L''impero greco-romano. Le radici del mondo globale 9788817034616

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L''impero greco-romano. Le radici del mondo globale
 9788817034616

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PAUL VEYNE

L’IMPERO GRECO-ROMANO Le radici del mondo globale

Per Damien Veyne

Proprietà letteraria riservata © Éditions du Seuil, octobre 2005 © 2007 RCS Libri S.p.A., Milano ISBN 978-88-17-03461-6 Titolo originale dell’opera:

L'empire gréco-romain Traduzione di Sara Arena, Laura Cecilia Dapelli, Silvia Stucchi Edizione italiana a cura di Silvia Bellingeri Prima edizione Rizzoli novembre 2007 Prima edizione BUR Storia agosto 2009 Per quanto riguarda le citazioni tratte da autori classici greci e latini ci si è serviti delle traduzioni moderne in circolazione, come indicato dai riferimenti in nota. Qualora nella nota corrispondente non comparisse alcun riferimento a edizioni ita­ liane si deve ritenerle tradotte direttamente dall’originale di Veyne, scelta volta a non alterare l’interpretazione e le considerazioni dell’autore.

Per conoscere il mondo BUR visita il sito www.bur.eu

Prefazione

Perché questo titolo, L’impero greco-romanoì Innanzitutto, perché il cosiddetto impero romano fu un impero bilingue. La lingua vernacola­ re, o veicolare, in uso nella metà occidentale era il latino, mentre nell’a­ rea del Mediterraneo e nel Vicino Oriente si parlava greco. E la stessa cultura materiale e morale di Roma è nata da un processo di assimila­ zione di quella civiltà ellenica che, dall’Afghanistan al Marocco, era la cultura «globale» dell’epoca in quell’angolo di mondo; «la Grecia con­ quistata conquistò il suo feroce vincitore portando nel Lazio contadino le sue arti» dice un famoso verso di Orazio: il popolo di Roma ha avuto per cultura la cultura di un altro popolo, il popolo dell’Ellade. Tanto che, a loro volta, i romani ellenizzati hanno poi ellenizzato, per mezzo del latino, l’Occidente conquistato nel corso degli ultimi due secoli pri­ ma di Cristo. La Gallia romana per esempio venne ricoperta di monu­ menti in stile corinzio e nelle scuole delle città si insegnavano la retori­ ca e la filosofia, greche nel nome e nei contenuti. I dettagli però non devono impedire la visione d’insieme; l’Occidente latino era greco tan­ to quanto il moderno Giappone è occidentale. L’elemento culturale comune a tutte le regioni dell’impero, tra cui Italia, Gallia, Africa, Egitto, fu appunto la compartecipazione alla cul­ tura greca, alla lingua e ad alcuni aspetti particolari della religione. Ma l’impero si poteva definire greco-romano anche per un altro mo­ tivo: se la cultura era ellenica, le forme di potere (così come il diritto) erano romane. Tuttavia è bene ricordare che acculturazione e identità sono cose ben distinte: i giapponesi occidentalizzati continuano a rite­ nersi giapponesi, proprio come i romani ellenizzati erano orgogliosi della propria romanità. Eppure l’impero non si limitava a Roma e ai territori circostanti; nei primi cinque secoli della nostra era il suo dominio si estendeva su una superficie pari a cinque milioni di chilometri quadrati, oggi occupata da trenta nazioni diverse, le cui regioni più ricche erano quei territori dove ora si trovano la Tunisia, la Siria e la parte asiatica della Turchia. Ci è concesso ipotizzare che quanto accadeva in uno di questi territori, 7

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si trattasse della Scozia o delle terre dove scorreva l’Eufrate, rivestisse altrettanta importanza e interesse di quanto accadeva presso i romani di Roma. Non è per nulla detto che la ricerca condotta sulle origini, sulle strut­ ture fondanti di una civiltà abbia un significato rigoroso dal punto di vista storico: le supposte fondamenta non smettono di cambiare fintan­ to che l’edificio dei secoli è in costruzione. Ma se decidiamo che la loro ricerca ha tuttavia un senso, allora le radici dell’Europa attuale, o piut­ tosto della civiltà occidentale, saranno costituite, oltre che dal cristia­ nesimo, dalla cultura diffusa dall’impero greco-romano, intrisa di ele­ menti greci e potere romano. Per dare al lettore un’idea del contenuto di questo libro, ecco alcune delle domande che ci porremo: perché gli imperatori morivano così di rado nel loro letto? Perché tanti «Cesari pazzi»? L’imperatore era con­ siderato un dio? Si osava maledirlo? Si metteva davvero del cibo sulle tombe per nutrire i morti? La plebe ricca è da considerarsi una classe media? Il popolo romano era tanto disinteressato alla politica quanto si dice? Se una persona resta vittima di una frana, la sua anima immortale potrà dipartire dal corpo per salire in cielo? Quando si parla di religio­ sità non si parla di una credenza imposta né di qualcosa di universale, bensì di un sentimento diffuso che è sempre maggioritario. Che posto occupa la «qualità» attribuita al divino nel calderone della religione? Erano amati gli dèi? In che modo e per quali vie si può considerare l’ar­ te come lo specchio di un’epoca? La carità cristiana ha messo fine ai combattimenti dei gladiatori? E poi, che cos’era esattamente la carità? Lo stoicismo era saggezza o utopia di autotrasfigurazione? Perché gli imperatori hanno lasciato che i germani invadessero l’Occidente? Civi­ lizzazione mondiale e identità nazionale sono incompatibili o ausiliarie? La regina orientale Zenobia voleva separarsi dall’impero o diven­ tarne imperatrice? È assolutamente necessario che un ritratto assomigli al suo modello? I ritratti di Paimira offrono uno sguardo sull’assoluto? Il fasto monarchico era propaganda? L’arte è comunicazione o espres­ sione? Perché in caso di sfortuna politica i contestatori se la prendeva­ no con gli dèi? Il presente volume aspira a suggerire, in un comporsi graduale di quadri parziali, una visione d’insieme dell’impero greco-romano che non sia troppo incompleta. Tutti i capitoli (tranne uno) sono stati scrit­ ti tra il 2000 e il 2004; una prima versione di tutti (tranne uno) è ap­ parsa su riviste specializzate o altre pubblicazioni. Sfortunatamente mi rendo conto, con il senno di poi, che le idee più semplici e generali mi vengono sempre per ultime, e, ahimè, troppo tardi. E così, le versioni originarie sono state talmente ampliate e profondamente modificate che le pagine che si leggeranno in questa raccolta non hanno più mol­ 8

Prefazione

to in comune con le prime, che ora preferirei scomparissero dalla fac­ cia della terra - senza per questo farmi troppe illusioni sulla versione attuale. Devo ringraziare molti amici, lo farò all’interno delle note del testo. Alle Éditiòns du Seuil, Marie Lemelle ha seguito la realizzazione di questo volume con una preparazione, una pazienza e una gentilezza straordinarie (e spesso messe a dura prova). Dominique Hechter, Manuelle Faye e Karine Benzaquin hanno fatto a gara per competenza e magnanimità. L’intervento di Thierry Marchaisse è stato decisivo sotto diversi aspetti, di forma e di fondo. Frangois Wahl continua a essere presente nella collana in cui compare questo libro.

Che cos’era un imperatore romano?

1 Che cos’era un imperatore romano?1

Il regime dei Cesari era molto diverso dalle monarchie che ci sono più note, ossia quelle medievali e moderne; se non fosse per l’assenza di una vera trasmissione per via ereditaria del potere, si potrebbe pensare piuttosto a un’analogia con l’impero ottomano. Un re dell’Ancien Régime ereditava il regno dai propri antenati, in quanto par­ te del suo patrimonio familiare: una prassi che sarà accettata tranquil­ lamente e avrà lunga vita. L’imperatore romano, invece, esercitava una professione ad alto rischio: il trono non gli apparteneva di dirit­ to, ma ne era mandatario per conto della collettività, che lo aveva in­ caricato di guidare la repubblica; così come i califfi sarebbero stati i mandatari della comunità dei credenti, con il consueto versamento di sangue a ogni cambio di regno.2 Non v’è dubbio che tale delega da parte della comunità all’imperatore non fosse altro che una messin­ scena, un’ideologia, sufficiente, però, a impedire al supposto manda­ tario di avere la legittimità di un re, una legittimità legata all’inviola­ bilità della sua persona.

I Il potere imperiale era quindi frutto di una delega, una missione affidata a un individuo solo apparentemente scelto o accettato dal popolo roma­ no. La successione dei Cesari doveva apparire allora come «un perpe­ tuo concatenarsi di deleghe».3 Di conseguenza, vi era una discontinuità istituzionale tra gli imperatori, così come tra i magistrati che si erano succeduti nello stesso incarico. Almeno in linea di principio,4 le misure adottate da un regnante restavano valide dopo la sua morte solo se con­ fermate dal suo successore; perciò, conclude Mommsen,5 l’imperatore non è un re. La discontinuità tra sovrani era tale che, senza alcun riguar­ do per il principio monarchico, le parole servili rivolte a un imperatore in carica trovavano eguali solo in quelle colme di disprezzo e di odio che gli venivano rivolte dopo la sua morte; si confronti quanto Marziale 10

scrisse di Domiziano vivo e morto. Rivolgendosi a Traiano, Plinio si espresse in duri termini contro gli imperatori che lo avevano preceduto; in un discorso a Teodosio, il talentuoso e coraggioso Libanio, tessendo le lodi di Licinio, definiva Costanzo II un fantoccio.6 E, nonostante la trasmissione del potere per via familiare fosse usuale, un imperatore non succedeva automaticamente a suo padre, gli succedeva nel suo incarico,7 qualora ne avesse ricevuto espressamente l’investitura.8 «L’impero» scrive J. Béranger in un passaggio decisivo «può essere pa­ ragonato a una successione di grandi patrioti che si fanno carico degli af­ fari pubblici, li trasmettono naturalmente al loro erede presuntivo, o an­ cora conquistano a viva forza il diritto di proteggere i loro concittadini e l’impero romano».9 E questo risulterà più vero che mai durante i dram­ matici decenni del III secolo, ma lo possiamo già vedere in nuce, all’ini­ zio della nostra era, nella prima frase delle Res gestae: «All’età di dician­ nove armi, per mia decisione personale e a mie proprie spese, ho costitui­ to un esercito con il quale ho restituito la libertà alla repubblica». A con­ dizione di arrivare a imporsi, ogni cittadino devoto, che fosse senatore10 e che non fosse di origine greca né, più tardi, germanica,11 poteva aspira­ re al trono per assicurare il benessere comune. La dottrina della sovranità popolare, rimasta in vigore sino alla fine dell’impero bizantino,12 non era nient’altro che, come vedremo, la fin­ zione di un presunto consenso universale, che, dopo la vittoria, veniva a conferire con valore retroattivo un’aria di legittimità al vincitore; non­ dimeno essa sottolineava che il trono non apparteneva a nessuno, si trattasse di un individuo o di una dinastia (almeno così fu fino al IV se­ colo). Da qui nasce il celebre odio dei romani per il termine «re»: non erano schiavi di un padrone, come lo erano stati invece i popoli greci e orientali da loro sottomessi. Un simile sistema aveva come risultato che a ogni cambio di regno si rischiasse la guerra civile; i periodi tranquilli, come il periodo d ’oro del secolo degli Antonini, furono l’eccezione piuttosto che la regola. Quando l’impero si trovò in grave crisi ed ebbe bisogno di candidati al ruolo di salvatore, tra il 235 e il 282, si succe­ dettero diciassette imperatori, quattordici dei quali morirono assassi­ nati, e una quarantina di usurpatori, ovvero pretendenti senza fortuna e ben presto messi a morte. Due città commerciali dell’impero, Lione e Paimira, dovettero la loro rovina alle lotte per il trono.

II Come mai tutto quel sangue? Perché un principe era considerato il mandatario del popolo. Non era che ideologia, finzione, poiché in realtà quel mandatario era succeduto a suo padre o si era impadronito il

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del potere con la forza, e il popolo era quello che vedremo; ma il fatto che non si sia mai potuta stabilire una regola fissa di accesso al trono che imponesse la scelta di un successore non aveva niente a che fare con l’ideologia: una simile regola avrebbe offeso l’onnipotente idea di sovranità popolare e avrebbe trasformato Roma in un regno. Quindi, al popolo e al Senato non restava che legittimare i colpi di Stato in nome della sovranità popolare o piuttosto del consenso generale. Tuttavia, accanto a questa finzione vigeva negli animi un secondo principio: ogni imperatore aveva il diritto e praticamente il dovere di trasmettere il trono al figlio, naturale o adottivo, e all’occasione riven­ dicava tale diritto;13 una soluzione che, essendo la più naturale e la me­ no rischiosa, veniva accettata senza esitazioni. Scrive Plinio: «I popoli sopportano meglio uno che il Principe ha poco felicemente generato, piuttosto di un altro che sia stato male scelto».14 D ’altro canto, ogni fa­ miglia regnante considerava il trono un patrimonio ereditario15 e i suoi clienti (in particolare la guardia imperiale) facevano lo stesso.16 E questo appariva talmente naturale che non esistono esempi di un principe che abbia escluso il proprio figlio dal trono. Uno dei doveri degli imperatori era infatti predisporre la trasmissione pacifica della ca­ rica;17 la scelta meno contestabile che si potesse fare, e a cui pochi pre­ tendenti avrebbero osato opporsi, era di designare il figlio (perciò Commodo successe a Marco Aurelio e i due principi bambini a Teodo­ sio)18 o di adottarne uno; l’adozione era infatti un legame solido quan­ to la consanguineità. Nel corso di uno dei peggiori anni della storia del­ l’impero, Galba si affrettò ad adottare Pisone, Otone si preparò ad adottare il nipote e Vitellio presentò il figlio ai soldati. Alla sua ascesa al trono, un imperatore che era destinato a regnare solo pochi anni, se non addirittura mesi, faceva distribuire nell’impero i ritratti ufficiali del figlio, per preparare la sua successione.19 Se, per il sollievo generale, l’imperatore regnante riusciva a trasmet­ tere senza intoppi il potere al suo discendente, questo era considerato l’ultimo atto di un regno riuscito; nell’opinione popolare, infatti, la fe­ deltà a una stessa famiglia era considerata una garanzia di pace:20 Roma era scampata al pericolo di una guerra civile.21 Di solito si tende a de­ plorare il fatto che alla sua morte, nel 180 dopo Cristo, il saggio Marco Aurelio abbia ceduto alla debolezza di lasciare il trono al figlio, l’odio­ so Commodo, ma se la sua scelta fosse caduta su un altro, avrebbe fat­ to sprofondare Roma in una guerra in cui i pretendenti al trono si sa­ rebbero affrontati armi in pugno. Ed è proprio ciò che accadde nel 193 in seguito all’assassinio di Commodo, morto senza lasciare discendenti; si può persino supporre che alcuni pretendenti che si affrontarono al­ lora fossero gli stessi che si sarebbero potuti affrontare nel 180, e cioè i legati della gloriosa armata del Danubio.22 12

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E quindi, nonostante l’imperatore sia espressione dalla sovranità po­ polare, è lui stesso a trasmettere il potere al figlio, con grande sollievo dello stesso popolo e del Senato. Come spiegare questa apparente con­ traddizione? Facendo una distinzione tra la successione dinastica^ che il medioevo e l’epoca moderna ci hanno reso familiare, e la concezione romana di trasmissione aristocratica, o per meglio dire, di clan. Non esisteva, come nel medioevo e durante l’Ancien Régime, una qualche credenza che portasse a considerare il trono come una proprietà di una determinata famiglia, sempre la stessa, oggetto di fedeltà nel corso dei secoli; ima falsa credenza che, dai Merovingi ai Borbone, ha scongiura­ to innumerevoli guerre civili. A Roma, un principe non trasmette la porpora al figlio in quanto membro di una famiglia senza pari, ma in quanto membro di un clan, di una gens, sostenuta da fedeli quali la guardia imperiale o le legioni che avevano messo al potere l’imperatore e il suo clan. Ogni qualvolta un imperatore veniva destituito, una nuova gens entrava in scena insie­ me al nuovo principe, che avrebbe trasmesso il potere a un suo discen­ dente, naturale o adottivo. La differenza tra le due concezioni è sempli­ ce: succedere al padre era più un fatto naturale che un diritto, e doveva essere sempre avallato dal consenso unanime del popolo di Roma du­ rante i comizi, dal Senato e dall’esercito.23 Questa situazione sarebbe cambiata di poco nel IV secolo; al sistema dei clan non sarebbe successa una vera e propria monarchia ereditaria, ma quello che Jacob Burckhardt definiva un sultanismo:24 il trono sa­ rebbe appartenuto in modo durevole a un membro di una stessa fami­ glia, quella della seconda dinastia dei Flavi e poi quella dei Teodosi, ma questi sarebbe stato un fratello, un figlio, uno zio, un nipote o un cugi­ no? Era prudente che il fortunato eletto lasciasse sgozzare qualche suo parente dai militari fedeli alla famiglia, che valutavano cosa fosse bene per essa. ΠΙ Secondo questa concezione, l’imperatore e magistrato rimane un ari­ stocratico, non un padre di famiglia il cui regno è patrimonio eredita­ rio, e la sua famiglia rimane una gens aristocratica. E un aristocratico può anche cercare di diventare padrone del mondo, ma resterà padro­ ne a casa sua, e può fare tutto quello che vuole, per esempio compor­ tarsi da «Cesare pazzo», ma di questo riparleremo. La sua famiglia ha la stessa disinvoltura patrizia che ha originato gli scandali e i drammi familiari del primo secolo dell’impero, quali il comportamento disdice­ vole della figlia di Augusto o l’autentico dramma dell’imperatrice Mes­ 13

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salina che, per amore di un altro aristocratico, divorziò dall’imperato­ re. Ecco perché a Roma ci sono stati dei «Cesari pazzi», mentre non ce ne sono stati durante l’Ancien Régime, con la sua concezione ereditaria del regno, onore superstiziosamente riservato a una famiglia privilegia­ ta. Che cos’era un imperatore romano? Un avventuriero che aveva avu­ to successo o un uomo il cui padre aveva avuto quella fortuna; la di­ gnità imperiale non era ancorata alla solida roccia di una proprietà pa­ trimoniale destinata ad attraversare i secoli. Da dove viene questa concezione aristocratica e clientelare, curiosa­ mente associata alla dottrina «repubblicana» secondo cui è la comunità a scegliere il suo califfo? Senza dubbio dal fatto che il cesarismo è nato dalla città antica e che questa, per quanto repubblicana, aveva in co­ mune con le nostre repubbliche solo il nome. La democrazia moderna riunisce gli individui riconducendoli tutti a una medesima norma astratta ed ugualitaria; gli interessi personali, la ricchezza, la nobiltà si perdono nell’astrazione del diritto pubblico (per esempio, ogni cittadi­ no paga delle tasse calcolate praticamente al centesimo); invece nella città antica i cittadini sono riuniti da differenze concrete e complemen­ tari (i notabili, i ricchi se vogliono mantenere il loro rango hanno il do­ vere morale di offrire alla loro città più o meno spontaneamente pane, circo e monumenti pubblici). L’istituzione imperiale è in parte model­ lata su questa concezione aristocratica della società, in quanto trasmis­ sione gentilizia. Sotto la repubblica, il figlio ereditava il trono dai clien­ ti del padre, o piuttosto dalla sua gens e, in cambio, restava a essi fede­ le; un giovane sconosciuto, Ottaviano Augusto, in questo modo raccol­ se l’eredità paterna dai partigiani e dai veterani fedeli al padre adottivo, Giulio Cesare, e fondò il regime imperiale. La fedeltà della clientela è rivolta all’intero clan,25 e sotto l’impero l’imperatore non potrà essere separato dalla famiglia imperiale, la domus divina,26 L’opinione pubblica si legava al casato del principe: la fa­ miglia giulio-claudia aveva ricevuto l’affetto dei romani di Roma, la se­ conda dinastia dei Flavi avrebbe avuto la fedeltà delle truppe, mentre la dinastia dei Teodosi avrebbe beneficiato di una sorta di legittimità. I pretoriani non avrebbero mai accettato di uccidere Agrippina, mem­ bro della famiglia del loro signore; dopo l’assassinio di Caligola il pa­ lazzo era stato perquisito per scovare e portare sul trono l’ultimo so­ pravvissuto di questa famiglia, Claudio. «Abbiano pur acquistato il di­ ritto della spada sulle nostre gole Siila potente, il feroce Mario, il cruen­ to Cinna e la dinastia di Cesare» scrive Lucano.27 A tre riprese, con i Giulio-Claudi, i Severi e la seconda dinastia dei Flavi, la storia politica è venuta a confondersi con quella di una famiglia, delle sue rivalità in­ terne e delle controversie del suo asse ereditario. Su dodici principes­ se giulio-claudie, la cui sorte è nota, solo una scampò alla morte o al­

l’esilio.28 In una famiglia regnante si ammetteva (come si ammettono i postulati geometrici, scrive Plutarco) che fosse lecito uccidere i paren­ ti prossimi per assicurare la successione al trono;29 l’applicazione di ta­ le postulato va dalla morte di Agrippa Postumo, e in seguito di Britan­ nico, alla strage familiare che seguì la morte di Costantino, al promiscuous massacre di cui parla Gibbon.

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IV La successione padre-figlio deve essere sancita dal popolo romano tan­ to quanto l’ascesa di un generale al rango di capo delle sue legioni. Co­ me si traduce in pratica il principio della sovranità popolare? Come si diventa imperatore? Per capirlo bisogna rinunciare a cercare un fonda­ mento legale nel diritto pubblico e nelle norme; si tratta unicamente di rapporti di forza. Il successo, l’unione e la sottomissione erano coperti, dopo la vittoria, dalla finzione di un consenso popolare unanime.30 Nell’impero cristiano saranno il Cielo, la volontà di Dio a essere espres­ si attraverso le armi e l’unione finale.31 Il cesarismo, scrive lo stesso Mommsen, era «la rivoluzione permanente».32 Lo stesso appellativo «principe legittimo» era insolito a Roma, scrive Wickert, dove sarebbe parso strano.33 Accolgo la teoria di Egon Flaig.34 Ecco come tutto ha inizio: il prin­ cipe regnante designa suo figlio, un intrigo di palazzo propone il figlio di un prefetto del pretorio, ima riunione di stato maggiore si affretta a scegliere il successore di un principe morto in battaglia; più spesso, un esercito o il corpo dei suoi ufficiali designa il proprio capo acclaman­ dolo con il titolo di imperator.35 Così i soldati hanno fatto la loro parte nel futuro consenso,36 e il Senato e il popolo di Roma sono invitati ad aderirvi. Il Senato non ha alcun potere o diritto di veto: può solo aderi­ re a sua volta al consenso, acclamando il pretendente come imperator e Augusto, e raccomandando ai consoli37 di accordargli pieni poteri con i comizi popolari; ma può anche rifiutarsi di seguire l’esercito. Se il Se­ nato sceglie di aderire, il popolo in teoria non è obbligato a seguirlo;38 in realtà, saranno dei simulacri di comizi39 popolari40 a partecipare al consenso41 attribuendo al nuovo signore tutti i suoi poteri:42 il popolo gli conferisce all’unanimità Γimperium proconsolare, il potere tribuni­ zio, il titolo di pontefice massimo eccetera. E evidente che tali poteri non gli verranno mai rifiutati: il fatto è che sul piano del diritto non de­ ve prenderseli da solo.43 L’accordo consensuale del Senato e dell’esercito crea, in pratica, un imperatore. Tuttavia, nessuno di questi episodi —l’acclamazione dell’esercito, l’approvazione del Senato, il voto dei comizi —ha valo­ 15

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re propriamente legale: sono le briciole del consensus universorum mistico,44 che da solo incarna la vera legittimità. In realtà, dopo la caduta di un cattivo imperatore, non si dirà di lui che aveva preso il potere illegittimamente o senza l’avallo del Senato, ma che non era stato acclamato e riconosciuto dal consenso di tutti.45 Il Senato pote­ va ratificare la nomina di un imperatore ma non proporre un pro­ prio pretendente e questo è un fatto decisivo che finora è passato inosservato.46 Non lo fece neppure nel 238 con Gordiano, né nel 275 con Tacito; probabilmente temendo di non trovare seguito, a scapito del suo prestigio. Va da sé che il consenso non era mai solamente un assenso silenzioso o impotente a un’imposizione; quindi, nella stessa Roma, le cerimonie in onore dell’imperatore, i trionfi, i voti all’unanimità, le acclamazioni organizzate nel circo tentavano di gettare un ponte tra l’ideologia del consenso e la maggioranza muta o tumultuosa. Ancora nel III secolo, e nonostante il panem et circenses di Giovenale, il popolo di Roma man­ teneva la pretesa di legittimare il potere dell’imperatore, insieme al ri­ cordo del suo ruolo ufficiale. Gli capitava persino di intervenire nella scelta in favore di un pretendente, talvolta con le armi.47

Ma in fondo, le urla e i pugni della plebe sono poca cosa rispetto alle spade dei soldati, al peso dell’esercito. Cosa si intende, però, con le parole «soldati» ed «esercito» che si leggono ovunque? Mobilitazioni di folle in armi o schiere di alti ufficiali? Rostovtzeff si era spinto ad affermare che i soldati erano figli di contadini poveri e che i periodi di anarchia militare erano in realtà rivolte proletarie contro la bor­ ghesia urbana.48 Non si deve piuttosto supporre che la scelta o l’ac­ cettazione di un imperatore fosse affare degli ufficiali e dei generali al comando? Dopo l’assassinio di Domiziano, il popolo di Roma era in­ differente e il Senato soddisfatto, ma i pretoriani erano furiosi e pron­ ti a ribellarsi. Ma per muoversi «mancavano i capi» dal momento che i prefetti del pretorio erano al corrente del complotto e lo approvava­ no.49 Nel frattempo, gli eserciti del Danubio, scontenti della scelta di Nerva come successore, rumoreggiavano; allora il retore Dione di Prusa andò ad arringarli: esordì citando un verso di Omero e li per­ suase ad accettare la scelta di Roma;50 rozzi contadini inquadrati in un esercito che parlava latino potevano forse conoscere il greco? Noi crediamo che Dione arringò il corpo degli ufficiali, uomini di cultura; costui infatti non era diventato un demagogo, ma come i retori di quel tempo (tra cui san Paolo davanti all’Areopago), si rivolgeva a un udi­

torio colto. Vedremo in seguito come l’ascesa di Giuliano al rango di imperatore confermi che si trattasse davvero di pronunciamientos de­ gli alti ranghi.51 L’importanza degli eserciti, in altre parole, degli ufficiali e non della truppa, nonostante Rostovtzeff, si accrebbe ancora di più nel IV secolo quando, accanto ai comizi del popolo romano, simulacro che continua­ va a esistere,52 si inizia a parlare di «comizi della porpora», costituiti in seno al nuovo gruppo dirigente che altro non era se non lo stato mag­ giore dell’esercito.53 Il gruppo eleggeva il nuovo imperatore e il coro de­ gli abitanti dell’impero era evidentemente d’accordo.54 Un consenso che san Gerolamo55 paragona all’elezione dei vescovi da parte di preti e dia­ coni. A quell’epoca, scrive Angela Pabst, il presunto consenso di tutti i cittadini era diventato il presunto consenso di tutti i soldati, mentre il rango imperiale era considerato come il grado più elevato nella gerar­ chia degli ufficiali. La scelta compiuta da un ristretto gruppo di ufficiali era avallata dal Senato e persino dai comizi popolari.56 Il V secolo si spingerà ancora oltre, poiché a quel punto il potere reale sarà nelle mani del «generalissimo», di origine romana o germanica, che spesso «sce­ glierà» in prima persona l’imperatore dietro al quale regnare. Possiamo quindi concludere con Tacito57 che il principato si basa sulla menzogna secondo cui gli imperatori vengono liberamente scelti e legalmente avallati. In realtà, alla morte di Augusto, Tiberio teneva già in pugno l’impero; durante le quattro settimane in cui finse di esitare e di consultare il Senato recitò solo la ben nota commedia del rifiuto del potere,58 allestita per mostrare che il principe non era che un mandata­ rio. Ma, d’altro canto, questa «ideologia» è da ritenere solo in minima parte una finzione, se ricordiamo che in quattro secoli i due terzi degli Augusti e dei Cesari sono morti di morte violenta, mentre nel medioe­ vo cristiano il regicidio sarà pratica rarissima.59 E un altro indizio rive­ latore è che non è mai stato possibile trasmettere il trono alla terza ge­ nerazione, perlomeno prima del V secolo (il primo nipote di un impe­ ratore è Teodosio II). Un principe aveva ricevuto il suo incarico per as­ sicurare la salvezza della repubblica, quindi gli insoddisfatti potevano sempre sostenere che avesse fallito nella sua missione. Ogni imperatore doveva preoccuparsi di meritare e mantenere il consenso che lo aveva designato, pena la morte. Doveva sempre diffidare di tutti e in primis del suo «gran visir», di un Seiano o di un Plauziano. Il problema prin­ cipale erano i tentativi di usurpazione, in cui i pretendenti mettevano in gioco le loro teste, così come quelle di mogli e figli,60 e la cui minac­ cia era incessante; lo stesso regno di Antonino Pio ne conobbe due.61 Durante l’Ancien Régime i re e i loro sudditi appartenevano a due spe­ cie differenti: re si nasceva, non lo si diventava. A Roma, invece, chiun­ que poteva aspirare al trono, purché vincesse sugli altri pretendenti e,

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conditio sine qua non, fosse senatore (o al limite prefetto del pretorio e nominalmente senatore); alcuni storici sostengono che durante la crisi del III secolo ci sia stato un «periodo di imperatori-soldati» usciti dai ranghi, ma questa fase è durata meno di vent’anni.62 Questa è la storia di Roma: dagli anni 68-70 agli anni 411-416 la lot­ ta per il potere ricomincia a ogni generazione (tranne in due o tre casi eccezionali) o più di una volta durante una generazione. Un imperato­ re, contrariamente a quanto varrà per i nostri re, non sarà mai sicuro di rimanere sul trono e in vita. A un re delTAncien Régime potranno ac­ cadere delle disgrazie, come un proprietario terriero può vedere le pro­ prie terre devastate dalla grandine, e i suoi sudditi lo compatiranno;63 un Cesare sconfitto dai barbari, invece, non sarà mai un principe sfor­ tunato, ma semplicemente un incapace da rimpiazzare.

e contadini.68 Non si doveva misurare l’importanza effettiva della no­ biltà sulla base del ridotto ruolo politico del Senato. In termini marxi­ sti si potrebbe dire che il cesarismo è stato solo lo strumento di un do­ minio di classe, del dominio di un’oligarchia che doveva rimanere a lungo classe dirigente perché era lei a governare attraverso gli impera­ tori,69 obbligati a tenere in massima considerazione la sua presenza. Inizialmente tra questa oligarchia e Ottaviano Augusto era stato stipu­ lato un compromesso, che si, adattava alla congiuntura del momento e alla statura del nuovo signore, e che si era poi perpetrato con i suoi successori. Sfortunatamente era un compromesso zoppo,70 che sareb­ be stato motivo di conflitto perpetuo, perché era una contraddizione che il principe fosse allo stesso tempo onnipotente e investito da altri del proprio potere.

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Durante l’impero non si smetterà mai di pronunciare la parola «repub­ blica»,64 e non in nome di una finzione ipocrita.65 Durante l’Ancien Ré­ gime, tutti saranno al servizio del re; al contrario, un imperatore era al servizio della repubblica. Non regnava per la sua gloria, ma per la glo­ ria dei romani; vittorie e conquiste, celebrate sulle monete, andavano unicamente a beneficio della gloria Romanorum o della gloria rei publicae. Monete e panegiristi testimonieranno che il merito di un principe non è di essere stato grande o buono, ma di aver salvato o restaurato la repubblica; lo stesso Vetranione sarà un salvator reipublicae. Per i tardi panegiristi, l’imperatore continua a essere il campione della repubbli­ ca, ne ha la cura, la tutela, la custodia,66 è «Nato per il bene della re­ pubblica» (Bono Rei Publicae Natus), come ci dice il titolo che esso ri­ ceveva in pieno IV secolo. Il regime imperiale manteneva la sua facciata repubblicana non in nome di una finzione, ma di un compromesso; il principe non poteva né voleva abolire la repubblica, perché ne aveva bisogno: senza l’ordi­ ne dei senatori, senza i consoli, i magistrati e i promagistrati, l’impero, privato della sua colonna vertebrale, sarebbe crollato.67 D ’altro canto per la maggior parte dei nobili, nonostante fossero restii ad ammetter­ lo, il regime imperiale procurava certamente dei vantaggi: dettava le regole nel gioco delle ambizioni carrieristiche, mentre la repubblica era degenerata in una lotta anarchica tra pochi per la tirannia; per dir­ la in breve, il sistema imperiale si basava, perlomeno fino al III secolo, su una classe dirigente costituita dalla nobiltà senatoriale, famiglie la cui potenza doveva essere ancora tenuta da conto: avevano infatti con­ servato le loro ricchezze e la loro influenza su una clientela di notabili

Il principe è a tutti gli effetti onnipotente. Il suo potere è il più assoluto, incondizionato e illimitato, senza riserve né conti da rendere ad alcuno. Solo l’autolimÌtazione argina tale onnipotenza, la cui origine risiede nel­ la concezione romana del potere, dell'imperium, come potere assoluto e completo (quello di un ufficiale sul campo di battaglia, che ha diritto di vita e di morte sui suoi uomini e che non fa distinzioni tra disobbedien­ za e delitto) che sotto l’impero è messo nelle mani di un solo uomo inve­ ce di essere diviso tra più magistrati.71 L’imperatore è onnipotente, però a titolo personale non è che un semplice cittadino, sottomesso alle leggi, al diritto civile e, se vuole abusare del proprio potere, prende prima la precauzione di far cambiare le leggi valide per se stesso e per tutti gli al­ tri72 In quanto principe ha però la facoltà di decidere della pace e della guerra, di aumentare le tasse e di stabilire la spesa pubblica; nulla gli sfugge (è magister dei culti pubblici e del diritto pontificio) e il suo po­ tere non ha limiti. Può legiferare passando per il Senato, ma può anche promulgare un editto o un semplice rescritto che ha lo stesso valore di una legge e che prende posto nel corpo del diritto romano, perché qual­ siasi cosa decida il principe diventa legge. Consulta il Senato solo se gli conviene e da esso ottiene ciò che vuole;73 tanto che, scrive Eck,74 alla fi­ ne l’opinione del principe appare come fonte del diritto più del senatus consultum che dà valore legale a tale parere. Si capì ben presto che l’imperatore decideva o poteva decidere tutto, tanto che a ogni difficoltà si chiedeva il suo intervento.75 In un partico­ lare caso di vuoto giuridico (la protezione legale dei fidecommessi non era assicurata) si fece per esempio appello al potere patriarcale e bene­ volo di Augusto per colmare la lacuna,76 e lui la colmò introducendo la

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procedura inquisitoria,77 secondo cui il giudice prevale su colui che è sottoposto a giudizio. Si può concludere che il potere dell’imperatore è di altra natura rispetto a quello dei suoi subordinati, non è supremo, ma trascendente; come dice Mireille Corbier, ha un’altra dimensione. Sicuramente è stato definito con estremo scrupolo giuridico, ma l’idea sottesa era di arrivare all’onnipotenza. È vero, il principe riceve il pote­ re tribunizio, ma è rimasto solo il nome in comune con ciò che era in origine. Per citare Peter Brown, l’imperatore è un autocrate che «solo un minimo di decenza e gli interessi in comune con le classi emergenti possono frenare, e non certo i delicati ingranaggi della costituzione di Augusto», ingranaggi su cui non insisteremo. Il principe aveva diritto di vita e di morte su tutti Ì sudditi; poteva far condannare alla pena capitale un senatore facendolo giudicare dal Se­ nato, ma anche farlo giustiziare senza che fosse processato, perché la vita di ogni uomo, persino cavaliere o senatore,78 era a sua discrezio­ ne.79 Poteva convocare chi voleva per decidere della sua sorte: è così che i pronipoti di Gesù di Nazareth80 furono condotti a Roma al co­ spetto di Domiziano. L’imperatore apprese dalle loro bocche che i di­ scendenti del re Davide erano solo contadini inoffensivi con meno di un ettaro di terra da coltivare e li lasciò liberi. Quando un Caligola, un Nerone o un Adriano manderanno in esi­ lio o a morte dei senatori, tali atti tirannici saranno decisioni piena­ mente legali. Certo, all’inizio del suo regno, ogni nuovo imperatore faceva un discorso ai senatori, con il quale prometteva che non li avrebbe messi a morte arbitrariamente e non avrebbe creduto ai dela­ tori (ancora nel 458, Maggioriano dirà la stessa cosa al Senato).81 Ma supponiamo che una denuncia lo informi che uno scellerato attenta alla sua sacra persona facendo ricorso alla magia, l’imperatore può scegliere due strade82 (entrambe inquisitorie, del resto): rinviare l’ac­ cusato di fronte al tribunale, sia questo il Senato riunito in corte di giustizia straordinaria, quando l’accusato è un senatore o una donna dell’alta società, oppure siano, nel caso di una persona qualsiasi, il prefetto del pretorio, il prefetto della città o il governatore della pro­ vincia, che emettono da soli la sentenza, senza giurati; o ancora far sgozzare lui stesso il traditore dopo un processo farsa, nel suo palazzo o nel contiguo santuario di Apollo. In questo caso, l’imperatore con­ voca gli assessori che gli pare, interroga l’accusato secondo una pro­ cedura inquisitoria che non prevede per lui un avvocato, emette da solo la sentenza e, in caso di condanna, inasprisce o addolcisce le pe­ ne tradizionali a suo piacimento. «Con che velocità Tiberio colpì l’ingrato che complottava contro di lui!»83 scrive un contemporaneo ammirato. Per citare Mommsen, il processo penale davanti all’imperatore corrisponde in realtà all’appli­

cazione della giustizia militare in tempo di guerra.84 Conclusione di Yann Thomas: la nascita dell’impero è accompagnata dalla «rimozione di qualsiasi tutela, di qualsiasi garanzia giudiziaria del cittadino» .85

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Vili Il cesarismo, dicevamo, era un assolutismo, ma fondato su una delega dell’autorità;86 portava in sé una contraddizione e susciterà sempre un disagio: il principe, scrive Wallace-Hadrill, era al tempo stesso cittadi­ no e re; era l’unico detentore del vero potere, scrive Brunt, ma conti­ nuava a ostentare di essere un responsabile servitore dello Stato,87 ed è a tale ambivalenza che si deve l’essenza stessa del cesarismo.88 Una ci­ tazione di Tocqueville sarà sufficiente: «Pretendere che il rappresen­ tante dello stato sia al tempo stesso armato di una vasta potenza e che sia elettivo equivale a esprimere, secondo me, due desideri contraddi­ tori».89 E non è meno contraddittorio volere che un uomo sia al tempo stesso onnipotente e uguale ai suoi pari: un’inclinazione naturale del­ l’immaginazione porta a esaltarlo; il cerimoniale, il culto imperiale e il carattere sacro delle immagini imperiali separano presto i principi dal resto degli uomini. Credo che il protocollo per rivolgersi al principe fosse questo: «Firmato Tal dei Tali, devoto a sua Divinità e a sua Mae­ stà»,90 formula di cui gli epigrafisti e i lettori di Cassio Dione ricono­ sceranno l’origine.91 Gli imperatori erano consapevoli di tale ambivalenza non meno dei loro sudditi. Tra cittadino e re, tra un buon imperatore e un cattivo im­ peratore, la distanza era breve e poteva essere colmata rapidamente. Tiberio, prigioniero di questa ambigua posizione, non poteva soppor­ tare né l’adulazione, né la libertà di parola; cercava di applicare leal­ mente il compromesso augusteo, ma, non riuscendo a ottenere una par­ tecipazione attiva da parte del Senato diffidente,92 finì in solitudine e tormentato dal tarlo omicida del sospetto. Il Senato tremò durante tut­ to il regno dell’inquietante Adriano.93 E ha certamente tremato ancora di più sotto Caracalla, a giudicare dal suo ritratto,94 che non è più quel­ lo di un membro colto della buona società, come sarebbe stato al tem­ po degli Antonini: Caracalla getta di lato un’occhiata obliqua e diffi­ dente, in cui si è a lungo creduto di vedere lo sguardo del traditore di un melodramma, dimenticando che si trattava di un ritratto ufficiale. In realtà, l’imperatore è un capo severo e temibile che sta di sentinella, in statio;95 fa la guardia e lancia ovunque occhiate a cui nessun nemico né malintenzionato può scampare.96 Strane figure gli imperatori di questi primi due secoli, scriveva Schumpeter, smarriti in un ruolo troppo complicato al di qua o al di là 21

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della soglia della nevrosi, in bilico tra un’umanità semplice e la tirannia o l’eccentricità. Ecco perché il regime imperiale non è mai arrivato a essere una tranquilla evidenza agli occhi di tutti; cinque secoli dopo Augusto, Sulpicio Severo,97 Eunapio o Zosimo guardavano ancora con preoccupazione al cesarismo come un tempo avevano fatto Tacito, Epitteto, Giovenale e ancor prima di loro Fedro.98 Per la sua natura doppia e incerta il cesarismo è sempre stato accompagnato da un senti­ mento di delusione.

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La contraddizione di cui stiamo parlando spiega la paralisi del Senato durante l’impero. Il conflitto tra imperatore e Senato non è quello tra due poteri all’interno di una diarchia. Bisogna ricercarne la causa nel fatto che, con un principe dotato di pieni poteri, il Senato non poteva avere un ruolo politico importante e soprattutto non voleva averlo:99 tale ruolo sarebbe stato pericoloso e contrario alla sua dignità. Non vo­ leva diventare una sorta di consiglio del princeps,100 che d’altra parte aveva già il suo personale consiglio. Infatti, a differenza del consiglio del re a Versailles, il Senato non era formato da individui la cui perso­ nalità si esauriva nel compito di consiglieri del monarca; esso costituiva piuttosto una casta privilegiata che aveva una realtà, una dottrina e un interesse di classe propri. A differenza di un procuratore imperiale, che era al servizio personale del principe che l’aveva nominato,101 un magi­ strato senatoriale non serviva né il monarca regnante né la corona, ben­ sì lo Stato; al punto che insultare un senatore voleva dire insultare la re­ pubblica.102 Gli aristocratici non potevano essere liberi consiglieri di un cattivo imperatore perché la franchezza avrebbe potuto costare loro la testa,103 né potevano essere i degni consiglieri di un buon imperatore dal momento che questi poteva anche fare a meno dei loro consigli. La soluzione a tali contraddizioni prevedeva che il Senato non do­ vesse prendere nessuna decisione da solo104 e che, nondimeno, la poli­ tica imperiale fosse conforme alle sue vedute. Un buon imperatore non era chi consultava il Senato sulle grandi questioni politiche, sull’oppor­ tunità di conquistare la Dacia o di evacuare la Mesopotamia, ma un principe che, da solo, faceva una politica senatoriale senza nemmeno interpellare il Senato. Plinio coniò una formula decisiva:105 un buon principe approva e disapprova le stesse cose del Senato. Per riprendere una distinzione cara a Raymond Aron, la nobiltà senatoriale era una classe dirigente, un’élite ai cui desideri il governo doveva conformarsi (e, se non lo faceva, rischiava di essere rovesciato), ma non una classe che prendeva direttamente parte al governo.

Principe e Senato avevano stipulato un compromesso: i nobili lascia­ vano governare il principe, in cambio, l’imperatore lasciava loro le alte funzioni amministrative e li trattava come suoi pari, senza assumere at­ teggiamenti regali. Dal canto loro, i senatorri lo trattavano come un re. In realtà, i cattivi imperatori, come Domiziano,106 ostentavano il loro riguardo nei confronti del Senato tanto quanto quelli buoni, e di ri­ mando l’adulazione senatoriale era tanto esagerata verso i buoni impe­ ratori come verso i cattivi; il panegirista di Traiano, lodandolo per il suo atteggiamento da pari verso i senatori, si rivolge all'Optimus Prin­ ceps come a un superiore. Come dice Plinio con involontaria comicità, Traiano è un buon imperatore che ci ha ordinato di essere liberi e, dal momento che ce lo ordina, noi lo saremo.107 L’eventuale conflitto tra il principe e il Senato era più una questione di priorità, amor proprio e simboli che di spartizione del potere; sotto i buoni principi la più alta assemblea non assumeva certo più importan­ za che sotto i cattivi.108 In gioco c’era l’interesse, un interesse politico e non economico,109 della classe dirigente che si sentiva minacciata se il principe assumeva modi da re o da dio vivente. Certo, ogni senatore ri­ spettava il cerimoniale monarchico e tutte le case nobili avevano cura di mantenere nel proprio personale di servizio un collegio di cultores Augusti;110 ma la differenza consisteva nel fatto che un buon principe «lasciava» che i suoi sudditi riconoscenti lo adorassero111 (da cui l’isti­ tuzione spontanea sotto Augusto dei seviri augustali, sacerdoti che offi­ ciavano il culto dell’imperatore), mentre un tiranno come Caligola lo imponeva.112 Inoltre, esisteva un’idea convenzionale di cui ci si faceva spauracchio, quella del «tiranno satollo di carni e di vini» (per citare Baudelaire): il Buon Re vive solo per il bene della comunità mentre il Tiranno approfitta della sua posizione per soddisfare la sua concupi­ scenza, ingordigia, lascivia, crudeltà.113 Così virtù e vizi privati degli uomini pubblici assumono importanza agli occhi degli studiosi. Se quindi, rompendo il tacito compromesso con il Senato, l’impera­ tore si mette a fare il re e il dio (o persino se davvero si ingozza di car­ ne e di vino, come nel caso di Vitellio),114 la nobiltà si sente minacciata come classe dirigente perché la tracotanza imperiale, se non era una minaccia diretta, perlomeno la prefigurava,115 dal momento che non è bene lasciar guidare impunemente un semidio. E come quando Stalin verrà definito genio. Se dunque il principe si pone al di sopra della muta autorità del Senato, la nobiltà non dirige più tacitamente la si­ tuazione e le può accadere di tutto. Questa era la posta in gioco nel conflitto. Supponiamo quindi che un imperatore si definisca o si lasci defini­ re116 signore e dio, dominus et deus, per il piacere di sentirsi l’unico si­ gnore e di sottrarsi al controllo senatoriale. Oppure supponiamo che

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sia fragile di nervi e che l’ipocrita atteggiamento che deve assumere nei confronti del Senato lo metta a disagio. O semplicemente che diffidi della classe dirigente e che veda un possibile rivale in un membro della sua famiglia, in un generale coperto di gloria, in un prefetto del preto­ rio, in un senatore ambizioso o in chiunque gli venga denunciato: soc­ combe allora a una «sospettosità» delirante che Seneca definisce rab­ bia pubblica (publica rabies).117 Inizierà allora il ciclo degli omicidi giu­ diziari e dei suicidi forzati;118 sotto Tiberio, Claudio, Domiziano, Com­ modo ci fu il terrore, e vi sarebbe stato di nuovo tre secoli più tardi: «Le trombe soffiavano annunciando accuse inventate di lesa maestà»119 scriverà Ammiano Marcellino. Allo stesso modo, da Seneca a san Gio­ vanni Crisostomo, i letterati predicavano la clemenza agli imperatori. La psicologia svolge un ruolo importante in un’autocrazia; la malattia del sospetto, tanto frequente nei principi, figlia della loro onnipotenza, veniva dalla stessa vertigine di fronte al vuoto del non sentirsi mai dire «no», dal sentimento angosciante di un mondo privo di regole nel qua­ le tutto ci si può attendere da parte degli altri, perché ci è possibile fare tutto. Allora un brivido di panico attraversava i più mediocri. Adriano non vi soccombette perché era un vero despota; era conosciuto come tale ed era temuto, ma a torto: non era un mediocre. X Il regime del terrore aveva due ragioni di essere. In primo luogo perché l’idea di una contrapposizione al potere, di una leale e legittima oppo­ sizione a sua Maestà era impensabile a Roma.120 Secondo la concezione romana del potere, dell’imperium, la collettività si attribuisce un capo, ma, una volta che lo ha designato, gli obbedisce in silenzio: ogni oppo­ sizione equivale a un alto tradimento e non si tradisce solo con le azio­ ni, ma anche col pensiero, le parole, le conversazioni, i semplici gesti121 e persino i sogni.122 E sgarri di questo tipo venivano puniti con la pena di morte;123 l’eliminazione fisica dell’avversario politico era infatti la re­ gola. Ecco perché era servile tutto ciò che veniva detto o scritto su un imperatore in carica e sui suoi nemici reali o presunti; si legga quanto Velleio Patercolo scrisse per la gloria di Tiberio e quanto Valerio Mas­ simo rovesciò contro Seiano,124 nemico di Tiberio. In secondo luogo tale regime era reso necessario dal marcio che in­ fettava l’ambiente senatoriale, ambiente dove non vigeva nessuna leg­ ge, positiva o morale che fosse. L’aristocrazia romana non aveva paura del gendarme, né si sforzava di migliorare da sé i propri costumi mora­ li, e la «spontanea competitività» delle classi nobili di cui parla Egon Flaig125 raggiungeva livelli da legge della giungla. Non erano rare le ri­ 24

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valità, le gelosie, le denunce o le accuse tra pari. Nel V secolo, questa lotta all’ultimo sangue si intensificherà ancora di più nell’impero d’Oriente; i successori favoriti dei principi si susseguiranno mettendo a morte i loro predecessori. Durante l’Alto impero, l’arma di queste lotte era la delazione. La funzione di pubblico accusatore non esisteva a Ro­ ma, dove, come dice Yann Rivière, il cittadino non era un semplice go­ vernato, ma uno strumento di governo, tanto che perseguire un delin­ quente era un pubblico affare. Molte di queste delazioni si collocavano nella tradizione repubblicana delle vendette familiari,126 o delle accuse perpetrate da un giovane ambizioso, ansioso di farsi conoscere e inizia­ re la carriera, a danno di un grande personaggio;127 per rifarci a Syme,128 se conoscessimo meglio quest’epoca, probabilmente scoprirem­ mo ambizioni e odi privati dietro a molti processi, che del resto costi­ tuivano anche un mezzo di arricchimento, poiché l’accusatore riceveva in cambio una parte del patrimonio della sua vittima. Quando il Senato sentiva che non c’era il sovrano dietro all’accusa­ tore, l’arma poteva ritorcersi contro l’audace che si ritrovava così con­ dannato al posto dell’accusato.129 Ma qualora fosse in gioco la maestà dell’imperatore, era tutto un altro affare. Si possono distinguere due gruppi di senatori, scrive Egon Flag: la maggior parte di loro si accon­ tentava di fare ima modesta carriera e di sopravvivere, mentre un grup­ po di ambiziosi correva dei rischi e si lanciava in una competizione spietata per ciò che era una vera rarità in questo impero mal ammini­ strato: le più alte dignità dello Stato.130 Sotto i «cattivi» imperatori, ber­ saglio della muta ostilità di una parte del Senato, tale rivalità diventava una guerra all’ultimo sangue. Allora cominciava il regno della delazio­ ne.131 Tacito evoca questi periodi che vedevano «i senatori più ragguar­ devoli [primores Senatusì abbassarsi fino alle più vergognose delazio­ ni»;132 e per un buon motivo: era a forza di denunce che avevano rag­ giunto questo alto rango. Avevano prevalso sui loro rivali spiandoli per trovare indizi che testi­ moniassero la loro ostilità verso l’imperatore; la furia accusatoria di­ ventava un flagello pubblico, scrive un contemporaneo; tutto poteva essere usato contro il proprio avversario, anche innocenti battute e di­ scorsi da taverna.133 Dopo di che si svolgeva un processo per lesa mae­ stà di fronte all’imperatore in persona o davanti al Senato eretto a tri­ bunale straordinario; l’accusato era destinato al supplizio o al suicidio, mentre il denunciatore riceveva la sua parte del patrimonio del con­ dannato e veniva promosso a un’alta carica o a un sacerdozio dal prin­ cipe a cui aveva provato la sua devozione.134 Quattro senatori di alto rango che aspiravano al consolato, onore supremo, si unirono in una sorta di fazione135 per mettere nel sacco un innocente senza ambizioni, ma troppo fiducioso, il cui unico torto era essere rimasto fedele alla 25

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memoria di un imperatore defunto che un tempo aveva messo in om­ bra il principe regnante. Per sorprendere i discorsi di questo innocen­ te, si nascosero nel controsoffitto del suo salone.136 Questi quattro delatori avevano fatto tutto di loro, interessata, ini­ ziativa. Ma in altri casi era stato il principe a ingaggiare al suo servizio ambiziosi che si trasformavano in delatori professionisti.137 Quando uno di loro puntava il dito contro un senatore, i colleghi del malcapita­ to capivano subito che dietro tutto c’era l’imperatore e che ogni esita­ zione sarebbe stata fatale. Bisogna a questo punto ricordare Tacito: «Sono state le nostre stesse mani a trascinare Elvidio in prigione, a mandare a morte Rustico e a farci ricoprire del sangue innocente di Se­ necione»; durante questi finti processi, continua lo storico, il pallore, la disperazione di certi senatori, incapaci di ricomporsi in viso, li sma­ scheravano agli occhi dei delatori; in questo governo dove il faccia a faccia contava molto, saper conservare la calma poteva essere capitale, in entrambi i sensi della parola.138 L’intero Senato diventava complice dell’accusatore, come è evidente; si capisce come in seguito alla morte di un «cattivo» imperatore le epurazioni di delatori non siano mai ap­ prodate a niente.139 Questa istituzionalizzazione della delazione può essere facilmente spiegata. Il principe aveva bisogno di uomini di fiducia e la fiducia era difficile da trovare. Non poteva contare su nessuno: il Senato, compo­ sto di potenziali rivali piuttosto che di leali pari, non voleva consigliar­ lo; quanto a ciò che veniva chiamato con il nome ingannevole di corte imperiale, era buono solo a sbrigare gli affari di ordinaria amministra­ zione. E persino il migliore dei principi, persino Antonino Pio, si trova­ va esposto a minacce. La posizione di un imperatore si fa ancora più pericolosa qualora questi si atteggi a signore, come Domiziano, o si di­ mentichi, come Nerone, che chi occupa una posizione elevata non de­ ve mai gesticolare, o semplicemente sia fragile di nervi, come Tiberio, che non reggeva l’ambiguità del suo ruolo. Allora ha bisogno di circon­ darsi di anime dannate, per sorvegliare la nobiltà senatoriale che non ha il minimo rispetto per la sua legittimità. In pegno della loro devozio­ ne, queste anime dannate sacrificavano al principe vittime umane: de­ nunciavano qualche loro pari e lo mandavano a morte con l’accusa di lesa maestà. Ma sia che l’imperatore si serva deliberatamente della leg­ ge della giungla a suo profitto, sia che si accontenti di lasciare che le ri­ valità facciano il loro corso, il risultato è il medesimo: il potere del capo si rafforza, come avverrà nel caso del nazismo. Così legge della giungla, sospettosità del principe e potere personale cooperano tra di loro. Questa era la psicologia politica della classe dirigente; sotto le toghe si agitava uno spirito avventuriero e instabile, privo di quella fedeltà, serietà e patriottismo che la leggenda attribuiva ai romani. La loro psi­

cologia era più sommaria: «Quanto tenta il trono un cuore ambizioso!» dice un verso del Bajazet di Racine. La spiegazione sarebbe breve se non si aggiungesse quanto segue: questa ambizione che non conosceva freni, e spesso chimerica, era sostenuta dal carattere poco strutturato della società romana, terreno dove non ci si imbatteva in molti ostacoli. La gerarchia della nobiltà senatoriale era organizzata in base alle cari­ che, ai differenti ranghi (consolare, pretorio eccetera), ma nient’altro impediva alle ambizioni di nascere e crescere: non il senso del «bene pubblico» e della legalità, non l’etica religiosa o le istituzioni religiose, né il rispetto dinastico, i partiti politici, la pesante burocrazia, le tradi­ zioni amministrative, i quadri professionali o la stretta rete economica. La politica romana aveva sì un forte senso dell’autorità, pur essendo ac­ corta, tollerante e decisamente poco incline al proselitismo, ma era an­ che una politica arcaica, impulsiva, poco razionalizzata.

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XI E questo spiega altre pittoresche singolarità, come i «Cesari pazzi» e i frequenti tentativi di usurpazione. Mi si permetta di dilungarmi su que­ sto ultimo fenomeno. Alcuni di questi tentativi, che raramente ottene­ vano un esito positivo, hanno in sé una certa razionalità politica. Alla morte di Nerone e dopo quella di Commodo, le guerre civili tra pre­ tendenti rispecchiavano le correnti di pensiero principali dei cittadini: Nerva e Vespasiano da un lato, Otone e Vitellio dall’altro rappresenta­ vano rispettivamente due fazioni nell’Ur&r e nelle province. In gioco c’era il potere della classe dirigente senatoriale, come avverrà di nuovo nel 238 con Massimino. In alcuni casi non si trattò che di elucubrazioni o atti mitomani,140 ma in altri fu qualcosa di serio. Nel 238, i grandi proprietari fondiari dell’Africa si rivoltarono contro le pesanti imposte, massacrarono il procuratore fiscale e andarono fino in fondo: nomina­ rono imperatore il proconsole che governava le loro province e che in­ vano li aveva supplicati di non votarlo alla morte sicura; anche se pro­ babilmente avevano percepito che aleggiava il malcontento generale contro il tiranno e presumevano che il Senato li avrebbe seguiti. Nel 392, il «generalissimo» germanico Arbogaste innalzò lo stendardo della rivolta contro il pio Teodosio, creò un pretendente e vide l’aristocrazia pagana raccogliersi intorno alla sua creatura: il paganesimo ingaggiava la sua ultima battaglia, la battaglia del fiume Frigido che sarà, è stato scritto, la prima guerra di religione. L’usurpazione di Giuliano nel 360 fu, come quella di Gordiano, al tempo stesso una rivolta dovuta al malcontento e un’impresa vera e propria per quanto riguarda mezzi e fini. Giuliano era adorato dalle 27

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truppe, fiere delle vittorie sul Reno. Probabilmente i suoi ufficiali era­ no persuasi che ci fosse bisogno di un imperatore per difendere l’Occi­ dente e che Giuliano sarebbe stato un sovrano migliore di suo zio Co­ stanzo II, privo di carisma nel suo Oriente lontano, nella sua corte po­ polata da ciambellani e vescovi. E fu proprio quest’ultimo ad avanzare la pretesa di far venire le truppe di Giuliano al suo fianco, in Oriente, obbligando le legioni ad abbandonare alle razzie germaniche la Gallia e chiedendo loro di andare al di là dei loro compiti, lasciando esposti al­ le violenze mogli e figli. Allora gli ufficiali141 diffusero tra i Galli un ma­ nifesto {grammation) anonimo, che esprimeva proteste e lamentele con­ tro Costanzo e i timori per la sorte che questi aveva riservato al loro ca­ po.142 È a questo punto che le truppe tributano i massimi onori a Giu­ liano, il quale, ormai compromesso, accetta il titolo di Augusto e distri­ buisce alle truppe il consueto donativum.UÌ II tradizionale dono che si aggiungeva alla loro paga non significava, come ha sempre preteso la storiografia senatoriale, che i soldati avevano venduto il trono al mi­ glior offerente, ma che, al di là delle opinioni politiche, anche loro ave­ vano delle rivendicazioni «sociali» e che i doni, le gratificazioni gioca­ vano un ruolo simbolico nella società antica. Il malcontento di una parte dell’opinione pubblica spiega dunque certe usurpazioni; ma, come ha dimostrato Wardman, l’unico risultato di tale malanimo non era altro che la proclamazione di un nuovo impe­ ratore, o la proposta di un pretendente al trono.144 Comunque, noi cre­ diamo che questi siano casi minoritari e che la causa della maggior par­ te delle usurpazioni sia molto più banale: «Un’ambizione dei capi ali­ mentata da una gelosia dell’esercito».145 Aggiungiamo a ciò il malcon­ tento per la paga o per il rancio nei ranghi delle truppe. La minima ri­ bellione militare, anche solo di una manciata di uomini, promuoveva un pretendente. Così l’usurpazione di Eugenio, verso il 303: i cinque­ cento sodati di guarnigione a Seleucia di Pieria per sorvegliare l’ingres­ so del porto non sopportavano di doversi cuocere il pane durante la notte, e per questo non poter dormire. Perciò obbligarono il loro co­ mandante a usurpare il titolo imperiale e minacciarono di ucciderlo se si fosse rifiutato.146 La vita politica nell’impero era superficiale, sommaria e frammentata, raramente si organizzava intorno ad ampi movimenti di fondo e a gran­ di problemi, e non era altro che una continua contesa tra capi. E questi capi ambiziosi assumevano facilmente posizioni estreme e correvano ri­ schi in modo temerario e sconsiderato. Questo stato d’animo confuso era lo stesso di alcuni loro partigiani, la cui cupidigia concepiva speran­ ze chimeriche, che presto trovavano l’appoggio degli scontenti. E così ogni minimo pretesto faceva temere un’usurpazione: se un pa­ rente dell’imperatore aveva una carriera troppo fulminea, «era eviden­

te che, se mai gli fosse stato possibile, avrebbe sconvolto la pace dello Stato».147 Ogni personaggio potente, ogni senatore troppo popolare era un pericolo pubblico ed era prudente ucciderlo.148 Il senatore galli­ co Valerio Asiatico, scrive Tacito, era così ricco e aveva talmente tanti clienti presso gli allobrogi che avrebbe potuto far insorgere un esercito o una provincia: un pericolo reale più che un «semplice» miliardario. Per questo Claudio fece suicidare questo pericoloso personaggio.149 Alla morte di Giuliano, suo cugino Procopio tentò il tutto per tutto, perché prevedeva che il nuovo imperatore avesse in serbo per lui la fi­ ne di Britannico; propose l’avventura a un gruppo di giovani soldati, «promettendo di ricoprirli di ricchezze e alte cariche», con gli applausi di una parte del popolino, che nulla rischiava e nulla aveva da perdere. Insomma, la tradizione di mandare a morte gli usurpatori ne ha molti­ plicato i tentativi, perché ogni povero diavolo proclamato imperatore da una rivolta non aveva altra via d’uscita che fare uno scatto in avan­ ti.150 Nel 355, Silvano, comandante delle truppe sul Reno, fu vittima di uno dei più sordidi intrighi mai tessuti dalle rivalità di casta; falsamen­ te accusato di aspirare alla porpora, Silvano non aveva altra scelta che aspirarvi davvero. Storia banale, ma indicativa della facilità con cui le sue truppe accettarono di seguirlo.151 Si assisteva a imprese il cui carattere sorprendeva gli stessi contem­ poranei;152 intorno al 400 una decina di pretendenti, affascinati dallo splendore della porpora, si succedettero nel giro di quarant’anni e fal­ lirono uno dopo l’altro, «senza riflettere sulla sorte dei loro predeces­ sori» scrive Gibbon. Tutto questo fa dell’instabilità il tratto dominan­ te della storia imperiale, con il suo ritmo palpitante. L’impero romano non ha niente del capolavoro politico, la sua riuscita sta in due ricette tanto semplici quanto efficaci: non toccare lo statu quo dei paesi con­ quistati e confermare il potere delle classi possidenti e dei dirigenti lo­ cali; in tempi in cui il nazionalismo non era ancora una passione, non serviva niente di più. Aggiungiamo a questo una potenza militare sen­ za eguali e una considerazione: tra le diverse regioni dell’impero, la disuguaglianza poteva essere un rapporto di due a uno, e non di tren­ ta a uno come nel mondo attuale, pieno di frustrazioni e gelosie. Del resto, Renan dice il vero: «Senz’eredità regolare, senza norme fisse d’adozione, senza legge d’elezione, senza limiti costituzionali, il cesa­ rismo somigliava a una nave priva di zavorra: terribili scosse erano inevitabili».153

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XII Per altri versi, il III e il IV secolo sono teatro di un cambiamento politi­ co e sociale profondo, ma anche lento, insidioso e complesso. Settimio Severo è un imperatore «civile», il suo regno è contemporaneo all’apo­ geo del diritto romano e, tuttavia, nel 193 inaugura una lunga discen­ denza di principi imposti al Senato dall’esercito. Dopo di lui, solo un senatore, Tacito, sarà imperatore nel 276. A livello sociale, l’epoca non è quella di una rivoluzione, ma di un’a­ pertura della classe dirigente154 che si occupa dei comandi militari e del­ le funzioni civili. La nobiltà senatoriale non è più l’unica a comporla; fa il suo ingresso anche una piccola nobiltà di «cavalieri», parola che però è da intendersi in un senso nuovo: spesso sono plebei provenienti dal corpo degli ufficiali. L’impero finisce per diventare un regime militarista e «burocratico» in cui i sovrani si appoggiano a una classe dirigente mi­ sta che comprende i «portatori di cinturone», il cingulum, ovvero i sol­ dati, e anche i funzionari civili, assimilati ai soldati; mentre la vecchia nobiltà dei clarissimi, con le sue ricchezze, conserva o ritrova il suo pre­ stigio ancestrale e gli imperatori continuano a trattarla con deferenza,155 cosicché essa proseguirà fino alla fine a coprire le più alte cariche civili. A metà del III secolo, infatti, Gallieno, per fronteggiare l’aumento di pericoli esterni, aveva destituito delle alte cariche militari questa «ari­ stocrazia senatoriale che le esercitava come belle arti e come un orna­ mento indispensabile alla sua immagine», scrive Jean-Michel Carrié. E perdendo il comando degli eserciti, l’aristocrazia senatoriale lasciava la porta aperta ai concorrenti; i soldati semplici ebbero accesso al grado di capo dell’esercito e da lì, talvolta, anche al trono.156 Gli imperatori patrioti che, usciti dai ranghi e di bassa origine sociale, salveranno l’im­ pero durante la crisi del III secolo, avranno un’ascesa tanto spettacola­ re e meritata quanto i marescialli di Napoleone, come sostiene Peter Brown. Nonostante ciò le funzioni civili restavano aperte alla vecchia nobiltà. Il Senato però non era più il problema centrale e forse aveva cominciato a perdere la sua autorità morale già dall’epoca dei Severi.157 Così finì per formarsi una classe dirigente composta da alti funzionari civili e militari, tutti nominati clarissimi, benché i tre quarti di loro non avessero posto in Senato. L’impero comprende ormai tre elementi: l’imperatore, che è il pasto­ re, i soldati, cioè i cani da guardia, e il gregge a cui essi fanno la guar­ dia, come dirà lucidamente l’imperatore Giuliano158 - ciononostante l’instabilità perdurerà, come anche la sospettosità. Non essendo più il princeps di una nobiltà senatoriale, il primo tra pari, l’imperatore di­ venta il signore di tutti i suoi sudditi, da cui il famoso editto del 212 che innalza al grado di cittadino romano ogni uomo libero dell’impe­ 30

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ro.159 Come avrebbero potuto dire Saint-Simon o Tocqueville, non ci sono più privilegiati, pari, grandi nomi: ormai, sotto 1 imperatore, «ognuno è popolo». Malgrado questo universalismo, ciò che importa ormai è la distin­ zione tra le persone dabbene, o honestiores, e i piccoli, o humiliores. Solo questi ultimi possono vedersi infliggere la bastonatura e per loro il diritto penale è più severo. A differenza della Grecia, la repubblica romana aveva ignorato la tortura per gli uomini liberi;160 questa sotto l’impero sarà ammessa da Marco Aurelio, che la riserverà agli humilio­ res·. è in tale occasione che comincia a stabilirsi la distinzione, che sop­ pianterà quella ereditata dalla repubblica, tra cittadini romani e sem­ plici sudditi dell’impero. Verrà cancellata anche la superiorità che l’I­ talia, con il suo autogoverno municipale, aveva sulle province sotto­ messe ai governatori. XIII Veniamo ora ai «Cesari pazzi» e prima di tutto a un fatto capitale che non dipende dalle istituzioni, né dalla società o dai rapporti di forza, ma da ciò-che è opportuno chiamare norme, le quali a nostra insaputa guidano e inibiscono la nostra condotta. I monarchi dell’Ancien Regi­ me avevano presente già nella culla quale era il modello del ruolo rega­ le, mentre, per citare Jochen Bleicken,161 per il principato non esisteva­ no equivalenti delle «leggi fondamentali» non scritte del suddetto pe­ riodo. La maggior parte dei regimi politici viene definita nei suoi confi­ ni da una tradizione inconscia, la cui forza e la cui concretezza si rivela­ no a volte anche di troppo. Quando però non vi è nessuna tradizione o un regime dittatoriale la sconvolge, allora possono venire a galla i feno­ meni più diversi di teratologia politica, proprio come quelli che il no­ stro secolo ha conosciuto. Ebbene, il regime imperiale non aveva alle spalle nessuna tradizione o modello straniero; fino al III secolo, non vi era stato un ruolo a cui i principi si sarebbero potuti conformare, an­ che inconsapevolmente, e che ne avrebbe limitato metodi o eccentri­ cità. Peggio ancora: esisteva sì una tradizione, ma era quella del potere come imperium, la cui ambiguità abbatteva ogni ostacolo e da cui pote­ rono originarsi i capricci da sultano di Nerone, Caligola e altri, mentre l’Ancien Régime non conoscerà «Cesari pazzi». L’imperatore, il cui po­ tere e la vita stessa erano continuamente minacciati, sarebbe potuto es­ sere solo una marionetta: non fu così. Poteva prendere decisioni rivolu­ zionarie (come Caracalla o Giuliano) o adottare a suo piacimento con­ dotte altrettanto inedite (vedi il gran viaggiatore Adriano):162 non per questo era meno obbedito. La stessa concezione perentoria dell 'impe­ li

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rìum allontanava il Senato dalla partecipazione al governo. Questo po­ tere assoluto, a cui la nobiltà non poteva fare da contrappeso, aveva co­ me soli limiti gli altri pretendenti al trono, l’uccisione del principe o, qualora questi fosse un debole, gli intrighi di palazzo. Un re non si sarebbe mai ritrovato a fare gli stessi sforzi che dovette fare Marco Aurelio per non «incesarirsi», come testimoniato dal suo diario.163 Quando si dispone di un’onnipotenza senza controllo, è faci­ le cedere alla tentazione di capricci e mire di grandezza. Gli imperatori rischiavano continuamente di passare da un atteggiamento di affabilità verso i senatori, alla superbia, l’orgoglio smisurato dei sovrani orienta­ li;164 si era soliti ripetere165 che, una volta sul trono, anche il più pacifi­ co degli uomini poteva trasformarsi in un despota. È facile indovinare da dove venisse questa tentazione: per la massa della popolazione il principe non era un mandatario, né del resto un dio, ma questo non impediva che venisse considerato un essere superiore ai suoi sudditi; persino il principe correva sempre il rischio di pensarlo, Inoltre, questo ruolo indeterminato di cui era stato investito, era niente meno che quel­ lo del più gran personaggio che ci fosse al mondo, del solo che fosse così grande, dal momento che, ce lo ricorda Mommsen, in un certo qual modo Roma riteneva di essere l’unico Stato al mondo e gli impera­ tori non avevano un ministro degù Esteri.166 Invece i re dell’Ancien Régime si rivolgevano l’uno all’altro con appellativi quali «cugino mio» e prendevano i loro cugini a modello. Il sovrano romano, dal canto suo, poteva credere di dover o poter fare cose straordinarie. E questo megalomane non viveva in un ambiente pronto a fargli no­ tare quali fossero i limiti invalicabili del suo operato, al contrario: la corte imperiale non faceva che spingerlo verso la superbia.167 In realtà, la corte romana aveva solo il nome in comune con quella dell’Ancien Régime, essendone addirittura l’opposto.168 Un re circondato dai corti­ giani, dalla nobiltà, viveva in compagnia dei suoi pari, membri della classe dirigente con cui doveva venire a patti e davanti ai quali doveva atteggiarsi. Gli imperatori, al contrario, non erano circondati da sena­ tori; si limitavano a invitarli a cena.169 Vivevano, invece, in compagnia dei loro servitori: domestici, ciambellani, eunuchi, amici, liberti e se­ gretari (per farla breve, in compagnia del loro ministero, installato ve­ rosimilmente nel palazzo di Tiberio, sotto gli attuali giardini Farnese), tutte persone che dipendevano da loro e che accondiscendevano pie­ namente ai loro eccessi o eccentricità, cosa che permetteva loro di ren­ dersi indispensabili per il signore. Nessun limite, nessun ruolo tradizionale: niente ha potuto frenare certi imperatori inclini alla tirannia, alla megalomania o perlomeno ai «capricci reali», nulla ha potuto impedire che dessero un’interpretazio­ ne originale del ruolo. I principi ricevevano il mandato di campioni

della repubblica senza privarsi della loro individualità né dei loro lega­ mi familiari; non si imponeva assolutamente quella separazione tra pubblico e privato che ci è tanto cara, per cui un politico non deve mi­ schiare la sua persona alla sua funzione. Nerone mostra a tutti i suoi ta­ lenti artistici; Costantino con il codice e i discorsi, Giuliano con le ope­ re parlano in tutta sincerità come fossero privati cittadini sul trono; quest’ultimo era presentato e si presentava ai suoi sudditi come un cro­ ciato del paganesimo.170 In una monarchia, la salute del principe ed eventi dinastici come na­ scite, matrimoni e lutti sono anche avvenimenti pubblici; quando 1 im­ peratore si ammalava venivano offerti sacrifici in tutto 1 impero. C è di più: molti sudditi del principe provavano un affetto sincero per la sua persona; erano toccati da tutto quello che lo riguardava come lo sareb­ bero stati per un membro della loro famiglia. E popolo di Roma venne a scongiurare Tiberio di non credere alle calunnie contro Agrippina Maggiore e intervenne violentemente in favore di Ottavia ripudiata da Nerone; dopo lo scandalo di Messalina, Claudio stesso promise ai suoi uomini, alla guardia pretoriana, che non si sarebbe risposato.171 XIV Un imperatore poteva avere la tentazione di abusare della posizione pubblica di cui beneficiava la sua persona, per estendere tale privilegio ad altre sue inclinazioni, pur rispettabili: i suoi talenti artistici o le sue convinzioni personali, filosofiche, come nel caso di Marco Aurelio (gli apologeti cristiani fanno appello pubblicamente a questo sovrano co­ me a un filosofo), o religiose, come nel caso di Giuliano. Con un simile pio pretesto e con aristocratica disinvoltura, Adriano favorì la diffusio­ ne, in tutto l’Oriente, del culto divino e funerario dello schiavo Antinoo.172 Elagabalo non limitò certo la sua devozione alla sfera privata, ma rese il culto del Sole il più grande culto pubblico. Costantino fu più riservato, lungi dall’intraprendere la conversione dell’impero al cristia­ nesimo173 e dal renderlo una religione di Stato, si limitò a due cose: in pubblico optò per la tolleranza, in privato scelse il cristianesimo,174 che diventava così la religione personale del principe e di conseguenza ave­ va diritto a benefici, privilegi ed elargizioni finanziarie, né più né meno. Costantino tenne conto delle sue convinzioni personali anche nelle re­ lazioni internazionali: scrivendo a Sapore, scià di Persia, gli confessò, da coscienza a coscienza, il suo orrore per i sacrifici cruenti.175 Così si spiega il pragmatismo di Costantino in campo religioso: era consapevo­ le di aver introdotto la nuova religione a titolo di «capriccio reale», co­ me preferenza privata. La Chiesa e lo Stato resteranno separati, 1 impe­ 33

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ratore perseguiterà i cristiani scismatici, ma non i pagani: si occuperà di arrangiare le loro carriere, li collocherà in posizioni elevate accanto ai cristiani e ne rispetterà la passione per gli spettacoli pubblici; tanto che uno dei nomi epocali nella storia del trionfo del cristianesimo non è quello di Costantino il Grande, ma quello del suo successore, l’acido e devoto Costanzo II. Con la tirannia di Domiziano, invece, non si ha più a che fare con la soggettività del principe, ma con una certa concezione dei compiti im­ periali che egli probabilmente considerava veri e propri doveri. Tre co­ se di lui sono ben note: si lasciava chiamare «signore e dio», dominus et deus; si autodefiniva «censore a vita», funzione che si era inventato e di cui si insigniva come blasone sul verso delle monete;176 infine si era fat­ to carico di imporre una morale sessuale, come scrive Miriam Griffin177 (e infatti, quando Marziale gli dedicò un libro di epigrammi, proibì a se stesso l’uso di parole oscene);178 una vestale ci lasciò persino la vita. E credo che queste tre cose possano essere ridotte ad unum, confluendo in un tipo di potere originale, perlomeno in Occidente. In modo analo­ go a ciò che capitò negli imperi di Cina e Giappone,179 Domiziano mi­ surava la portata del potere sui suoi sudditi in base alla loro moralità privata. Il rispetto della morale, tanto privata che civica, diventava spesso elemento fondante della società. Dunque, se il potere imperiale entra nella camera da letto dei sudditi, vorrà dire che Domiziano è un imperatore più potente, e migliore, di tutti i suoi predecessori: lui solo, per il bene pubblico, comanda su tutto. Nel suo ritratto ufficiale non volle apparire un luminoso semidio come Augusto, né un tranquillo cittadino come il padre Vespasiano, ma un temibile e sospettoso poli­ ziotto con lo sguardo di traverso (come Caracalla).180 Veniamo infine ai «Cesari pazzi» propriamente detti. Al tempo del potere personale, erano principi, faraoni, imperatori o califfi, più spes­ so che studiosi, a mettere l’immaginazione al potere. Con Caligola, Ne­ rone e Commodo si ha a che fare con una concezione sublime del ruo­ lo imperiale (che evidentemente affonda le sue radici in una megaloma­ nia personale e, per Caligola, in una demenza precoce). Secondo costo­ ro, l’uomo la cui particolare natura è di essere l’imperatore è una per­ sona che giganteggia tra le altre. Non stiamo a cercare quali virtù o ca­ pacità specifiche, politiche in particolare, lo rendano così grande: è grande perché regna e viceversa. Caligola è come un dio per i suoi sud­ diti: il signore del mondo è superiore all’umanità, così come, diceva lui, sulla scala degli esseri viventi il pastore è più in alto degli animali del suo gregge.181 Commodo, dal canto suo, è grande per i suoi eccessi (porta il titolo di vincitore supremo dei germani e dei bretoni), ma an­ che per la sua stessa natura; per lui è stato forgiato il titolo di exsuperatorius. Il suo impero esiste solo attraverso di lui e per lui; identificando­ 34

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si con Ercole, di cui porta la pelle di leone e la clava, vuole diventare il rifondatore divino di Roma, ribattezzata «colonia commodiana». Tali megalomanie sono sorte e hanno prosperato sul terreno dell’om nipotenza, dell'imperium, del culto imperiale, dell’assenza di una tradi­ zione vincolante e di ima corte degna di questo nome; così come quella di Ceaugescu è nata dalla dittatura del partito, dall’onnipotenza dei se­ gretari generali, dal dovere di fare cose straordinarie, dal culto della personalità e dalla medesima assenza di tradizioni. Nel caso dei «Cesari pazzi», la gloria di cui si fregiano non è più quella dei romani, ma quella del principe stesso. Per la felicità dei sud­ diti è sufficiente sapere che il sovrano è splendido. E questo ha avuto come esito la grande utopia dell’epoca, che suscitò parecchi entusiasmi (tra cui quello, che possiamo credere sincero, di Lucano): i partigiani di Nerone esaltavano il suo regno come una nuova età dell’oro; le mo­ nete di Commodo avevano per legenda «Età dell’oro di Commodo». Gli eventuali successi militari o diplomatici non facevano che confer­ mare questa grandezza innata; Caligola, Commodo e, più legittimamente, Nerone aspirarono a una politica estera eclatante. Allo stesso modo si spiega la stranezza che più ha colpito antichi e moderni e che ha contribuito a ridurre il fenomeno dei «Cesari pazzi» a semplice istrionismo: Nerone si esibiva come il miglior cantante e cocchiere dell’impero; Commodo come il miglior gladiatore e arciere. Queste erano, ai loro occhi, semplicemente piccole conferme della lo­ ro schiacciante superiorità, e gli spettacoli del teatro, del circo e dell’a­ rena erano i media attraverso cui questa superiorità veniva resa visibi­ le a tutti.182 Nerone credeva davvero di essere il miglior cocchiere e il miglior cantante; a Olimpia proibirà ai giudici di favorirlo. Ai giorni nostri, intorno al 1960, il principe della Cambogia Norodom Sihanouk vantava doti non inferiori: era il miglior scrittore, il miglior giornalista e il miglior cineasta del regno; aveva istituito a Phnom Penh un festi­ val cinematografico di cui riceveva ogni anno il primo premio. Il ditta­ tore coreano Kim Jong-il, secondo il suo sito internet ufficiale, è pilota di aerei da combattimento, scrive grandi opere e gioca a golf meglio dell’attuale campione del mondo. Un uomo che ha tutti i talenti pos­ siede anche questi. Ancorate alla loro epoca, queste megalomanie implicavano anche al­ cuni valori. Sihanouk incarnava e metteva al potere la cultura, sintomo di una nazione avvicinatasi da poco alla civilizzazione occidentale. Gli spettacoli che Nerone tanto amava, il teatro e le corse dei carri, erano greci, e innalzavano al potere i valori ellenici. Il neronismo rompeva con il vecchio e pesante passato romano183 per riallacciarsi alla grande civilizzazione senza età, sempre moderna perché vera. Inoltre, Nerone si rendeva popolare nella capitale incarnando con la sua figura non i 35

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pesanti doveri dei cittadini, ma i piacevoli valori della nuova età dell’o­ ro, la gioia collettiva degli spettacoli, il piacere pubblico, la laetitia publica, Yhilaritas. Tuttavia, tutto questo non impedì che i «Cesari pazzi» fossero desti­ tuiti e messi a morte, pur non macchiandosi di colpe particolarmente gravi. Sono ben lontani dagli autori dei massacri di massa del X X se­ colo, non si occupavano dei rapporti di classe e di produzione, sotto il loro regno l’impero continuava a girare, la macchina amministrativa e fiscale seguiva il suo solito corso. Le loro elucubrazioni riguardavano praticamente solo loro stessi, la loro cerchia ristretta e l’immagine del­ la loro persona, che avevano a cuore di far conoscere ai sudditi. Que­ sta immagine era l’unico vero scandalo. Entusiasmava i plebei della capitale, che consideravano il principe come cosa loro, divo amato e amorevole; le masse delle province, sempre un po’ all’oscuro, guarda­ vano a tutto questo docilmente e senza capirci nulla.1841 membri delle classi alte, invece, si sentivano gravemente colpiti, non nei loro inte­ ressi economici o politici, ma nell’idea che avevano della loro propria dignità: si sentivano sminuiti perché dovevano obbedire a simili buffo­ ni, per questo li destituirono o sollevarono assassini contro di loro. Ciò che l’individuo pensa di se stesso e della propria dignità può avere un peso politico tanto quanto interessi materiali. Per evocare, anche se velocemente, qualcosa che meriterebbe un ampio approfondimento, la politica imperiale si occupava di mantenere lo statu quo, di riparare le incrinature, i conflitti tra capi e tra gruppi dirigenti e l’idea che i go­ vernati si facevano di loro stessi, più che di grandi problemi, conflitti di classe e ideologie. XV La megalomania dei «Cesari pazzi» non era del tutto fuori luogo, non faceva altro che esagerare l’idea che le masse popolari avevano dell’im­ peratore. Ci accingiamo ad affrontare una questione difficile perché non abbiamo documenti e anche perché gli antichi non disponevano di parole e concetti idonei a descrivere ciò che provavano nei confronti dell’imperatore. Si è visto che, in linea teorica, il potere imperiale veni­ va da una delega, e non era niente più di questo agli occhi critici e diffi­ denti dei membri della classe dirigente, come Tacito, o dei letterati, co­ me Svetonio. Agli occhi dei semplici cittadini, però, l’imperatore non aveva nulla del mandatario. Come era visto, allora? Come l’uomo più ricco e più potente del mondo, secondo una mirabile e suggestiva pagi­ na di Filone185 che sostiene di conoscere quale fosse il sentimento po­ polare all’avvento di Caligola: tutti gli abitanti dell’impero, scrive, era­ 36

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no pieni di allegra ammirazione per l’erede di tutto quell’oro, di tutti quei fanti, cavalieri, marinai. Il prestigio dell’imperatore, il forte lega­ me che unisce a lui i suoi sudditi, il fondamento del suo potere sarebbe quindi, se crediamo a Filone, l’ammirazione suscitata da potenza e ric­ chezza: dell’aura che circondava gli imperatori egli ha colto quegli ele­ menti che la topica del suo tempo permetteva di decodificare, ovvero i tratti esteriori, oggettivi. L’immagine del sovrano che ne emerge è fuor di misura; è quella di una sorta di miliardario. L’unica altra topica di cui si disponeva per sondare il sentimento popolare nei confronti del potere monarchico si appellava al vocabolario religioso e descriveva per iperbole il principe come una sorta di dio. Oggi possiamo dire molto di più. Sentirsi membro di una colletti­ vità, qualunque essa sia (l’impero, ima Chiesa, un partito politico mili­ tante), comporta sempre un legame di attaccamento, di fedeltà, di amo­ re, di libera dipendenza dal capo da parte dei governati. Ma a una con­ dizione: che il capo non sia sentito come emanazione dei suoi sudditi, e sembri invece ricevere il potere solo da se stesso. Rifacciamoci nuova­ mente a Tocqueville: non si può ricevere l’investitura dai propri soste­ nitori e al contempo imporsi al di sopra di loro. Poco importa se in teo­ ria il potere venga attribuito come una delega o che un sovrano di fatto sia stato imposto da una camarilla o si sia autoproclamato: l’importante è che questa origine venga in un certo senso dimenticata e che agli oc­ chi della gente comune egli sembri regnare per diritto personale. Tale diritto gli può spettare in virtù del suo influsso carismatico, se ce l’ha, o dell’eredità familiare della corona, o, a Roma, per il semplice fat­ to di trovarsi sul trono e, come il re leone, di starci per ima sorta di pre­ rogativa che solo lui ha. L’attaccamento alla figura del capo, quando questi regna grazie a un simile diritto soggettivo, non è il prodotto di una credenza inculcata da una qualche propaganda o dalla consuetudi­ ne, ma deriva in modo incondizionato dal patriottismo, dall’«istinto gre­ gario», dal sentimento di appartenenza a una collettività. Nella Gran Bretagna del X IX secolo, ogni patriota inglese considerava il suo re un grand’uomo e provava per lui una lealtà sincera e incondizionata. Pur non essendoci testimonianze esplicite, si può sostenere che un legame altrettanto immediato e naturale186 esistesse nell’impero romano tra gli imperatori e i loro sudditi, così come si può affermare con certezza che anche in quell’epoca il cielo fosse blu. Bisogna forse ricordare 1 attacca­ mento dei cattolici per il papa? Il caso più eclatante è quello dei partiti socialisti e socialdemocratici nell’Europa dei primi del Novecento, che avrebbero dovuto rappresentare il compimento dell’illuminismo e della libertà, ma che avevano anch’essi il culto dei loro beneamati capi.187 L’iconografia imperiale era presente ovunque a Roma. Persino l’ar­ genteria da tavola188 era ornata da scene che esaltavano l’imperatore, la 37

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sua famiglia, le sue vittorie; sui dolci distribuiti alla popolazione dopo i sacrifici pubblici campeggiava l’imperatore (o il suo genius recante una cornucopia) che offriva un sacrificio davanti alle insegne militari.189 Un rituale della vita mondana consisteva nel dedicare, durante le cene, un brindisi al sovrano: il genius del principe regnante veniva acclamato con un «Viva l’imperatore!».190 Ci si entusiasmava al passaggio del' si­ gnore in occasione del suo ingresso in una città, a Leptis Magna per esempio.191 Sabine MacCormack ha mostrato quanto fosse palpabile il consenso popolare in occasione di questi solenni ingressi (adventus) dell’imperatore, che veniva accolto e acclamato da tutta la popolazio­ ne.192 Ovunque nell’impero, dalla Gallia alla Siria,193 e per ben quattro secoli, vennero consacrati ex voto «per la conservazione [salus, seteria] dell’imperatore»: altrettante testimonianze di lealtà. Questa ammirazione virtuosa e leale non sa distinguere l’uomo dalla sua funzione. Ci si inchinerà, quindi, anche davanti all’individuo, alla sua famiglia, ai suoi capricci. Di rimando, la venerazione riservata a quello sarà tributata anche a tutti coloro che ricopriranno il suo ruolo dopo di lui. Gli imperatori così venerati non erano capi carismatici; per citare Fustel de Coulanges, non si provava per loro «quell’entusiasmo impulsivo che alcune generazioni hanno per i loro grandi uomini»:194 il principe poteva essere un uomo mediocre e tuttavia essere amato, ad­ dirittura adorato come una divinità. «Non era un dio in virtù del suo merito personale, ma perché era l’imperatore.»195 Occorre fare un passo in più? Durante l’Ancien Regime spesso, se non sempre, la relazione di libera dipendenza si tingeva di sentimenta­ lismo: il celebre «amore per il re». Gli abitanti dell’impero romano giunsero anch’essi a un simile livello di dedizione, a un amore che non è più semplicemente un affetto d’elezione ma un sentimento indotto dalla condizione di sudditanza, attraverso la stessa accettazione di un rapporto di dipendenza non prevista dai codici? Non è possibile una più ampia generalizzazione se non rifacendoci di nuovo all’Ancien Régime.196 Saint-Simon era troppo vicino al trono per essere tanto inge­ nuo, ma, in occasione di un malore di Luigi XV, «si sarebbero potuti trovare davvero nella capitale un migliaio di uomini abbastanza folli da sacrificare la vita per salvare quella del re», scrive un contempora­ neo che parla di questa follia come di una cosa poco sorprendente di cui si poteva essere certi senza averla vista di persona.197 Nella Roma imperiale, per un malore di Caligola, alcuni romani fecero voto offren­ do la propria vita in cambio della sua guarigione;198 un tribuno della plebe aveva fatto lo stesso per Augusto malato;199 ma questi fatti sono stati riportati dagli storici come episodi eccezionali.

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In ogni caso, devota o meno che fosse, la popolazione dell’impero ave­ va anche le sue buone ragioni. Approfondendo lo studio sulla plebe di Roma, vedremo in seguito che per una sorta di antiparlamentarismo es­ sa preferiva alla repubblica la presenza di un sovrano, perché quella del sovrano è una figura patriarcale. Mentre l’imperatore si diceva repubblicano e le sue monete celebravano la gloria dei romani, il suo po­ polo si sentiva monarchico. E, secondo lo stile monarchico, tutto quel­ lo che faceva l’imperatore passava per un «beneficio», una «grazia», frutto della sua «indulgenza», comprese le più banali formalità ammi­ nistrative, come accordare la pensione ai veterani; pensione che spetta­ va loro di diritto, ma che bisognava richiedere alla bontà del principe. Per citare Mireille Corbier, questa finzione, tratta dal vocabolario delle relazioni familiari, permetteva a un regime fondato sull’apparato mili­ tare di incontrare la società civile.200 Questa clausola di stampo monarchico è carica di significato, per­ ché, per un verso, la parola «beneficio» doveva essere presa alla lette­ ra. L’imperatore era un benefattore, e un beneficio è per definizione estraneo alla generalità anonima delle leggi e delle norme, poiché vie­ ne concesso a titolo personale. E infatti, senza entrare nei dettagli, Cesare era giudice supremo, perlomeno in appello: lui solo poteva ac­ cordare un qualsiasi privilegio e chiunque aveva il diritto di pregarlo, di rivolgergli una richiesta, un’istanza, di fare appello al suo tribuna­ le.201 Oltre le magistrature e oltre la legislazione, scrive Claudia Moatti, ogni uomo libero, cittadino o pellegrino che fosse, ogni città, ogni provincia poteva avere un rapporto diretto con il suo imperatore.202 La persona dell’imperatore era la sede di ricorso supremo in ogni questione e il suo rapporto con i sudditi era virtualmente personale. Le numerose richieste indirizzate al principe, sommo giudice e legi­ slatore, concernevano spesso questioni insignificanti; e questo mostra quale idea il popolo si facesse di lui:203 era il padre della patria, e il verbo del padre era l’ultima parola del diritto e della giustizia. XVII Le reali relazioni tra potere e popolo, però, dipendevano troppo spesso da una concezione militare déWiimperium. In caso di una rivolta o di una sommossa cittadina, l’imperatore, si chiamasse Tiberio,204 Diocle­ ziano o Teodosio, poteva trattare i suoi sudditi, e persino i propri con­ cittadini, come gli Stati moderni trattavano gli indigeni delle colonie: inviava le truppe e queste facevano un massacro,205 prima di tutto col­ 39

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pendo al cuore la città nella persona dei suoi consiglieri municipali (po­ co importava se, a nostro modo di vedere, non erano in alcun modo coinvolti).206 Questo era talmente risaputo che in caso di sommossa tut­ ta la popolazione, senza distinzione tra ricchi e poveri, fuggiva dalla città verso le campagne circostanti, pronta a morire di fame, sfinimento o sotto le sciabole dei briganti 207 In circostanze ordinarie, l’esistenza non era certo migliore. L’impero, con la sua polizia politica e i suoi informatori, si presentava come quello che oggi chiameremmo un regi­ me di polizia in cui, sotto i principi più indulgenti, era opportuno evi­ tare di parlare di politica a tavola;208 i fatd raccolti da Ludwig Friedlànder in proposito sono eloquenti.209 Le istituzioni e i privilegi ereditati dalla città repubblicana si con­ traevano di fronte all’onnipotenza dell’imperatore, e mai a vantaggio delle popolazioni. Durante il secolo degli Antonini e della Pax Roma­ na, i tribunali con la giuria e il principio del contraddittorio hanno po­ co alla volta lasciato spazio, nel diritto civile come nel penale, alla giuri­ sdizione imperiale con la sua procedura inquisitoria, con i suoi delatori e le sue sentenze pronunciate dal giudice. La prospettiva rassegnata a una morte violenta era parte della men­ talità del tempo: la morte si aggirava per ogni dove nell’impero e tocca­ va tutti, grandi e piccoli210 Abbiamo enumerato le continue usurpazio­ ni, la morte violenta che due volte su tre coglieva i principi, la legge della giungla vigente nella classe governante, il diritto di vita e di morte detenuto dall’imperatore, le truppe inviate contro le popolazioni, Yimperium che svuota di significato l’idea di un «diritto» penale; aggiun­ giamo le confische abusive, l’impunità con cui i latifondisti schiacciava­ no i piccoli proprietari, le prigioni private per i debitori, gli abusi di au­ torità da parte dell’amministrazione e di potere da parte dei potenti, il grado elevato di ferocia e di arbitrarietà delle repressioni giuridiche o politiche, le cacce ai maghi o agli adulteri, gli infiniti capitoli della ve­ nialità, della corruzione, degli stravolgimenti e degli squeezes nell’am­ ministrazione, nella giustizia e nella vita economica. Secondo alcuni storici, in ogni epoca si riscontra un margine inevita­ bile di abuso e dunque quelli citati non sarebbero altro che aneddoti. Noi crediamo piuttosto che non ci sia nulla di aneddotico e che una differenza di fondo separi le società moderne da quelle antiche in cui il supposto margine inevitabile si estendeva a quasi tutta la società civile, dal momento che il potere centrale nelle prime non scende nel partico­ lare e si limita a mantenere sotto la propria autorità le grandi entità ter­ ritoriali e sociali. Gli «abusi», le sacche di anarchia e di arbitrarietà fa­ cevano parte del funzionamento abituale della società. Non bisogna ri­ condurle a un ordine diverso da quello dello Stato, come, per esempio, al sistema della clientela; i patronati di cui parla Libanio,211 e che uno 40

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storico inglese definisce più giustamente protection rackets, non si ridu­ cevano a un patto di protezione dei piccoli contadini contro i latifondi­ sti: i soldati proteggevano i contadini sottoponendoli a un racket, alla maniera di un sindacato operaio gestito da gangster. XVIII Agli occhi del popolo di Roma e dei greci, l’imperatore è un monarca, un basileus. Il legame del re con i suoi sudditi ha trovato suggello nel giuramento di dedizione alla persona del sovrano (e non alla repubbli­ ca e alle sue leggi). Ogni anno, infatti, tutti gli abitanti dell’impero, di Roma e delle province, prestavano giuramento all’imperatore;212 cia­ scuno prometteva di abbracciare senza riserve la causa del principe e della sua famiglia, di difenderli a costo della propria vita e di quella dei propri figli, di essere nemico di quanti loro considerassero nemici e di denunciare ogni azione, volontà o parola che fosse loro ostile. Non in­ tendo affermare che bastasse questo giuramento a condizionare l’atteg­ giamento delle masse, però è certo che poteva essere imposto solo a una popolazione incline alla monarchia. Ciò non ha niente a che vede­ re con il patronato, con la clientela: è un patto politico che lega incon­ dizionatamente i sudditi fedeli a una famiglia regnante, per la quale so­ no pronti a dare la vita, così come altri hanno il dovere di morire per la patria. Allo stesso modo vi sono sottesi il controllo delle coscienze e lo spirito di denuncia. A questo proposito, è bene ricordare che si vedono all’opera delatori già nel secondo decreto di Cirene,213 con il quale si denuncia al cospetto di Augusto un uomo che ha sottratto le statue del principe da un luogo pubblico. Questo decreto fornisce anche la prova di come le immagini imperiali fossero già ritenute sacre.214 Per le masse popolari, in maggioranza contadine, estranee alla città, il potere dell’imperatore è quello di un gigante la cui volontà è legge e il cui solo pensiero fa tremare. Libanio è eloquente: «Tra coloro che ignorano tutto dell’agorà, nessuno è tanto ardito da pretendere di esse­ re più forte della legge, e quando dico legge, intendo colui che 1 ha fat­ ta; puoi forse credere, o imperatore, che degli uomini che tremano alla sola vista del mantello militare dell’esattore delle tasse possano disprez­ zare il tuo potere imperiale?».215 Quando si prova a farsi un idea di questo potere lontano, ce lo si immagina come totale e semplice, e lo si percepisce come quella forma di comando che regola le relazioni nella vita quotidiana. «Fa’ il bene e ne avrai lode» se no userà la spada, scri­ ve san Paolo;216 certo, non capita tutti i giorni di venire condannati alla decapitazione dal governatore della provincia o dall’imperatore, né di ricevere «lodi» da lui in persona, ma questa esagerazione pone l’accen­ 41

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to sul fatto che tutti gli obblighi e tutti i divieti erano percepiti come se fossero emessi direttamente dalla bocca dell’autorità, proprio come per un bambino scaturiscono dalla bocca del padre. «Tutti costoro vanno contro i decreti dell’imperatore, affermando che c’è un altro re»217 (ov­ vero Gesù), affermavano gli ebrei di Tessalonica contro san Paolo; chia­ ramente non esistevano editti del genere, ma si capisce bene quanto il mondo politico fosse semplice e come la volontà imperiale significasse tutto per il popolo. Difendere la patria, come diremmo noi, equivaleva a battersi al fianco dell’imperatore, non lasciarlo solo.218 X IX Resta il fatto che il potere imperiale era tanto lontano quanto smisurato e che, per la maggior parte degli uomini, rappresentava una grande idea piuttosto che una realtà quotidiana: «Combattere al fianco del­ l’imperatore» non andava mai oltre l’obbedire al centurione o al legato di una legione. Era un potere paragonabile a quello degli dèi: Cesare e gli dèi erano, a gradi diversi, esseri superiori e onnipotenti rispetto agli uomini comuni. Tale analogia - perché si trattava solo di un’analogia da cui nessuno si lasciava ingannare - offre la chiave di lettura di un fe­ nomeno che continua a essere discusso, ovvero il culto degli imperato­ ri vivi o morti: si credeva davvero che fossero degli dèi? Forse la que­ stione non è così semplice. Esistono diversi modi di credere, e il culto imperiale era una di quelle sincere commedie cerimoniali che pervado­ no la vita pubblica e privata; una cosa è il sentimento, un’altra le parole che questo utilizza per esprimersi, per esempio la parola «dio». Sull’uso della parola «dio» si può affermare categoricamente che mai nessuno, né tra le persone colte né tra il popolo, ha creduto che l’impe­ ratore fosse un dio nel senso stretto della parola (non più di quanto po­ tremmo crederlo noi). Era una forzatura del termine, plausibile nell’accezone più labile che il paganesimo aveva degli dèi. Le argomentazioni di Fergus Millar non sono convincenti219 e noi crediamo piuttosto a Bowersock: «Nessun essere pensante ha mai creduto alla divinità di un imperatore vivente e, benché potesse accogliere la divinizzazione di un imperatore morto, gli riusciva impossibile considerare un imperatore dio alla stregua degli dèi propriamente detti».220 È impossibile, ieri co­ me oggi, prendere un uomo per un essere immortale; assistendo per strada al passaggio dell’imperatore o vedendolo spettatore al circo, non si guardava a lui come a un dio vivente. Come dice sant’Agostino, il culto imperiale era adulazione, non fede.221 Le radici del culto imperiale, di cui riparleremo, sono sicuramente profonde ma falsamente religiose. Si trattava soltanto di un culto istitu­ 42

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zionale, al punto che le città greche avevano potuto divinizzare altre entità politiche; prima che la repubblica lasciasse il posto al regime im­ periale, era stato fondato il culto della dea Roma, del Popolo di Roma, dei «Romani benefattori comuni», della Pistis (ovvero la Fedeltà a Ro­ ma e la Buona Fede romana)222 e persino di alcuni governatori romani; e, allo stesso modo, sarà l’autorità imperiale, nella figura del principe, a essere divinizzata piuttosto che gli uomini in carne e ossa che si succe­ deranno sul trono, spesso fin troppo umani. Questo culto di carattere ufficiale non nasce da un sentimento «primitivo» o popolare, né dalla credenza in uomini dalla natura divina come Apollonio di Tiana o Ge­ sù di Nazareth; nonostante l’esistenza di aneddoti, come quello abusa­ to sul futuro imperatore Vespasiano che guarisce un malato,223 i princi­ pi non avevano niente di carismatico o soprannaturale, non erano tau­ maturghi e non guarirono nessuno. Cominciamo da un argomento schiacciante: sulle migliaia di ex voto latini e greci che leggiamo, non ce n’è uno solo alla divinità degli impe­ ratori;224 quando, in caso di viaggio, di parto, di smarrimento o di una qualsiasi complicazione, si rendeva necessario un intervento sopranna­ turale, si faceva appello a un vero dio.225 Nelle lettere private su papiro solitamente l’intestazione era posta a seguito dell’invocazione a ima di­ vinità, che non era mai l’imperatore.226 Si è obiettato che la mentalità di un tempo non corrisponde alla nostra, ma i fatti addotti sono facilmen­ te rovesciabili: se davvero gli imperatori fossero stati considerati alla stregua di dèi, non sarebbero stati designati con espressioni quali «il divo Augusto» o «il divo Adriano», dal momento che per quelli era d ’uso dire semplicemente «Apollo» essendo la loro divinità inequivo­ cabile. Allo stesso modo, il fatto che si accordassero a un sovrano gli isotheoi timai, gli onori «pari a quelli degli dèi», implicava che egli non fosse un dio;227 se torni a combattere, gli Achei ti onoreranno come un dio {ison theoi), dice Fenice ad Achille nel libro IX delYIliade. I letterati facevano spallucce228 o sorridevano. Alcune pagine di Arriano si colorano consapevolmente di un complice umorismo: diventa­ to governatore di Cappadocia, Arriano invia ad Adriano i rapporti sul­ le coste del Mar Nero nella lingua e nello stile di Senofonte; senza la minima piaggeria, si rivolge al suo imperatore con il tono disinvolto di un degno elleno, sapendo di parlare a un uomo liberale quanto lui. E racconta con la massima semplicità all’imperatore di aver visitato un tempio in onore di Adriano divinizzato la cui dedica non era molto cor­ retta in greco, come del resto, scrive, ci si può aspettare dai barbari, e di aver lui stesso fatto un sacrificio alla divinità lì celebrata.229 Gli im­ peratori erano i primi a sorridere della loro divinizzazione, persino sul letto di morte: «Ahimè! Credo che sto per diventare un dio» 230 scher­ zava Vespasiano in punto di morte; e solo Caligola si immaginava che 43

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gli alessandrini lo considerassero realmente un dio, perché essi usavano e abusavano del linguaggio sacro che gli altri uomini riservano agli dei e lo facevano chiaramente, senza mezzi termini.231 Il culto imperiale è un falso mistero storico. Quello che ci sembra misterioso è che si sia potuto definire divino un uomo; per noi, crisria ni o postcristiani, «D io» è una parola incommensurabile. Non era cosi prima del cristianesimo: allora questa parola designava un essere supt· riore ai mortali, ma non trascendente come l’Essere dei monoteismi.'’’'' Basterà un esempio: gli dèi erano maschi o femmine. Quando si pro­ nunciava la parola «dio» non si guardava all’infinito, ma si saliva solo di un grado; e allora definire divino un uomo era iperbolico, ma non assurdo. L’equivalente moderno dell’imperatore-dio è l’uomo di genio, quell’idolo moderno che è il «capo geniale», come Stalin o Ceau§escu. La consapevolezza dell’iperbole era tale da circoscriversi entro i li miti del saggio buonsenso; basti notare che l’imperatore era trattato come un dio, ma a distanza e in sua assenza. I sacrifici del suo culto non erano mai offerti al principe in persona, nemmeno al tempo di Caligola,233 ma a qualche dio per la salvezza del principe.234 E anche a palazzo l’imperatore non era un dio in terra, anzi, quello era prati­ camente l’unico luogo al mondo dove non ci fosse traccia del culto imperiale.235 In una parola, il culto imperiale si riduceva a un rituale iperbolico. La divinizzazione dei re ellenici e degli imperatori romani, che comin­ cia solo in epoca ellenistica, a partire da Alessandro Magno, è stata un’innovazione recente e «dall’alto», non un fenomeno arcaico, popo­ lare, profondamente radicato nell’età primitiva. Questa manifestazio­ ne di lealismo era decisa, istituita ed elaborata dalle autorità locali o regionali, dai notabili; era un prodotto dell’alta cultura,236 una figura retorica. Quest’iperbole,237 e la scienza del rituale238 che ostentava, ri­ velano l’intervento di letterati e di specialisti del culto. Allo stesso mo­ do, l’elevazione di Stalin a uomo di genio non venne dal sentimento popolare, ma fu opera dei propagandisti. Del resto, la cura di questo culto era nelle mani dei notabili: la gente comune non aveva né l’ob­ bligo né la possibilità di manifestare la propria dedizione239 (i culti pubblici, lungi dall’essere affare di tutta la città, erano generalmente riservati all’élite). Il popolino partecipava alle cerimonie solo come spettatore dei giochi, in particolare dei combattimenti di gladiatori, e la festa contava per lui tanto quanto lo zelo monarchico. Solo la classe governante e possidente ne era interessata; stava dalla parte del partito dell’ordine. Ma questo culto, per quanto invenzione dei notabili, era comunque una grande facciata ufficiale, un’istituzione pubblica: era questo, e non la fittizia divinità dell’imperatore, a renderlo uno strumento di potere.

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Del resto, divinità fittizia o meno, il popolo considerava comunque l’imperatore un essere di grande statura. Il suo culto, novità di cultura e di alta società, sfruttava umili e ingenue credenze, diffuse e sponta­ nee, sulla sublimità del potere sovrano. Negli immaginari popolari, i si­ gnori onnipotenti (almeno si credeva che lo fossero) avevano una certa affinità240 con gli dèi, invisibili come loro. Ma quando si fa una stima di quanto in là poteva spingersi questa analogia, il culto imperiale cessa di sorprenderci. Ringrazio Christophe Goddard, le cui obiezioni all École frangaise di Roma mi hanno colpito e fatto riflettere. Tutto ciò che chiamiamo sentimento monarchico trova espressione qui nella libertà della retorica religiosa. Come con gli dèi, si ha con i re una relazione asimmetrica, eteronoma, fittizia, totale, lontana e poco concreta. Il re è di una statura superiore a quella degli uomini. Se si constata che, nella realta, egli occupa la cima di una scala gerarchica di cui non è altro che il gradino più alto, questo gradino sembrerà essere di una natura diversa dai gradini inferiori, a cominciare dal secondo, quello del primo ministro. Come quella degli dèi, tale superiorità non è dovuta a un qualche merito particolare, a una virtù, al talento politico, ma è una caratteristica innata. Il fatto è che il re non è un uomo che vie­ ne investito del potere: come gli dèi, egli è il rappresentante di una spe­ cie peculiare e superiore, la specie reale; la sua persona è inseparabile dalla sua funzione, ecco un’altra caratteristica specifica. Sarebbe trop­ po poco dire che la sua legittimità non è riducibile al carisma personale di un dittatore o a quella di un magistrato che sottostà ai termini di una costituzione:241 egli regna in virtù della sua natura reale. Se un dio ri­ tornasse tra gli uomini, diceva Platone, nessuno all infuori di lui po­ trebbe far loro da re. Non rispettare questo essere superiore era una bestemmia e come tale punibile. Nessuno lo ignorava: il re era onnipo­ tente, ma lo era alla maniera della Provvidenza, che è ovunque, ma che opera in maniera non visibile. Come lei, il re regna, ma non governa, e il suo potere non si misura in base all’azione che esercita sulla sorte dei suoi sudditi, suscettibili piuttosto ai cambiamenti della società civile e ai poteri a loro più vicini, come il capo, la famiglia, il padrone. La po­ tenza del re, come quella della Provvidenza, è tanto assoluta quanto inafferrabile; non è lui che decide l’ammontare dei nostri salari. La sua è una figura splendida e temuta, ma lontana, come sospesa sopra le genti, e la sua autorità è presupposta, senza essere misurata in base al­ l’esperienza quotidiana dei sudditi. Non ci si domanda nemmeno se questo potere non sia più apparente che reale, se il primo ministro non sia più potente del re: si giudica in base al titolo. Insomma, il re occupa una parte importante nella visione del mondo; è 1 uomo più in vista del­ 45

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l’impero, e la sua vita, come quella degli dèi, sta a cuore a tutti; anche l’ultimo dei sudditi dell’impero, nel profondo della Spagna e della Si­ ria, era a conoscenza dell’esistenza dell’imperatore, pur ignorando tal­ volta il nome di chi sedeva sul trono in quel momento. Se tale è stato il sentimento delle masse, si capisce come il culto imperiale sia potuto passare indenne attraverso il drammatico mezzo secolo che ha visto succedersi un numero di imperatori pari quasi a quello degli anni: a es­ sere celebrata era l’immagine della monarchia.242 XXI Se il lealismo poteva dunque essere letto come metafora della fede reli­ giosa, era perché tra il re e i suoi sudditi c’era una distanza, simile a quella che separava gli uomini dagli dèi pagani. Fino al XVIII secolo, il popolo e i suoi sovrani erano divisi dalla stessa asimmetria che separa «grandi» e bambini (dove i governati, come i bambini che vengono bat­ tuti, potevano subire punizioni corporali, torture e supplizi).243 In que­ sti tempi «infantili», non esistevano opinione pubblica o dibattiti poli­ tici;244 si potevano maledire il re e le tasse in un moto collerico, ma il popolo non discuteva di alta politica. Le affermazioni oltraggiose o bef­ farde che oggi noi potremmo scrivere o pensare sul nostro presidente della repubblica, meno di tre secoli fa ci sarebbero costate la libertà o la vita. In ogni caso, l’obbediente deferenza dei piccoli verso i grandi, nobili o notabili, avrà fine solo nel corso def X IX secolo. Eccoci di fronte a un piccolo terremoto della storia. XXII Fermo restando quanto detto, il pensiero non è granitico: l’amore per l’imperatore non era monolitico come l’affetto di un cane per il suo pa­ drone; un filo di scetticismo e un sospetto di malafede lo accompagna­ vano in sordina. Più di una volta nel corso della storia si è guardato al re pensando che fosse solo un poveretto o che fosse vittima degli in­ ganni dei suoi ministri. Durante l’Ancien Régime, l’immagine reale ve­ niva «salvata» dalla persuasione che l’errore non fosse del re ma dei suoi ministri. La doppia immagine del sovrano è attestata ovunque, e anche in questo dobbiamo dare ragione a Wallace-Hadrill. Per i pagani l’imperatore era un essere superiore, e per i cristiani era sacratissimus, un capo cui accostarsi solamente in ginocchio, ma che in altre circo­ stanze era o doveva mostrarsi un principe buono, affabile e semplice; persino il rigido Costanzo II sarà onorato per la sua cordialità.

Che cos’era un imperatore romano?

Dal regno di Augusto a quello di Onorio fino a Bisanzio, si tennero cerimonie durante le quali l’imperatore si inginocchiava davanti al po­ polo romano riunito nel circo e gli inviava dei baci.245 A Roma il circo era il luogo in cui il popolo romano con grida, proteste, lazzi, poteva prendersi la rivincita sul suo signore, presente sotto gli occhi di tutti du­ rante le corse dei carri.246 La doppia natura del principe si rese palese in tutta la sua contraddittorietà in occasione della visita di Costanzo II a Roma nel 357. Il sovrano fece il suo ingresso in città su un carro dorato e mantenne per tutto il percorso un atteggiamento ieratico e un’immo­ bilità statuaria; ma una volta nel circo «si divertiva per i motteggi della plebe, che non si mostrava né superba, né lontana dalla libertà [libertas] d’espressione ormai connaturata; e lui stesso si attenne con rispetto alla dovuta misura»,247 tra alterigia e familiarità. Una giusta misura che Giu­ liano, troppo filosofo, non seppe mantenere; si vantava di parlare da pa­ ri a pari con tutti e di «mischiarsi ai suoi sudditi». E quando fece di An­ tiochia la sua capitale, alcuni manifestanti approfittarono della tradizio­ nale licenza dei Saturnali o delle feste in celebrazione del nuovo anno per urlare contro al principe gli insulti più violenti.248 In effetti, l’idea che ci si faceva del principe era ambivalente. Da un lato, era un essere notevole, venerato e amato come il re delle canzoni popolari francesi, dall’altro incarnava il governo di cui, come dimostra­ no le nostre conversazioni da bar, non si ha mai da dir bene, non fosse altro perché bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare. Stessa dualità si può riscontrare persino nell’antico Egitto, dove il faraone era al tem­ po stesso dio in terra e despota, figura a cui i racconti popolari attribui­ vano un ruolo poco rispettabile e addirittura ridicolo.249 Concludiamo allora con due argomenti di conversazione da taverna, cari agli antichi. Gli agricoltori e i marinai, scrive Epitteto,250 maledico­ no Zeus quando c’è cattivo tempo, così come non si smette mai di par­ lar male di Cesare; Cesare non lo ignora, tuttavia sa anche che, se casti­ gasse tutti quelli che lo maledicono, spopolerebbe il suo impero. Ma al­ meno i sudditi di Cesare sapevano fare distinzioni tra i loro imperatori? Non erano sempre gli stessi e non era forse sempre la stessa vita? Dalla lontana Cirenaica, Sinesio, verso il 405, scrive a un amico: «Non si du­ bita affatto dell’esistenza di un imperatore, giacché ci sono gli esattori delle tasse a ricordarlo ogni anno, ma della sua identità non si è altret­ tanto sicuri. C’è tra noi qualcuno convinto addirittura che a regnare sia ancora Agamennone».251 Sinesio aveva delle ragioni personali per tro­ vare che i principi fossero troppo lontani,252 ma quanto dice non è sba­ gliato: per i sudditi l’imperatore era solo un oggetto di venerazione e una fonte di impotente malumore; un po’ come la schiera di «quelli» che popolano le nostre conversazioni al bar, nelle quali ci lamentiamo del governo e dei politici. 47

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I miei ringraziamenti vanno all’attore Michel Piccoli, allo storico Christophe Goddard e al sociologo Jean-Claude Passeron. L’analogia tra cesarismo e califfato è profonda: si veda G. Dagron, Empereur et Prètre: étude sur le «cesaropapisme» byzantin, Paris 1996, pp. 70-73, La somiglianza con il sultanato ottomano è impressionante: la medesima fittizia scelta del sultano da parte della comunità, rappresentata da alti dignitari militari e religiosi, il medesimo rischio di guerra civile a ogni cambio di regno; si veda N. Vatin e G. Veinstein, Le Sérail ébranlé: essai sur les morts, dépositions et avènements des sultans ottomans, Pa­ ris 2003. G. Dagron, Empereur et Prètre, cit., p, 72. In linea di principio, ma l’inerzia e la negligenza facevano sì che non sempre il suc­ cessore si prendesse la pena di rinnovare le decisioni e che le ritenesse ancora vali­ de: M. Hammond, The Antonine Monarchy, Rome 1959, pp. 339-345. T. Mommsen, Staatsrecht, II, 2, p. 911. Plinio, Panegirico, XXIV, 5 {ante teprincipes), e XXVIII, 3 (antea principes)·, Liba. nio, disc. X X X , 6-7 {In difesa dei templi). G. Dagron, Empereur et Prètre, cit., p. 70, cfr. p, 72. John Scheid in F. Jacques e J. Scheid, Rome et l’intégration de l’Empire, Paris 1990, I, p. 29 (trad. it. Roma e il suo impero: istituzioni, economia, religione, Laterza, Roma-Bari 2005). J. Béranger, Recherches sur l’aspect idéologique du principat, Bàie 1953, p. 272, La prima eccezione sarà il prefetto del pretorio Macrino nel 217, ma, come prefet­ to, aveva senz’altro ricevuto gli ornamenta consularia-, cfr. Corpus Inscriptionum Latinarum (CIL), XV, 7050: « Pr[aefecti] pr[aetorio], diarissimi] v[irij». E. Flaig, Den Kaiser herausfordern: die Osurpation ìm Romischen Reich, Frankfurt 1982, p. 190, n. 40. Vedremo in seguito che una legge non scritta escludeva dal trono ogni uomo di origine ellenica. Nel IV e V secolo, un’altra legge non scritta escluderà dal trono tutti i generali di origine germanica, da Bautone o Stilicone a Ricimero o Addoga­ ste, che creavano imperatori fantoccio per governare nell’ombra. E. Stein, Histoire du Bas-Empire, Amsterdam 1968,1, p. 1. Vespasiano dichiarò al Senato che avrebbe avuto come successore i suoi figli o nes­ sun altro (Svetonio, Vespasiano, XXV). Plinio, Panegirico, VII, 7; XCIV, 5 (ed. it. Lettere ai familiari. Carteggio con Traia­ no. Panegirico a Traiano, trad. di Luigi Rusca e di Enrico Faelli, Bur, Milano 2000, voi. II, p. 941): che Traiano designi come successore un figlio naturale o adottivo. Tacito, Storie, 1 ,16: «Unius familiae quasi hereditas fuimus». Il trono spettava all’ultimo sopravvissuto di una famiglia, anche se questi passava per incapace (Claudio) o era un principe sospetto e quasi dimenticato (Giuliano). Furono i pretoriani a far uscire Claudio dal suo nascondiglio per farlo imperatore. R. Syme, Tacitus, Oxford 1963,1, p. 234 (trad. it. Tacito, Paideia, Brescia 1971). Come scrive Gibbon a proposito della salita al trono di Arcadio e Onorio, «il peri­ coloso esempio di una nuova elezione non venne ad avvertire il popolo e i soldati dei loro diritti e della loro potenza». R.R.R. Smith in «Journal of Roman Studies» (JRS), 87,1997, p, 180. G. Dagron, Empereur et Prètre, cit., pp. 42-43, in riferimento alla trasmissione del potere presso gli imperatori bizantini. F. Hurlet, Les Collègues du prince sous Auguste et Tihère: de la légalité républicaine à la légitimitédynastique, Rome 1997, p. 546. Prima del 180, Pertinace fu legato nelle Tre Dacie, Didio Giuliano in Dalmazia. 48

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Quanto a Pescennio Nigro e Clodio Albino, futuri rivali di Settimio Severo, anche loro comandavano sul Danubio almeno dall’inizio del regno di Commodo. Alla fi­ ne del II secolo, esisteva una sorta di diritto ad aspirare al trono per i capi di que­ sto esercito, diritto conquistato durante le dure guerre di difesa di quei decenni. Tacito, Storie, 1,17: quando Galba adotta Pisone crea un futuro imperatore, il suo successore. Ma ancora bisogna annunciare l’adozione agli interpreti del consenso, ovvero far accettare Pisone come successore, presentarlo al popolo romano (ossia ai comizi), al Senato e all’esercito. D a chi cominciare? Dall’esercito, rappresentato dai pretoriani che si trovano sul posto, nella stessa Roma: i soldati saranno sensibi­ li al fatto che si sia iniziato da loro. J. Burckhardt, Die Zeit Constantins des Grofien, Wien 1949, p. 243 (trad. it. L’età di Costantino il Grande, Sansoni, Firenze 1957). Tanto che, durante l’impero, un membro della famiglia regnante può essere più popolare dell’imperatore; è il caso di Druso e dei suoi discendenti sotto i GiulioClaudi. Ne consegue che l’imperatore si sente minacciato dai suoi stessi parenti; Costantino farà uccidere il figlio Crispo, troppo popolare. L a domus divina ha acquisito rapidamente la stessa «maestosità» dell’imperatore·, una principessa imperiale adultera e il suo complice si macchieranno quindi di alto tradimento (da cui già l’esilio delle due Giulie, figlia e nipote di Augusto; è anche la spiegazione più semplice per l’esilio di Ovidio). Si veda M. Corbier, « Maiestas domus Augustae», in G. Angeli Bertinelli e A. Donati (a cura di), Atti del colloquio intema­ zionale di epigrafia, Bertinoro, 8-10 giugno 2000, Faenza 2001, p. 155. Al contrario, i fratelli dell’imperatore non hanno alcun privilegio se non sono principi di sangue. Lucano, IV, 821 (ed. it. Farsaglia o la guena civile, trad. di Luca Canali, Bur, Mila­ no 2002, p. 297). R. Syme, The Augustan Aristocracy, Oxford 1986, cap. X III (trad. it. E aristocrazia augustea, Bur, Milano 1993). Plutarco, Vita di Demetrio Poliorcete, III, 5; Agrippa Postumo fu assassinato da Tiberio; Tiberio Gemello da Caligola; Silano, Rubellio Plauto e Cornelio Siila (tutti e tre appartenenti alla gens giulia e, quindi, potenziali usurpatori) da Nero­ ne. Claudio non aveva nessuno da uccidere: era l’ultimo dei Claudi e, dalla parte del suo defunto fratello Germ anico, sopravvivevano solo tre donne (tra cui Agrippina). Sul consenso, L. Wickert nel grande articolo «Princeps» della Realencyclopàdie di Pauly-Wissowa, col. 2264-2269. E. Flaig, Den Kaiser herausfordern, cit., pp. 196201 e 559-560 (fondamentale). Sulle manifestazioni provinciali del consenso, F. Hurlet in H. Inglebert (éd.), Idéologies et Valeurs civiques dans le monde romain: hommage à Claude Lepelley, Paris 2002, pp. 170-173. Augusto, Res gestae, 34; Tacito, Storie, I, 3 0 ,2 ; Svetonio, Caligola, XIV, 1 (assenso unanime del Senato e del popolo di Roma). Plinio, Panegirico, X , 2: «O ltre ciò tu intendevi che volevi che v’era il consenso del Senato e del popolo: l’elezione tua non fu un giudizio e una scelta del solo Nerva. Poiché quanti uomini sono al mondo ciò sospiravano coi loro voti: egli, solamente, usando il diritto di Principe, precedette tutti, e fu il primo a fare quello che tutti stavano per fare. Né certamente questo avrebbe arrecato a tutti tanto godimento, se non fosse stato desiderato prima che avve­ nisse» (ed. it. op. cit., p. 949). Pseudo-Elio Aristide, XXXV, 5-7: un imperatore ottiene il potere sia perché è stato scelto da alcuni - e allora è un’imposizione — sia dal suo predecessore - ma allora si tratta solo di un fatto di successione fa­ miliare, di eredità. Mentre il principe sconosciuto (Filippo l’Arabo, Gallieno), elogiato dal nostro retore anonimo è diventato principe «per richiesta di tutti» e 49

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«si è dato a coloro che lo richiedevano e lo invocavano»; e a ragione: « L ’onore della regalità gli era dovuto da sempre, per via della sua virtù». Certo, «il con­ senso unanime può essere dovuto alla paura, al rispetto per l’autorità, o, come in questo caso, alla scelta migliore e più legittima»; prova ne è che il nostro prin­ cipe non è salito al trono dopo una guerra civile. G. Dagron, L’Empire romain d’Orient au quatrième siede et les traditions politiques de l’hellenisme: le témoignage de Thémistius, Centre de recherche d ’histoire et civilisations byzantines, «Travaux et mémoires», 3, 1968, p. 136. T. Mommsen, Staatsrecht, II, 2, cit., p. 1133: «Nicht bloB praktisch, sondem auch theoretisch eine [...] rechtlich permanente Revolution». L. Wickert, «Princeps», cit., col. 2290-2293. Qualche eccezione unicamente presso Ammiano Marcellino, ma in un senso molto particolare. E. Flaig, Oen Kaiser herausfordern, cit., p. 559: «L ’ideologia del principato mette il puro e semplice consensus universorum alla base della sovranità. Il contenuto poli­ tico del consenso consiste giustamente nel non piegarsi a nessun criterio di legitti­ mazione, e questo in virtù dell’idea stessa di consenso, poiché il consenso è quello di più gruppi senza che venga istituito quale sia il gruppo in grado di fondare ogni volta il nuovo consenso. Non era istituito niente di simile, non poteva esserci un criterio univoco di legittimità». Questo titolo non si riferisce, come si è a lungo supposto, all’imperium proconsulare del diritto pubblico; da Claudio o Vespasiano significa semplicemente che l’e­ sercito avanza o impone la candidatura di uno dei suoi capi (A. Pabst, Comitia im­ perii: ideelle Grundlagen des romischen Kaisertums, Darmstadt 1997, pp. 156-178, in particolare pp. 158-163). Sappiamo che i Severi prenderanno come dies imperii il giorno della loro proclamazione da parte dell’esercito. E. Flaig, Oen Kaiser herausfordern, cit., pp. 555-560, con la discussione sulla «clau­ sola transitoria» della lex de imperio. T. Mommsen, Staatsrecht, II, cit., pp. 874-875. Ibid., p. 1133. In realtà, i comizi minori non sono che una finzione cerimoniale, ed è il Senato ad aver ratificato praticamente tutto; tanto che, per semplificare, un documento falso della Storia Augusta, Alessandro Severo, V ili, 1 dirà che il Senato stesso ha «con­ ferito» il potere proconsolare e il potere tribunizio al nuovo principe. Quello che gli Atti dei fratelli A n a li {Commentartifratrum Analium qui supersunt: les copies épigraphiques des protocoles annuels de la Confrérie A nale, éd. J. Scheid, Rome 1998) chiamano comitia tribunicia o trihuniciae potestatis e comitia pontificatus maximi. T. Mommsen, Staatsrecht, II, 2, cit., p. 1133: «L a volontà del popolo è giustificata sempre e ovunque, mentre l’autentica volontà della collettività si manifesta attra­ verso il diritto del più forte. Non solo in pratica, ma anche in teoria, il principato è un’autocrazia temperata da una rivoluzione che è legalmente permanente». John Scheid in F. Jacques e J. Scheid, Rome et l’intégration de l’Empire, cit., I, pp. 22-25, prospettiva personale dell’attuale stato della questione. Cassio Dione, L X X X , 2 ,3 , a proposito di Elagabalo. E. Flaig, Den Kaiser herausfordern, cit., pp. 197-201. Plinio, Panegirico, X , 2: Traia­ no è stato scelto dalla totalità della popolazione {«Qui uhique sunt homines»), per­ ché Nerva non aveva fatto che servirsi del diritto del principe per essere il primo a fare ciò che tutti avrebbero fatto. Come scrive Angela Pabst, Comitia imperii, cit., p. 118, il fatto (supposto) del consenso è più importante delle forme che riveste. Un tiranno usurpa il tanto ambito titolo «nell’ultimo angolo della terra, aU’insapu­ 50

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ta delle legioni, contro il desiderio delle province»: Panegirici latini, X II, 31, 2 (Teodosio) (ed. it. Panegirici latini, a cura di D. Lassandro e G. Micunco, Utet, To­ rino 2000, p. 493). E. Flaig, Oen Kaiser herausfordern, cit., p. 126. Sulla politicizzazione del popolo di Roma durante l’impero, nonostante quanto so­ stiene Giovenale, si veda in seguito il capitolo 3. M.I. Rostovtzeff, The Social and Economie History o f thè Roman Empire, Oxford 1957 (trad. it. Storia economica e sociale dell’impero romano, Sansoni, Milano 2003). Svetonio, Domiziano, X X III, 1: «N isi duces defuissent»·, Cassio Dione, LXVII, 15,

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Filostrato, Vite dei sofisti, (p. 488, Olear) Secondo la testimonianza di Tacito, Storie, III, 3 ,1 , in occasione di una riunione di alta politica, «i centurioni ed alcuni soldati erano presenti al consiglio» (ed. it. Sto­ rie, trad. di Felice Dessi, Bur, Milano 1999, voi. II, p. 443). 52. Nel Per il VI consolato di Onorio, 5-10, Claudiano non dice che Onorio ha fatto ri­ nascere i comizi del popolo romano, ma che li ha rinnovati, restituendo loro la se­ rietà, e che ormai la plebe occupa lo stesso posto dei soldati. 53. A. Pabst, Comitia imperli, cit., pp. 1-32 {comitiapurpurae)·, sul consenso dei solda­ ti, p. 24. 54. Panegirici latini, ΧΠ, 31,2: «Omnium suffragio mìlitum, consensu provindarum». 55. San Gerolamo, Lettere, 146,1, citato da A. Pabst, Comitia imperii, cit., p. 17. 56. L a testimonianza di Claudiano, citata sopra, mostra che quanto ai comizi si può dar credito a Storia Augusta e Tacito, VII, 3. 57. R. Syme, Tadtus, cit., p. 412. 58. Ibid., p. 370 e 410. Sul rifiuto del potere, J. Béranger, Recherches sur l’aspect idéologique du principat, cit., p. 137; A. Wallace-Hadrill, « Civilis princeps»: hetween Citizen and King, «JR S», 72,1982, p. 37, mostra che la commedia della recusatio si spingeva ancora oltre: «It was a ritual performed throughout thè reign ofeach emperor, in an astonishing variety of contexts». 59. M. Bloch, La Société féodale, II: Les Classes et le gouvernement des hommes, p. 153 (trad. it. La sodetà feudale, Einaudi, Torino 1999). 60. Si veda, per esempio, S. Elbern, Usurpationen im spàtromischen Reich, Bonn 1984, p. 136. 61. Quella di Atilio Tiziano e quella di Cornelio Prisciano {Storia Augusta, Antonino Pio, VII, 3-4, confermate dall’epigrafe). Durante il regno di Gallieno ci furono continui tentativi di usurpazione (Ammiano Marcellino, X X I, 15). 62. K. Strobel, Das Imperium Romanum im 3. ]ahrhundert: Modell einer historischen Krise?, Stuttgart 1993, p. 296 (di cui sono venuto a conoscenza grazie a Paul Zanker). 63. Tutt’al più si lamenteranno in segreto della sua goffaggine o accuseranno i ministri del re, cattivi reggenti del dominio, e spingeranno discretamente il reggente più abile verso il ministero. 64. Questa parola aveva due significati (C. Wirszubski, Libertas as a Politicai Idea, Cambridge 1950, p. 168, [trad. it. Libertas: concetto politico di libertà a Roma tra repubblica e impero, Laterza, Bari 1957]; J. Béranger, Recherches sur l’aspect idéologique du principat, cit., p. 269): in primo luogo indicava l’interesse per quel tutto che era la collettività - fermare un’invasione barbarica voleva quindi dire servire la repubblica; in secondo luogo si riferiva alle istituzioni tradizionali. 65. Sui significati delle parole res pubtica, C. Moatti, Res publica et droit dans la Rome 51

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L’impero greco-romano républicaine, «M EFR » (Moyen Àge), 113,2001, p. 811. Ristabilire la res publica è un tema di propaganda: la repubblica è stata restaurata (revocata) da Augusto, scri­ ve Velleio Patercolo, II, 89, 3. Ma, in pratica, questo significa anche che venivano conservate le istituzioni repubblicane (consolato, magistrature e promagistrature) che costituivano un po’ l’ortografìa del nome romano, il volto di Roma, e che le fa­ miglie senatoriali mantenevano il loro ruolo di classe dirigente. Tale restaurazione, quindi, non ebbe nulla della finzione ingannevole (J. Bleicken, Verfassungs- und So­ zialgeschichte des rómischen Kaiserreiches, Schòningh 1981,1, p. 84). D. Fustel de Coulanges, Histoire des institutions politiques de ΐ ancienne France, I: La Gaule re­ marne, Paris 1901,1, p. 150, n. 6: «Alcune menti superficiali non hanno mancato di dire che Augusto e i suoi successori mantennero la parola repubblica per inganna­ re meglio gli uomini. È un modo comodo, ma puerile, di spiegare gli atti imperiali. In storia, bisogna tenere in gran conto le idee degli uomini; Augusto e i suoi suc­ cessori, per almeno tre secoli, lasciarono che l’idea di repubblica sussistesse per la sola ragione che tale idea dominava nelle loro menti come in quella dei contempo­ ranei». 66. F. Burdeau, «L’impereur d’après les panégyriques latins», in F. Burdeau, N. Charbonnel e M. Humbert, Aspects de l’Empire romain, Paris 1964, pp. 45-46. 67. J. Bleicken, Verfassungs- undSozialgeschichte des rómischen Kaiserreiches, cit., I, p. 278. 68. Tacito, Storie, II, 72 (ed. it. op. cit., voi. 1, p. 385): «In Istria [...] c’erano delle tenu­ te e dei clienti dei vecchi Crassi e il loro nome vi era popolare». Questo fatto non era riservato all’ordine senatoriale: nel 69, un ex tribuno dei pretoriani e procura­ tore imperiale trascina nel partito dei Flavi la sua città natale, Fréjus (Forum lulii) che gli era assolutamente devota «per spirito municipale e per speranza di ima sua futura potenza» (Storie, III, 43 [ed. it. op. cit., voi. II, p. 511]). 69. Si confronti una pagina di J. Schumpeter, Impérialisme et Classes sociales, Paris 1972, p. 101. 70. Su questo compromesso, J. Bleicken, Verfassungs- und Sozialgeschichte des rómi­ schen Kaiserreiches, cit., I, p. 27; D. Kienast, Augustus Prinzeps und Monarch, Darmstadt 1982, p. 78. 71. L’imperium, questo potere assoluto, assomiglia al comando militare. I magistrati dotati di imperium e l’imperatore si arrogavano il diritto di punire chi disobbediva; un delitto era infatti anche una disobbedienza (T. Mommsen, Staatsrecht, I, cit., p. 137). Il popolo romano e il Senato si attribuivano, o si suppone che si attribuisse­ ro, dei capi, non dei rappresentanti. L’assolutismo è inerente allo spirito romano. Una volta che il potere pubblico è stato assegnato a un personaggio, imperatore o governatore di provincia, diviene assoluto, completo, inappellabile, praticamente illimitato, diritto di vita e di morte compresi. 72. Per convolare a giuste nozze con Agrippina, di cui è lo zio paterno, Claudio ha bi­ sogno di un senatus consultum che renda questo genere di unioni legali per tutti (M. Kaser, Das rómische Privatrecht, Miinchen 1971,1, p. 316 e n. 62). Giustiniano farà una legge per poter sposare l’attrice Teodora (Codice giustinianeo, V, 4,23). 73. Claudio non aveva bisogno dell’approvazione del Senato per farvi entrare dei no­ bili gallici; ma nell’interesse dei suoi protetti gallici ha voluto rendere i senatori te­ stimoni e complici forzati (R. Syme, Tacitus, cit., pp. 459-460) di una politica gene­ rosa che offendeva il loro snobismo. 74. Nella nuova Cambridge Ancient History, XI: The High Empire, Cambridge 2000, p. 235. 75. Si discute sulla portata della «clausola d’iniziativa» della lex de imperio Vespasiani, 52

