella solitudine argillosa della valle dell’Agri, mentre, nella stanza a fianco, un giovane contadino moriva di peritonite. Sdraiato su un letto altissimo e soffice, “come su un palco aereo”, nonostante i lamenti del moribondo a due passi di distanza, egli sentì come una gran pace scendergli dentro. “Mi pareva — scrisse — di essere staccato da ogni cosa e da ogni luogo, remotissimo da ogni determinazione, perduto fuori del tempo, in un infinito altrove. Mi sentivo celato, ignoto agli uomini, nascosto come un germoglio sotto la scorza dell’albero: tendevo l'orecchio alla notte e mi pareva di essere entrato, d’un tratto,

nel cuore stesso del mondo. Una felicità immensa, non mai provata, era in me, e mi riempiva intero, e il senso fluente di una infinita pienezza”? La regressione verso l’infanzia, che è anche l’infanzia del mondo, e cioè il cuore stesso delle cose, può essere favorita — come si vede — dalla giacenza in un letto alto e soffice, che dia il senso della sospensione nell’immensità, in cui, come insegnano i matematici, ogni punto è anche un centro. E quanto si legge, per fare un altro esempio fra gli altri, ancora nell’Orologio. Arrivato a Roma da Firenze, Carlo Levi aveva cercato una

stanza, per stabilirvisi definitivamente, come in un ideale approdo; ma era rimasto deluso dalla stanza fredda che aveva trovato. Però, in quella stanza, pur così estranea, c’era qualcosa di attraente e caldo che “/o aveva colmato di dolcezze: un letto [appunto] alto e largo e meravigliosamentre soffice, come è raro 25 Ivi, p. 17. Il corsivo non è nel testo. 26 C. LEVI, Cristo si èfermato a Eboli, cit., pp. 198-199. 25

trovarne, dove, tra lenzuola fresche, calde coperte e piumini

leggeri, poteva affondare nelle delizie”7. La stessa sensazione, tuttavia, si può provare scendendo dentro la terra, a sentirne, per dir così, il battito. Nel Cristo st è

fermato a Eboli, com'è noto, racconta che talvolta gli era capitato di dirigersi verso il cimitero, scendere in una fossa e lì addormentarsi, trovandovi, contemporaneamente, l’origine e la fine

della vita, come in un eterno ritorno. Accade infatti che, quando “ci fermiamo del tutto, e viene la morte, il tempo diventa

così infinitamente veloce che è come se fosse di nuovo immobile; e ritorniamo in un’altra eternità, che forse è quellastessa da

cui eravamo partiti, o che forse è il nulla”?8. E ci si può sentire veramente soli e liberi??, perché, come avrebbe detto Ungaretti,

ci si può sentire “docile fibra dell’universo”. Era la stessa gradevole dolcezza di quiete e di pace che Carlo Levi provava quando giaceva nel letto dei genitori, dove, come tutti i bambini, egli amava rifugiarsi. Era il ritorno nel grembo materno, cioè, ancora una volta, alle radici della vita, fuori del

tempo e dello spazio. “Nei primissimi anni della mia infanzia — si legge appunto nell’Orologio — il mio maggior piacere era di andare nel letto di mia madre. Ci dormivo qualche volta, di rado, quando mio padre era in viaggio. Più spesso vi andavo al mattino, appena svegliato, e giocavo con quei cuscini immensi, e mi riaddormentavo quasi senza accorgermene”. Quello non era né una culla, né un lettino per bambini, cioè definito e de-

stinato o determinato per uno scopo particolare (e, quindi, limitato dalla sua funzione). “Era [invece] un letto sterminato,

quasi senza confini. Era un grande mare calmo... Le lenzuola di lino — continua il racconto — erano così pesanti che mi schiacciavano, ma se me ne coprivo il capo, ero sotto terra”. In alto, sul

soffitto, un puttino aveva in braccio un fascio di fiori, che, ad un certo momento, diventava una parabola, cioè una linea in-

definita dalla geometria euclidea, che presume alla precisione e 27 C. LEVI, L’orologio, cit., p. 8.

svi pii5.

29 C. LEVI, Cristo si èfermato a Eboli, cit.., p. 59.

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alla esattezza. E proprio stimolato dal filo sfuggente di quella curva, Carlo Levi bambino avvertiva “il senso dei sensi”, uno

stato di sospensione, che era “insieme terribile e spaventosamente beatificante”, come succede quando si tocca, in una

vertigine, il senso ultimo delle cose. Era, anche, una “sensazione ineffabile [che] era, forse, pura potenza, riunita in un punto immateriale, e si è forse sparsa e

trasfigurata nelle cose, nascosta nei gesti, nelle frasi, nelle curve interrotte dei quadri. Mi sembra di aver sempre inteso — aggiungeva Carlo Levi -, senza mai poterlo spiegare, che cosa essa fosse: e quello che ne penso e sento ora è anche quello che ne intuivo bambino di forse tre anni. Quel ritmo irregolare e infinito era una immagine pura di un fluire eterno, nell’eterna po-

tenza, era il tempo stesso, il tempo vero, prima dei tempi”?°. Proprio perché concepita in questo stato di sospensione tra finito e infinito, tra contingente e perenne, l’opera letteraria di Carlo Levi, come è facile intuire, appare, per logica conseguenza, continuamente in bilico tra saggio e divagazione fantastica, fra cronaca e mito, sfuggendo ad ogni precisa definizione e inglobazione in un determinato genere letterario. Ed è inutile dire che, stando così le cose, è anche molto difficile che egli

riesca, nella sua scrittura, a raggiungere sempre l’equilibrio giusto e che, soprattutto, riesca a conservarlo a lungo. Ciò gli riesce, con una certa continuità, solo nel Cristo si èfermato a Eboli

e in alcune parti di Tutto il miele è finito. Per il resto delle sue opere, invece, ha finito col cadere nella comune corrisponden-

za giornalistica, che inutilmente, poi, cerca di avvivare poeticamente, sovraccaricandola di simboli complessi, ricercati e stu-

diati, che certamente fanno molto intellettualismo, ripetitivo e astratto, ma, di fatto, poca poesia.

E il caso del volume // futuro ha un cuore antico (sia pure in misura minore), di Le parole sono pietre e della Doppia notte dei tigli. Non di rado, peraltro, per il desiderio e il necessario bisogno di animare la realtà quotidiana, egli si lascia andare a lungaggini descrittive, a forme gotiche e ricercate, a caricature espres30 €. LEVI, L'orologio, cit., pp. 9-10.

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sionistiche di incerto gusto, insomma a tentazioni barocche. Ciò è quanto succede soprattutto nell’Oro/ogio, che, pur presentando — come si è visto — interessanti spunti di poetica e di pensiero, procede, sul piano narrativo, in modo tanto stanco, monotono e

prolisso, da risultare il peggior libro scritto da Carlo Levi, ancorché sia il più ambizioso. Cosa che succede abbastanza spesso nelle storie dei libri e degli autori di tutti i tempi, perché quanto più alte e smodate (o inadeguate) sono le “intenzion de l’arte”, tanto più spesso accade che a queste, come dice Dante, “la forma non s’accorda”?!,

31 D. ALIGHIERI, Paradiso, I, vv. 127-128. 28

CTASPATEITO NQ BES EE CIO NNIDIO

L’orologio

(1950)

L’orologio!, che si fregia dell’impropria autodefinizione di “romanzo”, fu pubblicato nel 1950; mai fatti narrati sono quelli accaduti a Roma nell’estate del 1945, nell’arco di tre giorni. La trama, piuttosto labile nonostante la vastità dell’opera, ab-

braccia - come efficacemente riassume la De Donato - “i due giorni romani compresi tra l’arrivo di Levi al giornale di cui gli era stata affidata la direzione, l’incontro al ristorante di un ami-

co che lo trascina con sé in un giro alla Garbatella alla ricerca di una donna, l’insediamento nel suo nuovo alloggio, la partecipazione alla conferenza stampa che precede le dimissioni del governo Parri, la nottata in tipografia per la stampa del giornale, il ritorno a casa all’alba e l’incontro con un morto sulle sca-

le”. C° è quindi “la partenza per Napoli il giorno dopo, il mancato incontro con lo zio Luca già morto, e il ritorno a Roma con due deputati della sinistra”?. Carlo Levi - secondo quanto racconta egli stesso — era stato mandato a Roma, per dirigere il giornale del Partito d'Azione, che aveva titolo “L’Italia libera”. Arrivava da Firenze, dove ave1 C. LEVI, L’orologio, Torino, Einaudi, 1974, da cui, quando manchino

altre indicazioni, sono tratte tutte le citazioni del presente capitolo. 2 G. DE DONATO, Saggio su Carlo Levi, Bari, De Donato, 1974, p. 267.

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va partecipato alla Resistenza. Era un’estate particolare, e particolarmente deludente. Proprio in quei giorni, infatti, cadeva il governo Parri, che, nella sua forte ispirazione antifascista, raccoglieva tutti i partiti che avevano fatto la Resistenza. Aggirandosi per le strade della capitale, Carlo Levi coglieva la realtà confusa, miserabile, eppure piena di aspettativa della gente, soprattutto di quella comune. Si era convinti di aver fatto una rivoluzione, cacciando lo straniero dall’Italia e gettando giù dal trono il fascismo. “Abbiamo fatto la guerra - dice uno dei non molti personaggi che si incontrano casualmente nel libro — ... E stata, si voglia o no, una rivoluzione, abbiamo visto la morte,

abbiamo pagato per i peccati nostri e per quelli degli altri, abbiamo buttato dietro le spalle il passato e anche tutte le cose care, gli affetti, le dolcezze della vita, abbiamo vissuto con gli

uomini, ci siamo sentiti uniti fra noi, abbiamo capito che cosa è il mondo, ma tutto questo è come si fosse svolto in un altro pianeta”. In effetti, nell’aria stanca, uniforme e piatta di una Roma agostana — e questo è l’assunto principale del libro — tutto si andava lentamente impaludando e esaurendo. Il libro, scritto tra gli anni 1947 e 1949, registrava quel clima particolare, che,

in seguito, avrebbe fatto parlare, più o meno appropriatamente, di “Resistenza tradita”. E la colpa era tutta di Roma, assunta a simbolo soporoso del centralismo, del burocratismo, del con-

formismo e del trasformismo nazionale. Nato a Torino, città in quegli anni particolarmente laboriosa e attiva, emigrato in Francia e, quindi, ritornato in Italia, nella Firenze antifascista e combattente, Carlo Levi, arrivando a Roma, trovava conferma a lontane sue diffidenze verso la ca-

pitale, in cui, impercettibilmente quanto inesorabilmente, tutto, in breve tempo, si “normalizza”. “Questa città - dice un

altro personaggio, casualmente imbattutosi nel racconto di Levi — è come uno stagno”. Si tratta di un giudice di Novara, “doppiamente magro, per essere stato grassissimo prima della guerra, che pareva averlo succhiato e raggrinzito, e avergli cresciuto gli abiti addosso”. Compiacendosi delle sue qualità descrittive e pittoriche, ma anche di quelle del ritrattista e caricaturista, Carlo Levi aggiunge che “era miope come una talpa, con enor30

mi occhiali spessi come fondi di bicchiere, malgrado i quali non vedeva lontano una spanna: pieno il capo di raro senno giuridico e di candida onestà”. Il mondo cambia - dice appunto questo giudice, che ha vissuto intensamente gli ultimi anni della storia italiana -, “gli uomini cambiano; perfino io ho perso trenta chili di peso in questi anni: ma [a Roma] c’è la continuità. Che vuol poi dire, semplicemen-

te, poter restar sempre seduti sulla medesima seggiola, nel ’22 come ora. E tutti continuano a farsi incitare dalle parole, dal nome di Roma. Questo è un posto che va bene per il Papa, ma la capitale, dovevamo portarla su, a Milano, per far piazza pulita”. Che è - strano riscontro - uno dei motivi del federalismo, e poi secessionismo, guidato, in giorni molto più vicini a noi, dalla

Lega del Nord. A detta di Carlo Levi, del resto, c’è un equivoco di fondo, che bisogna assolutamente chiarire e dissolvere. Ed è quello dell’unità nazionale. Carlo Levi l’aveva scritto già nel Cristo si è fermato a Eboli. Un altro personaggio dell’Orologio, scivolando su un terreno piuttosto pericoloso, aggiunge che l’unità di Roma è sempre falsa, perché è “o teocratica o burocratica”. Il luogo romano, dove ogni cosa viene bruciata e consumata, è soprattutto il Ministero. “Sapete cos'è un Ministero? — si domanda e domanda Carlo Levi. - Nessuno lo sa, se non cista dentro. È un mondo sconosciuto, sotterraneo e infernale. È la raccolta miracolosa di tutte le miserie, di tutti i vizi, di tutte le

bassezze; una coltura pura di miserabilità... Tutto questo è tenuto insieme da un potente spirito di casta, da un legame stretto come quello della camorra e della mafia. Li vedeste, quegli esseri, seduti sulle loro sedie, davanti alle loro scrivanie, a far

nulla, materialmente nulla, neanche a leggere il giornale, per ore e ore, con gli occhi imbambolati... Se la ridono, la mattina,

quando arrivano con i loro giornali, e li stendono sulle scrivanie, e leggono che gli operai del Nord e i contadini del Sud protestano contro la crisi, e manifestano la loro solidarietà. Non riusciremo a salvare il governo della Resistenza... Questi impiegati sono come i corvi; sanno, non so per quali vie, il futuro, e

si rallegrano soltanto della morte”. Dal centro romano, a macchia d’olio, corruzione, trasformi31

smo e conformismo si trasferiscono alla periferia, permeandola attraverso i veicoli delle ideologie e dei partiti, ma, soprattutto, attraverso il potere dei Prefetti. Era per questo che, secondo Carlo Levi, il nuovo Stato, nato dalla Resistenza, doveva innanzitutto

eliminare l’antica figura del Prefetto, “proconsole di Roma nelle province”. A tal fine, per l'appunto, si erano mossi alcuni Comitati di Liberazione, durante la Resistenza; ma tutto, successiva-

mente, era rientrato nella logica normalizzatrice dell’opportunità. Così cadevano, uno dopo l’altro, i miti e i sogni; nello stesso modo cadeva il governo Parri, cioè il governo dell’uomo giusto e onesto, leale e cavalleresco, insidiato dai mestatori della politica

più meschina, vittima della sua stessa “santità”. I toni di Carlo Levi, di fatto, si fanno ispirati e serafici, quan-

do accenna al presidente Parri, che è il “Presidente” per eccellenza. “Sembrava un crisantemo” - dice -—, nel senso più positivo del termine. Strano fiore è infatti il crisantemo, “dai petali sottili, dalle foglie grige, autunnale e funebre, diverso da ogni altro, esotico e coraggioso nei primi geli e nelle nebbie del Nord, dal profumo quasi insensibile, la cui polvere uccide tuttavia le zanzare, privo di sensualità... In un paese amante della retorica, era scarno e ritroso; dove si ammira l’affermazione di sé, sce-

glieva la parte più oscura; accanto ad un popolo sanguigno, egli era pallido; in una terra accesa dal sole, coi tetti rossi, gli alberi

verdi e il cielo azzurro egli aveva il colore dell’ardesia, di una lavagna di scuola, coperta col gessetto, di calcoli aritmetici”. Nella sua figura magra, severa e sofferente, apparve, agli occhi di Levi, come “impastato della memoria impalpabile del ricordo, costruito col pallido colore dei morti, con la spettrale sostanza dei morti, con la dolente immagine dei giovani morti, dei fucilati, degli impiccati, dei torturati, con le lacrime e i freddi sudori dei feriti, dei rantolanti, degli angosciati, dei malati,

degli orfani, nelle città e nelle montagne”. Insomma, “se l’identificarsi con i dolori del mondo, il soffrirli in se stesso, l’assu-

merlì come propri, è santità, egli era fatto della incorporea materia dei santi”. Ad ascoltarlo, intorno, invece, si vedevano

tante facce di opportunisti, di ieri, di oggi e di sempre. Il contrasto è stridente. “C’è Malgero. Che faccia schifosa, con quella 32

barbetta da bravo nonnino, e quei dentacci neri dietro i baffi”. C'è quindi Rinaldi: “Guardalo, come si dimena, per parer giovane: sembra un’anguilla marinara”. Poi c'è Dandi “con la sua testa a uovo: che bel cervello ci deve aver dentro”. E c’è il naso di Rattoni, che “era già lungo quando è arrivato, ma adesso arriva addirittura in terra; è una salsiccia, un budino. E la bocca

di Colombi? Sembra quella di un lucertolone”. Il contrasto non lascia dubbi sui futuri padroni del Palazzo, mentre la gente, per le strade, soffre e langue, gradualmente perdendo tutte le speranze di una stagione troppo rapida. Numerose, perciò, in contrasto con le congiure di Palazzo, sono le pagine dedicate all’Italia vera, cioè alla folla variopinta, che percorre le strade romane, tutta protesa alla ricerca del modo di guadagnarsi la vita. Tra affamati e contrabbandieri, morti e prostitute, passano prepotenti le camionette degli americani e degli alleati tutti. Per tutti i vicoli, si notavano “torri e piramidi di pane bianco... Crocchiava dolcemente nelle mani delle donne, che ne provavano la freschezza, prima di buttarlo nelle grosse borse di tela. Su altri tavoli si allineavano sigari avana, sigarette, e monticciuoli di tabacco di vario colore, frutto della paziente

raccolta di mozziconi... Tutto quello che l’Italia e 1’America potevano offrire alla fame e al bisogno della gente... A un tratto si sentì un grido, come un sussurro, di un ragazzo: - Piove! -

Piove, Piove! — risposero affannate dieci voci di donne. Un mormorio corse rapido per tutta la strada; poi - aggiunge Levi — non ebbi tempo di rendermi conto di quello che accadesse: il banco del pane era scomparso, i trespoli ripiegati in gran furia, le bottiglie nascoste, le sigarette infilate nei seni, lo zucchero sotto le sottane. Dentro i portoni correvano le donne, coi loro deschetti; per terra rotolavano scatole, panini, sigari, fagioli... In un attimo, a quella urlante confusione, seguì un improvviso silenzio... in quel silenzio virtuoso passarono due carabinieri”. Si tratta della classica, e un po’ stereotipata, scena ritraente la vita dei contrabbandieri e venditori abusivi, abili nel far scom-

parire ogni traccia della loro illecita attività, non appena, subito dopo la guerra, correva voce che passava la Legge. Sono scene a cui è abituato chiunque abbia una qualche dimestichezza col 33

/

teatro di Eduardo De Filippo, o con i romanzi di Annamaria Ortese, Domenico Rea, Giuseppe Marotta o certo Moravia, oppure abbia conoscenza di alcuni film neorealisti di quegli anni. Nulla di nuovo, dunque, nelle pagine di Carlo Levi, tranne il troppo indugiare su cose scontate e risapute, a voler ricordare e imprimere, nella mente di chi legge, che, mentre per le

strade pullula la vita vera, in tutte le più diverse e naturali componenti, altrove, nel Palazzo, astutamente e grottescamente, si

decide per tutti, in un meschino gioco di furbizie e di sottigliezze sofistiche. In tale contesto, la visione leviana — come si è già avuta occasione di accennare - sembra indulgere ad una sorta di dualismo manicheo, perché troppo netta è la distinzione tra le forze che si adoperano per il male e quelle che, invece, operano per il bene. E un contrasto ìmpari, in quanto troppo pochi sono ancora i buoni, o, meglio, troppo ingenui essi sono nella loro altruistica generosità. E in questa logica che Carlo Levi elabora la troppo citata distinzione tra Luigini e Contadini. “Chi sono i Contadini? — si domandava. - Sono, prima di tutto, i contadini: quelli del Sud, e anche quelli del Nord: quasi tutti” coloro i quali rappresentano “l’oscuro fondo vitale di ciascuno di noi”, cioè l’umanità più autentica e più vera. Per logica conseguenza, contadini sono anche tutti coloro i quali, qualunque sia la loro condizione sociale ed economica, non hanno perduto o semplicemente smarrito la propria umanità. Questa, fondata su antichi valori di giustizia, di dignità e di amore verso sé stessi e gli altri, alimentano del loro lavoro e della propria capacità di produrre. Essi si battono per una società diversa, costruita sulla ragione e sulla libertà. Contadini, pertanto, possono essere anche 1 baroni, quelli veri e autentici, “con il castello in cima al monte”. Possono esserlo, e lo sono, anche gli industriali, gli

imprenditori, i tecnici della piccola e media, ma anche grande industria, gli artigiani, icommercianti, i medici, e tutti, purché

non vivano “di protezioni, di sussidi, di colpi di borsa, di mance governative, di furti, di favoritismi, di tariffe doganali, di

contingenti, di diritti di importazione, di privilegi corporativi”. A queste condizioni, possono definirsi “contadini”, anche i

cosiddetti “intellettuali”, purché, “progressivi” alla maniera di 34

Piero Gobetti, Giustino Fortunato, Gramsci, Guido Dorso ed

altri, abbiano sognato e si siano battuti per un mondo più giusto. Sull’altro versante, ovviamente, si collocano gli altri, cioè i

Luigini, che hanno smarrito o perduto la loro dignità di uomini, non avendo alcun rispetto né di sé né degli altri. Sono i burocrati e gli statali, i bancari e gli impiegati di concetto, gli avvocati e i poliziotti, iprocaccianti e gli studenti, gli industriali eicommercianti, gli stessi operai e contadini, del Nord o del Sud, quando essi si siano lasciati corrompere dalle mance e dalle paure, o si siano affidati alla carità. Insomma è la lunga schiera dei parassiti, che, in un modo o nell’altro, vivono del lavoro

degli altri, approfittando della loro posizione di potere, o vendendosi ai potenti, si chiamino questi comunisti e socialisti, repubblicani e democristiani, qualunquisti e fascisti. Naturalmente, ci sono anche gli intellettuali, tra i Luigini; e

sono quelli non “progressivi”, che, appartenenti all’“eterna Arcadia” italiana, vivono di premi letterari concordati, dei com-

promessi con il potere politico, di recensioni dettate, di reciproche citazioni e altro. Ma, proprio perché la casistica è così varia, essa è anche molto sfumata. Lo stesso Carlo Levi, per

bocca di un “luiginismo”. anche molto, [loro] lingua luiginismo si

suo personaggio, si confessa non immune da “Sono anch’io un po’ Luigino - egli confessa —: moltissimo, se voglio. Conosco troppo bene la per non adoperarla all’occasione”. E poiché il annida in ognuno di noi e in secoli di storia na-

zionale, la vittoria dei Contadini è difficilissima, ancorché essi

abbiano compiuto una prima rivoluzione attraverso la Resistenza; ma anche di questa, ormai, i Luigini si sono impadroniti, pensando, in tal modo, di averla bella e addomesticata.

A questa linea interpretativa obbedisce, in fondo, tutto il complesso svolgimento dell'Orologio, che si muove, con scarsa capacità creativa e costruttiva, di divagazione in divagazione, quasi a zonzo, in una realtà molteplice e caleidoscopica, di cui poteva sfuggire e può sfuggire il senso vero e ultimo. Di qui, all’inizio del libro, ma non del racconto (ché racconto non c’è), la trovata dell’orologio, che, cadendo di mano allo scrittore, e

rompendosi, lo costringe a liberarsene, per consegnarlo nelle 35

mani di un orologiaio, che dovrebbe ripararlo. Ma l’“astuzia” non basta a dar vita poetica ad una materia, che rimane troppo immediata e urgente, cioè tutta appartenente, ancora, al mondo della cronaca e dei propri sentimenti e risentimenti politici. Liberandosi dell’orologio, Carlo Levi pensava di uscire dal reale, per entrare nel mito, ove si celebra il senso della poesia,

cioè il senso universale delle cose. E invece, nonostante un promettente e rapido avvio, che fa pensare ad una narrazione disinvolta e sbrigativa (“Avvolsi con cura l’orologio in un foglio di carta velina, e mi affrettai a uscire, per le vie di Roma, alla ricer-

ca di chi sapesse accomodarlo”), presto la rappresentazione sbava in tutte le direzioni, come quando il colore, troppo liquido, si rifiuta di obbedire al dominio del pennello. Allora si scopre una indulgenza stanca e smodata al descrittivismo più minuzioso, di cui si potrebbero citare esempi su esempi. Si prendano, tra questi, le numerose pagine, circa ottanta, dedicate al

viaggio Roma-Napoli e ritorno, compiuto attraverso le campagne e i paesi semidistrutti dell’immediato dopoguerra. O si prendano le numerose e lunghissime descrizioni e presentazioni di palazzi e scalinate della Roma barocca, o i compiaciuti ritratti fisici di questo e quel personaggio, che mai hanno caratterizzazione psicologica. E se anche è da ammirare l’arguzia luminosa della singola trovata, o la perfezione del dettato, 0, soprattutto,

l’impeccabile cura della punteggiatura, e il ritmo del periodare che ne consegue, non per questo, per semplici artifici della parola, la cronaca poteva diventare fiaba. Diversa era stata la condizione del Cristo si èfermato a Eboli, in cui si rappresentava un mondo che, di per sé, viveva nell’ambiguità dell’accaduto e del non accaduto. Calato in quel mondo, Carlo Levi si era sentito in perfetta sintonia, fino alla identificazione. A Roma; invece, tutto era stato diverso, ed anzi

opposto. Una barriera si era innalzata fra lui e il mondo rappresentato. E inutilmente egli cercò di penetrarla e dissolverla, affidandosi alla magia dell’eloquio. D’Annunzio aveva fatto lo stesso. Ma D'Annunzio, giustamente, non piaceva a Carlo Levi, perché, dietro l’eloquio, trovava la retorica. Purtroppo, però, e non di rado, Carlo Levi si compiacque di sé stesso. 36

CIACRL ICI OMTOMI

IE RIZIO

Le parole sono pietre

(1955)

Tutto sommato, migliori esiti che nell’ambizioso Orologio furono conseguiti con il più modesto Le parole sono pietre!, ove, abbandonata l’idea di fare letteratura creativa, lo scrittore si prefisse di fare soprattutto buon e godibile giornalismo. Tra mito e cronaca, cioè, egli preferì la cronaca, dando alla pagina la rapidità necessaria per comunicare immediatamente, secondo l’urgenza della denunzia e della passione sociale, o, comunque, se-

condo la pensosità dell’uomo in cui, a dispetto della sua origine aristocratica o alto-borghese, il cuore batteva dalla parte degli umili e dei sofferenti. E ne guadagnava la stessa efficacia e suggestione letteraria, ancorché non poetica. Pubblicato nel 1955, il libro raccoglieva il resoconto o corrispondenza di tre viaggi compiuti in Sicilia. Il primo si era verificato nel 1951; nel 1952 c’era stato il secondo; il terzo, infine, era

caduto nel 1955. Dei primi due viaggi i resoconti erano stati già pubblicati; il resoconto del terzo, invece, era ancora inedito. A

premere perché i tre testi fossero raccolti in volume, era stato l’editore Einaudi, sia per le profonde ragioni di amicizia che lo legavano allo scrittore, sia, soprattutto, per il sicuro successo commercia1 C.LEVI, Le parole sono pietre, Torino, Einaudi, 1970, da cui, quando man-

chino altre indicazioni, sono tratte tutte le citazioni del presente capitolo. 37

le, a cui, a quell’ epoca, erano destinati tutti i libri di Carlo Levi. Ovviamente, scritti in tre momenti diversi, itre testi erano anche diversi nel contenuto e nello stile, perché risentivano di alcuni processi evolutivi, che, pur lenti, segnavano le riflessioni dello scritto-

re, soprattutto in coincidenza con certi eventi politico-sociali e culturali, sia di carattere nazionale, sia di carattere internazionale. I primi due testi, a dire il vero, erano sostanzialmente affini,

perché ripetevano, nelle linee generali, i motivi ideologici fondamentali che avevano ispirato il Cristo st èfermato a Eboli. A leggere i primi due testi, infatti, ritorna il motivo della sostanziale immobilità della Sicilia, come del Sud e della Lucania. Del resto, Carlo

Levi lo confessa esplicitamente, quando, nel 1951, avvicinandosi al paesino di Isnello, osserva come gli tornassero agli occhi “le immagini familiari di un paesetto lucano”. Anche Isnello, come Aliano, di fatto, “non 4veva avuto”, almeno fino al momento del viaggio

di Carlo Levi, “altra storia che preistorica. Il tempo vi era passato senz’altri avvenimenti che il mutare dei signori feudali”. Anche la storia di Isnello, insomma, era “una storia... senza storia”. Non diversa sensazione Carlo Levi ebbe, l’anno successivo, nel 1952, avvicinandosi a Freddi Lercara. “Tutto - scrive — an-

dava avanti nella immobilità più assoluta: i giorni e gli anni si seguivano uguali, poiché nulla è più stabile, sicuro e immobile che il regime feudale”. Pure, però, qualche differenza, almeno nelle parole appena citate, era dato cogliere fra il mondo di Aliano e quello toccato a Freddi Lercara, ove, se non altro, l’im-

mobilità non coincideva più con la astoricità o preistoricità, ma con un particolare momento storico, quello feudale, a cui si era rimasti, per secoli, immutabilmente legati. Ma, durante la visita a Freddi Lercara, si registra anche qualcosa in più, che non è un impercettibile movimento, ma un

vero e proprio scossone, per quanto occasionale e imprevisto. Fra accaduto che, il 18 giugno del 1952, “un ragazzo diciassettenne, Michele Felice, un ‘caruso’ che lavorava nella miniera”, era stato “schiacciato da un masso caduto dalla volta di una

galleria, e morì”. Altre volte erano successi fatti del genere; ma era stato come non fosse successo nulla. Quella volta, però, era

scoppiata una imprevedibile protesta, cui aveva fatto seguito uno 38

sciopero, che avrebbe colto, nel tempo, risultati clamorosi, per-

ché avrebbe segnato la fine del padrone della miniera, cioè di un pezzo di feudalesimo. Era così che Carlo Levi si preparava all'ultimo clamoroso episodio della morte di Salvatore Carnevale, il sindacalista che, militante di un partito e di una organizzazione operaia, affrontava la lotta a viso aperto, contrapponendo, ad un potere consolidato, un potere nascente. Naturalmente, a seconda dell’ottica ideologica in cui lo scrittore si poneva, ne nasceva una scrittura necessariamente diversa. Il senso della immobilità si traduceva inevitabilmente in una rappresentazione mitica, che si intesseva di antiche leggende e favole. Il cielo di Sicilia, l'azzurro del cielo e la sua luminosità,

ma anche le montagne e le campagne, riconducevano alla Magna Grecia, perduta per sempre. Riaffioravano alla mente le descrizioni di Omero, le battaglie dei Giganti contro Giove, i mitici mostri di Scilla e Cariddi. A questo mondo di sogno, che costituisce l’unica forma di salvezza per chi sopravvive alla realtà, si contrapponeva la brutalità del presente, antico e perdurante, come si è detto, dall’età feudale.

Come ad Aliano e a Matera, il segno della immobilità nella miseria era dato soprattutto dalle mosche, quelle “pigre, pazienti del principio dell’autunno, vincitrici di tante battaglie, in sciami innumerevoli”. A tutti gli animali di Isnello era stato interdetto, con bando, di aggirarsi per le strade. Era il giorno in cui il sindaco Impellitteri, sindaco di New York, ma nativo di Isnello, tornava in

visita al suo paese natale, da cui si era allontanato piccolo e povero. Le mosche, però, non obbedirono al bando, perché, imperterrite,

entrarono persino nella chiesa del paese, una chiesa del Quattrocento, “antica moschea, forse per rendere anch’esse omaggio al sindaco e a Dio, volando a migliaia nell’aria piena delle note dell’organo, e posandosi ostinate sul volto dei fedeli, sulle autorità inginocchiate, sui giornalisti americani, sulle macchine dei fotografi, sui poliziotti, sui motociclisti col casco, e perfino sul bel viso 2 Il corsivo di mosche e moschea non è nel testo. Evidente è il gioco di parole che, come spesso accade in Carlo Levi, assume, contemporaneamente,

significato letterale e significato fonico-simbolico. 39

profetico e sulla grande barba bianca di un illustre frate isnellese”. La miseria - avrebbe detto Verga nel suo denso linguaggio — si tagliava a fette. E Levi, nel rappresentare quel mondo, toccava effetti tragici e risentiti, a volte anche amaramente umoristici, che, se abbandonavano i toni fabulosi, pur prediletti e più

congeniali, non mancavano di forza e vigore narrativo. A Bronte, in contrasto con la storia mitologica di “quel Bronte Ciclope che coi compagni Sterope e Arge fabbricò, al dire di Esiodo, la folgore di Giove”, la miseria è sconvolgente, e, se è possibile, ancor

più repellente di quella conosciuta, anni prima, nei Sassi di Matera. “Per terra, nelle strade, nei cortili in pendio, scorrevano, per mancanza di fogne, le acque putride, e il tanfo prendeva alla gola. Le case, se così si potevano chiamare, erano tane dove pioveva dai

tetti di canne, affumicate, spoglie, senza finestre, dove in pochi metri quadrati vivevano accatastate otto, dieci, dodici persone”. Proprio come a Matera, anche a Bronte “i bambini, dagli splendidi visi di angeli, 4«vevano le pance gonfie per la malaria”. Lo spettacolo si ripete un po’ dappertutto, ogni qual volta si lasci la visione mitica del cielo, del mare, dei templi antichi e

del sole, e si entri nei vicoli dei paesi. A Trappeto avviene l’incontro con Danilo Dolci, il filantropo e sociologo triestino, che, in quegli anni, dedicava la sua vita al riscatto della Sicilia più povera. Con lui, nella zona del Vallone - racconta Carlo Levi - furono percorse “le strade miserabili e puzzolenti; entrammo nelle case senza pavimento, piene di mosche e di acque putride, rivedemmo, ancora una volta, come in tanti altri vil-

laggi e paesi del Sud, la grigia faccia della miseria; gli uomini senza lavoro, ‘disfiziati’, senza volontà e desideri, le madri senza latte, i bambini denutriti e ridotti a scheletri”.

