L'impero greco romano. Le radici del mondo globale 8817034614, 9788817034616

"La Grecia conquistata conquistò il suo feroce vincitore portando nel Lazio contadino le sue arti": recitano i

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L'impero greco romano. Le radici del mondo globale
 8817034614, 9788817034616

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PAUL VEYNE

L'IMPERO GRECO-ROMANO Le radici del mondo globale

STORIA

Proprietà letteraria riservata © Éditions du Seuil, octobre 2005 © 2007 RCS Libri S.p.A., Milano

ISBN 978-88-17-03461-6

Titolo originale dell’opera: L’empire gréco-remain Traduzione di Sara Arena, Laura Cecilia Dapelli, Silvia Stucchi

Edizione italiana a cura di Silvia Bellingeri Prima edizione Rizzoli novembre 2007 Prima edizione BUR Storia agosto 2009

Per quanto riguarda le citazioni tratte da autori classici greci e latini ci si è serviti delle traduzioni moderne in circolazione, come indicato dai riferimenti in nota. Qualora nella nota corrispondente non comparisse alcun riferimento a edizioni ita­ liane si deve ritenerle tradotte direttamente dall’originale di Veyne, scelta volta a non alterare l’interpretazione e le con si de razioni dell’autore.

Per conoscere il mondo BUR visita il sito www.bur.eu

Prefazione

Perché questo titolo, L!impero greco-romano? Innanzitutto, perché il cosiddetto impero romano fu un impero bilingue. La lingua vernacola­ re, o veicolare, in uso nella metà occidentale era il latino, mentre nell’a­ rea del Mediterraneo e nel Vicino Oriente si parlava greco. E la stessa cultura materiale e morale di Roma è nata da un processo di assimila­ zione di quella civiltà ellenica che, dall’Afghanistan al Marocco, era la cultura «globale» dell’epoca in quell’angolo di mondo; «la Grecia con­ quistata conquistò il suo feroce vincitore portando nel Lazio contadino le sue arti» dice un famoso verso di Orazio: il popolo di Roma ha avuto per cultura la cultura di un altro popolo, il popolo deU’Ellade. Tanto che, a loro volta, i romani ellenizzati hanno poi ellenizzato, per mezzo del latino, l’Occidente conquistato nel corso degli ultimi due secoli pri­ ma di Cristo. La Gallia romana per esempio venne ricoperta di monu­ menti in stile corinzio e nelle scuole delle città si insegnavano la retori­ ca e la filosofia, greche nel nome e nei contenuti. I dettagli però non devono impedire la visione d’insieme; l’Occidente latino era greco tan­ to quanto il moderno Giappone è occidentale. L’elemento culturale comune a tutte le regioni dell’impero, tra cui Italia, Gallia, Africa, Egitto, fu appunto la compartecipazione alla cul­ tura greca, alla lingua e ad alcuni aspetti particolari della religione. Ma l’impero si poteva definire greco-romano anche per un altro mo­ tivo: se la cultura era ellenica, le forme di potere (così come il diritto) erano romane. Tuttavia è bene ricordare che acculturazione e identità sono cose ben distinte: i giapponesi occidentalizzati continuano a rite­ nersi giapponesi, proprio come i romani ellenizzati erano orgogliosi della propria romanità. Eppure l’impero non si limitava a Roma e ai territori circostanti; nei primi cinque secoli della nostra era il suo dominio si estendeva su ima superficie pari a cinque milioni di chilometri quadrati, oggi occupata da trenta nazioni diverse, le cui regioni più ricche erano quei territori dove ora si trovano la Tunisia, la Siria e la parte asiatica della Turchia. Ci è concesso ipotizzare che quanto accadeva in uno di questi territori, 7

L’impero greco-romano

si trattasse della Scozia o delle terre dove scorreva l’Eufrate, rivestisse altrettanta importanza e interesse di quanto accadeva presso i romani di Roma. Non è per nulla detto che la ricerca condotta sulle origini, sulle strut­ ture fondanti di una civiltà abbia un significato rigoroso dal punto di vista storico: le supposte fondamenta non smettono di cambiare fintan­ to che l’edificio dei secoli è in costruzione. Ma se decidiamo che la loro ricerca ha tuttavia un senso, allora le radici dell’Europa attuale, o piut­ tosto della civiltà occidentale, saranno costituite, oltre che dal cristia­ nesimo, dalla cultura diffusa dall’impero greco-romano, intrisa di ele­ menti greci e potere romano. Per dare al lettore un’idea del contenuto di questo libro, ecco alcune delle domande che ci porremo: perché gli imperatori morivano così di rado nel loro letto? Perché tanti «Cesari pazzi»? L’imperatore era con­ siderato un dio? Si osava maledirlo? Si metteva davvero del cibo sulle tombe per nutrire i morti? La plebe ricca è da considerarsi una classe media? Il popolo romano era tanto disinteressato alla politica quanto si dice? Se una persona resta vittima di una frana, la sua anima immortale potrà dipartire dal corpo per salire in cielo? Quando si parla di religio­ sità non si parla di una credenza imposta né di qualcosa di universale, bensì di un sentimento diffuso che è sempre maggioritario. Che posto occupa la «qualità» attribuita al divino nel calderone della religione? Erano amati gli dèi? In che modo e per quali vie si può considerare l’ar­ te come lo specchio di un’epoca? La carità cristiana ha messo fine ai combattimenti dei gladiatori? E poi, che cos’era esattamente la carità? Lo stoicismo era saggezza o utopia di autotrasfigurazione? Perché gli imperatori hanno lasciato che i germani invadessero l’Occidente? Civi­ lizzazione mondiale e identità nazionale sono incompatibili o ausiliarie? La regina orientale Zenobia voleva separarsi dall’impero o diven­ tarne imperatrice? È assolutamente necessario che un ritratto assomigli al suo modello? I ritratti di Paimira offrono uno sguardo sull’assoluto? Il fasto monarchico era propaganda? L’arte è comunicazione o espres­ sione? Perché in caso di sfortuna politica i contestatori se la prendeva­ no con gli dèi? Il presente volume aspira a suggerire, in un comporsi graduale di quadri parziali, una visione d’insieme dell’impero greco-romano che non sia troppo incompleta. Tutti i capitoli (tranne uno) sono stati scrit­ ti tra il 2000 e il 2004; una prima versione di tutti (tranne uno) è ap­ parsa su riviste specializzate o altre pubblicazioni. Sfortunatamente mi rendo conto, con il senno di poi, che le idee più semplici e generali mi vengono sempre per ultime, e, ahimè, troppo tardi. E così, le versioni originarie sono state talmente ampliate e profondamente modificate che le pagine che si leggeranno in questa raccolta non hanno più mol8

Prefazione

to in comune con le prime, che ora preferirei scomparissero dalla fac­ cia della terra - senza per questo farmi troppe illusioni sulla versione attuale. Devo ringraziare molti amici, lo farò all’interno delle note del testo. Alle Editions du Seuil, Marie Lemelle ha seguito la realizzazione di questo volume con una preparazione, una pazienza e una gentilezza straordinarie (e spesso messe a dura prova). Dominique Hechter, Manuelle Faye e Karine Benzaquin hanno fatto a gara per competenza e magnanimità. L’intervento di Thierry Marchaisse è stato decisivo sotto diversi aspetti, di forma e di fondo. Francois Wahl continua a essere presente nella collana in cui compare questo libro.

1 Che cos’era un imperatore romano?1Il

Il regime dei Cesari era molto diverso dalle monarchie che ci sono più note, ossia quelle medievali e moderne; se non fosse per l’assenza di una vera trasmissione per via ereditaria del potere, si potrebbe pensare piuttosto a un’analogia con l’impero ottomano. Un re dell’Ancien Régime ereditava il regno dai propri antenati, in quanto par­ te del suo patrimonio familiare: una prassi che sarà accettata tranquil­ lamente e avrà lunga vita. L’imperatore romano, invece, esercitava una professione ad alto rischio: il trono non gli apparteneva di dirit­ to, ma ne era mandatario per conto della collettività, che lo aveva in­ caricato di guidare la repubblica; così come i califfi sarebbero stati i mandatari della comunità dei credenti, con il consueto versamento di sangue a ogni cambio di regno.2 Non v’è dubbio che tale delega da parte della comunità all’imperatore non fosse altro che una messin­ scena, un’ideologia, sufficiente, però, a impedire al supposto manda­ tario di avere la legittimità di un re, una legittimità legata all’inviola­ bilità della sua persona.

I Il potere imperiale era quindi frutto di una delega, una missione affidata a un individuo solo apparentemente scelto o accettato dal popolo roma­ no. La successione dei Cesari doveva apparire allora come «un perpe­ tuo concatenarsi di deleghe».3 Di conseguenza, vi era una discontinuità istituzionale tra gli imperatori, così come tra i magistrati che si erano succeduti nello stesso incarico. Almeno in linea di principio,4 le misure adottate da un regnante restavano valide dopo la sua morte solo se con­ fermate dal suo successore; perciò, conclude Mommsen,5 l’imperatore non è un re. La discontinuità tra sovrani era tale che, senza alcun riguar­ do per il principio monarchico, le parole servili rivolte a un imperatore in carica trovavano eguali solo in quelle colme di disprezzo e di odio che gli venivano rivolte dopo la sua morte; si confronti quanto Marziale 10

Che cos’era un imperatore romano?

scrisse di Domiziano vivo e morto. Rivolgendosi a Traiano, Plinio si espresse in duri termini contro gli imperatori che lo avevano preceduto; in un discorso a Teodosio, il talentuoso e coraggioso Libanio, tessendo le lodi di Licinio, definiva Costanzo II un fantoccio.6 E, nonostante la trasmissione del potere per via familiare fosse usuale, un imperatore non succedeva automaticamente a suo padre, gli succedeva nel suo incarico? qualora ne avesse ricevuto espressamente l’investìtura.8 «L’impero» scrive J. Béranger in un passaggio decisivo «può essere pa­ ragonato a una successione di grandi patrioti che si fanno carico degli af­ fari pubblici, li trasmettono naturalmente al loro erede presuntivo, o an­ cora conquistano a viva forza il diritto di proteggere i loro concittadini e l’impero romano».9 E questo risulterà più vero che mai durante i dram­ matici decenni del IH secolo, ma lo possiamo già vedere in nuce, all’ini­ zio della nostra era, nella prima frase delle Res gestae1 . «All’età di dician­ nove anni, per mia decisione personale e a mie proprie spese, ho costitui­ to un esercito con il quale ho restituito la libertà alla repubblica». A con­ dizione di arrivare a imporsi, ogni cittadino devoto, che fosse senatore10 e che non fosse di origine greca né, più tardi, germanica,11 poteva aspira­ re al trono per assicurare il benessere comune. La dottrina della sovranità popolare, rimasta in vigore sino alla fine dell’impero bizantino,12 non era nient’altro che, come vedremo, la fin­ zione di un presunto consenso universale, che, dopo la vittoria, veniva a conferire con valore retroattivo un’aria di legittimità al vincitore; non­ dimeno essa sottolineava che il trono non apparteneva a nessuno, si trattasse di un individuo o di una dinastia (almeno così fu fino al IV se­ colo). Da qui nasce il celebre odio dei romani per il termine «re»: non erano schiavi di un padrone, come lo erano stati invece i popoli greci e orientali da loro sottomessi. Un simile sistema aveva come risultato che a ogni cambio di regno si rischiasse la guerra civile; i periodi tranquilli, come il periodo d’oro del secolo degli Antonini, furono l’eccezione piuttosto che la regola. Quando l’impero si trovò in grave crisi ed ebbe bisogno di candidati al ruolo di salvatore, tra il 235 e il 282, si succe­ dettero diciassette imperatori, quattordici dei quali morirono assassi­ nati, e una quarantina di usurpatori, ovvero pretendenti senza fortuna e ben presto messi a morte. Due città commerciali dell’impero, Lione e Paimira, dovettero la loro rovina alle lotte per il trono.

II Come mai tutto quel sangue? Perché un principe era considerato il mandatario del popolo. Non era che ideologia, finzione, poiché in realtà quel mandatario era succeduto a suo padre o si era impadronito 11

L’impero greco-romano

del potere con la forza, e il popolo era quello che vedremo; ma il fatto che non si sia mai potuta stabilire una regola fissa di accesso al trono che imponesse la scelta di un successore non aveva niente a che fare con l’ideologia: una simile regola avrebbe offeso l’onnipotente idea di sovranità popolare e avrebbe trasformato Roma in un regno. Quindi, al popolo e al Senato non restava che legittimare i colpi di Stato in nome della sovranità popolare o piuttosto del consenso generale. Tuttavia, accanto a questa finzione vigeva negli animi un secondo principio: ogni imperatore aveva il diritto e praticamente il dovere di trasmettere il trono al figlio, naturale o adottivo, e all’occasione riven­ dicava tale diritto;13 una soluzione che, essendo la più naturale e la me­ no rischiosa, veniva accettata senza esitazioni. Scrive Plinio: «I popoli sopportano meglio uno che il Principe ha poco felicemente generato, piuttosto di un altro che sia stato male scelto».14 D’altro canto, ogni fa­ miglia regnante considerava il trono un patrimonio ereditario13 e i suoi clienti (in particolare la guardia imperiale) facevano lo stesso.16 E questo appariva talmente naturale che non esistono esempi di un principe che abbia escluso il proprio figlio dal trono. Uno dei doveri degli imperatori era infatti predisporre la trasmissione pacifica della ca­ rica;17 la scelta meno contestabile che si potesse fare, e a cui pochi pre­ tendenti avrebbero osato opporsi, era di designare il figlio (perciò Commodo successe a Marco Aurelio e i due principi bambini a Teodo­ sio)18 o di adottarne uno; l’adozione era infatti un legame solido quan­ to la consanguineità. Nel corso di uno dei peggiori anni della storia del­ l’impero, Galba si affrettò ad adottare Pisone, Otone si preparò ad adottare il nipote e Vitellio presentò il figlio ai soldati. Alla sua ascesa al trono, un imperatore che era destinato a regnare solo pochi anni, se non addirittura mesi, faceva distribuire nell’impero i ritratti ufficiali del figlio, per preparare la sua successione.19 Se, per il sollievo generale, l’imperatore regnante riusciva a trasmet­ tere senza intoppi il potere al suo discendente, questo era considerato l’ultimo atto di un regno riuscito; nell’opinione popolare, infatti, la fe­ deltà a una stessa famiglia era considerata una garanzia di pace:20 Roma era scampata al pericolo di una guerra civile.21 Di solito si tende a de­ plorare il fatto che alla sua morte, nel 180 dopo Cristo, il saggio Marco Aurelio abbia ceduto alla debolezza di lasciare il trono al figlio, l’odio­ so Commodo, ma se la sua scelta fosse caduta su un altro, avrebbe fat­ to sprofondare Roma in una guerra in cui i pretendenti al trono si sa­ rebbero affrontati armi in pugno. Ed è proprio ciò che accadde nel 193 in seguito all’assassinio di Commodo, morto senza lasciare discendenti; si può persino supporre che alctmi pretendenti che si affrontarono al­ lora fossero gli stessi che si sarebbero potuti affrontare nel 180, e cioè i legati della gloriosa armata del Danubio.22 12

Che cos1era un imperatore romano?

E quindi, nonostante l’imperatore sia espressione dalla sovranità po­ polare, è lui stesso a trasmettere il potere al figlio, con grande sollievo dello stesso popolo e del Senato. Come spiegare questa apparente con­ traddizione? Facendo una distinzione tra la successione dinastica, che il medioevo e l’epoca moderna ci hanno reso familiare, e la concezione romana di trasmissione aristocratica, o per meglio dire, di clan. Non esisteva, come nel medioevo e durante l’Ancien Régime, una qualche credenza che portasse a considerare il trono come una proprietà di una determinata famiglia, sempre la stessa, oggetto di fedeltà nel corso dei secoli; una falsa credenza che, dai Merovingi ai Borbone, ha scongiura­ to innumerevoli guerre civili. A Roma, un principe non trasmette la porpora al figlio in quanto membro di una famiglia senza pari, ma in quanto membro di un clan, di ima gens, sostenuta da fedeli quali la guardia imperiale o le legioni che avevano messo al potere l’imperatore e il suo clan. Ogni qualvolta un imperatore veniva destituito, una nuova gens entrava in scena insie­ me al nuovo principe, che avrebbe trasmesso il potere a un suo discen­ dente, naturale o adottivo. La differenza tra le due concezioni è sempli­ ce: succedere al padre era più un fatto naturale che un diritto, e doveva essere sempre avallato dal consenso unanime del popolo di Roma du­ rante i comizi, dal Senato e dall’esercito.23 Questa situazione sarebbe cambiata di poco nel IV secolo; al sistema dei clan non sarebbe successa una vera e propria monarchia ereditaria, ma quello che Jacob Burckhardt definiva un sultanismo:24 il trono sa­ rebbe appartenuto in modo durevole a un membro di una stessa fami­ glia, quella della seconda dinastia dei Flavi e poi quella dei Teodosi, ma questi sarebbe stato un fratello, un figlio, uno zio, un nipote o un cugi­ no? Era prudente che il fortunato eletto lasciasse sgozzare qualche suo parente dai militari fedeli alla famiglia, che valutavano cosa fosse bene per essa.

m Secondo questa concezione, l’imperatore e magistrato rimane un ari­ stocratico, non un padre di famiglia il cui regno è patrimonio eredita­ rio, e la sua famiglia rimane una gens aristocratica. E un aristocratico può anche cercare di diventare padrone del mondo, ma resterà padro­ ne a casa sua, e può fare tutto quello che vuole, per esempio compor­ tarsi da «Cesare pazzo», ma di questo riparleremo. La sua famiglia ha la stessa disinvoltura patrizia che ha originato gli scandali e i drammi familiari del primo secolo dell’impero, quali il comportamento disdice­ vole della figlia di Augusto o l’autentico dramma dell’imperatrice Mes­ 13