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secondo cui Augusto aveva il diritto di fare tutto ciò che era nell’interesse della re­ pubblica e che metteva in gioco l’interesse superiore delle cose divine e umane, pubbliche e private. Diritto di iniziativa universale, compreso in materia di leggi? Diritto di iniziativa in caso di stato di allerta? Nelle Istituzioni di Giustiniano, II, 2 3,1 e 2 5 ,1 , l’esempio dei fidecommessi è sor­ prendente e rende chiaro quale fosse il clima dell’epoca augustea, al di là delle di­ scussioni sui poteri di Augusto. Preoccupandosi di lasciare ai senatori il loro ruolo, egli domandò (in virtù del suo potere tribunizio?) ai consoli di imporre (con che diritto?) la loro autoritas [sic] in un caso singolo di fidecommesso non rispettato, su cui un cittadino privato l’aveva pregato di intervenire (con che diritto?). Sugli inizi della cognitio extra ordinem si veda M. Kaser, Das rómische Zivilprozessrecht, cit., p. 354 e n. 3 e p. 340 e n. 11. Già al tempo di Siila, nell’83, le persone tendeva­ no a chiedere giustizia rivolgendosi a chiunque detenesse un potere eccezionale (F. Millar, The Emperor in thè Roman World, New York 1977, p. 520). I provinciali considerano l’imperatore come un sovrano onnipotente; nel 29, un pescatore di Gyaros si reca da Ottaviano per chiedergli uno sgravio tributario (Strabone, X , 5, 2, p. 458, citato da A. Linott, Imperium Romanum, Politics and Administration, London 1996, pp. 112-116). M. Kasar, Das rómische Zivilprozessrecht, cit., pp. 342 e 354. Cassio Dione, LUI, 17,6, non senza le osservazioni di Mommsen (Staatsrecht, Π, 2, cit., pp. 959-960 e n. 3), il quale suppone che una legge speciale avesse accordato ad Augusto un tale diritto su cavalieri e senatori all’interno del pomerio; in realtà, la precisione della formula di Cassio Dione fa pensare che la disposizione fosse un pezzo preciso del puzzle giuridico dei poteri imperiali. Infatti non è chiaro come il potere tribunizio e l’imperium maius potessero attribuire questo diritto al principe persino a Roma. Questo pezzo isolato del puzzle basta a suggerire quanto sia in­ certa e vaga la nostra conoscenza del diritto pubblico a riguardo dei poteri del principe. F. Millar, The Emperor in thè Roman World, cit., p. 527: «Qualunque sia la giustifi­ cazione legale, se ne esiste una, il potere del principe di infliggere la morte, la con­ fisca o l’esilio è, dagli inizi del principato, parte integrante del suo ruolo». I nipoti di Giuda, «fratello suo [del Signore] secondo la carne» scrive Eusebio (Storia ecclesiastica, III, 20 [ed. it. Storia ecclesiastica, trad. di F. Maspero e M. Ceva, Rusconi, Milano 1979, p. 184]), il cui vocabolario distingue nettamente tra i fratelli del Signore e i suoi cugini. Tacito, Annali, XIII, 4, 2; Cassio Dione, LX I, 3 ,1 ; Plinio, Panegirico, LXVI, 2 ,3 ; Codice teodosiano, Novelle di Maggioriano, 1. Libanio, disc. 1 ,99 (Autobiografia). Ma è valido anche per i secoli precedenti. Velleio Patercolo, II, 119, citato da Y. Rivière, Les Délateurs sous l’Empire romain, Rome 2002, p. 225. T. Mommsen, Strafrecht, p. 264: «Der Kaiserprozess ist in der Tat die Handhabung des Kriegsrechts»; cfr. pp. 43 e 547. Y. Thomas, «L es procédures de la majesté: la torture et l’enquète depuis les JulioClaudiens», in M. Humbert e Y. Thomas (éd.), Mélanges à la mémoire de André Magdelain, Paris 1999, p. 481. R. Syme, TheAugustan Aristocracy, cit., p. 448. P.A. Brunt, The role o f thè Senate in thè Augustqn regime, «Classical Quarterly», 34,1984, in particolare p. 444. A. Wallace-Hadrill, «C ivilis princeps»: between Citizens and King, «JR S », 72, 1982, pp. 32-48. P. Veyne, Le Pain et le Cirque, Paris 1976 (trad it. I l pane e il cir­ 53

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co, il Mulino, Bologna 1984, p. 643): «Il cesarismo era fondato su un’assurdità: l’imperatore, per quanto sovrano per diritto soggettivo, era creato dai suoi sud­ diti». A. de Tocqueville, La democrazia in America, Bur, Milano 1992, p. 128. Formalmente attestato da Cassio Dione, LUI, 20,4. Nelle iscrizioni, a partire dai Severi, ogni volta che ima dedica imperiale non è ope­ ra di un semplice cittadino privato, ma di un personaggio (CIL, X II, 1851, per esempio) o di un corpo costituito, fosse anche un semplice collegio di artigiani, tale persona fisica o morale si dice « d[evotus] n[umini] m[aiestati]q[ue] e[ius]», come rivolgendo la parola all’imperatore (D. Fustel de Coulanges, Histoire des institutions politiques de l’ancienne France, I: La Gaule romaine, cit., p. 177 e note; F. Taeger, Charisma: Studien zur Geschichte des antiken Herrscherkultes, Stuttgart 1960, II, p. 244, che, comunque, non ha fatto il confronto con il passo di Cassio Dione). Approfittiamo dell’occasione per segnalare quanto segue: secondo Fustel, una for­ mula come prò salute imperatoris, porticus cum columnis o taurobolium «implica una grossa offerta fatta per onorare un voto». Ma allora, questa non potrebbe essere la spiegazione dell’obligatio ex voto (Digesto, L, 12,2), obbligo apparentemente reli­ gioso il cui posto nello ius civile imbarazza i giuristi? Sarà diventato obbligatorio perché analogo all’obbligo di fare offerte per una città: non si trattava di una sem­ plice offerta ma di un voto agli dèi per la conservazione del principe, probabilmen­ te in occasione di un sacrificio, poiché la città può esigere l’esecuzione di tale voto. Tacito, Annali, II, 87; R. Syme, Tacitus, cit., p. 427. Frontone paragonava Adriano a Marte Gradivo e Dite, dèi di morte da placare, da tenere in conto il più possibile, ma senza amarli. Sulla rottura rappresentata da questo ritratto si veda P. Zanker, Die Maske des Sokrates: das Bilddes lntellektuellen in der antiken Kunst, Munchen 1995, p. 525 (trad. it. La maschera di Socrate: l’immagine dell’intellettuale nell’arte antica, Einaudi, To­ rino 1997). Su questo concetto (per esempio in Lucano, 1 ,45, o Plinio, Panegirico, LX X X V I, 3, e nel senatus consultum su Pisone che è stato pubblicato nell’«Année epigraphique», 1996, n. 885, 1, 130: «Statio prò re publica») si veda J. Béranger, Recherches sur l’aspect idéologique du principat, cit., pp. 184-186. L’espressione risale ad Augu­ sto. A lungo si è creduto di individuare in questo sguardo il «carattere» di Caracalla (così come si riconosceva nel ritratto di Pompeo un uomo «gonfio di vanità»). In effetti, Caracalla sembra stare di sentinella, come Diomede che monta la guardia con sguardo sospettoso nella rappresentazione del ratto del Palladio; Furtwangler l’aveva già detto nel 1893. Si veda D. Ròssler, «D er Stilbegriff und die Portratkunst des 3. Jahrh.», in Der Stilbegriff in den Altertumswissenschaften, Rostock 1993, p. 112; C. Maderna, Jupiter, Diomedes und Hermes als Vorbilder fur romischen Bildnisstatuen, Heidelberg 1982; H .G . Niemeyer, Studien zur statuarischen Darstellung der romischen Kaiser, Berlin 1968, p. 62. Sull’interpretazione dei ritratti romani, si veda il libro demistificatore di L. Giuliani, Bildnis und Botschaft, Frankfurt 1986. H . Inglebert, Les Romains chrétiens face à l’histoire de Rome, Paris 1996, pp. 376377. Fedro, Favole, 1 ,2 (3), 30. Nel racconto delle rane che si lamentano con Giove di avere un re cattivo, Fedro conclude: «Anche voi cittadini, tollerate il male del mo­ mento che non ne venga un altro più pesante» (ed. it. Fedro, trad. di Enzo Mandruzzato, Bur, Milano 1991, p. 109); Π, 16,1: «Il susseguirsi delle signorie è un mutare di nomi per il povero» (ibid., p. 41). 54

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P. Veyne, Le Pain et le Cirque, cit., p. 635, citato con approvazione da E. Flaig, Den Kaiser herausfordern, cit., p. 122, n. 94: «Zur Entscheidung nicht nur unfàhig, sondern auch unwillig». Ecco perché Elvidio Prisco, che voleva che il Senato si trasformasse in un siffatto consiglio, era lungi dall’essere approvato da tutti i suoi pari. I procuratores Augusti sono al servizio del principe che li ha nominati, tanto che a ogni cambio di regno vengono (o non vengono) rinominati dal nuovo imperatore, secondo O. Hirschfeld, Die kaiserlichen Veruialtungsbeamten, Berlin 1905 (1975), pp. 446-447. Seneca, De beneficiis, II, 12: Caligola tendeva il piede da baciare a un senatore: «Non est hoc rem publicam calcare?». D a cui ha origine la cinica e ardita frase di Pisone a Tiberio: «Se lo farai prima de­ gli altri, avrò un’indicazione da seguire: se, invece, dopo tutti, io temo che, senza volerlo, manifesterò diverso parere» (Tacito, Annali, 1 ,74, [ed. it. Annali, trad. di B. Ceva, Bur, Milano 1993, voi. I, p. 89]). Questa franchezza, questa libertà di pa­ rola (libertas, parresia) era un grande problema politico, oltre che morale e filosofi­ co. P. Veyne, Le Pain et le Cirque, cit., p. 720; E. Flaig, Den Kaiser herausfordern, cit., p. 123. Panegirico, LX II, 5: «Eadem Caesar quae senatusprobat improbatque». Ibid., LX XV I, 5. Ufficialmente, Domiziano e il Senato non erano in disaccordo. E nemmeno Nerone lo era stato, almeno fino al suo viaggio in Grecia e alla cospira­ zione di Pisone. Domiziano continuava a invitare i senatori a cena (ibid., X LIX , 6). Che d’altro canto si facesse esaltare tra i suoi come dominus et deus era un altro af­ fare. Ibid., LIV, 5; LXV I, 4: «Iubes esse liberos, erimus». Plinio parla dell’oziosità del Senato sotto Domiziano (lettera V ili, 14, 8-9); anche sotto Traiano scrive (III, 20,12): « È vero che tutto dipende dal volere di uno solo, il quale per il comune vantaggio si è preso le brighe e le fatiche di tutti; nondimeno grazie a un salutare equilibrio da quella sì generosa fonte scorrono fino a noi come dei rivoli» (ed. it. op. cit., p. 275). Eccoci lontani dal Panegirico. Nel IV e V secolo, quando il Senato di Roma ormai sarà solo una sorta di Accade­ mia senza potere, la nobiltà senatoriale latifondista, in Italia e in Gallia per esem­ pio, sarà più ricca che mai. Tacito, Annali, 1 ,73: «Cultores Augusti qui per omnes domos in modum collegiorum habebantur». Ovidio in esilio ha cura di elevare nella sua casa un altare alla fami­ glia imperiale (Lettere dal Ponto, IV, 9,106). Ma gli conveniva, per distinguersi dai tiranni, rifiutare alcuni onori che i sudditi gli tributavano (rescritto di Tiberio a Giteone, editto di Germanico agli alessandrini eccetera). Si veda per esempio M.P. Charlesworth, An Augustan formula, thè refusai of divine honours, «Papers of thè British School at Rome», 15,1939, p. 1. È un altro aspetto della commedia della recusatio o rifiuto del potere. Nerone, tiranno atipico, rifiutava all’occasione gli onori divini perché tale onore poteva essere attribuito da­ gli uomini solo agli dèi (O. Montevecchi, Nerone a una polis, «Aegyptus», 50,1970; Scritti in onore di Calderini, IV, in particolare pp. 3-14). È interessante vedere Teo­ dosio II avanzare lo stesso argomento (Codice teodosiano, XV, 4 ,1 , fine). Nel caso considerato sopra, Plinio, Panegirico, LIV, 4. Ma esistevano altre due idee molto diverse e più vicine alla realtà. I tiranni, scrive Aristotele, si davano alla bella vita in pubblico e i loro sudditi potevano solo am­ mirarli maggiormente; si pensi ad Antonio e Cleopatra. L’altra idea, cara alla stes­ 55

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sa classe dirigente, era quella del «tenero energico» (un esempio tra molti Petro­ nio, il presunto autore del Satyricon). Vivere in seno ai piaceri, amare le donne si­ gnificava essere effeminati, teneri. I senatori non si divertivano se non quando vi era tra di loro un «tenero» che, ciononostante, si mostrava energico quando era in affari; e questo fu il caso di Petronio che secondo Tacito governava con polso la provincia a lui affidata. Questo paradosso lusingava lo snobismo dei senatori, feli­ ci di far vedere a tutti che alcuni di loro, pur avendo le qualità di un capo, sapeva­ no anche, come piccoli tiranni, mettersi al di sopra della morale comune, brillante attitudine il cui risalto ricadeva sui loro colleghi. Tacito, Storie, II, 3 1 ,6 2 ,7 1 ,7 3 ,9 4 . Questa condotta, lungi dall’essere una mera manifestazione di arroganza, aveva una sua razionalità; porsi come un semidio o un capo geniale è come far sapere che ormai il minimo tentativo di opposizione, di critica, di consiglio o di semplice ri­ serva mentale (comportamento che tratterebbe il capo come eguale), sarebbe una «scalata» automaticamente considerata una colpa capitale. Domiziano non assunse mai pubblicamente il titolo di àominus et deus, tuttavia gli fu spesso attribuito, grazie agli eccessi di zelo che andavano oltre i suoi desideri. Sulle monete, le parole domino et deo apparvero solo sotto Aureliano. Seneca, De beneficiis, III, 26; cfr. Consolazione a Marcia, X X II, 5. Prima di diven­ tare «le delizie del genere umano», Tito, prefetto del pretorio di suo padre, diede prova della sua ferocia per stornare ogni sospetto (Svetonio, Tito, VI). Tacito, Annali, VI, 29. Ammiano Marcellino, X IX , 12,1 (ed. it. Storie, a cura di G. Viansino, Mondadori, Milano 2001, voi. II, p. 137). G . Boissier, L’Opposition sous les Césars, Paris 1905 (trad. it. L’opposizione sotto i Cesari, Athena, Milano 1931). Aneddoto allucinante citato da Seneca, De beneficiis, III, 26; o aneddoto terribile e volgare nella prima delle Vitae Lucani, 4. Tacito, Annali, X I, 4; Ammiano Marcellino, XV, 3 ,5 (Mercurio, « Comes addetto ai sogni»), e X IX , 12. Dalla fine della repubblica, la legge di lesa maestà tendeva a in­ cludere le parole (Cicerone, A d familiares, III, 11,2; Venine, IV, 41). Tale legge non faceva distinzioni tra opposizione politica e tradimento (T. Mommsen, Strafrecht, cit., p. 542), né tra azioni e parole (ibid., p. 583). Quindi un buon imperatore prometteva, all’inizio del suo regno, che non avrebbe mai mandato a morte un senatore. Così fecero, in particolare, Tito, Nerva, Traiano, Antonino, Marco Aurelio, Pertinace o Alessandro Severo. Anche Settimio Severo, a quanto scrive il senatore Cassio Dione, fece quel giuramento che facevano gli an­ tichi buoni imperatori, ma non fu che un vaniloquio (Cassio Dione, LXXV, 2 ,1). Valerio Massimo, IX, 11, extern. 4. E. Flaig, Den Kaiser herausfordern, cit., p. 96. Questo continuava la tradizione repubblicana dei processi politici per «vendetta», secondo J.A. Crook in «JR S», 66,1976, p. 132. Cicerone, De officiis, X X , 14,49-51, commentato da J.-M. David, Le Patronat judiciaire au dernier siede de la République, Rome 1992, p. 525, e da Y. Rivière, Les Délateurs sous l’Empire romain, cit., p. 66; Y. Thomas, «Se venger au Forum: solidarité familiale et procès criminels à Rome», in La Vengeance, Paris 1984, III, p. 65. R. Syme, Tacitus, cit., p. 442, n. 6. Rinvio una volta per tutte alla prosopografia dei delatori in Y. Rivière, Les Délateurs sous l’Empire romain, cit., p. 95. E. Flaig, Den Kaiser herausfordern, cit., pp. 501-533. 56

Che cos’era un imperatore romano? 131. Yann Rivière mette in chiaro le cose riguardo i delatori, senza formalismo giuridico né «revisionismo». 132. Tacito, Annali, VI, 7 ,3 (ed. it. op. cit., p. 379). 133. Seneca, De beneficiis, III, 26,1-2. 134. Tacito, Annali, II, 32: « Bona inter accusatores dividuntur et praeturae extra ordìnem datae iis qui senatorii ordinis erant»\ III, 19: «Caesar auctor senatut futi [ ...] sacerdotia tribuendi»·, IV, 68: «Cupidine consulatus»·, XI, 4: «Sestertium quindecies et insignia praeturae decreta». La stessa elezione di nuovi senatori dipendeva dal principe, per il meccanismo della raccomandazione imperiale e dei quaestores can­ didati ben noti in epigrafia (F. Millar, The Emperor in thè Roman World, cit., p. 304). Ma, per riguardo all’alta assemblea, i candidati imperiali sotto un buon prin­ cipe non sollecitavano certo meno i suffragi del Senato (Plinio, Panegirico, L X IX ,

1-2 ). 135. Cfr. ìefactiones accusatorum di cui parla Tacito, Annali, IV, 2 1 ,1 , citato da Y. Ri­ vière, Les Délateurs sous l’Empire romain, cit., p. 420. 136. Tacito, Annali, IV, 68-69. 137. Y. Rivière, Les Délateurs sous l’Empire romain, cit., pp. 97 e 418-423, 138. Si veda un aneddoto tanto allucinante quanto vero in Cassio Dione, LX X III, 21. 139. Le epurazioni di delatori di cui parla il Panegirico di Plinio non riguardavano que­ sti grandi delatori, ma i mediocri delatori in materia fiscale, i delatores fis a (Y. Ri­ vière, Les Délateurs sous l’Empire romain, cit., pp. 26 e 44). 140. Elucubrazioni di menti superstiziose come quella del notaio Teodoro (Ammiano Marcellino, X X IX , 1). Mitomani per Tacito, Annali, II, 40, e V, 10/VI, e. Il caso dei «falsi Neroni» è diverso e deriva da una politica utopica. 141. Sono gli ufficiali che Zosimo (III, 9) designa come autori del manifesto. 142. Giuliano, Lettera agli ateniesi, 10,283 AB. 143. Ammiano Marcellino, X X , 4-5. 144. A.E. Wardman, Usurpers and internai conflicts in thefourth century, «H istoria», 33,1984, pp. 220-237. 145. C. Julian, Histoire de la Gaule, Paris 1993, t. 2, p. 412. 146. Libanio, disc. X X , 18. 147. Ammiano Marcellino, XXV I, 6,1 (ed. it. op. cit., voi. Ili, p. 135). 148. Allo stesso modo, sotto Nerone, avvenne l’assassinio di Torquato Silano (Tacito, Annali, XV, 3) e, sotto Vespasiano, o piuttosto sotto Mudano, quello di Calpurnio Galeriano (Id., Storie, IV, 11). 149. Id., Annali, XI, 1-3. _ , 150. « Confugiendum est ad imperium» dichiara Muciano a Vespasiano (Id., Storie, 11, 76); «ut tueripossit salutem, ad praesidia progressus extrema» dice Ammiano Mar­ cellino (XV, 5,32) dello sfortunato Silvano. 151. Ibid., XV, 5. 152. Ammiano Marcellino non se ne stupisce (XXVI, 6, fine). 153. E. Renan, Les Apòtre, in Histoire des origines du christianisme, Paris 1866, cap. 17 (trad. it. Gli apostoli, Pendragon, Bologna 1953, p. 209). 154. Su questa lenta e complessa evoluzione, che non bisogna semplificare o dipingere come la caricatura di una dittatura militare a partire dai Severi, si veda M. Christol, Les classes dirigeantes et le pouvoir dans l’État de Septime Sévère à Constantin, «Pallas», 1997, in particolare p. 59; J.-M. Carrié in Id. e A. Rousselle, L’Empire romain en mutation des Sévères à Constantin, Paris 1999, pp. 55, 66,73-76; F. Jacques e C. Lepelley in A. Giardina (a cura di), Società romana e impero tardoantico, I: Istitu­ zioni, ceti, economie, Laterza, Roma-Bari 1986, pp. 81-244; M. Christol, Essai sur 57

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l’évolution des canières sénatoriales dans la seconde moitié du III siècle, Paris 1986; C. LepeUey, «D u triomphe à la disparition: le destin de l’ordre équestre de Dioclétien à Théodose» (nonostante il titolo, si tratta di una sintesi che riunisce anche i clarissimie il Senato), in S. Demougin, H. Devijver e M.-T. Raepsaet-Charlier (dir.), L'ordre équestre: histoire d’une aristocratie, Rome 1999, pp. 629-646. Ancora Costantino dimostrerà un gran rispetto per i desideri del Senato: «religiosis vodbus Senatus amplissimi persuasi, decernimus ut...» (Codice teodosiano, VI, 4,1). E anche Teodorico non sarà meno rispettoso. J.-M. Carrié in Id. e A. Rousselle, L’Empire romain en mutation des Sévères à Constantin, cit., pp. 143 e 648, cfr. pp. 71 e 77. Sono assolutamente convinto di quanto scrivono Carrié e Christol, citati sopra. Non mi riferisco qui al credito morale del Senato. Nelle sue relazioni con il principe, ca­ po degli eserciti, il Senato sentiva di non contare praticamente più. I Severi, a quan­ to scrive un senatore che ha vissuto questo cambiamento, si poggiavano infatti più sulla forza dei loro soldati che sull’approvazione dei nobili, loro alleati naturali (Cas­ sio Dione, LXXTV o LXXV, 2,3). Il consiglio che si dice abbia dato Severo sul letto di morte di arricchire i soldati e di non curarsi del resto (ibid., LXXV II, 15,2), mo­ stra almeno come i contemporanei avessero coscienza di aver voltato pagina. Giuliano, Degli atti dell’imperatore o della regalità, 8 6 D-87 (p. I l i , Hertlein). Una bella illustrazione epigrafica viene data dalle Uste efebiche di Atene a partire dal 2 1 2 , in cui tutti i pellegrini hanno ricevuto i tria nomina e scelto il gentilizio im­ periale Aurelius. T. Mommsen, Strafrecht, cit., p. 405. J. Bleicken, Verfassungs- und Sozialgeschichte des rómischen Kaiserreiches, cit., I, pp. 81-82. Non potrebbe essere sovrastimato il significato dei viaggi di Adriano attraverso il suo impero. Si immagini un presidente della repubblica francese, vissuto intorno al 1950, trascorrere tutto il suo mandato visitando l’impero coloniale francese, risie­ dendo in Indocina o in Africa, invece di restare a Parigi, all’Eliseo. A questo pro­ posito è interessante la serie di monete di Adriano che riportano sul retro le allego­ rie femminili delle diverse regioni e province dell’impero, e quella dei bassorilievi raffiguranti lo stesso soggetto che decorano il tempio del divino Adriano a Roma. Sembra che, perlomeno nella mentalità, con il regno di Adriano si passi da un’ege­ monia romana (o italiana) a un impero unificato, ecumenico, preannunciando l’at­ to di Caracalla che, nel 212, renderà cittadini romani tutti gli uomini liberi dell’im­ pero abolendo così la distinzione tra dominanti e dominati. Per il carattere ecce­ zionale dei viaggi di Adriano, che costituiscono una rottura rispetto alla condotta ordinaria degli imperatori, si veda H. Halfmann, Itinera prindpum: Geschichte und Typologie der Kaiserreisen im rómischen Ketch, Stuttgart 1986. Marco Aurelio, VI, 30, 1; cfr. I, 17, 3. Si veda P.A. Bruni, Marcus Aurelius in bis meditations, «JR S», 64,1974, p. 10 e n. 57, secondo cui l’imperatore con questo vorrebbe semplicemente «avoid thè pomp and arrogance o f a Caesar»; dello stesso autore, Stoicism and principale, «Papers of thè British School at Rome», 1975, p. 24, dove si parla, in particolare, della libertas di parola lasciata ai senatori. In en­ trambi i casi, secondo Bruni, non «incesarire» significa avvicinarsi AI’«old ideal of dviltas» insegnato dallo stoicismo. Faccio fatica a credere che si tratti solo di que­ sto. Marco Aurelio, invece di parlare unicamente di civiltà e di scrivere, per esem­ pio, «resta civile ed evita di diventare altero», forgia il sorprendente hapax «incesa­ rire»; e questo è il segno che la parola aveva per lui un significato e una realtà mol­ to più forti di una puerile e onesta lezione di civiltà. 58

Che cos’era un im peratore romano? 164. A. Wallace-Hadrill, «Civilis princeps»: between Citizen and King, «JR S», 72,1982, p. 41. 165. Tacito, Storie, IV, 42,6, discorso di Curzio Montano che mette in guardia il Senato: Vespasiano può cambiare carattere. Ibid., 1 ,50, e II, 2: Vespasiano e Tito furono i primi principi a rivelarsi migliori dopo la loro salita al potere che prima. PseudoElio Aristide, XXXV, 24: si è visto un imperatore «mostrare un carattere onesto e misurato prima di essere re e diventare insopportabile e crudele dopo essere stato dichiarato re». 166. T. Mommsen, Staatsrecht, III, 1, cit., p. 826. 167. Storia Augusta, Adriano, X X , 1; Antonino Pio VI, 4; Alessandro Severo X X , 3. 168. Non ci sono vita di corte né feste di corte a palazzo. All’interno della sua domus, l’imperatore non è circondato dai senatori come un re dai nobili. Lungi dall avere un tenore di vita regale, vive come qualsiasi altro aristocratico: 1 ) ogni mattina, è salutato dalla folla dei suoi clienti (salutatio); 2 ) invita senatori e cavalieri alle cenae, ai convinta; 3) ha degli amid, dei comites (ma abitano a palazzo? Dubitarne è facile) e vive tra i suoi liberti (di cui i principali, almeno, che gli fanno da ministri, vivono nella splendida domus), con i suoi segretari, i ciambellani, i domestici. I ser­ vizi palatini (forse installati nella Domus Liberiana) erano una sorta di ministeri. Quanto ai fatti, A. Wallace-Hadrill nella nuova Cambridge Andent History, X : The Augustan Empire, Cambridge 1996, pp. 283-295; D. Kienast, Augustus Pnnzeps undMonarch, cit., pp. 253-263. 169. Sulle cene (cenationes), la loro organizzazione pratica e i saluti, P. Zanker, Domitian’s palace on thè Palatine and thè imperiai image, «Proceedings of thè British Academy», 114,2002, pp. 105-130, 170. A.D. Nock nei suoi Essays on Religion and thè Andent World, Oxford 1972, Π, p. 845, parla di un «baio of personality, not of position». Si veda per esempio Libanio, disc. XVI, 18. 171. Tacito, Annali, V, 4 ,2 ; XIV, 60-61; Svetonio, Claudio, XXVI. 172. Culto funerario piuttosto che eroico, quando Antinoo è onorato non come theos ma come heros; in epoca imperiale, si definisce heros qualcuno morto giovane. 173. Conversione che desiderava, per sua propria ammissione, ma senza riconoscersi il diritto di imporla (Eusebio, Vita di Costantino, II, 56 e 60). 174. Come riassume Christophe Goddard: «Il cristianesimo fu a lungo per Costantino una credenza personale che solo in seguito ebbe conseguenze politiche, fatta ecce­ zione per i numerosi privilegi che accordò alla Chiesa». Manteneva il titolo di pontifex maximus, ma pubblicava le sue convinzioni cristiane personali nei preamboli degli editti. Costantino considerava il cristianesimo la sua religione privata. Per il resto, finché fu in vita, tutti, pagani o cristiani, furono lasciati liberi di praticare la religione scelta. Va da sé che una religione che conta un imperatore tra i suoi fede­ li lo ha inevitabilmente per capo, una sorta di «vescovo oscuro»: dal 314 Costanti­ no assiste al concilio di Arles. 175. Eusebio, Vita di Costantino, IV, 10,1. Questa lettera sarà considerata autentica o un falso, a seconda dell’opinione che nutriamo sulla vita interiore di Costantino. «Credo che Costantino possa averla scritta» diceva André Piganiol. 176. E non solo come epigrafe sul fronte, nella titolatura imperiale, a grossi caratteri che riempiono tutto lo spazio, nel posto solitamente occupato dalle divinità o dalle allegorie delle Virtù imperiali. Insomma, «censore a vita» è la sua insegna e il suo blasone. 177. Nella nuova Cambridge Andent History, XI: The High Empire, cit., p. 79. 178. Marziale, V, 2, 8 , e prefazione del libro V ili. In questi due libri, dedicati a Domi59

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ziano, una nota mostrerebbe che Marziale si è proibito tutte le parole oscene (fa­ tuo, irrumo, mentula, cunnus, paedico, fello, Ungo, e persino cinaedus) che usa ab­ bondantemente negli altri libri. E che sarà quello di Costantino e dei suoi successori, come mi suggerisce Stéphane Benoist; anche loro concepiranno la funzione imperiale come moralizzatrice e pre­ tenderanno di comandare sulle vite private. Si pensi alla «caccia alle streghe», o piuttosto agli aruspici e agli adulteri, protagonista del regno dell’energico e casto Valentiniano I (Ammiano Marcellino, XXVIII, 1); oppure all’atrocità della giusti­ zia nel IV secolo e a quella del diritto penale costantiniano (in particolare in mate­ ria sessuale). Si è visto in questo moralismo sia l’influenza cristiana, sia quella del «diritto volgare», ma si può pensare anche a una concezione ingenua della sociolo­ gia politica: l’antichità ha spesso pensato che la solidità politica di una città dipen­ desse dalla condotta privata degli individui e che tale condotta tendesse natural­ mente a degradarsi se non la si reprimeva con severità. In quel secolo, molti iudices consideravano che il loro dovere fosse di far regnare il terrore, (cfr. Ammiano M ar­ cellino, passim, o la prima lettera di san Gerolamo), per lottare contro la tendenza naturale all’indisciplma nella vita privata. Il ritratto di Domiziano a Monaco, neU’Antiquarium della Residenza reale, è sor­ prendente (Michaela Fuchs nello «Jahrbuch» dell’Istituto archeologico tedesco, 99,1984, p. 251, fig. 22). Filone d ’Alessandria, Legatio ad Gaium, 76,353,357,367. Sembra difficile seguire i sapienti che hanno cercato di non attribuire al frutto di una mente malata la poli­ tica di Caligola. È bene notare che per Commodo la caccia nell’arena era uno sport aristocratico: sotto Caracalla, un senatore dovette a ciò la sua brillante carriera (Cassio Dione, LX XV III, 21,3). Nerone non osò sopprimere le lotte dei gladiatori, ma li faceva combattere con ar­ mi dotate di copertura. Filostrato, Vita di Apollonio di Tiana, V, 8-9. Filone d’Alessandria, Legatio ad Gaium, 9-11. Un tale attaccamento può essere un fatto di «proiezione» psicologica: si è anche cercato di vedervi un modo per gli individui di rapportarsi al mondo, di «vincere sempre se stessi piuttosto che la fortuna» e di credere che l’uva è troppo acerba; secondo Nietzsche c’è venerazione quando la differenza di potere è grande e la sottomissione necessaria; per non dover avere paura, si cerca di amare, stimare, interpretare la differenza di potere come una differenza di valore. Le ideologie destinate a ingannare gli altri sarebbero allora poca cosa accanto a quelle con cui si inganna se stessi e si fa di necessità virtù. Su questo tentativo di accordo tra la realtà e quello che si pensa di essa, si veda J. Elster, Le Laboureur et ses enfants: deux essais sur les limites de la rationalité, Paris 1987; Id., Psychologie politique: Veyne, Zinoviev, Tocqueville, Paris 1990; L. Festinger, A Theory o f Cognitive Dissonance, Stanford 1987, (trad. it. Teoria della dissonanza cognitiva, F. Angeli, Mila­ no 2001) e, per i limiti di questa teoria, le precisazioni apportate da J.-P. Poitou, La Dissonance cognitive, Paris 1974. Si veda il classico di R. Michels, Zur Soziologie des Parteiwesens in der modernen Demokratie, 1914 (trad. it. La sociologia del partito politico nella democrazia moder­ na, il Mulino, Bologna 1967). Coppe di Boscoreale (A.L. Kuttner, Dynasty and Empire in thè Age o f Augustus: The Case o f thè Boscoreale Cups, Berkeley 1996). Stampi da dolce della Pannonia resi noti da A. Alfoldi, «Tonmodel und Reliefme60

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dallion aus den Donaulandern», Laureae Aquincenses. Mélanges Kuszinsky, Dissert. Pannon., n. 1 0 ,1 9 3 8 .1 dolci venivano distribuiti alla popolazione dopo i sa­ crifici pubblici. Un esemplare analogo è stato ritrovato in Bretagna, a Silchester {Calleva Atrebatum), e divulgato da G.C. Boon in «Antiquaries Journal», 38,1958, p. 237. Negli scavi di Ostia si è ugualmente trovato in un edificio pubblico un inte­ ro stock di stampi da dolce, sfortunatamente aniconici. Petronio, LX , 7: «Augusto feliciter». Su questo brindisi all’imperatore, Flavio G iu­ seppe, La guerra giudaica, VII, 4, 73. Su uno dei pannelli dell’arco dei Severi a Leptis Magna (quello άύΥadventus a Leptis Magna), eseguito da cartoni forniti dagli artisti dell’imperatore (perlomeno è quanto cercherò di dimostrare altrove), una bambina ha il compito di incarnare i sentimenti della popolazione: entra in trance alla vista del corteo imperiale, vacilla per l’entusiasmo con le braccia spalancate (B. Andreae, L’Art de Vancienne Rome, Paris 1973, fig. 557). S.G . MacCormack, A rt and Ceremony in Late Antiquity, Berkeley-Los Angeles 1981, pp. 17-89 (trad. it. Arte e cerimoniale nell’antichità, Einaudi, Torino 1995). J. Moralee, «Por Salvation’s Sake”: Provincial Loyalty, Personal Religion and Epigraphic Production in thè Roman and Late Antique Near East, London 2004. Nel 1989, uno scrittore russo attestava che il culto di Stalin era stato ima religione popolare che aveva impregnato l’intero popolo. Niente di simile qui, dove non rientrava nessun carisma personale: le cerimonie annuali del culto imperiale in ogni provincia e città erano un cerimoniale a cui un sovrano ha diritto in qualsiasi società. Partecipando al culto imperiale, si ammetteva la sottomissione all’impera­ tore, la sottomissione a una autorità, qualunque essa fosse, che dirigeva il corso or­ dinario della storia. Se c’è stato un vibrato «religioso» in questo culto che nessuno prendeva alla lettera, è stato un vibrato lealista e monarchico. D. Fustel de Coulanges, Histoire des institutionspolitiques de l’ancienne Trance, I: La Gaule romaine, cit., p. 191. J. Krynen, L'Empire du roi: ideés et croyances politiques en Trance, XIIIe-XVc siècles, Paris 1994, p. 458: «L o studio dell’amore come virtù politica deve ancora essere compiuto». «Il sentimento d ’amore per i nostri re sembrava naturale,» scrive nel 1814 Maine de Biran «questo amore era un sentimento religioso, come l’amore di­ vino; era una sorta di culto che elevava l’anima e poteva, come l’onore, ordinare tutù i sacrifici d’interesse personale, persino la vita stessa»; e deplora come i giova­ ni nati dopo il 1789 non abbiano mai conosciuto questo sentimento e non riescano a capirlo: lo riconducono, così scrive, a un calcolo d’interesse, di carriera (Journal intime, Paris 1927,1, p. 78). Nella Democrazia in America, Tocqueville non sa se deve dispiacersi di questo sentimento di servitù volontaria, di questo amore per il signore, o gioirne come di una base solida dell’ordine politico. Scrive altrove: «Vi fu un tempo, sotto l’antica monarchia, in cui i francesi provavano una specie di gioia nel sentirsi abbandonati senza appello all’arbitrio del monarca» (trad. it. La democrazia in America, cit., p. 246). Testimonianza di un contemporaneo citata da Sainte-Beuve, «Relation inèdite de la dernière maladie de Louis X V », nei Portraits littéraires, III. Ma Luigi X V si re­ se tanto impopolare che, in occasione della sua ultima malattia, praticamente nes­ sun parigino fece dire messa perché guarisse. Cfr. «Revue archéologique», 1983, II, p. 282, commentando Svetonio, Caligola, XXVII, 2. Cassio Dione, LUI, 20. M. Corbier, «Indulgentia principis»: continuità e discontinuità del vocabolario del 61

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dono, in F. Elia (a cura di), Politica retorica e simbolismo del primato: Roma e Co­ stantinopoli, Atti del Convegno internazionale, Catania 2004, pp. 259-277. F. Millar, The Emperor in thè Roman World, cit., pp. 394-537, scrive a p. 434: «Tra la concessione dei privilegi da parte dell’imperatore e le sentenze che dà in appel­ lo, possiamo fare solo una distinzione esteriore: i due casi si toccano e non si di­ stinguono. La verità è che, nelle relazioni con la collettività come con gli individui, si può separare l’imperatore come benefattore dall’imperatore come giudice». C. Moatti, La communicationpublique écrite à Rome, «M EFR» (Moyen Àge), 2003. F. Millar, The Emperor in thè Roman World, cit., p. 240. Svetonio, Tiberio, X X XV II, 3: nella città romana di Pollenzo, la plebe aveva fatto confusione intorno al carro funebre di un ricco notabile per strappare agli eredi la promessa di uno spettacolo di gladiatori; Tiberio inviò le truppe che «misero ai ferri a vita [perpetua vincula] la maggior parte della plebe e dei consiglieri». Nel 70 invece, la punizione inflitta a Siena fu meno generalizzata (Tacito, Storie, IV, 45); resta il fatto che le punizioni delle città sono un capitolo della politica romana. Si veda in Libanio, disc. XVI, 12-14, per avere testimonianza di tutto quello che po­ teva temere una città poco docile. Nel 390, sotto Teodosio, il massacro di Tessalonica fece settemila morti. Punizioni collettive che lo stesso Giuliano giustificava citando un verso di Esiodo che diceva che molte volte una città intera è stata punita per le colpe di un solo uo­ mo (Libanio, disc. XVI, 50). La razionalizzazione era tale che l’élite dei decurioni aveva il dovere di sapersi far obbedire dalla plebe (XVI, 43). Così ad Antiochia nel 387, sotto Teodosio (una splendida descrizione di questa fu­ ga in massa la troviamo in Libanio, disc. X X III, 1-19), il Consiglio della città fu messo ai ferri. La generazione precedente aveva visto nel 353 il Cesare Gallo «con una sola sentenza [uno elogio]» ordinare «la morte dei vertici del Senato di Antio­ chia» (Ammiano Marcellino, XLV, 7 ,2 , [ed. it. op. cit., voi. I, p. 63]). Allo stesso modo, Diocleziano aveva fatto condannare a morte senza giudizio un gran numero di consiglieri di Seleucia di Pieria a causa di una rivolta militare a cui non avevano preso minimamente parte (Libanio, disc. X X , 19) per il semplice fatto di essere a capo della città (XIX, 45). Così Marziale, X, 48,21, sotto Traiano; è meglio non parlare delle funzioni del cir­ co, aggiunge il poeta. Una guida turistica per la Siria del 1999 consiglia ai viaggia­ tori di parlare di archeologia, del tempo e di calcio. Accadeva la stessa cosa nella Spagna franchista. Mi si permetta un aneddoto. Nel 1964, si tenne a Italica un con­ vegno internazionale sugli imperatori romani. Quando uno di noi chiese a Sir Ro­ nald Syme il suo parere su Adriano, quell’illustre studioso rispose in francese: «Oh, Adriano era un Fiihrer, un Duce, un Caudillo». A queste parole, un giovane stu­ dioso spagnolo sorrise amaramente. Il giorno successivo, don Garcia y Bellido ven­ ne a informarci con discrezione di non parlare mai di politica. L. Friedlànder, Sittengeschichte Roms, Leipzig 1919,1, pp. 256-258. L a polizia si serviva di militari in borghese, per indurre a dir male dell’imperatore (Epitteto, IV, 13,5) e dei cortigiani (Plinio, Storia naturale, X X X , 15); alcuni soldati di Vitellio si introdussero a Roma per spiare l’opinione pubblica; tutti tacciono, tutti hanno paura (Tacito, Storie, I, 85). Cfr. A.H.M. Jones, The Late Roman Empire, Oxford 1973,1, pp. 516-522, (trad. it. Il tardo impero romano, il Saggiatore, Milano 1991). Sono forse abusi propri del «Basso impero» e dovuti alla crescita del livello della violenza dopo la crisi militare del III secolo? Certo, ma non solo: gioca la sua parte anche il filtro deformante della documentazione; il IV secolo infatti è molto più documentato e ricco di aned­ 62

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doti dei tre secoli precedenti; ciononostante i fatti relativi all’Alto impero raccolti da R. MacMullen parlano chiaro (Les Rapports entre les classes sociales dans l’Em­ pire romain, Paris 1986, pp. 15-16 e 18 ss.; Le Déclin de Rome et la corruption du pouvoir, Paris 1991, pp. 136 e 203). Libanio, disc. XLVII. Sugli eccessi dei soldati, si veda e si confronti Sinesio, Sulla regalità, 27,1100 D. P. Hermann, Der romische Kaisereid (Hypomnemata, 20), Gòttingen, 1968; S. Weinstock, Treueid und Kaiserkult, «Athenische Mitteilungen», 77, 1962, p. 306. Per esempio, ad Antiochia per prestare giuramento ci si riuniva lungo l’Oronte, nel vasto spazio del ginnasio (Libanio, disc. XV, 49, cfr. 76). Del resto, nel diritto civile come nel penale, a partire da Augusto si giurava sul genius dell’imperatore, tanto che un falso giuramento era considerato un attentato alla maestà del princi­ pe. Tale giuramento simboleggia la dipendenza dal principe di ciascun individuo; in realtà, lo schiavo o il liberto giurava sul nome del suo padrone o capo (T. Mommsen, Strafrecht, cit., p. 586; cfr. Staatsrecht, Π, cit., pp. 809-810). S. Riccobono, Fontes iuris Romani, I, p. 407, o Supplementum epigraph. Graecum, IX, 8 . Si veda il commento di A. Lintott, Imperium Romanum, Politics and Administration, cit., pp. 112-116, che mostra come addirittura prima del 23, data del suo imperium proconsulare, i governatori di provincia, che avevano comunque il loro imperium, si fossero sottomessi alle decisioni di Augusto per una voluntary subordination, pur essendo teoricamente indipendenti da lui. Ma si può anche ag­ giungere, con C. Nicolet, che nel 27 una legge aveva regolarizzato Γimperium del principe sulle province. Inoltre, fin dall’epoca repubblicana, si vedono i provin­ ciali convocati a Roma dai consoli per essere giudicati (per esempio in Cicerone, Depraetura urbana, X X X III, 84-85, citato da Lintott). F. De Visscher, Les Édits d’Auguste découverts à Cyrène, Louvain 1940, p. 85. Libanio, disc. X X X , 15 (In difesa dei templi). Lettera ai romani, 13, 3 (ed. it. La Sacra Bibbia, Edizione ufficiale Cei, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1992, p. 1130). Cfr. la Prima lettera di Pie­ tro, 2 ,1 4 : l’imperatore (basileus) e i governatori (hegemones) castigheranno o lo­ deranno. Atti degli apostoli, 17,7 (ed. it., op. cit., p. 1104). Celso presso Origene, Contro Celso, V ili, 6 8 : se tutti fossero cristiani, il re rimar­ rebbe solo e abbandonato e i barbari invaderebbero tutto. Secondo F. Millar, in Entretiens sur l’Antiquité classique, X IX : Le Culte des souverains, Vandoeuvres-Genève, p. 148, il nome degli imperatori in epigrafe è spesso associato a quello degli dèi; allora, «a meno di negare il nome di religione a tutti i culti pagani, i fatti ci costringono ad accordare tale nome anche al culto imperia­ le». Invece no, al massimo ci obbligheranno a constatare che il linguaggio dei de­ voti, come quello degli innamorati, ammette spesso degli eccessi. Ma, a dirla tut­ ta, non siamo neppure costretti a questo perché un caso frequente nelle epigrafi è quello delle dediche in cui sono associate entità differenti; un evergete poteva per esempio offrire un edificio a un dio, all’imperatore e alla città (su questa trinità si veda A.D. Nock, Essays on Religion and thè Ancient World, cit., I, p. 241; e cfr. P. Veyne in «Latom us», 21,1961, p. 81): l’edificio è offerto a tutto ciò che merita di essere onorato a diverso titolo. Ecco alcuni esempi di dediche devozionali, prese a caso, lealiste e cariche di patriottismo locale, d’amore per la piccola patria, per la città: «A d Apollo di Claro, agli dèi Augusti e alla patria»; «A gli dèi Augusti, agli dèi della patria e al popolo» della città; «A Dioniso e a Cesare»; «A Marte e alla divinità degli Augusti»; «Consacrato ad Augusto, a Marte»; «Consacrato ad 63

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Augusto, a Rosmerta»; «In onore della Casa Divina, a Marte»; «Per la conserva­ zione di Adriano Augusto, a Silvano» (H. Dessau, lnscriptiones Latinae selectae, 4543, 4546, 4547, 4611, 4562, 4596, 4603, 3563, 4046; R, Cagnat, lnscriptiones Graecae ad res Romanas, III, 342 e 343; IV, 641. Cfr. anche F. Taeger, Charisma, cit., II, p. 240 ss.). Si pelisi ai versi che aprono il Testamento di Frangole Villon: « E prego il figlio di Dio benedetto, / A cui mi rivolgo in ogni mio bisogno [,..] Sempre sia lodato, e con lui Nostra Signora, / E Luigi, nobile re di Francia», (trad. it. Lascito, Testamento e poesie diverse, Bur, Milano 2 0 0 0 , p. 137) G.W. Bowersock, «Greek Intellectuals and thè Imperiai Cult in thè Second Century A .D .», in Entretiens sur l’Antiquité classique, X IX : Le Culte des souverains, cit., p. 206. Sant’Agostino, La Città di Dio, X , 4, e XVIII, 24. L. Robert in Laodicée du Lycos, le nymphée, Université Lavai, Recherches archéologiques, Québec et Paris 1969, p. 321 e n. 7. Non bisogna confondere più piani: non facciamo rientrare nel culto degli impera­ tori elementi legati al carisma personale e che non hanno niente a che vedere con la devozione religiosa. Vespasiano ha guarito un cieco ad Alessandria (Tacito, Storie, IV, 81; Svetonio, Vespasiano, VII, 2). Siamo in un mondo dove sono numerosi, per i loro adulatori, gli «uomini divini» e quelli che fanno miracoli; il capo di un eser­ cito, candidato al trono, aveva ancora più possibilità di un semplice cittadino di es­ sere preso per taumaturgo da un individuo isolato (perché fu una persona sola a crederlo, per una sua personale iniziativa che a posteriori fu vista come un presa­ gio); non fu un culto reso al titolare del trono, perché Vespasiano non lo era anco­ ra. Quanto alle iscrizioni CIL, V ili, 18892, e R. Cagnat, lnscriptiones Graecae ad res Romanas, I, 41, sembrano solo richiedere un’interpretazione più anodina di quanto non si sia creduto; non sono degli ex voto a Severo e a Caracalla stessi, ma alla Fortuna, onorata qui in ragione delle vittorie dei principi. Infine, i celebri mi­ steri di età imperiale erano di gran lunga meno mistici di quanto si creda; si sa quanto la parola enfatica di «mistero», sia diventata nei secoli un semplice modo di dire, una Redensart, come dice Nilsson; club che riunivano un piccolo gruppo sot­ to il più lodevole e religiosamente neutro dei pretesti: la lealtà all’imperatore; si da­ vano a un culto segreto, quindi erano una cerchia esclusiva e alla loro manifesta­ zione di lealtà si aggiungeva il piacere dello snobismo; si veda in proposito M. Nils­ son, Geschichte der griechischen Religion, Munchen 1961, II, pp. 368-371. Libanio abuserà del termine «misteri» (disc. XIV, 5, ο XVIII, 127) per indicare un sempli­ ce gruppo di ferventi. Su presunti voti all’imperatore (in un testo di retorica, In gloria di Roma di Elio Ari­ stide), si veda A.D. Nock, Essays on Religion and theAncient World, cit., II, p. 780, e G.W. Bowersock in Entretiens sur l’Antiquité classique, XIX: Le Culte des souverains, cit., p, 201. C ’è un caso unico e curioso di «santificazione» postuma pagana: quello di Giuliano; dopo la sua morte, «molte città hanno messo la sua immagine nei templi degli dèi e lo onorano come questi dèi, gli sono persino già state fatte preghiere, an­ che a lui, per chiedergli qualche beneficio e non si è rimasti delusi» (Libanio, disc. XVIII, 304 [Orazione funebre per Giulianóf). Si veda A.D. Nock, «Deification and Julian», in Essays on Religion and theAncient World, cit., Π, p. 838. Ma questa sorta di canonizzazione pagana di Giuliano è postuma ed è un fenomeno propriamente carismatico, personale. Si veda la nota seguente. Come scrive Sabine MacCormack, si tratta di una canonizzazione che è senza uguali nella storia del culto dei sovrani e del culto imperiale (Art and Ceremony in Late Antiquity, cit., p. 135). A.D. Nock, Essays on Religion and thè Ancient World, cit., II, p. 833. 64

Che cos’era un im peratore romano? 226. L. Mitteis e U. Wilcken, Grundziige und Chrestomathie der Rapyruskunde, Leipzig 1912 (1963), Hist. Teil, 1, p. 117. 227. Si veda in proposito M. Nilsson, Geschichte der griechischen Religion, cit., II, pp. 140-141. Allo stesso modo gli imperatori bizantini saranno solo isapostoloi, «pari agli apostoli», dunque non sono veri apostoli, non fanno parte dei Dodici. 228. Nessun uomo sale ancora in cielo, scrive Pausania, V ili, 2 ,5 , perché non viviamo più al tempo di Eracle; ai giorni nostri, continua, la divinizzazione non e che vani­ loquio e lusinga al potere. Ma Pausania è antiromano, mentre Arriano, che citere­ mo, era un greco diventato alto funzionario romano. 229. Arriano, Reriplo del Tonto Eusino, pp. 36 e 167. 230. Svetonio, Vespasiano, Χ Χ Π Ι (ed. it. Vite dei Cesari, trad. di Felice Dessi, Bur, Mila­ no 1996, voi. II, p. 753). 231. Filone d’Alessandria, Legatio ad Gaium, 164: «Ou plagios, all antikrus». 232. A.D. Nock, Essays on Religion and thè Ancient World, cit., I, p. 348, e II, p. 935. 233. J. Scheid in «Mélanges de l’Ecole frangaise de Rome», 92,1980, p. 239. 234. S.R.F. Price, Rituals and Power: The Roman Imperiai Cult in Asia Minor, Cambrid­ ge 1984, pp. 210-215. Cfr. Filone, Legatio ad Gaium, 357, con la nota di A. Pelletier. 235. D. Fustel de Coulanges, Histoire des institutions politiques de Vancienne Trance, I: La Gaule Romaine, cit., p. 187. 236. Il fatto che il culto imperiale sia qualcosa di artificiale, culturalmente élitario, e quindi degno della Grecia, è una delle due ragioni che spiegherebbero la differen­ za che questo culto presenta nell’Oriente greco e nell’Occidente latino. Sappiamo che l’Oriente prendeva l’iniziativa di divinizzare imperatori e principesse in vita, così come aveva divinizzato i re greci e, sotto la repubblica, alcuni governatori ro­ mani. L’Occidente invece conosceva solo il culto degli imperatori defunti e diviniz­ zati in virtù di un decreto del Senato. La fierezza di Roma e dell Italia, terra di cit­ tadini romani, impediva a questi di prendere il magistrato supremo per un dio. I greci, invece, sudditi dei padroni romani e per la maggior parte non cittadini, era­ no tenuti a manifestare più umile lealtà; ed erano così culturalmente abbastanza raffinati da poter inventare quella manifestazione che fu la divinizzazione dei prin­ cipi in vita. Anche l’Occidente latinizzato avrebbe potuto avere l’umiltà per inven­ tare la divinizzazione dei vivi, ma probabilmente non aveva l’agilità mentale per farlo, e la vicina Italia non poteva essergli da esempio. 237. L’iperbole, l’enfasi sono connaturate al sentimento religioso e a tutto ciò che imita tale sentimento. Il celebre peana ateniese rivolto a Demetrio Poliorcete nel 291 e il gioco di un letterato che si diletta di ciò che lui stesso considera un paradosso: mentre gli dèi sono lontani, invisibili e fatti di pietra o di legno come le loro imma­ gini, scrive, Demetrio è un dio in carne e ossa, visibile e vicino. Sull’opposizione popolare ateniese agli onori divini si veda Plutarco, Vita diOemetrio, 12. 238. Si vedano per esempio i decreti estremamente precisi e dettagliati con cui gli stra­ teghi e i timuchi di Teos istituiscono il culto di Antioco il Grande e della regina. P. Hermann, Antiochos der Grafie und Teos, in «Anadolu», (Anatolia), IX, 1965, pp. 29-160. 239. M. Nilsson, Geschichte der griechischen Religion, cit., p. 186. 240. S.R.F. Price ha mostrato che l’imperatore è un uomo, ma dotato di uno statuto am­ biguo, superiore a quello degli altri uomini. 241. Nell’organizzazione delle società moderne può esistere un individuo, presidente o dittatore, che è posto in cima alla gerarchia e che da solo detiene il potere di pren­ dere le decisioni supreme, come quella di premere il bottone di un arma nucleare 65

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(R. Aron, Études politiques, Paris 1972, p. 191). Ma sarebbe una congettura ana­ cronistica spiegare rimmagine «mitica» del re sulla base di questo modello. Quello che sorprende è la coesione di questa immagine che, pur nella sua comples­ sità, ha attraversato millenni e società diverse facendo blocco. Probabilmente risa­ le da un patrimonio arcaico comune e non lega ogni sua ricomparsa a un’improba­ bile congiuntura di fattori differenti. Non si può spiegare alla luce di interessi so­ ciali (come quello della classe senatoriale dirigente), né in relazione al passato della società coinvolta (come il legame tra l’assolutismo imperiale e la vecchia idea di imperium), né come un banale moto affettivo (per esempio l’amore indotto dalla di­ pendenza). Sembra appartenere a un fondo arcaico che è o fu comune alla razza umana, piuttosto che a una data società. L a seconda metà del XVIII secolo vide nascere contemporaneamente il dialogo politico, l’opinione pubblica, lo scetticismo sul principio di un’autorità monarchi­ ca e asimmetrica e un movimento attivo contro la tortura giudiziaria e i supplizi (su cui ci ha intrattenuti Lynn Hunt, Le corps au XVIIIe siècle: les origines des droits de l'homme, «Diogène», n. 203,2003, pp. 53-67). In Cent Mille Provinciaux au XVIP siècle, Pierre Goubert mostra come «parlare di politica» sia un’innovazione del secolo successivo. La Rivoluzione francese non ha avuto rimmediatezza del delirio collettivo. A. Alfòldi, Die monarchische Reprasentation in romischen Kaiserreiche, Darmstadt, 1980, pp. 64-65. «Circi gradibus, purpura veneratur vulgus» scrive Claudiano, Per il VI consolato di Onorio, 614. A. Cameron, Circus Factions: Blues and Greens at Rome and Byzantium, Oxford 1976, pp. 157-180; F. Millar, The Emperorin thè Roman World, cit., pp. 369-374. Ammiano Marcellino, XVI, 10, 8 e 13 (ed. it, op. cit., voi. Ili, p. 287), citato da S.G. MacCormack, Art and Ceremony in Late Antiquity, cit., p. 42. Si veda per esempio Libanio, disc. XV I, 28-37. Giuliano, intellettuale al trono, tanto energico in ambito politico, amministrativo e militare, sembrava dimenti­ carsi della sua carica quando si trattava di idee e parole: come se fosse un sempli­ ce cittadino, replicava da pari a pari ai malcontenti di Antioco nel Misopogon e non reagì agli insulti dei manifestanti che, secondo le leggi dell’epoca, avrebbero meritato la pena di morte per lesa maestà. L’abitudine di Giuliano di parlare da pari a pari con tutti e di mischiarsi ai sudditi (Libanio, disc. XVI, 19) era molto discussa; Ammiano Marcellino vi lesse una stupida vanità (XV, 1, 3; X X II, 7, 1; XXV, 4, 17). G . Posener, De la divinità du pharaon, «Cahiers de la Société asiatique», XV, 1960. Quando muore un faraone, si pensa che raggiunga gli dèi, e al tempo stesso che sarà giudicato come uomo da Osiride: le tombe della Valle dei re recano le incisio­ ni dei soliti libri di Osiride. Quando gli imperatori cristiani cessarono di essere de­ finiti divini, il cambiamento si sentì appena. Anche quando il 1 ° gennaio 1964 l’im­ peratore Hiro Hito dichiarò alla radio giapponese: «N on sono un dio», non pro­ vocò effetti sconvolgenti: il popolo giapponese in un certo senso l’aveva sempre sa­ puto e ugualmente aveva continuato a riverirlo (J. Stoetzel, Jeunesse sans chrysanthème ni sabre, p. 91). D ’altra parte in giapponese il significato della parola «dio», kami, si avvicina più al «dio» del paganesimo greco-romano che al «D io» cristiano: un uomo divino, un fatto miracoloso o un eroe di guerra erano chiamati kami. Epitteto, Diatribe, III, 4, 8 . Libanio si è ricordato di queste righe (disc. X IX e X X, 12): che Teodosio perdoni ad Antiochia la rivolta del 386! Gli dèi certo lo fanno: gli uomini infatti si lasciano scappare quotidianamente parole contro gli dèi, quan­ 66

Che cos’era un imperatore romano? do soffrono nei loro interessi, ma gli dèi non se ne curano, altrimenti non sopravvi­ vrebbe nessuno. Si bestemmia spesso contro gli dèi, dice un greco in Tito Livio (XLV, 23,19), ma non si è mai visto nessuno fulminato per questo. 251. Sinesio di Cirene, Epistole, lettera 148 {Opere, Utet, Torino 1999, p. 365). 252. Id., Sulla regalità, 15.

I presupposti della città greca

2 I presupposti della città greca: perché Socrate si è rifiutato di evadere

Nel tentativo di spiegare tali presupposti, prenderemo come punto di partenza un celebre testo che idealizza la realtà greca, più che imbastire un castello di sogni. Le Leggi di Platone non volevano essere un’utopia e nemmeno una mezza utopia, e Platone non era né Tommaso Moro né Fourier: si è visto come si sia rifatto fedelmente alle legislazioni del tem­ po per redigere l’opera. Sperava che qualcuno fondasse una città pren­ dendo a modello il suo progetto costituzionale e non ha fatto nulla per deludere questa speranza: ha sviluppato un programma arduo ma pos­ sibile. Non aveva niente del pensatore totalitario, come invece è stato definito.1 Ma, qualora meritasse tale qualifica e se considerassimo il to­ talitarismo una costante che attraversa i secoli senza subire variazioni, allora gran parte delle realtà politiche antiche dovrebbero essere defini­ te totalitarie, visto che Platone non ha fatto altro che sistematizzare un modello esistente. Infatti le Leggi, comparabili in questo alla Città di Dio, entrano nel novero di quelle opere monumentali che riassumono una società o una civiltà in un quadro più vero della verità stessa; da questo dipende la loro falsità, ma anche la profondità e l’autenticità, che però vengono sacrificate nell’unità irreale dell’opera d’arte. Profondità: Platone ha intuito con molto anticipo quali fossero le tre principali caratteristiche della città greca: la gran quantità di tempo Ube­ ro a disposizione dei ricchi, le feste collettive e quella che noi definirem­ mo la militanza dei cittadini (aspetto, lo vedremo, che è stato il tacito presupposto di tutta la pohtica antica e che è valsa a Platone, da Benja­ min Constant in poi, la reputazione di totalitario). Per Platone, le sud­ dette caratteristiche hanno un fondamento legittimo (il suo acume nel le­ gittimare i fatti è ben noto), ma le rettifica perché esse non coesistano più come tre realtà indipendenti congiunte solo dalle casuahtà della storia. L’unico dovere del cittadino ricco, il cui sostentamento è garantito dagli schiavi, sarà partecipare attivamente alla vita cittadina, cosa che presuppone che lui abbia del tempo libero, e dovrà cantare, ballare e bere neUe feste pubbliche in onore degh dèi. La ricchezza deve essere destinata unicamente ai doveri civici e il tempo Ubero a onorare la fe­ 68

sta, non ad arricchirsi lavorando. Questi tre tratti storicamente indipendenti ricevono un’unità sistematica, per conformarsi a quella che per Platone è la loro vera essenza. Platone, figUo di una società eccezio­ nalmente politicizzata, ha messo al superlativo la città greca.2 Ci limiteremo a sciogUere questa beUa sintesi e a ristabiUrne il pluraUsmo descrivendo ciascuno dei tre tratti sistematizzati da Platone. Ma prima accenniamo a queUo che è, per me, il nocciolo deUa questione. Noi riconosciamo neUa democrazia ateniese l’antenato deUe nostre de­ mocrazie, anche se queste ultime hanno superato lo schiavismo impu­ tabile aUe prime. Ma questa differenza che le separa è in realtà sinto­ matica di come la democrazia antica abbia solo il nome in comune con queUa attuale: l’atto fondativo è diverso. Una democrazia antica comin­ ciava col domandarsi chi avrebbe potuto partecipare aUa fondazione di una città e chi no: evidentemente escludeva gU schiavi e solo Atene era arrivata ad ammettere tra i cittadini anche i poveri. La democrazia mo­ derna è molto diversa: trova prima una popolazione che occupa, lavora e vive in un territorio, e poi si assume il compito di trasformare questa popolazione in una città. Prende queUo che trova sul posto, non lo pia­ nifica prima. L’utopia platonica, rivelatoria della realtà greca, si fonda sugli stessi presupposti greci: una selezione iniziale decide chi farà parte della città. L’idea prevede un tutto articolato dove chi è ritenuto inferiore sarà al servizio dei migliori. La nascita della città dunque precede i suoi abi­ tanti e ne coinvolge un nucleo molto più ristretto; quella ideata da Pla­ tone era una città composta da una decina di migliaia di cittadini, a fronte di una popolazione totale otto volte più numerosa.3 Il libro VII della Politica di Aristotele non dirà niente di diverso: la città ha un compito da svolgere,4 una funzione, e dovrebbe essere co­ struita per un fine, che consiste nel rendere felice l’uomo; le finalità collettive infatti non devono essere diverse dalle finalità individuali e il benessere della città deve essere quello degli uomini che la abitano, ov­ vero di una manciata di cittadini (con mogli e figli al seguito), che avranno a disposizione molto tempo libero grazie al lavoro di schiavi e barbari. Sarà lo stesso per Plotino: una città ben organizzata non è egualitaria e le persone più umili permettono alla gente dabbene o ai saggi di disporre Uberamente del loro tempo.5 La militanza politica Un Platone totalitarista? No, sarebbe una definizione impropria, anche se ai sette ottavi degU abitanti della sua città spetta una sorte poco invi­ diabile; tanto varrebbe chiedersi quaU siano i rapporti tra Stato e società 69

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civile in seno a un esercito di campagna. Sollevato da ogni preoccupa­ zione materiale dai propri servitori, il cittadino di Platone conduce un’e­ sistenza da monaco-soldato, in cui vita civile e vita privata vengono me­ no, a favore della vita civica e religiosa. In questo Platone si è limitato a trascrivere il «semi-ideale» greco e romano di militanza, come Claude Nicolet ha giudiziosamente chiamato il mestiere di cittadino. «Semi-ideale» perché la militanza, come per noi la democrazia o i di­ ritti umani, non era né un fatto di pura ideologia né una prassi in senso stretto. Questo «presupposto» militante, che non è mai stato ricono­ sciuto in termini espliciti ma che era d’uso ovunque, si scontrava nella pratica con la negligenza o con la resistenza passiva, ciò è certo; ed è vero che ingannava vittime e approfittatori sulla realtà dei rapporti so­ ciali. Rimane il fatto che appesantiva l’aria con imperativi, in parte ri­ spettati, che limitava l’inventiva e gli argomenti di dibattito, che ispira­ va politici riformatori e rivoluzionari, che soffocava rivendicazioni e risentimenti. Spesso celava una lotta di classe, ma allo stesso tempo con­ tinuava ad arginarla; segnava così i confini dell’ammissibile. I filosofi ragionavano sulla sua scorta senza nemmeno rendersene conto, i capi di Stato si basavano su di esso quando seguivano una politica meditata e le menti nostalgiche o polemiche mostravano quotidiana indignazio­ ne nel vedere questo principio sbeffeggiato. In effetti, tale ideale, più che una dottrina retorica, rappresentava un’ideologia basata sull’obbedienza (Socrate, come vedremo, si lasciò mettere a morte per avervi creduto). Secondo questo principio, il me­ stiere di cittadino, la militanza, doveva assorbire completamente l’uo­ mo, che non aveva più o non avrebbe più dovuto avere un mestiere, dei desideri, una vita privata eccetera: l’uomo concreto doveva solo essere un cittadino. Come insegna Jean-Pierre Vernant, la parola democrazia non aveva nell’antichità il significato che ha oggi; la democrazia greca si realizzava nel potere di dibattere, decidere, giudicare che spettava a ciascun cittadino. Era una libertà politica, una libertà di intervento a li­ vello cittadino. Ma nessuno Stato antico ha mai sviluppato l’idea che singoli individui avessero dei diritti. Nella nostra democrazia, invece, è fondamentale una precisa concezione dell’individuo privato e delle sue relazioni con il mondo sociale. Dal momento che i greci sono stati i primi a pronunciare le parole di «città», «popolo», «democrazia» e «oligarchia», siamo tentati di crede­ re che abbiano inventato una politica eterna e immutabile, la nostra. In realtà, la politica antica ha avuto dei presupposti così particolari che, per chiarire quale concezione di rapporti fra Stato e società la militanza civica presumesse, dobbiamo fare una rapida deviazione verso secoli più recenti: il contrasto sarà esplicativo. La politica ha sempre avuto come suo fine il bene della collettività 70

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o quello degli uomini, ma di quali uomini? Per noi, l’uomo è parte di una popolazione, come la intendono gli studiosi di statistica quando parlano di una popolazione di batteri. Nei confini del territorio na­ zionale vive una popolazione umana che lavora, si riproduce, va in vacanza. La politica dei poteri pubblici fu a lungo quella di non im­ mischiarsi, di laisser faire, perché si riteneva che il liberalismo avreb­ be offerto alla popolazione le condizioni ottimali; oggi si ritiene che il welfare di una nazione sia meglio garantito se lo Stato se ne interessa: l’intervento pubblico canalizza i flussi demografici, economici, socia­ li e turistici. In altri termini, la politica, per come la consideriamo oggi, svolge un compito paragonabile a quello di una guardia forestale. La guardia non lascia che la natura cresca da sola, abbandonata a se stessa, ma non è nemmeno sua padrona: non la sfrutta a proprio profitto, come farebbe nn coltivatore, ma ha come solo obiettivo il suo bene e, per questo, ri­ spetta e segue le sue tendenze naturali, si limita a indirizzarle. Si po­ trebbe ancora fare il paragone con il lavoro di un vigile incaricato di di­ rigere il traffico: non «lascia fare» alle automobili, ma al contempo non decide dove debbano andare, né pretende di ridistribuire la proprietà delle auto; organizza la circolazione spontanea di macchine e pedoni, regolandone il flusso, perché quest’ultimo preesiste al suo intervento governativo e legislativo: prima di tutto deve esistere una realtà sostan­ ziale, una popolazione, una società con i suoi flussi; poi la legge, la co­ stituzione, può prenderla in mano. È la rappresentazione della celebre frase detta da Sieyès nel 1789: «Che cosa è il Terzo Stato? Tutto. Cosa ha rappresentato finora nell’ordinamento politico? Nulla. Che cosa chiede? Di essere qualcosa». Solo due o tre secoli fa non era ancora così. Allora la politica si occu­ pava di fare il bene dei sudditi. E in cosa consisteva questo bene? Nel garantirgli un re: si pensava che non ci fosse bisogno di altro. Il re era una sorta di gentleman farmer, egli non agiva per il bene della natura, come la guardia forestale, ma sfruttava la natura a suo profitto: i suddi­ ti non erano una popolazione, ma un gregge di cui lui era il pastore; tutta l’arte stava nel tosare le bestie senza scorticarle. Infatti il re posse­ deva un dominio in cui viveva una fauna umana che cercava di soprav­ vivere come poteva e che scorrazzava come voleva; cosa facesse non era affare suo, ed egli si limitava a prelevare la sua parte di guadagni e, gra­ zie a questa imposta, ad adempiere al suo compito di re, che consisteva unicamente nel mantenere relazioni con gli altri re, suoi cugini e rivali. Il sovrano, dal canto suo, ha le proprie attività, come i sudditi hanno le loro; gli affari del re, che venivano chiamati ragion di Stato, non ri­ guardavano i sudditi, se non per il fatto che essi lo veneravano e si vo­ tavano ai suoi affari: «servivano» il loro re. La priorità del sovrano non 71

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è certo di preoccuparsi delle attività del suo «gregge», che del resto guarderebbe non senza inquietudine il reale precettore avvicinarsi troppo a loro; meno si occuperà di loro, più lo ameranno. Tutt’al più, per intervento di un qualche Colbert, il re passerà dall’economia di rac­ colta a quella di piantagione e darà risalto, nel proprio interesse, a un’angolatura del dominio piuttosto che ad altre. Se si accorge che una strada o un fiume che passano dalle sue terre sono importanti vie di circolazione, si interesserà al loro flusso solo per riscuotervi una tassa chiamata teloneo. Torniamo ora alla città greca o romana. La sociologia di gruppo di ognuno di questi minuscoli Stati assomigliava più a quella di un partito militante che a quella di una nazione moderna, democratica o no. Una città antica non era composta da una popolazione con i suoi dirigenti, da una società civile governata come un qualcosa di distinto dallo Sta­ to: è formata dalla sua stessa popolazione, che ha una propria vita eco­ nomica e sociale, ma solo nella misura in cui a tutta o a parte di questa popolazione libera è richiesto di militare in quell’istituzione che spicca tra loro: la città. Cittadini governati e poteri pubblici si distinguono difficilmente, tutti prendono parte ai lavori. L’istituzione civica non sfrutta la popolazione, come farebbe un re, e nemmeno la governa, la fa militare. I magistrati sono solo semplici militanti, eletti o accettati dai loro compagni come responsabili. Come scrive Christian Meier «si verificò una rottura fra ordine sociale e ordine politico. La società, con tutte le sue disuguaglianze, rimase sostanzialmente com’era»,6 accom­ pagnata da un’intensa politicizzazione: «D a noi» dice un ateniese «un uomo che non fa politica non passa per un uomo pacifico ma per un cattivo cittadino».7 Una politica tanto pervasiva diventava alla lunga insostenibile. Un’affermazione di Max Weber trova conferma in quan­ to accadde ad Atene nel giro di un secolo e mezzo, fin dagli inizi del­ l’epoca ellenistica: «Ogni democrazia diretta ricade in un governo di notabili».8 Qual era quindi il rapporto tra città e società? Era un rapporto che divideva ogni cittadino in due; era quasi come quello che, in un partito moderno, separa il militante dal suo essere persona privata, immersa tra forze economiche e relazioni sociali. Ogni cittadino si guadagnava da vivere come poteva, era ricco o povero, e la proprietà era sacrosan­ ta; nondimeno il cittadino doveva mettere i suoi sforzi e le sue risorse a disposizione dei concittadini con uno zelo più spontaneo di quello del semplice contribuente. È risaputo come le feste civiche, e anche parte delle spese di armamento, fossero generalmente finanziate dai cittadini abbienti, che si sentivano moralmente obbligati a farlo. Questo mece­ natismo civico infatti, in quel mondo in cui città e società formavano una coppia equivoca o antagonista, derivava da due diverse motivazio­ 72

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ni. Le liturgie e l’evergetismo avevano innanzitutto una spiegazione so­ ciale: il ricco mostrava e legittimava la sua ricchezza donandola, e que­ sti «regali» erano tanto spontanei quanto interessati. Ma la seconda motivazione era civica e più costrittiva: per non essere un dovere for­ male, alla stregua di una tassa, l’evergetismo si presentava come un ob­ bligo morale. E, per un militante, la morale è un vincolo enorme, per­ ché sente di dover fare tutto quello che può per non essere avaro nella sua quota di partecipazione; egli non saprebbe mercanteggiare la sua devozione al partito (anche se, beninteso, nei fatti la contratta). Insomma, il pensiero politico, in Grecia come a Roma, ha sempre esitato tra due schemi. Uno, conforme alla realtà, ammetteva che alcu­ ni governassero e altri si limitassero a obbedire: i governanti, certo, non appartengono a un’altra razza rispetto ai governati, non sono i loro pa­ droni, anzi escono proprio dalle fila dei governati; ma alla fine, gover­ nare è una specializzazione. Seguendo il secondo schema, invece, la di­ stinzione tra governanti e governati era marginale rispetto all’impor­ tanza dell’insieme più vasto che li riuniva tutti, il corpo civico fatto di militanti; il governante è solo un militante ancor più attivo degli altri. L’indecisione tra i due schemi è lampante nelle ultime sei pagine dell’o­ razione Per la corona·. Demostene concede alla folla degli ateniesi, che quel giorno si trovano a giudicarlo, che «sì, si può vivere tranquilla­ mente, senza per questo avere torto e senza mancare verso la citta; è l’esistenza che conduce la maggior parte di voi, miei cari concittadini», ma dopo questa concessione, l’oratore non si esime dal ritrarre il buon cittadino come un attivista che si assume numerosi compiti, invece che limitarsi a compiere i doveri prescritti dalla pubblica autorità: consiglia il popolo presso l’assemblea, parte in ambasciata, dilapida la sua fortu­ na per far costruire mura o navi da guerra. Questo buon cittadino, ai nostri occhi, è un politico di vocazione. Si vede la differenza con altre epoche. Dai sudditi del suo regno, un sovrano dell’Ancien Régime si aspetta solo fedeltà e disinteresse, oltre al pagamento delle tasse; da una popolazione moderna, si esige che non ostacoli le possibilità di vita in comune. Bisogna piegare a un minimo di civismo, di ordine pubblico e di docilità militare tutta una popola­ zione che si ha a carico e di cui ci si deve occupare. Al contrario, una città antica ritiene che, in un certo qual modo, i cittadini l’abbiano scel­ ta (così dicono a Socrate le Leggi di Atene nel Cntone) e si aspetta da loro lo zelo dei soldati professionisti. Non ci sono perciò limiti a quello che una città ha il diritto di aspet­ tarsi dai suoi. Quando Senofonte scrive che i buoni cittadini sono «uo­ mini rispettosi delle leggi»,9 non intende che basta non violare il codice per aver compiuto il proprio dovere, perché quella che veniva chiama­ ta la «legge» era qualcosa di ben più articolato rispetto a ciò che oggi 73

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indichiamo con la stessa parola:10 essa comprendeva le leggi, le norme non scritte, le decisioni politiche, gli ordini dei responsabili e, più in generale, la volontà collettiva, che aveva una legittimità ben superiore a legalità transitorie.11 Una città non è semplicemente ciò che noi defi­ niamo una società, e non potrebbe esistere né sussistere se non ci fosse la legge a plasmare i militanti e a farsi obbedire da loro.12 Senza la leg­ ge, che da sola fonda e continua a fondare la città, tutto crolla. La legge era il genio di Atene; nel Critone, il patriottismo di Socrate è attacca­ mento alle leggi e non al territorio, agli avi o alla nazione. Obbedire al­ la legge significava votarsi con zelo alla volontà del gruppo. Obbedire, e non rivendicare: un militante serve il partito, e non se ne serve mai per migliorare la propria sorte; l’attività politica si somma alla vita so­ ciale e ne resta distinta. Come si può immaginare, i presupposti della militanza si realizzeranno con un successo più autentico e duraturo se essa non andrà a mischiarsi con gli interessi privati dei possidenti. «Niente vita privata nel nostro partito», era il motto del Partito co­ munista francese mezzo secolo fa. Lo stesso era per Atene, secondo Finley: non esisteva, scrive, nessun limite teorico alla potenza della città, nessun campo dell’attività umana in cui la città non potesse inter­ venire; bastava che questo suo intervento non contravvenisse a una leg­ ge. La libertà ateniese consisteva, dunque, nel rispetto della legge e nel­ la partecipazione del corpo civico al processo decisionale.13 Si può ag­ giungere che gli interventi della città rimanevano sporadici e che non si condannava un Socrate all’anno, anche se questo accadeva più per mo­ derazione o negligenza che in virtù di un principio. Questa era la li­ bertà antica, guardata in controluce come il negativo di una fotografia che mostra quel che non è, definita cioè dal contrasto con le rivoluzio­ ni americana e francese e con la dichiarazione dei diritti dell’uomo. Considerata di per sé, la partecipazione alle decisioni politiche era più un dovere che un diritto e la si esigeva in nome di uno zelo civico che, beninteso, era ideale piuttosto che reale (Socrate era un’eccezione); nella realtà era necessario tendere una fune tinta di vermiglio14 attra­ verso l’agorà per forzare i perdigiorno a lasciare la piazza pubblica e a salire sulla Pnice dove si teneva l’assemblea. La militanza cittadina è un compito pesante e noioso, ecco perché si esaurirà nel governo dei nota­ bili, in età ellenistica. Lo zelo militante definiva nondimeno, accanto alla società, un’arena politica nel senso stretto della parola,15 a cui è seguita una passione col­ lettiva, una politicizzazione dei pensieri che hanno dato alla vecchia Atene un’aria falsamente moderna. Che il cittadino sia stato un militan­ te significa anche che, secondo la terminologia proposta da Hermann Rehm,16 egli non era l’oggetto del governo, ma il suo strumento; non veniva governato, ma era usato per governare. Questo Stato era di per 74

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sé uno strano vascello senza passeggeri: oltre al capitano (o piuttosto, come si diceva, il pilota),17 portava solo gli uomini dell’equipaggio. Con un linguaggio rivelatore,18 quando Platone o Aristotele parlano di quel­ la nave che è lo Stato,19menzionano solo i marinai.20 Con un lapsus che rivela tutta la sua modernità, un traduttore francese,21 eccellente tra l’altro, ha di recente sbagliato usando le parole «equipaggio» e «pas­ seggeri». Certo, il liberalismo democratico moderno organizzerà delle crociere in cui ogni passeggero si arrangerà secondo le proprie possibi­ lità e con l’equipaggio che assicura beni e servizi collettivi. La città gre­ ca, al contrario, era un vascello i cui passeggeri erano l’equipaggio stes­ so; individui che, con le loro diverse capacità e ricchezze, si trovavano nella necessità di attraversare il tempo storico e superare i suoi scogli;22 e si organizzavano in un gruppo di sopravvivenza, in cui ciascuno dava il meglio di sé per la salvezza comune. Ecco perché, a mio avviso, è esagerato definire la democrazia atenie­ se l’antenata della nostra. Certo, non era composta dai sudditi di un despota di cui non erano altro che schiavi, sottolinea Aristotele, ma da liberi cittadini mossi dall’ideale di non essere dominati da altri, un’idea completamente folle, come sostiene Vernant. Si potrebbe dire lo stesso del gruppo di mercenari che erano i diecimila di Senofonte: erano pa­ droni di loro stessi e formavano una città itinerante, nel significato anti­ co del termine «città». Ma questo essere padroni di sé si inseriva in un contesto talmente diverso dal nostro da rendere la somiglianza superfi­ ciale. E movimento comunale del Trecento nelle Fiandre e in Italia sa­ rebbe forse un più giusto antenato. Da dove proviene questa folle novità, questa concezione così parti­ colare che ha dominato il pensiero e in parte l’esperienza concreta? Se­ condo Vernant, ha origine da un ideale aristocratico che, con una sorta di autoproclamazione, si è allargato a tutto un corpo civico, fatto di contadini e gente di città. A partire àdKIliade non ci sono più despoti, ci sono «re», che del resto sono più o meno tali, e uno di essi, Achille, può mandare a farsi benedire Agamennone, che pure è il più «re» di tutti. Se c’è un problema, l’esercito forma un cerchio con, al centro del­ la comunità guerriera, uno spazio libero collettivo e franco.23 Si può quindi pensare a due origini: il dovere militare e una presa di potere. Christian Meier ha mostrato quale fu la natura della riforma di Clistene: mobilizzare le folle contadine per sottometterle alla clientela degli eupatridi.24 Lo schema della militanza civica è stato indubbia­ mente inventato sulla base di un modello preso per metafora o metoni­ mia da un altro ambito, come spesso capita. Il civismo militante evoca più un gioco di potere che un conflitto sociale, una lotta di classe (la di­ suguaglianza tra gruppi era largamente socio-economica, ma si inten­ deva come politica). Ci si immagina, in principio, la presa violenta o 75

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progressiva della città da parte di un gruppo che assume il potere come un dovere; questo dovere, si suppone, sarà stato un’estensione del do­ vere militare: lo zoccolo duro della cittadinanza forma la classe media, il corpo degli opliti, che serviranno da esempio alle città etrusche e a Roma. In epoca classica la guerra occupava metà della vita di un cittadi­ no25 e Max Weber parla della democrazia guerriera dell’antichità in opposizione alla città commerciale del medioevo;26 ecco perché, scri­ ve, la democrazia antica puniva «ogni condotta suscettibile di mettere in pericolo la morale e la disciplina». Quindi, in linea di principio, la libertà personale non esisteva come nell’esercito. Bisogna però stare attenti a non confondere la negligenza di un principio con l’accetta­ zione del suo opposto, perché un principio trascurato può risvegliarsi durante una crisi, e succede così che un Socrate si ritrova accusato di demotivare i giovani. A una società non meno disuguale e dilaniata di altre, i casi della sto­ ria o la sua fantasia hanno attribuito il ritratto di una politica di ugua­ glianza e di solidarietà nel civismo. Inutile aggiungere che, poiché la vi­ ta politica è sensibile alle forze sociali, il risultato sarà più complicato e anche più ideologico: a Roma si intimerà ai poveri di diffondere l’amo­ re per la città prima di un’odiosa cupidigia. Rimane il fatto che l’anti­ chità pensava la politica in termini di militanza e non poteva concepirla altrimenti. Tale è l’equivoco generato della parola «ideologia»: apolo­ gia ma anche paraocchi. Lo si vedrà prendendo in considerazione i rapporti tra l’attivismo politico e le potenze sociali del tempo, in altre parole tra il civismo e il tempo libero. Ritroviamo qui il secondo grande tema delle Leggi: è degno di stima solo colui che è padrone del proprio tempo; non lavorare è un ideale e addirittura un dovere civico. Ma cosa significa lavorare? Come si declina il concetto di lavoro? Tempo libero e civismo Per cogliere l’importanza di questo tempo libero da attività lavorative, si deve tener presente che una città, sia pure democratica, è un’istituzione che sorge in mezzo agli uomini (qualcuno si sente «escluso dalla città»27 e ne soffre), e il diritto di detenere il potere in questa istituzione è nor­ malmente riservato ai privilegiati. Talvolta la cerchia dei privilegiati vie­ ne allargata a tutto il popolo (come ad Atene), ma si tratta di un privile­ gio o di un abuso lassista.28 Platone, invece, ritorna alle sane dottrine: tutti i partecipanti della sua città modello dovranno avere un patrimo­ nio che permetta loro di consacrarsi completamente alla vita civica, a cui dedicheranno il loro tempo libero. 76

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Si può vedere come si pone per Platone il problema politico. Il suo scopo non è fare la felicità degli uomini, né farli vivere in pace tra loro, e neppure dare loro un sovrano o inquadrare la popolazione, bensì co­ stituire tra gli uomini un’istituzione, la città, che sia ben organizzata. Come quando si recluta un reggimento. Platone intende reclutare una città di «oziosi» come se reclutasse per un monastero dei religiosi ab­ bastanza ricchi da poter passare tutto il loro tempo a cantare inni, sen­ za dover lavorare. O, se si preferisce, Platone ricerca il bene della città stessa piuttosto che quello dei suoi abitanti.29 La città platonica, a cre­ dere al suo inventore, è una società giusta, ma nei confronti di chi o di cosa? Nei confronti della concezione stessa della città, una bella città è fine a se stessa. Il fine è formare una bella città, una città che sia «giusta» rispetto a un ideale molto particolare di essa, e riunire gli individui necessari a questo. Ma non si comincia «formattando» questi individui, definen­ doli cioè in termini astratti, giuridici, come fanno i moderni che assicu­ rano in tal modo un’eguaglianza dei diritti secondo cui un uomo vale quanto un altro. Al contrario, i costruttori di città ideali, ma anche di città reali, prendevano gli individui così come erano, con le loro diffe­ renze concrete (ricchi o poveri, contadini o commercianti, liberi o schiavi) e costruivano intorno a loro ima città «giusta», trattandoli in base a ciò che erano, creando una gerarchia. Come dice Pierre Rosanvallon, le società antiche assemblavano le particolarità come fossero tante complementarità, anziché abolire le differenze in un astratto pia­ no egualitario (da cui l’evergetismo antico: invece di pagare le tasse, i ricchi daranno ai poveri il pane e il circo). E questo differisce in foto dal nostro pensiero politico; infatti la concezione platonica non avrà nessun seguito,50 in quanto essa si basa su un presupposto implicito, su un «discorso» che cambia il senso delle grandi parole solenni come «giustizia», rendendole falsamente simili alle nostre. Questo è il presupposto delle Leggi,31 che non differisce di molto dai presupposti del pensiero e dalla pratica politica dei greci in generale. I greci non si interrogavano sulla vita sociale: si proponevano di costrui­ re una città ben fatta invece di vivere in tribù amorfe, come i barbari, o in regni passivi, come gli orientali. Quando Aristotele scrive che 1 uo­ mo è un animale politico, non si fa carico dell’organizzazione dell’uma­ nità: intende dire che l’ideale, il telos dell’uomo realizzato è vivere in una polis piuttosto che altrove; in altri termini, che i greci sono superio­ ri ai barbari e che sono il capolavoro dell’umanità.32 La città, dicevamo, era sentita come un’istituzione che sorge tra gli uomini, come un monastero, un’università o un azienda, piuttosto che come un gruppo di uomini riuniti in società. «Separiamoci dalla plebe e dalla piazza, lasciamo stare le cariche pubbliche e smettiamola di es­ 77

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sere tirannizzati o ricompensati da persone del genere» dice l’oligarca messo in scena da Teofrasto parlando del popolo ateniese. «O noi o lo­ ro nella città.» L’idea di un’Atene eterna e naturale che trascenderebbe successivi regimi politici non sfiora minimamente l’oligarca. Si chiarisce così la strana affermazione di Aristotele: «Poiché la città è una certa collettività che è, del resto, l’insieme di quei cittadini che si ritrovano soggetti a una medesima costituzione, quando tale costituzio­ ne cambia e diventa altra, è impossibile non pensare che la città non cambi con essa. L’identità della città risiede nell’identità della costitu­ zione, anche se quando cambia la costituzione gli uomini restano gli stessi». In effetti, la città precede logicamente la popolazione che acco­ glie: è il regolamento che «fa» i regolamentati. E poiché una città è un’istituzione più che una comunità materiale, si può entrare in conflit­ to con una città, così come un professore può entrare in conflitto con l’università, un ingegnere con la sua azienda, e Achille con Agamenno­ ne e gli achei. Quale membro di uno Stato moderno oserebbe ripetere la frase che Alcibiade pronunciò senza esitazione davanti agli spartani quando, mi­ nacciato di essere condannato dagli ateniesi, li tradì per andare a Spar­ ta? «L’amore per la città, che sentivo quando vi esercitavo i miei diritti politici senza essere minacciato, non lo provo più ora che mi viene fat­ to un torto; ritengo che la città contro cui marcio non sia più la mia pa­ tria». Rottura con un’istituzione, non troncamento innaturale e tradi­ mento. Si pensi a Dante esiliato che maledice e rinnega Firenze. In caso di guerra, non si formavano le «unioni sacre» di tutti i partiti politici raccolti intorno alla madre patria. In piena guerra del Peloponneso, Aristofane mette in scena il partito della pace. Atene è e resta ima col­ lettività concreta che non soffoca il proprio ideale. La realtà degli antichi e quella dei moderni si sono potute incrociare perché ci sono state città greche allargate a tutto il popolo, e perché, al contrario, è capitato ai moderni di separare i cittadini attivi da quelli passivi; ciononostante, le loro origini sono diametralmente opposte: i moderni pensano alla città a partire da una popolazione esistente di cui l’uomo politico si assume la responsabilità, chiedendosi come organiz­ zare gli uomini in cittadini; i greci, invece, si interrogano unicamente su chi verrà ammesso al titolo di cittadino e la responsabilità che si assu­ mono è di organizzare una città ben composta. Può capitare che una democrazia moderna finisca col limitarsi ai soli cittadini attivi. Per i greci, il movimento andava all’inverso, era centrifugo: alcune città fu­ rono allargate all’intero demos. Noi muoviamo dall’universalità verso l’istituzione, loro partivano dall’istituzione e, anche se spingevano ver­ so il loro concetto di democrazia, non hanno mai sentito l’universali­ smo come un ideale o come un rimorso, ma come un favore o un ecces­ 78

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so. Un’altra cosa, ammissibile dal loro punto di vista, per noi sarebbe impensabile: a loro è capitato di fare retromarcia e di tornare al suffra­ gio in base al censo, mentre per noi l’universalismo è un diritto natura­ le che, se nella sua realizzazione può tollerare restrizioni, una volta rea­ lizzato non concede ripensamenti (dittature hanno potuto radicarsi e abolire il diritto di voto, ma non riservare di nuovo il voto ai ricchi). Ecco perché i greci, quando speculavano, redigevano le costituzioni, le Leggi·, non scrissero «specchi dei principi», è chiaro, ma neppure il Contratto sociale o il Leviatano. Non si interrogavano sull’origine della società; la loro speculazione consisteva nel fondare una città ideale e questo modello attingeva da una realtà: la fondazione di città reali che ricevevano una legislazione dal loro fondatore, il quale aveva già scelto in precedenza i futuri cittadini. Quindi le Leggi di Platone hanno come modello la fondazione di una colonia.33 Ma perché e in che modo la città del filosofo è riservata ai ricchi, e perché si ritiene che questi ulti­ mi siano padroni del loro tempo? E come mai tale caratteristica è ere­ ditaria? Nella città di Platone, esistono la successione e l’eredità; Plato­ ne insiste su questo, ogni uomo desidera l’eternità e vuole lasciare i pro­ pri beni a un discendente. Tempo libero e patrimonio Nella città di Platone, ogni cittadino riceve un patrimonio che resterà di sua proprietà; potrà arricchirsi e moltiplicare questo patrimonio fino a quattro volte. I cittadini non dovranno lavorare; la cosa era tanto evi­ dente agli occhi di Platone da essere menzionata solo incidentalmente, o meglio, come premessa minore del suo sillogismo: «Che genere di vi­ ta potrebbero condurre questi uomini ai quali saranno garantiti i mezzi di sussistenza, mentre le attività artigianali saranno lasciate ad altri e le fattorie agli schiavi, che offriranno ai nostri uomini una quantità di pro­ dotti della terra sufficiente a vivere una vita ben organizzata?».341 futu­ ri cittadini partiranno per la nuova città con il patrimonio che possede­ vano nella città dov’erano vissuti fino ad allora; porteranno con loro schiavi e iloti (Leggi, 736 A ss. e 776 B ss.). I domestici li sgraveranno dei minimi lavori quotidiani.35 «Non sarà tollerato che un cittadino fac­ cia l’artigiano» (846 D). Il giovane Aristotele, che ha a sua volta traccia­ to un piano della città, non era meno rigoroso: «I cittadini non dovran­ no vivere una vita da artigiano o commerciante (vite ignobili e contra­ rie alla qualità); né dovranno essere contadini perché bisogna avere del tempo Ubero dalle attività quotidiane per sviluppare le proprie quaUtà e per l’esercizio delle funzioni pubbhche».36 Questi cittadini di quaUtà, «virtuosi», conducono ima vita agiata: «La nostra città è tale quale non 79

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se ne troverebbe un’altra tra quelle attualmente esistenti per abbon­ danza di tempo libero e di ciò che è necessario»; lungi dal lavorare, i giovani, per parlare solo di loro, non avranno altra preoccupazione che offrire sacrifici, banchettare, festeggiare, danzare e cantare in onore de­ gli dèi (Leggi, 828 D e 835 E), perché il paganesimo, anche rivisto da Platone, era una religione allegra. Rimane da capire come i filosofi po­ tranno essere unanimi nel fare, di tale ozio, del civismo. Si indovina facilmente che il tempo libero non si misurava cronome­ tro alla mano, ma che designava uno stato permanente; significava ric­ chezza e, per eccellenza, ricchezza proveniente dalla terra.37 Platone stabilisce nelle Leggi che un cittadino degno di questo nome non debba far niente (800 D) e, poco dopo, che lo stesso cittadino dovrà «sbrigare gran parte delle faccende politiche e domestiche, i magistrati per la città, le padrone e i padroni nelle proprie case» (808 B, p. 623),38 ovve­ ro: sorveglierà le fattorie coltivate dai suoi schiavi. Questo ricco non è padrone del proprio tempo perché non lavora, ma perché non dipende da niente e da nessuno, secondo la concezione antica di lavoro. In tal senso, egli non ha un mestiere; ciò con cui si identifica è il possesso di un patrimonio, e, per possedere, non bisogna far nulla: basta lasciarsi vivere. Del resto, va da sé che è opportuno gestire il patrimonio in pri­ ma persona; ma più che un lavoro è un esercizio del diritto di proprietà. Questo non implica necessariamente che il grande proprietario fos­ se assente e che si limitasse a mantenere il livello di entrate sufficiente per il suo rango; al contrario, spesso cercava di incrementare la produ­ zione per lasciare ai figli un patrimonio più ricco. E ancor meno impli­ ca che la gestione fosse autarchica; al contrario, si produceva per scambiare su mercati vicini o lontani. Il commercio è il solo modo di arricchirsi; agli occhi del proprietario non è lo scopo che organizza la razionalità della gestione; tale scopo resta familiare: trasmettere un pa­ trimonio ai propri discendenti. Per riprendere una pagina di Alain Guillemin, i ricchi «sono dei veri imprenditori fondiari e cercano di ottenere dei profitti; organizzano razionalmente le possibilità di sfrut­ tamento delle risorse per rispondere alle esigenze di mercato. Tutta­ via, il principio fondante di questa razionalità non è la massimizzazio­ ne dei guadagni, come per l’imprenditore capitalista, ma la gestione di un patrimonio da lasciare ai figli; questo patrimonio non è concepito in modo sincronico, come per i giuristi: si ricollega alla durata familia­ re. A questo fine i notabili respingono volentieri l’immoralità della ri­ cerca di un profitto immediato».39 Quando, all’inizio della Politica, in alcune pagine imbarazzanti o im­ barazzate, Aristotele oppone la buona crematistica a quella cattiva, che è immorale, non ragiona diversamente. Il culto dell’autarchia non con­ siste nel rifiuto degli scambi: il filosofo intendeva dire che lo scambio è 80

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un mezzo, ma non il fine della gestione patrimoniale. Lo sdegno mille­ nario per il commercio è durato finché non si è instaurato il capitali­ smo anonimo, in cui l’impresa non è più il patrimonio di una dinastia che intende perpetuare il suo potere sociale e politico. Questa dinastia si lega, per eccellenza, alla proprietà del suolo, ma non esclusivamente: anche un’impresa commerciale, artigianale o bancaria può essere gesti­ ta come un patrimonio piuttosto che come un’anonima macchina per produrre profitti. In tal caso, si suppone che il negoziante o l’artigiano, condividendo i fini dinastici dei proprietari terrieri, a sua volta non la­ vorerà. Il diritto romano avrà un’espressione per questo: «Gestire da buon padre di famiglia». O si possiede un patrimonio fondiario che si gestisce o si fa gestire, oppure ci si occupa anche di commercio e arti­ gianato, ma in grande, in modo da non essere presi per negozianti o in­ dustriali, restando sempre se stessi.40 Lavoro o mestiere infatti evocano l’idea di bisogno, di rischio, di mancanza. Chi era ricco e si occupava di restare tale o divenirlo ancor di più non lavorava, perché lo spettro del bisogno era lontano; lasciava affluire le risorse, non forzava 1 accumulo. Le poche ore diurne o notturne che impiegava non contavano affatto: erano solo necessità prosaica, come vestirsi la mattina. Uno schiavo, in­ vece, non aveva tempo per «oziare»,41 anche se aveva del tempo libero, perché viveva alle dipendenze del suo signore. Ecco all’opera i due meccanismi che si congiungono sotto il nome di ideologia: la valorizzazione e la presupposizione. L’«ozio» verrà valo­ rizzato in quanto ammirevole, in quanto privilegio della classe social­ mente dominante; e i filosofi della politica, la cui visione è offuscata dai paraocchi del presupposto militante, metteranno il civismo in relazione al tempo libero: sarà il loro modo di tener conto dei poteri sociali che condividono o subiscono. I ricchi vivevano nell’«ozio» ed erano politi­ camente influenti: queste due forze verranno valorizzate, giustificando l’una con l’altra. Perché, diceva Max Weber, l’uomo felice si acconten­ ta raramente di essere felice, ha bisogno in più di averne il diritto; la fe­ licità vuole essere legittima. Nella Politica di Aristotele e nelle Leggi42 di Platone, un leitmotiv ritorna con una tale insistenza da tradire un so­ spetto di inquietudine o di cattiva fede: solo la ricchezza dà il tempo li­ bero che permette di occuparsi degli affari pubblici;43 la ricchezza è giustificata dall’attività politica e questa si trasforma in privilegio riser­ vato ai ricchi. In nome di un realismo politico. Ma era proprio vero che i ricchi non avrebbero dovuto far altro che occuparsi di affari pubblici mentre i poveri non avrebbero potuto tro­ vare nemmeno un minuto per questo? In effetti Platone e persino Ari­ stotele44 stigmatizzavano altrove l’apoliticità dei ricchi che si preoccu­ pavano solo di guadagnare soldi e se ne infischiavano della città. Ma, ai loro occhi, questo non è un fatto, è un torto: i ricchi hanno il torto di 81

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non essere sempre conformi alla loro essenza. È un torto perché, se­ condo Platone, il Bene è al di sopra dell’Essere, al di sopra della vera realtà; esso dovrebbe essere superiore a ciò che è, e dovrebbe attribuire a ciò che è la sua realtà (una città che, nella realtà, non è conforme al Bene non è una città degna di questo nome, non è una «vera» città). L’inquietudine dei nostri pensatori deriva loro dal fatto di avere an­ cora nelle orecchie una frase che si andava ripetendo nella loro città, e che era contraria al loro pensiero: «Riuniamo in noi la cura degli affari pubblici insieme a quella degli affari privati, e se ci dedichiamo ad altre attività, pure non manca in noi la conoscenza degli interessi pubbli­ ci».45 E a questo la Politica oppone in numerose pagine un’argomenta­ zione la cui incoerenza si appiglia a tutti i mezzi: 1) Chi lavora ha poco tempo da dedicare alla città, quindi non si occupa assolutamente di po­ litica. 2) Chi lavora non è degno di occuparsi della città, perché un la­ voratore non è un uomo di qualità; bisogna dunque impedirgli di occu­ parsi di politica e riservare questo privilegio agli uomini che hanno tempo a sufficienza per occuparsene. 3) Chi lavora si preoccupa, del resto, soprattutto di guadagnarsi da vivere e lascia volentieri la politica ai ricchi.46 Del resto quest’ultima è una loro prerogativa, perché ne hanno il tempo e perché averlo è una qualità, una «virtù» che crea un diritto: secondo la giustizia distributiva a meriti ineguali corrispondo­ no diritti ineguali.47 Il nostro scopo non è stigmatizzare un’antica ideologia quanto mostra­ re come siano stati sistematizzati due fatti indipendenti: tempo libero e civismo. Ciò è accaduto per mezzo di un sillogismo in cui la premessa maggiore presuppone, mentre la minore valorizza: in politica, il Bene è la militanza, dunque il tempo libero è il Bene; e così gli uomini che ne han­ no la possibilità militano, mentre i lavoratori non possono, non devono, non vogliono. La realtà dei fatti in cui i ricchi avevano o rivendicavano il pieno controllo sulla politica è valorizzata in foto, perché la forza vuole giustificarsi: l’ideologia come valorizzazione si riduce a questo48 e il pre­ stigio del potere è percepibile tanto da chi lo subisce quanto da chi lo possiede.49 Sensibili al potere come i comuni mortali, i filosofi riconosce­ ranno il Bene nell’unione dell’«ozio» e del potere politico. Perciò questo legame era doppiamente contingente; l’esercizio della politica era in mano alla classe socialmente dominante solo nelle so­ cietà antiche dove i privilegi erano cumulativi, e i medesimi individui detenevano il potere, le ricchezze, la cultura;50 e certo non era meno contingente il fatto che il contenuto della politica fosse stato vissuto o pensato come militanza piuttosto che nei mille altri modi in cui i rap­ porti di produzione sarebbero stati gestiti altrettanto bene. Non ci chie­ diamo se lo Stato fosse o meno lo strumento della classe dominante, ma, più in piccolo, se i ricchi esercitassero loro stessi il mestiere di poli­ 82

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tici o se i ruoli fossero distinti come ai giorni nostri; Platone e Aristote­ le, l’abbiamo visto, affermano al tempo stesso che gli uomini padroni del loro tempo governano, ma anche che troppo spesso si rifiutano di governare. Platone qualifica i ricchi oziosi della sua epoca come oligarchi per­ ché non vuole onorarti con il nome di aristocratici. Rimprovera loro di cercare di arricchirsi sempre più invece di impiegare bene il loro tem­ po, di cui, per cupidigia, fanno un uso vizioso: lavorano. La loro sete di ricchezza «non lascia alcun momento libero per occuparsi di altre cose che non siano i possessi privati, ai quali stando appesa l’anima di ogni cittadino non potrà mai prendersi cura di altro se non del proprio gua­ dagno quotidiano; e qualunque scienza od occupazione porti a ciò, ognuno privatamente è prontissimo ad apprendere e a esercitarsi, men­ tre deride tutto il resto».51 Bisogna mettere fine a tutto questo, perché il cittadino degno di questo nome «ha già un lavoro, quello di mante­ nere in vita l’ordinamento pubblico e di non alterarlo. E questa non è certo una occupazione secondaria».52 Il eccentricità democratica L’ideale civico, militante, ha permesso ugualmente lotte reati. Come scriveva il giovane Marx, esagerando i toni per amore della simmetria: «L’unico oggetto dell’esistenza e della volontà era lo Stato politico, in quanto politico». C’è stata ad Atene una curiosa disuguaglianza tra l’a­ rena politica e i poteri sociali; il popolo esigeva la democrazia, era fiero di averla e di poter «dire la sua»55 sugli affari pubblici e internazionali, se non sugli interessi economici.54 Ma il rispetto per la superiorità so­ ciale dei notabili e la valorizzazione dell’«ozio» non si scalfivano. I ma­ cellai e i conciatori di Atene non l’hanno smentito: come scrive Chri­ stian Meier, l’ateniese povero non si è inventato una sua scala di valori alternativa, a differenza della moderna borghesia,55 che invece resterà a lungo esclusa dall’arena politica. Si capisce allora cosa è stata la demo­ crazia: per il popolo la partecipazione alla politica è stata un punto d’o­ nore, mi modo di affermare la propria dignità di fronte ai potenti; nel­ l’arena politica ritrovava la sua fierezza, il suo oppio. Ad Atene il popo­ lo componeva le giurie e l’esercizio della giustizia era un diritto civico per eccellenza {Leggi, 768 B); quale soddisfazione per i giurati vedere i più ricchi umiliarsi davanti alla giurisdizione popolare!56 Quanto a coloro che non facevano parte del popolo, hanno accetta­ to l’allargamento della città a tutti, ma non hanno propriamente voluto la democrazia, pur non essendo oligarchi di vocazione. Siano stati leali verso il popolo o solamente rassegnati, in ogni caso guardavano dall’e­ 83

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sterno questo fenomeno democratico che rendeva singolare la loro pa­ tria; la democrazia era una realtà di cui conoscevano anche troppo be­ ne i difetti: non era un ideale che avrebbero condiviso col rischio di ammetterne le imperfezioni. La democrazia non è mai stata scontata. Tucidide o Euripide sono sinceri solo in parte negli elogi alla democra­ zia che fanno pronunciare a Pericle e a Teseo; questi uomini ricchi di tempo libero e di cultura provano una certa compiacenza per gli ideali di un popolo che amano, attraverso cui governano e che devono pren­ dere per quello che è.57 Aristofane non era certo un oligarca: scherniva il regime popolare perché chi scrive satira non fa panegirici. Ma, pur non essendo contro quel regime, fingeva che il suo pubblico popolare concordasse con lui sui difetti del governo democratico una realtà evi­ dente verso cui non restava che mostrarsi indulgenti. Perché il popolo non è così stupido! Sa bene di essere ingannato! In fondo, la pensa co­ me i cavalieri,58 come questi uomini dabbene, facoltosi, che incarnano il civismo. Insomma, gli uomini «oziosi» conservavano abbastanza superiorità da potersi permettere di essere paterni verso l’eccentricità democrati­ ca; è il sintomo che il potere politico rimaneva intatto insieme al potere sociale e il popolo stesso conservava il rispetto per i potenti. Ecco il lin­ guaggio che Demostene poteva permettersi di usare contro Eschine da­ vanti a tutto il popolo riunito: «Io valgo di più di Eschine e sono nato meglio di lui; non vorrei che il mio sembrasse un insulto alla povertà, ma bisogna proprio che io dica che il mio destino, da bambino, è stato di frequentare delle buone scuole, di avere abbastanza fortuna da non essere costretto dal bisogno a compiti disonorevoli. Quanto a te, Eschi­ ne, la tua sorte da bambino è stata di spazzare come uno schiavo la clas­ se dove insegnava tuo padre...».59 Non era certo un giorno in cui si potesse permettere di contrariare il popolo, che in quell’occasione era giudice. E Demostene non lo fece: vinse la causa trionfalmente. La sua buona coscienza di possidente si spiega così: la ricchezza implicava tutte le altre superiorità e non esiste­ vano60 forze concorrenti che nella nostra epoca gli avrebbero prescritto un qualche pudore. Si vede quale abisso separi la democrazia arcaica di un popolo povero dalla democrazia moderna che è il risultato di so­ cietà abbastanza ricche da essere dominate da un’ampia classe media. Fragile conquista politica, la democrazia non resisterà due secoli ai po­ teri sociali: a partire dal 300 avanti Cristo, i notabili prenderanno il po­ tere e non vi rinunceranno più.61 Ai pensatori rimaneva il compito di benedire l’evoluzione spiegando che una città ha bisogno di cittadini che contribuiscano con il loro pa­ trimonio e il loro tempo libero;62 e di salvare l’onore del pensiero di­ stinguendo con finezza tra il dovere dei ricchi di dare di più alla città

governandola e il loro supposto diritto di governare in quanto ricchi.63 La ricchezza, quindi, non era considerata garante dell’indipendenza dei ri tra Ηini attivi, come si ripeterà tra il 1789 e il 1848: era il mezzo per fare del bene ulteriore alla città. In realtà si sarebbe potuta rigirare la questione: ridistribuiamo i patrimoni e la città avrà ancora più citta­ dini utili. Così ragionarono i riformatori sociali, Agide e Cleomene a Sparta, i Gracchi a Roma: si proponevano di rafforzare la città, non di fare il bene degli individui.64 Il presupposto della loro politica restava la militanza. L’abbiamo detto, il cittadino nell’antichità ha dei doveri piuttosto che dei diritti.

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Platone e «il mestiere di cittadino» Platone non ha dubbi sulla superiorità dei ricchi e sul loro diritto a co­ mandare.65 Non rimane che trarne le conseguenze: visto che gli uomini «oziosi» hanno una superiorità naturale e il civismo è fatto di doveri, bisogna che i cittadini ricchi diventino quello che sono e si conformino alla loro Idea; allora vivranno solo per la città, invece di ostinarsi a la­ vorare. Sei secoli dopo Platone, un grandissimo filosofo platonico, Plotino, vedrà nei ricchi una traccia del saggio. Quello che conta per lui è solo la qualità; non crede «che i ricchi e i potenti abbiano una qualche supe­ riorità rispetto ai cittadini comuni». I saggi non sono il volgo, che com­ prende due categorie: una è la «folla miserabile, che non è altro che una massa di lavoratori manuali buoni solo per produrre gli oggetti ne­ cessari agli uomini di qualità»; l’altra è formata dagli uomini che, senza essere saggi, non sono comunque lavoratori manuali, un gruppo che «ha qualche ricordo della qualità».66 Un ricco che non ha bisogno di la­ vorare è comunque un’approssimazione di un uomo di autentica qua­ lità. Questo testo è essenzialmente fedele al pensiero dello stesso Plato­ ne. Se ne discosta solo su un punto: Plotino ritiene che tali uomini ab­ biano almeno il merito di non dover lavorare, mentre Platone rimpro­ verava a quelli della sua epoca di avere il vizio di lavorare lo stesso per arricchirsi. Glielo proibirà. P e r farlo , ha com in ciato d a ll’id e a di un com uniSm o o p iu tto sto di una sorta d i unanim ism o che faccia regnare la con cordia (un pen satore p u ò so gn are sen za im p ru d en za il com uniSm o, q u an d o il com uniSm o n on è nelle idee dell’epoca). «C o m u n an za delle donne, dei figli e di tu t­ te le ricch ezze [...]; ci si in geg n a p e r q u an to p o ssib ile d i ren d ere in q u alch e m o d o com une anche ciò che p er n atu ra è d ell’in dividu o, p er esem pio gli occhi, le orecchie e le m ani così che sem brino vedere, u dire e agire in com u n e» (Leggi, 739 C , p . 427). U n piccolo g ru p p o di privi­ 85

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legiati che Platone chiama «corpo civico» sarà mantenuto dalla città grazie al lavoro dei numerosi schiavi pubblici: niente impedirà più a questi privilegiati di dedicarsi anima e corpo alla città. Platone rinuncia a veder realizzato questo sogno in un avvenire prevedibile: la cupidigia ha già corrotto troppo i cuori. Ma almeno farà regnare nella sua città una relativa uguaglianza dei patrimoni. Ogni cittadino riceverà un lotto di terra inalienabile, vivrà del lavoro degli schiavi su questo appezzamento e non avrà diritto ad acquisire una ricchezza che sia più di quattro volte quella iniziale (Leg­ gi, 744 E). Il fine del legislatore è porre un limite all’avidità, frenare l’e­ gocentrismo che allontana dal bene pubblico. E, al contempo, non sta­ bilire una certa uguaglianza: il corpo civico è diviso in quattro classi, secondo il patrimonio, e i diritti politici sono proporzionali alla classe censuaria; se così non fosse, scoppierebbe la discordia (744 B-D); era ammesso, infatti, che i ricchi, godendo di una superiorità in tutti i cam­ pi, ritenessero legittimamente intollerabile che i poveri, inferiori in tut­ to, esprimessero da pari la loro opinione politica. «Non vi sia commercio a fini di lucro» (Leggi, 847 D, p. 737). Espor­ tazioni e importazioni saranno ridotte al minimo. Il giovane Aristotele non la penserà diversamente: una città non è come la proprietaria di una bottega, non ha bisogno di guadagni esagerati e non deve avere un grande magazzino; un negozio un po’ più piccolo, se posso dirlo, gli basterà.67 Che si tratti del singolo cittadino o della città stessa, il nemi­ co numero uno è la cupidigia, ossia la ricchezza. Timore di uno svilup­ po economico che detronizzerebbe la classe dominante, come nell’opi­ nione conservatrice della Francia di inizio Novecento? No, l’idea, più sconcertante per noi, era quella di un’autarchia nel senso antico del termine. Bisogna essere economicamente indipendenti, o meglio, non bisogna dipendere dall’economia, perché il commercio è solo cupidigia e lusso. E lusso significa decadenza politica. Il tema del lusso e della decadenza ha riempito le biblioteche, da Solone e Platone a Sallustio, da sant’Agostino a Rousseau.68 Ricchezza e decadenza Ingiustizia, rivalità e indisciplina sono frutto della ricchezza (Leggi, 678 B-C) e questo rovina le città. L’arricchimento presuppone, infatti, che i cittadini abbiano in mente il loro interesse egoistico piuttosto che il so­ lo bene pubblico; e tutti i pensatori ritengono (se hanno uno spirito normativo più spiccato del senso della realtà) che non ci si possa inte­ ressare di due cose alla volta. La ricchezza fa perdere ogni controllo di sé: i ricchi non obbediscono più alla legge e il loro carattere diventa 86

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ambizioso;69 infine la ricchezza genera gelosie e lotte intestine,70 tema che a noi resta abbastanza estraneo: come si è potuto pensarla in que­ sto modo per oltre due millenni? Gli Stati Uniti «plutocratici» erano forse una potenza più fragile del povero ma virtuoso Giappone conta­ dino del 1941, come credevano i militari nipponici quando decisero di attaccare Pearl Harbour? I Paesi poveri ignorano forse i conflitti socia­ li? Una certa noia si impadronisce di noi di fronte agli antichi sermoni sulla decadenza. Li troviamo sensati quando vi riconosciamo due o tre semplici idee. La società non era sentita come una macchina complessa in cui si artico­ lano in modo oscuro gli elementi più eterogenei tanto da risultare sem­ pre sfuggente. Essa sembrava piuttosto una realtà priva di complicazio­ ni, semplice e trasparente come la Giustizia e la Virtù; viveva grazie alle attitudini individuali e poteva essere modellata tramite l’educazione e i decreti. La decadenza era un fatto naturale come l’invecchiamento,71 poiché il disordine è più naturale dell’ordine: c’era bisogno quindi di wTenergia che rendesse la città una creazione continua, altrimenti sa­ rebbe stata la degenerazione. Questa energia era individuale ed etica, perché venivano ignorati la dimensione collettiva e materiale e gli effetti dell’aggregazione; la politica aveva come impulso la psicologia morale. Se la città entra in decadenza, «la colpa è del legislatore che non [l’ha educata] alla vita libera dalle occupazioni».72 La vita sociale non sussiste da sola, necessita di educazione e buone leggi. Ogni città conduce una vita precaria, continuamente minacciata. Quando un greco ha un incu­ bo in cui la città si distrugge in ogni sua parte, sogna questa catastrofe come la decomposizione dei muscoli sociali: è il timore vissuto da Plato­ ne per tutta la vita, dal Critone73 alle Leggi. Se i cittadini si mostrano ri­ luttanti di fronte al loro vero mestiere, sarà la decadenza. Essi si mostrano così riluttanti perché sono diventati ricchi e si ada­ giano nel lusso. Il denaro dissolve la virtù, ossia la capacità di resisten­ za, perché la virtù non è uno sforzo in avanti, un movimento costrutti­ vo e ascendente, bensì una capacità di resistere alle tentazioni e al di­ simpegno; allo stesso modo, per un greco il coraggio consiste non tanto nell’intraprendere, nell’osare, quanto nel resistere ai colpi.74 Solo la ca­ pacità di resistenza lascerà in vita la devozione che fa durare una città. Al contrario, quando si allenta la tensione etica, tutti i vizi si accalcano in massa alle porte della città;75 e dilaga la cattiva natura. C’è un solo modo per scongiurare tale eventualità: preparare gli individui attraver­ so la legge, che determina i costumi; se i costumi sono cattivi e in altri termini non obbediscono più alla legge, o se a sua volta la legge è catti­ va, non v’è nessun rimedio. A ciò si aggiungeva, beninteso, la banale selezione naturale attuata dalla memoria storica che faceva recuperare dal passato solo i ricordi 87

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conformi a tale sociologia etica (Machiavelli sarà forse il primo a non crederci più). Al giorno d’oggi città e cittadini sono corrotti, ma un tempo la realtà era conforme alla norma, gli ateniesi e i romani di un tempo erano virtuosi. E poi l’ideale militante è raramente realizzato (lo era nei vecchi tempi andati), la decadenza è sempre lì in agguato, e di certo deve essere iniziata già a partire dalla fondazione dell’Urbe. Ogni innovazione è intrinsecamente cattiva perché non può che allon­ tanare dall’ideale realizzato in passato. Da cui il misoneismo, persino in Aristotele, secondo cui «l’amore delle innovazioni ha per causa le abitudini della vita privata; è bene creare qualche magistratura che terrà d’occhio coloro il cui modo di vivere non è senza pericoli per la costituzione».76 Il dovere della festa E ora, la festa. Poiché tutto il male viene dalla cupidigia dei ricchi e «la ricerca insaziabile durante la vita [...] tiene ciascuno occupato» (Leggi, 832 A, p. 689), si potrà fermare questa febbre rendendo obbligatorio il tempo libero. Si riteneva che i ricchi non lavorassero nemmeno quando svolgevano un’attività che, se esercitata da un individuo meno ricco, si sarebbe chiamata lavoro; Platone esigerà che smettano del tutto di la­ vorare e, per raggiungere i suoi scopi, istituirà tante feste quanti sono i giorni dell’anno. L’intero corpo civico, senza distinzioni di età né di sesso, verrà forzato a danzare o a cantare (664 C-D), e a cantare sempre lo stesso canto; misoneismo oblige, sono proibite parole e melodie nuo­ ve, danze e canti resteranno immutabili nei secoli come i testi delle leg­ gi (799 B e 800 A). Sarebbe difficile spiegare questo dovere di festa permanente impo­ sto da Platone a tutto il corpo civico senza partire da un dato reale: nel­ la civiltà greca, banchetti, feste e concorsi erano molto importanti e le conferivano una fisionomia particolare. Il culto degli dèi della città era l’occasione o il pretesto di queste feste, che ci si aspettava fossero cele­ brate in loro onore; danze, concorsi ed esibizioni erano considerati un modo di onorare gli dèi, perché si supponeva che tali spettacoli piaces­ sero loro come piacevano agli spettatori umani. Dunque, poiché i greci onoravano le feste, Platone andò alla ricerca di motivi per spingerli a farne sempre e sempre migliori. È chiaro che le ragioni in questione sono quelle di Platone stesso; rimane il fatto che se le feste non fossero esistite non le avrebbe certo inventate lui, che credeva che le sue ragioni fossero quelle delle feste stesse. Nelle civiltà in cui esistono, le feste assumono una funzione, apportano qualcosa al­ la società, fanno nascere o attirano interessi e affetti. Non sono gli inte­ 88

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ressi a far esistere la festa, ma essi sono solo là dove la festa è presente. Altrimenti non si capirebbe come una stessa istituzione sia presente in alcune società e assente in altre.77 Platone razionalizzerà comunque le feste greche e non lo farà certo per compiacere i gusti della folla; le in­ trodurrà nella sua città senza modificarle troppo e non le trasformerà in impresa di propaganda civica né in celebrazioni unanimistiche. ^ «Quale è allora il modo corretto? Si deve vivere facendo alcuni gio­ chi, sacrificando e danzando, così da essere capaci di renderci propizi agli dèi, di respingere i nemici e vincerli in battaglia.» (Leggi, 803 E, p. 609; cfr. 796 C). Platone non accentua la funzione religiosa a scapito dell’elemento ludico, e le feste della sua città sono molto simili a quelle delle città reali. Comportano sacrifici (771 D, 809 D, 828 B), evidente­ mente seguiti da banchetti; i cori, a cui partecipa tutta la popolazione civica, cantano e danzano durante la cerimonia (664 B, 812 B). Vi sono anche concorsi ginnici legati ai sacrifici (829 B-C, 832 E; cfr. 764 E) e, ogni due o quattro anni,78 concorsi di musica e poesia. Sembra addirit­ tura che durante le feste si sarebbero dovuti svolgere dei mercati, co­ me accadeva nella realtà.8^ Tuttavia proibisce concorsi di teatro (817 A), per lo stesso motivo per cui fa proscrivere Omero dalla repubblica: nessuno deve insegnare idee false sugli dèi e sulla legge, ed è questo che fanno i poeti tragici e comici. Platone non vuole inventare un mondo nuovo; rispetta nei suoi aspetti essenziali la realtà, anche quando questa lo mette a disagio. La festa lo stupisce e lo preoccupa: perché esiste l’aggressiva futilità del gioco? Da dove viene l’incoercibile bisogno di agitarsi che tormenta gli uomini, simili a bambini che non riescono a stare fermi (653 C-E) ? Danzano per onorare gli dèi, probabilmente, ma perché il modo giusto di onorarli è divertirsi così? Deve rassegnarsi: gli uomini sono mario­ nette i cui fili sono mossi dagli dèi per il loro divertimento (644 D, 803 C, 804 D) ! L’agitazione è per loro un riposo. Platone non pensa alla fa­ tica del lavoro, dopo il quale sarebbe piu piacevole restare fermi, ma al­ lo sforzo che richiede la disciplina civica (653 C-D): quando hanno ob­ bedito per troppo tempo, questi bambini adulti hanno bisogno di scuo­ tersi a loro piacimento. Almeno nei momenti di festa non si dedicano a lavori avidi ed egoi­ sti. In più, attirano sulla città la benevolenza degli dèi e cantano inni con parole educative (664 C-D). Le feste sono anche un occasione per fare conoscenza e preparare futuri matrimoni: i cittadini avranno la stessa familiarità che hanno gli abitanti di un villaggio che si conoscono tra loro.81 E non è tutto. Poiché è bene unire sempre l’utile al dilettevo­ le (così in 761 D, 763 B, 763 D), le danze saranno una parte capitale dell’educazione di ragazzi e ragazze; imparando a danzare, i giovani si prepareranno per le feste che saranno il loro unico lavoro; e, visto che 89

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spesso la danza è una sorta di pantomima ritmata in cui si mimano azio­ ni reali e, per esempio, belliche,82 danzando impareranno a combatte­ re: sarà la loro preparazione militare; sapranno così difendere la città (796 B, 804 E, 832 D). Dunque Platone impone a tutti i suoi cittadini questi cori di danza che, per sua stessa ammissione, nelle città reali esistevano solo «per un’estensione molto ridotta» (831 B, p. 687), in particolare in Arca­ dia.83 Avendo perfezionato la realtà, conclude con soddisfazione che non c’è una città uguale alla sua quanto al tempo riservato all’«ozio» (828 E); e per quanto riguarda i giovani cittadini, per parlare solo di lo­ ro, sono «ben cresciuti, ma esenti da severe e servili fatiche, che soprat­ tutto estinguono l’eccessiva passione, e a tutti stanno a cuore nel corso della vita sacrifici, feste, cori» (835 D-E, p. 701). Si celebra un sacrifi­ cio al giorno;84 i cittadini mangiano sempre insieme, o meglio sono di­ visi in due tavoli, gli uomini da un lato, le donne dall’altro (l’usanza esi­ steva anche a Sparta e a Creta); ogni tavolo è presieduto da sorveglian­ ti incaricati di vegliare sul rispetto dell’ordine (781 B, 806 E, 842 B). Ma questo è totalitarismo! E se Platone non avesse scritto niente di profondamente scioccante agli occhi dei suoi contemporanei? Se l’idea di· vita privata fosse stata estranea ai greci?

In effetti, mentre nei tempi moderni si è conquistata una zona di libertà rispetto allo Stato o alla religione, gli ateniesi avevano come unica li­ bertà quella che la città lasciava loro; il diritto di una città di vigilare sulla vita privata dei cittadini era illimitato, anche se non era esercitato. Nessuno protestava contro un simile principio; né Platone né Senofon­ te hanno invocato la libertà di coscienza in favore di Socrate. Giuridica­ mente, ai loro occhi l’ateismo era condannabile e non difendevano altro che la questione di fatto: Socrate non era ateo. Se lo fosse stato, Platone per primo gli avrebbe somministrato la cicuta; la pena di morte attende gli empi nella città delle Leggi, dove i cittadini vivono sotto costante sorveglianza in mezzo ai delatori, che Platone chiama sicofanti. Le città reali istituivano spesso magistrati incaricati di sorvegliare la morale privata: efori, ispettori dei costumi delle donne, censori di Ro­ ma, l’Areopago di Atene. Apprendiamo senza sorpresa che l’attività di questi inquisitori si limitava a portare degli esempi, come il processo di Socrate, o ad adottare misure simboliche. Le leggi suntuarie limitavano il lusso privato ed erano rispettate. Si deve infatti la fine della bella se­ rie di steli funerarie attiche a una legge di Demetrio Falereo che limita­ va quello dei funerali. A Roma, una legge regolava l’abbondanza dei

banchetti. Un giorno Cicerone fu invitato a una cena «comprometten­ te» in compagnia di un’attrice troppo carina; la legge suntuaria sulla cucina fu comunque rispettata, ma visto che la gastronomia aveva sa­ puto raffinare la preparazione dei cibi più semplici, Cicerone si am­ malò, di nuovo, per aver cenato con bietole e malva, autorizzate dalla legge, ma troppo sapientemente presentate.85 Opponendo la libertà degli antichi a quella dei moderni, Benjamin Constant sostiene che la città era libera, ma i cittadini erano suoi schia­ vi. Georg Jellinek la crede un’esagerazione, ritiene che presso gli anti­ chi come presso i moderni, l’individuo disponga di una sfera di attività libera, indipendente dallo Stato, solo che l’antichità non è mai arrivata a prendere coscienza del carattere giuridico di tale sfera d’indipenden­ za,86 a garantire formalmente delle libertà. Ma più che una lacuna, non è forse il sintomo di una differenza radicale? Come sostiene Adolf Menzel nel suo studio sul processo di Socrate, questa libertà era solo uno stato di fatto, ma non è mai stata un diritto soggettivo opponibile allo Stato.87 Il diritto di vigilare della città era un correlato del presup­ posto militante, poiché essa esisteva solo grazie alla moralità dei citta­ dini che ne erano gli strumenti. Questo diritto comportava la sorve­ glianza e la censura non solo dell’attività politica dei cittadini ma anche della loro vita privata (lo stesso puritanesimo si ritroverà all’interno dei partiti bolscevichi). Socrate ebbe la sfortuna di attraversare uno di que­ sti periodi di zelo; come vedremo, è vero che condivideva l’opinione dei suoi assassini riguardo alla militanza. Idealmente, dovrebbe bastare la coscienza a dettare la condotta ai buoni cittadini. Anche Isocrate preferisce la moralità civica alle leggi scritte. Solo gli ignoranti possono pensare «che gli uomini sono miglio­ ri là dove le leggi sono state fissate precisamente per iscritto», come se la morale si inculcasse con un decreto! «Non è certo da questo che la virtù trae incremento, bensì dai comportamenti quotidiani [...]. E così la quantità e la precisione delle leggi sono segno che la città è mal orga­ nizzata: i cittadini per far argine ai delitti si sono visti costretti a molti­ plicare le normative. [...] Chi governa rettamente non riempie i portici di parole scritte ma possiede la giustizia nell’animo».88 Ma se così non fosse? In tal caso, la città dovrà andare direttamente a indagare nelle coscienze, invece di governare dall’esterno con ordini e divieti. La città secondo le Leggi, questa città dove si conoscono tutti, è un luogo di stretta vicinanza in cui si è gomito a gomito, di sorve­ glianza reciproca, di pettegolezzo. È abbastanza piccola perché tutti i cittadini possano conoscersi e perché nessuno possa ingannare gli altri sul proprio valore reale.89 Il controllo delle coscienze, l’identificazione di morale e politica fanno sì che le Leggi (757 C) identifichino città e virtù; la città ideale metterà sullo stesso piano la difesa della patria e il

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Uocchio indagatore della città

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buon comportamento a tavola.90 Un ex arconte fu escluso dall’Areopa­ go per aver cenato all’osteria,91 comportamento considerato assai tra­ sandato.92 Non era un buon cittadino nemmeno chi dissipava il patri­ monio per i piaceri.93 Platone, Isocrate e Aristotele biasimano il fatto che nella democrazia ateniese ciascuno «vive come vuole».94 La libertà della vita privata potrà iniziare quando si formerà un cor­ po di governanti eticamente distinto dal corpo dei governati. La divi­ sione dei ruoli determina la costituzione di un ambito particolare: la politica in un senso più moderno del termine. Poco importa al gruppo governante che gli individui folleggino, l’importante è che non combat­ tano tra loro e non mettano disordine nei ranghi. Ormai contano solo l’ordine e la salute pubblici, il resto riguarderà la vita privata. Nell’Ate­ ne ellenistica, sotto il regime dei notabili, un ateniese che dilapidava il suo patrimonio con le cortigiane osò replicare ai censori dell’Areopago che faceva quel che voleva con il proprio denaro;95 è vero però che que­ sto difensore del diritto a ima vita privata non aveva più niente del cit­ tadino e che divenne poi l’agente dei re macedoni che allora tenevano la città sotto il loro protettorato. Aristotele aveva giustamente detto che la tirannia era indifferente alla morale privata,96 forse perché un ti­ ranno non ha più concittadini, ma solo schiavi. La condotta enigmatica di Socrate Come dicevamo, Socrate non pensava che la sua patria ateniese fosse logicamente precedente alla costituzione, alle leggi, ma piuttosto che fosse a esse immanente, identica. Condannato ingiustamente, sarebbe potuto evadere, i suoi amici avevano organizzato ogni cosa, ma le leggi gli dissero in sogno di non farlo: «Dimmi Socrate, che cosa hai in men­ te di fare? Quale può essere il tuo intento, con questo gesto, se non di fare quanto ti è possibile per distruggere noi, le leggi, e la città inte­ ra?».97 Sarebbe evidentemente riduttivo dire che le sole leggi consento­ no la conservazione di una città: però solo loro fanno sì che ci sia una città;98 ecco quello che ci separa dagli antichi e che ci farebbe ritenere la condotta di Socrate incomprensibile, assurda, se non fosse per i pu­ dori dell’agiografia socratica. Socrate restò volontariamente in prigione, bevve la cicuta e, dal no­ stro punto di vista, rese la patria colpevole di un omicidio giudiziario. Certo, la sua condotta può sembrare sublime: «Non è inutile agli uomi­ ni che un uomo si immoli alla sua coscienza».99 Ma se non fosse subli­ me? Nel 1943, quale membro della resistenza francese avrebbe esitato un secondo a evadere da una prigione della Francia di Vichy? Aveva il diritto e il dovere di sottrarsi a una dittatura che aveva usurpato la na­ 92

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zione e violato il suo popolo; evadendo, avrebbe risparmiato al suo pae­ se l’onta di aver fucilato un patriota. Le leggi di Vichy non rappresenta­ vano la Francia, al contrario, e il partigiano, dal canto suo, non era lo Stato. Quindi, ciò che si avvicina al sublime come noi lo concepiamo è l’atteggiamento di quell’ebreo, il padre dello storico P. Vidal-Naquet, che si vergognava per le leggi antisemite di Pétain, non perché ne fosse vittima, ma perché disonoravano la Francia, la sua patria. Il nocciolo della questione è una di quelle differenze fondamentali e troppo poco visibili che Foucault chiama «discorsi». Per Socrate, la città non esiste su due livelli distinti e sovrapposti, la popolazione e la costituzione; esiste nel suo complesso, sostanzialmente al secondo livel­ lo, tanto che non ci si può schierare dalla parte del primo contro gli usurpatori del secondo; non si può infatti disobbedire agli usurpatori senza disobbedire alla città e macchiare la costituzione, le leggi, che ne sono l’essenza stessa. Si può solo continuare ad appartenerle in tutto o, al contrario, come Alcibiade, lasciarla. Né Alcibiade né Socrate hanno conosciuto la lacerazione dei realisti durante la Rivoluzione francese: la Francia è sostanzialmente il suo re (in tal caso, bisogna emigrare e com­ battere gli eserciti repubblicani in favore del re)? O è invece il suo cor­ po fisico (e in questo caso bisogna difendere la patria contro gli eserci­ ti stranieri, qualora fosse usurpata dai nemici del re)? Un’ultima panoramica sul problema forse ci convincerà. In uno dei suoi migliori libri,100 Foucault distingue, sotto ciò che è confusamente definito come Potere, più «discorsi» (o tipi ideali, se si preferisce) di­ versi tra loro. Per esempio, un tipo ideale di governo, quello del Princi­ pe di Machiavelli, consisteva nel tutelare la sicurezza del principe e quella del territorio di cui era sovrano; un altro tipo ideale di Potere è stato, o è, occuparsi di una popolazione e tutelarne la sicurezza (abbia­ mo evocato in precedenza entrambi i discorsi con altre parole). Que­ st’ultimo è quello dei nostri w elfare States moderni che non governano un corpo civico, ma una popolazione. Le democrazie antiche, invece, dipendevano visibilmente dal primo discorso individuato da Foucault, che fu quello dell’Ancien Régime come anche dei sovrani dell’antico Oriente; salvo che il sovrano delle democrazie era la collettività, era il corpo civico stesso. Inoltre, questo corpo civico condivideva «il più an­ tico sogno del più antico sovrano: che non gli scappasse nessun gesto di nessun suddito». Si è visto, Atene sorvegliava 1 uso che i ricchi face­ vano del loro patrimonio e, quando vigilava, accusava Socrate di avere dèi diversi da quelli della sua città. Ma Socrate non è un membro di qualche «popolazione» ateniese, è il sovrano stesso di questa città o perlomeno un membro della sovra­ nità collettiva; è al tempo stesso suddito e sovrano, ed è in quanto so­ vrano che si lascia mettere a morte: non darà il cattivo esempio com­ 93

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promettendo la posizione di ogni membro del corpo civico sovrano. Si sente non tanto un responsabile di fronte alla sua città quanto un com­ proprietario patrimoniale che non vuole mettere in pericolo il futuro di questa proprietà comune. Verso il 1946, nell’Europa occidentale, agli inizi della Guerra Fredda, un romanzo ebbe un grande successo, era Buio a mezzogiorno di Arthur Koestler. Si narrava di un militante bol­ scevico, avversario di Stalin, che si lasciava condannare a morte senza protestare in uno dei tristemente celebri «processi di Mosca», perché non voleva rovinare il futuro di quel Partito di cui probabilmente si sentiva più comproprietario che dipendente e vittima. Non abbiamo forse detto e ripetuto che un cittadino antico era il militante di una sor­ ta di partito?