Per anni, l’unica forma di fuga e di libertà da tale realtà era stata, secondo la favola popolare e contadina, come in Lucania, l’emigrazione in America, terra della ricchezza e della fortuna,

della felicità e della libertà. E proprio intorno a questo motivo del “paradiso americano” ruota tutta la prima parte del libro, dedicata - come si è accennato — al ritorno nel suo paese natale, cioè a Isnello, del signor Vincenzo Impellitteri, ormai meglio conosciuto come “Mister Impy”, che, come nella antica favola, 40

partito bambino povero e ignorante, vi ritornava ora ricco, grande e famoso. Intorno alla sua macchina si affollavano donne, bambini, uomini del paese, ognuno per toccarla, in modo che,

come succede a toccare le reliquie dei Santi, a ciascuno potesse spettare la stessa grazia di andare, chissà, in America, a trovarvi

la stessa felicità. Un Santo o quasi un Cristo era quindi considerato Vincenzo Impellitteri, figlio del calzolaio, come Cristo era

stato figlio del falegname. Il Regno dei Cieli è aperto a tutti, era stato detto da Cristo; e Vincenzo Impellitteri, parlando di sé,

del suo destino e dell’ America, aveva elogiato la democrazia e la libertà di quel grande paese, ove, a differenza che nella Sicilia,

“è possibile — disse —, anche per i ‘carusi’, essere il sindaco di Roma o il capo d’Italia o il sindaco di New York”. “Questa è democrazia e libertà — aveva concluso. —- Qui ero battezzato e oggi sono il sindaco della più grande città del mondo. Viva la Sicilia, viva l’Italia, viva gli Stati Uniti d’America!”. Muto e ironico, ma anche amaro e affettuoso osservatore,

Carlo Levi guardava gli effetti che le mitiche parole suscitavano nella folla, abbandonandosi ad uno dei suoi tipici passaggi lirici, che bastano da soli a riscattare una pagina intera: “Sotto il balcone, nella strada, sotto il sole e il volo delle mosche — anno-

ta — tutti erano felici, tutti erano... nel Paradiso Terrestre”. Eppure Carlo Levi ritiene che dal mito, per quanto consolatorio possa essere, bisogna evadere, se si vuole uscire dalla questione meridionale e dal sottosviluppo. Tale è il senso del resto del libro, che, perciò, in modo evidente, si distacca da alcune ambi-

guità ideologiche del Cristo si èfermato a Eboli. Non il fato ha deciso l’inferiorità del Sud; e perciò non con la fuga, o nel sogno o nell'America, ma con la lotta, tale inferiorità andrebbe risolta. Carlo Levi ha idee abbastanza chiare, ormai, circa le

ragioni storiche di tanto degrado. Esse, come si è detto, andavano rintracciate nel permanente sistema feudale. E ha chiare idee anche circa le responsabilità storiche, che sono della classe politica baronale e della Chiesa, da sempre alleate nell’esercizio del proprio prepotere sulle masse contadine. Chiesa e castello, come nel Medioevo, puntualmente svettano sui paesi, giacenti ai loro piedi. 41

Pare, questa, un'immagine “araldica della Sicilia feudale, troppo semplicistica, troppo simbolica per essere vera” — osserva Carlo Levi. Eppure nulla è più vero di “quei due soli neri profili verticali, stagliati sul cielo, come i segni del potere, più

protervo e alto il primo, sottomesso e aguzzo il secondo, e, in mezzo, quasi inesistenti, nelle casupole confuse con la terra, i

contadini”. La conferma si avrà poco dopo, ascendendo verso il castello di Sciara, descritto con toni foschi, qua e là riecheggianti quelli usati dal Manzoni nella rappresentazione del castello dell’Innominato. E un edificio minaccioso. “L’alta roccia a picco su cui è costruito e le siepi spinose di fichi d’India che lo circondano gli danno un’aria militare e grifagna, come una rocca segreta e imprendibile, un luogo di separazione sanguinosa, e di disprezzo. [...] E chi sta sotto, su quelle soglie, in quelle case, sente sopra di sé gli occhi di quell’uccello da preda appollaiato”. E tuttavia contro quel simbolo, così storicamente vero, ormai si muove una nuova forza, nuove parole, che sono come

pietre. Sono le parole d’ordine del socialismo, del partito, delle masse organizzate, che cercano di costruire un nuovo futuro, che abbia, se è possibile, un cuore antico. Il simbolo vero di

questo nuovo mondo è Salvatore Carnevale, caduto sotto il fuoco del nemico. Si tratta, se si vuole, di una battaglia perduta; ma una battaglia non è una guerra. Chi ha ucciso Salvatore Carnevale è come se avesse ucciso Cristo, cioè un uomo che porta una rivoluzione nella storia e nei rapporti fra gli uomini. Ed è seme il sangue dei Cristiani — aveva scritto Tertulliano. Il popolo, ormai, ha capito che la salvezza non è una utopia, ma una

salda certezza. Di ciò, a parere di Carlo Levi, si è fatta interprete Francesca Serio, la madre di Salvatore Carnevale, così diversa dalla madre di Rocco Scotellaro. Non è infatti, il suo, “il lin-

guaggio poetico della madre lucana che raccontava la vita del figlio morto: è [al contrario] un linguaggio di rivendicazione, di oratoria, di discussione, un atto di accusa, è un linguaggio di partito”. E come dire che, dal lamento di Francesca Serio, esce “una risposta politica, legata all’idea di una legge comune che è un potere a cui ci si può appoggiare, un potere nemico del potere: il Partito”, appunto, secondo una ideologia largamente 42

gramsciana. Tutto è ormai chiaro, dunque, nel cammino ideologico di Carlo Levi. Con questo, ovviamente, non si vuole assolutamente dire che migliorino la poesia e l’arte, le quali seguono sempre cammini imprevedibili e misteriosi. Lo stesso Carlo Levi si rende conto di non aver scritto nulla più di un saggio politico, o semplicemente giornalistico. Non era, il suo, come aveva scritto nella prefazione, “un libro concepito in partenza con una sua struttura narrativa, né era nato da uno schema preordinato, o

da una intuizione unica e fondamentale”. Invitava perciò il lettore a non cercarvi nulla più se non un “racconto di tre viaggi in Sicilia e delle cose di laggiù, come possono cadere sotto l’occhio aperto di un viaggiatore senza pregiudizi”, anche se, con quel pizzico di vanità che gli era propria, aggiungeva subito dopo, con falsa modestia, che, se “per avventura” il lettore vi avesse trovato qualcosa in più del semplice resoconto di tre viaggi, poteva accoglierlo “come qualcosa che gli era dato per soprammercato”. E, in più, il lettore poteva trovarvi lo splendore dello stile, sempre impeccabile nel giro luminoso e armonioso del periodo, e sempre ben scandito da precise pause ad effetto; ma vi poteva trovare anche - bisogna dirlo - l’abuso della bella pagina e delle descrizioni ricercate, talvolta, come nell’Orologio, noiosamente protratte. E anche se l’intento pubblicistico, di per sé, faceva da naturale freno alla tentazione retorica, pure questa diventava, in alcuni momenti, troppo invadente. Tale è il caso, per fare un esempio fra gli altri, della descrizione dei fuochi d’artificio in onore di Santa Rosalia, a Palermo. I giochi delle luci, il barocco combinarsi dei colori, gli ef-

fetti sonori erano, per Carlo Levi, già al tempo della sua permanenza ad Aliano, inviti stuzzicanti a fermarsi e compiacersi delle proprie capacità rappresentative. Ma un invito stimolante erano anche i paesaggi siciliani, i volti, la folla, su cui egli indugia-

va più di quanto fosse necessario, tra ricalchi e reminiscenze letterarie, spesso banalmente scolastiche. Le note di poesia, perciò, sono piuttosto rare, e rintracciabili solo in qualche felice passaggio disincantato e assorto, coincidente con momenti di pensosa rappresentazione. Prima o poi bisogna rassegnarsi a 43

definire Carlo Levi poeta contemplativo, o del mito; ma è anche vero che sempre, nel contempo, egli è profondamente segnato dalla pietà per i vinti della società, 0, se si preferisce, per gli umiliati e gli offesi. Questo spiega perché le pagine di più fusa poeticità, in Le parole sono pietre, sono da trovarsi tra quelle — non numerose, in verità — dedicate ad Aci Trezza e alla rievo-

cazione del miserabile mondo verghiano, che, per essere filtrata attraverso la letteratura, o attraverso il cinema di Luchino Vi-

sconti (che vi aveva girato La terra trema), ha, di per sé, il fascino dell’incanto e del sogno. Levi, insomma, in questo caso almeno, come Vincenzo Monti, diventava poeta della letteratura. Già sin dall’inizio, la visita ad Aci Trezza assumeva tutto il

fascino e la suggestione della fantastica rivisitazione. “Ci eravamo fermati - narra Carlo Levi - appena scesi dall’automobile, sotto le prime gocce di pioggia, sulla piazza di Aci Trezza, a guardare la facciata della chiesa di san Giovanni”. A causa della pioggia, che si faceva sempre più fitta, i viaggiatori si rifugiarono nella trattoria del paese; ma, immediatamente, alla realtà

sensibile se ne sovrappose un’altra sognata, passata attraverso l’arte del Verga. “Pensavamo - racconta Carlo Levi —, entrando, alla Santuzza con la sua medaglia di Figlia di Maria, allo zio Santoro, il cieco sull’uscio con il bastone, al povero ’Ntoni

Malavoglia cacciato dall’osteria come un cane rognoso. Pensavamo a Verga, e dentro c’era Visconti”. Ad Aci Trezza — grazie a Verga -, come ad Aliano, l’arte era realtà e la realtà era arte.

Era quasi ovvio che, uscendo dalla trattoria, i viaggiatori si imbattessero in un artista, cioè in un pittore, che “aveva alzato il

suo cavalletto e si adoprava a finire un quadro colorato di barche”. Le quali, nell’arte come nella realtà, “erano in secco sulla spiaggia tra le grandi pietre violette e levigate, l’una vicino all’altra, sì da rendere difficile il passaggio”. Quel mondo di barche veniva da lontano, ed era stato testimone di storie di cui favoleggiò la mitologia. Guardando infatti quel mondo, “e il mare tornato verde e azzurro sotto il sole”, il

pensiero di Carlo Levi vagava a evocare “i Faraglioni bizzarri che i Ciclopi scagliarono dall’Etna dietro a Ulisse fuggente”. E ritornavano le immagini, epiche e tragiche nello stesso tempo,

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della Terra trema: “Pensavamo alle ragazze dell’osteria, diventate, nell’opera di Visconti, sulla sciara, davanti al mare, coi loro

grandi scialli neri agitati dal vento, più che anime del purgatorio, meravigliosi e atterriti uccelli infernali”. Insomma, “ogni cosa ... richiamava un’immagine: l’Odissea, IMalavoglia, La terra trema”, in una fantastica contemporaneità dei tempi. Fra quanto coglieva, d’istinto, una donna straniera, arrivata ad Aci

Trezza forse come vi arrivò la bella signora milanese, di cui parlò Verga in Fantasticheria, o come lo stesso Levi arrivò, catapultato, ad Aliano. Dal distaccato osservatorio della sua cultura straniera, come lo era quella di Levi in Lucania, la giovane signora poté credere che ad Aci Trezza si passava “in mezzo ad un popolo di Dei, tanto era chiaro in ciascuno che il suo viso, i suoi gesti, le sue vicende, il suo destino erano come eter-

namente fissati e eterni, non seguendo una storia individuale volontaria e capricciosa, ma uno stile o un costume a tutti comune e immutabile, brillante soltanto di grazia diversa in ciascuno”. Ad Aci Trezza, insomma, tutto sembrava “essere sem-

pre stato così e che sempre sarà così”. Si ha l'impressione, talvolta, passando attraverso siffatti squarci, di leggere alcune pagine dei Dialoghi con Leucò di Pavese; ma, guardando il mare luminoso e azzurro, e pensando alla Terra trema di Luchino Visconti, Carlo Levi non rinunziava a

vedere l’alba su quel mondo. Al mito, pur poetico, egli, a differenza di Pavese, contrapponeva la storia, che, senza negare le

ragioni profonde della poesia, potrebbe e anzi dovrebbe inaugurare un’epoca moderna, che sia di giustizia e libertà. Così, lasciando il sogno e andando verso la cronaca, egli si avviava verso Sciara, dove un uomo, come si è detto, uscendo dal desti-

no e ribellandosi ad esso, era morto per una causa antica e nuova. Cominciava la cronaca dell’assassinio di Salvatore Carnevale, che, col suo martirio, secondo la fede di quegli anni di neorealismo e di lotte, avrebbe dovuto preparare il ritorno dell’uomo all’uomo, proprio come era accaduto nelle lontane terre dell’Unione Sovietica, dove, grazie al socialismo, era nato un

nuovo antico futuro.

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CLASPARITOSLO

MONUZATRATAO

Ilfuturo ha un cuore antico

(1956)

Nell’ottobre-novembre del 1955, Carlo Levi faceva un viaggio in Urss, dove era stato appena tradotto il suo Cristo si è fermato a Eboli. Dal racconto del suo viaggio si apprende che, nella valigia, tra le carte, portava le bozze di Le parole sono pietre, che ancora non aveva tale titolo. Un giorno, partecipando presso l’istituto Gorki} ad un seminario di scrittori sovietici, un giovane russo, che aveva letto Cristo si èfermato a Eboli, gli chiese “se l’ideologia che vi era esposta fosse sua [cioè di Carlo Levi], o se fosse quella che muove spontaneamente i contadini”. Aggiungeva che “l’unica critica, che egli si sarebbe permesso di fare” all’autore, era che “forse la realtà” descritta in quel libro non era più attuale. Si preoccupava tuttavia di aggiungere che, a veder bene, non una vera critica egli intendeva muovere, quanto, piuttosto, un “invito a scrivere un altro libro”, che, appun-

to, prendesse atto del fatto che Cristo non era più fermo ad Eboli, ma, anzi, era in pieno cammino tra i popoli oppressi. L’accompagnatore di Levi, che faceva da guida allo scrittore torinese, come Virgilio a Dante, traducendo il pensiero del giovane, si affrettava a rispondere per conto di Levi stesso, preannunciando che quel libro era già bello e scritto, ed era in bozze. Si trattava, appunto, di Le parole sono pietre, che l’autore, da un lato considerava come la continuazione del Cristo si è 46

fermato a Eboli, dall’altro poneva come premessa a Ilfuturo ha un cuore antico". Se, infatti, il Cristo si è fermato a Eboli era la

registrazione dell’immobilità del mondo contadino e Le parole sono pietre era l'annuncio di una rivoluzione irrimediabilmente avviata, Il futuro ha un cuore antico era la celebrazione di tale rivoluzione, che, realizzatasi in Russia, era un esempio pronto

a diffondersi in tutto il mondo. Ed era una rivoluzione antica o, per meglio dire, “dell’antico”, nel senso che essa portava alla luce e al trionfo le più remote e naturali aspirazioni dell’uomo, che dell’uomo sono parte integrante e, anzi, sostanza. Nella convinzione di Levi, infatti, quella Lucania d’amore,

libertà, giustizia e lavoro, che albergava e alberga al fondo del cuore umano, e fa parte della massa originaria, finalmente era entrata e si era realizzata nella storia. Perciò, si trattava di una

rivoluzione ben particolare, che poteva definirsi come una “rivoluzione della conservazione”, in quanto in essa si erano, sì,

“rovesciati i rapporti politici e sociali”, ma sempre si erano conservati “il costume e i sentimenti”. I sovietici, anzi, essendo gli unici, in Europa, ad aver operato una rivoluzione di tal genere,

di fatto erano diventati i custodi stessi della più autentica tradizione, e quindi dell’anima europea, ruotante intorno a “poche verità ideali”, ma essenziali per la vita individuale e collettiva.

Si trattava di “quella semplicità, quell’ingenuità, quell’onestà, quella pulizia morale, quella timidezza, quella volontà di bene”, che non rimangono chiuse in sé e sterili, come ancora succedeva nel mondo reale e arretrato della Lucania, ma ambiscono a realiz-

zarsi e a cambiare il mondo, “raccogliendo insieme i miti del progresso, l'ottimismo della ragione, il positivismo, la fede nella scienza, il gusto per l’arte verista e naturalistica”, insomma tutto quanto

contribuisce a rendere la società più giusta, più pacifica e più buona, pur nell’avanzamento tecnologico ed economico. Non è vero, dunque, quello che, pure, ebbero a dire quanti,

a suo tempo, criticarono Levi, rimproverandogli che egli fosse rimasto fermo all’idoleggiamento del mondo primitivo o prei1 C.LEVI, Ilfuturo ha un cuore antico, Torino, Einaudi, 1976, da cui, quando

manchino altre indicazioni, sono tratte tutte le citazioni del presente capitolo. 47

storico, negandosi al progresso. È vero, invece, che egli fu sem-

pre contrario ad ogni astratto modernismo, che negasse l’uomo. Nel suo futuro, cioè, fu sempre contemplata “la passione per le invenzioni e per la tecnica”, purché da esse non fossero esclusi “il rispetto religioso per la cultura, per il libro, per la scuola popolare, per l’istruzione diffusa, per l’artigianato, per i templi del sapere: le biblioteche, i musei, la mania per le statue celebrative, l’amore per gli alberi e per i giardini pubblici, gli ideali del pionierismo, della redenzione e del progresso dei popoli arretrati, la sconfitta di ogni oscurantismo...”. Fedele ad una sua lontana simbologia, ma anche ad una sua lontana convinzione, tutti questi valori antichi Carlo Levi identificò e rappresentò nella terra e, di conseguenza, nel mondo contadino. La “terra” era, per lui, il simbolo o sinonimo della

autenticità e della genuinità, come anche della produttività e della maternità. Nella mente e nel cuore di chi coltiva e ama la terra, infatti, ogni cosa è quella che è, nel senso che ad essa era

tolta qualunque valutazione aggiunta, egoistica e interessata. Il valore dell’oggetto, in altri termini, per chi ama e lavora la terra, è strettamente legato alla sua funzione e, quindi, alla sua utilità pratica. Non ha posto, nella cultura contadina, il vizio del consumismo, perché, se è vero che tutto — anche il prodotto

industriale - proviene in modo diretto o indiretto dalla terra, nulla deve andare perduto o sprecato. “La carta è la carta, e quella che c’è va bene”. Le donne, in Russia, per fare un esempio, non entravano nei

negozi con lo stesso atteggiamento psicologico con cui lo fanno in Italia e nelle cosiddette società industriali. Qui l'acquisto è piacere o noia, a seconda dell’animo di ognuno. In Russia, essendo la società socialista, era assente quel “rituale mercantile”, che significa “la scelta, la discussione con i commessi o con gli amici... la contrattazione sui prezzi... i dubbi sulla qualità e sul gusto”. Al contrario, “gli oggetti erano esposti e si compravano senza esitazione”, perché, ancor prima di entrare in un negozio, ognuno sapeva che cosa effettivamente gli serviva. Perciò, arrivati davanti alle commesse, la scelta era rapida, essendo rivolta alla sola utilità. Non importava la forma, ma solo la 48

funzione. Persino gli oggetti femminili erano scelti con tale criterio. C’era il banco ove si vendevano cappellini, che, ovviamente, erano di pochi tipi diversi. “Le donne - annota Carlo Levi —- se li misurano in fretta, se li calcano sul capo..., danno

una guardata rapida allo specchio e se ne vanno, con il loro acquisto, incalzate dalla marea delle sopraggiungenti”. Ma la terra, quale simbolo della autenticità e della genuinità, e quindi della natura e della madre, è anche simbolo che,

abbracciando tutta la vita, si estende naturalmente anche all’uomo e alla sua dignità. Cioè, al di là della condizione sociale, del sesso e della fede, ogni creatura umana, secondo l’“ideologia della terra”, essendo creatura “terrena”, in Russia veniva ri-

spettata nella propria identità. A differenza che nei paesi capitalisti, in cui al centro della vita sono i personali egoismi, si può dire, kantianamente, ma anche cristianamente, che, nella socie-

tà socialista, il prossimo era il fine e non il mezzo delle proprie azioni. Le donne vivevano come gli uomini, con gli stessi diritti e doveri, e svolgendo le loro stesse funzioni; né si faceva mercificazione della loro bellezza. Esemplare è il caso delle hostess, che, nei paesi occidentali, sono utilizzate solo per il proprio corpo; e poiché da questo si fa discendere, strumentalmente, una funzione rassicurante, si può dire che esse son pagate solo per la loro avvenenza. In Russia, invece, le hostess apparivano come persone normali, pari alle altre, tutte con le fattezze delle contadine e delle massaie. Erano, insomma, semplici la-

voratrici. All’inizio del viaggio, sull’aereo in partenza da Praga, già si notava un clima di assoluta naturalezza casalinga, come nell’antica “corriera” che arrivava ad Aliano. Non c’era “il solito quadro, così imperativo e noioso, che impone di non fumare e di

legarsi con le cinghie”. C’era, invece, un anarchico “piacere di libertà”, all’interno della quale “la hostess non passava a controllare e a distribuire, con un sorriso professionale, consigli e caramelle”. La hostess, infatti, “era una ragazza robusta e bion-

da, che sembrava una vecchia cugina, e si avvolgeva, per il freddo, in uno scialletto di lana grigia, fatto in casa all’uncinetto”. Stessa considerazione si poteva fare nell’aereo che volava verso 49

Erevan. Anche in quel caso,”la gente che si apprestava al viaggio notturno erz la più semplice gente che si possa vedere”. C'era un giovane contadino, con la moglie che era “una ragazza di campagna, chiusa nello scialle, e un loro bambino lattante, ben avvolto nelle coperte di lana”; e lei, la hostess, era “una ragazza

piccola, minuta, magra, dai capelli e dagli occhi neri, dalla pelle olivastra, dal naso sottile e aquilino, anche lei con uno scialletto grigio sulle spalle”. Quando si dice che ognuno, in terra sovietica, era rispettato nella propria identità di uomo, si vuol dire che la società russa apparve al Levi tutta fondata sul dovere, prima ancora che sul diritto. Stefano, la guida e interprete di Carlo Levi, spiegava, in forma sintetica ma definitiva, che la Russia “non era né il paradiso né l’inferno, ma un paese di uomini”, in cui si era felici,

solo perché si era riusciti a trovare “l’armonia tra la vita personale e quella collettiva”. Che è, poi, un’antica e nobile aspirazione umana, che si perde nei tempi e fu l’ideale della grande civiltà greca sotto Pericle. Ma fu anche l’antico insegnamento cristiano, che imponeva e impone che ognuno ami il prossimo suo come sé stesso, se non di più. E se la vita è dovere, è anche lavoro, inteso, ovviamente, non nel senso meramente economico e utilitaristico, o alienante, che ha nelle civiltà occidentali, ma in senso tutto etico, morale

e libero. Il lavoro collettivo, cioè con gli altri e per gli altri, era, in quegli anni, anche il motivo ispiratore della pedagogia di Makarenko, applicata sin dai primi anni della scuola materna. Il lavoro, in quella scuola e in quella società, aveva valore di per sé, anzi era esso stesso un valore. Tutti, in Russia, secondo Car-

lo Levi, al tempo del suo viaggio, sentivano e pensavano che il lavoro dovesse servire per sé stesso, come elemento liberatore,

come ideale superiore e come strumento per la scoperta del mondo e della ragione della propria esistenza. C'era, quindi, da augurarsi che, “in tutto il mondo, ogni uomo vivesse” secondo natura, cioè “del frutto del suo lavoro”. Ognuno, tornando la

sera a casa, “dopo l’onesto lavoro”, bisogna che, prima o poi, “trovi il frutto del suo lavoro, non di quello di un altro”. E c’era da augurarsi, per il bene dell’umanità, che “anche quelli che 50

vivevano del lavoro degli altri” potessero, un giorno, vivere “del proprio lavoro”. Il lavoro, dunque, escludendo ogni forma di sfruttamento,

si ricongiunge, per ciò stesso, al principio della fratellanza universale, cui, del resto, riconduce anche il concetto di terra-ma-

dre. Sul terreno politico, ciò significa il mito della pace internazionale, in rapporto alla quale non esistono più estranei o stranieri, perché tutti e tutto ci riguarda. Nella Russia socialista, al contrario che nei paesi occidentali, a nessuno è estraneo l’ubriaco, e l’emarginato in genere, che giace sul marciapiede. Né esso incute ribrezzo e disprezzo. Carlo Levi ricorda che, appena dopo il suo arrivo a Mosca, aveva notato un ubriaco sulla sua strada;

ma un milite “gli si era avvicinato, lo aveva accarezzato dietro l'orecchio, lo aveva preso sotto le ascelle, lo aveva rimesso in piedi, e se ne era andato facendo finta di nulla”. Fra come dire che il bene, nella società socialista, non si

ostentava, ma semplicemente si faceva. Il mondo russo appariva, dunque, a Carlo Levi che si aggirava sconosciuto per le vie di Mosca, contemporaneamente “estraneo e fraterno”. E sempre a Mosca, in un incontro conviviale, tra un brindisi e l’altro,

egli sentì di essere addirittura arrivato “al limite della prova, al limite dell’amicizia, dell'amore, della vita, della fraternità, di ogni cosa, al limite nel quale l’Abcasia, e l’Italia e la Russia, e

tutti gli altri paesi della terra, confinano e si confondono”. Erano momenti in cui, mentre si toccava “la pace degli spazi sconfinati”, ci si accorgeva di scoprire un sogno mai morto, proveniente dalla lontana purezza dell’infanzia. La visita alla Russia diventava, perciò, una continua riscoperta del mondo dell’età fanciulla, costantemente ritrovata. Dappertutto, in quella sorta di paradiso rinnovato che è la Russia, Carlo Levi ritrovava l’antico mondo di zio Luca, quello, cioè, “del

pudore, della felicità nascosta, del non voler essere più giovani della propria età, ... della pudica sincerità, delle invenzioni, delle palle di neve e della Mostra dell'Agricoltura” a Torino, che era il momento culminante e più alto della civiltà e del trionfo contadino in Piemonte. Qualcosa di simile si era realizzato anche con la rivoluzione d’ottobre in Russia. C’era solo da augu51

rarsi che la stessa cosa si realizzasse, prima o poi, in tutto il mondo. Era, ancora una volta, il trionfo della terra, ed era la

felicità. Non per niente all’Esposizione dell'Agricoltura di Mosca si arrivava come ad una grande festa, da tutte le parti dell’Unione Sovietica, vecchi e giovani, uomini e donne, “per

sentirsi fieri di sé, per parlare di sé attraverso quel grano, quell’uva, quelle mele, e anche per visitare Mosca, e fare [gli] acquisti e girare per le strade, non come turisti o curiosi, ma senten-

dosi parte attiva nel cuore della città e della nazione”. Ma l’Esposizione dell’ Agricoltura, essendo una festa, era anche, come insegnava Pavese, un simbolo e, quindi, una gran-

de realtà, di cui partecipavano tutti. In Russia, infatti, col trionfo della civiltà contadina, anche gli intellettuali erano contadini e figli della terra. Il segretario dell’Unione Scrittori e direttore della “Literaturaja Gazeta” era un “giovane bruno, robusto, i grandi occhi neri lucenti, e un aspetto di contadino di Cerignola, che ... ricordava quello di Di Vittorio”. Un altro scrittore, “magro, olivastro”, portava un “cappello di paglia sulla nuca”. Non è meraviglia che ad FErevan, in Armenia, “su un banco, tra quel-

li della frutta, dei formaggi e del pane dei pastori, si verdessero i libri, libri russi, libri armeni, romanzieri e poeti”. Il tutto veni-

va spiegato e felicemente riassunto dal direttore di un colcos, che, con fierezza, raccontava i miracoli della rivoluzione socia-

lista. “Da noi - diceva - il contadino, e l’operaio, e lo studioso vivono del frutto del loro lavoro: sono tutti uomini della terra: sono uomini forti”. E poiché si rifacevano alla terra, da essa traevano la forza. Come aveva già favoleggiato la mitologia greca, chi tocca la terra è come se tocchi la madre e attinga alle sorgenti della vita. Non per nulla si raccontava di Anteo che, nella sua lotta contro Ercole, tutte le volte che toccava la Terra,

cioè la madre, ritornava forte ed energico come prima. Ed Ercole in tanto poté stritolarlo, in quanto lo tenne sollevato dalla terra, cioè lontano dalla madre. Insomma, muore solo chi si allon-

tana dalla natura, dalle proprie origini e dall’antico. E muore nel senso psicologico e morale, fino ad essere infelice, come,

prima o poi, lo è l’egoista. Tra simili incontri e simili immagini di schiettezza e sempli952.

cità, il pensiero di Carlo Levi correva inevitabilmente ad altri sogni di innocenza e di bontà, di candore e felicità. Erano, ancora una volta, come già si è accennato, quelli del suo Piemonte

dell'inizio di secolo, pieno di attese e di speranze, quando — racconta Levi stesso — egli “and4v4, tenuto per mano da suo nonno, nascosto sotto il suo mantello, tra i padiglioni ingenuamente sfarzosi dell'Esposizione Internazionale del 1911”. Erano anche i tempi della nonna e dei cibi casalinghi, come “i grasselli d’oca”, che, per una strana ma significativa coincidenza, avevano lo stesso nome che in Russia. Ed erano i tempi della mamma, della “materna cucina”. Persino i tratti del viso dei russi, a volte, ricordavano quelli dei familiari, e cioè il “naso

diritto dall’attaccatura larga, e degli occhi distanti, leggermente obliqui, un po’ infossati”. Né, queste, erano finzioni letterarie, dettate a Carlo Levi dal suo estro immaginativo. Erano, invece, sincere e autentiche con-

fessioni. Lo testimoniano le lettere affettuose, che egli scriveva da Mosca e da Leningrado a Linuccia Saba, nelle quali, qua e là, si ripetevano le stesse parole del libro, e viceversa. “Linuccia carissima, mia adorata - scriveva il 17 ottobre 1955. - Eccomi a Mosca,

finalmente. [...] Sono al primo piano, in un appartamento grandissimo, con pianoforte, televisione, radio, frigidaire, tavoli con

tappetini di velluto fiorato”, che ricordano via Bezzecca a Torino, cioè la casa natale. “Dalle finestre — aggiungeva — vedo la folla sulla strada, nel centro della città, a due passi dalla Piazza Rossa. Il tempo è bellissimo, un po’ quello dell’inverno di Torino, quando è dolce; e stamattina, uscendo dalla casa dell’Unione degli

Scrittori, ... mi pareva proprio di essere a Torino, anche per la pace protettiva e il silenzio delle strade”?. Da Leningrado, in data 26 ottobre 1955, comunicava: “Leningrado è una città bellissima: avevo ragione di pensare che assomiglia a Torino”. Tre giorni dopo, il 29 ottobre, ancora da Leningrado, tornava sulle stesse

impressioni, con maggior precisione. “Ti scrivo a questa scrivania dell’albergo, con l’aquila, il gufo, il falconiere, e l'albero sca2 C.LEVI, L. SABA, Carissimo Puck. Lettere d’amore e di vita (1945-1969), Roma, Mancosu, 1994, p. 261.

DO

vato di bronzo. In mezzo alla piazza c’è il monumento a Niccola I con quattro figure allegoriche ai quattro lati del basamento, tali e quali a quelle dei monumenti ottocenteschi di piazza Carlo Alberto o di piazza S. Carlo a Torino”). Il viaggio in Russia era, dunque, accompagnato e, per dir così, interrotto da questi rapidi tuffi all’indietro. E si trattava, come è facile supporre, dei momenti più suggestivi del libro. C'è solo da lamentarsi che si tratti di passaggi troppo rapidi e necessariamente rari, che non possono giustificare, sul piano letterario e poetico, un libro tanto vasto. Si vuol dire che un resoconto così lungo è purtroppo appesantito da zeppe oziose e lentezze noiose, cui non può in alcun modo rimediare il momento felice o la parentesi del ricordo, che è anche il momento del distacco dalla materia urgente. Del resto, troppo pressante era la preoccupazione ideologica, se non propagandistica, che, se apparve ammirevole e coraggiosa in un momento di tanto diffuso anticomunismo e antisovietismo, poco consentiva di isolarsi fuori del tempo e dello spazio. L’orologio della storia e della cronaca, insomma, in Il futuro ha un cuore antico, rara-

mente si fermava, permettendo di librarsi nell’indeterminato. Ciò si verificava solo nei momenti di recupero del tempo perduto, oppure in poche altre circostanze, come quando lo scrittore si trovava nella scatola chiusa dell’aereo sospeso nello spazio. E proprio nell’aereo, che lo portava in Russia, cioè già all’inizio del viaggio, ad un certo momento egli si era sentito come nel cuore dell’universo, avvertendone il respiro e sentendosi tutt'uno con esso. “Ero solo” — scriveva suggestivamente, come lasciandosi cullare dai propri pensieri, che erano anche dei sentimenti. “Sotto di me —- aggiungeva —, come un vago pensiero informe, un’onda inespressa di sentimento, si svolgeva il paese sterminato, segreto di ambivalenti passioni, avvolto nel mantello

della sua storia e delle contraddittorie mitologie degli uomini” anch'esso “chiuso e celato nel buio, e nella sua grandezza”. Poi, da Mosca a Leningrado, era stata la stessa dolce sensa-

zione: “Ancora un volta - confessava dolcemente lo scrittore 3 Ivi, pp. 300-301. 54

>

mi sento solo nello spazio del cielo, in un luogo indeterminato, in uno di quei luoghi così moderni, perché lontani dagli affetti, dagli spazi reali, dal tempo, dagli altri, fatti di pura e astratta esistenza, che sono le prigioni, gli aeroplani e i villaggi della miseria”. Poi, addentrandosi nella Georgia, “le pieghe della terra, il girare dei burroni, la forma del paesaggio” avevano preso “la stessa curva intricata e rotonda dei caratteri dell’alfabeto georgiano”. Tutti si erano addormentati, anche la hostess, che,

dopo aver parlato col solerte e curioso viaggiatore, si rincantucciò, anche lei, stanca. Rimasto solo e muto, con finissimo toc-

co, Carlo Levi poteva allora annotare: “Mi pare che potrei parlare con la luna, che siamo soli, io e lei, in quel grande mondo

silenzioso”. La stessa cosa succedeva in una anonima stanzetta di aeroporto, dove i passeggeri, sconosciuti l’uno all’altro, potevano disporre di un letto, anch’esso “straniero”. E tuttavia, nell’estraneità propiziatoria, come nell’aereo moderno, anche se “il cuscino sembrava di legno [e] il piumino era scarso”, un “tepore felice”

avvolgeva lo scrittore, che avvertiva “il senso rallegrante dell’altrove; e, nella dolcezza della solitudine nel mondo, entrava in

un sonno”, purtroppo “interrotto ogni tanto da improvvisi richiami” della realtà. Tale condizione diventava avvolgente e generalizzata, in una dimensione senza discontinuità alcuna, allorquando, sul finire

del viaggio, e in sul fare del mattino, la neve venne a cadere “silenziosa di là dai doppi vetri; la strada fu tutta bianca, i passanti furono rari, il silenzio beato”. Ne derivò una sensazione di raccoglimento e di quiete. “In quella materna, protettiva e candida copertura”, la città si fece piccola e il tempo, finalmente, si fermò. La condizione era decisamente poetica, simile a quella incontrata nel mare di argilla di Aliano o nei deserti della Sardegna. “Stiamo avvolti nel bianco - scriveva Carlo Levi -, come nelle fasce della culla, ascoltando il silenzio”. Tornava ancora il

trionfo della bontà originaria, che riaffiorava in tutta la sua genuinità. I bambini, in particolare, “grassi e rosati, stavano av-

volti nelle pellicce, gloriosi camminando per mano agli ufficiali padri, i ragazzi si buttavano, ridendo, alle scivolate, le donne 55

avevano visi femminei, coloriti e ridenti, i gelati fumavano nel-

l’aria calma, le cupole di San Basilio splendevano dei colori più rutilanti...”. Si diffondeva “una grande ondata infantile di amore”, protetta e difesa dal “muro incantato” della neve, che, nella quiete della Piazza Rossa, sembrava aver rimosso ogni odio,

egoismo e individualismo. “La pace degli spazi sconfinati si spargeva sulle distanze” della campagna, “sulla pianura solitaria, nell’incanto notturno”. Si suole giustamente dire che qualunque libro si salva dalla forza corrosiva del tempo, solo perché ha realizzato la poesia, ‘che lo rende attuale e godibile in ogni età. Tra i libri di valore informativo, invece, nessuno vi è che continui ad essere letto nel tempo, anche quando abbia trovato e offerto verità, che costituiscano una svolta nel pensiero, nella scienza e nella tecnica. Dei libri di scienza, infatti, vale la conquista che essi hanno segnato sul piano pratico; poi, possono anche scomparire,

perché, per loro, parlano i fatti. Diverso, invece, è il caso del libro di poesia, che, se dovesse

scomparire, si porterebbe via la stessa poesia. Questo discorso vale tanto più per //futuro ha un cuore antico, che né è un libro poetico (tranne i pochissimi e rapidissimi slanci lirici, che si possono contare sulle dita di una mano), né — bisogna dirlo — è un libro che abbia rivelato grandi verità. Anzi, a distanza di quarant’anni, esso ha rivelato tutta la sua falsità o ingenuità, la sua convenzionalità e retoricità. La caduta del muro di Berlino,

e di tutti i sistemi socialisti, ha dimostrato quanto astratta, moralistica e pedagogica fosse l’idillica rappresentazione che ne aveva fatto Carlo Levi. Allo stesso modo che non possono non dirsi astratti e fuori luogo, per un uomo che viaggiava in aereo e godeva di tutti i vantaggi e privilegi della civiltà occidentale e capitalista, gli accanimenti, nelle ultime pagine, contro la civiltà tecnologica e progredita di Stoccolma, contrapposta ai caldi affetti di Mosca e della Russia. Tornando in aereo, dal suo viaggio nel paradiso socialista, la prima tappa di Carlo Levi fu appunto Stoccolma, che, come primo impatto con la civiltà occidentale, si poneva come un naturale e stridente termine di paragone e di contrasto con la 56

realtà sovietica, quasi come la caduta dal Paradiso all’Inferno 0, se si preferisce, dal mito alla storia, dall’infanzia alla vecchiaia.

In termini politici, era il precipitare dalla civiltà russa a quella americana. E proprio ai motel americani faceva pensare il primo albergo utilizzato a Stoccolma da Carlo Levi, ormai abituato agli ambienti antichi e spaziosi degli alberghi sovietici. A Stoccolma, infatti, si imbatteva immediatamente in “una co-

struzione col solo pianterreno, con camere piccolissime e senza bagno, pieno di gente rumorosa che entrava ed usciva dalle stanzette”. Quanta distanza dai “calamai con le aquile e le penne, e le macchie di inchiostro infantile sulle dita; e gli enormi tavoli e i pianoforti e le tovaglie di velluto, e i grandi cuscini ricamati di piuma, e i piumini col quadrato di seta rossa e la pudica hbousse bianca!”. A Stoccolma, invece, regnava uno sconfortante “squallore moderno”, così estraneo e così freddo, talché, alla vista di un “solenne frigidaire”, il pensiero correva diritto al “monumento sulla piazza di Aliano”, dove, tra calanchi

e silenzi, faceva assurda mostra di sé un gabinetto pubblico, proveniente dalla ditta Renzi di Torino. Sempre a Stoccolma, passeggiando “sotto la pioggia nelle antiche strade del centro”, nonostante la calca della gente e le luci, Carlo Levi ebbe, ad un tratto, la “strana, muta emozione,

di essere solo tra i passanti di una folla indifferenziata”. L’individuo si perdeva nuovamente nella massa indistinta e anonima, dopo aver provato la gioia di sentirsi parte di una comunità, tutta intrisa di umanità. Per due mesi, cioè per tutto il periodo che era stato in Russia, egli aveva dimenticato cosa vuol dire la solitudine. Là, cioè

in Russia, “non ti lasciano mai solo”, non soltanto per le ragioni pratiche della lingua e dell’ospitalità, ma per un’abitudine più antica e legata ai modi stessi “della civiltà contadina”, che, ancora una volta, e in positivo, richiamava 1 paesi della Lucania,

dove “ogni atto, ogni parola, ogni gesto della vita quotidiana è fatto davanti al paese intero, che ne partecipa, che ti accompagna, che si compiace di te, e ti giudica e ti onora: se passeggi, sei accompagnato, se vai alla posta a spedire un telegramma, il paese sa a chi lo hai spedito”. Qualcuno potrebbe forse pensare DI

che quella sorta di “controllo” tolga l'autonomia dei gesti e la libertà; e invece dà la libertà vera, che deriva dalla consapevolezza di contare per gli altri, così come gli altri contano per te, perché ti sono vicini nella gioia e nel dolore. “Non sei mai solo in quel mondo comune contadino: ma - aggiunge Carlo Levi, senza preoccuparsi di precisare, — vi sei sempre differenziato, in una realtà fatta di differenziazione”. A Stoccolma, invece, come

in tutto il mondo industriale e capitalista, ognuno è solo pur nella folla. E tutto a dispetto del fatto che ogni cosa è al suo posto e funziona alla perfezione; anzi, proprio per questo. “O Russia contadina — prorompeva Carlo Levi —, caviale e vodka e cascia, o rozzo amore dei poveri e dei nobili”, che ignorano differenze di ceto, di classe e di religione! Una sola cosa è uguale nei due mondi. Ed è l’infanzia, parimenti innocente e buona, della stessa identica bontà naturale.