L’impero greco-romano

salina che, per amore di un altro aristocratico, divorziò dall’imperato­ re. Ecco perché a Roma ci sono stati dei «Cesari pazzi», mentre non ce ne sono stati durante l’Ancien Régime, con la sua concezione ereditaria del regno, onore superstiziosamente riservato a una famiglia privilegia­ ta. Che cos’era un imperatore romano? Un avventuriero che aveva avu­ to successo o un uomo il cui padre aveva avuto quella fortuna; la di­ gnità imperiale non era ancorata alla solida roccia di una proprietà pa­ trimoniale destinata ad attraversare i secoli. Da dove viene questa concezione aristocratica e clientelare, curiosa­ mente associata alla dottrina «repubblicana» secondo cui è la comunità a scegliere il suo califfo? Senza dubbio dal fatto che il cesarismo è nato dalla città antica e che questa, per quanto repubblicana, aveva in co­ mune con le nostre repubbliche solo il nome. La democrazia moderna riunisce gli individui riconducendoli tutti a una medesima norma astratta ed ugualitaria; gli interessi personali, la ricchezza, la nobiltà si perdono nell’astrazione del diritto pubblico (per esempio, ogni cittadi­ no paga delle tasse calcolate praticamente al centesimo); invece nella città antica i cittadini sono riuniti da differenze concrete e complemen­ tari (i notabili, i ricchi se vogliono mantenere il loro rango hanno il do­ vere morale di offrire alla loro città più o meno spontaneamente pane, circo e monumenti pubblici). L’istituzione imperiale è in parte model­ lata su questa concezione aristocratica della società, in quanto trasmis­ sione gentilizia. Sotto la repubblica, il figlio ereditava il trono dai clien­ ti del padre, o piuttosto dalla sua gens e, in cambio, restava a essi fede­ le; un giovane sconosciuto, Ottaviano Augusto, in questo modo raccol­ se l’eredità paterna dai partigiani e dai veterani fedeli al padre adottivo, Giulio Cesare, e fondò il regime imperiale. La fedeltà della clientela è rivolta all’intero clan,25 e sotto l’impero l’imperatore non potrà essere separato dalla famiglia imperiale, la domus divina.26 L’opinione pubblica si legava al casato del principe: la fa­ miglia giulio-claudia aveva ricevuto l’affetto dei romani di Roma, la se­ conda dinastia dei Flavi avrebbe avuto la fedeltà delle truppe, mentre la dinastia dei Teodosi avrebbe beneficiato di una sorta di legittimità. I pretoriani non avrebbero mai accettato di uccidere Agrippina, mem­ bro della famiglia del loro signore; dopo l’assassinio di Caligola il pa­ lazzo era stato perquisito per scovare e portare sul trono l’ultimo so­ pravvissuto di questa famiglia, Claudio. «Abbiano pur acquistato il di­ ritto della spada sulle nostre gole Siila potente, il feroce Mario, il cruen­ to Cinna e la dinastia di Cesare» scrive Lucano.27 A tre riprese, con i Giulio-Claudi, i Severi e la seconda dinastia dei Flavi, la storia politica è venuta a confondersi con quella di una famiglia, delle sue rivalità in­ terne e delle controversie del suo asse ereditario. Su dodici principes­ se giulio-claudie, la cui sorte è nota, solo una scampò alla morte o al­ 14

Che cos'era un imperatore romano?

l’esilio.28 In una famiglia regnante si ammetteva (come si ammettono i postulati geometrici, scrive Plutarco) che fosse lecito uccidere i paren­ ti prossimi per assicurare la successione al trono;29 l’applicazione di ta­ le postulato va dalla morte di Agrippa Postumo, e in seguito di Britan­ nico, alla strage familiare che seguì la morte di Costantino, al promi­ scuous massacre di cui parla Gibbon.

IV

La successione padre-figlio deve essere sancita dal popolo romano tan­ to quanto l’ascesa di un generale al rango di capo delle sue legioni. Co­ me si traduce in pratica il principio della sovranità popolare? Come si diventa imperatore? Per capirlo bisogna rinunciare a cercare un fonda­ mento legale nel diritto pubblico e nelle norme; si tratta unicamente di rapporti di forza. Il successo, l’unione e la sottomissione erano coperti, dopo la vittoria, dalla finzione di un consenso popolare unanime.30 Nell’impero cristiano saranno il Cielo, la volontà di Dio a essere espres­ si attraverso le armi e l’unione finale.31 Il cesarismo, scrive lo stesso Mommsen, era «la rivoluzione permanente».32 Lo stesso appellativo «principe legittimo» era insolito a Roma, scrive Wickert, dove sarebbe parso strano.33 Accolgo la teoria di Egon Flaig.34 Ecco come tutto ha inizio: il prin­ cipe regnante designa suo figlio, un intrigo di palazzo propone il figlio di un prefetto del pretorio, una riunione di stato maggiore si affretta a scegliere il successore di un principe morto in battaglia; più spesso, un esercito o il corpo dei suoi ufficiali designa il proprio capo acclaman­ dolo con il titolo di imperatori Così i soldati hanno fatto la loro parte nel futuro consenso,36 e il Senato e il popolo di Roma sono invitati ad aderirvi. Il Senato non ha alcun potere o diritto di veto: può solo aderi­ re a sua volta al consenso, acclamando il pretendente come imperator e Augusto, e raccomandando ai consoli37 di accordargli pieni poteri con i comizi popolari; ma può anche rifiutarsi di seguire l’esercito. Se il Se­ nato sceglie di aderire, il popolo in teoria non è obbligato a seguirlo;38 in realtà, saranno dei simulacri di comizi39 popolari40 a partecipare al consenso41 attribuendo al nuovo signore tutti i suoi poteri:42 il popolo gli conferisce all’unanimità 1’imperium proconsolare, il potere tribuni­ zio, il titolo di pontefice massimo eccetera. E evidente che tali poteri non gli verranno mai rifiutati: il fatto è che sul piano del diritto non de­ ve prenderseli da solo.43 L’accordo consensuale del Senato e dell’esercito crea, in pratica, un imperatore. Tuttavia, nessuno di questi episodi - l’acclamazione dell’esercito, l’approvazione del Senato, il voto dei comizi - ha valo­ 15

L’impero greco-romano

re propriamente legale: sono le briciole del consensus universorum mistico,44 che da solo incarna la vera legittimità. In realtà, dopo la caduta di un cattivo imperatore, non si dirà di lui che aveva preso il potere illegittimamente o senza l’avallo del Senato, ma che non era stato acclamato e riconosciuto dal consenso di tutti.45 Il Senato pote­ va ratificare la nomina di un imperatore ma non proporre un pro­ prio pretendente e questo è un fatto decisivo che finora è passato inosservato.46 Non lo fece neppure nel 238 con Gordiano, né nel 275 con Tacito; probabilmente temendo di non trovare seguito, a scapito del suo prestigio. Va da sé che il consenso non era mai solamente un assenso silenzioso o impotente a un’imposizione; quindi, nella stessa Roma, le cerimonie in onore dell’imperatore, i trionfi, i voti all’unanimità, le acclamazioni organizzate nel circo tentavano di gettare un ponte tra l’ideologia del consenso e la maggioranza muta o tumultuosa. Ancora nel III secolo, e nonostante il panem et circenses di Giovenale, il popolo di Roma man­ teneva la pretesa di legittimare il potere dell’imperatore, insieme al ri­ cordo del suo ruolo ufficiale. Gli capitava persino di intervenire nella scelta in favore di un pretendente, talvolta con le armi.47

V Ma in fondo, le urla e i pugni della plebe sono poca cosa rispetto alle spade dei soldati, al peso dell’esercito. Cosa si intende, però, con le parole «soldati» ed «esercito» che si leggono ovunque? Mobilitazioni di folle in armi o schiere di alti ufficiali? Rostovtzeff si era spinto ad affermare che i soldati erano figli di contadini poveri e che i periodi di anarchia militare erano in realtà rivolte proletarie contro la bor­ ghesia urbana.48 Non si deve piuttosto supporre che la scelta o l’ac­ cettazione di un imperatore fosse affare degli ufficiali e dei generali al comando? Dopo l’assassinio di Domiziano, il popolo di Roma era in­ differente e il Senato soddisfatto, ma i pretoriani erano furiosi e pron­ ti a ribellarsi. Ma per muoversi «mancavano i capi» dal momento che i prefetti del pretorio erano al corrente del complotto e lo approvava­ no.49 Nel frattempo, gli eserciti del Danubio, scontenti della scelta di Nerva come successore, rumoreggiavano; allora il retore Dione di Prusa andò ad arringarli: esordì citando un verso di Omero e li per­ suase ad accettare la scelta di Roma;50 rozzi contadini inquadrati in un esercito che parlava latino potevano forse conoscere il greco? Noi crediamo che Dione arringò il corpo degli ufficiali, uomini di cultura; costui infatti non era diventato un demagogo, ma come i retori di quel tempo (tra cui san Paolo davanti all’Areopago), si rivolgeva a un udi­ 16

Che cos’era un imperatore romano?

torio colto. Vedremo in seguito come l’ascesa di Giuliano al rango di imperatore confermi che si trattasse davvero di pronunciamientos de­ gli alti ranghi.51 L’importanza degli eserciti, in altre parole, degli ufficiali e non della truppa, nonostante Rostovtzeff, si accrebbe ancora di più nel IV secolo quando, accanto ai comizi del popolo romano, simulacro che continua­ va a esistere,52 si inizia a parlare di «comizi della porpora», costituiti in seno al nuovo gruppo dirigente che altro non era se non lo stato mag­ giore dell’esercito.53 Il gruppo eleggeva il nuovo imperatore e il coro de­ gli abitanti dell’impero era evidentemente d’accordo.54 Un consenso che san Gerolamo55 paragona all’elezione dei vescovi da parte di preti e dia­ coni. A quell’epoca, scrive Angela Pabst, il presunto consenso di tutti i cittadini era diventato il presunto consenso di tutti i soldati, mentre il rango imperiale era considerato come il grado più elevato nella gerar­ chia degli ufficiali. La scelta compiuta da un ristretto gruppo di ufficiali era avallata dal Senato e persino dai comizi popolari.56 Il V secolo si spingerà ancora oltre, poiché a quel punto il potere reale sarà nelle mani del «generalissimo», di origine romana o germanica, che spesso «sce­ glierà» in prima persona l’imperatore dietro al quale regnare. Possiamo quindi concludere con Tacito57 che il principato si basa sulla menzogna secondo cui gli imperatori vengono liberamente scelti e legalmente avallati. In realtà, alla morte di Augusto, Tiberio teneva già in pugno l’impero; durante le quattro settimane in cui finse di esitare e di consultare il Senato recitò solo la ben nota commedia del rifiuto del potere,58 allestita per mostrare che il principe non era che un mandata­ rio. Ma, d’altro canto, questa «ideologia» è da ritenere solo in minima parte una finzione, se ricordiamo che in quattro secoli i due terzi degli Augusti e dei Cesari sono morti di morte violenta, mentre nel medioe­ vo cristiano il regicidio sarà pratica rarissima.59 E un altro indizio rive­ latore è che non è mai stato possibile trasmettere il trono alla terza ge­ nerazione, perlomeno prima del V secolo (il primo nipote di un impe­ ratore è Teodosio II). Un principe aveva ricevuto il suo incarico per as­ sicurare la salvezza della repubblica, quindi gli insoddisfatti potevano sempre sostenere che avesse fallito nella sua missione. Ogni imperatore doveva preoccuparsi di meritare e mantenere il consenso che lo aveva designato, pena la morte. Doveva sempre diffidare di tutti e in primis del suo «gran visir», di un Seiano o di un Plauziano. Il problema prin­ cipale erano i tentativi di usurpazione, in cui i pretendenti mettevano in gioco le loro teste, così come quelle di mogli e figli,60 e la cui minac­ cia era incessante; lo stesso regno di Antonino Pio ne conobbe due.61 Durante l’Ancien Régime i re e i loro sudditi appartenevano a due spe­ cie differenti: re si nasceva, non lo si diventava. A Roma, invece, chiun­ que poteva aspirare al trono, purché vincesse sugli altri pretendenti e, 17

L’impero greco-romano

conditio sine qua non, fosse senatore (o al limite prefetto del pretorio e nominalmente senatore); alcuni storici sostengono che durante la crisi del III secolo ci sia stato un «periodo di imperatori-soldati» usciti dai ranghi, ma questa fase è durata meno di vent’anni.62 Questa è la storia di Roma: dagli anni 68-70 agli anni 411-416 la lot­ ta per il potere ricomincia a ogni generazione (tranne in due o tre casi eccezionali) o più di una volta durante una generazione. Un imperato­ re, contrariamente a quanto varrà per i nostri re, non sarà mai sicuro di rimanere sul trono e in vita. A un re dell’Ancien Régime potranno ac­ cadere delle disgrazie, come un proprietario terriero può vedere le pro­ prie terre devastate dalla grandine, e i suoi sudditi lo compatiranno;63 un Cesare sconfitto dai barbari, invece, non sarà mai un principe sfor­ tunato, ma semplicemente un incapace da rimpiazzare.

VI Durante l’impero non si smetterà mai di pronunciare la parola «repub­ blica»,64 e non in nome di una finzione ipocrita.65 Durante l’Ancien Ré­ gime, tutti saranno al servizio del re; al contrario, un imperatore era al servizio della repubblica. Non regnava per la sua gloria, ma per la glo­ ria dei romani; vittorie e conquiste, celebrate sulle monete, andavano unicamente a beneficio della gloria Romanorum o della gloria rei publi­ cae. Monete e panegiristi testimonieranno che il merito di un principe non è di essere stato grande o buono, ma di aver salvato o restaurato la repubblica; lo stesso Vetranione sarà un salvator rei publicae. Per i tardi panegiristi, l’imperatore continua a essere il campione della repubbli­ ca, ne ha la cura, la tutela, la custodia,66 è «Nato per il bene della re­ pubblica» (Bono Rei Publicae Natus), come ci dice il titolo che esso ri­ ceveva in pieno IV secolo. Il regime imperiale manteneva la sua facciata repubblicana non in nome di una finzione, ma di un compromesso; il principe non poteva né voleva abolire la repubblica, perché ne aveva bisogno: senza l’ordi­ ne dei senatori, senza i consoli, i magistrati e i promagistrati, l’impero, privato della sua colonna vertebrale, sarebbe crollato.67 D’altro canto per la maggior parte dei nobili, nonostante fossero restii ad ammetter­ lo, il regime imperiale procurava certamente dei vantaggi: dettava le regole nel gioco delle ambizioni carrieristiche, mentre la repubblica era degenerata in una lotta anarchica tra pochi per la tirannia; per dir­ la in breve, il sistema imperiale si basava, perlomeno fino al III secolo, su una classe dirigente costituita dalla nobiltà senatoriale, famiglie la cui potenza doveva essere ancora tenuta da conto: avevano infatti con­ servato le loro ricchezze e la loro influenza su una clientela di notabili 18

Che cos’era un imperatore romano?

e contadini.68 Non si doveva misurare l’importanza effettiva della no­ biltà sulla base del ridotto ruolo politico del Senato. In termini marxi­ sti si potrebbe dire che il cesarismo è stato solo lo strumento di un do­ minio di classe, del dominio di un’oligarchia che doveva rimanere a lungo classe dirigente perché era lei a governare attraverso gli impera­ tori,69 obbligati a tenere in massima considerazione la sua presenza. Inizialmente tra questa oligarchia e Ottaviano Augusto era stato stipu­ lato un compromesso, che si, adattava alla congiuntura del momento e alla statura del nuovo signore, e che si era poi perpetrato con i suoi successori. Sfortunatamente era un compromesso zoppo,70 che sareb­ be stato motivo di conflitto perpetuo, perché era una contraddizione che il principe fosse allo stesso tempo onnipotente e investito da altri del proprio potere.

vn Il principe è a tutti gli effetti onnipotente. Il suo potere è il più assoluto, incondizionato e illimitato, senza riserve né conti da rendere ad alcuno. Solo l’autolimitazione argina tale onnipotenza, la cui origine risiede nel­ la concezione romana del potere, imperium, come potere assoluto e completo (quello di un ufficiale sul campo di battaglia, che ha diritto di vita e di morte sui suoi uomini e che non fa distinzioni tra disobbedien­ za e delitto) che sotto l’impero è messo nelle mani di un solo uomo inve­ ce di essere diviso tra più magistrati.71 L’imperatore è onnipotente, però a titolo personale non è che un semplice cittadino, sottomesso alle leggi, al diritto civile e, se vuole abusare del proprio potere, prende prima la precauzione di far cambiare le leggi valide per se stesso e per tutti gli al­ tri72 In quanto principe ha però la facoltà di decidere della pace e della guerra, di aumentare le tasse e di stabilire la spesa pubblica; nulla gli sfugge (è magister dei culti pubblici e del diritto pontifìcio) e il suo po­ tere non ha limiti. Può legiferare passando per il Senato, ma può anche promulgare un editto o un semplice rescritto che ha lo stesso valore di una legge e che prende posto nel corpo del diritto romano, perché qual­ siasi cosa decida il principe diventa legge. Consulta il Senato solo se gli conviene e da esso ottiene ciò che vuole;73 tanto che, scrive Eck,74 alla fi­ ne l’opinione del principe appare come fonte del diritto più del senatus consultum che dà valore legale a tale parere. Si capì ben presto che l’imperatore decideva o poteva decidere tutto, tanto che a ogni difficoltà si chiedeva il suo intervento.75 In un partico­ lare caso di vuoto giuridico (la protezione legale dei fidecommessi non era assicurata) si fece per esempio appello al potere patriarcale e bene­ volo di Augusto per colmare la lacuna,76 e lui la colmò introducendo la 19