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Sul dubbio che le Leggi non descrivano un’oligarchia camuffata come pensava Ari­ stotele, si veda P. Simpson, Les Lois de Platon entre les mains d’Aristote, nel nume­ ro speciale dedicato alle Leggi della «Revue frangaise d’histoire des idées politiques», 16, 2002, pp. 295-307. Ma non basta dire che la città di Platone è oligarchi­ ca. Converremo volentieri che tale costruzione corrisponde «ideologicamente» a un’oligarchia o che, perlomeno, rivela il temperamento oligarchico di Platone. Ma la differenza va oltre: una città greca, pur definendosi «democratica», ha solo il no­ me in comune con la nostra idea di democrazia. Secondo una formula di V. Ehrenberg, L’État grec, Paris 1976, p. 169 (trad. it. Lo stato dei greci, L a Nuova Italia, Firenze, 1980). Sulle fonti giuridiche di Platone, sul suo senso delle realtà, si veda L. Gemet, introduzione all’edizione Budé delle Leggi, in particolare p. CCIII-CCVI. L a città ideale delle Leggi comprendeva da dieci a dodicimila cittadini (ossia una quarantina di migliaia di persone, contando le mogli e i figli dei cittadini), una decina di migliaia di meteci e una trentina di migliaia di schiavi, ovvero una popolazione di ottantamila individui, di cui solo una decina di migliaia di citta­ dini contava ai fini del governo. Questa è la stima di K. Schopsdau, Platon, Werke, IX , 2, Nomoi, Góttingen 1994, p. 109. Devo questo riferimento all’aiuto di Sandra Boehringer. Aristotele, Politica, VII, 4,1326 A 13: «Esti gar tikaipoleos ergon». Si veda in par­ ticolare VII, 9,1329 A 16-30, per la composizione della popolazione e la ripartizio­ ne della proprietà. Plotino, III, 2,11, e II, 9, 9. C. Meier, Die Entstehung des Politischen bei den Griechen, Frankfurt 1980, p. 255 (trad. it. ha nascita della categoria del politico in Grecia, il Mulino, Bologna 1988, p. 263). Tucidide, II, 40, 2 ; cfr. C. Meier, Die Entstehung des Politischen bei den Griechen, cit., p. 248 ss. Quella che Meier definisce «identità politica» di una società è la stessa cosa di quanto qui chiamiamo «presupposto» o «discorso» (nell’accezione di Foucault). Sulla politicizzazione, ibid., pp. 289-292. Sulla frase di Weber e sul governo dei notabili, cfr. P. Veyne, Le pain et le cirque, cit. Senofonte, Memorabili, 1,2,41 (ed. it. Memorabili, trad. di A. Santoni, Bur, Milano 1994, p. 103). Sulla legge, si veda una bella pagina di V. Ehrenberg, L’État grec, cit., p. 164. 94

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Senofonte, Memorabili, IV, 4 ,2 . Si veda un passo delle Leggi d’importanza capitale: Leggi, 875 A-D. M.I. Finley, Démocratie antique et démocratie moderne, citato da W. Nippel, «Antike und moderne Freiheit», in W. Jens e B. Seidensticker (Hrsg.), berne und Ndhe derAntike, Berlin-New York, 2003, p. 65. Nippel insiste sul contrasto con le rivo­ luzioni americana e francese. Aristofane, Gli acarnesi, 22; Polluce, Onomastico, V ili, 104. C. Meier, Die Entstehung des Politischen bei den Griechen, cit., pp. 42 ss., 86,151, 213,216 con la n. 196. H. Rehm, Geschichte der Staatsrechtswissenschaft, p. 78. Perché il gubernator, o pilota, era anche il capitano della nave, come ha mostrato J. Rougé in Studi in onore di Edoardo Voltena, t. 3, p. 174. Sul metodo, cfr. O. Ducrot, Dire et ne pas dire, Paris 1972 (trad. it. Dire e non dire: principi di semantica linguistica, Officina Ed., Roma 1979, p. 22): «S i può cercare in ogni testo il riflesso implicito delle credenze profonde dell epoca: il testo appa­ rirà coerente solo quando lo si completi con tali credenze. E ciò anche quando si sappia che esso non si presenta come la loro affermazione». La metafora del politico come gubernator è stata studiata da C.M. Moschetti, Gubernare rem publicam: contributo alla storia del diritto marittimo e del diritto pub­ blico romano, Giuffrè, Milano 1966. Così Platone, Repubblica, 488 A, e Aristotele, Politica, 1276 B 20. Nota di J. Tricot alla Politica, 1276 B 20. Leggi, 758 A 5 (ed. it. Leggi, Bur, Milano 2005, p. 475): «Una città [...] si governa tra i marosi delle altre città»; Polibio, VI, 44. j _p Vemant, La traversée des frontières, Paris 2004, p. 84 (trad. it. Senza frontiere, memoria, mito e politica, Raffaello Cortina, Milano 2005). C. Meier, Clisthène et le problème politique de la polis grecque, «Revue Internatio­ nale des droits de l’Antiquité», X X , 1973, pp. 115-159. Aristotele, Politica, 1254 B 30 e 1333 A 30; Senofonte, Memorabili, Π, 1 , 6 . P. Vidal-Naquet, Le Chasseur noir, Paris 1981, p. 149 (trad. it. Il cacciatore nero: for­ me di pensiero e forme di articolazione sociale nel mondo greco, Editori Riuniti, Ro­ ma 1988). C. Meier, Die Entstehung des Politischen bei den Griechen, cit., p. 6 6 , a proposito di Aristotele, Politica, 1297 B 20. Leggi, 768 B. «Non smetto di combattere contro chi ritiene che non ci possa essere una buona democrazia prima che anche gli schiavi e coloro che per mancanza di mezzi vende­ rebbero la città per una dracma partecipino al potere» grida l’ateniese Teramene (Senofonte, Elleniche, II, 3, 48 [ed. it. Elleniche, a cura di G. Daverio Rocchi, Bur, Milano, 2002, p. 247]); questo testo non tradisce la minima esitazione sulla schia­ vitù; al contrario, Teramene per mostrare al suo avversario l’aspetto ridicolo della democrazia estrema ricorre a un’iperbole che l’avversario stesso trova iperbolica: è come se noi ammettessimo al voto i bambini che hanno appena 1 età della ragione o dessimo la cittadinanza ai buoi da lavoro. Va da sé che nessuno al tempo avrebbe mai pensato di aprire la città agli schiavi, e neppure ai meteci! Cfr. Santas nella «Revue frangaise d’histoire des idées politiques», 16,2002, p. 326: «Il principio platonico della società giusta non ha come giustificazione o fonda­ mento un qualunque principio concernente i diritti della persona». In realtà, que­ sta idea antica, per la quale mi sembra dubbio che il pensiero politico di Platone abbia ancora un interesse se non quello storico, differisce in tota dal pensiero mo­ derno e non si iscrive in qualche philosophia perennis. 95

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Quello che avrà molte più conseguenze sarà lo stoicismo, conosciuto attraverso Ci­ cerone (identificazione della legge razionale con la legge naturale e divina), ripresa da san Paolo (Lettera ai romani, 2 , 14-15) e sistematizzata da Tommaso d’Aquino. Si veda J.B. Schneewind, The lnvention of Autonomy: A History o f Modem Moral Philosophy, Cambridge 1998. 31. Cfr. P. Veyne, Le Pain et le Cirque, cit., pp, 205-207. 32. M. Defoumy, Aristote: études sur la «Politique», Paris 1932, p, 383. 33. Si veda in particolare Leggi, 704 A-C; 707 E-708 D; 735 E-737 B; 744 BC. 34. Ibid., 806 DE; traduco: «una vita ben organizzata» (e non «bella», né «moderata», «poco dispendiosa») secondo 807 A 3, dove l’espressione ricompare; si tratta del modo di vita ideale, di cui Platone regola l’utilizzo del tempo nel minimo dettaglio; coloro che seguono le sue regole condurranno «il buon modo di vivere», la «vita [moralmente] bella», secondo il modo di parlare ordinario delle leggi, Sulla giusti­ ficazione della schiavitù, che è «inevitabile», si veda 777 B; sul modo di trattare gli schiavi ed esserne rispettati, si veda 776 B-778 A e 808 AB. 35. Sarà dunque strana la vita dei giovani durante il servizio militare: verrà proibito lo­ ro di portare degli schiavi, così come dovranno occuparsi da soli di loro stessi, vi­ vendo «come se fossero servi» (763 A). 36. Aristotele, Politica, 1328 B 35; il termine arete si traduce molto meglio con «qua­ lità» che con «virtù», che falsa la sfumatura e rende i passi incomprensibili. L a virtù oppone il solo valore morale agli altri vantaggi, veri o falsi; la qualità designa tanto la virtù quanto il titolo nobiliare di un uomo; essere ricco era una qualità. 37. Il problema della svalutazione del «lavoro» nell’antichità non è semplice; questa svalutazione varia secondo le classi sociali, come ha dimostrato, senza difficoltà, D e Robertis. La variazione stessa si spiega con quattro variabili: 1) Ciò che era il la­ voro agli occhi degli ateniesi, ossia il fatto di dipendere da un altro o dalle cose, non è quello che intendiamo noi per lavoro. 2) Il posto che il lavoro occupava nel­ l’antica definizione dell’individuo sociale non è lo stesso della nostra epoca: un ar­ matore nobile era un nobile e non un armatore (si contentava di armare delle navi); un armatore non nobile si definiva, al contrario, come armatore, perché le persone da poco si definivano con il loro mestiere: per questo il lavoro era stimato nelle classi popolari. 3) Un caso a parte è la particolare svalutazione del commercio e dei lavori manuali. 4) Anche se un notabile non si definisce per le sue attività economi­ che, egli è fiero di dimostrare abilità negli affari o nell’agricoltura: era un talento apprezzato, una qualità aggiuntiva. Per quanto riguarda la superstizione che valo­ rizzava l’agricoltura e svalutava il commercio e l’aitigianato, si vedano gli argomen­ ti spiritosi con cui Senofonte tenta di razionalizzare questa valorizzazione dell’agri­ coltura (Economico, IV, 2, e V, 4). Sull’ambiguità dei greci e di Platone nei con­ fronti dell’artigianato, sull’esitazione tra due modelli («il piano politico separa ciò che il piano tecnico riunisce»), si veda P. Vidal-Naquet, Le Chasseur noir, cit., p. 289: «Étude d’une ambigu'ité, les artisans dans la cité platonicienne». 38. I numeri di pagina indicati si riferiscono alla traduzione italiana di cui ci si è servi­ ti, per la quale vedi n. 2 2 . 39. A. Guillemin, Le Pouvoir et l’innovation: les notables de la Manche et le développement de 1‘agricolture, 1830-1875, Centre de sociologie rurale, 1980, t. 1, pp. 251257. Come scrive M. Godelier, la razionalità intenzionale del comportamento eco­ nomico non è un assoluto, ma dipende dalla gerarchia dei rapporti sociali. 40. Sarà lo stesso a Roma, dove le artes liberales conservano il loro carattere liberale so­ lo se sono esercitate da un uomo libero; esercitate da uno schiavo o da un liberto perdono questo loro carattere. Dopo i lavori di D e Robertis e D. Nòrr, si veda ora J. 96

Christes, Bildung und Gesellschaft: die Einschàtzung derBildung und ihrer Vermittler in derAntike, Darmstadt 1975. 41. Era un proverbio (Aristotele, Politica, 1334 A 20). 42. Leggi, 846 D; più in generale, le Leggi sono da parte a parte un programma che de­ stina i ricchi a una sorta di vita civica contemplativa, in cui non avranno tempo di interessarsi dei loro affari di soldi. 43. J. Christes, Bildung und Gesellschaft, cit., p. 25: «Il disdegno del lavoro veniva dal­ l’ideale di vita politica: colui che deve guadagnarsi da vivere non ha il tempo di compiere la sua vocazione di uomo politico». Euripide, Supplici, 419.1 araldo di una città oligarchica dichiara: «Il povero che lavora la terra, anche se non è igno­ rante, a causa del lavoro non può dedicarsi alla politica» (ed. it. Supplici, a cura di S. Fabbri, Mondadori, Milano 1995, p. 33). 44. Per Platone si veda la fine di questo capitolo; per Aristotele, Politica, 1286 B 13. 45. Parola di Pericle in Tucidide, II, X L , 2 (La guerra del Peloponneso, Bur, Milano 2004, voi. 1, p. 329). 46. Aristotele, Politica, 1318 B 10 e 1319 A 30; cfr. Polibio, IV, 73,7-8. 47. Sulla giustizia distributiva in politica si veda Leggi, 744 B-C e 757 B-E; Aristotele, Politica, 1280 A 10,1282 B 20,1301 A 25; Etica Nicomachea, 1131 A 25; Isocrate, Areopagitico, 21. 48. Quanto a dire che l’ideologia serve come giustificazione agli occhi di terzi, è una supposizione funzionale, finalista, che i fatti spesso smentiscono: si può fare il pro­ prio elogio per tracotanza, sfida; ci si può accontentare di mostrare la propria for­ za, invece di giustificarsi; talvolta l’ideologia è letta e conosciuta solo dai propri be­ neficiari; si può anche tacere e irrigidirsi nella propria tracotanza eccetera. 49. Chi lo subisce può reagire contro il potere sotto forma di collera e rivolta; può an­ che «sentirlo nel profondo» (sovracompensare) affermando la superiorità dell umiltà e l’eminente dignità degli umili, che avranno la loro ricompensa quando gli ultimi diventeranno i primi. 50. Cfr. P. Veyne, Le Pain et le Cirque, cit., p. 117, sviluppando un’idea di Robert Dahl. 51. Leggi, 831 C (ed. it. op. cit., p. 687). G li oziosi avidi e lavoratori sono ritratti nella repubblica come una sorta di puritani ossessionati e respinti, che pensano solo ad accumulare e risparmiare. 52. Ibid., 846 D. Non bisogna intendere che il cittadino «mantiene, salvaguarda l’ordi­ ne pubblico»; come il latino servare, il verbo sozein spesso significa «non distrug­ gere», «non alterare», invece di «far sussistere» o «salvare». Si chiede al buon cit­ tadino di non cambiare nulla alla costituzione ideale e di non rendere vane le di­ sposizioni non obbedendovi. Non obbedire a una legge è distruggerla (Critone, 50 A -B ).

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Sulla libertà come diritto di esprimere la propria opinione, cfr. C. Meier, Die Entstehung des Politischen bei den Griechen, cit., p. 294, e O. Brunner, W. Conze e R. Koselleck, Geschichtliche Grundbegriffe, voi. 11, p. 427, s.v. «Freiheit». L isegoria è il diritto di esprimere il proprio parere sulla politica, senza dover tacere per lascia­ re parlare solo i potenti; la parresia è il diritto al parlar franco in politica, senza te­ mere i potenti; si veda per esempio, riguardo la parresia, Eschine, Contro Ctesifonte, 6 ; sull 'isegoria, Polibio, II, 38, 6 ; IV, 31, 4; V, 26, 6 ; VI, 8 , 4, e 9, 4; VII, 10, T, XXIII, 12,9, dove il termine è spesso associato a parresia. C. Meier, Die Entstehung des Politischen bei den Griechen, cit., p. 259. Ibid., p. 256. Aristofane, Le vespe, 575. L'Ione di Platone o il libro V ili della Guerra del Peloponneso, dove Tucidide parla 97

I presupposti della città greca

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in suo nome, presentano un’altra versione rispetto alle Supplici o al discorso di Pe­ ricle nel II libro di Tucidide. Aristofane, I cavalieri, 1111-1150. Per la corona, 10 e 256-258. O, perlomeno, non ne esistevano quasi. Esisteva certo il senso della solidarietà ci­ vica, che avrebbe portato a considerare il prestito di soldi tra cittadini come una condotta fraterna che non attentava ai diritti della proprietà. D a Isocrate a Cicero­ ne, questa fraternità è molto vantata, Esistevano anche (ed. it. Isocrate, Areopagitico, 44; Aristofane, Fiuto) elogi del lavoro (agricolo e anche commerciale) che si ri­ facevano a Esiodo: «I più poveri vennero indirizzati all’agricoltura e al commercio: che la povertà derivi dall’ozio e la disonestà dalla povertà, lo sapevano bene anche loro» (ed. it. Isocrate, Orazioni, Bur, Milano 2003, p. 223). Chiedersi cosa pensas­ sero gli antichi del lavoro porta a chiedersi cosa pensassero dei lavoratori: sono so­ cialmente inferiori; il lavoro resta tuttavia una cosa buona per queste persone. È con Aristotele che la cittadinanza cessa di essere una funzione per diventare uno statuto; esisteranno così dei governati, in contrapposizione ai governanti. Si veda C. Mossé, Citoyens actifs et citoyens «passifs» dans les cités grecques: une approche théorique du problème, «Revue des études anciennes», L X X X I, 1979, p. 241. An­ che durante il secolo e mezzo di democrazia, Atene ha avuto il suo clan di oligarchi che si teneva ai margini e spiava i gesti della democrazia. Si sentivano estranei ad Atene e alla sua plebe (cfr. Pseudo-Senofonte, La costituzione degli ateniesi; Teofrasto, Caratteri, XXVI, 3 MIindole oligarchica]), fatto comprensibile, se si pensa che il patriòttismo ellenico era un patriottismo di banda, di gruppo concreto: o si resta nella banda democratica o la si snobba; ma poiché città e corpo civico sono la stessa cosa, non si può sognare un’Atene eterna, al di là degli errori della democra­ zia, alla maniera dell’Action frangaise che serve la Francia eterna e odia la repubbli­ ca. La carriera di Alcibiade è un bell’esempio di questo patriottismo di gruppo concreto: Atene è gli ateniesi, ossia gli uomini con cui Alcibiade litiga e con cui poi si riconcilia... Questo si trasmette da uomo a uomo. D opo la sconfitta di Atene nel 405 avanti Cristo, gli oligarchi fanno distruggere le fortificazioni della città al suo­ no dei flauti, come fosse una festa: non si sentono coinvolti nella sconfitta di una Atene eterna, ma hanno vinto su una banda rivale. Aristotele, Politica, 1283 A 14 e passim. Ibid., 1280 A 25 e 1316 B 1 ; si veda anche 1328 B 37-1329 A 3. «Chi ha tempo e mezzi sufficienti deve occuparsi degli affari pubblici» dice Isocrate (Areopagitico, 26 [ed. it. op. cit., p. 215]). Appiano, Guerre civili, 1 , 7-9,26-37. Secondo la Lettera VII, 3 34 B-C, la forza di una città è fatta dal cinque per mille del corpo civico, ossia dai cittadini anziani di nascita nobile, che hanno una fortu­ na sufficiente. Plotino, Enneadi, II, 9, 9 (Contro gli gnostici). Aristotele, Politica, 1327 A 30, testo che abbiamo ritradotto a modo nostro negli «Annales ESC », 1979, p. 230 e n. 70. In questo articolo, abbiamo cercato di dimo­ strare un curioso contrasto tra l’ideale di autarchia e le realtà che erano molto poco autarchiche; non riusciamo a spiegare questo contrasto. E che non abbiamo capito quale fosse l’estensione, nell’inconscio antico, di questo continente sommerso che abbiamo battezzato alla meglio come «presupposto di militanza». L’ideale autar­ chico, la proibizione teorica del commercio e dei traffici internazionali sono pezzi di questo continente. La realtà, invece, era molto diversa; cfr. per esempio L. Gernet, EApprovisionnement d’Athènes en blé, New York 1979, 98

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Per Solone, si veda il frammento 3, versi 5-10. Sulla vacuità del tema della deca­ denza dei costumi a Roma alla fine della repubblica, si veda F. Hampl, Das Problem des «Sittenverfalls», «Historische Zeitschrift», 1959, p. 497. Un eccesso di ricchezza rende difficile la sottomissione alla ragione e all autorità pubblica (Aristotele, Politica, 1259 B 5-20); solo la povertà genera il ritegno, men­ tre la ricchezza produce l’indisciplina (Isocrate, Areopagitico, 4). Per gli antichi, es­ sere ricco significava credere che tutto fosse permesso (questo sarà il doppio senso di luxuria in latino). Platone, Aristotele, Polibio (VI, 57). . . Polibio, VI, 9 e 57. Poiché sussiste l’umanità, dopo ogni decadenza tutto ncomincia e le costituzioni evolvono, tutto sommato, ciclicamente. Aristotele, Politica, VII, 14,1334 A 10 (ed. it. op. cit., p. 605). Dal Critone, Platone attribuisce a Socrate l’idea che è alla base delle Leggi: la costi­ tuzione di Sparta e quella delle città cretesi sono le migliori (53 A). Questa idea nasce da Iliade, XI, 558, dove Aiace che resiste ai troiani viene parago­ nato a un asino che non indietreggia nonostante le bastonate che gli piovono ad­ dosso, e arriva fino agli elogi dei lottatori olimpici, Camelos, morto sotto i colpi, o il Melancoma di cui fa l’elogio Dione di Prusa. ^ L’uomo è fatto per penare: se si lascia andare c’è pericolo (Leggi, 779 A); la man­ canza di padronanza di sé è la fonte di ogni mancanza di disciplina e di ogni ec­ cesso (734 B); solo la padronanza di sé permette il trionfo sui piaceri (840 C). Ovunque la vita politica è opposta al piacere (tra i molti testi, Cicerone, Pro Sestio, LXV I, 138-139). Ciò che indebolisce una città, dichiara Romolo, sono gli ef­ feminati, i codardi e anche i cupidi (Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, 1 1 ,3 ,5 ). Aristotele, Politica, 1288 B 20. . C. Lévi-Strauss, Le Totémisme aujourd'hui, pp. 98-103 (trad. it. Il totemismo oggi, Feltrinelli, Milano 1991). , 834 E. E non ogni tre o cinque anni, come dicono le vulgate traduttone: un con­ corso «penteterico» ha luogo ogni quattro anni. Quando Platone decide che la vigilanza dei mercati verrà assicurata dai sacerdoti (953 B), probabilmente pensa ai mercati che si svolgevano durante le feste nella

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Grecia dei suoi tempi. M. Nilsson, Geschichte der griechischen Religion, cit., I, p. 831. 738 D, 759 B, 771 D-E; le classi sociali in cui si dividono i cittadini si mischieranno a queste feste e impareranno a stimarsi (759 B). 795 E; M. Nilsson, Geschichte der griechischen Religion, cit., I, p. 160.

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Polibio, IV, 20-21. . . . . . Leggi, 828 B; gli orari di ogni cittadino verranno regolati dal legislatore nei mimmi

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dettagli (807 D-E). Cicerone, A d familiares, VII, 26 e IX, 26. G. Jellinek, Allegemeine Staatslehre, Berlin 1921, p. 307. . A. Menzel, Hellenika, p. 59. Sulla libertà greca, si veda l’analisi storica di H. Schetfer, Politische Ordnung und individuelle Freiheit im Griechentum, «Historische Zeitschrift», C LX XX III, 1957, pp. 5-22. Isocrate, Areopagitico, 39-41 (ed. it. op. cit., pp. 222-223). , „ , Leggi, V, 738 E. Cfr. Aristotele, Politica, VII, 4,1326 B 24 e 1327 A 1: la citta de­ ve poter essere abbracciata con un solo colpo d occhio (eusynoptos). In assenza della sorveglianza pubblica, i costumi si corrompono (Isocrate, Areopa­ gitico, 4 7 ); quando ciascuno fa di testa propria è segno che la città si disgrega e che 99

L’impero greco-romano i cittadini sono tanto indipendenti gli uni dagli altri quanto le città stesse tra loro (Aristotele, "Politica, 1280 B 5). La cattiva educazione ne è la grande colpevole. 91. Ateneo, ΧΙΠ, 566 F. Ossia Iperide, fr. 138 Kenyon. 92. Isocrate, Areopagitico, 49. A Roma, i buoni imperatori, nemici della licenziosità, proibiranno agli osti di vendere cibi caldi (varie allusioni nella Storia Augusta) e persino freddi (Svetonio, Tiberio, XXXIV, 1). 93. Una legge di Solone puniva con l’atimia coloro che dissipavano il loro patrimonio (Diogene Laerzio, 1,55). I censori di Roma mostravano la stessa severità verso i ca­ valieri che, in quanto personaggi pubblici, erano tenuti (come lo erano in teoria i cittadini greci) a seguire una morale più severa; si veda Quintiliano, VI, 3 ,4 4 e 74. Abdera colpì il filosofo Democrito per aver dissipato il suo patrimonio (Ateneo, 168 B). 94. Aristotele, Politica, 1310 A 30 (ed. it. op. cit., p. 459) e 1317 B 10; Isocrate, Areopa­ gitico, 37 e 20 (cfr. Politica, 1290 A 25); Platone, Repubblica, 557 B. 95. Ateneo, IV, 167 E-168 E-F. Ai rimproveri di un censore, un cavaliere romano ri­ sponderà: «Credevo che il mio patrimonio mi appartenesse» (Quintiliano). 96. Aristotele, Politica, 1919 B 30. 97. Platone, Critone, 50 A-B (ed. it. Apologia di Socrate. Critone, a cura di M.M. Sassi, Bur, Milano 1995, p. 207). 98. Aristotele, Retorica, 1,4,1360 A 19; cfr. Politica, 1310 A 35 (ed. it. op. cit., p. 459): «N on si deve pensare che vivere secondo i dettami della costituzione sia schiavitù, che, anzi, è salvezza» (della città, beninteso, e dei cittadini con lei); Platone, Leggi, 715 D. 99. F.R. de Chateaubriand, Mémoires d’outre-tombe, XXXV, 24 (trad. it. Memorie d’ol­ tretomba, Einaudi-Gallimard, Torino 1995, p. 525). 100. M. Foucault, Sécurité, territoire, population: cours au Collège de Trance, 1977-1978, Paris 2004, pp. 67-68 e 195 (trad. it. Sicurezza, territorio, popolazione: corso al Col­ lège de France [1977-1978], Feltrinelli, Milano 2005).

3 Esisteva una classe media in quei tempi lontani?

Si può parlare di classi sociali solo rispetto a una società divisa in ordines, in «ordini», come nella Francia prerivoluzionaria? La discussione è aperta.1 Eppure è chiaro che nell’ambito degli «ordini» la plebe non formava un tutto uniforme e che agli occhi degli interessati la ricchezza aveva la sua importanza. In realtà, i plebei facoltosi formavano un gruppo a sé nel loro ordine (o almeno cercheremo di dimostrarlo); ave­ vano le loro idee politiche e un’«ideologia» di tipo sapienziale, rappre­ sentavano il popolo romano e il «romano medio», perlomeno a Roma, ed erano coscienti di appartenere a una «plebe media» (parole loro), fondata, suppongo, sul patrimonio. Due testi che sono passati sotto silenzio lo provano: in Plinio il Vec­ chio e in un epitaffio di Roma troviamo la distinzione tra due tipi di plebei, la plebs media e la plebs humilis. Distinzione ripresa da Tacito a modo suo. Se si insiste troppo sulla specificità delle società divise in or­ dini, se si crede troppo a quanto una società dice di se stessa, se la si guarda come lei stessa si vede, si finisce per dimenticare certe realtà economiche, politiche e mentali. Va fatta un’ulteriore precisazione: in seguito parleremo di «plebe» in riferimento a due accezioni del termine; da un lato, la classe sociale me­ dia e inferiore di tutto l’impero, la plebe delle città romane d’Italia e di città come Pompei, Ostia, Cartagine o Antiochia; dall’altro, la «plebe» della sola città di Roma, quella proverbiale del pane e del circo - privi­ legiata perché viveva nella città che aveva conquistato l’Italia e poi tut­ to l’impero, e perché conservava, in quei tempi lontani, la gloria, i pri­ vilegi alimentari e festivi, e anche, nonostante Giovenale e come vedre­ mo, un ruolo politico. Nella sua Storia naturale Plinio il Vecchio, continuando la sua pano­ ramica sulle malattie e i loro rimedi, ci informa che a quel tempo si dif­ fusero in Europa mah sconosciuti, tra cui una malattia della pelle2 che era contagiosa ma che restò circoscritta a un gruppo sociale: «Questo male non colpì le donne, né gli schiavi né la plebe media o umile, ma solo i grandi, soprattutto con il contatto rapido del bacio» perché «al101

L’impero greco-romano

cuni mali colpiscono solo i grandi, altri solo i poveri»,3 L’usanza del ba­ cio tra uomini era una novità d’epoca imperiale; l’imperatore accettava di essere baciato sulla bocca dai senatori e dai procuratori equestri.4 Si vede qui che i proceres, i grandi, accordavano questo favore solo ai loro pari, rifiutandolo ai pauperes. Non confondiamoci sul termine pauperes. I «poveri», nel senso anti­ co del termine, sono tutti coloro che non sono propriamente ricchi; non sono cioè i poveri secondo il senso che diamo noi alla parola, ovve­ ro gli indigenti, egentes. Un abisso separa una manciata di famiglie ric­ che appartenenti ai primi due ordines da tutti gli altri, ossia da una fol­ la di miserabili, poveri nel senso moderno del termine e da una ristret­ ta classe media che, nei suoi epitaffi, si diceva «pauper ma onesta».5 A partire da Marco Aurelio, per Ù diritto penale, questi ultimi due gruppi formeranno la categoria degli humiliores, a cui il giudice potrà infligge­ re punizioni corporali, risparmiate invece agli honestiores. Resta il fatto che, socialmente, la plebs media facoltosa è in contrasto con la plebs humilis di cui parla Plinio, la plebs sordida di Tacito,6 la mi­ sera ac ieiuna plebecula di Cicerone,7 uomini «volgari, ignoranti e senza risorse»,8 mal nutriti, che hanno bisogno di fare lavori manuali per vi­ vere, la cui grande preoccupazione è l’approvvigionamento, l’annona, e che erano abituati a «comprare i viveri alla giornata».9 Erano salariati o mercennarii, su cui il datore di lavoro esercitava la sua giustizia privata come sugli schiavi,10 che affittavano il lavoro delle loro braccia alla gior­ nata11 e quindi non sempre trovavano da lavorare.121 grandi lavori pubblici, periodicamente, richiedevano una grande disponibilità di ma­ no d’opera, e poiché in questi casi gli schiavi non bastavano, si ricorre­ va agli uomini liberi e poveri.13 O ancora, erano venditori al dettaglio o calzolai che lavoravano in una taberna in quell’unica stanza che fungeva anche da alloggio. Per lo­ ro, come per la maggior parte degli abitanti dell’impero, il guadagno e il pane erano problemi «quotidiani», come dice il Vangelo;14 e poteva capitare che di pane certi giorni non ve ne fosse. I membri della plebe media, al contrario, avevano il domani assicurato grazie ai loro beni pa­ trimoniali, al loro mestiere o al grano stipato nei loro granai; la diffe­ renza di guadagno poteva anche essere pari al decuplo, o persino di più, tra un plebeo medio, la cui rendita annuale era di cinque o seimila denari, per esempio, e un lavoratore giornaliero, che si nutriva di pane e verdura, per il quale i trenta denari offerti a Giuda per tradire Gesù avrebbero rappresentato un buon salario mensile15 (la si può ritenere una somma irrisoria, ma non era stato proposto a Giuda di tradire un terrorista clandestino per diversi milioni di dollari: gli era stato chiesto di svelare dove si fosse rifugiato quella notte un individuo la cui colpa era di essere troppo noto).

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Esisteva una classe media in quei tem pi lontani?

Sarebbe dogmatico affermare che la mentalità antica conosceva solo gli ordines·. queste suddivisioni avevano diverse sfumature e composi­ zioni. La storia non è semplice; come scrive Claude Lepelley, è assolutamente vero che i cavalieri romani, per esempio, erano un ordine e non una classe sociale capitalista, cosa ben dimostrata da Claude Nicolet; ma è anche vero che, pur non essendo un ordine, la plebe media aveva una sua realtà: era una «classe sociale», ma una classe la cui definizione è così multiforme (come vedremo) da sfidare le nostre abitudini. La plebs media entro un sistema binario (i grandi o proceres da un la­ to e tutti gli altri dall’altro) è «povera»; questo sistema era evidentemen­ te quello preferito dai proceres. Ma una classe media esisteva in un siste­ ma ternario come era stato quello di Aristotele, secondo cui «in tutte le città vi sono tre parti: i ricchissimi, i poverissimi e quelli che stanno in mezzo \mesoi\ tra gli uni e gli altri».16 Tale classificazione permetteva al­ la classe media di distinguersi dalla plebe povera e dai liberti. È quanto fa il secondo documento di cui parlavamo, l’epitaffio metrico17 di un at­ tore di buona famiglia: «Roma mihi patria est, media de plebe parentes» («Sono nativo di Roma e i miei genitori appartengono alla plebe me­ dia»). Figlio o discendente di un liberto imperiale, è lui stesso un uomo libero e sembra sia stato una celebrità del teatro;18 si vanta di non essere di origine servile come tanti suoi compagni19 e, soprattutto, di non esse­ re nato da una famiglia che appartiene all’ultimo rango della società. «Spirito, moralità, cultura, onestà?... Intanto se ai 400.000 sesterzi [necessari per appartenere all’ordine equestre] ne mancano sei, sette mila, sei della plebe».20 La plebe della stessa Roma è ciò che rimane della popolazione dell’Urèi quando si tolgono gli schiavi e gli stranieri da una parte e i membri degli ordini senatoriale ed equestre dall’altra.^ La plebs media di cui parla Plinio, poi, ha una definizione composita. E media quanto alla ricchezza, che è un criterio sociale; ma resta plebe e continuerà a far parte degli umili (humiliores), dei plebei {piebeti), dei meschini 0tenuiores),22 perché, se non appartiene all’ordine senatoriale né a quello equestre, non è niente. A questo si aggiunge un’ulteriore complicazione. Finora abbiamo parlato soprattutto della plebe di Roma, quella dell’Urèi. Lì, un uomo ricco che non appartiene ai due ordini, senatoriale ed equestre, non è un grande, è solo un plebeo, per quanto «medio», e il giudice potrà far­ lo bastonare. Ma in tutte le altre città dell’Italia e di tutto l’impero, un uomo ricco, di fatto, apparterrà il più delle volte a un altro ordine, mi­ nore e locale come quello dei consiglieri municipali, e scamperà alla bastonatura. Economicamente, quest’uomo resterà per Roma un ple­ beo medio; istituzionalmente, per la sua città, è un decurione; social­ mente, è un membro di quella classe di notabili che costituisce la strut­ tura del regime imperiale a livello di città e province. 103

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AI criterio della ricchezza, degli ordini, dello sdegno (gli viene rifiu­ tato il bacio sulla bocca: un grande non gli porgerà mai la bocca o il petto da baciare),23 del diritto penale e delle punizioni corporali si ag­ giungeva il criterio della nascita, che separava la plebe di nascita libera (iingenua)24 dai liberti. I plebei medi formano dunque una classe defini­ ta al tempo stesso dal patrimonio, dallo statuto personale, dal fatto di non appartenere ai tre ordini e di essere priva degli onori a questi ulti­ mi riservati. Questi criteri si sovrappongono e si suppliscono; un mer­ cante molto più ricco di un decurione apparteneva comunque alla ple­ be media per via della barriera tra ordines. Estremamente diversificate erano le rendite di questa cosiddetta classe media. Accanto a commercianti ricchissimi, ecco «un grammati­ co che aveva due schiavi; ogni giorno andava al bagno con uno di loro e lasciava il secondo chiuso a chiave in casa, per controllare l’alloggio e preparare il pranzo».25 Ed ecco un certo Virgilio Eurisace che si quali­ fica come pistor, non senza una falsa modestia, perché non dobbiamo pensare a un panettiere nel suo negozio, ma a un grande imprenditore la cui fortuna, costruita sui guadagni e proveniente dalla sua attività di appaltatore (redemptor) di forniture alimentari, è testimoniata solo dal suo sontuoso monumento funebre. E quadro degli ordines, a cui non appartiene, mantiene questo grande capitalista al suo posto di semplice plebeo.26 E così non dobbiamo nemmeno pensare che ogni «mulattie­ re» sia uno straccione che guida un mulo: può anche essere il proprie­ tario di una rete di trasporti lungo le strade fangose della pianura pada­ na.27 San Paolo non era un semplice umile tessitore di Tarso: questo cittadino romano era un vero imprenditore.28 Se si definisce la plebe media in base al censo, questa classe non si identifica con una categoria professionale, una borghesia specializzata nel commercio, nell’industria o nel settore bancario: ogni proprietario terriero, ogni affittuario di terre ne fa ugualmente parte se ha delle ri­ sorse, se è nato libero e se non appartiene al rango equestre,29 così co­ me ogni usciere dei magistrati. E poiché la maggior parte della ricchez­ za proviene dalla terra,30 la plebe media è in prevalenza composta di af­ fittuari terrieri, che però vivono in città e formano una «borghesia» ur­ bana di notabili. Sfortunatamente, per mancanza di testimonianze di­ rette, la media proprietà rurale è probabilmente la categoria meno co­ nosciuta della società romana, tanto che gli storici dimenticano talvolta la sua esistenza e nominano solo i latifondisti, gli schiavi e i coloni. Ma non c’è motivo di dubitare della sua esistenza; in Italia, infatti, gli agri­ mensori constatavano nei catasti la presenza di un gran numero di pro­ prietari (densitas possessorum). Nelle domus cittadine risiedevano soprattutto notabili e decurioni appartenenti alla classe media, che facevano affluire nella città i guada­

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gni ottenuti dalle terre circostanti. Vi abitavano anche numerosi schiavi domestici (che, secondo una testimonianza di Apuleio, dormivano per terra dove capitava, su stracci come nell’Egitto di Nerval o nella Russia di Ceckov). E resto della città era costituito dai negozianti che riforni­ vano le due categorie precedenti e che scambiavano con i coltivatori i prodotti della città per i cereali necessari alla sopravvivenza degli abi­ tanti. Così sarà ancora la città a «economia da Ancien Régime» descrit­ ta da Cantillon.31 Prendiamone subito nota: l’opposizione tra città e campagna non era sostanziale e la proprietà terriera non era 1 oggetto di una scelta drastica; non si ritiene più che sia stata la sola proprietà terriera a costi­ tuire la chiave d’accesso alla classe media e che una «preferenza» per gli investimenti agricoli abbia impedito gli investimenti commerciali e frenato la crescita economica, come si è a lungo detto.32 Le tavolette pompeiane pubblicate di recente contraddicono in pieno questo mo­ dello, scrive Gregory Rowe, e provano l’esistenza di un middle layerP di un ceto medio. La terra è solo uno dei modi di mettere in salvo i ca­ pitali e di assicurarsi le rendite patrimoniali; e un proprietario terriero non pensava affatto di svilirsi se affiancava allo sfruttamento delle terre il commercio e l’artigianato;34 spesso infatti questi proprietari aprivano con i loro risparmi una bottega in città.35 Cominciamo a intravedere un punto decisivo: il possesso di un patrimonio. Ma non per questo ne­ ghiamo che vi fossero arricchimenti puramente commerciali o artigia­ nali.36 Anzi, una prova indiretta dell’esistenza di una plebe media, tan­ to rurale quanto urbana, e della sua importanza, è «1 immensa quantità di beni manifatturieri che sono stati prodotti nel mondo romano e di cui l’archeologia porta instancabilmente alla luce le vestigia imperitu­ re»,37 come dice Morel.38 In definitiva, ciò che caratterizza questa classe media è il possesso di un patrimonio, che è la garanzia di rendite assicurate. Per questo ogni commerciante investirà nella proprietà terriera. E patrimonio, che pas­ serà agli eredi, è una roccaforte di classe, mentre il commercio è specu­ lativo, legato al proprio credito e ai capitali altrui. In conclusione, solo la plebe in possesso di un patrimonio poteva aver coscienza di essere una classe a parte, con i suoi limiti e interessi. I plebei medi erano tanto «normali» quanto, secondo il giudizio di Tacito, partigiani dell’ordine stabilito. Per essere chiari, componevano il grosso della popolazione che «contava», erano E Populus Romanus^ stesso, ridotto alla sua solida base, cioè senza la sua parte più alta, gli equites, e senza la plebe infima. Tacito ce lo dice nel testo dove opera la sua distinzione tra le due parti della plebe: dopo aver parlato dei se­ natori e dei cavalieri, oppone la «parte più sana del popolo» {pars populi integra), che gioisce della caduta di Nerone, alla plebs sordida e

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agli schiavi, che ne erano afflitti.39 La plebe media è quindi la parte moralmente sana del populus-, forma il nucleo solido della cittadinanza romana perché ha un certo patrimonio, mentre un cittadino che ne è privo, un membro della plebs sordida, ha solo il nome di cittadino. Evi­ dentemente il patrimonio rende questa classe il baluardo di un buon ordine sociale e morale. È lei a costituire il vero popolo romano, quel populus mantenuto falsamente in vita forse fino al III secolo, attraver­ so controfigure;40 ecco, per esempio, il populus che viene a scongiura­ re Tiberio di non credere alle calunnie contro Agrippina Maggiore.41 Di conseguenza, l’unità di questa classe sociale (nel senso che si può liberamente dare a queste due parole che non hanno niente dei termini tecnici) risiede nel fatto di essere composta da tutti quelli che si ricono­ scevano come appartenenti a uno stesso strato, che sapevano di essere inferiori agli ordini equestre e senatoriale, e che erano fieri di sentirsi superiori alla plebe miserabile; non disdegnavano di frequentarsi tra loro e, con ogni evidenza, si sposavano tra loro. Avevano in comune un livello sufficiente di ricchezza, basata su un patrimonio, a cui però ve­ niva ad aggiungersi un ulteriore elemento di distinzione, la nascita: i li­ berti, anche molto ricchi, non facevano parte del loro mondo. Tuttavia i Trimalcioni si avvicinavano alla plebe media grazie alle loro ricchezze e ai loro fondi patrimoniali, e ne condividevano la morale sapienziale, come vedremo. Ma erano nati schiavi; appartenevano dunque a una razza disprezzata. Nel passo che abbiamo citato Plinio prende in considerazione solo la plebe media dell’Urèi, dove risiedono le famiglie senatoriali. Inutile ri­ cordare il carattere eccezionale di Roma, un agglomerato mostruoso (500.000 abitanti, se non addirittura il doppio) che avrà come eguale, ben più tardi, nel XVIII secolo, capitali come Londra, Edo (la futura Tokyo), con i loro milioni di abitanti, Istanbul o Parigi, e per la stessa ragione: il potere centrale e la ricchissima nobiltà al potere manteneva­ no un’intera popolazione. Ma l’epigrafia e il Digesto non ignorano le città municipali e il loro strato di piccoli proprietari di campagna e di artigiani e mercanti prosperi in tutta Italia, a cominciare da Ostia.42 Nella lontana colonia latina di Corinto, san Paolo vive in un ambiente tanto popolare, quanto borghese; circa la metà dei personaggi che le sue epistole ci presentano appartiene alla classe media: possiedono una casa, viaggiano, ricoprono un incarico alla sinagoga.43 Certo, fuori Ro­ ma, il censo mìnimo necessario per entrare a far parte dell’ordine dei decurioni è meno elevato (con i suoi 100.000 sesterzi, la maggior parte dei decurioni non sarebbe, nell’Urèi, altro che plebe media); e spesso ricchi plebei varcano il limite istituzionale che li separa dai Senati mu­ nicipali, perché i consigli municipali hanno bisogno di membri facolto­ si (pur restando sempre chiusi nei confronti dei liberti arricchiti, e a

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volte dei loro figli).44 Ma, alla fine, plebe e decurioni restano sempre due poli opposti.45 Se un plebeo era invitato a oltrepassare questo confine, doveva forse accettare? Significava, diventare da borghese nobile e assumersi obbli­ ghi e ideali onerosi. C’era una volta «un banchiere di professione e pro­ prietario di un’immensa fortuna, il quale, per paura di officiai munera, nascondeva con grande ingegnosità la sua vasta ricchezza. Viveva solo, senza nessuno al suo fianco, aveva un aspetto trasandato, vestiva di abi­ ti usati,46 si accontentava di una piccola casa, anche se ben fornita, e dormiva sui suoi sacchi d’oro».47 Non voleva diventare un personaggio pubblico al prezzo del suo oro. Ecco la grande differenza: un plebeo, anche se ricco, restava un privato cittadino. Era quindi considerato scandaloso che un plebeo pensasse di offrire spettacoli pubblici ai con­ cittadini, che un ciabattino arricchito finanziasse un combattimento di gladiatori;48 Questa classe di plebei, nati liberi e con un patrimonio suf­ ficiente, non sono dei mecenati pubblici, dei benefattori della loro città, degli evergeti49 Insomma, i membri della plebs media rappresentavano nell’immagi­ nario il romano comune, quello che Orazio pretendeva di incarnare. Erano semplici cittadini che offrivano un’immagine neutra, non «con­ notata»: non erano né miseri, né personaggi pubblici, né svalutati dal­ la tara di una nascita servile; si parlava di loro senza infamia e senza lo­ de. Quel romano tout court, che coincide con la plebe media, si ritrova anche nella semiotica della ricezione letteraria: è lui Xideale Leser di cui parlano i semiologi, il «lettore ideale» a cui sembrano rivolgersi praticamente tutti gli scrittori pagani (che sono a loro volta senatori, cavalieri, plebei o figli di liberti). In realtà, il destinatario implicito delle loro opere è un latino e un ingenuo, perché gli parlano dei greci come di stranieri, dei liberti come di esseri disprezzabili e degli schiavi come degli «altri» (parlano degli schiavi e non agli schiavi). D ’altro canto, chi non godeva del privilegio dei quattordici gradini, riservato ai due ordini superiori, non è che un «altro»: lo scrittore, come Cice­ rone, Varrone o Seneca, resta imparziale riguardo ai plebei, a meno che non si tratti di quei miserabili sobillatori che l’autorità di un magi­ strato basta a disperdere, come fa Eolo con i venti all’inizio déXEnei­ de·, non esprime sdegno né complicità, anche se nella vita riteneva de­ gni interlocutori solo i senatori o i cavalieri; in quanto autore, non guarda le cose dal punto di vista esclusivo dei privilegiati per i quali i non privilegiati erano semplicemente gli «altri»: il suo lettore ideale è estraneo a questa distinzione. Tuttavia, questo tipo di lettore non è un miserabile: non si può avere per destinatario un miserabile senza far menzione della sua umile condi­ zione. Il risultato di tali esclusioni e imparzialità porta a far coincidere il

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destinatario fittizio delle lettere latine con i plebei medi, senza escludere la nobiltà, certo, ma sottraendole ogni privilegio. In breve, un’opera let teraria, per la sua natura ideale, è destinata a tutti i romani degni di tale nome. Ben inteso, il lettore ideale è una cosa e il lettore reale un’altra, del resto poco certa: i plebei medi sapevano leggere e scrivere, ma che cosa leggevano? Non era necessario aver studiato molto per leggere la traduzione latina della piacevole Storia di Apollonio, re di Tiro·, e a Pom­ pei si scrivevano sui muri i versi dei poeti alla moda. Ma per la com­ prensione della lingua poetica, della prosa d’arte e delle allusioni mito­ logiche erano necessari studi approfonditi, per non parlare di ima certa familiarità con il greco. Se vogliamo verificare con i nostri occhi la realtà di questa classe me­ dia, della quale e sulla quale difettano i documenti scritti, possiamo ri­ volgerci alle massicce tracce che essa ha lasciato di sé. Basta visitare Pompei, con le sue botteghe e il gran numero di affittuari terrieri, ed entrare nelle loro domus, o salire le scale di un’insula di Ostia50 per at­ traversare un cenaculum con le sue numerose stanze e decorazioni che, scrive Pierre Gros, «non ha niente da invidiare alle case aristocrati­ che».51 Tanto che, visitando Ostia o Pompei ci si chiede in continuazio­ ne: «Ma allora dove vivevano quei poveri che non erano schiavi di una famiglia ricca?». Si può anche sfogliare il Corpus Inscriptionum Latinorum, nella mag­ gioranza epitaffi, e fare la conoscenza di decine di migliaia di plebei medi: formano la maggior parte della «popolazione» epigrafica, perché erano i membri più numerosi degli ordines privilegiati; mentre i poveri, che evidentemente formavano il grosso della popolazione reale,52 non potevano sostenere il costo di una lapide.53 I volti dei plebei medi restano comunque meno familiari: ovunque si vedono, sulla via Appia e nelle riserve dei grandi musei, steli con ritrat­ ti54 in altorilievo o bassorilievo (ma raramente a tuttotondo) che li rap­ presentano di fronte, a mezzo busto o in piedi, con la mano destra nel sinus della toga, o del pallio (la discussione è ancora aperta),55 circon­ dati dai loro parenti o dai liberti. Questi ritratti realistici escono da of­ ficine di seconda categoria, meno costosi di quelli dove gli aristocratici si fanno ritrarre come membri di dinastie ellenizzate e raffinate.56 O ancora, i bassorilievi dei «banchetti funerari» mostrano il defunto che festeggia, solo o a tavola con la famiglia. Queste immagini di festa definiscono una classe media57 e illustrano una «saggezza di classe», per così dire. Nel suo significato letterale, il banchetto funebre non ha niente a che vedere con l’aldilà né con i Parentalia:58 due epitaffi59 dicono a chiare lettere che il morto è rappre­ sentato come quando, in vita, faceva bisboccia. Nel suo senso simboli­ co, testimonia la prosperità di quei defunti che furono semplici cittadi­ 108

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ni privati (il loro sepolcro non mette in mostra fasci ne sedia curule,60 come quelli dei grandi personaggi e dei magistrati municipali). Questa prosperità non aveva niente di eccessivo, di ostentatorio né di evergetico, bastava, tuttavia, a distinguerli dalla «massa indigente».61 Essa'ci ri­ vela una saggezza di classe: l’edonismo, 1 arte di vivere sereni in seno al­ la propria famiglia quando non si è un uomo pubblico; ma anche una lezione più «filosofica» secondo Orazio:62 prima della morte che pone fine a tutto, è saggio godere dei propri beni; tanto peggio per gli eredi. Questa era «la degna esistenza di un ingenuo»:63 il plebeo medio che ha fatto incidere queste parole sulla sua tomba ha detto quale era la sua propria dignità, quella del nato libero, e questo escludeva schiavi e li­ berti. Oggi la chiameremmo coscienza di classe. L’immagine del banchetto e la sua lezione («Godiam o!») avevano una terza caratteristica: non erano una forma di ostentazione, ma al contrario giustificavano il fatto che la classe media fosse facoltosa, pre­ sentandone il patrimonio sotto una luce toccante e complice, la gioia tutta umana dei semplici piaceri della vita, dei gaudio. Un senatore, un Seneca, non si sarebbe fatto questo scrupolo, perche i senatori sono si­ gnori per natura e la loro fortuna è grande e dovuta come la criniera di un leone. Sappiamo con quali facezie lo spirito satirico latino tempe­ stasse i ricchi, senza distinguerli dagli avari e dagli avidi, che non si con­ cedono il tempo di godere dei loro beni; a teatro, il pubblico applaudi­ va i versi che li prendevano di mira.64 Il ricco avaro era perseguitato da un odio disinteressato (il caso del ricco liberale non veniva preso in considerazione). Gli scrittori e i poeti a cui gli eredi commissionavano un epitaffio in versi65 vedevano nella saggezza di Orazio, nella sua au­ rea mediocritas e nella sua ars fruendi, l’ideale di vita dei loro clienti ap­ partenenti alla classe media; un’arte di vivere in due capitoli: non pri­ varsi delle gioie della vita ed essere generosi con parenti e amici; in ima parola, essere un uomo amabile, che non è nemico degli altri né di se stesso, che non è invidus ipse sibi né vive da avaro, come recita la legen­ da di un banchetto «funerario».66 Persino un sacerdote di Sabazio, per quanto sia molto pio, consiglia di godere della vita67 (consiglio, che dà anche un altro testo sapienziale, 1’Ecclesiaste)·,08 e, cosa più sorprenden­ te ancora, un notabile siriano si dichiara sacerdote di Bel e diadoco de­ gli epicurei di Apamea 69 Non bisogna essere chiusi agli altri (malignus significa «avaro» tanto quanto «malvagio»); e non bisogna nemmeno negarsi il diritto al piacere. Questa era la morale edonista, e per nulla da «vecchio romano», di queste persone semplici; questo era anche, se­ condo Paul Zanker, il senso delle rappresentazioni pittoriche sui muri delle case pompeiane e del tema dionisiaco predominante.70 Soffermiamoci un istante su questa filosofia «popolare» che in realtà era quella della classe media. Essa ha per contenuto una serie di temi fa­ 1 09

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miliari: la povertà e la morte sono poca cosa; bisogna essere soddisfatti della propria sorte; la smania di accumulare è assurda; la Fortuna è pa­ drona di questo mondo. E la «filosofia» di Orazio, ed è quello che la storia delle idee e dei generi letterari conosce con il nome di «diatriba». Non era un’ideologia nel senso stretto del termine: non aveva lo scopo di nascondere o difendere interessi di classe; non era nemmeno funzio­ nale, perché non insegnava l’arte del successo, come fa un piccolo libro , di saggezza borghese di cui riparleremo. Questo pensiero era immagina­ rio, era ciò che amava sognare la plebe media. Questo sogno aveva un’affinità evidente con la situazione di classe, perché era compensativo: queste persone guadagnavano abbastanza per godersi la vita, ma non erano ricchissime (al contrario, erano «povere» nel senso antico del termine); per essere felici e fiere della loro condi­ zione, amavano immaginare che i ricchi fossero tutti degli avari che non vivevano bene come loro: voi avete i soldi ma noi abbiamo i piaceri. In realtà, il pensiero antico si divertiva a riunire due concetti, o piuttosto due personificazioni femminili: Chresis, il Godimento, e Ktesis, l’Ac­ quisizione (le due parole greche sono infatti di genere femminile); le si trova su un celebre mosaico di Antiochia sull’Oronte. E questa coppia fornisce la chiave di lettura di un’ode di Orazio71 su cui ho già divaga­ to: il poeta si augura che alla fine della sua vita la divinità gli permetta di fruì paratis, di «godere di ciò che ha acquisito». In quei tempi, come si è detto, un’impresa non era anonima, non aveva vita propria, ma esi­ steva solamente in funzione del piacere dell’imprenditore (se era sag­ gio): eccola la «società dei consumi». Quanto ai costumi coniugali di questa borghesia, atteniamoci a un verso di Giovenale in cui una ple­ bea si chiede se non finirà per lasciare il marito oste per sposare un mercante di abiti.72 Un’altra rappresentazione rivelatrice è quella dei bassorilievi funera­ ri che raffigurano scene di officina o di bottega;73 c’è una sorta di bona­ rietà in queste immagini, agli antipodi dei «sarcofagi di generali» dove si vede un senatore che riceve la sottomissione dei barbari vinti o che caccia un leone; con una fierezza modesta, i plebei si vantavano del lo­ ro mestiere, se non era un mestiere da poco. Tuttavia, non possiamo fa­ re affidamento sugli epitaffi per avere informazioni sulle loro attività o sui loro sentimenti: il loro mestiere è menzionato solo di rado e irrego­ larmente;74 anche in questo caso, la popolazione reale non corrispon­ deva alla «popolazione epigrafica». Da questo silenzio non dobbiamo concludere che ciò fosse frutto della mentalità romana e del suo antico disprezzo per il lavoro, ma solo che si trattava di una moda epigrafica: nemmeno oggi la professione del defunto è indicata sulla tomba. E poi, l’agricoltura non è un mestiere, lo sappiamo bene, perché riguardava i proprietari terrieri piuttosto che chi lavorava direttamente la terra, e 110

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veniva menzionata non più di quanto avrebbe fatto un nobile dell’An­ cien Régime, cioè raramente, e solo come sfoggio di eleganza: per esem­ pio, un uomo di legge, in foro iuris peritus, è lodato per essere stato an­ che un agricola bonus 75 Se il celebre mietitore di Mactar76 la menziona, è per raccontare come, partito da niente, è diventato ricco ed è stato ammesso nel santuario del consiglio municipale. Quanto ai mestieri urbani, sono menzionate solo le attività che non erano «alla giornata»: le imprese che esigevano grossi capitali, il com­ mercio alTingrosso e non al dettaglio, l’attività di banchiere e le botte­ ghe di oggetti di lusso, quelle di orafi o gioiellieri per esempio: in bre­ ve, le attività della plebs media?1 che spesso pagava un poeta per redi­ gere un epitaffio in metrica.78 I piccoli mestieri i cui nomi ci sono tra­ mandati dai testi letterari e dal Digesto, come circitor, ambulator, institor, circumforaneus, sono assenti negli epitaffi,79 dove si contano, più che panettieri e mercanti, molta gente di teatro e mosaicisti; uno dei commerci più attestati è quello delle dispendiose sete importate a peso d’oro dalla Cina.80 Aggiungiamo i riferimenti lusinghieri a dei lavori che richiedevano una particolare competenza o cultura, come inse­ gnanti, stenografi, calcolatori, scrivani pubblici, ostetriche. Spesso, per esempio, non si legge semplicemente che il defunto era un incisore, ma che era un incisore che superava in bravura i suoi colleghi;81 così voleva la consuetudine epigrafica: l’eccellenza, e non il mestiere in sé, ne giu­ stificava il richiamo.82 Una possibile spiegazione è che questi epitaffi si ispirino alla tradizione indigena dell’elogio funebre dei grandi perso­ naggi: nella sua ultima ora la classe media imita l’aristocrazia; i rilievi che mostrano un mestiere o una bottega sono a loro modo trionfali, co­ sì come i rilievi funerari che rappresentano la carriera di un senatore. Insomma, il mestiere non costituiva un’identità ma un’eccellenza: si era cittadini, non lavoratori; un agricoltore citerà il suo mestiere solo per precisare che era un abile coltivatore. Alcuni bisogni sono sempre stati tali e sempre lo saranno, a Roma come a Baghdad o a Isfahan, tanto che la nostra ignoranza sulla vita dei mestieri non è assoluta: nei suk e nei bazar del mondo musulmano i venditori al dettaglio, disponendo di scarsi mezzi finanziari, erano ob­ bligati ad approvvigionarsi praticamente ogni giorno da rivenditori all’ingrosso, in funzione delle vendite e della domanda.83 Nel mondo ro­ mano, un tessitore, un follatore o ancora un macellaio o un panettiere (i due mestieri più rappresentati sui bassorilievi) non erano il macellaio o il panettiere «all’angolo», ma membri della plebs media della loro pic­ cola città, perché erano proprietari o affittuari84 delle loro attività, di­ sponevano di liquidità sufficiente per comprare una bestia intera, e possedevano un capitale fisso: due o tre schiavi, un forno, una macina e un mulo per farla girare. ili

L’impero greco-romano

Esisteva una classe media in quei tempi lontani?

A ennesima imitazione della morale aristocratica, i plebei medi sem­ bravano attribuire al loro monumento funerario la stessa importanza che vi riponevano i «grandi»; vi vedevano la consacrazione di ciò che erano stati85 e della loro ricchezza: il costo di alcune tombe e, talvolta, la qualità artistica86 dei bassorilievi funerari bastavano a provare che il defunto era facoltoso. Altri rilievi del tutto simili erano le insegne del­ le botteghe. Queste immagini sfuggono alla distinzione troppo som­ maria tra arte colta e arte popolare: come per la stampa e il disegno giapponese, si tratta di creazioni artistiche minori, ma originali, di ar­ tisti spesso ingegnosi.87 Il tenero sguardo divertito di queste opere ver­ so la vita popolare, verso i gesti degli artigiani, tradisce la sensibilità del loro creatore più che l’ideologia del loro committente; l’artista mo­ stra ciò che ha osservato, e così ci informa sulle realtà quotidiane del­ l’epoca. Si vede il padrone nella sua bottega (come farà ancora César Birotteau, profumiere del re), che tiene d’occhio gli schiavi e le vendi­ trici,88 e che si lascia avvicinare dai clienti. Le funzioni direttive ed ese­ cutive infatti non hanno spazi separati, e non sono nemmeno gerarchi­ camente specializzate: il padrone usa le mani, interviene fisicamente, fa assaggiare il vino da una botte (no, non da un’anfora) a un compra­ tore.89 Si vedono spesso sacchi ammassati con cura in un angolo: la bottega è anche un deposito.90 La rivoluzione della tecnologia e del­ l’organizzazione del lavoro non è ancora passata da lì. Questi bottegai, artigiani e negozianti avevano la propria saggezza professionale. Alcuni dei loro epitaffi non continuano la tradizione del­ l’elogio funebre, ma sono, alla maniera greca, un saluto che il defunto indirizza al passante, un ultimo messaggio della sua esperienza; sono istruttivi: il poeta incaricato di quel compito, che appartiene allo stesso ambiente del suo cliente, ne esprime il pensiero forse meglio di quanto egli stesso avrebbe saputo fare. Ecco la pietra tombale91 di un nego­ ziante che aveva navigato e, da pauper che era, aveva acquisito un patri­ monio (census); aveva buone abitudini e rispettava la parola data, la fi­ des; amava gli spettacoli (ludos) e stare con i suoi amici (sodales). La sua è la vita di un uomo onesto della classe media, come quella di un perso­ naggio di Orazio: un praeco o banditore all’asta (le aste erano molto diffuse e competevano con il commercio)92 che aveva un piccolo patri­ monio e investiva la sua fortuna nei giochi pubblici e nella compagnia dei suoi amici, persone modeste come lui.93 Secondo questi epitaffi poco aristocratici arricchirsi è un merito, per­ ché l’arricchimento presuppone alcune virtù: risparmio, buona fede, lavoro, amicizia. Lavorate, fate fatica: un agricoltore di Sulmona lo dice ai passanti: «[Ho]mines ego moneo ni quei dìffidat [sibi]».94 Un lavoro ben fatto procura una ricchezza legittima; una virtù utile che può far entrare nell’ordine equestre.95 Questo imperativo individuale a lavora­

re sempre più è il motto di un gruppo che colloca la sua caratteristica distintiva nell’idea stessa di lavoro; ma «lavoro» indica qui l'industria, l’attività: in mancanza di un patrimonio ereditario bisogna creare risor­ se di rendita e mettere insieme una fortuna, per poter un giorno acqui­ sire un patrimonio. Invece i ricchi eredi, che hanno ricevuto un patri­ monio già consolidato, si lasciano vivere grazie alla rendita terriera {agri) e alle proprie credenziali {nomina)·, la loro unica fatica è stata quella di ereditare (o di ricevere un’eredità); certo, fanno affari, ma non sono in affari;96 perché ci sono quelli che hanno e quelli che guadagna­ no, come ricordava ad Alfred de Vigny la sua nobile madre, consiglian­ dogli di sposare una donna con una ricca dote. Ma mentre i piccoli proprietari rurali, per quanto plebei, hanno le loro terre, la plebe impe­ gnata in attività più imprenditoriali, ahimè, ha lavorato fin dall’infan­ zia97 per perdere più di quanto non abbia guadagnato; lamentele che si susseguono come ritornelli,98 accanto agli epitaffi che celebrano il suc­ cesso del defunto, ovvero la sua promozione al rango equestre. Simili lagnanze appartengono a ogni tempo, ma qui riflettono l’amarezza de­ gli arricchiti: anche se hanno vissuto bene grazie industria, al labor, anche se si sono costruiti un grosso giro d’affari (a credito, grazie ai sol­ di di altri), non tutti passano nella categoria di quelli che hanno un pa­ trimonio e che possono disporre liberamente del proprio tempo. Gli amici, i sodales contavano visibilmente,99 e anche la considerazio­ ne di cui si godeva. Una pietra tombale celebra in senari giambici un al­ tro banditore {praeco) che fu «un brav’uomo, leale» {frugi cum magna fide).m Si è «poveri ma onesti» e «non si inganna nessuno».101 Un uo­ mo d’affari non deve essere cavilloso102 e deve mantenere «la parola data agli amici»,103 sia che abbia promesso di aiutare finanziariamente un amico sia di fargli un prestito in una data convenuta. Solo questa lealtà (fides) procura la fiducia {fides)104 che permette di avere un certo credito nel foro, e solo quest’ultima consentiva di stringere amicizie d ’affari; amicizie che di sicuro non erano ipocrite né lusinghiere, ma erano l’esito sincero e proficuo, a livello privato, di relazioni professio­ nali basate sulla fiducia.105 I prestiti da parte di privati prevalevano sul credito bancario, e avere degli amici o sodales era la via principale per ottenere un prestito: gli uomini d’affari si facevano credito tra loro, tanto quanto chiedevano prestiti, direttamente o tramite intermediari, ad aristocratici, grandi creditori a interessi. A Roma, sulla via Salaria, un uomo ha vissuto «la­ boriosamente e non senza preoccupazioni»; e «aveva sperato di diven­ tare ricco con il commercio, ma la sua speranza è stata delusa proprio allora che si era meritato molti amici»:106 non gli hanno fatto credito come sarebbe stato suo diritto aspettarsi. Un detto comune diceva di astenersi dal fare agli altri quello che non si voleva fosse fatto a se stes-

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si; ma un’altra massima si esprimeva in termini positivi: «Aspettati da­ gli altri ciò che hai fatto loro», che sottende una promessa oltre che una minaccia.107 Quello che ci si aspetta quindi in cambio è che i numerosi amici trovati «restituiscano il favore e siano d’aiuto nel momento del bisogno» (praestare), come dice in versi un liberto.108 Questi favori, queste «prestazioni», dovevano essere, a mio avviso, prestiti in dena­ ro.109 Oltre al piacere sincero di una giovialità in affari, di una frequen­ tazione di confratelli che sfociava nei collegio, professionali, ipotizziamo che Yamicitia tra sodales assicurasse un futuro di mutuo credito. Quindi bisogna circondarsi di amici («Clientes habui multos»,110 di­ ce pretenziosamente una liberta e donna d’affari) ed essere compiacen­ ti verso di loro, per non correre il rischio di essere esclusi dal sistema di mutua assicurazione costituito da questo entourage.ni «Giovane uo­ mo, mi sono sforzato di possedere ciò che mi serviva» fa dire a un com­ merciante di maiali un poeta che ha letto Orazio, «non ho fatto torto a nessuno e ho reso officia a molti». I suoi sforzi giovanili erano visibil­ mente riusciti e ora, presumibilmente, poteva prestare denaro a inte­ ressi, come Trimalcione una volta diventato ricco.112 Così si spiega un documento spesso commentato:113 verso la fine del­ l’epoca repubblicana, un mercante di perle era, a detta del suo epitaf­ fio, «misericordioso» e «amico del povero», amans pauperìs (o piutto­ sto, credo, «amava i poveri»).114 A prima vista, questo linguaggio po­ trebbe sembrare precristiano:115 è ormai un classico opporre l’assisten­ za civica pagana al dovere dell’elemosina ebrea e alla carità cristiana. Ma si è visto che i pauperes sono molto più numerosi dei miserabili, de­ gli indigenti o egentes, i mendicanti a cui si fa l’elemosina: i poveri pa­ gani sono «tutti i più piccoli di...». Più piccoli di colui che parla, in questo caso il nostro mercante di perle che non respingeva «i più pic­ coli di lui». Ecco tutto. E questo per due ragioni, che sono le due facce della stessa meda­ glia: la prima è la grande virtù pagana e ciceroniana della philanthropia o humanitas·, e la seconda è un’utile solidarietà, utile perché si ha spes­ so bisogno di qualcuno più piccolo di sé. Il nostro defunto era miseri­ cordioso; non rifiutava, immagino, di aiutare un povero diavolo in dif­ ficoltà. «Omnibus communis ego: cui non misertus?» dice di se stesso un argentarius o banchiere di Cirta.116 In termini più precisi, un grosso mercante di pelli di capra che aveva fatto fortuna con gli appalti pub­ blici117 non assumeva una posizione di superiorità quando stipulava un contratto, ma si mostrava equo; e spesso, quando poteva, veniva in aiu­ to a chi lo pregava: «In cunctis simplex contractibus, omnibus aequus, ut potui nec non subveni saepe petenti». Essere creditore è raccomandabi­ le a ogni uomo, commerciante e non, in tutte le nazioni in cui il presti­ to svolge un ruolo importante, e questa saggezza la ritroviamo anche

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nei Salmi, nel libro del Siracide e nel Vangelo:118 è frutto di quella pru­ denza che non lascia il denaro inoperoso e, allo stesso tempo, di una virtuosa compassione. . Certo, questi epitaffi vogliono solo celebrare la bontà del defunto; e, sicuramente, vi si possono leggere anche disgrazie negli affari (un com­ merciante di Brindisi si è rovinato e ripreso tre volte, grazie al credi­ to),119 Ma testimoniano anche un sistema economico in cui un uomo d’affari preferiva chiedere aiuto a semplici privati come lui, piuttosto che rivolgersi a una banca.120 A Roma, in realtà, tutti, aristocratici o semplici mortali, erano creditori; chiunque disponesse di liquidità cer­ cava di piazzarla a interessi. Ecco un ricco che è «ricco di beni immobi­ li, ricco di denaro prestato a interessi» {dives agris, dives positis infenore nummis)·, ecco un senatore offrirsi come esempio: «Ho praticamente in­ vestito tutto in beni immobili, tuttavia presto a interessi bassi» {sum prope totus in praediis, aliquid tamen fenero):121 faceva da banca, ma non era un banchiere, non più di quanto lo fosse il possidente e filosofo Se­ neca. Ed ecco degli uomini d’affari: «Per poter commerciare, bisogna chiedere un prestito», cosa che possono fare «passando da un interme­ diario»,122 un proxeneta o un pararius,12ì che li metterà in contatto con i prestatori. Possono anche sollecitare direttamente i loro confratelli, ami­ ci e conoscenti o fare appello a un protettore altolocato: Seneca faceva di sicuro da banchiere a un cavaliere e uomo d’affari «internazionale» qual era Senecione, il suo cliente.124 Qui interveniva un’altra istituzione autentica, la lettera di raccomandazione,125 e più in generale il sistema di relazioni personali tipico di questa società clientelare. Ma questi aspetti di cui la documenta2Ìone antica lascia traccia (eredito privato più che bancario, relazioni personali) sono anche quelli delle economie dell’Ancien Régime analizzati da Jean-Yves Grenier. Per analogia, ecco quale potrebbe essere stato, per ipotesi, il funziona­ mento dell’economia in quella società precapitalista e non egualitaria, il cui sistema bancario era ancora sommario, La disparità delle rendite e i rapporti tra le classi creavano grandi disponibilità di liquidi, da cui derivavano oscillazioni tra tesaurizzazione e credito in esubero. La vita economica non era fondata sull’investimento; del resto, il capitale fisso non contava quasi nulla prima della rivoluzione tecnologica, tranne che per le grosse navi;127 osservando l’industria tessile si deduce che la fab­ bricazione era più spesso un’iniziativa del mercante che del tessitore stesso; e uno sguardo sul commercio del garum, il condimento per ec­ cellenza della cucina antica, mostra una decisa separazione tra produ­ zione e commercializzazione; lo stesso avveniva per il vino.128 Il processo economico era fortemente parcellizzato; esso non funzio­ nava tramite crediti di finanziamento, ma con semplici anticipi mone­ tari, che servivano a fare dei «colpi» speculativi durante tutto il proces-

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so, che non era dominato dal produttore, ma dal commerciante. Ecco, per esempio, un massiccio ordine di ceramiche: un intraprendente in­ dividuo se ne fa carico e suddivide l’ordine tra i molti vasai che possie­ dono un solo forno ciascuno; la produzione è venduta a lotti (all’asta, forse) a numerosi grossisti che la distribuiscono ai venditori al detta­ glio. A ogni tappa sono intervenuti degli speculatori che, probabilmen­ te, si sono ritrovati obbligati a chiedere un prestito a corto o medio ter­ mine a dei semplici privati. Gli archivi dei Sulpici di Pozzuoli ci hanno consegnato di recente un esempio di credito commerciale a breve ter­ mine. Tutto si basava su una catena di anticipi a credito il cui ammon­ tare era modesto, al fine, presumo, di ridurre i rischi, perché i creditori non intendevano imbarcarsi in un’avventura, con i suoi rischi e profitti, ma percepire una rendita fissa. Un mondo dunque in cui esistevano enormi fortune, ma dove la vita economica era di piccolo calibro e senza economie di scala.129 Era un capitalismo di usurai, di fornitori di servizi pubblici (come quello del­ l’annona, che fu, presumo, il caso del panettiere Eurisace, vista la ma­ gnificenza della sua tomba), di appaltatori delle imposte, di grandi im­ prenditori commerciali e, come Seneca, di magnati della finanza. In breve, non c’erano capitalisti nel senso moderno del termine né specu­ latori; al posto di questi grossi predatori avventurosi, una massa di pic­ coli rapaci si aggirava intorno a questo processo frazionato; dico «rapa­ ci» perché campavano sulle imperfezioni del mercato e sulla distribu­ zione irregolare dell’informazione. E sulla «corruzione» a tutti i livelli: non dimentichiamo che Roma era l’impero della bustarella e dell’estor­ sione o squeeze a tutti i livelli,130 come l’impero turco o cinese.131 In che modo le famiglie senatoriali o gli homines novi come Cicerone o Vespa­ siano si sarebbero potuti altrimenti arricchire? In che modo gli affari­ sti, beneficiari delle loro lettere di raccomandazione, ringraziavano i lo­ ro benefattori? Si crede che i monopoli delle vendite all’asta o delle fol­ latrici fossero assegnati senza bustarelle?132 La cittadinanza romana133 era forse gratuita? Ecco tre modi per ottenere una bustarella avvantag­ giando entrambe le parti:134 accordare un’autorizzazione o concedere un privilegio, un monopolio o un affitto pubblico; informare i com­ mercianti sulle occasioni di guadagno, «vendendo» loro informazioni su mercati molto frazionati; violare la legalità o l’equità, autorizzare ciò che era vietato, raccomandare i propri protetti a un amministratore o forzargli la mano. Questo atteggiamento dell’aristocrazia e dei funzionari, dal più gran­ de al più piccolo, ha sicuramente avuto pesanti conseguenze economi­ che e politiche. L ’aristocrazia teneva in pugno la «borghesia» grazie al­ l’estorsione, alla commercializzazione del surplus di produzione, al cre­ dito e probabilmente anche alle sue proprie imprese (che faceva gestire 116

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ai liberti, o almeno così si suppone). Spesso i cavalieri, o addirittura i senatori, accettavano di diventare patroni di umili corporazioni profes­ sionali; resta da chiedersi, ma la domanda non ha ancora avuto rispo­ sta, se dietro a questo patronato poco brillante si nascondessero oppu­ re no relazioni basate sul credito e sul favoritismo. Le conseguenze economiche di questo «abuso» sono forse conside­ revoli. Poiché ogni incremento del guadagno era assorbito da estorsio­ ni di ogni tipo, era inutile cercare di aumentare la produzione e la pro­ duttività: scoraggiati in partenza, non ci si provava nemmeno; così, mentre i moderni tendono ad accrescere i loro guadagni, i poveri del­ l’antichità esercitavano quello che Galbraith, in un testo capitale, chia­ ma l’equilibrio della povertà,135 che consiste nel non tentare inutilmen­ te di guadagnare di più e nell’adoperarsi per non guadagnare di meno (al giorno d’oggi l’impero romano sarebbe un paese del Terzo Mondo). Torniamo agli uomini d’affari, o piuttosto alla plebe media in generale, e alla sua saggezza. Non avevano studiato la retorica e le bonus litterae, come i figli degli aristocratici; avevano frequentato solo le scuole elemen­ tari come ce n’erano ovunque.136 Ma esisteva un libricino contenente preziosi inegnamenti morali che poteva insegnare loro a prestare denaro, a farsi degli amici, a non rifiutare il proprio aiuto a chi lo chiedeva, per­ ché un beneficio deve essere messo «dalla parte dei benefici», e a «non disprezzare i più piccoli» ne «il regalo di un puupsT amicus», un libro che credo fosse letto dalla plebe media: i Dictu o Oistichu Cutonis.138 Rassicuratevi, non mi metterò a fare sociologia della letteratura; que­ sti distici morali che si insegnavano ai bambini nelle scuole,139 ma che erano indirizzati a tutte le età,140 fornivano precetti che potevano essere validi tanto per i futuri senatori quanto per i giovani plebei: bisogna prestare a interessi,141 non bisogna essere spendaccioni né avari, biso­ gna saper conservare ciò che si è acquisito, ma non dimenticare le gioie {gaudio) dell’esistenza e alternarle con il lavoro:142 «U sa le ricchezze che hai acquisito ed evita la reputazione di avaro; a cosa servono tutti i tuoi beni se li possiedi come un povero?».143 Non bisogna essere privi di humanitas (come Trimalcione e Seneca, l’autore dei Dieta Catoms non dimentica che gli schiavi sono uomini come noi),144 ma si devono difendere i propri diritti senza debolezza: «Non esitare ad andare in giudizio» {in foro sta). E questo deve far riflettere: la vita romana si svolgeva interamente sui binari giuridici? Piuttosto che norma tacita e costante, il diritto non era forse il ricorso ultimo, come la guerra? Im­ magino che più di un creditore non abbia rivisto il suo denaro, e che al­ la fine abbia abbandonato per sfinimento. Rimane il fatto che l’autore dei Dieta Catonis guarda deliberatamen­ te a un certo ambito sociale, che non è miserabile (si possiedono degli schiavi),145 ma che non è nemmeno fondato su un patrimonio: i beni si 117

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guadagnano con il lavoro e i bambini devono imparare un mestiere che darà loro da vivere in caso la fortuna girasse (era anche il parere di Trimalcione), e devono imparare a leggere:146 non si tratta di belle lettere, bonae litterae. Di preciso, l’autore dei Dieta definisce i lettori ai quali destina la sua opera in opposizione alla cultura libraria. Il mio libro, scrive, non si rivolge, come le Georgiche, Ovidio o Lucano, al curioso di agricoltura, di amore o di storia, ma a coloro che cercano la saggez­ za; una saggezza che bisogna trarre dalle lezioni della realtà, non dai li­ bri, senza prestar fede ai poeti.147 Un’idea cara ai defunti senza cultura, come Trimalcione, che, facendo di umiltà dignità, sono orgogliosi di non aver mai seguito le lezioni di un filosofo: nei loro epitaffi si vanta­ no di aver tratto tutta la loro saggezza da se stessi e dalla loro esperien­ za, non dagli scritti altrui; a Carsioli, un proprietario terriero ingenuo che faceva lavorare le terre ai suoi liberti espone la sua saggezza e con­ clude: «Non sono i dotti che ce lo insegnano, ma la natura». Rimandia­ mo su questo punto a uno studio perspicace di Nock.148 Un’altra pietra tombale testimonia però la scalata del figlio di un liberto verso le disci­ pline degli uomini Uberi (artes ingenuae) e gli studi onorevoli (studia honesta):149 è la stessa storia del poeta Orazio. Quel manuale di morale e di prudenza che sono i Dieta ha necessa­ riamente per destinatario, come l’opera di La Fontaine letta dai bambi­ ni di buona famiglia, un soggetto etico e razionale, ossia l’uomo in ge­ nerale, che non è né ricco né povero, agricoltore o bottegaio. Agli oc­ chi dell’autore dei Dieta, quest’uomo è il plebeo medio, di cui lui stesso esprimeva probabilmente le idee. Per un aristocratico romano, invece, l’uomo era chi aveva fatto studi liberali ed era padrone del suo tempo, o, come per Tacito, coincideva con il cavaliere. Insomma, i Dieta Catonis sono uno «specchio della borghesia», così come esistevano gli «specchi dei principi» e come le lettere di Plinio (ci si pensa troppo po­ co) vogliono essere, nascostamente, uno specchio del perfetto senatore. Per delineare un ritratto della morale della plebe media, questi pic­ coli volumi di saggezza, quali i Dieta o le sentenze di Pubblio Siro, sono preziosi tanto quanto la letteratura sapienziale dell’Antico Testamento per un quadro del giudaismo ellenico. Dal momento che intende rive­ stirsi di una saggezza nella quale riconoscere la propria dignità, la plebs media si pone davanti sforzi da fare e comportamenti prudenti da im­ parare; la condotta di vita da tenere non è per nulla scontata. Questa tenacia le vale, lo abbiamo visto, la stima condiscendente di Tacito. Te­ nacia che essa attinge da una saggezza utilitaristica e edonista, che asso­ cia virtù e prudenza, e non da un’ipotetica coscienza di classe formata­ si in opposizione a una classe antagonista o da un imperativo trascen­ dente, come nel caso dei puritani secondo Max Weber. Queste persone regolano il corso della loro vita senza appoggiarsi alla religione; diffida­

no della superstizione e non hanno bisogno di temere gli dèi per com­ portarsi onestamente. Sentono di vivere in un ambiente relativamente protetto dalle miserie dell’esistenza, poco religioso150 e che lascia loro tempo di coltivare la saggezza con compiacimento. L’ideologia della plebe consisteva infatti nel compiacersi della propria virtù e della propria solidarietà, che costituivano la garanzia del suo pro­ spero edonismo. Non poteva allora politicizzarsi, almeno nelle città? Il potere centrale, che non si fidava di lei, di certo temeva che potesse far­ lo: altrimenti non si spiegherebbe la stretta sorveglianza che esercitava sulle corporazioni professionali in Italia e nelle province; la lezione ap­ presa dalle rivolte popolari alla fine della repubblica e dai partiti politici di Alessandria nel primo secolo dell’impero non era andata perduta. Oggi sappiamo qualcosa di più sulla città di Roma. Gli storici non si lasciano più ingannare dal disprezzo delle fonti per la plebe dell’U r i, dalla caricatura riservata alla psicologia delle masse; hanno smesso di credere nell’esistenza di una moltitudine di «lazzaroni» priva di caratte­ re e di princìpi, a un mob spoliticizzato, a una città di fannulloni.151 Al contrario, i romani di Roma continuavano a considerarsi come popolo sovrano e popolo-re, ed è per questo che in un’invettiva fin troppo co­ nosciuta Giovenale li stigmatizza: secondo lui, i discendenti di Romolo ormai vedono solo attraverso gli occhi dell’imperatore, che li piega a tutti i suoi capricci (ma vedremo che non era affatto così); questo popo­ lo che «una volta distribuiva comandi, fasci, legioni, tutto. Ora se ne in­ fischia e due cose soltanto desidera ansiosamente: pane e giochi».152 Non proiettiamo su questi versi il mito moderno della spoliticizzazione; Giovenale non dice che la plebe ha barattato il suo diritto di primogeni­ tura per un piatto di lenticchie; ma che, da quando si è costituito l’impe­ ro, ha conservato solo due privilegi minori della sua sovranità, i soli di cui si curi ancora, il pane gratuito, diritto proprio dei signori del mon­ do, e gli spettacoli, divertimento civico di ogni città antica. Gli storici moderni che stigmatizzano o rimpiangono questa massa di disoccupati o fannulloni, sono stati vittime, invece, di un anacroni­ smo etnocentrico. Mezzo secolo fa, gli intervistatori che andavano in Cabilia o in luoghi simili a fare un sondaggio tra la popolazione, chie­ dendo agli adulti se erano disoccupati si sentivano rispondere sempre di no, anche se di fatto la disoccupazione imperversava nella regione: questi uomini non si sentivano disoccupati, termine infamante, poiché non si definivano come lavoratori, ma come uomini a pieno diritto, con la propria dignità. Allo stesso modo, i cittadini della città eterna, a cui Vespasiano si preoccupava di trovare un lavoro perché potessero gua­ dagnarsi il pane,153 collocavano altrove la loro dignità. Due testi di Flavio Giuseppe, raramente citati, sono ancor più rivela­ tori. La scena si svolge il 24 gennaio 41 dopo Cristo, Caligola era appe-

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na stato assassinato e i Patres avrebbero voluto abolire il principato; ma, scrive Flavio Giuseppe, qui più istruttivo del sentenzioso Tacito, «quelli del popolo, invece, erano mal disposti verso i senatori, e consa­ pevoli che gli imperatori costituivano un impedimento all’avidità di quelli e una protezione per loro» e ritenevano che l’ascesa di Claudio all’impero «avrebbe evitato loro una guerra civile quale c’era stata al tempo di Pompeo».154 Ecco perché la plebe di Roma era monarchica, ecco perché il principato era potuto nascere e restare in vita grazie a una sorta di antiparlamentarismo simile a quello di cui parla Michel Winock: a differenza di una pletora di senatori, un monarca non ab­ bassa la politica alle proprie ambizioni personali e alle rivalità tra capi; è un padre, il suo governo è patriarcale, mentre il potere di molti è sem­ pre dilaniato da rivalità egoiste. Questo realismo spontaneo della po­ polazione, nato dall’esperienza delle guerre civili, ha reso impossibile, alla morte di Augusto e a quella di Caligola, ristabilire la repubblica: mancando l’adesione popolare, la transizione era troppo rischiosa e apriva la porta all’avventura. È ciò a cui si riferisce Max Weber quando parla dell’alleanza natura­ le che è in opera ovunque, tra l’autocrate e gli strati plebei contro gli strati di statuto superiore.155 Quindi, quel 24 gennaio, il teatro del pa­ lazzo era pieno di spettatori che assistevano ai ludi Palatini, e la guardia germanica voleva sgozzarli per vendicare Caligola; ma c’era anche un certo «Evaristo Arruntino [che] era di professione banditore per le vendite all’asta e perciò aveva una voce potente; aveva accumulato mol­ te ricchezze, cosi da essere pari ai più ricchi dei romani, ed era in grado di fare in città tutto quello che voleva, sia allora che in seguito»;156 fu lui che, salendo sul palco e prendendo la parola, trasse la folla d’impic­ cio. La plebe di Roma era quindi abbastanza politicizzata perché ci fos­ se presso di lei un ruolo di capo da riempire; questo plebeo arricchito, un plebeo medio, sarebbe potuto anche diventare un Étienne Marcel, un Simon Caboche... La scena si sposta nel 68, dopo la caduta di Nerone; riprendiamo il testo di Tacito: il Senato e l’ordine equestre si rallegrano di questa mor­ te, «la parte sana del popolo si sentiva legata alle migliori famiglie,157 mentre i liberti ed i clienti158 dei condannati e degli esuli si sentivano sollevati dalla speranza. L’infima plebe, invece, avvezza al circo ed ai teatri» e la lega degli schiavi erano afflitte. Così dunque le due parti della plebe avevano opinioni opposte su Nerone, ma erano entrambe altrettanto politicizzate. Lungi infatti dall’essere l’accozzaglia di inerti di cui parlano le fonti, la plebe sordida dé ì ’Urbs aveva una propria ideologia di «primitivi della rivolta»; era avida di stravolgimenti (res novaé), ripete Tacito, e tendeva l’orecchio a ogni voce di insurrezione, a ogni annuncio di prodigio. Sotto la repubblica esisteva una letteratu­ 120

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ra di propaganda politica fatta di profezie post eventum, di «falsi» Ora­ coli Sibillini,159 che si rivolgevano a tutte le classi sociali, e continuo a credere che la quarta Bucolica, con il suo annuncio di una futura età dell’oro, imiti poeticamente queste profezie, che annunciavano l’avven­ to di fatti politici auspicabili.160 Durante l’impero, questa sorta di mes­ sianismo si diffondeva nel popolo.161 A lungo dopo la morte di Nerone si continuavano a depositare fiori sulla tomba dell’imperatore del po­ polo e ad attaccare sui rostri dei falsi editti di Nerone, perché in molti lo credevano ancora vivo e pronto a tornare162 (sappiamo che ci furono molti falsi Neroni, come ci saranno dei falsi zar e dei falsi ukase nella Russia delle rivolte dei servi della gleba); tre secoli dopo, la leggenda di Nerone continuerà a vivere tra la plebe di Roma, che aveva una memo­ ria collettiva e tradizioni proprie, e la propaganda anticristiana farà co­ niare delle medaglie con l’effigie di Nerone. Una storia della società imperiale deve lottare contro lo squilibrio delle fonti, che vedono ordines piuttosto che classi e ignorano ciò che esse disdegnano. Non si sente più parlare di rivolte degli schiavi sotto l’impero; supponiamo quindi che regni l’ordine. Eppure sei righe di Tacito che non hanno corrispondenze in altri autori lasciano perplessi: nel 24 dopo Cristo sotto Tiberio «il caso soffocò i primi germi di una rivolta di schiavi in Italia. Iniziatore della ribellione fu T. Curtisio, un tempo soldato di una coorte pretoria, che dapprima con riunioni segre­ te presso Brindisi e città circostanti, più tardi con aperti proclami, inci­ tava per la conquista della libertà quella massa rude e selvaggia di servi sparsi per quei lontani boschi».165 Che cosa aveva in mente questa guar­ dia imperiale che si era ritirata a vita privata (ma, dopotutto, Stepan Razin e Pugachev erano dei ricchi cosacchi...) e di che cosa parlavano i suoi proclami? Degli oracoli della Sibilla? Dei falsi ukase, di un falso Cesare? Intravediamo, da questo stretto spiraglio, un mondo di passio­ ni, di idee sconosciute e di destini assurdi; queste righe riequilibrereb­ bero un’intera biblioteca in una storia ideale della società romana. Dopo aver accentuato così il contrasto tra le due metà della società, torniamo alla «parte sana del popolo». Nel 68 dopo Cristo, i plebei me­ di sono ostili a Nerone e si schierano dalla parte giusta, cosa compren­ sibile: sono possidenti e hanno uno spessore morale; essendo inclini al­ l’ordine, amano che vi sia un ordine nella società. La plebe sordida, in­ vece, è la parte bassa della popolazione che sprofonda nell’inconsisten­ za; a credere a Tacito, non ha una struttura morale e l’unica cosa a sol­ levarla da questa condizione è un piacere di massa, quello del circo.164 In realtà, anche il popolo sano e i senatori frequentavano il circo, ma nel loro caso questa consuetudine non ha niente di caratteristico né di disonorevole agli occhi dello storico di ordine senatoriale. Tuttavia, l’anno seguente, «il popolo» (chi si intende con questa pa121

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rola?) si schierò dalla parte di Vitellio contro Vespasiano. Ma poiché Tacito si degna di dirlo solo in tre parole allusive, una grande sorpresa attende il lettore: quando gli eserciti flavi si avvicinano a Roma, il pòpulus inneggia alle armi a gran voce; gli arruolamenti volontari erano troppo numerosi, ed era stato necessario operare una selezione tra i nuovi legionari. Quando i Flavi arrivarono alle porte di Roma, lo zelo popolare (studia populÌ) in favore di Vitellio era tale che il popolo pre­ se le armi (vulgus urbanum arma cepit) e, con un armamentario di for­ tuna, levò il segnale di combattimento. Il fatale 20 dicembre 69, gli stendardi del populus (di nuovo questo termine) brillavano sui pendìi dei colli, mentre un’altra parte di esso applaudiva o fischiava l’uno o l’altro schieramento.165 Che cosa li spingeva? Non una devozione ver­ so la persona di Vitellio né un odio per Vespasiano: era, scrive Tacito, il disgusto di vedere dove «era caduto il principato»,166 diventato una preda contesa senza tregua da una nuova avidità; con l’entrata in lizza di Vespasiano, che succedeva a Otone e poi a Vitellio, si era toccato il fondo. Questo impegno di civili privi di valore militare dimostrava so­ lennemente che vi era concordia tra la plebe e il principe regnante.167 Quindi esisteva un’opinione pubblica, un’opinione seria che rispetta­ va l’istituzione imperiale, non un clientelismo né un culto della perso­ nalità. Non si potrebbe dubitare della spontaneità dei movimenti po­ polari e supporre che i loro capi venissero reclutati nella plebe media, come avvenne in Francia nel 1774, nel 1789 e nel 1917? Penso a quan­ to ha dimostrato Maurice Agulhon: la cultura popolare, in politica co­ me altrove, proviene da una cultura più dotta, scesa su di lei come la pioggia sui campi fertili. Nel secolo seguente, il 28 marzo 193, Didio Giuliano, accettato dal Senato e protetto dai soldati, è perseguitato dall’ostilità del populus che inizia a fischiarlo nel foro e gli impedisce di salire sul Campidoglio; se­ condo Cassio Dione, testimone oculare, la manifestazione per poco non divenne un’insurrezione, poiché «il popolo» si era radunato nel circo,168 luogo simbolico del suo potere. Nel 238, «il Senato» fa impe­ ratori Massimino e Balbino, ma «il popolo» si rivolta169 e obbliga l’alta assemblea ad aggiungere il futuro Gordiano III. Infine, a due riprese, sotto Alessandro Severo e sotto Balbino, ci fu in città un principio di guerra civile tra «il popolo» e gli stessi pretoriani.170 Così, ancora nel III secolo, il ruolo ufficiale del popolo romano, il fantasma della sua le­ gittimità, perseguitava gli storici antichi e lo stesso popolo di Roma, benché la storia moderna, che ha fretta di demistificare le ideologie, non sempre abbia gli occhi per vedere.171 L’agitazione popolare a Ro­ ma non si limitava alle sommosse della misera plebs172 per il pane quoti­ diano (o, talvolta, contro il peso delle imposte)173 che la nostra storia sociale non manca di attestare; altre giornate campali, pur non avendo 122

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un risvolto sociale, testimoniano tuttavia aneddoti storicamente non trascurabili che possono essere intesi come manifestazioni politiche. Così il 14 settembre 217. Macrino regnava da sei mesi e sembrava animato dalle migliori intenzioni verso il Senato; il suo unico torto era di non lasciare Antiochia per andare a Roma a far visita al popolo.174 Allora nel circo «il popolo» si mise a scandire in coro degli slogan fal­ samente sconsolati: «Mancava loro un protettore, non avevano un im­ peratore».175 Un coro opposto, formato da senatori e cavalieri, rispose in greco176 che il presente fegno era un periodo di felicità. Invano: i plebei consideravano inesistente un imperatore che non vedevano ve­ nire a rendere loro omaggio177 quando alzavano gli occhi verso la vasta esedra che, dall’alto del Palatino, sovrastava il circo e altro non era che la facciata posteriore del palazzo imperiale. La repressione di simili manifestazioni poteva essere feroce,178 ma, persino sotto l’impero della paura, vi erano tra la folla delle rivolte mu­ te che smentiscono la sua presunta estraneità alla politica.179 Così fu nel tragico giorno del 15 gennaio 69. Otone ha appena dato inizio al suo pronunciamiento, i suoi pretoriani scendono verso il foro dove Galba, paralizzato, impotente, è al centro degli sguardi di una folla stordita. «Non si sentiva una voce, né di popolo [populus] né di plebe [plebs], e tutti i volti erano attoniti e le orecchie tese ad ogni rumore. Non c’era tumulto e nemmeno calma: ma il silenzio delle grandi paure e dell’ira.» Ma Otone viene a sapere che «si armava la plebe» e affretta la marcia verso il foro, dove le guardie «disperdono la plebe».180 In questi movi­ menti, che non sono sommosse nate dalla miseria, si può essere sicuri della presenza della plebs media. Ma non era sola; le fonti parlano della plebe in generale, senza distinguere la media dalla bassa, e probabil­ mente a ragione: nel 69, quando «il popolo» era sotto le armi, la sola plebe ricca non sarebbe bastata a coprire «il versante dei colli». L’inte­ ra popolazione della città regina sentiva di poter essere un degno attore politico sul palcoscenico del mondo: Fergus Millar ha il merito di aver­ lo detto.181 Essa continuava a schierarsi in pieno IV secolo, si armava contro un usurpatore,182 insultava l’imperatore reggente e continuava a detestare il Senato, cosa che imbarazzava il prefetto della città.183 Questo Populus Romanus, sempre convinto della sua legittimità, ave­ va il diritto di essere amato dal suo principe e di giudicarlo. Per quanto segue, bisogna rimandare a Egon Flaig;184 l’imperatore era al tempo stesso il sovrano, un magistrato, l’evergete di Roma e il difensore della plebe, che aveva una relazione affettiva con lui e con i membri della fa­ miglia imperiale.185 Ma questo affetto era esigente; l’imperatore doveva essere conforme all’ideale che si aveva di lui; i plebei non erano dei de­ voti incondizionati e un giorno potevano anche gridare «Tiberius ad Tiberim!» e gettare nel Tevere il cadavere dell’imperatore. Flaig insiste su 123

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questo punto: la plebe romana aveva delle idee politiche ed era impre­ gnata di una tradizione morale; bisognava farsi accettare da lei mo­ strandosi degni di regnare. Caligola, Domiziano e Commodo furono assassinati solo quando una parte importante del Senato si fu allonta­ nata da loro e la plebe urbana li ebbe abbandonati.186 Resta da sapere, ogni volta, quale sarà il comportamento degli eserci­ ti. E alla fine, in questo impero che non vedrà mai la «salita di una bor­ ghesia» (Roma stessa avrà un movimento comunale... nel 1143), saran­ no la casta militare e la militia burocratica a diventare la nuova classe dirigente. Nemmeno la penisola italiana fu teatro dell’ascesa di una plebs media-, tra un impero immenso ed eterogeneo e il patriottismo municipale di un gran numero di città, la scena politica non aveva la coesione nazionale né il livello economico necessario. Di sicuro, l’eco­ nomia non è il primo né il principale o unico motore della storia, ma ciò non toglie che in ima società venti volte più ricca possano verificar­ si cambiamenti di mentalità; un abisso simile ci separa dai greco-roma­ ni, dalla loro plebe media o dalla loro democrazia. Solo un livello di produzione ben più alto avrebbe reso possibile l’e­ sistenza di un’ampia classe media come quelle che conosciamo, e con esso una democrazia nel senso attuale del termine, che da noi è comin­ ciata due secoli fa; verso il 1700, scrive Paul Bairoch, l’Inghilterra e l’India avevano ancora lo stesso livello di vita. In realtà, quando una società è abbastanza ricca perché l’abisso tra ima manciata di ricchissimi magnati e l’immensa folla dei poveri sia col­ mato da un’ampia classe media, si producono due crepe che l’antichità non ha mai potuto conoscere. Primo, i poveri, che rispettavano i ma­ gnati e obbedivano loro, non rispettano la ricchezza media dei borghe­ si; qui comincia la lotta di classe, il movimento operaio che porta a una minore disuguaglianza sociale e allo Stato-provvidenza. Secondo, i bor­ ghesi, dal canto loro, sono abbastanza ricchi da non avere più l’umiltà del popolo povero: intendono essere governati democraticamente, non obbedire più a un signore e potersi far beffe del loro presidente della repubblica senza essere mandati in prigione. La piccola plebe media romana non fu una classe media e la democrazia greca ha solo il nome in comune con la nostra, che è il regime delle classi medie (regime fa­ vorevole a tutti, se paragonato ai millenni precedenti).

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Ma, come scrive H.W. Pleket in I. Weiler e H. Grassi (Hrsg.), Sociale Randgruppen und Aufienseiter im Altertum, Graz 1988, p. 627, è «a rather academic dispute». Credo che una società si possa sfaldare secondo mille criteri diversi: nessuna di queste sfaldature sarà più «vera» delle altre; basta che ci sia da dire qualcosa di ve­ ro (e, se possibile, di interessante) sul gruppo così sfaldato. Per G . Alfóldy non po­ 124

teva nascere una vera classe media, Romische Sozialgeschichte, Wiesbaden 1979, p. 87 (trad. it. Storia sociale dell’antica Roma, il Mulino, Bologna 1998). Sì, se si deci­ de di definire una classe sociale secondo i suoi mezzi di produzione o in base al­ l’interesse di classe. Per A. Abramenko, Die munizipale Mittelscbicht im kaiserzeitlichen Italien: zu einem neuen Verstàndnis von Sevirat und Augustalitat, Frankfurt 1993, nelle città municipali questa «classe» era un ordo, quello degli Angustales, che in alcune regioni d ’Italia non era riservata ai liberti. Sì, se si presuppone che la società romana non potesse annoverare classi sociali se non un ordo di diritto pub­ blico. Ciononostante, per F. Vittinghoff, Soziale Struktur und politisches System der hohen Kaiserzeit, «Historische Zeitschrift», C C X X X , 1980, p. 4, «sarebbe una ve­ ra e propria assurdità rifiutare di vedere l’equivalente di una classe media» nell’im­ pero, malgrado lo sviluppo urbano, e di mettere tutto nella categoria socialmente confusa di popolino o humiliores. Si veda anche Vittinghoff in Handbuch der europaischen Wirtschafts- und Sozialgeschichte, Stuttgart 1990,1 .1, p. 205. Malattia che non sappiamo identificare, secondo M.D. Grmek, Histoire du Sida, Paris 1989, p. 163 (trad. it. Aids: storia di una epidemia attuale, Laterza, Roma-Bari 1989, p. 134), che aggiunge: «Ecco quindi la prima menzione di un kissing disease». Plinio, Storia naturale, X X V I, 1, 3: «N ec sentire id malum feminae aut servitia plebsque humilis aut media, sed proceres, veloci transitu osculi maxime [.,.]. Haec proceres sentire, illa pauperes». Testo citato da A. Wallace-Hadrill, The social spread of Roman luxury, sampling Pompeii and Hercolanum, «Papere of thè British School at Rome», 58,1990, p. 147; P. Veyne in Annuaire du Collège de Trance: ré­ sumé des cours, 1991-1992, p. 721 e H.W. Pleket, Politicai Culture and Politicai Practice in thè Cities o f Asia Minor, in W. Schuller (Hrsg.), Politische Theorie und Praxis im Altertum, Darmstadt 1998, p. 208. L. Friedlànder, Sittengeschichte Roms, cit., I, pp. 93-94; A. Alfoldi, Die monarchische Reprdsentation im romischen Kaiserreiche, cit., p. 27,41-42,64. Così CIL, III, 2835: «Vixi semper pauper honeste»; VI, 2489: « Vixi semper bene pauper honeste, fraudavi nullum». Tacito, Storie, 1 ,4. Cicerone, AdAtticum, 1 ,16,11. Tacito, Annali, II, 77; Storie, III, 31. E ancora in Ammiano Marcellino, XXV III, 4, 28: «Otiosam plebem et desidem». Tacito, Storie, IV, 38 (ed. it. op. cit., voi. 2, p. 671): «Vulgus, alimenta in dies mercari solitum, cui una ex re publica annonae cura». In India, ai giorni nostri, così mi di­ ce il mio collega Gérard Fussman, la spaccatura è tra coloro che hanno il domani assicurato e formano la classe media e coloro che non ce l’hanno. Digesto, XLVII, 2, 90, (89): «S i libertus [...] Vel cliens Vel mercennarius [...] furtum fecerit, furti actio non nascitura·, XLVIII, 19, 11, 1: «Domestica furia vocantur, quae servi [...] vel liberti [...] vel mercennarii [...] subripiunt». Ibid., X X X V in , 1, 1: «Operae sunt diurnum officium·»·, X L , 5 ,2 3 ,4 : «Mercedem diurnam». Sulla vita del proletariato urbano, si legga Dione di Prusa, VII, Euboico, 104-105: «Parliamo ora dei mestieri dei poveri [penetes] che vivono nelle città; come devo­ no vivere e cosa devono fare per non condurre una vita cattiva, una vita peggiore degli usurai che sanno contare così bene i mesi e i giorni, o dei proprietari di gran­ di immobili collettivi, di navi o di masse di schiavi? Possano avere sempre lavoro nelle città e non aver bisogno di trovare altrove le risorse! Perché devono pagare un affitto per l’alloggio e comprare tutto: mantello, piatti, cibo, fino al legno per 125

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alimentare ogni giorno il fuoco, anche se non sono che tralci o ramoscelli, fino alla minima cosa di cui hanno bisogno. In breve, tranne l’acqua, devono acquistare tut­ to in cambio di denaro». In questa parte del suo discorso, Dione imita lo stile delle Leggi di Platone, ma con uno spirito di philantbropia molto diverso, e con il fine di lodare la vita rustica. P.A. Brunt, Free Labour and Public Works at Rome, «JR S», 70,1980, pp. 81-100, commentando le famose parole di Vespasiano: «Consentitemi di dare da mangiare al popolino [plebeculam pascere]» (Svetonio, Vespasiano, XVIII - [ed. it. Vite dei Cesari, cit., voi. Π, p. 747]). È il «dacci oggi il nostro pane quotidiano» (se questo è il senso esatto di epiousios, che lo stesso san Gerolamo aveva ignorato) del Vangelo (Matteo, 6,11 e Luca, 11, 3); e il «cibo quotidiano» della Lettera di Giacomo, 2,15; è il «guadagno quotidia­ no» di cui parla Cicerone, Catilinarie, IV, V ili, 17 : gli «egentes atque ìmperii» che non possiedono, nella loro taberna, che «sellae atque operis et quaestus cotidiani lo· cum, cubile [stanza] ac lectulum suum». Gli archeologi conoscono bene queste tabernae: un’unica stanza al piano terra, con una vasta apertura sulla strada (cosa che permette all’artigiano di entrare in contatto con i clienti), e che serve al tempo stes­ so da atelier e da camera (il letto era spesso installato su un soppalco): J.-P. Morel, La topographie de l’artisanat et du commerce dans la Rome antique, in L’Urbs: éspace urbain et histoire, Rome 1987, p. 134 e n. 30; J.E. Packer, Housing and Population in imperiai Ostia and Rome, «JRS», 57,1967, p. 85. Verso il 1950 si potevano vedere simili tabernae nella vecchia Napoli (Spaccanapoli). L. Friedlander, Sittengeschichte Roms, cit., I, pp. 158-160. Sul livello di vita si veda in particolare J.-M. Carrié, Comment définir le seuil de pauvreté à Rome?, in Consuetudinis Amor: fragments d'histoire romaine offerts à Jean-Paul Callu, Rome 2003, pp. 71-102. In Roman SocialRelations, New Heaven, 1974, Ramsay MacMullen valuta a «circa 250 denari il minimo annuale necessario a un mano­ vale per garantire una povera sopravvivenza a sé e ai suoi familiari». Per quanto riguarda G iuda, si vedano i salari menzionati da J. H engstl, Private Arbeitsverhàltnisse freier Personen in den Papyri, Bonn 1972; teniamo a mente che questi salari sono quelli di mestieri molto qualificati, poiché i lavoratori sono as­ sunti con un contratto scritto. Nel P. Oxy., X V III, 2190, intorno al 100 dopo Cristo, uno studente fa credere ai suoi genitori che un apprendista carpentiere guadagni due dracme al giorno; è «too optimistic» (J. Rea, A stu d en ti letter, «Zeitschrift fiir Papyrologie und Epigraphik», 99, 1993, p. 85): sta negoziando il suo salario. R. Duncan-Jones, The Economy o f thè Roman Empire: Quantitati­ ve Studtes, Cambridge 1974, p. 54. P.A. Brunt, Free Labour and Public Works at Rome, cit., p. 88: i pari di Giovenale, che esercitano le artes honestae, possono pagare per la loro casa un affitto annuale e hanno abbastanza mobilio per riem­ pire un carro; se lasciano 1’Urbs acquistano un piccolo appezzamento rurale. Aristotele, Politica, 1295 B 1 (ed. it. Politica, cit., p. 361). CIL, VI, 10097=33960; F. Buecheler (Hrsg.), Carmina epigraphica, Leipzig 18951926, n. 1111. Commento di T. Mommsen al CIL e nel suo Staatsrecht, III, cit., p. 227, n. 2 e p. 443, n. 10. Epoca di Domiziano. H a per gentilizio Ti. Claudius, Esquilina Aug. : appartiene quindi alla tribù Esquilina, dove erano iscritti i grandi del teatro (malgrado la loro infamia·, non erano stati riscattati, come lo fu Laberio da Cesare?); è iscritto nel corpus Aug[ustale] centuriato, cosa che di certo è lusinghiera poiché si prende la premura di precisarlo; probabilmente questo corpus aveva un peso nei comizi fittizi che continuavano le apparenze repubblicane. È stato gratus populo notusque favore ed era probabil126

Esisteva una classe media in quei tempi lontani? mente un solista virtuoso, come Nerone, perché cantava dei versi melici, così come le opere dei poeti suoi contemporanei, che si vedevano, dice, presso i librai del fo­ ro imperiale (di Domiziano). Ossia all’inizio della via dell’Argileto (l’attuale Via della Madonna dei Monti, parallela a Via Cavour). Probabilmente cantava i testi melici nei concorsi di Domiziano. 19. M i permetto di rimandare alla mia Société Romaine, Paris 1990, p. 278, n. 140 (trad. it. La società romana, Laterza, Roma-Bari 2004). Se erano di origine servile, o se erano venduti come schiavi (queste vendite di schiavi, che non erano rare, erano un argomento tabù: si taceva in proposito). 20. Orazio, Lettere, 1 ,1,57-59 {Le lettere, Bur, Milano 1996, p. 79): «Plebs eris». 21. Si veda il testo innovativo di E. Flaig, Den Kaiser herausfordern, cit., p. 38. 22. Sono le qualificazioni usate in diritto penale a partire dai primi anni del 200. 23. Luciano, Menippo o la negromanzia, 12, e Nigrino, 21-fine, che descrivono le con­ suetudini della stessa Roma, i 24. Tacito, Annali, XVI, 13, distingue i servitia e Γ ingenua plebs-, la precisazione ap­ portata da ingenua mostra come, dall’Alto impero, si potesse, secondo l’umore del locutore, inglobare o non inglobare nella plebe coloro che erano nati in schiavitù, distinguere o no tra schiavi, liberti e gente da poco. 25. Galeno (a Pergamo), De locis affectis, II, 5 (VII, p. 132, Kuhn). Orazio, invece, aveva tre schiavi (Satire, I, 6,116). In Giovenale, IX, 135-147, un triste personag­ gio spera solo di potersi dire pauper, e non miserabile, se ha cinquemila denari di rendita grazie ai prestiti a interessi, due schiavi per scortarlo ovunque e due schiavi artigiani che lavoreranno per lui. 26. CIL, 1 ,1203-1205, e VI, 1958; H. Dessau, Inscriptiones Latinae selectae, n. 7460; P. Ciancio Rossetto, Il sepolcro del fornaio Marco Virgilio Eurisace, Istituto di studi romani, Roma 1973; J.-P. Morel, Lartigiano, in A. Giardina (a cura di), Duomo ro­ mano, Laterza, Roma-Bari 1989, pp. 235-268. Altra tomba sontuosa, quella del redemptor Haterius, ricchissimo imprenditore di colossali lavori pubblici; cfr. F. Coarelli, La riscoperta del sepolcro degli Haterii, in J.J. Augustin (ed.), Studtes in ClasstcalArt and Archaeology, Locust Valley 1979, p. 266; W. Helbig, Fiirer durch die óffentlichen Sammlungen klassischer Altertiimer in Rom, Tubingen 1963,1, nn. 10711077. Come dice J.-P. Morel, «si vede il ruolo dei mercati pubblici nell’edificazione di patrimoni su base non agraria» (La manufacture, moyen d’ennchissement dans l’italie romaine, in P. Leveau [dir.], DOrigine des richesses dépensées dans la ville antique, Aix-Marseille 1985, p. 96). 27. Virgilio, Catalepton, 10 (questo multo è finito duumvir)·, ci si arricchiva con questo mestiere: si veda la storia di Ibrea di Milasa in Strabone, XIII, 630, e XIV, 659. Sul multo con i piedi nudi, Seneca, Lettere a Lucilio, LX XX V II, 4. Sui ricchissimi mu­ lattieri (un senatore possedeva un’impresa di trasporto a dorso di mulo), cfr. J.-C. Passeron e P. Veyne in «Gallia», 61,2004, p. 279, n. 66. 28. W.A. Meeks, The First Urban Christians, New Haven 1983, p. 52 (trad. it. I Cristia­ ni dei primi secoli: il mondo sociale dell’apostolo Paolo, il Mulino, Bologna 1992). E.P. Sanders, Paul, Oxford 1991, pp. 10-11 (trad. it. San Paolo, Il melangolo, G e­ nova 1997): osserva come Paolo si vanta, nella Prima lettera a i corinzi, 4, 12, di guadagnarsi da vivere con le sue stesse mani, e come ciò sia rivelatorio: un povero non avrebbe pensato che un lavoro manuale meritasse un annotazione di merito. Paolo era stato formato per essere un proprietario o un manager. 29. Proprietario di un piccolo terreno (III, 25: «far modicum»), il poeta Persio tiene a precisare che è di rango equestre e prende parte alla transvectio equitum (questo è il vero senso del verso 29 della terza satira). Anche Marziale, proprietario di una 127

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terra a Nomentum (II, 38, 6,43), ci ricorda spesso il suo titolo di cavaliere (III, 95; V, 13; V, 17; IX, 49; XII, 26). Potrebbero tornarci utili alcune analogie. Verso il 1950, il valore della terra rappre­ sentava la metà del capitale nazionale dell’India, e l’altra metà consisteva in beni riproducibili (alloggi, equipaggiamenti, stock, bestiame..,); alla stessa epoca, il valo­ re della terra non era che un sesto del capitale nazionale degli Stati Uniti e della Francia: J. Marczewski, Comptabilité nationale, Paris 1965, pp. 462-469. Prima della rivoluzione demografica a cui contribuì in modo decisivo Pasteur, la metà della popolazione moriva prima dei trent’anni (T.G. Parkin, Demography and Ro­ man society, Baltimore-London 1992). E, dicono gli economisti, (tra cui P. Bairoch, Écarts intérnationaux des niveaux de vie avant la révolution industrielle, «Annales ESC », 34,1979, pp. 145-171) le società occidentali attuali sono forse venti vol­ te più ricche dell’impero romano o della Francia di Luigi XIV. Ciononostante, un tempo la disuguaglianza economica tra due regioni del globo poteva essere di uno a due, e non di uno a trenta come oggi; verso il 1700, l’Inghilterra e l’India avevano lo stesso livello di vita; cfr. Id,, Economics and World History, Myths and Paradoxes, New York 1993, pp. 102-110 (trad. it. Economia e storia mondiale: miti e paradossi, Garzanti, Milano 1998). Sugli agrimensori, si veda Gromatici Veteres, Lachmann, 1.1, pp. 56,154,155; Apu­ leio, Metamorfosi, II, 15. Si pensi anche a quanto ha rivelato un sondaggio di archi­ vi sulla popolazione di Aix-en-Provence nel XVI secolo: le case dei ricchi ospitava­ no una popolazione molto più densa di quelle dei poveri, per via della numerosa servitù. Sulla natura rurale della middle class urbana, si veda R. MacMullen, Ro­ man Social Relations. Sui rapporti città-campagna, si vedano i lavori di Philippe Leveau. Sull’economia della città antica e le «cerehie» che la costituiscono (gli af­ fittuari terrieri, la loro servitù, i bottegai che rifornivano i precedenti e si riforniva­ no tra loro), si veda l’Essai sur la nature du commerce en général di Cantillon (del 1755, ma sempre valido e illuminate per ogni «ancien régime» economico), Paris 1952, pp. 7-9. A leggere alcuni autori, si potrebbe credere che lungo i secoli della storia romana la proprietà delle terre «non smette di concentrarsi». Ma sussistono ancora molti piccoli proprietari all’inizio dell’era bizantina (A.H.M. Jones, The La­ te Roman Empire, cit., II, pp. 773 e 779 [trad. it. Il tardo impero romano, 284-602 d.C,, il Saggiatore, Milano 1973-1981]). Logomachia a cui un tempo ho contribuito. Ma si veda (ed è forse la migliore sin­ tesi attuale) H.W. Pleket, «Wirtschaft und Gesellschaft des Imperium Romanum», in Handbuch der europàischen Wirtschaft- undSozialgeschichte, cit., 1 .1, pp. 36,4142 e 45: Trimalcione continua a fare affari dopo aver investito i suoi guadagni in beni immobili. Si veda poi, su Trimalcione, il valido studio di P. Garnsey, Indipendent Freedmen and thè Economy o f Roman Italy, «K lio», LXIII, 1981, pp. 359-371. E si confronti con J. Kaufmann-Rochard, Origines d’une bourgeoisie russe, Paris 1969, pp. 139-143. G. Rowe, Trimalchio’s world, «Studia classica israelica», 20,2001, pp. 230-231. Così faceva Catone il Vecchio secondo Plutarco, ce ne ricordiamo; H.W. Pleket, «Wirtschaft und Gesellschaft des Imperium Romanum», in Handbuch der europàiscken Wirtschaft- und Sozialgeschichte, cit., t. 1, p. 125: «Una non mediocre parte della città di Roma è stata costruita con dei materiali [ossia i mattoni] di origine se­ natoriale, e da persone che dipendevano dalle famiglie senatoriali [...]. Le stesse fa­ miglie senatoriali che avevano dei liberti impiegati nelle attività di costruzione met­ tevano a disposizione schiavi e liberti anche per la produzione tessile a Roma; altri impiegavano i liberti come mercanti di stoffe. Se sintetizziamo tutto ciò, otteniamo 128

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l’immagine di famiglie della classe dirigente che, in effetti, partecipavano indiretta­ mente alla produzione e alla vendita». Il grammatico e capitano d’industria Remmio Palemone era «molto attento al suo patrimonio: gestiva botteghe di vendita di vestiti e coltivava così bene le sue terre che è assodato che un piede di vigna che aveva piantato con le sue mani ha potuto riempire trecentosessantacinque vasi da bere» (Svetonio, De grammaticis et rhetoribus, XXIII). Cfr. J.-P. Morel, La manufacture, moyen d’enrichissiment dans l’Italie romaine, cit., pp. 268 e 276. È così anche in una società in cui il commercio non fa deroghe: in Cina, una ricca famiglia possedeva più di millecinquecento ettari di terra al di là della Porta Sud, e anche una drogheria in città, il cui rapporto corri­ spondeva alla metà delle terre, si legge in Lieou Ngo (1854-1909), L’Odyssée de I mo Ts’an, Paris 1964, cap. 13, p. 161. J.-P. Morel, La manufacture, moyen d’enrichissement dans l’Italie romaine, cit., p. 96. Si veda, in realtà, Digesto, L, 6, De iure immunitatis, 6 (5), 6 e 8: «Si quis maiore pecuniae suae parte negotiationem exercebit». In realtà, questi oggetti di manifattura erano per la maggior parte utilizzati da per­ sone diverse dai loro produttori ed erano passati anche per le mani dei negozianti; la loro stessa fabbricazione implica l’esistenza di uno strato privilegiato di impren­ ditori, spesso urbani (e di creditori che ne traggono un guadagno, come vedremo); ma questi imprenditori e i loro lavoranti non sarebbero potuti esistere se i coltiva­ tori non avessero avuto una produttività abbastanza elevata da lasciare un surplus che permettesse di nutrire, oltre a loro stessi e alla loro famiglia, i lavoranti e gli im­ prenditori urbani. Un’altra parte dello stesso surplus era accaparrata come rendita al profitto di uno strato di proprietari rurali. In una parola, l’esistenza di prodotti manifatturieri prova un livello di civilizzazione materiale già elevato, inseparabile dall’esistenza di una classe media troppo numerosa per ridursi al gruppo politico dirigente. J.-P. Morel, La manufacture, moyen d’enrichissement dans l’Italie romaine, cit., p. 267. Tacito, Storie, I, 4, 3. Cfr. nota 157. Su questo testo si veda Z. Yavetz, Plebs and Princeps, Oxford 1969; E. Flaig, Den Kaiser herausfordern, cit., p. 41, n. 11. Ma, a mio avviso, l’opposizione tra populus e plebs non ha niente di istituzionale, e sotto queste parole non bisogna nemmeno cercare la plebe frumentaria; è l’opposizione tra due modi di classificazione: uno laudativo e in base al diritto pubblico {popu­ lus) e l’altro più «sociale» e conforme ai pregiudizi {plebs). Seneca, nel De constantia sapientis XII, 2, mette sullo stesso piano il Senato, il foro e il Campo Marzio (ovvero le Saepta lulia, dove continuavano a votare, certo per finta, i comizi centuriati, secondo i termini della Lex Valeria Aurelia); cfr. la men­ zione del corpus Augustale (nota 18). Più in generale, N. Purcell nella nuova Cam­ bridge Ancient History, X: The Augustan Empire, 1996, pp. 798-801. Questa posi­ zione media del populus cederà davanti all’opposizione binaria degli honestiores e degli humiliores, e sarà l’esercito, fedele alleato dell’imperatore, a riprendere il ruolo del populus (A. Pabst, Comitia imperii, cit.). Tacito, Annali, V, 4,2 . A. Abramenko, Die munizipale Mittelschicht im kaiserzeitlichen Italien, cit., pp. 232-233. W.A. Meeks, The First Urban Christian, cit.; G. Theissen, Soziale Schichtung in der korinthischen Gemeinde: ein Beitrag zur Soziologie des hellenistìschen Urchristentums, «Zeitschrift fur die neutestamendiche Wissenschaft», LXV, 1974, pp. 232272; Id., The Social Setting ofPauline Christianity, Edinburgh 1982. All’inizio del III secolo, Callistrato ritiene che in caso di bisogno i semplici vendi129

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tori di oggetti per uso domestico (utensilia) possono essere ammessi nella curia, benché gli edili municipali abbiano il diritto di far frustare le persone come loro (Digesto, L, 2,12). Nel IV secolo, il duumviro di una città africana sarà un botte­ gaio che mangia insieme ai suoi operai (A.H.M. Jones, The Late Roman Empire, cit., I, p. 860). Plebeius ac decurto, ripete il Digesto, X X II, 5 ,3 pr.; ILVIII, 19,9,14 e 15; L, 4 ,7 pr.: « decurionum honorihus plebei fungi prohibentur» (L, 2, 7,2). Non di «stracci», abiti a brandelli, ma di vestiti usati, fatti di pezzi di stoffa cuciti insieme, come il mantello del povero Arlecchino (per opposizione alla «veste senza cuciture» di Cristo); poiché gli abiti erano costosi, quelli nuovi erano per i ricchi mentre i vestiti della maggior parte della popolazione povera erano usati, comprati da uno dei numerosi centonarii dell’epoca. Il nostro nummularius, membro della plebs media, si veste come un membro della plebs sordida. La provincia di Aquitania era così prospera che nessuno era vestito di «frustis pannorum», cosa comune dalle altre parti (Ammiano Marcellino, XV, 12,2); la plebe romana dei disoccupati (i «nullafacend inoperosi») non aveva calzature (ihìd., XXVIII, 4,28). Una provin­ cia era considerata prospera se le case erano coperte di tegole (Strabone, XIII, 1, 27, p. 594). Apuleio, Metamorfosi, IV, 9, 5. Questo «uomo di mestiere e di bottega» come lo chiama Jean Andreau «ignora lo splendor e la liberalitas» e resta «estraneo alle abi­ tudini dell’aristocrazia» (La Vie financière dans le monde romain, Rome 1987, pp. 393-394 e 440). Cfr. F. Millar, The World ofthe «Golden Ass», «JR S», 71,1981, pp. 69-70. Marziale, III, 16, 59, 99; Giovenale, I, 22; II, 34; Z. Yavetz, «The urban plebs in thè days of thè Flavian, Nerva and Trajan», in Entretiens sur l’Antiquité classique, X X XIII: Opposition et résistance à l'Empire, Vandoeuvres-Genève 1986, p. 152. Si veda, per esempio, J. Andreau, «À propos de la vie financière à Pozzuoles», in Les «Bourgeoisies» municipales italiennes aux Tle et E siècles av. J.-C., Paris-Naples 1983, pp. 9-20. Ci sono anche alcune ragioni di supporre che la pederastia, tratto peculiare dei costumi colti e aristocratici, non fosse ben vista dalla plebe media. A Pompei, le domus della classe media vanno dai 120 ai 350 metri quadrati, quelle dell’aristocrazia da 450 a 3000 (R. Hanoune, «L a maison romaine: nouveautés», in Colloque Apamée de Syrie, Bruxelles 1980, p. 437). Sui cenacula, J.E . Pacjer, The insulae o f imperiai Ostie, «MAAR», X X X I, 1971; R. Meiggs, Roman Ostia, Oxford 1973, p. 249; J.S. Boersma, Amoenissima Civitas, Assen 1985. P. Gros, L’Architecture romaine, 2: Maisons, palais, villas et tombeaux, Paris 2001, pp. 122-123 che aggiunge che, contrariamente a un’idea diffusa, le case a piani non erano riservate ai poveri. Riguardo al senso molto discusso della parola insula, Gros risolve il problema (p. 112). Le decine di migliaia di epitaffi dell’U r i non permettono di trarre alcuna conclu­ sione sulla struttura quantitativa della popolazione di Roma, secondo P. Huttenen, The Social Sfrata ofthe Imperiai City ofRome, Oulu 1974, p. 195. CIL, V 4020: «S i maior auctoritas patrimoni meifuisset, amplius titulo te prosecutus essem, piissime pater»·, XII, 106 (F. Buecheler, n. 23): «Qualem paupertas potuit memoriam dedi»·, X I, 6842: « E parvo nobis quod labor arte dedit, patrono et una coniu­ gi feci meae»\ è un panettiere che parla (G. Zimmer, Rómische Berufsdarstellungen, Berlin 1982, p. 119, n. 32). D. Kleiner, Roman Group Portraiture: The Funerary Reliefs ofth e Late Republic and Early Empire, London-New York 1977. Margaret Bieber ritiene che, dalla fine della repubblica, il romano comune nella 130

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vita quotidiana vestiva (fatta eccezione per le scarpe) alla greca, con il pallio o con una toga drappeggiata come un pallio; si veda in ultima analisi quanto scritto in Ancient Copies: Contribution to thè History o f Greek and Roman Art, New York 1977, pp. 129-147. Ignoriamo quale fosse l’aspetto dei passanti in una strada ro­ mana. Può essere utile notare come si distingue in pratica un togatus da un palkatus■ dal sinus sul petto (sfortunatamente non è quasi segnalato sulla toga repubbli­ cana e anche il pallio ne ha uno); dal lungo e stretto margine della toga che cade tra le gambe e pende a lato del piede sinistro; dal fatto che la toga di lana non la­ scia intravedere la forma del corpo; dai sandali, particolari nei romani, i cui lacci si incrociano sul collo del piede, mentre la parte alta del piede è coperta da una striscia di cuoio. , , . P. Zanker, Zur Rezeption des hellenischen Individualportràts, in Hellenismus in Mittelitalien, Gòttingen 1976, t. 2, p. 595. Nello stesso senso, U. W. Hiesinger, Portraiture in Roman Republic, in Aufstieg und Niedergang der rómischen Welt, I, 4, p. 813. Questi ritratti non hanno tuttavia lo «stile oggettivo» (sachlicher Stiì) dei ritratti di Vespasiano (O. Vessberg, Studien zur Kunstgeschichte der rom Republik, Lund 1941, p. 175) e sono estranei alla vecchia tradizione reali­ sta, quella dell’Arringatore (B. Schweitzer, Die Bildniskunst der rómtschen Republtk Leipzig 1948). Nel mondo greco (il cui realismo, per quanto se ne dica, non è certo inferiore al­ l’arte romana), le stesse immagini si arricchiscono di oggetti che sono simboli di ricchezza (lo schiavo che aspetta in piedi, a gambe incrociate, gli ordini del suo padrone, una borsa, la cassaforte, il portagioie, la boccetta di profumo e lo spec­ chio per la sposa), di svago (l’ombrellino), di virtù domestiche (il cestino con la lana, la rocca), di pietas verso gli dèi (la tavola con le offerte, per Zeus Philios, im­ magino), di cultura (la capsa per i libri, le tavolette); cfr. E. Pfuhl e H . Mòbius, Die ostgriechischen Grabreliefs, Mainz 1979, per esempio, nn. 2002, 2009, 2016, 2303,2304. „ ,, . , H. Seyrig, Antiquités syriennes, Paris 1953, IV, p. 212, «Π pasto dei morti e il ban­ chetto funebre a Paimira» è un ritratto di famiglia, un pasto sontuoso, in cui ι vivi sono accanto al defunto. I Parentalia sono rappresentati sulla tomba di Naevoleia Tyche a Pompei, necropoli di Porta Ercolano. CIL, VI, 25531 (F. Buecheler, n. 1106), sotto l’immagine di un banchetto: «Chi visse sempre avaramente fin tanto che gli fu dato vivere, privandosi di tutto e ri­ sparmiando tutto per il suo erede, ha voluto che dopo il suo trapasso la mano in­ gegnosa dello scultore lo rappresentasse qui a tavola, perché almeno dopo la morte potesse stendersi per riposare e, disteso, godere di un riposo assicurato. Ma perché un’immagine di festa per i defunti? Avrebbero fatto meglio a vivere in questo mondo». Questo rimprovero è stato fatto ai rilievi della tomba di Tnmalcione (Satvricon, 74, 17; B. Schróder, Studien zu den Grabdenkmàlern der romtschen Kaiserzeit, «Bonner Jahrbucher», 108-109, 1902, p. 48). E CIL, VI 17985 (F. Buecheler, n. 856), sotto l’immagine di un banchetto: «Com e vedete sono a tavola; è così che, presso i vivi, per gli anni che il destino mi ha dato da vivere, ho coltivato la mia animula, e il vino non è mai stato lontano. Amici che leggete, me­ scete il vino (pensateci bene), bevete con la fronte cinta da una corona e non ri­ fiutate alle ragazze l ’abbraccio di Venere, perché, dopo la morte, la terra e il fuo­ co consumano tutto il resto». Sono i consigli scritti sulla tomba di Sardanapalo (Ateneo, XII, 530 B). Su un altro rilievo rappresentante un banchetto, il defunto, vivissimo, fa un brindisi al suo genio per il compleanno, con l’iscrizione GENIO (CIL, VI, 25531; F. Matz e F. von Duhn, Antike Bildwerke tn Rom, Leipzig 1881 131

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[ristampato da Bretschneider], n. 3885). Altri consigli per condurre ima buona vita: CIL, VI, 10081 (F. Buecheler, n. 1259, 243,244, 1318,1499). T. Schafer, Imperi insigna: sella curulis und fasces, Mainz 1989. Tacito, Storie, III, 31: «Inops vulgus». Orazio, Lettere, 1,4,7: divitias, ma anche artem fruendi; 1 ,5,13: «Parcus ob heredis curam»·, 1,7,57: bisogna sapere «et quaerere et uti» eccetera. CIL, IX, 2114 (F. Buecheler, n. 187), epitaffio di un veterano della trentesima le­ gione, trovata in un paese del Beneventino: «Dum vixi, vixi quomodo condecet ingertuum; quod comedi et bibi tantum meu[m] est». Seneca, Lettere a Lucilio, CVIII, 8-11; Orazio, Satire, 1 , 1, 85-86, cfr. 66. «L ’Année épigraphique», 1947, n. 31: l’epitaffio in versi di Elio Apollonio cela un acrostico che è la firma del poeta: «LVPVS FECIT». CIL, VI, 2553; si veda nota 59. Ibid., VI, 142; R. Turcan, Les Cultes orientaux dans le monde romain, Paris 1989, p. 320. Ecclesiaste, 2,24; 3 , 1 2 e 2 2 ;5 ,1 7 ;8 ,15; tutto il resto è vanità. Visibilmente, Yahweh non è sempre l’unico e neppure il principale pensiero di tutta la società ebraica; co­ me a Roma, gli adulatori lodavano il ricco per «essersi preso cura di se stesso» (Sal­ mi, 40,19). Il giusto deriso dei Salmi (da distinguere dal giusto sofferente, oppresso dai potenti che formano l’entourage del re) viveva in una Gerusalemme visibilmen­ te più godereccia che pia, dove i devoti erano una minoranza sbeffeggiata che si rendeva odiosa per il suo zelo (Saggezza, II, 12-16). L'Ecclesiaste pretende di conci­ liare una devozione esibita con un gusto per piaceri molto terreni. Riferimenti in J. e L. Robert, «Bulletin épigraphique», 1976, n. 720. P. Zanker, Pompei, società, immagini urbane e forme dell’abitare, Einaudi, Torino 1993, pp. 23 e 44-48. Orazio, Odi, 1 ,31, Quid dedicatum·, i versi in questione sono riportati nelle ultimis­ sime righe dei Saggi di Montaigne. Ciò che ho scritto su fruì paratis su «Latomus», 24,1965, p. 945 ss., è sicuramente falso. Giovenale, VI, 591: «An saga vendenti nubat, caupone relieto». G . Zimmer, Rómische Berufsdarstellungen, cit. P. Huttenen, The Social Strafa ofthe Imperiai City ofRome, pp. 121-129. CIL, VI, 9222; H. Dessau, Inscriptiones Latinae selectae, 7695 e 7742 C. CIL, V ili, 7457; F. Buecheler, n. 1238; H . Dessau, Inscriptiones Latinae selectae, 7457. Per la datazione: C. Lepelley, Les Cités de l’Afrique romaine au Bas-Empire, Paris 1981, II, p. 290. Lo stesso, talvolta nel mondo greco; a Corico (così come ad Afrodisia), i due terzi degli epitaffi (Monumenta Asiae Minoris antiqua, III, nn. 200-788) indicano il me­ stiere del defunto: questa era la moda locale; sono studiati da W.W. Harris, Literacy andEpigraphy, « Zeitschrift fiir Papyrologie und Epigraphik», 52,1983, p. 93: vi si trovano numerosi bottegai, mercanti d’abiti, orafi, mercanti di vino, di calza­ ture (kaliganoi), ma non c’è un solo mercante di verdure, un solo barbiere e nes­ sun calzolaio. Ma conosciamo quale fosse nel mondo musulmano lo scarto che se­ para il ricco mercante (e fabbricante) di babbucce e il povero calzolaio nella sua piccola bottega; cfr. R. Le Tourneau, La Vie quotidienne à Fès en 1900, Paris 1965, pp. 117-123. Così F. Buecheler, nn. 91, 107, 219, 226, 462, 463, 471, 481, 489, 4 9 5 ,5 1 2 ,5 1 3 , eccetera. P. Huttenen, The Social Sfrata o f thè Imperiai City ofRome, cit., pp. 122-124. Corpus inscriptionum Graecarum, 5834; CIL, VI, 9892; XIV, 2793,2812,3712. 132

Esisteva una classe media in qu ei tem pi lontani? 81. 82.