Anche in Svezia, infatti, sull’aeroplano, “viaggiava un bambino nella sua culla appesa”, del tutto identico a quello che aveva viaggiato “fino ad Erevan, nell’Armenia”. È come dire che più si regredisce verso le a della vita, più si diventa uguali e più, paradossalmente, si progredisce. Forse Carlo Levi non si rendeva conto dell’artificiosità implicita in tanta netta contrapposizione fra civiltà contadina e civiltà industriale. Forse prevaleva in lui l’intento polemico e provocatorio. Non bisogna dimenticare che erano, quelli, gli anni della ‘cosiddetta “guerra fredda”. Probabilmente, egli intendeva superare la contrapposizione corrente, capovolgendo i termini della polemica. Allora, in Italia e in tutto l'Occidente, l’anticomunismo aveva raggiunto forme parossistiche e quasi razzistiche. Né era ancora arrivato lo sconvolgente rapporto Kruscev. Qua e là, certo, Carlo Levi segnalava limiti e pericoli di quello che, anni dopo, sarebbe stato chiamato “il socialismo reale”, per distinguerlo da quel socialismo ideale, che gli uomini per un secolo e mezzo avevano sognato, e che, forse, in fondo al cuore, avevano sempre so-

gnato e continuano ancora a sognare. La sua critica, tuttavia, era assai vaga e generica, espressa sotto la forma del preoccupato timore che il socialismo russo, trionfo del bene sul male, potesse lentamente e impercettibilmente 58

perdere il suo slancio ideale e innovatore, adagiandosi su sé stesso e, quindi, degenerando “nel sentimentalismo, nel beato ottimismo, nel conformismo”, cioè in una nuova rinunzia e paura della libertà. Segni di tale possibile involuzione non mancavano; e tuttavia Carlo Levi, contro ogni possibile speculazione da parte degli avversari, sentiva di dover proclamare ad alta voce che la sostanza rimaneva immutata, perché niente poteva e doveva far dimenticare che, in Russia, grazie al socialismo e alla rivoluzione d’ottobre, “milioni di uomini entravano nell’esistenza, avanti nel futuro e insieme indietro nel sentimento, non

moderni, ma antichi nell’atto stesso del nascere alla più moderna attualità”. E con loro, lentamente, in virtù dello stesso socia-

lismo, entravano nell’esistenza altri popoli oppressi, come quello della Lucania, che aveva trovato la sua guida spirituale ed etica in Rocco Scotellaro. “Il destino contadino - ripeteva Carlo Levi - è di subire le guerre, ma di non perderle”. Il che significa che le aspirazioni contadine, essendo quelle stesse dell’uomo in assoluto, pur contrastate e schiacciate, non cesseranno mai di rinascere nel corso dei secoli, producendo, secondo una speranza che fu anche di

Rocco Scotellaro, albe sempre nuove. Si possono perdere le battaglie, in questa guerra; ma integro rimane il sogno di un mondo nuovo per cui combattere, ove trionfi finalmente l’infanzia e possa accadere che “una bambina ... si lasci sfuggire di mano il suo palloncino e lo guardi disperata oscillare pericolante tra le automobili. Ma un uomo si butta in mezzo alle macchine,

afferra a mezz'aria il palloncino, e lo riporta alla bambina rasserenata”. Per un simile mondo — avrebbe potuto dire Rocco Scotellaro — si può “vivere e morire”*. Anzi, sî deve.

4 R. SCOTELLARO, Per Pasqua alla promessa sposa in È fatto giorno, Milano, Mondadori, 1954, p. 36.

59

GIA SPIIMOPO

MOTURINZIO

La doppia notte dei tigli

(1959)

La visita a Stoccolma, a conclusione di Il futuro ha un cuore antico, sembrava anticipare, nella condanna del mondo capitali sta e alienante, La doppia notte dei tigli!, che, pubblicato nel 1959,

era il resoconto di un viaggio in Germania, emblema della nuova realtà internazionale. La Germania, di cui vi si parlava, infatti,

era innanzitutto quella occidentale del miracolo economico, esempio clamoroso del trionfo delle amorali o immorali potenzialità del capitalismo, che, anche quando porta benessere, non automaticamente, però, dispensa la felicità. Né si può ignorare che lo stesso benessere non è di tutti, perché, anzi, esso è generalmente

costruito sulla miseria e sullo sfruttamento di molti. Accanto alla Germania occidentale conviveva e coesisteva, tuttavia, in contrapposizione ad essa, la Germania orientale, di

ispirazione socialista. In questa situazione paradossale e in tale assurda condizione di frattura e divisione, Carlo Levi vedeva

rappresentata tutta la realtà politica dell’intero pianeta, diviso, allora e per molti anni successivi, fra due ideologie e modi di vedere la vita e l’uomo. Dal tempo di I/futuro ha un cuore antico, però, molta acqua, come si dice, era passata sotto i ponti, 1 C.LEVI, La doppia notte dei tigli, Torino, Einaudi, 1975, da cui, quando

manchino altre indicazioni, sono tratte tutte le citazioni del presente capitolo. 60

anche se, in realtà, era passato solo poco tempo. Nei tre anni trascorsi dal 1956 al 1959, infatti, c’era stata la destalinizzazione operata da Kruscev, che aveva irrimediabilmente condannato il sistema socialista sovietico, mostrando su quanta sofferenza e violenza, e antiumanesimo, era stato costruito il presunto “pa-

radiso socialista”. E c’era stata l’insurrezione di Budapest, che aveva prodotto l’invasione dell'Ungheria da parte dei carri armati russi. Ne era emersa la grottesca contraddizione di un potere sedicente “popolare”, che, secondo l’esempio delle più feroci dittature borghesi, aveva marciato con i cannoni contro il popolo rivoluzionario. Una difesa della Germania comunista, così stando le cose,

diventava praticamente impossibile, o, per meglio dire, diventava incredibile e patetica, perché, sul piano del crimine politico, la cosiddetta “Germania democratica” non solo non era

paragonabile a quella occidentale, ma, forse, era assimilabile solo a quella nazista. Carlo Levi, perciò, rinunziando a stabilire un

confronto fra le due Germanie, e rinunziando a dare la sua preferenza all’una o all’altra di esse, perché ugualmente “dimezzate”, si dava ad una operazione tutta intellettualistica e metaforica, individuando, nel caso della Germania divisa in due, l’emble-

ma di un mondo, quello contemporaneo, tragicamente scisso e separato, molto più di quanto lo fosse mai stato nei decenni e nei secoli passati. E non solo in senso meramente politico. C’erano, certo, delle ragioni storiche e politiche immediate, che ave-

vano fatto della Germania il simbolo di tale generalizzata scissione. Ed era inutile ricordare che la Germania era stata la causa prima della folle seconda guerra mondiale, a cui era stata spinta, a sua volta, dalla follia del nazismo, fenomeno anch'esso

tipicamente tedesco. Carlo Levi, però, non credeva ad una storia che prescindesse dal mito, sicché, com’era sua consuetudine, tentava di andare oltre la storia, nella metastoria e, quindi, nei recessi dell'anima

umana. La sua indagine si complicava, peraltro, di speciose ragioni psicanalitiche e sottigliezze antropologiche, che risultavano sempre poco convincenti, se non estremamente lambiccate e sofistiche. E proprio a quelle motivazioni psicologiche, 61

intangibili e poco controllabili, egli volle dare effettiva importanza, offrendole come introduzione al testo e, quindi, come

chiave di lettura del testo stesso. La Germania appariva, in tale ottica, in forma assoluta, come il simbolo di un dramma più grande, qual è quello del più volte professato dilemma differenziato-indifferenziato, che costituisce l’avventura generale dell’umanità e che, negli ultimi decenni, secondo Carlo Levi, si

era mostrato nella fase sua più critica: quella “della rottura [stessa] dell’unità dell’uomo”. Restava tuttavia da vedere “perché il cataclisma, l’universale epidemia, aveva trovato [proprio] nella

Germania il suo luogo di eruzione, i suoi portatori, i suoi personaggi simbolici”, e perché, proprio nella Germania, la notte si era fatta “doppia”. La spiegazione, nella logica corrente, era - come si è detto —nei fatti storici dell’immediato passato; per Carlo Levi, invece, le ragioni andavano cercate in una lontana preistoria, che è una sorta di destino e che, come avrebbe potuto dire Cesare Pavese,

coincide con il “mito” stesso della Germania. Sarebbe come dire che la spiegazione era negli astri. Gli astrologi — diceva infatti Carlo Levi - “simboleggiano la costellazione dei Pesci con due di questi animali acquatici rivolti in opposte direzioni, e dalla loro opposizione arguiscono il carattere problematico, tormentato e doppio, le ambivalenze e le tempestose ambizioni di chi è nato sotto questa stella. La Germania è segnata, come da due immensi pesci, dai due maggiori fiumi d’Europa, rivolti in senso opposto, a Est e a Ovest: il Reno e il Danubio. Dalla sua fluviale costellazione (se, oltre a quella individuale, potesse esistere una astrologia dei caratteri nazionali), si potrebbe forse dedurre, come in un oroscopo, il suo contraddittorio tormento”. Sta di fatto - commentava Carlo Levi - che tutta la storia della Germania appariva come la storia di profonde inquietudini, già intraviste e descritte da Tacito, che, sin dal primo secolo

dopo Cristo, ricordava che i Germani, a differenza degli altri popoli, non amavano organizzarsi in comunità. Si poteva tranquillamente aggiungere che, ancora nei tempi moderni, la Germania aveva conservato tutti “i caratteri antichi e fondamentali della primitiva unità anarchica”, cioè quella di uomini “che 62

mangiavano soli, e costruivano le loro capanne isolate e solitarie”. Se così stavano le cose, non eventi recenti, e semplicemen-

te politici o storici o civili, avevano determinato la divisione della Germania contemporanea, ma uno stadio originario, da cui, poi, era derivata la “schizofrenia nazista”, giunta “a guidare, e a tenere assieme, complemento necessario, la paranoia di

Hitler”. Di fatto, a voler semplificare, si poteva dire che, in Germania, da una parte, quale “compenso alla sua natura dispersiva”, “aveva preso un rilievo gigantesco l’armonia ‘olimpica’ e unificatrice di Goethe”, dall’altra, invece, si era sviluppato “il sentimentalismo espressionista o romantico”, di cui la forma storica più clamorosa era stato il gotico. Insomma, “se la Germania era in due parti divisa, era perché era (lo era stata), nel suo inconscio, dappertutto divisa”. I fatti più recenti, nella loro atrocità, non avevano fatto altro che aggravare la condizione “infantile” di quella nazione, che, per difesa, “non agli altri... si nascondeva, ma... a se stessa”. Di qui un senso di vuoto “non colmato, un punto vietato a cui non ci si avvicina; quella che

potrebbe dirsi una deformazione neurotica”. E tutto era stato già deciso altrove, cioè nel mito. Così affrontata, la questione appariva, agli occhi di qualunque razionalista, tautologicamente spiegata e risolta già nel momento stesso in cui veniva posta, cioè già dalla introduzione; e non si vedeva che cosa il lettore avesse più da imparare dal resto dell’intero volume, benché non ampio. Di fatto, spesso il discorso si faceva astratto e ripetitivo, né sorretto dal valore della poesia, che sola, come in altre circostanze, avrebbe potuto salvarlo, anche a dispetto della sua debolezza ideologica, in cui,

se un elemento nuovo e diverso si poteva cogliere, era solo un calo di fiducia nelle capacità di rinascita dell’uomo moderno, che, attraverso la Germania, esprimeva una più decisa riluttanza all’unione, all'amore e alla libertà, sia ad Ovest che ad Est.

Tale senso di scetticismo e pessimismo si coglieva già dalle prime fasi del viaggio, che avveniva nel mese di dicembre del 1958, prendendo avvio, come al solito, dall’aeroporto di Roma,

dove una scena “vorticosa” attraeva l’attenzione di Levi, quasi simbolo del mondo non più abituato a pensare, ma, piuttosto, 63

a lasciarsi avvolgere e rigirare su sé stesso, in un movimento inutile e senza progresso. Ne era vittima anche l’infanzia, generalmente vista, in passato, come salvezza dell’umanità. Non più giochi di fantasia e sentimento facevano i ragazzi. “Nel recinto vetrato [infatti], come una gabbia trasparente, ... bambini americani... stavano facendo girare intorno al corpo il cerchio dell’bula-hoop”. Era come dire che, nella civiltà moderna, rappresentata nel suo momento più alto da quella americana, notoriamente senza radici, tutto diventava meccanico, com’è vero

che anche la voce, che annunciava la partenza, era “meccanica”. Anzi, persino nell’aeroplano, che altre volte era stato occasione e luogo di contatto con l’anima del mondo, c’era aria di falsità, che strumentalizzava, a fini economici e commerciali, la stessa

religione e la festa del Natale. “Dentro l’aeroplano della Lufthansa [difatti], come in una cappella di villaggio, erano accese le candeline, tra verdi festoni di frasche che nascondevano le

lampade al neon”. In realtà, non il Natale si celebrava, ma San Niccolò, “nordica befana anticipata”. Ed era vero che l’aereo volava troppo veloce, senza offrire alcuna possibilità di modificarsi in armonia con i luoghi attraversati, sicché non c’era spazio “alla riflessione, alla ricerca di un ordine nel vago dell’attesa”. E troppo presto si arrivò a Monaco, città campione di quella Germania occidentale, in cui l’uomo era stravolto, corrotto e

distrutto. Eppure, quando vi arrivò Carlo Levi, nella città si festeggiava l’ottocentesimo anniversario della sua fondazione; ma del

suo passato, a Monaco, restava ben poco, come suole accadere nel mondo della tecnologia e della scienza moderna. A Monaco, poi, una volta sgombrate le macerie dell’ultima guerra, che

erano pur sempre residui di un passato e di una storia, tutto era stato rinnovato, e dappertutto si erano montati impersonali e fredde “baracche nuove di metallo e di vetro, negozi e librerie con i libri di tutte le nazioni”, la cui “lucentezza provvisoria”, purtroppo, era invece “destinata a durare a lungo”. Persino “l’interno della Cattedrale era ricostruito sulle rovine, con la tecni-

ca fredda e didattica dei musei moderni”. E a Berlino era la stessa cosa, perché dappertutto non si ve64

devano se non nuovi palazzi al posto di quelli sbriciolati dalle bombe, “nuovi alberghi, nuovi negozi, nuovi caffè, nuove vetri-

ne, in fila lunghissima ai due lati dei controviali”. Ma dappertutto si vedeva anche che “la ... nuova ricchezza aveva qualche cosa di malinconico e di funebre, di costruito sul vuoto o sulle ossa dei morti”. Insomma, tutto il nuovo della Germania non

aveva un cuore antico. Ed era proprio come ad Aliano, paese anch'esso costruito sulle ossa dei morti. A Stuttgart, per fare l'esempio di un’altra città germanica, le cose erano andate ugualmente che a Monaco. Anche in quel paesaggio cittadino, infatti, “nulla era stabile, antico; ombroso, sicuro di sé: solo vetro, forme elementari e greve pesantezza che simula la forza”. E se in Italia non era successo qualcosa di simile, sicché “il pericolo della perdita della presenza era... assai meno incombente che altrove”, era stato perché “la persona [in Italia] non era formata in limiti incerti e vaghi, non aveva il carattere liquido e mostruoso di un agglomerato provvisorio, ma stava attorno a un suo nucleo nel quale il processo di autocreazione” — e quindi di libertà — “è scarsamente riversibile”. Di fatto, in Italia, persino nei paesi che non avevano avuto un

adeguato sviluppo economico e sociale, come era accaduto nelle terre del Sud, il processo creativo non si era spento; anzi più forte che mai, proprio lì, appariva “il mondo della ragione poetica”. In Germania, al contrario, forte era solo “il desiderio di un muro vecchio” e, di conseguenza, “di una faccia serena”. E

purtroppo, non c'erano muri vecchi, e mancavano le facce serene. Al posto di queste, invece, dappertutto si incontrava l’angoscia, affogata nei ritmi di lavoro travolgenti, come quelli dell’hula hoop, oppure nascosta nella follia e nell’ubriachezza. In Russia, aveva scritto Carlo Levi, il lavoro era creatività,

perché nasceva dal senso del dovere per il dovere, spontaneamente sentito. Esso, perciò, era eticità, altruismo e desiderio di

sentirsi uomini in mezzo agli uomini. In Germania, al contrario, come in tutti i paesi di sfrenato capitalismo, il lavoro era uno stato di necessità, nascente dall’egoismo e dal desiderio di 2 I corsivi non sono nel testo.

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affermarsi, sfruttando e asservendo gli altri. L'obiettivo del lavoro, pertanto, era solo il danaro, che deforma psichicamente e

fisicamente, abbrutendo. E già dalle prime ore del suo soggiorno a Monaco, in albergo, Carlo Levi si trovò ad osservare “grossi uomini d’affari, difesi da corazze di grasso e di indifferenza, avvolti in azzurre nuvole divine di sigaro, che... trattavano, come dei re, i loro affari infantili”; non diversamente, anche se a un

livello sociale più basso, a Stuttgart, “così come è... dopo la distruzione e la ricostruzione, fracassato e abolito fisicamente il

passato, non c’era posto che per il lavoro, e per gli uomini del lavoro”, che dovevano produrre solo beni. Si determinava, dun-

que, un “deserto di uomini affaccendati, operosi, scrupolosi, accaniti, con gli occhi fissi sull’oggetto del loro lavoro, o sulla moneta, suo equivalente e simbolo, da non potersi guardare attorno, né a destra né a sinistra, quasi eroici nella loro limitatezza,

in un luogo rifatto senza carattere né radici, tra costruzioni che pareva dovessero crollare per fastidio nel loro aspetto anonimo, e che nessun fiume avrebbe potuto narcisisticamente specchiare”. Certo non mancava qualche angolo di Germania, che era ancora un angolo di umanità; ma era cosa nascosta e soffocata. Tracce del passato, e di un’anima contadina, si trovavano anco-

ra, per esempio, a Schwabisch Hall, “una delle poche città che fossero rimaste praticamente del tutto illese, e le cui pietre fossero ancor quelle di una volta”; ma si era nel cuore della Svevia, che ancora raccontava i suoi fasti medievali. Altro centro era Tubingen, le cui “stradette antiche, dove tutto er4 intatto”, era-

no “piene di tempo e di memoria”; perciò, cosa veramente rara in Germania, esse erano anche piene di bambini”, i quali si affollavano intorno ai visitatori forestieri, come tutti i bambini del mondo, e, come tutti i bambini del mondo, “facevano giochi, salti, boccacce”. Ma il volto vero e generale della nuova

Germania era rappresentato dalle birrerie di Monaco, sporche, maleodoranti, popolate da uomini che erano relitti umani, ognuno con un suo dramma nascosto, ognuno con un profondo senso di colpa, di cui era testimonianza e richiamo costante il campo di Dachau, dove ancora si potevano guardare, con orrore, i forni, le docce, persino “i canali di sangue”, scavati nel giardino 66

e grottescamente fatti a somiglianza di quelli “che il contadino scava con la sua zappa per irrigare il campo”. Nelle birrerie, dunque, era la misura dell’uomo tedesco e del suo imbestiamento. Ancor di più questo era evidente nelle donne, che avevano perso qualunque segno della loro gentilezza e femminilità. Sedute “ai tavoli rustici, sulle sedie dalle alte

spalliere di legno”, si vedevano “signore di mezza giavano salsicce e bevevano birra”, anzi “erano, tegno, intente a quelle delizie, a quella funzione le. Non mangiavano: divoravano, assorbivano,

età [che] mansenza alcun riorale e viscerainghiottivano,

deglutivano, masticavano, trituravano, aspiravano, come enor-

mi bachi da seta tutti chiusi nella pura voracità”. Né c’era differenza fra birreria e birreria. Dappertutto si ritrovava lo stesso grado di degenerazione fisica e morale. Nella Hofbraustube, per esempio, cioè nella “maggiore delle grandi birrerie di Monaco [...], in un angolo, a una delle lunghe tavole, seduta sulla panca, contro il muro, stava, sola, una ragazza”. Era giovane, ma, per

il grado di abbrutimento cui si era ridotta, sembrava non avere età. Tutto in lei appariva sporco, flaccido e deforme, dalla bocca ai capelli, alla dentatura, “rada e piena di buchi”. “Nessuna

grande attrice del teatro epico [insomma] avrebbe potuto creare, truccandosi, una così completa immagine dell’abbrutimento”. La stessa scena si rinnovava in un’altra famosa birreria, la Dionisel, in cui, forse più che altrove, si coglieva il senso della

solitudine, di cui soffriva ogni tedesco. “La gente ai tavoli deveva coi suoi vicini, come con vecchi amici: ma essi erano, in

genere, sconosciuti l’uno all’altro: ciascuno si sedeva a caso dove un posto era libero. I visi sembravano fissati da un qualche ignoto terrore. Occhi pieni di fanatica febbre, o di sgomento, guardavano diritto davanti a sé, e pareva non vedessero altro. che un interno deserto”. Al fondo della coscienza di ognuno, ma anche al fondo della cultura tedesca, come un incubo, giaceva

Hitler, perché “il suo corpo introvabile faceva parte della terra”. Qualcuno potrebbe pensare che, almeno a Berlino Est, là dove si sperimentava un governo “democratico” e diverso, quello comunista, le cose stessero diversamente. E invece, come già si è avuto modo di anticipare, l’illusione leviana, riguardo al co67

siddetto “paradiso comunista”, era tramontata da un pezzo. Molte atroci verità, purtroppo, erano emerse sul sistema socialista, che uccideva l’uomo e la sua dignità almeno con la stessa crudeltà e animalità con cui, nella Germania occidentale, l’uomo

uccideva sé stesso. L'impressione immediata, già al primo ingresso nella Berlino dell’Est, era quella di un ordine innaturale, freddo e angustiante. Si captava, insieme con l’aria che si respirava, che tutto era controllato e diretto dall’alto, ovvero da qualcuno o qualcosa di indefinito — il Partito —, che suscitava naturale paura, sospetto e ripugnanza. “Radi passanti si muovevano sui marciapiedi davanti alle solenni costruzioni”, volute, appunto, dal Partito. E mentre nella Germania dell’Ovest le macerie erano state rimosse, lasciando un vuoto senz’aria, nella Berlino dell’Est le rovine della Cattedrale erano ancora intatte, a voler stabilire una forzata contraddi-

zione fra il vecchio da distruggere e il nuovo da costruire. Subito dopo la porta di Brandeburgo, come in un mondo surreale, si notava un trenino per “Pionieri”, tutto imbandierato e pieno di scritte, che ricordava la meticolosa e ossessiva cura pedagogica, che i regimi dittatoriali hanno sempre riservato all’infanzia, in tutto, però, deprivata della sua spontaneità e creatività poetica, in modo identico, ancorché diverso, che nel mondo occidentale, chiuso nel ritmo monotono e ossessivo dell’hula hoop. Poi, subito dopo e dappertutto, “divise, divise di soldati,

divise di questa o di quella polizia, verdi, coi chepì posati su visi infantili, senza segno o inizio di barba, seri come per un gioco... Dappertutto mostre educative, padiglioni esplicativi delle realizzazioni sovietiche, esposizioni di scritte e di fotografie antinaziste”. Si capiva che si era di fronte ad un regime che aveva bisogno di contrapporsi a qualcosa o qualcuno, perché potesse dare il senso e la ragione del suo essere. Se nella Germania dell'Ovest, insomma, il contrasto era di natura psicologica, tutto fondato su un interno senso di colpa, e quindi sul vuoto e su una frattura tra distinzione e indistinzione mai sanata, nella

Berlino dell’Est il contrasto era soprattutto esterno, voluto e imposto, come se ad ogni cittadino si comandasse di odiare sé stesso, o almeno una parte di sé stesso e della propria civiltà. 68

Gli effetti, sul piano psicologico, non erano meno tormentosi, nonostante che, a prima vista, sembrasse che, all’Est, que-

gli “uomini e le donne e le ragazze avessero, in quelle loro vesti rozze e lontane da ogni moderna finezza, un tono più naturale, più congeniale e rispondente a una profonda tradizione nazionale e popolare”. In realtà, a ben guardare, ci si accorgeva subito che tutto, anche nella Berlino dell’Est, era innaturale, volendo

essa apparire libera ed essendo troppo “ostentatamente” libera. Proprio come, a tutti i costi, voleva apparire troppo proletaria. Mancava quel qualcosa di naturale che si notava ancora a Mosca, dove - secondo Carlo Levi — si poteva continuare a sperare che, fatte le accuse al sistema staliniano e fatte le autocritiche krusceviane, e proprio in virtù di esse, tutto poteva tornare en-

tro la norma. Nella Berlino dell’Est, invece, c’era “un atto di volontà, come

un’eco esagerata, caricata, violenta e grigia... Era un trapianto in un’altra terra, coscienziosa, eccessiva, indifferente. Era una Russia senza celeste, senza angeli, senza il suo freddo brillare

azzurro, e il suo caldo splendore”. In definitiva, c’era qualcosa “di troppo” sia ad Est sia ad Ovest, con l’inevitabile disumanizzazione dell’uomo e della società. E se la Berlino dell’Est voleva apparire “troppo” proletaria, la Berlino dell’Ovest, dal

suo canto, voleva apparire “troppo” capitalistica, sicché, alla fin fine, “quello che... si mostrava di opposto nei primi aspetti delle due Germanie, rispondeva, in modo contrario, alla stes-

sa natura”. Le Germanie, in altre parole, erano due; ma, nella realtà vera, erano una sola cosa, e identiche nella mancanza di unità e iden-

tità. Carlo Levi ne ebbe sempre più chiara percezione, a mano a mano che trascorrevano i giorni e sempre più spesso passava da Berlino Ovest a Berlino Est, e viceversa. Si accorgeva come esse “non fossero due città, lontanissime e distinte, ma una città sola, senza frontiera né divieti”. Anzi, erano “una stessa im-

magine riflessa in due specchi contrapposti”, come le due facce di una umanità dimidiata e divisa tra due blocchi contrapposti, che, invece, dovevano essere superati e riuniti, affinché il vecchio e il nuovo, l’indistinto e il distinto, il collettivo e l’indivi69

duale potessero ritrovare un punto d’equilibrio. Tale, in fondo, era il desiderio inconscio di Carlo Levi, che,

quasi senza ragione, instancabilmente, e più volte al giorno, passava avanti e dietro da Ovest ad Est, domandandosi: “E quale può essere la fine, a questa storia provvisoria di vuoto e di frattura degli uomini?”. La soluzione era, ancora una volta, nel

sospirato ritorno all’uomo e nel ritrovamento della natura e dei bisogni vitali dell’uomo, cioè nel recupero di quella “Lucania” che è in ognuno di noi, dovunque si abiti e in qualunque tempo si viva. E ancora una volta il “ritrovamento” doveva avvenire nel grembo materno, o nel nido, o nel letto materno, caldo e accogliente, come fu nell’infanzia. Anche in Germania, alfine,

c’era un “morbidissimo letto”, in cui pacificamente ci si poteva abbandonare, addormentare e sognare. E così fu. Carlo Levi si addormentò, quieto e tranquillo. Poi,“quando la sveglia /o trasse improvvisa dalle ultime piume di Berlino, da quel soffice tepore di uccelli domestici e materni, da quel nido di guanciali e di piumini”, si accorse che aveva sognato. E avrebbe “voluto trattenere quel sogno, nel quale era involto come dentro un gomitolo senza fine”. In sogno, infatti, gli era apparso un gregge, che i pastori si affannavano a voler tenere diviso in due gruppi, mostrando marchi diversi, che, alla prova dei fatti, si dimostravano, invece, essere perfettamente identici. Alle rimostranze di Levi, i pastori, allora, adducevano motivi sem-

pre più pretestuosi, tutti rivolti a tenere diviso il gregge. Poi erano costretti ad ammettere la verità. Non c’era ragione in tutto quello che avevano detto e fatto; di vero c’era solo che quello era “l’ordine dell’Imperatore”, cioè un ordine imposto da una cupa e cinica Ragion di Stato, che continuava a colpire e dividere un cuore già diviso, al centro dell’Europa. “Sguardi di fuoco - per dirla con Goethe - /ampeggiavano attraverso la doppia notte dei tigli”. Purtroppo, soltanto a due anni dall’uscita del libro di Carlo Levi, nell’agosto del 1961, a Berlino si costruiva quel muro che, in forma più rigida e materiale, sanciva la separatezza fra le due Germanie. E solo circa trent'anni dopo, cioè nel 1989, quel

muro cadeva in frantumi. Si disse allora che un atto di giustizia 70

finalmente si compiva. In realtà, quell’unificazione avveniva, non secondo i desideri di Carlo Levi, ma sul terreno e sulle

ragioni della Germania capitalista dell'Ovest. Ancora una volta, e chissà per quanti anni o decenni o secoli, si tradivano le istanze del sociale e dell’uomo nella sua totalità, cioè del “con-

tadino”, a tutto vantaggio del consumismo, del tecnologismo e, insomma, del luiginismo. A maggior ragione, perciò, La doppia notte dei tigli appare un libro, non solo inverosimile nelle motivazioni psicanalitiche, non solo poeticamente inesistente, anche perché lontano da ogni intento poetico, ma anche decisamente ambiguo e debole sul piano ideologico, perché tutto giocato su un vago e patetico sogno di unificazione, che ignorava quali terribili conflitti nazionali e internazionali si innestavano intorno alla Germania divisa. Né Carlo Levi è vissuto tanto a lungo da far poesia sul tracollo disperato del socialismo e dei suoi sogni. Non ha potuto scrivere, insomma, alla stregua di Evtuscenko, nemmeno le disperate poesie di Arrivederci, ban-

diera rossa’, espressione di un sogno infranto, ma non distrutto.

3 E. EVTUSCENKO, Arrivederci, bandiera rossa. Poesie degli anni Novanta,

Newton Compton, 1995. 71

CRASPIICIKONIO MISIEIS SIRO

Tutto il miele èfinito

(1964)

Nel 1964, quando Carlo Levi decideva di pubblicare Tutto 1/ miele è finito!, l’Italia attraversava un complesso momento di ristrutturazione capitalistica. Il nuovo corso del Partito Socialista Italiano, che, alleatosi organicamente con la Democrazia Cristiana, era entrato in conflitto col Partito Comunista Italiano e in concorrenza con esso, aveva portato, il 4 dicembre del 1963,

alla formazione del primo governo di centrosinistra, presieduto dall’on. Aldo Moro. Dal Partito Socialista Italiano si separarono alcuni dissidenti, che decisero la formazione del Psiup. Si accentuava, così, la frantumazione e, di conseguenza, la debo-

lezza della sinistra. Unico baluardo contro le forze egemoni rimaneva il Partito Comunista Italiano, che gli “autonomisti” nenniani, unitisi al Psdi e d’intesa con la Democrazia Cristiana,

tentarono in tutti i modi di isolare e chiudere come in un recinto, avviando, contemporaneamente, quella graduale e spregiudicata occupazione dello Stato, le cui conseguenze si sarebbero protratte fino a tempi recentissimi. Il moderatismo, in tale contesto, vinceva dappertutto, espellendo o emarginando le forze più autenticamente popolari e, :1 c. LEVI, Tutto il miele è finito, Torino, Einaudi, 1964, da cui, quando

manchino altre indicazioni, sono tratte tutte le citazioni del presente capitolo. 72

per esse, il movimento contadino e il Sud. A questi non restava che l’assistenzialismo o l'emigrazione. Un vero e proprio esodo, infatti, si andò realizzando dalle regioni meridionali, impoverendole di tutte le forze giovani e produttive, mentre, al loro

posto, si insediavano i boiardi di partito, collocati come guardiani e vassalli nei vari Enti di Riforma, Consorzi Agrari e Industriali, Coldiretti, Camere di Commercio, ecc. Il crollo del mito socialista sovietico, per altro verso, si traduceva, a livello

internazionale, in un rafforzamento obiettivo del capitalismo e dell’imperialismo americano. Il Sud tutto, perciò, si chiamasse esso Lucania o Vietnam, veniva ancora una volta tradito, sicché

non solo la ricomposizione dell’uomo moderno non era avvenuta, ma, anzi, la frattura si accentuava ogni giorno di più. Lo scoramento si diffondeva fra le anime più sensibili, compreso Carlo Levi, anche se proprio a tale momento, particolarmente critico, si collegava il suo coraggioso ritorno all'impegno diretto in politica, certamente dettato dal desiderio di non essere assente in una condizione di grave necessità. Rientrava nella sua cultura e nella sua formazione gobettiana, ma anche nella sua storia di combattente per la Resistenza e di militante nel Partito d'Azione, la convinzione che, quando il mondo, e soprattutto gli oppressi, hanno bisogno concreto di aiuto, allora bisogna

saper uscire dallo studio e allo scoperto, a dispetto, anche, di un temperamento naturalmente pigro e contemplativo. Fu così che, nel 1963, Carlo Levi, entrò nell’agone elettorale e, in qualità di indipendente di sinistra, venne eletto senatore

per il collegio di Civitavecchia; sarebbe stato rieletto alla stessa carica nel 1968, nel collegio di Velletri. In quegli stessi anni, e precisamente nel novembre del 1967, si faceva anche, insieme

con altri generosi protagonisti di quegli anni, come Paolo Cinanni, promotore della fondazione della Filef (Federazione Italiana Lavoratori Emigrati e Famiglie), che si proponeva, per l’appunto, di svolgere un attento lavoro di assistenza agli emigrati e alle loro famiglie. Della Filef, anzi, egli fu anche il primo presidente, rivestendo tale carica dal 1967 alla data della sua morte, cioè per circa sette anni, durante i quali si cimentò in un accurato quanto umile e meritorio lavoro organizzativo e persino legislativo. n&;

Era in questo ambito storico-politico che, con ogni verosimiglianza, si introduceva Tutto il miele èfinito, dettato, quindi,

da una amara visione della vita e dalle incalzanti vicende del proprio tempo. Esso potrebbe anche porsi come esigenza di abbeverarsi alle sorgenti della esistenza umana, tornando a quel dramma della povertà e della umiltà meridionale, che, per secoli, aveva subìto le ingiustizie e iniquità dello Stato e che, nono-

stante tante lotte, continuava a subirne, proprio mentre il resto del paese scoppiava di benessere e si affermava come grande potenza industriale. Era, forse, un bisogno di denuncia forte, o

un invito a non dimenticare, oppure l’espressione di una delusione sconsolata, come di chi abbia il dubbio che a ben poco siano serviti le lotte e i sacrifici di tanti uomini, da Gramsci a

Dorso, da Giuseppe Novello, bracciante caduto a Montescaglioso, a Salvatore Carnevale, bracciante caduto in Sicilia, da