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procedura inquisitoria,77 secondo cui il giudice prevale su colui che è sottoposto a giudizio. Si può concludere che il potere dell’imperatore è di altra natura rispetto a quello dei suoi subordinati, non è supremo, ma trascendente; come dice Mireille Corbier, ha un’altra dimensione. Sicuramente è stato definito con estremo scrupolo giuridico, ma l’idea sottesa era di arrivare all’onnipotenza. È vero, il principe riceve il pote­ re tribunizio, ma è rimasto solo il nome in comune con ciò che era in origine. Per citare Peter Brown, l’imperatore è un autocrate che «solo un minimo di decenza e gli interessi in comune con le classi emergenti possono frenare, e non certo i delicati ingranaggi della costituzione di Augusto», ingranaggi su cui non insisteremo. Il principe aveva diritto di vita e di morte su tutti i sudditi; poteva far condannare alla pena capitale un senatore facendolo giudicare dal Se­ nato, ma anche farlo giustiziare senza che fosse processato, perché la vita di ogni uomo, persino cavaliere o senatore,78 era a sua discrezio­ ne.79 Poteva convocare chi voleva per decidere della sua sorte: è così che i pronipoti di Gesù di Nazareth80 furono condotti a Roma al co­ spetto di Domiziano. L’imperatore apprese dalle loro bocche che i di­ scendenti del re Davide erano solo contadini inoffensivi con meno di un ettaro di terra da coltivare e li lasciò liberi. Quando un Caligola, un Nerone o un Adriano manderanno in esi­ lio o a morte dei senatori, tali atti tirannici saranno decisioni piena­ mente legali. Certo, all’inizio del suo regno, ogni nuovo imperatore faceva un discorso ai senatori, con il quale prometteva che non li avrebbe messi a morte arbitrariamente e non avrebbe creduto ai dela­ tori (ancora nel 458, Maggioriano dirà la stessa cosa al Senato).81 Ma supponiamo che una denuncia lo informi che uno scellerato attenta alla sua sacra persona facendo ricorso alla magia, l’imperatore può scegliere due strade82 (entrambe inquisitorie, del resto): rinviare l’ac­ cusato di fronte al tribunale, sia questo il Senato riunito in corte di giustizia straordinaria, quando l’accusato è un senatore o una donna dell’alta società, oppure siano, nel caso di una persona qualsiasi, il prefetto del pretorio, il prefetto della città o il governatore della pro­ vincia, che emettono da soli la sentenza, senza giurati; o ancora far sgozzare lui stesso il traditore dopo un processo farsa, nel suo palazzo o nel contiguo santuario di Apollo. In questo caso, l’imperatore con­ voca gli assessori che gli pare, interroga l’accusato secondo ima pro­ cedura inquisitoria che non prevede per lui un avvocato, emette da solo la sentenza e, in caso di condanna, inasprisce o addolcisce le pe­ ne tradizionali a suo piacimento. «Con che velocità Tiberio colpì l’ingrato che complottava contro di lui! »83 scrive un contemporaneo ammirato. Per citare Mommsen, il processo penale davanti all’imperatore corrisponde in realtà all’appli­ 20

Che cos’era un imperatore romano?

cazione della giustizia militare in tempo di guerra.84 Conclusione di Yann Thomas: la nascita dell’impero è accompagnata dalla «rimozione di qualsiasi tutela, di qualsiasi garanzia giudiziaria del cittadino» 85

Vili

Il cesarismo, dicevamo, era un assolutismo, ma fondato su una delega dell’autorità;86 portava in sé una contraddizione e susciterà sempre un disagio: il principe, scrive Wallace-Hadrill, era al tempo stesso cittadi­ no e re; era l’unico detentore del vero potere, scrive Brunt, ma conti­ nuava a ostentare di essere un responsabile servitore dello Stato,87 ed è a tale ambivalenza che si deve l’essenza stessa del cesarismo.88 Una ci­ tazione di Tocqueville sarà sufficiente: «Pretendere che il rappresen­ tante dello stato sia al tempo stesso armato di una vasta potenza e che sia elettivo equivale a esprimere, secondo me, due desideri contraddi­ tori».89 E non è meno contraddittorio volere che un uomo sia al tempo stesso onnipotente e uguale ai suoi pari: un’inclinazione naturale del­ l’immaginazione porta a esaltarlo; il cerimoniale, il culto imperiale e il carattere sacro delle immagini imperiali separano presto i principi dal resto degli uomini. Credo che il protocollo per rivolgersi al principe fosse questo: «Firmato Tal dei Tali, devoto a sua Divinità e a sua Mae­ stà»,90 formula di cui gli epigrafisti e i lettori di Cassio Dione ricono­ sceranno l’origine.91 Gli imperatori erano consapevoli di tale ambivalenza non meno dei loro sudditi. Tra cittadino e re, tra un buon imperatore e un cattivo im­ peratore, la distanza era breve e poteva essere colmata rapidamente. Tiberio, prigioniero di questa ambigua posizione, non poteva soppor­ tare né l’adulazione, né la libertà di parola; cercava di applicare leal­ mente il compromesso augusteo, ma, non riuscendo a ottenere una par­ tecipazione attiva da parte del Senato diffidente,92 finì in solitudine e tormentato dal tarlo omicida del sospetto. Il Senato tremò durante tut­ to il regno dell’inquietante Adriano.93 E ha certamente tremato ancora di più sotto Caracalla, a giudicare dal suo ritratto,94 che non è più quel­ lo di un membro colto della buona società, come sarebbe stato al tem­ po degli Antonini: Caracalla getta di lato un’occhiata obliqua e diffi­ dente, in cui si è a lungo creduto di vedere lo sguardo del traditore di un melodramma, dimenticando che si trattava di un ritratto ufficiale. In realtà, l’imperatore è un capo severo e temibile che sta di sentinella, in static^ fa la guardia e lancia ovunque occhiate a cui nessun nemico né malintenzionato può scampare.96 Strane figure gli imperatori di questi primi due secoli, scriveva Schumpeter, smarriti in un ruolo troppo complicato al di qua o al di là 21

L’impero greco-romano

della soglia della nevrosi, in bilico tra un’umanità semplice e la tirannia o l’eccentricità. Ecco perché il regime imperiale non è mai arrivato a essere una tranquilla evidenza agli occhi di tutti; cinque secoli dopo Augusto, Sulpicio Severo,97 Eunapio o Zosimo guardavano ancora con preoccupazione al cesarismo come un tempo avevano fatto Tacito, Epitteto, Giovenale e ancor prima di loro Fedro.98 Per la sua natura doppia e incerta il cesarismo è sempre stato accompagnato da un senti­ mento di delusione.

IX

La contraddizione di cui stiamo parlando spiega la paralisi del Senato durante l’impero. Il conflitto tra imperatore e Senato non è quello tra due poteri all’interno di una diarchia. Bisogna ricercarne la causa nel fatto che, con un principe dotato di pieni poteri, il Senato non poteva avere un ruolo politico importante e soprattutto non voleva averlo:99 tale ruolo sarebbe stato pericoloso e contrario alla sua dignità. Non vo­ leva diventare una sorta di consiglio del princeps,™ che d’altra parte aveva già il suo personale consiglio. Infatti, a differenza del consiglio del re a Versailles, il Senato non era formato da individui la cui perso­ nalità si esauriva nel compito di consiglieri del monarca; esso costituiva piuttosto una casta privilegiata che aveva una realtà, una dottrina e un interesse di classe propri. A differenza di un procuratore imperiale, che era al servizio personale del principe che l’aveva nominato,101 un magi­ strato senatoriale non serviva né il monarca regnante né la corona, ben­ sì lo Stato; al punto che insultare un senatore voleva dire insultare la re­ pubblica.102 Gli aristocratici non potevano essere liberi consiglieri di un cattivo imperatore perché la franchezza avrebbe potuto costare loro la testa,103 né potevano essere i degni consiglieri di un buon imperatore dal momento che questi poteva anche fare a meno dei loro consigli. La soluzione a tali contraddizioni prevedeva che il Senato non do­ vesse prendere nessuna decisione da solo104 e che, nondimeno, la poli­ tica imperiale fosse conforme alle sue vedute. Un buon imperatore non era chi consultava il Senato sulle grandi questioni politiche, sull’oppor­ tunità di conquistare la Dacia o di evacuare la Mesopotamia, ma un principe che, da solo, faceva una politica senatoriale senza nemmeno interpellare il Senato. Plinio coniò una formula decisiva:105 un buon principe approva e disapprova le stesse cose del Senato. Per riprendere una distinzione cara a Raymond Aron, la nobiltà senatoriale era una classe dirigente, un’élite ai cui desideri il governo doveva conformarsi (e, se non lo faceva, rischiava di essere rovesciato), ma non una classe che prendeva direttamente parte al governo. 22

Che cos’era un imperatore romano?

Principe e Senato avevano stipulato un compromesso: i nobili lascia­ vano governare il principe, in cambio, l’imperatore lasciava loro le alte funzioni amministrative e li trattava come suoi pari, senza assumere at­ teggiamenti regali. Dal canto loro, i senator^ lo trattavano come un re. In realtà, i cattivi imperatori, come Domiziano,106 ostentavano il loro riguardo nei confronti del Senato tanto quanto quelli buoni, e di ri­ mando l’adulazione senatoriale era tanto esagerata verso i buoni impe­ ratori come verso i cattivi; il panegirista di Traiano, lodandolo per il suo atteggiamento da pari verso i senatori, si rivolge dÙ'Optimus Princeps come a un superiore. Come dice Plinio con involontaria comicità, Traiano è un buon imperatore che ci ha ordinato di essere liberi e, dal momento che ce lo ordina, noi lo saremo.107 L’eventuale conflitto tra il principe e il Senato era più una questione di priorità, amor proprio e simboli che di spartizione del potere; sotto i buoni principi la più alta assemblea non assumeva certo più importan­ za che sotto i cattivi.108 In gioco c’era l’interesse, un interesse politico e non economico,109 della classe dirigente che si sentiva minacciata se il principe assumeva modi da re o da dio vivente. Certo, ogni senatore ri­ spettava il cerimoniale monarchico e tutte le case nobili avevano cura di mantenere nel proprio personale di servizio un collegio di cultores Augusti',110 ma la differenza consisteva nel fatto che un buon principe «lasciava» che i suoi sudditi riconoscenti lo adorassero111 (da cui l’isti­ tuzione spontanea sotto Augusto dei seviri augustali, sacerdoti che offi­ ciavano il culto dell’imperatore), mentre un tiranno come Caligola lo imponeva.112 Inoltre, esisteva un’idea convenzionale di cui ci si faceva spauracchio, quella del «tiranno satollo di carni e di vini» (per citare Baudelaire): il Buon Re vive solo per il bene della comunità mentre il Tiranno approfitta della sua posizione per soddisfare la sua concupi­ scenza, ingordigia, lascivia, crudeltà.113 Così virtù e vizi privati degli uomini pubblici assumono importanza agli occhi degli studiosi. Se quindi, rompendo il tacito compromesso con il Senato, l’impera­ tore si mette a fare il re e il dio (o persino se davvero si ingozza di car­ ne e di vino, come nel caso di Vitellio),114 la nobiltà si sente minacciata come classe dirigente perché la tracotanza imperiale, se non era una minaccia diretta, perlomeno la prefigurava,115 dal momento che non è bene lasciar guidare impunemente un semidio. E come quando Stalin verrà definito genio. Se dunque il principe si pone al di sopra della muta autorità del Senato, la nobiltà non dirige più tacitamente la si­ tuazione e le può accadere di tutto. Questa era la posta in gioco nel conflitto. Supponiamo quindi che un imperatore si definisca o si lasci defini­ re116 signore e dio, dominus et deus, per il piacere di sentirsi l’unico si­ gnore e di sottrarsi al controllo senatoriale. Oppure supponiamo che 23

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sia fragile di nervi e che l’ipocrita atteggiamento che deve assumere nei confronti del Senato lo metta a disagio. O semplicemente che diffidi della classe dirigente e che veda un possibile rivale in un membro della sua famiglia, in un generale coperto di gloria, in un prefetto del preto­ rio, in un senatore ambizioso o in chiunque gli venga denunciato: soc­ combe allora a una «sospettosità» delirante che Seneca definisce rab­ bia pubblica (publica rabies).w Inizierà allora il ciclo degli omicidi giu­ diziari e dei suicidi forzati;118 sotto Tiberio, Claudio, Domiziano, Com­ modo ci fu il terrore, e vi sarebbe stato di nuovo tre secoli più tardi: «Le trombe soffiavano annunciando accuse inventate di lesa maestà»119 scriverà Ammiano Marcellino. Allo stesso modo, da Seneca a san Gio­ vanni Crisostomo, i letterati predicavano la clemenza agli imperatori. La psicologia svolge un ruolo importante in un’autocrazia; la malattia del sospetto, tanto frequente nei principi, figlia della loro onnipotenza, veniva dalla stessa vertigine di fronte al vuoto del non sentirsi mai dire «no», dal sentimento angosciante di un mondo privo di regole nel qua­ le tutto ci si può attendere da parte degli altri, perché ci è possibile fare tutto. Allora un brivido di panico attraversava i più mediocri. Adriano non vi soccombette perché era un vero despota; era conosciuto come tale ed era temuto, ma a torto: non era un mediocre.

X Il regime del terrore aveva due ragioni di essere. In primo luogo perché l’idea di una contrapposizione al potere, di una leale e legittima oppo­ sizione a sua Maestà era impensabile a Roma.120 Secondo la concezione romana del potere, àdRimperium, la collettività si attribuisce un capo, ma, una volta che lo ha designato, gli obbedisce in silenzio: ogni oppo­ sizione equivale a un alto tradimento e non si tradisce solo con le azio­ ni, ma anche col pensiero, le parole, le conversazioni, i semplici gesti121 e persino i sogni.122 E sgarri di questo tipo venivano puniti con la pena di morte;123 l’eliminazione fisica dell’avversario politico era infatti la re­ gola. Ecco perché era servile tutto ciò che veniva detto o scritto su un imperatore in carica e sui suoi nemici reali o presunti; si legga quanto Velleio Patercolo scrisse per la gloria di Tiberio e quanto Valerio Mas­ simo rovesciò contro Seiano,124 nemico di Tiberio. In secondo luogo tale regime era reso necessario dal marcio che in­ fettava l’ambiente senatoriale, ambiente dove non vigeva nessuna leg­ ge, positiva o morale che fosse. L’aristocrazia romana non aveva paura del gendarme, né si sforzava di migliorare da sé i propri costumi mora­ li, e la «spontanea competitività» delle classi nobili di cui parla Egon Flaig125 raggiungeva livelli da legge della giungla. Non erano rare le ri­ 24

Che colera un imperatore romano?

valità, le gelosie, le denunce o le accuse tra pari. Nel V secolo, questa lotta all’ultimo sangue si intensificherà ancora di più nell’impero d’Oriente; i successori favoriti dei principi si susseguiranno mettendo a morte i loro predecessori. Durante l’Alto impero, l’arma di queste lotte era la delazione. La funzione di pubblico accusatore non esisteva a Ro­ ma, dove, come dice Yann Rivière, il cittadino non era un semplice go­ vernato, ma imo strumento di governo, tanto che perseguire un delin­ quente era un pubblico affare. Molte di queste delazioni si collocavano nella tradizione repubblicana delle vendette familiari,126 o delle accuse perpetrate da un giovane ambizioso, ansioso di farsi conoscere e inizia­ re la carriera, a danno di un grande personaggio;127 per rifarci a Sy­ me,128 se conoscessimo meglio quest’epoca, probabilmente scoprirem­ mo ambizioni e odi privati dietro a molti processi, che del resto costi­ tuivano anche un mezzo di arricchimento, poiché l’accusatore riceveva in cambio una parte del patrimonio della sua vittima. Quando il Senato sentiva che non c’era il sovrano dietro all’accusa­ tore, l’arma poteva ritorcersi contro l’audace che si ritrovava così con­ dannato al posto dell’accusato.129 Ma qualora fosse in gioco la maestà dell’imperatore, era tutto un altro affare. Si possono distinguere due gruppi di senatori, scrive Egon Flag: la maggior parte di loro si accon­ tentava di fare una modesta carriera e di sopravvivere, mentre un grup­ po di ambiziosi correva dei rischi e si lanciava in una competizione spietata per ciò che era una vera rarità in questo impero mal ammini­ strato: le più alte dignità dello Stato.130 Sotto i «cattivi» imperatori, ber­ saglio della muta ostilità di una parte del Senato, tale rivalità diventava una guerra all’ultimo sangue. Allora cominciava il regno della delazio­ ne.131 Tacito evoca questi periodi che vedevano «i senatori più ragguar­ devoli [primores Senatus] abbassarsi fino alle più vergognose delazio­ ni»;132 e per un buon motivo: era a forza di denunce che avevano rag­ giunto questo alto rango. Avevano prevalso sui loro rivali spiandoli per trovare indizi che testi­ moniassero la loro ostilità verso l’imperatore; la furia accusatoria di­ ventava un flagello pubblico, scrive un contemporaneo; tutto poteva essere usato contro il proprio avversario, anche innocenti battute e di­ scorsi da taverna.133 Dopo di che si svolgeva un processo per lesa mae­ stà di fronte all’imperatore in persona o davanti al Senato eretto a tri­ bunale straordinario; l’accusato era destinato al supplizio o al suicidio, mentre il denunciatore riceveva la sua parte del patrimonio del con­ dannato e veniva promosso a un’alta carica o a un sacerdozio dal prin­ cipe a cui aveva provato la sua devozione.134 Quattro senatori di alto rango che aspiravano al consolato, onore supremo, si unirono in una sorta di fazione135 per mettere nel sacco un innocente senza ambizioni, ma troppo fiducioso, il cui unico torto era essere rimasto fedele alla 25