F. Buecheler, n. 512. Per esempio CIL, VI, 33887 (H. Dessau, Inscriptiones Latinae selectae, 7481): «Negotiator celeberrimus suariae et pecuariae». H . Dessau, 7470: «Cocus opttmus»·, 7477: «Popinaria nota»; 7589; 7710. «L ’Année épigraphique», 1972, n. 123 bis: «Nummularius celeber». J. e L. Robert, «Bulletin épigraphique», 1980, n. 511: un «mercante di lana che era il primo nella sua arte». 83. E . Wirth, Zum Problem des Bazars: Versuch einer Theorie des traditionellen Wirtschaftszentrums, «D er Islam», 1974, in particolare p. 251. 84. Sull’affitto dei locali a destinazione commerciale (meritoria) occupanti una parte della domus, si veda Digesto, VII, 1,13, 8: per esempio un albergo (deversorium) o un follone. 85. È quanto lascia intendere l’epitaffio metrico di un fabbro, seviro di nascita libera, con la rappresentazione dei suoi strumenti da lavoro (CIL, XI, 1616; F. Buecheler, n. 1190; G. Zimmer, Rómische Berufsdarstellungen, cit., p. 194, n. 136). 86. Ibid., p. 85: alcuni rilievi (quello di un macellaio, di un mugnaio panettiere, di un orafo) hanno la stessa qualità dell’arte ufficiale. Certo non senza umorismo: sull’in­ segna della bottega n. 7 di Zimmer - una macelleria - le due commesse sono di­ ventate dee con peplum e kolpos, e l’iscrizione cita due versi àéTEneide (ma il bue squartato è molto realistico). Talvolta si dice che i rilievi dei mestieri riflettono «lo spirito realista romano», la psicologia dei popoli dalle spalle larghe. Ma mi sembra riflettano piuttosto solo un soggetto che aveva avuto successo ed era di moda in Italia; anche in Grecia c’erano delle mode locali realistische: gli epitaffi greci non menzionano quasi mai il mestiere del defunto, tranne che in due o tre città dove l’uso voleva che lo si menzionasse spesso o sempre; e gli innumerevoli rilievi fune­ rari greci con il pranzo di famiglia non sono meno realistici. 87. Ibid., p. 83 : contrariamente alle nostre aspettative, i rilievi «realistici» rientrano sti­ listicamente nella tradizione ellenistica e non devono nulla allo stile cosiddetto ple­ beo. Poiché questi rilievi imitano i rilievi funerari dell’aristocrazia senatoriale, si capisce come invece i loro soggetti siano estranei al mondo greco, eccetto alcune rare rappresentazioni di mestieri (E. Pfuhl e H . Móbius, Die ostgriechischen Grabreliefs, cit., II, n. 1166-1172). 88. Quindi Roma non assomigliava alle città musulmane a cui la si paragona per altri aspetti: non si vedono donne nei suk. Cfr. Digesto, XVI, 3 ,8 : «Plerique pueros puellasque tabernis praeponunt». 89. G . Zimmer, Rómische Berufsdarstellungen, cit., p. 218, n. 185 (decorazioni di un sarcofago ad Ancona, II ο III secolo). La pipetta di cui si serve il mercante di vino per attingere dalla botte è ancora in uso al giorno d’oggi. Il sarcofago è riprodotto in P. Ariès e G. Duby, Histoire de la vieprivée, Paris 1985, t. 1, p. 136 (trad. it. La vita privata, Mondadori, Milano 1988), o in P. Veyne, The Roman Empire, Cam­ bridge (Mass.) 1997, p. 130. 90. Il commento più concreto a queste antiche immagini di bottega, alla figura e ai ge­ sti del padrone, alla gestione del magazzino e persino all’ammontare degli affari sa­ rebbe un racconto di Cechov, Tre anni (1895), il cui realismo è eccezionale. Un grosso mercante moscovita si arricchisce grazie a un oligopolio o a un monopolio sulle derrate rare e preziose, come spesso nel commercio di un tempo (così a Lon­ dra nel XVI secolo). 91. CIL, Π, 3304, F. Buecheler, n. 15556, a Castulone, città romanizzata di lunga data, vicino a Linares nella Sierra Morena, regione mineraria. 92. T. Mommsen, Juristische Schriften, Berlin 1905; si potevano vendere all’asta i propri raccolti, un lotto di vino o di carne, la propria villa, una terra coltivata 133

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(Catone, De agricultura, II, 7; J. Andreau, La Vie financière dans le monde romain, cit., p. 586). I praecones, banditori pubblici, vi giocavano la loro parte. Questo mestiere, che non esigeva un capitale (Cicerone, Pro Quinctio, III, 12), arricchiva proverbialmente chi lo svolgeva (ibid., Ili, 11; Quintiliano, I, 12, 17; Marziale, V, 56), perché al praeco spettava una commissione sulle vendite; si ve­ da J. Andreau, La Vie financière dans le monde romain, cit,, pp. 122, 134, 156 (sul padre di Orazio), 594; N. Rauh, Auctioneers and thè Roman economy, «Historia», X X X V III, 1989, pp. 451-471. Orazio, Lettere, I, 7,5 8 : « Praeconem tenui censu [...] gaudentem parvisque sodalibus [...] et ludis; [...] negotia». CIL, IX, 3128; F. Buecheler, n. 184, sotto il rilievo di un pastore e di un contadino. Museo di Sulmona. CIL, X , 6053-6054; F. Buecheler, n. 71 («industria, vigilantia»); CIL, XI, 1122; F. Buecheler, n. 1273 («Labor [...] iustas conciliavit opes; non perit esse bonos»)·, Inscriptions lantines de l'Algérie, 1 2195; F. Buecheler, n. 1868 («Laborumpatiens, frugi, rem paravit non mediocrem [...] ad equestrem promovit gradum»), Questo non impedisce loro di occuparsi seriamente delle proprie terre e dei propri crediti, anche qualora ciò avvenga tramite un intermediario Vactor, il vilicus o Poikonomos, che «gestisce tutti gli affari del suo signore» (Galeno, XIV, pp. 633 e 670, Kuhn) e da cui dipende il successo di un affare (Plinio, Storia naturale, XVLH, 37). Si sapeva molto bene come poter meliorareproprietatem (Digesto, VH, 1, 13, 5), si distingueva tra Γ ammortizzamento e l’investimento produttivo (ibid., VH, 1, 13,4-6; ΧΧΠΠ, 5 ,1 8 pr.; L, 16,79). «Anche questa è opera del saggio, come se non fossero gli agricoltori, sia adesso che in passato, a far sempre nuove invenzioni per aumentare la fertilità della terra», scrive Seneca, Lettere a Lucilio, X C , 21 (ed. it. Lettere a Lucilio, voi. 2, Bur, Milano, 1994, p. 697). CIL, V, 3415; F. Buecheler, n. 1095; H. Dessau, Inscriptiones Latinae selectae, 6699: «Labor a puero mihi semper erat [...]. Quaerere consuevi semper neque perdere desi». «Quaesivi semper, cessavi perdere numquam», ripetono, in termini pressoché iden­ tici, CIL, V, 2986 e 6842 (F. Buecheler, n. 1093), e VI, 30111. F. Buecheler, nn. 477,512,1002,1103. CIL, I, 1210, e VI, 32311; F. Buecheler, n. 53; H. Dessau, Inscriptiones Latinae se­ lectae, 1932; A. Degrassi, Inscriptiones Latinae liberae reipublicae, Firenze 1963, t. 2, p. 198, n. 808. CIL, HI, 2835: «Vixi semperpauper honeste»; VI, 2489: «Vixi semper bene pauper honeste, fraudavi nullum». H defunto ha vissuto sine lite, dicono diversi epitaffi; se si è immischiato in un cat­ tivo affare, è degno di lode per esserne uscito senza un processo (ibid., XTV, 2605; F. Buecheler, n. 477: «Sine lite recessi»). CIL, VI, 8012 (un ex schiavo pedagogo che si è evidentemente lanciato negli affa­ ri): «Sine lite, sine rixa, sine contumelia, sine aere alieno, amicis f idem bonam praestiti». Tutte le virtù dell’uomo d ’affari sono enumerate ibid., XTV; F. Buecheler, n. 249 (decima di un grande mercante di grano alla Fortuna di Preneste): «Fama fidesque; divitias vincitpudor; cura studiumque laboris». Petronio, Satyricon, LVHI, 11. Come insegnano i linguisti, fides serve da sostantivo al verbo credere, che vuol dire «affidarsi a» e «credere»; oscillando tra il valore og­ gettivo e soggettivo, i significati principali del termine fides sono quindi: «fiducia» (ottenuta o accordata) e «lealtà». E. Rovigue, L'Amitié d’affaires: essaìs de sociologie économique sur la conélation des affinités et des intérèts dans les échanges, Lausanne-Paris 1939, un testo fine e utile. 134

Esisteva una classe media in qu ei tem pi lontani? 106. O forse: « È stato deluso da questa speranza e da molti amici da cui aveva ben me­ ritato» (CIL, VI, 9659 e 33914); H. Dessau, Inscriptiones Latinae selectae, 7519: «Spe deceptus erat et a multis bene meritus amicis». 107. F. Buecheler, n. 192: «A b alio speres alteri quodfeceris» (cf. Pubblio Siro, 2: «Ab alio exspectes alteri quod feceris»)', e non «quod tibi fieri non vis alteri ne feceris». 108. CIL, XVI, 2605; F. Buecheler, n. 477: «C o a g u la v i semper amicos.» e «praestìti quod potui»·, in cambio, il suo grande amico «praestitit omnia semper honeste». Inoltre, fu un marito irreprensibile e rispettoso delle mogli altrui. 109. Praestare sarà il verbo panromano (ma non romano) «prestare», prestare, nel senso di «prestito», Darlehen-, cfr. W. Meyer-Lubke, Romanisches etymologisches Wórterbuch, Heidelberg 1911, n. 6725. Nel linguaggio sentimentale dell’amicizia d’affari, praestare ha potuto rimpiazzare presto i termini tecnici credere o mutuum dare, probabilmente perché aveva più carica affettiva. 110. CIL, VI, 21975; F. Buecheler, n. 67; e, nonostante i suoi numerosi «cbenti», non ha, una volta morta, nessun pezzo di terra oltre alla sua tomba. 111. Si veda per esempio C. Vidal, Sociologie despassions, Paris 1991, p. 88. 112. Un mercator suarius, CIL, IX, 2128; F. Buecheler, n. 83. È un Uberto, è stato augustale a Benevento, ha sposato la fìgba della concubina di un uomo Ubero (una spu­ nì filia) e loro figlio, duumviro e prefetto degU operai, è vicino all’ordine equestre. Come Trimalcione (Petronio, Satyricon, LX X V I, 9), ha dovuto «prestare ai Uberti», suoi fratelU di classe, dopo essersi arricchito. 113. H. Bolkestein, Wohltàtigkeit undArmenpflege im vorchristlichen Altertum, Utrecht 1939, p. 473; M. MacGuire, Epigraphical evidences for Social Charity in thè Roman West, «American Journal of Philology», 1946, pp. 129-150 (poco convincente); A. Giardina, in Id. (a cura di), L’uomo romano, cit., p. 327. 114. CIL, 1 ,1212; VI, 9545; H. Dessau, Inscriptiones Latinae selectae, 7602; A. Degrassi, Inscriptiones Latinae liberae rei publicae, cit., n. 797. L’accusativo plurale in -is è frequente aUa fine deUa repubbhca. 115. Era una tentazione, in effetti, avvicinarsi a De Rossi, Inscriptiones christianae ur­ bis Romae, 1 .1, nn. 124 e 262: «Amicus pauperum». Ma credo che il senso sia di­ verso. Anche per i cristiani, i pauperes possono essere molto più degU indigenti, formano una metà dell’umanità in questo mondo terreno e davanti al Giudizio. Si legge, a Costantina (CIL, V ili, 7854): «Tim ui [Deum?], coluipotentes nec dispexi pautperes]». L’umanità si divide tra i «grandi», che conoscono grandi pro­ sperità, grandi tentazioni e grandi sfortune che sono altrettanto deUe lezioni, e i poveri, la cui umile condizione rende meno difficile la salvezza eterna; si veda B. Groethuysen, Origines de Vesprit bourgeois en France, I: L’Église et la Bourgeoisie, Paris 1956, p. 167 (trad. it. Origini dello spirito borghese in Francia, Einaudi, Torino 1977). 116. CIL, V ili, 7156, Inscriptiones latines de l’Algérie, II, 820; F. Buecheler, n. 512; Cholodniak, n. 1138. Un argentarius non è mai un mercante di oggetti d’oro o d’argen­ to ma sempre un banchiere; cf. J. Andreau, La Viefinancière dans le monde romain, cit., p. 44, n. 94 e p. 137. 117. CIL, IX , 4796; F. Buecheler, n. 437: « Notus in Urbe sacra, vendendo pelle caprina [...]; solvi semper fiscalia manceps». H a potuto prendere in appalto dei lavori pubblici o una deUe imposte indirette dell’ItaUa. O persino appaltare le vittime destinate ai sacrifici (TertulUano, De idolatria, XI, 6: « Publicarum uìctimarum redemptor»), 118. Salmi, 3 7 ,2 6 (cfr. 37,21: il malvagio prende in prestito e non rende); 112 (l’uomo compassionevole è prestatore/creditore) alla luce di 112, 9 (il giusto è compassio­ 135

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nevole, egli dona). Ecclesiaste, 29,1: «Chi pratica la misericordia presterà al suo prossimo». Matteo, 25,14-30. CIL, IX, 60; F. Buecheler, n. 1533: «Alma Fides, tibi ago grates, sanctissima diva: fortuna infracta, ter mefessum recreasti». Sui prestiti bancari, cfr. J. Andreau, La Vie financière dans le monde romain, cit., pp. 583-588, che ringrazio per aver gentilmente risposto alle mie domande. Un commerciante poteva ottenere un prestito da un banchiere (p. 656). I rari pre­ stiti di cui si conosce la durata vanno da una quindicina di giorni a un anno. La destinazione di questi prestiti è praticamente sempre ignota. Quello che si co­ nosce con meno incertezza sono (pp. 583-588) gli anticipi consentiti al compra­ tore nelle vendite all’asta (dove il banchiere aveva la funzione di tenere il regi­ stro, p. 70). In ogni caso, mi sembra che non potrebbe trattarsi di banche d ’af­ fari, di creazioni d ’imprese, ma di semplici anticipi monetari. A che termine? Alcune attività (la fabbricazione e la rivendita di abiti di valore, per esempio) dovevano certo impegnare due o tre anni per avviarsi. Orazio, Ars poetica, 421 (cfr. Epistole, II, 1, 104-105); Plinio il Giovane, Lettere, III, 19, 8. Cfr. Tacito, Annali, VI, 16; J. Andreau, La Vie financière dans le monde romain, cit., p. 643; e la mia SociétéRomaine, cit., p. 149, n. 33. È risaputo che la nobiltà senatoriale si occupava anche di affari di ogni genere; cfr. J.H . d’Arms, Commerce and Social Standing in Rome, Cambridge (Mass.) 1981, pp. 155-159. Seneca, Lettere a Lucilio, CXIX, 1. Sui pararti, menzionati solo da Seneca, De benefictis, II, 23, 2 e III, 15,2, si veda anche J. Andreau, La Vie financière dans le monde romain, cit., p. 704. Sui prosse­ neti, si veda il titolo L, 14 del Digesto. Che lo andava a trovare ogni mattina: Seneca, Lettere a Lucilio, CI, 1-4. E. Deniaux, Clientèle etpouvoir à l’époque de Cicéron, Rome 1993, in particolare pp. 213-247. Così anche la lettera Ad familiares, 1,3. J.-Y. Grenier, EÉconomie dAncien Regime: un monde de l’écbange et de l’incertitude, Paris 1996, in particolare pp. 84-128. A. Marshall, Industry and Trade, Bristol 1997: fino al X IX secolo, le navi costitui­ ranno il mezzo industriale più costoso del mondo. Tanto che H.W. Pleket, Wirtschaft und Gesellschaft des Imperium Romanum, in Handbuch der europàischen Wirtschafts- und Sozialgeschichte, cit., t. 1, p. 44, può chiedersi da dove venissero i loro finanziamenti. Ibid., p. 124. A. Schiavone in Id. (a cura di), Storia di Roma, IV: Caratteri e Morfo­ logie, Einaudi, Torino 1989, p. 40. A proposito del garum, è stato il mio collega e amico André Tchernia a informarmi; del resto, difende l’idea di una netta separa­ zione tra la produzione e il commercio in La vente du vin, in E. Lo Cascio (a cura di), Mercati permanenti, mercati periodici nel mondo romano, Edipuglia, Bari 2000, in particolare pp. 206-207. L’assenza di economie di scala non impediva delle crescite, che però erano lineari e lo­ cali. Cosa che ha mostrato, sull’esempio di Arezzo, G. Fulle, The International Organisation o f thè Anetine terra sigillata, «JRS», 87,1997, pp. 144-146: per rispondere al­ la domanda crescente si sono moltiplicati i piccoli atelier senza cambiamenti di scala. R. MacMullen, Corruption and thè Decline ofRom e, New Haven-London 1988 (trad. it. La corruzione e il declino di Roma, il Mulino, Bologna 1991); P. Veyne, Clientèle et corruption au service de l’État: la venalità des offices au Bas-Empire, «Annales ESC», 1981, pp. 339-360. Citiamo l’anonimo De rebus bellicis, 2 e 4 (ed. it. Le cose della guena, a cura di A. Giardina, Fondazione Lorenzo Valla, Milano 1989), Flavio Giuseppe, Antichità giudaiche, XVIII, 6,172, sui governatori di provincia: 136

Esisteva una classe media in quei tem pi lontani? quelli che hanno un potere temporaneo sono maggiormente portati a rubare. Sulla loro disonestà nel «secolo d’oro» dell’impero romano, P.A. Bruni, Charges ofProvincial Maladministration under thè Early Principate, «Historia», 1961, p. 189, ri­ preso nei suoi Roman Imperiai Themes, Oxford 1990, p. 53. Governatore di provin­ cia disinteressato, Cicerone intascò solo due milioni in un anno e lo rese noto. 131. P.E. Will, «The Problem of Officiai Corruption in Late Imperiai China: Tentative Definition and a Few Anecdotes», New Schoolfor Social Research, aprile 1990; «Officials and Money in Late Imperiai China: thè Problem of Corruption», di prossima pubblicazione a Princeton (editori W. Chester Jordan ed E. Kreike); Bureaucratie officielle et bureaucratie réelle à l’époque des Qmg, «Études chinoises», 8,1989, pp. 103-105,119,135-137. La corruzione è ovunque, salvo che nelle rare società «mar­ cate», che separano espressamente l’amministratore e la sua persona privata e che stabiliscono esplicitamente che l’amministrazione debba funzionare senza «aiuti» né doni. È la separazione tra l’amministrazione e l’uomo di cui parla Max Weber, tra la cassa di un impresa e quella del suo proprietario, 132. In Cina, i letterati vendevano ai mercanti i monopoli; ai giorni nostri, in uno Stato del Terzo Mondo, se il direttore di un’impresa pubblica firma un contratto con la Francia, la sua bustarella sarà come minimo una Mercedes. Sulla corruzione du­ rante l’Ancien Régime, W. Sombart, Der moderne Kapitalismus, I: Die vorkapitalistische Wirtschaft, Munchen 1928, t. 2, pp. 664-668 (trad. it. Il capitalismo moder­ no, Utet, Torino 1978): era il solo mezzo di arricchimento che permettesse di riu­ nire una grossa fortuna. „ 133. Si cita troppo poco la risposta del tribuno Claudio Lisia a san Paolo: «H o pagato caro per acquistare la cittadinanza romana» (Atti degli Apostoli, 22, 28); cfr. Sene­ ca, Apocolocyntosis, IX, 4: Diespiter, console designato, «vendere civitatulas solebat»; l’allusÌone non prende di mira solo la politica di Claudio verso i galli. Il pro­ curatore Felice spera che san Paolo pagherà la sua liberazione (Atti degli Apostoli, 24,26; cfr. 23,24). Gesù dice ai soldati: «Siate contenti della vostra paga» (Luca, 3, 1 4 '[ed. it. La Sacra Bibbia, cit. p. 1102]); in effetti, le iscrizioni mostrano dei solda­ ti che si fanno offrire uno stephanos o bustarella dagli abitanti della zona. 134. Mi ispiro a L. Foxhall, The Dependent Tenoni: Land Leasing and Labour m Italy and Greece, «JR S», 80,1990, p. 111. Non c’è un grande mercato unificato: da una provincia all’altra, da una città all’altra, da una stagione all’altra, i prezzi locali po­ tevano essere molto diversi; i mercanti speculano su queste differenze, le persone ben informate anche (così fa Trimalcione e così farà l’aristocratico Samuel Pepys). 135. J.K. Galbraith, The Nature ofM ass Poverty (trad. it. La natura della povertà di mas­ sa, Mondadori, Milano 1980). ...................... _ 136. Digesto, L, 5 ,2 , 8: «Quipueros primas titteras docent [...] sive in civitatibus swe m vicis magistri». 137. Dieta Catonis, a cura di D uff (in Minor Latin Poets, collezione Loeb), 1, prol. 16: « Mutuum da»·, 1, 34, e 4, 8: « Concede roganti [...]; in parte lucorum»; 1, prol. 47: «Minorem ne contempseris»·, 1,20: «Munus cum dat pauper amteus». 138. Mi sembra impossibile datare i Dieta più tardi del II secolo, a leggere le sentenze molto «secolari» sulla religione (si veda oltre). Non entriamo nella questione dei rapporti tra i Dieta e i Praecepta Delfica (H. Diels in W. Dittenberger, Sylloge tnscriptionum Graecarum, n. 1268) che si sono ritrovati fino a Ai Khanum; uno di questi precetti delfici dice: «Prestito a interessi: la rovina non è lontana». 139. Su questo insegnamento (Dieta Catonis, Pubblio Siro) e sul valore che il filosofo e senatore Seneca attribuiva a queste massime, di veda Lettere a Lucilio, X X X III, 7, 94,27, e XLIII, 119,2. 137

L’impero greco-romano 140. Si impara a giocare col cerchio, ad amare la propria moglie, a rifuggire le cortigia­ ne e, diventati vecchi, a non criticare i giovani. 141. Dieta Catonis, 1, prol. 16: «Mutuum da». Cfr. nota 120. Sbaglierà la formica che non presta, ma non per questo bisognerà essere cicala: questa favola è per l’econo­ mia dell’Ancien Régime. 142. Ibid., 1 ,2 4 ,2 8 e 39 (cfr. Seneca, Lettere a Lucilio, CI, 2); 2 ,3 (sentenza che si ritro­ va nell’epitaffio CIL, VI, 11252); 3 ,6 ; 4,17. 143. Ibid., 1, 40; 2 ,1 7 e 19; 3 ,2 1 ; 4 ,5 e 16. Cfr. 3, 6: diventati vecchi, essere generosi con gli amici. 144. Petronio, L X X I, 1; Dieta Catonis, 4 ,4 4 : « Homines esse memento». 145. Ibid., 1,8, e 3,10. 146. Ibid., 1,39 (labore), 1, prol 39 (litteras disce); 1,28; 4 ,19 e 21. Petronio, XLVI, 5-8. 147. Dieta Catonis, 2, prol.; 3,13 e 18; 4,48. 148. Cfr. Petronio, L X X I, 12 e l’opinione di un centurione in Persio, ΠΙ, 77, CIL, XI, 600: «H aec non a d[octis viris, sed n] a tura sua meminisse dicet vos». A.D. Nock, Orphism orpopularphilosopby?, «H T R », X X X III, 1940, pp. 301-315, ripresi nei suoi Essays on Religion and thè Ancient World, cit., I, pp. 503-561. 149. CIL, X I, 7856; si veda anche Notizie degli scavi, 1913, p. 361. 150. Non bisogna domandarsi se esistono gli dèi, ma occuparsi degli affari terreni (2, 2; cfr. Filemone, fr. 118 ab Koch), non cercare di sapere quale avvenire ci riservi­ no gli dèi (2 ,1 2 ), non interrogare i sogni (2, 31), non sacrificare vitelli (4, 14); consigli che si leggono a partire da Catone il Vecchio, De agricultura, 143, fino a Columella, I, 8, 6, e X I, 1,22, ma solo accendere incenso (4,38; cfr. Orazio, Odi, EH, 23,3), che è meno costoso. 151. N. Purcell nella nuova Cambridge Ancient History, X : The Augustan Empire, cit., p. 797. Sulla presunta spoliticizzazione, E. Flaig, Den Kaiser herausfordern, cit., pp. 38-52. J. Le Gali, Rome, ville de fainéants?, «Revue des études latines», X LIX , 1971, p. 276. G . Pucci in A. Schiavone (a cura di), Storia di Roma, IV: Caratteri e morfolo­ gie, pp. 385-387. Cfr. nota 12. Certo, in realtà i senza lavoro erano soprattutto dei disoccupati, non dei fannulloni. Tuttavia, la tracotanza del ceto elevato non permet­ te nemmeno di imputare la loro sfortuna al vizio: non rende loro neppure questo onore; è il semplice fatto di essere poveri a screditarli, qualunque ne sia la ragione. 152. Giovenale, X , 81 (ed. it. Satire, trad. di E. Barelli, Bur, Milano 1982, p. 199). 153. È il celebre aneddoto di Vespasiano che rifiuta di servirsi di una macchina per la­ sciare i mezzi di sostentamento alla plebecula (Svetonio, Vespasiano, X V III), di­ scusso da P.A. Brunt, Free Labour and Public Works at Rome, «JR S », 70, 1980, pp. 81-100. Nella sua Vita di Pericle, X II, 5 Plutarco attribuisce i grandi lavori di Pericle alla sua preoccupazione di procurare un salario alla massa operaia, «sen­ za pagarla per non fare niente» (come a Roma, ma Plutarco non lo dice). Per fi­ nire il tempio di Gerusalemme vennero impiegati diciottomila operai disoccupa­ ti (Flavio Giuseppe, Antichità giudaiche, XVIII, 219). Nel Basso impero, un evergete si prende cura dei poveri dando loro lavoro (Inscriptions greques et latines de Syrie, V, n. 2000). 154. Flavio Giuseppe, Antichità giudaiche, X IX , 3 ,2 2 8 (ed. it. Storia dei G iu dei-A nti­ chità giudaiche, libri XII-XX, Mondadori, Milano 2002, p. 498). 155. M. Weber, Gesammelte Aufsàtze zur Religionssoziologie, Tubingen 1972,1, p. 325 (trad. it. Sociologia della religione, Edizioni della comunità, Torino 2002). 156. Flavio Giuseppe, Antichità giudaiche, X IX , 1,145 (ed. it. Storia dei G iu dei-A nti­ chità giudaiche, libri XII-XX, cit., p. 486). 157. Tacito, Storie, 1 ,4, 3 (ed. it. op. cit., voi. 1, pp. 88-89): «Parspopuli integra et ma138

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gnis domibus adnexa». Cfr. nota 39. Ritengo che sia prudente non vedere sotto adnexa, come è stato fatto, dei legami di clientela (che sono distinti nella riga succes­ siva, dove è questione di clientes damnatorum)'. qui il participio non è un passivo propriamente detto (il popolo sano non è annesso dalle grandi famiglie), ma desi­ gna lo stato; il popolo si sente vicino a loro, si attacca a loro (per la sua attitudine, l’affetto, gli interessi forse); il participio «passato» passivo equivaleva spesso, quan­ to al senso, a un participio presente/imperfetto riflessivo. Verso la fine della repubblica, i clienti della nobiltà sostenevano gli optimates con­ tro i populares; cfr. P.A. Brunt, The Roman Mob, in M.I. Finley (ed.), Studies in An­ cient Society, London 1974, p. 95. Cicerone, Pro C. Rabirio Postumo, 4; Catilinarie, III, 4, 9; De divinatione, II, 54, 110; Adfamiliares, 1 ,7,4 . Sallustio, La congiura di Catilina XLVII, 2. Svetonio, Ce­ sare, L X X IX , 4: « Fatales libri»; Plutarco, Vita di Cesare, LX , 2; Appiano, Guene civili, II, 110. Cassio Dione, X X X IX , 15,2; X LI, 14,4; XLIV, 15,3. Mi permetto di rimandare al mio Élégie érotique romaine, Paris 1983, pp. 33 -35 (trad it. La poesia, l’amore, l’occidente: elegia erotica romana, il Mulino, Bologna 1985). Contra N. Purcell nella nuova Cambridge Ancient History, X: The Augustan Empi­ re, cit., p. 805. Svetonio, Nerone, LVII, 1; Dione di Prusa, X X I, 10; W. Jakob-Sonnabend, NeroBild der Spàtantike, cit. Tacito, Annali, IV, 27 (ed. it. op. cit., voi. 1, p. 303). In un articolo del «Voprosy istorii», n. 8,1955, in russo, di cui avevo ottenuto una traduzione dal Partito co­ munista francese; Sergeyenko, citando Varrone e Columella, vede in questi schiavi della Calabria dei pastori nomadi e parla del loro senso della dignità e del loro spi­ rito d’iniziativa. Cfr. Columella, I, 8,1 , sui cattivi schiavi urbani che passano il loro tempo a passeg­ gio presso il Campo Marzio, al circo, al teatro, nelle taverne e nei lupanari. Gli spettacoli a cui poteva assistere la plebe infima non erano quelli dei gladiatori, se­ condo E. Flaig (Den Kaiser herausfordern, cit., pp. 39-40, n. 7, fine; cfr. p. 48, n. 39), ma solo il circo. In realtà, solo alcune file delle gradinate erano gratuite, tanto che per accedervi il popolino faceva la coda tutta la notte, secondo G. Ville (La Gladiature en Occident des origines à la mori de Domitien, Rome 1981, p. 431, ci­ tando Svetonio, Caligola, XXVI). Tacito, Storie, II, 91,3: «Infimaeplebis rumorem»; III, 58,2-5: «Superfluente multitudine; etiam liberiinis munus ultra flagitantibus»; 80,1; 82,2; 83,1. Ibid., III, 5 8 ,5 (ed. it. op. cit., voi. 2, p. 539): «Acplerique haudperinde Vitellium quam casum locumque principatus miserabantur». E. Flaig, Den Kaiser Herausfordern, cit., pp. 389-390. Storia Augusta, Didio Giuliano, III, 7; IV, 2, 6 e 8; VI, 1; VII, 9. Cassio Dione, LXXIV, 13 (cfr. LXXIV, 12,2). Erodiano, II, 6 ,1 2 , usa anche lui il termine demos e non plethos. 7. Yavetz, La Plèbe et le Prime, cit., p. 28; A. Pabst, Comitia imperii, cit., pp. 133-134. Erodiano, VII, 10; cfr. Storia Augusta, Due Massimini, X X , 2; Massimo e Balbino, III, 3; Tre Gordiani, XXII, 2. Cassio Dione, L X X X , 2 ,3 ; Erodiano, VII, 11-12. Su tutti questi punti (lo Stato romano come repubblica ancora nel IV secolo, il pe­ so dell’«ideologia»), si rilegge non senza ammirazione D. Fustel de Coulanges, Histoire des institutions polìtiques de ΐ ancienne Trance, I: La Gaule romaine, cit., pp. 147-151. Orazio, Satire, I, 8,10. 139

L’impero greco-romano 173. Sotto Caligola, un movimento contro le imposte è stato represso con violenza (Cas­ sio Dione, LIX , 28,11; Flavio Giuseppe, Antichità giudaiche, X IX , 24-26, citati da W. Nippel, Public Order in Ancient Rome, Cambridge, 1995, p. 90, cfr. p. 87. 174. Erodiano, V, 2 ,33; V, 4,12. 175. Cassio Dione, L X X IX , 20. 176. Interessante testimonianza sulla moda delle esclamazioni in greco (o ricalcate dal greco) nella parte latina dell’impero; cosi le esclamazioni is aona, «per l’eternità» o oceane «o tu che sei un oceano [di munificenza]», che si leggono sui mosaici. 177. Perché al circo l’imperatore rende omaggio al popolo romano con la sua presenza: «Circi gradibus, purpura veneratur vulgus», scrive Claudiano, Per il VI consolato di Onorio, 614. 178. Tiberio «Populares tumultus gravissime coercuit» (Svetonio, Tiberio, XXXVII). 179. Riferimenti e fini note in Z. Yavetz, La Plèbe et le Prime, cit., pp. 34-35. 180. Tacito, Storie, 1 ,40 (ed. it. op. cit., voi. I, p. 159). 181. Sulla folla che manifestava contro Didio Giuliano (Cassio Dione, LX XIII, 13,2-5), F. Millar, A Study ofCassius Dio, Oxford 1964 (1999), p. 137, scrive: «Ignorare la presenza politica che il popolo di Roma poteva esercitare ed esercitava in effetti sugli imperatori, vuol dire non essere in grado di discemere una delle forze efficaci del principato». 182. Nel 350, sotto Magnenzio, il prefetto del pretorio arma i plebei di Roma contro un usurpatore, nipote di Costantino, Nepoziano, che arriva a schiacciarli (Zosimo, II, 43,2) e a impadronirsi della città. 183. Costantino e Valente furono così insultati dalla folla: Libanio, disc. X X , 24-26. Sul­ la plebe e il Senato, Libanio, lettera 391 Forster, 4 ,1 4 Norman. 184. E. Flaig, Den Kaiser Herausfordem, cit., pp. 66-80,206,449 eccetera. Flaig cita spes­ so la mia tesi di Le Pain et le Cirque, cit., e la critica pure; a distanza di un quarto di secolo, magnum mortalis aevi spatium, le sue critiche, che non sono né accademiche né politically conect, mi sembrano spesso giustificate e sempre interessanti. 185. Essa manifesta verso il principe, e contro il principe, in favore di Agrippina Mag­ giore sotto Tiberio, di Agrippina e di Ottavia sotto Nerone; alla morte di Germani­ co, scrive Svetonio, la plebe demolì i templi degli dèi. Sotto i Severi, la devozione alla domus divina è di rigore. Ma la devozione dinastica funziona solo, scrive E. Flaig, se il principe regnante è accettato: se perde l’appoggio del Senato, del popo­ lo e dell’esercito, il suo erede non verrà tenuto in nessun conto. 186. E. Flaig, Den Kaiser Herausfordem, cit., p. 206. Talvolta Roma fa pensare a un’altra capitale (o piuttosto a un’altra «città reale»), Alessandria sotto i Lagidi, politicizza­ ta dalla presenza del sovrano, dove il popolo di notte copriva le strade della città di scritte politiche (Polibio, XV, 27,3) e dove le sommosse ritmavano la vita politica. La storiografia romana non ci lascia ignorare l’indisciplina di questi greci degeneri; al contrario, quando si tratta di Roma e non più di Alessandria, preferisce non insi­ stere sulla medesima indisciplina del popolo romano: queste emozioni plebee sono indegne della grande storia, che si limita a parlare con sdegno, come Tacito, di una plebe che senza ragione, per infantilismo, è avida di novità (così anche Polibio, X X XV I, 13,3).

4 L’identità greca con e contro Roma: «collaborazione» e vocazione superiore

Nel nostro piccolo angolo di universo intorno al 200 avanti Cristo, do­ po le immense conquiste di Alessandro Magno, la Grecia e l’Oriente greco formavano una compagine di regni e città che andava a costituire l’etnia più potente del mondo, la cui civiltà era la civiltà per antonoma­ sia, anche nell’opinione di cartaginesi, etruschi e abitanti dell’Italia ro­ mana. L’uomo più famoso di quegli anni non era il cartaginese Anniba­ ie né il romano Scipione, ma Antioco il Grande, re greco del Vicino e Medio Oriente. Nel 192 avanti Cristo, però, lo stesso Antioco soccombeva sotto l’e­ sercito di Roma che, nel corso dei due secoli avanti la nostra era, ridus­ se la Grecia e il mondo greco a un insieme di province e di protettorati romani, i quali a loro volta, nei primi quattro secoli dopo Cristo, costi­ tuiranno la metà orientale o «la parte greca» di questo impero bilingue, finché, verso il 400, la metà occidentale e latina non crollerà sotto i col­ pi dei germani, lasciando i greci padroni di loro stessi. Il nostro scopo sarà quello di capire quale fu l’atteggiamento dei gre­ ci di fronte al dominio romano. Hanno finito per considerare i romani come compatrioti? O, al contrario, si è mantenuta una nazionalità gre­ ca? Dico proprio «nazionalità», riferendomi a quel legame che unisce degli individui a una particolare identità, e non «nazionalismo», movi­ mento sorto nel X IX secolo che pone a fondamento di ogni formazio­ ne politica il concetto di identità etnica. La risposta degli storici mo­ derni, che non sarà la nostra, è quasi unanime e poco sfumata: per loro, sì, c’è stato un passaggio dalla sottomissione all’accettazione e i greci hanno finito per sentirsi cittadini dell’impero. Si è persino cercato di tracciare un profilo dell’evoluzione dell’opinione pubblica e, sulla base di alcuni testi (a mio avviso mal interpretati),1 si è pensato che il II se­ colo dopo Cristo, il «secolo d’oro» dell’impero romano, abbia segnato una tappa fondamentale che ha visto i greci legarsi sinceramente a Ro­ ma. Certo, nella vasta letteratura greca di età imperiale si trova qua e là qualche espressione di un sentimento antiromano, che però secondo l’opinione generale non andrebbe preso sul serio.2 141

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E se la questione fosse meno semplice? Gilbert Dagron scrive a giu­ sto titolo: «Se anche c’è stato un avvicinamento, non c’è stata integra­ zione; il potere è rimasto romano e la cultura greca». E distingue tra « l’assuefazione dell’Oriente greco al potere romano» e la sua «refratta­ rietà» alla romanizzazione.3 In pieno IV secolo, l’ultimo della vita del­ l’impero, gli elleni continuavano a dire: «Voi, romani; noi, greci», come avevano fatto per mezzo millennio. Nel 395 dopo Cristo, la separazio­ ne delle due metà dell’impero sarà un divorzio tra un Occidente latino e un Oriente rimasto greco. Si tratta di distinguere le molte e differenti attitudini che, pur sembrando contraddittorie, convissero e rimasero inalterate per quattro o cinque secoli. Era possibile al tempo stesso di­ sprezzare Roma, essere fieri di essere greci e sostenere l’ordine impe­ riale; essere xenofobo, patriota e «collaborazionista». Era addirittura la normalità. Due sono le chiavi di comprensione di queste contraddizioni. In­ nanzitutto i sentimenti dei sudditi in un impero multietnico non sono tanto semplici quanto quelli dei cittadini di uno Stato nazionale: quindici secoli più tardi, in un’altra formazione multietnica quale l’impero austro-ungarico, i sudditi resteranno ungheresi fino in fon­ do, fieri della propria identità, ma si mostreranno generalmente leali all’imperatore e faranno carriere sfolgoranti nell’esercito e nelle am­ ministrazioni imperiali. Secondariamente si deve ricordare che, pur dopo lunghi secoli, gli elleni erano uno di quei popoli che, come del resto altri nella storia, hanno un’altissima considerazione di sé; il loro dizionario delle idee conteneva il lemma: «Greci: primo popolo del mondo». E a ragione: si consideravano l’unico popolo civilizzato, poi­ ché la civiltà greca era «la civiltà», come vedremo più avanti. Quanto ai romani, i greci li hanno sempre considerati degli stranieri, a cui, benché vinti, si sentivano superiori tranne laddove questi avevano as­ similato la loro civiltà. Dunque, distinguiamo ed enumeriamo: abitudine al potere romano, perché, in questi millenni in cui la nazione, nel senso moderno del ter­ mine, non esisteva ancora, le popolazioni accettavano signori stranieri; nostalgia di un passato glorioso e rimpianto dell’indipendenza perduta, come si legge anche in Plutarco; spinte xenofobe antiromane che insi­ stevano su piccoli dettagli, come, per esempio, sul calco delle parole la­ tine in greco; «collaborazione» con i signori romani, perché, secondo una teoria che sembra largamente accettata, le città greche vivevano al­ lora sotto un «regime dei notabili»,4 e, in ogni città, questa classe go­ vernante e possidente, pur senza avere formalmente la nazionalità ro­ mana, sosteneva con lealtà il potere imperiale che manteneva l’ordine sociale e proteggeva i greci dai barbari. I notabili cercavano di acquisi­ re la cittadinanza romana e persino di entrare nel Senato; tuttavia desi­ 142

L!identità greca con e contro Rom a

deravano per le loro città la «libertà» (una sorta di autogoverno) e sof­ frivano sotto il giogo del governatore romano della provincia, despota straniero. Desiderio percepibile anche in un ammiratore di Roma come Strabone.5 Queste erano, vedremo, le attitudini compresenti in Plutarco così come in Dione di Prusa e persino in Elio Aristide. I notabili greci gio­ cavano su entrambi i fronti. Esisteva anche una sorta di «nazionalità imperiale» e transnazionale, quella dei magistrati e dei funzionari im­ periali: per quanto fossero di origine greca, trascendevano questa origi­ ne e mantenevano un linguaggio puramente imperiale. La grecità nell’impero è lontana dal presentare quella fisionomia pa­ cifica che le viene ordinariamente attribuita e che è quella della Gallia a partire dai Flavi, per esempio. Galli e africani non avevano dimenticato le loro glorie antiche, ma queste erano venute a fondersi in questo im­ pero che sembrava sintetizzare in sé il passato di tutti i popoli; galli e africani parlavano latino, o almeno lo usavano come lingua veicolare; i greci continuarono invece a parlare greco. Un africano poteva sentirsi romano continuando a essere fiero di discendere dagli avi di Annibaie,6 ma un elleno si sentiva greco e basta. Per rompere subito con le idee convenute, cominceremo con un esempio estremo, il discorso che l’oratore e filosofo Dione di Prusa pronunciò pubblicamente davanti al popolo di Rodi verso il 100 dopo Cristo; discorso inaspettato, coraggioso, violento, ignorato e discono­ sciuto dagli storici da un secolo a questa parte.

I «Un tempo, la nostra comune nomea era frutto del contributo di mol­ ti» dichiara Dione di Prusa nell’epilogo di un suo discorso,7 «erano nu­ merosi coloro che facevano la grandezza dell’Ellade: voi, rodiesi, insie­ me agli ateniesi, ai lacedemoni, ai tebani e ai corinzi, e, prima di voi, gli abitanti di Argo; ma oggi nessuno di loro conta ancora: gli uni sono sta­ ti annientati e sono scomparsi;8 quanto agli altri, si disonorano nel mo­ do che vediamo, e hanno cancellato la loro antica gloria, credendo stu­ pidamente di possedere la buona vita9 e vedendo solo vantaggi a non comportarsi bene, senza nessuno10 a fermarli. Restate solo voi: siete gli unici a poter mostrare autenticamente di non essere stati poca, cosa, e a non essere tenuti in un totale disprezzo; perché se ci fossero solo quelli che fanno della patria l’uso che sappiamo, ecco che da un pezzo i greci sarebbero tutti più disprezzabili dei frigi o dei traci, come alcuni11 di­ cono a ragione. Quando una grande famiglia, un tempo prospera, è or­ mai diventata un deserto, ma le resta un discendente, fosse anche uno 143

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solo, tutto dipende da lui; e, se si comporta male, cancella l’intera no­ mea della famiglia, disonora i predecessori: ecco, rodiesi, qual è la vo­ stra situazione attuale di fronte alla grecità». Forse i rodiesi non erano così eccezionali come Dione qui ci dice, ma il nostro oratore ha colto a Rodi un pretesto per lanciare il suo ap­ pello al riscatto morale di tutto l’ellenismo. Il piccolo pretesto (che permette all’oratore di gestire la suscettibilità del suo uditorio) è una preghiera ai rodiesi perché pongano fine a una cattiva abitudine, quel­ la di riutilizzare le statue dei grandi uomini del passato, cancellandone le iscrizioni sulla base e incidendone di nuove in onore di uno dei po­ tenti dell’ultima ora (i governatori di provincia romani). «Perché non crediate di occupare il primo posto in Grecia, rodiesi; guardatevene bene: si può vincere solo su qualcuno che sia ancora vivo e che sia ri­ masto sensibile all’onore e all’ignominia» come sono stati gli elleni un tempo. «E quello che sono stati gli antenati è in via di sparizione, è del tutto degradato, vergognosamente e miserabilmente; a considerare gli uomini di oggi non si può nemmeno più immaginare in quale splendo­ re abbiano vissuto12 quelli di un tempo. No, sono piuttosto le pietre che manifestano ancora la nobiltà e la grandezza dell’Ellade, sono le rovine degli edifici, perché di coloro che le abitano e di coloro che vi governano non si direbbe nemmeno che sono discendenti degli abi­ tanti della Misia.13 Tanto che le città completamente distrutte hanno più possibilità, secondo me, di quelle con simili abitanti, perché la lo­ ro memoria sopravvive intatta e la loro fama non soffre del paragone con il loro splendore passato; così, tutto sommato, è meglio per i mor­ ti che i loro corpi siano annientati e che nessuno possa vederli, piutto­ sto che mostrarsi in stato di putrefazione». Questa pagina, di una freschezza amara e pungente, è una rarità nel coacervo di testi greci di epoca imperiale, tranne qualche piccola ecce­ zione;14 ci si domanda quale eco abbiano prodotto parole tanto forti e come sia stato possibile pronunciarle pubblicamente, in piena assem­ blea (anche se il discorso pronunciato allora non fu certamente quello che leggiamo noi: oltre all’assenza di iato,15 il testo è troppo lungo e la sua scrittura troppo densa). A quando risale questo discorso? All’età di Domiziano o a quella di Traiano? Durante o dopo l’esilio di Dione che, escluso dalla sua Bitinia, vagò nelle province dell’impero, quando Do­ miziano era sul trono? Lo ignoriamo,16 ma, come storici, proviamo sol­ lievo nel leggere questo discorso: sentiamo finalmente con le nostre orecchie ciò di cui non si parlava mai, ma a cui alcuni continuavano a pensare. La censura e la prudenza inibivano molte parole, ma il patriot­ tismo greco non smetteva certo di far palpitare il cuore di alcuni. È sorprendente che questo scottante testo oggi sia circoscritto nel­ l’ambito della retorica. Un secolo fa, nessuno storico metteva in dub­

bio la serietà e la passione del Discorso agli abitanti di Rodi. Nel 1885, Mommsen citava l’intera pagina che abbiamo tradotto e ne lodava le «nobili idee» e i «termini sorprendenti».17 «La grande idea di questo ammonimento» scriveva Schmid «è: ridiventate come gli antichi gre­ ci».18Per Von Arnim, il discorso mostra «con quale serietà e quale zelo morale e politico Dione lavori per conservare e promuovere il senti­ mento nazionale ellenico nelle istituzioni e nei costumi».19 Ma, dopo Mommsen, si assiste alla riduzione della portata del di­ scorso di Dione di cui si diceva sopra: la sua passione patriottica è misconosciuta tanto quanto la sua animosità contro Roma; importanti la­ vori sul rapporto tra l’ellenismo e Roma ne salvano appena poche fra­ si.20 La ragione sta probabilmente nel pretesto preso dall’oratore: «Si sente che Dione attribuisce un’importanza sproporzionata alla questio­ ne delle statue ribattezzate» scrive Momigliano «e che per lui è solo un pretesto per fare un discorso sofista».21 Eppure, se nel nostro secolo, sotto una qualche dittatura, un oratore avesse supplicato i cittadini di non cambiare le targhe dei nomi delle strade dedicate ai grandi uomini del passato per rimpiazzarle con i nomi dei nuovi padroni stranieri sa­ rebbe stato un discorso da sofista? «Il patriottismo culturale è una sor­ ta di sostituto che permette a una comunità di assicurare la sua unità» come scrive Sirinelli22 a proposito del Discorso agli abitanti di Rodi. Probabilmente questo discorso non chiamava all’azione: nessuna prospettiva politica realista era visibile e, in più, il suo autore era inte­ riormente dibattuto. Dione è un patriota e un ricco notabile; dentro di lui l’interesse di «classe», e l’amore del moralista per l’ordine e l’auto­ rità, sono in conflitto con l’ostilità verso i dominatori stranieri. Ecco la chiave di lettura di questo discorso ardente e complesso. La vittoria di Roma e l’assoggettamento della Grecia sono irrimediabili agli occhi di Dione, che non ha niente di uno zelota ebreo né di un imitatore dei «martiri» alessandrini;23 egli avrebbe preferito senza dubbio che la Grecia fosse restata indipendente (anche Plutarco lo preferiva, l’abbia­ mo detto), tuttavia non chiama i greci alla rivolta: è solo amareggiato. È lui che ha definito la Pax Romana con parole che meriterebbero una qualche notorietà: «Eirene kai douleia» («pace e servitù»).24 Non è l’u­ nico: la sua amarezza è quella della maggior parte dei suoi compatrioti. Cominciamo col mettere da parte i singoli casi o, perlomeno, il lin­ guaggio pubblico dei greci che facevano una grande carriera senatoria­ le o equestre e che rappresentavano ciò che abbiamo chiamato la na­ zionalità imperiale: questi riunivano nella loro persona la cultura elleni­ ca e il potere romano, come farà ancora Temistio, precettore di un prin­ cipe imperiale, due secoli più tardi.25 L’esempio estremo di questa na­ zionalità imperiale è fornito dai greci che entravano in Senato. C’è uno scrittore posteriore a Dione solo di mezzo secolo, come lui della Biti-

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nia, come lui investito della cittadinanza romana, ma che finirà console di Roma: è Ardano, che non prova amarezza né nostalgia per il passato ellenico.26 Un altro senatore della Bitinia, Cassio Dione, pronipote di Dione di Prusa e console nel 229 dopo Cristo, scrisse in greco un’enor­ me storia di Roma da Enea all’anno del proprio consolato da un punto di vista puramente romano: dopo la descrizione della distruzione di Corinto per mano di Mummio, lo storico arriva alla conclusione che, nonostante alcuni mali minori, i greci avrebbero dovuto convenire che la conquista romana della Grecia era stata per loro la salvezza. In Cassio Dione la nazionalità imperiale si è radicata con tale convin­ zione da indurlo a usare espressioni come «i nostri eserciti» o «noi pos­ sediamo la metà dell’isola di Bretagna»; bisogna però ammettere che questo «noi» era d’obbligo per qualunque greco diventato senatore o funzionario imperiale.27 Lo ritroviamo anche in Luciano, perché a quell’epoca egli era entrato nell’alta amministrazione finanziaria impe­ riale, e l’uso del «noi» era una forma di convenienza obbligatoria per un funzionario dell’impero romano. Così la ricorrenza di questo «noi» nei suddetti autori ha fatto credere, a torto, che a partire dal 160 circa dopo Cristo l’atteggiamento della maggioranza greca nei confronti di Roma andasse cambiando, mentre in realtà cambiò veramente solo nel corso del IV secolo, con la fondazione di Costantinopoli nel 330 dopo Cristo, o piuttosto, bruscamente, nel 395. Il «noi romani» dei funzio­ nari imperiali è associabile a un’altra regola di convenienza: sotto l’Alto impero, ogni notabile greco che avesse ricevuto la cittadinanza romana era tenuto a imitare i modi di vita romani e a indossare la toga nelle oc­ casioni solenni; Plinio il Giovane ci rivela incidentalmente che in Biti­ nia i notabili celebravano la presa della toga virile dei loro figli;28 essi onoravano la festività dei Saturnali29 e il loro testamento era valido solo se redatto in latino,30 seguendo le forme solenni dello ius civile. Nelle loro città sono innalzate statue talvolta in abiti greci talaltra con la to­ ga.31 Era quello un segno di deferenza verso Roma; del resto è nota l’a­ bile politica imperiale di Roma: esigere segni di rispetto esteriori e, di fatto, lasciare che i sudditi vivano secondo le loro leggi e sotto i loro ca­ pi tradizionali. Lasciando gli alti funzionari e i notabili inseriti nella realtà, ritornia­ mo agli intellettuali e al popolo, e a Pausania, che non ha fatto carriera. Palm non trova in lui l’atteggiamento di rivolta contro Roma: è una leg­ genda, afferma, quella che vede in Pausania un nemico di Roma 32 co­ me invece si è creduto a partire da Frazer.33 Ma come si può pensare che sotto il dominio romano un greco abbia potuto dichiararsi pubbli­ camente ostile a Roma? Dove si spera di incontrare un simile prodigio? E poi, è sufficiente non dichiararsi nemico per assumere i panni dell’a­ mico? La Heer, invece, parla con finezza di «quell’amarezza segreta»34

che si coglie in Pausania, mentre Habicht gli attribuisce «molto risenti­ mento e animosità; egli non rimprovera ai romani il loro carattere, ma il semplice fatto di essere i dominatori dell’Ellade».35 L’orecchio è una buona guida; basta sentire con quale tono di voce distratto Pausania parla dei romani e del loro imperatore: come se si trattasse di stranieri poco conosciuti ai quali non si desidera avvicinarsi.36 Per lui l’impera­ tore non è che «il re dei romani», mentre già da un secolo e mezzo i greci salutavano Augusto come il loro re, c’erano ovunque santuari im­ periali (sebasteia) e il suo nome era stato dato a un giorno di ogni mese. Questo re dei romani altri non è che Nerone, verso cui Pausania mo­ stra molta indulgenza: poiché Nerone ha restituito l’indipendenza alla Grecia, i crimini mostruosi che ha commesso sono quelli di un’anima naturalmente generosa che è stata deviata da una cattiva educazione.37 Si vedrà che il «buon» Plutarco si spingerà ancora più in là con l’elo­ gio di Nerone. Bisogna dunque riprendere alla radice la questione del­ l’identità greca in tempi romani. Finora abbiamo parlato solo dell’at­ teggiamento dei greci durante il periodo imperiale, all’interno dell’im­ pero, a partire dall’inizio della nostra era o quasi. Ma la loro ambiva­ lenza tra patriottismo e «collaborazione» è qualcosa di ben più antico, cominciato due secoli prima, intorno al 200 avanti Cristo, ossia all’ini­ zio della conquista del mondo greco per mano delle armi romane. A questa conquista risale la «caduta» iniziale, da cui l’identità greca non ha smesso di prendere al tempo stesso la sua energia e la sua coscienza divisa. Dobbiamo dunque cominciare col rivedere da questa particola­ re prospettiva la storia della conquista romana.

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II Spostiamoci tre secoli prima di Dione di Prusa, verso il 200 avanti Cri­ sto. C’erano a quei tempi, scrive Montesquieu, «come due mondi sepa­ rati» che si ignoravano l’un l’altro (politicamente, ma non commercial­ mente38 né culturalmente); l’uno era quello dove combattevano i carta­ ginesi e i romani; l’altro, il mondo ellenistico, era il palcoscenico presti­ gioso, la grande scena internazionale, su cui Roma non giocava ancora nessun ruolo: i greco-macedoni erano gli eredi del conquistatore del mondo, la loro potenza si estendeva su tre continenti senza trovare - uguali da nessuna parte, e la loro cultura era la cultura «universale» del tempo, anche dell’Occidente romano. Un aneddoto la dice lunga. Verso il 300 avanti Cristo il re conquista­ tore Demetrio Poliorcete era l’uomo più famoso del suo tempo, men­ tre, nel lontano mondo romano, Anzio non era che un covo di pirati; Demetrio catturò le loro navi e le rimandò a Roma, aggiungendovi, se­ 147

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condo 1 uso dei semi-barbari di laggiù, una lezione che cadeva dall’alto: i romani non erano forse «imparentati con gli elleni»? Non avevano nel loro foro un tempio di Castore, il dio greco che proteggeva i navigato­ ri? No, questo non si fa, commettere atti di pirateria quando si è un po­ polo civilizzato!39 Passa un secolo, durante il quale Roma espande il suo dominio su tutta la penisola italica, diventando così una grande potenza e dimo­ strando, in occasione delle guerre puniche, di possedere una capacità di mobilitazione militare superiore a quella delle altre società (come ha mostrato Brunt) vincendo sulla terza potenza dell’epoca, Cartagine. È logico che per Roma, senza la minima esitazione, l’unico teatro ormai alla sua altezza sulla grande scena internazionale sia ormai solo il Mediterraneo orientale, l’Oriente greco. Per diventare imperialisti non serve niente di più: è la statura di ciascuno a disegnargli intorno un mondo più o meno grande; il resto è una semplice questione di occasioni.40 Ma, oltre a questo, i romani, o perlomeno la classe governante (benché nemmeno la popolazione fosse insensibile ai trionfi), erano impe­ rialisti nel senso più forte del termine: si sentivano destinati a coman­ dare su tutti gli uomini e, per citare ancora Montesquieu, ritenevano che bastasse aver sentito parlare di loro per dover essere loro sotto­ messi.41 Il diritto di Roma a governare il mondo intero non è una vuo­ ta parola ma un tratto consistente del suo cosiddetto «carattere nazio­ nale»; lo è sempre stato, anche dopo Augusto, al tempo della lunga pace imperiale (adornata di nuove conquiste), dove «sono cessati solo gli sforzi per far passare l’espansione nella realtà», scrive Brunt, non nelle convinzioni.42 Era un imperialismo che bastava a se stesso, per il quale né i valori, né l’ideologia o la religione fungevano da ispirazione o pretesto. Fin verso il 200 avanti Cristo, la conquista romana dell’Italia e il suo dominio sul Mediterraneo occidentale erano finalizzati alla costituzio­ ne di un cuscinetto protettivo; anche se i romani avevano un’idea mol­ to particolare di cosa dovesse essere questo strato «difensivo», in base alla quale la semplice esistenza di una potenza indipendente alle loro frontiere era sentita come una minaccia per la sicurezza.43 Una svolta decisiva avvenne quando, dopo il 200 avanti Cristo, il Senato passò da un imperialismo «difensivo» a un imperialismo d ’espansione, teso a giocare un grande ruolo sulla scena mondiale: stava per iniziare la con­ quista dell Oriente. Col pretesto del rigore scientifico, l’erudizione non deve mostrarsi cieca di fronte a quello che ogni giorno ci insegnano i giornali, la televisione e la storia mondiale: la politica estera non si spie­ ga con motivi «razionali», uguali per tutti, come interessi materiali, si­ curezza nazionale, concatenazione fatale di eventi eccetera; invano si sono cercati, su quel fronte, i motivi dell’intervento romano in Grecia. 148

U identità greca con e contro Roma

Meglio pensare, come Will, che i veri motivi siano spesso d ’ordine «psicologico», espressione del desiderio di potere e di espansione, del­ l’ambizione di giocare un ruolo centrale, del gusto della conquista o dell’egemonia (e per altri, al contrario, del risentimento o del desiderio di riscatto). Come l’imperialismo ateniese secondo Tucidide, quello di Roma aveva diverse motivazioni: la ricerca di una strana «sicurezza», i benefici secondari che erano i profitti materiali della conquista e, pri­ ma di tutto, il motivo che da solo poteva animare i due precedenti, os­ sia la pura e semplice ambizione di dominio, la politica estera come espressione dello spirito di conquista; quello che, ancora sotto Napo­ leone, veniva chiamato desiderio di gloria. Nel seguito di questo capitolo parleremo di come il complesso di su­ periorità romano si sia scontrato con quello greco che, dopo sei o sette secoli, avrebbe finito per soccombere. Lo scontro tra i due campioni di fierezza cominciò subito: non appena vinti Annibaie e Cartagine, Roma fece irruzione sulla grande scena internazionale. Durante l’autunno del 200 avanti Cristo (una delle grandi date della storia occidentale), un re di Macedonia dalle ambizioni spropositate si vide arrivare un giovane senatore romano che intimava di non toccare più nessuna città, nessun regno ellenico, altrimenti sarebbe stata guerra: «Il re, messo in diffi­ coltà, disse che per tre motivi era indulgente con lui [...]: primo, per­ ché era giovane e inesperto delle cose; secondo, perché era il più bello degli uomini del suo tempo —ed era veramente così —; ma soprattutto perché era romano».44 Ci fu la guerra, tra il 200 e il 167 avanti Cristo, e, al prezzo di tre vittorie, i nuovi conquistatori del mondo divennero si­ gnori della Grecia e del Vicino Oriente. Il passaggio da un imperialismo difensivo a un imperialismo d’espan­ sione è andato di pari passo con il passaggio da un’ellenizzazione spon­ tanea a un’ellenizzazione cosciente, voluta, ricercata. Da sempre i co­ stumi greci erano alla moda, in Italia e in tutto il bacino del Mediterra­ neo, in diversi ambiti quali arte, religione, mitologia. Dopo il 200 avan­ ti Cristo, l’aristocrazia romana, divenuta arbitro della grande scena «mondiale», ebbe il dovere di apparirvi degnamente, mostrando tratti civilizzati, e potè farlo perché vittoriosa: in virtù di quello che potrem­ mo chiamare il «teorema di Tocqueville», un gruppo umano adotta le usanze di una civiltà straniera solo a condizione di non ritrovarsi, dopo questa acculturazione, all’ultimo rango della civiltà in questione 45 Al­ trimenti accentuerà la sua differenza o nutrirà il suo risentimento. Ro­ ma era abbastanza forte da potersi permettere di imitare gli altri. Da questo risulterà, lungo i secoli, quella simmetria di amor proprio di cui si diceva sopra: Roma ha un complesso di superiorità politica e di infe­ riorità culturale mentre, fino alla caduta dell’impero d’Occidente, i gre­ ci avranno il complesso inverso: la loro identità nazionale sarà cioè 149

L’impero greco-romano

liiden tità greca con e contro Roma

quella di un popolo altamente civilizzato che è stato a capo di un impe­ ro e che ora non lo è più. E questa è una mezza verità, ma c’è anche l’altra metà, meno orgo­ gliosa, che assicurerà sei secoli di Pax Romana. Nel 1912, all’epoca del­ la conquista francese del Marocco, il generale Lyautey scriveva: «L a massa popolare era pronta ad attaccare il nemico, ma non le classi ric­ che e istruite».46 Due secoli prima di Cristo, quando iniziò la conquista romana della Grecia, le classi alte che gestivano la ricchezza, il potere e l’educazione esitarono allo stesso modo ad attaccare i romani. Trecento anni più tardi, l’atteggiamento politico di Elio Aristide, di Plutarco, e persino almeno in parte quello di Dione, avranno i medesimi fonda­ menti; dobbiamo dunque, dapprima, riassumere questa storia. Storia che a prima vista ha la chiarezza di uno schema: i poveri, la massa, to plethos, erano ostili a Roma, mentre i ricchi erano filoromani o lasciavano fare, si astenevano dal resistere. Schema che non è un’in­ venzione marxista né ima proiezione di quello che accadde tra il 1940 e il 1944: si ritrova chiaramente nelle fonti, ha dalla sua parte un difenso­ re del calibro di Fustel de Coulanges,47 e si farebbe un torto alla storia se si considerassero i dettagli senza vedere l’insieme. Ma questo stesso insieme non è semplice. I notabili possono essere mossi da meri inte­ ressi di classe, ma anche da una particolare visione del mondo o filoso­ fia politica; insomma, è possibile che, in alcuni di loro, il patriottismo abbia vinto sul resto. In realtà, il conflitto sociale fu attraversato dalle scelte personali, come ha mostrato Deininger:48 alcuni membri della ricca classe gover­ nante furono antiromani per convinzione e poterono far leva sul senti­ mento popolare; altri (tra cui il giovane Polibio e suo padre) cercaro­ no di seguire una via media, cosa che forse avrebbe avuto buona riu­ scita con avversari meno congenitamente unilaterali dei romani. A questo si aggiungono rivalità tra città e leghe greche (una città di stret­ te vedute poteva essere più ostile all’Acaia che a Roma), così come conflitti tra gruppi di potere.49 Infine, nel 147 avanti Cristo, la guerra achea fu il risultato della disperazione di un popolo, questa volta, pra­ ticamente unanime.50 E così la conquista romana è avvenuta secondo due «logiche» col­ laudate, che ogni buon giocatore pratica d’istinto, inconsciamente. La prima consisteva nell’appoggiare alcuni «Stati», leghe o città, contro gli altri;51 l’Acaia di Polibio, che nel 168 avanti Cristo rifiutò di schierarsi al fianco dei persiani contro Roma, era il pilastro di questa politica.52 Non che il Senato dovesse dividere per regnare: gli bastava puntare sul fatto che alcuni avrebbero ceduto al meccanismo del celebre «dilemma del prigioniero»53 e si sarebbero schierati allora dalla sua parte. L’Ellade indipendente, con le sue città, le leghe e i re, viveva in uno stato per­

petuo di guerra di tutti contro tutti, e queste rivalità contavano almeno quanto le inimicizie tra creditori e debitori; all’epoca imperiale, la «me­ moria», ancor viva, di quel passato di divisione avrebbe fatto accettare la Pax Romana o almeno vi avrebbe fornito una giustificazione e avreb­ be avuto un peso molto più importante dei residui delle lotte sociali. Il Senato previde ugualmente una seconda logica: gli oligarchi a capo di leghe e città greche avrebbero compromesso la loro posizione politi­ ca e sociale se si fossero schierati contro il futuro vincitore, anziché col­ laborare alla sua vittoria; inoltre, temevano la minaccia sociale, costitui­ ta dal problema dei debiti. Mentre le insurrezioni popolari erano rare in epoca ellenistica, la paura dei movimenti sociali era costante.54 Forse questo spettro serviva da spauracchio. Già più di un secolo prima, poco dopo la morte di Alessandro Magno, la guerra lamiaca, insurrezione dei greci contro l’egemonia macedone, era stata una guerra del «popolo» per la «libertà» contro l’«oligarchia», secondo i termini propri di un de­ creto ateniese; «coloro che possedevano dei beni consigliavano la pace» dice Diodoro «ma i demagoghi infiammavano le masse e spingevano al­ la guerra» contro la Macedonia.55 Ora gli oligarchi giocavano la carta dell’amicizia romana; l’Acaia era «un governo borghese assoggettato a Roma»,56 scriveva il positivista Holleaux nel 1930. L’appello a una città o a una nazione nemica per battere la fazione avversa era abituale in Grecia.57 A Rodi, i cittadini ra­ gionevoli parteggiavano per Roma, mentre «gli agitatori e i malinten­ zionati» di ogni specie erano antiromani58 La bestia nera di Polibio erano i beoti, presso cui i demagoghi dilapidavano i fondi pubblici in distribuzioni destinate a sollevare il popolo a scapito dell’interesse del­ la città;59 per fortuna, Roma vinse sul loro alleato Antioco il Grande «essendo state troncate le speranze di tutti coloro che aspiravano a una riforma»; allora la giustizia potè riprendere il suo corso60 e i creditori poterono di nuovo portare in tribunale i debitori che non pagavano.61 La «collaborazione» è una delle risorse più banali della storia universa­ le, più ancora della lotta di classe; Claude Baudez mi dice che in Ame­ rica i conquistadores hanno assoggettato le società precolombiane gra­ zie alla collaborazione dei signori locali. Il fondamento del dominio ro­ mano sarà, in tutto l’impero, l’alleanza della classe dirigente imperiale con i notabili locali, a cui verrà lasciato il compito di gestire le rispetti­ ve popolazioni: «Badate alle vostre orde, noi baderemo alle nostre...». Per molti notabili, il grande problema del momento non era tanto la minaccia romana quanto la minaccia che pesava sui loro privilegi. La difesa del loro interesse di classe, pur sacrificando tutto aÌl’«amicizia» dei romani, era considerata patriottica: nonostante la sottomissione a un’egemonia straniera, si manterrà il corpo della patria, sussisterà la di­ sciplina civica e l’essenziale sarà salvo fintanto che le persone da bene

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terranno le redini e il potere non sarà nelle mani di demagoghi che lu­ singano la mobilità della massa, la cui incostanza ama il cambiamento per semplice amore del cambiamento; la massa è come le onde del ma­ re, è liquida, mobile e in balia dei venti.62 Infatti la demagogia è un caos che liquefà le città ed essa è ostile ai romani, che sono dalla parte delle persone dabbene; da qui una tragica scelta. Scrive Polibio: «Essendoci attualmente due partiti in tutti gli stati democratici,63 dei quali l’uno di­ ceva che bisognava conformarsi agli ordini scritti dei romani, l’altro [...] prevaleva sulle masse» e invocava il rispetto delle leggi ancestrali e della volontà della città; il primo partito attirava «infamia e calunnie fra la folla» che si opponeva ai romani.64 La politica del primo è nobile, quella del secondo «decorosa, entrambe comunque affidabili»,65 si vo­ leva far credere talvolta. Ma il dilemma rimaneva: bisognava salvare l’ordine civico al prezzo dell’indipendenza o fare appello ai «bei» senti­ menti antiromani, che troppo avevano a che fare con il caos popolare? Di questi due partiti, solo l’oligarchia poteva giocare la carta romana per restare al potere; «persone dabbene» e «demagoghi» potevano ugualmente prevedere che, sulla lunga durata come dicono gli econo­ misti, l’egemonia romana si sarebbe stabilita solidamente in ogni città, appoggiandosi all’oligarchia e favorendola. La previsione si doveva av­ verare. Cicerone scriveva a suo fratello, che partiva per governare l’A­ sia, che un buon governatore doveva fare in modo che non ci fosse nes­ suna sedizione nelle città, nessuna discordia, e che doveva vegliare af­ finché le città seguissero i consigli della gente dabbene,66 degli optimates, un regime che lui stesso sosteneva a Roma contro il partito dei populares. Certo, l’oligarchia senatoriale aveva una simpatia naturale per i suoi simili, ma l’egemonia romana non è di quelle che investono in un’i­ deologia o in una religione; il proselitismo non è il suo forte, non segue princìpi teorici, procede empiricamente. Tanto che, per opportunismo, le capiterà talvolta di istigare la massa contro la classe ricca, perché ama gli oligarchi ma ancor più la sua propria vittoria, come dice Briscoe.67 Ma alla fine, quando l’unica preoccupazione è dominare, è più sicu­ ro costruire su un gruppo di privilegiati, su delle rocce in un terreno sabbioso. Roma, affermerà Pausania, «pose fine ai regimi democratici, fissò le magistrature in funzione del censo»;68 infatti si constata69che, ogni volta che interviene in una città greca, stabilisce un censo per l’ac­ cesso ai Senati delle città e rinforza il ruolo dei consigli a scapito delle assemblee. Oltre a questi interventi, l’oligarchia si pone da sola, un po’ ovunque, sotto l’ala protettrice di Roma; grazie alla potente amicizia romana, essa costituisce nella bassa epoca ellenistica quello che l’auto­ re di queste righe ha creduto di poter designare come un regime di no­ tabili, che durerà per i lunghi secoli dell’epoca imperiale: il potere del consiglio vince su quello dell’assemblea, consiglio che è un ordo alla ro­ 152

in d en titi greca con e contro Roma

mana,70 perché il reclutamento dei consiglieri è su base censuaria, i ma­ gistrati si reclutano nello stesso ambiente dei notabili e dei consiglieri, e alla fine le magistrature diventano delle liturgie, con il nuovo eletto che paga le spese della sua funzione:71 il legame tra nobiltà ed evergetismo è la caratteristica di questo regime secolare. C’è di più: Roma fa regnare il suo ordine. Nel 144, un proconsole ro­ mano della Macedonia intervenne fuori della sua provincia in una città della Grecia dove si erano generati gravi disordini: erano stati bruciati gli archivi (e quindi i contratti), e gli insorti avevano proposto nuove leggi, arrivando così «a non rispettare i contratti e ad abolire 1 debiti»; il proconsole fece condannare i capi della rivolta e ristabilì lo statu quo?2 L’insurrezione era rivolta anche contro Roma? Niente lo prova, ma Roma non può accettare che ci siano disordini sotto il suo dominio. Cicerone dà una chiave di lettura di questa politica: un’oligarchia ri­ spetta l’ordine stabilito, e questo permette ai dominatori stranieri di governare tranquillamente. Il Senato si appoggia dunque sulla classe privilegiata, mentre la classe inferiore avanza rivendicazioni e non ha nessun interesse a cui sacrificare il patriottismo. All incirca centocmquant’anni dopo la lettera di Cicerone, Plinio il Giovane scrive a un go­ vernatore della Betica e, con la scusa di congratularsi per il suo opera­ to, come vuole la cortesia tra grandi personaggi, gli rivolge parole di biasimo (perché, sotto un’apparente bonomia, le Lettere di Plinio sono in realtà un manuale esemplare del perfetto senatore): questo governa­ tore aveva lodevolmente trattato i suoi amministrati con umanità, ma aveva dimenticato che la componente principale di questa virtù è il ri­ spetto, e che bisogna rispettare le disuguaglianze tra le classi della so­ cietà e non livellarle.73 Roma favorirà sempre i privilegiati. Ora, se consideriamo non più gli oligarchi né i calcoli politici, ma gli avvenimenti e l’atteggiamento delle popolazioni, constatiamo che 1 gre­ co-macedoni forse sono stati quelli che hanno resistito più tenacemen­ te all’egemonia romana; la tenacia dell’identità culturale ellenica tro­ verà uguali solo nell’identità religiosa giudaica. Roma, divenuta signora del Mediterraneo occidentale, desiderava anche avere un ruolo (da protagonista, beninteso) sulla «vera» scena internazionale;74 intervenendo nel 198 avanti Cristo in Grecia e m Oriente, si invischiò in centodieci anni di conflitti in cui la questione sociale aveva un peso notevole. Quando nel 171 avanti Cristo la Mace­ donia si rivoltò di nuovo contro il protettorato romano, Perseo non mancò di sfruttare il malessere sociale preesistente75 o, se vogliamo cre­ dere alla propaganda romana 76 di suscitarlo e di provocare «attraverso l’intera Grecia disordini e dissensi, innovazioni rivoluzionarie [neoterismoi, res rtovae] e il rovesciamento del potere stabilito». E, pur non po­ tendosi battere al fianco di Perseo, le masse greche si infiammarono 153

L’impero greco-romano

per questo grande avversario di Roma; all’annuncio dei successi iniziali della Macedonia, «il favore delle masse verso Perseo arse come fuoco, mentre prima i più lo tenevano nascosto», perché la massa disconosce­ va «i vantaggi venuti dal dominio dei romani»; e, su questo, Polibio ironizza con superiorità.77 Cattiva fede e «politichese» sono i sintomi abituali di periodi bui. Per chiudere con quel secolo imbarazzante e dilaniato, soffermiamoci su un fatto sintomatico, lo stile diplomatico nelle relazioni tra gli elleni e il potere romano: attraverso il mondo greco, decreti, trattati, procla­ mazioni o dediche emessi dai re vassalli e dalle città ridotte in clientela esaltano immancabilmente l’«amicizia dei romani».78 Una parola, «ami­ cizia», che trovava fondamento in un trattato, in cui figurava a chiare lettere; la Bibbia79 ci informa che, negli anni intorno al 160 avanti Cri­ sto, il partito degli ebrei pietisti e antielleni, oppressi dai re greci di Si­ ria, inviò un’ambasceria a Roma «per stringere amicizia e alleanza», e che riferì al Senato: «Ci hanno inviati a voi per concludere con voi al­ leanza e amicizia e per essere iscritti tra i vostri alleati e amici». Così ac­ cadde. E infatti i benefattori romani non sono praticamente mai quali­ ficati come filoelleni, cosa che sarebbe parsa naturale, perché avrebbe­ ro diviso con altre potenze questo titolo tanto diffuso quanto apprezza­ to. In ringraziamento alla decisione romana che sanzionava la loro ami­ cizia, le città o confederazioni innalzavano degli ex voto nel Campido­ glio di Roma, e questo mostra bene la loro soggezione, perché «se la Svizzera avesse concluso un trattato con Napoleone, non gli avrebbe comunque innalzato una statua» scrive Wilamowitz.80 Verso il 96 avanti Cristo, un governatore dell’Asia, Quinto Mucio Scevola, si comportò onestamente invece di lasciare che i pubblicani romani depredassero i suoi amministrati. Allora «i popoli, le città, le et­ nie e gli individui che in Asia erano iscritti tra gli amici dei romani», perché tale era il loro appellativo, si riunirono per fondare, in onore di quest’uomo onesto, dei giochi che da lui presero il nome; il gruppo de­ gli amici di Roma manifestava ovunque la sua esistenza con gesti pub­ blici, a Smirne, a Pergamo, a Efeso e perfino a Olimpia.81 L’amicizia ro­ mana era così ribadita fino alla nausea. Per citare un verso sarcastico di Corneille, il re Prusia, nel Ntcomede, non smette di ritenere «la massi­ ma felicità l’amicizia dei romani»; Corneille non immaginava che le sue parole corrispondessero perfettamente alla situazione reale: in un’iscri­ zione di Priene, si vede un sacerdote ionio di quel re e di suo figlio of­ frire un sacrificio alla salute «di ioni e romani».82 Al tempo dell’impero sovietico, in ogni democrazia popolare, discorsi e film insistevano in­ stancabilmente sull’amicizia «incondizionata» tra il popolo ceco o un­ gherese e il grande popolo sovietico, il benefattore. A volte un docu­ mento conservatosi per pura casualità83 rompe l’incanto del «politiche­ 154

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se» e ci fa sentire la lucidità e l’amarezza con cui, in confidenza, gli «amici» di Roma parlavano tra loro della tirannia dei romani. E così, un bel giorno, Atene con Aristione si solleverà contro Roma. Quando i greci non esaltano apertamente l’amicizia con Roma, pro­ clamano la loro «volontà di compiacere»84 quei romani che sono i «be­ nefattori di tutti»85 e di cui, a Delfi, uno storiografo venne a fare un elogio in una pubblica lettura.86 Beneficenza totale: i romani sono be­ nefattori incondizionati, per così dire. In parte, la continua ripetizione di questo concetto era a uso interno (le popolazioni locali imparavano che la fazione filoromana era al potere e che i romani l’avrebbero man­ tenuta tale). Più in generale, il fatto di continuare a ribadire questa ami­ cizia, come se fosse una passione incontenibile, completava il concetto esprimendo ciò che la parola ugualitaria «amicizia» non diceva alla let­ tera: che il partito al potere prometteva con solennità, di fronte al cielo, di obbedire incondizionatamente agli «amici» così utili ai suoi interessi e ai suoi princìpi. Fingere che la dipendenza fosse un’amicizia serviva anche a salvare l’onore; nelle sue relazioni con il mondo greco, scrive Ferrary,87 Roma aveva dovuto adottare il vocabolario ugualitario delle relazioni interna­ zionali, imponendo al tempo stesso il suo ideale gerarchico di un rap­ porto di clientela. L’onore voleva anche che si fingesse di conformarsi volontariamente alle decisioni romane; è deliberatamente che una città simile a cento altre, Magnesia al Meandro, «preferisce in ogni occasio­ ne conformarsi a quanto scrivono i romani, i benefattori di tutti»; nes­ suno ignora che i romani «presiedono alla concordia degli elleni». Gli arbitri dei processi rendono le loro sentenze solo «a condizione che non ci sia nulla di contrario ai romani» o «al decreto del Senato»88. Ma, oltre alla legalità, lo slogan dell’amicizia suggerisce anche l’indipenden­ za greca: Roma e la Grecia sono due potenze amiche, ma distinte. L’autorità dei senatori faceva sì che spesso una città «avesse bisogno di inviare un’ambasciata a Roma», una missione «difficile e costosa» i cui membri «incontravano i primi dei romani e ne guadagnavano il fa­ vore rendendo loro un omaggio quotidiano»,89 facendo loro visita co­ me i clienti romani facevano ogni mattina con il loro patrono, un co­ stume locale di cui il greco Luciano parlerà ancora con amarezza tre secoli più tardi.90 Accanto alla clientela romana, ecco l’evergetismo el­ lenico. Ovunque nel mondo greco si potevano trovare uomini d’affari romani, che venivano trattati come una categoria a parte; quando un benefattore offriva un banchetto alla sua città, invitava sempre, oltre ai suoi concittadini e ai residenti greci, «i romani che soggiornavano nella città». Oltre all’amicizia per Roma, al riguardo per qualsiasi cittadino ro­ mano e alla clientela dei greci presso i loro signori romani, un’altra 155

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realtà del tempo tradisce un astio umiliato: quella di Polibio, la cui buona coscienza non è integra. In occasione della guerra del 171 avanti Cristo, Poligarchia di Rodi, che pure era amica di Roma, si era compro­ messa con la Macedonia, sotto la spinta di due consiglieri che erano an­ tiromani per convinzione personale e che arrivarono a scambiare una corrispondenza in codice con Perseo; dopo la disfatta, i loro compa­ trioti cercarono di scagionarsi condannandoli a morte e gli infelici fece­ ro quanto poterono, senza successo, per scampare alla loro sorte. Poli­ bio, per nulla dispiaciuto di dare una lezione di coraggio a scapito di questi «resistenti», espone per filo e per segno lungo diverse pagine91 i loro vani sforzi e il suo disprezzo per la loro vigliaccheria, scusandosi con il lettore per la lunga digressione. Ciò che il vecchio storico non perdona loro è quella che era stata la sua stessa politica a quei tempi: meno risoluta e quasi altrettanto pietosa. Al consiglio federale dell’Acaia, altra amica di Roma, il giovane Polibio aveva spinto la lega a non schie­ rarsi né da una parte né dall’altra,92 cosa che il Senato non aveva per­ donato: lo storico fu costretto a partire per un esilio di venticinque an­ ni a Roma. Qui proseguì l’epopea della sua vita nel ruolo di «tecnico internazionale» al servizio dei vincitori, come avrebbero fatto in segui­ to molti suoi compatrioti, e laggiù qualcosa avrebbe cambiato il corso della sua esistenza: il fascino che esercitò su di lui lo spettacolo della potenza romana e della più solida delle oligarchie. Tuttavia non si face­ va illusioni sui suoi nuovi «datori di lavoro». Considerava la popolazio­ ne romana come una massa di ottusi, incapaci di cogliere la bellezza di un concorso musicale greco; lui stesso apparteneva alla cerchia colta degli Scipioni, questi acculturati rimasti un po’ dei massacratori; rac­ contò ai suoi compatrioti di come alla presa di Cartagine, che gli aveva resistito troppo a lungo, Scipione l’Africano aveva ordinato alle sue truppe di uccidere quanti ancora fossero vivi in città; l’ordine fu ese­ guito così fedelmente che si vedevano cani tagliati in due; e questo con­ tinua a essere il costume romano, precisò.93 Dopo il politichese, dopo la coscienza divisa, arriviamo al problema degli intellettuali. Nell’88 avanti Cristo scoppia la più sanguinosa delle insurrezioni contro l’egemonia e lo sfruttamento finanziario romano; l’intera Asia, l’intera Grecia, o quasi, si alleano con Mitridate. Persino ad Atene ha luogo un episodio che Posidonio94 riferisce a modo suo: c’era un certo Atenione, di origine servile, nato da una schiava egizia­ na, secondo il nostro autore; suo padre l’aveva fatto iscrivere con l’in­ ganno al registro dei cittadini ateniesi ed egli si era arricchito insegnan­ do la filosofia peripatetica.95 A quell’epoca, talvolta, i filosofi si occupa­ vano di politica.96 Fu questo Atenione a infiammare gli spiriti ad Atene e a far pendere la città dalla parte di Mitridate: divenuto capo, si cir­ condò di satelliti, sfoggiò il fasto grottesco di un tiranno e fece regnare 156

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il terrore tra «i benpensanti»; rese impossibile la «concordia»,97 «sop­ presse i debiti e ristabilì la democrazia». In queste pagine lo stile di Posidonio non è più quello della storio­ grafia, ma della satira e dell’invettiva oratoria;98 si fatica a riconoscervi la penna di un pensatore. Va da sé che lo schema «classe contro classe» del nostro autore è manicheo, e le scelte individuali che fecero gli ate­ niesi non sempre dovettero corrispondere a tale schema. Se Posidonio, dal canto suo, sia stato partigiano o avversario di Roma lo ignoriamo; è comunque chiaro che detestava soprattutto la «democrazia», che era antiromana. È prudente non attribuire troppa lucidità ai pensatori: essi infatti possono essere resi miopi dalle loro teorie, dalle loro fobie o ad­ dirittura dai loro interessi di classe. Un filosofo poteva tranquillamente non vedere le vere dimensioni di ciò che aveva sotto gli occhi o che noi abbiamo sotto i nostri: la conquista romana. In questo testo, Posidonio lascia trasparire che la sua equazione personale era una fobia dell indi­ sciplina interiore e, di conseguenza, del disordine pubblico, che del re­ sto era antiromano e minacciava l’oligarchia dei notabili; non stabilirò se la sua motivazione ultima fosse la fobia dottrinale ο 1 interesse di classe. Fu ideologo o notabile? Poco importa. Si è preteso che Posidonio avesse naturalmente assimilato l’impero romano al cosmo stoico: questa supposizione non è giustificata da al­ cun testo100 ed è filosoficamente poco plausibile (il cosmo stoico è com­ posto dal Fuoco Artefice, dai quattro elementi e dagli individui divini e umani, non da città e imperi; riguarda la filosofia della natura e non la geopolitica). Per avanzare a mia volta un ipotesi, Posidonio non era realmente filoromano, ma politicamente miope: non vedeva più in là del suo moralismo del buon ordine, fosse anche romano, e del suo am­ bito sociale. Essere un cittadino disciplinato e non un demagogo signi­ ficava essere padrone di se stesso, obbedire alla ragione stoica e non al­ le passioni. Se Posidonio fosse stato un pensatore puro, avrebbe potu­ to, in nome di quello stesso ideale di dominio delle passioni, condanna­ re tanto l’imperialismo romano (a cui saranno ostili lo stoico Epitteto e Dione di Prusa) quanto la demagogia; ma il suo orizzonte era quello delle persone dabbene. Abbandoniamo il periodo della conquista romana. In epoca impe­ riale non ci saranno più demagoghi; i conflitti sociali passeranno in se­ condo piano, dietro al problema dell’autorità dei notabili, considerati dall’imperatore i responsabili della disciplina delle masse nelle loro città. Non si tratterà più di mettere in mostra opinioni sediziose. Tut­ tavia, i romani non saranno mai amati. Le due tendenze tra cui si era divisa l’Ellade persisteranno fino alla fine: la «collaborazione» diven­ terà lealtà verso un imperatore che si riteneva dominasse al di sopra delle differenze nazionali, e la fierezza dell’identità sarà invece il senti157

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mento della differenza e della nostalgia dell’antica indipendenza. Dio­ ne di Prusa ne ha approfittato per scrivere il suo Discorso agli abitanti di Rodi. In compenso, non avremo più l’occasione, sotto l’impero, di sentire scoppi d’ira contro i filosofi demagoghi; ormai gli intellettuali condivi­ devano le posizioni politiche della classe superiore, dove reclutavano il loro pubblico e alla quale appartenevano, quando non erano al suo servizio. Con una sola eccezione, la setta cinica, i cui predicatori po­ polari ed estremisti suscitavano indignazione.101 Ma, in pieno «secolo d ’oro», alla fine del regno di Antonino Pio, accadde una cosa strava­ gante: un pensatore greco cercò di persuadere gli elleni a prendere le armi contro i romani;102 si chiamava Peregrino Proteo e apparteneva alla setta cinica, III Questa chiamata alle armi sarebbe stata meno singolare nel 68-69 dopo Cristo, tre o quattro generazioni prima, durante il terribile «anno dei quattro imperatori», quando l’impero era crollato sul Reno, dove celti e batavi volevano creare uno Stato moderno che chiamavano l’«impero dei Galli» dopo che il loro capo aveva preso il titolo di Cesare; quando anche la Giudea era insorta; quando l’Àcaia, a cui Nerone aveva garan­ tito una sorta di indipendenza, non aveva più un governatore ed era tormentata o minacciata da un falso Nerone. Peregrino avrebbe potuto essere il profeta di un’insurrezione, quello che Maricco103 era stato in Gallia, o Giovanni di Giscala in Giudea. Ma, anche in questa data, la chiamata alle armi resta sintomatica. Ce lo testimonia un uomo che non ha niente del rivoltoso: Plutarco. Ogni atteggiamento aspro ferisce la sua delicatezza e Demostene lo irrita.104 Del resto è uno specialista delle cose romane, proprio come noi abbia­ mo gli orientalisti; leggeva e citava Cicerone e le Storie di Tacito. Cio­ nonostante, l’autore delle Vite parallele si colloca all’opposto di un Va­ lerio Massimo che a sua volta mette sistematicamente in parallelo aned­ doti romani e aneddoti greci; in questo, il moralista latino non fa che intridersi della vera cultura, quella greca, come facevano i suoi compa­ trioti, mentre Plutarco è un originale, un isolato che fa un’opera da eru­ dito. Nei suoi Consigli ai politici, che potevano interessare solo lettori greci, usa una dotta civetteria nel citare alternativamente un’autorità greca e una romana: Omero, i Gracchi, Temistocle, Scipione, Alcibia­ de, Pompeo... Per lui, l’Ellade e Roma sono due civiltà uguali, ciascu­ na delle quali ha i suoi grandi uomini105 e in cui si ritrova la medesima fondamentale umanità; due civiltà simili che hanno sostanzialmente gli

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stessi valori, perché esiste una sola verità, ma che rimangono distinte; 1 romani che conosce e frequenta Plutarco sono per lui amici stranieri. Ma quando si tratta dell’indipendenza greca, Plutarco si trasfigura, fino a mostrarsi indulgente verso Nerone che, rinnovando «ai giorni nostri» il gesto di Flaminino, «proclamò la libertà della Grecia», mo­ tivo per cui gli deve essere stato perdonato molto nell aldilà, dove 1 cat­ tivi vengono puniti prima della reincarnazione: stando a quanto rac­ conta il mito inventato da Plutarco,108 Nerone si sarebbe remcarnato in una vipera (animale che divora la madre alla nascita) quando «una grande luce brillò improvvisa e si udì una voce che ordino di assegnare quest’anima a una specie più dolce, perché, aggiungeva la voce, Nero­ ne aveva espiato i crimini commessi e gli dèi stessi gli dovevano qual­ che favore, poiché aveva dato la libertà al popolo migliore e a loro piu caro che fu nel suo impero».109 Il biografo di Plutarco non può dimenticare che il.moralista di Lheronea aveva appena vent’anni quando arrivò l’incredibile notizia: 1 im­ peratore aveva restituito l’indipendenza all’Acaia. Si credette di torna­ re indietro di quattro secoli, ai tempi della Grecia prima della battaglia di Cheronea.110 Il giovane non fu l’unico a commuoversi. Apollonio di Tiana (o il suo biografo, chiunque fosse) disprezzava Nerone, come tut­ ti; ma, quando il suo successore Vespasiano abolì 1 indipendenza dell’Acaia, scrisse all’imperatore che «rifacendo schiava la Grecia si era creduto più forte di Serse e in realtà era arrivato più in basso di Nero­ ne» 111 E si è visto quale fosse l’indulgenza di Pausania nei confronti del liberatore della Grecia. Al di là del tacito consenso rassegnato o in­ teressato per la Pax Romana, i greci provavano solo rimpianto per un’indipendenza che non era stata acquisita a prezzo di un insurrezio­ ne e dell’anarchia. 1 La loro nostalgia per l’indipendenza è fondata su un identità cultu­ rale intatta che si ritiene superiore. Oppongono e opporranno sempre la Grecia a Roma, salvo l’eccezione che abbiamo visto, quella dei fun­ zionari «imperiali»; due esempi presi tra molti potrebbero essere queUi di Sesto Empirico112 e Galeno; quest’ultimo, come probabilmente la maggior parte dei suoi contemporanei, ha tre modi di dividere il mon­ do· ci sono greci e barbari (i cereali sono il cibo principale di tutti ι gre­ ci e di quasi tutti i barbari); ci sono i greci e «quelli che, barbari di na­ scita, tuttavia imitano il modo di vita ellenico»; e infine ci sono «1 ro­ mani e i popoli che obbediscono loro».113 Libanio dira la stessa cosa dopo sei secoli di egemonia romana, poi di impero unificato: rivolgen­ dosi; è vero, all’imperatore in persona per chiedergli che le leggi impe­ riali proteggano tutti i cittadini, anche i pagani, dice di approvare cal­ damente l’impero che ha dato a tutti il diritto di cittadinanza; ma nella medesima supplica «i romani» restano «i romani». Alla stessa epoca, 159

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Prudenzio, Ausonio o Rutilio Namaziano non avrebbero pensato di opporre gli spagnoli o i galli ai romani, perché loro stessi, cosa com­ prensibile, si sentivano romani: la Gallia o la Spagna si sono «civilizza­ te» a contatto con Roma, hanno cambiato cultura, mentre la Grecia era stata e restava «la civiltà», ai propri occhi e agli occhi dei romani stessi, che provavano nei confronti dell’Ellade un complesso ambivalente di superiorità mista a inferiorità.115 I galli finiranno per ammettere di far parte dell’impero, mentre i greci continueranno sino alla fine a sentirsi sottomessi ai romani. In caso persistesse il dubbio, basterebbe leggere lo scrittore che pas­ sa come il grande partigiano dell’egemonia romana, Elio Aristide, au­ tore di un celebre elogio In gloria di Roma. Leggiamo piuttosto il suo interminabile Discorso alle città sulla concordia in cui biasima Pergamo, Smirne ed Efeso per le loro rivalità, che qualifica come battaglie per un’ombra.116 Certo, dice, siamo «fedeli e favorevoli»117 ai nostri signori e benefattori, i romani, ma «quale bambino, quale anziano è tanto pri­ vo di ragione da ignorare quale sia la nostra presente condizione, che è - grazie al cielo - la legge regnante: un’unica città, la prima e la più grande, ha l’intera terra sotto la sua autorità, un’unica famiglia decreta le leggi, e dei governatori ci arrivano legalmente ogni anno, i quali han­ no il compito di fare, sia in piccolo che in grande, tutto ciò che ritengo­ no essere il meglio».118 Ritroveremo più avanti questa spina nel fianco per la fierezza greca: il governatore romano della provincia. Malgrado il linguaggio prudente dell’oratore, si vede bene, scrive Boulanger,119 che il lealismo di Aristide è nutrito di rassegnazione. I romani conoscevano talmente bene la refrattarietà dell’identità el­ lenica, l’unica vera rivale rimasta, che non ci fu mai un imperatore di origine greca. Sembra che nessuno abbia notato che, da Augusto a Teo­ dosio, su centotrenta tra imperatori e usurpatori, l’origine di un centi­ naio dei quali è conosciuta o è rintracciabile, tutti siano «romani» e nessuno greco, fatta eccezione per uno o due usurpatori di età tarda, il cui caso resta dubbio;120 Giuliano si dice elleno per cultura e religione, ma romano e originario del medio Danubio per discendenza familia­ re:121 la seconda dinastia Flavia proveniva dall’Illiria, come è risaputo. Lo stesso divieto valeva per l’Egitto spingendosi fino all’impossibile: nessun senatore era di origine propriamente egiziana (se non alessan­ drina). Era l’effetto di una legge non scritta: per diventare imperatore a Roma, era meglio nascere in Spagna, in Africa, in Pannonia, in Arabia o in Siria piuttosto che in Grecia; i primi erano solo antichi barbari, erano come cera vergine che aveva potuto ricevere l’impronta romana, mentre i greci erano rimasti greci. Roma confermava così la sua voca­ zione esclusiva al comando; allo stesso modo, imponeva il latino come lingua del diritto (fino a Giustiniano) obbligando i giovani greci ambi­ 160

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ziosi a impararlo per poter diventare funzionari.122 Dunque, i greci nel­ l’impero romano erano tacitamente considerati come allogeni. Gli elleni, comunque, si ritenevano non meno superiori, ed ecco per­ ché la loro identità è rimasta irriducibile. Eppure dovettero riconosce­ re la loro sconfitta. Elio Aristide, il cui discorso fu astuto, si umilio di fronte al vincitore meno di quanto si pensi: cercò di far credere ai suoi uditori romani che quella vittoria era stata senza merito, che i loro avi avevano beneficiato di una scoperta recente, quella dell arte di gover­ nare, di cui i greci non disponevano ancora, ma che se 1 avessero cono­ sciuta, ne avrebbero fatto un uso migliore, perché più intelligenti di tutti gli altri popoli.123 .. . , Una rivendicazione meno pietosa fu quella di non attribuire la con­ quista romana alle virtù o ai talenti, ma a un vizio, la cupidigia, che e per sua natura insaziabile. Anche Dione di Prusa si era trovato un gior­ no davanti a un uditorio romano, e cosa aveva detto? Che il furore di accumulare possedimenti li avrebbe fatti perdere, perché senza la virtù non vi è autentica egemonia. Si riconosce qui il linguaggio coraggioso del Discorso agli abitanti di Rodi. La conquista della Dacia da parte di Traiano, guerra tra romani e geti che secondo Epitteto nasceva dall 1gnoranza del vero Bene, riaccese forse l’animosità greca contro i impe­ rialismo romano; dopo aver visitato le sponde del Danubio m quel pe­ riodo, Dione scrisse di avervi visto «un altro popolo che combatteva per il dominio e il potere».125 Mezzo secolo più tardi, Pausama loderà Adriano e Antonino per non aver mai fatto guerre di conquista. Lun­ gi dall’essere propria dei saggi o dei capi politici, la stigmatizzazione della cupidigia romana doveva essere largamente condivisa; il risenti­ mento del vinto non è circoscritto all’élite pensante e sarebbe sorpren­ dente che anche tra il popolo non si fosse diffusa una timorosa repul­ sione dei romani. . . A un’identità vinta non resta che rimanere se stessa, sforzandosi di ignorare quella del vincitore. Nei confronti della lingua e della lettera­ tura latina, i greci hanno generalmente avuto quell’atteggiamento di ignoranza e indifferenza che ci è ben noto.127 Se qualche «tecnico inter­ nazionale» ne avesse assimilato anche solo una briciola, se ne sarebbe liberato con sdegno sarcastico. Cicerone? Questo oratore si sviluppa in lunghezza, mentre Demostene, «il nostro compatriota», sale tutto drit­ to, ma «è difficile giudicare, per noi greci».1281 grandi uomini della sto­ ria romana non sono meno superbamente ignorati, «poiché 1 greci am­ mirano solo i loro».129 Questo peccato veniale era tanto conosciuto da essere imitato: Eliano, che è un puro romano nativo di Palestnna, ma che ha scelto di scrivere in greco, si scusa in modo divertente con 1 suoi lettori di citare talvolta un fatto romano nelle sue opere. I greci sembravano addirittura dimenticare l’esistenza di questi stra­ 161

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in d en titi greca con e contro Roma

nieri e non pensare che a se stessi; il loro mondo si divideva in due, tra greci e barbari,131 e, in cuor loro, includevano Roma tra i barbari, cosa risaputa nell’ Urbs.132 Tuttavia non ignoravano che Roma e Cartagine, finché era rimasta in piedi, erano società politicamente e culturalmente avanzate, come la loro.133 Quando uno scrittore greco divideva l’uma­ nità tra elleni e barbari, non poneva necessariamente i romani nel se­ condo gruppo: non pensava neppure a loro e pronunciava il termine «barbari» in modo del tutto innocente. Lo stesso accadeva quando i greci si rivolgevano ai romani: in una lettera al governatore della pro­ vincia, gli abitanti di Efeso vantavano la celebrità del loro Artemisio, che era onorato non solo nella «sua propria patria», ma anche tra i gre­ ci e i barbari, presso tutti gli uomini; anche san Paolo con queste paro­ le intende indicare l’intera umanità quando scrive, nella sua Lettera ai romani, «sono in debito versi i greci come verso i barbari, verso i dotti come verso gli ignoranti».134 Tuttavia, questa opposizione qualche vol­ ta è meno innocente:135 i barbari sono un insieme confuso in cui si può evitare di fare distinzioni, ma anche distinguere i romani senza nomi­ narli, o nominandoli espressamente: Apollonio di Tiana (o il suo agiografo), la cui ostilità a Roma è nota, lo fa una volta.136 Al di fuori dalla Grecia, a Pausania non interessano che le barbarie; la storia di Fedra e di Ippolito è nota «anche a ogni barbaro che conosca la lingua greca» scrive.137 Nessun greco ignorava la diffusione internazionale della sua lingua;138 ed era anche risaputo che i romani della buona società aveva­ no il dovere di essere istruiti in entrambe le lingue, utraque lingua docti, e che capitava loro di usare espressioni idiomatiche greche nelle occa­ sioni familiari.1391 romani erano dei semplici imitatori. Quando un gre­ co si rivolgeva a un dirigente romano che era un discepolo o un amico, gli capitava di parlargli della servitù in cui era caduto il suo paese, e si mostrava pronto ad ammettere per deferenza che era «la più giusta del­ le servitù».140 Tuttavia capitava anche che sorvolasse su questo punto: «Vi prendete cura dei greci come dei vostri padri adottivi» si legge nel­ l’elogio In gloria di Roma di Aristide, di cui non bisogna ignorare la fie­ rezza. Ma lo stesso Cicerone non aveva avuto un parere diverso; il «sor­ teggio», scriveva a suo fratello, governatore d’Asia, «non ti ha fatto go­ vernare presso gli africani, gli spagnoli o i galli, razze inumane e barba­ re, ma in una nazione dove risiede Vhumanitas e dove si considera che Yhumanitas sia arrivata ad altri uomini ancora».141 Il candido egocentrismo greco raggiunge l’apice con Filone di Ales­ sandria, ebreo ellenizzato e partigiano dei «buoni» imperatori; Augu­ sto, scrive, «ha umanizzato e armonizzato nazioni che erano tutte ino­ spitali e feroci, ha ingrandito l’Ellade con molte altre Elladi, ha elleniz­ zato il mondo barbaro nei settori dove era necessario farlo»:142 allusio­ ne alla sottomissione e a quella che noi chiameremmo la romanizzazio-

ne delle regioni dell’Illiria e del Danubio. Ellenizzare e civilizzare sono sinonimi, poiché la civiltà greca è «la civiltà». I due sensi del termine «barbaro» convergono qui: poiché il barbaro era un non civilizzato, quando Roma lo civilizza lo ellenizza perché il barbaro era un non gre­ co, e, una volta civilizzato, diventa greco. Filone era al tempo stesso fi­ loromano ed elleno: la sottomissione all’impero romano consisteva per lui nel mettere il più forte al servizio dell’ellenismo. Del resto, tutto ciò che i barbari, romani compresi, potevano avere di civile era sostanzialmente greco. Il diritto romano, per esempio; ver­ so il 253 dopo Cristo, Gregorio Taumaturgo si immerge nello studio del diritto, «di queste leggi ammirevoli che guidano attualmente gli af­ fari di tutti gli uomini sottomessi al potere dei romani»; queste leggi, scrive a Origene, «sono sagge in sé, precise, sfumate, meravigliose, in una parola assolutamente greche».1431 greci non pensano di poter fare maggiore onore ai romani che trattarli da greci, provare storicamente che Roma era una fondazione greca e che il latino era un dialetto greco, come fa un ammiratore dei romani, Dionigi di Alicarnasso, che scorge l’azione della Provvidenza nella storia romana e che scrive all’attenzio­ ne dei suoi lontani compatrioti (se no, perché darebbe precisazioni geografiche sulle borgate nei dintorni di Roma?). Tre secoli più tardi, l’imperatore Giuliano la pensa come Dionigi e an, che come Filone: ai suoi occhi le città romane sono greche; nel 362 dopo Cristo scrive che Apollo, il quale divide il trono con Helios, «con le co­ lonie greche incivilì la maggior parte del mondo e ne facilitò la sottomis­ sione ai romani. Infatti, [...] i romani sono di stirpe ellenica».144 Qualche mese più tardi, nel marzo del 363, Libanio, venuto in ambasciata a pro­ nunciare il panegirico dell’imperatore, potrà dire arditamente a Giulia­ no: «Amo opporre i greci ai barbari, e i discendenti di Enea non sapreb­ bero rimproverarmelo»:145 è negare ai romani la loro qualità di romani e sottrarli alla barbarie solo ellenizzandoli. È vero che, per altri oltre Liba­ nio, attribuire a Roma un’origine greca poteva anche essere il modo non di glorificarla, ma di rivendicare la sua gloria per darla ai greci.146 In compenso, quando i romani sono solo romani, gli uomini di cultu­ ra non se ne curano. Massimo da Tiro ignora la loro esistenza. La mira­ bile Contro Celso di Origene cita gli antichi egiziani e assiri e mai i ro­ mani,147 meno per rifiuto, credo, che per indifferenza e ignoranza; la cultura latina non si rifà a un passato venerabile e avrebbe prodotto, nella migliore delle ipotesi, un doppione di quella ellenica; e poi la cul­ tura cristiana continuava a essere prima di tutto ellenofona. I romani non sono meno assenti dalle opere letterarie; l’intrigo dei romanzi greci è situato nella Grecia indipendente dei secoli classici148 o in un passato indeterminato; nessun romano vi compare mai, mentre ogni sorta di stranieri, siriani, egiziani, vi figurano sotto una luce generalmente favo-

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revole; i romani non sono proprio degli stranieri come gli altri e non ri­ svegliano idee piacevoli.149 La Biblioteca di Apollodoro mette insieme tutti i miti possibili, ma non conosce quello di Enea (figura minore nelYlliade) e delle origini troiane di Roma; «o il suo autore ignorava l’esi­ stenza di Roma, o aveva deliberatamente deciso di ignorarla» scrive Frazer.150 L’aveva deciso perché la mitologia era appannaggio dei greci, e i romani non dovevano immischiarsene? O perché i miti si svolgono in il­ io tempore, in una temporalità incompatibile con la saga troiana che si affaccia su tempi storici? Ignoranza patriottica o imperativo narrativo? Si esita ancor di più ad attribuire a una reazione dell’identità greca quelle mode culturali che danno una fisionomia all’epoca imperiale: at­ ticismo, archeomania, rinascita dei dialetti nell’epigrafia, successo delle leggende sulle origini delle città.151 L’atticismo,152 di cui Dione di Prusa è un rappresentante di spicco, consisteva in un ritorno al dialetto attico classico, o perlomeno nell’elaborazione di una lingua letteraria più ele­ gante, epurata dai neologismi spicci e incolori di Polibio o di Diodo­ ro.153 Sono segni di pienezza, di prosperità, più che reazioni difensive; a partire dal II secolo dopo Cristo, l’Asia Minore è una delle regioni più ricche dell’impero, con altri due centri culturali, la Siria e la Tunisia. A credere al grande Nilsson, «l’autocoscienza ellenica trovò nell’atticismo un rifugio contro l’onnipotenza romana».154 Ma non credo che questa sia la vera ragione di tale purismo. Certo, è possibile che per alcuni l’im­ piego corretto dell’ottativo nelle protasi condizionali e la caccia alle pa­ role latine in greco siano state reazioni patriottiche, così come in france­ se il congiuntivo imperfetto e la condanna agli anglicismi erano per al­ cuni altrettante difese contro l’«imperialismo americano». Ma altri era­ no e sono mossi dal semplice amore per la lingua; e facevano la guerra ai neologismi tanto quanto ai latinismi. L’imperatore Giuliano, patriota imperiale se ce ne furono, proscriveva i latinismi nel greco delle sue opere155 solo per amore di una lingua tradizionale e omogenea. La ragione più generale di questo purismo era l’atteggiamento dei greci di fronte al proprio passato; la cultura greca di epoca imperiale era un neoclassicismo, un accademismo che aveva sacralizzato il secolo di Pericle e i suoi scrittori come modello e come vera identità; il rifiuto per la romanità non c’entra per niente, e infatti la sacralizzazione dei classici era cominciata ben prima della conquista romana. Se c’è un atticista è proprio Ardano, imitatore di Senofonte, che è un «tecnico in­ ternazionale» e un console che dedica il suo Periplo del Ponto Eusino all’imperatore. Inoltre, con la seconda sofistica, la vita letteraria greca continuerà a dare il tono alle lettere latine; Apuleio e Tertulliano saran­ no in fondo dei «sofisti» di lingua latina. Si esita ugualmente ad accettare senza emendamenti quanto spesso viene detto del ruolo che giocava a quei tempi la «memoria» storica: i 164

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greci sarebbero stati particolarmente ossessionati dal loro passato e vi avrebbero cercato una compensazione alla situazione contingente.156 È stato scritto157che se i greci, sotto l’impero, si sono appassionati al loro passato, è stato per evadere col pensiero dal «malcontento che dava lo­ ro la situazione politica dell’epoca»; la storiografia o piuttosto la retori­ ca della seconda sofistica sarebbero state l’oppio di un’identità oppres­ sa. I fatti non corroborano questa spiegazione e suggeriscono quasi il contrario. La curiosità per la storia è cosa nota e si spiega da sola; ma, poiché il marxismo riconduce tutto alla politica, non gli resta che spie­ gare con un processo di escapism o di compensazione ogni interesse che esuli visibilmente dalla politica. In realtà, gli elleni non avevano aspettato l’epoca imperiale per inte­ ressarsi alla propria storia e, sotto l’impero, non hanno fatto altro che continuare una tradizione: a partire dal IV secolo, «il passato era di­ ventato il riferimento permanente che si imponeva agli oratori come un’ossessione»,158 e, in epoca ellenistica, la produzione storiografica era stata considerevole.159 Niente di paragonabile a quanto è accaduto nel X IX secolo in Europa centrale, dove le nazionalità si (reinventava­ no (ri)scoprendo il loro passato, pubblicando i vecchi monumenti della loro lingua e della loro storia; i greci non si sono dovuti dare un’iden­ tità, perché l’avevano da tempo. La cosa più vera è che, sotto l’impero, la storia greca che contava, quella classica, era ormai la storia del V e IV secolo avanti Cristo, e in particolare quella di Atene: quella della Grecia indipendente, prima della Macedonia e di Roma; e che si ferma­ va quindi alla fatale sconfitta di Cheronea,160 poiché l’epoca ellenistica, quella della servitù, era lasciata ai curiosi. Questa Grecia «classica» è ancora oggi quella dei nostri studi. La cultura «borghese» si basava su questo «programma di storia» consensuale, che forniva a tutti riferi­ menti comuni. Ma gli scrittori ateniesi del V e IV secolo avanti Cristo erano comunque stati innalzati al rango di autori classici fin dall’epoca ellenistica e così anche la stessa Atene: per archeomania e a prezzo di molta erudizione, Luciano161 o Alcifrone situeranno le loro fantasie nell’Atene classica o in un passato indeterminato, ma Menippo aveva fatto lo stesso cinquant’anni prima dell’intrusione dei romani in Grecia. La tendenza delle società a innalzare al titolo di «classici» alcune opere o epoche è tanto spontanea quanto frequente,162 ed è inutile fare ricorso al trauma della conquista romana per spiegarlo. Invece, il «pro­ gramma di storia» è stato articolato intorno a questo trauma: sul qua­ drante dei secoli, l’ombra portata da Roma separava ormai un «prima» indipendente e valorizzato da un «dopo» assoggettato. La Grecia ante­ riore a Cheronea era stata quella vera, aveva vissuto a misura della grande storia e non era ancora stata sminuita dal cambiamento di scala che provocò l’apparizione della grande potenza romana. La biografia 165

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di Filopemene scritta da Plutarco è quella dell’«ultimo degli elleni»,163 l’ultimo che abbia fatto delle conquiste, che abbia potuto agire. Lo specchio del passato fa apparire quale fosse l’essenza dell’Ellade nella sua purezza, prima di ogni amputazione, alterazione e uniformazione. Quando Nerone le ridiede per un periodo l’indipendenza, le città ri­ presero le loro tradizioni doriche o attiche:164 avevano ritrovato le loro origini. È evidente anche che ogni città aveva le sue particolari radici e che, sotto l’impero, il patriottismo greco rimaneva anche pluralista, frammentato, locale, come ai bei tempi dell’indipendenza e delle conti­ nue guerre tra città. E Dione di Prusa ritrovò le radici di ogni città e l’essenza dell’Ellade vive e vegete, o piuttosto si era convinto che fosse così, grazie al suo ta­ lento di trasformare la realtà in idillio. Era uscito dai confini dell’impe­ ro per andare a visitare una città indipendente, Olbia, antico insedia­ mento ionico sulla foce del Dnepr, vicino alla Crimea, tra i sarmati; Dione le restituisce il vecchio nome di Boristene, per archeomania e come omaggio. Questa enclave greca in terra barbara aveva resistito agli assalti dei secoli e dei sauromati e, se si crede al Borisfenico,1® Dio­ ne vi aveva ritrovato, malgrado qualche traccia di barbarizzazione166 e qualche ingenuità,167 i tratti più autenticamente ellenici. Il primo efebo che aveva incontrato era alto e bello, «molto ionico nel suo modo di es­ sere», e aveva degli amanti, in modo onesto, come voleva la tradizione ionica;168 nonostante il suo vestito scita, aveva l’eleganza e le maniere distinte che appartenevano solo agli elleni: nascondeva le mani sotto al mantello e non faceva gesti.169 Come tutti, conosceva VIliade a memo­ ria. All’arrivo del viaggiatore, tutti gli abitanti si riunirono intorno a lui, avidi di ascoltare i suoi racconti, «da veri greci quali erano», e Dione scoprì con gioia che il loro aspetto era ancora quello degli elleni al tem­ po di Omero: tutti portavano i capelli lunghi e la barba degli achei. Tut­ ti, tranne uno che era rasato «e si diceva che la sua tenuta era tale non senza motivo ma per lusingare i romani e per esprimere la sua amicizia per loro» (capiamo che aveva ricevuto da Roma il titolo ufficiale di filo­ romano, philoromaios);170 «era brutto da vedere». Una volta colta l’al­ lusione, se ne misura l’ardire? La frattura del passato greco tra un «prima di Cheronea» e un «do­ po» conferma che la coscienza della propria identità non si era indebo­ lita e che era sofferente; Dione evoca un giorno gli antichi exploit di Epaminonda, che «fece della sua patria la prima città della Grecia, mentre l’aveva trovata avvilita, impotente e sottomessa ad altri», e ag­ giunge: «era possibile fare una cosa del genere a quell’epoca, ma oggi i tempi sono cambiati»;171 poiché i suoi uditori non potevano ignorare un simile cambiamento, questa inutile aggiunta è un sospiro di rim­ pianto che emette con loro. La Grecia attuale è «malata di languore»,172 166

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scrive Plutarco. Eppure l’immagine «classica» della Grecia indipen­ dente non aveva nulla di un’ideologia che mirasse alla situazione attua­ le; non era vendicativa né guerrafondaia né nostalgica: ogni volta che Dione, Plutarco o Aristide evocano il passato, non mancano di aggiun­ gere che questa grande epoca non doveva essere sopravvalutata e che aveva visto le città battersi tra loro, cosa che aveva portato alla catastro­ fe di Cheronea;173 o ancora, ricordano ai loro lettori o uditori che quei tempi gloriosi non c’erano più e che un compito più modesto attende­ va i greci contemporanei: vivere nella concordia, altrimenti sarebbe in­ tervenuto il governatore romano. Richiamo tanto più necessario perché la massa si esaltava pericolosa­ mente a questi grandi ricordi: è bene allora dare voce a una preziosa te­ stimonianza sullo stato dell’opinione pubblica, o di una parte di essa, mentre finora abbiamo sentito solo le voci degli intellettuali. L’atteggia­ mento popolare verso Roma era duplice: la potente Roma suscitava in­ vidia e biasimo, ma anche un desiderio fortissimmo di emulazione; le usanze romane erano alla moda, i gladiatori appassionavano il pubbli­ co e si davano volentieri nomi latini ai bambini.174 Ci sarebbe molto più da dire sul fenomeno che fu lo scambio incrociato delle usanze (fe­ ste, calendario, onomastico...) tra le due metà dell’impero; i gladiatori erano alla moda nell’Oriente greco, mentre Roma diventava la vera ca­ pitale dello sport olimpico. La Grecia, che aveva conquistato il vincito­ re con la sua grande cultura, era in parte conquistata dalla cultura po­ polare e quotidiana di Roma, la più adatta a irritare i letterati con la sua volgarità. E questo spiega le fobie antiromane di tanti greci. I romani erano ai loro occhi un popolo brutale e grossolano; delicatezza, dolcezza, raffi­ natezza erano privilegio dei greci. A Roma, le relazioni sociali erano prive di tenerezza;175 le nutrici romane, scrive un ginecologo greco, mancavano di affetto per i neonati, a differenza delle greche.176 La città di Roma non aveva nessun senso dell’ospitalità; quando venivano a mancare i viveri, essa allontanava gli stranieri, cosa che una città elleni­ ca non avrebbe mai fatto; gli italici superavano gli egiziani per la fre­ quenza delle rivolte, l’indisciplina e la petulanza.1771 legami di clientela erano grotteschi per la loro ritualizzazione, e umilianti per il protetto; Luciano, diventato funzionario romano e tenuto ormai a dire «il nostro impero», aveva forse rinunciato alla xenofobia che manifestava nel Nigrino e nel De mercede conductis contro la volgarità e la tracotanza («poco democratica» scrive, e poco «ateniese») dei modi romani, con­ tro la mancanza di cultura e la grossolanità dei grandi di laggiù, che avevano filosofi e retori privati solo per far credere di essere colti? I romani erano giudicati in base ai combattimenti dei gladiatori. Co­ me per noi, un tempo, la corrida o lo strip-tease, quelli dei gladiatori 167

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erano tra gli spettacoli che provavano la rozzezza di una nazione stra­ niera. Non per questo erano meno allettanti, e si sa che in terra greca questi combattimenti, stigmatizzati da alcuni,178 furono adottati con entusiasmo.179 Non omettiamo una perla xenofoba: i gladiatori dei ro­ mani non valevano moralmente più delle loro nutrici, non valevano quanto i gladiatori greci; Plutarco, che condannava questi combatti­ menti, scriveva tuttavia: «Non confonderò certamente i nobili gladiato­ ri greci con quelle bestie selvagge che sono i gladiatori romani».180 Due secoli dopo, il dotto Libanio porrà i gladiatori greci sullo stesso piano di quegli eroi ellenici che furono gli spartani alle Termopili.181 L’adozione dei costumi romani da parte della popolazione greca non deve far concludere che l’identità greca e il risentimento antiromano fossero in diminuzione; si possono benissimo adottare prodotti e gusti del nemico senza cambiare atteggiamento nei suoi riguardi, perché le culture non hanno patria. Il dominio romano suscitava sempre nel po­ polo dei sentimenti che inquietavano Plutarco; bisogna citarlo per inte­ ro: «I governanti che nella città solamente invitano a imitare le opere, i pensieri, i fatti egregi degli antenati, che sono così poco intonati con le circostanze e i problemi attuali, eccitano le masse suscitando il riso, ma debbono poi subire conseguenze che non hanno nulla di ridicolo, a meno che non siano completamente disprezzati»;182 intendiamo che questi dirigenti rischiano di provocare una rivolta che può essere re­ pressa severamente dal governatore romano: «Tali furono le circostan­ ze che sotto Nerone travolsero gli abitanti di Pergamo e, di recente, i rodiesi sotto Domiziano, e i tessali prima ai tempi di Augusto».183 Non bisogna dunque «suscitare la tempesta»,184 o «la battaglia di Maratona, dell’Eurimedonte, di Platea e quanti altri begli esempi inducono a gon­ fiarsi e a insuperbire vanamente le moltitudini». No, non è più il mo­ mento di esaltare la grande figura di un patriota come Demostene.185 È evidente che questi grandi ricordi, trasmessi dalla scuola, dall’efebia, dalle canzoni, non avevano perso il loro potere di mobilitazione.186 E non è nemmeno innocente che al tempo dei Severi un poeta, tra l’al­ tro romano, abbia scritto in greco un «epigramma descrittivo» che glo­ rifica il coraggio di coloro che, tre secoli prima, avevano difeso fino alla morte l’acropoli di Atene contro i romani di Siila.1871 greci del II e III secolo dopo Cristo non erano per nulla la popolazione imborghesita, passiva, addormentata della leggenda; erano dei guerrieri, dei combat­ tenti volontari che si univano agli imperatori nelle loro guerre di con­ quista188 o di difesa contro i parti,189 e che improvvisavano l’autodifesa contro i briganti (una nuova iscrizione lo ha mostrato)190 o contro i raid dei costoboci191 all’epoca di Marco Aurelio e degli eruli, sotto il co­ mando di qualche notabile, di un vincitore olimpico,192 di un retore;193 o di un aristocratico sessantenne come il celebre Dessippo194 che, no168

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blesse oblige, scrisse la storia del suo tempo; un letterato, come il suo bisnonno, suo nonno e suo padre, che difese Atene contro i goti. Non si consideravano come soldati dell’imperatore romano, ma come «al­ leati»,195 symmachov. traducevano e interpretavano così, in buon greco, quelle che si chiamavano auxilia e coorti di volontari nell organizzazio­ ne dell’armata imperiale. Perché, per parlare come Celso, che si indi­ gnava per Γantimilitarismo cristiano della sua epoca, che cosa ne sareb­ be stato dell’impero se non si fosse prestato «aiuto» all’imperatore? All’epoca delle invasioni e dei raid gotici e persiani che depredarono l’Oriente greco e siriano nel III secolo dopo Cristo, 1 autodifesa aveva risvegliato nei greci il vecchio patriottismo; come storico e interprete della propria azione, Dessippo si mostra meno preoccupato della sorte dell’impero che della preservazione dell’ellenismo e delle sue citta; come le guerre con i medi otto secoli prima, le guerre del suo tempo rappresentavano un conflitto tra la barbarie e la civiltà, cioè 1 elleni­ smo.197 La nostalgia per l’antica gloria della Grecia, l’esaltazione «reto­ rica» delle vittorie di Maratona e Salamina, che preoccupavano il quie­ to Plutarco, avevano portato i loro frutti.198 Andava molto diversamen­ te nell’Occidente latino; laggiù, l’autodifesa della Gallia contro ι ger­ mani non si separava dalla difesa dell’impero in quanto tale: lungi dal­ l’essere animati dal ricordo di Vercingetorige, gli «imperatori dei galli» erano pretendenti al trono, «usurpatori», che si consideravano come si­ gnori legittimi dell’impero e fingevano addirittura di prendere 1 Orien­ te sotto la loro protezione. , Per rifarci a Hervé Inglebert, le crisi degli anni 249-274 dopo Cristo e la minaccia esterna resero i greci coscienti del fatto che non esisteva per loro una soluzione alternativa all’impero romano. Di fronte alle de­ vastazioni dei barbari, i greci restavano fedeli a Roma, all’imperatore che li difendeva e ai suoi eserciti; sull’altra faccia delle piccole monete locali coniate dalle città, ora figurava la dea Roma o Roma vittoriosa, così come sugli stendardi delle legioni che stazionavano in Oriente o che venivano a difenderlo. Fino ad allora, alcuni avevano potuto consi­ derare l’imperatore solo come un signore straniero; ora constatavano che questo imperatore «combatte i barbari per la salvezza di tutti gli uomini»,199 dell’umanità di cui i greci fanno parte. Tuttavia, i sentimen­ ti che si possono provare nei confronti di un salvatore straniero sono talvolta promiscui; gli si è riconoscenti per la sua crociata, ma si vuol •sempre restare se stessi. Faccio fatica a credere che i notabili dell Uriente greco, sotto la minaccia barbara, «si siano trasformati in una classe dirigente i cui destini e la cui identità si confondevano con quelli di Roma».200 Un testo di quest’epoca tragica diffonde un suono diver­ so: «È bello per un re, e degno di lui, essere filelleno», dichiara verso la metà del III secolo dopo Cristo un greco sconosciuto che tesse 1 elogio 169

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di un imperatore regnante.201 Questo re romano è il capitano dei greci, il loro strategos nella lotta contro i barbari; ma sarà un buon capitano solo se non imita il lacedemone Pausania, capitano e tiranno dei greci al tempo delle guerre con i medi, e se non si comporta da tiranno con i suoi «alleati», i symmachoi.202 Noi lo sappiamo: i greci non erano sud­ diti dell’imperatore, ma suoi alleati contro i barbari che minacciavano le loro città. In nome del principio di realtà, è meglio non provare sdegno per i Graeculi, per i greci che avevano falsamente sconfessato le proprie ori­ gini (furono esseri reali e non uno stereotipo), e non trovare retorica ovunque.203 Abbiamo appena visto anche che il patriottismo greco era più egocentrico di quanto non lo fosse un patriottismo d’impero. Ora possiamo sfogliare il Discorso agli abitanti di Rodi prendendolo più sul serio di quanto non si faccia di solito.

Dione aveva più di una buona ragione per andare a proporre il suo ma­ nifesto a Rodi: l’isola era proverbialmente la città-Stato che incarnava la libertà;204 era fiera dei suoi antichi successi205 e le sue grane con Ro­ ma non erano finite sotto l’impero;206 era stata privata per qualche tem­ po del suo statuto di città libera per aver fatto impalare dei cittadini ro­ mani;207 e ancora sotto Domiziano, continuava a essere indocile.208 Era la più ricca delle città greche, grazie ai suoi banchieri, scriveva Dio­ ne;209 aveva il prestigio di comandare altri popoli (e questo era, per un greco, il massimo della libertà): alcune città le versavano tributi, riceve­ va un’imposta dalla Caria e possedeva una parte della Licia.210 Preferi­ va l’annientamento alla perdita dell’indipendenza (o «democrazia») 211 «Vince su tutte le città, a eccezione di una sola»212 di cui nessuno igno­ ra il nome. E, tagliando corto su uno dei grandi dibattiti dell’epoca (i conquistatori romani si distinguevano per merito o per fortuna?), Dio­ ne osava aggiungere che Roma doveva i suoi vantaggi «alla sua virtù co­ sì come alla sua buona stella, mentre la vostra città, rodiesi, li deve solo alla sua virtù».213 Nonostante la virtù, i rodiesi non erano impeccabili, e Dione era an­ dato a Rodi a esercitare quello che considerava il suo ministero di filo­ sofo: ammonire la collettività. Come tutti gli oratori greci e latini dell’e­ poca, come Apuleio, come san Paolo con l’Areopago, era stato ricevuto pubblicamente dalla città e aveva preso la parola in piena assemblea. Per entrare nel vivo del discorso, san Paolo aveva scelto un dettaglio locale, l’altare ateniese al «dio sconosciuto»; allo stesso modo Dione aveva scelto un fatto locale, un piccolo peccato della vita pubblica di

Rodi: il riutilizzo di vecchie statue ufficiali (Discorso agli abitanti di Ro­ di, 1-9). Questo punto era più doloroso per il suo uditorio di quanto si possa supporre: una delle attrazioni della città erano le sue tremila sta­ tue.214 Rodi, la clara Rhodos cantata da Orazio, era allora una delle più belle città del mondo e senz’altro la più illustre della vecchia Grecia, dopo Atene. A dire il vero, il peccato di Rodi era comune a tutti; i testi, l’archeo­ logia e l’epigrafia provano che questi riutilizzi erano abituali in tutto il mondo greco e latino;215 ma i rodiesi erano meno giustificabili degli al­ tri perché erano ricchi e avrebbero potuto permettersi la spesa di sta­ tue di bronzo tutte nuove (Dione sembra preoccuparsi solo di quelle di bronzo).216 Con l’accanimento del giustiziere e la meticolosità del giuri­ sta, Dione per tre quinti del suo discorso mostrava sotto ogni punto di vista la gravità dell’errore e rispondeva alle obiezioni: riutilizzare una statua significava disporre di beni che non si possedevano, come aveva fatto Nerone spogliando la Grecia delle sue opere d’arte, significava es­ sere ingrati nei confronti dei grandi uomini benefattori della città pri­ vandoli della loro ricompensa, e significava offendere i nuovi onorati, sempre che avessero un minimo di delicatezza (Discorso agli abitanti di Rodi, 10-100). Una così lunga insistenza sul riutilizzo derivava in parte da una con­ venzione retorica: per mostrare la propria ingegnosità e dar prova di fierezza di pensiero, il conferenziere che ammoniva una città fingeva spesso di prendersela per un peccato specifico ma sintomatico di un vi­ zio più generale; lo stesso aveva fatto Dione a Tarso e ad Alessandria.217 Ma, del resto, queste lunghe pagine sono più serie di quanto non sem­ bri; per le città, come per gli individui, statue e onorificenze erano i ti­ toli nobiliari del tempo; vedere in questo della retorica218 sarebbe man­ care di senso storico. Gli onori avevano addirittura importanza interna­ zionale; i termini del decreto con cui veniva conferita una statua erano conosciuti nei dintorni e le relazioni diplomatiche con un re si potevano guastare se una città tardava troppo a erigergli la statua decretata.219 Ma dietro la passione «nobiliare» di Dione se ne celava un’altra. Chi erano quei nuovi onorati per i quali gli eroi di un tempo venivano pri­ vati delle loro immagini? Erano persone che venivano lusingate «per la loro forza», «il loro potere», e non per gratitudine.220 «Supponiamo al­ lora che quanti oggi ricevono una statua non siano persone dabbene (cosa che non direste mai se aveste un po’ di buonsenso): in tal caso, fa­ te un torto ai buoni per onorare i cattivi».221 Ma è meglio prendere le distanze da una supposizione tanto imprudente: innalzate una statua a «Tizio, uomo onesto, degno di tale onore; che lo siano tutti, io lo vo­ glio, e bisogna che lo siano coloro che la città lusinga, bisogna sperare che siano tutti onesti, in particolare gli hegoumenoi»,222 i governanti.

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IV

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Attenzione alla parola hegoumenoi, ripeteva Louis Robert: designa le autorità romane, gli hegemones o governatori di provincia,223 e non so­ lo nel Nuovo Testamento. Sono loro che «sbarcano a Rodi»224 e «vi soggiornano»:225 e, se non ottengono la loro statua di bronzo, Pisola «teme di perdere la sua libertà».226 Dione si intrometteva qui in que­ stioni ufficiali e serie. Un governatore227 non raggiungeva la sua posta­ zione né si spostava nella provincia per assecondare un suo capriccio; la tradizione gli diceva dove doveva sbarcare e soggiornare;228 la visita che rendeva alle città della sua giurisdizione faceva loro onore: egli le salutava con tutte le dignità,229 ed esse lo ripagavano con una statua. Se Rodi lo avesse accolto con freddezza, egli non avrebbe certo rispettato la sua libertà. Non erano timori vani; in un secolo l’isola aveva perduto e poi ritrovato tre volte il suo statuto di città libera; l’esperienza prova­ va che la «libertà» delle città era continuamente minacciata.230 Così si era costretti a «onorare un gran numero di hegemones»,231 «a onorarli tutti»,232 e questo costava caro (intuiamo facilmente perché: i governa­ tori accettavano solo statue di bronzo, come conferma l’archeologia).233 Dove trovare statue disponibili? «L a maggior parte sono quelle dei ro­ mani, e chi oserebbe toccarle? Le altre sono di macedoni e lacedemoni; ecco quali vengono riutilizzate».234 Il discorso di Dione si faceva sempre più pressante e la sua rivolta contro Roma esplodeva in una requisitoria di rara violenza: «Voi teme­ te dunque questi passanti e, se a uno solo di loro non viene innalzata una statua di bronzo, credete di perdere la libertà? Ma se essa è tanto precaria da potervi essere strappata con il minimo pretesto, è molto meglio che diventiate schiavi subito. Se niente è sufficiente a garantire il vostro statuto, né la lealtà né la benevolenza che conservate da tanti anni235 verso quel Popolo di cui avete condiviso le vicissitudini» (qui l’oratore avrebbe potuto rivolgere lo sguardo all’elemento più spetta­ colare di tutto il paesaggio: la statua colossale del Popolo romano divi­ nizzato,236 alta come una casa di cinque piani, che i rodiesi avevano eretto in cima all’acropoli quasi trecento anni prima); se quindi, conti­ nuava l’oratore, niente poteva garantire la loro libertà, «né le sconfitte di Mitridate237 e Antioco,238 né il dominio del mare che avete assicura­ to loro a prezzo di tanti rischi e fatiche,239 né i più antichi giuramenti di amicizia,240 né le steli che sono sempre in piedi accanto allo stesso Zeus,241 né la vostra flotta che ha condiviso i loro rischi fino all’ocea­ no,242 né, per chiudere il tutto, la vostra città presa d’assalto243 in loro difesa: se quanto ho enumerato rischia di essere ridotto a niente qualo­ ra non lusinghiate meschinamente Tizio o Caio, allora lo stato dei vo­ stri affari è davvero a un cattivo punto e non si basa su niente. Vi dirò addirittura, a rischio di darvi una pena, che i popoli schiavi dell’estre­ mo limite della Frigia, dell’Egitto o della Libia ne escono meglio di voi:

per un oscuro essere dell’ultima specie, è meno vergognoso non aver rispetto di sé; ma che uomini tanto rinomati e ammirati ovunque siano ridotti a scodinzolare come cani davanti a chi passa, è qualcosa di cui essere spaventati» (Discorso agli abitanti di Rodi, 112-114). Come si è potuto disconoscere il carattere ironico di questa pagina, la sua ama­ rezza sarcastica sul carattere arbitrariamente revocabile della libertà, e immaginarsi che Dione consigliasse ai rodiesi di rinunciare a questa il­ lusoria libertà? Al contrario, consigliava loro di non abdicare nulla del­ la loro fierezza, come sfortunatamente avevano cominciato a fare. Col pretesto di rassicurare ironicamente i rodiesi da un vano timore, Dione dipingeva il vero crudele quadro dell’ingratitudine romana. La lusinga dei potenti, quei governatori romani di dubbia onestà personale 244 l’in­ gratitudine verso il passato nazionale, il rinnegamento dell’antica no­ biltà dell’Ellade, questi sono i reali soggetti del discorso di Dione. Che fare allora? Scongiurare i rodiesi di purificarsi da questo piccolo peccato, che apparentemente riassumeva tutti i peccati commessi a danno dell’identità greca: che rimanessero ciò che erano nel profondo, dei veri elleni all’antica, quello che l’altra grande città, Atene, non era più. Bisogna rimpiazzare Atene con Rodi, come «vetrina» dell’elleni­ smo.245 C’è una grandezza profetica o chimerica nel discorso di Dione: con il potere della persuasione egli sperava .di modellare gli spiriti e di rimpiazzare le forze mentali, come uno stratega dispiega i battaglioni. Il mondo greco viveva nella «pace della servitù», che era anche la pace del lasciar correre, «eirene kai rhathumia».246 Le città non aveva­ no più una politica estera (ossia non si affrontavano più tra loro); Rodi non inviava più spedizioni di cento navi: «Al giorno d’oggi, due va­ scelli non corazzati247 vanno ogni anno a Corinto»; tutte le città lascia­ vano cadere impunemente in rovina le loro mollezze.248 Gli avi aveva­ no fatto grandi cose non più ripetibili: dominare altri popoli e non la­ sciarsi dominare da nessuno;249 del resto, era questa disunione che aveva fatto capitolare la Grecia 250 Certo la pace era buona cosa e gli avi si erano fatti guerra solo per amore della sicurezza.251 Ma la pace abbandona le anime alla loro naturale indisciplina, perché fa venire meno quella tensione che si impone in presenza di pericoli; non c’è più rispetto di niente, ci si lascia andare a tutte le mollezze. Solo un’é­ lite avrebbe potuto ancora resistere, per virtù, alle attrattive della ri­ lassatezza e all’anarchia interiore.252 La politica di Dione non era «rea­ lista»: era fondata su un’etica, e tale etica implicava l’antropologia più tradizionalmente greca che ci fosse. Nei discorsi ad altre città egli ave­ va fatto proposte più concrete; ma nel Discorso agli abitanti di Rodi vedeva tutto in piccolo (i riutilizzi) o tutto in grande: voleva promuo­ vere Rodi a capo dell’ellenismo al posto di Atene, che Dione ha più di un motivo per odiare.

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Da tre secoli Atene era infatti l’oggetto di un dibattito253 nel mondo greco, che si era diviso tra Γammirazione254 e l ’invidiosa ostilità per questa città gloriosa, per il suo passato e i suoi scrittori già classici, e che era la prima a fare il proprio elogio; nei decreti255 proclamava di aver dato all’umanità il germe dell’«educazione» o della civiltà, ossia tutto. E, cosa irritante, i romani amavano crederlo:256 l’aristocrazia ro­ mana, che era tanto profondamente colta, ovvero ellenizzata, quanto poteva essere brutale, ebbe sempre, nei confronti di Atene, tutte le in­ dulgenze, anche politiche.257 Il greco Polibio, invece, riteneva che Ate­ ne fosse politicamente sopraffatta e che dovesse i suoi successi di un tempo a una fortuna momentanea.258 Atene brandiva i grandi nomi del suo passato con un’enfasi tanto più ridicola quanto più sordide erano le sue vere motivazioni; vendeva, prostituiva il suo diritto di cittadinan­ za e conferiva al primo venuto i soprannomi ufficiali di nuovo Cecrope o di nuovo Trittolemo.259 Non c’è niente di meno greco che questa mancanza di riserve, fino ad arrivare al servilismo, che Polibio260 de­ nunciava già nei gesti pubblici della pretenziosa Atene (vedremo quan­ to sono diversi i rodiesi). Dione se la rideva alla grande degli ateniesi: avevano conferito i titoli di nuovo Omero e di nuovo Temistocle a un vile e ricchissimo poetastro siriano perché aveva riacquistato Salamina per farne loro dono;261 Dione, greco, ma della Bitinia, disprezzava an­ cora di più quest’altro greco della Siria. Inoltre, venuto dalla ricca Asia, disdegnava la celebre e povera Grecia tanto quanto la invidiava; per questo raccontava che Elena, quando sbarcò in Asia e ne vide la popo­ lazione numerosa e le grandi ricchezze, non provò più che disprezzo per Menelao, per Sparta e per «tutta la Grecia».262 Dione condannava (filosoficamente, credeva lui) i due popoli che si dividevano la più grande reputazione del mondo, quello di Atene e quello di Roma; durante il suo esilio di conferenziere errante aveva im­ personato il ruolo di Socrate per andare a dire al primo il male che pen­ sava di lui e del secondo: entrambi avevano fondato il loro modo di vi­ ta, la loro «educazione», su false basi, che erano rispettivamente la cul­ tura263 e l’imperialismo264 (come diremmo noi), e non sulla virtù; se gli ateniesi avevano un tempo vinto a Maratona e a Salamina non era stato grazie a una buona educazione, ma perché i persiani erano ancora più maleducati di loro.265 Il lettore moderno ritiene probabilmente un po’ vacui gli argomenti di Dione, ma queste sciocchezze xenofobe misura­ no di preciso quanto fosse invidiata Atene; il Discorso agli abitanti di Rodi è pieno di argomenti tratti dalla storia o dalla psicologia dei popo­ li, al servizio di un regolamento di conti più attuale. Infatti la città invidiata aveva tradito: «Non c’è niente di quello che accade ad Atene di cui non ci si debba vergognare». E così «invidiava­ no talmente tanto, per quanto riguarda266 i gladiatori, la colonia roma­

na stabilitasi a Corinto, che hanno superato in ignominia i corinzi e tutti gli altri: mentre a Corinto questo spettacolo si svolge fuori dalla città, in un avvallamento267 che può ospitare una folla, ma tanto sordi­ do che nessuno vi seppellirebbe mai un uomo libero, gli ateniesi dan­ no questo bello spettacolo ai piedi dell’acropoli, nel teatro, là dove si­ stemano [l’immagine di] Dioniso nell’orchestra·, e così spesso accade che lo sgozzamento abbia luogo in mezzo ai seggi sacri,268 dove lo ierofante e gli altri sacerdoti sono obbligati a prendere posto». Indigna­ to, un romano, sì, un romano, volle far sentire agli ateniesi l’infamia della loro condotta; questi lo ascoltarono così poco che preferì lasciare la città e stabilirsi altrove.269 Così dunque Atene aveva aggirato l’osta­ colo: aveva adottato quanto ci fosse di più romano, di più estraneo a tutti gli altri popoli, lo spettacolo dei gladiatori, questa singolarità san­ guinaria ed empia che esibiva lo spettacolo della morte violenta nel bel mezzo dello spazio civico e sacro,270 mentre a Rodi era proibito al boia entrare in città 271 Conclusione: «G li ateniesi non sono più degni della loro città né della fama che hanno trasmesso le generazioni pre­ cedenti», benché «a una certa epoca siano sembrati essere i primi tra i greci».272 Comprendiamo allora quale fosse la sua lamentela suprema contro gli ateniesi: il mondo si ostinava a giudicare l’Ellade intera in base al­ la «vetrina» che era Atene, e questo restituiva un’immagine deplora­ bile dell’Ellade. Anche Rodi apparteneva, come Atene, alla vecchia Grecia che l’asiatico Dione in fondo invidiava, ma in più i rodiesi ave­ vano il merito di non essere ateniesi (erano addirittura dorici, e non ionici) 273 Quindi li prendeva a modello: «Siete i soli sopravvissuti tra gli elleni».274 Campioni dell’ellenismo i rodiesi lo erano da sempre. La politica, la giustizia, i culti pubblici, gli onori e le statue avevano dato loro l’occa­ sione di fare meglio degli altri greci. «Ma, a dire il vero, ecco un’altra cosa che merita altrettante lodi e che, a giudizio di tutti, non è piccola cosa»:275 il modo di camminare, la pettinatura, il vestito tradizionale, il riserbo di un pubblico poco rumoroso agli spettacoli (che, ben diverso dalle masse di Alessandria, manifestava la sua approvazione solo con uno schiocco di lingua)276 e infine l’uso moderato della porpora277 (è chiaro che non era a Rodi che si vedevano, vestiti di porpora, i grandi sacerdoti provinciali del culto imperiale). «Tutto questo rende venera­ bile la vostra città, tutto questo mostra che non siete come gli altri, ed è questo che vi rende ammirati e amati da tutti; più dei vostri porti, delle vostre mura e dei vostri arsenali, è quanto c’è di antico e di ellenico nel­ le vostre abitudini che vi fa onore: quando si soggiorna da voi si sa, ap­ pena sbarcati e anche se si è barbari, che non ci si trova in una città del­ la Siria o della Cilicia».278

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I rodiesi avevano conservato quanto di più inafferrabile e inimitabile ci fosse nell’ellenismo, quello che si poteva acquisire solo per eredità, e grazie al quale gli stranieri riconoscevano che buon sangue non mente: i modi, lo stile, un’altezzosa discrezione congenita. Dovremmo ricono­ scere in Dione, quest’uomo originario della Bitinia, uno snob dell’iden­ tità greca? Ma, poiché la distinzione era per i greci (se non per i roma­ ni, che preferivano la gravitasi un tratto etnico, lo snobismo di Dione potrebbe essere stato anche mero folklore: i modi, i gesti, gli accenti so­ no ciò che resiste meglio, ciò che sussiste di una grecità minacciata dal­ l’eliminazione. L’estetismo di maniera impone ai visitatori stranieri il ri­ spetto di un tacito protocollo: «Nessuno cammina con orgoglio per la città, le vostre maniere costringono persino gli stranieri che vi soggior­ nano a muoversi come conviene».279 Si conosce l’importanza che l’om­ brosa fierezza civica attribuiva all’atteggiamento dei potenti e degli stranieri nelle strade, e ai loro veicoli.280 Il rispetto del protocollo di­ plomatico era uno dei fondamenti dell’identità. Mentre soggiornava a Rodi con un vago titolo di legato, Tiberio si recava al ginnasio (ossia al­ le terme) senza littore né usciere, dice Svetonio.281 Oltre alla loro distinzione, questi elleni che erano eminentemente i rodiesi avevano un’altra virtù greca, l’eleganza dei costumi politici: si è visto come a Rodi fosse proibito al boia entrare in città.282 Si può senti­ re la portata dell’allusione velata se si pensa con che pompa i signori romani si presentavano di fronte ai loro sudditi: un governatore di pro­ vincia entrava in città facendosi precedere da cinque o sei littori. E chi erano i littori? Erano boia che portavano in spalla un’ascia stretta in un fascio di verghe; senza temere di inquinare religiosamente la città, ne facevano uso nello spazio civico, in pieno centro urbano, ai piedi del palco su cui sedeva il governatore. Littori e gladiatori erano ostentazio­ ni di barbarie da sultani.