Danilo Dolci a Rocco Scotellaro... Il libro nasceva come resoconto di due viaggi compiuti in Sardegna, a distanza di dieci anni l’uno dall’altro, cioè nel 1952 e nel 1962. Il tema, l’ambiente, gli uomini, con i loro volti da

mummie pietrificate, erano congeniali al Levi e alla sua poetica, più della Russia, della Germania e della stessa Sicilia, agitata dalle sommosse contadine. In Sardegna, infatti, come ad Aliano,

era possibile ritrovarsi e ritrovare quella contemporaneità dei tempi, che era il vero motivo portante, come si è visto, della

ideologia e della più autentica arte leviana, perché, in quell’ambiente mitico, solenne e tragico nello stesso tempo, immobile

come sono tutti i miti, ci si poteva meglio isolare e contemplare le eterne vicende umane. Non per niente tutto il primo viaggio era rivissuto dall’interno silenzioso di un nuraghe, sul cui fondo lo scrittore si era quasi nascosto. Sicché, lontano dalle urgenze della cronaca, egli poteva verificare come, “nel chiuso dell'isola, mille aspetti diversi st4varzo insieme, e condizioni umane diverse, e diversi visi e attitudini, e attività e sentimenti,

spesso contrastanti, sempre difficili a intendersi”. Tutta la Sardegna, con i suoi lenti e ripetuti eventi, era da considerarsi — scriveva coloritamente Carlo Levi - come “un gregge delle piccole pecore sarde, dal pelo liscio come quello 74

delle capre: mille piedi in movimento, striscianti come una bestia sola, come un informe animale primitivo che si allarghi sulla terra”. Era una terra sostanzialmente compatta, non ancora uscita dalla condizione della massa originaria, in cui predominava l’indifferenziato e l’arcaico, come in Lucania. Le pecore, quiete e mansuete, sonnacchiose e pensose, le si vedeva spesso meriggiare, “in cerchio, sotto una quercia, bianchi anelli attorno al tronco scortecciato”. Il loro movimento, perciò, o non c’era o era impercettibile, essendo un ritorno, come in un cerchio, talché “ogni conoscenza era riconoscenza”. Non c’era quindi da meravigliarsi se, tra il 1952 e il 1962, era come se quei dieci anni non fossero mai passati, risolvendosi tutti in un solo istante. E se qualcosa era accaduto, per imposizione violenta esercitata dall’alto, esso, come sempre, si era tradotto in un male,

perché aveva finito, inevitabilmente, col rompere antichi equilibri e antiche certezze, sedimentate nella coscienza degli uomini così come nelle cose. Per fortuna, almeno al tempo del primo viaggio, si trattava ancora di piccole fratture, che non toccavano il tutto complessivo, pur suscitando, agli occhi dell'osservatore esterno, traumatiche preoccupazioni. Il senso dell’atemporale e dell’arcaico, in quella regione, si coglieva con mano e si respirava con l’aria stessa, sospesa e quieta, solenne e stagnante dell’estate, che assumeva le fattezze nere dei gufi, i quali, “immobili sui paracarri, con gli occhi sbarrati nel sole, fuggivano con volo incerto”, solo perché disturbati

dall’arrivo dell’automobile degli estranei visitatori. Né diverso era il paesaggio nelle giornate d’inverno, al tempo del secondo viaggio, che, pur svoltosi in ambiente diverso, nel ghiaccio e nel vento, avveniva sempre fra“paesi e città di e lontani, e distese solitarie, popolate di pietre”. Attraverso quella “popolazione di rocce, come in un sempre nuovo museo preistorico”, i viaggiatori, cioè Carlo Levi e gli amici, avevano corso senza fermarsi, entrando, col passare delle ore, “nel fondo di un paese

muto”, riempendosi “del suo silenzio”. A segnare e sottolineare il quale, più che a romperlo, si diffondeva, a volte, il “roco suono della lidelba, l’arcaico scacciapensieri di Sardegna”, che aveva “il suono della morte, e di un 75

sorriso ultimo nella sua bontà infinita, più forte di ogni cosa, anche della morte”. E dappertutto, accanto ai gufi, alle civette e ai pipistrelli, sempre greggi sparse di pecore e capre, ad indicare una remota civiltà pastorale, identica sotto molti aspetti a quella contadina di Lucania, e al pari ferma ai suoi riti, alle sue liturgie e alle sue magie. Di tale civiltà, i visi di tutti gli uomini e delle donne portavano scavati i profondi segni. Non giovani, difatti, si incontravano nel racconto di Carlo Levi, o, per lo meno, Carlo Levi si fermò poco su di loro. Dominavano, invece, figure di vecchi,

atteggiati a sacri sacerdoti di una civiltà e di una religione antica e remota. “Solenni saggi di una civiltà vetusta, agli abiti, agli atti, ai visi gravi”, essi “si occupavano con arguzia delle cose” loro contemporanee, come non credendoci. Si trattava, al soli-

to, di un mondo senza sviluppo, intorno a cui inutilmente correvano avvenimenti esterni, perché, anche se toccato, esso im-

mediatamente, e quasi per autodifesa, si richiudeva su sé stesso e in sé stesso, come le acque di uno stagno. Tutto, in altre parole, tendeva all’autoisolamento. E il fatto stesso che la Sardegna fosse un’isola sembrava accentuare o comunque simboleggiare l’isolamento della gente che vi abitava, chiusa nella sua naturale ritrosia. Le stesse case sarde, perciò, “che sapevano di recinto e di reggia, anche quando erano poco più che dei tuguri, ... non si affacciavano fuori, ma si chiudevano nell’orgoglio dell’intimità”. Un simile mondo, perché potesse venire alla luce, non anda-

va percorso, ma piuttosto scavato e ritrovato, cioè, come si è detto, “riconosciuto”. Tutta la storia sarda diventava, pertanto,

una escavazione nel profondo. Era come dire che storiografia e archeologia coincidevano. La città madre dei sardi, perciò, secondo Carlo Levi, non era né Cagliari, né Nuoro, né Sassari,

ma Nora, “che sifavoleggiava fondata dal fenicio Norace, figlio di Mercurio, prima del favoloso Sardus Pater, che avrebbe dato

il nome. all’isola di Sardegna. La città era sotterrata sotto la campagna solitaria, e sotto il mare, ma scrutando tra le onde si vedevano, a perdita d’occhio, nella vasta insenatura, le mura preistoriche coperte di alghe. Si lavorava a dissotterrare la città”. Un simile mondo, così profondo e così inaccessibile, ancora 76

così sprofondato nella massa inconscia, non avendo raggiunto il logos, riusciva ad esprimersi, proprio come quello della Lucania, solo attraverso le vie della magia e della poesia, che, a

guardar bene, sono la stessa cosa. E la stessa cosa è la religione. Come ad Aliano, anche in Sardegna accadeva che “in ogni pietra si annidasse un mostricciattolo [sic] e in ogni albero un de-

monio di metamorfosi”. Alla magia, di fatto, finivano col credere tutti, anche intellettuali come Grazia Deledda. Per esem-

pio, su un greto deserto — racconta Carlo Levi — “stava un greg-

ge bianco e si confondeva bianco con le bianche pietre”. Più avanti c’era la chiesa di Sant'Efisio. A Carlo Levi venne mostrata, con devozione, “una pietra, che era quella sulla quale quell'illustre santo venne decapitato”. Fin lì arrivavano “in processione, a cavallo, il primo maggio, portando le reliquie del santo, i fedeli, i miliziani vestiti di rosso, e l’alternos che rappresentava il Viceré, dopo la grande festa di Cagliari”. Si mescolavano, cioè, storia e mitologia, sacro e profano. Non per nulla, nelle vicinanze della chiesa, “sulla destra, un teatro romano veniva libe-

rato dalla terra che lo copriva, e sopra di esso i resti di un tempio cartaginese della dea Tanit”. Ed era un mondo che, mentre si spiegava con la magia, si esprimeva attraverso la poesia, o, per essere più precisi, attraverso la forma più immediata di essa, cioè il canto, che, per lo più, e molto significativamente, era un lamento funebre. Talché, a

voler dare una caratterizzazione complessiva di Tutto il miele è finito e della sua intonazione, si può dire che esso, nella sostan-

za, era e rimane tutto risolto nell’elegia. In ogni caso, è certo che in Sardegna, come avrebbe potuto dire anche Cesare Pavese, “le cose che sono state viste una volta e dette, e raccontate nei

modi della poesia, splendono di sopraggiunta verità”. Nella Sardegna, dunque, si canta. Orune, uno dei paesi più tipici della civiltà sarda, era, contemporaneamente, un paese di

ladri di bestiame e un “paese di poeti”. Il canto, in esso, sembrava sorgere dalle radici stesse della terra. A cantare erano prevalentemente le donne, che, più degli uomini, rappresentavano e rappresentano la terra. Tanto meglio, poi, se a cantare era una vecchia, che meglio di ogni altra persona esprime la radice e 77

l’anima sotterranea del luogo, pieno di contraddizioni e a volte di ferocia, sicché si può vedere, come nel mito di Saturno, il

padre opposto al figlio, o la madre opposta alla figlia. I versi, a Orune, “giravano, come nenie e lamenti, su se stessi, in un lun-

go, monotono ripetersi come di grida e di pianti ininterrotto, senza altro sentimento che quella ripetizione irata e disperata che, a poco a poco, cresceva e diventava angosciosa e irresistibile”. Il canto, cioè, era il canto della terra stessa, espressione do-

lente di una civiltà severa e rigorosa, arcana e misteriosa, mitica fino alla superstizione e, come si è detto, alla ferocia. Né la rappresentazione di Chio Levi era di altro tono, tanta era la simpatia che fra lui e il mondo sardo si creava, così come, a suo

tempo, gli era successo di fronte alla gente lucana. Ciò gli procurò, di fatto, molte nuove critiche da parte di coloro che, in

tale simpatia, leggevano l’intenzione di mitizzare l’immobilità e, di conseguenza, predicare l’immobilismo politico e sociale. Carlo Levi, ancora una volta, si difese da tali malfondate accu-

se, facendo sottilmente osservare che, se aveva rappresentato l’immobilità di certe terre e di una certa cultura, era perché voleva che esse si muovessero. Forse è per questo che, al tempo di Tutto il miele è finito, il tono della denuncia si faceva più evidente. Di conseguenza, il linguaggio diventava meno vago, certamente a vantaggio della esplicitazione delle intenzioni politico-sociali, ma a danno della poesia, che di un suo specifico linguaggio ha sempre bisogno. Perciò, più chiara che nel Cristo si èfermato a Eboli ricorreva la confessione che, se antica era la civiltà sarda, altrettanto antica era la miseria, che ad essa si legava. Era proprio vero, infatti, che “quella terra così antica di uomini, che scopriva strati archeologici ricchissimi”, era la stes-

sa “dove ivecchi pastori di novant'anni non 4vevano mai conosciuto un letto, né mai si erano spogliati per dormire”. In un mondo siffatto, in ogni caso, i colori prevalenti, come,

del resto, nella Lucania visitata circa trent'anni prima, erano quelli della miseria, cioè il grigio e il nero, allo stesso modo che gli animali selvatici più diffusi erano i gufi, le cornacchie e le civette. E come in Lucania, anche in Sardegna le donne soprattutto, simbolo della terra, erano nere, coperte di scialli neri, 78

orgogliose e decise, vere amministratrici della vita e della famiglia, contemporaneamente prefiche e sibille. A volte sembravano uscire dalla terra, come quella vecchia, emersa dal buco del suo tugurio a Cagliari, che, “vestita di stracci neri, avvolto il capo nel velo nero, le sottane, i grembiali, le calze, le scarpe nere, e al dito un anello nero fatto di un brandello di straccio arrotolato... alzava le braccia al cielo urlando lamenti, come una folle attrice di un teatro classico”, in una “classica diroccata

platea”. Nel qual costrutto stilistico, interessante è l’uso avvolgente dell’accusativo alla greca, che serve a cancellare ogni distinzione tra l’essere e il parere, la sostanza e la forma, la figura umana e le cose. Che se poi si fossero trovate insieme tante donne, esse potevano suscitare l’immagine del coro di una tragedia greca, o anche — ma in fondo è la stessa cosa —- l’immagine, come ad Aliano, di uno stormo di uccelli neri. Ed è una donna,

una madre — e non un padre — a intonare, a conclusione del secondo viaggio del 1962, un lamento funebre, in cui si piange la morte del giovane figlio: “Il miele degli uccelli / ora è tutto finito / ora più non ce l’hai /ora è finito tutto...”. AI solito, però, dato per scontato il suo profondo desiderio che si arrivasse, quanto prima possibile, ad un riscatto generalizzato delle terre depresse del Mezzogiorno e di tutte le Lucanie del mondo, il problema reale di Carlo Levi era, per lui come

per i suoi critici, quello di trovare la via politica ed economica più giusta a tal fine. A Cagliari, a Carbonia, ad Orgosolo, soprattutto tornando dopo dieci anni, non erano pochi gli elementi di novità che vi aveva rinvenuto; ma, in gran parte, egli li leggeva in senso negativo. Di qui il carattere del lamento funebre finale, che dà il tono al libro e, di conseguenza, si manifesta

come un sopravvenuto e più grave pessimismo del cuore, ancorché, parafrasando e capovolgendo un’antica massima gramsciana, immutato fosse rimasto l’ottimismo della ragione. Sta di fatto che raramente il nuovo appariva a Carlo Levi bello e buono; più spesso, anzi, esso era una deturpazione ed una

violenza. I primi segni si erano già intravisti al tempo del primo viaggio, nel 1952. Era il caso di Carbonia, che appariva come “un’iso79

la di terra dentro l’isola di Sardegna, un inserto moderno in quelle rituali immutabili pergamene”. In modo troppo stridente e sommario, infatti, il nuovo si giustapponeva o sovrapponeva al vecchio. Né, a riscattare la bruttura del nuovo, valeva il fatto

politico che, in meno di quindici anni, a partire dal 1939, “si era venuta formando una città, un popolo, un proletariato, che parlava tutti i dialetti d’Italia..., viveva di privazioni, che spesso non aveva da mangiare, ma che 4veva già come valore comune una propria tradizione recente, e la tenacia e la speranza”. Che cosa, infatti, poteva mai significare ciò, se permaneva la miseria e si faceva caso ai costi umani di una colonizzazione forzata, che, tutto sommato, faceva di Carbonia “un ghetto minerale, ... senza radici, senza passato”?.

Per capire in che senso avrebbero dovuto andare gli interventi in Sardegna, bisognava fare il confronto fra Carbonia e Iglesias, anch’essa città mineraria, in cui, però, “tutto sembrava

vero, in un mondo vero”. Rispetto alla “feroce astrattezza di Carbonia”, infatti, il paesaggio di Iglesias era “un pezzo armonico e poetico di natura”, essendo un mondo che faceva parte integrante della storia e della vita di Sardegna, sicuramente perché, in quelle miniere, “che furono già cartaginesi e romane e pisane, abbandonate e riaperte tante volte”, era condensata “una più antica storia di lavoro umano”. Per questo, rispetto a Carbonia, opera del regime fascista, “Iglesias era limpida e netta”. Eppure, tra il 1952 e il 1962, in dieci anni, gli esempi di

errati interventi dall’alto, che producevano solo squilibri economici, etici e sociali, si erano intensificati. Di qui l'amarezza

del Levi. A Cagliari, il capoluogo della regione e simbolo della stessa, intorno intorno si potevano ormai osservare, con orro-

re, “grandi quartieri nuovi di palazzi senza carattere, [e] un paesaggio come quello a cui ci si era ormai abituati dappertutto”, opera “di una società mobiliare, composta tutta di nobili, dal presidente ai funzionari, dal cassiere all’usciere”, che stava a significare che era nato “un nuovo Medioevo speculativo, il 240vo feudalesimo delle aree edificabili”. Fra convinzione di Carlo Levi, dunque, come sempre, che

ogni intervento dall’esterno, il quale non si collegasse alla sto80

ria vera e profonda del paese, non avrebbe mai avuto esito felice ed era un deturpamento. Un esempio tipico poteva essere lo stesso Piano di Rinascita studiato a bella posta per la Sardegna. Esso poteva “volgersi in un modo o nell’altro, a seconda della sua attuazione”, nel senso che poteva “paternalisticamente fallire, o ridursi a poca cosa, come i vari enti di riforma”, o poteva,

“se sostenuto dal popolo, condurre a una vera pianificazione dal basso, a una modificazione radicale e positiva della vita dell’isola”. E c'erano esempi confortanti di nuovo che poteva avanzare in modo autentico, mettendo in moto un processo di maturazione autonoma, anche verso l’interno dell’isola. Era il caso di Tonara, nel cuore del Gennargentu, dove Carlo Levi

ritrovò, a dieci anni di distanza, le stesse donne tessitrici di tappeto. Con somma sua soddisfazione, però, egli poté osservare come, “nei loro costumi antichi, la madre e le figlie disegnatrici (le stesse che, dieci anni prima, con neri occhi scintillanti di intelligenza e di vitalità, ridevano, libere, dell’inferno, ma si

sottomettevano alla regola ereditata dell’autorità del pastore)”, quelle stesse, appunto, “parlavano esperte del mercato italiano e di quello internazionale, dei grandi magazzini e delle loro esposizioni a New York”. Si trattava, tuttavia, di esempi piuttosto rari, perché assai più frequenti erano quelli di uno Stato estraneo e straniero, colonizzatore e violento, che, presenza sospettosa e insidiosa, inse-

gnava la paura, l’inganno e l’agguato. Al tempo della sua seconda visita ad Orgosolo —- ricordava Carlo Levi -, la piazza del paese appariva “stranamente sgombra, lasciata alle raffiche del vento”. Nascoste nei vicoli, però, si potevano scorgere “tre camionette piene di carabinieri in assetto di guerra, come in un borgo presidiato durante una occupazione”. Il dramma era che l’antica legge, operante nelle coscienze sarde di Orgosolo, non era più certa, sicché “quella che era norma sicura e indiscussa, secolare giustizia, poteva sembrare ingiusta, non soltanto all’occhio estraneo e incomprensivo dello straniero, alla sua legge e al suo rifiuto, ma all’animo stesso del paese, al suo sentimento collettivo, alla volontà dell’operaio figlio di pastore, e anche, forse, al cuore del latitante, solo come una fiera tra le rocce 81

inaccessibili”. Naturalmente, era difficile che ci si trovasse d’accordo col

principio di non-intervento, praticamente proclamato da Carlo Levi, anche se era vero che lo Stato, non avendo mai fatto il

suo dovere nei confronti della Sardegna, come anche verso la Lucania e il Sud in genere, in fondo era il primo responsabile della miseria, del brigantaggio e dell’antistatalismo diffuso in quelle terre. Non si è affatto sicuri, però, che il non-intervento aiuti a superare tale frattura. Il fatto è che, partendo dalla premessa, accettata come un assioma, per cui “qualunque intervento di fuori è, forzatamente, dannoso”, non si capiva chi avrebbe dovuto muovere le leve del riscatto So, Era, come ognuno poteva, e può constatare, un grosso passo indietro rispetto alla fiducia nel Partito e nei sindacati, che, pure, aveva retto la stesu-

ra di Le parole sono pietre, e che, obiettivamente, era apparsa come un superamento del Cristo si èfermato a Eboli. La verità è che la situazione, nel Sud, risultava ormai largamente logorata dagli eventi più recenti, e in primo luogo dalla emigrazione. Il Sud, insomma, era diventato ancora più Sud.

Di emigrati, occasionalmente tornati in Sardegna, Carlo Levi ne incontrò tanti, nel suo secondo viaggio. Uno di essi lodava la vita di Germania. “Si guadagna” - diceva. Fra “operaio in una fabbrica di plastica ad Amburgo, e con i cottimi poteva fare più di centomila lire al mese. Ne mandava a casa cinquantamila, a sua madre”. Certamente gli sarebbe piaciuto tornare al paese. Ma non poteva. Tra la miseria a casa e il benessere all’estero, sceglieva quest’ultimo. E chi gli poteva dar torto? Un altro era stato prima in Algeria, poi, anche lui, in Ger-

mania. Persino fonde della sua to Carlo Levi l’emigrazione.

l’amico archeologo, che cercava le origini proisola e che, dieci anni prima, aveva accompagnanel suo primo viaggio, aveva scelto la via del“Er lontano, e suo padre e sua madre, pastori,

erano morti”. La sua, come moltissime altre porte di casa, era

ormai definitivamente serrata. Forse non sarebbe stata mai più riaperta. C’era stato un esodo quasi generale, nel 1962; e continuava ancora ogni giorno. Erano partiti “1 contadini e le donne, e poi anchei servi-pastori, e i pastori, dopo che iprezzi del 82

latte erarz0 precipitati”. Insomma, tutti “dovevano strappare le proprie radici come alberi per un trapianto”, lasciando vuoti i campi e i paesi. Forse era vero che tutto il miele era finito. Il libro aveva, dunque, tutto il carattere di una evocazione e

di un rimpianto. Di qui il suo tono prevalentemente lirico 0, meglio, come si è detto, elegiaco, in cui, com'è facilmente comprensibile, era assente una robusta struttura narrativa, non rientrante, del resto, nelle possibilità di Carlo Levi, cui mancavano

le attitudini all’architettura. Essendo invece egli un pittore, nella scrittura rimase sempre una sorta di impressionista, o, per meglio dire, rimase il creatore felice della singola scena, o il

disegnatore del singolo personaggio, o il raffiguratore del singolo quadretto. Per tal motivo, ogni pagina e ogni passaggio di Tutto 1 miele èfinito andavano e vanno letti a sé, come frammenti ed esempi di prosa lirica. Ciò rende anche ragione delle frequenti ripetizioni, di cui lo stesso Carlo Levi si rendeva conto e di cui, in

premessa, chiedeva scusa al lettore. La ripetizione, del resto, era implicita nel carattere dell’opera e, talvolta, persino voluta e costruita dall’autore, premesso l’assunto che, in Sardegna, tutto tornava su sé stesso, sicché tutto era identico e diverso nello

stesso tempo. In tal senso, assumeva un valore emblematico il fatto che, anche nel secondo viaggio, esattamente come era successo nel primo, Carlo Levi dimenticava i propri bagagli nell'albergo di Cagliari. La naturale tendenza al frammentismo lirico, ovviamente,

non poteva non tradursi, come del resto in tutte le opere del Levi, in un costante pericolo di frammentarietà, sempre insi-

diosa. Il che non giovava a nessuna opera leviana, e quindi nemmeno a Tutto il miele è finito. Mancava e manca dunque, al libro, la sostanziale compattezza e unità che, nonostante il suo carattere pur anche pittorico e lirico, ebbe il Cristo si èfermato a Eboli, cui giovò il fatto di essere stato costruito su appunti e note accumulatisi in uno stretto e ininterrotto arco di tempo. Quanto a Tutto il miele è finito, invece, bisogna accontentarsi della singola e isolata pagina bella, generalmente coincidente con una commossa scena di vita o con una nota di paesaggio, in 83

cui il Levi, com'è suo solito, riesce a trasferire tutto il suo gusto

per il mitico, il favoloso e l’indeterminato. E ciò è già tutto nell’attacco iniziale, che dolcemente si spande e si diffonde, come l’acquerello sulla carta. “Sulla terra, sparsa di rocce biancastre si legge con ritmo cullante sin dalla prima pagina -, -, si levano a perdita d’occhioi gigli selvaggi, e, diritti sul gambi leggeri, i fiori degli asfodeli. Sulle costiere lontane dei monti, le greggi sembrano pietre, sotto il cielo mutevole, che insensibilmente si

muovono, scivolando silenziose per i pendii solitari”. A così carezzevoli effetti, ancora una volta, come si può vedere, molto concorreva l’uso sapientissimo della punteggiatura, che riusciva a render bene, con le necessarie pause, in tutto simili a tanti ritocchi di pennello, l’atmosfera del paesaggio e dell’intero mondo sardo, dai confini lontani e sfumati. E proprio il gusto dell’indeterminato richiamava, spesso, suggestioni leopardiane, insospettabili in un uomo proveniente dalla geometrica Torino e dalla scuola del razionalismo piemontese. Ciò accade, per esempio, nel passaggio seguente: “Viene la notte: mail cielo ha ancora un chiarore colorato, una lunga, persistente luce livida che tinge le distanze, e le chiude in mura d’aria che pare isolino dal mondo circostante il paese assediato: una patetica siepe di vapori che lo dividono dall’infinito supposto al di là”. In cui non può non leggersi l’eco della siepe leopardiana, al di là della quale il poeta si fingeva sovrumani silenzi, interminati spazi e profondissima quiete. Spesso, nella descrizione del pastore, solu che fera (“solo come una fiera”), si afferra l’eco del leopardiano “pastore errante delAsia”. Né manca il gusto per il “forse”. A Sorgono, per esempio, si va alla ricerca del ristorante “Risveglio”, in cui, a suo

tempo, si era fermato l’inglese D. H. Lawrence. Quanti anni prima? Levi lo chiedeva ai pastori, “che tornavano sulla strada con le capre”. Puntuali, nella loro vaghezza, erano le loro rispo“Non c’è nessun ristorante ‘Risveglio’ — dicevano. - C'era una volta. Non c’è più. Forse è quello in alto, vicino alla ferrovia. Forse ha cambiato nome...”. La tendenza è, dunque, verso la favola, come, del resto, in tutta la scrittura di Carlo Levi; ma in Sardegna, come in Lucania, 84

in un luogo cioè in cui le distanze non contano, come non contano 1 particolari precisi, l'intonazione fiabesca non è una intellettualistica sovrapposizione, ma il corrispettivo del reale. E proprio per questo che la pagina più bella, piccolo e intenso capolavoro, che può riscattare da sola l’intero libro, è la novella della cornacchia Orune, vera favola nella favola. Tutto avviene

in un luogo lontano, musicale nel nome, Orune, “paese di pastori e di poeti popolari”. Ma chi conosce Orune? E chi ci è mai stato? Su questa “ignoranza” giocava il Leopardi, allorquando inventava la figura dell’Islandese o narrava del Capo di Buona Speranza o degli sconfinati spazi atlantici, in cui si svolgeva il viaggio di Colombo e Gutierrez. Ma chi era Gutierrez? E di Orune null’altro si poteva dire, di particolare, se non che, in

quei luoghi, “il pastore solitario in mezzo ai sughereti si ode di lontano cantare, mentre lavora ai formaggi, i classici versi di sa mundana cumedia, del processo contro Dio”, mentre, “nelle ‘cucine vecchie’, nelle capanne, nelle case, uomini e donne stan-

no radunati le lunghe sere, a raccontare e a gridare lamenti di morte, madrigali di vendetta eroica, barbara poesia”. Ma dove?

E chi sono questi pastori erranti? Lì - racconta ancora fiabescamente Carlo Levi - “un bambino mi portò Orune, la cornacchia, e una sua sorella [Oliena], come lei appena nata”. E lui, Levi, la chiamò Orune, dal nome del paese, perché la cornac-

chia è un animale che fa tutt'uno coi luoghi e con la terra. Anzi è la “cornacchia dei luoghi”, chiamata in dialetto carroga, “animale nuragico e arcaico”. Così le due cornacchie sorelle - Orune ed Oliena - finirono a Roma, in città, sotto altri cieli. In principio sembrava che tutto andasse per il meglio; ma una mattina, morta la sorella, Orune apparve essa pure moribonda. Presto Levi corse ai ripari, riuscendo miracolosamente a salvarla, proprio come nelle fiabe. La povera bestia sembrò allora adattarsi e integrarsi nel nuovo ambiente, familiarizzando con altri uccelli che non co-

nosceva. Sembrava vivere felice e contenta. La scena, come in un quadro, era sotto gli occhi del pittore-scrittore. “Dalla finestra vedeva gli uccelli che giungevano a salutarla con i loro canti 85

variati. Un pettirosso le si avvicinava a piccoli balzi successivi, passando dall’albero di alloro al nespolo, al bambù, e scendendo poi sul terreno a parlare con quello strano uccello di altri paesi. Orune rispondeva con la sua voce gentile, che somigliava al roco suono della lidelba”. Ma apparente era la felicità di Orune, trasferita, come l’emigrante, in un altro paese che non era il suo. “Tra gli alberi e i fiori, gorgheggiava con il fringuello e l’usignolo, fischiava con il merlo, cantava con ogni sorta di

pennuti con la sua grossa voce comica e commovente; ed era felice del sole del mattino. Ma un giorno sparì”. Né se ne trovarono tracce o segni di alcun genere. Forse era morta; “ma io amo credere piuttosto — continua lo scrittore -, contro ogni verosimiglianza, che sia volata via, che abbia rifatto, dopo tre anni, fatta adulta, il suo volo infantile in aeroplano, sopra il mare, fino all’isola dei sardi, alle rocce di granito, ai prati degli asfodeli, alle querce contorte che sorgono solitarie sui campi deserti”. Chiaro è il senso della favola. E chiaro è il senso del libro,

certamente il più bello fra quelli scritti da Carlo Levi dopo il Cristo si è fermato a Eboli, insieme al quale, in forma per l’appunto spesso fabulosa, è cantato un naturale quanto commosso atto d’amore, che va oltre la Sardegna e oltre il Sud, per abbrac-

ciare tutti coloro che, quotidianamente, subiscono la violenza della propria identità. E poiché, come diceva Pavese, il mito è più vero del fatto, più spedito va, verso il futuro dal cuore antico, il messaggio di Levi. Lo trasporta la cornacchia Orune, “donna-uccello” di Sardegna, che ha il privilegio di volare sulle ali della poesia.

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CCASPU TITO NI OBS E STEISIMO

Cristo si èfermato a Eboli

(1945)

Scrivendo Tutto il miele èfinito, come in un cerchio, Carlo Levi sembrava ricongiungersi a quelle posizioni iniziali che, a suo tempo, tra gli sconvolgimenti del secondo conflitto mondiale, ambivano ad essere un ritorno all’uomo e alla sua auten-

tica natura. E l’uomo egli aveva trovato fuori della civiltà tecnologica e delle deturpazioni della storia, il giorno in cui era arrivato in Lucania, nel lontano agosto del 1935, “scaricato” — come egli stesso dice - “da due robusti rappresentanti dello Stato, dalle bande rosse ai pantaloni e dalle facce inespressive”. C'era stato, tra il Cristo si èfermato a Eboli e Tutto il miele è finito, un lungo tempo dell’orologio e, attraverso il tempo dell'orologio, i viaggi in Sicilia, in Russia e in Germania, durante i quali egli aveva inseguito la storia e i suoi eventi, passando tra illusioni e delusioni. Ad un senso di amara stanchezza - come si è detto — era arrivato alla fine, quando aveva maturato la consapevolezza che, ancora una volta, negli anni Sessanta, il benes-

sere di pochi continuava a costruirsi, e in forma traumatica, a detrimento di molti. Dal Sudamerica al Sudafrica, dall’Indocina

alla Sardegna, milioni di uomini continuavano a veder calpestata la propria dignità, travolti dalla retorica delle “magnifiche sorti e progressive”. Non per niente quelli di Tutto il mieleè finito erano gli stessi mesi in cui Carlo Levi riprendeva fra le :

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mani il Cristo si èfermato a Eboli! e, rimeditandolo senza nulla aggiungervi o togliere, perché la “contemporaneità dei tempi” non lo esigeva, poteva scrivere, rivolgendosi al suo amico ed editore Giulio Einaudi, che il Cristo si èfermato a Eboli gli sembrava veramente “il primo momento di una lunga storia, che era continuata modificandosi, e continuava diversa” nell’uomo, nelle cose

e in tutti i libri che aveva scritto e avrebbe scritto in seguito. Era come dire che il Cristo si è fermato a Eboli rimaneva il libro dei libri, perché era il libro della rivelazione del mondo e del poeta a sé stesso. Era, insomma, il libro più leviano che egli avesse scritto, e certamente, anche per questo, il più bello in senso assoluto. Carlo Levi - com’è noto — era arrivato in Lucania il 3 agosto del 1935; ma non era approdato subito ad Aliano. La prima tappa del suo confino, infatti, era stata Grassano, donde, per vicende particolarissime, e anche per punizione, il 18 settembre successivo era stato trasferito ad Aliano. Qui sarebbe rimasto fino al 26 maggio del 1936, cioè per otto mesi. Era stato come cadere in un pozzo, ovvero come regredire di qualche millennio, in un’altra realtà e in un’altra vita. Il confino, in tal

modo, non era solo un allontanamento rispetto al fascismo e alla società italiana, ma era anche un distacco rispetto alle vicende dell’umanità, in una condizione privilegiata per riflettere e capire meglio l’uomo e il suo destino. Si trovò infatti ad essere — come egli stesso scrisse — “così libero dal proprio tempo, così da esso esiliato, da poter essere veramente un contem-

poraneo: e non soltanto un contemporaneo della contemporaneità illimitata — precisava -, ma, nei fatti, un contemporaneo

degli uomini nuovi, dei piccoli, degli oscuri con cui ebbe la ventura di vivere e di formarsi e conoscersi”. Il che, in fondo,

significava che ad Aliano, ripiegato su sé stesso e costretto a vivere nel silenzio dei luoghi e nella indeterminatezza dei tempi, egli imparava, sì, a conoscere l’uomo in assoluto, ma, contemporaneamente e soprattutto, imparava ad amare l’individuo mortificato e vilipeso nella sua umanità, cioè l’umile. 1 C.LEVI, Cristo si è fermato a Eboli, Torino, Einaudi, 1967, da cui, quando e indicazioni, sono tratte tutte le citazioni del presente capitolo. 88

Era così che egli si apriva la strada futura alla sua vocazione e al suo particolare impegno a favore dei deboli, mai più tradito. Un simile processo non era cominciato propriamente a. Grassano, dove l'impressione della diversità e della atemporalità era meno evidente. Grassano, infatti, era pur sempre un paese “piuttosto grande, su una via di passaggio, non lontano dal capoluogo di provincia”. Non tale, invece, era Aliano, che era “un piccolissimo paese, e lontano dalle strade e dagli uomini: le passioni vi erano perciò più elementari, più semplici”, anche se “non meno intense che altrove”. Per arrivare ad Aliano, partendo da Grassano, bisognava allora, ed ancora oggi, scendere alla stazione dello stesso paese, risalire per i monti, passare per Accettura, poi per Stigliano, scendere nella valle del Sauro e, quindi, risalire ancora, emergendo ad Aliano. Tutto avveniva, e

avviene, fra burroni, dirupi, lontano da presenze di vita. E il viaggio di Carlo Levi, per l’appunto, era stato tutto accompagnato da immagini di morte, di squallore e vago terrore, che,

gradualmente, avevano preparato l’approdo finale ad un paese senza storia e senza Vita. Già all’inizio del viaggio, che era una vera e propria traversata, a Carlo Levi qualcuno aveva detto che, in fondo al burrone che giaceva ai suoi piedi, un giorno era caduta la banda musicale di Grassano, di ritorno proprio da Accettura. Si raccontava anche, con cupo senso di terrore, che “da allora i morti suonatori si ritrovavano a mezzanotte, in fondo al burrone, e suonavano

le trombe”. Passando successivamente per San Mauro Forte, si potevano ancora notare, all’ingresso del paese, i pali “a cui furono infisse per anni le teste dei briganti”. Si entrava quindi nel bosco di Accettura, che si attraversava “con curioso timore”, al

ricordo che esso fu il “regno dei briganti”, anche se non era sgradevole per altro verso, essendo, quello, “uno dei pochi [boschi] rimasti dell’antica foresta che copriva tutto il paese di Lucania”. Ma era, purtroppo, anche “un regno assai piccolo”, che “si abbandonava assai presto per salire a Stigliano”, tristemente segnato dalla presenza del vecchissimo corvo Marco”, che “da secoli st4va sulla piazza, come un dio locale, e svolazzava nero sulle pietre”. 89

Dopo il fondo arido del fiume Sauro, tutto pieno di “sassi bianchi”, finalmente si arrivava ad Aliano, che, però, non era

in vista. Non era infatti, come gli altri paesi, in cima al colle, ma appariva come sprofondato in una conca, o, per meglio dire, “in una specie di sella irregolare, in mezzo a profondi burroni pittoreschi”. La strada, manco a dirlo, non procedeva oltre, perché, arrivata all’estremo di Aliano di Sotto, si interrompeva bruscamente su una frana, a ridosso della orrida Fossa del

Bersagliere, “così chiamata per esservi stato buttato un bersagliere piemontese, sperdutosi in quei monti al tempo del brigantaggio e fatto prigioniero dai briganti”. Era come se la vita e il mondo si fermassero definitivamente. Tanto, per il resto, stava a indica-

re l’intero paesaggio circostante al paese, che, in ogni dove, non era altro se non “argilla bianca, senz’alberi e senz’erba, scavata

dalle acque in buche, coni, piagge di aspetto maligno, come un paesaggio lunare”. Tutto, dunque, allo strano forestiero paracadutato da Torino, appariva spettrale, assurdo, paradossale, quasi irreale o surreale nella sua uniformità stagnante. Nel tempo, d’altronde, egli si sarebbe accorto che, su quel paesaggio, non ci sarebbero state mai variazioni di alcun genere, perché vi avrebbe visto solo e sempre argilla bianca e arida. Neanche la primavera vi lasciava tracce. Quando arrivò aprile, si avvertì nell’aria, è vero,

“come un tremito lontano, che forse annunciava la primavera; ma non arrivarono ... quegli effluvi di una vita rinascente, quel turgore vegetale delle felici terre del Nord, che si liberano della neve per respirare nel sole amoroso e nel verde...”. Nulla, insomma, cambiava in quel paesaggio straordinario, in cui “le argille si stendevano grige tutto attorno, come sempre”. Solo più tardi, nello stesso mese di aprile, sembrò che qualcosa fosse cambiato. Fu quando, di ritorno da Torino, dove si

era recato con permesso speciale per la morte di uno stretto parente, il Levi notò, risalendo verso Aliano, che, “sulle argille

bianche, ... piccole chiazze di verde, sparse qua e là, brillavano al sole più intense e più strane, come delle grida; parevano lembi di maschere stracciate, sparse alla rinfusa”. Si trattava di una “assurda apparizione”, che scomparve subito dopo, “sotto il sole 90

e il vento ardente di un maggio improvvisamente estivo [...]. Il paesaggio era tornato quello di sempre, bianco, monotono”. C'era stato, insomma, “un verde innaturale e imprevedibile”,

così puntualmente annotato in una delle liriche-appunti, che lo scrittore, senza ambizioni poetiche, andava nel frattempo saltuariamente scrivendo: “In queste terre nascoste /- dicono quei versi che non sono tra i peggiori — le tragedie non han palchi,/ ma umilmente composte / si recitano in silenzio. // Come un’ignota sorpresa / posa la primavera / sull’arida distesa / un verde imprevedibile”?. Su un paesaggio siffatto, e come nei luoghi di Sardegna che avrebbe incontrato al tempo di Tutto il miele èfinito, non poteva non aggirarsi il “volo nero dei corvi” e, più in alto, quello “delle grandi ruote dei falchi: ci si sentiva guardati di fianco dai loro occhi immobili e rotondi”. Neanche il canto dei galli, in tale contesto, poteva avere alcunché di festoso e vitale. I galli di Aliano, infatti, “cantavano, con quel loro canto del pomeriggio che non ha la gloriosa petulanza del saluto mattinale, ma la

tristezza senza fondo della campagna desolata”. Tutto, cioè, pareva intonato e quasi far da corona alle case del paese,“in bilico sull’abisso, pronte a crollare e piene di fenditure”, sulle cui

porte, con un senso di tetraggine, oscillavano “stendardi neri, alcuni nuovi, altri stinti dal sole e dalla pioggia”. Era veramente come se tutto il paese fosse “a lutto, o imbandierato per una festa della Morte”. Persino le campane, quando talvolta suonavano, sembravano suonare solo a morte. Insomma si sarebbe detto un paese di morti, abitato dalla Morte, sicché non è mera-

viglia che il primo incontro di Carlo Levi fosse avvenuto con 2 C. LEVI, Lirica senza titolo, datata marzo 1936, in Poesie inedite, 1934-

1946, Roma, Mancosu, 1990, p. 111. Alle liriche del Levi, nel presente saggio, volutamente non si è inteso dedicare particolare attenzione critica, non avendo esse, obiettivamente considerandole, alcun interesse letterario. Possono, invece, servire come testi documentari. Lo stesso autore, del resto, si guardò

bene dal pubblicarle, confessando una volta, con apprezzabile consapevolezza autocritica, che, in fondo, si trattava, generalmente parlando, di “scherzi e

cose da nulla” (Cfr. C. LEVI-L. SABA, Carissimo Puck. Lettere d’amore e di vita, 1945-1969, cit., p. 39).