L’impero greco-romano

memoria di un imperatore defunto che un tempo aveva messo in om­ bra il principe regnante. Per sorprendere i discorsi di questo innocen­ te, si nascosero nel controsoffitto del suo salone.136 Questi quattro delatori avevano fatto tutto di loro, interessata, ini­ ziativa. Ma in altri casi era stato il principe a ingaggiare al suo servizio ambiziosi che si trasformavano in delatori professionisti.137 Quando uno di loro puntava il dito contro un senatore, i colleghi del malcapita­ to capivano subito che dietro tutto c’era l’imperatore e che ogni esita­ zione sarebbe stata fatale. Bisogna a questo punto ricordare Tacito: «Sono state le nostre stesse mani a trascinare Elvidio in prigione, a mandare a morte Rustico e a farci ricoprire del sangue innocente di Se­ necione»; durante questi finti processi, continua lo storico, il pallore, la disperazione di certi senatori, incapaci di ricomporsi in viso, li sma­ scheravano agli occhi dei delatori; in questo governo dove il faccia a faccia contava molto, saper conservare la calma poteva essere capitale, in entrambi i sensi della parola.138 L’intero Senato diventava complice dell’accusatore, come è evidente; si capisce come in seguito alla morte di un «cattivo» imperatore le epurazioni di delatori non siano mai ap­ prodate a niente.139 Questa istituzionalizzazione della delazione può essere facilmente spiegata. Il principe aveva bisogno di uomini di fiducia e la fiducia era difficile da trovare. Non poteva contare su nessuno: il Senato, compo­ sto di potenziali rivali piuttosto che di leali pari, non voleva consigliar­ lo; quanto a ciò che veniva chiamato con il nome ingannevole di corte imperiale, era buono solo a sbrigare gli affari di ordinaria amministra­ zione. E persino il migliore dei principi, persino Antonino Pio, si trova­ va esposto a minacce. La posizione di un imperatore si fa ancora più pericolosa qualora questi si atteggi a signore, come Domiziano, o si di­ mentichi, come Nerone, che chi occupa ima posizione elevata non de­ ve mai gesticolare, o semplicemente sia fragile di nervi, come Tiberio, che non reggeva l’ambiguità del suo ruolo. Allora ha bisogno di circon­ darsi di anime dannate, per sorvegliare la nobiltà senatoriale che non ha il minimo rispetto per la sua legittimità. In pegno della loro devozio­ ne, queste anime dannate sacrificavano al principe vittime umane: de­ nunciavano qualche loro pari e lo mandavano a morte con l’accusa di lesa maestà. Ma sia che l’imperatore si serva deliberatamente della leg­ ge della giungla a suo profitto, sia che si accontenti di lasciare che le ri­ valità facciano il loro corso, il risultato è il medesimo: il potere del capo si rafforza, come avverrà nel caso del nazismo. Così legge della giungla, sospettosità del principe e potere personale cooperano tra di loro. Questa era la psicologia politica della classe dirigente; sotto le toghe si agitava uno spirito avventuriero e instabile, privo di quella fedeltà, serietà e patriottismo che la leggenda attribuiva ai romani. La loro psi26

Che cos'era un imperatore romano?

oologia era più sommaria: «Quanto tenta il trono un cuore ambizioso!» dice un verso del Bajazet di Racine. La spiegazione sarebbe breve se non si aggiungesse quanto segue: questa ambizione che non conosceva freni, e spesso chimerica, era sostenuta dal carattere poco strutturato della società romana, terreno dove non ci si imbatteva in molti ostacoli. La gerarchia della nobiltà senatoriale era organizzata in base alle cari­ che, ai differenti ranghi (consolare, pretorio eccetera), ma nient’altro impediva alle ambizioni di nascere e crescere: non il senso del «bene pubblico» e della legalità, non l’etica religiosa o le istituzioni religiose, né il rispetto dinastico, i partiti politici, la pesante burocrazia, le tradi­ zioni amministrative, i quadri professionali o la stretta rete economica. La politica romana aveva sì un forte senso dell’autorità, pur essendo ac­ corta, tollerante e decisamente poco incline al proselitismo, ma era an­ che una politica arcaica, impulsiva, poco razionalizzata.

XI

E questo spiega altre pittoresche singolarità, come i «Cesari pazzi» e i frequenti tentativi di usurpazione. Mi si permetta di dilungarmi su que­ sto ultimo fenomeno. Alcuni di questi tentativi, che raramente ottene­ vano un esito positivo, hanno in sé una certa razionalità politica. Alla morte di Nerone e dopo quella di Commodo, le guerre civili tra pre­ tendenti rispecchiavano le correnti di pensiero principali dei cittadini: Nerva e Vespasiano da un lato, Otone e Vitellio dall’altro rappresenta­ vano rispettivamente due fazioni nell’UrAy e nelle province. In gioco c’era il potere della classe dirigente senatoriale, come avverrà di nuovo nel 238 con Massimino. In alcuni casi non si trattò che di elucubrazioni o atti mitomani,140 ma in altri fu qualcosa di serio. Nel 238, i grandi proprietari fondiari dell’Africa si rivoltarono contro le pesanti imposte, massacrarono il procuratore fiscale e andarono fino in fondo: nomina­ rono imperatore il proconsole che governava le loro province e che in­ vano li aveva supplicati di non votarlo alla morte sicura; anche se pro­ babilmente avevano percepito che aleggiava il malcontento generale contro il tiranno e presumevano che il Senato li avrebbe seguiti. Nel 392, il «generalissimo» germanico Arbogaste innalzò lo stendardo della rivolta contro il pio Teodosio, creò un pretendente e vide l’aristocrazia pagana raccogliersi intorno alla sua creatura: il paganesimo ingaggiava la sua ultima battaglia, la battaglia del fiume Frigido che sarà, è stato scritto, la prima guerra di religione. L’usurpazione di Giuliano nel 360 fu, come quella di Gordiano, al tempo stesso una rivolta dovuta al malcontento e un’impresa vera e propria per quanto riguarda mezzi e fini. Giuliano era adorato dalle 27

L’impero greco-romano

truppe, fiere delle vittorie sul Reno. Probabilmente i suoi ufficiali era­ no persuasi che ci fosse bisogno di un imperatore per difendere l’Occidente e che Giuliano sarebbe stato un sovrano migliore di suo zio Co­ stanzo II, privo di carisma nel suo Oriente lontano, nella sua corte po­ polata da ciambellani e vescovi. E fu proprio quest’ultimo ad avanzare la pretesa di far venire le truppe di Giuliano al suo fianco, in Oriente, obbligando le legioni ad abbandonare alle razzie germaniche la Gallia e chiedendo loro di andare al di là dei loro compiti, lasciando esposti al­ le violenze mogli e figli. Allora gli ufficiali141 diffusero tra i Galli un ma­ nifesto {grammation) anonimo, che esprimeva proteste e lamentele con­ tro Costanzo e i timori per la sorte che questi aveva riservato al loro ca­ po.142 È a questo punto che le truppe tributano i massimi onori a Giu­ liano, il quale, ormai compromesso, accetta il titolo di Augusto e distri­ buisce alle truppe il consueto donativurn^ Il tradizionale dono che si aggiungeva alla loro paga non significava, come ha sempre preteso la storiografia senatoriale, che i soldati avevano venduto il trono al mi­ glior offerente, ma che, al di là delle opinioni politiche, anche loro ave­ vano delle rivendicazioni «sociali» e che i doni, le gratificazioni gioca­ vano un ruolo simbolico nella società antica. Il malcontento di una parte dell’opinione pubblica spiega dunque certe usurpazioni; ma, come ha dimostrato Wardman, l’unico risultato di tale malanimo non era altro che la proclamazione di un nuovo impe­ ratore, o la proposta di un pretendente al trono.144 Comunque, noi cre­ diamo che questi siano casi minoritari e che la causa della maggior par­ te delle usurpazioni sia molto più banale: «Un’ambizione dei capi ali­ mentata da una gelosia dell’esercito».145 Aggiungiamo a ciò il malcon­ tento per la paga o per il rancio nei ranghi delle truppe. La minima ri­ bellione militare, anche solo di una manciata di uomini, promuoveva un pretendente. Così l’usurpazione di Eugenio, verso il 303: i cinque­ cento sodati di guarnigione a Seleucia di Pieria per sorvegliare l’ingres­ so del porto non sopportavano di doversi cuocere il pane durante la notte, e per questo non poter dormire. Perciò obbligarono il loro co­ mandante a usurpare il titolo imperiale e minacciarono di ucciderlo se si fosse rifiutato.146 La vita politica nell’impero era superficiale, sommaria e frammentata, raramente si organizzava intorno ad ampi movimenti di fondo e a gran­ di problemi, e non era altro che una continua contesa tra capi. E questi capi ambiziosi assumevano facilmente posizioni estreme e correvano ri­ schi in modo temerario e sconsiderato. Questo stato d’animo confuso era lo stesso di alcuni loro partigiani, la cui cupidigia concepiva speran­ ze chimeriche, che presto trovavano l’appoggio degli scontenti. E così ogni minimo pretesto faceva temere un’usurpazione: se un pa­ rente dell’imperatore aveva una carriera troppo fulminea, «era eviden­ 28

Che cos’era un imperatore romano?

te che, se mai gli fosse stato possibile, avrebbe sconvolto la pace dello Stato».147 Ogni personaggio potente, ogni senatore troppo popolare era un pericolo pubblico ed era prudente ucciderlo.148 Il senatore galli­ co Valerio Asiatico, scrive Tacito, era così ricco e aveva talmente tanti clienti presso gli allobrogi che avrebbe potuto far insorgere un esercito o una provincia: un pericolo reale più che un «semplice» miliardario. Per questo Claudio fece suicidare questo pericoloso personaggio.149 Alla morte di Giuliano, suo cugino Procopio tentò il tutto per tutto, perché prevedeva che il nuovo imperatore avesse in serbo per lui la fi­ ne di Britannico; propose l’avventura a un gruppo di giovani soldati, «promettendo di ricoprirli di ricchezze e alte cariche», con gli applausi di una parte del popolino, che nulla rischiava e nulla aveva da perdere. Insomma, la tradizione di mandare a morte gli usurpatori ne ha molti­ plicato i tentativi, perché ogni povero diavolo proclamato imperatore da una rivolta non aveva altra via d’uscita che fare uno scatto in avan­ ti.150 Nel 355, Silvano, comandante delle truppe sul Reno, fu vittima di imo dei più sordidi intrighi mai tessuti dalle rivalità di casta; falsamen­ te accusato di aspirare alla porpora, Silvano non aveva altra scelta che aspirarvi davvero. Storia banale, ma indicativa della facilità con cui le sue truppe accettarono di seguirlo.151 Si assisteva a imprese il cui carattere sorprendeva gli stessi contem­ poranei;152 intorno al 400 una decina di pretendenti, affascinati dallo splendore della porpora, si succedettero nel giro di quarant’anni e fal­ lirono uno dopo l’altro, «senza riflettere sulla sorte dei loro predeces­ sori» scrive Gibbon. Tutto questo fa dell’instabilità il tratto dominan­ te della storia imperiale, con il suo ritmo palpitante. L’impero romano non ha niente del capolavoro politico, la sua riuscita sta in due ricette tanto semplici quanto efficaci: non toccare lo statu quo dei paesi con­ quistati e confermare il potere delle classi possidenti e dei dirigenti lo­ cali; in tempi in cui il nazionalismo non era ancora una passione, non serviva niente di più. Aggiungiamo a questo una potenza militare sen­ za eguali e una considerazione: tra le diverse regioni dell’impero, la disuguaglianza poteva essere un rapporto di due a uno, e non di tren­ ta a uno come nel mondo attuale, pieno di frustrazioni e gelosie. Del resto, Renan dice il vero: «Senz’eredità regolare, senza norme fisse d’adozione, senza legge d’elezione, senza limiti costituzionali, il cesa­ rismo somigliava a una nave priva di zavorra: terribili scosse erano inevitabili».153

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L’impero greco-romano

XII

Per altri versi, il III e il IV secolo sono teatro di un cambiamento politi­ co e sociale profondo, ma anche lento, insidioso e complesso. Settimio Severo è un imperatore «civile», il suo regno è contemporaneo all’apo­ geo del diritto romano e, tuttavia, nel 193 inaugura una lunga discen­ denza di principi imposti al Senato dall’esercito. Dopo di lui, solo un senatore, Tacito, sarà imperatore nel 276. A livello sociale, l’epoca non è quella di una rivoluzione, ma di un’a­ pertura della classe dirigente154 che si occupa dei comandi militari e del­ le funzioni civili. La nobiltà senatoriale non è più l’unica a comporla; fa il suo ingresso anche una piccola nobiltà di «cavalieri», parola che però è da intendersi in un senso nuovo: spesso sono plebei provenienti dal corpo degli ufficiali. L’impero finisce per diventare un regime militarista e «burocratico» in cui i sovrani si appoggiano a una classe dirigente mi­ sta che comprende i «portatori di cinturone», il cingulum, ovvero i sol­ dati, e anche i funzionari civili, assimilati ai soldati; mentre la vecchia nobiltà dei clarissimi, con le sue ricchezze, conserva o ritrova il suo pre­ stigio ancestrale e gli imperatori continuano a trattarla con deferenza,155 cosicché essa proseguirà fino alla fine a coprire le più alte cariche civili. A metà del III secolo, infatti, Gallieno, per fronteggiare l’aumento di pericoli esterni, aveva destituito delle alte cariche militari questa «ari­ stocrazia senatoriale che le esercitava come belle arti e come un orna­ mento indispensabile alla sua immagine», scrive Jean-Michel Carrié. E perdendo il comando degli eserciti, l’aristocrazia senatoriale lasciava la porta aperta ai concorrenti; i soldati semplici ebbero accesso al grado di capo dell’esercito e da lì, talvolta, anche al trono.156 Gli imperatori patrioti che, usciti dai ranghi e di bassa origine sociale, salveranno l’im­ pero durante la crisi del III secolo, avranno un’ascesa tanto spettacola­ re e meritata quanto i marescialli di Napoleone, come sostiene Peter Brown. Nonostante ciò le funzioni civili restavano aperte alla vecchia nobiltà. Il Senato però non era più il problema centrale e forse aveva cominciato a perdere la sua autorità morale già dall’epoca dei Severi.157 Così finì per formarsi una classe dirigente composta da alti funzionari civili e militari, tutti nominati clarissimi, benché i tre quarti di loro non avessero posto in Senato. L’impero comprende ormai tre elementi: l’imperatore, che è il pasto­ re, i soldati, cioè i cani da guardia, e il gregge a cui essi fanno la guar­ dia, come dirà lucidamente l’imperatore Giuliano158 - ciononostante l’instabilità perdurerà, come anche la sospettosità. Non essendo più il princeps di una nobiltà senatoriale, il primo tra pari, l’imperatore di­ venta il signore di tutti i suoi sudditi, da cui il famoso editto del 212 che innalza al grado di cittadino romano ogni uomo libero dell’impe­ 30

Che cos’era un imperatore romano?

ro.159 Come avrebbero potuto dire Saint-Simon o Tocqueville, non ci sono più privilegiati, pari, grandi nomi: ormai, sotto l’imperatore, «ognuno è popolo». Malgrado questo universalismo, ciò che importa ormai è la distin­ zione tra le persone dabbene, o honestiores, e i piccoli, o humiliores. Solo questi ultimi possono vedersi infliggere la bastonatura e per loro il diritto penale è più severo. A differenza della Grecia, la repubblica romana aveva ignorato la tortura per gli uomini liberi;160 questa sotto l’impero sarà ammessa da Marco Aurelio, che la riserverà agli humilio­ res-. è in tale occasione che comincia a stabilirsi la distinzione, che sop­ pianterà quella ereditata dalla repubblica, tra cittadini romani e sem­ plici sudditi dell’impero. Verrà cancellata anche la superiorità che l’I­ talia, con il suo autogoverno municipale, aveva sulle province sotto­ messe ai governatori.

xni Veniamo ora ai «Cesari pazzi» e prima di tutto a un fatto capitale che non dipende dalle istituzioni, né dalla società o dai rapporti di forza, ma da ciò-che è opportuno chiamare norme, le quali a nostra insaputa guidano e inibiscono la nostra condotta. I monarchi dell’Ancien Régime avevano presente già nella culla quale era il modello del ruolo rega­ le, mentre, per citare Jochen Bleicken,161 per il principato non esisteva­ no equivalenti delle «leggi fondamentali» non scritte del suddetto pe­ riodo. La maggior parte dei regimi politici viene definita nei suoi confi­ ni da una tradizione inconscia, la cui forza e la cui concretezza si rivela­ no a volte anche di troppo. Quando però non vi è nessuna tradizione o un regime dittatoriale la sconvolge, allora possono venire a galla i feno­ meni più diversi di teratologia politica, proprio come quelli che il no­ stro secolo ha conosciuto. Ebbene, il regime imperiale non aveva alle spalle nessuna tradizione o modello straniero; fino al III secolo, non vi era stato un ruolo a cui i principi si sarebbero potuti conformare, an­ che inconsapevolmente, e che ne avrebbe limitato metodi o eccentri­ cità. Peggio ancora: esisteva sì una tradizione, ma era quella del potere come imperium, la cui ambiguità abbatteva ogni ostacolo e da cui pote­ rono originarsi i capricci da sultano di Nerone, Caligola e altri, mentre l’Ancien Régime non conoscerà «Cesari pazzi». L’imperatore, il cui po­ tere e la vita stessa erano continuamente minacciati, sarebbe potuto es­ sere solo una marionetta: non fu così. Poteva prendere decisioni rivolu­ zionarie (come Caracalla o Giuliano) o adottare a suo piacimento con­ dotte altrettanto inedite (vedi il gran viaggiatore Adriano):162 non per questo era meno obbedito. La stessa concezione perentoria dell’impe31