V Dione ammirava Rodi così come si era mantenuta, più di quanto non cercasse di correggerla; non vi si era recato per consigliarla ma per ri­ trovarvi il profumo dell’ellenismo autentico o per persuadersi che que­ sto profumo esisteva ancora. Parlava della Grecia con amarezza e dei romani con un’ostilità che quasi non tentava di dissimulare. Lo stato d’animo più vicino al suo era forse quello di Pausania, solo più discre­ to. Ma la schiavitù rende l’animo servile, compiacente e imitatore. Al­ lora che cosa fare se sentiva comunque vivere in sé la vecchia identità ellenica? Ebbene, continuare: non rinnegare niente del passato e man­ tenere la propria fierezza. 176

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Come si diceva, in altri discorsi Dione darà a città diverse dei consi­ gli più pratici, vicini a quelli di Plutarco: salvaguardare la concordia tra le città, e tra i notabili e la plebe, per non dare ai governatori romani l’occasione di intervenire; grazie alla concordia, i greci sarebbero stati indipendenti, sotto l’alta immagine di un imperatore che avrebbero presto dimenticato essere romano. Dione che sapeva perfettamente appassionarsi all indipendenza sa­ rebbe stato ormai anacronistico, come disse invano Erode Agrippa agli ebrei: «Era prima che avreste dovuto battervi [...]; ma colui che, una volta asservito, cerca di liberarsi è uno schiavo recalcitrante e non un amico dell’indipendenza».283 Sottomettersi al più forte è una legge di natura.284 Dal canto suo Plutarco scriveva: «Godiamo di una pace e di una tranquillità perfette; non ci sono più guerre, esili, dissensi né tiran­ nie, tutte le malattie della Grecia».285 Aggiungendo anche: «C ’è la pace [...]. Abbiamo tanta indipendenza che i sovrani accordano ai popoli [delle città]; averne di più probabilmente non sarebbe meglio». Non è che per questo benedicesse l’egemonia di Roma, di cui non pronuncia­ va nemmeno il nome;286 evocava solo le «malattie» dei greci, che aveva­ no procurato pace e schiavitù. E indubbio che da una parte Dione pensasse altrettanto (constatava tutti i giorni quanto i suoi compatrioti fossero litigiosi e sediziosi), ma non lo diceva: gli avrebbe bruciato la gola. D ’altra parte, lo diceva chiaro e tondo: il fatto che le città si stessero disputando, per esempio, il titolo pomposo di capitale della provincia, «non è che 1 ombra di un asino, perché vincere, essere il signore, tutto questo appartiene ad al­ tri».287 Questa schiavitù non potrà mai godere della vera Pax Romana. Ma le sue conclusioni erano di fatto identiche a quelle di Plutarco, 1 cui Consigli ai politici offerti ai notabili delle città greche in tre punti raccomandavano la sottomissione al potere romano, deploravano 1 av­ vilimento della Grecia, temevano la tirannia dei governatori. In verità, per Plutarco come per Dione e persino per Aristide, il pro­ blema politico più vicino, il più reale, non era 1 egemonia romana, ma l’esistenza di un governatore romano della provincia; era lui che toglie­ va alla grecità quella che sarebbe la vera libertà, ossia l’autogoverno (o «democrazia») di ogni città. Pensiamo a Nerone che restituì 1 indipen­ denza alla provincia delTAcaia: forse con questo le aveva dato il diritto di avere un suo esercito e una politica estera? No, si era limitato a eli­ minare il governatore della provincia; da quel momento, ogni citta dell’Acaia si governava da sola, esattamente come facevano da tempo le città romane d’Italia: la penisola greca e la penisola italica erano ormai due regioni senza governatore. Ma Nerone non c’era più. E da allora il problema politico consisteva nel subire il meno possibile la tirannia del governatore; ci si poteva arrivare per due vie: stare buoni, vivere nella 177

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concordia e non suscitare l’intervento del governatore (era la soluzione consigliata da Plutarco e Dione) o allearsi tra città per fare fronte co­ mune contro il governatore (era talvolta il suggerimento di Dione). Poiché i greci non erano più padroni di se stessi, dice Plutarco, e i magistrati delle città avevano sempre «i calzari senatorii \kaltioi o cal­ celi sopra la propria testa»,288 la situazione corrente comporta che al politico resti un compito solo «che però non è inferiore a nessuno degli altri beni, e cioè di creare la concordia e l’amicizia reciproche per quel­ li che vivono continuamente a contatto gli uni con gli altri, di eliminare le contese, le discordie e ogni malanno».289 Noi siamo «come dei com­ pagni di schiavitù che combattono tra loro» diceva duramente Dione. «A cosa bisogna ambire piuttosto? Ai beni più grandi, i soli che valga la pena ricercare, quelli che non passano» e che sono «la giustizia, la virtù, l’amicizia, la concordia».290 La concordia di cui continuano a parlare gli scrittori del tempo non era l’alto ideale che questa società sarebbe stata lusingata di incarnare, ma uno stato che essa rivendicava invano nei suoi buoni propositi, per­ ché tanto le discordie tra città e i dissensi interni291 non finivano mai: rivolte contro gli approfittatori in caso di carestia,292 conflitti tra il con­ siglio e l’assemblea, esasperazione contro un piccolo tiranno locale, ri­ valità di fazioni, mecenati (o «evergeti») che pretendevano di offrire ai loro concittadini un colonnato piuttosto che i loro spettacoli preferiti. A Tarso, i tessitori si rivoltarono contro un regime a base censitaria che li escludeva dal corpo civico;293 a Smirne c’era un’inimicizia secolare tra quelli della riva e quelli della città alta;294 Sardi aveva «fatto aposta­ sia» nel conflitto tra due magnati, Pardala e Tirreno.295 E questi dissen­ si provocavano l’intervento del governatore romano, quando non era­ no i poteri locali che si rivolgevano a lui come ultimo tentativo; i picco­ li tiranni, invece, cercavano di vincere sui loro rivali mettendo il gover­ natore dalla loro parte296 (così faceva lo stesso Dione, come vedremo). L’assenza di concordia era quindi il miglior alleato dell’egemonia romana. «Se continuate a combattere tra voi» dichiara Elio Aristide ai rodiesi «un altro arriverà a salvarvi con la forza»,297 un richiamo che ha il sapore dell’ossimoro 298 Per coloro che conoscevano il modo ro­ mano di ristabilire l’ordine in una città, c’era effettivamente di che aver paura. Conclusione: il buon governante manteneva la sua città fedele all’im­ peratore, sempre cercando di evitare di rimettersi al governatore per ogni minima difficoltà;299 questa era ormai la sola politica praticabile per mantenere l’identità greca. Seconda conclusione: nel secolo degli Antonini, quando si sosteneva di aver risanato la spaccatura tra greci e romani, Aristide, Plutarco e Dione consideravano il governatore roma­ no della provincia alla stregua di un dominatore straniero. Per citare 178

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Dieter Nòrr, il patriottismo cittadino era potente, mentre il sentimento di appartenenza all’impero era poco radicato, come si vede nello stesso Plutarco, tanto che sia nelle relazioni private che in quelle pubbliche i romani erano sempre trattati come romani e non come compatrioti.300 Il patriottismo cittadino rendeva le città greche rivali tra loro per otte­ nere da Roma il titolo di colonia romana, titolo che rendeva fiere le città della Siria che lo ricevevano. Diventava ancora più urgente predicare la concordia tra città.301 Si sa quale violenza repressa animasse, sotto il bel mantello di una pace imposta, le rivalità tra tante città dell’Asia e dell’Acaia;302 l’Ellade ro­ mana si trovava nello stesso potenziale stato di guerra di tutti contro tutti che c’era al tempo della Grecia indipendente. Ne sono un indizio le iscrizioni e le monete locali, che celebravano volentieri la concordia, ma spesso all’indomani di un conflitto. Le mutue lamentele erano mol­ teplici: contestazioni sui tracciati dei confini, rivalità per il titolo di me­ tropoli della provincia o di neocora. Ma la violenza delle passioni supe­ rava questi pretesti e trovava una più semplice spiegazione nell’odio per il vicino, in quanto altro da sé. Nel suo discorso a Nicomedia e Nicea per la concordia, Dione si sforzava invano di trovare una causa ma­ teriale plausibile alla rivalità tra queste due città; come ultima risorsa, la attribuiva a una pura e semplice consuetudine.303 «I greci hanno sempre combattuto tra loro; questa gelosia e questa invidia malsane sussistono ancora ai giorni nostri»,304 scrive un testimone di un altro «anno dei quattro imperatori», il 193 dopo Cristo, in cui gli odi tra città si tramutarono in fatti e in cui (secondo gli stessi termini di Mommsen) la lotta tra Settimio Severo e Pescennio Nigro fu, a essere esatti, una guerra tra due capitali rivali, Nicomedia e Nicea, in cui Bisanzio si schierava dalla parte di Nigro perché Perinto, la sua vicina, si era allea­ ta con l’altro pretendente.305 Il sentore di una situazione esplosiva si traduceva in un tema ossessivo per gli scrittori del tempo: le rivalità tra le città greche al tempo dell’indipendenza erano state, dicevano, delle vere guerre civili; ed era stato a causa loro che i greci avevano subito il giogo straniero, prima macedone e poi romano.306 Questa colpevolezza retrospettiva coltivata con tanta cura, questo contrasto su cui faceva leva il richiamo alla concordia, avrebbe voluto essere il mito fondatore di un nuovo panellenismo,307 in cui l’intesa tra i greci avrebbe portato a una quasi indipendenza. Questo pio deside­ rio Dione l’aveva formulato una volta, in modo deciso ma breve. I con­ flitti tra le città facevano la felicità dei governatori romani: prima di ri­ salire fino all’imperatore,308 permettevano loro di esercitare la propria «tirannia».309 Dione predica alle genti di Tarso di regolare tra greci le discordie dei greci, senza far intervenire le autorità romane.310 A Nico­ media, il suo stile ritrova tutta la sua forza e la dice lunga sui successo­ 179

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ri di Verre in pieno «secolo d’oro» dell’impero romano:311 «I romani vi considerano ufficialmente come degli stupidi e vi trattano come bambini a cui si tende un gioco da un soldo al posto di un tesoro. È quello che fanno con voi: invece di essere giusti, invece di non depre­ dare le vostre città, di non abusare di voi con un’insolenza da ubriaco­ ne, vi lusingano con le parole, chiamano la vostra città “prima della provincia” , lo scrivono, dopo di che possono impunemente trattarvi come gli ultimi tra gli uomini»;312 i vostri vani titoli «fanno ridere i ro­ mani che, cosa ancora peggiore, li chiamano “le sciocchezze dei gre­ ci”».313 Piuttosto che battersi per un niente, sarebbe meglio che ogni città della Bitinia «si facesse rispettare dal governatore» abbracciando la causa di tutte le altre, «di tutte le vittorie su di un’ingiustizia; allora i governatori si sentiranno a disagio e avranno paura a comportarsi in­ giustamente».314 Mentre altri si consolavano dell’egemonia romana perché impediva ai greci di combattere gli uni contro gli altri,315 il no­ stro oratore, senza troppe illusioni, cercava in una concordia introva­ bile una forma di difesa dall’egemonia. VI Dopo la concordia, il programma positivo di Dione aveva come se­ condo punto l’obbedienza all’imperatore, con la speranza che fosse un buon imperatore. Dione non aveva nulla della freddezza di un Pausania verso i Cesari; il loro potere poteva e doveva essere benefi­ co. Aveva meditato a lungo sul Buon Re: un filantropo che vive solo per i suoi sudditi, non si consacra al piacere, ma passa in rassegna gli eserciti, civilizza paesi, fonda città, erige ponti, costruisce strade.316 È stato scritto che Dione non era ostile a Roma, perché era favorevole al sovrano romano; ecco un’obiezione da logico più che da psicologo o da storico: si hanno spesso opinioni contraddittorie. In parte Dione era un patriota, in parte era accaduto in lui qualcosa di simile a quan­ to abbiamo visto anche in Polibio o Posidonio: il suo interesse di clas­ se o il gusto per la disciplina interiore lo avevano reso ostile ai dema­ goghi e difensore dell’obbedienza al signore romano. Parlando di buoni e cattivi principi quali Nerone, Domiziano, Traiano, Dione li giudicava come facevano anche i romani e, come loro, condannava la memoria dei primi due; nonostante il suo filellenismo,317 Nerone è deriso e odiato. Dione era passato all’azione, scrive il suo biografo, e nel 96 dopo Cristo, dopo l’assassinio di Domiziano, era andato ad ar­ ringare le legioni del basso Danubio, pronte ad ammutinarsi contro il successore designato dal Senato romano: «Il filosofo Dione [...] con­ vinse i soldati che sarebbero stati più saggi se si fossero sottomessi al­ 180

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la volontà del senato romano».318 Le sue relazioni personali con Ve­ spasiano, e poi con Traiano, sono ben note. I suoi discorsi sulla rega­ lità elogiavano il Buon Re, modello ideale che era innalzato a concet­ to filosofico; il volto del principe regnante, Traiano, si nascondeva sotto questa pia immagine. Dione parlava dell’imperatore come ne parlavano i romani stessi; per lui non era nemmeno un dominatore straniero. Buono o cattivo, il suo imperatore era l’imperatore punto e basta, non aveva nazionalità, e i suoi testi non lo qualificavano da nes­ suna parte come romano. Si è creduto di riconoscere in questa con­ statazione una qualche «provocazione» da parte mia; ma questa paro­ la è fuori luogo, perché prova che il suo autore sfortunatamente non ha capito quale fosse il problema politico dei notabili greci, come ve­ dremo tra qualche pagina; non ha colto nemmeno la differenza tra una legalità di tipo repubblicano e il sentimento monarchico, né la differenza tra uno Stato nazionale e un impero multietnico. Da un la­ to i notabili greci ammettevano con più o meno rassegnazione di ob­ bedire al «potere dei romani», dall’altro votavano all’imperatore un rispetto che ignorava Roma per salire direttamente fino a lui. Si sa, a partire dal regno di Augusto l’imperatore era diventato per i greci il loro vero e proprio re, il loro basileus. Era così anche per gli egiziani: l’imperatore era il loro faraone. Cesare non era uno straniero, ma il signore legittimo a cui ognuno era fedele. Tutto si spiega risalendo al regno di Augusto e alla fondazione della monarchia imperiale; a quei tempi, in mancanza di un Dione di Prusa a elaborare la teoria del Buon Re, il signore che si era appena imposto era esaltato dai suoi sudditi orientali come il loro «re» e «benefattore», e insignito del titolo di soter, che si traduce alla meglio con «salvatore». Non erano i romani a venire esaltati (erano stati visti fin troppo in azio­ ne), ma il monarca che si era innalzato al di sopra di loro e li aveva sot­ tomessi a loro volta. Alla fine della repubblica, le atroci guerre civili che sarebbero terminate solo con l’avvento della monarchia augustea avevano saccheggiato l’Oriente, riducendolo a una posta in gioco, un campo di battaglia, una terra d’avventure e, soprattutto, una preda da smembrare a vantaggio dei magnati romani, che si disputavano il pote­ re armi alla mano e che spremevano ciascuno la propria parte della Grecia e dell’Oriente per finanziare le guerre. Il trionfo di Augusto portò la fine di questi mali; alle rivalità sangui­ nose tra egoisti magnati romani succedeva il regime pacifico di un re patriarcale: il semplice fatto che ci fosse un monarca era la prova che ormai regnavano l’ordine e la pace; la sua esistenza era un beneficio di per sé. Il monarca era un soter, un «salvatore», ma questa parola non ha niente a che vedere con un misticismo della Salvezza e non significa necessariamente che l’attività del re eliminasse ogni pericolo per i suoi 181

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sudditi: il primo significato di soter o di servare è mantenere, conserva­ re, far durare, impedire di sprofondare. Grazie alla relazione universale e patriarcale tra benefattore e bene­ ficiario, l’imperatore era l’alternativa sognata alla Roma egemonica. Come scrive il geografo Strabone nelle ultime righe del libro VI della sua Geografia, la gigantesca «egemonia» romana (sono parole sue) può essere gestita solo se affidata a un unico uomo «come a un padre»; questi fa regnare la pace e la prosperità «sui romani e sui loro alleati»: contemporaneo di Augusto, Strabone parla ancora la vecchia lingua dei partigiani greci dell’«amicizia romana». Per i romani, l’imperatore era ufficialmente il padre della loro patria, pater patriae. Giocando su questo titolo straniero, i greci lo completano a modo loro: «Padre del­ la patria e di tutta la razza umana»; a Hypaipa e nei dintorni, Augusto è il «soter di tutta la razza umana»; in Licia è il «benefattore e soter di tutto il cosmo». Le città dell’Asia, riconoscenti ad Augusto, decidono che ormai nel loro calendario l’anniversario della nascita di Augusto sarà il primo giorno dell’anno civile, perché egli ha salvato l’universo (e quindi i greci) da una catastrofe (ossia le guerre civili), ed è quindi nato per la felicità di tutti (è imparziale verso tutti e non si comporta da dominatore straniero).319 I cuori non accedevano per via gerarchica al primo magistrato del­ l’impero, la loro lealtà non lo raggiungeva per mezzo dei governatori dei quali teoricamente era solo il gradino più alto, ma si rivolgeva diret­ tamente all’immagine del sovrano. Il legame tra il monarca e i suoi sud­ diti greci era personale, diretto; il sovrano planava molto in alto, tutto solo, al di sopra dei meccanismi estranei del potere romano e al di so­ pra di ogni nazionalità; nell’Oriente greco l’impero non era Roma, era l’imperatore. Questa differenza decisiva tra il legame istituzionale e il legame per­ sonale spiega come Dione abbia potuto con tanta facilità essere al tem­ po stesso antiromano e partigiano convinto dell’obbedienza all’impera­ tore. Vediamo qui per la prima volta quanto hanno mostrato Dagron,320 e in seguito Bleckmann:321 la coesistenza di un patriottismo ellenico e di una lealtà verso il sovrano, che sarà decisiva alle origini dell’impero bizantino. Ma, beninteso, si ritrova una doppia visione del potere so­ vrano: da un lato c’era l’immagine idealizzata del re, consolatoria, che permetteva di sperare ancora o serviva a richiamare all’ordine i sobilla­ tori; dall’altro, però, si sapeva anche che bisognava pagargli un’impo­ sta, che ci si doveva rivolgere a lui con ambascerie e suppliche, e che c’erano buoni e cattivi imperatori. Del resto, oltre che all’imperatore, il patriottismo greco in pratica era molto legato alla piccola patria di ciascuno; la città rimarrà fino in piena epoca cristiana322 il teatro di passioni e di carriere. L’identità elle­ 182

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nica, quella di «tutti i greci» (parole che si leggono così frequentemen­ te e di cui ci si riempiva la bocca), si riduceva a un patriottismo locale, a campanilismi spesso rivali. Un’identità si definisce in rapporto ai suoi punti di riferimento, mi dice l’africanista Valérle Sandoz, e allora questi erano molteplici.323 Un greco (o anche un egiziano ellenizzato) era il patriota della propria città (o metropoli). Attraverso la sua appartenen­ za alla città era sottomesso e fedele all’impero o piuttosto al «potere dei romani». Il nostro greco conservava comunque un’identità greca e, an­ che se riceveva la cittadinanza romana e portava la toga nelle grandi oc­ casioni, rimaneva il patriota della sua piccola patria e sarebbe rimasto un cittadino romano di razza greca. Tuttavia, a ogni incursione barbara che minacciava o che arrivava a saccheggiare Atene o Antiochia, si sen­ tiva sempre più membro di questo impero, dalle cui legioni riceveva protezione. . ... In un impero multinazionale dalle componenti molteplici, eteroge­ nee, dissimili, talvolta rivali e mal integrate tra loro, 1 identità di ogni individuo era cosa complessa. Questa identità comportava infine 1 at­ taccamento dei sudditi alla persona del re, o perlomeno 1 accettazione passiva della sua maestà. Attraverso questa persona, la nazione greca era tenuta a partecipare per procura alla gloria dell impero che era an­ che quella del sovrano; ecco, ad Afrodisia, il monumento o Sebasteion innalzato alla maestà e alla divinità del principe; i bassorilievi che lo de­ corano celebrano le sue grandi imprese, tra cui la sottomissione di un’altra nazione, la Bretagna.324 . Finché l’imperatore regnante era rispettato come un superiore la cui maestà è intoccabile,325 «Roma» (questa parola designava al tempo stesso la città e il sistema imperiale o «potere dei romani») rappresen­ tava sia una dominazione straniera, sia una città amica. I greci ammet­ tevano ufficialmente di essere uno dei popoli sottoposti ai romani e proclamavano così la loro lealtà; in una città della Frigia era stato appe­ so pubblicamente un testamento registrato negli atti pubblici, su cui si poteva leggere che le clausole dovevano essere rispettate «per tutto il tempo che durerà l’egemonia dei romani»;326 l’espressione «potere dei romani» era abituale nelle iscrizioni pubbliche. Verso il 300, in una metropoli egiziana, il popolo riunito in un assemblea straordinaria per un’agitazione tra le altre cose gridava: «Che duri per sempre il potere {.kratos'ì dei romani! O nostri signori imperatori! Viva colui che ama la nostra città!»327 Ma, in terra greca, questa rinuncia all indipendenza o ali autogover­ no presentava delle ambivalenze: le città, grandi o più piccole, preten­ devano di avere con «Roma», in quanto città, dei rapporti internazio­ nali e di tipo diplomatico,328 di amicizia e non di sottomissione; ritener­ si amici e alleati di Roma329 era per loro un punto d’onore. Sotto i Se183

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veri una semplice metropoli egiziana come Ossirinco aveva dichiarato, in un messaggio agli imperatori, di essere fedele al popolo romano e di essergli amica.330 Quando un cittadino greco di Xantos ricevette a tito­ lo personale la dignità suprema di cittadino romano, finse di avere due nazionalità, quella romana e quella propria della sua città.331 Ma c’è di più: il potere romano stesso entra in questo gioco; in un rescritto indi­ rizzato agli abitanti di Afrodisia, Gordiano III chiama Roma «la mia patria» e la città della Caria «la vostra patria». I benefici accordati da un imperatore a una città greca sono in nome dell’amicizia e della be­ nevolenza nei confronti di Roma, come se si trattasse di due potenze internazionali alla pari. Ancora nel 251 dopo Cristo, la stessa città pro­ clama la sua parentela e fedeltà «verso i romani».332 VII In Dione, il rimpianto per l’indipendenza era grande, l’abbiamo visto, ma il suo attaccamento all’imperatore era ancora più grande. Tra il no­ tabile Dione, che non voleva che la plebe si dimostrasse un’orda indi­ sciplinata, e il partigiano del potere imperiale quale egli stesso era al contempo, c’è un legame profondo. Se il nostro oratore dimenticava con facilità che l’imperatore aveva una nazionalità, che era romano, che era un dominatore straniero, era perché il potere imperiale garantiva a Dione i suoi privilegi di notabile ricco e potente della città. Il regime imperiale si reggeva su un mutuo patto: l’imperatore e l’oligarchia senatoriale dirigente sostenevano l’au­ torità dei notabili in ogni città; in cambio di questa autorità e grazie a essa, i notabili dovevano mantenere la disciplina fra le orde plebee del­ la loro città, nel proprio interesse e in quello del regime imperiale. Que­ sta era stata la vecchia ricetta del governo dell’oligarchia senatoriale in epoca repubblicana, e il regime senatoriale continuava a essere una re­ pubblica a regime senatoriale. Una comunanza di interessi formava una catena che legava tra loro il «buon» imperatore, l’oligarchia romana e i notabili locali come Dione. Agli occhi del nostro oratore e filosofo, l’imperatore era l’incarnazio­ ne di quell’autorità a cui ogni uomo degno di tale nome doveva obbe­ dire (i ribelli erano dei cattivi monelli). Come tutti i letterati di buona famiglia, odiava e disprezzava i cinici, quei rivoltosi predicatori popola­ ri da strada.333 Il potere imperiale era necessario per mantenere l’ordi­ ne stabilito. Agli interessi sociali e politici si aggiungeva il mistero delle scelte individuali. La filosofia cinico-stoica di Dione era quella di un carattere che si era costruito in forza di una disciplina interiore ed este­ riore: non saper obbedire agli altri significa non saper comandare a se 184

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stessi. Per questo pensatore l’imperatore era la proiezione esterna deWhegemonikon stoico, della facoltà decisionale, della padronanza di sé che troneggia nell’animo di ogni uomo. Per molti, il suo interesse di possidente e dirigente era la chiave evidente di questa filosofia. Dione era per la sua città, Prusa, quello che l’illustre Erode Attico334 sarebbe stato per Atene: un letterato ricchissi­ mo, celebre e influente, insignito della cittadinanza romana,335 piccolo tiranno locale,336 che opprimeva la città e che voleva abbellirla secondo il proprio ideale; aveva bisogno delle autorità romane, alle quali poter fare appello, e le quali conoscevano fin troppo bene questo rumoroso personaggio.337 Ecco dunque il nostro nemico dei romani che estende­ va le sue relazioni al governatore della provincia e ai potenti signori della stessa Roma: l’imperatore in persona gli scriveva, gli dimostrava amicizia, lo invitava a fargli visita,338 e durante l’assemblea Dione legge­ va ai suoi compatrioti la corrispondenza scambiata con il sovrano. Le cose andavano oltre. A Prusa, Dione era in conflitto con una fazio­ ne rivale e una parte del corpo civico, a causa dei suoi grandi progetti edilizi. In piena assemblea si chiedeva cosa dovesse fare, se dovesse mostrare quali fossero i benefici della concordia. «M a perdo il mio tempo con le parole, farei meglio a uscire e andare a chiamare il gover­ natore».340 E c’era qualcosa di più serio ancora. Durante una carestia, la folla aveva accusato Dione di aver sequestrato il grano per far salire i prezzi;341 la sua casa era stata attaccata a sassate, si cercava di appiccar­ vi un incendio e di bruciarla con tutti i suoi occupanti dentro.342 Dione aveva reagito con parole minacciose: le autorità sarebbero presto venu­ te a conoscenza dell’accaduto, e si sarebbe trattato di autorità «più in alto di quelle che ci sono qui»; in poche parole, Dione si preparava a scrivere all’imperatore.343 .. . L’imperatore era l’arbitro supremo delle città greche e Dione gli ta­ ceva talvolta da portavoce. Ipotizzo addirittura che abbia esercitato la funzione ufficiale di amicus Caesaris?44 Kienast suppone che, quando il nostro oratore andò a dare dei consigli a Tarso, 1 abbia fatto a titolo di emissario ufficioso di Traiano;345 e, in effetti, l’indiscrezione, la preci­ sione e la tranquilla autorità con cui l’oratore, senza bisogno di prete­ sti, si immischiava di tutto, le sue ingerenze nei conflitti di Tarso con le città vicine, nella rivolta dei tessitori, nelle accuse contro i governatori, superavano il diritto all’ammonimento pubblico riconosciuto agli intel­ lettuali. 1 1 · In un’altra occasione Dione era andato ad arringare la popolazione di Alessandria; presumo che vi fosse stato inviato ufficiosamente per sondare lo stato dell’opinione pubblica. A differenza di quanto accade­ va nelle altre città, qui si era confrontato, senza intermediari, con la po­ polazione, la moltitudine, il plethos, plebe anarchica e puerile che non 185

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aveva capi naturali, perché quelTindocile città non era ancora stata do­ tata di un consiglio che riunisse l’élite dei notabili. Dione si rivolgeva alla folla con il tono di un capo che parla a degli inferiori: li rimprovera come bambini, poi li esorta. Voleva spingerli a essere meno indocili, pronunciando queste parole: se voi vi migliorerete «l’imperatore lo sa­ prà»;346 questi bambini non potrebbero avere ricompensa migliore che sapere che l’oratore avrebbe parlato di loro al re e che il re sarebbe sta­ to contento di loro: e allora che la città si riformi, prendendo direttamente come modello il sovrano! Costui avrebbe dimostrato una bene­ volenza paterna verso Alessandria: che dunque, a questo punto, la ple­ be gli risponda dando prova di buon ordine, disciplina, moderazione, costanza, e forse l’imperatore avrà voglia di venire a visitare la città.347 Lo stesso Dione aveva sviluppato nei suoi discorsi sulla regalità tutta una teoria della monarchia, destinata a un successo secolare a Bisanzio. In un primo momento, questa teoria sembra molto vaga, anche se si ve­ de bene che il Buon Re di cui si traccia l’immagine ideale è un impera­ tore romano e, nello specifico, Traiano. Questo re, che è puro soggetto etico e sembra non avere nazionalità, regna su un impero multinaziona­ le. In uno dei discorsi sulla regalità pronunciato di fronte a Traiano in persona, Dione lodava le virtù del principe e aggiungeva: tu preservi (soler) e proteggi tutti gli uomini, perché sei ascoltato e seguito da «in­ numerevoli città, innumerevoli etnie e innumerevoli tribù che non si mischiano tra loro».348 Le regole del genere letterario permettevano ai panegiristi di dare consigli al principe col pretesto di lodarlo.349 Nonostante la sua appa­ rente vacuità, la dottrina di Dione rifletteva un problema reale; sugge­ riva a un sovrano onnipotente di sapersi autolimitare, invece di com­ portarsi da tiranno, come il terribile Domiziano, di cui Dione era stato personalmente vittima, o come Nerone, altro egoista che pensava solo a se stesso, ai suoi capricci e ai suoi piaceri. Al contrario, il Buon Re è altruista, vive solo per il benessere dei governati, per farsi amare da lo­ ro. In poche parole, invece di fare solo a modo suo, il Buon Re si deve limitare a una politica conforme all’opinione pubblica dei governati (o perlomeno di quei governati la cui opinione merita di essere presa in considerazione). A prendere questi discorsi alla lettera, il ruolo dell’imperatore si ri­ duce a quello di modello di virtù per i sudditi. Una società non si man­ tiene da sola, sussiste solo se ogni governato si autodisciplina, poiché solo colui che sa comandare a se stesso saprà obbedire a un altro senza essere riluttante. Come potrà il Buon Re accelerare questo processo? Semplicemente dando il buon esempio, senza muovere un dito. Ognu­ no si autodisciplina, invece che vivere a modo suo, se il sovrano ne dà l’esempio. Perché regni l’ordine, basta che il Buon Re non si abbando­



L’identità greca con e contro Roma

ni egoisticamente ai piaceri, ai banchetti, alle concubine. Per dirla con Michel Senellart «il re saggio governa con l’esempio delle sue virtù, modello vivente piuttosto che monarca sapiente; essendo padrone di se stesso, ispira negli altri il desiderio di imitarlo».350 Tutto ciò è forse possibile perché in questo mondo regna una causa­ lità platonica per la quale ogni cosa è imitazione di un modello alto, poiché il Bene muove dall’alto le cose di giù? Si trattava, piuttosto, da parte di Dione, di una falsa ingenuità: l’onnipotenza degli imperatori aveva come unico limite la buona volontà del sovrano stesso, i consi­ glieri del principe e i panegiristi lo invitavano ad autolimitarsi, col pre­ testo di lodare la sua clemenza o di vantargli le bellezze dell’altruismo. Ma quale linea politica doveva mettere in pratica questo Buon Re autolimitato e altruista? Dione si guardava dal dirlo, perché questa po­ litica, andava da sé, funzionava ancor meglio se tenuta sotto silenzio. Non precisa mai che cosa debba fare il Buon Re, ma solo a beneficio di chi lo deve fare: a beneficio dei governati e non a proprio vantaggio. E questo significa che il re deve fare la politica che piace ai governati, che deve regnare in direzione dell’opinione pubblica. E chi sono i governa­ ti? Evidentemente le persone che contano, la cui opinione è importan­ te; coloro che meritano che si tenga conto della loro esistenza, ossia persone simili a Dione di Prusa, venuto a esporre il suo pensiero. In una parola, i notabili, perché gli altri non valeva neanche la pena che fossero presi in considerazione. Credo che Marx dicesse che 1 Uomo dei filosofi era il Borghese; per Dione, l’Uomo era il Notabile. Tanto che, come abbiamo visto, Dione minacciava la vile moltitudine di Pru­ sa di riferire il suo cattivo comportamento al potere imperiale, qualora fosse necessario.

Vili Per terminare la panoramica degli atteggiamenti greci nei confronti di Roma, spendiamo qualche parola su Elio Aristide e il suo celebre di­ scorso su Roma. Aristide era etnocentrico tanto quanto Dione e abbia­ mo visto che parlava con amarezza della sottomissione delle città greche a un potere straniero. Non a caso, il discorso che tradizionalmente si in­ titola In gloria diRomam è in realtà un esame comparativo dell’imperia­ lismo romano, perché è di questo imperialismo che tratta; il testo è co­ struito sul faccia a faccia tra i dominatori romani, gli archontes, e i domi­ nati, gli archomenoi. L’imperialismo di Roma meritava che i dominati gli obbedissero, nel loro stesso interesse? Questo è il vero soggetto del di­ scorso. L’egemonia romana era accettabile per questi notabili, che, visi­ bilmente, formavano per Aristide la sola parte interessante delle città? 187

L’impero greco-romano

W dentità greca con e contro Roma

L’autore distinse tra il loro sentimento identitario, di cui tacque, e il loro interesse di «collaboratori». Era questo, e solo questo, che gli permise di lodare i romani. È evidente l’audacia di questo testo, che era agli antipodi della lusin­ ga e della sottomissione. Due nazioni erano a diretto confronto: «noi», i greci, e «voi», i romani, che siete stranieri e padroni. Qui iniziava la verifica del dominio romano, superata positivamente: i romani erano buoni dominatori perché erano abili dominatori. Aristide, che era con­ vinto dalla superiorità greca, non era un Graecus adulator. lodava l’ege­ monia romana per una ragione che difficilmente poteva piacere agli uditori più altezzosi che, nel 144 dopo Cristo, comprarono il biglietto d ’ingresso352 per venire ad ascoltarlo nel foro (quello di Traiano, evi­ dentemente). Spiegare che i sudditi dovevano obbedire a Roma nel lo­ ro proprio interesse non era precisamente fare atto di lealtà: sottinten­ deva un’obbedienza condizionata. Per citare Brunt, Aristide esprimeva la posizione ponderata dei notabili greci, che ben sapevano quanto una rivolta contro la dominazione romana non avesse nessuna possibilità di successo e come fosse nel loro interesse approfittare del buon ordine oligarchico e della loro stessa partecipazione all’egemonia romana e persino alla sua cittadinanza. In gloria di Roma è un discorso audace ed eclatante. E l’egemonia romana letta da un punto di vista straniero e doppiamente egocentri­ co, quello di un patriota greco e quello della classe dirigente delle città greche. I romani erano imperialisti più scaltri di quelli di tutti gli im­ peri che li avevano preceduti: associavano alla loro cittadinanza «la parte più distinta, nobile e potente» dei loro sudditi, per assoggettare la parte che non lo era. Aristide non diceva che Roma era diventata la patria comune delle nazioni che componevano il suo impero: parlava di classi sociali più che di nazioni. Continuando a sussistere la diffe­ renza tra la nazione greca e Roma, quest’ultima aveva concesso ai no­ tabili greci il diritto di cittadinanza353 e il privilegio di comandare. Lì risiedeva il suo merito e la sua abilità, perché «gli abitanti più impor­ tanti e più potenti di ogni luogo custodiscono per voi la loro propria patria».354 Per aver scoperto questo segreto di alta politica, i romani si erano assicurati, e a lungo, la solidità del loro dominio, mentre gli im­ peri che li avevano preceduti erano crollati, presto o tardi, vittime del loro stesso dispotismo. Aristide non lodava i romani per il fatto che essi difendevano gli interessi dei notabili come classe possidente, ma per non essersi sosti­ tuiti a loro come classe dirigente e, al contrario, amministrare in mo­ do indiretto. Agli occhi dei romani, evidentemente, l’importante era l’egemonia; per Aristide, l’importante era che i greci vi si trovassero associati. Ma dire al dominatore, con il pretesto di lodarlo, che la sua

autorità è solida solo perché associa i sudditi al suo potere, non era forse il modo migliore di compiacerlo, se era convinto del suo diritto a comandare. Ma c’è ancora qualcos’altro nell’elogio In gloria di Roma·. 1 inaspet­ tato interesse dell’oratore per l’esercito romano.355 Forse Aristide era realista e riteneva che i greci, possedendo tutto meno che un esercito, avessero bisogno che le legioni romane li difendessero? I romani era­ no al servizio dell’Ellade? Non è falso, se si pensa alla guardia che montavano le legioni sull’Eufrate e sul basso Danubio. Nel secolo suc­ cessivo, le monete locali coniate nelle città dell Oriente greco celebra­ vano due cose sul verso:356 la citta stessa, con i suoi culti e le sue origi­ ni leggendarie, e l’impero romano, con le sue legioni che in quel terri­ bile III secolo dopo Cristo difendevano l’Oriente civilizzato dagli as­ salti degli stranieri. L’impero greco d’Oriente succederà un giorno a Roma e alle sue legioni.

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IX Facciamo un salto in avanti di due secoli, qualche decennio prima della separazione definitiva dell’impero d ’Oriente e d Occidente: ecco le opere di Libanio355 che illustrano ancora la stessa sollecitudine militare e lo stesso egocentrismo ellenico. Libanio aveva un’identità a più strati, compenetrata di vecchio pa­ triottismo greco, ellenizzazione orientale, conquista romana, sistema della città e amministrazione imperiale; era un siriano,358 innamorato della sua città greca, Antiochia, nemico dei governatori della provincia, suddito dell’impero di Roma ed elleno fin nel suo intimo, campione di patriottismo locale fino all’assurdo: detestava Costantinopoli e il suo Se­ nato, che aveva spogliato la sua piccola patria di un certo numero di se­ natori locali.359 Non aveva capito che, a partire dalla fondazione di Co­ stantinopoli, i greci avevano iniziato ad assicurare, a proprio vantaggio, l’idea di impero e monarchia universale. Ma le guerre e le legioni roma­ ne avevano finito per ispirare a questo fanatico dell’ellenismo il senti­ mento di appartenenza all’impero romano. Infatti l’orizzonte di Libanio stava per allargarsi bruscamente per via della rivalità tra i due grandi imperi, quello romano e quello iraniano, che lottavano sulle stesse frontiere dell’Oriente greco (Antiochia era stata presa e saccheggiata più di una volta da incursioni persiane). I due giganti che si affrontavano erano «i romani e i persiani»;360 e l’im­ peratore difendeva «la potenza romana»;363 il carattere nazionale dei romani comportava la virtù del valore militare, che permetteva loro di combattere contro i persiani.362 189

L’impero greco-romano

Libanio seguiva quindi con passione lo sviluppo dell’offensiva lancia­ ta da Giuliano contro l’Iran (l’imperatore in persona, leggiamo, lo tene­ va al corrente per lettera). La «vittoria dei romani»363 sui barbari, in cui Libanio sperava e che si augurava con tutto il cuore, riuscì a strappargli, ima volta, per distrazione, parole inaspettate: definisce l’impero, che è per il resto «la terra dei romani», «la nostra» terra. Sotto la sua penna, vi era talvolta il termine «romano» in opposizione a «barbaro», e non era ben chiaro se i greci facessero parte di questi romani364 (così come un tempo non era chiaro se i romani facessero parte dei barbari): la civiltà appartiene a coloro che la difendono. Ed egli sviluppava con nostalgia un sogno bizantino ante litteram, poiché cultura e potere erano infine associati: un sogno di conquista delle terre persiane da parte dell’«impero romano», delle «nostre leggi», dei governatori «venuti da qui»; i per­ siani avrebbero cambiato lingua, abiti, taglio di capelli e si sarebbero procurati professori di retorica.365 Ma, anche dal fronte dei conquistatori, gli elleni avevano una precedenza sui romani: Giuliano, che faceva la guerra ai persiani, invidiava «i trofei dei greci sui barbari» di otto secoli prima.366 1 greci erano i creatori e i possessori della civiltà adottata, pre­ servata e perpetrata dalla potenza romana; Giuliano, imperatore al tem­ po stesso romano ed elleno, la estese all’Iran. Se non fosse stato vilmen­ te assassinato, l’impero persiano sarebbe rimasto ancora nelle mani di «governatori romani», sottomesso «alle nostre leggi».367 Ecco il nostro elleno divenuto patriota di un impero ellenizzato, e non solo per amore di Giuliano, pagano tre volte elleno, ma per una fierezza nazionale, per il timore delle invasioni e dell’imperialismo cul­ turale: la civiltà greca, che aveva investito nell’impero, aspirava a im­ porsi sui vicini barbari. Dopo la morte dell’amato principe e la disfatta del corpo di spedizione romano in Persia, il furore di Libanio si sca­ tenò contro il vergognoso trattato accettato da quella nullità di Gioviano, contro la perdita delle province limitrofe dell’impero e contro il vi­ le abbandono di Nisibi.368 Accadrà lo stesso quindici anni dopo; alla notizia del disastro di Adrianopoli in Tracia e della sconfitta dell’eserci­ to imperiale da parte dei goti, si colpirà la fronte, si strapperà i capel­ li.369 Forse questo patriottismo era soprattutto quello di un abitante delle terre greche e di una regione di frontiera; Libanio sentiva con la stessa vivezza le incursioni germaniche nella lontana Gallia, che per lui erano più che altro occasione di esaltare il genio strategico di Giuliano nelle campagne sul Reno? Dunque l’impero difendeva la civiltà all’esterno, così come rappre­ sentava la legalità all’interno: opprimere i poveri contadini o compor­ tarsi da tiranno, come faceva un governatore di Siria, significava violare «la costituzione dei romani», scrisse in un manifesto di protesta indiriz­ zato a un imperatore.370 Rimane il fatto che la legalità, le istituzioni, 190

U identità greca con e contro Roma

l’amministrazione, tutto questo era venuto da fuori,371 dal conquistatore. L’esercito, che difendeva la grecità e la Siria, era nato romano e re­ stava tale, benché vi servissero ufficiali di origine greco-siriana, tra cui un prozio di Libanio, ammirato dal nipote.372 Ma che dico? La cattedra di retorica greca ad Atene, una fondazione imperiale, era dovuta «alla legge di Roma»!373 L ’impero non era altro che «il regno dei romani», «l’egemonia dei romani»,374 e i suoi abitanti vivevano «sotto la loro au­ torità».375 Roma era «la città che aveva conquistato tutto questo». Eppure, quanto alla cultura, i romani andavano a scuola dai loro sudditi ellenici. Un giorno Libanio, che non si era mai preoccupato di imparare il latino, ricevette una lettera dal rampollo di una delle più grandi famiglie dell’aristocrazia romana; riconobbe che, essendo a ca­ po dei romani, il suo corrispondente si trovava «a capo di tutti gli uo­ mini», ma gli rimproverò di non aver «fatto uso del greco nella sua let­ tera», visto che aveva imparato questa lingua, la conosceva talmente bene che avrebbe potuto considerarsi ateniese, e aveva letto Omero, Demostene ed Erodoto.377 . Libanio scongiurava ugualmente Giuliano di non dimenticare di es­ sere greco e di comandare dei greci; questa raccomandazione, scrive Dagron, suona come una confessione implicita del carattere romano dell’impero.378 Vediamo forse uno scrittore africano o gallico permetter­ si un simile linguaggio? Sant’Agostino, un romano d Africa, non pensò un istante di mettere a confronto Roma e la sua Africa; era fondamen­ talmente romano e tutti i suoi riferimenti erano romani, mentre persino un Temistio, precettore di un principe imperiale, distingueva tra greci e romani.379 Nell’impero, gli elleni erano rimasti sino alla fine una nazione diversa dalle altre, superiore alle altre, e maestra di tutte loro. Ma alla fi­ ne anche Libanio aveva unito nel suo cuore l’identità greca e 1 impero romano con le sue istituzioni. Manca ancora il cristianesimo perché si trovino riunite le tre componenti della civiltà bizantina. X È tempo di proporre una conclusione, prima dell’epilogo. In terra gre­ ca, i romani erano sopportati, obbediti, accettati per abitudine e rite­ nuti utili, ma restavano una nazione straniera per tutti, intellettuali e non, ricchi e poveri, e i greci non li avevano mai amati; accettavano di vivere sotto la pace romana per la semplice ragione che preferivano vi­ vere in pace. Che cosa apprezzavano di questa pace? La protezione contro le minacce esterne e il mantenimento dell ordine sociale. Le ob­ bligate manifestazioni di lealtà, come il culto degli imperatori, mostra­ vano questa sottomissione che, pur essendo interessata, non era certo 191

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meno reale. Invece nessuno apprezzava i governatori romani delle pro­ vince, quei piccoli tiranni delle città, la cui presenza era la prova che la Grecia, o piuttosto le sue città, non erano indipendenti. Nessun autore greco, nemmeno Elio Aristide, aveva esaltato Roma patria comune di tutti i popoli come il poeta latino Rutilio Namaziano in uno dei peggiori momenti della storia occidentale. Il fattore religioso non cambierà niente; Inglebert ha potuto mostrare380 che, anche dopo la diffusione del pensiero cristiano, la differenza di pensiero politico (e di etnocentrismo) tra greci e latini rimaneva più importante di quella che separava i pagani dai cristiani. Il problema greco nell’impero roma­ no c’era sempre stato, così come sarà permanente il problema degli al­ logeni negli imperi austriaco, russo e turco. Fatto rivelatore, nessun im­ peratore, Augusto, Cesare o usurpatore che fosse, è stato di origine propriamente greca. Nonostante la quantità di testi che in ogni epoca hanno parlato di Roma in termini ostili, amari, equivoci o ambivalenti, una maggioranza di storici, Palm, Swain, Reardon,381 Touloumakos, Le Roux,382 mini­ mizzano i fatti: non vedono nel mondo greco altro che una borghesia appagata, soddisfatta, che non si sarebbe fatta problemi al riguardo della propria identità383 e che si sarebbe alleata a Roma, ecco tutto. In­ fatti, sembrano pensare, come è possibile che cinque secoli di pace ro­ mana in Oriente, mai interrotti da rivolte o disordini, possano aver ge­ nerato sentimenti ostili a Roma? E anche se talvolta sembra che simili sentimenti abbiano avuto voce, è il caso di prenderla troppo sul serio? Gli storici no.n hanno affatto torto: la grecità si era alleata, abituata o rassegnata all’egemonia romana. Quello che non sembrano vedere però è che, in un impero multietnico, la sottomissione non aveva impedito di nutrire anche altri sentimenti. Questa anima multiforme aveva resi­ stito fino alla fine, senza sfociare in una rivolta nazionalista, senza nem­ meno fondersi in un’unità nazionale (come avvenne in Francia o in Ita­ lia, secondo Virgilio, dopo la conquista romana). Bisogna guardare alla compattezza, all’alta coscienza di sé di cui ha dato prova per sei secoli l’ellenismo (e ancora di più, se si pensa a «Bisanzio», la nuova Roma). Non ci si sorprenderà se, invece che avere occhi solo per la grandezza romana, si pensa a cosa sia stato l’ellenismo, civiltà «globale» dell’epo­ ca, da Gandhara al Marocco, e per quanti secoli. C’era un’altra nazione, nell’impero, di cui possiamo affermare che non era come le altre: gli ebrei; e non è un caso, perché greci ed ebrei avevano in comune il fatto di considerarsi un popolo diverso da tutti gli altri, un popolo con una vocazione superiore. I greci possedevano la vera civiltà e gli ebrei, dal Deutero-Isaia, avevano il dio più grande, l’u­ nico vero, davanti a cui tutte le nazioni alla fine si sarebbero inchinate. Entrambi, poi, a differenza delle altre nazioni dell’impero, avevano vis192

It identità greca con e contro Roma

suto consapevoli della loro identità e nutrendo risentimento verso il dominatore romano. Sono questi due popoli a fornire la chiave ultima di tutta la storia che abbiamo raccontato. Infatti, nella topica di cui dispongono gli storici, c’è un «luogo» che si adatta facilmente al caso considerato: quello di una civiltà che sentiva di essere portatrice di un ideale universale. I gre­ ci ritenevano di incarnare la civiltà: i vincitori romani si erano ellenizzati e l’Iran, se si fosse civilizzato, si sarebbe ellenizzato. Un giorno, sarà l’i­ slam ad avere questo stesso complesso di superiorità, a voler far regnare ovunque il suo dio, o gli americani e i francesi, che si considereranno i campioni dei medesimi valori universali.3·84 Accade, in effetti, che un popolo, una nazione, un’ernia si dia come identità una simile vocazione. Quando l’Egitto bizantino si intestardirà nel suo monofisismo, scrive l’abile Jean-Michel Carrié, non sarà perché questa eresia fa da «copertu­ ra ideologica» a un nazionalismo separatista egiziano, ma perché l’Egit­ to sarà fiero di mantenere la teologia cristologica, che è quella vera, e che il resto del mondo dovrà adottare per la sua salvezza.385 XI L’epilogo annunciato è che tutto precipitò nel 395 dopo Cristo, quan­ do Teodosio divise tra i suoi due eredi, a uno l’Oriente, all’altro l’Qccidente, la gestione dell’impero, che restava indiviso solo per principio. Gibbon ha espresso bene il carattere prevedibile e brutale della separa­ zione che seguì tra il mondo latino e il mondo greco.386 Come ha scrit­ to Fergus Millar, «in principio si trattava ancora di un impero unifica­ to, ma in realtà ormai c’erano due imperi gemelli»; e il letterato cita una «legge» del 24 aprile 410 dopo Cristo, che mostra come il potere imperiale in Oriente si considerasse indipendente, poiché parlava di «regiones nostri imperli». Per il separatismo di quegli allogeni che erano sempre stati i greci, la divisione del 395 dopo Cristo era quindi stata un’occasione da cogliere. Fu colta nella violenza: in meno di dieci anni, l’Oriente tirò diversi col­ pi bassi, a volte a proprio scapito. Nel 396 dopo Cristo l’imperatore d’Oriente, o piuttosto l’uomo che governava all’ombra del trono, im­ pedì al tutore dei due giovani principi, Stilicone, di venire, a capo delle truppe imperiali, a liberare l’Oriente dalle razzie e dagli incendi che i goti di Alarico infliggevano ai paesi greci fin sotto le mura di Costanti­ nopoli; un ordine imperiale fermò l’offensiva di Stilicone, un altro gli impedì di venire a schiacciare gli invasori in terra greca. E Senato orientale dichiarò nemico pubblico questo liberatore trop­ po zelante. Con ciò, si dava per scontato che nessun occidentale si sa193

L’impero greco-romano

rebbe ormai dovuto immischiare degli affari dell’Oriente, le cui fron­ tiere erano territorio protetto. I conflitti territoriali cominciarono subi­ to dopo. Gli orientali rivendicavano come loro una parte latinofona della penisola balcanica; per i loro scopi misero l’invasore Alarico a ca­ po dell’Illiria, come governatore e capo militare, e deviarono i suoi as­ salti verso l’Italia, loro rivale; e questo portò, nel 410 dopo Cristo, alla presa di Roma da parte dei goti. Ormai l’Oriente potè lasciare in pace l’Occidente indebolito, tormentato dai goti. Tutto questo non era stato solo un dissapore momentaneo, un com­ battimento tra capi limitato al decennio che seguì il 395 dopo Cristo: in seguito niente fu più come prima e quell’anno fatale segnò di fatto la nascita di due imperi distinti. Nel corso dei centodieci anni che aveva­ no preceduto il 395 dopo Cristo, l’impero era stato governato da un unico sovrano solamente per un totale di ventisei anni; per la maggior parte del tempo si era trattato del dominio che due o tre parti, uguali o disuguali, Augusti o Cesari, colleghi o rivali, si ripartivano e le cui fron­ tiere differivano secondo le opportunità o in funzione dei bisogni mili­ tari delle diverse regioni; il giovane Giuliano fu così nominato Cesare della Gallia minacciata sul Reno. Governavano tuttavia insieme un im­ pero in linea teorica indiviso, si aiutavano a vicenda militarmente e i lo­ ro eserciti rivali avevano come posta la parte di impero spettante a cia­ scuno: non erano conflitti tra est e ovest. La dirigenza politica era co­ mune a tutto l’impero; gli occidentali andavano a occupare le alte posi­ zioni in Oriente dove la loro frequente ignoranza del greco li faceva ri­ correre a degli interpreti.387 Ma nel 395 dopo Cristo la «parte greca», come veniva chiamata, si era separata definitivamente; come deplorava il poeta occidentale Claudiano, il mondo si era accorciato, orbis recisus? 88 Nel corso del V seco­ lo, i due imperatori diventarono infatti due sovrani indipendenti che conducevano ciascuno la propria politica a capo di due stati gemelli, che avevano le stesse leggi e istituzioni; tutt’al più condividevano il ri­ cordo di un’antica unità politica e legislativa, per cui l’Oriente qualche volta aveva dato una mano all’Occidente, che aveva dovuto abbando­ nare al suo destino e agli assalti dei barbari. Il divorzio delle due anime accompagnò quello dei corpi politici; l’antico disprezzo reciproco tra Roma e la Grecia, fino ad allora decen­ temente represso, potè, con Claudiano, avere Ubero sfogo in una lette­ ratura di attuahtà che Dagron riassume così: « L ’Oriente ha tradito l’im­ pero e ha fatto trionfare i barbari con le sue veUeità di indipendenza», questo Oriente che, agli occhi del poeta, «è già un impero bizantino». Gli orientah sono degli effeminati che governano degli eunuchi, a cui importa solo il lusso, il circo e il teatro; Roma è l’unica a possedere la forza, il coraggio, a essere degna di portare le insegne del potere.389 194

L’identità greca con e contro Roma

Con il declino, e poi la sparizione dell’impero d’Occidente, i greci si ritrovavano tra greci e restavano i soli padroni della vecchia casa. E, poiché Costantinopoli era la nuova Roma e il loro imperatore conti­ nuava a considerarsi romano perché aveva il potere, anche loro si riter­ ranno come lui romani, sudditi di un impero romano di lingua e civiltà greche, e diventato cristiano. Un greco che, come il latino RutiUo Namaziano, esaltò l’universalità dell’impero romano fu Eusebio,390 agiografo di Costantino: il suo impero era ormai un impero cristiano. La Grecia ricevette quindi un’eredità da Roma. Ma all inizio, nel 330 dopo Cristo, non era previsto niente di tutto ciò: la Costantinopoli di Costantino era ima testa di ponte della romanità e della lingua latina in terra greca.391 Ma l’Occidente romano aveva messo nelle mani dei greci lo strumento della loro sovranità: con Costanzo II il Senato di Bisanzio diventava l’equivalente di quello della vecchia Roma. Costantinopoli era una Roma in cui i greci potevano riconoscersi: era la loro. Avrebbe­ ro acconsentito a considerarsi finalmente romani solo con la cancella­ zione di Roma e del suo potere, che avevano ereditato o conquistato, se si preferisce. _ _ „ Sappiamo che, dopo il 395 dopo Cristo, la politica della corte di Co­ stantinopoli si era largamente disinteressata dell’Occidente, ridotto in realtà all’Italia, salvo che per imporgli il suo codice di leggi e gli impe­ ratori di sua scelta: nessun imperatore sarà legittimo a Roma o a Raven­ na se non verrà riconosciuto o addirittura inviato da Costantinopoli. I «romani» d’Oriente, fieri di essere ormai quelli veri, gli unici «roma­ ni», furono poco sensibili alla perdita della Gallia, della Spagna e della Bretagna; nel 455 non fecero il minimo gesto per salvare la città eterna assediata dai vandali. Il pagano Zosimo,392 verso il 500, fu uno^dei rari autori a fare allusione a quanto risulta palese ai nostri occhi: 1 impero era ridotto alla sua metà; lo fece per attribuire la responsabilità di que­ sta catastrofe alla soppressione dei sacrifici ai veri dei. Nei secoli suc­ cessivi, i romani d’Oriente dimenticheranno la lingua di Roma, la sua letteratura e persino la sua storia. Divenuti signori di una Roma greca, i greci erano ormai i veri romani e si chiameranno Romaioi per il millen­ nio a venire.393 Come dice Claude Lepelley,394 l’indipendenza conquistata dai greci nel V secolo non consistette nel rifiutare la romanità a vantaggio del­ l’ellenismo, ma al contrario nell’armare l’ellenismo con gli attributi del potere romano. Ci fu «un transfert effettivo dell eredita romana in Oriente».395 Ecco che le città, queste piccole patrie, queste fortezze dell’ellenismo duro e puro, cambiavano all improvviso nazionalità: verso il 405, Sinesio, suddito dell’imperatore d’Oriente, si disse scan­ dalizzato nel vedere che i berberi osavano attaccare i «romani» che erano suoi compatrioti greci di Cirene; secondo lui, diventare consi­ 195

Iliden tità greca con e contro Roma

L’impero greco-romano

gliere di questa città ellenica voleva dire prendere parte alla vita pub­ blica romana.393 Visto che erano greci, si disinteressavano del mondo latino; visto che ormai erano loro l’impero romano, Giustiniano tenterà di ricostituire l’unità di tale impero a vantaggio del trono «romano» di Costantinopo­ li: la Grecia vittoriosa conquisterà l’Italia vinta e barbarizzata, e ne farà un prolungamento dell’Oriente. Roma non sarà più che una città bi­ zantina tra le altre, il suo legittimo sovrano sarà l’imperatore di Costan­ tinopoli, di cui i papi saranno sudditi più o meno leali. Dal 678 al 752, undici pontefici su tredici saranno greci e si parlerà greco nei palazzi del Laterano. Per concludere in due parole, i greci hanno sempre conservato, sotto l’impero, il sentimento della loro differenza e della loro superiorità. Quella del loro avvicinamento interessato e della loro sottomissione al­ l’impero è un’altra questione, che non sembra essere stata posta. Ed era per dare a questo sentimento una soddisfazione e un esito cerimo­ niale e lealista che Adriano, agendo da scaltro politico più che da este­ ta, aveva istituito il Panellenio, l’assemblea di tutti i greci, dal Ponto al­ la Cirenaica.

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Questi testi si spiegano, come vedremo, con il concetto di «nazionalità imperiale» degli alti funzionari, fossero anche greci. Lo si afferma, in particolare, sulla base di J. Palm, Rotti, Romertum und Imperium in der griechischen Literatur der Kaiserzeit, Lund 1959. M. Sartre, Le Haut-Empire romain: les provinces de la Méditerranée orientale d’Auguste aux Sévères, Paris 1999, pp. 174-181; G . Dagron, L'Empire romain d’Orient au quatrième siècle et les traditions politiques de l’hellénisme, cit., pp. 74, 82 e n. 284, e 202; J. Bidez, La vie de l’empereur Julien, Paris 1930, p. 30 (trad. it. Vita di Giuliano imperatore, il Cerchio, Rimini 2004); J. Liebeschuetz, Antioch: City and Imperiai Administration in Later Roman Empire, Oxford 1972, p. 10. P. Veyne, LePain et le Cirque, cit., pp. 110-112, da Max Weber, Wirtschaft und Gesellschaft, in S. Altmann et al., Grundriss der Sozialókonomie, Tiibingen 1925 (trad. it. Economia e società, Edizioni di comunità, Milano 1995) (definizione di governo di notabili). Elio Aristide, In gloria di Roma, 64: «G li abitanti più importanti e più potenti di ogni luogo sono per voi, romani, i guardiani della loro stessa patria». Questi «più importanti e più potenti» di ogni città greca sono chiamati altrove «le persone educate, cresciute bene» hoi pepaideumenoi, «quelli per cui si ha della con­ siderazione in ogni città» hoi en axiosei kata polin (Appiano, Guerre di Mitridate, LXI, 252); e poi Cicerone, Pro Fiacco, XXIV, 58: «L e vostre città sono dirette dalle opinioni dei più importanti [princeps], non dalla maggioranza della moltitudine, ma sull’avviso degli optimates». Ci fa piacere citare una raffinata pagina su questo argomento. In Aufstieg und Niedergang der romischen Welt, II, 30, 1, p. 890, F. Lasserre scrive: «In seno al senti­ mento di fierezza che lo anima quando pensa all’immenso potere di Roma, Strabone non può impedirsi, come il greco che è e rimane, di mettere la libertà politica al 196

di sopra dell’appartenenza all’impero. Quasi incosciente e del resto meno illogica di quanto non sembri, questa reazione si esprime principalmente in due modi: il ri­ lievo accordato agli status di indipendenza all’interno dell’impero e l’elogio delle nazioni rimaste libere, con la riserva che si tratti in entrambi i casi di popolazioni 6

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ellenizzate» Settimio Severo restaura la tomba di Annibaie, Apuleio (Apologia, 25) è fioro eh Madaura, Tertulliano è fiero di Cartagine; per il gallo Favorino (nel discoreo XXXVII di Dione di Prusa), la colonia romana di Corinto continua l’illustre città greca distrutta da Mummio (ma cfr. nota 8: agli occhi di Dione, Corinto, la vera Corinto, «non c’è più»); i galli del III secolo prendono dei cognomina celtici per mostrare l’anzianità della loro famiglia, e non a titolo di manifestazione nazionale; Appiano, procuratore equestre e funzionario «imperiale», è fiero delle sue origini egiziane e chiama i lagidi «miei re» (prefazione, 39), cfr. E. Gabba, Appiano e la stona delle guene dvili, L a Nuova Italia, Firenze 1956, p. 110. Dione, discorso X X X I, (Discorso agli abitanti di Rodi). Corinto è stata distrutta da Mummio: per Dione, l’attuale colonia romana di Co­

rinto non conta. , Lusso, immoralità e decadenza politica vanno di pari passo, perche solo la tensione morale di ognuno e di tutti può salvare una citta. ^ 10. Queste città vivono democraticamente, ossia nell’anarchia, e non sotto un auto­ rità illuminata e virtuosa; Dione prende di mira Atene, considerata storicamente come l’incarnazione della democrazia (cosi in Pausania), città degenerata, roma­ nizzata, che, come vedremo, disonora l’Ellade. . .. 11. I romani, che fingono di disprezzare i Graeculi. Dione non ignora in che termini ι romani parlino dei greci ed è molto sensibile a questo (disc. X X XV III, 38). 12. «Quello che hanno vissuto»: questo è il senso del verbo paschein, che rende inutile correggere il testo. Il verbo significa: «Mi viene fatto questo o quello», e più sem­ plicemente ancora: «M i succede questo o quello» (ti pascheis, «che cosa ti succe­ de?», nell 'Antologia Palatina, X II, 50). L’incidente è quello che capita in sostanza e ne fa essenzialmente parte; Aristotele, Politica, 1259 B 16: hoper peponthe, «quello che è il caso di...»; Filostrato, Heroikos, 136,20; 138,14; 141,4; 150,28; 153,27 Kayser: «quello che mi è successo»; «quello che è il caso di...». Stessa cosa in latino con patior. «Miranda passi sumus» scrive Plinio il Giovane a proposito dell eruzio­ ne del 79 dopo Cristo di cui è stato imo dei testimoni, ossia: «C i sono successe co­ se straordinarie», il sole si è aperto davanti a noi... ^ 13. Prima del secolo degli Antonini, la Misia era una regione arretrata, senza citta, un paese di contadini (L. Robert, Études anatoliennes, Paris 1937, p. 195). Il medesi­ mo sdegno per i suoi abitanti, opposti ai veri greci, in Cicerone, A d Quintumfra9.

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trem, 1,1; VI, 19. .. Tra le quali spicca Apollonio di Tiana, secondo Filostrato, che critica spesso ι ro­ mani, condanna i combattimenti dei gladiatori (IV, 22), vuole che con i romani non si sia insolenti né codardi (IV, 33), loda Nerone per aver reso l’indipendenza alla Grecia e pone i romani tra i barbari (IV, 5). Non soffre, dice in quest’ultimo passo, di trovare un nome «barbaro», ossia un nome gentilizio romano, in un documento pubblico greco. In realtà, per purismo, nella letteratura greca di epoca imperiale ι greci che avevano cittadinanza romana sono indicati solo con il loro cognomengKco e mai con il loro nomen latino (D. Campanile, Vivere e morire da sofista: Adria­ no di Tiro, «Studi ellenistici», XV, 2003, p. 252). H von Amim, Leben und Werke des Dio von Prusa, Berlin 1898, p. 213. E di certo il più lungo dei discorsi di Dione; è «expanded from thè speech originally spoken», 197

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secondo C.P. Jones, The Roman World ofD io Chrysostom, Cambridge (Mass.) 1978, p. 26. Ci sfuggono le condizioni di pubblicazione. La data in cui è stato pronunciato o ri­ scritto il discorso è incerta. Piuttosto che riprodurre la bibliografia, rimandiamo a S. Swain, Hellenism and Empire: Languages, Classicism, and Power in thè Greek World, AD 50-250, Oxford 1996, appendice, p. 428. Due certezze: la Grecia non è più libera, ma Rodi è civitas libera (31,105). Quindi il discorso si colloca dopo la fine di Nerone e dopo la «riprovincializzazione» dell’Acaia da parte di Vespasiano, e persino dopo Tito; perché è Domiziano, e non Tito, ad aver reso a Rodi la libertà che le aveva tolto Vespasiano (A. Momigliano, Quarto Contributo, Edizioni di sto­ ria e letteratura, Roma 1969, II, p. 966; ripreso da «JR S», 41,1951, p. 150). Dun­ que, a mio avviso, il discorso come lo leggiamo risale a Domiziano o a Traiano. Non è possibile essere più precisi. La relazione con il Discorso agli abitanti di Ales­ sandria (la cui data a sua volta è dubbia) è incerta; il carattere «retorico» del Di­ scorso agli abitanti di Rodi di cui parla Arnim è decisamente esagerato e la sua data rispetto all’ipotetica conversione di Dione alla filosofia non è determinabile. Infi­ ne, non si può attribuire all’amarezza dell’esilio la posizione antiromana del discor­ so: Dione è sempre stato al tempo stesso un uomo d ’ordine, un partigiano dell’or­ dine imperiale stabilito e un patriota ostile ai romani. T. Mommsen, Rómische Geschichte, VI, 7 (trad. it. Storia di Roma antica, Sansoni, Milano 2001). W. Schmid, Der Attizismus in seinen Hauptvertretem, Liepzig 1887,1, p. 74; Ober den kulturgeschichtlichen Zusammenhang und die Bedeutung der griech. Renaissan­ ce in der Rómerzeìt, Liepzig 1898, p. 20. H. von Arnim, Leben und Werke des Dio von Prusa, cit., p. 236. Invece questi testi hanno ampliato largamente le nostre conoscenze; così C.P. Jones, The Roman World ofDio Chrysostom, cit., che ugualmente scrive che il Discorso agli abitanti di Rodi contiene solo «faintly disapproving remarks àbout thè ruling power» (p. 18), e che «ifthe Rhodian has a deeper message, it is not anti-Roman» (p. 128, cfr. p. 34). Così anche S. Swain in un libro molto documentato, Hellenism and Empire, cit., gli dedica unicamente ima pagina (p. 209): il Discorso agli abitanti di Rodi «is not crudely anti-Roman, but it is certainly ambivalent towards thè merits ofher mie»·, cer­ to, ma non una sola parola è pronunciata sul disegno generale del discorso, sull’im­ presa di raddrizzare la morale dell’ellenismo. Stessa cosa in J. Palm, Rom, Rómertum und Imperium in der griechischen Literatur der Kaiserzeit, cit., pp. 17-19. Bettie For­ te, in un ampio studio di settecento pagine, Rome and thè Romans as thè Greeks Saw Them (American Academy in Rome, «Papere and Monographs», XXTV, 1972), si li­ mita a osservazioni sparse; per A. Momigliano è solo un «sophistic speech» (Quarto Contributo, cit., p. 260). E Dione non pensava ad attaccare Roma (ibid., p. 975). Ibid., p. 260. Les enfants d’Alexandre: la littérature et la pensée grecque, 354 av. J.-C.-519 ap. J.C., Paris 1993, p. 256. H. Musurillo, TheActs o f thePagan Martyrs, Acta Alexandrinorum, Oxford 1954. Dione di Prusa, X X X I, 125 (Discorso agli abitanti di Rodi). Sui contrasti tra la cultura ellenica e il potere romano si veda il notevole libro di G. Dagron, L’Empire romain d’Orient au quatrième siècle et les traditions politiques de l’hellénisme, cit. P.A. Stadter, Arrian ofNicomedia, cit., Chapel Hill 1980, p. 167. P. Vidal-Naquet nella prefazione alla traduzione francese di P. Savinel ALTAnabasi di Alessandro di Amano, Paris 1984, p. 330. 198

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Cassio Dione, LXXX, 4 ,1 , e LXXVI, 12, 5; cfr. XXXIX, 38, 1, e LXXV, 3, 3; si veda J. Palm, Rom, Rómertum und Imperium in der griechischen Literatur der Kai­ serzeit, cit., p. 82; e S. Swain, Hellenism and Empire, cit., p. 403, n. 12. Sull’utilizzo del «noi» in Luciano si veda Alessandro o il falso profeta e Come s ì deve scrive­ re la storia (J. Palm, Rom, Rómertum und Imperium in der griechischen Literatur der Kaiserzeit, cit., p. 54); ma Luciano a quell’epoca era archistator d’Egitto, come ha mostrato H.G. Pflaum. Più in generale, si veda F. Millar, A Study o f Cassius Dio, cit., p. 174. Plinio, Lettere, X, 116 (117). Ci sarebbe un intero dossier da compilare sulla questione; notiamo solamente che Cassio Dione (LXXIX, 8,4) celebrava i Saturnali a Nicomedia; Alcifrone (Lettere, III, 21) vi fa allusione; i veterani egiziani, cittadini romani per honesta missio, li ce­ lebrano. Si veda Libanio disc. XVI, 36, e IX, 11, con la nota di Norman all edizio­ ne Loeb di Libanio, Selected Works, I, p. 232. Si pensa ai Kronia di Luciano. La fe­ sta romana era stata introdotta nel mondo greco dai greci che avevano ricevuto la cittadinanza romana e dai veterani (è il caso dell’Egitto). L. Mitteis e U. Wilcken, Grundzùge und Chrestomathte der Papyruskunde, cit., Π, 1,]uristischer Teil, Grundzuge, p. 246. Tuttavia, dopo la Constitutio Antoniniana, questo fastidioso obbligo cadrà in disuso; quando Teodosio II, nel 439, lo soppri­ merà formalmente (Novelle di Teodosio, XVI, 8), la tolleranza era già antica.

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R.R.R. Smith in «JR S», 88,1998, pp. 65-77.

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J. Palm, Rom, Rómertum und Imperium in der griechischen Literatur der Kaiserzeit, cit., p. 74. Così anche B. Forte, Rome and thè Romans as thè Greeks Saw Them, cit., p. 427. J. Frazer nella sua celebre introduzione al Pausanias della collezione Loeb. J. Heer, La Personnalité de Pausanias, Paris 1979, p. 68; così anche S. Swain, Helle­ nism and Empire, cit., p. 333: « Resentful ofRome’s conquest ofGreece». J.-L. Fer­ rary, Philhellénisme et Impérialisme: aspects idéologiques de la conquète romaine du monde hellénistique, Rome 1988, parla del «vivissimo nazionalismo ellenico» di Pausania. C. Habicht, Pausanias und seine «Beschreibung Griechenlands», Miinchen 1985, p.^ 121. Cfr. E.L. Bowie, Past andpresent in Pausanias, in Entretiens sur l’Antiquité classique, X X X III: Opposition et résistance à l’Empire, cit., p. 207. Da cui malizie come questa: scrivendo per lettori colti, Pausania fìnge di insegnare loro chi erano stati Cesare e Augusto, come se parlasse di sovrani poco conosciuti di un’altra terra (III, 11, 4 e IV, 31,1: «Augusto, che è stato sovrano dei roma­ ni...»); immaginiamo un indipendentista scozzese che fingesse di dover precisare ai suoi lettori colti che Elisabetta è stata regina d’Inghilterra. Parla di «una statua di Augusto, re dei romani, e di un’altra di Nicomede, re di Bitinta» (V, 12,7). E 1 im­ peratore Antonino «che i Romani chiamarono Pio», imperatore pacifico ma ener­ gico, ha saputo reprimere le rivolte o le invasioni barbare in Libia e Bretagna e ha dato del denaro «ai greci e ai barbari che ne avevano bisogno» in Africa e in Siria (Vili, 43,3-6). Pausania, VII, 17,3. , Esempio aneddotico, il vascello commerciale romano che nel 250 avanti Cristo passava al largo dell’Argolide o nei paraggi di Andro faceva vela verso la Siria (Plu­ tarco, Vita di Arato, XII, 5). Strabone, V, 232 C. Mi permetto di rimandare al mio Y a-t-il eu un imperialisme romain?, «MEFR», 87,1975, pp. 739-855. Alcuni hanno obiettato che una simile spiegazione, che altri

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trovano piuttosto evidente e persino ovvia, non dipendeva dalla «stretta erudizio­ ne». In effetti è così. Considerazioni sulle cause della grandezza dei romani e della loro decadenza·, è suffi­ ciente leggere Tito Livio (secondo Polibio), X X X I, 29, per convincersene. Uno storico attuale non parla diversamente: «I romani sono profondamente convinti di essere un popolo superiore, destinato per natura a regnare sulla terra intera», scri­ ve J.L . Ferrary, Le discours de Laelius dans le De re publica, «M EFR », 86,1974, p. 763. Roma non ci mette nessuno sforzo, nessuna missione per propagare o assicu­ rare dei valori: la sua stessa gloria è ima giustificazione sufficiente. Sorvoliamo sul­ le apologie e le autogiustificazioni lenitive dei romani a riguardo di se stessi e che fanno ancora parte della tradizione delle laudes Romae, gli elogi di Roma: lo iustum bellum, il formalismo giuridico dei feziali, la giustizia e i benefici del suo go­ verno, lo stoicismo eccetera. P.A. Brunt, Roman Imperiai Themes, cit„ cap. 5: «Augustan Imperialismi. Su Tuci­ dide e Roma, ibid., pp. I l i e 290-291. Bisogna prendere sul serio il «pensa sempre, Roma, a governare i popoli» (tu regere populos memento) di Virgilio, e la «gloria di comandare» (laus imperii) di cui parla Cicerone (Pro Sestio, 104 e altrove). E per aver scritto ciò (in Y a-t-il un impérialisme romain?) ho ricevuto l’approva­ zione di P.A. Brunt (Roman Imperiai Themes, cit., p. 300, n. 42). Sull’imperiali­ smo si vedano i capp. 5, 6,1 4 e 18 del libro di Brunt. Sulle variazioni dAl’aggressiveness and expansion legate a particolari momenti storici, E. Badian, Roman lmperialism in thè Late Republic, O xford 1968. Il passaggio all’imperialismo espansionista, ovvero l’origine della seconda guerra macedone, è uno dei grandi problemi della storia antica. Uno storico erudito e concreto, Édouard Will {Histoire politique du monde hellénistique, «Annales de l ’E st», Nancy, II, 1967, pp. 116-125), scrive che Roma non vi difendeva né gli interessi né il diritto: «Le cau­ se della guerra non devono essere ricercate nella situazione diplomatica o milita­ re del mondo a quei tempi, situazione che tutt’al più fornisce pretesti e giustifi­ cazioni, ma la vera ragione deve, in definitiva, essere chiamata col suo nome: im­ perialismo romano», che «procede da una dinamica umana che le circostanze più diverse possono canalizzare in un senso o in un altro». Will non dice nulla di diverso quando aggiunge che le origini di questa guerra devono essere ricercate «nell’esistenza nascente di un ambiente militare che tende al professionismo» (p. 124, cfr. p. 84). In effetti, come potrebbe esistere questo imperialismo senza es­ sere incarnato da figure concrete? Dire che essi facciano della conquista una p ro­ fessione implica una scelta da parte loro, un’iniziativa arbitraria, che mille ragio­ ni sociali o altre rendono possibile, ma non impongono. Quanto agli interessi economici, hanno «generalmente seguito i progressi dell’imperialismo piuttosto che avergli spianato la strada» (p. 127). Polibio, XVI, 34, 6 (ed. it. Storie, a cura di D. Musti, Bur, Milano 2003, voi. V, p. 319). Un capo pellerossa, scrive Tocqueville nella Democrazia in America, preferirà m o­ rire nella gloria perduta e nella nobile miseria piuttosto che mettersi a coltivare la terra per ritrovarsi all’ultimo posto nella società dei bianchi. Mi permetto di riman­ dare a L’hellénisation de Rome et la problématique des acculturations, «Diogène», 106,1979, pp. 3-29. Consapevole del carattere voluto di questa seconda ellenizzazione, Polibio cerca una caricatura nella persona di un senatore colpito da grecomania (XX X IX , 1). L.H. Lyautey, lettre de Fès, 22 juin 1912, in Lyautey l’Africain, Paris 1953,1, p. 17. In Rolybe ou la Grece conquise par les Romains, ripreso in Recherches sur quelques

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problèmes d'histoire (trad it. Polibio: la Grecia conquistata dai romani, Laterza, Roma-Bari 1949). J. Deininger, Der politiscbe Widerstand gegen Rom in Griechenland, Berlin 1971, in particolare pp. 17-20, 245, 265; un’altra sfumatura importante è dovuta a J. Briscoe, di cui parleremo in seguito. J.-L. Ferrary in C. Nicolet, Rome et la conquète du monde méditerranéen, 2: Genèse d’un empire, Parigi 1978, p. 762, ma a mio avviso questo non rovina la «sintesi» Fustel-Briscoe-Deininger; si veda P.A. Brunt, Roman Imperiai Themes, cit., p. 281. A. Fuks, The Bellum Achaicum and its social aspects, «Journal of Hellenic Studies», 90,1970, p. 78. E. Badian, Roman lmperialism in Late Republic, cit., pp. 2 e 90; nel mondo greco, Roma si appoggia suìl’Acaia, Rodi e Pergamo; in Gallia, Cesare si poggerà sugli edui e gli averni. Polibio, X X X V III, 9. L a scelta era: o vincere Roma al prezzo di un’egemonia macedone e di un movimento sociale diretto contro gli oligarchi; o giocare la carta delTamicizia romana per avere una posizione migliore dopo la vittoria ro­ mana che l’Acaia preferiva, schierandosi con Roma; infatti Roma le avrebbe la­ sciato annettere la Laconia e la Messenia (Polibio, X X IV ) e dominare il Pelo­ ponneso. Sugli argomenti in favore dell’altra scelta, Polibio, V, 104; IX , 33 e 35: schierandosi dalla parte di un imperialismo macedone nella discendenza di An­ tigono Dosone; cfr. H. Bengston, Die Inschriften von Labranda und die Politik des Antigonos Doson, «Sitzungsberichte der bayerischen Akademie der Wissenschaften», 1971,3. Se due prigionieri si mettono d ’accordo per ribellarsi nello stesso momento, hanno qualche possibilità di sopraffare il loro carceriere; ma se uno dei due tradisce l’al­ tro e passa dalla parte del carceriere, avrà delle garanzie sulla benevolenza del car­ ceriere in caso di una sua vittoria, vittoria che egli rende possibile, appunto, tra­ dendo il suo compagno. Ecco un bel paradigma prasseologico, ma che rischia di avere un seguito a cui si accenna troppo poco: il carceriere, una volta sbarazzatosi del primo prigioniero, non si sbarazzerà anche del secondo? In tal caso, il prigio­ niero che ha tradito sarà ucciso a sua volta. La questione diventa allora di sapere se il carceriere è affidabile: è un diplomatico gentiluomo, come al tempo dell’equili­ brio delle potenze, o un Hitler? Questione storica, contingente, e non più prasseologica (senza parlare della morale, o, più esattamente, di una visione politica meno ristretta della sorte degli esseri umani e del loro avvenire). Nel 302, la Lega di Corinto rinnovava il divieto alle città che a essa prendevano parte di procedere a misure rivoluzionarie quali «la confisca pubblica dei beni, la condivisione delle terre, l’abolizione dei debiti, l’affrancamento degli schiavi» (Pseudo-Demostene, XVII, 15; Supplementum epigraphicum Graecum, 1 ,1923, n. 1, col. 1,28). Inscriptiones Graecae, II, 448 (W. Dittenberger, Sylloge inscrìptionum Graecarum, 3a ed., 317); Diodoro, XVIII, 10,1. M. Holleaux, Études d’épigraphie et d’histoire grecques, Paris 1966, vol.V, p. 397, uscito prima in inglese nella Cambridge Ancient History, V ili, 1930, p. 209. J. Briscoe, «The Antigonids and thè Greek States», in Gamsey e Whittaker, (edd.), lmperialism and thè Ancient World, Cambridge 1978, p. 147. Tucidide, III, 82,1. Si veda per esempio Senofonte, Elleniche, II, 3,25; V, 2 ,2 6 e 36; VII, 1,43. Polibio, XXVIII, 17,12 (ed. it. op. cit., voi. VII, p. 53); cfr. X X IX, 10,1. Id., X X , 6 ,4 ; cfr. XXTV, 7 ,4 . Anche Cicerone oppone ilpopuli commodum all’wftlitas rei publicae, in poche righe che riassumono in modo sorprendente uno dei

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grandi orientamenti della politica interna, tanto a Roma quanto in Grecia (Pro Sesito, XLVIII, 103). Polibio, X X II, 4 ,1 (ed. it. op. cit., voi. VI, p. 143). Anche la Beozia si era alleata alla Macedonia e la massa della popolazione era ostile a Roma (XVIII, 43, 3). La rivoluzione in questione (ossia il fatto di «volere delle novità», kainotomein) era quello che, nella stessa epoca, a Roma prendeva il nome di tabulae novae: la sop­ pressione o diminuzione dei debiti. U n’oligarchia ha bisogno di ricchezze per sussistere e compiere la sua missione civica, scrive Cicerone nella Pro Sestio, XLVIII, 103. Polibio, X X , 6 ,3 . Per procedere per allusioni ed esemplificazioni sul problema dei debiti, citiamo anche Tito Livio, XLV, 5 ,5 , e W. Dittenberger, Sylloge inscriptio­ num Graecarum n. 742, righe 29 ss. Polibio, X X I, 31, 9. Sul gusto gratuito della folla per le novità (rivoluzionarie), X X X V I, 13,3. È uno dei preconcetti diffusi durante tutta l’antichità, in Tacito per esempio. Veniva chiamata «democratica», in epoca ellenistica, ogni città che obbediva solo a se stessa (o ai suoi oligarchi), e non a una potenza straniera o a un re; la parola si­ gnifica quindi «città indipendente». Polibio, XXTV, 9,2-5 (discorso di Callicrate) (ed. it. op. cit., voi. VI, p. 235). Come dice Polibio, XXIV, 13, 8 (ed. it. op. cit., voi. VI, p. 245), ma in un caso par­ ticolare, quello degli uomini politici della sua patria, l’Acaia, e in rapporto agli av­ venimenti degli anni 198-188 avanti Cristo; perché questo frammento è stato mes­ so a torto nel libro XXIV, come a dimostrato M. Holleaux, Études d’épigraphie et d’histoire grecques, cit., voi. V, p. 137. Cicerone, A d Quintum fratrem, I, 1, V ili, 25: «Nullas esse in oppidis seditiones, nullas discordias; provideri abs te ut civitates optimatium consiliis administrarentur». J . Briscoe, Rome and thè Class Struggle in Greek States, «Past and Present», 36, 1967, p. 3. Pausania, VII, 16, 9 (ed. it. Viaggio in Grecia. Libro VII: Acaia, Bur, Milano 2003, p. 179), discusso da J. Touloumakos, DerEinfluss Roms auf dieStadtstaaten, Gottingen 1967, pp. 11 e 150-154. M a si veda J.-L. Ferrary, Philhellénisme etlmperialisme, cit., p. 194. Sul rinforzo dell’esecutivo, si vedano le precisazioni sfuma­ te di P. Fròhlich, «Les magistrats des cités grecques», in H. Inglebert, (éd.), Idéologies et Valeurs civiques dans le monde romain, cit., pp. 81-82. Il termine «dem o­ crazia» aveva un utilizzo soprattutto «ideologico» (in particolare negli esempi che citiamo in queste pagine); la democrazia poteva essere un’oligarchia che pia­ ce all’autore del brano, o ancora essere il diavolo, la condivisione delle terre e l’a­ bolizione dei debiti, o infine un’oligarchia che l’autore in questione detesta; così anche in Plutarco, Vita di Filopemene, XVII, 2, i «dem agoghi» sarebbero i capi del partito... filoromano, stigmatizzati sotto questo nome perché sono i «cattivi» che si oppongono al «buon» Filopemene. J.-L. Ferrary, Philhellénisme et Impérialisme, cit., p. 195. H. Miiller, «Bemerkungen zur Funktion und Bedeutung des Rats in den hellenistischen Stadten», in M. Wòrrle e P. Zanker (Hrsg.), StadtbildundBiirgerbildim Hellenismus, Miinchen 1995, pp. 52-54; P. Hamon, riassunto nella «Revue des études grecques», 114,2001, p. XVI. P. Fròhlich, Le pouvoir des magistrats dans les cités grecques (IP s. av. J.-C .-I" s. ap. J.-C.), in H . Inglebert (éd.), Idéologies et Valeurs civiques dans le monde ro­ main, cit. Epigrafe di Dyme, in W. Dittenberger, Sylloge inscriptionum Graecarum, n. 684;

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E identità greca con e contro Roma abbiamo consultato S. Accame, I l dominio romano in Grecia, Signorelli, Roma 1946, p. 9; J. Deininger, Der politische Widerstand gegen Rom in Griechenland, cit., p. 243, n. 11 e 12; J. Larsen, Greek Federai States, Oxford 1968, p. 499, e so­ prattutto J.-L. Ferrary, Philhellénisme et Impérialisme, cit., pp. 186-195, con la nuova datazione, e p. 206. In occasione della rivolta giudaica, i sicari, signori del Tempio, ne incendiarono gli archivi, per «far sparire gli atd di prestito e impedire le riscossioni dei crediti, per acquisire i favori della massa dei debitori» (Flavio Giuseppe, La guerra giudaica, II, 17, 427); cfr. forse un caso analogo in Egitto, in M.I. Rostovtzeff, The Social and Economie History of thè Roman Empire (trad. it. Storia economica e sociale dell’impero romano, Sansoni, Milano 2003); L. Mitteis e U. Wilcken, Grundzuge und Chrestomathie der Papyruskunde, cit., I, 2, Chresto73. 74. 75. 76.

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mathie, p. 16. Plinio, Lettere, IX, 5. Se almeno faccio affidamento al mio articolo Ya-t-il eu un impérialisme romain?, cit., 87,1975, pp. 839-842. J.-L. Ferrary, Philhellénisme et Impérialisme, cit., p. 165, n. 130. Lettera del Senato agli anfizioni di Delfi; cfr. W. Dittenberger, Sylloge inscriptio­ num Graecarum, n. 643; J. Bousquet, Le roi Persée et les Romains, «Bulletin de corresp. hell.», 105, 1981, p. 407; J.-L. Ferrary, Philhellénisme et Impérialisme, cit., p. 170. Polibio, XXVII, 10,3, e XXVII, 9 ,1 (ed. it. op. cit., voi. VI, p. 285 e p. 289); segue un aneddoto destinato a ridicolizzare queste bambinate popolari. In molti decreti, una città si vanta di aver sempre dimostrato rispetto e zelo per 1 amicizia romana; così W. Dittenberger, Sylloge inscriptionum Graecarum, 3‘ ed., n. 694 1 10· 665,1. 40 (cfr. Orientis Graeci ìnscriptiones selectae [di seguito OGIS], n. 351, n. 2); W. Dittenberger, OGIS, n. 116,1. 10; 438 e 439; 442. Alcune città si vantano della loro fedeltà a Roma nella guerra mitridatica; cfr. ibid., 441,1.33 e 37 (con dei desideri per 1’hegemonia romana). Primo libro dei Maccabei, 8,17-22 (ed. it. op. cit., pp. 467-468); cfr. E. Will, Histoirepolitique du monde hellénistique, cit., pp. 311-312. U. von Wilamowitz citato da L. e J. Robert, La Carie: histoire et géographìe historique, Paris 1954, II, pp. 96-102, in particolare p. 101. Il Senato o meglio il governo romano riconoscono che Magnesia al Meandro o meglio Chios «si e unita all ami­ cizia del popolo romano» (W. Dittenberger, Sylloge inscriptionum Graecarum, 3 ed., n. 679,50 e n. 785,15). Il popolo di una città della Tessaglia è riconosciuto co­ me «amico e alleato» dal Senato (n. 674, 20). Una formula diversa parla di essere «nell’amicizia e fedeltà (pistis~] ai romani» (n. 675, 20, cfr. 10). Essendosi schierato dalla parte dei romani durante la guerra mitridatica, il sacerdote del santuario di Oropo è qualificato come «alleato» dal Senato, perche è «rimasto sempre in amici­ zia con il popolo romano» (n. 747,50). Almeno sotto Augusto i nomi e titoli degli amici del popolo romano erano iscritti su tavolette di bronzo conservate a Roma sul Campidoglio («Année épigraphique», 1976, n. 678). Sul carattere eccezionale del titolo di filelleni accordato ai romani, J.-L. Ferrary, Philhellénisme et Impériali-

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sme, cit., p. 498. W. Dittenberger, OGIS, n. 438 e 439; Die Inschriften von Pergamon {Altertumer von Pergamon, V ili, 1), n. 268; Die Inschriften von Ephesos, II, nn. 205,206 e 251 (Borker et Merkelbach), Bonn 1979. F. Hiller von Gartingen, Inschriften von Priene, Berlin 1906 (1968), p. 59, n. 55, ri-

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ga 19. Una lettera confidenziale del re Aitalo II al gran sacerdote di Pessinunte, scritta

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L identità greca con e contro Roma

L’impero greco-romano

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con vivacità in una lingua familiare e, per noi, difficile (W. Dittenberger, OGIS, n. 315, VI; C.B. Welles, Royal Correspondance in thè Hellenistic Period, New Haven 1934, p. 245, n. 61); la lettera è stata incisa solo un secolo dopo, quando ave­ va perso il suo veleno. Sembra che il re esiti a difendere Pessinunte dalle incur­ sioni dei galati, perché Roma aveva garantito la loro autonomia: «Q uando ho detto quello che ci era sembrato meglio fare, i miei consiglieri hanno parlato a lungo e, in un primo momento, erano tutti del nostro stesso parere; ma Cloro an­ teponeva molto energicamente i romani e consigliava di non fare assolutamente niente senza di loro. In principio, solo qualcuno ha condiviso la sua opinione; ma in seguito, giorno dopo giorno, a rifletterci bene, questa ci ha convinto e pas­ sare all’azione senza di loro sembrava comportare grossi rischi: se fossimo riusci­ ti nel nostro intento, ci sarebbe stata ostilità, detrazioni e sospetti malevoli, come ne hanno avuti anche su mio fratello; se invece avessimo fallito, ci avremmo per­ so, evidentemente, poiché questo, invece di attirarli a noi, li avrebbe rallegrati, perché avevamo intrapreso una cosa così importante senza di loro. In compenso, se non avessimo fatto niente senza averli consultati e fossimo stati sconfitti, non vogliano gli dèi, saremmo stati soccorsi e avremmo avuto la nostra rivincita, vo­ lessero gli dèi». E il re decise di inviare degli ambasciatori a Roma alla prima oc­ casione. Quando gli anfizioni di Delfi confermano i privilegi degli artisti di teatro dionisia­ ci, aggiungono: «Se i romani non sono contro di loro»; i mercenari di Tolomeo VII proclamano che il loro re «ha scelto di piacere ai romani» (M. Holleaux, Études d’épigraphie et d’histoire grecques, cit., Ili, p. 77). In compenso, Mitridate qualifi­ cherà i romani come «nemici comuni». Cfr. É. Will, Histoire politique du monde hellénistique, cit., II, pp. 211,244,405. Letteralmente: questi «comuni evergeti». J.-L. Ferrary, Philhellénisme et Impérialisme, cit., pp. 124-132. J. e L. Robert, «Bulletin épigraphique», «Revue des études grecques», 1983, n. 363; L. Robert, Théophane de Mytilène à Costantinople, «Comptes rendus de l’Académie des inscriptions», 1969, pp. 57-58. W. Dittenber­ ger, Sylloge inscriptionum Graecarum, 3a ed., n. 630 (i romani sono i benefattori di noi tutti; i re che sono fedeli all’amicizia dei romani sono una fonte di benefìci per i greci). I romani sono i benefattori del mondo intero (C. Habicht, Samische Volksbeschliisse, «Athenische Mitteilungen», 72,1957, p. 248). W. Dittenberger, Sylloge inscriptionum Graecarum, 3“ ed., n. 702; ma con una cor­ rezione decisiva alla settima riga di A. Wilhelm nell’Anzeiger dell’Accademia di Vienna, 1922, p. 81: paranegnon («che dà lettura»). Philhellénisme et Impérialisme, cit., pp. 124-125. O. Kem , Die Inschriften von Magnesia am Meander, Berlin 1900 (1965), p. 94, n. 104, riga 21. W. Dittenberger, Sylloge inscriptionum Graecarum, 3a ed., n. 685,20; n. 665,40 (cfr. Polibio, X X X I, 1,7); n. 692,60; n. 664,35. W. Dittenberger, Sylloge inscriptionum Graecarum, 3“ ed., n. 656, 20 (per la data, L. Robert nel «Bulletin de corresp. hell.», 1935, p. 507, e G . Chiransky in «Athenaeum», 1982, p. 470). Nel Nigrino e nel De mercede conductis, Polibio, X X X , 6-9. Id., XXV III, 6. Id., X X X , 22, e X , 15. Lunga citazione in Ateneo, V, 211 D-215 B; è il frammento F 36 di Jacoby, 235 di Edelstein e Kiss (con il Commentary, 1 ,863), 247 di Theiler (con gli Erlduterungen, p. 125). Senza riprendere la lunga bibliografìa di questo celebre testo, rinviamo a 204

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J.-L. Ferrary, Philhellénisme et Impérialisme, cit., pp. 437 e 473; e a C. Habicht, Athen: die Geschickte der Stadt in hellenisticher Zlit, Miinchen 1995. A meno che non fosse rimasto povero a causa di qualche grave vergogna; Posidonio esita visibilmente tra le due possibilità. Oltre all’illustre Blossio di Cuma, tra altri esempi, Ateneo, V, 215 B-C, parla eh un certo Lisia, epicureo, che diventato il capo a Tarso e sfoggiando il fasto di un tiran­ no, «divise tra i poveri i beni dei ricchi». Sulla concordia, C. Nicolet, L’Ordre équestre à l’époque répuhlicaine, Paris 1966,

pp. 667-672. . . , «Karikatur», scrive J. Deininger, Der politische Widerstand gegen Rom in Griechenland, cit., p. 249; P. Green parla di un «class-conscious snob» (Alexander to Actium: The Hellenistic Age, London 1990, p. 562). È un linguaggio un po’ vivo ma meno retorico di quello di M. Pohlenz, Die Stoa: Geschichte einer geistigen Bewegung, Gottingen 1959,1, p. 213 (trad. it. La stoa: storia di un movimento spirituale, Bom­ piani, Milano 2005). , 99. J.-L. Ferrary, Philellénisme et Impérialisme, cit., p. 381, n. l l . A credere a M. Fonlenz, Posidonio si indigna all’idea che Atene abbia potuto prendere le parti di Mi­ tridate, quel «campione dell’E st» (la prefazione di Pohlenz data 1943), e vedeva nella vittoria di Roma, da bravo stoico, una necessità provvidenziale; Pohlenz cita addirittura Hegel, «la storia del mondo è il tribunale del mondo» (Die Stoa, cit., I, p. 23). Ma, in principio, Pohlenz si fa una strana idea delle Provvidenza stoica; questa, in realtà, non sostiene nel tempo il corso della storia e il destino degli impe­ ri: organizza il cosmo e i suoi abitanti all’inizio di ogni ciclo cosmico. Inoltre, un fi­ losofo resta comunque un uomo, e adatta la dottrina alle opinioni personali; uno stoico può stigmatizzare altrettanto bene l’imperialismo come effetto della cupidi­ gia (quello che fa Dione di Prusa a proposito dell’imperialismo romano) e i nemici di Roma in quanto ribelli alla disciplina interiore (quello che fa Seneca a proposito della resistenza dei galli a Cesare). D a bravo stoico, Posidonio rapporta le azioni degli uomini alle loro passioni, ma «sceglie» la passione che trova più condannabi­ le. Notiamo che non si è mai potuto stabilire un legame tra la setta a cui appartene­ va un filosofo ellenico e la sua attitudine politica, e a ragione. 100. J.-L. Ferrary ha mostrato come Posidonio non fosse la fonte del discorso di Lelio che giustificava il domino romano nel De legibus di Cicerone (Philhellénisme et Impérialisme, cit., pp. 368-381). . 101. È precisamente a proposito, se non di Atenione, perlomeno del suo doppio, Aristione (non entriamo nel dibattito sulle loro identità), che Appiano, avendo stig­ matizzato questo traditore di Epicuro che difendeva Atene contro Siila, si lascia andare a un’invettiva contro i cinici del suo tempo, predicatori ribelli che arringa­ vano il popolino per le strade (Guerre di Mitridate, 28); che sarebbe come attribui­ re la rivoluzione francese o russa ai gauchisti del 1967-68. Altre uscite contro icini­ ci (tra cui quella di Dione di Prusa, X X X II, 9-10) sono evidenziate da M.P. Charlesworth nella Cambridge Ancient History, X I, 1936, p. 10, η. 1; aggiungete una let­ tera di Alcifrone, Π, 3 8 ,1 . Su questi predicatori ribelli, R MacMullen, Enemies of thè Roman Order: Treason, Unrest and Ahenation in thè Empire, Cambridge (Mass.) 1966, pp. 59-62; e M.I. Rostovtzeff (che evidentemente pensa ai populisti russi e ai bolscevichi), The social and Economie History ofthe Roman Empire, cit.,

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PP· 97-99. . . . . , , , 102. Luciano, De morte Peregrini, X IX , p. 343. Peregrino si brucia vivo in pubblico nel 165 dopo Cristo in occasione di un concorso olimpico; sembra che la sua chiamata alle armi si situasse due olimpiadi prima (Luciano, X X ) e che ebbe ugualmente il 205

I!identità greca con e contro Roma

L’impero greco-romano

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pubblico del concorso come uditore. Sull’ardire suicida delle imprecazioni pubbli­ che dei cinici, Erodiano, I, 9, 3-4. Secondo Luciano, Peregrino era un mezzo paz­ zo; secondo Aulo Gelilo, X II, 11, era un uomo austero e fermo con dei pensieri elevati; si veda C.P. Jones, Culture and Society ofLucian, Cambridge (Mass.) 1986, p. 131. Sotto Antonino, in data sconosciuta, ci fu una ribellione in Acaia (Storia Augusta, Antonino Pio, V, 5) di cui non si sa niente; a mio avviso, ha più senso pen­ sare a una rivolta in qualche città piuttosto che mettere questa notizia in rapporto con Peregrino. Su Maricco, Tacito, Storie, Π, 61; G . Bowersock, «Subversion in thè Roman provinces», in Entretiens sur l’Antiquité classique, X X X III: Opposition et résistance à l’Empire, cit., p. 311. Per capire queste rivolte barbare in Gallia o in Pannonia av­ venute in seguito alla loro rapida modernizzazione a contatto con i romani bisogna rileggere un testo rivelatore, Velleio Patercolo, II, 110,4. Nella biografia che gli ha consacrato. Stessa ostilità verso Demostene in Polibio, X V III, 14, e V ili, 12 B; cfr. J . Luccioni, Démosthène et le panhellénisme, Paris 1961, p. 144. J. Sirinelli, Les enfants d’Alexandre, cit., p. 271. Il «buon» Plutarco detesta tutto quello che è antitypos, scioccante, aggressivo. E «ha ottime relazioni con i signori romani; ma li considera dominatori e stranieri. Persino quando ci sono delle disposizioni amichevoli verso i romani, queste sono verso stranieri e non concittadini», scrive D. Nòrr, Imperium und Pois in der hohen Prinzipatszeit, Munchen 1966, p. 96. Vita diElaminino, X II, 13. De sera numinis vindicta, fine (Moralia, 567 E-F). Beninteso, Nerone lasciava que­ sta «indipendenza» alla Grecia solo nell’ambito dell’impero: la provincia di Acaia non avrebbe avuto un esercito né una politica estera! Questa indipendenza consi­ steva nel fatto che le città dell’Acaia non sarebbero più state sottomesse a un go­ vernatore provinciale e avrebbero così avuto lo stesso autogoverno delle città del­ l’Italia. Senza la fortuna che non ha smesso di accompagnare Roma, l’innegabile valore ro­ mano non sarebbe servito a niente: Roma ha potuto costruire l’edificio imperiale solo sulle fondamenta della sua sorprendente fortuna. Se non avesse avuto la «for­ tuna» della morte di Alessandro in giovane età, l’impero del mondo sarebbe stato forse in altre mani. Bisogna concludere che l’egemonia romana è solo un capriccio della Fortuna, a cui ci si deve rassegnare. Per giudicare bene l’opera di Plutarco in­ titolata De fortuna Romanorum, bisogna rileggere la Vita di Demostene, X IX , 1; D. Babut, Plutarque et le stoi'cisme, Paris 1969, pp. 480-482 e 518 (trad. it. Plutarco e lo stoicismo, Vita e Pensiero, Milano 2003), e F.E. Brenk, In Misi Apparelled: Religious Themes in Plutarch, Leiden 1977, pp. 157-163. Filostrato, Vita di Apollonio di Piana, V, 41. Ibid. Sui sentimenti antiromani di Apollonio, cfr. nota 14, e F. Unruh, Das Bild des Imperium Romanum im Spiegel der Literatur an der Wende vom 2. zum 3. ]h. n. Chr., Bonn 1991, pp. 145-149. Sesto Empirico, Ipotiposi, I, 149: «D ai romani [...], dagli abitanti di Rodi»; I, 152: «D a noi [...], dai romani [...], dai persiani»; III, 211. Galeno, VI (p. 480, Kuhn); VI (p. 51) (De sanitate tuenda, I, 10); VI, 483 e 749. Parla anche delle cerimonie (come per esempio la transvectio equitum) in onore «degli dèi romani» (XIV, p. 212), nonostante Γ«interpretatio Graeca deorum». H. Fuchs, Der geistige Widerstand gegen Rom, Berlin 1938 (1964), p. 51; J. Palm, Rom, Romertum und Imperium in der griechischen Literatur der Kaiserzeit, cit., p. 206

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84; P. Petit, Libanius et la vie municipale à Antioche, Paris 1955, p. 366, η. 1; J. Liebeschuetz, Antioch, cit., p. 10, n. 4. L’impero è «ogni terra che è dominio dei ro­ mani»; Libanio, disc. X X X , 5 (In difesa dei templi), (III, pp. 89-90, Forster). Come dice M. Dubuisson in uno dei suoi raffinati studi sui rapporti linguistici tra greci e romani («Graecu, Graeculus, Graecari», in Hellenismos: quelque jalons pour une histoire de Videntitégrecque éditésparS. Said, Leiden 1991, p. 334). Ci fa piacere citare anche A.D. Leeman, «L’hyperbole et l’ironie chez les Brill, Romains en tant que mécanismes de défense et d’assimilation à l’égard de la culture grec­ que», in Hommage à R. Schilling, Paris 1983, p. 347. Elio Aristide, X X III, 63 (p. 39, 8, Keil); Dione parlava proverbialmente dell’«ombra di un asino» (XXXIV, 48). Elio Aristide, X X III, 64. Id„ X X III, 62. A. Boulanger, Aelius Aristide et la sophistique dans la province d’Asie, Paris 1923, p. 359. Domizio Alessandro, usurpatore nel 308, era frigio secondo Zosimo, originario della Pannonia secondo Aurelio Vittore; l’usurpatore del 365, Procopio, nato in Cilicia secondo Ammiano Marcellino, era davvero un parente di Giuliano (ha ten­ tato di prendere il potere, scrive Ammiano, solo per scampare alla morte che atten­ deva ogni potenziale rivale come era capitato a Britannico). Il campione della cro­ ciata pagana del fiume Frigido, nel 392, Eugenio, insegnava retorica latina. Giulia­ no era elleno nel cuore, ma si considerava lui stesso di origine illirica per la paren­ tela con suo zio Costantino. L’identità che si dà Giuliano è tanto complicata quanto lo è il principe stesso. È di famiglia romana, ma tre volte elleno: come romano e dunque discendente degli Eneadi che in quanto omerici sono greci; come uomo di cultura; come fedele agli dèi ancestrali. Come «re dei romani» qual è (Libanio, disc. XVI, 9), Giuliano è greco e quindi civilizzato, «filantropo» e non barbaro, perché la dolcezza greca si oppone alla crudeltà barbara (XV, 25, ο X IX , 13). Gli elleni sono i suoi «cari figli» o paidika (XIV, 27). Si veda J. Bouffartigue, «L ’hellénisme décomposé», in Helleni­ smos, cit., p. 216; nel Misopogon, XVIII, 348 D. Giuliano si dice «misio», ma, nella prosa imperiale, il termine Mysia indica la Mesia; è una costante in Cassio Dione, per esempio, ed è dovuto non tanto allo iotacismo quanto al desiderio di rimpiaz­ zare, per purismo, un termine latino con uno greco che gli è vicino. Poiché il pote­ re era romano ma la cultura greca, Giuliano in quanto imperatore si diceva origi­ nario del Danubio e quindi della parte latina dell’impero; in quanto uomo di cultu­ ra, si diceva elleno per le sue origini trace (danubiane) e come discendente degli Eneadi (Elogio diEusebia, p. 118, fine; A Helios re, 39). Libanio deplora questa perdita per l’ellenismo e la sua cultura, e per i consigli del­ le città, nel suo primo discorso, Autobiografia, 214 e 234, e nel discorso XLVIII, A l senato di Antiochia, 22. Nel IV secolo capitava ancora che i governatori delle pro­ vince orientali fossero di origine occidentale (A.H.M. Jones, The Late Roman Em­ pire, cit., I, p. 389); i greci amministrati parlavano con loro tramite interpreti (XLIX, 29). Come dice Fergus Millar, l’Oriente greco riceve una legge latinofona, lo ius civile, mentre l’Occidente latino riceve una fede grecofona, il cristianesimo (in «Les Martyrs de Lyon: colloque international du CNRS», 1977, p. 187). Un altro fatto caratteristico del senso romano dell’autorità è che, nelle province, il governa­ tore applica il diritto indigeno, ma impone le procedure romane, di per se stesse insignificanti, che però fanno vedere nel loro svolgimento che lui è il capo (H.J. Wolff, Rechtspolitik als Instrument der Beherrschung, in «Aufstieg und Niedergang 207

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der ròmischen Welt», Π, 13, p. 763, e Le droit provincial dans la province romaine d'Arabie, «Revue Internationale des droits de l’Antiquité», XXIII, 1976, p. 279), In gloria di Roma, 51. Epitteto, Diatribe, II, 22,22. Dione di Prusa, X I, 20 {Olimpico), Pausania, 1,5 ,5 , e V ili, 43,3. Un esempio tra mille, un partigiano di Roma tanto risoluto quanto è stato Dio­ nigi di Alicarnasso non fa la minima allusione alle lettere latine nei suoi opusco­ li sulla retorica (E. Gabba, Politicai and Cultural Aspects o f thè Classicistic Revi­ val in thè Augustan Age, «Classical Antiquity», I, 1982, in particolare p. 48). Tuttavia, Aulo Gelilo, X IX , 9, parla senza manifestare sorpresa di «molti greci, con un carattere piacevole, che avevano studiato abbastanza bene la nostra let­ teratura». Anonimo del sublime, X II, 4; Plutarco, Vita di Demostene, II, 2-4, È una sorpresa trovare le statue di illustri romani nella pars Graeca; la cosa accade nel IV secolo. È vero: nelle terme di Zeusippo a Costantinopoli sotto Costantino sono state in­ nalzate ottanta statue di grandi uomini, di cui settantasei greci, ma anche quattro latini: Cesare, Pompeo, Virgilio e Apuleio (forse più a titolo di famoso mago che di scrittore); queste statue costituiscono il soggetto del libro II dell’Antologia pa­ latina (Beckby, I, p. 167). Tacito, Annali, II, 88. Eliano, Storia varia, XII, 25 e XIV, 45; qualche rara storiella riguardante Roma, co­ sì come gli egiziani e i persiani; si trovano informazioni etnografiche («le donne ro­ mane portano le stesse scarpe degli uomini»), mai aneddoti in cui sia citato un no­ me proprio. Può semplicemente essere un modo di dire tradizionale: i greci conoscono solo se stessi, poiché il resto del mondo era immerso nelle tenebre esterne; su quest’utilizzo «innocente» del termine «barbari», si veda, per esempio, la Lettera a Diogneto, V, 4. Nella letteratura greca cristiana dei primi tre secoli, l’umanità si divide in tre razze: gli ebrei, gli elleni e i cristiani, con i secondi che rappresentano l’umanità ri­ masta pagana e nemica dei cristiani, visto che il resto del mondo non conta in que­ sto grande conflitto (ibid., V, 17; altri riferimenti in A. von Harnack, Die Mission und Ausbreitung des Christentums in den ersten dreì ]ahrhunderten, 1924 [rist. Liepzig 1980], pp. 266-267). In Plauto, Miles gloriosus, 211, il «poeta barbaro» di cui parla un abitante di Efe­ so è Nevio; nei prologhi dell’Asinaria e del Trinummus, si leggono le celebri paro­ le «Plautus vortit barbare», e questa lingua barbara era il latino. Nel De republica, 1 ,58, Cicerone lamenta che agli occhi dei greci Romolo è stato solo un re barbaro. Ma qualche volta, curiosamente, un autore latino si vede con occhi greci e qualifi­ ca come barbara la propria lingua in opposizione al greco (Cicerone, De oratore, XLVIII, 160), o ancora un altro latino distingue gli uomini tra greci e barbari (Se­ neca, De ira, III, 2 ,1 ) parlando in latino quella lingua filosofica che era il greco. Cicerone distingue Italia, Graecia e omnis barbaria (De finibus, II, 15, 49), ma lo fa parlando di Pitagora, un filosofo «italiano». Strabone, alla fine del libro 1 ,4, 9, 66 fine e 67. W. Dittenberger, Sylloge inscriptionum Graecarum, 3a ed., n. 867, riga 32; Die Inschriften von Ephesos, I, p. 148, n. 24, riga 11 (H. Wankel), cit. San Paolo, Lettera ai romani, 1 ,14 (ed. it. op. cit.). Alla dicotomia «greci e barbari», le menti progre­ dite, come Strabone, opponevano una distinzione filosofica più corretta tra indivi­ dui o popoli buoni e cattivi. Il barbaro è un non-greco o un non-civilizzato? Su 208

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questo testo di Strabone, Y.A. Dauge, Le Barbare: recherches sur la conception ro­ maine de la barbarie e de la civilisation, Bruxelles 1981, pp. 514-520. 135. È innocente, per esempio, in Filone, Legatio ad Gaium, 8; 141; 145. 136. Filostrato, IV, 5. 137. Pausania, 1,22,1 (ed. it. Viaggio in Grecia. Libro I; Attica e Megaride, Bur, Milano 1991, p. 201). , 138. Se crediamo alla Vita di Apollonio di Liana (che, cosa strana, e un apologia dell el­ lenismo più che essere saggezza orientale), il re di Babilonia (chiariamo: della città di Ctesifonte) è fiero di parlare greco alla perfezione (Filostrato, Vita di Apollonio^ di Liana, II, 31); si tratta del re dei parti, che, in effetti, deve conoscere il greco. E i bramani dell’India desiderano che i loro discendenti sappiano il greco (III, 23). 139. È il caso della corrispondenza di Cicerone. E quello dell’imperatore Domiziano (Svetonio, Domiziano, X, 2; XII, 3; XIV, 2; XVIII, 2). Si veda J. Kaimio, Lhe Romans and thè Greek Language, Helsinki 1979. 140. Anonimo del sublime, XLV, 5. 141. Elio Aristide, XXVI, 96 (In gloria di Roma) (p. 119, 28, Keil). Cicerone, A d Qutntum fratrem, 1 ,1,27. 142. Filone, Legatio ad Gaium, 147 ; «Dove era necessario farlo» (perché era strategica­ mente importante) traduce anankaion, ed è il senso di questo aggettivo nella pro­ sa ellenistica (cfr. Flavio Giuseppe, Antichità giudaiche, XII, 149: installare dei co­ loni «là dove c’è bisogno»; Dione di Prusa, III, 106: saper «ciò che è importante» sapere). ^ 143. Gregorio Taumaturgo, Encomio di Origene, citato da J.-M. Carrié in Id. e A. Rousselle, L’Empire romain en mutation des Severes à Constantm, cit., p. 63; e^da C. Lepelley Le nivellement juridique du monde romain, in «MEFR» (Moyen Age), 113, 2001, p. 841. 144. Giuliano, A Hèlios re, 39, (152 d) (ed. it. Alla madre degli dèi e altri discorsi, a cura di J. Fontaine, Fondazione Lorenzo Valla, Milano 2000, p. 155); i romani sono gre­ ci perché l’Italia fu popolata dai greci (I Cesari, 324 a). Per Dione di Prusa, ma in un discorso che si vuole accattivante (XI, 137-138), Enea, che ha fondato Roma, ha colonizzato l’Italia. 145. Libanio, disc. XV, 25. 146. Se bisognasse cercare la minima intenzione seria nello scherzo che è il discorso XI o Lroiano di Dione di Prusa, sarebbe questa: la fondazione di Roma (sì, della stes­ sa Roma) è dovuta «al valore e all’intelligenza» di un personaggio omerico e asia­ tico, Enea (138,142); l’esistenza di Romolo viene ignorata. L’argomento di questo discorso è fingere scherzosamente di dimostrare che, per quanto pretenda Ome­ ro, i troiani abbiano vinto e non perduto la guerra di Troia. Un altro vago secondo fine che ritroviamo altrove in Dione è rivendicare la dignità dell Asia, sua patria, contro la vecchia Grecia: l’asiatico Enea ha vinto la guerra. Evidentemente Dione non si prende sul serio, ma questo scherzo gli procura comunque due piccoli pia­ ceri, uno antiromano e l’altro prosaico. Non posso seguire 1 interpretazione di J.F. Kindstrand, Homer in der zweiten Sophistik, Uppsala, 1973, pp. 141-162, che cre­ de a una seria intenzione politica (rendere omaggio alla pace romana) ; non inter­ preto come lui la frase 150: «Non bisogna più temere che genti venute dall’Asia facciano guerra alla Grecia, perché ora Grecia e Asia sono sottomesse ad altri» (i romani). Lungi dal vedervi un omaggio alla pace romana, vi vedo un umorismo un po’ nero. Dione non crede assolutamente al fatto che Roma difenda la grecità contro gli asiatici venuti dall’esterno dell’impero: constata con un umorismo ama­ ro o rassegnato che i greci e gli asiatici che sono all interno dell impero, non sono 209

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più padroni di loro stessi, ma obbediscono ad «altri» che non nomina e che tutti conoscono. Senza prendere davvero in considerazione la reale potenza di Roma, Dione finge di ipotizzare una possibilità piacevolmente chimerica: che una secon­ da guerra di Troia possa scoppiare un giorno! Tuttavia, dice altrove (142) giocan­ do su un altra situazione, questi uomini che dominano «i due continenti» sono proprio discendenti dell omerico Enea e non dei romani di stirpe. Tutto quello che Dione concede a Roma è di essere grande e potente (138). Ma a cosa deve la sua grandezza? Nel discorso X LI, 9, Dione entra in un dibattito dell’epoca: Roma deve la sua grandezza alla virtù o alla Fortuna? Risponde che Roma è superiore al resto dell umanità per la sua potenza (dynamis) e fortuna (eutychia): non si tratta di merito. Salvo in un allusione contemporanea a un fatto conosciuto per sentito dire: i roma­ ni più nobili si fanno iniziare ai misteri (VI, 22, 37). E. Oudot, «Images d’Athène dans les romans grecs», in Le Monde du roman aree Paris 1992, p. 101. ’ Credo che questi romanzi siano di puro divertimento; non sono evocazioni vendi­ cative né rivendicative; non vi si trovano allusioni satiriche all’attualità. Rimane il fatto che il passato glorioso e puro della Grecia indipendente era romanzesco e faceva sognare: un romano non sarebbe stato un personaggio da romanzo. Nella sua prefazione all’edizione Loeb di Apollodoro, p. XII. Il ricordo delle origini e la resurrezione dei dialetti è un punto di fierezza della città.

152. Si veda la messa a punto di B.P. Reardon, Courants littéraìres grecs des IIe et IIL siècles, Paris 1971, pp. 81-92. T. Schmitz, Bìldung undMacht: zur sozialen undpolitischen Funktion der zweiten Sophistik, Munchen 1997, p. 67, individua in questo purismo una ricerca «della distanza sociale» secondo Bourdieu. 153. Abbiamo letto J . Palm, 1Jber Sprache und Stil des Diodoros: ein Beitrag zur Beleuchtung der hellenìstischen Prosa, Lund 1955; e A. Pelletier, Josèphe adaptateur de la Lettre d’Aristée: une reaction atticisante contre la koinè, Paris 1962. 154. M. Nilsson nel suo magistrale Geschichte der griechischen Religion, cit., II, p. 321. Ma sembra che Nilsson dia all atticismo una nettezza, una portata e una forza che non ha avuto, fu un purismo (del resto più o meno spinto a seconda degli scritto­ ri), un amore per l’eleganza, come il «parlare Vaugelas» sotto Luigi XIV, ma non un potente fenomeno nazionale come la risurrezione dell’ebraico in Israele e la ri­ nascita dell’irlandese. 155. Fino a impiegare il termine «medimno» al posto del latinismo modios (calco del la­ tino modius), lasciando smarrito il lettore perché il medimno, lungi dall’essere equivalente al modius, ne valeva sei. Si veda il capitolo 12, nota 49. 156. J . Touloumakos, Der Einfluss Roms auf die Stadtstaaten, cit., p. 79. 157. E.L. Bowie, Greeks and thè Past in thè Second Sophistic, «Past and Present», 46, 1970, p. 1; ripreso in M.I. Finley (ed.), Studies in Ancient Society, cit., p. 166. 158. M. Nonhaut, L'Utilisation de l’histoirepar les orateurs attiques, Paris 1982, p. 43. 159. E. Gabba, Storiografia greca e imperialismo romano, «Rivista storica italiana» 86 1974, p. 629. 160. È messo bene in luce da J. Touloumakos, Der Einfluss Roms au f die Stadtstaaten, cit., pp. 52 e 62-64; da E.L. Bowie, Greeks and thè Past in thè Second Sophistic, in M.I. Finley (ed.), Studies in Ancient Society, cit., pp. 170 e 195; e da P. Vidal-Naquet nella postfazione della traduzione francese della Anabasi di Alessandro di Ap­ piano a cura di P. Savinel. 161. J. Delz, Lukians Kenntnis der athenischen Antiquitàten, Freiburg 1950. Cfr. C.P. 210

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Jones, Culture and Society ofLucian, cit., p. 157. Ma non credo assolutamente che si tratti di evasione né di mancanza di interesse per l’attualità e per Roma: è una finzione letteraria, come quella del contesto greco-romano per la tragedia classica francese. J.-C. Passeron, Le Raisonnement sociologique, Paris 1991, p. 327. Stessa tenden­ za nella tarda Roma a innalzare a classico il periodo repubblicano della storia romana. Plutarco, Vita di Filopemene, 1 ,6-7; Vita di Arato, XXTV, 2; e Pausatila, V ili, 52,1. Filostrato, Vita di Apollonio di Piana, V, 41. O disc. X X X V I, che D.A. Russel ha pubblicato con un commento (Cambridge 1992). C.P. Jones, Culture and Society ofLucian, cit., pp. 51 e 61, e S. Swain, Hellenism and Empire, cit., pp. 83 e 216, sono rimaste impermeabili al nostalgico so­ gno d’identità delle prime pagine del Boristenico e, a mio avviso, hanno discono­ sciuto il senso di questo testo. E greco parlato era cattivo e i vestiti erano barbari (XXXVI, 7). Belin de Ballu (Ol­ bia) e Minns (Scythians and Greeks) citano evidentemente il discorso di Dione, ma il lavoro utile è quello di K. Treu, «Zur Borysthenica des Dion Chrysostomos», in Irmscher e Schelow (Hrsg.), Griechìsche Stàdie und einheimische Volker des Schwarzmeergebiets, Berlin 1961, p. 137. La lingua delle iscrizioni trovate a Olbia è una koinè assolutamente corretta, obietta C.P. Jones; ma sappiamo quale fosse lo scarto tra lingua parlata e lingua epigrafica (per esempio, a Sparta, nelle iscrizioni arcaicizzanti di epoca imperiale, la forma lacone del participio nikosa è nikaar). Hanno conservato Omero, cosa essenziale, ma ormai conoscono solo lui e gli riser­ vano un’adorazione superstiziosa che è quella di grandi bambini invecchiati. X X X V I, 7-8. S. Swain, Hellenism and Empire, cit., pp. 84 e 214, ha creduto che Dione condannasse la pederastia. Ma qui è vero il contrario: Dione loda il vero amore greco che si pratica a Olbia, l’amore «platonico» degli efebi secondo Plato­ ne, e lo fa capire aggiungendo che i barbari vicini hanno imitato questa pederastia, ma a loro modo: vanno fino all’atto fisico. L’estetismo greco obbliga gli efebi a nascondere le mani sotto al mantello (Artemidoro, L’interpretazione dei sogni, 1 ,54; p. 6 1 ,1 , Pack). Un oratore deve tenere le mani sotto i vestiti (Eschine, Contro Timarco, 25) e non fare gesti (Plutarco, Vi­ ta di Nicia, V ili, 6; Vita di Focione, IV, 3). Parlare gesticolando è volgare (Cle­ mente Alessandrino, Pedagogo, II, 7 ,6 0 ,5 ). In questo gli oratori romani si oppon­ gono ai greci (Quintiliano, X I, 3,134 e X II, 10,21). Quando Virgilio descrive i la­ tini che, di sorpresa, expediunt manus (Eneide, XII, 258), mostra che tenevano prima le mani sotto i vestiti e che l’antichità di questa usanza è «omerica» ed elle­ nica. Si veda R.R.R. Smith, Cultural Choice and Politicai Identity in Honorific Portrait Statues in thè Greek East in thè Second Century, «JR S», 88,1998, p. 66 e n. 55, e P. Zanker, Die Maske des Sokrates, cit., pp. 46-49. X X XV I, 17. E da intendere così, perché questo titolo è conosciuto in epigrafia, in particolare a Panticapeo (Kerc), città indipendente della penisola di Crimea, e di fronte a Panticapeo, a Gorgippia (Anapa), dove un re scita riceve il titolo di philoromaios nel 14 o 15 (J. e L. Robert, «Bulletin épigraphique», n. 378,1968). Stertinio Senofonte, celebre medico di Cos, era un philoromaios e anche un philosebastos, amava Roma e l’imperatore. Un altro titolo ben attestato, sebastognostos, «co­ nosciuto e apprezzato dall’imperatore», si legge nella stessa Olbia. Dione, X LIII, 4. Ma il linguaggio e i sospiri di Plutarco non sono diversi: si ve­ da An seni sit gerendo (Moralia, 784 F) e Consigli ai politici, 32 (824 C). Come ci dice Plutarco nel suo confronto tra Flaminino e Filopemene. 211

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173. J. Touloumakos, Der Eirtfluss Roms aufdie Stadtstaaten, cit., p. 72. 174. Sull’ostilità verso i nomi propri presi dal latino (che non è questa volta una que­ stione di purismo linguistico), Filostrato, Vita di Apollonio di Tiana, IV, 5 (dove il termine «barbaro» è pronunciato), e la lettera 71 attribuita ad Apollonio. Da pri­ ma della nostra era, il nome autenticamente greco Leukios è trattato come l’equiva­ lente del latino Lucius. 175. Marco Aurelio, I, 11, eccetera. Cfr. S. Swain, Hellenism and Empire, cit. p. 363; P. Brown, The Body and Society: Men, Women and Sexual Renunciation in Early Christianity, New York 1988, p. 12 (trad. it. Il corpo e la Società, Einaudi, Torino 1992). 176. Sorano, Le malattie delle donne, II, 16 (p. 54, Burguière-Gourevitch-Malinas [Budé]); inoltre, il bambino imparerà anche «la lingua più bella, il greco» (Π, 8, p. 31). 177. Libanio, disc. XI, Su Antiochia, 151 e 174; cfr. Lihanios, Antiochikos, iibersetzt und erklàrt von G. Fatouros und T. Krisscher, Wien-Berlin 1992, p. 205, n. 225. 178. I numerosi riferimenti sono riuniti da H. Fuchs, Der geistige Widerstand gegen Rom, cit., p. 49, n. 60. 179. L. Robert, Les Gladiateurs dans l’Orient grec, Paris 1940, con riferimenti. Sulla tra­ sformazione di molti teatri greci per poter ospitare i combattimenti, J.-C. Golvin, DAmphilhédtre romain: essai de théorisation de sa forme et de ses fonctions, Talence-Paris, 18,1988, pp. 226-250. 180. Plutarco, Non posse suaviter vivi, XVII, 6 (Moralia, 1099 A). 181. Libanio, disc. 1,5 (Autobiografia). 182. Plutarco, Consigli ai politici, 17 (Moralia, 814 A) (Consigli ai politici, Bur, Milano 1995, p. 163). 183. Ibid., 19 (815 D) (ed. it. op. cit., p. 171); le rivolte delle città, mal conosciute, erano frequenti; ce ne saranno sotto Antonino in Acaia (nota 72) e altrove (note 292-296 e 302); si pensi alle rivolte di Antiochia e Tessalonica sotto Teodosio. 184. Ibid., 19 (815 C) (ed. it. op. cit., p. 171). 185. Ibid., 17 (814 C) (ed. it. op. cit., p. 165). Su Demostene, L. Perrot, La survie de Démosthène e la contestation de la figure de l'orateur dans le monde gréco-romain, in «Comptes rendus de l’Académie des Inscriptions», 2002, in particolare pp. 631-632. 186. J.W. Day, The Glory o f Athens: The Popular Tradition as Reflected in thè Panathenaicus o f Aelius Aristides, Chicago 1980, p. 174, che cita il passo di Plutarco che abbiamo appena visto. 187. Antologia Palatina, VII, 312, citato da C. Habicht, Athen: die Geschichte der Stadi in hellenistichen Zeit, cit. L’autore, Asinius Quadratus, di cui questo è l’unico epi­ gramma, forse potrebbe essere un governatore dell’Acaia sotto i Severi. I verbi al presente mi fanno supporre che si tratti di un epigramma «descrittivo» composto per essere scritto su un dipinto o un rilievo che celebrava questi eroi sull’Acropoli stessa, o anche sulla loro tomba. 188. Penso ai contingenti di volontari che Sparta - essendo una città libera - invia a Caracalla, e a un’iscrizione conosciuta di Tespie (A. Plassart, «Une levée de volontaires thespiens sous Marc Aurèle», in Mélanges Glotz, Paris 1932, p. 731). I greci (cosi nelle Inscriptiones Greacae, V, 1,130; o in W. Dittenberger, OGIS, n. 511) si dicono «alleati» (symmachoi) dell’imperatore: è così che sentono la loro relazione con il potere centrale. A Termesso di Pisidia (Tituli Asiae Minoris, III, 1,106), un hegemon (a mio avviso simile al parapempon dei volontari di Tespie) conduce degli alleati da Marco Aurelio. Vorrei ritornarci in seguito. 189. L’atmosfera patriottica del III secolo è resa bene nel testo di K. Harl, Politicai Attitudes ofRom e’s Eastern Provinces in thè Third Century, tesi, Yale, University Mi­

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crofilm International, 1978, che parla dell’autodifesa e dei contingenti volontari, p. 443 e n. 92-95. Nel 190, l’imperatore si complimenta con la borgata di Bubon, in Licia-Panftiia per aver respinto un attacco di briganti (J. e L. Robert, «Bulletin épigraphique», n. 449,1973; «Année épigraphique», n. 624,1979). B. Gerov, Zur Verteidigung der Stàdie im Balkanraum wàhrend der Nordvólkerinvasionen, «K lio», 55,1973, p. 285. Un olimpionico, Mnesobulo, guida dei volontari di Eiatea contro i costoboci (Pau­ sarne, X , 34,5). Nel 40 prima della nostra era, il retore Zenone di Laodicea organizza la resistenza dei suoi concittadini contro l’invasione dei parti (Strabone, X II, 579); a Milasa, Ibrea, retore e «demagogo», organizza la resistenza della sua città per fronteggiare l’impresà di Labieno (XIV 659). Si veda il bell’articolo di F. Millar, Herennius Dexippus: thè Greek World and thè Third-Century Invasions, «JR S», 59,1969, p. 12. K. Harl, Politicai Attitudes ofRom e’s Eastern Provinces in thè Third Century, pp.