Si

una vedova e che, subito dopo, seconda conoscenza, egli avesse incontrato alcuni contadini, che, saputo chissà come del suo arrivo, erano venuti a chiamarlo, perché visitasse un moribondo, ammalato di quella malaria perniciosa che, insieme alla

morte, costituiva l’altra greve e ossessiva presenza maligna, sospesa sul paese. Carlo Levi, il giovane dottore che aveva fatto le sue prime e uniche esperienze mediche come assistente nelle gloriose cliniche universitarie di Torino, si trovò con raccapriccio, ma anche con sconfinata pietà, di fronte ad un malato “sdraiato in terra, vicino all’uscio, su una specie di barella, tutto vestito”. Poté

anche apprendere, con grande tristezza, che quel disgraziato “era stato portato in casa da pochi minuti, che arrivava da Stigliano, a venticinque chilometri di distanza, dove era stato condotto sull’asino per consultare i medici di là, che c’erano sì dei medici ad Aliano, ma non si consultavano perché erano medicaciucci, non medici cristiani”, cioè senza preparazione e, ancor peggio, senza pietà. Ma cristiani, in siffatta condizione, lo erano ancor meno

soprattutto i contadini, che potevano morire così come mori. vano le foglie e succedevano le frane, cioè con la stessa fatalità e rassegnazione. Un loro ritornello, monotono e stanco, stava a testimoniarlo. “Noi - dicevano — non siamo cristiani, non siamo uomini, ma bestie, bestie da soma, e ancora meno che le bestie, i fruschi, i frusculicchi, che vivono la loro libera vita

diabolica o angelica, perché noi dobbiamo invece subire il mondo dei cristiani, che sono di là dall’orizzonte, e sopportarne il peso e il confronto”. Appariva subito chiaro, dunque, che tutti, ad Aliano, vivevano solo tra il ricordo della morte, testimonia-

to dai drappi neri, e l’attesa di essa, sempre insidiosa. Anzi come affermava il becchino del cimitero di Aliano —, “il paese era fatto delle ossa dei morti”. E voleva certamente significare che ad Aliano la vita era vuota e senza storia, grigia e monotona, triste e sterile coma tutta la campagna argillosa; ma voleva anche dire qualcosa di più cupamente vero e reale, tanto l’esistenza, in quel paese, era segnata dalla compresenza e convivenza con i morti, i cui scheletri, sepolti per secoli nelle chiese o 92

nella campagna circostante, apparivano all'improvviso all’aria, ad ogni scavo e ad ogni sommovimento del terreno. Né costituivano meraviglia o ribrezzo per nessuno. Quando, per esempio - ricorda Carlo Levi —, “il podestà fece fare... uno scavo per porre le fondamenta di una casetta, opera del regime, da servire da sede dei balilla, a due palmi di profondità, invece di terra si trovarono ossa di morti, a migliaia, e per parecchi giorni il paese fu attraversato dai carretti carichi, che trasportavano le spoglie di quei nostri antichi parenti per essere buttati alla rinfusa giù nella Fossa del Bersagliere”. Con i morti e i loro scheletri, insomma, si viveva in tanta vicinanza e confidenza, che il becchino trattava le ossa umane, come fossero pietre o comunque oggetti di nessun interesse. A

volte, scavando una nuova fossa, capitava che “si chinava a raccogliere, per terra, la scapola di un cristiano; la teneva un poco in mano, parlando, e poi la buttava in un canto”, con grande

indifferenza. Altre volte, sembrava quasi che ci fosse una sorta di distacco cinico verso i morti, e comunque di tetro umorismo. Il fatto è che, in un paese in cui la gente viveva come se fosse morta, i morti non erano morti, né suscitavano sentimenti

di pietà e compassione, o di paura e raccapriccio. Erano, per dir così, compagni naturali, oggetto anche di scherno e di scherzo. Più recenti ossa erano state trovate, un’altra volta, nelle “tom-

be sotto il pavimento della Madonna degli Angeli, la chiesa crollata [del paese], non ancor calcinate come quelle del cimitero;

anzi molte portavano ancora attaccati dei brandelli secchi di carne o di pelle incartapecorita; e i cani le dissotterravano e se le disputavano, correndo con una tibia in bocca e abbaiando furiosi su per la via del paese”. In senso simbolico e concreto, sia pure con una certa forzatura, anche questo rientrava nella contemporaneità dei tempi, perché, in un paese, “dove il tem-

po non scorre, era ben naturale che le ossa recenti e meno recenti e antichissime, rimanessero, ugualmente presenti, dinanzi al piede del passeggero”. Ed era ben naturale che tutto, non solo nelle cose, ma anche negli uomini, fosse nero. Puntuale,

una poesia-appunto dell’ottobre 1935 annotava la presenza di tale colore, riproponendo l’atto del becchino che raccoglieva 93

con indifferenza, quasi rozzo Amleto, la scapola di un “cristiano”: “Sotto stendardo nero / stanno le porte e le soglie / il becchino nel cimitero / fra l’erbe stente raccoglie / la scapola d’un cristiano / suonano le campane / per qualche morto americano/ nella farina, vestite di rero, / le donne nere fanno il pane”?. Si è detto che l’immobilità o fissità era la caratteristica di quel mondo senza storia. E si trattava della immobilità, non nella perfezione e serenità dell'Olimpo, ma nella sofferenza e nella tragedia, che, pesando come una cappa, coinvolgeva tutti, anche coloro che sembravano comandare e dominare sugli altri, perché pur essi, a guardar bene, soggiacevano allo stesso destino di miseria, se non materiale, certamente spirituale e morale. Tutti, insom-

ma, erano ugualmente infelici. Noia e squallore travolgevano don Luigino, il podestà, e i dottori, non meno che i contadini. Don Luigino era il maestro elementare, prototipo del galantuomo meridionale, che —- come si è già avuta occasione di accennare — aveva trovato nel fascismo, come ieri nel giolittismo e nel nittismo, nel liberalesimo e nel borbonismo, il mezzo per dare sfogo alle proprie megalomanie sociali. E don Luigi Magalone era megalomane anche nel nome. Ma non era felice. Come tutti i galantuomini, infatti, egli viveva roso dalle sue misere ambizioni, ma anche dai contrasti, dagli odi e dai pettegolezzi dei suoi rivali, che alle loro frustrazioni e ai loro odi

spesso davano sfogo con penose lettere anonime, com’è vero che “ogni giorno [queste] partivano da tutti i paesi della Lucania ... alla Prefettura”. E la Prefettura, che conosceva l’antico motto “divide et impera”, “non ne era malcontenta, anche se affetta-

va il contrario”. Carlo Levi attribuiva un valore e ruolo funesto proprio alla classe dei galantuomini meridionali, la quale, pur rappresentando la borghesia, era pur anche una squallida e “piccola borghesia di paese”, che nulla aveva a che dividere con la gloriosa borghesia, cui apparteneva il Levi. Nulla, infatti, essa aveva di quella cultura illuminata, democratica e dinamica che, nel Nord

e in Europa, le aveva permesso di fare la storia dei Comuni 3 C.LEVI, Triste paese in Poesie inedite, cit., p. 67.

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prima e, poi, la rivoluzione francese e il Risorgimento italiano. Era, invece, “una classe degenerata, fisicamente e moralmente,

incapace di adempiere la sua funzione, e che solo viveva di piccole rapine e della tradizione imbastardita di un diritto feudale”. Questo era il motivo per cui Carlo Levi era del parere, certamente eccessivo, che, fino a quando quella classe non fosse stata “soppressa e sostituita”, non si sarebbe mai potuto “pensare di risolvere il problema meridionale”. C'era, cioè, in Carlo Levi, un atteggiamento tanto sprezzante e spietato verso i galantuomini, quanto giustamente pietoso e comprensivo nei confronti dei contadini, ancorché questi potessero, a differenza dei “luigini”, trovare una forma di conforto, e forse anche di sereni-

tà, nella solidarietà e nell'amore dei propri simili. Se infatti i “luigini” rappresentavano l’individualismo estremo, tormentato e carico di ogni forma di livore ed egoismo, i contadini rappresentavano quell’indifferenziato che, certamente non libero e senza identità, e pur precedente ad ogni forma di civiltà e di progresso, era tuttavia partecipe e intriso di quella bontà originaria, che, se non altro, insieme alla solidarietà, dava anche un

senso di quieta rassegnazione e fatalismo consolatorio. I contadini, in altre parole, più dei “luigini”, sentivano di far parte di un tutto, che li accomunava, sia pure nel dolore. Istintivamen-

te, perciò, si sentivano vicini l’uno all’altro, uniti da un naturale senso di fratellanza. Di qui, fra l’altro, il forte senso dell’ospitalità anche verso il forestiero, di cui, “in modo contraddittorio e geloso”, era parte-

cipe lo stesso don Luigino, non foss’altro perché di estrazione più popolare degli altri galantuomini. L'ospitalità era quella “virtù per cui i contadini aprivano la porta all’ignoto forestiero, senza chiedergli il suo nome, e lo invitavano a mangiare il loro scarso pane; di cui tutti i paesi si contendevano la palma, fieri ognuno di essere il più amichevole e aperto al viandante straniero, che, forse, è un dio travestito”, e che sempre è un

fratello. Forse, sotto questo aspetto, nessun popolo poteva dirsi più cristiano di quello lucano, pur non essendo mai stato raggiunto da Cristo. Ma Cristo non era forse venuto a predicare l'uguaglianza, l’amore e la fratellanza in nome della apparte95

nenza ad una stessa realtà originaria, fosse essa il Caos o la Massa o Giove o Dio Padre? Ab Jove principium di ogni cosa e di ogni uomo era stato scritto in Paura della liberta. Ad accentuare il naturale sentimento di solidarietà fra i poveri, contribuiva ovviamente, come dappertutto e sempre, la stessa, uguale e petulante pressione, esercitata su di loro dai galantuomini. Non c’era tuttavia coscienza di classe, come, pure,

sarebbe stato auspicabile. Ne scaturiva, invece, soltanto un sordo e istintivo sentimento di rancore o diffidenza, senza odio,

che veniva esteso indifferentemente a quanti esercitavano l’autorità, e venivano identificati, nell’ordine, con il podestà, con l’agente delle tasse, con i carabinieri, e poi, via via, con il Prefetto, i partiti, lo Stato e, in una parola soltanto, con Roma, entità

ugualmente simbolica e reale, di cui i “signori” di Aliano, come quelli di tutto il Sud, erano gli eterni alleati. Nel 1935-36, naturalmente, essi erano tutti iscritti al Partito fascista, compresi

quei pochi, come il dottor Milillo, che la pensavano diversamente, “soltanto perché il Partito era il Governo, era lo Stato,

era il Potere”. Nessuno dei contadini, invece, “per la ragione opposta, era iscritto, come del resto non sarebbero stati iscritti a nessun altro partito politico che potesse, per avventura, esistere. Non erano fascisti, come non sarebbero stati liberali o

socialisti, ... perché queste faccende non li riguardavano, appartenevano a un altro mondo, e non avevano senso”. Lo Stato, perciò, non solo “era più Iizno del cielo, e più maligno, perché stava sempre dall’altra parte”, ma era sempre nemico, come lo erano i “signori”. Nessun dialogo, pertanto, era possibile tra le due parti. Si trattava di una divisione secolare, forse millenaria, antica quan-

to lo sono i contadini. E Carlo Levi poté coglierla, figurativamente, già dal primo giorno del suo arrivo ad Aliano, quando,

al calar del sole, si ritrovò nella piccola piazza del paese. In alto, nel cielo, puntualmente, volavano i corvi. Da un lato, vide i “signori” del paese, che, come ogni sera, fermi a sedere sul mu-

retto, “voltando la schiena all’ultimo sole, aspettavano il fresco accendendo le loro sigarette economiche”; dall’altro lato, addossati alle case, vide “i contadini, tornati dai campi”, quieti e 96

umili, che parlavano sommessamente, tanto che “non si sentivano le loro voci”. Tradivano, nel loro atteggiamento, un cuore che per natura “è mite”, come “l’animo [è] paziente”, sicché mai era successo che essi avessero “alzato” la voce e avessero

fatto o voluto una vera rivoluzione. “Secoli di rassegnazione pesavano sulle loro schiene, e il senso della vanità delle cose, e della potenza del destino”, anche se, talvolta, può accadere che,

“quando, dopo infinite sopportazioni, si tocca il fondo del loro essere, e si muove un senso elementare di giustizia e di difesa,

allora la loro rivolta è senza limiti, e non può conoscere misura”. Ma si tratta e si è trattato sempre di manifestazioni anarchiche, rapide e inconsulte, come un imprevisto temporale estivo,

da cui non è mai derivato nulla di buono. Anche ad Aliano, nel 1936, accadde qualcosa di simile, quando a Carlo Levi fu vietato di esercitare l’attività di medico. Ne era derivata la morte di un povero diavolo, a seguito della quale sembrò che potesse scoppiare una improvvisa rivolta. Si videro allora contadini, un po’ ingenui e quasi comici, uscire “di casa armati, con i fucili da caccia e le scuri”. Non era e non poteva essere una rivoluzione; c’era solo un “risentimento antichissimo”, che affiora sempre per un motivo umano. È allora che, nel Sud, “ si danno al fuocoi casotti del dazio e le caserme dei carabinieri, e si sgozzano i signori; nasce, per un momento, una

ferocia spagnola, una atroce, sanguinosa libertà”. Ma non è rivoluzione. Tipiche sono state, in tal senso, la rivolta di Masaniello e

quella dei briganti, all’indomani dell’unità d’Italia, che Carlo Levi amava definire l’unica vera guerra combattuta dai contadini, per l quali, nella loro coscienza indifferenziata, non esistono nemici esterni, perché non esistono gli stranieri. L'unico nemico vero è quello interno e legale, cioè lo Stato borghese ed oppressore, che ha la sua capitale in Roma. Anzi, i nemici esterni, siano essi libici o etiopi, spesso sono contadini anche loro, e perciò poveri e oppressi, contro cui non ha senso la guerra. E come dire che, quali interpreti della bontà originaria che è nella massa, e perciò in tutti, i contadini hanno un naturale sentimento internazionalista, anteriore a qualunque dottrina; ed è DI

come dire che, dal punto di vista di Carlo Levi, esiste una Internazionale contadina, che è anteriore a quella evangelico-cristiana e, ovviamente, a quella operaia e marxista. Quando, per esempio, scoppiò la guerra d'Etiopia, i contadini di Aliano non se ne seppero dare una ragione; diventarono, anzi, “più muti, tristi e cupi del solito”. Si parlava vagamente di una terra promessa, che bisognava togliere ad altri contadini come loro, residenti altrove; ma, “istintivamente”, ai conta-

dini di Aliano pareva “che questo non fosse giusto, e non dovesse portar bene”. Con la saggezza che derivava loro dal buon senso o senso naturale, capivano che di terra ce n’era anche ad Aliano. Che se poi “quelli di Roma 4vevano denaro da spendere per la guerra, perché — si domandavano - non aggiustavano il ponte sull’ Agri, che er4 caduto da quattro anni, e nessuno ci pensava a rifarlo?”. Per questi motivi, l’unica guerra vera, per loro, era rimasta quella ingaggiata contro lo Stato italiano, all’indomani dell’unità d’Italia. Ed era stata puntualmente perduta, “perché — osserva Carlo Levi — gli Stati, le Teocrazie, gli Eserciti organizzati sono naturalmente più forti del popolo sparso dei contadini”, che devono, quindi, “rassegnarsi ad essere

dominati”. Era però rimasta la leggenda dei grandi briganti, che, per alcuni anni, almeno loro, avevano tenuto in iscacco l’esercito del re. E Carlo Levi, in certo qual modo, indulge an-

che lui alla mitizzazione del brigantaggio, ponendosi nella prospettiva degli umili e orientandosi ad intenderlo, romanticamente, come guerra di popolo. Partendo infatti dalla convinzione che, anche storicamente,

e salvo poche eccezioni, “i contadini erano stati tutti dalla parte dei briganti”, i quali perciò erano entrati a far parte della leggenda, della fiaba e del mito popolare, a Carlo Levi sembrava di poter concludere che, “col brigantaggio, la civiltà contadina difendeva la propria natura, contro quell’altra civiltà che le stava contro e che, senza comprenderla, eternamente la assoggettava”. Ecco perché, istintivamente, i contadini vedevano nei briganti 1 loro eroi. Per amor del vero, tuttavia, bisogna dire che Carlo Levi non andava oltre, nel senso che si limitava a registrare il dato di fatto 98

e nulla più, sottraendosi ad ogni forma di apologia reazionaria del brigantaggio, come avrebbe fatto, per esempio, qualche anno più tardi, lo scrittore Carlo Alianello. Tutto, secondo lui, era

successo come la pioggia, il terremoto, la frana, la malaria e la morte, perché era nella natura delle cose. Si vuol dire che il brigantaggio, pur giusto e spiegabile nelle proprie motivazioni sentimentali e storiche, o antropologiche, come possono esserlo la magia e la superstizione, rimaneva pur sempre, per lui liberale e piemontese, un fenomeno assolutamente irrazionale e, quin-

di, “senza speranza”. Anzi, detto in modo più esplicito, “dal punto di vista liberale e ‘progressista’”; il brigantaggio gli appariva, senza mezzi termini, come “l’ultimo sussulto del passato, che andava spietatamente stroncato”. Esso, anzi, si risolveva in “un movimento funesto e feroce, nemico dell’unità, della libertà e della vita civile”, perché, se è vero che, con esso, la civiltà

contadina si levava a istintiva difesa di sé stessa e della propria dignità offesa, era pur vero che seguiva una strada sbagliata nei mezzi e negli obiettivi, ponendosi contro quella Storia che si svolgeva altrove, fuori dei confini della Lucania, e che nessuno,

in alcun modo, avrebbe potuto mai fermare. Non si poteva impedire l’unità d’Italia, come non si poteva impedire l’esistenza di uno Stato italiano. Il problema del mondo contadino, in altre parole, non era, per ciò stesso, quello della guerra contro

lo Stato, ma, piuttosto, quello di trovare un punto di intesa e di raccordo con esso, cioè con l’altra civiltà, quella tecnologica e industriale, o settentrionale, in modo da conquistare il progresso, senza, per ciò stesso, nulla perdere della propria identità.

Ma come? Si è già detto che una delle accuse più ricorrenti, mosse,

soprattutto da sinistra, a Carlo Levi, fu quella della mitizzazione idillica che egli avrebbe fatto della civiltà contadina, praticamente teorizzando la necessità di salvarla e quasi proteggerla dalle contaminazioni esterne. Si è anche detto che nulla c’è di più falso. E tuttavia, per il fatto stesso che una simile accusa sia stata mossa e abbia resistito tanto a lungo, evidentemente un qualche fondamento doveva trovare in Levi stesso, il quale, tradito forse dalle sue parole, o dalla sua tendenza a favoleggiare 99

sui dati della realtà, o anche dal suo vigore etico, di fatto finì col dare spazio e alimentare l’equivoco. Forse, egli avrebbe dovuto meglio distinguere tra “civiltà” e “condizione” contadina. E avrebbe dovuto meglio spiegare che cosa intendeva dire quando proclamava che la “civiltà contadina” non aveva nulla di inferiore alla civiltà comunemente intesa, e anzi, in contrasto con alcuni meridionalisti, anche meridionali, invitava a riflettere che, “se si considera la civiltà contadina una civiltà inferiore,

tutto diventa sentimento di impotenza o spirito di rivendicazione; e impotenza e rivendicazione non hanno mai creato nulla di vivo”. Si trattava, certamente, di nobili affermazioni, che acquista-

vano tanto più valore, quanto più a dirle era un intellettuale del Nord. Ma che significava “civiltà contadina”? E fino a che pun-. to era possibile distinguerla, almeno nel Sud, dalla “condizione

contadina”, cioè dalla ignoranza, dalla miseria, dalla magia e dalla superstizione, cioè dall’irrazionalismo e dal degrado, certamente materiale, ma anche, spesso, spirituale e morale?

Nessuno vuol mettere in dubbio l’impegno meridionalistico di Carlo Levi, tutto proteso a favorire il riscatto meridionale. Il Cristo è fermato a Eboli, anzi, sotto questo aspetto, è un libro fondamentale all’interno della letteratura meridionalistica; e lo

è in modo tanto più vigoroso e duraturo nel tempo, quanto più esso si sostiene su indiscussi valori letterari e poetici. In tal senso, vale quanto la Vita dei campi o le Novelle rusticane o I Malavoglia o il Mastro don Gesualdo di Giovanni Verga, di cui il Levi dovette subire inevitabili quanto evidenti influssi. C'era infatti, a ben vedere, molto di verghiano e della pietà amara del Verga nello sguardo distaccato e aristocratico con cui Carlo Levi, favorito anche dalla sua condizione di “forestiero”, accompagnava quello che era nato come una sorta di “studio sincero e spassionato” della condizione contadina, cioè come un saggio e non come opera narrativa. Come Verga, anche lui, nella logica di quei “vinti”, non leggeva alcuna immediata speranza di riscatto e alcuna fede. L’unica consolazione, per quegli uomini, era, generalmente parlando, una istintiva autodifesa, che, proprio come nel Verga, prendeva la forma della rassegnazione, anzi di 100

una “cupa rassegnazione”, che “curvava [loro] le... schiene sot-

to i mali della natura”. In Ozio alianese, una lirica scritta nell'ottobre 1935, che ri-

badiva l’impressionante corrispondenza intercorrente fra il Cristo si è fermato a Eboli e gli appunti poetici di quei mesi, si annotava amaramente: “Ozio, pesantissimo ozio alianese / che duri da mille anni / all’ombra dei tuoi santi e delle chiese / ancorato ai malanni, // non conosci altri tempi che le attese / del niente, ed agli affanni / quotidiani rifiuti le sorprese / dello sperare, e mai non muti panni. // Bruciati i dolci inganni / dal monotono vento calabrese, / son compagno ai tuoi danni ‘/ immobile borbonico paese”*. E anche se, come già si è avuto modo di dire, nel dolore che tutti accomuna, in forma di autodifesa collettiva, anch'essa istintiva, poteva scattare, e di fatto

scattava, una sorta di “compassione fraterna” o “fraternità passiva” o “patire insieme” o “rassegnata, secolare pazienza”, che

“è il profondo sentimento comune dei contadini, legame non religioso, ma naturale”, che lenisce le sofferenze ed è irrinuncia-

bile in qualunque società, tuttavia tale dato non risolveva i mali alla radice. E Carlo Levi lo sapeva. Però, a differenza di Verga, il quale non sapeva uscire da una visione economicistica, materiali-

stica e deterministica dell’uomo, egli credeva in una bergsoniana energia innata, che portava e spingeva l’uomo sempre verso orizzonti nuovi. Il problema era sprigionare tale potenzialità. Per il mondo contadino, nello specifico, il problema era quello di uscire dal mitico, dal fabuloso e dall’indistinto, ovvero dal magico e

dal superstizioso, per conseguire razionalità e distinzione, cioè libertà, pur senza nulla perdere della propria umanità solidale. Se si vuole, il problema era quello di dare ai contadini, che vivevano nell’indifferenziato, una “vera coscienza individuale”,

che essi, purtroppo, non avevano e non potevano avere, finché permaneva una realtà “dove tutto è legato da influenze reciproche, dove ogni cosa è un potere che agisce insensibilmente, dove non esistono limiti che non siano rotti da un influsso magico”. I contadini, in altre parole, “vivevano immersi in un mondo 4 C. LEVI, Poeste inedite, cit., p. 73.

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senza determinazioni, dove l’uomo non si distingueva dal suo sole, dalla sua bestia, dalla sua malaria, dove non potevano esi-

stere la felicità, vagheggiata dai letterati paganeggianti, né la speranza, che sono pur sempre dei sentimenti individuali, ma la cupa passività di una natura dolorosa”. Come in Verga, insomma, anche per i personaggi di Levi, finché si adotti il loro punto di vista, tutto è destino e fato; non così, ovviamente, era dal punto di vista dello scrittore, che, di formazione, per dir così “illuministica”, confinato politico,

partigiano militante del Partito d'Azione, sapeva che qualcosa si può e si deve sempre fare. E se, nel mondo avanzato e tecnologico del capitalismo occidentale, come si è più volte accennato, il problema era quello del ritorno al sentimento, nel mondo contadino il problema era quello del ritrovamento della ragione. In quel mondo indistinto, infatti, non esiste se non l’energia della vita originaria, che è pur sempre Caos, il quale, per essere tale, si esprime in mille forme e per mille segni, non necessariamente logici, ma, anzi, prevalentemente alogici e analogici. Ogni oggetto, nella cultura contadina, è, perciò, sempre simbolico e reale nello stesso tempo, senza mai essere una vera e concreta distinzione. Gli animali valgono come uomini, allo stesso modo che le cose valgono come gli animali. Tutta la realtà è “numinosa”, abitata da strane creature, visibili e non visibili. Pertanto, nella “confusione” e nella indistinzione totale,

comparivano, ad Aliano come nella mitologia classica, ma anche nei bestiari medievali, “molti esseri strani, che partecipavano di una doppia natura. Una donna, una contadina di mezza età, maritata e con figli, e che non mostrava, a vederla, nulla di

particolare, era figlia di una vacca. Così diceva tutto il paese, e lei stessa lo confermava”. E tutti finivano col crederci, quasi si trattasse di una verità naturale e accertata. Tutti i vecchi, sulla

cui testimonianza nessuno poteva dubitare, dicevano di “ricordare la sua madre vacca, che la seguiva dappertutto quando era bambina, e la chiamava muggendo, e la leccava con la sua lingua ruvida. Questo non impediva che fosse esistita anche una madre donna, che... era morta, come da molti anni era morta

anche la madre vacca”. Né c’era alcuno che trovasse “in questa 102

doppia natura e in questa doppia nascita nessuna contraddizione”. La stessa donna “viveva, placida e tranquilla come le sue madri, con la sua eredità animalesca”.

Naturalmente, al contrario, si potevano anche vedere animali in cui c’era la presenza dell’uomo o di qualche strana divinità, a metà tra l’angelico e il diabolico. Non di rado i lupi erano licantropi, cioè sonnambuli che avevano mutato natura; e, pro-

prio come i veri lupi, essi “uscivano nelle notti d’inverno, per trovarsi con i loro fratelli”. Lo stesso cane di Carlo Levi, Barone,

“non era riguardato come un cane normale, ma come un essere straordinario, e degno di essere particolarmente onorato”. Tosato a metà, in modo da lasciargli una specie di criniera, aveva contemporaneamente l’aspetto del cane e del leone. E in quel luogo, a struttura economico-sociale ancora feudale, in cui le parole erano anche cose e tradivano sempre un significato profondo, il nome stesso di “Barone” stava ad indicare che quell’animale “era... un signore, un essere potente che bisognava rispettare”. Esempio tipico di animale che era, nello stesso tempo, bestia e divinità, era la capra, bizzarra, cornuta, amante del poco, capace di arrampicarsi, senza cadere, sul ciglio dei burroni, e in

grado di sopravvivere persino sulle argille dei calanchi. Era proprio come gli uomini; e solo un animale straordinario poteva essere capace di tanto. “Essa era realmente quello che era un tempo il Satiro, un Satiro vero e vivo, magro e affamato, con le corna curve sul capo, e il naso arcuato, e le mammelle o il sesso

penzolanti, peloso, un povero Satiro fraterno e selvatico, in cerca d’erba spinosa sull’orlo dei precipizi”. Non il cane, perciò, ad Aliano, era l’amico fedele dell’uomo, ma la capra. Dietro le correvano soprattutto i bambini, trovando una strana familiarità con essa. La cavalcavano, l’abbracciavano per il muso, le tira-

vano la barba. A volte poteva capitare che essa li guardasse con un sorriso maligno, ma subito era pronta a riprendere il gioco con loro. Uno di quei bambini, Giovannino, Carlo Levi raffigurò in un quadro ricco di pietà e di amore. Lo ritrasse con la capra Nennella, l’amica dei giochi, la fedele compagna e amorevole sorella, che correva dovunque fosse il ‘suo’ Giovannino. “Quan103

do Giovannino veniva a casa mia con gli altri bambini - racconta Carlo Levi - anche la capra Nennella entrava nella mia cucina, annusando, desiderosa di sale. Barone aveva imparato a rispettarla: quando si usciva a dipingere, Nennella seguiva saltellando la fila dei ragazzi, mentre il cane correva innanzi abbaiando di felice intrattenibile libertà; quando ci fermavamo,

Giovannino restava a guardarmi lavorare, abbracciando il collo di Nennella”. Ma il mistero - come si è detto — non era solo negli animali; era anche nelle cose, che vivevano pur esse di una vita straordinaria, partecipando alle vicende di tutti gli altri esseri, uomini e animali che fossero, simpatizzando con loro, modificandone il destino, e producendo malattie e guarigioni, amori e odi. Per i contadini di Aliano, insomma - precisava Carlo Levi -, “tutto

... aveva un doppio senso. La donna-vacca, l’uomo-lupo, il Barone-leone, la capra-diavolo non erano che immagini particolarmente fissate e rilevanti; ma ogni persona, ogni albero, ogni

oggetto, ogni parola partecipava di quell’ambiguità”. In un mondo siffatto - concludeva — “non c’era posto per la ragione, per la religione e per la storia”. Non c’era posto per la religione, perché, là dove tutto “partecipa della divinità”, tutto “è, realmente e non simbolicamente, divino, il cielo come gli animali, Cristo

come la capra”. E non c’era posto per la ragione, perché, dove tutto è divino, tutto è naturalmente misterioso e magico. Persino “le cerimonie della chiesa”, in tale contesto, “diventavano

dei riti pagani, celebratori della indifferenziata esistenza delle cose, degli infiniti dèi del villaggio”. Tipico era il caso della Madonna protettrice di Aliano, la cui festa si celebrava a metà settembre. I contadini l’accompagnavano vestiti di nero; il suono delle campane non aveva nulla di festoso, ma anzi un che di funebre. Per l’aria volava qualche fucilata. Così si usava festeggiare nel borgo di Aliano. E si andava ben al di là del pessimismo individuale del Leopardi, perché anche la Madonna appariva triste e cupa, povera e squallida. Era, infatti, “una povera Madonna di cartapesta dipinta, una copia modesta della celebre e potentissima Madonna di Viggiano, e aveva, come quella, il viso nero”. Intorno era tutto 104

un frastuono di oggetti, uomini e animali, che esplodevano con qualcosa di selvaggio, insieme ai mortaretti. “Non si vedeva, negli occhi delle persone, felicità o estasi religiosa, ma una specie di follia, una pagana smoderatezza, e come uno stordimento a cui si lasciavano andare. Tutti erano eccitati”, come in certe

Novelle della Pescara del D'Annunzio. “Gli animali correvano spaventati, le capre saltavano, gli asini ragliavano, i cani abbaiavano, i ragazzi urlavano, le donne cantavano”.

Era un rito quasi bacchico, fondato su un rapporto di paura e furore, di sacrificio e di cupa sottomissione. Verso la Madonna, al suo passaggio, dagli usci delle case i contadini buttavano piene manciate di grano, perché Ella “si ricordasse dei raccolti e portasse la buona fortuna”. Altri offrivano, appendendole al collo della statua, grandi collane di fichi secchi, “o posavano ai

suoi piedi frutta e uova”, o attaccavano ai suoi abiti biglietti di cinque e dieci lire. Fra tanta convulsa agitazione, solenne e imperturbabile avanzava la Madonna dal viso nero e, “tra il grano e gli animali, gli spari e le trombe, [Ella] non era la pietosa Madre di Dio, ma una divinità sotterranea, nera delle ombre del grembo della terra, una Persefone contadina, una dea infernale delle messi”, ancor più terribile dei monachicchi, o delle streghe, o

degli amuleti, o delle formule magiche che si recitavano, circostanza per circostanza, per piegare alla propria volontà e al proprio interesse le forze della natura e, quindi, del destino.

In quel mondo, che non conosceva la ragione e la religione, era sconosciuta anche la storia, perché dove regna il destino e l’indistinto, cioè la massa o Caos, tutto è senza sviluppo e, ovviamente, preistorico. Naturalmente, sconosciuta era anche la

scienza. La pioggia e la siccità, l’amore e l’odio, la malattia e la guarigione, infatti, altro non erano se non forze esplosive dell’energia originaria residente nella massa, cui non si poteva né razionalmente resistere né razionalmente porre riparo. Si poteva agire solo con pratiche magiche, 0, che è lo stesso, con l’alchimia. Era come dire che, siccome gli eventi umani e naturali scoppiavano come fatalità misteriosa, ad esse non c’era rimedio se non con forze altrettanto straordinarie e misteriose. Così era anche per l’amore o attrattiva sessuale tra l’uomo e 105

la donna, che obbediva alle stesse leggi ineluttabili, cui obbedivano i fenomeni naturali e gli istinti animali, talché, “se

un uomo e una donna si trovavano insieme al riparo e senza testimoni, nulla poteva impedire che essi si abbracciassero: né propositi contrari, né castità, né alcun’altra difficoltà poteva vietarlo; e se per caso effettivamente essi non lo facevano, era tuttavia come se lo avessero fatto: trovarsi assieme era fare all’amore”. Tanto valeva, allora, farlo e subirlo. E poiché all’amore, dio o demone che fosse, non si poteva e, in un certo senso, non si doveva resistere, l’amore, come atto sessuale, era al di

qua della morale, come il temporale e la frana, la malattia e la salute. Perciò, “moltissime erano le ragazze madri, ed esse non erano affatto messe al bando o additate al disprezzo pubblico”. Giulia la Santarcangelese, la domestica di Carlo Levi, aveva avuto diciassette gravidanze da quindici uomini diversi, tra cui un prete, senza che perciò, nel paese, fosse guardata con rifiuto, o come una peccatrice. Difendersi dall’amore, pertanto, non si poteva se non con il ricorso a mezzi prodigiosi, quali formule magiche, rituali stregoneschi, intrugli e filtri, capaci di vanificare o rompere le irresistibili attrazioni fisiche, oppure indirizzarle nella direzione voluta. Si poteva, in tal modo, allontanare un uomo dalla:

donna che lo aveva stregato, oppure far innamorare la donna desiderata. E viceversa. Fu una delle prime cose che Carlo Levi apprese ad Aliano, da uno dei due medici del paese. “Si guardi soprattutto dalle donne - gli aveva detto il dottor Milillo. — Lei è un giovanotto, un bel giovanotto. Non accetti nulla da una donna. Né vino, né caffè, nulla da bere o da mangiare. Certamente ci metterebbero un filtro [...]. Vuol sapere di che cosa lo

fanno?”. Naturalmente non poteva mancare il sangue mestruale, o - come si compiaceva di dire il dottore — “catameniale”, al

quale il mondo popolare, non sapendo darsene una ragione plausibile e scientifica, attribuì sempre sensi oscuri e perturbanti. Certo “ci mettevano anche delle erbe, e pronunciavano delle formule, ma l’essenziale era quello... Lo mettevano dappertutto, nelle bevande, nella cioccolata, nei sanguinacci, magari an-

che nel pane”. Quanti filtri, ahimè, — si domandava Carlo Levi 106

- “avrò mai bevuto nel corso dell’anno?”. Molto caffè e vino,

infatti, egli aveva preso in quei mesi, spesso offerti direttamente dalle donne del paese. “Se c’erano dei filtri — aggiungeva ironicamente = forse si era0 vicendevolmente neutralizzati”. Certo non gli avevano fatto male. Non diversamente si procedeva per le malattie, a cui, in certo qual modo, l’amore era assimilabile. C'erano strumenti magici per “fare ammalare e morire” e, al contrario, per sanare e guarire. La medicina ufficiale, anzi, ad Aliano, non godeva del-

lo stesso prestigio di cui godeva la stregoneria. Del resto, i medici - come si è detto — non solo erano ignoranti, ma anche venali. Perciò, tornavano molto più comode le pratiche popolari, consacrate da millenaria tradizione, non costose e adatte a tutte

le situazioni. C'erano “formule magiche per saldare le ossa, per 1 mali di denti, di ventre, di testa; per scaricare i dolori su qualcun altro”. Ed era inutile, in tale realtà, fare quello che generalmente si usava fare, cioè proporre presuntuosamente la medicina in

antitesi alla magia, come la scienza in antitesi alla superstizione. Ciò era possibile soltanto “dove la ragione e la scienza possono assumere lo stesso carattere magico della volgare magia”. Ma questo non era il caso di Aliano, né è detto che ad Aliano

possa mai succedere. E forse è anche giusto che sia così, cioè che non succeda mai in assoluto, se è vero, come è vero, che

dietro la scienza c’è il pericolo dello scientismo e dietro la ragione c’è l'eccesso del razionalismo, che non risolvono tutto il

problema dell’uomo e anzi lo compromettono. Non è infatti meno grave della superstizione e della magia il dato che, nei paesi cosiddetti progrediti e sviluppati, cioè “tecnologicamente avanzati”, ragione e scienza siano diventate “divinità ascoltate e adorate”. Che fare, allora?

Nel 1960, quando da due anni il mondo letterario e culturale, ma anche politico, era stato messo in subbuglio dalla com-

parsa del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, sicché grandi questioni erano state messe in campo, non ultimo il destino del Sud, Carlo Levi entrò vivacemente e coraggiosamente nel dibattito, senza lasciarsi condizionare dal coro degli elogi e dagli entusiasmi per l’opera appena uscita. Pur nulla togliendo alla 107

grandezza poetica e all’importanza letteraria di questa, egli, tuttavia, ebbe modo di rammaricarsi del fatto che, da essa, nessun

contributo concreto veniva alla soluzione del problema meridionale, essendo scontato che nulla si può costruire sul terreno scivoloso dello scetticismo e del pessimismo estremo. Quando infatti si afferma, senza neanche dimostrarlo, che “nulla può essere fatto”, perché “la realtà è immobile”, non resta che chiudere il libro, intrecciare le braccia e affidarsi al fato?. E invece, secondo Carlo Levi, qualcosa, se non molto o moltissimo, c’è

sempre modo di fare. Non bisogna dimenticare che Tomasi di Lampedusa era già fuori del neorealismo. Molto, inoltre, pesava su di lui la sua condizione sociale di nobile feudatario siciliano, che le proprie fortune aveva ereditato senza nulla fare, e che

le stesse stava perdendo sotto l’incalzare degli eventi. Molte erano le analogie col barone Giovanni Verga. Carlo Levi, invece, oltre a muoversi ancora nell’ambito del neorealismo, in cui, sia pure con non poche differenze, era sta-

to per diversi anni immerso, proveniva anche, come si è più volte precisato, dall’esperienza della fattiva borghesia e della dinamica cultura piemontese. Non gli riusciva, perciò, nonostante gli ultimi eventi che l’avevano messa in discussione, di abbandonare la fede nel socialismo e in un mondo tutto nuovo. A maggior ragione ciò era vero negli anni del Cristo si èfermato a Eboli, scritto nel pieno della lotta per la liberazione dal fascismo e dal nazismo. Nella comune fiducia che reggeva quegli anni, fatti di guerra e di speranze, la divisione fra gli intellettuali poteva, al massimo, riguardare i metodi, non i fini. V’era perciò chi, sulle orme di Gramsci, proponeva l’alleanza fra i contadini del Sud e gli operai del Nord, di cui questi sarebbero stati la forza trainante. La “locomotiva”, per l'appunto, doveva essere il Partito operaio, nuovo e moderno principe, cui doveva essere affidato il compito di preparare una nuova Italia. Carlo Levi, che già dagli anni giovanili aveva dimostrato ammirazione per l’opera e il pensiero di Antonio Gramsci (con PIE. LEVI, Cepezionio e sviluppo nel Mezzogiorno in Coraggio dei miti,

cit., p. 142.