L’impero greco-romano

rium allontanava il Senato dalla partecipazione al governo. Questo po­ tere assoluto, a cui la nobiltà non poteva fare da contrappeso, aveva co­ me soli limiti gli altri pretendenti al trono, l’uccisione del principe o, qualora questi fosse un debole, gli intrighi di palazzo. Un re non si sarebbe mai ritrovato a fare gli stessi sforzi che dovette fare Marco Aurelio per non «incesarirsi», come testimoniato dal suo diario.163 Quando si dispone di un’onnipotenza senza controllo, è faci­ le cedere alla tentazione di capricci e mire di grandezza. Gli imperatori rischiavano continuamente di passare da un atteggiamento di affabilità verso i senatori, alla superbia, l’orgoglio smisurato dei sovrani orienta­ li;164 si era soliti ripetere165 che, una volta sul trono, anche il più pacifi­ co degli uomini poteva trasformarsi in un despota. È facile indovinare da dove venisse questa tentazione: per la massa della popolazione il principe non era un mandatario, né del resto un dio, ma questo non impediva che venisse considerato un essere superiore ai suoi sudditi; persino il principe correva sempre il rischio di pensarlo, Inoltre, questo ruolo indeterminato di cui era stato investito, era niente meno che quel­ lo del più gran personaggio che ci fosse al mondo, del solo che fosse così grande, dal momento che, ce lo ricorda Mommsen, in un certo qual modo Roma riteneva di essere l’unico Stato al mondo e gli impera­ tori non avevano un ministro degli Esteri.166 Invece i re dell’Ancien Régime si rivolgevano l’uno all’altro con appellativi quali «cugino mio» e prendevano i loro cugini a modello. Il sovrano romano, dal canto suo, poteva credere di dover o poter fare cose straordinarie. E questo megalomane non viveva in un ambiente pronto a fargli no­ tare quali fossero i limiti invalicabili del suo operato, al contrario: la corte imperiale non faceva che spingerlo verso la superbia.101 In realtà, la corte romana aveva solo il nome in comune con quella dell’Ancien Régime, essendone addirittura l’opposto.168 Un re circondato dai corti­ giani, dalla nobiltà, viveva in compagnia dei suoi pari, membri della classe dirigente con cui doveva venire a patti e davanti ai quali doveva atteggiarsi. Gli imperatori, al contrario, non erano circondati da sena­ tori; si limitavano a invitarli a cena.169 Vivevano, invece, in compagnia dei loro servitori: domestici, ciambellani, eunuchi, amici, liberti e se­ gretari (per farla breve, in compagnia del loro ministero, installato ve­ rosimilmente nel palazzo di Tiberio, sotto gli attuali giardini Farnese), tutte persone che dipendevano da loro e che accondiscendevano pie­ namente ai loro eccessi o eccentricità, cosa che permetteva loro di ren­ dersi indispensabili per il signore. Nessun limite, nessun ruolo tradizionale: niente ha potuto frenare certi imperatori inclini alla tirannia, alla megalomania o perlomeno ai «capricci reali», nulla ha potuto impedire che dessero un’interpretazio­ ne originale del ruolo. I principi ricevevano il mandato di campioni 32

Che cos'era un imperatore romano?

della repubblica senza privarsi della loro individualità né dei loro lega­ mi familiari; non si imponeva assolutamente quella separazione tra pubblico e privato che ci è tanto cara, per cui un politico non deve mi­ schiare la sua persona alla sua funzione. Nerone mostra a tutti i suoi ta­ lenti artistici; Costantino con il codice e i discorsi, Giuliano con le ope­ re parlano in tutta sincerità come fossero privati cittadini sul trono; quest’ultimo era presentato e si presentava ai suoi sudditi come un cro­ ciato del paganesimo.170 In una monarchia, la salute del principe ed eventi dinastici come na­ scite, matrimoni e lutti sono anche avvenimenti pubblici; quando l’im­ peratore si ammalava venivano offerti sacrifici in tutto l’impero. C’è di più: molti sudditi del principe provavano un affetto sincero per la sua persona; erano toccati da tutto quello che lo riguardava come lo sareb­ bero stati per un membro della loro famiglia. Il popolo di Roma venne a scongiurare Tiberio di non credere alle calunnie contro Agrippina Maggiore e intervenne violentemente in favore di Ottavia ripudiata da Nerone; dopo lo scandalo di Messalina, Claudio stesso promise ai suoi uomini, alla guardia pretoriana, che non si sarebbe risposato.171

XIV

Un imperatore poteva avere la tentazione di abusare della posizione pubblica di cui beneficiava la sua persona, per estendere tale privilegio ad altre sue inclinazioni, pur rispettabili: i suoi talenti artistici o le sue convinzioni personali, filosofiche, come nel caso di Marco Aurelio (gli apologeti cristiani fanno appello pubblicamente a questo sovrano co­ me a un filosofo), o religiose, come nel caso di Giuliano. Con un simile pio pretesto e con aristocratica disinvoltura, Adriano favorì la diffusio­ ne, in tutto l’Oriente, del culto divino e funerario dello schiavo Antinoo.172 Elagabalo non limitò certo la sua devozione alla sfera privata, ma rese il culto del Sole il più grande culto pubblico. Costantino fu più riservato, lungi dall’intraprendere la conversione dell’impero al cristia­ nesimo173 e dal renderlo una religione di Stato, si limitò a due cose: in pubblico optò per la tolleranza, in privato scelse il cristianesimo,174 che diventava così la religione personale del principe e di conseguenza ave­ va diritto a benefici, privilegi ed elargizioni finanziarie, né più né meno. Costantino tenne conto delle sue convinzioni personali anche nelle re­ lazioni internazionali: scrivendo a Sapore, scià di Persia, gli confessò, da coscienza a coscienza, il suo orrore per i sacrifici cruenti.173 Così si spiega il pragmatismo di Costantino in campo religioso: era consapevo­ le di aver introdotto la nuova religione a titolo di «capriccio reale», co­ me preferenza privata. La Chiesa e lo Stato resteranno separati, l’impe­ 33

L’impero greco-romano

ratore perseguiterà i cristiani scismatici, ma non i pagani: si occuperà di arrangiare le loro carriere, li collocherà in posizioni elevate accanto ai cristiani e ne rispetterà la passione per gli spettacoli pubblici; tanto che uno dei nomi epocali nella storia del trionfo del cristianesimo non è quello di Costantino il Grande, ma quello del suo successore, l’acido e devoto Costanzo IL Con la tirannia di Domiziano, invece, non si ha più a che fare con la soggettività del principe, ma con una certa concezione dei compiti im­ periali che egli probabilmente considerava veri e propri doveri. Tre co­ se di lui sono ben note: si lasciava chiamare «signore e dio», àominus et deus\ si autodefiniva «censore a vita», funzione che si era inventato e di cui si insigniva come blasone sul verso delle monete;176 infine si era fat­ to carico di imporre una morale sessuale, come scrive Miriam Griffin177 (e infatti, quando Marziale gli dedicò un libro di epigrammi, proibì a se stesso l’uso di parole oscene);178 una vestale ci lasciò persino la vita. E credo che queste tre cose possano essere ridotte ad unum, confluendo in un tipo di potere originale, perlomeno in Occidente. In modo analo­ go a ciò che capitò negli imperi di Cina e Giappone,179 Domiziano mi­ surava la portata del potere sui suoi sudditi in base alla loro moralità privata. Il rispetto della morale, tanto privata che civica, diventava spesso elemento fondante della società. Dunque, se il potere imperiale entra nella camera da letto dei sudditi, vorrà dire che Domiziano è un imperatore più potente, e migliore, di tutti i suoi predecessori: lui solo, per il bene pubblico, comanda su tutto. Nel suo ritratto ufficiale non volle apparire un luminoso semidio come Augusto, né un tranquillo cittadino come il padre Vespasiano, ma un temibile e sospettoso poli­ ziotto con lo sguardo di traverso (come Caracalla).180 Veniamo infine ai «Cesari pazzi» propriamente detti. Al tempo del potere personale, erano principi, faraoni, imperatori o califfi, più spes­ so che studiosi, a mettere l’immaginazione al potere. Con Caligola, Ne­ rone e Commodo si ha a che fare con una concezione sublime del ruo­ lo imperiale (che evidentemente affonda le sue radici in una megaloma­ nia personale e, per Caligola, in una demenza precoce). Secondo costo­ ro, l’uomo la cui particolare natura è di essere l’imperatore è una per­ sona che giganteggia tra le altre. Non stiamo a cercare quali virtù o ca­ pacità specifiche, politiche in particolare, lo rendano così grande: è grande perché regna e viceversa. Caligola è come un dio per i suoi sud­ diti: il signore del mondo è superiore all’umanità, così come, diceva lui, sulla scala degli esseri viventi il pastore è più in alto degli animali del suo gregge.181 Commodo, dal canto suo, è grande per i suoi eccessi (porta il titolo di vincitore supremo dei germani e dei bretoni), ma an­ che per la sua stessa natura; per lui è stato forgiato il titolo di exsuperatorius. Il suo impero esiste solo attraverso di lui e per lui; identificando34

Che cos’era un imperatore romano?

si con Ercole, di cui porta la pelle di leone e la clava, vuole diventare il rifondatore divino di Roma, ribattezzata «colonia commodiana». Tali megalomanie sono sorte e hanno prosperato sul terreno dell’on-nipotenza, àeW imperium, del culto imperiale, dell’assenza di una tradi­ zione vincolante e di una corte degna di questo nome; così come quella di Ceaujescu è nata dalla dittatura del partito, dall’onnipotenza dei se­ gretari generali, dal dovere di fare cose straordinarie, dal culto della personalità e dalla medesima assenza di tradizioni. Nel caso dei «Cesari pazzi», la gloria di cui si fregiano non è più quella dei romani, ma quella del principe stesso. Per la felicità dei sud­ diti è sufficiente sapere che il sovrano è splendido. E questo ha avuto come esito la grande utopia dell’epoca, che suscitò parecchi entusiasmi (tra cui quello, che possiamo credere sincero, di Lucano): i partigiani di Nerone esaltavano il suo regno come una nuova età dell’oro; le mo­ nete di Commodo avevano per legenda «Età dell’oro di Commodo». Gli eventuali successi militari o diplomatici non facevano che confer­ mare questa grandezza innata; Caligola, Commodo e, più legittimamente, Nerone aspirarono a una politica estera eclatante. Allo stesso modo si spiega la stranezza che più ha colpito antichi e moderni e che ha contribuito a ridurre il fenomeno dei «Cesari pazzi» a semplice istrionismo: Nerone si esibiva come il miglior cantante e cocchiere dell’impero; Commodo come il miglior gladiatore e arciere. Queste erano, ai loro occhi, semplicemente piccole conferme della lo­ ro schiacciante superiorità, e gli spettacoli del teatro, del circo e dell’a­ rena erano i media attraverso cui questa superiorità veniva resa visibi­ le a tutti.182 Nerone credeva davvero di essere il miglior cocchiere e il miglior cantante; a Olimpia proibirà ai giudici di favorirlo. Ai giorni nostri, intorno al 1960, il principe della Cambogia Norodom Sihanouk vantava doti non inferiori: era il miglior scrittore, il miglior giornalista e il miglior cineasta del regno; aveva istituito a Phnom Penh un festi­ val cinematografico di cui riceveva ogni anno il primo premio. Il ditta­ tore coreano Kim Jong-il, secondo il suo sito internet ufficiale, è pilota di aerei da combattimento, scrive grandi opere e gioca a golf meglio dell’attuale campione del mondo. Un uomo che ha tutti i talenti pos­ siede anche questi. Ancorate alla loro epoca, queste megalomanie implicavano anche al­ cuni valori. Sihanouk incarnava e metteva al potere la cultura, sintomo di una nazione avvicinatasi da poco alla civilizzazione occidentale. Gli spettacoli che Nerone tanto amava, il teatro e le corse dei carri, erano greci, e innalzavano al potere i valori ellenici. Il neronismo rompeva con il vecchio e pesante passato romano183 per riallacciarsi alla grande civilizzazione senza età, sempre moderna perché vera. Inoltre, Nerone si rendeva popolare nella capitale incarnando con la sua figura non i 35

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pesanti doveri dei cittadini, ma i piacevoli valori della nuova età dell’o­ ro, la gioia collettiva degli spettacoli, il piacere pubblico, la laetitia pu­ bica, Vhilaritas. Tuttavia, tutto questo non impedì che i «Cesari pazzi» fossero desti­ tuiti e messi a morte, pur non macchiandosi di colpe particolarmente gravi. Sono ben lontani dagli autori dei massacri di massa del XX se­ colo, non si occupavano dei rapporti di classe e di produzione, sotto il loro regno l’impero continuava a girare, la macchina amministrativa e fiscale seguiva il suo solito corso. Le loro elucubrazioni riguardavano praticamente solo loro stessi, la loro cerchia ristretta e l’immagine del­ la loro persona, che avevano a cuore di far conoscere ai sudditi. Que­ sta immagine era l’unico vero scandalo. Entusiasmava i plebei della capitale, che consideravano il principe come cosa loro, divo amato e amorevole; le masse delle province, sempre un po’ all’oscuro, guarda­ vano a tutto questo docilmente e senza capirci nulla.1841 membri delle classi alte, invece, si sentivano gravemente colpiti, non nei loro inte­ ressi economici o politici, ma nell’idea che avevano della loro propria dignità: si sentivano sminuiti perché dovevano obbedire a simili buffo­ ni, per questo li destituirono o sollevarono assassini contro di loro. Ciò che l’individuo pensa di se stesso e della propria dignità può avere un peso politico tanto quanto interessi materiali. Per evocare, anche se velocemente, qualcosa che meriterebbe un ampio approfondimento, la politica imperiale si occupava di mantenere lo statu quo, di riparare le incrinature, i conflitti tra capi e tra gruppi dirigenti e l’idea che i go­ vernati si facevano di loro stessi, più che di grandi problemi, conflitti di classe e ideologie.

XV

La megalomania dei «Cesari pazzi» non era del tutto fuori luogo, non faceva altro che esagerare l’idea che le masse popolari avevano dell’im­ peratore. Ci accingiamo ad affrontare una questione difficile perché non abbiamo documenti e anche perché gli antichi non disponevano di parole e concetti idonei a descrivere ciò che provavano nei confronti dell’imperatore. Si è visto che, in linea teorica, il potere imperiale veni­ va da una delega, e non era niente più di questo agli occhi critici e diffi­ denti dei membri della classe dirigente, come Tacito, o dei letterati, co­ me Svetonio. Agli occhi dei semplici cittadini, però, l’imperatore non aveva nulla del mandatario. Come era visto, allora? Come l’uomo più ricco e più potente del mondo, secondo una mirabile e suggestiva pagi­ na di Filone185 che sostiene di conoscere quale fosse il sentimento po­ polare all’avvento di Caligola: tutti gli abitanti dell’impero, scrive, era­ 36

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no pieni di allegra ammirazione per l’erede di tutto quell’oro, di tutti quei fanti, cavalieri, marinai. Il prestigio dell’imperatore, il forte lega­ me che unisce a lui i suoi sudditi, il fondamento del suo potere sarebbe quindi, se crediamo a Filone, l’ammirazione suscitata da potenza e ric­ chezza: dell’aura che circondava gli imperatori egli ha colto quegli ele­ menti che la topica del suo tempo permetteva di decodificare, ovvero i tratti esteriori, oggettivi. L’immagine del sovrano che ne emerge è fuor di misura; è quella di una sorta di miliardario. L’unica altra topica di cui si disponeva per sondare il sentimento popolare nei confronti del potere monarchico si appellava al vocabolario religioso e descriveva per iperbole il principe come una sorta di dio. Oggi possiamo dire molto di più. Sentirsi membro di una colletti­ vità, qualunque essa sia (l’impero, ima Chiesa, un partito politico mili­ tante), comporta sempre un legame di attaccamento, di fedeltà, di amo­ re, di libera dipendenza dal capo da parte dei governati. Ma a una con­ dizione: che il capo non sia sentito come emanazione dei suoi sudditi, e sembri invece ricevere il potere solo da se stesso. Rifacciamoci nuova­ mente a Tocqueville: non si può ricevere l’investitura dai propri soste­ nitori e al contempo imporsi al di sopra di loro. Poco importa se in teo­ ria il potere venga attribuito come una delega o che un sovrano di fatto sia stato imposto da una camarilla o si sia autoproclamato: l’importante è che questa origine venga in un certo senso dimenticata e che agli oc­ chi della gente comune egli sembri regnare per diritto personale. Tale diritto gli può spettare in virtù del suo influsso carismatico, se ce l’ha, o dell’eredità familiare della corona, o, a Roma, per il semplice fat­ to di trovarsi sul trono e, come il re leone, di starci per una sorta di pre­ rogativa che solo lui ha. L’attaccamento alla figura del capo, quando questi regna grazie a un simile diritto soggettivo, non è il prodotto di una credenza inculcata da una qualche propaganda o dalla consuetudi­ ne, ma deriva in modo incondizionato dal patriottismo, dall’«istinto gre­ gario», dal sentimento di appartenenza a una collettività. Nella Gran Bretagna del XIX secolo, ogni patriota inglese considerava il suo re un grand’uomo e provava per lui una lealtà sincera e incondizionata. Pur non essendoci testimonianze esplicite, si può sostenere che un legame altrettanto immediato e naturale186 esistesse nell’impero romano tra gli imperatori e i loro sudditi, così come si può affermare con certezza che anche in quell’epoca il cielo fosse blu. Bisogna forse ricordare l’attacca­ mento dei cattolici per il papa? Il caso più eclatante è quello dei partiti socialisti e socialdemocratici nell’Europa dei primi del Novecento, che avrebbero dovuto rappresentare il compimento dell’illuminismo e della libertà, ma che avevano anch’essi il culto dei loro beneamati capi.187 L’iconografia imperiale era presente ovunque a Roma. Persino l’ar­ genteria da tavola188 era ornata da scene che esaltavano l’imperatore, la 37

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sua famiglia, le sue vittorie; sui dolci distribuiti alla popolazione dopo i sacrifici pubblici campeggiava l’imperatore (o il suo genius recante una cornucopia) che offriva un sacrificio davanti alle insegne militari.189 Un rituale della vita mondana consisteva nel dedicare, durante le cene, un brindisi al sovrano: il genius del principe regnante veniva acclamato con un «Viva l’imperatore!».190 Ci si entusiasmava al passaggio del si­ gnore in occasione del suo ingresso in una città, a Leptis Magna per esempio.191 Sabine MacCormack ha mostrato quanto fosse palpabile il consenso popolare in occasione di questi solenni ingressi (adventus) dell’imperatore, che veniva accolto e acclamato da tutta la popolazio­ ne.192 Ovunque nell’impero, dalla Gallia alla Siria,193 e per ben quattro secoli, vennero consacrati ex voto «per la conservazione [salus, soteria] dell’imperatore»: altrettante testimonianze di lealtà. Questa ammirazione virtuosa e leale non sa distinguere l’uomo dalla sua funzione. Ci si inchinerà, quindi, anche davanti all’individuo, alla sua famiglia, ai suoi capricci. Di rimando, la venerazione riservata a quello sarà tributata anche a tutti coloro che ricopriranno il suo ruolo dopo di lui. Gli imperatori così venerati non erano capi carismatici; per citare Fustel de Coulanges, non si provava per loro «quell’entusiasmo impulsivo che alcune generazioni hanno per i loro grandi uomini»:194 il principe poteva essere un uomo mediocre e tuttavia essere amato, ad­ dirittura adorato come una divinità. «Non era un dio in virtù del suo merito personale, ma perché era l’imperatore.»195 Occorre fare un passo in più? Durante l’Ancien Regime spesso, se non sempre, la relazione di libera dipendenza si tingeva di sentimenta­ lismo: il celebre «amore per il re». Gli abitanti dell’impero romano giunsero anch’essi a un simile livello di dedizione, a un amore che non è più semplicemente un affetto d’elezione ma un sentimento indotto dalla condizione di sudditanza, attraverso la stessa accettazione di un rapporto di dipendenza non prevista dai codici? Non è possibile una più ampia generalizzazione se non rifacendoci di nuovo all’Ancien Régime.196 Saint-Simon era troppo vicino al trono per essere tanto inge­ nuo, ma, in occasione di un malore di Luigi XV, «si sarebbero potuti trovare davvero nella capitale un migliaio di uomini abbastanza folli da sacrificare la vita per salvare quella del re», scrive un contempora­ neo che parla di questa follia come di una cosa poco sorprendente di cui si poteva essere certi senza averla vista di persona.197 Nella Roma imperiale, per un malore di Caligola, alcuni romani fecero voto offren­ do la propria vita in cambio della sua guarigione;198 un tribuno della plebe aveva fatto lo stesso per Augusto malato;199 ma questi fatti sono stati riportati dagli storici come episodi eccezionali.