75-82. 196. Si veda nel capitolo su Paimira, in corrispondenza della nota 122, un brano di Libanio sulla gloria di Odenato, difensore della Siria contro i persiani. 197. B. Bleckmann, Die Reichskrise des3. ]ahrhunderts in der spàtantiken und byzantmischen Geschichtsschreibung: Untersuchungen zu Zonaras, Miinchen 1992, a cui so­ no stato indirizzato dalla scienza e dall’amicizia di J.-M. Carrié. 198. L. Robert, Opera minora selecta, V, p. 658: «I professori di retorica perdono i pol­ moni a fare declamazioni sulle guerre dei medi e sugli eroi. Non sono solo vani esercizi: il respiro classico dei vecchi ricordi anima ancora la società del III secolo» contro la minaccia dei persiani di Sapore. 199. Iscrizione greca citata da J. e L . Robert, «Bulletin épigraphique», n. 201,1966. 200. Come scrive K. Harl nel bel libro citato sopra. 201. Pseudo-Elio Aristide, XXXV, 20. Generalmente si ritiene che questo discorso sia un elogio di Filippo l’Arabo. 202. Id., XXXV, 25. 203. F. Millar, Herennius Dexippus: thè Greek World and thè Third-century Invasions, cit. : i vecchi exempla erano luogo di retorica? Di escapismi Di comuni riferimenti che permettevano l’intercomunicazione? Forse, ma erano anche strumento di mo­ bilitazione, con l’aiuto del principio di realtà. 204. E. Gabba, Appiano e la storia delle guerre civili, cit., p. 181, η. 1. 205. Appiano, Guerre civili, IV, 6 6 ,1 , e 67. La città aveva resistito all’assedio di Deme­ trio Poliorcete, cosa che aveva scosso gli animi, e in seguito di Mitridate. ■ 206. H.H. Schmitt, Rom und Rodhos, Miinchen 1957, sulle vicissitudini della libertà di Rodi durante il I secolo. 207. Cassio Dione, LX , 2 4,4; T. Mommsen, Staatsrecht, III, 2, cit., p. 702, n. 3; D. Norr, Imperium und Polis in der hohen Pnnzipatszeit, cit., p. 31; J.-L. Ferrary in «Com p­ tes rendus de l’Académie des Inscriptions», 1991, p. 569. Augusto represse i tessa­ li che avevano bruciato vivo un certo Petreo, secondo Plutarco, Consigli ai politici, 19 (Moralia, 815 D). 208. Ibid.·, non si sa niente della repressione sotto Domiziano. 209. Discorso agli abitanti di Rodi, 55 e 100. Sulla banca, si veda pf. 101, la fiducia nella città come «banchiere», come racconta il pf. 67. 210 Ib id , 101 e 125; i catini sono gli «schiavi» sia di Rodi che di Roma; cfr. Elio Aristi­ de (o Pseudo-Elio Aristide), XXV, 31 (Rodiese) (p. 80, Keil); è sufficiente rinviare 213

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all’articolo «Rhodos» della Realencyclopàdie di Pauly-Wissowa, suppl. V, di F. Hiller von Gartrtagen, a D. Nórr, Imperium und Polis in der hohen Prinzipatszeit, cit., p. 51, e a J. e L. Robert, «Bulletta épigraphique», n. 384,1982. Elio Aristide, XXIV, 22 (Ai rodiesisulla concordia) (p. 61,13, Keil). Discorso agli abitanti di Rodi, 62. Questo significa che alla celebre coppia AteneRoma Dione cercherà, di testa sua, di sostituire la coppia Rodi-Roma. Ibid., 68. In compenso, nel discorso XLI, 9, Dione afferma che Roma, che ha vinto su tutto il mondo grazie alla sua fortuna e alla sua potenza, vince anche per l’one­ stà e la filantropia; ma qui si rivolge al popolo di Apamea-Mirlea, colonia romana, che egli lusinga per far sì che viva in pace con Prusa, sua vicina. Strabone, XIV, 5, p. 652; Plinio, Storia naturale, XXXIV, 7, 36. Dettagli in L. Friedlander, Sittengeschichte Rorns, cit., I, p. 415. H. Blanck, Wiederverwendung alter Statuen als Ehrendenkmàler bei Griechen und Rómern, Rome 1969. Tanto che c’erano delle statue di romani in pallio e sandali (K. Tuchelt, Priihe Denkmàler Roms in Kleinasien, Tiibingen 1979,1, p. 101); cfr. precisamente il Discorso agli abitanti di Rodi, 155-156. Nella stessa Rodi o più pre­ cisamente a Lindo, all’inizio della nostra era, il santuario metteva in vendita il dirit­ to di scrivere una dedica al posto dell’iscrizione originale sulla base delle statue troppo vecchie (F. Sokolowski, Lois sacrées des cités grecques, Paris 1969, Supple­ mento, p. 158; L. Robert, «Hellenica», Π, p. 110). Si cambiava l’iscrizione e talvol­ ta la testa perché la somiglianza fisica era una cosa secondaria, come sanno gli sto­ rici del ritratto antico. Risultato: le statue non avevano più i tratti individuali del modello, il suo charakter (questo è il senso del termine in Dione, XXXI, 47, e in W. Dittenberger, OGIS, n. 383, 60 e 508,13). Discorso agli abitanti di Rodi, 9,75,105,112. I l Discorso agli abitanti di Alessandria (XXXII) stigmatizza l’indocilità e la frivolez­ za delle masse locali concentrando a lungo la critica sul loro amore per i citaredi e per le corse dei carri. L’eloquenza dell’epoca apprezzava l’allusione, l’ingegno e la fantasia tanto quanto la «retorica»; per divertire il suo uditorio, un oratore prende­ va le idee più inaspettate dal soggetto più insignificante; nel Tarsico primo (XXXIII), Dione ha come soggetto (è perlomeno la mia teoria) la pronuncia bar­ bara del suono «r» in questa città della Cilicia, ma è una lezione seria: ancora imo sforzo, cittadini di Tarso, se volete essere veri elleni e non dei cilici o dei fenici di Arados (41-43); allo stesso modo, qui il riutilizzo delle statue serve a suggerire una lezione di dignità patriottica. Forse il lettore se ne convincerà di più se adduciamo un altro testo «sofistico», il De pallio di Tertulliano. A meno che non chiamiamo retorica i discorsi su soggetti di cui non vediamo più l’interesse, come l’ideologia. Polibio, IV, 49,1 e XXVII, 18,1-2; cfr. V, 106,7-8. Discorso agli abitanti di Rodi, 43. Ibid., 41. Ibid., 93. La prova è data dal rilievo esaustivo dei testi e delle iscrizioni in G. Barbieri, L’albo senatorio da Settimo Severo a Carino, Signorelli, Roma 1952, appendice pp. 562585. Discorso agli abitanti di Rodi, 75. Ibid., 112 e 114 (pariontas). Ibid., 112. Quale governatore? Quello di Acaia? Quello dell’Asia? A quale provincia era at­ taccata Rodi quando era priva della sua libertà? Non vedo chiaramente tra quali 214

Lidentità greca con e contro Roma province era suddiviso l’arcipelago. Il fatto che le navi poliadi di Rodi vadano a Corinto (103) farebbe pensare che Rodi fosse ufficialmente o in pratica sotto la di­ pendenza del propretore dell’Acaia. 228. Ulpiano, Digesto, 1 ,16, De officio proconsulis: entrando nella sua provincia, il go­ vernatore deve accedervi con un ingresso tradizionale, rispettarvi i luoghi accredi­ tati di kataplous e di epidemia, a rischio, altrimenti, di offendere una delle città del­ la sua provincia. 229. Come testimonia l’epigrafia, il governatore ricorda i titoli onorifici e le leggende di fondazione della città che sta visitando, ma non senza ricordare che questa «antica città ellenica» è «devota all’imperatore augusto e votata a noi stessi» (D.M. Pippidi, Epigraphiscbe Beitràge zur Geschichte Histrias, Berlin 1962, p. 135). 230. L a «libertà» è tolta da Claudio, resa per iniziativa del giovane Nerone, tolta da Ve­ spasiano e resa di nuovo da Tito (come ha mostrato A. Momigliano in Quinto Con­ tributo, Edizioni di storia e letteratura, Roma 1975, p. 966), e forse tolta ancora da Domiziano (cfr. H .H . Schmitt, Rom und Rhodos, cit.). Sul carattere precario della libertà delle città sotto l’impero, D. Nórr, Imperium und Polis in der hohen Prinzi­ patszeit, cit., p. 85. 231. Discorso agli abitanti di Rodi, 26. 232. Ibid., 105. 233. K. Tuchelt, Priihe Denkmàler Roms in Kleinasien, cit., p. 89. 234. Discorso agli abitanti di Rodi, 43. 235. Dal 201 avanti Cristo e dalla guerra contro Filippo V. 236. Questa statua, alta trenta cubiti, innalzata nel santuario di Atena verso il 163 avan­ ti Cristo (Polibio, X X X I, 4, 4), era succeduta in celebrità al Colosso, crollato nel 226 avanti Cristo. Il culto ellenistico del Popolo romano divinizzato (da cui la maiuscola in «Popolo») d della dea Roma è ben noto. 237. Rimasta fedele a Roma, Rodi era stata assediata invano da Mitridate. 238. Antioco III il Grande. 239. In questo II secolo in cui l’Ellade è praticamente un protettorato romano, la flotta di Rodi non smette di combattere la pirateria di Macedonia, Illiria e Cilicia. 240. In pratica, Rodi è entrata in amicizia con Roma nel 201 avanti Cristo; Dione sem­ plifica una storia complicata. 241. Il tempio di Zeus si innalzava sull’acropoli di Rodi. C ’era l’abitudine di consacrare nei santuari la copia incisa dei trattati. 242. Quindi Rodi ha partecipato a una spedizione marittima romana; F. Hiller von Gàrtringen nel suo articolo Rhodos della Realencyclopàdie di Pauly-Wissowa, suppl. V, col. 811, ipotizza che si tratti delle campagne in Scozia del 78-79. Si potrebbe pensa­ re anche a qualche raid non altrimenti noto sul Mar Rosso, al tempo di Cornelio Gal­ lo o dei tentativi di Elio Gallo verso lo Yemen o contro i nabateni. Rodi aveva proba­ bilmente delle navi sulla rotta marittima delle Indie, presso i suoi buoni amici lagidi. 243. Da Cassio nel 42. 244. P.A. Brunt, Charges o f Provincial Maladministration Under thè Early Principate, «Historia», 1961, p. 189; ripreso nei suoi Roman Imperiai Tbemes, cit., p. 53. 245. P. Gratador, Athènes de Tibère à Trajan, L e Caire 1931, pp. 55 e 134: «Dione sem­ bra essersi assunto il compito di denigrare sistematicamente Atene a vantaggio di Rodi». 246. Discorso agli abitanti di Rodi, 125 e 165; rhathumia indica praticamente ovunque in Dione un’attrattiva contro cui bisogna lottare (disc. 1 ,1; X II, 36; X X IX , 17; X X X I, 17; X X X III, 23; LX , 5; LXV III, 4; L X X , 1). 247. Discorso agli abitanti di Rodi, 103. Se questo è il senso di aphtraktos, temine atte­ 215

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stato in epigrafia (si veda l’Ìndice di W. Dittenberger, Sylloge inscriptionum Graecarum, p. 249, e la nota 11 all’iscrizione rodiese n. 619): gli specialisti di archeologia navale giudicheranno. Sulle triremi di Rodi sotto l’impero, M. Reddé, Mare No­ strum, Rome 1986, p. 498. Queste due navi sono fornite a Roma da Rodi a titolo del suo foedus secondo T. Mommsen {Staatsrecht, III, 1, cit., p. 677, n. 4); a meno

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che non siano le navi ufficiali della città, equivalenti rodiesi della Paralo e della Salaminia di Atene, cosa che mi sembra poco plausibile. Sappiamo i loro nomi: Euanària Sebaste ed Eirena Sebaste, ossia Virtus Augusta e Pax Augusta (F. Hiller von Gàrtingen nel suo articolo «Rhodos» della Realencyclopàdie di Pauly-Wissowa, suppl. V, col. 811); probabilmente erano incaricate di portare dei teori (D. Kienast, Vntersuchungen zu der Kriegsflotte der Kaiserzeit, Bonn 1966, p. 94, n. 41) o di as­ sicurare le relazioni «diplomatiche» tra Rodi e il governatore dell’Acaia, che stava a Corinto (G. Starr, Roman Imperiai Navy, Cambridge 1960, p. 117). Discorso agli abitanti di Rodi, 104 e 125. Ibid., 103,104 e 161. Ibid., 19; tema costante in epoca imperiale; si veda J. Touloumakos, Der Einfluss Roms aufdie Stadtstaaten, cit., p. 72. Discorso agli abitanti dì Rodi, 104. Ibid, 165. Sulla poca importanza di Atene nei romanzi, si veda E. Oudot, «Images d’Athènes dans les romans grecs», in Le Monde du roman grec, cit., p. 101. Elio Aristide è il grande ammiratore di Atene, «la prima e più antica delle città el­ leniche» (XX, 12, p. 20,2, Keil, e il discorso Sui Quattro). In diversi decreti ateniesi a Delfi. Inutile aggiungere che il tema risale al Panegirico di Isocrate. Plinio il Giovane, Lettere, Vili, 24, 2. Mentre Roma è padrona del mondo, Atene ne è l’ornamento (Seneca, Lettere a Lucilio, LXXI, 15). Basti pensare che dopo essersi avvicinata a Mitridate Atene, presa d’assalto, restò comunque civitas libera. Polibio, VI, 43-44. Antologia Palatina, XI, 319, spiegato da L. Robert in «Revue des études grecques», 94, 1981, p. 338. Del resto, la vendita del diritto di cittadinanza era usuale in tutto il mondo greco, e non solo ad Atene. Polibio, V, 106, 7-8: banalità dei decreti ateniesi alla gloria dei Lagidi. Discorso agli abitanti di Rodi, 116, spiegato da L. Robert, cit., p. 349, che ha iden­ tificato questo Iulius Nicanor, che forse era un aristocratico di origine greco-ma­ cedone stabilitosi in Siria. Per Dione è un siriano, «e nemmeno di una città della costa, ma di un villaggio dell’interno». Cfr. G.W. Bowersock, Augustus and thè Greek World, cit., p. 96. Dione, LXI, 11. Disc. XIII, 16-28. Ibid, 29-37. Ibid., 23-26. Argomento vicino a quello di Polibio il quale, più politico che filoso­ fico, parla di una cattiva costituzione di Atene piuttosto che di una cattiva educa­ zione. Cerco di rendere il gergo ellenistico (l’atticista Dione lo impiega qui per prendere con le pinze ciò di cui parla) della perifrasi «ta perì ton monomakhon». Invece di dire semplicemente «he Arkadia», per esempio, era più fine per Polibio o Diodoro dire « ta perì ten Arkadian». Verosimilmente là dove si vedono ancora i poveri resti dell’anfiteatro di Corinto 216

l! identità greca con e contro Roma (II ο III secolo), a un quarto d’ora a est della città, secondo J.-C . Golvin, LAmphìtéàtre romain, cit., p. 237, n. 23. ,. 268. P. Graindor, Athènes de Tibère à Traj'an, cit., p. 165, ne conclude che la balaustra di lastre di marmo posta davanti alle sedute non esistesse ancora; ma si veda J.-C. Golvin, op. cit., p. 237, n. 23. 269. Discorso agli abitanti di Rodi, 121-122, Il romano dell’aneddoto deve essere Musonio Rufo (C.P. Jones, The Roman World ofD io Chrysostom, cit., pp. 12, 28 e 163, η· 26-28). , 270. Questo è l’antico motivo di risentimento nei confronti della gladiatura, e non le motivazioni umanitarie che potremmo supporre (i gladiatori, che erano dei volon­ tari, erano considerati sordidi assassini che si approfittavano di questo spettacolo di cui erano gli ammirati protagonisti). 271. Discorso agli abitanti di Rodi, 122, confermato da Elio Aristide o Pseudo-Elio Anstide, XXV, 28 (p. 79,31, Keil). A quanto ne so, non è ancora stato trovato a Rodi nessuno dei numerosi documenti greci che illustrano il successo della gladiatura in Grecia; ma questo non prova niente: non se ne sono trovati nemmeno ad Atene, 272. Discorso agli abitanti di Rodi, 117. 273. E Dione non ama le moli ioniche, considerate come le colonne di Atene (disc. li, 48; XIII, 17; XXXIV, 39). 274. Discorso agli abitanti di Rodi, 161. 275. Ibid, 162. , 276. Ibid., 163. Discorso agli abitanti di Alessandria, 40-89, passim. Il comportamento agli spettacoli, rumoroso o riservato, era indice del buongusto della città. Inoltre, gli spettatori reprimevano l’orgoglio di alcuni che si credevano superiori al resto del corpo civico e pretendevano di imporre il loro giudizio sullo spettacolo (Epitteto, Diatribe, III, 4,1): per una sorta di ugualitarismo civico, se non sociale, la modera­ zione, il riserbo estetico impedivano la pompa pretenziosa, la prepotenza. 277. Dione si beffa (XXXV, 10) dei grandi sacerdoti asiatici del culto imperiale con la loro porpora. Come molti preti, questi si vestivano come il loro dio (vivente) e por­ tavano la porpora come lui. Sugli abiti greci, chitone e imatio, che non erano cam­ biati da cinque secoli, si veda R.R.R. Smith che cita questo passaggio di Dione in Cultural Choice and Politicai Identity in Honorific Portrait Statues in thè Greek East in thè Second Century, «JR S», 88,1988, in particolare p. 66. La clamide bordata di porpora era l’insegna di alcuni periodonici, degli agonoteti, dei grandi sacerdoti imperiali e, salvo errori, dei primi magistrati e degli stefanofori; ma il suo uso pas­ sava per un abuso pomposo; cfr. H. Blum, Purpur als Statussymbol, Bonn 1998, pp. 101 e 110. A Rodi, se ho ben capito, questo abuso non era ammesso, per odio del­ la pompa barocca e dell’esibizione poco ugualitaria, 278. Discorso agli abitanti di Rodi, 164. La xenofobia di Dione verso le nazioni che sono ellenizzate solo in parte riappare nel XLVII, 13, dove fa una distinzione tra 1 Asia, la Cilicia e la Siria. 279. Ibid, 162. 280. Era proibito spostarsi con la vettura all’interno di una citta (fatta eccezione per ι carri sacri nei giorni di festa, per il prefetto della città a Roma e, beninteso, per i car­ retti delle mercanzie); i veicoli venivano lasciati alle porte della città. Commentere­ mo in seguito un sarcofago, ad Aquileia, che rappresenta un alto magistrato che en­ tra in una città con una semplice portantina; dietro di lui, si vede il sontuoso carro che lascia alle porte. E fi consularis di Siria aveva il dovere di scendere dal suo carro quando arrivava ad Antiochia e di arrivare a piedi alla Curia (Libanio, disc. XLVI, 40; [III, p. 398, Forster]; riferimento che devo a Peter Brown). 217

L’impero greco-romano

281. Svetonio, XI, 5 e ΧΠ, 1 (Tiberio). Tiberio aveva dunque ottenuto una legatio libe­ ra, ossia un congedo per convenienza personale, ma in cui rimaneva vestito con le insegne ufficiali. Cosa che non gli dava nessun potere su Rodi. 282. Discorso agli abitanti di Rodi, 122; confermato da Aristide o Pseudo-Aristide, XXV, 28 (p. 79,31 Keil). 283. Flavio Giuseppe, La guerra giudaica, Π, 16,355-356. 284. Elio Aristide, XXIV, 35 (Ai rodiesisulla concordia) (p. 64,16, Keil). 285. Plutarco, De Pythiae oraculis, 28 (Moralia, 408 C). Stesso elogio per la pace e con­ statazione dell’impotenza in An senisit gerenda respublica, 3 (Moralia, 784 F). 286. Id., Consigli ai politici, 32, 8 (Moralia, 824 C). Si veda sopra, note 105,109. 287. Dione, XXXIV, 48 (Tarsico secondo)·, cfr. 51: «Dei compagni di schiavitù che si battono tra loro per la gloria di prevalere». 288. Plutarco, Consigli ai politici, 17 (Moralia, 813 E) (ed. it. op. cit., p. 163). 289. Ibid., 32,10 (Moralia, 824 D) (ed. it. op. cit., p. 213). 290. Dione, XXXIV, 51 e 45 (Tarsico secondo). 291. Su queste ultime, M. Sartre, L’Orient romain: provinces et société provinciales en Méditerranée orientale, Paris 1991, p. 188. 292. C.P. Jones, The Roman Wored ofD io Chrysostom, cit., pp. 21-24. Sul discorso XLVI, P. Garnsey, Ramine and Food Supply in thè Graeco-Roman World, Cambridge 1988, pp. 77 e 258 (trad. it. Carestia nel mondo antico: risposte a l rischio e alla crisi, La Nuova Italia, Scandicci 1997); H. Grassi, Sozialokonomische Vorstellungen in der kaiserzeitlichen griechischen Literatur, Wiesbaden 1982, p. 31. 293. Dione, XXXIV, 21-23; C.P. Jones, The Roman Wored ofDio Chrysostom, p. 81. 294. Filostrato, Vite dei sofisti, 1,25 (p. 531, Olear). 295. Plutarco, Consigli ai politici, 17 (813 F) e 32 (825 C-D); su Pardala si veda un’ipo­ tesi prosopografìca di R. Syme, Tacitus, cit., p. 467, n. 3. Il termine apostasis che utilizza Plutarco fa pensare a una rivolta paragonabile alla «rivolta delle statue» ad Antiochia al tempo di san Giovanni Crisostomo (le immagini imperiali rovesciate). B. Holtheide, Rómische Biirgerrechtspolitik und romische Neuhiirger in der Provinz Asia, Freiburg 1983, pp. 47 e 157. 296. Plutarco, Consigli ai politici, 19 (815 A). 297. Elio Aristide, XXIV, 22 (Ai Rodiesi sulla concordia) (p. 61,22, Keil). 298. Allo stesso modo Plutarco, servendosi di una specie di ossimoro, parla di una città faziosa costretta a rinsavire dalla violenza dei mali. 299. Ibid., 19 (814 E). 300. D. Nòrr, Imperium und Pois in der hohen Prinzipatszeit, cit., pp. 94-96. 301. Dione, XXXVIII, 5. 302. Per l’Asia, innanzitutto L. Robert, La gioire et la baine, «Harvard Studies in Clas­ sica! Philology», 81, 1977, p. 1; e Opera minora Selecta, VI, pp. 290 e 699-700: M. Sartre, L e Haut-Empire romain, cit., pp. 122, 188, 190, 197, 218; D. Magie, Roman Rule in Asia Minor, Princeton 1950, II, p. 1500. Dopo la liberazione dell’Acaia da parte di Nerone ci furono rivolte o staseis di cui il narratore di Filo­ strato nega la gravità, ma non la realtà (Vita di Apollonio di Tiana, V, 41, 1). L’i­ scrizione in W. Dittenberger, Sylloge inscriptionum Graecarum, 796 B, riga 10 (secondo l’interpretazione di Momigliano in «JRS», 34,1944, p. 115), parla pu­ dicamente di «tempi difficili e pericolosi» e delle «condizioni mal stabilizzate dell’indipendenza». Sulla rivalità tra Atene e Sparta per le feste di Platea, P. Graindor, Athènes de Tibère à Trajan, cit., p. 136, e L. Robert, Opera minora se­ lecta, IV, p. 93. 303. Dione, XXXVIII, 5. 218

L’identità greca con e contro Roma 304. Erodiano, ΠΙ, 2, 8, che aggiunge che il dominio macedone e l’asservimento da par­ te di Roma ne sono le conseguenze. 305. Bisanzio fu dunque assediata da Settimio Severo, fatto che Filostrato esprime in questi termini: «F u assediata dai romani» (Vite dei sofisti, II, 27; p. 616, Olear). Cfr. Eusebio, Storia ecclesiastica, VII, 32: lotta contro i «romani». 306. Riferimenti in J. Touloumakos, Der Einfluss Roms au f die Stadtstaaten, cit., p. 72. Per esempio Dione, X X X I, 19; Pausania, V ili, 52, 3; Plutarco, Vita di Cimone, X IX , 2. 307. Sul questo sogno di panellenismo, J. Touloumakos, Der Einfluss Roms au f die Stadtstaaten, cit., pp. 60 e 62. 308. F. Millar, The Emperor in thè Roman World, cit., p. 412 e 436. 309. Dione, XXXIV, 36. 310. Ibid., XXXIV, 43-36 (Tarsico secondo), 311. Sugli abusi dei governatori delle province sotto l’impero si veda lo studio di P.A. Brunt, Charges ofProvincial Maladministration Under Early Principate, cit. 312. Dione, XXXV III, 37. 313. Ibid,, 38. Cfr. il tono condiscendente di Traiano che scrive a Plinio (Lettere, X , 40, 3): «Gymnasiis indulgent Graeculi» (vede la pagliuzza nell’occhio del vicino e non la trave nel suo: quello che i greci chiamano gymnasia a quell’epoca è quello che noi chiamiamo «terme romane», per esempio... le terme di Traiano suU’Esquilino). 314. Dione, XXXV III, 33. 315. Plutarco, De fortuna Romanorum, 2 (Moralia, M I B-C); Elio Aristide, X X V I, 69 (In gloria di Roma)·, X X III, 61; cfr. Flavio Giuseppe, Antichità giudaiche, XVI, 2, 34 (discorso di Nicola di Damasco). 316. Dione, disc. Ili, 127 (Sulla regalità). 317. Ibid, X X I, 6-100; X X X II, 60; L X X I, 9. 318. Filostrato, Vite dei sofisti, 1,7,488 (ed. it. Vite dei sofisti, Sellerio, Palermo 1987, p. 38). 319. W. Dittenberger, OGIS, n. 470, 14. R. Cagnat, Inscriptiones Graecae ad res Romanas, I, 853; III, 1608 e 1611; IV, 201. È assimilato a Zeus Patroos ad Alicamasso e a un «soter di tutta la specie umana» (Ancient Greek Inscriptions in thè British Museum, IV, 894). Già Cesare era a Efeso il « soter comune dell’esistenza umana» (W. Dittenberger, OGIS, n. 760; D ie Inschriften von Ephesos, II, n. 251 [Borker e Merkelbach]). Sul calendario della provincia dell’Asia, W. Dittenberger, OGIS, n. 458, con le correzioni di Buckler in Supplementum epigraphicum Graecum, IV, 490; cfr. F. Taeger, Charisma, cit., II, pp. 190-194. 320. G. Dagron, L’Empire romain d’Orient au quatrième siede et les traditions politiques de l’hellénisme, cit. 321. B. Bleckmann, Die Reichskrise des 3. Jahrhunderts in der spàtantiken und byzantinìschen Geschichtsschreibung, cit. 322. Come hanno mostrato C. Lepelley, nei suoi studi sull’Africa tardoantica (dove la città resta un territorio neutro tra cristiani e pagani: l’epigrafia del IV secolo è mu­ ta sull’appartenenza religiosa dei magistrati; non si crederebbe mai, a leggere le iscrizioni, che fosse in corso un conflitto religioso), e R.R.R. Smith, nei suoi studi del «JR S» sulla statuaria civica greca alla stessa epoca. 323. Ringrazio la mia collega africanista Valérle Sandoz, le cui osservazioni sulle identità mi hanno messo sulla via di quello che credo essere la chiave del problema dell’i­ dentità greca. 324. R.R.R. Smith, The Imperiai reliefs ofthe Sebasteion at Aphrodisias, «JR S», 77,1987; del medesimo eccellente autore, Simulacra gentium: thè «Ethne»form thè Seba­ steion, ibid., 78,1988, p. 50. 219

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325. D. Norr, lmperium und Polis in der hohen Prinzipatszeit, cit. pp, 98 e 103. 326. Fondazione funeraria ad Akmoneia di Frigia, nel 95 della nostra era; il termine hegemonia è nel testo; cfr. B. Laum, Stiftungen in der griech. und róm. Antike, Leipzig 1914 (1964), II, p. 133, n. 173. La formula è tanto più dimostrativa in quanto ave­ va ricevuto sanzione ufficiale: per mettere un’ammenda su una tomba era necessa­ rio un decreto della città («Monumenta Asiae Minoris antiqua», VI, p. 100, n. 272) ed era competenza del fisco imperiale; cfr. K. Latte, Heiliges Rechi, Tubingen 1920, p. 95. 327. jR Oxy., I, 41 (L. Mitteis e U. Wilcken, Grundziige und Chrestomathie der Papyruskunde, Leipzig 1912 (1963), Hist. Peti, n. 45; A.S. Hunt e C.C. Edgar (edd.), Select Papyri, collection Loeb, Π: Public Documents, n. 239. J.-M. Carrié in Id. e A. Rousselle, L’Empire romain en mutation des Sévères à Constantin, Paris 1999, pp. 710-711. 328. F. Millar, A Study ofCassius Dio, cit., p. 410. 329. La loro lista è in K. Harl, Politicai Attitudes o/R om e’s Eastern Provinces in thè Third Century, cit., p. 301 e n. 274. Ma nel contempo è chiaro che Roma è la basileuousa polis, la città regnante (M. Worrle, Àgyptisches Getreide fiir Ephesos, «Chiron», 1,1971, p. 329). 330. P Oxy., IV, 705,1,32. 331. In Licia, numerosi epitaffi dicono per esempio che, poiché un qualche notabile ave­ va ricevuto la cittadinanza romana, egli era «romano e xanthiano» (A.N. ShrewinWithe, The Roman Citizenship, Oxford 1973, p. 409). 332. K.T. Erim e J. Reynolds in «JRS», 59,1959, p. 58; F. Millar, A Study ofCassius Dio, cit., p. 417; Corpus inscriptionum Graecarum, 2743, citato da D. Norr, lmperium und Polis in der hohen Prinzipatzeit, cit., p. 97, che fa degli esempi di benefici im­ periali «internazionali». 333. Dione, ΧΧΧΠ, 9-10. 334. Il dossier su Erode Attico è stato riunito e studiato da W. Ameling, Herodes Atticus, Hildesheim 1983. 335. Sul difficile problema che pone la sua acquisizione, F. Millar, The Emperor in thè Roman World, cit., pp. 481-482; cfr. anche P.A. Brunt, Italian Manpower, 225BCA D 14, Oxford 1971, p. 171. Sull’ampia diffusione della cittadinanza verso l’epoca di Dione, C. Habicht in Altertiimer von Pergamon, V ili, 3, p. 63. Abbiamo dato uno sguardo a B. Holtheide, Romische Burgerrechtspolitik und rómische Neubiirger in der Provinz Asia, cit. 336. Su questi piccoli tiranni, J.H . Oliver, The ruling power: a Study ofthe Roman Oration ofAelius Aristides, «Transactions of thè American Philosophical Society», 43, 4,1953, p. 954. 337. Nella loro corrispondenza, Plinio il Giovane e Traiano sono visibilmente stanchi di lui. 338. Dione, XL, 5; XLI, 7; XLV, 2-3; XLVII, 22. Suo padre era già in rapporto con gli imperatori, XLVI, 3-4. 339. Ibid., XLIV, 12. 340. Ibid., XLVII, 15. 341. Ibid., XLVI, 14. Era cosa comune per i ricchi fare scorta dei raccolti nei granai per vendere il grano a prezzo più alto in caso di carestia. 342. Ibid., XLVI, 2,6-7,11-12. 343. Ibid., XLVI, 14. 344. Ciò che mi porta a crederlo è che nel terzo Discorso regale, pronunciato di fronte a Traiano, Dione parla con una curiosa insistenza degli «amici del re», che sono «le sue orecchie, i suoi occhi, le sue mani, la sua lingua» (104-107); bisognerebbe fare riferimento allo studio dal titolo promettente di D. Konstan, Friendship and

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monarchy: Dio's third oration on kingship, «Symbolae Osloenses», L X X II, 1997, p. 124. Sul discorso XXXTV o Tarsico secondo, D. Kienast, Ein vemachldssigtes Zeugnisfiir die Reichspolitik Trajans, «Historia», 20,1971, p. 62. Dione, X X X II, Discorso agli abitanti di Alessandria, 95-96. Sotto l’Ancien Régime un ministro per ricompensare un subordinato meritevole gli diceva: «Parlerò di voi al re». Ibid., X X X II, 29-30 e 95-96. Ibid., Ili, 6. Il secondo Discorso regale {ibid., II, 71) dice che le conquiste del Buon Re fanno la felicità dei popoli conquistati. Questo può avere due sensi diversi; lusinga che dà questa felicità come reale, o critica delTimperialismo e consigli dati al principe in forma indiretta: l’oratore lo loda di fare ciò che in realtà non fa assolutamente. M. Senellart, Les Arts de gouverner: du «regimen» médiéval au concepì de gouvernement, Paris 1995, pp. 91-94, sul Buon Re socratico e il Re-Filosofo platonico. È bastato chiaramente che l’imperatore regnante Tiberio salisse al trono perché tutto andasse bene; la buona fede riapparse al foro, i magistrati furono rispettati, il prezzo delle derrate si abbassò eccetera (Velleio Patercolo, II, 126). Finché Ca­ ligola fu in buona salute, la vita morale dell’impero visse un’età d’oro; ma quan­ do dopo nove mesi sprofondò nella follia, il mondo sprofondò seduta stante nel­ l’immoralità (Filone, Legatio ad Gaium, 13 e 17). L’imperatore deve guidare i sudditi con il buon esempio e non con la forza (Cassio Dione, LII, 34,2-3), tra­ sformarli con il suo esempio (Pseudo-Elio Aristide, XXXV, 26); interpretazione razionalista in Plinio, Panegirico, XLV, 4-6, o in un editto di Alessandro Severo, P. Fayum, 20 (A.S. Hunt e C.C. Edgar (edd.), Select Papyri, II: Public Documents, n. 216, righe 15-20). Eccellente commento di L. Pemot, Éloges grecs de Rome, cit., p. 49. Il commento di J. Rleicken, Der Preis des Aelius Aristides aufdas romische Weltreich («Nachrichten Akad. Wiss. Gottingen», 7, 1966), ci sembra molto più pertinente di quello di R. Klein, Die Romrede des Aelius Aristides, Darmstadt 1981. Abbiamo citato quello di J.H . Oliver, The ruling power: thè Roman Oration o f Aelius Aristides. Ci­ teremo in seguito P.A. Brunt, Roman Imperiai Themes, cit., p. 265. Perlomeno lo si può supporre dagli Acta Petri, 23, degli Atti apocrifi degli Aposto­ li: tutti i cristiani di Roma, ma anche dei senatori, pagarono una moneta d’oro per venire a sentire san Pietro nel foro. Ma forse alcuni uditori di Aristide non capiva­ no il greco, e soprattutto un greco tanto tucidideo come il suo; cfr. Filostrato, Vite dei sofisti, I, 8 (p. 491, Olear): quando Favorino parlava a Roma, anche quelli che non sapevano il greco venivano ad ascoltare il suo bel canto (si veda per esempio una strofa in prosa o ode di questo tenore nel Corinzio, in Dione di Prusa, XX XVII, 39). Sulla data del 144 dopo Cristo, L . Pemot, Éloges grecs de Rome, cit., p. 163. Elio Aristide 60,63, [In gloria di Roma). Il pf. 100 tratta un altro soggetto: la Ubera circolazione attraverso un immenso territorio imperiale, dove le frontiere tra na­ zioni si possono attraversare Uberamente. Ibid., 64. Ibid., 72-89. K. Harl, Civic Coins and Civic Politics in thè Roman East, 180-275 AD, Berkeley 1987. Opera tanto abbondante quanto istruttiva. Nonostante il mio amore per il greco, ho decifrato solo un migUaio deUe cinquemila pagine, la cui lingua è notoriamente difficile.

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L ’im p e ro g re c o -ro m a n o

358. Ma questo siriano appartiene alla grecità e si dice solidale ai greci, protetto dai loro dèi (lettera 391, 1264 e 1033 Forster; 4, 13; 15,1 e 4; 13, 2 Norman). 359. Libanio biasima o commisera i membri dei consigli delle città che lasciano le loro responsabilità nella loro piccola patria per diventare senatori romani al Senato di Costantinopoli, futuro Senato e futura capitale di quello che sarà presto l’impero greco. È furioso contro un alto funzionario che, avendo vissuto a lungo ad Antio­ chia, lascia questa città per diventare prefetto della città di Roma (disc. 1 , 179-181 [Autobiografia]. Ma, da un altro lato, poiché la Siria ha dato i natali a un alto fun­ zionario imperiale, Libanio si rallegra che la sua provincia «abbia fornito ai roma­ ni» un amministratore di talento (lettera 391 Forster, 4,1 3 Norman). 360. Libanio, XXIV, 18 eccetera. 361. Ibid., X X , 17. 362. Ib id .,1 ,119, e XIX, 54. 363. Ibid., XVIII, 271. 364. Ibid., I, 119; X IX , 20-21; lettera 947 Forster, 166, 5 Norman. Ma altrove parla di «tutto il suolo che governa la legge romana» e di cui fa parte «il suolo che abitano gli elleni» (XVII, 1). C ’è una terza categoria, il mondo intero: il letterato cristiano Proairesio ha del talento; Libanio non può scrivere che onora gli elleni, ma scrive che è «un beneficio per l’intera terra», per l’ecumene (lettera 275 Forster, 73, 1 Norman). E questo testimonia i buoni rapporti tra i letterati delle due religioni. 365. Libanio, XVIII, 282 e 300, X IX , 62, ma XVIII, 264. 366. Ibid., XIV, 27. 367. Ibid., XVIII, 1; Libanio crede alla storia dell’assassinio di Giuliano. 368. Ibid., 1 ,134; XVIII, 279; XXIV, 9. 369. Ibid., II, 53. Sull’impero romano come difensore delle città greche (e su tutto quel­ lo che concerne Libanio), rimando evidentemente a P. Petit, Libanius et la vie mu­ nicipale à Antioche, cit. p. 182. 370. Libanio, L, 19. 371. J. Liebeschuetz, Antioch, cit., p. 10: Libanio «looks upon thè administration as Ro­ man and, to some extent, foreign». 372. Libanio, XVII, 28. 373. Non è Libanio a dirlo, ma il pagano Eunapio, Vite dei sofisti. 374. Libanio, XV, 36; cfr. X X X , 31. 375. Ibid., L, 19; XVIII, 87; 1,243. 376. G. Dagron, L’Empire romain d’Orìent au quatrième siede et les traditions politiques de l'hellénisme, cit., p. 72. 377. Libanio, lettera 1036 Forster, 181 Norman. 378. Id., XV, 25. G. Dragon, L'Empire romain d’Orient au quatrième siede et les tradi­ tions politiques de l’hellénisme, cit., p. 72 379. In Temistio, si trovano fianco a fianco espressioni del nuovo patriottismo e dei re­ taggi della vecchia retorica ellenocentrica. Precettore di Arcadio, Temistio non po­ teva ignorare Romolo, Bruto, Scipione con Panezio, ma non conosce il latino, igno­ ra Virgilio e Cicerone. Conosce e onora la successione di buoni imperatori (ed. Downey, I, disc. 17, p. 307, 26). L’impero ha come signori i romani, i cui buoni im­ peratori sono venerati da «tutti i greci» (I, disc. 9, p. 188, 13, e 189, 15). La buona eloquenza è onorata «non solo dai romani e dai greci, ma dai barbari» (I, disc. 11, p. 221, 8). Un buon imperatore non dà le stesse leggi ai diversi popoli che com­ pongono il suo impero, greci, egiziani, siriani (I, p. 102, 18). Le incursioni e le in­ vasioni che minacciano « l’impero di Roma», «il grande nome di Roma», questo «focolare di eneadi», sono un malore per tutti (I, disc. 3, p. 61,14).

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380. H. Inglebert, Les causes de l’existence de l’Empire selon les auteurs chrétiens, «Latomus», 54,1995, p. 33; Id., L’histoire de Rome dans l’Antiquité tardive: un concept équivoque, ibid., 5 5 , 1996, p. 566. 381. B.P. Reardon, Courants littéraires grecs des IP et IIP siècles, cit., p. 21, riassume molto bene quella che sembra essere diventata l’opinione dominante. 382. P. Le Roux, «L’amor patriae dans les cités sous l’Empire romain», in H. Inglebert (éd.), Idéologies et valeurs dviques dans le monde romain, cit. p. 156. 383. «Verkiimmerung des nationalen Selbstbwuftseins», scriveJ. Touloumakos, DerEinfluss Roms aufdie Stadtstaaten, cit., p. 81. 384. Dalla rivoluzione e dichiarazione d’indipendenza del 1776 per gli uni (il celebre motto di Saint-Just «la felicità è un’idea nuova in Europa» fa allusione alla dichia­ razione americana); dalla rivoluzione del 1789 e dalla dichiarazione dei diritti del­ l’uomo per i secondi: «Il mio nome sotto il sole di Francia. Tornerò nella luce, por­ terò sollievo, amerò la libertà» (Victor Hugo, La leggenda dei secoli). 385. J.-M. Carrié, «Jean de Nikiou et sa Chronique: une écriture “égyptienne” de l’histoire», in N. Grimal e M. Baud (dir.), Evénement, récit, histoire officielle, Paris 2003, p. 166. A lungo classica, la riduzione delle «vuote» dispute teologiche alle semplici coperture ideologiche del sentimento nazionale proviene dal dualismo marxista e dal profondo nazionalismo di questo internazionalismo. 386. Gibbon: nel 396 dopo Cristo Gaina mantenne contro Stilicone «l’indipendenza del trono di Costantinopoli [...]. Arcadio e Onorio insegnarono ai loro sudditi a guardare i due Stati come del tutto estranei l’uno all’altro o addirittura come ne­ mici; a gioire delle reciproche calamità e a trattare da alleati fedeli i barbari che essi esortavano a invadere il territorio dei loro compatrioti. I latini fingevano di disprezzare i greci effeminati di Bisanzio e i greci conservavano ancora parte del­ l’odio carico di sdegno che i loro antenati avevano nutrito così a lungo contro i rozzi abitanti dell’Occidente [...]. La distinzione dei due governi separò presto le due nazioni [...]. I primi sintomi di gelosia e di scisma tra la vecchia e la nuova Roma, tra i greci e i latini, maritano l’attenzione dell’osservatore». 387. Un esempio tra altri, Libanio, 1 ,156. 388. Claudiano, Invettive contro Eutropio, II, 585. «Discors orbis», Bellum Gallicum, 566; «Discors Oriens», Contro Eutropio, 1,396. 389. G. Dagron, L’Empire romain d’Orient au quatrième siede et les traditions politiques de l’hellénisme, cit., p. 111. Testi ellenofobi caratteristici (che alternano degli elogi alla virtù romana), Invettive contro Eutropio, 1,396-400 e 427-433; Π, 133-139 e 326-341. 390. Riferimenti in G. Dagron, L’Empire romain d’Orient au quatrième siècle et les tradi­ tions politiques de l’hellénisme, cit., pp. 88-89; G. Fowden, Empire to Commonwealth: Consequences ofMonotheism in Late Antiquity, Cambridge 1993, capp. 4 e 5 (trad. it. Gli effetti del monoteismo nella tarda antichità: dall’impero al Commonwealth, Jouvence, Roma 1997). A. Cameron e S.G. Hall, Eusebius, Life o f Constantine Translated with Introduction and Commentary, Oxford 1999, pp. 189 e 312. 391. G. Dagron, Naissance d'une capitale: Costantinople et ses institutions de 330 à 451, Paris, in particolare pp. 68-69 (trad. it. Costantinopoli: nasata di una capitale, 330451, Einaudi, Torino 1991); Id., L’Empire romain d’Orient au quatrième siècle et les traditions politiques de l’hellénisme, cit., pp. 81-95. 392. Zosimo, 1 ,1,2, e 1,57,1. 393. Sull’evoluzione di questa denominazione e sui sentimenti che implica, H. Inglebert, «Citoyenneté romaine, romanité et identité romaines sous l’Empire», in I. Inglebert (éd.), Idéologies et Valeurs dviques dans le monde romain, cit., pp. 256-259. 394. C. Lepelley, Le nivellement juridique du monde romain à partir du IIP siècle et la 223

L’Impero greco-romano marginalisation des droits locaux, «Mélanges de l’Ecole frangaise de Rome», Moyen Àge, 113,2001, p. 855. SulTutdizzo del latino, G. Dagron, Aux orìgines de la civilisation byzantine: langue de culture et langue d’Etat, «Revue historique», 241,1969. P. Brown, The World ofLate Antiquity, London 1971: «Nel IV e V secolo, i greci, che sempre più numerosi studiavano il latino, non lo facevano per recarsi nella vecchia capitale occidentale [come avevano fatto Ammiano Marcellino e Claudiano nel secolo precedente], ma per risollevare il prestigio di Costantinopoli, che è la loro nuova Roma». 395. G. Dagron, L’Empire romain d’Orient au quatrième siècle et les traditionspolitiques de l’hellénisme, cit,, p. 202, 396. Sinesio di Cirene, Epistole, lettere 113 e 100, con le note dell’edizione D. Roques.

5 Paimira e Zenobia tra Oriente, Grecia e Roma

La scena si svolge a Palmira, città e oasi in mezzo al deserto della Siria, a metà strada tra le coste del Mediterraneo e l’Eufrate, verso il 200 do­ po Cristo; allora la città faceva parte dell’immenso impero romano, che a quei tempi aveva raggiunto il suo apogeo. Quando uno straniero di passaggio arrivava in quei luoghi, commerciante greco o italiano giunto a cavallo, egiziano, ebreo, magistrato inviato da Roma, pubblicano o soldato romano, insomma cittadino o suddito dell’impero, il nuovo ve­ nuto capiva dalla prima occhiata di aver cambiato mondo. Per le strade si parlava un idioma sconosciuto al visitatore -1 aramaico -, e ovunque si vedevano iscrizioni in una scrittura misteriosa; ogni ricco interlocu­ tore parlava greco, l’inglese dell’epoca, ma il suo nome era composto da consonanti gutturali difficili da comprendere e pronunciare. 1 pas­ santi non erano vestiti come gli altri abitanti dell’impero romano; ι loro abiti non erano drappeggiati, ma cuciti come i nostri vestiti moderni, e gli uomini indossavano pantaloni larghi: abiti da caccia e da guerra che somigliavano molto a quelli dei nemici storici di Roma, gli iraniani. Perché Roma e l’Iran, scrive un autore dell’epoca, «si erano divisi il mondo»3 da una parte e dall’altra dell’Eufrate. Questi nobili cavalieri, signori dell’import-export, portavano al fianco una sciabola, sfidando il divieto di porto d’armi esteso a tutti i sudditi dell impero e imitando gli iraniani, che «anche durante i banchetti e in occasione delle festi­ vità, sono cinti di spada».4 Le donne indossavano una tunica lunga fino ai piedi e un mantello che copriva loro solo le spalle; la fronte era cinta da una fascia ricamata, su cui si posava un turbante intrecciato. Altre, invece, portavano pantaloni a sbuffo.5 Non avevano il viso coperto dal velo (come in altre regioni del mondo ellenico). E quanti gioielli. Al­ cune avevano anche un anello alla seconda falange del mignolo, er quanto fossimo in pieno deserto, ogni cosa traspirava ricchezza: ovun­ que c’erano statue, ma di bronzo, non di marmo; e il bronzo dorato ca­ ratterizzava anche i capitelli delle colonne del grande tempio Verso sud e verso ovest fino all’orizzonte, il deserto era ed è tuttora dissemi­ nato di un gran numero di monumenti celebrativi, templi funerari, ìpo225

L’impero greco-romano

gei o torri rettangolari a piani; erano i mausolei dove le grandi famiglie, che gestivano parte dei commerci tra l’impero romano e l’Iran, l’India e la Cina, inumavano i defunti (mentre il costume greco-romano prefe­ riva la cremazione). Verso nord, fuori dalla città, il visitatore poteva vedere curiosi ani­ mali: attorno ai vasti depositi (che oggi sono visibili solo grazie alle foto aeree) stazionavano carovane di cammelli; si sentiva che il noma­ dismo, questa antitesi della civiltà, non era lontano. Quando lo sguar­ do tornava alla città e al palmeto, agli ulivi e alle vigne, il massiccio architettonico del santuario di Bel, dio proprio di quel paese, domi­ nava le abitazioni e testimoniava una cultura completamente diversa, come oggi un minareto per un occidentale. Il tempio di Bel si innalza­ va alla fine di un lungo colonnato, che per un attimo tranquillizzava il visitatore, perché era garanzia di appartenenza alla vera civiltà, ma anche il tempio stesso in un primo momento appariva rassicurante, con la sua sagoma, che era quella di tutti i santuari dell’impero: Pai­ mira non assomigliava alle città dell’Oriente barbaro che gli artisti rappresentavano dominate da monumenti a cupola. Era confortante anche nei dettagli, si serviva dello stesso rigoroso vocabolario architettonico, quello delle colonne; i capitelli corinzi avevano una forma nota al nuovo venuto e i capitelli ionici, ormai fuori moda verso il 200 dopo Cristo, erano solamente ritenuti un po’ troppo accademici. Ma, a una seconda ispezione, l’edificio scioccava: ci si rendeva con­ to che era il bizzarro santuario di un dio straniero. L’entrata monu­ mentale non si apriva sulla facciata, come sarebbe stato logico: era si­ stemata in modo assurdo lungo uno dei lati. In alto, l’edificio era irto di feritoie, come se ne vedevano solo in Oriente. E aveva delle fine­ stre; non si era mai visto un tempio che come le case degli uomini aves­ se delle finestre. Il colmo era che, invece di avere il tetto spiovente come ogni santua­ rio, era coperto da una terrazza, proprio come le case: in queste regioni si mangiava sulle terrazze, si facevano banchetti, si pregavano gli dèi, col rischio di cadere come capitò a un giovane stando agli Atti degli Apostoli.7 Lo straniero ne aveva decisamente abbastanza e il suo senso della normalità era scioccato: nell’impero romano, o piuttosto greco­ romano, infatti, tutto era uniforme - architettura, case, scritture, abiti, valori, autori classici e religiosità, dalla Scozia al Reno, al Danubio, all’Eufrate e al Sahara, perlomeno nella buona società. Paimira era sì una città, un luogo civilizzato e persino colto, ma pericolosamente vicino alla non-civilizzazione nomade e a una civiltà altra, quella dell’Iran o di più lontano ancora. E lo straniero si metteva a generalizzare: «I siriani sono una razza spregevole, un kakon genos»,8 come ha inciso su una roccia in un luogo di passaggio un militare di guarnigione romano o bi­

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zantino. Lo straniero si sbagliava: Paimira non era una città siriana co­ me le altre, non più di quanto Venezia, a contatto con la civiltà bizanti­ na e con i turchi, rappresentasse tutta la penisola italica. Al giorno d’oggi, per andare a Paimira ci vogliono diverse ore di ae­ reo fino a Damasco, poi duecento chilometri su una strada asfaltata che segue visibilmente il tracciato di quella antica; dopo quattro ore di de­ serto, pietre e terra arida dove spunta timidamente un’erba rada e rin­ secchita, l’apparizione del palmeto verde e del colonnato bianco, im­ mense vestigia di un mondo finito, e una sorpresa che non lascia indif­ ferenti. All’arrivo, i numerosi turisti non scopriranno i «gioielli perduti dell’antica Paimira» che hanno fatto sognare Baudelaire (non è stato trovato quasi nessun gioiello), ma un borgo moderno con alberghi e ri­ storanti di ogni categoria, e persino la sede di una delle più terribili pri­ gioni per detenuti politici della Siria. Quando il visitatore si volta, dan­ do le spalle al borgo, l’orizzonte è sbarrato da uno strabiliante gioco di costruzioni per metà distrutte: sullo sfondo del deserto e del palmeto, un bambino gigante e dispettoso si è divertito a costruire con cubi e co­ lonne di calcare bianco (il marmo è sconosciuto in tutta la Siria) un chi­ lometro e mezzo di mura monumentali e colonnati che sfilano come in una parata; tutto intorno sono sparsi i pezzi caduti dalla costruzione. Sembra di vedere ima città in via di smantellamento piuttosto che delle rovine: non c’è nessun residuo di calcestruzzo (materiale spesso usato nell’antica Roma), e nemmeno alcuna volta, alcuna curva, niente che non sia orizzontale o verticale. Architettura in pietra da taglio la cui trasparente logica soddisfa lo spirito: si potrebbe credere di avere sotto gli occhi tutti gli elementi sufficienti a ricostruire nel pensiero ciò che fu, partendo da ciò che è; la struttura corrisponde alla forma visibile, l’interno e l’esterno formano un tutt’uno. Dal sito così come lo hanno sistemato gli archeologi non è visibile nessuna costruzione moderna; nessuna realtà effimera viene a stonare in mezzo a questa città fossile; qui il tempo si è fermato. Quello che colpisce maggiormente lo spettatore di oggi è quello che colpiva già il viaggiatore antico: un grande santuario e un lungo colonnato, i vicoli di Paimira, i boschi di colonne nella piana del deserto che Hòlderlin so­ gnava da bambino. Questa griglia che segna in larghezza le rovine in­ troduce un ordine umano o sociale nel deserto; «niente ha disturbato questo severo portico» diceva Nerval. Il commercio con il grande mon­ do aveva trasfigurato quest’oasi aramea, così come trasformerà un fan­ goso isolotto sull’Adriatico nella bella Venezia. Il colonnato rappresen­ tava l’urbanesimo d’avanguardia e la vita di tutti i giorni, il santuario del dio Bel era la basilica di San Marco di questo porto del deserto. Questo tempio non era uno scrigno, un reliquiario, come succedeva in Grecia e a Roma; con le sue finestre era la dimora abitata da Bel,9

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L’impero greco-romano

dove il suo idolo troneggiava nel sancta santorum, dietro a una tenda. L’edificio si innalza al centro di un recinto rettangolare di più di due­ cento metri di lunghezza; all’interno del recinto, sui quattro lati, vi so­ no dei portici sostenuti da colonne; all’esterno invece, il recinto si mo­ stra come un muro quasi cieco che isola il tempio (allo stesso modo in cui le meravigliose moschee di Istanbul restano separate dalla città nei loro ampi cortili). Il muro in sé e le sue dimensioni non sono poi una cosa così insolita: ovunque lo spazio disponibile lo permettesse si ama­ va circondare i templi con una cinta di questo genere. La Maison carrée di Nìmes, così come la si vede oggi, si trova al centro di imo spazio pub­ blico che conserva il suo antico recinto (le case moderne che circonda­ no la piazza sono costruite sulle fondamenta dei portici). Questi portici non erano solo un ornamento o un riparo dal sole: offrivano ai pellegri­ ni un luogo di accampamento indispensabile. I «mercanti del Tempio» vi vendevano oggetti sacri che venivano dedicati al dio come ex voto e anche, immagino, il pollame che uomini dalle modeste risorse finanzia­ rie potevano offrire in sacrificio. Sul muro di fondo, i pellegrini incide­ vano nel gesso la prova scritta della loro visita al santuario o i ringrazia­ menti al dio che aveva esaudito le loro preghiere. E tale recinto doveva riempirsi soprattutto il giorno della festa annuale del dio. Forse il tem­ pio era un luogo di pellegrinaggio annuale per i nomadi, i seminomadi e i sedentari che stavano a cinquanta-cento chilometri di distanza. Chi o che cosa ha finanziato questo complesso monumentale? Lo ignoriamo. Ci sono tre possibili risposte: le grandi ricchezze provenien­ ti dal commercio sulla via della seta, la devozione di numerosi pii pelle­ grini, la famiglia imperiale romana. I ricchi fedeli possono aver, per esempio, offerto una o due colonne ciascuno, secondo una pratica allo­ ra corrente. Un imperatore o un principe imperiale può averne fatto dono alla città in occasione della sua annessione all’impero.10 O infine il tesoro del santuario stesso può aver coperto le spese. Gli dèi riceve­ vano infatti offerte e lasciti, e i sacerdoti avevano diritto a una parte delle vittime sacrificali che rivendevano: i santuari facevano concorren­ za alle botteghe dei macellai; se il santuario era famoso nei dintorni, poteva ricevere a titolo di dono o lascito molti beni immobili di cui per­ cepiva le rendite. Può anche essere che il miracolo sia meno straordina­ rio di quello che sembra. Solo il tempio veniva consacrato nel 32 dopo Cristo; il recinto e i portici devono essere stati costruiti poco a poco, nel corso di decenni, del resto anche molti altri santuari pagani o cri­ stiani hanno avuto bisogno di secoli per giungere a termine. Diciamolo subito, se il visitatore deducesse il livello di vita della po­ polazione di Paimira dallo splendore che ha sotto gli occhi sbagliereb­ be. Come scrive un economista, le città antiche erano città sontuose e povere; il loro livello di vita era forse dieci volte più basso di quello di 228

Paimira e Zenobia tra Oriente, Grecia e Roma

un attuale paese occidentale. Ma un debole scarto del «reddito nazio­ nale» (diciamo piuttosto: una leggera differenza tra città un po piu e un po’ meno povere) bastava a permettere o a proibire agli oligarchi che governavano di optare per la sontuosità. Inoltre, il costo di questo tipo di ornamento, edificato nel corso di decenni, era inferiore a quan­ to non si pensi: un ventesimo circa del reddito nazionale, che per la maggior parte serviva a sfamare la popolazione. Tanto che la presenza o assenza di un ornamento monumentale era di gran lunga una que­ stione di Ubera scelta: dipendeva dalla concezione di urbanesimo dell’oUgarchia. È evidente che Paimira era per un urbanesimo sontuoso, caro ai greci e ai loro alhevi romani. . Continuiamo la nostra visita al santuario. Al centro del muro di cin­ ta, il tempio in sé non ha niente di mostruosamente grande. Certo, la Siria non detestava la grandiosità (era una delle province più ricche dell’impero, con la Tunisia e la parte asiatica deUa Turchia), e il visitatissimo tempio di Baalbek, in Libano, è uno dei più grandi del mondo antico. Ma le dimensioni di quello di Paimira sono quelle delle case normali, della Maison carreé di Nìmes e del tempio di Magnesia al Meandro in Turchia, che presenta anch’esso otto colonne lungo la fac­ ciata e quindici sui fianchi, e che è stato pagato da questa piccola citta. Quanto al lungo colonnato (la cui camminata non era lastricata), at­ traversa oggi tutto il sito, dal tempio di Bel alle rovine di quelle «terme di Diocleziano» che in principio furono, secondo Ernest WiU, il pa­ lazzo deUa regina Zenobia, donna notevole di cui riparleremo e che per un momento ha potuto avere la pretesa di rendere Paimira la citta so­ vrana dell’impero romano. Questa doppia fila di colonne, che puntano verso il cielo e ora non sostengono più niente, ha assunto la sua lun­ ghezza definitiva nel corso di due secoli. La prima parte che fu costrui­ ta partiva dal gran tempio ed era una via sacra; ogni anno, all equinozio di primavera, una processione accompagnava fino a qualche santuario campestre un’immagine di Bel chiusa in un baldacchino di cuoio rosso portato da un cammello. Il corteo era forse preceduto da portatori che reggevano alte le insegne religiose: in cima a un’asta era fissata una placca di bronzo su cui figurava in rilievo l’immagine del dio. Le don­ ne guardavano passare la processione con il viso e il corpo coperti da veli.14 Le altre parti del colonnato avevano una seconda funzione: era­ no circondate da botteghe che si aprivano sui portici. ^ Il colonnato non era una via di circolazione; non immaginiamolo percorso da carovane, perché di sicuro queste non entravano in citta. Per una parte della sua lunghezza, il grande viale era il suk di Paimira, «il portico dove si vende di tutto»,15 come veniva chiamato, e il posto dove intrattenersi. Un suk dalla forma regolare, geometrica, conforme alla razionalità di una civiltà avanzata, e che formava un tutto chiuso 229

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su se stesso,16 un luogo dove recarsi piuttosto che una via di passag­ gio.17 A Efeso, una simile via colonnata conduceva dalla città al porto; nel mezzo della camminata antica, si vede ancora una scacchiera incisa nel lastricato: i giocatori si accovacciavano in mezzo alla strada (non si sedevano a gambe incrociate: ogni epoca ha le sua posizioni). Si sosta­ va in mezzo alla strada per godersi lo spettacolo; I ricchi che andavano a passeggio si facevano seguire da uno schiavo che portava con sé un seggiolino.18 È un utilizzo degli spazi pubblici lontano dal nostro. Un altro esempio: in ogni città antica, grande o piccola che fosse, era proi­ bita la circolazione dei veicoli privati e dei cavalieri, solo i carretti da trasporto avevano il diritto di circolare, mentre i privati lasciavano ca­ valcature e vetture fuori dalle mura. In compenso, le strade erano in­ gombrate dal passaggio delle greggi per l’approvvigionamento di car­ ne della città.19 Ogni mattina, moltissimi cittadini uscivano dalle mura di quella che potremmo qualificare come «agrocittà» e, la sera, si af­ frettavano a rientrare prima che venissero richiuse le porte, dopo aver passato la giornata a lavorare nei campi.20 La cosa più sensazionale è che il colonnato era un monumento civi­ le: quindi Paimira era una vera città secondo la concezione greco-ro­ mana. Era un’idea nuova per la Siria, che quasi non conosceva edifici reali, religiosi o funerari, mura, porte, templi, palazzi, tombe, e dove il grande urbanesimo si diffuse solo in epoca romana. Come dice Paul Zanker, gli allineamenti senza fine di colonne corinzie erano diventati il segno di una pretesa partecipazione alla civilizzazione imperiale.21 Bisogna raccontare il successo di questa moda dei colonnati22 Verosi­ milmente fu la capitale della Siria, Antiochia, ad avere il primo viale con la camminata lastricata che allineava «centinaia di colonne, tutte del medesimo diametro, ornamento di qualche insipida “rue de Rivo­ li”» scrive Renan che non amava né questo urbanesimo né Bonaparte. In Siria, i colonnati tracciavano imperiosamente l’asse di un habitat geometrico a quadri, come ad Apamea e a Damasco; e mentre a Pai­ mira, che è stata costruita poco a poco e senza un piano direttivo, la via colonnata ha finito per attraversare tutto l’agglomerato, fuori dalla Siria essa non occupava una posizione tanto diametralmente imperio­ sa. Questi viali venivano chiamati plateia o «vie larghe», da dove noi abbiamo preso le parole «piazza» e place. Una di queste vie larghe fu la via Lata a Roma, due chilometri di botteghe e portici che attraversa­ vano la sontuosa porzione settentrionale della città per giungere al fo­ ro, e che ancora oggi costituiscono l’asse di Roma: via del Corso. A Paimira come a Roma e altrove, le colonne o pilastri del viale so­ stenevano i portici sotto cui si aprivano le porte che davano accesso al­ le botteghe; a Paimira col tempo i muri di mattoni sono andati distrut­ ti, lasciando in piedi solo la spina dorsale del colonnato. Alcune di que­ 230

Paimira e Zenobia tra Oriente, Grecia e Pom a

ste botteghe servivano da abitazione,23 altre erano locali commerciali24 composti da un’unica stanza, come quelli in cui oggigiorno ci si imbat­ te facilemente nei suk di Damasco; qui si trovavano conciatori, ciabat­ tini, fabbricanti di otri di cuoio che spedivano i loro prodotti verso l’Eufrate, dove servivano per la costruzione di zattere25 (secondo una tecnica antichissima delle cui origini si è persa notizia e che era stata adottata fino al Rodano). Da quanto sappiamo, del resto, bottegai e lo­ catari pagavano un affitto alla città o al tesoro di un tempio, proprieta­ rio dell’edificio. Se si trattava della bottega di un ciabattino che soprav­ viveva grazie ai guadagni quotidiani, allora molto probabilmente gli serviva anche come alloggio per la notte, come avveniva a Pompei, a Ercolano e anche, appena mezzo secolo fa, nella vecchia Napoli (Spaccanapoli); se era quella di un orafo —a Paimira c era una gilda degli orafi e degli artigiani dell’argento - 26 allora questi doveva avere una ca­ sa in città. Oltre al mercato, una città degna di questo nome doveva avere una piazza pubblica, un foro, un’agorà; Paimira ne ha una che è costruita secondo le norme: allineata, circondata da quattro portici e ornata con duecento statue ufficiali. Sarebbe interessante sapere quanto ignoria­ mo: era in questo edificio civile che pulsava il cuore della citta, come in quelle greco-romane? O la vita di relazione brulicava intorno a una del­ le porte delle mura, come accadeva nelle città orientali da tremila anni? In Oriente, la porta era ed è ancora spesso ciò che il foro e l’agorà rap­ presentavano in Occidente. Ma dov’era allora la città in sé? Dove vivevano i suoi abitanti? Sem­ briamo dimenticarcene: parliamo solo dei monumenti. Abbiamo visto solo il nord della città, dove strade e dimore si allineavano alla meno peggio tra il Gran Colonnato e l’attuale borgo. Si vedono i resti di qual­ che casa. Alcune sono dimore ricche,27 conformi al tipo di abitazioni private che si era imposto in tutto l’impero, a Efeso come a Vaison-laRomaine, o a Pompei: un unico piano sviluppato in lunghezza e lar­ ghezza su diverse centinaia di metri quadrati, con una corte centrale circondata da portici; i muri erano probabilmente ornati da mosaici, i pavimenti lo erano di sicuro —uno di questi, secondo la tradizione uma­ nistica, rappresenta un bel nudo prosperoso dallo sguardo patetico. Al­ tre case hanno ospitato una borghesia meno facoltosa: il piano è este­ riormente simile, ma alcuni dettagli mostrano che vi si conduceva una vita diversa; due porte gemelle davano accesso a due parti ben distinte, quella dove erano ammessi gli estranei e quella chiusa dove stavano le donne;28 quanto al mobilio, in particolare ai letti conviviali, era greco.29 Più o meno ricche, queste dimore si aprivano verso l’esterno solo gra­ zie a poche porte. Le strade su cui esse si affacciavano somigliavano quindi a quelle di una vecchia città musulmana e di una città greco-ro­ 231

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mana come Pompei, dove, fuori dalle vie commerciali, si passava tra muri praticamente ciechi. Il piano dei quartieri a nord dà l’impressione di un tracciato geome­ trico, una struttura a quadri, osservato però senza rigore, con perpen­ dicolari inesatte e un parallelismo approssimativo; si immagina che co­ struzioni preesistenti, templi e dimore private, siano state in seguito congiunte alla bell’e meglio da una rete di strade,30 ma è evidente che in un primo momento questi quartieri sono stati occupati da costruzio­ ni sparse. Solo lo scavo della città ellenistica, a sud e intorno al grande tempio, ci dirà cosa è stato l’urbanesimo di Paimira. Era quello di un accampamento di nomadi senza un piano preliminare, dove ciascuno piantava la propria tenda e si limitava a rimanere a qualche distanza dal vicino? Si è propensi a credere che Paimira fosse così in principio: al­ trove in Siria, a nord, nel ricco massiccio calcareo, si trova ancora trac­ cia di decine di villaggi, zone abitate prive di un piano regolatore delle strade, di un allineamento; ogni casa è come una tenda, con un suo pro­ prio orientamento, né troppo lontana né troppo vicina alle altre case. E in seguito Palmlra ha cercato di sistematizzare questo disordine, alme­ no in apparenza. Da oltre mezzo millennio le città mediterranee erano rigorosamente geometriche, a quadri come sarebbero state le città ame­ ricane; del IV secolo almeno, è il caso del quartiere persiano di Beirut. Il piano ortogonale era quello delle città di fondazione greca e di quel­ le che Roma avrebbe esportato ovunque, da Bavay a Carpentras e fino a Timgad, al limite del Sahara. Una città antica come Atene, invece, se­ duceva i visitatori con le sue strade tortuose.31 Paimira voleva essere moderna, e la civiltà greca a quell’epoca si imponeva a tutti come es­ senza di modernità. Tuttavia Paimira rimaneva straniera per via del suo passato, della lingua, della società, dell’attività carovaniera, della religione e di molti aspetti dei costumi; in compenso, quanto al piano delle case, all’archi­ tettura dei monumenti e al livello di vita, in breve, al rispetto che ispi­ ra la ricchezza, non aveva niente da invidiare alla civilizzazione mon­ diale: gli abitanti di Paimira non erano dei barbari e non volevano es­ serlo. Tanto che, in Siria, più un edificio è importante, più è ellenizza­ to. Si concepiva solo l’architettura greca. A duecento chilometri da Paimira, nella città di Dura-Europos è stata fatta la straordinaria sco­ perta di una sinagoga risalente al 250 circa, i cui muri sono coperti da dipinti di scene dell’Antico Testamento, ora esposti al Museo di D a­ masco. Vi si vede Mosè, Davide in sandali e mantello greco, il candela­ bro a sette bracci e il tempio di Salomone - un tempio greco con co­ lonne e capitelli corinzi.32 La popolazione doveva raggiungere circa qualche decina di migliaia di abitanti; gli altri vivevano sparpagliati sul vasto territorio rurale che 232

Paimira e Zenohia tra Oriente, Grecia e Roma

apparteneva alla città. Anche in questo caso si parla di decine di mi­ gliaia di individui.33 Finché una società poteva sopravvivere solo se i tre quarti dei suoi membri lavorano la terra per nutrire tutti, i più grandi agglomerati raggiungevano raramente i centocinquantamila abitanti, come la ricca Venezia nel XVI secolo. Un mostruoso agglomerato co­ me l’antica Roma (cinquecentomila abitanti o il doppio) era l’eccezio­ ne, come lo saranno nel XVIII secolo altre capitali, tra cui Londra ed Edo (la futura Tokyo) con il loro milione di abitanti, Istanbul o Parigi. Quando si studia una città antica, diceva Louis Robert, bisogna prima di tutto chiedersi: dov’erano i campi? Che cosa coltivavano o allevava­ no? Ne consegue che la civilizzazione antica non è che una sottile ap­ parenza: almeno i tre quarti della popolazione vivevano fuori dalle città e, dunque, lontano dalla vita civile. Una città antica formava un’unità amministrativa ed economica34 con il suo territorio, di cui era per così dire la capitale, e la sua superfi­ cie era più vicina a quella di una nostra provincia che di un nostro co­ mune.35 A Paimira una lunga iscrizione bilingue, detta il «Tarif», ci di­ ce che all’entrata della città si doveva pagare una tassa sulle mercanzie importate «dall’esterno delle frontiere» della citta —schiavi, cortigiane e profumi compresi - ma che per le vettovaglie provenienti dai «villag­ gi» del territorio non si pagava niente.36 Tuttavia, l’acqua era carissima: per irrigare servendosi della fonte dell’oasi bisognava pagare una tassa annuale considerevole.37 La vita doveva essere cara a Paimira, perché il suo territorio non bastava ad assicurarle l’autosufficienza, a differenza della maggior parte delle città antiche che, altrimenti, non sarebbero potute sussistere. Paimira estraeva il sale dalle lagune del deserto per rivenderlo, ma doveva importare altre derrate necessarie, come grano, vino, olio - la trinità dei paesi mediterranei - che non riusciva a pro­ durre a sufficienza:38 il territorio era più propizio all’allevamento di ca­ pre e montoni per il consumo urbano, di cammelli per le carovane e ca­ valli per le guardie armate che le scortavano. Gli archeologi non parla­ no mai di maiali, ma non ne saranno stati lo stesso allevati e mangiati? Alcuni scavi forse ce lo confermeranno. Secondo il Vangelo, c’erano maiali a Gerasa, città aramea e araba, e sappiamo che si mangiava carne suina a Dura-Europos.39 Paimira importava anche il garunr. una salsa ottenuta mettendo del pesce a macerare nel sale, condimento obbliga­ torio della cucina antica. Come ogni città antica, Paimira disponeva tuttavia di un vasto terri­ torio (verso ovest e la costa siriana, i limiti dei confini erano a settanta chilometri).40 La città e il palmeto non sono nel bel mezzo del deserto, ma vicini al suo limite; tanto che il territorio di Paimira era situato per buona parte nella zona fatidica che beneficia dei duecento millimetri d’acqua piovana annui che rendono possibili l’agricoltura e 1 alleva233

L’impero greco-romano

mento. Nella vicina periferia dell’agglomerato l’acqua del sottosuolo era canalizzata da condutture sotterranee, accessibili in diversi punti attraverso pozzi.41 Verso est e l’Eufrate c’era il deserto, ma verso nord Daniel Schlumberger ha esplorato una regione di colline «dove in pri­ mavera l’erba è così fitta che guidare un’auto nella steppa diventa a vol­ te problematico»;42 e vi ha studiato dei villaggi di allevatori che aveva­ no case in mattoni crudi coperte da terrazze e tutto un sistema di ci­ sterne. L’altra grande zona rurale di Paimira si trovava a una cinquanti­ na di chilometri a sud, scrive Javier Teixidor; era irrigata da una grande diga di epoca romana capace di immagazzinare ben centoquarantamila metri cubi d’acqua.43 Bisogna che ci soffermiamo su queste distese rurali e sugli abitanti di quei villaggi: è un’umanità diversa da quella della città, lì non sapevano il greco, parlavano e scrivevano solo l’aramaico. Perché l’ellenizzazione significava molto di più per le città che per le campagne. «Vivere alla greca» diceva Bolkenstein, significò per quei popoli la stessa cosa che, in tempi recenti, significò «vivere alla francese» per le élite urbane del vicino oriente. La civilizzazione dell’antichità pagana fu un fenomeno urbano, nutrito da un’immensità di contadini che rimanevano estranei all’urbanità. «Che cosa potrebbe uscire di buono da Nazareth?» veniva domandato a chi annunciava che un Messia (che parlava aramaico, pre­ cisamente) era nato laggiù.44 Questa frattura inizierà a rinsaldarsi quat­ tro o cinque secoli più tardi, quando la sponda cristiana e la sponda musulmana del Mediterraneo saranno dominate entrambe da una cul­ tura religiosa che non vorrà sentir parlare di nient’altro che di se stessa; tanto che ogni uomo avrà come identità (come «colore», dirà il Cora­ no) l’essere cristiano, musulmano o ebreo. Si capisce allora ciò che significava la parola «città» nell’antichità. Poiché la grande maggioranza degli abitanti che era possibile censire su un territorio urbano lavorava la terra, l’agglomerato era abitato praticamente solo dai proprietari terrieri, che spendevano in città le rendite dei loro possedimenti, dai loro numerosi domestici e dai bot­ tegai che li rifornivano insieme ai contadini del territorio. E i poveri? Dove abitavano? La vera massa dei poveri non viveva in città: erano infatti miseri contadini. Solitamente una città aveva solo un chilome­ tro di diametro (o anche la metà, più raramente il doppio), e comun­ que buona parte della sua superficie era occupata da edifici pubblici, santuari, hammam o «terme romane» ed edifici destinati agli spetta­ coli; ovunque c’erano statue, di imperatori, di benefattori della città. E questo perché una città era il centro del potere e una vetrina di ci­ viltà, di urbanità. Era anche un mercato dove i contadini delle terre circostanti venivano a vendere i loro prodotti, prima di andarsi a rifornire al suk. Le case private degli affittuari terrieri occupavano lo 234

Vaimira e Zenobia tra Oriente, Grecia e Roma

spazio rimanente. Qui appariva l’originalità di Paimira: le belle case non erano abitate dai proprietari terrieri ma dai protagonisti del traf­ fico carovaniero. Gli abitanti di Paimira, scrive uno storico antico, sono dediti ai commerci, importando dai persiani i prodotti indiani e arabici, per rivenderli sul territorio romano.45 In effetti Roma importava46 dall’Arabia e dall’Oriente dei beni che non erano pesanti, ma vistosi: non grandi carichi di cereali o minerali, ma incenso per tutti i santuari dell’impero, mirra, pepe, avorio, perle e stoffe indiane o cinesi (sono stati trovati numerosi frammenti di stoffe di cotone e seta cinesi nelle tombe di Paimira, dove i corpi venivano spesso mummificati);47 le belle romane portavano abiti di seta che le fa­ cevano apparire più che nude e moralisti e poeti gridavano allo scanda­ lo. Anche gli uomini, e soprattutto i senatori, finiranno per indossare vesti di seta. La maggior parte delle importazioni finiva con tutta pro­ babilità ad Alessandria; Paimira divideva il resto con Petra (Giorda­ nia), sito turistico non meno illustre, sull’antica via dell’incenso, e a nord, con Baine, centro religioso e sede di una grande fiera annuale48 (le due cose andavano sempre di pari passo), dove l’Asia centrale e la via della seta con i suoi cammelli a due gobbe si affacciavano sulla Tur­ chia, provincia romana. Questo commercio di lusso era stigmatizzato dai moralisti e da colo­ ro che deploravano il fatto che Roma non si limitasse, alle esportazio­ ni;49 eppure, non aveva nessuna importanza nell’economia dell’impero (poteva equivalere allo 0,5 per cento dell’ammontare del reddito nazio­ nale).50 Era abbastanza per arricchire una manciata di importatori spe­ cializzati, che godevano così di una rendita pari a quella di numerose centinaia di migliaia di abitanti. Il loro beneficio proveniva dall’abisso che separava il prezzo di acquisto dal prezzo di vendita: le nostre fonti - un naturalista latino e un informatore cinese - parlano di un prezzo di dieci, se non cento volte maggiore. Per varie ragioni, non si può dare l’equivalente monetario attuale dei prezzi antichi, ma ecco qualcosa di più esplicito: un terzo di chilo di seta grezza proveniente dalla Cina era venduto al prezzo di mille dozzine di uova o di seimila tagli di capelli, o sedici mesi del salario di un operaio agricolo, indipendentemente dalla sua alimentazione.51 Nel 301, un imperatore tentò di opporsi all’au­ mento vertiginoso dei prezzi imponendo un tetto massimo: una libbra di seta grezza non doveva costare più di una libbra d’oro; da ciò si può desumere che i prezzi praticati fossero molto più elevati. Il livello me­ dio della vita e dei salari nell’impero era quello dell’attuale Terzo Mon­ do, con il noto scarto tra una povertà di massa ed enormi fortune, fon­ te di autorità e di rispetto; arrischiamo un ordine di grandezza... loga­ ritmica: cinquanta dollari di rendita per abitante al mese, al massimo la metà o il doppio, ma non dieci volte tanto. 235

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Al tempo dello splendore di Paimira, un informatore cinese fu invia­ to in Occidente e arrivò in Siria: «Gli abitanti sono onesti negli affari e non ci sono doppi prezzi», riporta, aggiungendo che il profitto di que­ sto commercio era di dieci a uno, Ma, dice, gli iraniani «vogliono conti­ nuare a vendere le loro sete cinesi ed ecco perché questi abitanti sono stati tagliati fuori da ogni comunicazione diretta».52 Era quindi in Iran che Paimira andava a cercare i tesori dell’India e dell’Arabia, e quei te­ sori vi arrivavano per due vie: la navigazione attraverso il Golfo Persico e la via della seta. Sulla pista che conduceva dall’Eufrate al Panjab e al fiume Giallo, in Afghanistan, a Bagram, non lontano da Kabul, un tem­ po è stato studiato il sito di quello che probabilmente era il palazzo di un reuccio indo-scita. Vi è stato trovato un deposito di oggetti lasciati dal grande commercio di passaggio: avori indiani, lacche cinesi, bic­ chieri siriani dipinti, lampade, piccoli bronzi grotteschi secondo il gu­ sto alessandrino (statuette di Ercole-Serapide o caricature di filosofi), un bicchiere con raffigurato il faro di Alessandria, medaglioni con mo­ tivi figurativi - scene mitologiche, combattimenti di gladiatori e altre curiosità esotiche. Ciò che colpisce è il poco valore relativo di questa accozzaglia pittoresca e la cura con cui questi oggetti sono stati prezio­ samente conservati in un locale ben chiuso; non si potrebbe supporre che le carovane di passaggio li avessero consacrati come ex voto al dio di un santuario dove avevano fatto tappa e di cui erano diventati pro­ prietà sacra e inviolabile? Quanto alla rotta marittima, partiva dal fondo del Golfo Persico e, grazie al monsone, faceva tappa a un mercato situato alle foci dell’In­ do, verso Karachi, in Pakistan; poi seguiva la costa sud della penisola indiana e Ceylon, per risalire verso Virampatnam-Arikamedu, nella pe­ riferia di Pondicherry, dove le spezie e la seta venivano scambiate con vini, manufatti siriani in vetro e ceramiche dalla bella vernice rossa pro­ dotte ad Arezzo, in Toscana, vasellame corrente di un lusso modesto, il cui prezzo era stabilito solo dalla lontana provenienza. Al ritorno dalla loro impresa, che durava uno o più anni, marinai e commercianti rac­ contavano quello che avevano sentito raccontare laggiù: così Roma co­ nobbe l’esistenza della Grande Muraglia.53 In questo affare, il ruolo di Paimira consisteva nel far superare alle mercanzie i trecento chilometri in linea d’aria che separano le città e i porti della Siria dal Golfo Persico e dalla rotta marittima, attraversan­ do il deserto siriano verso le accoglienti rive dell’Eufrate e il fertile ter­ ritorio iraniano; viaggio che costituiva l’avventura annuale delle grandi carovane. Le contrattazioni, le discussioni con i capitribù e i doganieri romani e iraniani, e le loro bustarelle, avvenivano in greco e in aramaico, lingue internazionali. Ecco cosa permise la prosperità di Paimira: l’essere situata sulla strada più corta tra il Mediterraneo e le belle acque

blu dell’Eufrate,54 una semplice pista in un deserto roccioso, e il fatto che i palmireni fossero dei «tecnici del deserto»: i cammellieri sapeva­ no attraversare quei trecento o quattrocento chilometri, da punto d’ac­ qua a punto d’acqua, tragitto faticoso in estate ed esposto agli attacchi dei nomadi. Non dimentichiamo i loro cammelli a una gobba, che si chiamano dromedari, scrive san Gerolamo, «per via della rapidità della loro corsa»,55 animali rari (erano stati da poco introdotti nell’Africa settentrionale). Ma la cosa più importante è un’altra: seppero costituire un’impresa commerciale da quello che avrebbe potuto limitarsi a esse­ re un mestiere di trasportatori; compravano e rivendevano loro stessi ciò che trasportavano; alcuni commercianti facevano parte della caro­ vana. Meglio ancora, i palmireni non si accontentarono di sfruttare la «loro» rotta commerciale verso il Golfo Persico: alcuni armavano delle navi sul Mar Rosso e facevano così concorrenza ai rivali egiziani. Pai­ mira non fu solo una città carovaniera, fu una repubblica mercantile dove «i personaggi fuori dal comune sono in generale conosciuti per il loro stretto rapporto con il commercio carovaniero».56 Varie piste portavano da Paimira all’Eufrate per raggiungere il Golfo; l’archeologia aerea ha permesso di riconoscerne una: le selci si­ stemate in modo tale da favorire il passaggio dei cammelli formano due strisce parallele, distanti da dodici a diciotto metri e così basse da esse­ re visibili solo dall’alto, a illuminazione radente.57 Una volta sulle rive dell’Eufrate, le carovane potevano passare il fiume su una chiatta,58 ma probabilmente optavano per il guado, con le zattere sostenute dalle otri. I corsi d’acqua furono per l’antichità ciò che le ferrovie sono state per i tempi moderni (costava uguale trasportare faticosamente un lun­ go convoglio di mercanzie per cento chilometri di strada via terra e far­ gli attraversare il Mediterraneo con un solo carico su una nave lunga una quarantina di metri). L’Eufrate offriva la scelta tra due poli com­ merciali, uno a monte, l’altro a valle: o si risaliva il corso del fiume, via acqua o lungo la riva, fino a Baghdad, dove Tigri ed Eufrate sono mol­ to vicini l’un l’altro, per raggiungere facilmente Seleucia al Tigri, gran­ de città greca in terra iraniana, rivale vittoriosa di Babilonia e avampo­ sto commerciale dove affluivano i prodotti iraniani e le importazioni orientali; oppure si scendeva lungo il corso dell’Eufrate per sbarcare in quella che era considerata una sorta di Hong Kong dell’epoca: Spasinu Charax, sul Golfo Persico, non lontano dall’attuale frontiera dell’Iraq con il Kuwait. Da qualche parte sul loro tragitto, a Vologesia, città situata non si sa di preciso dove lungo l’Eufrate, i palmireni disponevano di un punto di sosta in terra iraniana: vi possedevano un banco o, se si preferisce, un caravanserraglio, un khan, un fondouk (paragonabile al Fondaco dei Tedeschi di Venezia, che oggi ospita le Poste italiane), che era al tempo

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stesso locanda e magazzino, dove godevano di una extraterritorialità di fatto, tanto che un magnate di Paimira di nome Soados - lo incontrere­ mo più di una volta - potè erigervi un santuario degli imperatori roma­ ni divinizzati. Un’altra iscrizione onora un benefattore che vi fece co­ struire una sala per i banchetti sacri e donò un bruciaprofumi liturgi­ co.59 Risalendo il fiume s’incontravano anche commercianti palmireni che negoziavano con i loro confratelli greci a Seleucia al Tigri, dove po­ tevano acquistare belle sete, destinate a un successo secolare (più di un santo della futura Gallia cristiana avrà per sudario una stoffa di seta iraniana). Ma la maggior parte delle carovane si dirigeva a valle, verso Charax e il Golfo, dove gli abitanti di Paimira dovevano avere un altro caravanserraglio, di cui però non sappiamo niente. La spedizione pro­ babilmente aveva luogo durante i mesi invernali, essendo il Golfo Per­ sico uno dei luoghi della terra dove ci sono le estati più calde. Andata e ritorno duravano diversi mesi, tenuto conto delle stagioni e delle peri­ pezie, ogni viaggio aveva dimensioni biografiche e un carovaniere, alla fine della sua vita, poteva contare con fierezza il numero di volte in cui si era recato sul Golfo. Meglio lasciare la parola a qualche iscrizione, generalmente bilingue, in greco e aramaico. In una, nel 145, il pio benefattore Soados è onora­ to con una statua «per aver salvato dal grave pericolo che la minacciava la carovana di ritorno da Vologesia». Immagino che Soados sia corso in aiuto dalla carovana a capo dei suoi uomini. In un’altra iscrizione, nel 193 il ricco Taimarsu riceve una statua dai capicarovana che sono «risaliti» con lui da Charax, per aver usato a lo­ ro favore, in spese di viaggio, la somma di trecento «denari d’oro».60 Tale era l’importanza e probabilmente l’autorità dei ricchi benefattori. Charax era la sede principale dei traffici di Paimira, perché il Golfo era «il luogo di appuntamento dei mercanti dell’Oriente».61 Quella re­ gione, popolata da «arabi», che significava «nomadi», formava allora un piccolo regno. Cosa curiosa, i reucci locali avevano affidato ai pal­ mireni alte funzioni, poteri politici; e immagino che l’abbiano fatto non tanto sotto la pressione di un imperialismo economico quanto piuttosto in virtù di una massima che non è esclusivamente orientale: affidare solo agli stranieri le missioni di fiducia, per evitare qualsiasi collusione tra feudatari locali. Così un palmireno fu nominato satrapo, cioè governatore, di quello che oggi è l’emirato petrolifero del Bahrein. Dunque Paimira era considerata laggiù come un vivaio di abili tecnici del potere. Oltre alle grandi carovane annuali di cui il Golfo era il punto d’arri­ vo, alcuni mercanti di Paimira si arrischiavano da soli più lontano, fino ai mercati situati alla foce dell’Indo. È stata ritrovata la tomba di uno di questi, che si era fatto raffigurare davanti a una nave, un grosso vascel­ 238

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lo tozzo con la vela quadrata e armato di uno sperone per difendersi dai pirati.62 Nel 157, a un certo Iarhai che «amava la sua patria», ossia la città di Paimira, e che fu un personaggio eminente (c’erano almeno dodici sue statue in città), viene dedicata una statua «dai commercianti rientrati dalla Scizia», o una regione dell’Indo, «su una nave di Honainu, figlio di Haddudan, per averli soccorsi e assistiti con molta solleci­ tudine».63 Poi veniva l’ora del ritorno. Quando le carovane erano «risalite» dal Golfo e rientrate a Paimira, l’avventura era praticamente finita: nessu­ na iscrizione menziona l’ultima parte del tragitto, che da Paimira parti­ va verso i consumatori e i compratori, verso l’interno della Siria o i por­ ti della costa siriana, forse Tripoli, passando per Emesa.64 Ma le faccen­ de importanti si svolgevano a Paimira: sembra che proprio lì la dogana romana tassasse le importazioni di un quarto del loro valore.65 D ’altro canto dove poteva essere posta altrimenti, se non nella stessa Paimira,66 luogo di passaggio obbligato dove Roma disponeva di una guarnigione militare per reprimere il contrabbando? E poi le merci importate veni­ vano negoziate e rivendute lì sul posto dagli stessi palmireni, che da ca­ rovanieri si facevano mercanti. Proprio a nord di Paimira, fuori dall’ag­ glomerato, Dentzer ha identificato grazie a delle foto aeree un gruppo di costruzioni dal piano bizzarro: erano magazzini commerciali, docks, caravanserragli o khan. Quindi le carovane non entravano in città, a vantaggio dell’igiene e dell’ingombro; non dovevano pagare la tassa municipale del Tarif.67 Le mercanzie, scrive Dentzer, venivano lasciate in questi depositi provvisori, mentre venditori e compratori facevano affari all’interno della città, per ripartire poi verso le loro destinazioni finali.68 Forse alcuni commercianti italiani risiedevano a Paimira per prendere parte alle transazioni, come facevano a Petra 69 l’altra città ca­ rovaniera. L’ultimo tragitto, all’interno della provincia della Siria, sotto la pro­ tezione dell’esercito romano, non presentava pericoli né difficoltà. Lo stesso non avveniva per il ritorno attraverso la no man’s land desertica tra l’Eufrate e Paimira, dove la carovana aveva bisogno di una scorta armata. Il problema, infatti, non era l’acqua (i punti d’acqua non erano rari, perché nel deserto della Siria, si trova l’acqua a una profondità as­ sai limitata), ma i predoni. Deserto o steppa, ogni solitudine era perico­ losa: per percorrere i duecento chilometri che separano Aleppo (antica Beroia) da Uria (antica Edessa), «i viaggiatori non si fidavano e si riuni­ vano in gruppo», racconterà in seguito san Gerolamo,70 perché il de­ serto troppo vicino è percorso «da Saraceni senza fissa dimora che, al­ l’improvviso, a dorso di cavallo o di cammello» compaiono sulla pista per saccheggiare le loro vittime e ridurle in schiavitù. Uscire vivi da un deserto era un favore di cui ringraziare gli dèi.71 Nel deserto di quella 239

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che è oggi la Giordania, i nomadi - i beduini dell’epoca - hanno trac­ ciato dove capitava decine di migliaia di graffiti in arabo arcaico che in­ vocavano la dea guerriera in questi termini: «O Allat, sicurezza e botti­ no», «O Allat, vendetta», «O Allat, sicurezza per colui che monta la guardia».72 La pirateria di terraferma costituiva un’ordinaria risorsa, insieme all’allevamento e a un po’ di agricoltura. Per questo motivo non ci si avventurava senza armi nella steppa de­ sertica e le carovane erano scortate da cavalieri armati. Un’iscrizione elogia un «comandante» che assistette i palmireni «con tutto il suo va­ lore e il suo coraggio, in particolare con diverse azioni contro i noma­ di». Un altro comandante (strategos) assicurò la pace alle frontiere del­ la città». Forse il comandante e le sue truppe erano un’istituzione per­ manente e Roma aveva lasciato a Paimira, sua suddita, il compito di costituire una polizia del deserto di frontiera; forse anche le spedizioni e le azioni erano solo iniziative momentanee, imposte dall’urgenza. Era dunque un’impresa difficile quella delle carovane annuali e dei lo­ ro lunghi mesi di viaggio; erano necessari uomini, bestie, capitali, or­ ganizzazione, capi. A proposito dei capitali, ecco un dettaglio pittore­ sco. A quei tempi si utilizzavano i cocci o il gesso dei muri come carta di brutta. Sulla parete di una torre funeraria, uno sconosciuto palmireno ha fatto i suoi conti in aramaico: sembra che in un mese abbia percepito 2236 denari su alcuni prestiti al 30 per cento, ciò significa che il tasso del prestito carovaniero era pari a quello dei prestiti marit­ timi cosiddetti «a rischio», da rimborsare in caso di sinistro.73 Il traffi­ co carovaniero implicava quindi dei capitalisti e come abbiamo visto, dei mercanti. La stessa spedizione era posta sotto l’autorità di un capo carovanie­ re per cui i palmireni avevano ricalcato il nome greco di «sinodiarca». Questi uomini non erano i veri padroni del traffico ma semplicemente mentre i responsabili dello svolgimento di una spedizione. I signori dell’economia carovaniera erano invece quelli che noi chiamiamo i magnati, Soados o quell’Iarhai che fu onorato con dodici statue, molte persino per Paimira dove, in un’epoca in cui una città mediamente contava una statua ufficiale ogni mille abitanti circa, se ho fatto bene i conti, il rapporto statue-abitante era di uno a cento.74 Essi non pren­ devano parte alle spedizioni, o non necessariamente, ma disponevano dei capitali e, più importante ancora, delle risorse umane necessarie per organizzarle. Era un tipo di imprenditore caratteristico di quei tempi e luoghi, tipo ben diverso da quello scoperto da Max Weber alle origini del capitali­ smo, ossia l’uomo d’affari protestante, uomo di dovere, pittoresco con la sua lunga figura. Il capitalista di Paimira, invece, era un cavaliere, un guerriero, uno sceicco, come scrive Ernest Will in un articolo divinato­ 240

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rio:75 il solito capo di tribù divenute più o meno sedentarie del territorio palmireno e del deserto. È grazie a lui che Paimira ha potuto far fruttare le sue possibilità commerciali; la sua autorità e la sua audacia avevano a disposizione competenti carovanieri. In breve, Will ipotizza quello che i documenti non possono dirci: che Palmira fosse un centro di potere che controllava le tribù del deserto; le stesse risorse belliche che spiegheran­ no l’epopea di Zenobia che si impone a Roma come pretendente al trono imperiale. _ . . . . Tentiamo un azzardo: questa città aramaica non era una citta siriana come le altre; con le sue reti di clan, di clientele e di lignaggi assomi­ gliava più a una città mercantile come La Mecca o Medina al tempo di Maometto che a una città dell’impero; come quei villaggi arabi, Paimi­ ra non si fondava su un corpo civico ma su un gruppo di tribù, ed era dominata da qualche famiglia di principi-mercanti. I magnati di Paimi­ ra, fieri di un’autorità che li rendeva capaci di ogni audacia, potevano giocare sulla loro doppia cultura: senza umiltà né risentimento erano allo stesso livello della cultura ellenica, conoscevano l’ampio mondo, lo misuravano, ma conservavano il potere di costituire tra i loro fedeli un esercito privato per difendere Roma o al contrario per attaccarla. I romani non disconoscevano le capacità belliche che potevano veni­ re dal deserto: ne diffidavano sul posto e le utilizzavano da lontano. Paimira era considerata un’unità della cavalleria romana reclutata ini­ zialmente tra gli indigeni della Tracia, la nostra Bulgaria, a cui successe un’unità formata dai voconzi,76 a Vaison-la-Romaine, capoluogo del cantone di Vaichiusa che era allora la capitale regionale e il centro di romanizzazione di un ampio territorio, quello dei rudi montanari del Delfinato. Roma aveva cura di inviare le sue truppe di occupazione lon­ tano dalle loro regioni di origine. Reclutava a Paimira arcieri a cavallo e li inviava lontano a esercitare Teloro competenze; alcuni furono spediti nel Sud algerino, sulla frontiera sahariana, dove i palmireni praticarono il culto dei loro dèi Yarhibol e Malakbel, e lasciarono iscrizioni nel loro dialetto aramaico e in latino; altri, alla frontiera nord dell impero, in Dacia (la nostra Transilvania rumena), dove innalzarono templi a Bel, il grande dio della loro patria, motivo per cui h si ritrovano iscrizioni nel dialetto aramaico di Paimira e in greco. Più in generale, i siriani aveva­ no un temperamento da emigranti, perciò in tutto 1 impero (e fino a Vaison, di nuovo), c’erano commercianti siriani77 ^ Questa era dunque Paimira e questi i suoi abitanti verso il 100 e il 200 dopo Cristo, quando furono innalzati i monumenti di epoca roma­ na che ammiriamo ancora oggi. Ma per capire le ragioni di questo spet­ tacolo, dobbiamo tornare indietro di un buon millennio, fino a un mondo completamente diverso, a un’antichità nell antichità, verso il 1000 avanti Cristo, al tempo degli assiri, di Babilonia, dei fenici, del re 241

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Davide che fondò Gerusalemme e della leggendaria guerra di Troia, quando la Gallia non era ancora gallica. In quei tempi lontani, Paimira esisteva già da mille anni, e aveva già il nome di Tadmor, il suo attuale nome arabo. Ma, per quanto riguarda questo lontano passato, cono­ sciamo solo il nome della città; rimaniamo quindi intorno al 1000 avan­ ti Cristo. Quell’epoca vide un grande cambiamento: un popolo noma­ de il cui nome appariva allora per la prima volta, gli aramei, invase po­ co a poco la Siria e le diede per l’appunto il nome di Aram. Un re assi­ ro scrive nei suoi annali di aver combattuto gli aramei ventotto volte, da Tadmor ai paesi dell’Ovest e di aver persino attraversato l’Eufrate due volte in un anno.78 Invano: i siriani si ritroveranno poi a dire «i nostri antenati, gli ara­ mei», e la Siria, così come la Mesopotamia, smetterà di parlare aramaico solo per parlare arabo, mentre tra il 539 avanti Cristo e la conquista musulmana nel 636 dopo Cristo si succederanno sul suolo siriano la dominazione persiana, quella dei re greci eredi di Alessandro Magno, e infine quella di Roma. Non affliggiamoci troppo al pensiero di questi domini stranieri: per gran parte del mondo antico non era drammatico obbedire a un signore straniero, o, piuttosto, la «nazionalità» del domi­ natore non contava quasi. L’aramaico era servito a lungo come lingua internazionale e diplomatica, dalla Siria e dall’Iran all’Afghanistan. Smise in seguito di essere scritto, rimpiazzato dal greco dei conquistatori, ma restò la lingua parlata dalla maggioranza della popolazione si­ riana fino alla conquista musulmana; fu adottato da tutti, dagli arabi, che da secoli non smettevano di infiltrarsi in Siria, e dagli ebrei, che ab­ bandonarono l’ebraico (alcuni tra gli ultimi libri della Bibbia sono in aramaico). Sopravviverà al greco, dotta patina di cui prenderà un gior­ no il posto, mentre la lingua gallica sparirà del tutto. Quando la Siria diventerà cristiana, una ricca letteratura detta «siriana» tratterà in ara­ maico i più alti soggetti filosofici e teologici del pensiero ellenico che, fino ad allora, erano stati riservati solo ai greci. Non per effetto di qual­ che nazionalismo aramaico: i sacerdoti e i monaci che sapevano il greco vorranno semplicemente mettere i problemi religiosi alla portata del maggior numero di persone, come Cartesio che abbandona il latino dei dotti per scrivere il suo Discorso sul metodo nella lingua dei suoi com­ patrioti. I palmireni sono quindi aramei «arabizzati» che hanno continuato a parlare aramaico in famiglia come tutti i siriani, ma anche a scriverlo in parallelo al greco: i loro ricchi mausolei familiari hanno spesso un’iscri­ zione bilingue sulla porta, ma all’interno l’epitaffio di ogni defunto è solo in aramaico; il bilinguismo dunque attestava semplicemente l’inte­ resse della famiglia per il grande mondo. Nella stessa Paimira le iscri­ zioni pubbliche che onoravano i mecenati o i benefattori dei cittadini 242

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sono regolarmente bilingui, mentre nei villaggi circostanti, in compen­ so, Schlumberger non ha trovato iscrizioni in greco; l’unica lingua scrit­ ta laggiù era l’aramaico, più raramente l’arabo. La Paimira di cui conosciamo meglio la storia è quella che Roma, già signora del resto della Siria, aveva annesso verso l’inizio della nostra era. È la città dei primi tre secoli dopo Cristo, quella che vediamo, con le sue rovine e le sue mille iscrizioni (di cui diverse centinaia in greco e una decina in arabo). Ma sembra di intravedere quello che era stata prima di Cristo: da secoli o addirittura millenni, Paimira era quella citta nota e particolare, la «Tadmor del deserto», che conosce bene 1 autore biblico delle Cronache intorno al 400 avanti Cristo; l’oasi con le sorgen­ ti sulfuree o potabili era verosimilmente occupata da coltivatori e alle­ vatori sedentari. Conosciamo i nomi di almeno diciassette tribù a cui P ai mira faceva da centro; vi avevano edificato i loro accampamenti sta­ gionali: si può immaginare una città di pisé e mattoni seccati al sole. E probabile che la città che vedremo vivere si sia formata grazie all unio­ ne di un certo numero di tribù, tanto aramee quanto arabe; Maurice Sartre ha mostrato come le città dell’Hauran e del Gebel Druso si siano originate così.80 Nel corso degli ultimi due secoli avanti Cristo, si elevava già un tem­ pio di Bel, nello stesso posto dell’edificio attuale, ma anche un tempio di Baalshamin, il «Signore del cielo», insieme a molti altri santuari. Inoltre, ogni tribù conservava il suo santuario ancestrale e queste nu­ merose divinità, ammesse da tutti, coesistevano pacificamente, anche quando due tribù si trovavano in conflitto. E nel 32 dopo Cristo che viene consacrato il tempio attuale; e, nella stessa epoca, altre tre citta siriane, Baalbek, Gerasa e Petra costruirono o ricostruirono 1 loro grandi santuari, cosa che non può essere una coincidenza: la nerezza civica era suscettibile, le città erano gelose tra loro, si spiavano e riva­ leggiavano per gli abbellimenti architettonici.81 Gli edifici pubblici ap­ portavano «bellezza e grandezza» alle città, come si diceva con molta consapevolezza. , I primissimi decenni della nostra era assistono a un grande avveni­ mento: l’avvicinamento all’impero romano82 di questa preda allettante che era Paimira, rimasta fino ad allora indipendente da Roma come lo era stata probabilmente dai re greci di Siria,83 cosa di cui saremo certi quando verrà studiata la parte ellenistica della città. Avvicinamento dovuto al fatto che i romani abbiano cercato di ostacolare il contrab­ bando ponendo la loro dogana in un luogo dove le carovane in cerca d’acqua e di un caravanserraglio erano costrette a sostare. In parte si possono essere aggiunte delle ragioni internazionali. Il deserto era un vuoto politico. Con il territorio iraniano che si fermava all Eufrate, il deserto apparteneva quindi a Roma, tanto quanto il West del conti243

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nente nordamericano apparteneva agli Stati Uniti anche prima della sua conquista. In un deserto, quello che marca meglio una frontiera è un gruppo umano, su cui imporre una tassa, e un caravanserraglio do­ ve percepire i diritti di dogana. Conquistare Paimira e installarvi una guarnigione voleva dire riaffermare i diritti dell’impero sul deserto. Paimira farà parte dell’impero romano, poi bizantino, fino alla con­ quista musulmana. Divenuta soggetta ai Cesari, la città non mancò, seguendo l’abitudi­ ne generale, di consacrare agli imperatori divinizzati un monumento la cui architettura era del resto più onorifica che religiosa, perché il culto degli imperatori era una candida iperbole di lealtà che nessuno pensa­ va di prendere alla lettera. Ciononostante, a partire al più tardi dal 75 dopo Cristo (i documenti di cui disponiamo sono pochi), la città stessa si qualifica come polis nei suoi atti pubblici,84 ossia una collettività or­ ganizzata sul modello di una città greca o romana, guidata da un presi­ dente detto «proedro», un consiglio, un’assemblea del popolo, due ma­ gistrati annuali chiamati «arconti» e un segretario del consiglio e del popolo (che, a questo titolo, rappresentava la città nelle relazioni con il governo romano della provincia).85 Non ci si può illudere sul carattere poco democratico del regime, malgrado l’esistenza di un’assemblea del popolo; alcune iscrizioni86 parlano di «assemblea di tutti i palmireni» (o in greco, «del popolo dei palmireni») che onora un magnate: espres­ sione di una sovranità popolare o riunione eccezionale di una brigata di acclamatori? O meglio, corpo civico alla maniera greca o reale riu­ nione di una popolazione tribale? Si ipotizza addirittura che sia stata Roma a conferirle questa organiz­ zazione, annettendola. Ne siamo certi? La costituzione di Paimira è, al contrario, puramente e tipicamente greca, «più che nella maggior parte delle città della Siria ellenizzata»;87 quindi potrebbe essere anteriore al­ l’annessione all’impero e risalire ai tempi dei re greci di Siria: Paimira avrebbe allora imitato la costituzione che essi davano alle città indigene che rifondavano. Soprattutto, niente era più estraneo alla prudenza po­ litica e allo scarso proselitismo dei romani che modificare le abitudini delle società di cui si erano fatti dominatori; non hanno mai cercato di romanizzarle, di imporre la civiltà romana (che in realtà è l’ellenismo in due versioni: ellenizzazione in lingua greca nel Mediterraneo orientale ed ellenizzazione in latino a Occidente). Si limitavano a considerare co­ me civilizzate le oligarchie locali che, ovunque e spontaneamente, adot­ tavano questa organizzazione civica e questo stile di vita. Se Paimira ha una costituzione politica, significa che è stata lei a darsela: in una data sconosciuta, un certo numero di tribù si saranno confederate88 per for­ mare una polis, secondo l’esempio delle città elleniche o ellenizzate del resto della Siria. Così, divenuta greca quanto a forma civica e città sud­ 244

Paimira e Z enobia tra Oriente, Grecia e Roma

dita quanto a statuto, lo resterà sotto la dominazione romana fino verso il 200 dopo Cristo, quando verrà innalzata allo statuto ugualitario di «colonia» romana. Aveva deciso di ellenizzarsi per vivere al passo con il suo tempo. In tutto l’Oriente, l’ellenizzazione ha continuato a esten­ dersi nei secoli del dominio romano. Da qui un’identità complessa, spiegata lucidamente da Maurice Sartre: i notabili delle città non potevano scegliere «tra essere greci e essere qualcos’altro, perché ciascuno poteva essere al tempo stesso greco e qualcos’altro. La coscienza etnica non scompare mai», ma cia­ scuno poteva «rivendicare senza ambiguità una triplice cultura aramaica, fenicia e greca, proprio come san Paolo poteva dichiararsi al tempo stesso ebreo, greco e romano. La coscienza della diversità del­ le culture si è chiaramente mantenuta, ma non è più posta in termini di gerarchia».89 , Erano rari coloro che si ribellavano all’ellenizzazione. In Giudea, tuttavia, il problema politico consisteva nel conflitto tra i partigiani dell’ellenizzazione e i loro avversari, che si nascondevano dietro la religio­ ne nazionale. Poco prima che Paimira fosse annessa all impero, il re Erode, vassallo imperiale, si sforzava di ellenizzare i sudditi ebrei per renderli meno refrattari a Roma, che gli assicurava il trono; la loro elle­ nizzazione sarebbe la prova della loro adesione alla civiltà comune e quindi all’impero. Di conseguenza Erode, per compiacere i sovrani ro­ mani, fondava nel suo regno molte città di tipo greco dove si innalzava­ no i lunghi colonnati che conosciamo. Tuttavia, sotto le sembianze greche e civiche, Paimira è rimasta a lun­ go un’organizzazione semi-tribale.90 Una tribù siriana era composta da un certo numero di clan o di lignaggi che riunivano i discendenti ma­ schi di un antenato reale o mitico che dava il nome alla tribù: i membri della tribù erano i suoi figli. Gli israeliti, che avevano Israel come miti­ co antenato, erano i «Figli di Israel» e il loro dio ancestrale era Yahweh. Così, tra le circa venti tribù che riuniva Paimira, i Beni Maazin, appa­ rentemente di origine nomade, erano i «Figli del Capraio», e il loro dio ancestrale si chiamava Baalshamin, il «Signore del cielo». Tuttavia, la parola tribù designava altresì una cosa ben diversa: nei termini della loro costituzione, le città greche erano divise in un nume­ ro determinato di «tribù» che erano anche delle circoscrizioni in cui era ripartito il corpo civico; queste «tribù» civiche portavano il nome di eroi leggendari (Eretteo o Cecrope ad Atene, per esempio). E 1 orga­ nizzazione di Paimira era la stessa; la città era ufficialmente divisa in quattro «tribù» ciascuna delle quali aveva il proprio santuario, portava il nome del suo presunto avo, e costituiva il gruppo civico: i Beni Mitha, i Beni Mattatoi, i Beni Maazin, già nominati, e i Beni Komare. Questi ultimi sono, in aramaico, i «Figli del sacerdote»,91 ossia sono sacerdoti 245

L’impero greco-romano

in un paese dove un «Figlio di carpentiere» era un carpentiere e un «Fi­ glio dell’uomo» un uomo. Ma prima si chiamavano i «Figli del cohen», che voleva dire la stessa cosa in fenicio, dove un cohen è un sacerdote (come in ebraico). Ecco dunque una tribù il cui nome veniva dalla co­ sta fenicia, a ovest di Paimira, ed era forse una tribù fittizia in cui erano riuniti i sacerdoti, come in Israele la tribù dei Levi era la corporazione dei leviti, specialisti di questo culto. Sia, ma qual era il rapporto tra le quattro circoscrizioni civiche e le diciassette tribù «sociologiche»? Alcuni storici suppongono che le quattro tribù più antiche o più potenti abbiano preso il potere e si sia­ no impadronite della nuova città; altri che la popolazione, tutte le tribù insieme, sia stata raggruppata e ripartita in quattro circoscrizioni, chia­ mate anch’esse «tribù»,92 e che così la città del deserto sia diventata ima città ellenizzata. Che idea ci si può fare di Paimira in questi primi due secoli: città vera o conglomerato di tribù sotto i loro rispettivi sceicchi? Ci piacerebbe ipotizzare un sistema tribale mascherato da cir­ coscrizioni civiche. C’erano dei conflitti tra le tribù; verso l’inizio della nostra era, un magnate è onorato dai BeniMattabol e dai Beni Komare «perché è stato il loro capo, e ha portato la pace tra» queste due tribù «e si è occupato dei loro affari»; ecco delle circoscrizioni civiche che continuano ad avere i loro capi patriarcali. Paimira era rimasta la «città dei nomadi» di cui parla la Briquel-Chatonnet.93 Poiché ognuna delle quattro tribù aveva il suo santuario, ci piacerebbe sapere se l’agglome­ rato fosse ugualmente diviso in quattro quartieri; nell’accampamento dei nomadi lo spazio era diviso tra le tribù. Un piccolo fatto conferma che un abisso separerà a lungo la società degli aramei e degli arabi dalle altre città dell’impero, con quel civismo oligarchico così particolare che animava i loro notabili: a Paimira, su più di un migliaio di epitaffi in aramaico, le funzioni pubbliche94 che erano state necessariamente ricoperte da molti ricchi (per esempio membro del consiglio, tesoriere o edile) sono menzionate di rado, men­ tre i parenti e gli antenati lo sono meticolosamente, talvolta fino alla cinquantesima generazione. È tanto sorprendente quanto lo sarebbe, sotto ΓAncien Régime, l’epitaffio di un nobile che,non menzionasse il suo titolo di cavaliere, conte o duca. Perché in tutto il mondo greco e romano (come anche nell’antica Etruria), le funzioni pubbliche confe­ rite dalla città, dalla piccola patria, erano dei veri titoli nobiliari; la cosa importante era essere stati proedri, arconti, duumviri o semplicemente consiglieri della città (ossia zilath o prthne)·, queste funzioni pubbliche costituivano l’identità di un notabile. Non c’è niente di simile a Paimira, e Jean-Baptiste Yon ne conclude che la realtà del potere non risiedeva nelle istituzioni civiche ma nei ric­ chi clan familiari; gli onori attribuiti dalla città contavano meno della

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Paimira e Zenobia tra Oriente, Grecia e Pom a

grandezza della famiglia, di cui erano solo una conseguenza accessoria (diciamo en passant che la famiglia era visibilmente monogama e che ci si sposava spesso tra cugini, come nell Africa romana e nel moderno Maghreb descritto da Germaine Tillon).93 In compenso, un numero elevato di ritratti funerari mostra personaggi vestiti con le insegne sacerdotali: un copricapo cilindrico a forma di tocco o persino un alta tiara conica, cinta alla base da una corona di quercia chiusa sul davanti da un medaglione o dal minuscolo busto di un dio o di un imperatore divinizzato.96 Si tratta di sacerdoti o, più spesso, di membri di una del­ le numerosissime associazioni private di Paimira, il cui scopo era di onorare un dio e di organizzare banchetti sacri. È evidente che impor­ tava di più essere «capo del banchetto sacro» che magistrato; il civismo non si imponeva abbastanza ed era la pietas la distinzione più alta. Di· quei tempi, era di norma professare una religione, era su questo aspet­ to che gli uomini si dividevano meno, nessuno poteva sottrarvisi senza diventare estraneo all’umanità, alla distinzione tra bene e male. Detto questo, ciascuno poteva avere gli dèi che voleva. Il potere imperiale, informato dal suo residente a Paimira o dal go­ vernatore di Siria, sapeva che la città era rimasta in maggioranza stra­ niera, che i notabili continuavano a chiamarsi Wahballath o Iedibel, invece di prendere nomi greci e di chiamarsi Atenodoro o Teognosto come tutti, tra cui molti altri Siriani, facevano. Forse è per questa ra­ gione che i palmireni ricchi non hanno quasi mai beneficiato di un fa­ vore distribuito sempre più largamente in tutto l’impero:97 diventare cittadini romani e passare così dallo stato di «indigeni» a quello di «metropolitani» (mi si perdoni questo linguaggio anacronistico ma esplicativo). Consuetudine per cui si può contare una decina di ecce­ zioni al massimo, tra cui il magnate Iarhai, che il suo nuovo stato civi­ le obbligò a chiamarsi ormai alla romana Marcus Ulpius Iraios, nome che rivela il tentativo di salvare il suo onomastico aramaico attaccan­ dovi una desinenza greca. Può anche essere che la classe dominante si limitasse a una decina di magnati e non formasse tutta una «classe bor­ ghese» di notabili. Mentre nell’Asia romana del II secolo quasi tutta la/ «borghesia» delle città greche aveva la cittadinanza romana. Ciononostante, nel corso del III secolo le cose andavano modifican­ dosi profondamente a Paimira così come nell’Oriente greco. Innanzi­ tutto, verso il 200, in seguito a circostanze non pertinenti in questa se­ de, Paimira fu improvvisamente promossa al rango di colonia, cosa che, nell’ottica del senso moderno di questa parola, significa che fu portata al livello delle città che facevano parte della «metropoli» romana. E i palmireni assimilarono lo spirito di questa promozione: nei testi uffiet ali si ornavano ormai delle loro dignità di duumviri, edili o consiglieri, senza tuttavia rinunciare alle iscrizioni bilingui né ai loro nomi in

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aramaico. Erano fieri di essere diventati dei veri romani restando allo stesso tempo se stessi. Qui appare l’opposizione tra due forme di iden­ tità «nazionale». Come scrive Claude Lepelley,98 l’ambizione delle città greche, contrariamente a quelle siriane, non è mai stata di diventare città romane, al contrario. Siriani e palmireni sono come gli altri popo­ li dell’impero, i galli, per esempio, che si considerano membri dell’im­ pero romano in quanto galli. I greci, invece (per non parlare degli ebrei), continuano a sentirsi una nazione conquistata da signori stranieri. I siriani hanno la loro cul­ tura nazionale, le tradizioni, la fierezza probabilmente, ma non hanno il nazionalismo culturale implacabile dei greci, il loro superbo sdegno per tutto ciò che viene da Roma; non torcono il naso all’idea di appar­ tenere al grande impero le cui legioni proteggono la Siria contro le raz­ zie iraniane. Hanno, come tutti, costumi, tradizioni e valori propri, tut­ ta un’identità di fatto, con la pesantezza e l’inerzia di ogni identità, ma senza averne una coscienza acuta e sofferente, senza averne il narcisi­ smo, secondo la definizione di Maurice Sartre. Mentre le parole «tutti i greci» o «PEllade» bastavano a riempire le bocca e a gonfiare il cuore degli elleni. In seguito, a leggere le iscrizioni di Paimira,99 si ha l’impressione che col tempo la città si familiarizzi sempre più con Roma e le sue istituzio­ ni, con la complicata gerarchia dei poteri, e diventi una città come le al­ tre, una vera città dell’impero. Nel corso del II secolo, si smette di men­ zionare dopo il nome di un individuo quello della tribù a cui appartie­ ne.100 Nel secolo successivo, il terribile III secolo, ovunque sono in di­ minuzione i particolarismi di fronte alle minacce venute da fuori; c’è bisogno di Roma e delle sue legioni, ci si sente membri dell’impero. È bene non dimenticarlo per non farsi un’idea troppo nazionalista di un episodio imprevedibile che ha portato Paimira all’altezza della grande storia: l’epopea conquistatrice della città del deserto tra il 259 e il 274; quei quindici anni che hanno consegnato alla posterità il nome di Ode­ nato e quello della sua vedova, Zenobia, regina di Paimira, che tentò di impadronirsi del trono romano. L’impresa di Zenobia si colloca durante i peggiori anni che l’impero abbia mai attraversato. Si era sollevata una vera e propria tempesta: in­ vasioni barbariche sul Reno e sul Danubio, mentre sull’Eufrate i sovra­ ni iraniani (o persiani, se si preferisce) avevano rotto l’equilibrio tra i due imperi; il Re dei re potrà vantarsi nella sua iscrizione trionfale di aver incendiato e saccheggiato la Siria. Non si capisce se cercasse di conquistare l’Oriente romano, di razziarlo o di umiliare l’orgoglio ro­ mano davanti alla sua potenza e a quella dei suoi dèi; l’odio geloso per un rivale più potente o più brillante gioca un grande ruolo tanto nelle relazioni internazionali quanto nella vita amorosa, senza che sia neces­ 248

Paimira e Zenobia tra Oriente, Grecia e Roma

sario cercare una motivazione falsamente seria per certi conflitti. L’im­ pero romano ormai era solo una cittadella assediata dai germani e dai persiani. All’interno della cittadella era l’anarchia: nel corso di una generazio­ ne, una trentina di imperatori si disputarono il potere al prezzo delle loro vite. E, dal 240, l’impero al limite del crollo aveva bisogno di essere salva­ to. La situazione disperata in cui si trovava suscitava una folle rivalità patriottica tra i diversi eserciti: la guardia imperiale, le legioni sul Reno, quelle sul Danubio e quelle in Siria; ciascuna voleva imporre il proprio capo come miglior salvatore. Nella cultura politica dei soldati salvare l’impero e procurargli un imperatore era compito dei militari, divenuti la classe dirigente, ma questa classe non era l’Esercito: era divisa in tre o quattro grandi eserciti, che implicavano altrettanti uomini, altrettanti rivali. Ne deriveranno trent’anni di anarchia in cui il patriottismo au­ tentico degli eserciti si distinguerà male dalle loro gelosie reciproche e sfocerà nei conflitti tra pretendenti al trono. Un testo giudeo-cristiano che bisogna, credo, datare in quegli anni, le Omelie clementine, dipinge con forza «lo spettacolo che abbiamo sotto gli occhi: da un capo all’al­ tro della terra ci sono diversi sovrani, tanto che le guerre sono conti­ nue, poiché ogni principe trova nel potere di un altro una falsa ragione per muovere guerra».101 Ogni imperatore vinto o giudicato inetto perdeva il mandato di sal­ vatore, che era la sua vera legittimità, e veniva spesso messo a morte dai suoi soldati. Ogni generale vincitore dei barbari era, talvolta contro la sua volontà, proclamato imperatore dalle truppe che si identificavano con il loro capo, mentre altri eserciti opponevano il proprio generale. Insomma, i pronunciamientos erano una forma di candidatura; alcuni venivano liquidati rapidamente con l’assassinio del candidato, inserito ormai tra gli usurpatori; altri venivano regolati al prezzo di una guerra o della defezione di uno degli eserciti rivali. Dopo la battaglia, il fortu­ nato eletto fingeva di credere che le truppe del suo concorrente avesse­ ro seguito quello scellerato contro la propria volontà;102 il capo vinto era messo a morte e, «secondo l’uso, si portava la sua testa» al vincito­ re:103 in politica Roma non conosceva altre sanzioni che la pena capita­ le, poiché ogni opposizione era reputata un tradimento. Tuttavia, alcu­ ni pensano che Zenobia sfuggirà questa fine fatale. Gli imperatori erano ridotti a difendere il solo fronte del Danubio, che impediva l’accesso all’Italia e, di conseguenza, a Roma. E, poiché erano loro stessi a capo dell’esercito e non avevano più tenenti, non po­ tevano essere sempre ovunque. Allora i provinciali dovettero difendersi da soli; più di una regione e città tentò di scampare al disastro dandosi un capo locale improvvisato, perché, come dice Felix Hartmann,104 ogni 249

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provincia voleva un imperatore che le fosse vicino: vedremo come que­ sto spiegherà l’epopea di Paimira. D ’altro canto, gli eserciti non esitava­ no a lasciare il loro imperatore per un pretendente valoroso.105 Non lon­ tano da Paimira, a Emesa, lo sceicco locale, un gran sacerdote del Sole, inflisse uno scacco agli iraniani, batté moneta per pagare le sue truppe, restò solo al comando per un anno o due e tentò di usurpare il trono im­ periale: i profeti annunciavano già il suo trionfo.106 Il potere centrale poteva colmare una breccia aperta dai barbari solo lasciando sguarnito un altro punto delle sue troppo lunghe frontiere; le province, così sacri­ ficate, smettevano di obbedire a Roma per conservare gli eserciti che le proteggevano. Per dieci anni la Gallia, che era stata saccheggiata dalle razzie dei germani, ebbe così una discendenza di imperatori solo per lei. Non era la vendetta di Vercingetorige, ma una soluzione d’urgenza per salvare questo pezzo di romanità; gli «imperatori dei galli» furono pa­ trioti dell’impero che esaltavano l’eterna Roma nelle legende delle loro monete. Meglio ancora, uno di loro proclamava sulle proprie monete di essere il «restauratore del mondo» romano tutto intero e di possedere l’Oriente a pieno diritto. L’impero era uno e indivisibile; gli imperatori dei galli furono degli usurpatori, ma non certo dei secessionisti. Avreb­ bero potuto dire: Roma non è più a Roma, ma è tutta nella Gallia dove io mi trovo. Come scrive Kenneth Harl, «le usurpazioni e le ribellioni non furo­ no un rigetto dell’autorità romana, ma soluzioni locali per lottare con­ tro la disgregazione; non fu lo stesso con l’egemonia di Paimira».107 Infatti, nel 251, Paimira aveva fatto come Emesa: approfittando della situazione difficile di quei tempi era diventata un principato ereditario e vassallo di Roma, in mano a una famiglia i cui eredi si chiamavano Vaballato (Wahballath) o Odenato (Udhainat) - ritroveremo questi nomi - e portavano il titolo, inventato per loro, di «esarchi dei palmireni»; sotto la loro autorità i magistrati della città avevano conservato le loro funzioni.108 Dunque era successo a Paimira quello che stava ac­ cadendo in varie città aristocratiche: una grande famiglia aveva acqui­ sito il primato sulle altre. L’autorità superiore di Odenato, scrive Mau­ rice Sartre, «che si potrebbe qualificare come tirannica se non ci si tro­ vasse in epoca ellenistica, si sovrappose alle istituzioni esistenti, non le distrusse».109 Due generazioni prima, quella famiglia aveva ricevuto la cittadinanza romana, un favore raro a Paimira. Il dinasta al potere nel 251 era addirittura stato elevato al rango di senatore romano: era en­ trato nell’ordine senatoriale, forte di un migliaio di famiglie che for­ mavano il gruppo dirigente di tutto l’impero. Erano altrettanti i premi di fedeltà verso Roma: la dinastia possedeva quello che si potrebbe chiamare la nazionalità imperiale. Il nuovo esarca era di fatto il signo­ re di tutta la regione di Paimira, dei sedentari e degli allevatori itine­ 250

Paimira e Zenobia tra Oriente, Grecia e Roma

ranti che sarebbero stati un giorno i suoi guerrieri. Con un mezzo se­ colo di anticipo, fa pensare a quel reuccio del deserto che, duecento chilometri a sud, regnerà sulle tribù di frontiera degli arabi safaitici e si dirà amico dei romani, che dovranno essere con lui accondiscenden­ ti per servirsene contro i persiani.110 Che un principino vassallo fosse allo stesso tempo senatore non era una novità. Che Roma avesse dei principi vassalli lo era ancora meno, pensiamo solamente a Erode Antipa (quello che fece tagliare la testa di san Giovanni Battista dopo che Salomè ebbe danzato di fronte a lui): il suo titolo di tetrarca di Galilea non era più singolare che quello di esar­ ca di Paimira o di filarco degli arabi; sono titoli di piccoli capi e non di sovrani. Un capo locale ha la possibilità di formare un esercito privato tra i suoi fedeli, di pagarlo e di supplire così alle legioni. Di fronte alla minaccia iraniana, gli imperatori avevano restituito a due riprese l’au­ tonomia e le sue dinastie ereditarie al principato di Edessa,111 nel bel mezzo della provincia romana di Mesopotamia. Ma c’era una regola da rispettare: un vassallo riceveva la sua corona da Roma, non da se stesso o dal suo predecessore. E, dieci anni più tardi, la situazione dell’impero si era aggravata an­ cora ed era successo l’incredibile: nel 259 o 260, sul fronte orientale, l’imperatore in persona era stato fatto prigioniero dallo scià dell’Iran, Sapore, il Re dei re. «L’impero era quasi distrutto»112 dirà uno storico latino. L’ora di gloria suonava per il marito di Zenobia, il dinasta Ode­ nato; sotto i due sposi, Paimira sarebbe diventata il corrispettivo orien­ tale dell’«impero» dei Galli.113 «Poiché la situazione era disperata in Oriente», scrive uno storico greco, «l’imperatore incaricò Odenato, un palmireno che gli imperatori avevano giudicato degno di onori per via dei suoi antenati, di portarvi rimedio; egli aggiunse le proprie forze mi­ litari disponibili alle legioni che erano state lasciate in Siria [quelle che non erano andate ad affrontare da sole Sapore] e marciò energicamen­ te contro Sapore.»114 Odenato era «il capo dei saraceni della regione di Palmira», scriverà uno storico bizantino115 (venivano chiamati «saraceni» o «arabi» tutti i gli uomini che vivevano sotto una tenda e conducevano una vita noma­ de). Era senatore come il suo predecessore e aveva persino ricevuto il titolo supremo di console romano. Ecco un dinasta vassallo, integrato nella classe governante, che era in grado di formare un esercito privato composto dai suoi nomadi e far fronte a un raid iraniano; disponeva a colpo sicuro di un’enorme fortuna e di una vasta clientela. Questi si­ gnori di provincia non avevano smesso di creare difficoltà al potere centrale. Sotto Augusto, Sparta aveva obbedito a un piccolo tiranno quasi indipendente, fatto cittadino romano e che, alla fine, l’imperato­ re fu obbligato a bandire.116 Sotto Marco Aurelio, il «miliardario ate251

L ’im p e r o g r e c o -ro m a n o

niese» Erode Attico, senatore e console come Odenato, tiranneggiava la città, estendeva il suo pesante mecenatismo sull’intera Grecia e osava parlare a voce alta ai piedi del tribunale imperiale.117 L’insolenza di questi provinciali sollevava la collera in pieno Senato.118 Ma questa volta l’imperatore, trattenuto sul confine occidentale del­ l’impero dalla guerra, si dovette piegare di fronte alla necessità; ricorse a qualche finta legale, poiché, a credere al nostro autore, affidò a Ode­ nato la difesa della regione. Forse gli conferì, in qualità di dux, titolo che avrebbe ripreso suo figlio,119 l’alto comando militare delle truppe ausiliarie di stanza in Siria, ma probabilmente non dell’enorme esercito siriano, con le sue decine di migliaia di uomini o quello che ne restava. Odenato si mise a capo dei suoi nomadi e degli ausiliari che Roma ave­ va precedentemente arruolato tra loro, e, nel 261, inflisse a Sapore una sconfitta sulTOronte120 che bagna Emesa e Antiochia: un’intera porzio­ ne di deserto si era scaraventata sul Re dei re. L’imperatore potè pro­ clamarsi sulle sue monete «grande vincitore dei persiani»: vincitore grazie alle armi del suo tenente palmireno. Queste imprese furono mol­ to ammirate, e a ragione: l’Iran, per quanto sempre minaccioso, smette­ va di essere un pericolo mortale per i tre secoli a venire. Cento anni do­ po la battaglia dell’Oronte, un celebre letterato scriverà a un discen­ dente «del grande Odenato che fece tremare i persiani e salvò città e campagne», per chiedergli una copia dell’orazione funebre del suo illu­ stre antenato.121 Nel disastro universale, Odenato era diventato l’uomo più conosciuto del suo tempo. La storia delle religioni, questo grande magazzino di fonti, ci ha tra­ mandato un testo giudaico straordinario, il libro VI di Esdra,122 che crediamo di poter inserire nel dossier di Odenato come testimonianza della gloria dei palmireni e dell’agitazione degli animi intorno al 270. Tutta ima corrente dell’opinione pubblica ebraica odiava i romani: nel 68 avevano distrutto Gerusalemme, profanato il tempio e massacrato la popolazione. E a quell’epoca, gli odi politico-religiosi si esprimevano attraverso pamphlet intitolati Apocalisse o anche Oracoli sibillini. Il lo­ ro autore poneva il proprio testo sotto l’egida di una figura venerata del passato o sotto quello di un’antica profetessa, di una sibilla, e face­ va loro «predire» degli avvenimenti che si erano verificati di recente; avendo così guadagnato la fiducia dei suoi lettori, passava allora a far loro profetizzare quello che desiderava o temeva di veder capitare a breve: la fine del mondo, seguita dal regno definitivo della Giustizia.123 E quindi ammissibile che il venerabile Esdra profetizzi che un giorno i persiani devasteranno «una parte della Siria»; ma allora «i dragoni ara­ bi, ricordandosi della loro nascita, riprenderanno vigore» e metteranno in fuga i persiani, cosa buona agli occhi del profeta. Tuttavia, avveni­ menti altrettanto drammatici annunciano la fine del mondo: fuoco, 252

Vaimira e Zenobia tra Oriente, G recia e Roma

grandine, inondazioni e spade volanti distruggeranno e massacreranno tutto e tutti, e «arriveranno senza fermarsi fino a Babilonia», questa meretrice dalle ragazze imbellettate e debosciate che altri non è che Roma in tutti i testi di questo genere; e anche l’Asia greco-romana sarà distrutta, per aver «condiviso la gloria» e i vizi di «Babilonia». Questo testo tutto rovinato tradisce al tempo stesso l’odio degli ebrei per Ro­ ma e il timore di razzie iraniane. Ritorniamo alla realtà: Odenato aveva inflitto ai persiani una sconfit­ ta sull’Oronte, ma non era finito tutto così. Secondo i loro costumi mi­ litari, i persiani non conducevano contro l’impero una guerra di con­ quista ma delle incursioni annuali che si succedevano come raid, con razzie di popolazioni prese per un bottino vivente e costrette ai lavori forzati; Antiochia, per esempio, fu razziata due volte in sei anni. Ci si spiega allora come «a due riprese», affermano le nostre fonti, Odenato sia arrivato fino alle mura delle capitale nemica, 1 imprendibile Ctesifonte (non lontana da Baghdad): nel corso dei sei anni successivi, combattè più di un’invasione e inseguì due volte il Re dei re in fuga. La Siria era salva e la provincia romana di Mesopotamia, sulla riva irania­ na dell’Eufrate, fu tolta di nuovo ai persiani. Zenobia sfrutterà presto a suo vantaggio l’esercito nemico che terrorizzava i soldati romani: la ca­ valleria pesante dei lancieri bardati di ferro che venivano chiamati cata­ fratti o clibanari, ossia «calderai» in iraniano. Odenato era diventato di fatto il vero signore della Siria e della pro­ vincia di Mesopotamia; lui, e in seguito Zenobia, la sua vedova, lo re­ steranno fino al 272. L’Arabia invece gli sfuggiva ancora: Pflaum ha mostrato che Roma continuava ad avervi i suoi governatori.124 Le cin­ que legioni delle Siria, votate alla difesa contro l’Iran, si erano visibil­ mente alleate con il salvatore dell’Oriente romano, perché era venuto il giorno in cui Odenato aveva potuto affrontare Sapore in una battaglia frontale, invece di limitarsi a inseguire la sua ritirata.125 Trent’anni do­ po, un oratore evocherà questa triste epoca; il persiano, dirà, «ci tratta­ va con alterigia, un principe di Paimira si alzava al nostro livello, la Si­ ria e l’Egitto avevano fatto defezione»;126 inoltre, l’Europa centrale e persino una parte dell’Italia avevano subito incursioni devastatrici, mentre la Gallia, la Gran Bretagna e il Nord della Spagna avevano or­ mai il loro imperatore. Ma Paimira aveva trovato la sicurezza: nel 266 il traffico carovaniero è ancora attestato. L’impresa di Odenato su tutta la Siria era così solidamente consolidata che egli osò lasciare il suo regno per andare lontano a difendere l’integrità delTimpero e respingere gli altri invasori, i goti, che si erano trasformati in pirati e razziavano le co­ ste del Mar Nero. Odenato fu assassinato durante il viaggio, nel 267, per iniziativa di uno dei suoi che lo accusava di «apprestarsi a rovescia­ re lo Stato», a impadronirsi del trono imperiale - nel regime politico 2 53

L ’im p e r o g re c o -ro m a n o

imperiale, un capo tanto celebre diventava ipso facto un rivale, un po­ tenziale usurpatore. L’assassino era convinto di fare gli interessi del­ l’imperatore regnante, che in effetti accolse bene l’avvenimento.127 In­ vano: alla morte di Odenato, Zenobia ereditò tutto il potere acquisito da suo marito. Odenato era stato il difensore di una parte dell’impero? Un futuro usurpatore? Il campione dell’Oriente contro Roma? Il fondatore di un regno indipendente? Ecco come le iscrizioni di Paimira qualificavano ormai il suo potere:128 innanzitutto, quello di un «Re dei re, avendo ri­ cevuto la regalità nei pressi dell’Oronte ed essendo stato incoronato per la sua vittoria sui persiani». Re dei re come il sovrano iraniano che aveva sconfitto: non si direbbe un’acclamazione al vincitore, venuta dai ranghi sul campo di battaglia nell’entusiasmo della vittoria, e poi con­ servata come titolo onorifico? Se il potere centrale non fosse stato ri­ dotto all’impotenza, avrebbe prontamente punito con la morte, per le­ sa maestà, coloro che avevano osato attribuire questo titolo a qualcuno che non fosse l’imperatore legittimo, dal momento che in altre circo­ stanze aveva tolto la corona a re vassalli per molto meno. I palmireni d ’altro canto si esprimono come se, per loro, l’imperatore non contasse e fossero soli al mondo. Il linguaggio empatico mostra che in Siria il potere centrale era tanto ridotto da lasciare le mani libere a Odenato. Ma non dice che Odenato aveva liberato l’Oriente dal giogo romano: l’aveva salvato dalle razzie persiane; era il grande vincitore dei persiani, come un imperatore galli­ co si proclamava «grande vincitore dei germani» che avevano razziato la Gallia. Ogni contrada viveva una propria vita in quegli anni in cui l’impero esisteva praticamente solo di nome. Ma non ci fùròno nemici dell’imperialismo romano che ne approfittarono per fare secessione. Come scrive Fergus Millar, «sembra inverosimile che un signore di Pai­ mira non si sia assolutamente sentito il rappresentante dell’Oriente contro il mondo greco-romano; ma niente indica nemmeno che una ta­ le rivendicazione abbia potuto trovare un’eco nella Siria romana».129 Quando una popolazione si rivoltava, lo faceva contro il peso delle im­ poste e faceva sorgere un nuovo usurpatore in cui riponeva le sue spe­ ranze.130 L’indipendenza non avrebbe trovato più eco in Gallia che in Grecia. Oltre a ciò, le razzie iraniane potevano difficilmente passare per crociate di liberazione. Nonostante in Siria fossero diffusi culti ira­ niani (Anaitis, Omanos, Artemide Persiana), nessuna città della Siria passò dalla parte del nemico persiano, né tradì l’impero. Non bisogna credere che servirsi di una «lingua orientale», il siriano e non il greco o il latino, predisponesse a un nazionalismo «orientale» pronto a sepa­ rarsi dall’impero.1311 persiani, che del resto non parlavano siriano, ri­ manevano i nemici che razziano le città e le campagne della Siria. 254

Paimira e Zenobia tra Oriente, Grecia e Roma

Odenato aveva anche il titolo di «paladino di tutto 1 Oriente». Biso­ gna allora entrare in qualche dettaglio. Non è questo il titolo ufficiale di una funzione pubblica romana di cui 1 imperatore 1 avrebbe insigni­ to, quella di corrector, come si pensa generalmente. Swain l’ha nega­ to132 e ha certamente ragione: in che modo il potere centrale avrebbe ceduto deliberatamente «tutto l’Oriente» romano? Come una carica avrebbe potuto avere l’enfasi argomentativa di questo «tutto» e l’im­ precisione di questo «Oriente», invece di limitarsi a enumerare le pro­ vince con i loro nomi ufficiali? È un titolo enfatico quello che si è asse­ gnato Odenato. Ma, cosa sorprendente, questo titolo implica che la Si­ ria sia situata a Oriente, e lo era rispetto al resto dell’impero; agli occhi di Odenato, dunque, ne ha fatto sempre parte. Infine, il titolo di Ode­ nato comporta probabilmente quello di «re», poiché suo figlio133 lo porterà e la sua vedova si dirà regina. Quattro generazioni più tardi, un suo discendente si vedrà assegnare ancora il titolo di re da un corri­ spondente, patriota greco e siriano e grande nemico dei persiani.134 Ecco un fatto positivo: il vincitore di Sapore aveva elevato a regno i suoi possedimenti orientali, sempre continuando a ritenere di dipende­ re dall’impero. Ma, dal canto suo, Roma non poteva considerarlo un vassallo fedele, poiché egli non aveva ricevuto da lei la corona: agli oc­ chi del potere centrale si trattava di secessione, operata con l’esercito di Siria. Tuttavia, Odenato non intendeva separarsi dall’impero e lo pretenderanno ancor meno Zenobia, la sua vedova, e suo figlio, egli non tentò nemmeno di usurpare il trono imperiale o non ne ebbe il tempo. La prova necessaria e sufficiente è che non esistono monete con il suo nome, mentre la prima preoccupazione degli usurpatori era di battere moneta per pagare i soldati e render noto il loro titolo di impe­ ratori. Odenato è rimasto leale al suo sovrano fino alla morte prematu­ ra. Sua moglie non l’avrebbe imitato; stava per cominciare una seconda epopea, che avrebbe avuto come esito l’unità o la divisione dell impero romano. Zenobia aveva ereditato il regno, l’esercito e i fedeli di suo marito. In una società poco contrattuale, poco regolamentata, le relazioni di pote­ re, di obbedienza e di protezione si stabiliscono intorno a una realta «naturale»: dalla continuità di una famiglia dominante, di una dinastia, per una sorta di reazione istintiva che resta opaca alla nostra razionalità deriva la fedeltà delle generazioni, la cui durata ci sorprende.135 Zeno­ bia organizza il suo regno; le zecche di Antiochia e di Alessandria, di cui si rende presto padrona, coniano ugualmente monete a nome suo e del figlio Vaballato. Questa stretta somiglianza, scrive Seyrig, è un mar­ chio di unità amministrativa; attesta una serie di decisioni prese da un potere centrale e applicate contemporaneamente in tutto il regno.13 Zenobia si comporta da regina: fonda una città, che è il gesto più alto 255

L’impero greco-romano

di un potere sovrano, e solo di quest’ultimo, e le dà il suo nome, secon­ do il costume. La vedremo conquistare l’Egitto, sottomettere l’Arabia e scrivere ovunque nel regno il suo nome regale, sulle pietre miliari del porto fenicio di Biblo e su quelle di Bostra,137 capitale della provincia romana d’Arabia. Come una regina ellenistica, si circonda di letterati. Callinico, un ara­ bo nativo di Petra che occupava la cattedra pubblica di retorica ad Ate­ ne, le dedicò un libro in cui la paragona a Cleopatra. Il rango supremo ha il dovere di essere in contatto con tutte le scuole di pensiero: Zenobia ha il suo filosofo familiare, il platonico Longino; si interessa alle questioni religiose ed entra in relazione con un vescovo cristiano che fa parlare di sé, Paolo di Samosata (durante questo terzo di secolo la Chiesa viene lasciata In pace); come ci ha insegnato Tardieu, la regina dà asilo ai manichei.138 Questa seconda religione universale, allora ap­ pena nata (il suo profeta Mani, sarà martirizzato in Persia cinque anni più tardi), si estenderà un giorno fino alla Cina, durerà mille anni e fi­ nirà davvero col catarismo della Linguadoca. Si è molto parlato anche delle relazioni di Zenobia con i dottori ebrei.139 I moderni hanno ipo­ tizzato una sua inclinazione per l’ebraismo, per il cristianesimo, per il manicheismo e per la politica di Platone. Si può piuttosto riconoscerle, come a Caterina II di Russia, il gusto, la capacità e l’abilità di avvicina­ re i letterati influenti presso l’opinione dei governanti; giocando la car­ ta ormai nota del sovrano straniero filelleno guadagnava la simpatia delle province greche dell’impero. Zenobia è regina ma anche «madre del Re dei re», perché suo figlio Vaballato ha ereditato la regalità e ripreso il titolo di gloria di suo pa­ dre. Come un tempo Agrippina, Zenobia regna all’ombra di suo figlio, che è re di fronte al mondo: nella stessa capitale della Siria romana, An­ tiochia, fa coniare monete come un sovrano; nelle monete e nelle iscri­ zioni enuncia la sua qualità di rex in latino, lingua ufficiale del potere centrale (perché non intende opporre l’Oriente a Roma). Zenobia ave­ va così regolato lo statuto interno del regno. Ma all’esterno? Quali rela­ zioni potevano intrattenere questa regina autoproclamatasi, questo gio­ vane re e questo regno di Siria con Roma dove, tre anni dopo l’assassi­ nio di Odenato, un uomo energico, l’imperatore Aureliano, cercava di ricostruire l’unità dell’impero? Iniziano così i cinque anni (267-272) di una tragedia in tre atti, fino alla catastrofe che metterà fine al dominio di Zenobia, al regno orienta­ le e alla prosperità di Paimira, il cui nome verrà cancellato dalla storia. Due atti di grande politica e probabilmente di negoziati diplomatici, seguiti da un epilogo militare. Zenobia non cercherà di separarsi da Roma (come dice Ernest Will, «non doveva concepire nessun’altra for­ ma di Stato che uno Stato alla romana»).140 Al contrario, seguirà due 256

Paimira e Zenobia tra Oriente, Grecia e Roma

politiche diverse: in un primo tempo cercherà di ritagliarsi un posto nell’impero, poi, in un secondo tempo, di prenderne le redini. Il primo atto occupa i tre anni che precedono l’entrata in scena di Aureliano. Zenobia, che ha idee grandiose, propone e cerca di imporre una solu­ zione originale: che Vaballato sia imperatore in Oriente mentre Aure­ liano lo sia in Occidente, certo mantenendo un rango superiore. Per una volta la documentazione è esaustiva: nelle iscrizioni pubbli­ che, nelle titolature ufficiali e nelle legende monetarie, le parole diven­ tano atti: dirsi imperatore è già fare un colpo di Stato; iscrivere il pro­ prio nome sulle pietre miliari di una strada è un privilegio regale. Sulla strada di Bostra, i titoli di Vaballato, ancora in latino, sono quelli di un vero romano, di un uomo che appartiene sempre all’impero: è senato­ re, poiché ha il rango di console, e capo (dux) dei romani; si dà anche la qualità di re, ma l’atto decisivo è di dirsi «imperatore»,141 pur conti­ nuando a riconoscere il sovrano regnante. Pretende quindi, di testa sua, di stabilire un regime bicefalo in cui regnano congiuntamente due im­ peratori di cui uno è superiore all’altro. Sulla strada di Biblo, una pie­ tra miliare142 rende al tempo stesso omaggio al sovrano regnante, quali­ ficato come «Augusto», e a Vaballato, che ha semplicemente la qualità di «imperatore». Entrambe la parole erano state soppesate, perché era­ no cariche di significato. Ogni sovrano romano poteva fregiarsi del ti­ tolo di «imperatore», che era nel suo caso una sorta di nome, e di «Au­ gusto», soprannome ancora più sacro del nome. Quindi, il sovrano di Roma è «Augusto», mentre Vaballato si dice più modestamente solo «imperatore».143 Nel 270 le monete coniate ad Antiochia presentano sul fronte il profilo di Aureliano con una legenda che lo qualifica come «Augusto», e sul retro quello di Vaballato che è qualificato come «im­ peratore».144 Quelle di Alessandria, in seguito alla conquista deH Egit­ to da parte di Zenobia, rendono palpabile la divisione ineguale dell im­ pero: il busto di Aureliano e quello di Vaballato sono uno di fronte al­ l’altro ed entrambi portano la corazza e il mantello, insegne imperiali. Sotto il busto di Aureliano si legge «Augusto», sotto quello di Vaballa­ to «imperatore».145 La divisione era un progetto audace, ma non utopico; aveva un pre­ cedente (settant’anni prima, l’imperatore Settimio Severo aveva diviso, per un periodo, l’impero con il rivale Albino che guidava le tre legioni della Gran Bretagna e che aveva coniato monete proprie) e andava nel senso della storia: ora che l’imperatore regnante doveva essere perso­ nalmente presente ovunque, la moltiplicazione dei sovrani appariva a molti come l’unica soluzione ai problemi del secolo, la lunghezza delle frontiere e gli incessanti pronunciamientos dei governatori e dei genera­ li, quello che potremo chiamare l’anarchia patriottica. Già a due ripre­ se, nel 244 e 253, e di nuovo nel 276 dopo la caduta di Paimira, 1 impe257

L’impero greco-romano

ratore regnante aveva affidato le province dell’Est a uno dei suoi fratel­ li o a un uomo di fiducia che aveva nominato «reggitore» o «duca» del­ l’Oriente, All’inizio del secolo avevano regnato congiuntamente due fratelli, Caracalla e Geta che si supponeva avessero progettato di divi­ dersi l’impero: il maggiore avrebbe avuto l’Occidente e avrebbe stabili­ to il suo esercito nell’attuale Istanbul, porta dell’Europa, mentre il ca­ detto avrebbe posto il suo di fronte, sulla riva opposta del Bosforo, a Calcedonia, porta dell’Asia (teniamo a mente questo nome: lo ritrove­ remo presto in una circostanza drammatica); così ciascuno avrebbe montato la guardia nei punti di passaggio tra i due continenti e avrebbe potuto impedire all’altro di attraversare lo stretto per venire ad attac­ carlo.146 Questo racconto puerile e ingegnoso mostra come l’idea di se­ parare Oriente e Occidente fosse già nell’aria. Una ventina d’anni dopo la caduta di Zenobia, il grande imperatore Diocleziano realizzerà dav­ vero, in altri termini, questa divisione tra due sovrani di ranghi inegua­ li, che Zenobia aveva prefigurato. Si vede qual è il posto occupato dal­ l’episodio di Paimira nella storia quando si capisce che, a partire da Ze­ nobia, l’unità dell’impero si è definitivamente incamminata verso la sua fine, salvo che per quattro o cinque episodi senza futuro che insieme totalizzeranno meno di trent’anni. La regina di Paimira fece un passo in più dopo la sua facile conqui­ sta dell’Egitto nel 270, a capo di un esercito «formato da palmireni, si­ riani e barbari»;147 il dominio sul «paese del Nilo» le permise di eser­ citare il ricatto della carestia e del rincaro sulla popolazione di Roma, che prendeva il suo pane dall’Egitto a titolo di imposta. Ormai gli atti pubblici erano datati al regno comune dei «nostri signori Aureliano e Vaballato, Augusti»148 entrambi. Questo fatto compiuto, unilaterale, era una proposta di spartizione rivolta all’imperatore, una base di ne­ goziazione:149 non restava che fargliela accettare o sperare che il pote­ re centrale fosse troppo debole per opporsi. Aureliano rifiutò o non rispose. Allora Zenobia si risolse a giocare il tutto per tutto: poiché Aureliano respingeva la spartizione, sarebbe andata lei stessa a rove­ sciarlo armi in pugno. Che una famiglia provinciale, o persino orienta­ le, prendesse il potere a Roma non sarebbe stato nulla di scandaloso. All’inizio del secolo, un grande sovrano, Settimio Severo (colui che aveva dato la cittadinanza romana al padre di Odenato), era un Ubico di origine fenicia che parlava cartaginese con suo nonno, così come Zenobia parlava aramaico in famiglia. Venti anni prima regnava un mi­ litare originario della provincia d’Arabia, che la storia conosce con il nome di Filippo l’Arabo. E due generazioni prima di Zenobia, la città più vicina a Paimira, Emesa, era riuscita in ciò che tentava Paimira: due principesse dalla forte personalità, discendenti della dinastia di grandi sacerdoti che era la vera signora della città, erano diventate mo­ 258