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la stessa forza con cui ne avrebbe, in seguito, avversato i “nipotini”), si preoccupava invece, e giustamente, che la formula gramsciana potesse comportare l'annullamento del ruolo e della identità dei contadini. Una simile operazione, infatti, a voler

seguire la convinzione leviana, secondo cui i contadini costituivano la parte sana dell’uomo, avrebbe inevitabilmente significato la formazione di una società disumanizzata. Né, sul piano più strettamente operativo, egli poteva dimenticare gli insegnamenti appresi alla scuola di Piero Gobetti, del quale ammirava, allo stesso modo, l’acutezza delle analisi, il dinamismo e lo spi-

rito organizzativo. Dal maestro e amico gli derivava la convinzione che “la base della nuova vita italiana andava ricercata nelle forze operanti dal basso, quasi con una nuova legge di separatismo, degli operai e dei contadini”, perché — per dirla con le parole di Gobetti - erano queste le “sole forze ... capaci di accettare l’eredità della piccola borghesia, ormai burocratizzata in tutte le sue manifestazioni”*. Contadini ed operai, cioè,

dovevano agire certo d’intesa gli uni con gli altri, perché, in caso contrario, ne sarebbe derivata una condizione di grande debolezza, ma senza rinunziare alla propria autonomia, che, anzi, dovevano rivendicare. Che era, obiettivamente, concetto non molto chiaro e, comunque, assai generico, tanto che diffi-

cile sarebbe stato poi, negli anni, intenderne il vero significato. Già nel 1932, e cioè oltre dieci anni prima che ne parlasse nel Cristo si èfermato a Eboli, Carlo Levi riconosceva, in modo esplicito e definitivo, che fondamento della “rivoluzione libera-

le” doveva essere, per l'appunto, l’“autonomia”, la quale passava attraverso tutto il programma di “Giustizia e libertà”, “sia per quello che riguardava la riforma agraria (ed era cosa ottima l’aver capito quale poteva essere il valore rivoluzionario della classe contadina) sia per quello che riguardava il controllo operaio, o direzione operaia delle aziende industriali”. Si trattava, in termini netti e non ambigui, di dare “la terra a chi la lavorava” e “la direzione dell’industria ai lavoratori”. Le quali, secondo Carlo Levi, erano ben più che delle formule, poiché torna6 C. LEVI, Pietro Gobetti e la rivoluzione liberale, ivi, p. 26.

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vano “valide non soltanto in un campo economico, ma in campo politico”, in quanto “attraverso esse sole poteva in Italia risolversi il problema dello Stato”. Non era facile, però, indicare attraverso quali vie concrete

un siffatto progetto si potesse realizzare. In quegli anni lontani, a detta dello stesso Levi, esso si poteva solo “prevedere come desiderio”. Tuttavia, partendo dalla premessa che mai il popolo italiano era stato veramente libero, eccetto che al tempo dei Comuni, si poteva consequenzialmente affermare che l’ “autonomia” andava intesa “non soltanto nella sua accezione negativa di decentramento, ma nel suo significato positivo di autogoverno”. La qual cosa comportava, innanzitutto, “la coscienza della necessità di una riforma degli istituti rappresentativi”, a cominciare dalle regioni, dalla creazione di “parlamenti regionali”, e a finire ai “consigli operai” e altro”. Ma il centro nevralgico del nuovo sistema doveva essere il Comune. E poiché il Sud era tutto, o quasi tutto, rurale, il pro-

blema meridionale era quello di organizzare il cosiddetto “Comune rurale autonomo”, che doveva non contrapporsi, ma convivere armonicamente con “l’autonomia delle fabbriche, delle scuole, delle città, di tutte le forme della vita sociale”. Si configurava, in altri termini, una nuova forma di Stato, quale “insieme di infinite autonomie, ... organica federazione”, nella quale le due civiltà, cioè, ancora una volta, quella contadina e quella industriale, avrebbero dovuto convivere, “senza che l’una oppri-

messe l’altra”, e in modo che ognuna potesse vivere il suo futuro di libertà e progresso, senza rinnegare nulla del proprio passato. Gli anni successivi, purtroppo, e ancor di più quelli appena trascorsi o presenti, che hanno visto la nascita delle Leghe, avrebbero dato torto a Carlo Levi, il cui pensiero sempre più sarebbe apparso come una utopia, che, pur affascinante, si risolveva, di fatto, in un pericoloso frazionamento politico dell’Italia, oltre che in un isolamento del Sud rispetto alle grandi idee, alla cultura, alla civiltà e, in una parola, al “vento” che veniva dal Nord

e da tutto l’Occidente. Realizzare il “Comune rurale autono7 C.LEVI, Seconda lettera dall’Italia, ivi, pp. 38-40.

110

mo”, infatti, significava, a ben vedere e a tutti gli effetti, chiudere i contadini in tante “riserve” e, per dir così, in tante isole, che, contro la volontà e i desideri dello stesso Levi, sarebbero

state condannate all’immobilismo e, quindi, all’arretratezza economica, civile e persino linguistica. Il “Comune rurale autonomo”, insomma, si sarebbe fatalmente risolto in una sorta di

“curtis” di tipo feudale. E che una idea di tal genere baluginasse nella mente tanto fertile, ricca, e persino effervescente, di Carlo Levi, è dimostra-

to dal fatto che, a suo modo di vedere, “la civiltà feudale... non

era certo una civiltà di contadini, ma tuttavia era legata alla terra, ai confini del feudo, e perciò meno contraddittoria al non Stato rurale”. Né gli veniva il dubbio che le strade, le idee, il telefono, la radio, la telematica, insomma la storia, non solo di fatto non conoscono, ma mai devono conoscere sbarramenti di

alcun genere. Né, infine, è possibile organizzare società monoculturali, perché non può esistere la città dei contadini, come

non può esistere la città degli operai, o dei ragazzi, o delle donne, o degli studenti, o dei professori e dei barbieri. Lo ha dimostrato il caso del villaggio La Martella, presso Matera, che, concepito, anche per suggestione leviana, come borgo contadino, nel giro di pochi anni è stato spopolato ed abbandonato. Altri villaggi dello stesso genere, nella stessa area del Materano, pur completati e rifiniti, addirittura non sono stati mai abitati. Desolante, in tal senso, è la storia del borgo Taccone, in agro di

Irsina, o quella grossolani sono meridionalisti, stere su un Sud proprio mentre

di Picciano, in agro di Matera. Anzi, se errori stati compiuti, spesso dagli stessi meridionali e sono stati proprio quelli di continuare ad insia vocazione agricola o esclusivamente agricola, si andava dicendo, da parte degli stessi, che il

numero degli occupati in agricoltura, dati alla mano, e facendo

i dovuti confronti con quanto si registrava negli altri Paesi della Comunità Europea, era di gran lunga più alto del dovuto, sicché andava massicciamente ridotto. Nessuno, però, si preoccupava di dire, e neanche di sapere, dove sarebbe andata a finire tanta gente espulsa dai campi, se, nel frattempo, non si creavano fabbriche ed equivalenti posti di 111

lavoro. Il risultato è stato che, cacciati dall’agricoltura, molti meridionali sono stati mandati via anche dai loro borghi e persino dall’Italia. Sono diventati quegli emigrati, di cui Carlo Levi, con grande sensibilità morale, avrebbe poi sentito il bisogno di prendersi cura, attraverso la fondazione e l’attività della Filef. Altri, invece, o più fortunati, o sicuramente più raccomandati,

sono andati ad infoltire proprio quella schiera di “luigini”, che, così invisi a Carlo Levi, hanno riempito uffici ed enti governativi vari. Così è andato il mondo; e tale, spesso, è il destino

delle utopie, allorquando sono chiamate a confrontarsi con la storia, che ha le sue leggi spesso ineluttabili e persino crudeli. Il Cristo si è fermato ad Eboli, dunque, a distanza di cin-

quant’anni dalla sua pubblicazione, è un libro ideologicamente fragile e, si direbbe, politicamente improponibile, soprattutto da quando, con i grandi scandali che hanno visto crollare la troppo vilipesa “prima Repubblica”, si è avvertita più che mai la fragilità del potere decentrato. Gli anni del regionalismo, in particolare, hanno dimostrato che la democrazia di base, o diretta, o autogoverno che dir si voglia, nel Sud soprattutto, ma

anche nel Nord, spesso è stata il governo dei più forti e dei più prepotenti, da cui è derivata l’affermazione di famiglie e clan di ogni sorta, non solo nel campo politico ed economico, ma anche in quello della malavita organizzata. Mai, anzi, come in

questo periodo, a dispetto di tanto ciarlare sul federalismo, si avverte il bisogno di uno Stato accentrato e autorevole, capace di imporre il rispetto della legge dappertutto, e particolarmente nel Sud. Il pensiero di Carlo Levi, perciò, fallita la sua proponibilità e verificatane la inconsistenza o pericolosità, può solo servire come chiave d’ingresso al suo mondo poetico e letterario, allo stesso modo che, per fare un esempio fra tanti, l’ideo-

logia verghiana e il suo non condivisibile “ideale dell’ostrica” possono servire solo per capire a fondo la poesia dei suoi Malavoglia, delle sue novelle e del suo Mastro don Gesualdo. Si vuol dire che il Cristo si è fermato ad Eboli, ormai, può essere proposto solo come opera d’arte, e non certo per sminuirlo, ma per sancirne, invece, la autentica e perenne validità. In definitiva, esso non appartiene più al mondo del pensiero e a 112

quello della saggistica, ma a quello, ben più sicuro, della poesia, collocandosi, sia pure con le necessarie distinzioni, alla pari con le migliori opere poetiche del realismo e del neorealismo italiano. Quanto poi alle ragioni per cui proprio il Cristo si èfermato a Eboli sia risultato il libro leviano più liricamente fuso, unitario e organico, nonostante il pericolo sempre implicito della frammentarietà e della monotonia, trattandosi pur sempre di un racconto senza eventi o, per meglio dire, senza intreccio, tali

ragioni possono essere variamente individuate. Innanzitutto non va dimenticata la natura stessa della realtà di Aliano, paese emarginato dalla storia e, quindi, immobile, 0,

per usare il linguaggio figurato dello stesso Levi, senza orologio. Era, quindi, un mondo che ben s’intonava e accordava alla poetica e alla sensibilità leviana, naturalmente portata, come si

è più volte ripetuto, a diffondersi nella indeterminatezza dei tempi e degli spazi. Non va nemmeno trascurato il fatto che, durante i suoi mesi di permanenza a Grassano e ad Aliano, con la cura e la puntualità dell’intellettuale e dell’artista che ha la connaturata abitudine di osservare e far tesoro delle proprie esperienze, per poi ritrarle, Carlo Levi andò accumulando una serie di appunti che registrarono, con utile precisione, i fatti piccoli e grandi che avvenivano fuori e dentro di sé. Tali appunti, poi, elaborò con continuità, e in un breve periodo di tempo, dal

dicembre 1943 al luglio 1944, quando erano già passati circa otto anni dal confino in Lucania, cioè era intercorso un periodo sufficientemente lungo, perché quell’esperienza perdesse ogni suo carattere di immediatezza e di urgente concretezza. Il tema, peraltro, filtrato dal tempo trascorso, lo era anche dalla distanza geografica e dal momento politico. Proprio in quei mesi, infatti, Carlo Levi si teneva nascosto a Firenze, “chiuso in una stanza, e in un mondo chiuso”, mentre

dall’esterno giungevano, preoccupanti e minacciosi, gli echi della lotta partigiana contro la crudeltà tedesca e fascista, così lontana dal mondo di Aliano, che poteva, a volte, anche apparire, per contrasto, come un idillico e quieto carcere. Si trovava, cioè,

ancora un volta, in quella condizione privilegiata di sospensione, in bilico tra passato e futuro, tra storia e preistoria, tra finito 113

e infinito, da sempre considerata come il più felice “punto di vista” del poeta. E poiché passava attraverso tanti filtri, il mondo di Aliano rafforzava i suoi caratteri mitici e favolosi, fino ad

assumere colorazioni di fissità surreale nei suoi assurdi calanchi bianchi o grigi, nei personaggi, negli eventi-non eventi, eternamente ritornanti su sé stessi. Liricamente notevoli, oltre che

particolarmente frequenti, perciò, erano proprio i momenti evocativi e descrittivi, attraverso cui il muto forestiero, proiet-

tandosi sul paesaggio, cercava di capire e carpire il senso eterno e pur sempre sfuggente dell’universo. Erano, quelli, imomenti in cui egli, facendosi assorto e pensoso osservatore, cioè commosso pittore e delicato poeta, creava le parti sicuramente più belle della sua opera. Già dai primi giorni del suo arrivo a Grassano, che, come tutti i paesi della Lucania, appariva “bianco in cima ad un alto colle desolato, come una piccola Gerusalemme” nel deserto, gli

piacque raggiungere la parte più alta dell’abitato, presso la chiesa battuta dal vento. Di là allungava il suo sguardo sul mondo circostante, ritraendone bellissime immagini. L’occhio - ricordava con incanto immutato, ancora a distanza di otto anni, -

“spaziava in ogni direzione su un orizzonte sterminato, identico in tutto il suo cerchio. Si era come in mezzo ad un mare di terra biancastra, monotona e senz’alberi: bianchi e lontani i paesi, ciascuno in vetta al suo colle, Irsina, Craco, Montalbano, Salandra, Pisticci, Grottole, Ferrandina, le terre e le grotte dei

briganti, fin laggiù dove c’è forse il mare, e Metaponto e Taranto”. In cui notevole, ancora una volta, è la sapiente distribuzione musicale della punteggiatura, nonché delle congiunzioni; ma ancor più ricca di interesse ed effetto suggestivo risulta la presenza del forse finale, che ben traduce l’idea di un ambiente particolarissimo, ove tutto è sorprendentemente nuovo e imprevedibile, non escluse le stesse certezze geografiche. Il medesimo senso di vaghezza, di dubbio e di vacillante sospensione, accompagnato dal ricorrere di un altro forse, si rinnovava, non casualmente, nella prima sera passata ad Aliano, quando, appena arrivato, lo scrittore forestiero e quasi straniero, nuovo del luogo, si volse, smarrito e curioso, a guardare di 114

là della orrida Fossa del Bersagliere. Era una sera di mezzo settembre. Con “le prime stelle, scintillavano di là dall’ Agri i lumi di Sant'Arcangelo, e più lontano, appena visibili, quelli di qualche altro paese ignoto, Noepoli forse, o Senise”. Gli parve allora — commenta con grande effetto —, tra tanta immensità, di essere caduto dal cielo, “come una pietra in uno stagno”. Poi venne un’altra sera di settembre, dopo i festeggiamenti, rumorosi quanto brevi, per la Madonna Nera. Erano le dieci della sera, appunto, e al confinato era vietato rimanere ancora fuori di casa. Il distacco dalla folla era stato netto, quasi uno strappo. Non restò che la vastità del paesaggio a fargli compagnia. Solo, “dalla sua terrazza, con Barone che guardava eccitato in aria e abbaiava agli spari, rimase ... a lungo a contemplare le luci che salivano e ricadevano sfriggendo sull’argilla del Timbone, e ad ascoltare il rimbombo degli scoppi. Poi ci fu il lancio accelerato di venti fuochi, e il gran colpo finale; e udì a poco a poco la gente disperdersi, i passi sulle pietre, lo sbattere degli usci. Il giorno della festa contadina era finito, con la sua agitazione frenetica e infocata; gli animali dormivano, e sul paese buio era tornato il silenzio e l’oscurità vuota del cielo”. Ove naturale ricorre il pensiero alla Sera del dì di festa del Leopardi e, in particolare, a quel canto di chiusura, dolce al cuore, “che s’udia per li sentieri lontanando morire a poco a poco”.

Nelle settimane successive, e finché fu possibile, cioè fin quando il tempo si mantenne sul bello, al confinato pittore fu ancora concessa la possibilità di allontanarsi nella campagna, e dipingere e naufragar nel paesaggio circostante. L’ora preferita, perché più consona al suo cuore, rimase il crepuscolo; il luogo prediletto, come si sa, era il cimitero, dove si poteva andare alla

ricerca “di solitudine e di racconti”. Usciva, “quando il sole cominciava a declinare, con la tela e i colori”. Ed erano momenti

di pace e di sollievo, con qualche eco montaliana. “Le ore passavano, il sole calava, le cose prendevano l’incanto del crepuscolo quando gli oggetti pare risplendano di luce propria, interna, non comunicata. Una grande luna esile, trasparente, irreale stava sopra gli ulivi grigi e le case, nell’aria rosata, come un osso di 115

seppia corroso dal sale sulla riva del mare”. Poi avvenne che “il tempo si fece freddo”. E vennero “le prime piogge, lunghe, abbondanti, senza fine... Le argille cominciarono a sciogliersi, a colare lente per i pendii, scivolando in basso, grigi torrenti di terra in un mondo liquefatto”. Non era più facile, in quelle condizioni, uscire o fermarsi a guardarsi intorno. Aliano, perciò, si richiuse su sé stessa, avvolgendo ancor di più, dentro di sé, i suoi abitanti e lo stesso Levi, “come l’ac-

qua verde di un pantano raccoglie la rana, indugiatasi sulla proda ad asciugarsi al sole”. Quel mondo che “si scioglieva”, certamente, non rientrava tra le esperienze dello scrittore, che non

conosceva calanchi ed argille. E certamente derivava di qui la forza espressiva, quasi apocalittica della descrizione, che, particolare molto importante, si ripeteva, anche se con minor vigore poetico, benché con analoghe parole, in una corrispondente lirica di quel triste dicembre 1935: “Pioggia, odiosi lamenti / — dicono quei brutti versi — dell’acqua per le forre: / scivolare delle argille /liquefatte in grigi torrenti, / sciogliersi del mondo in pianti / umili di nebbie informi, / di là dai colli franosi / evocate i cieli brillanti”8. Con l’inverno, però, più libera si faceva l’immaginazione del confinato, e quindi, se è possibile, ancor più lirica l’intonazione complessiva del libro. Il dolce e malinconico fantasticare diventava la normale condizione di vita. “La notte [infatti] scen-

deva ormai prestissimo; le serate, accanto al fuoco che strideva e sfriggeva e soffiava e fumava, erano lunghe e tristi, mentre Barone tendeva l’orecchio agli urli del vento e al richiamo lontano dei lupi”. Finché, a sottolineare ancor di più il tono triste e diffuso di quelle sere, marcato da tante “e”, arrivò “un sussurrare, un rumore di passi, uno scambio alterno di voci, e i ragazzi,

correndo a frotte, lanciavano nell’aria nera i primi rauchi suoni dei cupi cupi”. Fu così che, quasi inavvertitamente, quanto stranamente, arrivò Natale e, quindi, il Capodanno, che, nel raccon-

to, segna uno dei momenti contemplativi più elevati e che, perciò, merita di esser riproposto integralmente, per quel non so 8 C. LEVI, (Senza titolo), in Poeste inedite, cit., p. 85.

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che di leopardiano, che, ancora una volta, è dato cogliere. E un’altra volta torna, quasi con le stesse parole e la stessa ripetizione della “e”, la monotona “voce” del fuoco nel silenzio della stanza: “Ero solo, nella mia cucina, davanti ad un fuoco

che sfriggeva e soffiava e cigolava, mentre fuori urlava la tempesta di vento e di neve. Avevo un bicchiere di vino, ma a che cosa

avrei potuto brindare? Il mio orologio si era fermato, e nessun rintocco di fuori poteva giungermi e indicarmi il passare del tempo, dove il tempo non scorre. Così finì, in un momento indeterminato, l’anno 1935, quell’anno fastidioso, pieno di noia legittima e cominciò il 1936, identico al precedente, ea tutti quelli che sono venuti prima, e che verranno poi, nel loro indifferente corso disumano”. E puntualmente, ancora una volta, anche se meno bello, perché afflitto da ricercato intellettualismo, e perché meno intonato al senso dello sconfinato-indeterminato, ricorre il contemporaneo appunto poetico: “Stai per finire, anno, / su un angolo di tavolo. / Bicchieri vuoti: il fuoco / solitario spumeggia. / Spiriti della greggia / certo non prevarranno, / ma l’assente orologio / impedisce anche al diavolo / d’ su nare il giuoco/ e di fare il tuo elogio. / Stai per finire, anno”? Quindi, come uscendo da un incubo per entrare in un altro,

arrivarono i primi giorni del nuovo anno, segnati da un evento straordinario e, per la gente di Aliano, vagamente pauroso. Il sole si oscurò e ci fu l’eclisse, “un segno del cielo. Un sole malato di peste guardava col suo occhio velato un mondo che aveva iniziato la sua guerra di dissoluzione”. Per i contadini, che dei fenomeni naturali avevano un visione animistica e finalistica,

affine a quella dei bambini e dei primitivi, sotto “c’era un peccato”. E non soltanto quello che si commetteva in quei giorni, in Abissinia, con “i massacri coi gas asfissianti che facevano scuotere la testa”. Essi “sapevano che ogni colpa si sconta”. C'era “un peccato più fondamentale, di quelli per cui tutti pagano, gli innocenti con i colpevoli. Il sole si oscurava per avvertircene. ‘Un triste futuro ci aspetta’ — dicevano tutti”. Sarà un caso; ma sta di fatto che i passaggi liricamente più ? C. LEVI, (Senza titolo), ivi, p. 97. 117

belli, che si vanno via via individuando, erano anche quelli,

che, come si è visto, parallelamente risultavano registrati negli appunti lirici. E se la coincidenza, com’è da ritenere, non è casuale, qualche ragione ci dovrebbe pur essere. Forse non è fuor di luogo pensare che erano, quelli, imomenti che più dovettero colpire il cuore e la sensibilità dello scrittore, sicché immediata egli avvertì l’urgenza di esprimerli in versi. Subentrò solo dopo, a distanza di otto anni, l’elaborazione in forma narrata. Si direbbe, cioè, che accadeva a Levi qualcosa di simile e di opposto, nello stesso tempo, al modo di procedere che fu di Leopardi e Pavese, i quali, nei loro diari, e quindi prima in prosa, usavano annotare sensazioni, pensieri e impressioni che, solo in un secondo tempo, avrebbero trasferito nella poesia. La verità è che, nel gennaio del 1936, tra le poesie di Carlo Levi, si

legge curiosamente: “Anno fastidioso /pieno di noia legittima / cominci con l’eclissi / il corso disumano. // Ma a che volgi la mano / dagli infantili abissi? / Il volto della vittima / è quello dello sposo”!0. Lo stesso accadde per l’ultima pagina del Cristo si èfermato a Eboli, che sembra quasi sigillare l’intonazione e l’aura complessiva di tutto il libro, che, non essendo un saggio e non essendo un romanzo, si potrebbe definire come un esempio di lunga e ben riuscita prosa lirica, la quale, pur protratta per pagine e pagine, fa registrare solo qualche provvisoria caduta di tono. E si tratta di un vero e proprio “miracolo” letterario che, a chi ben considera, è prova della sua bellezza e della sua perfetta riuscita, come immediatamente hanno visto, nella loro schiet-

tezza, i lettori di tutto il mondo, talvolta meglio e più dei critici. Cosa che, nei fatti letterari, non succede di rado. Era ad Ancona, dunque, lo scrittore, nell’ultima pagina del libro, ormai di ritorno a casa, dopo la liberazione dal malinco-

nico e ozioso confino. Sull’alto della cattedrale della città marchigiana, davanti agli occhi, gli apparve, “per la prima volta dopo tanto tempo”, il mare. “Era una giornata serena - continua il ricordo del 1944 — e, da quella altezza, le acque si stende10 C. LEVI, (Senza titolo), ivi, p. 99. 118

vano amplissime. Una brezza fresca veniva dalla Dalmazia, e increspava di onde minute il calmo dorso del mare...”. E l’uomo, che era stato fortemente segnato dall’esperienza del confino, “pensò a cose vaghe: /a vita di quel mare era come le sorti infinite degli uomini, eternamente ferme in onde uguali, mosse in un tempo senza mutamento”. Otto anni prima, nello stesso maggio 1936, e certamente dallo stesso osservatorio della cattedrale, in versi senza ritmo e senza fascino, aveva ruvidamente

annotato: “Infinite sorti individuali / son come la vita di un mare / eternamente fermo in onde uguali, / il grigio mare che tu zappi e semini/ contadino lucano, / l’azzurra terra delle tue fatiche /

marinaio d’ Ancona, / dove ogni moto è come il sospiro / d’un animale immenso, / inconsapevole giro/ d’abitudini antiche, / storia senza persona, /ritmo prima del senso / natura sola in mille vite estinta”!!. Tra la prosa e il verso, come si vede, c’era un abisso, ancorché

identico fosse il sentimento o contenuto di pietà e di pena che lo scrittore si portava dentro, grazie al quale, otto anni dopo, avrebbe potuto tracciare il lungo racconto evocativo, che poteva ben dirsi il più bel “quadro” che egli abbia mai dipinto. E, come in un quadro o affresco, il dato portante del libro, o sentimento che dir si voglia, è proprio il senso della coralità o totalità cordiale, con cui egli rappresentava il mondo di Aliano. Si vuol dire che figure, episodi e personaggi vi appaiono solo come momenti funzionali al tutto, così come lo possono essere i tratti di pennello o le figure di una unica grande tela. Del resto, non poteva essere diversamente in un mondo definito aprioristicamente “senza persona”, in cui, necessariamente, ogni particolare diventava un segno, cioè una categoria o metafora o simbolo. E il libro, per l'appunto, risulta affollato di una moltitudine di particolari, che in sé nulla direbbero, qualora non li si leggesse come espressione di una realtà più generale, quieta e paziente, che va al di là della stessa Aliano, metafora, a sua volta, della intera civiltà e condizione meridionale e contadina. Non è facile, perciò, a lettura finita, ricordare nomi e perso11 C.LEVI, Ancona, ivi, p. 117.

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naggi singoli, a parte don Luigino, che però è chiamato a rappresentare la vasta categoria della borghesia parassita, cioè oltre la metà della società italiana, se non il buffo del fascismo. Per il

resto, i personaggi sono ricordati soprattutto, o soltanto, per la funzione che essi svolgevano: l’arciprete, il medico-medicaciucci, la serva del prete, la serva di Carlo Levi, il sanaporcelle, l’U.E.

(Ufficiale Esattoriale), il farmacista, la sorella del podestà, ecc. Soprattutto i contadini, le contadine e i loro ragazzi, come è

giusto, appaiono sempre in gruppo indistinto, spesso assimilati al mondo animale. In tanta “indifferenziazione”, come nella

massa primordiale o Caos, infatti, si possono distinguere solo— come era stato scritto nell’Oro/ogio — le due forze operanti nella vita e nell’universo, vale a dire quelle del bene e del male, cui,

nella società, corrispondevano i Contadini e i Luigini. Fra gli uni e gli altri, al più, si potevano collocare imomenti “comici” della narrazione, quasi a metà strada tra il bene e il male. Nella Aliano contadina, pur così lontana e diversa da lui e dalla sua cultura, Carlo Levi —- come si è visto — si era subito

ritrovato e riconosciuto. Di qui quell’amorosa verosimiglianza, che, già nell’ottobre del 1935, gli dettava le seguenti dolenti note in versi: “Arso giallo antelucano / sul malarico acre fiume / in cospetto al Santo Arcangelo / tace al vento arido Aliano / precipizio senza rupi / sacrifizio senza lume / purgatorio senza l’angelo / pazientissimo dei lupi”!. Così come, immediatamente dopo la partenza da Aliano, nel luglio del 1936, aveva scritto, in

forma di grata riconoscenza: “M’avete fatto umano / baci dolenti, terre nascoste / dove un dolore antico / era prima del mio arrivo. // Come un classico dio mendico / sono stato in mezzo al grano/ povero e alle scomposte / colline del grigio ulivo...”!9. Era come dire che, proprio ad Aliano, fra i miserabili, egli aveva

imparato ad aggirarsi con umiltà e amore, ascoltando, comprendendo e immedesimandosi nelle cose e negli uomini, fino a sentirli suoî. Aveva, cioè, dimesso la sua inutile presunzione cittadina, fors'anche “luigina”, portata da Torino. Lo avrebbe 12 C. LEVI, Aliano, ivi, p. 69.

13 C. LEVI, (Senza titolo), ivi, p. 121. 120

confessato, nel 1963, anche a Giulio Einaudi.

E in tale contesto che finisce con l’assumere chiara significazione simbolica quel gesto, con cui, già nelle prime ore di vita alianese, egli abbracciava il pane del paese, da sempre simbolo della terra e della bontà. Saba, poeta e uomo tanto caro a Levi, aveva preso tale nome, proprio perché, in ebraico, esso significa “pane”. Non meno significativo era che, nella stessa sera, nella stessa pagina e sulla stessa tavola, accanto al pane, egli avesse trovato l’acqua, altro elemento essenziale di vita, la cui brocca

era stata subito assimilata ad una “figura femminile arcaica”, che faceva tutt'uno con la madre terra da cui proveniva. Tutto ciò spiega perché non ci sia mai, in tutto il libro, quando esso parla dei contadini, una sola nota che non sia di amore, di comprensione e di rispetto, anche quando essi possono compiere atti e funzioni, come superstizioni e magie, che cozzino contro

la civiltà e la ragione. Li si rappresenta, invece, con amore e pena, prevalentemen-

te mentre, silenziosi e pazienti, se ne stanno con le spalle addossate al muro, oppure mentre “scendono, con l’asino e la capra, per raggiungere i loro campi là in basso, verso la valle dell’ Agri, e risalgono la sera, con i loro carichi d’erbe e di legna,

come dei dannati”. Già a prima vista essi appaiono “tutti uguali, piccoli, bruciati dal sole, con gli occhi neri che non brillano,

e non sembra che guardino, come finestre vuote di una stanza buia”. Ed è così. In fondo era lo stesso sentimento di pietà e di dolore, e quindi anche di denunzia, che gli ispirava le famose pagine dedicate alla descrizione di Matera, che valgono, obiettivamente, per bellezza ed efficacia, tutta quanta la letteratura che alla città dei Sassi è stata, nei tempi, dedicata. Certamente

fu una grande “astuzia” o “trovata” tecnica quella di attribuire o, comunque, di affidare alla sorella la rappresentazione di una città tanto diversa e “impressionante”. Ciò creava, ancora una volta, quel naturale filtro, che consentiva di prendere le distanze dalla cronaca immediata, per approdare ad un fabuloso racconto, che, significativamente, cominciava con un imprevisto passato remoto, cui si affiancava, efficacemente, la indicazione

quasi meticolosa dell’ora. 121

“Arrivai a Matera - inizia il racconto — verso le undici del mattino”. Sapiente è anche la sospesa preparazione dello straordinario. All’uscita dalla stazione, come è noto, la donna si era

guardata intorno, cercando “invano con gli occhi la città. La città non c’era”. Un senso di mistero e di preoccupata meraviglia sembrava aver preso la visitatrice e, con lei, anche il lettore. La sensazione diventava percezione nitida e angustiante, quando, su un rialzo brullo, spelacchiato, seminato di pietrame, la donna osservò pochi palazzi nuovi e presuntuosi, che però parevano, in più d’un caso, abbandonati. Non si capiva in quale strano paese fosse mai capitata. “Sembrava l'ambizioso progetto di una città coloniale, improvvisato a caso, e interrotto sul

principio per qualche pestilenza, o piuttosto lo scenario di cattivo gusto di un teatro all’aperto per una tragedia dannunziana”. Solo per caso, quindi, ella arrivò ad una scoperta, tanto improvvisa quanto sconcertante e paurosa. Matera, cosa stranissima e incredibile, era in fondo ad un precipizio, in tutto simile all’Inferno di Dante, così come lo si immaginava, da adolescenti, a scuola. Cominciava allora il giro a cerchio, verso il profondo del burrone, mentre, come nella favola del suonatore di pif-

fero, una folla di bambini seguiva e forse inseguiva la strana forestiera, gridando o invocando: “Signorina, dammi % chini!

Signorina, dammi il chinino!”. Quindi, come un sigillo, la secca definizione di Matera, “città bellissima, pittoresca e impressionante”. Ma, tra i contadini, erano particolarmente le donne ad atti-

rare l’attenzione di Carlo Levi. Contraddicendo un luogo forse troppo comune, secondo cui la società contadina sarebbe stata irrimediabilmente maschilista, egli, osservatore nordico, e quindi

in posizione di vantaggio rispetto a chi vi risiedeva, riteneva che, al contrario, essa era, almeno a partire dagli ultimi decen-

ni, decisamente “matriarcale”. E ne spiegava le ragioni. Ricordava come in essa gli uomini, a causa dell’emigrazione e della guerra, fossero rimasti in assoluta minoranza numerica e, ancor di più, nel quotidiano, in una posizione periferica. Non doveva essere impressione errata, se, puntualmente, essa sarebbe stata testimoniata, a livello almeno affettivo, anche da Leonardo 122

Sinisgalli, Rocco Scotellaro ed altri poeti lucani, in cui la donna-madre-contadina si identificò sempre con il focolare, con la casa e con la terra. Essa era la “regina Taitù” della casa'‘. Amministratrice severa e puntigliosa, provvedeva alla cura e alla distribuzione saggia delle poche risorse economiche, che il marito faticosamente procurava. Vera e autentica massaia, nel senso più preciso del termine, toccava a lei raccogliere la legna e l’acqua, accendere il fuoco, preparare la tavola, allevare le galline, preparare le conserve, curare con la stessa apprensione la salute della scrofa e quella dei figli e del marito. In un epodo oraziano, già ricorreva tale immagine di donna lucana. All’uomo spettava il compito di procurare le derrate; ma la saggezza distributiva ed “economica” era solo della donna. Avendo il senso reale delle cose, ella aveva anche la misura

precisa della condizione sua e della famiglia, cioè della sua stessa miseria. Più degli uomini, perciò, dimostrava dignità e senso civico, fino a manifestare la propria insofferenza e risentimento, e a rasentare la protesta. Il suo desiderio di partecipazione, certo, date le generali condizioni di vita, spesso si traduceva in semplice curiosità o pettegolezzo; ma la curiosità e il pettegolezzo erano pur sempre qualcosa in più rispetto all’assoluto silenzio. Le donne, se stavano in gruppo, non parlavano a bassa voce, ma giungevano a chiacchierare e a vociare “come uccelli”. Erano attente a qualunque novità, sicché non sfuggì loro l’arrivo del misterioso dottore, che vollero subito conoscere da vici-

no. Era ancora il primo giorno di permanenza di Levi nel paese. Seduto a tavola, nella casa della vedova, egli stava stancamente cenando, quando, ogni tanto, la porta cominciò ad aprirsi per fare entrare “delle donne, le vicine, le conoscenti, le comari

della vedova”. Entravano “con vari pretesti, a portar acqua o a chiedere se dovessero lavare per lei”. Si fermavano lontano dalla tavola e stavano vicine l’una all’altra, “come uccelli”, appunto. Poi fuggivano in gruppo nelle loro larghe sottane, come “soldati di uno strano esercito, o piuttosto una flottiglia di barche 141. SINISGALLI, Autobiografia IV, in La vigna vecchia, Milano, Mondadori,

1956, p.9t.