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XVI

In ogni caso, devota o meno che fosse, la popolazione dell’impero ave­ va anche le sue buone ragioni. Approfondendo lo studio sulla plebe di Roma, vedremo in seguito che per una sorta di antiparlamentarismo es­ sa preferiva alla repubblica la presenza di un sovrano, perché quella del sovrano è ima figura patriarcale. Mentre l’imperatore si diceva re­ pubblicano e le sue monete celebravano la gloria dei romani, il suo po­ polo si sentiva monarchico. E, secondo lo stile monarchico, tutto quel­ lo che faceva l’imperatore passava per un «beneficio», una «grazia», frutto della sua «indulgenza», comprese le più banali formalità ammi­ nistrative, come accordare la pensione ai veterani; pensione che spetta­ va loro di diritto, ma che bisognava richiedere alla bontà del principe. Per citare Mireille Corbier, questa finzione, tratta dal vocabolario delle relazioni familiari, permetteva a un regime fondato sull’apparato mili­ tare di incontrare la società civile.200 Questa clausola di stampo monarchico è carica di significato, per­ ché, per un verso, la parola «beneficio» doveva essere presa alla lette­ ra. L’imperatore era un benefattore, e un beneficio è per definizione estraneo alla generalità anonima delle leggi e delle norme, poiché vie­ ne concesso a titolo personale. E infatti, senza entrare nei dettagli, Cesare era giudice supremo, perlomeno in appello: lui solo poteva ac­ cordare un qualsiasi privilegio e chiunque aveva il diritto di pregarlo, di rivolgergli una richiesta, un’istanza, di fare appello al suo tribuna­ le.201 Oltre le magistrature e oltre la legislazione, scrive Claudia Moatti, ogni uomo libero, cittadino o pellegrino che fosse, ogni città, ogni provincia poteva avere un rapporto diretto con il suo imperatore.202 La persona dell’imperatore era la sede di ricorso supremo in ogni questione e il suo rapporto con i sudditi era virtualmente personale. Le numerose richieste indirizzate al principe, sommo giudice e legi­ slatore, concernevano spesso questioni insignificanti; e questo mostra quale idea il popolo si facesse di lui:203 era il padre della patria, e il verbo del padre era l’ultima parola del diritto e della giustizia.

XVII

Le reali relazioni tra potere e popolo, però, dipendevano troppo spesso da una concezione militare imperium. In caso di una rivolta o di una sommossa cittadina, l’imperatore, si chiamasse Tiberio,204 Diocle­ ziano o Teodosio, poteva trattare i suoi sudditi, e persino i propri con­ cittadini, come gli Stati moderni trattavano gli indigeni delle colonie: inviava le truppe e queste facevano un massacro,205 prima di tutto col­ 39

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pendo al cuore la città nella persona dei suoi consiglieri municipali (po­ co importava se, a nostro modo di vedere, non erano in alcun modo coinvolti).206 Questo era talmente risaputo che in caso di sommossa tut­ ta la popolazione, senza distinzione tra ricchi e poveri, fuggiva dalla città verso le campagne circostanti, pronta a morire di fame, sfinimento o sotto le sciabole dei briganti.207 In circostanze ordinarie, l’esistenza non era certo migliore. L’impero, con la sua polizia politica e i suoi informatori, si presentava come quello che oggi chiameremmo un regi­ me di polizia in cui, sotto i principi più indulgenti, era opportuno evi­ tare di parlare di politica a tavola;208 i fatti raccolti da Ludwig Friedlan­ der in proposito sono eloquenti.209 Le istituzioni e i privilegi ereditati dalla città repubblicana si con­ traevano di fronte all’onnipotenza dell’imperatore, e mai a vantaggio delle popolazioni. Durante il secolo degli Antonini e della Pax Roma­ na, i tribunali con la giuria e il principio del contraddittorio hanno po­ co alla volta lasciato spazio, nel diritto civile come nel penale, alla giuri­ sdizione imperiale con la sua procedura inquisitoria, con i suoi delatori e le sue sentenze pronunciate dal giudice. La prospettiva rassegnata a una morte violenta era parte della men­ talità del tempo: la morte si aggirava per ogni dove nell’impero e tocca­ va tutti, grandi e piccoli.210 Abbiamo enumerato le continue usurpazio­ ni, la morte violenta che due volte su tre coglieva i principi, la legge della giungla vigente nella classe governante, il diritto di vita e di morte detenuto dall’imperatore, le truppe inviate contro le popolazioni, Vim­ perium che svuota di significato l’idea di un «diritto» penale; aggiun­ giamo le confische abusive, l’impunità con cui i latifondisti schiacciava­ no i piccoli proprietari, le prigioni private per i debitori, gli abusi di au­ torità da parte dell’amministrazione e di potere da parte dei potenti, il grado elevato di ferocia e di arbitrarietà delle repressioni giuridiche o politiche, le cacce ai maghi o agli adulteri, gli infiniti capitoli della ve­ nialità, della corruzione, degli stravolgimenti e degli squeezes nell’am­ ministrazione, nella giustizia e nella vita economica. Secondo alcuni storici, in ogni epoca si riscontra un margine inevita­ bile di abuso e dunque quelli citati non sarebbero altro che aneddoti. Noi crediamo piuttosto che non ci sia nulla di aneddotico e che una differenza di fondo separi le società moderne da quelle antiche in cui il supposto margine inevitabile si estendeva a quasi tutta la società civile, dal momento che il potere centrale nelle prime non scende nel partico­ lare e si limita a mantenere sotto la propria autorità le grandi entità ter­ ritoriali e sociali. Gli «abusi», le sacche di anarchia e di arbitrarietà fa­ cevano parte del funzionamento abituale della società. Non bisogna ri­ condurle a un ordine diverso da quello dello Stato, come, per esempio, al sistema della clientela; i patronati di cui parla Libanio,211 e che uno 40

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storico inglese definisce più giustamente protection rackets, non si ridu­ cevano a un patto di protezione dei piccoli contadini contro i latifondi­ sti: i soldati proteggevano i contadini sottoponendoli a un racket, alla maniera di un sindacato operaio gestito da gangster.

XVIII Agli occhi del popolo di Roma e dei greci, l’imperatore è un monarca, un basileus. Il legame del re con i suoi sudditi ha trovato suggello nel giuramento di dedizione alla persona del sovrano (e non alla repubbli­ ca e alle sue leggi). Ogni anno, infatti, tutti gli abitanti dell’impero, di Roma e delle province, prestavano giuramento all’imperatore;212 cia­ scuno prometteva di abbracciare senza riserve la causa del principe e della sua famiglia, di difenderli a costo della propria vita e di quella dei propri figli, di essere nemico di quanti loro considerassero nemici e di denunciare ogni azione, volontà o parola che fosse loro ostile. Non in­ tendo affermare che bastasse questo giuramento a condizionare l’atteg­ giamento delle masse, però è certo che poteva essere imposto solo a una popolazione incline alla monarchia. Ciò non ha niente a che vede­ re con il patronato, con la clientela: è un patto politico che lega incon­ dizionatamente i sudditi fedeli a una famiglia regnante, per la quale so­ no pronti a dare la vita, così come altri hanno il dovere di morire per la patria. Allo stesso modo vi sono sottesi il controllo delle coscienze e lo spirito di denuncia. A questo proposito, è bene ricordare che si vedono all’opera delatori già nel secondo decreto di Cirene,213 con il quale si denuncia al cospetto di Augusto un uomo che ha sottratto le statue del principe da un luogo pubblico. Questo decreto fornisce anche la prova di come le immagini imperiali fossero già ritenute sacre.214 Per le masse popolari, in maggioranza contadine, estranee alla città, il potere dell’imperatore è quello di un gigante la cui volontà è legge e il cui solo pensiero fa tremare. Libanio è eloquente: «Tra coloro che ignorano tutto dell’agorà, nessuno è tanto ardito da pretendere di esse­ re più forte della legge, e quando dico legge, intendo colui che l’ha fat­ ta; puoi forse credere, o imperatore, che degli uomini che tremano alla sola vista del mantello militare dell’esattore delle tasse possano disprez­ zare il tuo potere imperiale?».215 Quando si prova a farsi un’idea di questo potere lontano, ce lo si immagina come totale e semplice, e lo si percepisce come quella forma di comando che regola le relazioni nella vita quotidiana. «Fa’ il bene e ne avrai lode» se no userà la spada, scri­ ve san Paolo;216 certo, non capita tutti i giorni di venire condannati alla decapitazione dal governatore della provincia o dall’imperatore, né di ricevere «lodi» da lui in persona, ma questa esagerazione pone l’accen41

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to sul fatto che tutti gli obblighi e tutti i divieti erano percepiti come se fossero emessi direttamente dalla bocca dell’autorità, proprio come per un bambino scaturiscono dalla bocca del padre. «Tutti costoro vanno contro i decreti dell’imperatore, affermando che c’è un altro re»217 (ov­ vero Gesù), affermavano gli ebrei di Tessalonica contro san Paolo; chia­ ramente non esistevano editti del genere, ma si capisce bene quanto il mondo politico fosse semplice e come la volontà imperiale significasse tutto per il popolo. Difendere la patria, come diremmo noi, equivaleva a battersi al fianco dell’imperatore, non lasciarlo solo.218

XIX Resta il fatto che il potere imperiale era tanto lontano quanto smisurato e che, per la maggior parte degli uomini, rappresentava una grande idea piuttosto che una realtà quotidiana: «Combattere al fianco del­ l’imperatore» non andava mai oltre l’obbedire al centurione o al legato di una legione. Era un potere paragonabile a quello degli dèi: Cesare e gli dèi erano, a gradi diversi, esseri superiori e onnipotenti rispetto agli uomini comuni. Tale analogia - perché si trattava solo di un’analogia da cui nessuno si lasciava ingannare - offre la chiave di lettura di un fe­ nomeno che continua a essere discusso, ovvero il culto degli imperato­ ri vivi o morti: si credeva davvero che fossero degli dèi? Forse la que­ stione non è così semplice. Esistono diversi modi di credere, e il culto imperiale era una di quelle sincere commedie cerimoniali che pervado­ no la vita pubblica e privata; una cosa è il sentimento, un’altra le parole che questo utilizza per esprimersi, per esempio la parola «dio». Sull’uso della parola «dio» si può affermare categoricamente che mai nessuno, né tra le persone colte né tra il popolo, ha creduto che l’impe­ ratore fosse un dio nel senso stretto della parola (non più di quanto po­ tremmo crederlo noi). Era una forzatura del termine, plausibile nell’accezone più labile che il paganesimo aveva degli dèi. Le argomentazioni di Fergus Millar non sono convincenti219 e noi crediamo piuttosto a Bowersock: «Nessun essere pensante ha mai creduto alla divinità di un imperatore vivente e, benché potesse accogliere la divinizzazione di un imperatore morto, gli riusciva impossibile considerare un imperatore dio alla stregua degli dèi propriamente detti».220 È impossibile, ieri co­ me oggi, prendere un uomo per un essere immortale; assistendo per strada al passaggio dell’imperatore o vedendolo spettatore al circo, non si guardava a lui come a un dio vivente. Come dice sant’Agostino, il culto imperiale era adulazione, non fede.221 Le radici del culto imperiale, di cui riparleremo, sono sicuramente profonde ma falsamente religiose. Si trattava soltanto di un culto istitu­ 42

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zionale, al punto che le città greche avevano potuto divinizzare altre entità politiche; prima che la repubblica lasciasse il posto al regime im­ periale, era stato fondato il culto della dea Roma, del Popolo di Roma, dei «Romani benefattori comuni», della Pistis (ovvero la Fedeltà a Ro­ ma e la Buona Fede romana)222 e persino di alcuni governatori romani; e, allo stesso modo, sarà l’autorità imperiale, nella figura del principe, a essere divinizzata piuttosto che gli uomini in carne e ossa che si succe­ deranno sul trono, spesso fin troppo umani. Questo culto di carattere ufficiale non nasce da un sentimento «primitivo» o popolare, né dalla credenza in uomini dalla natura divina come Apollonio di Tiana o Ge­ sù di Nazareth; nonostante l’esistenza di aneddoti, come quello abusa­ to sul futuro imperatore Vespasiano che guarisce un malato,223 i princi­ pi non avevano niente di carismatico o soprannaturale, non erano tau­ maturghi e non guarirono nessuno. Cominciamo da un argomento schiacciante: sulle migliaia di ex voto latini e greci che leggiamo, non ce n’è uno solo alla divinità degli impe­ ratori;224 quando, in caso di viaggio, di parto, di smarrimento o di ima qualsiasi complicazione, si rendeva necessario un intervento sopranna­ turale, si faceva appello a un vero dio.225 Nelle lettere private su papiro solitamente l’intestazione era posta a seguito dell’invocazione a una di­ vinità, che non era mai l’imperatore.226 Si è obiettato che la mentalità di un tempo non corrisponde alla nostra, ma i fatti addotti sono facilmen­ te rovesciabili: se davvero gli imperatori fossero stati considerati alla stregua di dèi, non sarebbero stati designati con espressioni quali «il divo Augusto» o «il divo Adriano», dal momento che per quelli era d’uso dire semplicemente «Apollo» essendo la loro divinità inequivo­ cabile. Allo stesso modo, il fatto che si accordassero a un sovrano gli isotheoi timai, gli onori «pari a quelli degli dèi», implicava che egli non fosse un dio;227 se torni a combattere, gli Achei ti onoreranno come un dio (ison theoi), dice Fenice ad Achille nel libro IX dell’Iliade. I letterati facevano spallucce228 o sorridevano. Alcune pagine di Arriano si colorano consapevolmente di un complice umorismo: diventa­ to governatore di Cappadocia, Arriano invia ad Adriano i rapporti sul­ le coste del Mar Nero nella lingua e nello stile di Senofonte; senza la minima piaggeria, si rivolge al suo imperatore con il tono disinvolto di un degno elleno, sapendo di parlare a un uomo liberale quanto lui. E racconta con la massima semplicità all’imperatore di aver visitato un tempio in onore di Adriano divinizzato la cui dedica non era molto cor­ retta in greco, come del resto, scrive, ci si può aspettare dai barbari, e di aver lui stesso fatto un sacrificio alla divinità lì celebrata.229 Gli im­ peratori erano i primi a sorridere della loro divinizzazione, persino sul letto di morte: «Ahimè! Credo che sto per diventare un dio»,230 scher­ zava Vespasiano in punto di morte; e solo Caligola si immaginava che 43