Paimira e Zenobia tra Oriente, Grecia e Roma

gli e madri di imperatori e avevano installato una famiglia siriana sul trono imperiale. L’esercito palmireno si mise in marcia ed entrò in Turchia, terra del­ l’impero. Ma il vero scopo di Zenobia non era ampliare le proprie conquiste, non sognava assolutamente il regno orientale che spesso si suppone: voleva tutto, voleva Roma e avrebbe affrontato Aureliano; la regina di Paimira si preparava a ricostruire a suo profitto l’unità del­ l’impero. Le operazioni che seguirono sono rivelatrici delle sue inten­ zioni, che sembrano essere state mal comprese. I palmireni, scrive uno storico greco, «si erano impadroniti di tutto 1 Est fino ad Ancira; vole­ vano anche occupare la Bitinia fino a Calcedonia»,1'511che e oggi un quartiere di Istanbul situato sulla riva asiatica (o bitinica) dello stretto del Bosforo. , A mio avviso, per un lettore antico, il solo nome di Calcedonia, co­ nosciuta come testa di ponte obbligata verso 1 Europa, faceva capire tutto: il vero scopo, o piuttosto la conseguenza inevitabile della spedi­ zione, non era di conquistare la Turchia, ma di attraversare lo stretto per affrontare l’imperatore in Europa e per diventare imperatrice di tutto l’impero. E non di fondare un impero orientale. Non poteva esse­ re altrimenti: visto che Zenobia riprendeva le armi, significava che i ne­ goziati con Aureliano erano falliti; e visto che erano falliti e che Aure­ liano non le avrebbe mai lasciato metà dell’impero, lo scontro, diventa­ to ineluttabile, sarebbe stato uno scontro totale, in cui si metteva in gioco tutto, attraverso l’impero, per la successione sul trono romano. Questa era la normale politica di quell’epoca, come lo sono per noi pal­ pitanti elezioni. Le popolazioni ne erano oppresse, ma sapevano di non aver alternativa. Uscendo dalla Siria, invadendo la Turchia, Zenobia dava il segnale di duello. Da allora le intenzioni di Zenobia, qualunque esse siano potute essere, non importavano più, e noi possiamo smettere di interrogarci in proposito: sarebbe stato l’esito dello scontro a decidere; se Zenobia avesse vinto si sarebbe ritrovata, di fatto, signora di tutto 1 impero. E lo sarebbe diventata volentieri: l’impero romano non era forse la sua pa­ tria, la sua stessa identità? Non aveva forse utilizzato la lingua dell im­ pero, il latino, nelle sue iscrizioni? Fatto ricorso alle monete imperiali? Usato i titoli romani di Cesare e Augusto? Anche i greci, dall’identità etnica e culturale inscindibile nell’impero, sono al tempo stesso così politicamente «imperiali» che dopo la dissoluzione della metà occiden­ tale dell’impero riterranno di essere ormai loro i veri romani. Solo il na­ zionalismo moderno ha potuto attribuire a Zenobia 1 intenzione di fon­ dare un impero «orientale». Diventare signora della Siria e dell’Egitto e poi passare in Occidente: era quello che aveva fatto dieci anni prima un usurpatore di nome Ma259

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criano (che fu sconfitto e ucciso nella Turchia europea o in Jugosla­ via).151 Come lui i palmireni seguivano la grande via lunga mille chilo­ metri che portava dalla Siria a Calcedonia passando per Ancira, l’attua­ le Ankara, e che attraversava in obliquo tutta la Turchia asiatica. Sul lo­ ro cammino non c’era una sola legione152 a fermarli; probabilmente si rifornivano saccheggiando le città e le campagne al loro passaggio. Una volta attraversato il Bosforo, un’altra via storica si apriva a loro come si era aperta a Macriano: da Istanbul, la porta dell’Occidente, conduceva verso la valle del Sava (la cui lunga scia attraversa l’ex Jugoslavia) pas­ sando per le antiche città di Plovdiv, Sofia, Nis e Belgrado. Fare la guer­ ra in questo impero voleva dire percorrere ancora più strada di un sol­ dato di Napoleone. La battaglia decisiva avrebbe avuto luogo da qual­ che parte lungo questa via. Dopo la vittoria, avrebbero continuato ver­ so Trieste e l’Italia per marciare su Roma, perché un vero sovrano era tale solo dopo aver fatto un’entrata solenne nella capitale per arringare il Senato e mostrarsi al popolo romano, molto suscettibile sui riguardi che gli erano dovuti.153 Ma Zenobia aveva di fronte a sé l’imperatore Aureliano. Nato vicino all’attuale Sofia, o forse in Croazia, figlio di contadini e ufficiale uscito dai ranghi, non era un aristocratico vecchio stampo, ma uno di quegli imperatori-soldati, venuti dalle regioni del Danubio o dai Balcani, che avevano salvato l’impero in quegli anni tragici e che avevano avuto un ascendente tanto spettacolare e meritato quanto quello dei marescialli di Napoleone.154 Aureliano, che allora combatteva i barbari sul basso Danubio, prevenne la manovra dei palmireni; rivolgiamo un pensiero ai corrieri imperiali che, possiamo supporre, corsero a briglia sciolta a portargli la notizia della spedizione, cambiando i loro cavalli con altri riposati ogni trentacinque chilometri. A capo del temibile e geloso eser­ cito danubiano, l’imperatore scese attraverso la Bulgaria dritto su Istan­ bul e sul Bosforo, passò in Asia e marciò incontro ai palmireni; li re­ spinse da Ancira, Antiochia ed Emesa, costringendoli a tornare a chiu­ dersi a Paimira, poi prese la città senza troppe difficoltà. Zenobia cercò di fuggire presso i persiani, ma fu fatta prigioniera. Nel 272, il sogno imperiale e dinastico di Zenobia sfumò miseramen­ te; era durato solo due anni. Il vincitore fece mandare a morte il filo­ sofo Longino. I manichei avevano trovato rifugio fuori dall’impero, a Hira, non lontano dall’Eufrate, presso Amr ibn Adi, sceicco pagano di un piccolo brillante principato, celebrato dai poeti arabi prima di Mao­ metto. Qui convissero con pagani, ebrei, zoroastriani e cristiani, e pro­ prio da lì la religione manichea raggiungerà le oasi del Nordovest della penisola arabica, controllate da dinasti convertiti all’ebraismo, e arri­ verà finalmente a Medina e alla Mecca. Aureliano, invece, intraprese la riconquista dell’Egitto e la lotta contro l’altra dissidenza che mutilava 260

Paimira e Zenobia tra Oriente, Grecia e Roma

l’impero, quella degli «imperatori gallici»; ci riuscì facilmente (quando ricominciarono alla grande i raid germanici) e si proclamò paladino dell’Oriente e del mondo intero su una moneta. L’integrità dell’impero era così restaurata per una dozzina di anni. Nel 274, Aureliano celebrò a Roma il suo trionfo su Paimira e sulla Gallia. Fu assassinato 1 anno successivo, ma non ne conosciamo il motivo. Che ne era di Zenobia? E Vaballato? Quanto a lui, non si sa ne quan­ do né come morì. Su ciò che capitò a sua madre, invece, gli storici anti­ chi ci hanno trasmesso tre versioni diverse. L’unico fatto più o meno ac­ certato è che venne catturata e che Aureliano la mostrò al popolo nella capitale della Siria.155 Ma dopo? Secondo un cronista male informato, sarebbe stata trascinata nel corteo imperiale e poi decapitata, conforme­ mente alla regola romana di mettere a morte il capo nemico la sera del trionfo (così era finito Vercingetorige) - versione assolutamente plausi­ bile, ma così prevedibile che si può pensare che uno scrittore a corto di informazioni abbia facilmente colmato la lacuna. Secondo un altro, morì di malattia o si lasciò deperire sulla barca che la conduceva a Roma per essere mostrata al popolo —questa versione, prosaica come la realtà, né prevedibile né romanzata,-ha la mia preferenza. Rimane la versione ecla­ tante: Zenobia mostrata al popolo di Roma, ma con catene d oro, e poi graziata, viene sistemata a Tivoli in un esilio dorato, si risposa con un se­ natore e fa sposare una delle sua figlie... ad Aureliano. Questo happy end si legge in un libro un po’ banale, la Storia Augusta, dove si mesco­ lano cronaca veritiera, racconti alla Alexandre Dumas, kolossal storico­ mitologici e un po’ di Ubu Re (nella biografia di Elagabalo). Anche se l’autore inventa di sana pianta i dettagli dei fatti, i documenti che ripro­ duce e, addirittura, alcuni personaggi storici, si può comunque dire in sua difesa che riporta gli avvenimenti così come grossomodo si sono svolti e nell’ordine in cui si sono verificati. Ci resta una piccola speran­ za: è possibile che non abbia ricamato intorno alla sostanza dei fatti (il trionfo, la grazia accordata) ma solo sui dettagli affascinanti come, per esempio, il fatto che alcuni discendenti di Zenobia vivessero ancora a Roma nel secolo successivo.156 . ,. Quello stesso autore ha tracciato un ritratto irresistibile di Zenobia, con i suoi occhi neri e la risposta sempre pronta. Succedendo alle im­ prese di Odenato, l’epopea di una donna aveva messo la regina di Pai­ mira nella galleria degli uomini illustri. Gli autori antichi la paragonano a Cleopatra, per assegnarle, a discapito della regina d Egitto, il premio di castità, oltre a riconoscerle tutte le virtù virili e femminili. I geografi arabi faranno di lei una figura leggendaria. Nessuno sapeva più nulla del suo viso, ma si voleva compiacere il lettore; il ritratto che ne traccia la Storia Augusta imita quello che gli storici facevano di Cleopatra. In realtà possediamo delle monete dove Zenobia appare di profilo, ma 261

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non ci si può fidare dei ritratti monetari. Pensiamo al naso di Cleopa­ tra: su metà delle sue monete l’amante di Cesare e Antonio ha il profilo puro e il naso di una dea greca; sull’altra metà ha il naso aquilino e il mento... anch’esso aquilino, che gli incisori attribuivano ai capi di Stato —e che corrispondono al naso e al mento di Zenobia sulle sue monete: un profilo imperiale. L’epopea di Paimira e l’impresa degli imperatori gallici provano l’e­ sistenza e la potenza di un attaccamento all’impero romano; Zenobia ha la doppia personalità di una regina d’Oriente (come a Cesarea, la re­ gina Berenice, amante di Tito...) e di una vera romana. In Siria, il domi­ nio romano era vecchio più di tre secoli; sembra che una sola regione fosse avversa a Roma e filoiraniana, l’Osroene, stretta striscia che il ter­ ritorio imperiale spingeva al di là dell’Eufrate e dove il dominio roma­ no era recente e intermittente. Zenobia poteva separarsi dall’impero solo per cadere subito sotto un’altra tutela, quella dell’Iran, conTina cultura che non era la sua e dove lei stessa non era nessuno. L’antichità ha largamente ignorato il fenomeno moderno della nazione, della coin­ cidenza dell’etnia con lo Stato; le formazioni politiche erano multietniche, senza difficoltà.157 In quest’epoca non c’era più l’idea di una plu­ ralità di Stati indipendenti; l’indipendenza era affare delle tribù noma­ di o montanare, era l’isolamento di piccoli gruppi di barbari. L’indi­ pendenza non era questione di o tutto o niente ma presentava gradi di­ versi. Quasi esattamente un secolo dopo, un’altra guerriera, un’altra vedova di re, diventerà celebre quasi quanto Zenobia: Mavia, regina cristiana di una confederazione siriana di tribù arabe, che si ritaglierà nell’impero un regno autonomo, e in seguito, senza alcuna intenzione di tradire Roma, correrà in soccorso di un imperatore romano grave­ mente minacciato.158 Dopo più di un secolo la parola «Roma» non designava più la città d ’Italia che era stata la conquistatrice e la capitale dell’Europa, e che non contava più niente: come dice Alarle Watson,159 questo nome era diventato un nome astratto per indicare il sistema imperiale. Aveva pie­ no significato ovunque ci fosse un’oligarchia locale che, da un lato, fos­ se a capo della popolazione e, dall’altro, fosse vicina o, addirittura, ap­ partenesse alla casta che governava l’impero e da cui provenivano gli imperatori. Oligarchie evidentemente filoromane, anche quando uno dei loro membri era contemporaneamente, come Odenato, sceicco dei nomadi, dinasta di ima città e console romano. In ogni angolo del suo impero, Roma forniva e assicurava ai potenti e possidenti locali il più succulento degli idrocarburi, il potere e la ricchezza. Roma comandava da lontano, i suoi governatori erano circondati solo da qualche decina di subordinati per provincia e non si occupavano quasi di difendere la frontiera, riscuotere le imposte dai notabili indigeni e seguire i procedi­ 262

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menti giudiziari penali; le città, o piuttosto i loro notabili, conservava­ no il self-government dei loro affari. Tuttavia, Roma non avrebbe tolle­ rato una rivoluzione popolare né un attacco al diritto di proprietà. Co­ sì è durato l’impero romano, e non grazie alle buone leggi, o, ancora meno, ai buoni costumi o al raffinato senso dell’organizzazione attri­ buito ai romani. Ricchezza, potere, Iran, Grecia, Roma e i suoi imperatori: tutte le componenti di un’epoca sono riunite nelle immagini di un sarcofago160 scoperto di recente, che si vede nel giardino del Museo di Paimira, e in merito al quale il professor Andreas Schmidt-Colinet mi ha generosa­ mente informato (ma approverà l’interpretazione che mi arrischierò a dare?). Il coperchio del sarcofago di pietra rappresenta un letto convi­ viale greco-romàno; tuttavia, il defunto scolpito sul letto indossa un abito iraniano magnificamente ricamato, le cui pieghe parallele sono schematizzate nello stile arcaico del Medio Oriente, e porta una spada lungo il fianco (Paimira era probabilmente l’unica città dell’impero do­ ve si osassero portare armi). La cassa del sarcofago è ornata da bassori­ lievi raffiguranti una scena di carattere elevato: vi si vede il defunto che celebra un sacrificio; in questo lavoro abbastanza abile, in stile greco­ romano, sono riunite tutte le dignità del defunto. Porta una spessa co­ rona con un medaglione frontale, insegna del sacerdozio a Paimira co­ me in tutto l’impero; aveva quindi la qualità di sacerdote, pressoché scontata tra i notabili palmireni. Ma ha scambiato il suo abito orientale con una toga, vestito da cerimonia decisamente inusuale a Paimira e che solo i cittadini romani avevano il diritto di portare; era quindi uno dei rari notabili di questa città ad aver ricevuto la cittadinanza romana. Accanto a lui, si trovano gli ausiliari abituali di ogni sacrificio, che por­ tano gli oggetti liturgici o conducono una giovenca all’altare, ma non sono soli: due uomini, vestiti con la tunica corta del popolo, recano uno un volatile e l’altro un piatto di frutta. Li conosciamo bene: dalla Mosella alla Tunisia e all’Egitto, rilievi, mosaici o dipinti funerari mo­ strano il corteo dei mezzadri che, una volta all’anno, porta solennemen­ te ai signori i prodotti delle proprie terre - un cesto di frutta, una lepre, un gallo. Questi regali obbligatori, che appartengono a ogni tempo, simboleggiano il rapporto di dipendenza, ma erano anche le primizie offerte in sacrificio agli dèi per ringraziarli della fecondità dell’anno passato. Queste immagini fanno parte di quello che Grabar ha chiama­ to il «ciclo dei latifondisti»: il nostro defunto palmireno, fiero della sua cittadinanza romana, è rappresentato nelle sue altre dignità di notabile e di grande proprietario terriero che regna sui propri contadini. Si può parlare di un patriottismo d ’impero, che era estraneo alle identità «etniche» così come al sentimento di un passato nazionale. Questo passato non era tuttavia dimenticato; nella Tunisia romana, un 263

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poligrafo, Apuleio, completamente imbevuto di cultura greco-romana, era fiero delle sue origini cartaginesi (o più esattamente «puniche»); un altro punico di origine e di lingua, l’imperatore Settimio Severo, patrio­ ta imperiale se ce ne furono, fece restaurare la tomba di Annibaie; Ap­ piano, un greco d’Egitto che scrisse da patriota imperiale la storia di Roma, esalta nella sua prefazione i sovrani di un tempo, faraoni e re greci; i nobili galli prendevano nomi che terminavano in -rix per mani­ festare l’anzianità delle loro origini. Non si vede un’identità esitante né sofferente; fuori dal mondo greco il patriottismo imperiale faceva cop­ pia con la fierezza per la storia antecedente la conquista romana: l’im­ pero ricapitolava in sé tutti i passati locali; l’impero era un «noi» di fronte ad «altri», era legittimo, evidente, accettato persino dai greci malgrado la loro nostalgia per le proprie vecchie glorie. E non presteremo attenzione nemmeno agli abiti a volte semitici a volte iraniani che gli uomini portano a Paimira, in concorrenza con il mantello greco ed eccezionalmente con la toga romana, dal momento che non si tratta di un segno culturale né politico.161 Altrove nell’impe­ ro le nobili dame si fanno scolpire sulle steli funerarie con i loro costu­ mi nazionali: lunghe maniche svasate in Belgio, un copricapo che si al­ larga a tronco di cono cinto da un velo in Carinzia e Slovenia, un tur­ bante in Tirolo, un cappello di pelliccia con il bordo largo che forma due corni in Ungheria. Sono manifestazioni d’idendtà, non delle riven­ dicazioni separatiste. Negli imperi o nelle società multietniche capita, infatti, che i cittadini siano al tempo stesso consapevoli e fieri delle loro origini etniche e leali verso la loro grande patria. Dopo la caduta di Zenobia e la presa della città, Paimira spariva dal­ la grande storia: venne saccheggiata162 da Aureliano, ma non fu distrut­ ta. Continuerà a sopravvivere per lunghi secoli, ma il suo nome non sarà più menzionato nell’ambito del commercio internazionale: le rotte commerciali si sposteranno verso nord, ma ne ignoriamo il motivo. Il secolo che sarebbe seguito, questo IV secolo cristiano, non sarà affatto un «Basso impero», un’epoca di «decadenza di Roma», a dispetto di ima tenace leggenda. Paimira ne sarà assente; lungi dall’essere spopola­ ta, vedrà innalzare quattro chiese e avrà un vescovo, ma sarà solo una città-fortezza contro l’Iran; le statue degli idoli saranno rovesciate da una rivolta, il tempio di Allat distrutto163 e quello di Bel diventerà un santuario cristiano. L’ultima apparizione della città sulla scena pubbli­ ca ebbe luogo al tempo in cui regnavano da noi i figli di Carlomagno: il califfo di Baghdad fece misurare dai suoi sapienti un arco di meridiana tra Paimira e l’Eufrate, e il risultato fu di grande esattezza. Rimane la delicata questione di decidere quali etnie potrebbero ri­ vendicare Paimira come propria. Città aramea? Città araba? Questione appassionatamente dibattuta ai giorni nostri. L’impresa di Odenato e 264

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di Zenobia è forse stata l’epopea araba di cui parlano alcuni? Ma, per gli scrittori antichi, «arabo» spesso vuol dire nomade. L’altra figlia del deserto, Petra, aveva una popolazione araba, nel senso etnico del ter­ mine, ma questi arabi avevano adottato l’aramaico come lingua scritta (continuando a conservare l’arabo come la lingua liturgica del loro po­ liteismo); le iscrizioni greche sono rare. A Paimira, dicono alcuni, la ba­ se era aramea, ma la componente araba aveva finito per vincere in quanto a numeri.164 Come arbitrare le dispute tra gruppi umani? Caquot constata senza passione che una maggioranza di nomi propri è di origine araba, che maggioranza e minoranza parlano entrambe aramaico, e che le iscrizioni arabe sono molto rare,165 mentre l’utilizzo del gre­ co è corrente. Ecco dunque un’antica città aramea dove gli arabi si so­ no installati, sono diventati sedentari e ne hanno adottato la lingua; le loro divinità convivono tranquillamente con quelle di Paimira; il nome del magnate Taimarsu, che abbiamo incontrato in precedenza, in arabo significa «servitóre di Arsu», dio cavaliere arabo. Gli elementi aramei e arabi sono così ben mischiati che ci si poteva chiamare Taimbol,166 «servitore di Boi» (dio palmireno). A Paimira, come negli Stati Uniti di oggi, i nomi di famiglia e i culti sono i testimoni sussistenti di origini et­ niche diverse che si fondono in uno stesso modo di vivere. Tutto ciò mostra quale fu la penetrazione degli arabi in Siria prima dell’islam e quanto furono «aramaicizzati». Ma se si passa dagli anti­ chi movimenti delle popolazioni agli avvenimenti che abbiamo appe­ na visto, e ai loro attori, l’interesse del problema scompare. Odenato porta un nome arabo e Vaballato (Wahballat) significa «dono di Al­ lat» in arabo; l’Allat a cui è dovuta la nascita del figlio è una dea ugual­ mente araba. Ma l’Olanda protestante può forse essere orgogliosa del­ la politica di Roosevelt? L’Irlanda cattolica comprende meglio quella di Kennedy? Inoltre, le etnie possono mischiarsi in Siria; Erode, re degli ebrei, era figlio di una notte di Idumea e aveva come madre un’araba di Petra. E poi è possibile che alcuni nomi stranieri siano di­ ventati abituali o alla moda: un sacerdote palmireno, il cui ritratto fu­ nerario si trova al Louvre, ha un nome iraniano, mentre suo padre e suo nonno hanno nomi semitici.167 Ma l’importante non è tanto questo quanto sapere se gli eroi dell’e­ popea di Paimira si consideravano come degli orientali o come membri dell’élite imperiale. La risposta non lascia adito a dubbi. Il popolo co­ mune non capiva il greco, parlava aramaico e lo parlerà ancora a lungo, e gli aristocratici lo parlavano in famiglia, ma non mettevano la loro di­ gnità a un livello così provinciale: appartenevano all’alta società inter­ nazionale, ovunque ellenizzata;168 i loro figli imparavano il greco tra­ scrivendo le favole di Esopo (sono state ritrovate a Paimira le tavolette di uno scolaro che le ricopiava),169 ed essi stessi portavano titoli ufficia­ 265

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li imperiali e facevano parte dei signori del mondo. La stessa Zenobia, in quanto donna, aveva ancora più ragioni di pensarla così. Leggendo le iscrizioni aramaiche e greche, Maurice Sartre ha constatato che nes­ suna donna ha mai esercitato il minimo ruolo pubblico nella città, men­ tre le grandi donne avevano almeno un ruolo di evergeti nelle città ve­ ramente greche; ne ha concluso che ci fosse un rifiuto indigeno alle donne in politica.170 Zenobia appare come un’eccezione in una società visibilmente dominata dagli uomini.171 È dunque nell’ellenismo, nella civiltà della regina Cleopatra e delle potenti principesse romane del suo secolo che la regina Zenobia poteva trovare un ruolo a sua misura. La fortuna e il potere di questi grandi signori erano comunque loca­ li e la loro personalità era doppia, come lo erano spesso anche i loro nomi. Zenobia aveva due nomi: Bathzabbai, che sembra essere aramaico, e Zenobie, nome greco, ma che si trova praticamente solo in Si­ ria ed equivale, suppongo, a un nome-frase semitico che celebra un vecchio dio siriano: «Bel è la mia vita». Vaballato era dunque arameo da parte di madre e portava anche lui un secondo nome. Allat, divinità guerriera, era identificata con la dea greca Atena, tanto che sulle sue monete è chiamato Athenodoros, «dono di Atena», traduzione greca del suo nome arabo. Questi identificativi e doppi nomi sono un vero simbolo della dualità di Paimira. Così, presso gli ebrei per metà elle­ nizzati, un Joshua (nome che trascriveremo sia con «Giosuè» che con «Gesù») si faceva chiamare Giasone in greco, e Saul di Tarso diventa­ va Paolo per i suoi discepoli stranieri. Nel resto della Siria le persone portavano un solo nome, indigeno o greco, e quest’ultimo a volte non era che la traduzione di un nome indigeno.172 Il copricapo liturgico dei sacerdoti palmireni è non meno caratteristico: è spesso doppio; il tocco o la tiara di origine persiana sono cinti alla base da una corona da sacerdote greco. La storia di Paimira è quella di una piccola società che viveva alle frontiere della grande civiltà, di cui le sue élite erano più o meno larga­ mente impregnate; e questo aveva portato a una cultura mista. Paimira detiene un record quanto alla ricchezza delle commistioni; ci si può sforzare di scorrere con gli occhi la cartina dell’impero, non si vede do­ ve sarebbe stato possibile incontrare un maggiore numero di influenze: la vecchia Mesopotamia, l’antica Siria, la Fenicia, un poco di Iran, un po’ più di arabi; in aggiunta a tutto questo, la cultura greca e il quadro politico romano. «L o sciovinismo culturale invenzione del X IX seco­ lo» scrive Ernst Will «non aveva corso nell’antichità»,173 nemmeno per gli ebrei, che avevano un’attitudine divisa. Il tutto fa di Paimira un patchwork, perlomeno ai nostri occhi. I ri­ tratti funerari si dividono pressoché ugualmente tra sacerdoti con il ca­ po e le guance rasati,174 il tocco in testa e un ramoscello sacro in mano,

un vaso da libagioni o una scatola per l’incenso; e uomini, a capo sco­ perto, che tengono un libro o delle tavolette per scrivere. Un libro! Nell’arte ellenistica e in tutto l’impero romano, i nobili defunti non so­ no rappresentati con la spada lungo il fianco: è la cultura a fare la di­ stinzione; libri e tavolette mostravano che il defunto apparteneva alla classe alta, che era padrone del suo tempo e aveva fatto studi liberali. I sacerdoti venivano tuttavia dallo stesso ambiente degli altri nobili, ave­ vano ricevuto la stessa educazione, e il loro sacerdozio o funzione di capi dei banchetti sacri era tanto una dignità sociale quanto una mis­ sione religiosa; in realtà, ciò che sembra opporre sacerdoti e letterati sono le due interpretazioni parziali che i palmireni potevano avere del­ la loro società; una è più tradizionale e locale, l’altra più internazionale. Va a seconda dei gusti; preferire l’abito iraniano o il mantello greco era una questione di scelta personale, di ricchezza o di umore, non di origi­ ne né di professione. Così, i sacerdoti con il tocco portano indifferente­ mente uno o l’altro. Tuttavia, sui sarcofagi, come nota Paul Zanker, il capofamiglia, confortevolmente allungato al banchetto e occupando tutta la larghezza, porta il suntuoso abito dei parti riccamente ricama­ to, mentre moglie e figli, seduti o in piedi, hanno sobri abiti greci. Le donne, poi, tengono un portagioie o un fuso, una rocca, una cesta da lana, come nell’arte funeraria di tutto l’impero (da una donna ricca ci si aspetta che occupi il suo virtuoso tempo a filare); i bambini, invece, hanno in mano, come ovunque, un gioco o un uccellino, gioco vivente. Città mista, certo, ma a modo suo: Paimira è diversa da ogni altra città dell’impero; è, insieme a Edessa, l’unica città in cui il dialetto orientale sia rimasto lingua ufficiale. Resta se stessa, non si inventa del­ le radici storiche apocrife per avvicinarsi alla grande civiltà, non si at­ tribuisce un fondatore leggendario preso dalla mitologia greca e non si preoccupa quindi di coniare monete per rendere pubblica tale origine, come la moda voleva che si facesse, come facevano molte città siriane e come Roma stessa aveva fatto con la saga delle origini troiane. Gli ab­ bellimenti architettonici della città sono greci nell’insieme, se non nel dettaglio, l’ambizione e la cultura delle élite sono quelle del resto del­ l’impero, così come il quadro delle loro vite; ma nella religione, nell’ar­ te delle sculture locali, nei piaceri collettivi si assiste a una trasforma­ zione delle apparenze e a una conservazione delle mentalità profonde. Non che non si possa «parlare di resistenza volontaria», scrive Maurice Sartre; ma Paimira era rimasta troppo a lungo la figlia del deserto: le città che non erano già state ellenizzate prima di Cristo, al tempo dei re greci di Siria, «non colmarono mai questo ritardo; effetto del caso o no» aggiunge «questa linea di divisione corrisponde anche a quella che separa le regioni più arabizzate dalle altre».175 Tuttavia alcuni costumi greco-romani erano stati introdotti, tra cui

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quello delle terme pubbliche (che continuerà negli hammam e che co­ stituiva uno dei piaceri della vita piuttosto che una pratica di igiene); nel II secolo, Paimira avrà uno di quei bagni profani, diversi da quelli che erano installati nei santuari per la purificazione dei pellegrini.176 Un’iscrizione bilingue celebra un ricco personaggio che, l’anno in cui era segretario della città, aveva procurato gratuitamente l’olio (che ser­ viva come sapone) a tutti coloro che utilizzavano il bagno pubblico, sia stranieri che cittadini - cosa che gli è dovuta costare caro, visto che quell’anno l’imperatore Adriano, grande viaggiatore, era venuto a sog­ giornare a Paimira, seguito dalla sua scorta civile e militare. Lo stesso mecenate ha contribuito di tasca sua alle spese di intrattenimento della scorta e anche a quelle per le riparazioni177 del tempio di Baalshamin; in cambio, i suoi concittadini lo hanno onorato con una statua e questa iscrizione. Si capisce come l’alta funzione e l’importanza sociale lo ob­ bligassero moralmente a fare elargizioni ai suoi concittadini. Questa specie di mecenatismo civico era allora di rigore; era quello che si chia­ ma evergetismo: nelle città greche e romane, i notabili, i ricchi al pote­ re, mettevano i loro patrimoni al servizio della città, che era cosa loro; le funzioni pubbliche erano degli «onori» pubblici, e questi onori si pagavano. Ricordiamoci anche che, al di fuori di qualsiasi funzione ci­ vica, i magnati di Paimira venivano in aiuto alle carovane in difficoltà: uno sceicco ha il dovere di essere generoso e andare in aiuto dei suoi. Allora, ricco cittadino o sceicco? Evergetismo o tribalismo? Grecia o antico Oriente? In qualsiasi società precedente all’età industriale, non c’era niente di più usuale, per i potenti, che fare elargizioni; era la virtù dei signori e dei re, la cui bontà si spandeva dall’alto in basso, verso gli inferiori. L’evergetismo, invece, è meno banale delle elargizioni, che hanno motivi sociali e individuali facilmente immaginabili. E il presup­ posto della città antica, si svolge in questo quadro civico, l’evergete è un patriota, distinto come tale178 dai suoi concittadini palmireni; gli «interessi della patria»179 gli sono cari e le elargizioni sono un dovere che ha nei confronti di Paimira. Quello che ci stupisce in tutto ciò è che il dono prendeva il posto delle tasse; le elargizioni signorili sussiste­ vano nel sistema civico. Ecco la chiave di lettura dell’evergetismo. Avremmo supposto a priori che, come nella nostra epoca, tutti i cittadi­ ni erano uguali dopo essere passati sotto il metro istituzionale e che la ricchezza di un cittadino era presa in considerazione solo al momento di calcolare al centesimo l’ammontare delle imposte. Proprio lì sta il non-detto, il «discorso» che separa il mondo antico dal nostro: il citta­ dino antico non è una figura astratta a differenza del cittadino moder­ no; se era un uomo ricco e potente, lo rimaneva anche in quanto citta­ dino. Aveva quindi il diritto di offrire l’olio per il bagno alla sua città, di far costruire un anfiteatro, di correre con i suoi guerrieri in soccorso 268

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di una carovana o, come il futuro imperatore Augusto, di riunire di ta­ sca sua un esercito privato per liberare la repubblica oppressa da una fazione,180 e, in quanto cittadino, doveva farlo per senso civico. A Pai­ mira, i magnati aramei o arabi potevano quindi fare elargizioni con due ruoli diversi senza essere in contraddizione, come capi di clan e come cittadini patrioti. . . . La città aveva adottato alcuni costumi greci, ignorandone altri o avendone un equivalente indigeno. L’evergetismo voleva che un citta­ dino ricco offrisse alla sua città edifici e svaghi collettivi, terme e spet­ tacoli. Paimira aveva un unico bagno pubblico (mentre la piccola Lutezia ne aveva tre) e sembra che ignorasse le corse del circo e k lotte dei gladiatori, molto meno popolari in Siria che nell’Occidente latino e nel­ l’Oriente greco. Cosa ancora più caratteristica, ha sempre ignorato un tratto decisivo dell’ellenismo, i concorsi atletici o teatrali, da sempre una componente importante nella vita di una città ellenica e un grande momento dell’anno. Spesso appoggiati o finanziati da un mecenate lo­ cale, non smettono di moltiplicarsi nel II e III secolo, con 1 aumento della ricchezza pubblica; per citare Louis Robert, 1 ellenismo finisce là dove smettono i concorsi; a Paimira si possono anche leggere centinaia di iscrizioni greche, ma non per questo la città è profondamente elle­ nizzata. E non c’erano concorsi nemmeno a Petra o a Emesa, città ara­ be, mentre nel resto della Siria ce n’erano diversi.181 Come scrive Maurice Sartre,182 la parola moderna «ellenizzazione» è fuorviarne. Una città della Siria che ha adottato una costituzione greca si è ellenizzata ai nostri occhi, diventando una polis. Ma non ai suoi: si considera una città siriana «moderna», degna di se stessa. E quindi non si sente obbligata a spingersi oltre ed ellenizzarsi in tutti gli ambiti; è contenta della sua civiltà, della sua religione, dei suoi costumi, che le appaiono più siriani che mai. È solo ai nostri occhi che questa identità soddisfatta sembra un patchwork. Ecco un’illustrazione di come venivano scelti i tratti di questa iden­ tità. Si è scoperto a Paimira un piccolo teatro che non poteva certo con­ tenere più di una o due migliaia di spettatori avendo solo dodici file di gradini, che formavano un unico piano.183 Non c erano concorsi teatra­ li a Paimira: vi si tenevano degli spettacoli solo sporadicamente, quan­ do un mecenate ne offriva uno a suoi concittadini e affittava una com­ pagnia. Quali spettacoli? Siamo ridotti alle supposizioni: probabilmen­ te dei «mimi» e delle «pantomime», generi scenici che non rientravano nell’ambito dei concorsi; e gli attori non portavano nemmeno le ma­ schere. La pantomima era un misto originale di musica, canto e danza, dove un ballerino muto mimava in scena gli atteggiamenti e i gesti del suo ruolo, mentre le arie corrispondenti erano cantate nel retroscena da un altro attore; i ruoli femminili erano interpretati da uomini. Il mi­ 269

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mo era una commedia, raffinata o grossolana, fantastica o burlesca, do­ ve recitavano anche le donne; poteva anche essere il remake di una commedia classica.184 La lingua usata era sicuramente il greco. Era un genere molto popolare e si metteva volentieri in scena un mimo per fe­ steggiare gli avvenimenti imperiali.185 Insomma, i siriani, per i quali il teatro era una novità straniera, hanno finito per interessarvisi (lo prova il gran numero di edifici), e l’hanno fatto perché invece di declamare versi si utilizzava, come dice Frézouls, la lingua universale dei gesti, della danza e del canto. Per combinazione, ritrovamenti archeologici ci fanno intravedere non lontano da Paimira una compagnia ambulante, costituita da cantanti e commedianti di entrambi i sessi, che impersonavano recitando in greco i personaggi tradizionali di una «commedia dell’arte», e di un mimo. Tra loro c’erano anche degli attori di pantomima: un cantante (un tragodos) che era accompagnato dal «suo commediante» (Yhypocrites), che mimava i gesti in scena. Era una compagnia di schiavi, ingaggiati per il tramite del loro padrone da cittadini privati che li ospitavano in casa lo­ ro durante le rappresentazioni. Per allietare i suoi ozi, il generale roma­ no incaricato di difendere la frontiera dell’Eufrate li fece venire nella sua residenza, costruita sulla riva del fiume;186 li si può immaginare ac­ campati in questa ricca dimora, sotto i portici dei due cortili interni che i ricercatori hanno riportato alla luce. Se hanno mai lasciato le rive del fiume per attraversare i duecentocinquanta chilometri di deserto che li separavano da Paimira, lo hanno potuto fare aggregandosi a una carova­ na, per via dei pericoli del deserto e delle razzie. È possibile che il teatro di Paimira sia servito anche per i concerti, sia vocali, dove il cantore si accompagnava con la lira, sia di sola musi­ ca, interpretati da un solista o da una piccola orchestra. Infine, benché non dipendesse da un santuario e non fosse un teatro sacro, può aver ospitato le rappresentazioni religiose, come previsto dai culti della Siria (i santuari comprendevano a volte delle piccole installazioni adibite a questo uso);187 si può immaginare che, nei giorni di festa, un attore in costume cantasse in scena un inno ad Attis accompagnandosi con la ce­ tra, o che una cantante celebrasse il ritorno annuale di Adone.188 Sem­ bra impossibile, in compenso, che il teatro di Paimira sia potuto servire per i combattimenti dei gladiatori, come molti teatri dell’epoca; sareb­ be infatti stato necessario che il parapetto semicircolare, che separa l’orchestra dai gradini, fosse più alto, per proteggere gli spettatori dai combattenti. Le minuscole dimensioni dell’edificio creano un problema; è uno dei più piccoli del mondo antico, con quello di Filippopoli, villaggio del­ l’Arabia romana. Ha un diametro di solo una quarantina di metri. È appena la metà del diametro dei teatri della valle del Rodano, di Arles,

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Vienne e Orange con il suo «Gran Muro»; per non parlare del più am­ pio di tutti, quello di Apamea, nella parte più anticamente ellenizzata della Siria. Se fosse esistito anche un grande teatro a Paimira, questo edificio minuscolo dovrebbe essere considerato come un odeon, una sala per concerti per l’élite dei melomani: a Pompei, a Epidauro, a Ca­ tania o a Lione, un odeon si nasconde all’ombra del vero teatro che oc­ cupa uno spazio quattro volte maggiore. Bisogna vederci un «odeon a forma di teatro», come veniva chiamato quello di una piccola cittadina siriana, Canatha?189 Ma, ancora più delle ridotte dimensioni, quello che stupisce è la sua sproporzione:190 ha solo dodici gradinate che for­ mano un unico piano, tanto che la «sala» è troppo stretta per la scena; il minuscolo teatro dell’altra città carovaniera, Petra, ha quarantacin­ que file di gradini su due piani.191 Si può supporre che, all’inizio, un qualche mecenate palmireno abbia visto più in grande, poi che la vo­ lontà o il denaro siano venuti a mancare; infine, il teatro ancora incom­ pleto è stato allora «chiuso» dal muro di cinta attuale. In conclusione, Paimira non aveva una sala per gli spettacoli degna di questo nome. Il grande affare dei palmireni non erano gli spettacoli né i concorsi, ma un costume proprio dell’Oriente: i banchetti192 sacri a cui prende­ va parte il dio, associandosi alla festa dei suoi adoratori. Erano offerti dai sacerdoti dei grandi templi e da un folto gruppo di confraternite chiamate mirzah in palmireno come in ebraico, che riunivano ciascuna una manciata di membri e che, grazie alla quota versata da ognuno di essi, rendevano un culto a una particolare divinità, Allat, per esempio, o anche Bel e Allat, o Allat e Malakbel; sono attestati più di cinquanta dèi, spesso patriotticamente associati a Bel, il grande dio della città. La cosa importante era che ogni mirzah invitava numerosi convitati al banchetto annuale. Una parte importante della popolazione beneficia­ va di questa giovialità, lo sappiamo grazie alle tessere di terracotta che servivano da invito;193 ne sono state rinvenute tantissime, milletrecen­ to tipi diversi. Durante i banchetti, veniva immolata al dio della con­ fraternita una vittima animale che poi era mangiata dai convitati stesi sui letti conviviali dei quali uno, di fronte agli ospiti, era riservato al dio. Questi banchetti erano così abituali che i santuari siriani avevano un refettorio,194 e tanto tradizionali in Oriente che otto secoli prima un profeta d’Israele di nome Amos stigmatizzava già le «confraternite [minati] dei distesi».195 Sulle tessere sono rappresentati i banchetti e gli utensili (crateri, me­ stoli, brocche, recipienti per il vino con scritto il loro contenuto); i sa­ cerdoti delle confraternite, con in testa un tocco, sono stesi su un tricli­ nio, una coppa in mano, serviti da un coppiere od occupati a misurare le razioni per i loro invitati (carne, pane e vino); si vede la bilancia, si leggono le cifre delle quantità. Le vittime sacrificali erano montoni o

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cammelli, che verranno mangiati entrambi;196 mai il maiale, probabil­ mente perché non veniva sacrificato agli dèi197 e questo creava una net­ ta spaccatura con i pranzi popolari ordinari: pane, formaggio, pesce secco.198 Alla fine si vede Γimmagine del dio stesso, ovvero il suo letto privo di qualsiasi presenza visibile o effigie. Sotto rimmagine, un’iscri­ zione riporta il nome del dio o della confraternita («società religiosa dei sacerdoti di Bel», «confraternita di Nebo»), o ancora quello del suo presidente, chiamato capo del banchetto. È significativo che queste iscrizioni siano in palmireno e non in greco. I banchetti erano offerti da un santuario, una tribù, un clan o da semplici privati.1991 sacerdoti del gran tempio di Bel, oltre alla loro funzione sacra, formavano una confraternita che distribuiva gli invi­ ti,200 e il loro grande sacerdote aveva il titolo di capo del banchetto an­ che in greco, archiereus kai symposiarches. Un pio donatore istituisce una fondazione perpetua per i banchetti: versa ai sacerdoti di Bel un capitale di quattrocento denari, i cui interessi permetteranno di «fare una distribuzione di carne a tutti coloro che, il 16 agosto di ogni anno, saranno invitati a mangiare in presenza del dio Mannos».201 Perché gli dèi prendono parte a questi banchetti; si legge su una tessera: «Stende­ tevi, Bel e Shamash e Beni Zabdibol», che in palmireno si scrive «agn, Bl w Sms tv Bny ZbdbwhP2 (le scritture orientali sono tachigrafie che non si servono di vocali). Da qui sembra che Shamash, divinità araba del cielo, fosse adorato dalla tribù dei Beni Zabdibol,204 che tutta, o parte, di questa tribù fosse invitata al banchetto, e che Bel e Shamash vi partecipassero, invisibili e presenti sui loro triclini. Nessuna allusio­ ne all’aspetto sacro della cerimonia, al sacrificio che precedeva il ban­ chetto. È evidente qui quello che separava due religiosità e che univa, forse, due mediocrità. Anche in Grecia ogni sacrificio era seguito da un ban­ chetto in cui i fedeli consumavano la carne della vittima, lasciando al dio solo le ossa e il fumo; anche in Grecia le anime poco religiose ve­ devano in un sacrificio soprattutto il banchetto che ne seguiva. La dif­ ferenza sta nel fatto che al banchetto i greci festeggiavano tra loro, non erano convitati del dio; i mortali e la potente razza straniera degli dèi mantenevano le distanze. Capitava che un dio facesse visita a una città greca; la città ne installava l’effigie su un triclino e gli serviva un pasto, come a Paimira, ma nessuno si metteva a tavola con l’ospite divino.204 Invece, a Paimira, in Egitto, in Oriente, una fiduciosa familiarità univa intorno a una stessa tavola gli dèi patriarcali e i loro sudditi affettuosi e devoti. Certo, ma non perdiamo il senso dell’universale mediocrità: questi banchetti non erano forse riunioni rese ferventi dalla presenza invisibile del dio o gioiose bisbocce dove si mangiava carne, cosa che molti convitati forse facevano solo in queste occasioni, una o due volte 272

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l’anno? Si può credere a tutta una popolazione di devoti? A un’inten­ sità di massa? Anche per l’Egitto ci si chiede se i «banchetti in onore di Serapide», celebri per la loro gastronomia, fossero riunioni mistiche o diners club. Probabilmente bisogna fare una distinzione tra i membri dei tiasi e i lo­ ro numerosi invitati; i primi avevano avuto ragioni religiose e sociali per fondare una confraternita e celebrare un banchetto sacrificale205 chiamato mst’, i secondi avevano solo dovuto farsi invitare a un buon pranzo, chiamato smk’. Per salvare l’intenzione religiosa del banchetto, bastava che gli invitati facessero un gesto pio, quello di offrire le loro tessere di invito come ex voto al dio, ed era, io credo, quello che face­ vano: ecco perché le tessere sono state ritrovate in così gran numero, in particolare presso gli scavi dei santuari.206 Quando gli ex voto diventa­ vano ingombranti o non avevano un gran valore, i sacerdoti, che non potevano gettare via degli oggetti consacrati, li accumulavano in spe­ ciali fosse chiamate favissae-, così sono stati involontariamente conser­ vati la Lupa romana del Campidoglio e ovunque, a migliaia, ex voto di terracotta realizzati in serie. Ecco un tratto originale nel culto degli dèi. In compenso, se si esa­ mina il culto dei morti, le idee dei palmireni sull’aldilà non avevano niente di particolare, di orientale, e non erano più alte di quelle del re­ sto dell’impero. Si può giudicare solo in base alle immagini che deco­ rano le tombe, che sono di stampo greco; sono le scene di banchetti funebri che si ritrovano in tutto l’impero e i cui epitaffi207 ci insegnano che i defunti sono rappresentati come erano quando festeggiavano da vivi. A Paimira come ovunque, vi si vede il defunto steso su un letto da banchetto, con una coppa in mano, mentre la moglie si accontenta di una sedia, come conviene alla modestia del suo sesso, e non beve nien­ te. I banchetti non si svolgono nell’aldilà, ma sono ritratti della vita di abbondanza oziosa che aveva avuto il defunto, di pranzi di famiglia in cui i vivi sono accanto al morto.208 Tuttavia, oltre a questa esibizione di affetto e godimento, i tralci di vite, simbolo di Bacco, coprono spes­ so lo sfondo della scena ed evocano il pensiero dell’aldilà; perché Bac­ co passava per un dio che accordava ai suoi fedeli una sorte migliore nella vita ombrosa della tomba. Tanto che la scena del banchetto po­ trebbe tranquillamente essere equivocata con un pranzo di famiglia, un banchetto funerario celebrato annualmente in ricordo del defun­ to209 e anche come un’evocazione dell’aldilà: la presenza di Bacco fa­ rebbe pensare che il defunto abbia una sorte migliore in quell’ombra di vita che è la vita eterna dei morti. Forse gli stessi palmireni non avevano le idee molto chiare sul senso di queste immagini, su cui gli archeologi intrattengono accese dispu­ te.210 Le allusioni bacchiche erano qualcosa di più di una retorica con­ 273

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solatoria? Ci credevano veramente?211 La discussione rischia di essere senza fine, o piuttosto di esitare davanti a una difficoltà intravista, se, con il pretesto del rigore scientifico, si trascurano alcune realtà genera­ li. 1) Le immagini non sono l’espressione immediata e letterale del pen­ siero; per la maggior parte dei nostri contemporanei, la croce cristiana fa pensare più spesso alla morte che tutto termina piuttosto che alla Salvezza. 2) Il pensiero sa trovare metafore consolanti o voti pii altret­ tanto bene del linguaggio. Gli antichi mettevano del cibo sulle sepoltu­ re. E la prova che «credevano» che i morti continuassero a vivere oscu­ ramente nelle loro tombe? Quando mettiamo dei fiori su una tomba non crediamo che il defunto verrà a sentirne il profumo. 3) Che cosa si­ gnifica «credere», quando la realtà del suo oggetto, l’aldilà o le teorie di Einstein, ci è tanto inaccessibile che non ci possiamo credere «seria­ mente» e che crederci o no è lo stesso? Tutte le dottrine più diverse sul­ l’aldilà, che si sono succedute per millenni, non hanno cambiato di una virgola l’atteggiamento degli uomini di fronte alla morte. La Siria era, come l’Egitto, una terra dalla fervente religiosità, le cui spettacolari manifestazioni affascinavano o scandalizzavano il resto del1 impero; ma, fuori dalle religioni salvifiche che ci sono familiari e in cui 1 aldilà costituisce un dogma, le credenze di un tempo relative al­ l’oltretomba non appartengono alla religione; il culto degli dèi e quello che viene chiamato il culto dei morti erano due cose distinte, e l’esube­ ranza religiosa non implicava necessariamente idee più speculative sul destino dell’anima dopo la morte. È possibile che a Paimira vi siano stati eccessi caratteristici dei siriani: musica lancinante, sacerdoti che si tagliavano le braccia o si castravano, travestiti, cortigiane sacre, pazzi sacri... ma la documentazione relativa a Paimira, per quanto sovrab­ bondante (in quei tempi era per gli dèi che si scriveva di più e che si spendevano più soldi), non ci dice nulla a proposito. Ci permette però di conoscere meglio un intero pantheon - troppo ricco per descriverlo qui in dettaglio —con resti di una mitologia antichissima, speculazioni teologiche molto «moderne», rapporti di disuguaglianza tra gli dèi si­ riani e la religione greca dominante, e infine sfumature che distingue­ vano il paganesimo patriarcale siriano dal paganesimo civico greco-ro­ mano. Si afferma oggigiorno che ogni religione è per natura totalitaria. È vero per il cattolicesimo, per via della missione che si attribuisce, ma è falso per la maggior parte delle altre; nel paganesimo coesistono paci­ ficamente gli dèi più diversi. A Paimira sono stati rinvenuti i nomi di una sessantina di divinità: dèi delle tribù, il dio locale (Bel) che regna­ va sulla città,212 divinità straniere come Iside... Non sono rivali. I più onorati sono Bel e Baalshamin, il «Signore del cielo», dio del tempora­ le e della pioggia, caro ai coltivatori e agli allevatori in tutta la Siria; un 274

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ex voto, oggi al Museo di Belle Arti di Lione, mostra i due dèi fianco a fianco.213 Ogni tribù aveva portato la propria divinità a Paimira, ogni fedele poteva adorare un dio eletto; un arabo eleva nel dialetto Pa^E{' reno un altare a uno dei suoi dèi che «non beve vino»214 (probabil­ mente nemmeno il suo fedele lo faceva). La divinità guerriera degli arabi, Aliai (il suo nome significa «la Dea», è il femminile di Allah), aveva il suo tempio dove non scorreva il sangue di nessuna yi^1™3· Meglio ancora, la tribù dei Beni Mattabol conosceva alcune «Figlie del D io» che altri non sono che Aliai, Uzza e Manat, le dee dei famosi «versetti satanici» del Corano,215 che alcuni pretendono figlie di Allah (idea condannata dal Corano), le quali erano adorate nella regione del­ la Mecca e di Medina. Da ciò si è potuto inferire che ι Beni Mattabol erano una tribù araba originaria di questa regione. Non per questo veneravano meno Bel, come indica il loro nome. Bel o Boi,217 «il Signore», dio del grande santuario, non apparteneva a nessuna tribù ed era al di là delle divisioni tribali. Lo prenderemo come campione di quella che era una religione a quei tempi; si vedrà come, a Paimira, le speculazioni «scientifiche», astrologiche, sono ve­ nute a modernizzare un’immagine mitica di cui la Bibbia stessa ha conservato qualche traccia. Secondo Jean-Marie Durand, che ha rin­ novato questa storia, il Signore anonimo (per rispetto, non veniva in­ dicato spesso con il suo nome «H adad» o «Marduk») è una divinità antichissima di origine siriana, il cui culto aveva attraversato 1 Eufrate un millennio prima per trionfare a Babilonia; gli ebrei e i greci, che conoscevano Marduk solo con il nome di Bel, sapevano che era il grande dio di Babilonia, dove aveva un tempio magnifico, mentre per i profeti di Israele la tanto sperata caduta di Babilonia sarebbe quella dello stesso Bel.219 ,. Nella Siria arcaica, poi a Babilonia, il Signore era stato 1 eroe di un grande mito: lo scontro del dio e del Mare. Venti secoli più tardi, a 1 ai­ mira, un bassorilievo del tempio di Bel lo rappresenta ancora mentre combatte un mostro che ha dei serpenti al posto delle gambe. E 1 illu­ strazione di un antico poema mesopotamico, il cui testo è stato ritr°vato su tavolette di argilla e che raccontava la creazione del mondo. Tutto inizia come nella Genesi, che se ne è ispirata: in principio era so­ lo caos, era tutto informe e ricoperto dal mare, da Tiamat, madre di tutte le cose e anche degli dèi. Fu uno di essi, Marduk, il nostro Bel, a vincere Tiamat e a respingere le acque; invano la madre aveva suscitato contro di lui dei dragoni-tempesta e dei serpenti «dai denti aguzzi e mascelle impietose»; dopo la vittoria Marduk, diventato re degli dei, fabbricò gli uomini per fare di loro i suoi servitori. Spesso nel Vicino Oriente un dio ha dato inizio a tutto facendo ritirare il caos marino. A Ras Shamra sulla costa siriana quattordici secoli prima della nostra era 275

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il Signore sconfigge Yam, dio del mare, e diventa re degli dèi. Nella Bibbia ebraica, Yahweh, nonostante la sua incontestabile originalità, conserva in poesia alcune tracce del dio vincitore dei mostri: «Tu con potenza hai diviso il mare, hai schiacciato la testa dei draghi sulle ac­ que. Al Leviatan hai fracassato la testa» dice il salmo 74; sette secoli prima della nostra era, il libro di Isaia annuncia che schiacciare Babilo­ nia equivarrà a vincere il Leviatano: «In quel giorno il Signore punirà con la spada pesante, grande e potente il Leviatan, serpente guizzante, il Leviatan serpente tortuoso e ucciderà il drago che sta nel mare».221 A Paimira, all’inizio della nostra era, in questo stesso tempio dove si vedeva il combattimento mitico del dio con il mostro, un «aggiorna­ mento» aveva conferito a Bel un’identità completamente nuova e più esaltata: quella di un dio onnipotente, sovrano del cielo astronomico, identificato con lo Zeus greco, re degli dèi, di cui il pianeta Giove era il simbolo. Sul soffitto del tempio, il busto di Bel, o piuttosto del suo pia­ neta, è circondato dal cerchio dello zodiaco e dai busti di altri sei pia­ neti. Come ha mostrato Seyrig, questo «aggiornamento» è la dimostra­ zione di una religiosità di uomini di cultura più che della tradizione astrologica di Babilonia. Lungi dall’essere una qualche adorazione «primitiva» delle forze della natura, l’aspetto planetario di Bel è un tratto di modernità; Bel non è un dio solare ma cosmico: Giove è il re del mondo e degli altri dèi. E una speculazione sapiente, è ellenistica.222 Dio cosmico e anche dio eternamente adorabile. Nel suo tempio Bel non era il solo a ricevere un culto; gli erano associati e subordinati altri due dèi, che sono conosciuti solo a Paimira e forse non sono altro che degli aspetti del gran dio; sono Yarhibol, il cui nome sembra significhi «luna di Boi»,223 e Aglibol, che era il «vitello di Boi» (le rappresenta­ zioni bovine della divinità erano comuni in Oriente, da cui il Vitello d’oro di cui parla la Bibbia). Le tre divinità formavano una triade. Sul­ le immagini i due dèi secondari sono accanto a Bel, uno a destra e uno a sinistra; Aglibol ha il capo circondato dal disco della luna e Yarhibol, nonostante il suo nome, dal disco solare. Non che uno sia il dio del so­ le e l’altro della luna: impersonano qui parti generiche, servono da por­ tatori del doppio simbolo astrale che voleva dire: «Per sempre!»; cir­ condano Bel con un geroglifico che proclama che niente saprà mettere fine all’adorazione che gli era votata. Ovunque nell’impero, la luna e il sole,224 o meglio le allegorie dell’aurora e del crepuscolo, circondavano gli esseri a cui era promessa l’eternità; infatti il giorno e la notte si suc­ cedono in un’alternanza che, essendo incessante, non avrà fine. Questo era il loro trio speculativo e linguistico, completamente di­ verso dalle antiche triadi familiari e agrarie del resto della Siria, di quel­ le che riunivano a Baalbek un gran dio, una dea della fecondità e un dio figlio. Verso l’inizio della nostra era, scrive Seyrig, una triade co­

smica era, per il clero, l’espressione razionale della divinità suprema; era «la concezione allora moderna del mondo».225 Bisogna credere che esistesse a Paimira un ambiente colto, aperto ai ragionamenti, preoccu­ pato di dare agli dèi un’interpretazione accettabile per dei letterati co­ me loro; l’antropomorfismo non bastava più. Se ci si stupisce che il cle­ ro di un’oasi sia potuto essere al corrente delle idee nuove, si dovrà pensare ad Apollonio di Tiana. A quell’epoca questo saggio, questo teosofo venerato come un «uomo divino», percorreva l’Asia e la Gre­ cia, spingendosi fino alla Siria; durante il percorso predicava, faceva miracoli e visitava i santuari per studiarne e criticarne i riti, che faceva riformare dal clero locale. Non pretendo che un altro Apollonio sia passato da Paimira, ma che le idee circolassero facilmente. Un altro aneddoto evocherà il principale problema teologico del tempo. Un siriano venuto ad abitare a Vaison, dove ha dovuto fare dei buoni affari, ringrazia Bel, di cui aveva consultato l’oracolo226 alla par­ tenza: lo loda «di fare andare la Fortuna per la strada giusta e di istrui­ re la sua mente»;227 il dio aveva istruito il fedele con i suoi oracoli e ave­ va impedito alla Fortuna di renderli vani. Questo era il grande dibatti­ to dell’epoca, portata a pensare astrattamente e a vedere nelle astrazio­ ni altrettante persone divine: il mondo era dominato da una cieca fata­ lità, da una Fortuna imprevedibile o dagli dèi provvidenziali? Lo si constata anche troppo spesso, non tutto era provvidenziale in questo mondo; l’altro dio che era il Fato, chiamato Gad in aramaico ed ebrai­ co, o la dea che era la Fortuna, buona o cattiva, rendeva il futuro im­ prevedibile. Allora il trionfo, per una divinità, era di vincere su queste altre potenze; era il caso di Iside, la Madonna egiziana, divenuta popo­ lare in tutto l’impero: le litanie in suo onore la lodano di «vincere il De­ stino e farlo obbedire».228 Anche Bel: questo sovrano del cosmo ne di­ rige il corso troppo spesso casuale, la sua Provvidenza rimette la Fortu­ na sulla strada giusta; si potrebbe dire che Bel è invincibile. Ma, dopo la caduta di Zenobia sotto i colpi di Aureliano, si parlò molto, anche a Roma, di un invincibile dio supremo, e l’opinione pub­ blica romana accusò il Bel di Paimira di centrarci in qualche modo. Questo prolungamento indebito della storia palmirena mostra che co­ sa fosse il politeismo al tempo in cui si diffondeva il cristianesimo. Da molto l’alta civiltà e l’autorità morale dell’impero e del suo sovrano esigevano che lo Stato onorasse pubblicamente un dio dalla superio­ rità incontestabile, che rispondesse alle esigenze più alte dello spirito moderno. Non che esistesse un’inclinazione «naturale» al monoteismo in quel periodo (né forse in nessun altro): credere che l’unità dell’im­ pero ricercasse il monoteismo per creare false illusioni è una vecchia superstizione sociologica. Era solo venuta l’ora che ci fosse non un unico dio ma un dio di più, un dio per tutti, che i sudditi dell’impero

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potessero adorare accanto ai loro dèi nazionali o personali; era venuta l’ora che si perseguitasse l’empio esclusivismo dei cristiani per soste­ nere quella verità ancestrale che erano gli onori da rendere a tutti gli dèi.229 E il Sole poteva essere il dio per tutti: l’astro indubitabile e be­ nevolo, visibile fino a esserne accecati, era l’imperatore del cielo; non aveva una biografia mitologica e non era antropomorfo, non aveva neppure un nome proprio come gli uomini. Era quello che era, il Sole. Sarebbe un po’ riduttivo vedere in questo nuovo dio solo dell’«ideologia», un calco celeste della persona dell’imperatore, una manovra di propaganda politica; una religione astrale si addiceva alla dignità intel­ lettuale del potere supremo per la sua evidenza fisica, ben superiore a ogni rivelazione (e quindi alle superstizioni cristiane). Certo, il Sole in­ vincibile sarebbe l’alto protettore dell’impero e del suo sovrano (quale popolo non ha mai detto: «G li dèi sono con noi»?); ma, senza un’ela­ borata filosofia religiosa del nuovo culto, questa pretesa ideologica si sarebbe fondata sul niente. E poi a Roma il Sole aveva già degli adoratori e dei culti privati. Un principe letterato, Gallieno, fece un passo in questa direzione e trovò l’aggettivo giusto, che aveva una doppia intenzione; coniò delle monete con l’effige di una personificazione divina, Sol invictus, «Sole invincibi­ le». C ’era già l’abitudine di qualificare come invincibile ogni sorta di divinità;230 l’aggettivo celebrava in particolare i successi militari dovuti alla protezione divina, mettendoli in rapporto con la perpetua vittoria di un dio sulla fatalità o la cattiva fortuna. Aureliano compì il passo nel 274, il 25 dicembre, per solennizzare la sua doppia vittoria su Paimira e sui galli; in quel giorno del solstizio d’inverno, secondo il calendario giuliano, e del compleanno del Sole, stabilì un culto pubblico del Sole invincibile (che significava che il culto sarebbe stato reso dallo Stato e non che sarebbe stato imposto come religione di Stato). Fondò a Roma un tempio del Sole di cui non rimane nulla, nella attuale piazza San Sil­ vestro. Sfortunatamente per Aureliano, l’opinione pubblica della città eter­ na vide ovunque la mano della detestata Siria. Cinquant’anni prima, un giovane imperatore di origine siriana, Elagabalo, aveva portato con sé il suo dio personale, il Sole, che veniva adorato in una città vicina e ge­ mella di Paimira, Emesa;231 aveva imposto al popolo di Roma lo spetta­ colo esotico di questo culto scandaloso e fu presto assassinato. L’opi­ nione pubblica volle credere che il Sole di Aureliano fosse la riedizione di quello di Emesa; inoltre, ci si immaginava che il Sole, divinità araba, fosse il dio nazionale di tutta la Siria232 e si prendeva per il Sole il Bel di Paimira. Eppure, il dio di Aureliano, protestano Georg Wissowa e Er­ nest Will, non aveva nulla di un idolo orientale; era un dio materiale e metafisico, un assoluto concreto, il culto che gli era reso era puramente 278

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romano,233 e il suo tempio rotondo (che almeno in questo caso simbo­ leggiava la totalità) era un’architettura ellenica inusitata in Siria e cono­ sciuta a Roma da tempo.234 Invano: Aureliano era sospetto, perché era passato da Emesa, era en­ trato a Paimira e ne aveva riportato un bottino sacro (come Tito che dopo la presa di Gerusalemme esibì a Roma il trofeo del candelabro a sette bracci del tempio). Gli storici moderni hanno spesso seguito pas­ so passo e fatto del Sole invincibile un calco dei culti che Aureliano aveva intravisto a Paimira e a Emesa. Ma come credere che una riforma religiosa tanto vasta e prevedibile sia nata da un semplice episodio in una guerra lontana?233 Che, volendo rinforzare il patriottismo imperia­ le, il sovrano abbia scelto il dio locale di una città ribelle? Dopo la pre­ sa di Gerusalemme Tito non ha fatto di Yahweh il gran dio dei romani. L’animosità popolare contro il nuovo culto è comprensibile: oltre che per la consueta xenofobia, il dio di Aureliano era una divinità da letterati, la pietà astrale era una religione da intellettuali che spaventava la massa dei romani. Sono le credenze di uno stesso gruppo, e solo le sue, a lasciarci la maggior parte delle iscrizioni religiose scoperte a Pai­ mira. In queste decine di ex voto non si trova traccia di quello che preoccupava l’élite religiosa dei dotti: i misteri, la gnosi, la vera natura degli dèi e del mondo o l’immortalità dell’anima. I fenomeni religiosi non occuperebbero un grande posto nella storia se si spiegassero solo come risposte all’angoscia della morte o all’enigma metafisico. Come le masse greco-romane, quelle siriane si aspettavano dai loro dèi la prote­ zione e l’ottenimento dei beni temporali e della felicità in questo mon­ do; amavano la giovialità tinteggiata di pietà e le feste stagionali, che sono più calorose se sono religiose; questo materialismo, se così lo si vuole chiamare, non escludeva un forte attaccamento al buon Signore, anzi. Come mostra Javier Teixidor, la soddisfazione espressa più spesso è di aver incontrato un dio che abbia esaudito i voti del suo adoratore, ascoltato la sua preghiera, sentito la sua voce. In Oriente, si dice di amare la divinità e, a Paimira ancor più che altrove 236 si ripete al dio che è buono, misericordioso (rahman, come sarà il dio del Corano), pietoso, compassionevole; un palmireno ringrazia «colui il cui nome è benedetto per sempre, buono, misericordioso e compassionevole, per­ ché ha esaudito il suo voto salvando suo figlio» 237 Non sono effusioni: l’adoratore fa allusione alla circostanza precisa in cui la divinità si è mo­ strata buona esaudendo i suoi voti. Certo, sarà stato empio supporre che gli dèi non fossero buoni di natura, ma si pensava a questa bontà dopo averne beneficiato. Alla luce di questo amore interessato (i termi­ ni non sono in contraddizione), tutti gli dèi si assomigliano; in tutti loro si vedono solo protettori, qualunque sia la loro personalità o il grado di 279

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importanza nei culti della città. Molti palmireni hanno un nome che racchiude quello di Bel e proclama che colui che lo porta ne è il servi­ tore, il protetto o il dono, ma non per patriottismo locale: il Bel dei no­ mi propri, scrive Caquot, non è il dio della città né il dio cosmico che troneggia tra i due grandi astri; è la provvidenza del suo fedele; allo stesso modo, il dio dei nomi propri ebraici «non è lo Yahweh del Sinai, terribile e vittorioso».238 Questo paganesimo così terra terra è il tufo di quasi tutte le religioni; non distingue la Siria dal resto dell’impero. Tuttavia tra la religiosità si­ riana e la fierezza civica del paganesimo greco-romano c’è la differenza che ci può essere tra due confessioni cristiane: non si domanda allo stesso titolo la protezione materiale a un dio siriano o a un dio greco­ romano. I palmireni hanno con il loro pantheon relazioni più patriarca­ li, più sentimentali e meno civiche dei greci. I loro nomi propri li dico­ no schiavi di un dio, si chiamano per esempio Taimarsu, «servitore di Arsu» (un dio arabo), o Abdel, «servitore del dio»,239 così come in ara­ bo Abdallah è il servitore di Allah. Mai un greco o un romano degni di questo nome si direbbero schiavi, fosse anche di una divinità; gli brucerebbe la gola.240 Un palmireno chiamerà suo figlio Habbibol, «colui che ama Bel», mentre un greco chiamerà il suo Theophiles, «colui che è amato dagli dèi» e che quindi sarà fortunato nella vita. Si ama un dio patriarcale, un capo tribale celeste che, dal canto suo, ama i suoi uomi­ ni; mentre in Grecia l’amore, o piuttosto l’amicizia di una divinità per un individuo è un’eccezione brillante che esiste solo nelle opere lettera­ rie (Atena ama Odisseo nell’epica e Artemide ama Ippolito nella trage­ dia). La relazione affettuosa è tanto reciproca che un palmireno parla della pietas che i suoi dèi hanno avuto per lui,241 intendendo con que­ sto termine si intendeva il rispetto delle leggi divine e umane per chiun­ que; gli dèi di Paimira hanno rispettato la legge che vuole che un patro­ no protegga i suoi fedeli. I piccoli dettagli del linguaggio religioso mostrano quale fosse la relazione tra gli dèi e gli uomini. Gli uomini fanno ovunque voti alla divinità e la ringraziano con un ex voto per averli esauditi. In Grecia e a Roma, i voti sono un’iniziativa del fedele che propone al dio i ter­ mini dello scambio: se guarisco dalla malattia ti sacrifico un gallo o ti innalzo un monumento. È commercio internazionale: dall’uomo al dio, si tratta da potenza a potenza, benché le potenze si sappiano di­ suguali. In Siria come a Paimira, i termini sono dettati unilateralmen­ te dal dio, con un sogno che invia al fedele o un oracolo interpretato dai sacerdoti: offrimi questo o quello ed esaudirò il tuo voto.242 La di­ pendenza sentimentale si esprimeva con le raffinatezze espressive che riprenderà il cristianesimo. Si immaginavano i sentimenti del dio: «Bel si rallegrerà dell’altare che egli ha donato e voluto» si legge su 280

Paimira e Zenobia tra Oriente, Grecia e Roma

un ex voto;243 il dio ha voluto un altare come ringraziamento, e l’ha donato lui stesso, perché ha esaudito il voto del suo fedele, che era di arricchirsi. Il fedele adempie al voto con i beni che il dio gli ha procu­ rato; è tutto dovuto al dio, anche quello che gli si dona. Sarà la for­ mula ebraica e cristiana dell’offerta: «Ti diamo, o Dio, una parte dei Tuoi beni».244 A Paimira erano lasciate agli dèi quelle decisioni che in Grecia e a Roma riguardavano i soli uomini interessati o le istituzioni pubbli­ che. Si poteva vedere un dio associarsi a degli uomini per dedicare una statua a un cittadino generoso o per contribuire alla costruzione di edifici sacri;245 si intuisce che per un ordine o «oracolo» del dio, interpretato dai suoi sacerdoti, il santuario aveva contribuito a que­ ste elargizioni attingendo alle sue rendite. Yarhibol, dio della sor­ gente sulfurea dell’oasi, testimoniava per intermediario dell’oracolo, si faceva garante dei giuramenti o metteva un villaggio sotto l’auto­ rità di un dio246 (a cui i contadini pagheranno un canone). Sceglieva lui stesso il sovrintendente della sorgente, o piuttosto «lo possede­ va».247 Gli dèi rendevano testimonianza e onori agli uomini che lo meritavano.248 In Oriente come nel mondo greco-romano e proba­ bilmente ovunque l’esistenza delle divinità garantiva 1 esistenza, per­ lomeno in cielo, della verità, dell’amore, della morale, della speran­ za, della legittimità. Un mecenate civico, stratega della colonia, era stato prodigo nel 242, in occasione di una visita imperiale a Paimira; fu onorato dalla testimonianza del dio Yarhibol e da testimonianze umane.249 Meglio ancora, era l’oracolo della sorgente a proclamare liberi dalle loro incombenze i magistrati municipali giunti alla fine del loro incarico.250 Le piccole differenze tra la Siria e l’ellenismo possono sembrare po­ ca cosa, ma provocavano repulsioni viscerali e xenofobe. In compenso, a confronto con il cristianesimo, i due paganesimi sono vicini tra loro: nessuno dei due ha avuto l’inventiva affettiva e spirituale della nuova religione, le cui fioriture hanno fatto sognare molto e modificato un po’ i comportamenti, alla maniera dei poemi e dei romanzi d amore. La re­ ligione pagana è come la musica prima della polifonia, 1 economia pri­ ma della rivoluzione industriale o la politica prima della fine delle mo­ narchie e delle colonie: è arcaica e sommaria. Nonostante la reputazio­ ne lusinghiera goduta dall’Oriente antico presso alcuni storici delle re­ ligioni, la Siria era tanto lontana dal cristianesimo (o almeno dalle sue forme non popolari e non politeiste di fondo) quanto lo era il paganesi­ mo ellenico. Dèi aramei, mesopotamici, arabi e anche iraniani o egiziani... Tutto è giunto a Paimira, che ha attinto da ogni parte; i palmireni non erano at­ tenti alle origini dei loro dèi ancestrali; il discendente di una vecchia fa­ 281

L ’im p e r o g re c o - r o m a n o

miglia indigena contava tra i suoi l’egiziana Iside.251 Ma c’era un’ecce­ zione: Paimira non ha importato divinità greche o romane. Gli dèi gre­ ci sono tuttavia presenti a Paimira, ma non per importazione: sono pre­ senti in traduzione; quando i palmireni scrivono in greco rendono con «Zeus» il nome del loro dio Bel. E questo prova due cose: che si vedo­ no da fuori con occhi greco-romani e che vogliono farsi capire dal resto dell’impero, e che ammettono, insieme a tutta l’antichità non cristiana, che gli dèi degli altri uomini esistono e che sono in fondo gli stessi ovunque. I palmireni non ignoravano che, con il loro nome aramaico, i loro dèi erano sconosciuti al grande mondo, di cui essi si curavano. Redigo­ no spesso in greco i loro ex voto e capita che trascrivano così com’è, in caratteri greci, il nome del dio onorato, invece di tradurlo con il nome del dio greco corrispondente. Ma in questo caso, hanno cura di specifi­ care nel testo greco «il dio Yarhibol».252 Capita anche che scrivano in greco: «Santuario del dio chiamato Aphlad»;253 mettono come delle vir­ golette al nome straniero del dio. I gallo-romani facevano lo stesso; quando offrivano un ex voto in latino a una delle loro numerose divi­ nità celtiche, scrivevano per esempio «al dio Letinno» (Letinnoni deo), dio locale che era adorato solo nel villaggio di Lédenon (Gard), il cui nome perpetua il suo. Il nome di Bel era sia trascritto in caratteri greci sia tradotto con «Zeus» perché era logico che il Bel di Paimira altri non fosse che il dio conosciuto dai greci con il nome di Zeus. Uno dei suoi sacerdoti va oltre: chiama in greco Zeus Belos il dio che onora;254 ag­ giunge quindi al nome aramaico di Bel una desinenza greca, e giustap­ pone i due nomi. Il dio di una contrada è e non è del tutto il dio delle altre contrade; la personalità di Zeus è sfavillante, può essere uno ZeusBel, Bel è un aspetto del gran dio «internazionale», e questo non può che innalzare il dio palmireno. I nomi propri degli dèi si traducono da una lingua all’altra come i nomi comuni, non per confusione o sincretismo,255 ma per la buona ragione che le divinità di tutti i popoli erano vere ed erano quindi le stesse ovunque; lo stesso dio si chiamava Giove in latino, Zeus in gre­ co, Taranis in celtico e Bel in aramaico. Descrivendo ai suoi compa­ trioti la religione dei galli, Cesare scrive in sostanza: «Il dio che vene­ rano di più è Mercurio, poi vengono Apollo e Marte di cui si fanno praticamente la stessa idea che se ne fanno gli altri popoli». La dea di una città aramea della Siria, Ierapoli, si chiamava Atargatis nella lin­ gua del paese. Un visitatore greco ci ha trasmesso le sue esitazioni: si trattava di Era, «per lo meno in sostanza, ma ha anche qualcosa di Ate­ na, di Afrodite, di Selene e di Artemide».256 A Paimira Bel e Baalshamin, dèi del cielo, si traducono entrambi con «Zeus». Al contrario, Aliai, dea vergine e guerriera, ebbe due traduzio­ 282

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ni, come si diceva, venne identificata con la vergine Artemide o la guer­ riera Atena. Ha ricevuto il viso, gli abiti e le armi dall’Atena greca. Si era voluto dare a un nuovo santuario di Aliai un idolo più bello delle immagini scolpite dagli artigiani locali, che venne ordinato a una famo­ sa officina di qualche grande città; probabilmente fu necessario spiega­ re all’artista chi fosse Allat e sembrò che la dea conosciuta con questo nome non potesse essere altri che Atena. Paimira ricevette dunque l’o­ pera desiderata: una copia dell’Atena con la lancia che Fidia aveva in­ nalzato, mezzo millennio prima, sull’acropoli di Atene, o di un’opera a lei vicina. Se un greco di passaggio avesse visitato il tempio di Allat avrebbe potuto concludere alla vista della statua: «La divinità di questo tempio è Atena, perché la sua immagine è quella della dea».257 L’Atena eseguita sul modello di quella di Fidia, e puramente classica, è un’opera di qualità e un prodotto di importazione. Anche il mosaico di Cassiopea, a cui abbiamo accennato, è uscito da mani straniere, così come gli stucchi di soggetti mitologici in stile ellenico che ornavano una casa privata (gli elementi di opere di questo tipo erano dovuti in genere a gruppi itineranti). In linea di principio si può affermare che a Paimira quello che è greco-romano è opera di artisti stranieri e quello che è orientale o ibrido di artigiani locali. O ancora che l’architettura pubblica e privata è ellenistica, poi greco-romana, almeno quanto allo stile,258 mentre la scultura religiosa e funeraria mescola Oriente e Occi­ dente, cosa che le attribuisce il sapore che ha ai nostri occhi. Alludo ai celebri «ritratti palmireni», a quei busti di defunti che hanno fatto mol­ to per la reputazione dell’antica città orientale. Ma ci sarebbe troppo da dire su questi ritratti: lasciamoli per un altro capitolo.

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Secondo l’Ìscrizione pubblicata da M. Gawlikowski in «Syria», 1998, p. 145. j ; Leroy in «Syria», 1957, p. 341; H. Seyrig, ibid., 1937, p. 3; E. Will, ibid., 1954, p. 272. Giustino, 4 1 ,1 ,1 . Ammiano Marcellino, XXIII, 6,78. Secondo un’ipotesi di A. Sadurska e A. Bounni, Les sculptures funéraires de Palmyre, «Rivista di archeologia», 13,1944, Supplemento, p, 183. L. Robert in «Hellenica», 5, p. 68. Atti degli Apostoli, 1,13, e 20,7-8; si tratta della terrazza che faceva da terzo livel­ lo al di sopra dell’unico piano, piuttosto che di un terzo piano. J. e L. Robert in «BuUetin épigraphique», 485,1973. In uno di quei romanzi religiosi che si chiama­ no Atti apocrifi degli Apostoli, gli Atti di Andrea, testo tra l’altro talentuoso e com­ movente, si legge che una giovane ragazza a Patrasso (Grecia) «salì sulla terrazza per pregare» (F. Bovon e P. Geoltrain [éd.], Écrits apocryphes chrétiens, Paris 1997, I, p. 930, tradotto dal copto da J.-M. Prieur). Non si potrebbe concludere che l’au­ tore di questi Atti fosse un siriano, che ha prestato alla Grecia i costumi del suo 283

Paimira e Zenobia tra Oriente, Grecia e Roma

L ’im p e r o g r e c o -ro m a n o

paese natale? Sulla questione di un culto praticato sulle terrazza del tempio di Bel, E. Will, De l’Euphrate au Rhin, Beyrouth 1995, p. 328. 8. R. Cagnat, Inscriptiones Graecae ad res Romanas, III, n. 1384. 9. Sulla differenza tra il dio greco nel suo tempio («un padrone di casa abbastanza democratico») e il dio siriano («un sovrano orientale», visibile m a inawicinabile, inaccessibile), E. Will, De l’Euphrate au Rhin, cit., p. 337. 10. M.A.R. Colledge, The Art ofPalmyra, London 1976, p. 220; e in Palmyre, bilan et perspectives: à la memoire de D. Schlumberger et H. Seyrig, Strasbourg 1976, p. 45. Si è pensato in particolare a Germanico nel corso del suo viaggio in Oriente. 11. Tutto questo secondo P. Bairoch, De ] èriche à Mexico: villes et économie dans l’histoire, Paris 1985, pp. 262-263 (trad. it. Il fenomeno urbano nel Terzo Mondo, L’Harmattan Italia, Milano 1997). 12. E. Will, Les Palmyréniens: la Venite des sables, Paris 1992, pp. 123 e 145 (si tratta certamente di terme, e non del Campo di Diocleziano). 13. Su un rilievo trovato a Dura (oggi al Museo di Deir ez-Zor), il dio Bel tiene in ogni mano un’insegna di questo tipo. 14. M. Gawlikowski, Le Tempie palmyrénien: étude d’épigraphie et de topographie historique, t. VI: Palmyre, Varsovie 1973, p. 80. Su un architrave del tempio di Bel, un celebre rilievo rappresenta la processione; si vede il cammello che porta un bal­ dacchino dove sono ancora visibili delle tracce di rosso. Sulle processioni nei culti siriani e arabi, H. Seyrig, Les dieux de Hiérapolis, «Syria», 37,1960, p. 233. 15. Pantopolis stoa (J. e L. Robert, «Bulletin épigraphique de la Revue des études grecques», 200,1966, a Messene), trascritto in PTPLY nel dialetto di P aimira (J. Teixidor, Un port romain du désert, Palmyre, «Semitica», 34,1984, p. 87). 16. J. Lassus, «Quelques remarques sur les rues à portiques», in Palmyre, bilan et per­ spectives, cit., p. 182. 17. Sull’agorà dell’Atene imperiale, di fronte alla biblioteca di Pantainos, una via co­ lonnata con botteghe, chiamata in un’iscrizione plateia, era riservata ai pedoni, perché aveva una scala a ogni estremità. 18. Sinesio, Sulla regalità, 22. 19. Secondo un racconto di Plutarco, il demone che proteggeva Socrate ebbe la bontà di avvisare il saggio di cambiare strada, perché, per il disappunto dei passanti, sta­ va per arrivare un gregge di maiali. Il problema delle greggi destinate ai macelli sarà un problema della viabilità municipale ancora nel X IX secolo (J.-L. Laffont, L’Homme et VAnimai dans les sociétés méditerranéennes, Perpignan 1998, p. 193). 20. Questo viene detto anche nel De genio Socratis di Plutarco. 21. P. Zanker, Augustus und die Macht der Bilder, Miinchen 1986, p. 330 (trad. it. Au­ gusto e il potere delle immagini, Einaudi, Torino 1989). 22. Su queste vie colonnate o plateiai, E. Will, De l’Euphrate au Rhin, cit., pp. 487491, ripreso da J.-M. Dentzer e W. Orthmann (dir.), Archéologie et Histoire de la Syrie, Sarrebruck 1989, II, pp. 241-245; J. e L. Robert, «Bulletin épigraphique», 181, 1974; J. Lassus, «Quelques remarques sur les rues à portiques», in Palmyre, bilan et perspectives, cit., p. 175. Contro la tesi che vi vede un’invenzione del re Erode, si veda J.B . Ward-Perkins, Roman Imperiai Architecture, Harmondsworth 1983, p. 313. 23. Secondo la Cronica di Edessa, tradotta dal siriano e citata da J. Teixidor, in Bardesane d’Édesse et la première philosophie syriaque, Paris 1992, p. 46, alcuni «abitano nei por­ tici, ma lavorano al di là del fiume» e passano lì solo la notte. Sul colonnato di Paimi­ ra, C. Saliou, Du portique à la ru e à portique: les rues à colonnade de Palmyre dans le cadre de l’urbanisme romain impérial, «Annales archéologiques arabes syriennes», 42, 284

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1996, pp. 319-327. Lista dei colonnati in G. Bejor, Vie colonnate, paesaggi urbani nel mondo antico, «Rivista di archeologia», 22,1999, Supplementi, in particolare p. 51. Chiamati ergasteria o tabernae. J. e L. Robert, «Bulletin épigraphique», 495,1964. R. Cagnat, Inscriptiones Graecae ad res Romanas, ΠΙ, n. 1031. Sul poco che si sa di queste case J.- C . Balty, «L a maison urbaine en Syrie», in J.-M. Dentzer e W. Orthmann (dir.), Archéologie et Histoire de la Syrie, cit., Π, pp. 407412; ed E. Frézouls in «Ktèma», 1,1976. M. Gawlikowski, «L’habitat à Palmyre de l’Antiquité au Moyen Age», in C. Castel, M. Al-Maqdissi e F. Villeneuve (dir.), Les Maisons dans la Syrie antique, Beyrouth 1997, p. 166. H. Seyrig, Scripta varia: mélanges d’archéologie et d’histoire, Paris 1985, p. 209. E. Frézouls, «Questions d ’urbanisme palmyrénien», in Palmyre, bilan et perspecti­ ves, cit., p. 191; E. Will, Les Palmyréniens, cit., p. 123. Filostrato, Vita di Apollonio di Tiana, Π, 23. The Excavations at Dura-Europos, Final Report, V ili, 1: C.H. Kraeling, The Synagoge, New Haven 1979, tav. L X per il tempio e p. 166 per il chitone e i sandali di Davide. Pittura riprodotta per esempio in D. Schlumberger, L’Orient hellénisé: l’art grec et ses héritiers dans l’Asie non meditérranéenne, Paris 1970, figg. 107 e 109. Altra vista del tempio in A. Grabar, Le Premier Art chrétien, Paris 1966, p. 74, fig. 67 (trad. it. L’arte paleocristiana: 200-395, Rizzoli, Milano 1991). L a grande maggioranza delle città antiche ha circa diecimila abitanti; cfr. H.W. Pleket, «Wirtschaft und Gesellschaft des Imperium Romanum», in Handbuch der europdischen Wirtschafts- und Sozialgeschichte, cit., 1 .1, pp. 34,79-81,145-146; Id., «Tussen Rostovtzeff en Finley», in Lampas. Tijdschrift voor nederlandse classici, 32, 1998, pp. 285-287. La città siriana di Apamea comprendeva più di un centinaio di migliaia di «cittadini»; crediamo che la cifra includa donne e bambini (come nei censimenti imperiali in Italia), ma non gli schiavi. All’inizio della nostra era, 1 Italia senza le isole contava circa cinque milioni di abitanti, più uno o due milioni di schia­ vi. Per l’Egitto, molto popolato e meglio documentato, si pensa a otto milioni di abitanti (N. Lewis, Life in Egypt under Roman Rule, Oxford 1983, p. 159; M. Sar­ tre, L’Orient romain, cit., p. 423), che era la sua popolazione all’inizio del X X seco­ lo. Ne ha otto volte tanto ai nostri giorni. J.-Y. Grenier mostra che ancora sotto l’Ancien Régime ogni città francese aveva il suo mercato e il suo sistema di domanda-offerta («Annales E S C », 42, 1987, p. 497). Sul territorio delle città siriane, si veda in J.-M. Dentzer e W. Orthmann (dir.), Ar­ chéologie et Histoire de la Syrie, cit., II, p. 51 (J.-P. Rey-Coquais) e 66 (G.W. Bowersock). Sul rapporto tra città e campagna nell’antichità, F. Lang, «Stadt und Umland: ein komplementàres System», in E.-L. Schwandner e K. Rheidt (Hrsg.), Stadt und Umland: neue Ergebnisse der archdol. Siedlungsforschung, Mainz 1997, p. 1. J. Teixidor, Un port romain du désert: Palmyre, cit., pp. 72-74; W. Dittenberger, Sylloge inscriptionum Graecarum, n. 629, pp. 336-337; R. Cagnat, Inscriptiones Grae­ cae ad res Romanas, III, n. 1056, pp. 398-399.1 «villaggi» sono delle choria nel te­ sto greco e dei QRY in palmireno, dove la parola è un calco dal greco. Secondo l’interpretazione di J. Teixidor, Un port romain du desert, cit., p. 76, ap­ provato da J. F. Matthews in «JR S», 74,1984, p. 177, n. 22. Seguo pienamente Teixidor, pp. 73-74 e 78, su questo testo diffìcile che è il Tarif. J.-T. Milik, Recherches d’épigraphie proche-orientale, I: Dédicaces faites par des dieux, Paris 1972, p. 201, secondo un graffito. 285

Paimira e Zenobia tra Oriente, Grecia e Roma

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D. Schlumberger, Barnes frontières de la Palmyrène, «Syria», 20, 1939, p. 61. J. Starcky e M. Gawlikowski, Palmyre, Paris 1985, pp. 84 e 86; J.F. Matthews, The TaxLaw ofPalmyra, «JR S», 74,1984, p. 171. La Palmyrène du Nord-Ouest, Paris 1951, p. 131. J. Teixidor, Un pori romain du désert, cit., p. 71. Giovanni, 1,46. Appiano, Guerre civili, V, 9 (ed. it. La storia di Roma, a cura di E. Gabba e D. M a­ gnino, Utet, Torino 2001, p. 739). Sul commercio orientale, J. Teixidor, Un port romain du désert, cit., («Semitica», XXXTV, 1984); M.G. Raschke, «New Studies in Roman Commerce with thè East», in Aufstieg undNiedergang der romischen Welt, II, 9 ,2 , pp. 604-1378. Sulle sete cinesi a Paimira, A. Stauffer, «Kleider, Kissen, bunte Tiicher», in A. Schmidt-Colinet (Hrsg.), Palmyra: Kulturbegegnung im Grenzbereich, Mainz 1995, pp. 63-70; cfr. M.A.R. Colledge, The Art ofPalmyra, cit., pp. 61-62. Ammiano Marcellino, XIV, 3 ,3 , citato da J. Teixidor, Un port romain du désert, cit., p. 16. P. Veyne, Rome devant la prétendue fuite de l'or: mercantilisme ou politique discipli­ nane, «Annales ESC», 34,1979, p. 211. Il reddito «nazionale» dell’impero era di nove miliardi di sesterzi (come minimo, credo: questa cifra è in realtà quella del minimo vitale in grano), secondo la stima di K. Hopkins (in H.P. Pleket, Epigraphica Anatolica, «Zeitschrift fiir Epigraphik Anatoliens», 30, 1998, p. 118), per una sessantina di milioni di abitanti. Si tratta solo, beninteso, di ordini di grandezza. M a Plinio il Vecchio ci informa che le spese per l’acquisto di mercanzie orientali erano di cinquanta o cento milioni di sesterzi. Secondo YEdictum de pretiis di Diocleziano. Il pastore, nutrito, era pagato al prez­ zo di venti uova al giorno e di circa mezzo chilo di carne di maiale. Secondo gli annali cinesi degli Han, in M.P. Charlesworth, Trade Routes and Com­ merce o f thè Roman Empire (trad. it. Le vie commerciali dell’impero romano, Bom­ piani, Milano 1940); e in M. Wheeler, Rome beyond thè Imperiai Frontiers, London 1955, p. 205. Ammiano Marcellino, XXIII, 6. E. Will, Les Palmyréniens, cit., p. 36. San Gerolamo, Vita diMalco, 10. J.-B. Yon, Les Notables de Palmyre, Beyrouth 2002, p. 102. J. Starcky e M. Gawlikowski, Palmyre, cit., p. 77, citando il R.P. Poidebard. L’unico ponte di barche, salvo errori, si trovava a Zeugma, diverse centinaia di chi­ lometri a monte. O piuttosto, pensano alcuni, un altare del Fuoco dove celebrare il culto iraniano del Fuoco perpetuo. Era normale che all’estero si onorassero gli dèi locali secondo i loro riti, per ottenere protezione. Corpus inscriptionum Semiticarum, II, 3, nn. 3948 e 3949, con traduzione latina del testo palmireno. J.-B. Chabot, Choix d’inscriptions de Palmyre, 1922, p. 60, con traduzione. Si diceva «scendere» verso l’Eufrate e «risalire» verso Paimira (Corpus inscriptionum Semiticarum, II, 3,3928). Questi «denari d’oro» (che valevano venti­ cinque denari d ’argento) sono una moneta da conto; si veda J. Guey, Autour des Resgestae diviSaporis, «Syria», 38,1961, p. 263. Secondo i termini di un poema aramaico (siriano) del I secolo dopo Cristo, citato da J. Teixidor, Un port romain du désert, cit., p. 35 e da J.F. Matthews, The Tax Law ofPalmyra, «JRS», 74,1984, p. 164. 286

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R. Ghirsman, Tombeau palmyrénien de navigateur sur le golfe Persique, «Revue Archéologique», 1959, p. 70; E. Will, Les Palmyréniens, cit., pp. 78-80. H. Seyrig, «Inscription relative au commerce maritime de Palmyre», in Mélanges Franz Cumont, Bruxelles 1936, p. 397. Su Emesa, deposito che serviva da posto di sosta e il cui destino era legato a quello di Paimira, H. Seyrig in «Syria», 1959, p. 184. Id., Scripta varia, cit., p. 247. Adottiamo la supposizione di J. Starcky e M. Gawlikowski, Palmyre, cit. p. 83. Questo risolve una difficoltà segnalata da J.H.W.G. Liebeschuetz, Antioch, Oxford 1972, p. 78: a Edessa l’ammontare della tassa sulle mercanzie sembra molto basso per il commercio internazionale della città. Questa tassa doveva essere quella del­ l’imposta municipale e non della dogana di Stato. Khans ou casernes à Palmyre?, «Syria», 71,1994, in particolare p. 106. Ringrazio J.M . Dentzer per l’amichevole aiuto. Ad Antiochia e a Beroia (Aleppo), le carova­ ne stazionavano ugualmente fuori dalla città. Strabone, XVI, 21. Vita diMalco, A. W. Dittenberger, OGIS, n. 70, facendo attenzione alla nota 5. H. Seyrig, Les dieux armés et les Arabes en Syrie, «Syria», 47,1970, p. 82; R. MacMullen, Cbristianizing thè Roman Empire, New Haven 1984, pp. 2-3 (trad. it. La diffusione del cristianesimo nell’impero romano, 100-400, Laterza, Roma-Bari 1989). M. Gawlikowski, Les comptes d ’un homme d’affaires dans un tour funéraire à Palmyre, «Semitica», 36,1966, p. 87. Sul posto considerevole occupato delle arti dell’antichità, sulla loro importanza quan­ titativa, L. Friedlànder, Sittengeschichte Roms, cit., Ili, pp. 1,36,41, 81; J. Overbeck e A. Mau, Pompeji, Leipzig 1883 (1968), p. 532; L. Curtius, Die Wandmalerei Pompejis, Leipzig 1929 (1960), p. 34; R. Meiggs, Roman Ostia, Oxford 1973, p. 431. E. Will, Marchands et chefs de caravane à Palmyre, «Syria», 34,1957, p. 262; J.-B. Yon, Remarques sur une famille caravanière à Palmyre, «Syria», 75, 1998, p. 153. C. Goudineau, Les Fouilles de la Maison au Dauphin, recherches sur la romanisation de Vaison-la-Romaine, Paris 1979, p. 305. Le tre grandi diaspore romane sono quella dei commercianti italiani, soprattutto sotto la repubblica, quella dei ricchi commercianti siriani e quella degli ebrei (H. Solin, «Juden und Syrer im westlichen Teil der róm. Welt», in Aufstieg und Nieder­ gang der romischen Welt, X X IX , 2,1959, p. 759). G. Roux, La Mésopotamie: essai d’histoire politique, économique et culturelle, Paris 1985, p. 247. D. Schlumberger, Le développement de Palmyre, «Berytus», 2,1935, p. 149. M. Sartre, Tribus et clans dans le Hawran antique, «Syria», 59,1982, p. 77. Il Digesto, L, 10,3 pr., parla di questa «aemulatio alterius dvitatis». Per le date, M. Sartre, L’Orient romain, cit., p. 345; J.-B. Ward-Perkins, Roman Imperiai Architecture, cit., p. 314; M .G. Amadasi Guzzo e E. Equini Schneider, Pétra, Paris 1997, p. 179 (trad. it. Petra, Electa, Milano 1997). Articolo fondamentale di H. Seyrig, Le statuì de Palmyre, «Syria», 22,1941, p. 155. Ma utilizza l’era di Alessandro Magno. J. Teixidor, Un port romain du désert, cit., p. 9. Sui poteri del segretario, M. Sartre, UOrient romain, cit., p. 131. Quando un go­ vernatore d ’Asia, per esempio, entrava in rapporto con una città della provincia, si rivolgeva al segretario. È curioso come gli arconti siano due e non tre o quattro co­ me altrove (J. Teixidor, Un port romain du désert, cit., p. 48). Alcuni dekaprotoi so­ 287

Paimira e Zenobia tra Oriente, Grecia e Roma

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no attestati a Paimira nel 137; la menzione più antica di questa funzione si trova, salvo errori, nella stessa Siria, a Gerasa, in W. Dittenberger, OGIS, n. 621 (che bi­ sogna datare 66, secondo l’era di Pompeo, e non 98). Tra cui due bilingui, neWInventaire des inscriptions de Palmyre, IX (J, Cantineau), Damas 1933, nn, 8 ,1 1 ,1 2 ,1 3 , tra il 21 e il 51 dopo Cristo. Sulle istituzioni greche di Paimira, studio decisivo di M. Sartre, Palmyre, cité grecque, «Annales archéologiques arabes syriennes», 42,1996, p. 402. L’esistenza di due arconti ha fatto supporre che Paimira avesse ricevuto da Roma le magistrature di una città romana o latina con i suoi due duumviri (E. Will, Les Palmyréniens, cit., p. 42) e che fosse diventata città solo dopo la sua annessione a Roma, all’inizio della nostra era. Ma sembra inverosimile che Roma abbia dato a Paimira una costi­ tuzione municipale senza darle anche lo statuto, quello di municipio romano o lati­ no, cosa che non è potuta avvenire: un municipio in Siria sarebbe impensabile; inoltre, lo statuto municipale avrebbe moltiplicato le cittadinanze romane, che so­ no molto rare a Paimira, dove bisogna aspettare il 212. In compenso, il proedros che presiede la seduta (W. Dittenberger, OGIS, n. 629, inizio) e il grammateus del consiglio e del popolo (J. Teixidor, Un pori romain du désert, cit., pp. 50 ,5 9 , 61) sono tratti decisamente ellenici che non esistevano a Roma, dove il consiglio sareb­ be stato presieduto e persino convocato dai duumviri in persona, invece che tener­ si, come a Paimira, «secondo la legge». Infine, al posto della funzione duratura di segretario del consiglio e del popolo, avrebbe avuto i nomi di alcuni consiglieri che, in questa circostanza {«qui scrìbundo adfuerunt»), avrebbero avuto la respon­ sabilità di trascrivere il decreto. Così, nell’Hauran, le città «si sono costituite per una sorta di sinecismo di tribù», scrive M. Sartre, Tribus et clans dans le Hawran antique, «Syria», 59, p. 77. M. Sartre, «L’identité des villes de la Sirye hellénistique et impériale», in H. Inglebert (dir.), Idéologies et Valeurs civiques dans le monde romain, cit., pp. 93-105, in particolare p. 104. Sul difficile problema delle tribù, M. Gawlikowski, LeTemple palmyrénìen, cit., pp. 26-52. J. Teixidor, The Pantheon ofPalmyra, Leiden 1979, pp. 36 e 42; Id., Remarques sur l’onomastique palmyrénienne, «Studi epigrafici e linguistici», 8,1991, p, 221. D. Schlumberger, Les quatre tribus de Palmyre, «Syria», 48,1971, p. 121, che due fatti sembrano confermare: una delle tribù si chiama Claudiade, in onore di un imperatore romano, secondo il costume greco (e romano) di onorare un re greco o un imperatore dando il suo nome a una delle circoscrizioni della città; e ogni cittadino era iscritto a una delle tribù, tanto che appartenere alla tribù dei Beni Maazin (dice il testo aramaico di un’iscrizione), voleva dire «essere palmireno» (dice la sua traduzione in greco, citata da Schlumberger, p. 126), Stessa incertezza sulla parolaphyle a Bostra e nell’Hauran secondo M. Sartre, Tribus et clans dans le Hawran antique, cit., p. 77. E Briquel-Chatonnet, Palmyre, une dtépour les nomades, «Semitica», 43-44, 1995, p. 129. Salvo errori, l’unico buleuta conosciuto a Paimira è un grande personaggio, una sorta di visir di Odenato, di cui leggiamo il cursus completo nelYInventaire des institutions de Palmyre, III, 6-12, e in R. Cagnat, Inscriptiones Graecae ad res Romanas, nn. 1040-1045. In compenso, un’iscrizione in palmireno menziona un buleuta di Antiochia {Inventane, X , 29). Ci sono un agoranomo e un tesoriere di Paimira negli epitaffi, Corpus ìnscriptionum Semiticarum, II, 3932 e 4218. F. Briquel-Cha­ tonnet, Palmyre: une citépour les nomades, cit., p. 129, nota che il vocabolario del­ le istituzioni in aramaico di Paimira è interamente ricalcato dal greco (così archon è reso da RKWYN). 288

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M. Gawlikowski in «Syria», 47,1970, p. 70. M. Corbier, «Family and kinship in Roman Africa», in M. George (ed.), The Roman Family in thè Empire: Rome, Italy and Beyond, Oxford 2005, pp. 273-279; G. Tillion, Le Harem et les Cousin, Paris 1982, p. 81. H. Ingholt, H. Seyrig, J. Starcky e A. Caquot, Recueil des tessères de Palmyre, Paris 1955, index, p. 199. Sulla tessera n. 35, cfr. n. 697, la corona a medaglione (sfortu­ natamente non dettagliata) accompagna l’iscrizione «Iahribola, capo del tiase». Sul copricapo con la corona, probabilmente quello dei preti, A. Sadurska e A. Bounni, Les sculptures funéraires de Paimire, «Rivista di archeologia», Supplementi, 13, 1994, p. 185. M. Sartre, L’Orient Romain, cit., p. 342. C. Lepelley, Le nivellement juridique du monde romain à partir du IIP siede et la marginalisation des droits locaux, «M EFR», Moyen Àge, 113,2001, p. 846. Cfr. H. Seyrig, Inscriptions grecques de l’agora de Palmyre, «Syria», 22,1941, in particolare p. 248. P. Collari e J. Vicari, Le Sanctuaire de Baalshamin à Palmyre: topographie et architecture, Neuchàtel 1969, p. 241. Omelie Clementine, III, 62. Così Giuliano, Degli atti dell’imperatore o della regalità, 7 C; Panegirid latini, ΧΠ, 24, 1 (Teodosio). Probabilmente a ragione: abbiamo cercato di mostrare, studian­ do quello che era un imperatore romano, che quei tentativi di usurpazione erano questione di ufficiali e non della massa dei soldati dei ranghi. Aurelio Vittore, Cesari, X X IX , 2: «Ora, uri mos est, feruntur» (la testa di Iotapiano nel 249); Olimpiodoro in C. Miiller, Fragmenta Historicorum Graecorum, IV, 61 (Massimo, la cui testa fu portata attraverso le province nel 388). F. Hartmann, Herrscherwechsel und Reichskrise Untersuchungen zu den Ursachen und Konsequenzen der Herrscherwechsel im Imperium Romanun der Soldatenkaiserzeit, Frankfurt 1982, pp. 140 ss. Una serie monetaria di Gallieno celebra la fedeltà delle legioni del Danubio verso l’imperatore, ma anche la fedeltà delle legioni del Reno, che pure erano vicine a Po­ stumo. Questo ha imbarazzato i numismatici, che hanno supposto che le monete con il nome del solo Gallieno risalissero comunque al regno congiunto con Valeriano (P.H. Webb in H. Mattingly ed E. Sydenham (edd.), The Roman Imperiai Coinage, V, 1, p. 34). La soluzione si deve ad A. Alfoldi, Studien zur Geschichte des 3. Jahrhunderts, Darmstadt 1967, p. 100: queste monete, anche le più recenti (con la settima at­ testazione di fedeltà delle legioni), non sono posteriori al 260. Precedono quindi la defezione rMlp legioni del Reno e datano tutte dell’inizio del regno del solo Gallieno. Se è davvero a Sampsigeramos (il nome dinastico significa «Il Sole ha deciso») che si riferiscono gli Oracoli sibillini, XIII, 164, e se questo grande sacerdote è la stessa persona dell’usurpatore Uranio Antonino, come pensa J.-P. Rey-Coquais in J.-M. Dentzer e W. Orthmann (dir.), Archéologie et Histoire de la Syrie, cit., II, p. 58; se­ condo D. Potter, Prophecy and History in thè Crisis ofthe Roman Empire: A Historical Commentary on thè Thirteenth Sybilline Oracle, Oxford 1990, pp. 151 e 34, la predizione riguarda Odenato. È anche l’opinione di K. Strabei, Das Imperium Romanum im 3. Jahrhundert, Stuttgart 1993, pp. 251-253; Odenato appare come un salvatore per gli ebrei della diaspora. K. Harl, Politicai Attitudes ofRome’s Eastern Provinces in thè Third Century, New Haven 1978, p. 1. L’iscrizione Cagnat, Inscriptiones Graecae ad res Romanas, III, n. 1047, che data al 254, menziona i duumviri. 289

Paimira e Zenobia tra Oriente, G reda e Roma

L’impero greco-romano 109. M. Sartre, Palmyre, cité grecque, «Annales archéologiques arabes syriennes», 42, 1996, p. 395. Cfr. J.-B. Yon, Les Notables de Palmyre, cit., p. 235. 110. M. Sartre, Trois Études sur ΓArabie romaine et byzantine, Bruxelles 1982, p. 136 (iscrizione araba di Namara nel 328). 111. J. Teixidor, Deux documents syriaques du IIP siede après J, -C., provenant du MoyenEuphrate, «Comptes rendus de l’Académie des inscriptions», 1990, p. 144. 112. Eutropio, IX , 9,1. 113. G li interventi più recenti sull’epopea di Paimira di cui sono a conoscenza sono, ugualmente degni di nota, di E. Will, Les Palmyréniens, cit., pp. 167-204 (e già del­ lo stesso autore La fortune de Palmyre, in Mémoires d'Euphrate et d‘Arabie: art et archéologie au Proche-Orient, Paris 1991, pp. 100-116); di K. Strabei, Das Imperium Romanum im 3. ]ahrhundert, cit., pp. 247-270; e di J. Teixidor, L'histoire de Palmyre, «Annuaire du Collège de France», 1997-1998, pp. 713-731. 114. Zosimo, I, 39 (p. 36, Paschoud); Zonara, XIII, 24: «Per il suo valore, l’imperatore fece di Odenato lo stratega di tutto l’Oriente». Cfr. K. Strabei, Das Imperium Ro­ manum im 3. ]ahrhundert, cit., pp. 249-251. 115. Procopio, Storia delle guerre di Giustiniano, II, 5 ,5 ; Degli edifid, II, 8, 8. 116. G.W. Bowersock,«JRS», 51,1961, p. 112. 117. W. Ameling, Herodes Atticus, Hildesheim 1983. 118. D a parte dello stoico Trasea in Tacito, Annali, X X : «Novam provindalium superbiam», a proposito di un potentato a Creta. J.H . Oliver, The Ruling Power: A Study o f The Roman Oration ofA elius Aristides, «Transactions of thè American Philosophical Society», 43, 4,1953, p. 953. 119. Poiché il figlio di Odenato, associato ai poteri di suo padre, sarà lui stesso dux Romanorum sulle pietre miliari (J. Teixidor in «Annuaire du Collège de France», 1997-1998, p. 727). In compenso non credo che Odenato sia stato corrector totius Orientis. 120. M. Gawlikowski in «Syria», 62,1985, p. 255; E. Will, Les Palmyréniens, cit., p. 177. 121. Libanio, lettera 1078 Forster, citata da P. Petit, Libanius et la vie munidpale à An­ tioche, Paris 1955, p. 184 e n. 4. 122. Libro VI di Esdra, XV, 28-33 e 43-49; cfr. XVI, 1. P. Riessler, Altjudisches Schrifttum aujlerhalb derBibel, Augsburg 1928 (1979), p. 1287; F. Bovon eP. Geoltrain (éd.), Écrits apocryphes chrétiens, cit., I, p. 662. Il versetto XV, 33 sembra predire l’assassi­ nio di Odenato nel 267 dopo Cristo e parla di agitazioni in Egitto; si potrebbe quin­ di collocare il testo verso il 271, in occasione delle imprese di Zenobia in Egitto e in Asia. Tuttavia, K. Strabei obietta che il testo rappresenta le persecuzioni dei cristiani come awenimend puramente locali, dei pogrom dovuti alla folla, e che il testo debba quindi essere anteriore alla grande persecuzione dello stato sotto Decio (K. Strabei, Das Imperium Romanum im 3. ]ahrhundert, cit., p. 87). Alcuni testi giudaici (i Midrashim) sembrano al contrario ostili ai palmireni {ibid., p. 251 ss.) o sono troppo cripti­ ci per essere riferiti a colpo sicuro a Odenato (così l’Apocalisse di Elia negli Écrits intertestamentaires della «Bibliothèque de la Plèiade», p. 1803); cfr. G. Stemberger, Die ròmische Herrschaft im Urteil der]uden, Darmstadt 1983, pp. 95-96 e 130-136. 123. Le Omelie Clementine lo dicono candidamente: «Se un profeta ci ha predetto un avvenimento che riconosciamo essersi avverato esattamente, è a ragione che gli ac­ corderemo la nostra fiducia per gli avvenimenti futuri» (II, 10). 124. H.G. Pflaum, La fortification de la ville d'Adraha d‘Arabie, «Syria», 29,1952, p. 324. 125. A. Alfòldi, Studien zur Geschichte des 3. ]ahrhunderts, cit., p. 192. 126. Panegiridlatini, IV (o V ili), 10,2-3. 127. Continuatore di Cassio Dione (Pietro Patrizio?) in C. Miiller, Fragmenta Historico290

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rum Graecorum, IV, p. 195 citato da M. Gawlikowski, Les princes de Palmyre, «Sy­ ria», 62,1985, p. 256. K. Strabei ritiene che l’assassinio sia stato eseguito su richie­ sta di Gallieno, che vedeva in Odenato un potenziale usurpatore (Das Imperium Romanum im 3. ]akrhundert, cit., p. 252). Riunisco diverse iscrizioni, compresa quella del triplo arco in onore di Hairan, fi­ glio di Odenato. F. Millar, The Roman Near East, 31 BC-AD 337, Cambridge (Mass) 1993, p. 335: Paul ofSamosata, Zenobia and Aurelian: thè Church, Locai Culture and Politicai Allegiance in Third-century Palmyra, «JR S», 61,1971, p. 8. Così Iotapiano (Zosimo, 1,20,2); cfr. K. Harl, Politicai Attitudes ofRome’s Eastern Provinces in thè Third Century, cit., pp. 449 e 453: la folla spera che il nuovo impe­ ratore riporterà l’Età dell’oro. K. Harl, Politicai Attitudes of Rome’s Eastern Provinces in thè Third Century, cit., pp. 445-446. S. Swain, Greek into Palmyrene: Odaenathus as Corrector totius Orientis.?, «Zeitschrift fiir Papyrologie und Epigraphik», 99,1993, p. 157, che interpreta Corpus inscriptionum Semiticarum, II, nn. 3946 e 3971. Così una tessera di Palmira citata da H. Seyrig, «Syria», 18,1937, p. 1. Libanio, lettera 1006 Forster, citata da P. Petit, Libanius et la vie munidpale à An­ tioche, cit., p. 184 e n. 4. Votarsi così a una famiglia, serbarle attraverso le generazioni una fedeltà senza macchia ci sembra in un primo momento inspiegabile, irrazionale come un’iner­ zia fisica, ma questo si comprende anche troppo bene in una società poco regola­ mentata: una grande famiglia è il solo elemento duraturo e stabile; si ha bisogno di lei perché lei stessa ha bisogno di clienti; le si resta fedeli da una generazione all’altra perché, da una generazione all’altra, questa famiglia ha bisogno della sua clientela. Insomma, la fedeltà a una dinastia locale era, per le persone modeste, l’equivalente del patrimonio che si trasmettevano le generazioni della dinastia in questione. Il clientelismo ereditario era il patrimonio dei poveri. H. Seyrig, Vabalathus Augustus, in Mélanges offerts à K. Michalowski, Varsovie 1966, p. 659. H. Dessau, Inscriptiones Latinae Selectae, 8924. M. Tardieu in P. Canivet e J.-P. Rey-Coquais (dir.), La Syrie de. Byzance à l'Islam, Damas 1992, p. 15. Su Zenobia e i letterati, F. Millar, Paul ofSamosata, Zenobia and Aurelian, cit., p. 1; J. Teixidor, Bardesane d’Edesse et la première philosophie syriaque, cit., pp. 52-56; e «Annuaire du Collège de France», 1997-1998, pp. 729-731.'L’iscrizione egiziana Dittenberger n. 129, o Dessau n. 574, parla di un diritto d’asilo accordato a una si­ nagoga da «un re e una regina»; alcuni riconoscono in essi Zenobia e Vaballato, al­ tri no («L’Année épigraphique», 1985, n. 838). E. Will, Mémoires d’Euphrate et d'Arabie, cit., p. 112. T. Bauzou, «D eux milliaires inédits de Vaballath en Jordanie du N ord», The Defence o f thè Roman and Byzantine East, Oxford 1 986,1, pp. 2 e 6, η. 1; B. Isaac, The Limits o f Empire: The Roman Army in thè East, Oxford 1990, p. 233: «Cos., imperator, dux Romanorum», o ancora «Imp. Caes. [...] Persico maximo, Arabico maximo, Adiabenico maximo, pio felici, invicto Aug.». Sulle monete di Alessandria si legge « s [trategos] Rho[maion\»\ «coimperatore», scrive J. Teixidor nell’«Annuaire du Collège de France», 1997-1998, p. 727. È l’iscrizione Dittenberger n. 647, riprodotta per errore due volte in R. Cagnat, Inscriptiones Graecae ad res Romanas, n. 1027 e 1065. 291

L ’im p e r o g re c o -ro m a n o

Paimira e Zenobia tra Oriente, Grecia e Roma

143. Zenobia, dal canto suo, come madre di imperatore piuttosto che come imperatrice, prende il titolo di Sebaste (Dittenberger, n. 647; moneta di Alessandria eccetera). 144. P.H. Webb in H. Mattingly ed E. Sydenham (edd.), The Roman Imperiai Coinage, V, 1, pp. 160 e 308. Le pietre miliari della strada di Bostra provano che la legenda VCRIMDR deve essere letta «vir consularis, rex [e non Romanorum], imperator, dux Romanorum». 145. R.S. Poole, Catalogne o f thè Coins o f Alexandria and thè Nomes (A Catalogne o f Greek Coins in thè British Museum), p. 310. P. Bureth, Les Titolatures impériales dans lespapyrus, les ostraca et les inscriptions d’Egypte, 1965, p. 122. 146. Erodiano, IV, 3,5. 147. Zosimo, 1,44,2. Per la data, A. Alfoldi, Studien zur Geschichte des 3. ]ahrhunderts, cit., p. 406. 148. Ostrakon n. 1006 del Michigan, citato da J. Teixidor in «Annuaires du Collège de France», 1997-1998, p. 728. 149. Nella prima edizione della Cambridge Ancient History, X II, 1939, H. Mattingly parla di una « one-sided offer» (p. 301); «aiming at an understanding with Aurelian», aggiunge A. Alfoldi (p. 179). H. Seyrig scrive che Zenobia tentò prima di «suggerire ad Aureliano un modus vivendi per la divisione del potere», poi che «usurpò ufficialmente l’im pero» (Vhabalathus [sic] Augustus, in Mélanges offerts à K. Michalowski, cit., p. 659, ripreso negli Scripta varia, cit., p. 280). Per A. Alfoldi, Studien zur Geschichte des 3. ] ahrhunderts, cit., p. 206, le monete «kennzeichnen die Plattform aufwelcher Palmyra einen Ausgleich dem Kaiser angeboten hai». 150. Zosimo, 1,50,1. 151. Storia Augusta, Due Gallieni, II, 5-7; Trenta tiranni, XII, 13: nel 260, Macriano, si­ gnore d’Egitto secondo un papiro, è sconfitto dai generali di Aureliano «in Tracia o in Illiria», ossia nella regione di Istanbul o nel bacino della Sava, di cui parleremo. 152. Quella di Melitene (Malatya, a nord est della strada, sull’Eufrate). 153. Si vedano gli aneddoti su Macrino che nel 217 dopo Cristo rifiutava di lasciare An­ tiochia per andare a farsi legittimare a Roma, in Cassio Dione, LX X IX , 20, e Ero­ diano, V, 2 ,33, e V, 4,12. 154. Come dice Peter Brown. 155. In effetti Maiala lo dice, e conosce bene la cronaca locale della sua patria, Antio­ chia; in compenso è molto ignorante sulla storia dell’impero. Per risolvere la que­ stione delle tre versioni sulla fine di Zenobia, non è un buon metodo procedere «democraticamente» come si è fatto di recente, adottando ciascuno dei dettagli sui cui la maggior parte delle diverse versioni concorda: meglio vedere quale sia il va­ lore di ogni singola versione. 156. Eutropio, IX, 13,2; San Gerolamo, Cronaca. 157. E. Will, Les Pamyréniens, cit., p. 102. 158. Studio fondamentale di G . Bowersock, Studies on thè Eastern Roman Empire, Goldbach 1994, pp. 127-140. 159. A. Watson, Aurelian and thè Third Century, London-New York 1999, p. 14. 160. K. Al-Asad e A. Schmidt-Colinet in A. Schmidt-Colinet (Hrsg,), Palmyra: Kulturbegegnung im Grenzbereich, cit., pp. 40-42, cfr. p. 20, e figg. 48-51. È stato trovato un secondo sarcofago molto simile; entrambi sono in corso di edizione sotto la cu­ ratela del professor Schmidt-Colinet. Il caftano iraniano del defunto è altrettanto ornato di ricami occidentali: un «viticcio popolato» dove Ercole popola insieme a delle figure bacchiche dei viticci come sulle colonne della basilica severina di Leptis Magna.

161. J.B . Yon, Les Notables de Palmyre, cit., p. 132. 162. Negli scavi sono state ritrovate al livello dell’antica agorà le ceneri degli archivi del­ la città che erano stati gettati e bruciati, e i sigilli pubblici che chiudevano i docu­ menti (H. Seyrig, «Cachets publics des villes de Syrie», in Scripta varia, cit., pp. 427 e 435). Quindi questa piazza pubblica in seguito è stata lasciata all’abbandono e non è mai stata pulita. Il saccheggio dei depositi degli archivi era calcolato: i cit­ tadini privati depositavano nel locale pubblico i loro contratti privati, in particola­ re le attestazioni di debito (sono stati ritrovati numerosi sigilli privati nei mucchi di cenere). Distruggere i depositi degli archivi voleva dire paralizzare l’avvenire socia­ le della città punita. 163. B. Gassowska, Maternus Cynegius, Preaf. Praet. Orientis, and thè Distruction ofthe Allat Tempie, «Archeologia», 33,1982, p. 107. 164. Ma per M. Gawlikowski, in H. Lozachmeur (éd.), Présence arabe dans le Croissant fertile avant l’Hégire, pp. 103-108, Paimira non è una città araba. 165. A. Caquot, Sur l’onomastique religieuse de Palmyre, «Syria», 39,1962, p. 239. Una sola iscrizione araba nella stessa Paimira. 166. H. Ingholt, H. Seyrig, J. Starcky e A. Caquot, Recueil des tessères de Palmyre, cit., p. 178. Poiché Taim significa «servitore», si trova nell’Arabia romana la trascrizio­ ne greca Theimodousares (R. Cagnat, Inscriptiones Graecae ad res Romanas, III, n. 1285), dove Dusares è il grande dio nabateno. 167. Un ritratto palmireno del Louvre (Corpus inscriptionum Semiticarum, II, n. 4402; J . Dentzer-Feydy e J. Teixidor, Les Antiquités de Palmyre au musée du Louvre, Paris 1993, p. 195, n. 196) è quello di un certo Apollodoros («Dono di Apollo»), chia­ mato anche Bagadana, nome in cui riconosco facilmente una parola indoeuropea del ramo indoiraniano con la generalizzazione del vocalismo in «a »; dana corri­ sponde al latino donum e baga vuol dire «dio», «beato» (cfr. Bhagavad-Gita, «can­ to di colui che ha la buona parte, del beato», e il russo bog, «dio»). E il palmireno che porta questo nome iraniano è figlio di Elahbel e nipote di Maliku, nomi semiti­ ci trasparenti. 168. SulTellenizzazione delle idee e delle mentalità nella classe alta, E. Will, De l’Euphrate au Rhin, cit., pp. 756-759, che cita la testimonianza dei mosaici siriani per lo stile, i soggetti e anche per l’ambito di pensiero. 169. L e «tavolette di Assendelft». 170. M. Sartre, Palmyre citi grecque, «Annales archéologiques arabes syriennes», 42, 1996, p. 402. J.-B. Yon, Les Notables de Palmyre, cit., pp. 166-174. 171. Cfr. J.-B. Yon, ibid., p. 181. 172. M. Sartre, Bostra, des origines à l’Islam, Paris 1985, p. 150: «N on potremo mai sapere, salvo nel caso di bilingui, se un Athenodoros è un Vaballato o un Athenodoros». 173. E. Will, De l’Euphrate au Rhin, cit., pp. 790-791, e Les Palmyréniens, cit., p. 165; addolcisco lo stile vigoroso dell’autore. 174. Sulla tonsura dei sacerdoti semitici, H. Seyrig in «Syria», 22,1941, p. 268. 175. M. Sartre in C. Lepelley (dir.), Rome et l’intégration de l’Empire, II, p. 400, e L’Orient romain, cit., p. 313, n. 5, e p. 342. 176. L e «terme di Diocleziano» datano in realtà al II secolo. Conosciamo le terme del tempio (non ancora portate alla luce) di Aglibol e Malakbel, offerte nel 182 da una pia donna, per duemilacinquecento denari, che è poco (M. Gawlikowski, Le Tem­ pie palmyrénien, cit., p. 50; J. Teixidor, The Pantheon o f Palmyra, cit., p. 42). 177. In questa iscrizione (inventaire, X , 44; R. Cagnat, Inscriptiones Graecae ad res Ro­ manas, III, n. 1054; Corpus inscriptionum Semiticarum, II, 3959; J . Teixidor, Un

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L’impero greco-romano

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port romain du désert, cit., pp. 50-51) preferisco correggere kataskeuasanta («aven­ do fatto costruire») in episkeuasanta («avendo fatto riparare»); ma ignoro se il te­ sto palmireno autorizzi tale restituzione. Altro testo caratteristico, il bilingue In­ ventale, X , 115, in J. Teixidor, The Pantheon ofPalmyra, cit., p. 117. I decreti palmireni resi in suo onore lo qualificano come philopatrìs (R. Cagnat, Inscriptiones Graecae ad res Romanas, III, n. 1037, e C. Dunant, Le Sanctuaire de Baalshamin à Palmyre, III: Les Imcrìptions, Neuchàtel 1971, n. 45; cfr. J. Teixidor, The Pantheon ofPalmyra, cit., p. 37). In latino pium e philopatrim (ibid., p. 90). L’evergete «pio e munificente», «patriota» «ama la sua città» (Id., Un port romain du désert, cit., pp. 94-95). C. Dunant, Le Sanctuaire de Baalshamin à Palmyre, III: Les Inscriptions, cit., n. 45; J. Teixidor, Un port romain du désert, cit., p. 29. Come dicevano le Res gestae di Augusto. Si avrebbe torto a vedere solo dell’ideo­ logia in questa frase; permette di comprendere a un livello più profondo i fatti (la difficoltà a stabilire un’eredità dinastica e la frequenza dei regicidi e dei pronunciamientos, per esempio) e descrive in profondità ciò che era la monarchia imperiale romana, molto diversa dalla regalità dell’Ancien Régime: l’imperatore era un buon cittadino che si era fatto avanti nell’interesse della repubblica (J. Béranger, Recherches sur l’aspect idéologique du principat, cit.; cfr. «Annuaire du Collège de France», 1993-1994, p. 785). L. Robert, Opera selecta, VI, p. 714. In un articolo di prossima pubblicazione intitolato La construction de l’identité des villes de la Syrie ellenistique et impériale. Sul teatro di Palmira, E . Frézouls in J.-M. Dentzer e W. Orthmann (dir.), Archéologie et Histoire de la Syrie, cit., II, pp. 401-404, che suppone, non senza dubbi, che una sovrastruttura di gradini di legno abbia potuto completare l’edificio. P. Veyne, in «Revue des études grecques», 102,1989, p. 339. L. Mitteis e U. Wicken, Grundziige und Chrestomathie der Papyruskunde, cit., 1 , 1, p. 420, e 1 ,2, n. 491. A Dura-Europos: Excavations at Dura-Europos, Preliminary Report, 1, The Agora andBazaar, e 3, The Palace of thè DuxRipae. M. Nilsson, Geschichte der griechischen Religion, Miinchen 1961, Π, pp. 123 e 640 (Atargatis; e n. 2 per Baalshamin). Sui «portici a gradini», qualificati come theatron, E. Frézouls in J.-M. Dentzer e W. Orthmann, Archéologie et Histoire de la'Sy­ rie, cit., II, p. 386. Secondo la testimonianza di Ippolito di Roma, Confutazione di tutte le eresie, con il testo dell’inno ad Attis commentato da M. Tardieu nell’«Annuaire du Collège de France», 94,1993-1994, p. 581. Su Adone, Teocrito, XV, Le siracusane. Canatha (Qanawat) nella Decapoli: R. Cagnat, Inscriptiones Graecae ad res Roma­ nas, III, n. 1235, «theatroeides odeion». Ne rimane qualche resto: una decina di gradini; l’iscrizione menziona anche il proedros della città, come a Palmira. E la parola di E. Frézouls, Recherches sur les théàtres de VOrient syrien, «Syria», 36,1959, p. 214. Dove potevano riunirsi da sette a diecimila spettatori (L. Nehmé e F. Villeneuve, Pétra, métropole de l'Arabie antique, Paris 1999, p. 114). Sui numerosi banchetti dei nabateni, si veda Strabone, XVI, 4 ,2 6 . H. Seyrig, «Les tessères palmiréniennes et le banquet rituel», in Mémorial Lagrange, Paris 1940, p. 51, ripreso nei suoi Scripta varia, cit., p. 292. Le tessere portano «una protuberanza su cui si imprimeva un sigillo prima della cottura, quello di chi offriva il banchetto, o quello del sacerdote nel cui tempio avveniva il sacrificio; 294

Paimira e Zenobia tra Oriente, Grecia e Roma questo sigillo autenticava la tessera come lo farebbe ai giorni nostri una firma su un buono pasto». 194. I templi siriani disponevano di refettori di cui sono state ritrovate le panche di­ sposte a triclinio; si veda H. Seyrig in «Syria», 14,1933, pp. 260 e 275; J. Starcky, ibid., 26, 1949, p. 62. Anche intorno a Paimira, c’erano dei banchetti e delle sale da banchetto; cfr. D. Schlumberger, La Palmyrène du Nord-Ouest, cit., pp. 101105 e 112-113. 195. Amos, 6, 7, dove la parola ebraica per «confraternita» è la stessa di quella che a Palmira traduciamo con «confraternita» o «tiaso»; cfr. J. Teixidor, The Pagan God: Popular Religion in thè Greco-Roman NearEast, Princeton 1977, p. 6, n. 8. 196. J.T. Milik, Recherches d’épigraphie proche-orientale, I: Dédicaces faites par des dieux, cit., p. 190; a Dura si mangiava il maiale nei pasti ordinari (p. 201). 197. Secondo la dea siriana di Pseudo-Luciano, 54, a Ierapoli non si sacrificava maiale e non se ne mangiava, perché sono animali impuri o forse sacri. 198. J. e L. Robert, «Bulletin épigraphique», 1946-1947, n. 224. 199. M. Gawlikowski, «L es dieux de Palmyre», in Aufstieg und Niedergang der rómischen Welt, II, 18,4, p. 2651. 200. Ci sono delle tessere con l’iscrizione «sacerdote di Bel» (kmry Bl), sotto tre busti di sacerdoti con il copricapo sacerdotale (H. Ingholt, H. Seyrig, J. Starcky e A. Caquot, Recueil des tessères de Palmyre, cit., n. 17). 201. H. Seyrig in «Syria», 18, 1937, p. 372; cfr. J. Teixidor, The Pantheon ofPalmyra, cit,, pp. 81-83. 202. H. Ingholt, H. Seyrig, J. Starcky e A. Caquot, Recueil des tessères de Palmyre, cit., nn. 76,77 e 141, cfr. pp. 143 e 198. 203. J. Teixidor, The Pantheon ofPalmyra, cit., pp. 64-65. 204. P. Veyne, lnviter les dieux, sacrifier, banqueter, «Annales, histoire, Sciences sociales», 2000, pp. 6-38. 205. J. Teixidor, Le thiase de Belastor et de Beelshamin, «Comptes rendus de l’Académie des inscriptions», 1981, p. 310. 206. H . Seyrig, «L es tessères palmyréniennes et le banquet rituel», in Mémoriale Lagrange, cit., p, 51, ripreso negli Scripta varia, cit., p. 313: «Sono stati fatti solo due ritrovamenti di massa, tutti e due nel santuario di Bel; quindi si trovavano nel san­ tuario quando è stata saccheggiata la città». E. Will, De l’Euphrate au Rhin, cit., p. 518, n. 17 (ripreso in «Syria», 60,1983, p. 76): nel santuario di Arsu sono state sco­ perte un centinaio di tessere con l’immagine del dio. 207. Sul reale significato di queste scene di banchetto funebre, si veda sopra, cap. 3, n. 58. 208. H. Seyrig, «L e repas des morts et le banquet dit funèbre à Palmyre», in Antiquités syriennes, cit., in particolare pp. 212-214. 209. L’esistenza dei banchetti funebri a Paimira non è attestata, ma è molto verosimile (E. Will, De l’Euphrate au Rhin, cit., p. 733, ripreso in «Syria», 28,1951, p. 96). 210. Si vedano gli interventi chiari di E. Will, ibid., pp. 705-746: «L e relief de la tour de Kithot» e «L a maison d’éternité et les conceptions funéraires des Palmyréniens». 211. Quello che mi fa dubitare è che gli epitaffi dei devoti dichiarati di Bacco non fanno mai allusione per iscritto a speranze per l’aldilà: lo fanno solo le immagini che, essendo mute, hanno una minima potenza di affermazione e non portano a grandi cose. 212. J. Teixidor, Dieu de la tribù ou seigneur du lieu, «Revue de l’histoire des religione», 205,1988, p. 415. Cambiare terra è cambiare dio; ognuno adora il dio della sua contrada (Deuteronomio, 38,36). 213. F. Briquel-Chatonnet e H. Lozachmeur in «Syria», 75,1998, p. 137. 295

L ’im p e r o g r e c o -ro m a n o

214. Corpus inscriptionum Semiticarum, Π, 3973; J. Teixidor, The Pantheon ofPalmyra, cit., pp. 85-86. 215. Sura LUI, 19-20. 216. K. Al-Asad e J. Teixidor, «Un culte arabe préislamique à Palmyre», in Comptes rendus de TAcadémie des inscriptions, Paris 1985, p. 289. 217. E probabile che in effetti Boi sia il nome di una vecchia divinità locale, divenuto Bel per assimilazione al grande dio siriano, secondo A. Caquot non è evidente che Boi sia una forma dialettale della parola Baal. 218. Così Eschilo, Supplici, 317; Erodoto, 1 ,181; Plinio, Storia naturale, VI, 26,121. 219. Si veda Isaia, 46, 1, o piuttosto il grande poeta e sconosciuto mistico chiamato Deutero-Isaia che ha messo sotto il nome del suo predecessore Isaia le sue profezie (evidentemente posteriori all’avvenimento); e il poeta frenetico che ha aggiunto le sue a quelle di Geremia, 50, 2: «Babilonia è presa, Bel è coperto di confusione» (ed. it. op. cit., p. 820). 220. J. Teixidor, The Pagan God, cit., p. 138; G. Roux, La Mésopotamie, cit., p. 95. 221. Isaia, 27,1 (ed. it. op. cit., p. 730). 222. H. Seyrig, Bel de Palmyre, «Syria», 48,1971, p. 85. 223. Altri capiscono «Boi della fonte», Yarhibol sarebbe allora il dio della fonte di Pai­ mira e il suo santuario primitivo sarebbe stato vicino alla fonte Efqa. 224. E. Will, Le Relief cultuel gréco-romain, Paris 1955, pp. 272-299, cfr. p. 277. 225. H. Seyrig, Scripta varia, cit., p. 49. 226. Il ben noto oracolo di Bel ad Apamea, dice l’iscrizione. 227. CIL, X II, 1277; H. Dessau, Inscriptiones Latinae selectae, 4333, e Add,, p. C L X X X II: «Fortum e rector mentisque magister». È una bilingue greco-latina in cui rector rende il greco euthunter. 228. Faccio evidentemente allusione alle aretologie di Iside. 229. A. Watson, Aurelian and thè Third Century, cit., p. 197. 230. Mitra, Serapide, il Sole; il vecchio Ercole victor passò di grado e divenne invictus·, gli ufficiali romani che avevano ai loro ordini arcieri palmireni ringraziavano «il Sole invincibile, Malakbel» (H. Dessau, Inscriptiones Latinae selectae, 4338-4341: «Soli invicto Malachihelo»)·, su questa inattesa «solarizzazione» di Malakbel, J. Teixidor, The Pantheon ofPalmyra, cit., p. 52. Anche Elagabalo era stato ufficial­ mente dio invincibile (H. Dessau, Inscriptiones Latinae selectae, 473, 475, 2008, 4329-4332, 9058). 231. Antico principato vassallo, sotto una dinastia locale (di origine araba secondo Sey­ rig, aramea secondo Teixidor in «Annuaire du Collège de France», 1997-1998, p, 717), divenuta dinastia dei grandi sacerdoti del Sole, SolElegabal, «dio della mon­ tagna», ossia dell’altura che domina la città dove si eleva il Krak dei Cavalieri. 232. Opinione ancora diffusa ma rifiutata da Seyrig, Le culte du soleil en Syrie à l’époque romaine, «Syria», 48,1971, p. 337. In Siria non è che un dio locale, quello di Emesa, di origine araba; a Paimira stessa esisteva un santuario del Sole il cui luogo resta sconosciuto (E. Will in Mélanges AndréPiganiol, III, p. 1414). Di certo, ovunque in Siria come altrove il Sole è scolpito sul frontone dei templi, ma non è il dio del tempio: è un simbolo di gloria, ecco tutto; è paragonabile all’aquila che si vede sul­ le monete della Siria o nel tempio di Baalshamin e il cui becco tende agli dèi un ra­ metto di alloro per glorificarli (L. Robert, Opera minora selecta, VI, pp. 155 e 159, nn. 81 e 105). 233. G. Wissowa, Religion undKultus derRomer, p. 367. 234. E. Will in «Syria», 36, 1959, p. 201, ripreso in Id., De l’Euphrate au Rhin, cit., p. 71. Il tempio occupava il centro di una vasta corte rettangolare, come a Paimira e 296

Paimira e Zenohia tra Oriente, Grecia e Roma negli altri santuari della Siria, ma anche in terra greca; Will cita Magnesia, Andrà e Aizanoi. 235. H. Seyrig in «Syria», 48,1971, pp. 346 e 365. 236. J. Teixidor, The Pagan God, cit., pp. 4, 8,140. 237. Corpus inscriptionum Semiticarum, II, 4046, citata da J, Starcky e M. Gawlikowski, Palmyre, cit., p. 99. Nonostante alcune somiglianze testuali, mi sembra diffici­ le avvicinare queste formule di ex voto in serie, citate sopra, al testo dei Salmi, la cui statura è ben più alta; giudicate: di fronte alle collere dell’amore dispotico che il Dio geloso ha per il suo popolo ci si umilia, si confessano i propri torti, si im­ plora perdono: «A te levo i miei occhi [...] come gli occhi dei servi alla mano dei loro padroni» {Salmi, 123, 1-2); «Signore, so che giusti sono i tuoi giudizi e con ragione mi hai umiliato. Mi consoli la tua grazia, secondo la tua promessa al tuo servo» (119,75-76). Citiamo anche il celebre Miserere: «Poiché non gradisci il sa­ crificio e, se offro olocausti, non li accetti. Uno spirito contrito è sacrificio a Dio, un cuore affranto e umiliato, tu, o Dio, non disprezzi». (51,18-19) (ed. it. op. cit., p. 591-592; 556). 238. A. Caquot, Sur Vonomastique religieuse de Palmyre, cit., p. 256. 239. Corpus inscriptionum Semiticarum, Π, 3978. 240. M. Nilsson, Geschichte der griechischen Religion, cit., p. 638; H.W. Pleket, «The Believer as Servant of thè Deity in thè Greek World», in H.S. Versnel (ed.), Faith, Hope and Worship: Aspects ofReligious Mentality in thè Ancient World, Leiden 1981, p. 152. 241. CIL, III, 7954, e H. Dessau, Inscriptiones Latinae selectae, 4341, a Sarmizegetusa. 242. Stessa iscrizione che sopra («iussus ab ipsis») e iscrizione di Vaison già citata (ΧΠ, 1277, e H. Dessau, Inscriptiones Latinae selectae, 4333 e Add.: «Dedtt et voluit»).]. e L. Robert, «Bulletin Épigraphique», 1939, n. 484; 1940, n. 173; 1941, n. 151; 1962, n. 307, dove il voto è fatto in seguito a un oracolo. 243. Di nuovo l’iscrizione di Vaison. 244. Riferimenti in Veyne, «Latomus», 45,1985, pp. 275-276. 245. J.T. Milik, Recherches d’epigraphie proche-orientale, I: Dédicaces faites par des dieux, cit., pp. IX, 80-82,95 eccetera. 246. J. Teixidor, The Pagan God, cit., p. 112. 247. W. Dittenberger, OGIS, n. 634; Inventane des inscriptions de Palmyre, XII, 44. cfr. H. Seyrig in «Syria», 22,1941, p. 246. 248. W. Dittenberger, OGIS, n. 640; J. Teixidor, The Pantheon ofPalmyra, dt., p. 117. Un palmireno è onorato da Aglibol, Malakbel e i Beni Komare, «per aver compiaduto gli dèi e i Beni Komare» («Bulletin Épigraphique», 1976, n. 641). Uno stratego e agoranomo della colonia riceve la testimonianza (memarturesthai) del patroos theos, della città di Paimira e del governatore {Inventane des inscriptions de Palmyre, X , 115). 249. Corpus inscriptionum Semiticarum, Π, 3932. 250. M. Gawlikowski, «L es dieux de Palmyre», in Aufstieg und Niedergang der romischen Welt, II, 18,4, p. 2616. 251. J. Teixidor, The Pantheon ofPalmyra, cit., pp. 58-59. 252. W. Dittenberger, OGIS, 2, n. 639 e 640; R. Cagnat, Inscriptiones Graecae ad res Romanas, ITT, n. 1033 e 1045; «Bulletin épigraphique», 1940, n. 90. 253. J. Starcky in «Syria», 26, 1949, p. 81, a Dura: «Hieron Aphlad legomenou theou». Credo di intravedere che nei testi palmireni la parola Ih, «dio», segue spesso il no­ me del dio come titolo d’onore; ma il legomenou di Dura è una «confessione spon­ tanea» che mi spinge ad arrischiarmi nella mia interpretazione. 254. R. Cagnat, Inscriptiones Graecae ad Res Romanas, III, n. 1045. 297

L’impero greco-romano 255. Sulla confusa nozione di sincretismo, si vedano i chiarimenti, che si completano, di W. Burkert, «Migrating G ods and Syncretism: Forms of Cult Transfer in thè Ancient Mediterranean», in A. Ovadiah (ed.), Meditenanean Cultural Interaction, Tel Aviv 2000, pp. 1-21; e di C. Le Roy, «Dieux anatoliens et dieux grecs en Lycie», in G . La Barre (éd.), Les Cultes locaux dans les mondes grec et romain, Paris 2004, in particola­ re pp. 268-270. 256. Pseudo-Luciano, Della dea siriana, 32. 257. Si confronti Pseudo-Luciano, 31, sullo Zeus di Ierapoli. 258. Si veda la grande pubblicazione sul tempio di Bel di H . Seyrig, R. Amy ed E. Will, 1975, e la discussione di P. Gros nella «Revue archéologique», 1 ,1981, p. 97.