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tondeggianti e oscure, pronte a prendere tutte insieme il vento nelle piccole vele bianche” dei loro veli, più volte piegati e ripiegati sul capo. Ancora in gruppo le si trova nella funzione di massaie piene di apprensione e di tesa responsabilità, mentre fanno la fila di fronte al sanaporcelle, in una fredda giornata di dicembre. La scena è mossa e carica di richiami storico-mitologici dotti, in una terra che, in realtà, ebbe e continuava ad avere un’altra mi-

tologia, altrettanto fabulosa, benché povera. Ma non c’è differenza tra mito e mito. Sta di fatto che il sanaporcelle arrivò col vento tempestoso, annunziato dalla tromba del banditore, come un Messia. Con opportuno gusto del contrasto, Levi ricordava che, ad annunciarlo, era stata la tromba del becchino, che face-

va anche da banditore. In un mondo di uomini neri e di donne nere, tutti, in genere, di bassa statura, lui, il sanaporcelle, stava

ritto “in mezzo al Timbone... alto quasi due metri, e robusto, col viso acceso, i capelli rossi, gli occhi azzurri e dei gran baffi spioventi, che lo facevano assomigliare ad un barbaro antico, ad

un Vercingetorige, capitato per caso”. Si capisce subito che il suo fascino, anche sensuale e sessuale, era legato, oltre che al misterioso mestiere, che lo faceva mezzo

stregone e mezzo medico, anche alla sua diversità. Intorno a lui si addensava una folla di donne, che, tra l’invaghito e il timoroso, tenevano “al guinzaglio, come un cane, la loro scrofa”. Non

è casuale che la prima a presentare la sua bestia per la strana operazione, consistente nella estirpazione delle ovaie, fosse una

“giovane donna”, che viveva la vicenda del suo animale come una vicenda personale, e comunque umana. Facendosi “il segno della croce, e invocando la Madonna di Viggiano”, tra l’ingenuo e il voglioso, ella offrì la sua scrofa, come se offrisse sé

stessa. Il sanaporcelle, quale sacerdote pagano al tempo dei sacrifici, procedette rapido nelle sue operazioni sanguinarie, osservato da “quattro enormi [cani] maremmani bianchi”, pronti

a raccogliere le ovaie estirpate. Ne nasceva una scena memorabile, epica nella sua crudezza e barbara essenzialità, con un finale da favola, perché il sanaporcelle, che era arrivato come il vento, come il vento - affabula Carlo Levi — se ne partì “la sera 124

stessa per Stigliano, coperto di benedizioni, con i suoi baffi rossi da sacerdote druidico e il coltello del sacrificio”. Le donne che, in gruppo, avevano provveduto a sanare le loro porcelle, erano le stesse che, in gruppo, facevano, ordinate e puntuali, la lunga fila presso una fontanella, “che dava l’acqua per tutta Gagliano di Sotto e per buona metà di Gagliano di Sopra”. Era una fontanella sempre affollata, in tutte le ore del giorno. La pazienza muta dei mariti nei campi, che vi raccoglievano il pane, era, in apparenza, la stessa pazienza composta delle donne presso la fontana, mentre vi attingevano l’acqua, elemento - come si è detto —- indispensabile quanto e forse più del pane, soprattutto in una terra riarsa come quella di Aliano. Ancora una volta, la scena di gruppo è quella delle bestie; ma questa volta, nell’atto di raccogliere l’acqua, quelle donne non erano più uccelli, ma pecore. “Stavano immobili nel sole, come un gregge alla pastura; e di un gregge avevano l’odore”. E come le pecore di una nota similitudine dantesca, “ad una ad una si avvicinavano alla fontana, e aspettavano pazienti che l’esile filo d’acqua riempisse gorgogliando la botte. L’attesa era lunga; il vento muoveva i veli bianchi sui loro dorsi diritti, tesi con

naturalezza nell’equilibrio del peso”. Ed è un atteggiamento che, lo si intenda come si vuole, ha le connotazioni di una so-

lenne dignità, superiore a quella dei loro mariti. Esse si muovevano a turno, dandosi una legge. Ma più importanti di qualunque altra cosa erano i loro dorsi “diritti e tesi”, assai diversi dalle schiene dei loro uomini, che, invece, erano curve. Le donne di Aliano, anzi, sapevano essere persino eroiche. Non di rado, in-

vece, gli uomini fuggivano di fronte alle difficoltà, vigliaccamente sottraendosi alle proprie responsabilità di mariti e padri. Emigrati verso l’America, per esempio, troppo spesso si era-

no dimenticati delle proprie mogli e dei propri figli; altri, come stregati, erano corsi dietro ad altre donne, nello stesso paese o altrove. Se poi si considera che molti, andati in guerra, o vi erano morti, o erano andati dispersi, si avrà la spiegazione di un “paese ... abbandonato alle donne ... regine-uccelli che regnavano sulla turba brulicante dei figli”, svolgendo, contemporaneamente, le funzioni di padri e madri, di mogli e mariti. Tipi125

co caso era la citata figura di Giulia la Santarcangelese, donna abbandonata, preda di altri uomini, tra cui, come si è detto, un

prete, con molte gravidanze e molti figli morti. Rimasta sola dopo che il primo marito, emigrato in America, aveva fatto perdere le sue tracce, ella si era sottoposta a tutti i lavori, anche i più umili, pur di provvedere ai bisogni suoi e, soprattutto, dei figli sopravvissuti. Anche per questo si era data a chi l’aveva voluta, o come serva-schiava, o come amante, o nell’una e nel-

l’altra veste. Un grande senso di pietà e di amore avvolge questa figura, alta, bella, diritta, dignitosa, riscattata, perciò, da ogni inutile e

farisaica condanna. In lei è l’istinto materno a prevalere su ogni cosa. Ed è un istinto sacro, perché è anche degli animali. Ella ritiene del tutto normale cedere il proprio corpo a quegli uomini che, con il proprio denaro, le permettono di mantenere sé stessa e la famiglia rimastale. Lo cede, fra gli ultimi, al barbiere del paese, e lo cederebbe anche a Carlo Levi, se lui volesse. Anzi,

si meraviglia che il nuovo padrone non glielo chieda. “Sei ben fatto — gli diceva — non ti manca nulla. Ma non insisteva, né diceva niente di più, abituata, in questo, a una animalesca passività”. Né pensava che, concedendosi al pittore forestiero, avrebbe tradito, per ciò stesso, il suo barbiere. Tutto rientrava nella na-

tura delle cose ed apparteneva alla capacità di donarsi e sacrificarsi per la casa e la famiglia, che è proprio della donna più che dell’uomo. i In un regime così fatto, e cioè tutto amministrato da donne “sovrane”, i figli erano soltanto delle madri, che ne avevano

suprema cura. Essi - osservava Carlo Levi — “erano amati, adorati, vezzeggiati dalle madri, che trepidavano per i loro mali, che li allattavano per anni e anni, non li lasciavano un minuto, li portavano con sé, sulla schiena e sulle braccia, avvolti negli scialli neri, mentre, ritte con l’anfora in testa, venivano dalla

fontana”. Ed erano, per la molteplicità e naturalità dei rapporti sessuali delle loro madri, bambini numerosissimi, di tutte le età e, naturalmente, molto poveri. “Quasi tutti erano vestiti di cen-

ci malamente rattoppati, con le vecchie giacche dei fratelli maggiori, dalle maniche troppo lunghe rimboccate sui polsi; scalzi 126

o con delle grosse scarpe da uomo bucate. Pallidi tutti, gialli per la malaria, magri, con gli sguardi intenti, neri e vuoti, profondissimi. Ce n’era di tutti i caratteri, ... ma tutti pieni di una vita precoce, che si sarebbe poi spenta con gli anni, nella monotona prigione del tempo”. E tutti “avevano qualcosa di singolare; avevano qualcosa dell’animale e qualcosa dell’uomo adulto, come se, con la nascita, avessero raccolto già pronto un fardello di pazienza e di oscura consapevolezza del dolore”. Insomma, erano bambini che non conoscevano e non avrebbero mai conosciuto l’infanzia, e le sue gioie, nonostante l’amore possessivo e fiero delle loro madri. “I loro giochi [infatti] non erano i soliti

dei bambini del popolo delle città, simili in tutti i paesi: i fruschi soli erano i loro compagni”. Stavano peggio, in un certo senso, soltanto i bambini dei Sassi di Matera. Anche lì erano numerosissimi; ma, a propria

disposizione, purtroppo, non avevano nemmeno la campagna

e le corse per i campi, né il calore e la schiettezza libera del paese. La sorella di Carlo Levi li ricordava con orrore. “Eppure — racconta — era abituata, era il suo mestiere, a vedere ogni giorno diecine di bambini poveri, malati e maltenuti. Ma uno spettacolo come quello... non l'aveva mai neppure immaginato”. C'erano “bambini seduti sull’uscio delle case, nella sporcizia, al sole che scottava, con gli occhi semichiusi e le palpebre rosse e gonfie; e le mosche gli si posavano sugli occhi, e quelli stavano immobili... Era il tracoma”. E ce n’erano “coi visini grinzosi come dei vecchi, e scheletriti per la fame; i capelli pieni di pidocchi e di croste. Ma la maggior parte avevano delle grandi pance gonfie, enormi, e la faccia gialla e patita per la malaria... Altri si trascinavano a stento, ridotti pelle e ossa dalla dissenteria”. C'era anche chi aveva la febbre nera, come nei più lontani paesi tropicali. Ma a Matera prevaleva di gran lunga la presunzione tipica della città-capoluogo di provincia, appena istituita, in cui, tra prefetti, impiegati di Prefettura, farmacisti, medici ignoranti, questori, carabinieri, avvocati e maestri elementari, erano ve-

nuti meno o si erano affievoliti quegli stessi valori di solidarietà e di umanità che resistevano nella civiltà contadina. Matera, in 127

altre parole, era una città che incarnava l’orrido del fascismo e del burocratismo, del ruralismo e del modernismo, del conservatorismo e dell’avanguardismo, di cui era espressione la sua

“tragica bellezza”. Era una città grottesca. Ad Aliano, invece, e per fortuna, rispetto al mondo contadi-

no la schiera dei “luigini” costituiva ancor meno che una piccola minoranza, abbastanza influente, sì, ma non ancora vinco-

lante. La loro, per dir così, era ancora una “assurda tela di ragno”, un “polveroso nodo senza mistero, di interessi, di passioni miserabili, di noia, di avida impotenza, e di miseria”. E era-

no pur sempre borghesi di paese, spesso legati, per parentela, amicizia o altro, a quegli stessi contadini, da cui volevano distinguersi. Di qui i bellissimi e contrastati ritratti che di essi faceva Carlo Levi, sempre individuali e non collettivi, perché il male, da cui erano afflitti, era, come si è detto, un morboso

egoismo, carico di ogni paesana meschinità. È, quello del podestà, cioè di don Luigino Magalone, il più gustoso dei ritratti “luigineschi” ed il più tipico, fra quelli espressionisticamente tracciati da Carlo Levi. Don Luigino godeva nel farsi chiamare professore; ma professore non era. Era solo un povero maestro elementare, cui non sembrava vero di essere podestà, sia pure in un paese insignificante e sconosciuto nel vasto territorio nazionale. Dall’esercizio di tale funzione,

tuttavia, e proprio perché operava in una località lontana dal mondo, gli derivava la straordinaria fortuna di dover vigilare sui confinati assegnati al suo Comune, quasi sempre più illustri e importanti di lui. Era il suo segreto orgoglio. Così operava la Provvidenza; ed egli si sentiva, come il Duce, uno strumento

nelle mani della Provvidenza. L’aspetto fisico, in lui come negli altri piccolo-borghesi del paese, era lo specchio immediato dell'anima. “Era un giovanotto alto, grosso e grasso, con un ciuffo di capelli neri e unti che gli piovevano in disordine sulla fronte, un viso giallo e imberbe di luna piena, e degli occhietti neri e maligni, pieni di falsità e soddisfazione”. Quale distintivo e simbolo del potere, così orgogliosamente quanto insperatamente assunto, portava, normalmente, “gli stivaloni, un paio di brache a quadretti da cavallerizzo, una giacchetta corta, e giochere/lava 4

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con un frustino”. Ma tremava davanti alla sorella Caterina. Non meno significativo ed efficace era il ritratto che Carlo Levi tracciava del medico condotto, dottor Milillo. Lo vide per la prima volta la sera del suo arrivo, mentre faceva la sua consueta passeggiata serale. Tra il timido e il curioso, ma anche tra il comico e il goffo, si avvicinava, segnando “piccoli passettini. Aveva una settantina d’anni o poco meno”. Fisicamente, aveva un che di flaccido. Le guance erano cascanti, gli occhi lagrimosi e bonari, come quelli di un vecchio cane da caccia. Imovimenti erano “lenti e imbarazzati... più per natura che per l’età”. C'era qualcosa di unto e umidiccio anche in lui. “Le mani gli tremavano, le parole gli uscivano balbettanti, tra un labbro superiore enormemente lungo, e uno inferiore cadente”. Nel sopore del paese, tutti gli insegnamenti della gloriosa scuola di medicina napoletana erano, in lui, andati dispersi, sicché “i rottami delle perdute conoscenze galleggiavano senza più senso, in un naufragio di noia, su un mare di chinino, medicina

unica per tutti i mali”. Era, dunque, una immagine di indolenza e di pigrizia, di stanchezza e scetticismo, tipico di tanta borghesia meridionale, che, spesso, ha frenato e spento qualunque entusiasmo e speranza di rinnovamento. A livelli diversi, e più alti, essa aveva prodotto quella “filosofia del niente”, su cui si

era adagiata tanta intellettualità liberale, anche illustre, come nel caso di Giustino Fortunato. Non per niente, del dottor Milillo, Carlo Levi precisava, nelle pagine successive, che, in tempi precedenti, era stato nittiano e antico liberale. Il che, unito alla coincidenza della parentela con don Luigino, che gli era nipote, gli consentiva di criticare, di tanto in tanto, e sia pure timidamente, lo stesso sistema REA Avverso al dottor Milillo, desideroso di sostituirlo, e, quin-

di, di distruggerlo moralmente e professionalmente, era il dottor Gibilisco, assai più spregevole. Era anche lui un uomo anziano e fisicamente guasto. Era “grosso, panciuto, impettito, con una barba grigia a punta e dei baffi che piovevano su una bocca larghissima, piena e zeppa di denti gialli e irregolari”. Il modo di vestire era quello di un personaggio funereo, quasi da spaventapasseri o da iettatore. “Portava gli occhiali, una specie di cilin129

dro in capo, una redingote nera spelacchiata, e dei vecchi pantaloni neri, lisi e consumati”. Quasi ad accrescere la sua immagine grottesca e “buffa”, “brandiva un grosso ombrello nero di cotone”, che “portava sempre aperto, con sussiego, in modo perfettamente verticale, estate e inverno, con la pioggia e col sole, come il sacro baldacchino sul tabernacolo della propria autorità”. Poiché, come si è detto, era rivale e concorrente del dottor Milillo, ne odiava tutta la parentela. Naturalmente, odiava con

particolare furore suo nipote, don Luigino, che, a suo parere, in virtù del potere che gli derivava dalla carica di podestà, lo proteggeva e gli permetteva di conservare il ruolo di medico condotto, benché fosse in tutto rimbambito.

E tuttavia, più

“luigino” dei “luigini”, non osava manifestare apertamente il suo astio e furore; anzi si perdeva in ipocrite forme di riverenza e di rispetto, salvo, poi, sfogare la sua rabbia attraverso lettere anonime, puntualmente inviate alla Prefettura di Matera. Odiava del pari i contadini, poiché non solo non lo preferivano al dottor Milillo, ma spesso, quando si rivolgevano a lui, si rifiutavano di pagarlo. Ignorante ancor più del dottor Milillo, non aveva del rivale nemmeno il senso di amara stanchezza e la rassegnazione scettica e rinunciataria, che può diventare una forma di saggezza e di nobiltà spirituale, o, almeno, riluttanza a far del male. Il dottor Gibilisco, invece, pur essendo più ignorante dell’altro, aveva tuttavia, come capita, più pretese. “Una sola cosa egli sapeva, che i contadini esistevano unicamente perché [egli] li visitasse, e si facesse dare denaro e cibo per le visite; e quelli che gli capitavano sotto dovevano pagarla per gli altri che gli sfuggivano. L'arte medica per lui non era che un diritto feudale di vita e di morte sui cafoni”. E poiché aveva solo avidità di danaro, continuava a gestire la farmacia del fratello, morto

l’anno prima, attraverso le due nipoti, che non avrebbero potuto farlo, non avendo alcun titolo né alcuna competenza in materia. Non meno spregevoli o squallidi o insignificanti, oppure penosi, erano gli altri “luigini” del paese, conosciuti tutti sin dalla prima sera. Si notavano, in particolare, tre signori, “vestiti

di nero, con panciotto a doppia fila di bottoni, che fumavano in silenzio... Erano tre proprietari pieni di sussiego e di tristez130

za”. C°era anche l’avvocato S., “un uomo buono e triste, pieno

di sfiducia e di disprezzo per il mondo dove gli toccava vivere”, anche perché colpito da atroci disgrazie familiari. L’anno prima, infatti, gli era morto “l’unico figlio maschio, e le sue due belle figlie, Concetta e Maria, da allora, non erano mai più usci-

te di casa, neppure per andare a messa”. C’era anche un Poerio, ultimo relitto di una gloriosa famiglia di liberali e patrioti del Risorgimento napoletano. Sordo e cadente, malato grave e magro da far paura, si portava addosso, cucita ai vestiti, l’immagine della morte. Sarebbe morto di lì a poco, durante la permanenza di Carlo Levi. Con un avvocato squattrinato, che, patetica figura di fallito,

perdeva il suo tempo nel gioco delle carte, inutilmente cercando di rivivere i modi scapigliati e goliardici della vita universitaria trascorsa a Bologna, c’era il solito maestro elementare non di ruolo, in attesa della sospirata e concordata supplenza. Velenoso e presuntuoso, era anche frequentatore di cantine ed eterno ubriaco. Né si salvava il brigadiere dei carabinieri, che avrebbe dovuto essere il tutore della legge e dei deboli, ma che, al contrario, forte del suo ruolo e dei suoi mezzi, avido di danaro,

era riuscito ad arricchirsi illecitamente. E poiché l’autorità aveva il suo fascino virile, era diventato l’amante della levatrice. Tuttavia, al tempo dell’arrivo di Carlo Levi, non contento di una conquista tanto facile e insulsa, aveva cominciato a insidiare una bella mafiosa siciliana, confinata anche lei, cui erano

concessi privilegi particolari. Era una sfida. Si riteneva che, tra favori e ricatti, la bella donna, prima o poi, avrebbe ceduto “alla potenza incarnata della legge”. Le donne “luigine”, infatti, non sono da meno dei loro ma-

riti e amanti “luigini”, di cui aggravano i difetti, allo stesso modo che le donne “contadine” partecipano delle qualità e virtù dei loro uomini, esaltandole. Le donne “luigine”, perciò, non han-

no mai la dignità morale e nemmeno la robustezza fisica delle donne contadine, che sapevano affrontare e sostenere le difficoltà della vita con l’istintività, la naturalezza e, quindi, il vigo-

re sano delle capre e delle asine. Talché, se Giulia la Santarcangelese, con i suoi numerosi amanti, era circondata di simpatia e 131

affetto, come un fenomeno di natura o un segno del destino, la levatrice, amante del brigadiere e, quindi, alleata interessata del

potere, “era una donna alta e secca e un po’ storta, dagli occhioni romantici, lucidi e pieni di languore, con un lungo viso da cavallo ... Mal vestita, indaffarata, con dei gesti e degli accenti sentimentali ed eccessivi”, ricordava “una diva da caffè-concer-

to di provincia”. Altrettanto spregevoli erano le nipoti del dottor Gibilisco, pettegole e malvage, diffidenti e velenose. A parte l’esercizio abusivo della funzione di farmaciste, esse sono dette creature

senza scrupolo alcuno, pronte a turbare la pace coniugale di donna Caterina Magalone in Cuscianna, della quale la sorella bruna, e la più bella, aveva stregato il marito. Ma donna Caterina,

sorella del podestà, e moglie tradita, non è migliore delle rivali; più delle due farmaciste, anzi, sembra rappresentare tutto il decadimento morale e fisico della sua classe di appartenenza. Astiosa e cinica, perfida e insinuante, ella aveva, come unico sentimento, “un odio concentrato, continuo come una fissazione”, nei confronti della famiglia avversa, concorrente in amore,

come in prestigio sociale. “Odiava quelle “donnacce’ della farmacia, odiava il loro zio, il dottor Concetto Gibilisco, odiava

tutto il partito di parenti e di compari di San Giovanni che faceva capo a lui, odiava quelli che a Matera lo proteggevano”. Insomma odiava mezzo paese; e, per meglio esercitare il suo odio e le sue persecuzioni, si serviva del fratello podestà, su cui aveva un grande ascendente, tanto da lasciar credere — come si è detto - che il vero podestà fosse lei. Quanto poi al marito, il maestro elementare e segretario del fascio alianese, don Nicola Cuscianna, che era stato irretito dalla bella farmacista, donna Caterina, sempre perfida e decisa,

dopo avergli crudelmente negato l’accesso al talamo coniugale, l’aveva costretto ad arruolarsi e a partire volontario per l’Africa. Fu in casa di donna Caterina che, in occasione della visita di

Carlo Levi, arrivarono due altre donne “luigine”, al solito decadenti e tristi, deformate e squallide. Erano le malinconiche figlie del dottor Milillo, che donna Caterina aveva fatto venire, forse col segreto intento di combinare un fidanzamento col 132

dottore e pittore venuto dal Nord. Pur essendo solo sui venticinque anni, in esse era assente qualunque particolare di femminilità e di grazia. Erano infatti “tarchiate, grassotte, esuberanti, nere come sacchi di carbone, con neri capelli corti arricciolati e svolazzanti, neri occhi che lanciavano fiamme, neri baffi

sulle grandi bocche carnose e neri peli sulle braccia e sulle gambe in perpetuo movimento”. Ad accrescere il senso del brutto, ma anche della pena, per l’occasione esse “si erano tinte le labbra...con spessi strati di rossetto stridente, si erano infarinate il viso con una cipria candida, avevano infilate delle scarpe col tacco”. Il paragone con gli animali diventava naturale, ma non con le capre dinamiche e creative, bensì con le nere cavallette, di cui esse ripetevano “il frinire e i salti”. Non dovrebbero sfuggire, a tale destino di decadimento fisico e spirituale, nemmeno i ragazzi dei “luigini”, se ce ne fossero. Ma, fatto assai interessante, non se ne incontrano, nel libro.

Forse ciò è dovuto ad una ragione banale, cioè al fatto che i ragazzi dei “luigini” non erano numerosi né correvano per le strade come i figli dei contadini; ma forse la ragione è anche più generale e più ampia, non esistendo e non potendo esistere una infanzia “luigina”, poiché, direbbe Dante, “la contradizion ... nol consente”. L’infanzia dell’umanità e degli uomini, infatti, essendo al di qua di ogni distinzione, è sempre uguale dappertutto, nel senso che è sempre “contadina”.

Unica eccezione, in tale contesto, potrebbe apparire il figlio del dottor Milillo, ritratto anche in un quadro. Ma Carlo Levi lo conobbe già “ragazzotto di diciott’anni, timido e impacciato, che, avendo avuto da piccolo una cefalopatia, era rimasto un po’ arretrato”. Sta di fatto, però, che Carlo Levi ne parla con un senso di pena e di pietà, non disgiunto da umano affetto. Lo aveva visto “mal vestito, con un viso giallo e storto, dagli occhi ebeti, e un grande labbrone penzolante... zitto e intontito, in un angolo della stanza”. Proprio perché di scarse capacità intellettuali, e poiché aveva fallito in tutti i tipi di studi, giusta e meritata collocazione, per lui, si profilava un posto nello Stato amico dei “luigini”. Il ragazzo, infatti, debole di mente qual era,

con gran senso di umiltà, sconosciuta alla sua classe, desiderava 193

entrare “al corso per sottufficiale dei carabinieri”. Se tutto fosse andato come era nei suoi desideri, e com’era anche giusto che andasse - commenta con bonaria comprensione Carlo Levi -, lo Stato, se non altro, avrebbe avuto “un brigadiere inoffensivo”.

Con il “figlio del dottore”, dunque, forse perché egli era a metà strada tra l’infanzia e l’età adulta, sembra che, in certo

qual modo, vengano a rompersi i confini fra i due estremi sociali dei “contadini” e dei “luigini”, fra i quali - come si è detto più di una volta — non esisteva una vera e propria classe intermedia. Tuttavia, non mancava qualche personaggio singolare, che sembrava vivere in sé i segni della frattura sociale, associandoli. La nota caratteristica poteva essere la comicità. E il pensiero corre immediatamente ai personaggi manzoniani e alla nota analisi che ne fece il De Sanctis. Anzi, proprio al don Abbondio manzoniano fa pensare uno dei personaggi più felicemente riusciti del Cristo si èfermato a Eboli. Si vuol dire di don Giuseppe Traiella, il parroco del paese. In realtà, però, più che di comicità manzoniana, nel caso del Levi forse sarebbe meglio parlare di “umorismo” pirandelliano. Infatti, proprio perché la caratteristica di questi personaggi intermedi è quella di essere divisi e scissi tra “contadini” e “luigini”, proprio per questo essi vivono in uno stato di tormento, che li può rendere tragici, pur sotto una veste apparentemente comica. Si tratta, in definitiva, di personaggi che, a differenza di tutti gli altri, sanno prendere la necessaria distanza dalle cose e valutarle con distacco, giungendo a forme di dolorosa autoanalisi e autoconsapevolezza. Il caso di don Giuseppe Traiella, in tal senso, è tipico. È quello di un uomo che, a suo tempo, fu colto, sano, intelligente

e apprezzato. Buon conoscitore del latino, dotto in teologia, aveva insegnato nei gloriosi seminari di Melfi e di Napoli. Scriveva, dipingeva e scolpiva; e aveva acume critico. Forse fu solo per questo che non piacque ai numerosi “luigini” che si annidavano anche nella Chiesa, che dei “luigini”, soprattutto meridionali, spesso è stata il rifugio e lo strumento. Si colse a pretesto, per punirlo e confinarlo, il fatto che, secondo alcune voci, “si

permetteva certe libertà con gli allievi”. Ma era una diceria e niente più. La verità è che, così maltrattato e così offeso nella 134

sua dignità e cultura, don Giuseppe Traiella aveva reagito, lasciandosi andare ad un voluto degrado fisico e intellettuale, diverso da quello, per dir così, naturale dei “luigini”. Quando Carlo Levi ne fece la prima conoscenza, lo trovò, davanti alla

chiesa, “occupato a minacciare con un bastone un gruppo di ragazzi che, a qualche passo di distanza, gli facevano boccacce e sberleffi, e si chinavano a terra, nell’atto di volergli gettare le pietre”. La seconda volta che lo vide, fu per un atto di carità. Avendo saputo che era afflitto da forti dolori intestinali senza che se ne curasse, Carlo Levi volle andare a visitarlo in casa. Lo trovò

che “stava mangiando con la madre” vetula et infirma. La tavola era povera e senza tovaglia. Mangiavano in un solo piatto e bevevano da un solo bicchiere, che a, “quanto si poteva arguire dalla gromma unta e nera che lo incrostava tutto attorno, doveva aver servito per anni, senza essere mai stato lavato, a lui e alla vecchia”. Ciò nonostante, in tanto squallore, era possibile ancora rintracciare qualcosa di quel che, in passato, don Giuseppe era stato. A_ parte infatti le citazioni in latino, sempre appropriate, in un angolo, ammassati, giacevano libri di grande impegno, sebbene ormai coperti da macchie di pece, oltre che da uno spesso “strato di polvere e di sterco di gallina”. Si trattava di “vecchi volumi secenteschi di teologia, di casistica, delle Storie dei Santi, e Padri della Chiesa, e poeti latini”. Né mancavano libri scritti dallo stesso Traiella, o quadri, nascosti sotto il letto, o sculture, tutti realizzati temporibus illis, prima che fos-

se relegato e costretto in partibus infidelium. Con la lucidità che gli derivava dalla cultura e dall’esperienza di un altro mondo, ben più colto e evoluto di quello di Aliano,

don Traiella intendeva la paradossalità del mondo alianese, assurdamente diviso tra contadini e “luigini”. Odiava, perciò, gli uni e gli altri. O, per meglio dire, li disprezzava, raccogliendone disprezzo. Il suo sfogo e la sua vendetta, contro gli uomini e contro la sorte, era, in tale contesto, scrivere “epigrammi latini contro il podestà, i carabinieri, le autorità e i contadini”, insomma contro tutti. Ormai giunto nella condizione di chi più nulla teme e di nulla più si meraviglia, non aveva più paura di 155

apparire comico e ridicolo, proprio come certi “poveri” personaggi pirandelliani. Nasceva su queste premesse la memorabile “notte di Natale”, che, insieme alle pagine dedicate a Matera,

alle descrizioni del paesaggio, alla rappresentazione delle sofferenze contadine e ai “ritratti”, è, giustamente, fra le più famose

e le più belle del libro. E come un autentico personaggio pirandelliano, ridendo e straparlando, don Giuseppe Traiella rivelava tutta la sua cultura, la sua umanità e l’autentica verità. Avendo perso il testo scritto dell’orazione, che, per pigrizia, aveva pensato di leggere, si trovò inaspettatamente a dover inventare tutto sul momento. Essendosi casualmente imbattuto nel testo di una lettera di un sergente alianese, impegnato nella guerra d'Africa, ne approfittò per ricordare, ai fascisti e a tutti, che il Natale, al di là di tutte le usanze, non aveva senso, se non diventava portatore di pace,

tanto più in un momento in cui, proprio per colpa degli italiani, si combatteva una guerra nefasta. “Pax în terra hominibus” — egli disse. E poi, continuando, “noi dobbiamo purificarci — aggiunse — per sentircene degni, dobbiamo fare un esame di coscienza, dobbiamo chiederci se abbiamo fatto il nostro dovere,

per essere degni di ascoltare con purezza di cuore il Verbo di Dio”. Scontata, quanto naturale e rozza, arrivò la reazione del

podestà, che, con i pochissimi avanguardisti e balilla del paese, rispose intonando, goffamente, Faccetta nera e Giovinezza.

Tra i personaggi intermedi potrebbe collocarsi, benché minore, anche l’Ufficiale Esattoriale, presentatosi a Carlo Levi in

modo inatteso, anche lui con qualcosa di grottesco e di umoristico, cioè di tragico e penoso, che ne faceva un esponente del mondo dei “pupi”, più che degli uomini. Era, infatti, “un giovane con dei minuscoli baffetti rossi, che portava un astuccio allungato di pelle marrone”. Nell’abbigliamento spiccava un particolare contrasto, poiché, pur “mal vestito” e con “le scarpe impolverate”, aveva tuttavia “il colletto e la cravatta”. Cera, insomma, in lui, qualcosa di dimezzato, che indicava il caratte-

re dimidiato del personaggio stesso. Ad accentuare il suo aspetto di “buffo”, portava uno strano cappello, “alto e tondo, con

una visiera di tela cerata, sul tipo di quelli che un tempo aveva136

no gli accademisti”, sul fondo grigio del quale, nella parte anteriore, si potevano leggere, in rosso fiammante, due lettere: U.E.,

che stavano a significare “Ufficiale Esattoriale”. Si trattava, per l'appunto, di un addetto alla riscossione delle tasse, cioè di un personaggio odiatissimo in paese, come in tutte le povere terre del Sud. Non era, dunque, un mestiere gradevole per chi lo esercitava, tanto più nel caso di un uomo che non avesse perduto del tutto ogni sentimento umano e morale. E quell’individuo, così strano e così goffo, svolgeva il suo mestiere con grande senso di rincrescimento e sofferenza. Di qui un forte disagio interiore, che egli, sdoppiandosi, cercava di colmare e calmare, immaginandosi un altro destino e un altro lavoro. La sua speranza più cara era tutta riposta in un clarinetto, che portava sempre con sé, ben conservato in un astuccio, e

che suonava non appena gliene fosse offerta la possibilità, o gli venisse richiesto. Sperava, un giorno, di diventare musicista e guadagnarsi la vita in modo meno indegno e indecoroso. E delle sue profonde aspirazioni volle dare saggio a Carlo Levi, che — lo si vedeva chiaramente - di musica si intendeva e poteva apprezzarlo. Solo perché era in attesa di diventare un “artista”, esercitava il provvisorio mestiere di Ufficiale Esattoriale, nutrendosi, per risparmiare, del pane e del formaggio che usava portare con sé. Nutritosi, per l'appunto, di pane e di formaggio, la sera stessa in cui conobbe Carlo Levi, die’ di piglio al suo clarinetto e cominciò a suonare. Nella notte “il clarinetto soffiava, indeciso e fragile, le note di una canzonetta”; i cani, fuori,

triste e amaro sottofondo, “lo accompagnavano brontolando”. Il lumicino, che ardeva ancora nella coscienza rancorosa di

don Giuseppe Traiella e viveva in quella patetica e illusa dell’Ufficiale Esattoriale, era lo stesso che, a Grassano, illuminava

anche quella del tenente Decunto, che viveva, perciò, una identica condizione di frattura. Nulla di umoristico e di buffo, però, nel suo caso, si leggeva all’esterno. Tutto, invece, era tristemen-

te e severamente tragico. Egli non aveva la forza di ridere e irridere sprezzantemente alla vita, come Traiella; né nutriva le impossibili speranze dell’Ufficiale Esattoriale. Nel suo carattere e nelle sue parole sembrava di avvertire qualche eco di un più 137

definito e particolare personaggio pirandelliano. Si vuol dire di Anselmo Paleari, che, nel Fu Mattia Pascal, si era fermato ad

esporre la sua strana lanterninosofia. Agli uomini, secondo Paleari, “nascendo, er4 toccato un tristo privilegio: quello di sentirsi vivere”. E proprio questo sentimento della vita, che è come un lanternino, costituisce il tormento perenne della condizione umana. Si tratta, infatti, di “un lanternino che ci fa vedere sperduti su la terra, e ci fa vedere il male e il bene; un

lanternino che proietta tutt'intorno a noi un cerchio più o meno ampio di luce, di là dal quale è l’ombra nera, l’ombra paurosa che non esisterebbe, se il lanternino non fosse acceso in noi,

ma che noi dobbiamo purtroppo creder vera, fintanto ch’esso si mantiene vivo in noi”. Non si trattava, certo, al di là del linguaggio immaginoso, di

una teoria del tutto nuova. Basti pensare al Leopardi, per convincersi che, certamente, se la consapevolezza della propria condizione non crea, di per sé, l’infelicità, certamente ne accresce

l’intensità. E il tenente Decunto, a causa del suo “piccolo e funesto lume di coscienza”, viveva in pieno il suo sentimento del contrario, perché, pur trovandosi a essere tenente della Milizia fascista, aveva coscienza della paradossalità e falsità del fascismo, dello Stato fascista, dei carabinieri, del podestà, del segre-

tario del fascio e, quindi, della sua stessa funzione. All’esterno, tuttavia, tale contrasto né appariva né, di conse-

guenza, suscitava riso. Decunto era un personaggio terribilmente serio. Si poteva solo notare qualcosa di ambiguo. Quando Carlo Levi, da lui chiamato, andò a trovarlo, nutrendo il timore di

qualche “nuova noia”, trovò invece, “in una stanzetta che gli serviva da ufficio, un piccolo giovane biondo, gentile, con una bocca amara e degli occhietti azzurro-chiari, sfuggenti, dagli sguardi che si posavano di fianco alle cose, ritrosi, più che per paura, per una specie di vergogna o di ribrezzo”. Di grottesco, la sua figura manifestò solo il modo allampanato di comparire all'improvviso, “biondo e grigiastro come un spettro”, alle spalle del suo visitatore. Per il resto, si mostrò crudelmente e spietatamente sincero e severo, quando, sottolineando l’assurda condizione della vita morale e politica di Grassano, dov'era impossi138

bile scegliere tra “luigini” e “contadini”, concluse che tutto era segnato, nel destino degli uomini e dei paesi del Sud. Pertanto a chi, come lui, ne avesse avuto coscienza, non restavano che l’ar-

ruolamento e la partenza per la guerra d'Africa, visti come forma di autoannientamento e, quindi, come unica e tragica possibilità di soluzione al proprio dramma esistenziale. La qual cosa, però, non risolveva il problema né di Grassano né del Sud, anzi lo aggravava, perché, comunque, lasciava libero campo alle “facce ottuse, maligne e avidamente soddisfatte” di tutti gli altri galantuomini e di chi se ne serve, cioè lo Stato e la Chiesa. La conclusione del libro, in tal senso, era una riprova e una

conferma. Infatti, dopo l’episodio della notte di Natale, il povero Traiella era stato confinato ed emarginato ancor di più, perché era stato costretto a risiedere nella piccolissima frazione di Alianello. Intanto il tenente Decunto era veramente partito per l'Africa. In Aliano, al posto di don Giuseppe Traiella, la Chiesa, spintavi dalle denunce del potere politico, cioè di don Luigino, aveva mandato, proveniente da Miglionico, don Pietro Liguari, uomo volitivo, concreto e affidabile, “assolutamente

opposto, nell’aspetto, nei modi e nell’animo al povero Arciprete misantropo, relegato nel villaggio sul fiume”. E se nella casa del povero don Traiella, la miseria, la fame e lo squallore si toccavano con mano, nella casa di don Liguari, che era appena arrivato, si notavano, già in gran quantità, “salami, salsicce, prosciut-

ti, provole, provoloni, trecce di fichi secchi, di peperoni, di cipolle e di agli che pendevano dalle travi del soffitto”. Si rimaneva anche colpiti “dai barattoli di conserve e di marmellate, e dalle bottiglie d’olio e di vino che ingombravano le dispense”. Non una vecchia mamma, vetula et infirma, teneva compagnia al nuovo parroco, ma una vera e propria governante, una donna “sulla quarantina, alta e magra, con un viso severo e impenetrabile, tutta vestita di nero, con un collettino bianco, sen-

za velo sul capo”. Era, cioè, una donna con qualcosa di misterioso e di vezzoso, che poteva ricordare la monaca di Monza e la sua ciocca di capelli sfuggenti dal velo. Del resto, correva voce che, come la monaca di Monza, ella nascondesse una comples-

sa vita di avventure sessuali, in virtù delle quali le si attribuiva139

no ben quattro figli di arcipreti, dispersi, qua e là, nei collegi della provincia. Ma Madre Chiesa, che era stata così sensibile alle critiche politiche, si dimostrava sorda a quelle morali. L’im-

portante era che l’organo della chiesa madre di Aliano tornasse a suonare e che la chiesa stessa tornasse, anche per un solo giorno, ad essere affollata. Per questo don Liguari aveva vinto il concorso e don Traiella era stato isolato e ridotto al silenzio; ed

era così che ad Aliano poteva cambiare tutto, senza che cambiasse nulla. Tutto, insomma, tornava sconsolatamente su sé

stesso, come il tempo e il paesaggio. Era, infatti, arrivato maggio; e anche “il paesaggio era tornato quello di sempre, bianco, monotono, e calcinoso. Come ... tanti mesi prima, sulla distesa delle argille silenziose, l’aria on-

deggiava per il caldo; e pareva che, da sempre, su quello stesso desolato mare biancastro oscillasse grigia l’ombra delle stesse nuvole... I contadini erano nei campi, le ombre delle case si stendevano pigre sui selciati, le capre sostavano al sole. L’eterno ozio borbonico si stendeva sul paese, costruito sulle ossa dei morti”. E all’ozio non era facile resistere, perché, prima o poi,

tutti se ne lasciavano avvincere, abbandonandosi alla rassegnazione. Lo stesso Carlo Levi, se pure lavorava, dipingeva e curava i malati, a poco a poco stava cadendo egli stesso nell’indifferenza, sì da sentirsi come “un verme chiuso dentro una noce secca”. La salvezza, per fortuna, arrivò dallo stesso fascismo che, a

seguito della vittoria in terra d'Africa, concedeva l’amnistia a tutti i confinati, anche mafiosi. Non la concedeva ai soli comu-

nisti, evidentemente perché considerati i più pericolosi di tutti, compresi i mafiosi. Carlo Levi poté allora partire, sia pure con un senso di malinconia e dispiacere. Ai contadini che gli si affollavano intorno e volevano trattenerlo, egli fu costretto a promettere, più e più volte, che sarebbe ritornato; ma i contadini,

edotti dall'esperienza dei secoli e dei millenni, non gli volevano credere. Scuotevano il capo e dicevano: “Se parti non torni più. Tu sei un cristiano dono. Resta con noi contadini”. E invece Carlo Levi partì una mattina all’alba, mentre, come ogni mattina e come sempre, “i contadini si avviavano con i loro asini ai campi”. Tornava verso la storia e verso un’altra 140

civiltà, “attraverso le campagne matematiche di Romagna, verso i vigneti del Piemonte”, dove l’umanità aveva un altro passo e un altro ritmo. Di là, era più facile avviare una battaglia di riscatto, cominciando con una denuncia, che era un atto d’amo-

re, a lungo covato. E da ritenere che nacque così, proprio per un atto d’amore, il Cristo si èfermato a Eboli, che era un modo per mantenere la promessa del ritorno “a quell’altro mondo, serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato, eternamente paziente, a quella terra senza conforto e dolcezza, dove il contadino vive, nella miseria e nella lontananza, la sua immobile civiltà, su un suolo arido, nella presenza della mor-

te”. E poiché era un atto d’amore profondo, fu facile che diventasse anche un’opera di poesia, sicché la denuncia, perduto il suo carattere immediato a favore della Lucania storica, diventa-

va un invito e un messaggio di amore e fratellanza per tutta l’umanità di ogni luogo e di ogni tempo, cioè per tutte le Lucanie che sono e saranno al mondo. Che è, poi, il senso autentico

della poesia e di ogni poesia, che non ha mai scelto la causa dei vincitori e degli oppressori. E se talvolta l’ha fatto, ha finito col tradire sé stessa e contraddirsi, nel fallimento come nella riuscita.