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gli alessandrini lo considerassero realmente un dio, perché essi usavano e abusavano del linguaggio sacro che gli altri uomini riservano agli dei e lo facevano chiaramente, senza mezzi termini.231 Il culto imperiale è un falso mistero storico. Quello che ci sembra misterioso è che si sia potuto definire divino un uomo; per noi, cristia ni o postcristiani, «Dio» è una parola incommensurabile. Non era cosi prima del cristianesimo: allora questa parola designava un essere supc riore ai mortali, ma non trascendente come l’Essere dei monoteismi.2 Basterà un esempio: gli dèi erano maschi o femmine. Quando si pro­ nunciava la parola «dio» non si guardava all’infinito, ma si saliva solo di un grado; e allora definire divino un uomo era iperbolico, ma non assurdo. L’equivalente moderno dell’imperatore-dio è l’uomo di genio, quell’idolo moderno che è il «capo geniale», come Stalin o Ceau§escu. La consapevolezza dell’iperbole era tale da circoscriversi entro i li miti del saggio buonsenso; basti notare che l’imperatore era trattato come un dio, ma a distanza e in sua assenza. I sacrifici del suo culto non erano mai offerti al principe in persona, nemmeno al tempo di Caligola,233 ma a qualche dio per la salvezza del principe.234 E anche a palazzo l’imperatore non era un dio in terra, anzi, quello era prati­ camente l’unico luogo al mondo dove non ci fosse traccia del culto imperiale.235 In una parola, il culto imperiale si riduceva a un rituale iperbolico. La divinizzazione dei re ellenici e degli imperatori romani, che comin­ cia solo in epoca ellenistica, a partire da Alessandro Magno, è stata un’innovazione recente e «dall’alto», non un fenomeno arcaico, popo­ lare, profondamente radicato nell’età primitiva. Questa manifestazio­ ne di lealismo era decisa, istituita ed elaborata dalle autorità locali o regionali, dai notabili; era un prodotto dell’alta cultura,236 una figura retorica. Quest’iperbole,237 e la scienza del rituale238 che ostentava, ri­ velano l’intervento di letterati e di specialisti del culto. Allo stesso mo­ do, l’elevazione di Stalin a uomo di genio non venne dal sentimento popolare, ma fu opera dei propagandisti. Del resto, la cura di questo culto era nelle mani dei notabili: la gente comune non aveva né l’ob­ bligo né la possibilità di manifestare la propria dedizione239 (i culti pubblici, lungi dall’essere affare di tutta la città, erano generalmente riservati all’élite). Il popolino partecipava alle cerimonie solo come spettatore dei giochi, in particolare dei combattimenti di gladiatori, e la festa contava per lui tanto quanto lo zelo monarchico. Solo la classe governante e possidente ne era interessata; stava dalla parte del partito dell’ordine. Ma questo culto, per quanto invenzione dei notabili, era comunque una grande facciata ufficiale, un’istituzione pubblica: era questo, e non la fittizia divinità dell’imperatore, a renderlo uno strumento di potere. 44

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Del resto, divinità fittizia o meno, il popolo considerava comunque l’imperatore un essere di grande statura. Il suo culto, novità di cultura e di alta società, sfruttava umili e ingenue credenze, diffuse e sponta­ nee, sulla sublimità del potere sovrano. Negli immaginari popolari, i si­ gnori onnipotenti (almeno si credeva che lo fossero) avevano una certa affinità240 con gli dèi, invisibili come loro. Ma quando si fa ima stima di quanto in là poteva spingersi questa analogia, il culto imperiale cessa di sorprenderci. Ringrazio Christophe Goddard, le cui obiezioni aU’École frangaise di Roma mi hanno colpito e fatto riflettere. Tutto ciò che chiamiamo sentimento monarchico trova espressione qui nella libertà della retorica religiosa. Come con gli dèi, si ha con i re una relazione asimmetrica, eteronoma, fittizia, totale, lontana e poco concreta. Il re è di una statura superiore a quella degli uomini. Se si constata che, nella realtà, egli occupa la cima di una scala gerarchica di cui non è altro che il gradino più alto, questo gradino sembrerà essere di una natura diversa dai gradini inferiori, a cominciare dal secondo, quello del primo ministro. Come quella degli dèi, tale superiorità non è dovuta a un qualche merito particolare, a una virtù, al talento politico, ma è una caratteristica innata. Il fatto è che il re non è un uomo che vie­ ne investito del potere: come gli dèi, egli è il rappresentante di una spe­ cie peculiare e superiore, la specie reale; la sua persona è inseparabile dalla sua funzione, ecco un’altra caratteristica specifica. Sarebbe trop­ po poco dire che la sua legittimità non è riducibile al carisma personale di un dittatore o a quella di un magistrato che sottostà ai termini di una costituzione:241 egli regna in virtù della sua natura reale. Se un dio ri­ tornasse tra gli uomini, diceva Platone, nessuno all’infuori di lui po­ trebbe far loro da re. Non rispettare questo essere superiore era una bestemmia e come tale punibile. Nessuno lo ignorava: fl re era onnipo­ tente, ma lo era alla maniera della Provvidenza, che è ovunque, ma che opera in maniera non visibile. Come lei, il re regna, ma non governa, e il suo potere non si misura in base all’azione che esercita sulla sorte dei suoi sudditi, suscettibili piuttosto ai cambiamenti della società civile e ai poteri a loro più vicini, come il capo, la famiglia, il padrone. La po­ tenza del re, come quella della Provvidenza, è tanto assoluta quanto inafferrabile; non è lui che decide l’ammontare dei nostri salari. La sua è una figura splendida e temuta, ma lontana, come sospesa sopra le genti, e la sua autorità è presupposta, senza essere misurata in base al­ l’esperienza quotidiana dei sudditi. Non ci si domanda nemmeno se questo potere non sia più apparente che reale, se il primo ministro non sia più potente del re: si giudica in base al titolo. Insomma, il re occupa una parte importante nella visione del mondo; è l’uomo più in vista del­ 45

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l’impero, e la sua vita, come quella degli dèi, sta a cuore a tutti; anche l’ultimo dei sudditi dell’impero, nel profondo della Spagna e della Si­ ria, era a conoscenza dell’esistenza dell’imperatore, pur ignorando tal­ volta il nome di chi sedeva sul trono in quel momento. Se tale è stato il sentimento delle masse, si capisce come il culto imperiale sia potuto passare indenne attraverso il drammatico mezzo secolo che ha visto succedersi un numero di imperatori pari quasi a quello degli anni: a es­ sere celebrata era l’immagine della monarchia.242

XXI Se il lealismo poteva dunque essere letto come metafora della fede reli­ giosa, era perché tra il re e i suoi sudditi c’era una distanza, simile a quella che separava gli uomini dagli dèi pagani. Fino al XVIII secolo, il popolo e i suoi sovrani erano divisi dalla stessa asimmetria che separa «grandi» e bambini (dove i governati, come i bambini che vengono bat­ tuti, potevano subire punizioni corporali, torture e supplizi).243 In que­ sti tempi «infantili», non esistevano opinione pubblica o dibattiti poli­ tici;244 si potevano maledire il re e le tasse in un moto collerico, ma il popolo non discuteva di alta politica. Le affermazioni oltraggiose o bef­ farde che oggi noi potremmo scrivere o pensare sul nostro presidente della repubblica, meno di tre secoli fa ci sarebbero costate la libertà o la vita. In ogni caso, l’obbediente deferenza dei piccoli verso i grandi, nobili o notabili, avrà fine solo nel corso def XIX secolo. Eccoci di fronte a un piccolo terremoto della storia.

XXII Fermo restando quanto detto, il pensiero non è granitico: l’amore per l’imperatore non era monolitico come l’affetto di un cane per il suo pa­ drone; un filo di scetticismo e un sospetto di malafede lo accompagna­ vano in sordina. Più di una volta nel corso della storia si è guardato al re pensando che fosse solo un poveretto o che fosse vittima degli in­ ganni dei suoi ministri. Durante l’Ancien Régime, l’immagine reale ve­ niva «salvata» dalla persuasione che l’errore non fosse del re ma dei suoi ministri. La doppia immagine del sovrano è attestata ovunque, e anche in questo dobbiamo dare ragione a Wallace-Hadrill. Per i pagani l’imperatore era un essere superiore, e per i cristiani era sacratissimus, un capo cui accostarsi solamente in ginocchio, ma che in altre circo­ stanze era o doveva mostrarsi un principe buono, affabile e semplice; persino il rigido Costanzo II sarà onorato per la sua cordialità. 46

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Dal regno di Augusto a quello di Onorio fino a Bisanzio, si tennero cerimonie durante le quali l’imperatore si inginocchiava davanti al po­ polo romano riimito nel circo e gli inviava dei baci.245 A Roma il circo era il luogo in cui il popolo romano con grida, proteste, lazzi, poteva prendersi la rivincita sul suo signore, presente sotto gli occhi di tutti du­ rante le corse dei carri.246 La doppia natura del principe si rese palese in tutta la sua contraddittorietà in occasione della visita di Costanzo II a Roma nel 357. H sovrano fece il suo ingresso in città su un carro dorato e mantenne per tutto il percorso un atteggiamento ieratico e un’immo­ bilità statuaria; ma una volta nel circo «si divertiva per i motteggi della plebe, che non si mostrava né superba, né lontana dalla libertà [libertas] d’espressione ormai connaturata; e lui stesso si attenne con rispetto alla dovuta misura»,247 tra alterigia e familiarità. Una giusta misura che Giu­ liano, troppo filosofo, non seppe mantenere; si vantava di parlare da pa­ ri a pari con tutti e di «mischiarsi ai suoi sudditi». E quando fece di An­ tiochia la sua capitale, alcuni manifestanti approfittarono della tradizio­ nale licenza dei Saturnali o delle feste in celebrazione del nuovo anno per urlare contro al principe gli insulti più violenti.248 In effetti, l’idea che ci si faceva del principe era ambivalente. Da un lato, era un essere notevole, venerato e amato come il re delle canzoni popolari francesi, dall’altro incarnava il governo di cui, come dimostra­ no le nostre conversazioni da bar, non si ha mai da dir bene, non fosse altro perché bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare. Stessa dualità si può riscontrare persino nell’antico Egitto, dove il faraone era al tem­ po stesso dio in terra e despota, figura a cui i racconti popolari attribui­ vano un ruolo poco rispettabile e addirittura ridicolo.249 Concludiamo allora con due argomenti di conversazione da taverna, cari agli antichi. Gli agricoltori e i marinai, scrive Epitteto,250 maledico­ no Zeus quando c’è cattivo tempo, così come non si smette mai di par­ lar male di Cesare; Cesare non lo ignora, tuttavia sa anche che, se casti­ gasse tutti quelli che lo maledicono, spopolerebbe il suo impero. Ma al­ meno i sudditi di Cesare sapevano fare distinzioni tra i loro imperatori? Non erano sempre gli stessi e non era forse sempre la stessa vita? Dalla lontana Cirenaica, Sinesio, verso il 405, scrive a un amico: «Non si du­ bita affatto dell’esistenza di un imperatore, giacché ci sono gli esattori delle tasse a ricordarlo ogni anno, ma della sua identità non si è altret­ tanto sicuri. C’è tra noi qualcuno convinto addirittura che a regnare sia ancora Agamennone» 251 Sinesio aveva delle ragioni personali per tro­ vare clie i principi fossero troppo lontani,252 ma quanto dice non è sba­ gliato: per i sudditi l’imperatore era solo un oggetto di venerazione e una fonte di impotente malumore; un po’ come la schiera di «quelli» che popolano le nostre conversazioni al bar, nelle quali ci lamentiamo del governo e dei politici. 47

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I miei ringraziamenti vanno all’attore Michel Piccoli, allo storico Christophe God­ dard e al sociologo Jean-Claude Passeron. L’analogia tra cesarismo e califfato è profonda: si veda G. Dagron, Empereur et Prétre: étude sur le «cesaropapisme» byzantin, Paris 1996, pp. 70-73. La somiglianza con il sultanato ottomano è impressionante: la medesima fittizia scelta del sultano da parte della comunità, rappresentata da alti dignitari militari e religiosi, il medesimo rischio di guerra civile a ogni cambio di regno; si veda N, Vatin e G. Veinstein, Le Sérail ébranlé: essai sur les morts, dépositions et avènements des sultans ottomans, Pa­ ris 2003. G. Dagron, Empereur et Prétre, cit., p. 72. In linea di principio, ma l’inerzia e la negligenza facevano sì che non sempre il suc­ cessore si prendesse la pena di rinnovare le decisioni e che le ritenesse ancora vali­ de: M. Hammond, The Antonine Monarchy, Rome 1959, pp. 339-345. T. Mommsen, Staatsrecht, II, 2, p. 911. Plinio, Panegirico, XXIV, 5 {ante te principes), e XXVIII, 3 {antea principes)', Liba. nio, disc. XXX, 6-7 (In difesa dei templi), G. Dagron, Empereur et Prétre, cit., p. 70, cfr. p. 72. John Scheid in E Jacques e J. Scheid, Rome et Tintégration de l’Empire, Paris 1990, I, p. 29 (trad. it. Roma e il suo impero: istituzioni, economia, religione, Laterza, Roma-Bari 2005). J. Béranger, Recherches sur I’aspect idéologique du principat, Bàie 1953, p. 272, La prima eccezione sarà il prefetto del pretorio Macrino nel 217, ma, come prefet­ to, aveva senz’altro ricevuto gli ornamenta consularia\ cfr. Corpus Inscriptionum Latinarum (CIL), XV, 7050: «Pr[aefecti] pr[aetorio], diarissimi] v[iri]». E. Flaig, Den Kaiser herausfordern; die Usurpation im Romischen Reich, Frankfurt 1982, p. 190, n. 40. Vedremo in seguito che una legge non scritta escludeva dal trono ogni uomo di origine ellenica. Nel IV e V secolo, un’altra legge non scritta escluderà dal trono tutti i generali di origine germanica, da Bautone o Stilicene a Ricimero o Addoga­ ste, che creavano imperatori fantoccio per governare nell’ombra. E. Stein, Histoire du Bas-Empire, Amsterdam 1968,1, p, 1, Vespasiano dichiarò al Senato che avrebbe avuto come successore Ì suoi figli o nes­ sun altro (Svetonio, Vespasiano, XXV). Plinio, Panegirico, VII, 7; XCIV, 5 (ed. it. Lettere ai familiari. Carteggio con Traia­ no. Panegirico a Traiano, trad, di Luigi Rusca e di Enrico Faelli, Bur, Milano 2000, vol. II, p. 941): che Traiano designi come successore un figlio naturale o adottivo. Tacito, Storie, 1,16: «Unius familiae quasi hereditas fuimus». U trono spettava all’ultimo sopravvissuto di una famiglia, anche se questi passava per incapace (Claudio) o era un principe sospetto e quasi dimenticato (Giuliano). Furono i pretoriani a far uscire Claudio dal suo nascondiglio per farlo imperatore. R. Syme, Tacitus, Oxford 1963,1, p. 234 (trad, it. Tacito, Paideia, Brescia 1971). Come scrive Gibbon a proposito della salita al trono di Arcadio e Onorio, «il peri­ coloso esempio di una nuova elezione non venne ad avvertire il popolo e i soldati dei loro diritti e della loro potenza». R.R.R. Smith in «Journal of Roman Studies» (JRS), 87,1997, p. 180. G. Dagron, Empereur et Prétre, cit., pp. 42-43, in riferimento alla trasmissione del potere presso gli imperatori bizantini. F. Hurlet, Les Collègues du prince sous Auguste et Tibère: de la légalité républicaine à la légitimité dynastique, Rome 1997, p. 546. Prima del 180, Pertinace fu legato nelle Tre Dacie, Didio Giuliano in Dalmazia. 48

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Quanto a Pescennio Nigro e Clodio Albino, futuri rivali di Settimio Severo, anche loro comandavano sul Danubio almeno dall’inizio del regno di Commodo. Alla fi­ ne del II secolo, esisteva una sorta di diritto ad aspirare al trono per i capi di que­ sto esercito, diritto conquistato durante le dure guerre di difesa di quei decenni, Tacito, Storie, 1,17: quando Galba adotta Pisone crea un futuro imperatore, il suo successore. Ma ancora bisogna annunciare l’adozione agli interpreti del consenso, ovvero far accettare Pisone come successore, presentarlo al popolo romano (ossia ai comizi), al Senato e all’esercito. Da chi cominciare? Dall’esercito, rappresentato dai pretoriani che si trovano sul posto, nella stessa Roma: i soldati saranno sensibi­ li al fatto che si sia iniziato da loro. J. Burckhardt, Die Zeit Constantins des Groften, Wien 1949, p. 243 (trad. it. Letà di Costantino il Grande, Sansoni, Firenze 1957). Tanto che, durante l’impero, un membro della famiglia regnante può essere più popolare dell’imperatore; è il caso di Druso e dei suoi discendenti sotto i GiulioClaudi. Ne consegue che l’imperatore si sente minacciato dai suoi stessi parenti; Costantino farà uccidere il figlio Crispo, troppo popolare. La domus divina ha acquisito rapidamente la stessa «maestosità» dell’imperatore; una principessa imperiale adultera e il suo complice si macchieranno quindi di alto tradimento (da cui già l’esilio delle due Giulie, figlia e nipote di Augusto; è anche la spiegazione più semplice per l’esilio di Ovidio). Si veda M. Corbier, «Maiestas domus Augustae», in G. Angeli Bertinelli e A. Donati (a cura di), Atti del colloquio intema­ zionale di epigrafia, Bertinoro, 8-10 giugno 2000, Faenza 2001, p. 155. Al contrario, i fratelli dell’imperatore non hanno alcun privilegio se non sono principi di sangue. Lucano, IV, 821 (ed. it. Farsaglia o la guerra civile, trad, di Luca Canali, Bur, Mila­ no 2002, p. 297). R. Syme, The Augustan Aristocracy, Oxford 1986, cap. XIII (trad. it. L'aristocrazia augustea, Bur, Milano 1993). Plutarco, Vita di Demetrio Poliorcete, III, 5; Agrippa Postumo fu assassinato da Tiberio; Tiberio Gemello da Caligola; Silano, Rubellio Plauto e Cornelio Siila (tutti e tre appartenenti alla gens giulia e, quindi, potenziali usurpatori) da Nero­ ne. Claudio non aveva nessuno da uccidere: era l’ultimo dei Claudi e, dalla parte del suo defunto fratello Germanico, sopravvivevano solo tre donne (tra cui Agrippina). Sul consenso, L. Wickert nel grande articolo «Princeps» della Realencyclopàdie di Pauly-Wissowa, col. 2264-2269. E. Flaig, Den Kaiser herausfordern, cit., pp. 196201 e 559-560 (fondamentale). Sulle manifestazioni provinciali del consenso, F. Hurlet in H. Inglebert (éd.), Idéologies et Valeurs civiques dans le monde romain: hommage à Claude Lepelley, Paris 2002, pp. 170-173. Augusto, Res gestae, 34; Tacito, Storie, I, 30,2; Svetonio, Caligola, XIV, 1 (assenso unanime del Senato e del popolo di Roma). Plinio, Panegirico, X, 2: «Oltre ciò tu intendevi che volevi che v’era il consenso del Senato e del popolo: l’elezione tua non fu un giudizio e una scelta del solo Nerva. Poiché quanti uomini sono al mondo ciò sospiravano coi loro voti: egli, solamente, usando il diritto di Principe, precedette tutti, e fu il primo a fare quello che tutti stavano per fare. Né certamente questo avrebbe arrecato a tutti tanto godimento, se non fosse stato desiderato prima che avve­ nisse» (ed. it. op. cit., p. 949). Pseudo-Elio Aristide, XXXV, 5-7: un imperatore ottiene il potere sia perché è stato scelto da alcuni - e allora è un’imposizione sia dal suo predecessore - ma allora si tratta solo di un fatto di successione fa­ miliare, di eredità. Mentre il principe sconosciuto (Filippo l’Arabo, Gallieno), elogiato dal nostro retore anonimo è diventato principe «per richiesta di tutti» e

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«si è dato a coloro che lo richiedevano e lo invocavano»; e a ragione: «L’onore della regalità gli era dovuto da sempre, per via della sua virtù». Certo, «il con­ senso unanime può essere dovuto alla paura, al rispetto per l’autorità, o, come in questo caso, alla scelta migliore e più legittima»; prova ne è che il nostro prin­ cipe non è salito al trono dopo una guerra civile. G. Dagron, LEmpire romain d’Orient au quatrième siede et les traditions politiques de l’hellenisme: le témoignage de Thémistius, Centre de recherche d’histoire et civi­ lisations byzantines, «Travaux et mémoires», 3, 1968, p. 136. T. Mommsen, Staatsrecht, II, 2, cit., p. 1133: «Nicht bloiS praktisch, sondem auch theoretisch eine [...] rechtlich permanente Revolution». L. Wickert, «Princeps», cit., col. 2290-2293. Qualche eccezione unicamente presso Ammiano Marcellino, ma in un senso molto particolare. E. Flaig, Den Kaiser herausfordern, cit., p. 559: «L’ideologia del principato mette il puro e semplice consensus universorum alla base della sovranità. Il contenuto poli­ tico del consenso consiste giustamente nel non piegarsi a nessun criterio di legitti­ mazione, e questo in virtù dell’idea stessa di consenso, poiché il consenso è quello di più gruppi senza che venga istituito quale sia il gruppo in grado di fondare ogni volta il nuovo consenso. Non era istituito niente di simile, non poteva esserci un criterio univoco di legittimità». Questo titolo non si riferisce, come si è a lungo supposto, dP imperium proconsular re del diritto pubblico; da Claudio o Vespasiano significa semplicemente che l’e­ sercito avanza o impone la candidatura di uno dei suoi capi (A. Pabst, Comitia im­ perii: ideelle Grundlagen des romischen Kaiserturns, Darmstadt 1997, pp. 156-178, in particolare pp. 158-163). Sappiamo che i Severi prenderanno come dies imperii il giorno della loro proclamazione da parte dell’esercito. E. Flaig, Den Kaiser herausfordern, cit., pp. 555-560, con la discussione sulla «clau­ sola transitoria» della lex de imperio, T. Mommsen, Staatsrecht, II, cit., pp. 874-875. Ibid.,?. 1133. In realtà, i comizi minori non sono che una finzione cerimoniale, ed è il Senato ad aver ratificato praticamente tutto; tanto che, per semplificare, un documento falso della Storia Augusta, Alessandro Severo, Vili, 1 dirà che il Senato stesso ha «con­ ferito» il potere proconsolare e il potere tribunizio al nuovo principe. Quello che gli Atti dei fratelli Arvali {Commentarli fratrum Arvalium qui supersunt: les copies épigraphiques des protocoles annuels de la Confrérie Arvale, éd. J. Scheid, Rome 1998) chiamano comitia tribunicia o trihuniciae potestatis e comitia pontificatus maximi. T. Mommsen, Staatsrecht, II, 2, cit., p. 1133: «La volontà del popolo è giustificata sempre e ovunque, mentre l’autentica volontà della collettività si manifesta attra­ verso il diritto del più forte. Non solo in pratica, ma anche in teoria, il principato è un’autocrazia temperata da una rivoluzione che è legalmente permanente». John Scheid in F. Jacques e J. Scheid, Rome et ['integration de l'Empire, cit., I, pp. 22-25, prospettiva personale dell’attuale stato della questione. Cassio Dione, LXXX, 2,3, a proposito di Elagabalo. E. Flaig, Den Kaiser herausfordern, cit., pp. 197-201. Plinio, Panegirico, X, 2: Traia­ no è stato scelto dalla totalità della popolazione {«Qui ubique sunt homines»), per­ ché Nerva non aveva fatto che servirsi del diritto del principe per essere il primo a fare ciò che tutti avrebbero fatto. Come scrive Angela Pabst, Comitia imperii, cit., p. 118, il fatto (supposto) del consenso è più importante delle forme che riveste. Un tiranno usurpa il tanto ambito titolo «nell’ultimo angolo della terra, all’insapu­ 50

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ta delle legioni, contro il desiderio delle province»: Panegirici latini, XII, 31, 2 (Teodosio) (ed. it. Panegirici latini, a cura di D. Lassandro e G. Micunco, Utet, To­ rino 2000, p. 493). E. Flaig, Den Kaiser herausfordern, cit., p. 126. Sulla politicizzazione del popolo di Roma durante l’impero, nonostante quanto so­ stiene Giovenale, si veda in seguito il capitolo 3. M.I. Rostovtzeff, The Social and Economie History of the Roman Empire, Oxford 1957 (trad. it. Storia economica e sociale dell’impero romano, Sansoni, Milano 2003). Svetonio, Domiziano, XXIII, 1: «Nisi duces defuissent»', Cassio Dione, LXVII, 15, 2. Filostrato, Vite dei sofisti, (p. 488, Olear) Secondo la testimonianza di Tacito, Storie, III, 3,1, in occasione di una riunione di alta politica, «i centurioni ed alcuni soldati erano presenti al consiglio» (ed. it. Sto­ rie, trad, di Felice Dessi, Bur, Milano 1999, vol. II, p. 443). Nel Per il VI consolato di Onorio, 5-10, Claudiano non dice che Onorio ha fatto ri­ nascere i comizi del popolo romano, ma che li ha rinnovati, restituendo loro la se­ rietà, e che ormai la plebe occupa lo stesso posto dei soldati. A. Pabst, Comitia imperii, cit., pp. 1-32 (comitia purpuraèp, sul consenso dei solda­ ti, p. 24. Panegirici latini, XH, 31,2: «Omnium suffragio militum, consensu provinciarum». San Gerolamo, Lettere, 146,1, citato da A. Pabst, Comitia imperii, cit., p. 17. La testimonianza di Claudiano, citata sopra, mostra che quanto ai comizi si può dar credito a Storia Augusta e Tacito, VII, 3. R. Syme, Tacitus, cit., p. 412. Ibid., p. 370 e 410. Sul rifiuto del potere, J. Béranger, Recherches sur I’aspect idéologique du principat, cit., p. 137; A. Wallace-Hadrill, «Civilis princeps»: between Citizen and King, «JRS», 72,1982, p. 37, mostra che la commedia della recusatio si spingeva ancora oltre: «It was a ritual performed throughout the reign of each empe­ ror, in an astonishing variety of contexts». M. Bloch, La Sociétéféodale, II: Les Classes et le gouvernement des hommes, p. 153 (trad. it. La società feudale, Einaudi, Torino 1999). Si veda, per esempio, S. Elbern, Hsurpationen im spdtromischen Reich, Bonn 1984, p. 136. Quella di Atilio Tiziano e quella di Cornelio Prisciano (Storia Augusta, Antonino Pio, VII, 3-4, confermate dall’epigrafe). Durante il regno di Gallieno ci furono continui tentativi di usurpazione (Ammiano Marcellino, XXI, 15). K. Strobel, Das Imperium Romanum im 3. Jahrhundert: Modell einer historischen Krise?, Stuttgart 1993, p. 296 (di cui sono venuto a conoscenza grazie a Paul Zanker). Tutt’al più si lamenteranno in segreto della sua goffaggine o accuseranno i ministri del re, cattivi reggenti del dominio, e spingeranno discretamente il reggente più abile verso il ministero. Questa parola aveva due significati (C. Wirszubski, Libertas as a Politicai Idea, Cambridge 1950, p. 168, [trad. it. Libertas; concetto politico di libertà a Roma tra repubblica e impero, Laterza, Bari 1957]; J. Béranger, Recherches sur I’aspect idéologique du principat, cit., p. 269): in primo luogo indicava l’interesse per quel tutto che era la collettività - fermare un’invasione barbarica voleva quindi dire servire la repubblica; in secondo luogo si riferiva alle istituzioni tradizionali. Sui significati delle parole res publica, C. Moatti, Res publica et droit dans la Rome 51

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républicaine, «MEFR» (Moyen Age), 113,2001, p. 811. Ristabilire la res publica è un tema di propaganda: la repubblica è stata restaurata (revocata) da Augusto, scri­ ve Velleio Patercolo, II, 89, 3. Ma, in pratica, questo significa anche che venivano conservate le istituzioni repubblicane (consolato, magistrature e promagistrature) che costituivano un po’ l’ortografìa del nome romano, il volto di Roma, e che le fa­ miglie senatoriali mantenevano il loro ruolo di classe dirigente. Tale restaurazione, quindi, non ebbe nulla della finzione ingannevole (J. Bleicken, Verfassungs- und So­ zialgeschichte des romischen Kaiserreiches, Schoningh 1981,1, p. 84). D. Fustel de Coulanges, Histoire des institutions politiques de l’ancienne France, I: La Gaule ro­ maine, Paris 1901,1, p. 150, n. 6: «Alcune menti superficiali non hanno mancato di dire che Augusto e i suoi successori mantennero la parola repubblica per inganna­ re meglio gli uomini. È un modo comodo, ma puerile, di spiegare gli atti imperiali. In storia, bisogna tenere in gran conto le idee degli uomini; Augusto e i suoi suc­ cessori, per almeno tre secoli, lasciarono che l’idea di repubblica sussistesse per la sola ragione che tale idea dominava nelle loro menti come in quella dei contempo­ ranei». F. Burdeau, «L’impereur d’après les panégyriques latins», in F. Burdeau, N. Charbonnel e M. Humbert, Aspects de l’Empire romain, Paris 1964, pp. 45-46. J. Bleicken, Verfassungs- undSozialgeschichte des romischen Kaiserreiches, cit., I, p. 278. Tacito, Storie, II, 72 (ed. it. op. cit., vol. 1, p. 385): «In Istria [...] c’erano delle tenu­ te e dei clienti dei vecchi Crassi e il loro nome vi era popolare». Questo fatto non era riservato all’ordine senatoriale: nel 69, un ex tribuno dei pretoriani e procura­ tore imperiale trascina nel partito dei Flavi la sua città natale, Fréjus (Forum lulii) che gli era assolutamente devota «per spirito municipale e per speranza di una sua futura potenza» (Storie, III, 43 [ed. it. op. cit., vol. II, p. 511]). Si confronti una pagina di J. Schumpeter, Impérialisme et Classes sociales, Paris 1972, p. 101. Su questo compromesso, J. Bleicken, Verfassungs- und Sozialgeschichte des romi­ schen Kaiserreiches, cit., I, p. 27; D. Kienast, Augustus Prinzeps und Monarch, Darmstadt 1982, p. 78. E imperium, questo potere assoluto, assomiglia al comando militare. I magistrati dotati di imperium e l’imperatore si arrogavano il diritto di punire chi disobbediva; un delitto era infatti anche una disobbedienza (T Mommsen, Staatsrecht, I, cit., p. 137). Il popolo romano e il Senato si attribuivano, o si suppone che si attribuisse­ ro, dei capi, non dei rappresentanti. L’assolutismo è inerente allo spirito romano. Una volta che il potere pubblico è stato assegnato a un personaggio, imperatore o governatore di provincia, diviene assoluto, completo, inappellabile, praticamente illimitato, diritto di vita e di morte compresi. Per convolare a giuste nozze con Agrippina, di cui è lo zio paterno, Claudio ha bi­ sogno di un senatus consultum che renda questo genere di unioni legali per tutti (M. Kaser, Das romische Privatrecht, Munchen 1971,1, p. 316 e n. 62). Giustiniano farà una legge per poter sposare l’attrice Teodora (Codice giustinianeo, V, 4,23). Claudio non aveva bisogno dell’approvazione del Senato per farvi entrare dei no­ bili gallici; ma nell’interesse dei suoi protetti gallici ha voluto rendere i senatori te­ stimoni e complici forzati (R. Syme, Tacitus, cit., pp. 459-460) di una politica gene­ rosa che offendeva il loro snobismo. Nella nuova Cambridge Ancient History, XI: The High Empire, Cambridge 2000, p. 235. Si discute sulla portata della «clausola d’iniziativa» della lex de imperio Vespasiani,

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secondo cui Augusto aveva il diritto di fare tutto ciò che era nell’interesse della re­ pubblica e che metteva in gioco l’interesse superiore delle cose divine e umane, pubbliche e private. Diritto di iniziativa universale, compreso in materia di leggi? Diritto di iniziativa in caso di stato di allerta? Nelle Istituzioni di Giustiniano, II, 23,1 e 25,1, l’esempio dei fidecommessi è sor­ prendente e rende chiaro quale fosse il clima dell’epoca augustea, al di là delle di­ scussioni sui poteri di Augusto. Preoccupandosi di lasciare ai senatori il loro ruolo, egli domandò (in virtù del suo potere tribunizio?) ai consoli di imporre (con che diritto?) la loro autoritas Lrir] in un caso singolo di fidecommesso non rispettato, su cui un cittadino privato l’aveva pregato di intervenire (con che diritto?). Sugli inizi della cognitio extra ordinem si veda M. Kaser, Das romische Zivilprozessrecht, cit., p. 354 e n. 3 e p. 340 e n. 11. Già al tempo di Siila, nell’83, le persone tendeva­ no a chiedere giustizia rivolgendosi a chiunque detenesse un potere eccezionale (F. Millar, The Emperor in the Roman World, New York 1977, p. 520). I provinciali considerano l’imperatore come un sovrano onnipotente; nel 29, un pescatore di Gyaros si reca da Ottaviano per chiedergli uno sgravio tributario (Strabone, X, 5, 2, p. 458, citato da A. Linott, Imperium Romanum, Politics and Administration, London 1996, pp. 112-116). M. Kasar, Das romische Zivilprozessrecht, cit., pp. 342 e 354. Cassio Dione, LUI, 17,6, non senza le osservazioni di Mommsen (Staatsrecht, II, 2, cit., pp. 959-960 e n. 3), il quale suppone che una legge speciale avesse accordato ad Augusto un tale diritto su cavalieri e senatori all’interno del pomerio; in realtà, la precisione della formula di Cassio Dione fa pensare che la disposizione fosse un pezzo preciso del puzzle giuridico dei poteri imperiali. Infatti non è chiaro come il potere tribunizio e 1’imperium maius potessero attribuire questo diritto al principe persino a Roma. Questo pezzo isolato del puzzle basta a suggerire quanto sia in­ certa e vaga la nostra conoscenza del diritto pubblico a riguardo dei poteri del principe. F. Millar, The Emperor in the Roman World, cit., p. 527: «Qualunque sia la giustifi­ cazione legale, se ne esiste una, il potere del principe di infliggere la morte, la con­ fisca o l’esilio è, dagli inizi del principato, parte integrante del suo ruolo». I nipoti di Giuda, «fratello suo [del Signore] secondo la carne» scrive Eusebio (Storia ecclesiastica, III, 20 [ed. it. Storia ecclesiastica, trad, di F. Maspero e M. Ceva, Rusconi, Milano 1979, p. 184]), il cui vocabolario distingue nettamente tra i fratelli del Signore e i suoi cugini. Tacito, Annali, XIII, 4, 2; Cassio Dione, LXI, 3,1; Plinio, Panegirico, LXVI, 2,3; Codice teodosiano, Novelle di Maggioriano, 1. Libanio, disc. 1,99 (Autobiografia). Ma è valido anche per i secoli precedenti. Velleio Patercolo, II, 119, citato da Y. Rivière, Les Délateurs sous l’Empire romain, Rome 2002, p. 225. T. Mommsen, Strafrecht, p. 264: «Der Kaiserprozess ist in der Tat die Handhabung des Kriegsrechts»; cfr. pp. 43 e 547. Y. Thomas, «Les procédures de la majesté: la torture et l’enquéte depuis les JulioClaudiens», in M. Humbert e Y. Thomas (éd.), Mélanges à la mémoire de André Magdelain, Paris 1999, p. 481. R. Syme, The Augustan Aristocracy, cit., p. 448. P.A. Brunt, The role of the Senate in the Augustan regime, «Classical Quarterly», 34,1984, in particolare p. 444. A. Wallace-Hadrill, «Civilis princeps»: between Citizens and King, «JRS», 72, 1982, pp. 32-48. P. Veyne, Le Pain et le Cirque, Paris 1976 (trad it. Il pane e il cir­

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co, il Mulino, Bologna 1984, p. 643): «Il cesarismo era fondato su un’assurdità: l’imperatore, per quanto sovrano per diritto soggettivo, era creato dai suoi sud­ diti». A. de Tocqueville, La democrazia in America, Bur, Milano 1992, p. 128. Formalmente attestato da Cassio Dione, LUI, 20,4. Nelle iscrizioni, a partire dai Severi, ogni volta che una dedica imperiale non è ope­ ra di un semplice cittadino privato, ma di un personaggio (CIL, XII, 1831, per esempio) o di un corpo costituito, fosse anche un semplice collegio di artigiani, tale persona fisica o morale si dice