141

GPAVPAI

HOMO

MO TI CAVO,

Quaderno a cancelli

(1979)

Verso la fine del dicembre 1972, Carlo Levi fu colpito da una grave malattia agli occhi. Gli sembrò di “vedere” la neve che gli cadeva davanti agli occhi; in realtà, si trattava del distac-

co della retina. Ricoverato nei primi di febbraio del 1973, presso la clinica San Domenico di Roma, vi fu operato pochi giorni dopo. Rimessosi parzialmente, e ricoverato una seconda volta nell’aprile dello stesso anno, fu ancora una volta operato. La perdita della vista è per tutti un grosso dramma; ma lo è ancor di più per chi esercita l’attività di pittore e di scrittore. Carlo Levi, tuttavia, com'era nel suo carattere, non volle arrendersi

alla necessità. Sollecitato dalla compagna Linuccia Saba, riprese a dipingere, chiedendo uno per uno i colori che gli servivano. Né rinunziò a scrivere. Si fece infatti preparare “una sorta di scrittoio”, come “un ‘quaderno’ di legno a cerniera, munito di cordicelle tese tra le due sponde per guidare la mano”!. Era un vero “quaderno a cancelli”, da cui trasse titolo l’ultima sua opera. L’espediente ricordava da vicino l’accorgimento usato dal D'Annunzio, quando, in condizioni di pari cecità, si dette a scriI

1 C.LEVI, Quaderno a cancelli, Torino, Einaudi, 1979. Dalla Postfazione a

cura di A. Marcovecchio. Quando manchino altre indicazioni, tutte le citazioni del presente capitolo devono intendersi tratte dal testo leviano. 142

vere il suo Nottumo. Non era facile, però, nonostante le cordicelle,

mantenersi nel rigo ed evitare accavallamenti di righe e di parole. Se ne accorsero, qualche anno dopo la morte dello scrittore, i suoi amici, allorquando cercarono di riordinare quegli appunti, per farne un libro. Le difficoltà erano molte, e non tutte superabili. Nonostante ciò, tuttavia, si decise di procedere alla pubblicazione. Ne nacque un’opera voluminosa, di circa duecentotrenta pagine, scritte in condizioni pressoché impossibili, e quindi poco leggibili, cioè poco comprensibili. A parte infatti la cecità quasi sempre assoluta, lo scrittore lavorava in una posizione scomoda, cioè in posizione supina. In un primo momento si volle usare la penna; ma siccome l’inchiostro scivolava all’indietro, si dovette allora ricorrere alla matita, i cui segni, però, erano meno nitidi.

Insomma, spesso ne derivarono “enigmatici segni”. Come se non bastasse tutto questo, lo scrittore, forse perché

si vedeva sfuggire tempo e opportunità per si dette ad una scrittura troppo frenetica. del 1973 al 31 maggio dello stesso anno, Né, poi, ebbe modo e voglia di rivederli,

la sua attività creativa, Dai primi di febbraio scrisse ben 941 fogli. correggerli e organiz-

zarli. Allo stato attuale, pertanto, si dispone di un libro - si fa per dire -, che è un cumulo farraginoso di note, divagazioni, astrusi e incomprensibili simbolismi, che, sicuramente, sarebbe

stato meglio abbandonare al destino di documenti e testimonianze private, per pochi intimi, o per lo studioso zelante. Non poche, peraltro, sono le parti che presumono al verso, ma che, come sempre e più che mai, sono penose e infelici ambizioni di un uomo che era pittore e prosatore, ma certo incapace di sentire il ritmo del verso. Il tutto sembra il frutto di una condizione psicologica molto fragile, che rende inopportuno e malfondato quello che i curatori del libro, Linuccia Saba e Aldo Marcovecchio, dicono di aver scoperto come una novità, cioè una trepidazione angosciata e, addirittura, una “nuova spiegazione del

mondo”, contrastante con la consueta immagine di un Levi “olimpico e solare”). 2 Ivi, p.231. 3 Nel risvolto di copertina. 143

In realtà, a parte il fatto che è difficile concordare con un Levi “olimpico e solare”, tanto egli è stato sempre impegnato sul terreno del sociale e del politico, fino a trepidare al fianco di tutti coloro che soffrono, è persino ovvio che un uomo, che

rischi il distacco totale dal mondo e presagisca la fine di ogni attività per cui è vissuto, debba alfine avvertire un evidente senso di avvilimento e sfinimento. Dal quale ci si può salvare solo con la fede, o con l’ironia, o con la suprema rassegnazione, o con l’autoironia. Ma né la fede, né l’ironia, né la suprema rasse-

gnazione e l’autoironia sono presenti in Quaderno a cancelli. E nemmeno c’è una grande lucidità intellettuale. Il risultato è qualche inutile complicazione, come quando, al posto della tradizionale distinzione degli uomini in Contadini e Luigini, si introduce la nuova distinzione fra “diabetici” e “allergici”, gli uni sempre disposti a raddolcire i rapporti con gli uomini e ad assimilarne le ragioni, gli altri, invece, sempre in rottura col mondo e con gli altri, contro cui costruiscono barriere e baratri, odi e divisioni.

Diverso discorso, cioè di comprensione e tolleranza, si può fare solo per qualche pagina evocativa del passato, che ripercorra le due più grandi esperienze del Levi, cioè la sua infanzia torinese e il suo confino in Lucania, che, in un certo qual modo,

coincidevano. Ciò è particolarmente evidente nella rievocazione dell’antico ponte di legno sul Po, che oscillava come culla sotto 1 saltelli di Levi bambino, felice, allora, come tutti i bam-

bini, di una felicità inconsapevole. O succede nella rievocazione dell’altalena “appesa sotto l’alto noce nel giardino meraviglioso di via Bezzecca, dove l’intensità della pienezza era insostenibile. E qui forse era ancora un dondolio della culla di legno contadina, dove parole i incantate accompagnavano un ritmo tale da mutare l’esistenza in una invenzione di grida, di nuovissima alta gioia”. O succede ancora quando si ricordano il commosso addio alla Lucania e le suppliche della povera gente di Aliano, che a Carlo Levi chiedeva di restare, perché continuasse nella sua opera di buon medico, cioè di medico di cristiani. Pur partito, però - commenta Levi —, “laggiù sono rimasto, tutti i giorni necessari perché ognuno fosse salutato, ancora una volta ve-

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duto; e saluto ogni volta, ogni anno ciascuno degli alberi, dei carrubi, degli olivi; e mi dispiace quando, per fretta o per altrui presenza, non posso farlo, solo, con un abbraccio, d’occhio e di cuore, alla terra e alle piante, ad una ad una [...]. Lucania delle

Lucanie, dentro di noi, parte non più distinguibile di noi”. Si tratta, tuttavia, di frammenti e passaggi sperduti nell’ammasso di una prosa ridondante e disordinata, se non sconclusionata, sicché non solo Quaderno a cancelli non aggiunge nulla all'uomo, ma anzi nuoce allo scrittore, il quale, forse più

consapevole degli amici e degli editori, pur quasi guarito, secondo la testimonianza degli stessi curatori, “non trovava mai il tempo, o il desiderio, di riguardare quello che aveva scritto, di correggerlo, di dargli una forma definitiva, appunto da opera compiuta”*. Né si può parlare di scelta di poetica, perché Carlo Levi, razionalista illuminato, e scrittore impegnato, non aveva mai amato l’abbozzo e l’incompiuto. Era solo un legittimo rifiuto.

4 Dalla Prefazione di L. Saba, p. IX. 145

Î

GCIAPUCITO SM

OMINIOENTO

Per le Lucanie e i «lucani» di tutto il mondo

Si è detto qua e là della circolarità e totalità che avvolge tutta l’opera di Carlo Levi, fino a dare l’impressione di una certa monotonia e uniformità. In effetti, l’impressione è più che un’impressione; ma è anche vero che alla circolarità e totalità è sempre implicita la coerenza. Ciò è stato ampiamente documentato e provato per Carlo Levi pittore e scrittore, sicché è apparso evidente come i suoi quadri parlino e narrino storie, allo stesso modo che i libri dipingono e rappresentano. Meno è stato fatto per Carlo Levi politico, concretamente impegnato per il trionfo della giustizia e della libertà. Eppure, al fondo, come motivo unificante, c’è sempre - come si è spesso detto — il desiderio di cercare l’uomo nella sua unità, per trovarlo e riscattarlo. Ciò significa andare verso la natura, superando le incrostazioni storiche e sociali; e significa andare verso il popolo. Qualcuno potrebbe parlare di populismo; ed è stato fatto. Ma senza populismo non ci sarebbe stato il socialismo utopistico e, dopo quello, il socialismo scientifico. E non ci sarebbe stato il cristianesimo. In ogni caso non ci sarebbero state tutte le battaglie per il riscatto dei sofferenti, che pure si sono combattute, anche se, spesso, sono andate perdute.

Certo è che, in virtù del suo populismo o socialismo utopistico, Carlo Levi si sentì fratellastro dei lucani e dei vietnamiti, 146

degli emigrati meridionali e dei birmani. Qualcuno ha trovato che anche questo atteggiamento, vagamente umanitario e quasi mistico, fosse politicamente ambiguo, nel momento in cui escludeva un impegno preciso di partito e nel partito. Significativa, sotto questo aspetto, è la gelosa difesa, da parte di Carlo Levi, della sua condizione di “indipendente”, sia pure di sinistra, che gli permetteva di essere al di fuori e al di sopra delle parti, dei compromessi e delle astuzie strategiche, che, si voglia o non si voglia, sono momenti ineliminabili della concreta vita politica, se non si vuole che questa si traduca in professioni di principi e di buona volontà. E anche vero, però, che la vita politica ha anche bisogno di chi sappia tracciare i grandi sogni e le grandi idee, indicando la via della coerenza assoluta ad essi, in qualunque condizione. Ciò permise a Carlo Levi di parlare chiaro a tutti, anche ai suoi compagni di cordata, pur col rischio di sentirsi indicato come un esempio di qualunquismo, ancorché di sinistra. Ma, a guardar bene, un intellettuale ha il dovere di essere un po’ qualunquista, così come è giusto che qualcuno, un giorno, faccia pure l’elogio del qualunquismo. La verità è che, pur avendo fatto una scelta di campo in senso socialista, Carlo Levi ripudiò la tessera, preferendo, com'era giusto, un ruolo di richiamo alle ragio-

ni della morale e dell’uomo nella sua totalità. Con queste intenzioni egli entrò nell’agone politico, finendo senatore. E nelle aule del Senato i suoi discorsi, a volte svagati, a volte ironici,

a volte poetici, portarono il segno della mente superiore, che guarda lontano, all’immutabile ed all’eterno che è nell’uomo e nelle sue aspirazioni. Contemporaneamente, come presidente della Filef, partecipava a convegni nazionali e internazionali, scriveva discorsi e discuteva di proposte di legge a favore dei paria di sempre che, per lavoro, erano costretti a lasciare il proprio paese. Fu perciò una meritevole iniziativa quella della rivista “Emigrazione” che, nel dicembre del 1975, nell’approssimarsi del primo anniversario della morte dello scrittore, volle pubblicarne gli interventi politici più significativi, altrimenti di difficile reperimento. Dalla raccolta, a cui qui si attinge, si evinceva che ogni occasione, 147

ogni piccolo avvenimento di cronaca, diventava, ai suoi occhi, il segno di un’altra universale e perenne verità, secondo cui, nei millenni, non è esisitito e non esiste se non - come si è detto -

l’eterno conflitto fra il bene e il male. In questa lunga vicenda, il bene è fisso ed immutabile, chiaro alla coscienza degli uomini; ma il male ha la forza della sua mobilità, per cui, si presenta in forme sempre nuove, pur nella sua costanza repressiva e disumana. Più spesso, anche se non sempre, assume, nella società organizzata, il volto dello Stato burocratico e accentratore, di cui, al solito, lo scrittore dava una

lettura mitologica e junghiana. Così, il 27 giugno 1967, mentre in Senato si discuteva la legge sull’ordine pubblico, egli interveniva, introducendo toni fabulosi e solenni. La legge in discussione - ammoniva — “ridesta sentimenti nascosti che sono la radice stessa della nostra società e della nostra vita individuale e tutte le censure psicologiche e i complessi che vengono da un antico errore, da un antico, falso, mortale rapporto con il padre, con lo Stato padre, nemico e divoratore dei figli”. Si trattava di parole che riecheggiavano, qua e là, antiche enunciazioni, contenute in Paura della libertà. Anche in quella circostanza, come al tempo dell'Orologio, simbolo e somma dello Stato burocratico e saturniano era la figura del Prefetto. Perciò, in un passaggio del suo discorso, Carlo Levi tornava a definire il Prefetto “proconsole di Roma nelle province”, ricordando che le forze della Liberazione, giustamente, durante gli anni della Resistenza, avrebbero voluto eliminarlo, perché, per l’appunto, rappresentava “l’autoritarismo, l’accentramento, la burocrazia, la tirannide, il paternalismo.

Sì capisce perché, nella Firenze ormai libera degli ultimi mesi della Resistenza, a Levi il prefetto De Cesare sia apparso come “un impiegato delle pompe funebri in un banchetto di nozze”, secondo l’immagine già utilizzata nell’Orologio. E dall’Orologio l’oratore traeva l’intera descrizione del De Cesare, presentato come “un vecchio nobile siciliano dal naso a becco e dalle bozze sotto gli occhi, rotto a tutti i possibili regimi, refrattario a qualunque moto di entusiasmo. Cercava di non dare noia e di farsi il più piccolo possibile, di passare inosservato per resistere, 148

e alla fine fu il più forte e ci riuscì”!, Come i prefetti sono tutti i “luigini”, perché il prefetto è il re, anzi il ras dei “luigini” - affermava Carlo Levi in un altro discorso al Senato. È così che è avvenuto il trionfo dell’Italia “parassitaria, immobile nei secoli in forme sempre diverse, che

costringe il cittadino a chiudersi nella vita privata e a estraniarsi dallo Stato”. Questa Italia è la stessa delle speculazioni edilizie, degli Enti di Riforma, dell’astratto paternalismo, dei posti di rapina, del pubblico impiego, ecc., cui, al solito, si opponevano i “contadini”, per lo più sconfitti, oppressi, schiacciati e, negli ultimi tempi, scacciati in paesi stranieri, perché altrove si guadagnassero il pane e non disturbassero i sogni della borghesia parassitaria. E questa, quasi colta da un senso di colpa collettiva, coniava una nuova espressione per indicare gli emigranti, dicendoli “italiani all’estero”. Che è un vero e proprio atto di ipocrisia, con cui si intende nascondere il dramma e la vergogna. “Anche noi — dichiarava in Senato Carlo Levi, in data 17

gennaio 1969 - siamo italiani all’estero, quando ci rechiamo a fare un viaggio, anche i turisti sono italiani all’estero. Il feno-

meno che è davanti a noi non è tanto quello degli italiani che si trovano all’estero, ma è il problema degli emigranti, dei lavoratori, dell'emigrazione di massa, dell’emigrazione forzata, che,

come fenomeno, rappresenta un aspetto fondamentale del nostro sistema economico, sociale e politico”?. Carlo Levi, cioè,

faceva rilevare che un fatto di tale dimensione, qual era l’emigrazione degli anni Sessanta, era una vera e propria espulsione, funzionale al predominio e al privilegio della classe che restava. Era un sacrificio, che doveva servire a salvare una entità ingiusta e mostruosa, qual era lo Stato borghese, che chiedeva l’immolazione della parte innocente. Fra, dunque, “una frattura, una lacerazione di un tessuto economico, sociale e culturale, un atto

quasi di sacrificio rituale agli idoli di una struttura proprietaria, che aveva bisogno che una parte del popolo fosse esclusa, alie1 C.LEVI, Discorso al Senato, 27 giugno 1967, in “Emigrazione”, a. VII, n.

12, dicembre 1975, p. 30. 2 C.LEVI, Discorso al Senato, 20 ottobre 1966, ivi, p. 25.

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nata, non esistente. Quindi - concludeva — non italiani all’estero, ma emigranti o lavoratori italiani emigrati”. L’emigrazione, in definitiva, per dirla in termini scientifici, era un fenomeno non congiunturale, ma strutturale, cioè connaturato al sistema capitalistico e non democratico. Nessuno Stato, infatti, “può essere un vero Stato popolare, né uno

Stato libero — e tanto meno democratico- quando... è necessaria al sistemal’espulsione di una parte del popolo, la sua condizione in soggezione o servitù. Ma tutti sono, in questo sistema universale di oggi, ancora tutti sono, in qualche modo, questi Stati, degli Stati teocratici e degli Stati servili”*. Seguendo un suo rigoroso filo logico, che era anche quello del marxismo canonico, Carlo Levi poteva osservare come la discriminazione tra le classi, all’interno di uno Stato, diventa discriminazione, a livello internazionale, fra Stati forti e Stati

deboli, fra popoli colonizzatori e popoli colonizzati. Ciò succede quando il capitalismo, superati i confini nazionali, cerca sbocchi commerciali e mercati da occupare, mutandosi in colonialismo e imperialismo. Se così stanno le cose, emigranti, vietnamiti, negri, curdi, palestinesi e tutti gli oppressi ed emarginati del mondo appartengono allo stesso gruppo, cui si oppongono le forze del capitalismo, che hanno trovato negli Usa la propria incarnazione e la propria espressione. Gli Usa, infatti, dal punto di vista di Carlo Levi, non cono-

scono e non possono conoscere l’umanità, perché non hanno una storia. Essi vivono ancora la loro giovinezza. “Ripercorrono [perciò] antiche strade sanguinose e primitive, da cui la storia e la mitologia, e il sangue sparso su tutti i campi d’Europa in questi ultimi anni, pareva ci avessero finalmente liberati”. Gli Usa, in definitiva, sono il classico esempio di una moderna civiltà, “il cui

carattere fondamentale e costitutivo è il rifiuto della storia”. Che cosa manca all'America? - si domandava Carlo Levi, durante il

suo primo viaggio in Usa nel 1947. “Era un paese — si risponde — 3 C. LEVI, Interrogazione al Governo sul CCIE (Consiglio Consultivo Italiani all Estero), 17 gennaio 1969, ivi, pp. 43-44. 4 C. LEVI, Discorso al Piccolo Teatro di Milano, 24 ottobre 1971, ivi, p. 58. 150

dove la storia non era passata e dove le cose non avevano ancora un nome. Vale a dire, mancavano gli dèi, quegli dèi che sono dentro ogni pietra delle nostre città, dentro ogni albero delle nostre campagne. Questo mondo astorico, a contatto con la storia, deve distruggerla, oppur ricrearla per sé, da capo, dai primi sacrifici saturniani, dai primi fratricidi e parricidi e incesti, dal primo accecamento di chi ha commesso la colpa”.

Gli Usa, per l'appunto, avevano scelto quest’ultima via, che li portava a sfogare la propria furia sanguinaria sul Vietnam, il quale, a sua volta, rappresentava “il mondo contadino che vince anche morendo”. Era un concetto già espresso in Ilfuturo ha un cuore antico. Nel Vietnam, come sempre, l’amore per la libertà diventava coraggio della libertà; in esso sembrava racchiudersi, in termini diversi, l’eterno conflitto fra la bestialità e l’uma-

nità, fra la barbarie saturniana e la civiltà della ragione e dell’amore. In un tempo recente, questo drammatico conflitto fu la guerra fra partigiani e fascisti. Per questo — scriveva Carlo Levi — il Vietnam poteva dirsi “il simbolo e il centro di una lotta che comprende, che soffre, che muove tutti gli uomini, di

una guerra che non si svolge soltanto sui campi di battaglia, nelle risaie, nelle giungle e nelle città, ma nel cuore di tutti gli uomini... Il Vietnam non era più un luogo lontano e la sua guerra non er4 più guerra remota”. In una lirica del 20 maggio 1972, esplicitamente, e in modo martellante, quasi si trattasse di uno slogan, Carlo Levi annotava tale suo nobile e coraggioso convincimento: “La tua lotta è lotta di tutti / Viet Nam / La tua vittoria è vittoria di tutti / Viet Nam / La tua coscienza è la coscienza di tutti / Viet Nam / Le tue risaie / sono l’acqua del mondo / Viet Nam / Le tue foreste defogliate sono il verde del mondo / Viet Nam/ Le tue albe di bombe sono l’alba del mondo / Viet Nam / La tua libertà è la libertà”°. 5 C. LEVI, Discorso al teatro Petruzzelli di Bari, 22 ottobre 1967, ivi, p. 38. 6 c. LEVI, Bosco di Eva, Roma, Mancosu, 1993, pp. 80-81. La raccolta riprende ID., Poesie inedite, 1934-1946, cit., aggiungendovi poche liriche del

periodo 1951-72 e poche altre che non hanno data o risalenti al 1931/33. 151

La storia dei vietnamiti e la lotta dei vietcong, dunque, erano quelle stesse dei contadini di Lucania e di Agrigento, o dei baraccati e dei terremotati, tutti accomunati dallo stesso deside-

rio di riscatto. Questo senso di comunione fraterna fra tutti gli emarginati del mondo apparve a Carlo Levi, in tutta la sua evidenza, quando, una sera, in Sicilia, si ritrovò ad assistere alla proiezione di diapositive sul Vietnam. Ci si trovava riuniti per una manifestazione a favore delle popolazioni terremotate del Belice. Che c’entrava il Vietnam? - si domandò e domandò il sindaco di Roccamena, preoccupato che si stessero facendo indebite speculazioni politiche. Ma il Vietnam, a dispetto del sindaco di Roccamena, c'entrava. Al lume di candela, mentre le imma-

gini si succedevano sullo schermo, in realtà si erano valicati i confini della Sicilia e si era intravista “la coscienza dell’unità dei problemi, dell’unità del mondo [...].Io sentii — conclude Carlo Levi— quella sorta di felicità che si sente soltanto quando ci si sente nel centro delle cose e nel centro della verità”. È questo il momento in cui, ancora una volta, valicati gli spazi, l’anima è

immersa nel Tutto e ne coglie il senso”. E il cuore, che batte nell’Universo, è proprio quello che, spingendo all’uomo e all’umanità, spingeva tutti i sofferenti a uscire dalla triste condizione di volgo disperso che nome non ha, organizzando nuove forme di lotta per la liberazione. Levi guardava ancora fiducioso, nonostante tutto, a quanto si stava verificando nel mondo. O almeno, pur deluso da tanti eventi nazionali e internazionali, sapeva che alla lotta non si può rinunziare, anche se si deve ricominciare daccapo, riattingendo forze, come Anteo, con un nuovo contatto con la terra.

Lo si è già detto. Il seme, ormai gettato, sebbene soffocato da una parte, non poteva non sbocciare da un’altra parte. L’aveva scritto anche Rocco Scotellaro. Si poteva perciò dire che “c’ in tutto il mondo, un nuovo mondo, che è il mondo dei piccoli, che è il Vietnam dei boschi, degli alberi che non si spostano,

delle radici della terra e delle radici della lingua, delle culture nuove che sorgono dal cuore antico della civiltà”, annunciando 7 Discorso al teatro Petruzzelli..., cit., posò.

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una rivoluzione che non rinnega la storia, ma la scopre nel suo senso profondo*, perché le vere rivoluzioni cominciano sempre con la scoperta della propria identità. Carlo Levi ricorda, con i Cinesi, che, “lavorando per il futuro, si scopre il passato”?. In Lucania, nell’antica Lucania, per fare un esempio, si è fatto giorno solo quando, con Rocco Scotellaro, i contadini sono entrati

in gioco con le scarpe e le facce che avevano. Certo il cammino della liberazione è lungo e tortuoso, perché il nemico è sempre in agguato e potente. In Italia era quel nemico a cacciare fuori della patria i contadini, i disoccupati e i braccianti, quasi tutti del Sud. Ed era lo stesso nemico - secondo Carlo Levi a ritardare l'avvento delle Regioni, che “sono (o dovrebbero essere e diventare) un primo tentativo di autogoverno”!°, prima di arrivare al Comune autonomo, “quale forma elementare del nuovo Stato”!!, in cui si dovrebbe realizzare il miracolo del citta-

dino che amministra sé stesso, perché solo in una realtà siffatta egli può incontrarsi con la collettività, in modo che la legge non sia più fuori, ma dentro di lui. Era la riconferma, anche nel con-

creto della vita politica e parlamentare, di quella antica prospettiva anarchico-utopistico-socialista, appresa in gioventù, da cui il Levi trasse sempre la sua forza specifica, la quale, ponendolo al di sopra delle parti, ne fece un costante punto di riferimento nella battaglia politica e culturale del secondo dopoguerra, fino al giorno della morte. E se a lui guardarono tutti gli uomini amanti della libertà, egli, a sua volta, guardò sempre e solo alla libertà, che

non per caso era parola con cui si chiudevano quasi tutti i suoi interventi politici. In essa, e per essa soltanto, dal suo punto di vista, ci sarebbe stata anche la giustizia. E viceversa. Ciò spiega, fra l’altro, perché, per anni, egli sia stato l’intellettuale politicamente più ascoltato e più osservato d’Italia, così come, seppure in tutt’ altro senso, lo fu il contemporaneo Pier Paolo Pasolini. 8 Discorso al Piccolo Teatro..., cit., p. 61. ? Discorso al Senato, 14 aprile 1964, in “Emigrazione”, cit., p. 12.

10 Relazione alla Conferenza regionale dell’emigrazione dell’Umbria, Perugia, 7-8 luglio 1973, ivi, p. 65. 11 Discorso al Senato, 27 giugno 1967, ivi, p. 30. 153

SCIHEESDA BIOBIBLIOGRAFICA

Da Cronologia della vita di Carlo Levi, in Carlo Levi - disegni dal carcere 1934 — materiali per una storia, Roma, De Luca,1983, pp. 86-

95, si apprende che Graziadio Carlo Levi nacque a Torino da una nota famiglia torinese, di religione ebraica. Vi nacque il 29 novembre 1902. Suo padre era Ercole Levi, sua madre Annetta Treves. Nel 1922 pubblicava l’articolo Antonio Salandra, su “Rivoluzione liberale”. Nel

1923, per la prima volta, esponeva un suo quadro. Accadeva alla Quadriennale torinese. Intanto pubblicava, sempre su “Rivoluzione liberale”, gli articoli Pensiero fascista e Il Congresso dei Popolari. Nel 1924, all’età di soli ventidue anni, si laureava in medicina e, per quattro anni, fino al 1928, fu assistente del Prof. Micheli, presso la Clinica medica dell’Università di Torino. Ben presto, però, alla medicina e ad

una sicura carriera universitaria preferì l’attività di pittore. Nel 1924 partecipava alla xrv Biennale di Venezia. Vivo, tuttavia, rimaneva il suo interesse per i problemi sociali, civili e politici del tempo. Pubblicava, infatti, nello stesso 1924, gli articoli Il cappone ripieno, I torinesi di Carlo Felice e L’impresario, l’asino e la scimmia

(“Rivoluzione liberale”). Contemporaneamente, per interessi artistici, faceva frequenti viaggi a Parigi, dove apriva uno studio, in Rue de la Convention. Nel 1925-26, chiamato a svolgere il servizio militare, rivestì il grado di sottotenente medico. Nel 1926, sul “Baretti”, a testi-

moniare la sua costante attenzione per i problemi socio-culturali e artistici, pubblicava l’articolo Soffici 4 Venezia e partecipava alla xv Biennale di Venezia. Nel 1928, sulla “Cultura”, pubblicava l’articolo Ariosto; nel 1929, con Nello Rosselli e Riccardo Bauer, dava vita a

“Lotta politica” e, con il gruppo dei “Sei pittori di Torino”, partecipa156

va alle mostre di Torino, Genova e Milano.

Con lo stesso gruppo, nel 1930, prendeva parte ad un’altra mostra torinese, nella sala d'Arte “Guglielmi”. Nello stesso anno, quindi, era

presente alla xvi edizione della Biennale di Venezia. Sarà anche presente alla xvm edizione del 1932, dopo aver esposto, tra il 1930 e il 1932, a Buenos Aires, a Roma e a Parigi. Intanto, nello stesso periodo,

partecipava alla stesura del Programma rivoluzionario di “Giustizia e libertà”, insieme con i fratelli Rosselli, Lussu, Tarchiani, Salvemini e

Nitti. Sui “Quaderni di Giustizia e libertà” pubblicava l’interessante saggio sul Concetto di autonomia nel programma di “Giustizia e libertà”. Nel 1933, a Parigi, partecipava ai funerali dello zio materno, Clau-

dio Treves. Ormai conosciuto come antifascista, il 13 marzo 1934 veniva arre-

stato ad Alassio, ove la famiglia Levi possedeva una casa; ma veniva rilasciato il 9 maggio dello stesso anno, anche a seguito di un appello di alcuni artisti residenti a Parigi. Imperterrito, però, il 16 novembre dello stesso anno, sempre su “Giustizia e libertà”, pubblicava l’artico-

lo Leone Ginzburg. L’anno successivo, il 15 maggio del 1935, veniva arrestato una seconda volta, chiuso nelle carceri di Torino e, poi, in “Regina Coeli”, a Roma, donde, il 3 agosto successivo, veniva trasferi-

to, per il confino, a Grassano. Il giorno 18 settembre 1935 passava ad Aliano, anche se, non molti giorni dopo, il 29 ottobre, gli veniva con-

sentito di tornare per breve tempo a Grassano, affinché vi potesse terminare alcuni quadri, rimasti incompleti al momento del trasferimento. Ad Aliano rimaneva fino al 26 maggio 1936, essendo stato amnistiato in data 20 maggio, a seguito della proclamazione dell’Impero. Tra il 1936 e il 1939 si intensificava la sua attività di pittore, che lo vedeva presente in diverse mostre, tra Milano, Genova e Roma. Nel

1939, sentendosi attentamente sorvegliato dalla polizia fascista, decideva di emigrare in Francia e raggiungere Parigi. Qui, nel 1939, scriveva il saggio Paura della libertà, pubblicato successivamente, nel 1946. Tornato in Italia nel 1941, aderiva al Partito d’ Azione. Nel 1942, scri-

veva il saggio Paura della pittura. Intanto partecipava alla lotta di Liberazione. Veniva arrestato nella primavera del 1943, a Firenze. Liberato

il 26 luglio successivo, tra il 1943 e il 1945 era tra i protagonisti del Partito d’Azione e componente della direzione della “Nazione del popolo”, organo del Comitato toscano di Liberazione. Tra il dicembre del 1943 e il luglio del 1944, scriveva Cristo si è fermato a Eboli. Nel 1945 si trasferiva a Roma, per dirigere “L’Italia libera”. Dava notevole contributo al trionfo della Repubblica, durante il referendum. 157

Passata la guerra, più intensa divenne la sua attività di pittore e

scrittore, sicché, dopo aver partecipato a numerose mostre tra Torino, Roma e Firenze, pubblicava, sulla spinta del successo di Cristo si è

fermato a Eboli, L’orologio furono molto diversi. Tra altre mostre, distribuite tra nale). Nel 1952, su invito

(1950). Ma gli esiti di pubblico e di critica il 1950 e il 1955 partecipava a numerose Roma e Venezia (xxvI edizione della Biendell’italo-americano Max Ascoli e per il

settimanale “The reporter”, scrisse un preoccupato saggio sul rinascente neofascismo italiano. Lo scritto rimase inedito. Ritrovato presso l’archivio dell’Università di Boston da Sandro Gerbi, è stato pubblicato di recente, con il titolo: La serpe în seno. Il neofascismo (“Belfagor”, LI, n.1, 31 gennaio 1996, pp. 23-41). Faceva anche frequenti viaggi nel Mezzogiorno, tra Lucania, Calabria e Sicilia. Importantissimo, in quel periodo, fu il sodalizio con Rocco Scotellaro, il poeta di Tricarico, morto prematuramente, a soli trent’anni, nel 1953. Nel 1955, frutto

dei viaggi in Sicilia, usciva il volume Le parole sono pietre, che otteneva il premio Viareggio; l’anno successivo, nel 1956, veniva pubblicato // futuro ha un cuore antico. Seguivano La doppia notte dei tigli (1959) e Tutto il miele èfinito (1964). Nel 1960 era uscito Un volto che ci somiglia. Ritratto dell’Italia. Fotografie di Janos Reismann (Einaudi), rimasto pressoché sconosciuto. Ormai tra le figure più rappresentative del mondo artistico e letterario italiano, nel 1963 veniva chiamato a far parte delle liste elettorali del Pci. La cosa non sorprese nessuno, perché a tutti era nota la sua simpatia, più volte professata, per l’idea socialista. Tuttavia era impossibile chiedere a Levi una tessera di partito; il suo ingresso in lista, perciò, avvenne con la qualifica, allora ricorrente, di “indipendente di

sinistra”. Fu eletto senatore del collegio di Civitavecchia. L'elezione venne rinnovata nel 1968, nel collegio di Velletri. Nel 1967, intanto, aveva fondato la Filef. Non per questo, però, si interrompeva o subiva ritardi la sua attività di pittore, che, anzi, meglio e più organicamente

si collegava con i suoi orientamenti sociali e civili. Sue mostre venivano organizzate tra Torino, Roma, Firenze, Mantova, Matera e Lorica. Qualche rallentamento, invece, subiva la scrittura, forse perché richie-

deva maggiore concentrazione e quiete.

Nel 1972 si presentava candidato per il Senato nel collegio di Roma e in Sicilia; ma non veniva rieletto. Ciò dovette amareggiarlo non poco. Amarezza ben più grave, però, gli venne, nel dicembre del 1972, dall’essere stato colpito dal distacco della retina oculare e costretto, quindi, a due interventi chirurgici. La sua attività artistica e letteraria, 158

naturalmente, veniva decisamente compromessa. Nel 1974, sentendosi malato e stanco e, forse, prossimo alla fine, volle come fare un ulte-

riore bagno nel suo passato e tentare una forma di recupero del tempo perduto. Fu in Lucania, per presentare la cartella delle sette litografie, ispirate al Cristo si è fermato a Fboli, che rimaneva il suo orgoglio maggiore. Non si sottrasse a fatiche di alcun genere, in quei giorni; ma poco dopo, il 4 gennaio del 1975, si spegneva in una clinica romana, per polmonite e successive complicazioni cardiocircolatorie. Il 26 gennaio veniva sepolto ad Aliano.

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Finito di stampare da Tipolito Alfagrafica Volonnino - Lavello nel mese di Ottobre 1996 per conto delle EDIZIONI OSANNA VENOSA

Rileggere Carlo Levi a vent'anni dalla morte (1975) con la volontà di rimettersi a tu per tu con il testo, volutamente ignorando quanto - di valido, ma anche, e non di rado, di

rievocativo e commemorativo o elogiativo — su di lui è stato scritto; sgombrare il campo da quella cortina di luoghi comuni che inevitabilmente fanno ombra intorno a scrittori che, come Levi (ma è stato il destino comune a tanti,

da Pasolini a Sciascia, da Montale a Calvino: per citarne alcuni), protagonisti della vita sociale, politica e letteraria del loro tempo, hanno finito poi per “fare moda”, sono i presupposti che danno vita a questa Nuova introduzione a Carlo Levi. Nuova, anche perché si rilegge, finalmente, Carlo Levi senza lo schermo della ideologia, che, al di là di ogni considerazione, è parte non indispensabile alla sopravvivenza di un Autore, soprattutto se questi volle, prima d’ogni cosa, essere un poeta. Quello che resta sono le intenzioni e le tensioni etiche, sempre indiscusse e indiscutibili nel caso di Carlo Levi. E restano, se restano, i risultati poetici.

Giovanni Caserta, noto per essere uno dei più aggiornati conoscitori della storia e della cultura lucana, di cui ha costantemente colto le relazioni con il più vasto panorama nazionale, èanche autore di saggi su scrittori quali Ariosto, Leopardi, Collodi, Pavese, ecc. Per inostri tipi ha pubblicato una Storia della letteratura Lu. (1993) e curato, | con note e commento, l'edizione delle Rime di Isabella Morra (in A. Cambria, Isabella,1996). ISBN 83-8167-172-7

IN COPERTINA: JAN VERMEER, PITTORE AL LAVORO.

- L. 15.000 (i.i.)