6 L’arte di Paimira: globalizzazione, somiglianza, frontalità, occhi allucinati

Torniamo di nuovo a Paimira, questa città orientale in mezzo al deserto della Siria, indietro nel tempo di duemila anni. Nostro punto di parten­ za sarà la lunga serie di ritratti palmireni, sculture celebri quanto la se­ rie dei ritratti dipinti del Fayyum. Questi busti di defunti risalgono ai primi tre secoli dopo Cristo, quando Paimira apparteneva all’impero romano e, in questa città carovaniera e commerciale, un’aristocrazia di capitribù beduini si era arricchita grazie agli scambi commerciali tra l’impero romano, l’India e la Cina, sulla via della seta. Ritratti e sarcofagi si snodavano a file di centinaia nelle sontuose tombe di queste fa­ miglie.1 Paimira era un ibrido tra Oriente e Occidente: la sua cultura religio­ sa e artistica originale era quella della Siria, ma la ricca città faceva un punto d’onore dell’adozione di una cultura ellenistica che era la cultura «globalizzata» del tempo, influente dall’Indo al Marocco. Ancora una precisazione: in Francia, la reputazione dell’arte palmirena deve molto a Malraux che la pone ai vertici in quel suo Museo dei musei che tanto ha fatto, in un cinquantennio, per l’educazione estetica dei suoi compa­ trioti. Pare tuttavia che Malraux sia stato più sensibile all’esotismo e a un presunto misticismo di quest’arte che alla sua qualità formale: nei grandi occhi, gli occhi ipernormali2 di quest’arte funeraria, e in quella caratteristica che si chiama «frontalità», egli pensava di cogliere un ri­ flesso allucinato dell’assoluto. C’è in Malraux una mescolanza di reli­ gione dell’arte, che fa pensare ai fari di Baudelaire, e di fantasticheria storicistica che estranea però al poeta. Si può essere di opinione diversa dal Museo dei musei. Eccetto qual­ che opera energica, questi ritratti altro non sono che i prodotti in serie di un artigianato locale di qualità. La loro particolarità, che risalta ri­ spetto all’arte del resto dell’impero, è dovuta al loro carattere ibrido; con la sua mescolanza di arcaismo mediorientale e di naturalismo elle­ nico, questa produzione ha un accento locale che le è strettamente pe­ culiare. Conosciamo più di un migliaio di ritratti palmireni, dissemi­ nati da Damasco a Parigi a Tokyo, poiché tutti i grandi musei hanno 299

L’impero greco-romano

ritenuto necessario acquisirne. Sfortunatamente, il tempo ha fatto spa­ rire i colori che li ravvivavano. Infatti, questi busti erano dipinti. Fino a Donatello, tutta la scultura antica e medievale è stata a colori: tracce di pittura nei suoi capelli provano che la Venere Capitolina, intera­ mente nuda, era bionda, e si può supporre che anche la Venere di Mi­ lo avesse tale colore di capelli e cingesse le sue reni con un mantello blu. Su un ritratto di Paimira che si trova al Louvre si è conservato il blu degli occhi.3 L’arte palmirena è parzialmente estranea al realismo, al naturalismo, all’accademismo dell’antichità greco-romana. Anche se ne fosse ignota la provenienza, la indovineremmo facilmente, a causa di una doppia bizzarria che ha contribuito alla fama di queste sculture: gli occhi esa­ gerati o decorativi che lo scultore ha inflitto ai suoi modelli e la fronta­ lità: nelle scene di gruppo, nei banchetti funebri, infatti, tutti i convita­ ti rivolgono il viso allo spettatore, come in ima foto di gruppo. Non se ne dispiaccia Malraux, ma qui non sono in atto altro che banali proce­ dimenti per intensificare gli effetti e attirare l’attenzione dello spettato­ re: ne riparleremo. I due procedimenti hanno le loro radici (niente di più, niente di meno) in una espressività primaria che appartiene a un li­ vello istintuale, animale, anteriore alle convenzioni di ogni arte e al rap­ porto di quest’arte con la storia e con la società: affascinare, ipnotizza­ re con grandi occhi e far fronte davanti a uno sconosciuto sono reazio­ ni elementari che non hanno nulla di convenzionale né di storico. Ma, a dirla tutta, un’altra cosa ancora ha fatto il successo dei ritratti palmireni: si tratta dei ritratti femminili che libri e cartoline riproducono con predilezione per la muta fierezza di queste figure, ma tale carattere, a dire il vero, è soltanto la fierezza caratteristica dei ritratti di grandi da­ me, benché Malraux abbia esaltato una di queste teste, proclamando che essa era «la sola, forse, che fosse degna di chiamarsi Roma». Le sculture di Paimira non sono capolavori e raramente sono opere di grande qualità: si vadano a rivedere al Louvre le due grandi vetrine nelle quali si allineano su alcuni ripiani dozzine di questi ritratti: i ric­ chi negozianti di Paimira s’erano conquistati i servizi di buoni artigiani; i loro ritratti sono l’arte in serie di una città più ricca di tante altre. So­ no quel che chiamiamo «pezzi da Museo» e «da collezione». Questi defunti dai ricchi caftani ricamati, queste donne dai preziosi ornamenti eccitano la curiosità, rivelano un risvolto della storia e soddisfano il gu­ sto per la rarità, il pittoresco, i sapori esotici, i valori minori. Questi pezzi da Museo traggono la loro importanza anche dal culto moderno per i monumenti storici4 e per il «patrimonio» storico, dalla venerazio­ ne per il passato perché è passato. Sono aeroliti caduti da una civiltà scomparsa. Proviamo curiosità e una pietà sconfinata per ogni pezzo di umanità che è esistito e che pare per sempre perduto. Questa pietà nei 300

Uarte d i Palmira

confronti dell’umano passato non è la stessa cosa del sentimento del­ l’arte e del culto per i capolavori. Non ne consegue che un’arte degna di questo nome faccia passare dall’umano e dal divenire alla verità dell’Essere. Per ragionare su un’a­ nalogia, quella della metafora, quando un poeta dice che Achille è un leone,5 questa metafora non «rivela» nulla, perché, in senso stretto, non vuol dir nulla: Achille non è un leone; ma essa suscita in noi un non-essere, un fantasma verbale, fantasma —ed è l’essenziale - al quale ci com­ piacciamo di credere. Non è l’arte come rivelatrice della verità dell’Es­ sere che ci rende esteti, ma il contrario: il nostro senso estetico ci rende compiacenti nei confronti della finzione artistica, a questa finzione ana­ logica che viene ad aggiungersi all’Essere. Nondimeno, il successo dell’arte di Paimira non è dovuto soltanto alla pietà storica, ma anche a un’ altra modalità del senso artistico cui la nostra epoca è molto sensibile: nella produzione artistica del passato e del presente, molti appassionati, tra cui Malraux, cercano non tanto la qualità formale e la bellezza quanto l’inventiva; essi sono attratti dall’i­ nesauribile ricchezza delle forme possibili. È una sorta di senso dell’in­ finito, analogo alla fascinazione provata dai naturalisti davanti al nume­ ro illimitato di specie viventi che non si stancano di catalogare, davanti alla capacità della natura di inventare forme. Ai nostri giorni, restiamo sedotti dalla diversità delle opere del passato, capolavori o no, e ci inte­ ressiamo più alle serie artistiche, ritratti del Fayyum, icone, ritratti palmireni, che a opere singole. Capita la stessa cosa con l’arte contempo­ ranea, che, intrisa di questo sentimento dell’infinito e delle sue possibi­ lità, crea il suo peculiare campo di ricerca, ed esplora senza limiti la sua natura. Non è tutto. Abbiamo impiegato le parole «ritratti palmireni», ma sono ritratti al modo in cui li intendiamo noi? Queste immagini funera­ rie non riproducevano molto precisamente i tratti del defunto; erano solo vagamente somiglianti e non si preoccupavano di esserlo; rappre­ sentavano, piuttosto, un uomo o una donna qualsiasi, per così dire, l’uomo in generale. Accadeva lo stesso nell’arte funeraria etrusca e nel­ l’arte gotica.6 Il caso dei ritratti romani e di quelli ellenistici è molto di­ verso, ma, per la maggioranza delle arti del passato, dobbiamo separare l’idea di ritratto dall’idea di somiglianza.7 1 veri tratti di Cristo e di in­ numerevoli santi, geni, eroi e re di un tempo sono sprofondati nell oblio; allora, l’arte ha creato per loro dei tipi fissi.8 Chi ha dunque per primo notato che le grandi dame del secolo di Luigi XTV, Madame de Sévigné, Madame de Lafayette, restano per noi senza volto? Sui ritratti incisi acquistati dai loro ammiratori, si rassomigliano tutte. Accade lo stesso ai ritratti delle celebri cortigiane di Utamaro: ciascuna è designa­ ta con il suo nome, ma i loro volti sono tutti identici. 301

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L'arte d i Paimira

Sono state ritrovate a Paimira due immagini della stessa dama chia­ mata, con il suo nome siriaco, «Ala, figlia di Yarhai»; in una la defunta ha un largo viso quadrato, nell’altra, un sottile viso triangolare,9 e in entrambe vi sono tratti tanto poco individualizzati che ella non può so­ migliare a nessuno. In particolare altri casi, sembra che due palmireni si somiglino perché le loro immagini escono dalla medesima bottega. L’artigiano si limitava a ridurre il viso a una serie di formule10 e a com­ binare schemi da carta d’identità («naso diritto, fronte media, viso ro­ tondo»), senza avere il talento necessario né il desiderio di dare l’im­ pressione dell’individualità. In compenso, i gioielli, l’abbigliamento, i ricami degli abiti, tutto ciò che è costoso, è reso con una precisione do­ cumentaria e ostentata; tutti dettagli che l’eleganza greca, socialmente più sicura di sé, avrebbe trascurato come esteriori e subalterni. I ritrat­ tisti palmireni hanno forse costruito la loro reputazione non tanto sulla loro abilità a cogliere la somiglianza individuale quanto sulla loro mae­ stria nel rendere i tessuti, i gioielli e gli altri segni dello status sociale. È possibile anche, suggerisce la Dentzer-Feydy, che queste effigi fos­ sero immagini standard, predisposte in precedenza nella bottega,11 fra le quali l’acquirente faceva la sua scelta, accontentandosi di una vaga affinità di fisionomia, o di ancora meno. Ai nostri giorni, possiamo ve­ dere con i nostri occhi un equivalente di questo commercio. In Indone­ sia, nelle Celebes, meta di numerosi turisti, vive l’etnia dei toraja. Le fa­ miglie nobili si danno un gran daffare per seppellire i loro defunti nella cripta familiare davanti alla quale si snoda una serie di effigi funerarie. Nelle botteghe degli scultori appartenenti a questa etnia si vedono doz­ zine di effigi completamente finite, dalle fisionomie schematicamente differenziate. Uomini, donne, adulti, vecchi e bambini, intagliati nel le­ gno con la sgorbia, con gli occhi e i baffi dipinti, attendono il prossimo funerale e la scelta dell’acquirente. Lo scarso interesse che le arti del passato o di altri paesi hanno mani­ festato per la rassomiglianza si spiega, credo, in due modi. Per prima cosa, con la funzione della maggior parte dei ritratti. Quando qualcuno appende al muro l’immagine di Cristo o del dittatore locale, è per una ragione politica o religiosa, per rendere omaggio al modello e non per assaporare la sua bellezza, né per informarsi della sua identità come un poliziotto che ricerca un sospettato. Cosa significano quindi, nelle isole Celebes, a Paimira o in Etruria, queste immagini umane non somiglianti che noi chiamiamo ritratti? Un recente libro sui monumenti funerari di Siria12 permette di rispon­ dere alla domanda. Un’antica tradizione siriana consisteva nell’elevare, davanti al luogo di sepoltura, una stele, individuale monumento commemorativo del defunto. Su questa stele, che le iscrizioni chiama­ no stele in greco e nephesh in aramaico, è inciso l’epitaffio; vi si legge,

per esempio, «nephesh di Chamrathe, moglie di Odainath». Questa nephesh è un monumento commemorativo che si presume rappresen­ ti, simboleggi, incarni, la «persona» del defunto. Ciononostante, die­ tro la nephesh, la tomba propriamente detta ospitava il suo corpo. G e­ neralmente, queste steli suggeriscono sommariamente quel che era sta­ ta l’apparenza del defunto: la nephesh degli uomini è quadrangolare, quella delle donne si restringe verso la cima. Inoltre, spesso, la parte superiore delle steli è ornata da un bassorilievo che raffigura un viso o una figura umana. Chi rappresenta questo viso o questa figura? Non si tratta né del defunto stesso con la sua individualità, né della sua ani­ ma, né del suo doppio,13 vuole semplicemente dire: «Q ui giace quel che fu un uomo, una donna». Non dobbiamo immaginare che tutto sia rappresentativo e dottrinale nell’arte, la nephesh non implicava una fede nell’aldilà, ma simboleggiava un’entità percettiva, più sottile di un’idea: la persona che il defunto è stato, quel defunto che, poiché è esistito una volta, conta una volta per tutte. Diremo altrettanto dei ri­ tratti di defunti di Paimira; non sono i loro ritratti, ma la memoria del­ la loro persona sotto forma di viso umano. Allo stesso modo, l’ammi­ ratore di Madame de Lafayette che appendeva al muro una stampa in teoria rappresentante le sue fattezze aveva sotto gli occhi solo un’ico­ na della sua personalità. Ritorniamo a Paimira, o, piuttosto, ritorniamo al Louvre, davanti al­ le due vetrine colme di busti palmireni. Al primo colpo d’occhio, con­ statiamo che si tratta di effigi realistiche (o, secondo il termine tecnico, iconiche, o ancora naturalistiche) e di produzioni artigianali, come se ne possono vedere in qualsiasi Museo archeologico, dalla Scozia all’al­ topiano anatolico, passando per Arlon, Narbona o Smirne. A Paimira è accaduto quello che accadeva in ogni grande città dell’impero o anche in semplici borghi: la domanda locale di ritratti di defunti, scene di banchetto funerario o ex voto, era soddisfatta da una bottega locale che aveva abitudini proprie in materia d’iconografia e di stile, ma che, in sostanza, praticava dovunque il medesimo stile naturalistico greco­ romano, uniforme dalla Scozia all’Anatolia. Dovunque, eccetto a Pai­ mira, dove il sapore locale è più accentuato che altrove: busti o scene di banchetto funerario portano con sé il sentimento di un’originalità artistica che non si confonde con il pittoresco degli abiti orientali. Cercheremo di delineare con precisione i contorni di questa origina­ lità, ma constatiamo, per prima cosa, che lo stile di queste sculture è per metà greco-romano: malgrado un modello talora sommario, i ri­ tratti sono meno fissi, meno rigidi di quanto non ci si potesse aspettare; i visi vogliono essere individualizzati, e le fisionomie sono abbastanza differenziate.14 Basterà un argomento schiacciante: si tratta di busti, e l’Oriente ignorava il busto. In tutta questa vasta zona del mondo anti­

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co, i modi greci di essere e di agire dettavano ovunque la norma. Ci si ricordi quel dipinto della sinagoga di Dura-Europos che mostra Davi­ de in sandali e mantello greci e il tempio di Salomone ornato di capitel­ li corinzi. Palmira ha tentato di conquistare non soltanto le formule dell’arte ellenica del suo tempo (o, se si preferisce, dell’arte imperiale), ma an­ che il suo spirito. Più la mano di uno scultore palmireno è abile, e più la vita si mescola alla ieraticità e alla frontalità, a rischio di sostituirsi a esse. Una serie di sarcofagi di fabbricazione locale presenta una deco­ razione di qualità. Vi si vedono dei cavalieri o dei cammellieri in piedi a fianco del loro animale;15 l’animale è di profilo, mentre i padroni si pre­ sentano frontalmente rispetto allo spettatore; ma questa frontalità è compensata dalla varietà e dalla vitalità dei gesti e dal procedimento prediletto dell’arte greca, il «contrapposto», dove il personaggio, uomo o donna, si appoggia su una gamba sola, circostanza che lo rende an­ cheggiante, sensuale e rompe la simmetria. Nei banchetti funerari, l’ar­ tigiano cerca di rendere i visi meno rigidi, gli atteggiamenti più vivi: uno dei convitati mette volentieri un braccio sulla spalla di un altro. L’impressione dominante, tuttavia, resta quella di una fila di defunti fissamente piantati davanti ai nostri occhi. Al Louvre, un busto ha una posa animata, la dama inclina la testa sulla sua spalla e distoglie un po­ co lo sguardo dallo spettatore; la sua espressione è capricciosa e ha la civetteria di non nascondere tutta la sua capigliatura sotto il velo come fanno le sue compagne. Il suo viso non stupisce meno per l’arabesco convenzionale disegnato dai suoi larghi occhi.16 Abbiamo appena evocato il contrapposto. Bisogna proprio vedere co­ me esso non sia un procedimento qualsiasi. Non basta qui parlare di na­ turalismo in generale, perché le forme non sono concettualizzabili. Il na­ turalismo greco-romano non è un mero rispetto dell’anatomia artistica, è un naturalismo delle tensioni interne; il fatto che tutto il corpo poggi su una sola gamba genera un asse che percorre tutta la figura dal basso ver­ so l’alto e attorno al quale il resto del corpo ondeggia, come una bandie­ ra attorno alla sua asta. Il corpo è percepito come il luogo delle tensioni dell’ossatura, della muscolatura e della forza di gravità. Precisamente questo produce l’impressione che la figura «pesi sul terreno»; anche l’ar­ te romana più artigianale sapeva rendere quest’asse delle tensioni: nelle officine si copiano gli schemi della grande arte. Vediamo bene l’origina­ lità di questo particolare tipo di naturalismo quando a esso paragoniamo quello, assai differente, che costituirà uno degli stili Basso impero: il cor­ po umano in questo caso apparirà talora rilassato e anche di aspetto gommoso, assomiglierà a una bambola sospesa a mezz’aria i cui piedi ondeggiano rasoterra. Il gusto del Basso impero amerà questa mollezza, considerata più intrigante della tensione accademica di un tempo. 304

L’arte di Paimira

Bisogna spendere una parola su quel grande avvenimento che fu l’ellenizzazione: la sua realtà è una tranquilla evidenza per gli archeologi, ma sorprende talora i latinisti. La Roma imperiale appartiene alla ci­ viltà greca,17 allo stesso modo in cui il Giappone contemporaneo è un paese occidentale, come dicevo all’inizio di questo libro.18 L’ellenizzazione fu la «globalizzazione» culturale dell’epoca, tanto che la metà orientale dell’impero romano era ellenizzata in lingua greca, mentre la sua metà occidentale —Galha, Spagna, Maghreb —si era ellenizzata da sé in lingua latina, sotto lo sguardo d’approvazione di Roma. In un’e­ poca come la nostra, che parla molto di imperialismo culturale e di identità, è utile ricordare che la modernizzazione tramite l’adozione di costumi stranieri forma le identità nazionali; la cultura di altri è adotta­ ta non come straniera, ma come se fosse il vero modo di vivere, di cui non si saprebbe lasciare il privilegio a uno straniero, che, di esso, è solo il primo possessore. Cosicché si può benissimo adottare la cultura del vincitore e vivere secondo una cultura straniera senza per questo ab­ bandonare la propria identità. Quanti se ne affliggono temono un’uni­ versale uniformazione, ma, in realtà, nascono senza posa innovazioni, dovunque e in ogni momento, che si diffondono verso confini lontani dove tutto si mescola. Le civiltà non hanno patria e ignorano le frontiere politiche, religiose o etniche che separano i gruppi umani: Nietzsche ammirava l’energia con cui i romani si erano impadroniti dei valori greci come di un bene proprio. Su quella parte del globo dove il greco era la lingua interna­ zionale della cultura e del commercio, l’ellenismo era sempre la civiltà «globale» che impressionava tutti i popoli, il prestigioso modello stra­ niero da imitare, ma, allo stesso tempo, era lo specchio in cui i diversi popoli credevano di ritrovare i loro tratti peculiari19 in una forma più autentica: ellenizzarsi era diventare se stessi, era modernizzarsi. Noi parliamo di ellenizzazione, ma gli interessati non dicevano nulla di si­ mile; si sentivano sempre se stessi; dopotutto, nessuno li forzava. Non vi è stato imperialismo culturale né greco né romano. Alcune civiltà hanno un influsso ad ampio raggio che non sappiamo spiegare; la storia non ha cessato di smentire che ciò fosse dovuto al­ l’imperialismo culturale o anche alla superiorità politica e militare: i ro­ mani non hanno mai cercato di romanizzare i loro sudditi, al contrario la Grecia conquistata «conquistò il suo feroce vincitore». Cinque seco­ li più tardi, si assisterà alla «conquista persiana dell’islam», vincitore della Persia. A dispetto di quanto si afferma ai nostri giorni, la capillare diffusione delle grandi culture non sempre è un sottoprodotto della potenza politica e militare. Si è visto, nel corso dei secoli, che un’auten­ tica superiorità s’impone da sé ed esiste, nella storia, un vettore di pro­ gresso: l’umanità tende senza posa a diventare più «moderna» ed è già 305

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Uarte di Paimira

una buona cosa, di cui bisogna che ci accontentiamo; ma non tende ne­ cessariamente a diventare più virtuosa, e non saprebbe diventare felice e soddisfatta (a causa dell’infinitezza del bisogno). Torniamocene agli artigiani palmireni, che hanno fissato, in visi na­ turalistici, iconici ed ellenizzanti, degli occhi che non sono quelli pro­ pri degli esseri umani: sono troppo grandi e modellati secondo uno schema che non ha nulla di reale. Sono talvolta arrotondati e promi­ nenti, come per ipnotizzare, talvolta decorativi; isolati in alto e in basso da un profondo solco, hanno la forma lanceolata di una foglia d’albero; o ancora, le palpebre hanno un contorno elegantemente sinuoso. Seconda grande differenza tra Paimira e l’arte greco-romana del re­ sto dell’impero è la frontalità, di cui analizziamo un esempio eclatante. Si trova nella sinagoga risalente all’incirca all’anno 250 di cui ho già parlato. Una delle pitture che ne coprono i muri narra di Mosè salvato dalle acque.20 E una narrazione che sintetizza in una medesima imma­ gine due episodi successivi. Dapprima vediamo la figlia del faraone che fa il bagno nuda nel Nilo e che ha tolto dalla sua culla galleggiante il piccolo Mosè, anch’egli completamente nudo; a fianco, vediamo una seconda volta il medesimo Mosè neonato che, sulla riva del fiume, è stato affidato alle sei ancelle del seguito della principessa. Ora, queste otto figure sono tutte rappresentate frontalmente, con gli occhi fissi su di noi, compresi quelli del neonato. Inoltre, la principessa che sostiene Mosè su un braccio, solleva l’altro braccio con un gesto indirizzato a noi, per renderci partecipi della sua sorpresa; e, sulla riva del fiume, due delle ancelle ci presentano il neonato tenendolo ciascuna da un la­ to per esporlo ai nostri occhi come se si trattasse di una stoffa o di un’i­ cona. Invece di curarsi di sé e del bambino, sembra piuttosto che si oc­ cupino dello spettatore. La scoperta della frontalità, procedimento estraneo tanto all’antico Oriente quanto all’arte greca e al resto del mondo, ha avuto un effetto dirompente nella storia dell’arte. La sua apparizione a Paimira è passa­ ta, a torto o a ragione, per una data-cardine, che annunciava la fine del­ l’arte antica. Si è molto parlato, per esempio, dei bassorilievi palmireni che rappresentano un banchetto funebre, dove si presume che il de­ funto banchetti circondato dai membri della sua famiglia. Sui loro letti conviviali, i personaggi di questo banchetto dovrebbero, secondo logi­ ca, curarsi di sé, dei loro vicini e della loro coppa per bere, e volgersi gli uni verso gli altri, come avviene nei bassorilievi funerari nell’arte greco­ romana,21 da cui gli artigiani palmireni hanno tratto questo soggetto; più esattamente, l’arte greca conciliava le necessità della narrazione e il desiderio di mostrare i volti ricorrendo alla convenzione dei tre quarti, come fanno i nostri attori che, ponendosi in tale posizione, si dividono tra il partner che sta di fronte a loro sulla scena e il pubblico in sala.

Accade ancora così nel Basso impero, persino in una scena di sfilata militare, persino nell’arco imperiale di Costantino, che, per populismo, imita, l’arte popolare: i soldati che sfilano lì volgono il capo in ogni di­ rezione, per vivere di vita propria in quello spazio che li racchiude. Ma, prendendo a prestito dai greci il tema del banchetto funebre, gli artigiani palmireni non hanno conservato questa mezza misura troppo sapiente, hanno proceduto più sommariamente, per agire in maniera più semplice e dirompente: invece di mostrarci i bevitori di profilo o, almeno, di tre quarti, fanno loro compiere una torsione di novanta gra­ di verso di noi, in atteggiamento frontale; ecco dunque i banchettanti fissati davanti a noi, con la tazza in mano e gli occhi puntati nel vuoto.22 Quel che interessa all’artista palmireno, ha scritto un archeologo solita­ mente assai acuto,23 è il contenuto profondo e più permanente dell’es­ sere, e la frontalità sottolinea la presenza spirituale di ogni personag­ gio. Malraux si spinge più lontano: «Al gesto si sostituisce l’immobilità dell’eterno»,24 scrive. La spiegazione corretta è invece più semplice: la scena di gruppo è diventata un ritratto di gruppo, ritratto di famiglia del defunto e dei suoi cari; i defunti non sono rivolti verso l’eternità, bensì verso i loro parenti, che sapevano bene come il defunto non stes­ se pensando all’assoluto, ma si mostrasse al loro devoto ricordo. I de­ funti sono allineati davanti a noi come degli scolaretti in una foto di classe, o come ministri sulla scalinata dell’Eliseo e nulla di più. Nei mo­ saici di San Vitale a Ravenna o di Sant’Apollinare Nuovo, un’intera processione, apparentemente, ha smesso di sfilare per fare un mezzo giro, e tutti i personaggi si ritrovano allineati di fronte a noi. In altri tempi se ne è concluso l’arte palmirena fosse alle origini dell’arte bizan­ tina; dobbiamo piuttosto credere che il mosaicista ravennate non aves­ se avuto bisogno di trarre ispirazione da un procedimento artigianale praticato tre secoli prima in un lontano recesso dell’impero: poteva fa­ cilmente pensarci da solo. Gli artigiani palmireni hanno fatto lo sforzo di assimilare il naturali­ smo ellenico, ma questo sforzo è costato loro caro: hanno potuto avvi­ cinarsi a questo naturalismo solo semplificando il compito, schematiz­ zando forme troppo sottili, quelle degli occhi per esempio. Ne è risul­ tata qualche incoerenza tra degli occhi convenzionali e il realismo del resto del viso. Spesso questi artisti semplificano in tratti ieraticamente schematizzati i dettagli troppo meticolosi; le ciocche di capelli si tra­ sformano in masse ordinate simmetricamente, i ciuffi di barba formano una foresta di piccole piramidi e le pieghe degli abiti non ne sottolinea­ no la morbidezza. Possiamo dire che queste schematizzazioni mirano a essere decorative? Bisogna piuttosto vedere in esse un puro e semplice mezzo per tradurre la complicata varietà della natura. Bisogna vedere in ciò un tratto d’arcaismo o la sopravvivenza di un’arte più antica?

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L’impero greco-romano

L’arte di Paimira

No, è il contrario: semplificazioni di questo tipo sono sempre state l’u­ suale risorsa di artisti ancora inesperti che si sforzavano di elevarsi al li­ vello di un’arte più complessa.25 Si capisce allora che cosa ci porta a ritenere queste opere palmirene degni pezzi da Museo: il loro stile ibrido. Gli artisti locali hanno voluto imitare l’arte del ritratto greco-romano, ma la loro mano ha conservato vecchie abitudini, ereditate da un substrato orientale, e ciò li ha co­ stretti a ricorrere a falsi arcaismi per tradurre in una lingua più elemen­ tare il troppo elaborato naturalismo greco. Un’altra di queste semplifi­ cazioni è il «primitivismo» senza età rappresentato dalla frontalità. Questo carattere ibrido costituisce una sorta di originalità, che ci fa sorvolare su una qualità artistica abbastanza mediocre: crediamo di ri­ trovare qui una freschezza non accademica e il sapore raffinato di un manierismo. Quel che è fatale per un merito di questo tipo, è la ripeti­ zione: conosciamo attualmente un migliaio abbondante di busti palmireni e, a quanto constatiamo, spesso l’illusione cade e comincia la noia; la stessa cosa capita con l’accademismo greco-romano, per chi sfila lun­ go le gallerie del Vaticano. Carattere ibrido e sostrato indigeno distinguono Paimira dall’arte artigianale nel resto dell’impero, che è la messa in atto dello stile gre­ co-romano nelle mani di sbozzatori più o meno abili. Questo fatto sol­ leva una questione: l’arte popolare delle diverse province dell’impero fu un’arte nazionale? Ancora di recente, si vedeva in queste produzio­ ni uscite dalle mani di artigiani più o meno abili un’«arte provinciale» che, secondo alcuni, avrebbe preconizzato la futura nascita delle na­ zioni europee; in Gallia, per esempio, la goffaggine degli artigiani sa­ rebbe stata indicativa della permanenza di un substrato celtico e del­ l’annuncio dello stile romanico. Taluni archeologi italiani parlavano anche di un’«arte plebea», da essi opposta all’accademismo cosmopo­ lita e arcaizzante delle classi dominanti. In realtà, Ernest Will e un grande storico e critico d’arte, Meyer Schapiro, hanno dimostrato che i sostrati indigeni e l’originalità provinciale non esistevano;26 le goffaggi­ ni sono le stesse, sia che ci si trovi in Gallia, nell’Africa romana o in Pa­ lestina.27 Per giunta, sui bassorilievi artigianali (steli funerarie o ex voto), i trat­ ti detti «plebei» sono i medesimi che si trovano in Italia, nei primi due secoli della nostra era, e anche in Grecia, a partire dal IV secolo avanti Cristo, segnatamente la mancanza di eleganza, il modellato più goffo, la disparità di dimensioni delle figure per marcare la gerarchia fra di esse. Basta fare il giro di qualche Museo della Grecia, grande o piccolo, per constatarlo: tanto in Italia quanto nella Grecia stessa, l’arte popolare è la stessa e non si tratta di altro se non di arte ellenizzante goffamente realizzata.

Le «arti artigianali» nascono dalle grandi arti. «Il romanticismo na­ zionalista» scrive un archeologo tedesco «fa auspicare di trovare una qualche originalità indigena nelle arti provinciali d’età romana; allora, si corre il rischio di confondere una forma di primitivismo, o una man­ canza di abilità, con una sensibilità indigena originale» 28 Due archeo­ logi italiani che hanno studiato i ritratti della Tunisia concludono che il loro carattere provinciale si riduce a un modello più generico, più sem­ plicistico di quello dell’arte colta, e che queste opere non hanno alcun carattere specificamente africano.29 Ecco pertanto cos’era l’arte detta «provinciale»: una semplice dege­ nerazione della grande arte che dominava in tutto l’impero, salvo, par­ zialmente, in Egitto. Ma, appunto, non era questo il caso dell’arte palmirena che, da parte sua, sfuggiva al monopolio ellenizzante, avendo conservato un’originalità indigena. La ragione è che Paimira era uscita troppo tardi dal suo deserto; aveva mancato un primo incontro con l’ellenismo: dopo la conquista dell’Oriente da parte di Alessandro Ma­ gno, l’arte greca si era irradiata sino all’India, al Pakistan e all’Afghani­ stan, per far nascere ibridi greco-mesopotamici, greco-iraniani o greco­ buddistici, dove i bodhisattva ormai distrutti hanno il viso di Apollo. L’ibrido palmireno, da parte sua, nascerà solo tre secoli più tardi, quan­ do l’annessione di Paimira a Roma avrà fatto entrare la città nella cultu­ ra mondiale; l’arte palmirena avrà allora come modello l’arte imperiale «romana», quest’ultima provincia viva dell’arte ellenistica, secondo la definizione di Pierre Gros.30 In un’epoca ancora non lontana nel tempo, si classificavano rigida­ mente le arti in scuole nazionali (cosa che si continua a fare quando si oppone l’arte «romana» a quella greca) e si adottavano come frontiere artistiche le frontiere politiche: il modo migliore per spiegare i cambia­ menti artistici era quindi farli giungere dall’esterno e cercare di capire da dove provenissero; il diffusionismo era la grande chiave esplicativa e la domanda fu: «Oriente o Roma?». L’arte della tarda antichità e quella bi­ zantina dovevano molto —così si pensava —a influenze orientali, e si rite­ neva che la fine dell’arte antica fosse stata provocata da queste influenze. Si è ritenuto che, a sua volta, l’arte di Paimira provenisse dall’arte iraniana che era a essa contemporanea e vicina, da quell’arte partica che oggi sappiamo non esser stata la madre dell’arte palmirena, ma, piuttosto, sua sorella nella grande famiglia del Medio Oriente elleniz­ zato.31 In realtà, l’arte di Paimira, come quella dell’Hauran,32 non pro­ viene tanto da una regione vicina, quanto dal passato; poggia su un substrato mediorientale che era già vecchio di due millenni e sulla pla­ stica aramaica del primo millennio prima di Cristo; questa era un pat­ chwork di apporti venuti da tutto l’Oriente e non è molto cambiata si­ no alla conquista greca.

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Gettiamo quindi uno sguardo su quel che fu l’arte palmirena prima di imitare l’arte imperiale greco-romana, prima del tempo dei celebri ritratti funerari. Ecco una dea della Fortuna,33 con la sua corona turri­ ta, il viso informe, gli occhi enormi, le trecce simmetriche e le labbra atteggiate in un bacio o in un broncio. In un ritratto arcaico,34 la testa è solo un blocco sul quale sono stati piantati un naso e una bocca e so­ spese due orecchie e, quanto agli occhi sgranati fuori dalle orbite, ap­ pare chiaro che per l’artista non sono una parte del corpo come le al­ tre. Ritroviamo qui tutto l’antico mondo mesopotamico e siriano,35 con il suo monotono arcaismo; sotto i loro spessi abiti, i corpi erano sacchi informi, modellati come torri o campane. Decisamente, in natura vi so­ no gusti di ogni tipo: quest’arte del Medio Oriente parlava una lingua plastica che sorprende per il suo aspetto massiccio e insieme informe e per il suo insipido senso della realtà; e questa lingua contrasta in modo stupefacente con la stilizzazione congenita e irreprimibile dei suoi vici­ ni egiziani. Vi è qui un proposito deliberato di imporsi con il brutto e il massiccio, e di dimostrare così che l’arte non è la natura. Questa maldestra resa del corpo umano, infatti, non ha in sé nulla di ima goffaggine involontaria né intenzionale: è soltanto una lingua, una convenzione che regnava tradizionalmente in quella parte del mondo per rappresentare il corpo umano; un semplice elemento del vocabola­ rio plastico, e non un’espressione che sarebbe stata intenzionalmente voluta dagli artisti, richiesta da una mentalità o che esprimeva i riflessi della società. Rinviamo a Gombrich e al suo A cavallo di un manico di scopa: ogni grande regione dell’arte (l’Egitto, il mondo greco, l’Africa, il mondo maya) ha la sua peculiare lingua plastica, ha il suo modo pro­ prio di rappresentare la forma umana, la sua «parola», parola conven­ zionale e arbitraria (se posso azzardarmi a dire così) per «significare» il corpo umano, la sua «immagine concettuale».36 Quest’immagine tradi­ zionale dell’uomo può essere realistica, naturalistica, iconica, ma, il più delle volte, non lo è: deforma stranamente il corpo umano e ha con es­ so soltanto un’analogia più o meno remota, così come ogni caricaturi­ sta ha il suo modo personale di distoreere la figura umana. Nella lingua plastica greco-romana, l’immagine è naturalistica, ma non lo è in quella egiziana, in cui il busto è visto frontalmente, mentre la testa e le gambe sono di profilo, e nemmeno in quella romanica, con i suoi piccoli ometti. In effetti, prima di esprimere questo o quel signifi­ cato, gli artisti si esprimono in una «lingua nazionale», allo stesso mo­ do in cui un poeta scrive in francese o in tedesco. Per esempio, la fine dell’antichità greco-romana assiste al passaggio da un vocabolario na­ turalistico del corpo umano a un altro vocabolario che sarà, grossomo­ do, quello del medioevo. Questo mutamento di linguaggio plastico non esprime un cambiamento di mentalità, di sensibilità, di religione o di

società più di quanto il passaggio dal latino al francese e alle altre lin­ gue romanze non esprima la cristianizzazione dell’Europa o la sua feudalizzazione. L’arte intrattiene con la sua epoca rapporti mediati e non esprime la società con la stessa immediatezza con cui un viso esprime le emozioni. Fra tutte le immagini concettuali, quella iconica, naturalistica, foto­ grafica, ha un privilegio: quello della somiglianza con il modello, scrive Jean-Marie Schaffer;37 si pensa infatti che essa rappresenti il corpo umano così com’è. L’arte mondiale oscilla tra l’amore per un’immagine di tipo naturalistico, capace di cogliere la somiglianza con il reale e, dall’altra parte, il prestigio che si tributa all’arbitrarietà delle deforma­ zioni, convenzionali o caricaturali, che facevano capire allo spettatore africano o maya di essere entrato in un ambito privilegiato, in un mon­ do dominato dall’analogia, convenzionale e ingegnoso, quello della fin­ zione artistica. Del resto, nelle diverse società, le immagini soggette a deformazioni sono assai più frequenti di quelle realistiche, un fatto questo che invita a riflettere. Nell’arte romanica, con i suoi ometti tar­ chiati, avvertiamo non tanto un’epoca di fede semplice e ingenua quan­ to una sorta di allegria negli artisti, quell’allegria che viene, per l’ap­ punto, dal gioco della deformazione. In compenso, davanti alle produ­ zioni dell’arte naturalistica, sappiamo che gli osservatori antichi escla­ mavano: «Come è somigliante! Che sforzo nella resa!».38 Prima dell’influenza greco-romana, l’arte indigena della Paimira ar­ caica non si preoccupava molto di sforzarsi di ottenere effetti naturali­ stici. Eccone un esempio sconcertante sino alla bizzarria. Le cerimo­ nie religiose di Paimira prevedevano processioni, dove sfilavano don­ ne interamente nascoste sotto i loro veli, condizione necessaria perché si mostrassero in pubblico. Ora, un bassorilievo39 ce le mostra: esse non hanno nulla di reale, le definiremmo dei fantasmi senza viso che agitano le braccia sotto un ampio sudario. Per giunta, questi veli sono stilizzati in curve parallele e concentriche che somigliano alle isoipse dei nostri cartografi; all’altezza in cui il yelo dovrebbe scostarsi oriz­ zontalmente per lasciare intravedere gli occhi, si trova una virgola ver­ ticale. Alcuni trovano tutto questo di nessun valore artistico, altri lo trovano sublime, astratto e ritmico. In ogni caso, si tratta del prodotto di uno dei linguaggi plastici di quel tempo. In effetti, lo ritrovo, nella stessa epoca, in Iraq, ad Hatra, città araba ellenizzata per metà. Una statua di divinità40 porta la lunga barba con trecce propria dell’antico regno assiro e la corazza greca con cui la Siria e l’Egitto romani ag­ ghindavano i loro dèi; ai piedi del dio è accovacciata la Fortuna della città (è un soggetto diffuso nel mondo greco, quello della Tyche di An­ tiochia) che solleva molto in alto delle maniche, ampie come due ali e stilizzate, per così dire, in curve di livello. Il contrasto fra un procedi-

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mento così sommario e lo stile esperto del resto della statua mostra che non si tratta di goffaggine artigianale e che questo modo di rap­ presentare donne velate era una convenzione accettata. Come spiegare questo contrasto? Mi domando se non si tratti di un tabù religioso o sessuale: forse, almeno nelle scene cultuali, le donne dovevano essere rappresentate come qualcosa di distaccato dalla realtà, doppiamente velate, dal velo reale imposto loro dalla consuetudine, e dall’arte che le dissimulava sotto convenzioni antirealistiche. Apro una parentesi: ecco, al Louvre,41 un’altra siriana velata —dal momento che è fuori casa - raffigurata in un ex voto in cui è avvolta dalla testa ai piedi nei suoi veli, in modo che di lei si intraveda solo un occhio. Il marito, al contrario, è vestito alla foggia greca. Davanti al sancta sanctorum e al velo che, nei templi, nascondeva agli sguardi l’im­ magine degli dèi, questa donna e suo marito sono venuti ad adorare nel loro tempio Astarte e Adone, rappresentati come una coppia di amanti nudi e stretti in un abbraccio nello stile delle più suggestive nudità gre­ che: graziosa mescolanza, questa, di culture, di abiti e di sessismo.42 L’arte di Paimira non è stata il prodotto di una particolare scuola citta­ dina, come talvolta accadeva in quell’epoca (ad Afrodisia, per esempio): era, piuttosto, l’eredità composita di un millennio di arte mediorientale. Parlasca43 ha mostrato che altrove, in Siria, ritratti funerari poco cono­ sciuti avevano in sé i medesimi tratti ibridi ellenizzanti, depositati sul me­ desimo substrato orientale che si era esteso su una vasta zona, da una parte all’altra dell’attuale frontiera fra Siria e Turchia. Saranno i residui di questo substrato a ricomparire nei busti palmireni di epoca romana; vi si ritrova, credo, qualche elemento mesopotamico, qualcuno neo-ittita 44 siriano, persiano, fenicio e, attraverso questo, qualcosa di egiziano: tutto l’antico Oriente, insomma. È da questo lontano substrato indigeno che provengono, se non la frontalità, almeno gli occhi ipernormali, poiché, nelle arti mesopotamiche, gli occhi avevano d’abitudine una dimensione esagerata e un trat­ tamento convenzionale; ciò inizia con la statua di Gudea, al Louvre, antica di quarantadue secoli. Due millenni più tardi, sui ritratti di Pai­ mira, diventata romana, gli occhi resteranno troppo grandi. O, ancora, essi diventeranno ornamenti, prenderanno una forma a mandorla, avranno gli arabeschi lanceolati di una foglia d’albero, sempre più simi­ li a quelli delle figure che, cinque secoli prima, decoravano i palazzi dei re persiani, a Persepoli o a Susa: su lunghi fregi ripetitivi, si vedevano sfilare di profilo signori, arcieri, servitori o popoli debitori di tributi; questa monotonia era però compensata da occhi irresistibili, e dal det­ taglio, scrupolosamente reso, delle armi, dei vasi, degli abiti e dei gioiel­ li, come a Paimira. Ecco, infine, un’eredità fenicia: su parecchi ritratti palmireni, il modellato del viso non è particolareggiato, gli zigomi, i

muscoli e le pieghe della pelle ai lati del naso non sono messi in eviden­ za, e le guance sono lisce come un ciottolo levigato dallo scorrere di un fiume. Sono le stesse guance piatte dei sarcofagi fenici, dalla forma egittizzante 45 di Sidone e Cadice che ritroviamo nel Museo di Lione; basta vedere un sarcofago fenicio e un busto femminile di Paimira, esposti l’uno a fianco all’altro, per convincersi di questa filiazione. Si ammette che queste guance lisce estremizzino una delle tendenze dell’arte egi­ ziana: dare ai defunti un’apparenza di serenità. Substrato indigeno: questa parola è pronunciata tanto facilmente quanto «influenza straniera»; ma non può anche accadere che una stes­ sa cosa sia inventata da più parti, indipendentemente l’una dall’altra, o sia stata reinventata più volte? Accade proprio così, soprattutto quan­ do l’oggetto in questione non è tanto una convenzione quanto piutto­ sto una virtualità permanente e primaria. È il caso degli occhi da ma­ schera, così come della frontalità: sono procedimenti «primitivi», il che non significa popolari.46 L’arte popolare è la grande arte di un’epoca, passata però per mani inesperte, mentre il primitivismo ricorre a pro­ cedimenti che possono comparire in ogni tempo e in ogni luogo: rein­ venta effetti che mirano a colpire, effetti sommari, regressivi, ingenuamente semplici o, al contrario, espressionisti e colti, o, ancora, «pubbli­ citari», a seconda dei contesti. L’espressività primaria, infatti, è di per sé largamente indeterminata, lo vedremo. A Paimira (e così anche in Italia o in Gallia), convivono, fianco a fianco, substrato mediorientale, elemento popolare e primitivismo, e talora è concessa l’esitazione, poi­ ché, tra il substrato mediorientale e il primitivismo dei ritratti palmire­ ni, si parla più di reinvenzione perpetua, di continua creazione che del­ la continuità di una convenzione. Ci accingiamo, finalmente, a passare in rassegna i due procedimenti dettati dal primitivismo, frontalità e occhi da maschera, per cercare di sceverare in essi una parte di convenzione storica e una parte primaria, etologica. A differenza degli occhi affascinanti, la frontalità, da parte sua, non è stata ereditata dal substrato orientale, per la semplice ragio­ ne che le grandi arti orientali, arte egiziana inclusa, conoscono soltanto la narrazione di profilo. Nel resto del mondo, la frontalità è ignota al­ l’arte narrativa, a Borobudur, Angkor o Bonampak; fa eccezione Ra­ venna, dove però la frontalità ricorre per immagini di cortei, per foto di gruppo, oserei dire. Sconosciuta alla grande arte, quindi, e tuttavia, in.se stessa naturale, ovvia, facile a inventarsi in qualsiasi tempo e luo­ go, essa si riconduce a degli accomodamenti tra due generi icononografici: la narrazione, in cui il profilo si impone praticamente dovunque (poiché l’azione, per essere visibile, è sviluppata in larghezza), e il ri­ tratto, che è visto generalmente di fronte (o quasi). Piuttosto che di «ri­ tratti», diremo che si tratta di mettere in evidenza un essere importan-

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te, defunto, santo, eroe, dio. Nelle arti popolari, la si ritrova sporadica­ mente: vedremo che questo procedimento senza età è un processo espressivo che coinvolge affettivamente lo spettatore, ma a titoli diver­ si: può sollecitare l’adorazione come pure il voyeurismo. Effettivamen­ te, la sua espressività primaria è indeterminata, cosicché i suoi signifi­ cati possono completamente rovesciarsi, secondo il contesto. La frontalità, dicevamo, si trova dovunque. Nell’Italia romana, al Museo di Ostia, una terracotta funeraria47 (la donna è morta di parto) mostra una partoriente seduta su una sedia; una levatrice è accoccolata davanti a lei e, dietro a essa, una schiava la conforta. La scena è una «messinscena», non è fatta di elementi giustapposti; le figure si sovrap­ pongono, le loro braccia si intersecano. La partoriente sulla sua sedia è vista di profilo, come le altre due donne, ma tutte e tre volgono pateti­ camente il viso verso di noi, per mostrarsi e per rendere lo spettatore testimone della loro sofferenza. Come si vede, la frontalità intensifica l’elemento umano dell’azione, che ne è la parte più espressiva, allo stesso modo in cui i ritratti palmireni aumentano le dimensioni degli occhi. Il gusto popolare ama la frontalità per il suo human interest; su alcuni ingenui ex voto ateniesi, la divinità e il corteo di adoratori che vanno verso di essa in pellegri­ naggio sono visti frontalmente.48 In nome di quest’interesse, l’arte po­ polare può sacrificare la messinscena, che è l’elemento più difficile da realizzare. Le foto di inizio Novecento che perpetuano il ricordo di una drogheria o di un caffè non mostrano l’esercizio in pieno fermento: ri­ traggono la facciata del negozio, con il personale allineato sull’attenti sul marciapiede mentre guarda fisso l’obiettivo. Da una parte la scena dell’azione rappresentata, dall’altra i personaggi. Sedici secoli prima, un dipinto della già citata sinagoga49 mostra l’Arca santa che ha appena riportato la vittoria sul dio Dagon; la pittura parietale isola, giustappo­ ne e ci presenta sotto gli occhi i diversi elementi dell’azione: i portatori dell’Arca e i filistei rappresentati frontalmente, i pezzi dell’idolo infran­ to, i vasi sacri che stanno a terra. Enumerare gli elementi dell’azione è più facile che metterli in scena. Tuttavia, non si riscriverà certo la storia dell’arte antica per così poco. Del resto, nella grande arte, la frontalità sarebbe stata soltanto una moda durata due o tre secoli sulle rive dell ’Eufrate,50 da cui sarebbe sparita con l’arte sassanide;51 era restata estranea alla tarda arte imperiale, eccetto che sull’arco dei Severi a Leptis Magna, e tale resterà anche all’arte bizantina, salvo che a Ravenna. La frontalità sollecita l’osservatore con maggior intensità rispetto a una narrazione obiettiva; solennizza e attira l’attenzione con un effetto di sorpresa; l’immobilità degli attori sembra bloccare l’azione per con­ sentire di iniziare il dialogo. L’azione sospesa e la frontalità si ritroveran­ no un giorno in una celebre tela, I sindaci dei drappieri di Rembrandt.52

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Soprattutto, la frontalità mette l’osservatore in relazione con gli attori. Sul bassorilievo del tempio di Bel dove il dio combatte contro il mostro marino, i due campioni al cimento sono di profilo, ma cinque divinità che attendono il risultato di questa lotta non la stanno guardando, sono invece allineate di fronte a noi, sull’attenti: lo scultore ha voluto mo­ strarcele. Anche nelle forme artistiche narrative che utilizzano il profilo (o i tre quarti «teatrali», come fa l’arte greca), capita spesso che un personag­ gio isolato, dio o eroe, sia mostrato frontalmente. Questa frontalità par­ ziale concilia la narrazione (dove, come dicevamo, il profilo si impone, o quasi, per una ragione pratica di disposizione delle figure nello spa­ zio) con il ritratto o, piuttosto, con la messa in evidenza di un perso­ naggio importante, senza rompere tuttavia la messinscena. Su alcuni si­ gilli mesopotamici, verso il 2300 avanti Cristo, Gilgamesh affronta il bufalo; ora, l’eroe, benché sia, comprensibilmente, molto occupato e le sue gambe siano di profilo, volge il viso verso lo spettatore, come per prenderlo a testimone della sua prodezza. I ritratti funerari e le icone, quando sono frontali, mostrano il defunto, o un santo, di per se stesso, senza che sia impegnato in un’azione; lo spettatore, raccolto nella me­ ditazione, non si sente personalmente osservato; il dio o il defunto non 10 fissa, ma è presente per raccogliere la sua preghiera o il suo pio ri­ cordo.53 Nel foro romano, l’arco di Tito mostra il trionfo di questo im­ peratore su Gerusalemme. Il trionfatore sul suo carro è visto frontal­ mente - o quasi - con una torsione che pare scavare il rilievo, mentre i cavalli, beninteso, sfilano di profilo; si è qui voluta ossequiare una pre­ sunta originalità romana, la ricerca della spazialità, della profondità nel bassorilievo,54 ma l’impressione di profondità è dovuta soltanto al fatto che il viso del trionfatore è rappresentato frontalmente, per imporcelo nella sua maestà consegnandolo alla nostra curiosità. La frontalità sarà dunque ieratica? Propone di necessità un eroe, un dio o un dignitario alla nostra adorazione, oppure consegna altri perso­ naggi alla nostra curiosità, alla nostra pietà, persino alla nostra libido? Ovviamente, ciò dipende dal contesto, da come l’osservatore reagisce a queste immagini, e, di certo, l’espressività primaria è equivoca: senza dubbio, ma se ne può concludere senza indugio che essa non è essen­ zialmente mistica. Su un’anfora greca,55 l’eroe troiano Ettore si conge­ da dalla madre per andare a combattere e a morire; Priamo, afflitto, s’è voltato sino a mostrarci il volto per farci condividere il suo dolore. In un grazioso bronzo di Deio,56 la dea Artemide ci sfila davanti volgendo 11 suo viso sorridente verso di noi; è una donna graziosa, vestita di un abito corto, che sa di esser guardata e desiderata. Del resto, nemmeno l’arte narrativa che fa uso del profilo ha un sen­ so determinato, o non immediatamente: il contesto è l’unica circostan315

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za determinante. In Egitto, il profilo narrativo fa parte degli obblighi imposti dal linguaggio plastico di quel paese: gli artisti non potevano scegliere. Questo profilo non è necessariamente oggettivo, realistico e demistificante; al contrario, poteva accoppiarsi bene alla ieraticità. Lo scultore egiziano che ha messo in scena la vittoria di Ramses II era tan­ to poco obiettivo da avere rappresentato il faraone in scala più gran­ de, come un gigante tra i nani, che sono i suoi nemici e i suoi stessi sol­ dati.57 Ma la frontalità è di per sé così poco ieratica che, quando serve davvero che essa diventi tale e che lo spettatore ne sia impressionato, l’artista ricorre a un procedimento aggiuntivo: presta al personaggio che vuole mettere in evidenza una rigidità di cui sono prive le compar­ se intorno a lui, che, pur disposte frontalmente per appagare la curio­ sità dello spettatore, hanno delle pose variate e rilassate.58 Profilo e frontalità hanno un’espressività tanto indeterminata che i lo­ ro valori possono invertirsi. Su un vaso greco, una donna è rappresenta­ ta di profilo, mentre è la sua ancella, una schiava, dipinta in scala mino­ re, a essere vista frontalmente, non per venir messa in evidenza, ma, al contrario, «fuori gioco» 59 Su altri vasi, scrive la Frontisi-Ducroux, il vi­ so visto frontalmente squalifica personaggi ridicoli o in posizione di de­ bolezza.60 Infine, non esprimendo niente di per sé, la frontalità può es­ sere lasciata alla scelta dell’artista, che agirà secondo la sua convenienza. Sulle celebri steli funerarie del Museo di Atene, i defunti possono essere raffigurati di fronte quando sono in piedi (così nel «rilievo dell’Ilisso»),61 ma sono di profilo quando sono seduti,62 perché un sedile visto di profilo è più riconoscibile e perché, rappresentandolo di profilo, l’ar­ tista elude le difficoltà dello scorcio, della prospettiva (sforzo lodevole, ma ugualmente avvertito come una rottura con un «ontologismo» che mostrava le cose così come erano «in sé e per sé»). Allora, cosa determina la scelta tra la frontalità e il profilo? È un fat­ to che riguarda la convenzione o l’espressione naturale? Citiamo Henri Zerner: «I volti visti frontalmente o di profilo possiedono qualche pro­ prietà intrinseca che li predispone ad avere un certo significato simbo­ lico piuttosto che un altro? Il fatto che alcuni elementi possano rivesti­ re significati diversi in diversi momenti storici costituisce un argomen­ to tradizionalmente invocato per dimostrare la natura convenzionale del significato nell’arte».63 Da parte mia, mi pare che si tratti non tanto di convenzioni quanto di norme e indeterminazione: non entra qui in gioco la storicità delle norme espressive, ma, piuttosto, la molteplicità degli elementi che conferiscono a un’immagine la sua espressione e ne completano la vaga espressività. Tutto quel che si può dire della fronta­ lità è che essa chiama in causa l’osservatore. Ma per dirgli che cosa? L’espressività della frontalità o del profilo trova in effetti pienezza e completezza solo nella norma dell’epoca che opta per il volto visto di 316

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fronte o di profilo, e anche in altri elementi della scena, come per esem­ pio l’espressione dei volti (ricordo en passant che in certe epoche, in nome della «naturalezza», può anche non esistere alcuna norma in que­ st’ambito).64 Frontalità e profilo sono, molto semplicemente, quel che i linguisti chiamano «coppia oppositiva»; sono anche due «tecniche» narrative, e nulla più. In un’arte dominata dalla frontalità, si opererà una rottu­ ra con il ricorso al profilo. Laddove, al contrario, la convenzione do­ minante è il profilo, come nell’arte greca e in quella egiziana, la fron­ talità crea una rottura: mostrare un viso frontalmente, significa met­ terlo «fuori gioco» per evidenziarlo in meglio o in peggio. Questa parziale frontalità, limitata al volto (poiché il resto della scena, o an­ che il corpo del personaggio, resta di profilo), trae il suo valore sol­ tanto dall’opposizione alla norma. Rappresentando frontalmente le ancelle e le cortigiane, l’artista le isola per la loro indegnità, come pu­ re fa con Gilgamesh e Priamo per una diversa ragione, a causa del lo­ ro valore patetico: la prodezza di Gilgamesh e il dolore di Priamo fanno uscire questi eroi dallo spazio convenzionale del racconto di profilo; essi vengono a offrirsi ai nostri occhi nel nostro spazio, alla maniera di attori che lascino la scena del teatro per mostrarsi agli spettatori in platea. Dietro questa coppia oppositiva, i cui significati possono rovesciarsi, si avvertono quindi due tipi di narrazione, due modi diversi obiettivi di mostrare le cose. Il racconto di profilo è obiettivo: a noi, osservatori, sembra che esso ignori la nostra esistenza. Tale racconto pone i perso­ naggi su uno scenario teatrale, mentre noi, gli spettatori, restiamo con­ finati in platea; sulla scena, gli attori interpretano la loro parte e non si occupano di noi. Nelle rappresentazioni frontali, al contrario, i perso­ naggi sono rivolti verso di noi, sono consapevoli della nostra presenza e si collocano nel nostro stesso spazio immaginario. In un modo vaga­ mente analogo, un romanziere può scegliere se scrivere il suo romanzo in terza o prima. Ma, infine, cheuo spettacolo si svolga o meno tra il pubblico, che un romanzo sia scritto in prima o in terza persona, si tratta sempre di nulΓaltro che di «tecnica»: i sentimenti, felici o tristi, espressi dall’immagi­ ne o dal racconto non dipendono molto da ciò, e nemmeno la sua qua­ lità artistica. La vitalità dell’opera è altrove, non nella norma. Nella pit­ tura europea moderna e sulle steli funerarie attiche, lo sguardo che le figure frontali rivolgono allo spettatore non fa che invitarlo a dirigere la sua attenzione verso quel che la loro fisionomia esprime:65 la ragazza dipinta da Tiziano è come intimidita dal fatto di essere osservata, men­ tre il cavaliere di Géricault che si volge verso di noi e pensieroso, cerca di analizzare con distacco l’azione, nel bel mezzo del combattimento.66 317

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Nelle steli attiche, gli occhi sono lontani dall’essere inespressivi e aperti sul vuoto; le pupille sono state scavate e dipinte - talvolta in ros­ so, per convenzione.67 Avendo così attirato l’attenzione, le figure espri­ mono i loro sentimenti attraverso i loro atteggiamenti come Polissena che rivolge un tenero sguardo alla figlioletta morta.68 Sulla stele di Malthaké,69 come ha tenuto a scrivermi Odile Cavalier, una ragazzina defunta, circondata dai suoi cari, è vista frontalmente, indifferente e come esterna al dramma; ma sua madre, che la guarda di tre quarti, e la sorella maggiore (di profilo), che la tiene per mano, sono in un profon­ do raccoglimento; «qui il segno iconografico della frontalità raddoppia l’intensità del clima spirituale». Su questi rilievi funerari, «la frontalità fa appello alla compassione del passante, come fa anche l’epitaffio». Queste steli attiche, delle quali nessuna somiglia all’altra non sono dei capolavori, ma nemmeno produzioni artigianali; danno lustro a una terza categoria di oggetti, di cui non si può che sentire nostalgia: una produzione in serie di altissima qualità. Il turbamento che comunica­ no, la loro vitalità e anche l’abilità della loro esecuzione ci portano assai lontano (questo almeno secondo il mio gusto, che non tutti condivido­ no) dalla serie palmirena, con la sua frontalità rigida e inespressiva. Non più di quanto non lo faccia da sé sola la frontalità, gli occhi troppo grandi o trattati come un motivo decorativo, che furono cari al­ l’arte del Medio Oriente e di Paimira, non possono veicolare un mes­ saggio preciso. Taluni storici ritengono che, a partire dal momento in cui il cristianesimo avrebbe trionfato, questo procedimento avrebbe espresso la nuova spiritualità.70 In realtà, questi occhi furono invece co­ muni alle opere popolari pagane71 e cristiane; non sono occhi di mona­ ci o di vescovi, ma, come ripeteremo più avanti,72 di imperatori, gover­ natori, generali o semplici amministratori municipali; indicano che questi personaggi pubblici avevano una grande interiorità e svolgevano con impegno le loro funzioni o, molto semplicemente, attirano 4’attenzione su queste importanti persone. Ma personaggi minori e semplici privati avevano occhi non meno grandi. Gli stessi occhi, in effetti, si ri­ trovano nei ritratti del Fayyum e in quelli di Pompei, che sono naturali­ stici ma anche artigianali. Gli occhi grandi erano semplicemente un mezzo primitivo per intensificare l’effetto di un viso; per tutti, compre­ si i nostri animali domestici, un viso è una superficie, eccetto gli occhi che sono dei fori su di essa. Fare del viso umano una maschera è una tentazione alla quale resistono soltanto arti raffinate e nemiche degli ef­ fetti espressionisti o troppo sommari. Il procedimento colpiva violente­ mente gli artisti del rinascimento: Vasari73 chiamerà sdegnosamente «occhi spiritati», gli occhi esagerati di certe icone nell’arte bizantina. Per tutti gli uomini, e per alcuni animali, è lo sguardo quel che attira e fissa l’attenzione. Gli occhi esagerati non rispondono a un’intenzione

determinata, ma servono semplicemente a provare che l’individuo che abbiamo davanti a noi ha una vita propria, e questa vita è impressio­ nante e intensa. La loro vera funzione è analoga, con minore raffinatez­ za, al sorriso della Gioconda74 o a quello delle korai dell’acropoli di Atene: suggerire che vi sia un pensiero dietro i muscoli del viso. Que­ sto procedimento primitivo è tanto allettante che lo si può ritrovare in qualsiasi tempo e luogo; per esempio nella Siria musulmana, come di­ mostra la statuaria dei palazzi omayyadi.75 Tre secoli dopo l’inizio della nostra era, gli occhi esagerati erano diventati cari a un’altra arte troppo colta e stanca di essere tale, quella della fine del mondo antico, talvolta di seconda categoria per degnazione (è uno dei suoi aspetti miscono­ sciuti). Vi si è voluta vedere un’influenza orientale, addirittura palmire­ na. Ma ciò è assurdo: cinque secoli prima della nostra era, nell’Italia preromana dove il nome stesso di Paimira era sconosciuto, ecco - oggi al Museo di Capua - l’ex voto di ima madre che tiene i suoi sei figlio­ letti sulle ginocchia: la sua frontalità, la sua rigidità, le pieghe del suo abito, schematicamente rese, il suo viso informe e gli occhi esageratamente grandi non hanno né luogo né tempo. Al Museo di Palestrina, in un’opera risalente al II ο I secolo avanti Cristo, una dama, con i suoi gioielli e i suoi occhi immensi che disegnano un arabesco, potrebbe passare per palmirena.76 Il procedimento si avviava verso un crescente successo. A partire dai primi anni del III secolo dopo Cristo, una pittura, recentemente sco­ perta a Narbona,77 sembra essere molto importante per la storia del­ l’arte: rappresenta, a mio parere, un genio familiare, il Bonus Eventus, genio di tutto ciò che finisce bene, oppure genio protettore della casa. Questo dio è rappresentato in posizione sbilanciata, appoggiato sulla gamba sinistra, con i piedi divaricati, secondo lo schema consacrato, ma i suoi occhi ovali e cerchiati non hanno nulla di accademico. Si in­ dovina che questo disegno sommario degli occhi sta trasformandosi in qualcosa di meccanico, senza più nulla di intenzionale, che diventa un semplice fatto di vocabolario plastico, una parola della lingua popolare delle im m a g in i che finirà per passare nella grande arte, alla maniera di una parola gergale a poco a poco insinuatasi nella lingua corretta; gli occhi enormi e cerchiati diverranno la maniera convenzionale e norma­ le di rappresentare il volto umano. Così nascono e si sviluppano le lin­ gue plastiche. È per questo, a quanto mi sembra, che questi occhi esagerati non possono da sé soli tradurre una spiritualità nuova né rispondere al pre­ teso bisogno di esprimere una nuova sensibilità:78 vi sono cose che le forme plastiche non possono dire da se stesse. Le immagini non sono un linguaggio ,79 una forma plastica non è mistica di per sé, un ritratto può essere allucinato dalla consapevolezza dell’Assoluto solo in virtù

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della sua iconografia o dell’espressione delle fisionomie dei personaggi, anch’essi allucinati. Gli occhi dei ritratti palmireni non sono mistici, perché non appartengono a fisionomie di individui in preghiera o in estasi. L’espressività delle forme, come quella dei colori (l’arte non fi­ gurativa ne ricava la sua capacità di emozionare) e, forse, quella della musica (fintantoché non si accompagna all’espressione che la voce umana comporta), si limita a variazioni della vitalità comuni agli ani­ mali superiori, agli uomini e ai loro bambini; vi troviamo il benessere dato dall’armonia, la tranquillità, il turbamento, l’intensità, la malinco­ nia, l’inquietudine, l’elevazione, quel che stride e quel che è aspro, la violenza e l’allegria.,. Facciamo un esempio. Un quadro può mostrare un mondo strano ove figure irreali, dall’apparenza convulsa e dalle teste minuscole, si al­ lungano e si torcono come fiamme, dove le luci sono vacillanti, dove i colori sono colate di lava fredda e aspra, ma non può essere «mistico», quand’anche lo fosse stata l’intenzione del pittore: è soltanto espressio­ nista. Si è sovente classificato come mistico, nonché estatico, il Martirio di San Maurizio di E1 Greco, ma questo è accaduto per via del soggetto, e questi sistemi qualificativi non potrebbero applicarsi alla Veduta di Toledo. La bizzarria e l’intensità delle tinte, la violenza delle deforma­ zioni e semplificazioni anatomiche traducono sicuramente la forza di un sentimento, ma quale? Lo dicono unicamente il soggetto del quadro e il suo titolo, e le fisionomie estasiate delle figure, ma il modo di dipin­ gere non lo può dire. Allo stesso modo, il mondo di Tintoretto è biz­ zarro al pari di quello di E1 Greco, che a lui si ispira; questo mondo senza più equilibrio, con le sue figure oblique, è definito come mistico soltanto quando il soggetto del quadro si presta a ciò; mentre, per esempio, è soltanto angosciante nel San Giorgio e il drago della Natio­ nal Gallery. Ancora una parola. Si cerca il fondamento dell’arte nella verità del­ l’Essere o nell’eternità, ma si potrebbero anche cercarne le radici nel­ l’animale uomo, poiché i nostri slanci più ardenti verso l’arte e la sua bellezza si indirizzano, nondimeno, verso quell’arte che è sempre un gioco, un’ingegnosa menzogna, che mente dal momento che esiste. Una volta mi è capitato di osservare un bimbo di sette o dieci mesi che, a se­ conda delle circostanze, presentava due tipi di sorrisi ben distinti (i visi infantili esprimono le loro emozioni con una nettezza da disegno tridi­ mensionale). Uno dei sorrisi formava sul labbro inferiore un mezzo cer­ chio convesso, bombato come una volta, poiché le commessure fra le labbra si lasciavano cadere verso il basso; l’altro sorriso ne era il sim­ metrico inverso: formava un incavo sul labbro superiore, mentre le commessure delle labbra si tendevano verso l’alto per formare un mez­ zo cerchio concavo. E sorriso bombato rispondeva all’apparizione pie­

na di promesse di un biberon, donando al bambino l’espressione del più semplice e ingenuo appagamento. In compenso, il sorriso concavo, incavato, donava bizzarramente a quel bambino. Damien, l’aria di un uomo di spirito che ha appena ascoltato uno scherzo pungente e che l’assapora con aria complice; questo sorriso che viene dallo spirito era suscitato da un’immagine: su un tovagliolo che gli stendevo davanti agli occhi era impresso in colori vivaci il viso di un grosso leone falsamente feroce, dai tratti quasi umani.80 Da quell’osservazione in poi, sono tentato di intravedere una filoso­ fia dell’estetica in questi due sorrisi tanto diversi; di opporre la realtà, con il suo sorriso ingenuo di benessere, all’arte, con il suo sorriso spiri­ tuale di piacere davanti a uno spettacolo ingegnoso.

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Una di queste tombe, con tutte le sue sculture, è stata trasportata nel Museo di D a­ masco. Per esempio, in E. Will, Les Palmyréniens, cit., fìg. p. 113; altri begli esempi in Syrie, mémoire et civilisation, Paris 1993, p. 296 figg. 235 e 236, o in I. Browning, Palmyra, Park Ridges 1979, p. 39. J. Dentzer-Feydy e J. Texidor, Les Antiquités de Palmyre au musée du Louvre, cit., p. 241, n. 234. A. Riegl, Der moderne denkmalkultus, Wien-Leipzig 1903 (trad. it. I l culto moder­ no delle immagini, Nuova Alfa, Bologna 1985). J.P. Cornetti, «Pour en finire avec la métaphore», in Poésie et Philosophie: rencontres deMarseille, Farrago 2000, pp. 105-120. O.J. Brendel, Etruscan Art, Harmondsworth 1978, pp. 393-394; R. Recht, Le Croire et le Voir: l'art des cathédrales, Paris 1999, pp. 346-347 e 368-374. Non ho potuto reperire nelle biblioteche universitarie francesi l’opera di J . D. Breckenridge, Likeness: A Conceptual History ofPortraiture, Evanstons 1968. G. Simmel, Das lndividuum und die Freiheit, Berlin 1864, p. 126. R. Recht, Le Croire et le Voir, cit., pp. 368-374. Il re di Francia Filippo il Bello, all’inizio del XIV se­ colo, fece porre nel suo palazzo i ritratti, evidentemente immaginari, dei re suoi predecessori da Faramondo in poi (ibid., p. 337). M.A.R. Colledge, The Art of Palmyra, cit., p. 62 e figg. 62 e 63; cfr. H. von Gali, in T. Kraus, Das rom'ische Weltreich, Berlin 1967, p. 295, n. 403 A. I. Browning, Palmyra, cit., p. 38; D. Strong, Roman Art, Harmondsworth 1988, p. 67. Les Antiquité-de Palmyre au musée du Louvre, cit., p. 79. A. Sartre Fauriat, Des tombeaux et des morts: monuments funéraìres, société et cul­ ture en Syrie du Sud, Beyrouth 2001,1 .158, voi. II, pp. 22,32,57,64,111-113,117, 137,199,232. Ringrazio Odile Cavalier, che mi ha fatto conoscere questo libro. Come esempio di queste interpretazioni e sulla questione della somiglianza, H. Belting, Bild-Anthropologie, Munchen 2001, indice sotto la voce «Ahnlichkeit», e capitolo 6, «Bild und Tod». Si veda per esempio N. Sailby, L’hypogéé de Sassan a Palmyre, «Damaszener Mitteilungen», VI, 1992, p. 267, e taw. 44-58: cinquantuno busti degli anni 150-250 la

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cui espressione è variata - impassibile, sveglia, serena e piena di benevolenza... E s­ si guardano fissamente davanti a loro nel vuoto, o levano appena gli occhi al cielo, o ruotano appena la testa sul fianco. Ma il modellato delle guance è quasi sempre sommario; il naso è piantato come un vomere nella superficie piatta delle guance lisce e del modellato delle mascelle. J, Starcky e M. Gawlikowski, Palmyre, cit., tav. XVII, 2; E. Will, Les Palmyrértiens, cit,, figg. pp. 96 e 100; M.A.R. Colledge, The Art ofPalmyra, cit., fig, 102; R Ghirshman, Parthes et Sassanides, Paris 1962, p. 78, fig. 91. J. Dentzer-Feydy e J. Teixidor, Les Antiquités de Palmyre au musée du Louvre, cit., p, 231, n. 224. Menzioniamo anche un busto celebre di dama paffuta, dal viso lar­ go e dalle guance piene e sensuali, custodito nella gliptoteca Ny Carlsberg di Co­ penaghen. Il suo viso dalla freschezza infantile fa sì che si sia arrivati ad attribuire questo ritratto a una influenza dell’arte greca con rimandi ai freschi e paffuti visi dell’arte buddista. Si veda in H. Ingholt in Palmyre, bilan et perspectives, cit., p. 106, n. 20; M.A. R Colledge, The Art ofPalmyra, cit., pp. 71 e 120, e fig. 89; I. Browning, Palmyra, cit., pp. 38 e fig. 7; cfr. Dentzer-Feydy e J. Teixidor, LesAntinquités de Palmyre au musée du Louvre, cit., pp. 79 e 231. L a civiltà romana è stata una parte importante della cultura ellenistica, scrive E. Norden, Die romische Literatur, Leipzig 1912 (1954), p. 22; (trad. it. La Letteratura Romana, Laterza, Roma-Bari 1984, p. 20); cfr. P. Veyne, Uhellénisation de Rome et le problème des acculturations, «Diogène», n. 106, aprile-giugno 1979; L’Élegie érotique romaìne, cit., p. 25. Il linguaggio dell’arte plastica romana - o, del pari, gli «ordini» della sua architettura - non si distingue dal linguaggio greco come se ne distingue, per esempio, il linguaggio dell’arte egiziana. Meglio sarebbe pertanto parlare, con André Chastel, di una koinè greco-romana e di un’arte imperiale, piut­ tosto che di arte romana. Tuttavia, mi faceva notare un giovane liceale di nome Damien, i romani non si identificavano con i greci, ma piuttosto accadeva il contrario; non più di quanto i giapponesi si identifichino con gli occidentali: sono loro uguali. Di questo ho avu­ to la conferma, vent’anni dopo, leggendo T. Kosakai, L’Étranger, l’identité: essai sur Vintégration culturelle, Paris 2001. Un esempio precipuo è quello di Catone il Censore, nemico proverbiale dell’in­ fluenza greca: Catone, tuttavia, è grecizzato a sua insaputa, e racconta le origini del popolo romano ricalcando i metodi della storiografia greca delle origini. Allo stes­ so modo, gli slavofili che, attorno al 1840, rivendicavano l’originalità dello spirito russo e condannavano l’imitazione dello straniero lo facevano prendendo a presti­ to dottrine straniere; «è dalla metafisica tedesca, dalla logica e dalla filosofia della storia di Hegel che gli slavofili moscoviti hanno preso le loro idee» (A. Leroy-Beaulieu, L’Empire des tsars et les Russes, Paris 1990, p. 163). The Excavations at Dura-Europos, Final Report, V ili, 1: C.H. Kraeling, The Synagoge, cit., tav. LXXV II. Riproduzione in D. Schlumberger, L’Orient hellénisé, cit., p. 110. Si veda per esempio in P. Ariès e G . Duby (dir.), Histoire de la vie privée, cit., t. 1, p. 183. Numerosissimi esempi in E. Pfuhl e H. Mobius, Die ostgriechischen Grabreliefs, cit. Si veda per esempio Mémoires d’Euphrate et d’Arabie, cit., p. 104; H. Stierlin, Cités du désert: l’art antique au Proche-Orient, Fribourg 1987, p. 161, fig. 137; Syrie, mémoire et civilisation, cit., p. 299, n. 238; A. Sadurska in Palmyre, bilan et perspecti­ ves, cit., tav. IV. H. Seyrig, Antiquités Syriennes, cit., II, p. 75. 322

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A. Malraux, Psychologie de l’art: la création artistique, cit,, p. 18. M. Schapiro, The sculpture of Mossale, London 1985 che dà come esempi, senza nominarli, la rigidità ieratica di Paolo Uccello o di Piero della Francesca assimilan­ do la prospettiva, e i violenti contrasti luminosi di Georges de La Tour assimilando il chiaroscuro. M. Schapiro, Late Antique, Early Christian and Mediaeval Art: Selected Papers, New York 1979, pp. 20-23; E. Will, «L a Syrie Romaìne entre l’Occident gréco-romain et lOrient parthe», in Le Rayonnement des civilisations grecques et romaine sur les culturespériphériques, Paris 1963, p. 511, ripreso in Id., De l’Euphrate au Rhin, cit., pp. 766 e 775; A. Grabar, Le tiers monde de l’Antiquité à l’école de l’art classique et son róle dans la formation de l’art du Moyen Age, «Revue de l’art», 18,1972, p. 13. J. Trilling, Late Antique and Sub-Antique, or thè «decline o f form » reconsidered, «Dumbarton Oaks Papers», 41,1987, pp. 469-476: a est come a ovest e nel corso dei secoli l’arte definita popolare è soltanto «il più basso livello della tradi­ zione greco-romana»: steli della Ghorfa, mosaici delle tombe cristiane in Tunisia o di Beth Alpha in Israele, sculture e tessuti «copti». H. von Petrikovits, Beitrdge zur rómischen. Geschichte und Archàologie, Bonn 1976, Π, p. 412. E. Esquini Schneider e L. Bianchi, citati nel «Journal of Roman Archaeology», 6, 1993, p. 294. Nella «Revue des études latines», 56,1978, p. 315. Cfr. R R .R Smith, HeUenisticSculpture, London 1991, p. 227; elo studio decisivo di E. Will. Art parthe et art grec», ripreso in De l’Euphrate au Rhin, cit., p. 783: le pitture della sinagoga e del tempio di Bel a Dura-Europos non testimoniano, con la loro frontalità, uno dei tratti caratteristici dell’arte iranica sotto gli arsacidi, ma un semplice fatto di primitivismo. G. Bolelli, «L a ronde-bosse de caractère indigène», in J.M . Dentzer (dir.), Hauran, I: recherches archéologiques sur la Syrie du Sud, Paris 1986, voi. 2, p. 345. E. Will, «L a Syrie Romaìne entre l’Occident gréco-romain et l’Orient parthe», in Le Rayon­ nement des civilisations grecque et romaine sur les cultures périphériques, cit., p. 511, ripreso in Id., De l’Euphrate au Rhin, cit., p. 7 6 6 .1 cataloghi dei musei di Suweida, di M. Dunard (Le Musée de Soueida, inscriptions et monuments figurés, 1934) e di Damasco, di S. e A. Abdoul-Hak (Damasco, 1951), pp. 56-66, e di M. Abu-l-Faraj al-Ush (Damasco, s.d.), pp. 105-115. In J. Starcky e M. Gawlikowski, Palmyre, cit., tav. X III, 4, o in G . Degeorge, Palmyre, métropole du désert, Paris 1987, p. 110. H. Seyrig, Sur quelques sculptures palmyréniennes, «Syria», 38,1937, in particolare P- 32. Si veda, per esempio, nel Nord est della Siria, una grande statua di uomo con una iscrizione assiro-aramaica, all’incirca dell’800 avanti Cristo: enormi occhi a man­ dorla, oggi infossati, in Syrie, mémoire et civilisation, cit., p. 260, n. 225; ad Am­ man, (l’antica Filadelfia), una statuetta sorridente e informe, dagli enormi occhi at­ tualmente scavati, di un re ammonita risalente al 700 avanti Cristo circa (La Vote royale: 9000 ans d’art au royaume de ]ordanie, Musée du Luxembourg, Paris 19861987, p. 105, n. 129 e tavola di fronte a p. 96); la «dea dei pesci» (Dercéto) di Khirbet Tannùr, in Giordania, di epoca ellenistica, con il suo viso, gli occhi esorbitanti e con la bocca stilizzata (ibid., p. 173, n. 205 e tavola di fronte alla p. 105). Verso l’anno 100-150 della nostra epoca, i Dioscuri di Petra sono «trattati secondo lo sti­ le locale: frontalità, grandi occhi a mandorla, naso e bocca (informe o convenzio­ nale) come giustapposti su un viso piatto, boccoli di capelli informi e ripetitiva­ 323

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mente identici» (cfr. L. Nehmé e F. Villeneuve, Pétra, métropole de l'Arabie anti­ que, cit., p. 118, fig. 69). E. Gombrich, Meditations on a Hobby Horse and Other Essays on thè Theory o f Art, London 1963 (trad. it. A cavallo di un manico di scopa: saggi di teoria dell’arte, Leonardo Arte, Milano 2001). Sull’«immagine concettuale», secondo la definizio­ ne dell’egittologo Heinrich Schàfer, cfr. E.H. Gombrich, Art and Illusion, London 1974 (trad. it. Arte e illusione: studio sulla psicologia della rappresentazione pittori­ ca, Leonardo Arte, Milano 2003); sulla scarsa cura per la somiglianza (dal momen­ to che prevale su tutto la cura per il fluire della narrazione), cfr. ibid. Pourquoi la fiction?, Paris 1999, p. 114. Si pensi all’ammirazione delle Siracusane nell’idillio di Teocrito che porta questo stesso titolo. Ma non così per Pascal, secondo il quale: «Che vanità è la pittura, che attira l’ammirazione per la somiglianza delle cose di cui non si ammira l’originale». In R. Ghirshman, Parthes et Sassanides, cit., p. 84, fig. 96. Ibid. p. 1, fìg. 1; o D. Schlumberger, L’Orient hellénisé, cit., p. 143. Cfr. P. Veyne in P. Ariès e G. Duby (dir.), Histoire de la vieprivée, cit., voi. I, p. 287, fig. L’esecuzione tradisce la mano di un artista greco o completamente ellenizzato, che si è compiaciuto nel rendere l’esotismo dell’abito femminile. L a stessa curiosità per gli abiti e le calzature esotiche si ritrova nelle prime statue di romani eseguite nel­ l’Oriente greco sotto la repubblica. Cfr. K. Tuchelt, Friihe Denkmàler Roms in Kleinasien, cit., I, p. 102. K. Parlasca, Syrische Grabreliefs hellenistischer und ròmischer Zeit, «Trierer Winckelmannsprogramme», 3,1981, pp. 6 e 13, e cfr. inoltre un articolo dello stes­ so autore che conosco solo dal «Bulletin épigraphique» di J . e L. Robert, n. 680, 1971. Così in una stele neoittita aramaicizzante che rappresenta una coppia dai grandi occhi (Museo di Adana) in E. Akurgal, Civilisation et sites antiques de Turquie, Istanbul 1986, p. 15 e p. 90 B. Cfr. per esempio il catalogo 1fenici, curato da S. Moscati (mostra di Venezia), Bom­ piani, Milano 1988, pp. 293-299. W. Donna, Du miracle grec au miracle chrétien: classiques et primitivistes en art, Bà­ ie 1946, II, passim, citato da E. Will, De l’Euphrate au Rhin, cit., p. 768. Rilievo dell’Isola Sacra. Cfr. W. Helbig, Fiihrer durch die óffentlichen Sammlungen klassischer Altertùmer in Rom, cit., ed. del 1972, IV, p. 14, n. 3004; J. Martin, Das alte Rom, Giitersloh 1994, p. 332; P. Zanker, Un'arte per l’impero: funzione e inten­ zione delle immagini nel mondo romano, Electa, Milano 2002, p. 147; P. Veyne in P. Ariès e G. Duby (dir.), Histoire de la vie privée, cit., 1 .1, fìg. p. 24. K. Papaioannou et al., L’art grec,.Paris 1972, fig. 646. L a stessa cosa a Pompei, in via dell’Abbondanza, nella pittura raffigurante un corteo di adoratori di Cibele. Ma, nei due casi, gli atteggiamenti sono vari, morbidi e naturali, senza ieraticità. The Excavation at Doura-Europos, Einal Report, V ili, 1: C.H. Kraeling, The Synagoge, cit., tav. LVI; R Ghirshman, Parthes et Sassanides, cit., p. 286, fig. 367. E. Will, De l’Euphrate au Rhin, cit., p. 763: l’arte partica (ma non l’arte sassanide del HI secolo), tra l’inizio della nostra era e il 240, è dominata dalla frontalità siste­ matica. H. Seyrig, Scripta varia, cit., p. 252: non si tratta di «un tratto assolutamen­ te distintivo dell’arte dell’impero panico», ma è assai diffuso presso di loro - Dura, sculture rupestri partiche, India, Turkestan cinese. Sui rilievi dell’investitura di Ardechir I a Firuzabad, nel trionfo di Sapore su Valeriano a Naqsh-i-Rusten e a Bishapur, e, nel IV secolo, nell’investitura di Ardechir 324

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Π a Taq-i-Bostan, tutti sono di profilo, dio e sovrani compresi. Cfr. K. Erdmann, Die Kunst Irans zur Zeit der Sassaniden, Mainz 1969, taw. 19-23; R. Ghirshman, Parthes et Sassanides, cit., p. 190, fig. 223. Nel V secolo, nei rilievi di Taq-i-Bostan, nella cerimonia di investitura di Peroz (ibid., fig. 235), si nota la maestosa vi­ talità delle figure, la vivacità quasi eccessiva dei loro gesti e anche la sensazione tifila consistenza del corpo sotto gli abiti e quella mescolanza di ieraticità e vita­ lità, dal momento che si evita la frontalità: le figure dritte davanti allo spettatore, con i piedi rappresentati frontalmente, mentre volgono appena la testa l’una verso l’altra, come fanno sul palcoscenico due attori che dialogano di fronte al pubbli­ co. Accade una cosa analoga a Dura, nella pittura del sacrificio offerto dal tribuno Terenzio: tutti i corpi sono rappresentati di profilo per metà, e soltanto le teste frontalmente. Notiamo un dettaglio che la dice lunga sull’origine occidentale di quest’arte ufficiale: nel grande iwan di Taq-i-Bostan, le Vittorie che tengono una corona sulle pietre angolari sono di iconografia e di stile imperiale romano, come sull’arco dei Severi nel foro. L a cui frontalità pone un problema difficile: H. Wòlfflin, Gedanken zur kunstgeschichte: Basel 1947. Cfr. E. Will, Le relief cultuel gréco-romain, cit. p. 233; H. Wòlfflin, op. cit. Si tratta dell’analisi che nel 1985 Wickhoff fa di questo rilievo in Die Wiener Genesis. J.D . Beazley, Attic Red-Figure Vase-Painters, 1036/1. Pubblicato nei Monuments Piot, XVIII; in G . Neumann, Probleme des griechischen Weihreliefs, Tiibingen 1979, fig. 52; o nell’articolo «Artemis» del Lexicon iconographicum mytologiae, n. 1027. L’arte popolare greca faceva lo stesso: su degli ex voto ingenui, o falsamente inge­ nui, il corteo dei fedeli avanza verso un dio le cui dimensioni sono superiori alle lo­ ro. Basta scorrere G . Neumann, Probleme des griechischen Weihreliefs, cit., e U. Hausmann, Griechische Weihreliefs, Berlin 1960. Così, a Dura, sulla pittura muraria del sacrificio offerto dal tribuno Terenzio alla Fortuna di Dura e a quella di Paimira (F. Cumont, Fouilles de Doura-Europos, Pa­ ris 1926, tav. L), i soldati, nei loro atteggiamenti e nella posizione dei piedi, non sembrano affatto fissi sull’attenti. Nel sepolcro degli Aureli, a Roma tutte le figure stanno sullo stesso piano, frontali rispetto all’osservatore, ma con naturalezza e va­ rietà (E. Nash, Bildlexicon zur Topographie des antiken Roms, Tiibingen 1962, II, p. 315, fig. 1080). A Ravenna, in San Vitale, l’atteggiamento ieratico di Giustinia­ no, Teodora e Massimiano contrasta con la frontalità meno rigida delle comparse intorno a loro. Lekythos ateniese, citata da M. Shapiro, «Frontal and profìle as symbolic forms», nella sua raccolta Words, Scripts and Pictures: Semiotics o f Visual Language, New York 1966, p. 83 e fig. 31; cfr. anche pp. 55 e 61. F. Frontisi-Ducroux, «Eros, desire, and thè gaze», in N.B. Kampen (ed.), Sexuality in Ancient Art, Cambridge 1996, pp. 86-89. C.W. Clairmont, Classical Attic Tombstone, Kilchberg 1993, n. 2950. Devo la co­ noscenza di questa pubblicazione fondamentale a Odile Cavalier. Basta scorrere A. Conze, Die attischen Grabreliefs, Berlin 1922, IV, o A. Muehsam, Attic Grave Reliefs from thè Roman Period, «Berytus», 10,1952-1953, pp. 53-112. L a frontalità appare di regola nei rilievi funerari ellenistici; cfr. E. Pfuhl e H. Móbius, Die ostgriechischen Grabreliefs, cit., I, pp. 44 e 74. H. Zemer, Écrire l’histoire de l’art: figures d’une discipline, Paris 1997, p. 93. H. Wòlfflin, Kunstgescbichtliche Grundbegriffe, Basel 1984 (trad. it. Concetti fonda-

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L'arte di Paimira

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mentali della storia dell’arte, Tea, Milano 1994): all’arte classica è consentito soffer­ marsi su altri tipi di vedute rispetto alla frontalità e al profilo; queste vedute non so­ no meno presenti e rafforzano in noi il sentimento di una norma. Quel che conta non è la percentuale delle presentazioni puramente frontali nel ritratto del XVI se­ colo, ma il fatto che questa modalità di rappresentazione dei personaggi fosse natu­ rale per Holbein, mentre Rubens la considerò in seguito come contraria alla natura; lo stesso autore ritiene che nell’arte classica, vi siano molti esempi di sfondamento del piano, ma l’essenziale è che lo spettatore sia consapevole di questa rottura. Non è indispensabile che tutto si ordini su un solo piano; quel che conta è che l’anomalia sia sentita come tale. W. Clairmont, Classical Attic Tombstones, cit., I, p. 126. Ibid., pp. 125 e 128, n. 16. Ibid., p. 122, η. 1. Si sa che la policromia della scultura greca era largamente con­ venzionale. Ibid., p, 123. Ibid., tavole, fig. 3846. Così A. Grabar, Martyrium, Paris 1946, II, p. 42: gli occhi troppo grandi della tar­ da antichità sono diventati il «mezzo per intravedere l’anima dell’uomo». Per esempio, R. Bianchi Bandinelli, Roma: la fine dell’arte antica, Feltrinelli, Mila­ no 1970, p. 285, fig. 261. Facciamo subito riferimento a R.R.R. Smith in «Journal of Roman Studies», 87, 1997, pp. 194-195; 88,1998, pp. 57-61; 89,1999, p. 185. Citato da A. Chastel, L’Italie et Byzance au temps de Laurent le Magnifique, Paris 1999, p. 73. Sorriso interpretato così come «simbolo della realtà psichica» da A. Chastel, Art et Humanisme à Florence, Paris 1959, p. 434 (trad. it. Arte e Umanesimo a Firenze al tempo di Lorenzo il Magnifico, Einaudi, Torino 1964). Nel palazzo di Khirbet al-Mafdjar; M. Barrucand, «L a civilisation des débuts de l’Islam», in Mémoires d’Euphrates et d’Arabie, cit., pp. 202-203 e 205. Di questa rappresentazione non ho foto disponibili al momento. Un altro esempio in R. Bianchi Bandinelli, Etruschi e Italici prima del dominio di Roma, Rizzoli, M i­ lano 1993, p. 125, fig. 145; su Palestrina p. 334, fig. 380. M. e R. Sabrié e Y. Solier, La maison à portiques du Clos de la Lombarde à Narbonne, Paris 1987, in particolare p. 322. Sull’altare degli Antisti, nel Museo di Guelma, vi è un genio simile, che tiene anch’egli in mano una cornucopia, e l’iscrizione dice: « Genio domus sacrum» (H. Dessau, Incriptiones Latinae selectae, 1901; J.-M. Blas de Robiès et C. Sintes, Sites et Monuments antiques de l’Algérie, Aix en Provence 2003, p. 216, fig.). Si potrebbe pensare anche al Bonus Eventus, che le mo­ nete repubblicane rappresentano con i medesimi tratti e che è largamente attestato nell’epigrafia privata di età imperiale (G. Wissowa, Religion und Kultus der Rdmer, cit., p. 267 e n. 8). Credo che la figura della Vittoria a fianco di questo genio non sia un’esaltazione patriottica della Vittoria imperiale, ma che si tratti di una pro­ messa di buon augurio per il semplice privato cittadino che è il proprietario della dimora. Paul Zanker ha studiato questa ripresa di temi imperiali secondo le inten­ zioni dei privati cittadini: Augustus und die Macbt derBilder, cit., pp. 273-279, e «Augustan politicai symbolism in thè private sphere», in Image and Mistery in thè Roman World, in Memory ofjocelyn Toynbee, Gloucester 1988, pp. 1-13, testo ac­ cresciuto in Un’arte per l’impero, cit., pp. 79-91. Questo per la buona ragione che, come sappiamo, non ci fu un’arte propriamente cristiana: i cristiani non hanno fatto altro che riprendere dall’arte pagana le sue 326

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forme e il suo stile; soltanto i soggetti delle immagini erano nuovi. Inoltre, qualsia­ si sensibilità, o quasi, può esprimersi in qualsiasi forma, poiché l’espressività delle forme è largamente indeterminata. G li artisti cristiani del rinascimento, la cui de­ vozione è spesso fuor di dubbio, riprendono le forme di un’espressività elegante e sensuale propria dell’arte pagana antica e vi aggiungono un’espressione e dei sog­ getti incontestabilmente pii. L’arte non riflette i cambiamenti di sensibilità e men­ talità tanto direttamente come un’espressione della fisionomia esprime l’emozione del soggetto. Esse non sono un linguaggio, salvo che nella misura in cui esse hanno convenzioni iconografiche, «codici» (più frequentemente parziali: le uniche immagini integral­ mente codificate sono le moderne carte geografiche). Un’immagine, effettivamen­ te, non asserisce nulla: può mostrare, ma non può affermare; non può dire «sì» o «n o», non ha nemmeno determinazioni circostanziali come «m e», «te», «qui», «ora», «domani», né modalità espressive come «forse» o «un poco»; un’immagine non può nemmeno parlare di sé, non ha metalinguaggio; mentre il linguaggio può parlare di sé, modificare, spiegare o rettificare quel che dice o ha appena detto, e permette di scrivere la sua grammatica. Cfr. J.C . Passeron, «L’usage faible des images, contribution à une sémisociologie de la réception», in Journées de l’EHESS, Montrouge et Marseille, 1987, Paris 1990. Questo bambino non aveva mai visto un leone, né forse alcun altro animale, né gatto né cane. Un altro bambino, che non aveva mai visto un orso, reagiva con en­ tusiasmo davanti alla televisione che mostrava un grosso orso dall’aria amichevole in un programma per ragazzi. D ’altro canto, a dire di Konrad Lorenz stesso, 1 orso, in realtà, è un animale assai poco simpatico.

Fini dell’arte, propaganda e fasto monarchico

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Si qualificano oggi come propaganda monarchica2 i monumenti, le arti decorative, i palazzi che esaltano la figura di un sovrano. Si continua a ripetere che cicli decorativi scolpiti o dipinti nelle chiese medievali fos­ sero la Bibbia degli illetterati, si dice che i fregi scolpiti che si avvolgo­ no attorno alle colonne di Traiano3 e di Marco Aurelio a Roma, o di Napoleone in Place Vendòme a Parigi, fossero propaganda imperiale. Però, un fatterello paradossale è che, spesso, i cicli figurativi in questio­ ne sono posizionati in modo tale che i loro dettagli non siano molto vi­ sibili: essi sono posti troppo in alto, si elevano troppo verso il cielo. Inoltre, erano difficilmente comprensibili per l’uomo della strada che, del resto, si preoccupava assai poco di osservarli. Insomma, forse che molti parigini hanno cercato di scrutare rinterminabile fregio della co­ lonna di Place Vendòme, «clone» napoleonico della Colonna Traiana? Il presente capitolo è costruito al contrario, poggia, per così dire, sulla testa: assumeremo come punto di partenza la non visibilità di tan­ ti cicli figurativi (una parte di quelli che adornano l’arco di trionfo dell’Étoile a Parigi, come pure quelli dell’antica Colonna Traiana a Roma), Questo fatterello paradossale è stato ammesso più di una volta da un secolo a questa parte, ma è stato più spesso negato dagli archeologi contemporanei. Per la Colonna Traiana, è stato recentemente discusso da due profondi ed eminenti esperti, Salvatore Settis e il nostro amico Paul Zanker.4 Arriveremo, di conseguenza, a constatare che l’arte, co­ me pure il linguaggio, non serve soltanto a informare, a comunicare, a indirizzarsi al prossimo, ad agire su di lui, ma che le accade anche di esprimersi, di parlare per se stessa nel deserto o rivolta verso il cielo; sicché, per esempio, i cicli figurativi le sculture, le pitture, le vetrate delle cattedrali medievali non erano la Bibbia degli illetterati, come si sostiene. Verrà finalmente evocata tutta la falsa razionalità di un intero aspetto dell’azione umana. La debole leggibilità di un corpus di immagini poco visibili non si­ gnifica, tuttavia, che la conoscenza delle immagini politiche sia una conoscenza vana, incapace di insegnare alcunché su una società, sulle

sue realtà, sulle sue idee; al contrario, un’immagine troppo dotta che non emoziona molto i passanti traduce, almeno, le idee di quanti han­ no concepito quest’immagine e che sono, spesso, assai vicini alle auto­ rità politiche o religiose: l’immagine rappresenta una dottrina ufficia­ le. Non sosteniamo nemmeno che Versailles, la Colonna Traiana o la decorazione delle cattedrali non impressionassero la popolazione, an­ zi, accadeva il contrario: la «forza delle immagini», di cui parla altrove Zanker,5 esiste e ne riparleremo; la colonna, ravvivata da un’autentica orgia di bassorilievi che la coprono dal basso all’alto, si levava come una prova dell’influenza imperiale su Roma,6 occupava lo «spazio pubblico». Bisogna tuttavia parlare di propaganda, di conquista dell’opinione pubblica? Questa parola, «propaganda», suona anacronistica: lungi dal far meglio comprendere i fatti antichi paragonandoli al presente, disconosce la mentalità di un tempo. Si è pensato che la propaganda fosse una delle chiavi eterne del potere: in realtà, un potere assoluto del passato, del tempo dell’eteronomia, aveva due attributi, le sue ope­ re ma anche i suoi fasti. Il palazzo di Versailles non era propaganda. E di apparato, di fasto monarchico che bisogna parlare: un principe la cui superiorità naturale si imponeva da sé non appartiene alla stessa età storica di un dittatore i cui immensi ritratti assediano le coscienze a ogni angolo della strada. La differenza è netta: si dà prova di fasto perché si è il re, si fa propaganda per diventare capo politico. Però, ciò che ci aspettiamo dal fasto è che sia sfarzoso: non è necessario che sia leggibile come un volantino di propaganda politica. Ecco il motivo per cui la visibilità dei rilievi della Colonna Traiana non importava molto; bastava l’effetto globale. I cieli narrano la gloria di Dio, ma, per esserne impressionati, non serve decifrare minuziosamente le costella­ zioni una per ima. Vediamo con evidenza quel che ha fatto la fortuna della parola «pro­ paganda» presso gli storici. Si è creduto di trovare una chiave di inter­ pretazione dei secoli antichi entro la propaganda delle terribili dittatu­ re del X X secolo: era come prendere per il monte Bianco un mucchietto di terra sollevato da una talpa. Quelle mastodontiche imprese, quel­ le di un Goebbels, la Gioventù Hitleriana e quella mussoliniana, il «culto della personalità» staliniano, la polizia segreta e le denunce ano­ nime, non avevano nulla in comune con la pompa sfarzosa, inoffensiva e automatica delle antiche monarchie. Battere il profilo del re sulle mo­ nete, esporre il suo ritratto in un luogo pubblico erano onori resi al suo rango, erano un fatto dovuto e non un’impresa volta a conquistare l’o­ pinione pubblica. Come si può credere che erigere la statua di un im­ peratore romano in un foro municipale già ingombro di statue sarebbe stato sufficiente a riscuotere il consenso di chi aveva già visto ciò parec-

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chie volte, di chi aveva avuto tutta un’esistenza sociale per imparare a venerare il suo lontano sovrano e che non si emozionava certo per un fatto così normale ai suoi occhi come un omaggio dovuto al monarca? La formazione di ima relazione di obbedienza è un processo comples­ so, non unilaterale e, in buona misura, misterioso, che non si può ri­ durre a propaganda, a un «far credere», a manipolazione. La propaganda, come la pubblicità commerciale, mira a convincere dei giudici imparziali, a «far credere» mostrando la propria forza o la propria ricchezza; il fasto regale, al contrario, con i suoi monumenti e le sue cerimonie, manifestava lo splendore del sovrano, al quale si pre­ sume che i suoi sudditi, che non erano degli elettori da persuadere, cre­ dessero già precedentemente. Come la propaganda, quest’impresa vo­ lontaria, il fasto, esercitava un’azione psicologica, ma differente: si rite­ neva che emanasse dalla grandezza del signore e, di conseguenza, era ancor più impressionante. Era inutile, per un sovrano, fare propagan­ da, ma aveva la necessità di mantenere alto il suo rango, mentre i suoi sudditi, da parte loro, dovevano rendergli omaggio. Poiché queste speculazioni potrebbero sembrare troppo astratte, ci­ tiamo il più concreto degli storici: «La parola “propaganda”» scrive Ro­ nald Syme « è spesso usata nell’epoca attuale. Può essere applicata al pe­ riodo delle guerre civili romane e delle rivalità fra dinasti, ma è meno appropriata alle epoche di pace e di ordine. Sarà necessario operare del­ le distinzioni: esiste una “propaganda avuoto” da dove è assente la com­ petizione: il pubblico è passivo o già conquistato: quel che si cerca non è la persuasione, ma l’esibizione del potere e dei favori dispensati».71suc­ cessori di Augusto esibiranno così il loro fasto monarchico. Quanto ad Augusto stesso, il fondatore del regime imperiale, si vedrà che il suo ca­ so era stato diverso: né propaganda propriamente detta né fasto, ma un caso non meno tipico, l’esaltazione delle folle per il capo beneamato che ha preso la testa di una sorta di crociata. Si può notare, incidentalmente, che questi tre tipi di fenomeno, propaganda, fasto e carisma, corrispon­ dono ai tre celebri ideali-tipo del potere in Max Weber: potere costitu­ zionale, tradizionale, carismatico.

Fini dell’arte·, propaganda e fasto monarchico

Come si diceva, il nostro punto di partenza sarà quindi un fatterello: la debole visibilità di alcuni cicli di immagini; vedremo come questa cir­ costanza ci faccia interrogare sulla finalità dell’arte. Un esempio tra gli altri ne è la Colonna Traiana,8 che eleva sino a una trentina di metri9 il suo fusto attorno al quale si avvolge elicoidalmente, su ventitré spire, un fregio scolpito i cui centottantaquattro episodi e le duemilacinque-

cento figure narrano la conquista della Dacia da parte di Traiano. Ec­ cetto che sulle due o tre spire inferiori, questi rilievi sono posti troppo in alto per poter essere ben visibili: dal basso, tutto quello che si distin­ gue è il soggetto d’insieme, cioè delle scene di guerra e di conquista. Richard Brilliant10 nel 1974 e l’autore di queste righe11 nel 1990 scrive­ vano anche che, distinguendo ad altezza d’uomo le spire della parte bassa, gli osservatori comprendevano che il fregio continuava sino al­ l’alto per celebrare le vittorie di Traiano. Ma, per vederla dettagliatamente, disegnarla o fotografarla, sono serviti dei ponteggi. Nell’antichità, le condizioni di visibilità erano diverse, forse anche peggiori: come alcuni scavi archeologici hanno mostrato da poco, la base della colonna, dove si trovava la tomba di Traiano, era inaccessibi­ le al grande pubblico, ed era chiusa tanto strettamente tra gli edifici che la circondavano (due biblioteche e due archivi) che un osservatore, costretto sui quattro lati da pareti, invano avrebbe tentato di girarle in­ torno, e invano avrebbe sollevato la testa, in mancanza di spazio per in­ dietreggiare. L’unico punto da cui poteva avere una visuale su una par­ te dei rilievi gli era offerto da larghe finestre che si aprivano verosimil­ mente al secondo piano delle biblioteche; esse hanno potuto consenti­ re di vedere, a destra e a sinistra, le parti laterali delle spire situate alla metà della colonna. Due fattori rendevano dunque poco visibile il gran­ de fregio: era posto troppo in alto ed era poco accessibile in quanto troppo stretto fra altri edifici. Quanto all’altra grande colonna esisten­ te, quella di Marco Aurelio, il suo caso non è migliore: il livello del ter­ reno anticamente era molto più basso di oggi, tanto che in origine il suo fusto coperto di bassorilievi posava su un basamento alto dieci me­ tri, la qual cosa prova, almeno, che gli architetti si preoccupavano assai poco di renderla visibile alla folla e che la folla non l’ha molto guarda­ ta. Non penso che qualche romano di allora abbia mai girato ventitré volte attorno alla Colonna Traiana, con il naso all’aria e senza vedere granché, per farsi, per così dire, violentare la coscienza dalla «propa­ ganda imperiale». A lungo gli archeologi non hanno mancato di constatare questa in­ negabile mancanza di visibilità, di rincrescersene o di proporne una spiegazione:12 «Disposizione audace, estremamente originale che ha, tuttavia, il grave difetto di impedire all’osservatore, dovunque egli si ponga, una vista completa», scrivevano per esempio Cagnat e Chapot nel 1916. Nel 1970 Ward-Perkins, un autore dall’autorevolezza ricono­ sciuta, scriveva indipendentemente: «Non si saprebbe ammirare senza riserve il fatto che questo capolavoro della scultura sia stato relegato in un luogo in cui anche l’impiego di colori vigorosi avrebbe lasciato ap­ pena visibile e ancora meno intellegibile una gran parte delle scene su­ periori».13

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Sfortunatamente, una trentina d’anni fa, simili evidenze, restate per lungo tempo incontestate, sono state erette a problema dall’autore di questo libro (che cercava di risalire al loro principio, cioè al fatto che l’arte sia più frequentemente espressione che comunicazione). La sem­ plice affermazione della non visibilità fu qualificata come «provocazio­ ne», il che significava indubbiamente che era imbarazzante. Per uscire daVHimpasse, si sono moltiplicati i tentativi di negare l’evidenza di que­ sta non visibilità.14 Forse alcuni archeologi si sono sentiti minacciati dalle conseguenze che sembravano derivare da questa non visibilità: hanno temuto che l’iconografia passasse per una scienza inutile o che le immagini non avessero più effetto sulla società. In più, si ama spesso pensare che l’arte sia sempre legata alla società o al potere e che tutto vada verso la società, allo stesso modo in cui tutto ne viene. In nome di questo principio, bisognava che i rilievi fossero visibili, poiché si tratta­ va di propaganda. Fra i tentativi di salvataggio della visibilità, quello di Salvatore Settis, nel 1991, ha avuto una diffusione internazionale.15 L’esperto ita­ liano si è proposto di rispondere a quel che avevo scritto sulla scarsa leggibilità e di risolvere il problema utilizzando la semiologia della comunicazione. Ricorre per questo alle nozioni di «lettore ideale» e di «ridondanza» (così come egli le interpreta):16 essendo il messaggio della colonna ridondante, come ogni messaggio, scrive, è sufficiente che il lettore ideale abbia scorto una piccola parte di questi rilievi per comprendere il significato dell’insieme. Gli sforzi di Settis giungono quindi alle stesse conclusioni mie e di Brilliant:17 bastava ai passanti poter distinguere da lontano e nel complesso questi rilievi per indovi­ nare che si trattava della gloria di Traiano; si riconoscono sommaria­ mente delle scene militari e, se vi si fa attenzione, si indovina, qua e là, il profilo di Traiano, netto e individualizzato come una sigla, allo stesso modo in cui abbiamo lo sguardo attirato, sui fianchi della co­ lonna Vendóme a gloria di Napoleone, dal celebre piccolo copricapo del dittatore corso. Insomma, il fasto imperiale non domandava di più, e l’educazione civica del pubblico nemmeno. Ciononostante, aggiungerò, il passante si rendeva conto anche che non ci si era proposti di fargli vedere nel dettaglio questi rilievi, che la decorazione della colonna non era desti­ nata a lui e che questo monumento imperiale, ufficiale, era destinato a qualcosa di più grande della sua piccola persona. Torneremo su questo secondo aspetto, detto «pragmatico»,18 della forza delle immagini. Noi siamo infatti qui soltanto all’inizio delle nostre fatiche, ma, per prima cosa, concludiamo con la Colonna Traiana. Che cosa evocava agli occhi dei romani questa cronaca militare? In quale categoria la col­ locavano? Vedendo questo fregio illustrato avvolgersi in spire, pensa­ 332

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vano a un libro, a un volumen analogo a quelli contenuti, non lontano da là, dalla biblioteca del foro di Traiano, come Settis ha forse troppo ingegnosamente supposto?19 Non era necessario, gli spettatori non ave­ vano bisogno di pensare a un volumen, né alla biblioteca vicina, per ve­ dere con i loro occhi che il fregio si avvolgeva attorno alla colonna. In compenso, se veniva loro in mente un’analogia, si trattava di un’analo­ gia più appropriata e più semplice: il fregio era per loro l’equivalente su marmo della lunga serie di pannelli in legno dipinti che, secondo un uso ben conosciuto, si esibivano durante i trionfi; scolpito sotto Adria­ no, dopo il 118, il fregio era una riedizione del trionfo di Traiano sulla Dacia.20 I rilievi dell’arco dei Severi21 nel foro saranno così la riproduzione di simili pitture trionfali, destinate a supplire, in minima parte, al trionfo che Settimio Severo non aveva potuto celebrare. Queste pitture mo­ stravano agli osservatori la successione dei momenti bellici, gli stessi episodi consacrati dalla tradizione: allocuzione dell’imperatore alle sue truppe, scena di sacrificio, marce, battaglie, paesaggi, immagini con­ venzionali di fortezze e di borghi22 Quegli episodi che, durante la sfila­ ta, gli oratori non mancavano di spiegare al popolo. Si vede quali siano le somiglianze23 e le differenze fra questi due tipi di raffigurazioni, le une destinate al giorno del trionfo e puntualmente illustrate al momento del loro passaggio tra gli occhi attenti della folla, le altre che sono la riproduzione su marmo delle prime, ma che non erano oggetto di nessun commento; questi rilievi non spiegavano nulla agli osservatori che vi passavano accanto e che, privi di una guida, ne rimanevano probabilmente scoraggiati, ma esprimevano la gloria del principe «al cospetto del cielo e del tempo», per citare Zanker e me stesso.24 O ancora, come abbiamo sentito dire al professor WallaceHadrill, il vero destinatario di questo ciclo figurativo era nei cieli, era il divo Traiano stesso, di cui la colonna era il sepolcro contenente l’ur­ na funeraria nel piedistallo. La decorazione scolpita serviva a esaltare questa tomba e non a far vedere un ciclo di immagini al popolo. In breve, non è automatico che un’immagine sia visibile, né che venga os­ servata, né che sia comprensibile, e nemmeno che sia stata destinata a occhi umani.25 Dunque quello che colpiva lo spettatore non era il dettaglio dei bas­ sorilievi, che altro non era che un mero elemento decorativo, ma il foro di Traiano nel suo insieme architettonico, con il suo fasto, la sua im­ mensità, il massiccio delle due biblioteche dal quale emergeva la cima della colonna, e l’immensa piazza a esse antistante. Come tutte le altre costruzioni del centro monumentale di Roma (questa «densità di pro­ digi» che colpì Costanzo II al momento della sua solenne entrata in città), il foro di Traiano, «costruzione senza uguali sotto ogni cielo»,26 333

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non perorava la causa in favore dell’eminenza del principe e della sua città, faceva di più, la faceva materialmente vedere. Ma, per tornare alla colonna, vi è una circostanza di cui non si parla molto e che, assai più della decorazione scolpita, stupiva il popolo: la colonna dà l’impressione di un enorme sforzo architettonico, di un re­ cord d ’altezza, come i cinquanta metri di altezza del Colosseo; allo stesso modo, con la sua linea sottile e slanciata, un cipresso sembra più alto delle querce che lo circondano. La colonna superava i ventuno metri dell’obelisco di Augusto nel Campo Marzio, i ventitré metri del­ l’obelisco del Circo Massimo; gli occhi di Costanzo II poterono posarvisi con ammirazione, così come sulle sue sorelle, le colonne di Antoni­ no e di Marco Aurelio, «le alte colonne che si elevano da una piattafor­ ma su cui si può salire27 e che sulla cima portano statue di precedenti imperatori».28 Dopo Eiffel, conosciamo altri edifici che hanno del pro­ digioso: ancora nel X IX secolo, la colonna della Bastiglia o quella di Place Vendóme (alta quanto la Colonna Traiana) attiravano sguardi sbigottiti.

sione di noi stessi o, per per dirla in gergo spiccio, di narcisismo; la propaganda più cinica cela una parte di questo fasto narcisista. Non si può ricondurre tutto a propaganda né a una conspicuous consumption secondo Veblen, né a una «distinzione» sociale secondo Bourdieu: sa­ rebbe un razionalismo spicciolo o un puritanesimo satirico. In breve, il re leone sente la necessità di aggiungere una fastosa cri­ niera al suo sé troppo nudo. Una classe o un gruppo di dirigenti, co­ me i notabili delle città antiche, o una religione, prova lo stesso biso­ gno, e così il mondo antico si coprì di bianchi monumenti civili e reli­ giosi, e la cristianità di un bianco manto di chiese. Si tratta di un fatto misterioso per la sua finalità oscura e per la sproporzione dei mezzi usati in rapporto al fine apparentemente perseguito; sproporzione che fa pensare all’enorme sperpero perpetrato da Madre Natura. Si parla di Homo ludens con Huizinga, di part maudite con Bataille. Sì, 10 so, tutto questo è fumoso, ma non bisogna credere che la visione ristretta di una certa sociologia, da Durkheim a Bourdieu, lo sia me­ no. La nozione di propaganda deve il suo immeritato successo alla spiegazione semplicistica che essa stessa offre. Si misconosce facilmente a qual punto l’espressione di sé superi la comunicazione, l’informazione, la propaganda, il dialogo. Con quel po­ tente mezzo per esporre le proprie ideologie che erano gli archi di trionfo disseminati per il loro vasto impero, questi sovrani assoluti non si indirizzavano tanto ai loro sudditi quanto piuttosto coglievano l’oc­ casione per esprimere se stessi in quello che ritenevano dovesse essere 11 linguaggio conveniente alla loro dignità. Ma noi, da parte nostra, ve­ diamo chiaramente come questo monologo occupi tutto lo spazio, quanto sia potente, e noi meno forti di lui. L’efficacia del fasto, non me­ no che quella della propaganda, risiede nel fatto che si tratta, implicita­ mente, di «minacce»; con la loro onnipresenza e con la ricchezza dà es­ si presupposta,32 mostrano ai potenziali oppositori quale sia la potenza del potere in vigore e dell’ordine stabilito. Il problema si sposta allora dalla semantica alla pragmatica:33 quel che importa non è tanto il contenuto del messaggio quanto la relazio­ ne stabilita con altre persone. Ed è qui che ritroviamo una forza delle immagini tanto potente quanto quella della propaganda. Espressione della grandezza monarchica, il ciclo decorativo della colonna sembra ignorare la presenza di osservatori, ma, nondimeno, stabilisce un rap­ porto di forza con loro, che vengono più impressionati che informati. Il fasto monarchico è un’espressione di sé che risulta sconvolgente per gli altri, dal momento che sembra promanare da una superiorità natu­ rale in sé tanto compiuta e autosufficiente da non aver bisogno di fare propaganda.

II Torniamo al problema centrale, cioè che la maggior parte dei rilievi sfugge allo sguardo dello spettatore - e parlare, a torto o a ragione, di ridondanza,29 è riconoscere questo fatto. Sembra però paradossale che si sia inutilmente inciso nel marmo quest’interminabile libro di imma­ gini senza didascalie, scandito dalle conquiste di borghi popolati da barbari di cui nessuno conosceva il nome né l’ubicazione; uno spirito troppo razionale non può ammettere che una serie d’immagini sia stata scolpita per essere poco visibile e poco comprensibile. La critica di Settis promana da quel razionalismo secondo il quale un’opera d’arte ha na­ turalmente degli spettatori, poiché essa ha come unico scopo concepi­ bile il comunicare e l’informare (o anche, scrive Settis, come ultima ri­ sorsa, l’«archiviare»30). Se quindi vogliamo far progredire la questione, bisogna ricusare questo razionalismo e accettare serenamente l’eviden­ za, cioè l’indifferenza per la leggibilità. Questa indifferenza si spiega perché la decorazione della colonna è un’espressione di fasto imperiale e non un’informazione propagandistica comunicata allo spettatore: le opere d’arte sono infatti più spesso espressive che informative. Il lin­ guaggio ci serve talvolta per comunicare informazioni («Sono le cin­ que»), talaltra per dare ordini («Guardie, obbeditemi!»), talvolta per esprimere, a noi stessi o all’Assoluto, ciò che deborda dal nostro cuore («Che pace nel mio cuore! Grande è la Tua gloria!»).31 Ma, a dire il ve­ ro, l’informazione data a terzi contiene sempre, più o meno, un’espres­ 334

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III La mia affermazione relativa alla scarsa visibilità ha dunque sorpreso come una provocazione. Ma è proprio questo stupore che colpisce per­ ché, se si hanno occhi per vedere, il caso della Colonna Traiana costi­ tuisce più la regola che non l’eccezione. Un altro esempio che non ha meno sorpreso34 è il Partenone: il fregio delle Panatenee, ben visibile al British Museum, dove è esposto ad altezza d’uomo, era indistinto in situ, nella penombra della stretta peristasis del tempio, sotto il soffitto, a dodici metri di altezza,35 come ciascuno può verificare sul fregio ovest. Potremmo enumerare più velocemente gli edifici dove il ciclo decorati­ vo è leggibile di quelli dove non lo è particolarmente: bisognerà per ciascuno di questi ultimi casi inventare una giustificazione ingegnosa? Chi volesse studiare la statuaria di Chartres o i mosaici della navata di Santa Maria Maggiore, dovrebbe ricorrere a un cannocchiale o agli ac­ quarelli della collezione Wilpert.36 Sull’arco di trionfo dell’Étoile a Pa­ rigi, i fregi della parte alta delle colonne, la Battaglia d’Austerlitz e il Passaggio del ponte di Arcole, sono identificabili soltanto con un bino­ colo. Accade lo stesso per il portale di Vézelay e i capitelli di Autun, dove l’uso di quel prezioso strumento è raccomandato persino dalle guide turistiche! Rivelato dalla fotografia solo verso la fine del X IX se­ colo, il celebre profilo della principessa di Trebisonda, di mano Pisanello, è pressoché indistinguibile nella chiesa di Sant’Anastasia a Vero­ na, situato com’è a dodici metri di altezza; svelato allo stesso modo, il celebre sorriso dell’angelo di Reims è invisibile dal sagrato della catte­ drale. E Proust a parlare di «quelle sculture gotiche di una cattedrale dissi­ mulate dietro una balaustrata a ottanta piedi di altezza, perfette come i bassorilievi del grande atrio, ma che nessuno aveva mai visto».37 Nella Madonna della Steccata di Parma, sull’arco dell’altare maggiore, le Ver­ gini stolte e le Vergini sagge del Parmigianino sono conosciute soltanto dal 2000, quando è stato montato un ponteggio per restaurarle e foto­ grafarle. Questa difficoltà di lettura, cosi frequente, si spiega con il gran nu­ mero di scopi e vincoli architettonici, estetici e funzionali, che sono dif­ ficilmente conciliabili al momento dell’edificazione di un monumento. I desideri del direttore dei lavori non sono quelli del committente, del­ lo scultore, del mosaicista o dell’artista incaricato degli affreschi, ani­ mato da altre motivazioni. Per l’architetto, il ciclo figurativo non è mol­ to più di una decorazione che serve a dare risalto all’edificio. Per citare Cagnat e Chapot, «l’idea ingegnosa di presentare i rilievi della Colonna Traiana facendoli avvolgere a spirale attorno al fusto è entrata in con­ flitto con la loro visibilità»,38 Quanto all’artista, era mosso dalla passio­ 336

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ne per il suo lavoro e dal desiderio di creare il bello (in Grecia, alcune statue dei frontoni hanno la parte posteriore, che non era visibile, ela­ borata con pari cura rispetto alla parte anteriore): l’artista lavorava al compito parcellizzato che gli era proprio; il suo «spettatore ideale» oc­ cupava il suo stesso posto davanti all’opera in corso di elaborazione e la vedeva benissimo. La ragione principale, però, è che un santuario o un monumento ci­ vile o monarchico non sono musei, non espongono opere d’arte per la gioia estetica dei visitatori. Non sono nemmeno strumenti di propagan­ da bensì omaggi resi alla divinità, al re o alla patria; sono spesso dotati di una decorazione istoriata, di rilievi, di affreschi, di statue, perché in questo modo appaiono più fastosi, ma questo ornamento non ha biso­ gno di essere visibile e leggibile né comprensibile come deve esserlo un volantino propagandistico. Non è neanche sempre particolarmente importante che gli spettatori comprendano quel che le immagini rappresentano. Alla fine della re­ pubblica, i magistrati addetti alla zecca, sul verso delle monete che fa­ cevano battere, facevano raffigurare simboli e allusioni a leggende che riguardavano le loro rispettive gentes e che non erano particolarmente decifrabili, eccetto che da loro stessi e dalla loro fam iglia .39 Un caso li­ mite è quello della falesia di Behistoun: Dario il Grande vi ha fatto inci­ dere, a gloria del suo regno, un’iscrizione trilingue, in cima a un picco dove possono leggerla soltanto le aquile o degli alpinisti esperti, ma, dal basso, si intravedeva solo che c’era un’iscrizione, il che confermava i passanti nel sentimento della loro piccolezza: quel che era scritto lassù era qualcosa di sublime che li ignorava e che si degnava di parlare sol­ tanto al cospetto del cielo. Non posso abbandonare quest’argomento senza citare qualche riga di padre John P. Meier che va a fondo di que­ sto problema: le iscrizioni di natura pubblica erano destinate a un’élite capace di leggerle, cioè le autorità, i ricchi, la minoranza istruita. Essi si indirizzavano anche al popolino, ma solo in quanto costituivano, insie­ me agli edifici che esse adornavano, un messaggio non leggibile né ver­ bale che esprimeva la dominazione politica, il successo militare o eco­ nomico, e la superiorità culturale.40 Senza andare a cercare così lontano, l’iscrizione incisa sulla base del­ la Colonna Traiana,41 che vanta l’altezza della costruzione o i lavori di sterro, era poco accessibile tanto quanto lo era la colonna stessa; non si indirizzava ai passanti (del resto, quanti parigini hanno notato un’ana­ loga iscrizione sull’obelisco di Place de la Concorde?), ma commentava uno straordinario sforzo tecnico rivolgendosi alla posterità. E non par­ liamo poi del «testamento politico» di Augusto, la lunga iscrizione del­ le Res gestaeì Quanti passanti avevano avuto la pazienza di decifrarla? Ma, come dice Peter Asbury Brunt, questo non era un testo di propa337

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ganda imperiale: era destinato «a perpetuare la memoria di Augusto in tutti i secoli a venire» o, almeno, credeva di farlo: in realtà, questo lun­ go testo poco leggibile senza spaziatura tra le parole aveva soprattutto procurato al suo autore il narcisistico piacere di proclamare le sue con­ vinzioni, di giustificarsi, di palesarsi liberamente, di dipingere il pro­ prio autoritratto.42 «Indirizzarsi alla posterità» è un modo già troppo razionale di parlare: l’importante è che vi sia l’emissione del messaggio. Come disse un giorno René Char, un testamento spirituale permane, anche se è distrutto.

sero familiarità con le Sacre Scritture, anche nel clero. Ora, bisogna avere ricevuto un’approfondita formazione teologica per comprende­ re, per esempio, le vetrate o i portali di Chartres».46 E sappiamo bene quale enigma abbia per lungo tempo rappresentato il mirabile porta­ le di Vézelay.

IV Ci servirà da pretesto una vexata quaestio: è vero che la decorazione dipinta o scolpita delle nostre antiche chiese era la Bibbia dei poveri e serviva per l’istruzione degli illetterati, come afferma Gregorio Magno e come spesso si dice? Per i fedeli di un santuario, i mosaici o gli affre­ schi della loro chiesa non erano molto di più che la tela di fondo di un teatro sacro sul cui palcoscenico si svolgevano drammatiche cerimonie liturgiche che avevano un senso più profondo della decorazione stes­ sa;43 ciò che importava era soltanto lo splendore dell’insieme e, in un angolo, più vicino ai fedeli, un’immagine sacra particolarmente vene­ rata. Quando eravamo bambini, nella nostra chiesa parrocchiale, i grandi dipinti misteriosi e indistinti alle pareti ne accrescevano l’auto­ rità solenne. Cediamo la parola ai medievisti. In un libro ricco di idee, Jo sef Engemann nega radicalmente questo fatto.44 Secondo Otto Pàcht: «Proprio nel medioevo, quando fu proclamata la missione didattica dell’arte in quanto surrogato della scrittura vennero create opere d’arte che nessun occhio mortale era in grado di contemplare come certe sculture architettoniche o certe vetrate di cattedrale: e ben dif­ ficilmente i loro creatori si saranno illusi di “trasmettere” un mes­ saggio, sempre che ne avessero in mente uno. In questi casi si suo di­ re che l’opera d ’arte veniva creata ad maiorem Dei gloriam. Ma non significherà già ammettere che l’essenza dell’opera d ’arte non va cer­ cata nel “messaggio” ?».45 Roland Recht si chiedeva se l’iconografia religiosa avesse una «virtù pedagogica. L’uomo del medioevo capiva quel che era raffigurato? Indubbiamente no. Certe aree decorate sono invisibili per la maggior parte delle persone; a Reims, per esempio, nelle parti superiori delle voltine della rosa del transetto, ci sono delle statuette assai interes­ santi, con certe teste espressive uniche nell’arte del X III secolo, ma che nessuno può vedere da terra. Rare erano poi le persone che aves­ 338

V Dovremo pertanto distinguere, sulla scorta di quanto detto da Zanker,47 la ricezione delle immagini da parte di gente illetterata, da un lato, e, dall’altro, la concezione e l’ideazione delle immagini stesse da parte dei rappresentanti dell’ideologia ufficiale,48 così come da parte degli artisti. Questi due ultimi gruppi costituiscono quello che Zanker chiama di proposito «der ideale Betrachter», lo spettatore ideale, che «plana nello spirito dell’artista o del suo consigliere iconografico»; in­ somma, gli spettatori ideali in questa faccenda sono il committente, l’artista e il consigliere.49 Si rassicurino gli. esperti di iconografia: gli in­ tendimenti di questo trio di iniziati restano rivelatori dell’ideologia del­ la loro epoca. I rilievi del Partenone danno testimonianza della conce­ zione che gli ateniesi avevano di loro stessi;50 le scene di allocuzioni mi­ litari sulle colonne di Traiano e di Marco Aurelio, scrive Jean-Michel David,51 confermano che il consenso dei sudditi era al cuore dell ideo­ logia imperiale. . Quanto al desiderio di essere capiti dall’uomo della strada, non si imponeva particolarmente nello spirito di questi tre personaggi. Certe scene erano chiare per tutti: battaglie, allocuzioni, sacrifici. Il significa­ to di certi stereotipi, di certi simboli, era entrato nella cultura popolare, perché l’esempio imperiale era imitato nella società; la corona civica o la Vittoria che regge il clipeus virtutis augusteo sono entrati anche nel­ l’uso privato.52 L’iconografia dell’Ara Pacis, dove si è andati a cercare interpretazioni troppo sottili,53 non è molto complicata, ciascuno pote­ va decifrare scene e allegorie (il pio corteo dei grandi personaggi, Ro­ ma in armi, l’Italia in mezzo ai suoi figli); la decorazione floreale pre­ sentava un simbolismo immediato, come per noi il ramo d ulivo è sim­ bolo di pace: l’unione dell’alloro di Apollo e dell’edera di Bacco54 sug­ geriva l’idea di un regime conciliante, amico dell’ordine pubblico e del­ la comune felicità; lo stile stesso di questa decorazione esuberante ma sorvegliata e graziosa evocava l’«Età dell Oro» rappresentata dal nuo­ vo regime istituzionale,55 dal momento che la sua bellezza classica era rassicurante e ordinata.56 Questo stile era espressivo come la fisionomia di un viso. Di contro, scrive Pierre Gros, il foro di Augusto, con i suoi schermi culturali, i suoi ricordi storici e le sue citazioni erudite, tra­ 339

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smetteva un messaggio accessibile soltanto a un’élite di contemporanei colti;57 a Ovidio, per esempio,58 che si immagina perso tra la folla dei contendenti delle cause giuridiche, venuti da tutta Italia dal momento che il praetor urbanus e il praetor peregrinus avevano lì trasportato il lo­ ro tribunale.59 E questo la dice lunga su quale fosse l’ambiente artistico. Gli artisti greco-romani non erano artigiani. Erano assai consapevoli della loro dignità, ritenevano di riassumere in sé tutta l’arte del passato ed erano sofisticati al pari degli scrittori e dei filosofi. Verso il 200 dopo Cristo un pittore, convertito al cristianesimo, scriverà di teologia:60 simili arti­ sti generalmente si curano poco di essere compresi dal volgo. Le rappresentazioni che riferivano le biografie imperiali restavano, anch’esse, poco comprensibili e poco attraenti per il vasto pubblico. Non si era così avidi di esaminarle nei dettagli come faceva lo schiavo di Orazio che, alzandosi sulla punta dei piedi, si gustava ogni partico­ lare di una pittura raffigurante il combattimento di due celebri gla­ diatori. Ecco la curiosità antica per le immagini! Il vizio morale di uno schiavo, scrive un giureconsulto, può essere «per esempio il fatto di voler assistere a tutti i ludi o di appassionarsi all’osservazione dei quadri»;61 le pitture murali avevano la funzione, tanto in bene che in male, delle stampe, dei libri e dei giornali illustrati. Sfortunatamente i pannelli dell’arco di Traiano a Benevento62 erano decifrabili solo da un osservatore che conoscesse nel dettaglio la biografia del principe, la sua gioventù in Spagna, il suo cursus honorum, e anche, dagli archi­ vi municipali, la liberalità di cui aveva fatto oggetto la città di Benevento; e, ancora, non è certo che avrebbe compreso la scena dove era rappresentato Giove nell’atto di tendere il suo fulmine a Traiano. Le pitture a carattere mitologico nelle dimore private erano non meno criptiche,63 poiché conoscere il mito restava privilegio di un’educa­ zione liberale. Gli autori di simili decorazioni pubbliche o private, così come i loro consiglieri, hanno voluto soddisfare la loro concezione ideale; a diffe­ renza dei pubblicitari odierni, non hanno affatto pensato a mirare a un target,64 a una ben definita categoria di destinatari. I dotti e le autorità parlano in maniera conforme al loro ruolo, dicono quel che hanno da dire e poco si preoccupano del resto; in più, per narcisismo, si com­ piacciono della propria ingegnosità, come fanno i poeti ermetici, fosse­ ro anche i soli a comprendere la loro opera.65 E bene pensare alla psi­ cologia di questi professionisti: in una dimora privata, non si attribuirà necessariamente il «programma» di un ciclo di mosaici o di pitture alle intenzioni del padrone di casa.66

VI

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Quest’ultima considerazione ci porta a fare ancora un’altra distinzione. Quando è comprensibile per l’uomo comune, l’iconografia ha una for­ za didattica, educativa: per esempio, l’identità nazionale e repubblica­ na dei francesi si è formata attorno ad alcuni simboli semplici, ripetitivi e compresi da tutti. Un corpus iconografico possiede però anche una forza pragmatica, che agisce sugli spiriti in virtù della posizione da esso assunta in relazione ai suoi interlocutori, cui l’iconografia si indirizza come se avesse autorità, o anche sembrando ignorarli. Quest’effetto si ritrova dappertutto in qualche misura: oltre al suo messaggio, una mo­ derna e costosa campagna pubblicitaria prova la ricchezza e la potenza della ditta che l’ha commissionata, fatto che le conquista il rispetto e la fiducia dell’acquirente. Prendiamo le mosse dalla forza didattica, informativa, e soffermia­ moci a indagare nel dettaglio il problema della monetazione imperia­ le. Per il popolo, come per Gesù di Nazareth, l’effigie di Cesare, im­ pressa sul recto delle monete, era la prova della sua legittimità. Consi­ deriamo il verso dei cicli monetari con le loro figure allegoriche, la Pace, la Pietas, la Sicurezza, e così via. Noi non concediamo partico­ lare attenzione alle monete che ci passano per le mani (siamo saturi di immagini e abbiamo i giornali), ma i romani, dal canto loro, le guar­ davano:67 la moneta, che apparteneva al principe, era un’espressione del principe stesso, e da essa il pubblico curioso di politica traeva le sue conclusioni. I biografi e i panegiristi scrutavano le monete, talvolta da molto vici­ no,68 così come le immagini imperiali: Giuliano arguisce dai ritratti di Claudio II che quest’imperatore avesse gusti modesti.69 Nella sua Vita di Costantino, Eusebio scrive che la fede profonda di quest’imperatore «può essere dedotta dalle sue monete d’oro, dove è raffigurato con gli occhi levati al cielo, alla maniera di un uomo in preghiera»; queste mo­ nete, aggiunge, «circolarono in tutto l’impero». Inoltre, «in numerose città» le sue statue lo mostravano in atteggiamento di preghiera, «con gli occhi volti al cielo e le mani levate». Più avanti, Eusebio tenta di da­ re un’interpretazione cristiana della monetazione che, all’indomani del­ la morte di Costantino, lo rappresentava su una quadriga, secondo l’i­ conografia pagana della consecratio in numerum deorum\ non avrebbe parlato di queste imbarazzanti monete, se non avessero attirato l’atten­ zione dell’opinione pubblica.70 La stessa interpretatio christiana viene data di un’opera che avrebbe dovuto colpire gli spiriti, una di quelle immense tele dipinte che venivano esposte nel Comitium o davanti al palazzo imperiale71 in occasione di una vittoria o della morte di un im­ peratore; quando giunse a Roma la notizia della morte di Costantino, il 341

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Senato fece esporre un dipinto in cui si vedeva il sovrano defunto as­ sunto in cielo.72 Tuttavia la monetazione imperiale, almeno a mio avviso, non costi­ tuisce né un mezzo d’informazione, né un’impresa propagandistica, né l’esposizione di un programma politico:73 si tratta di idee troppo mo­ derne. Essa si riduce invece, il più delle volte, alla glorificazione, abba­ stanza monotona,74 delle benemerenze e delle vittorie di ogni principe. Non parliamo di programma: un nuovo imperatore non doveva espor­ re un programma al paese, perché un capo non è un candidato; inten­ de essere rispettato e obbedito d’ufficio. Come abbiamo visto, all’ini­ zio del suo regno, ogni imperatore indirizzava un discorso al Senato, tramite il quale, piuttosto che esporre alla sua attenzione un progetto politico, prometteva soprattutto di non far mettere a morte i senatori tirannicamente e di non credere ai delatori (ancora nel 458, Maggioriano non dirà altro al Senato);75 la monetazione, però, non reca traccia di ciò. Nessuna delle monete di Traiano celebra la libertà o la sicurezza, mentre il Panegirico di Plinio innalza sino alle stelle la libertà senato­ riale e la sicurezza contro la delazione. Nei loro regni, così brevi da non esser stati molto più che degli inizi di regno, Claudio II e Tacito sfoggiano le stesse allegorie delle benemerenze imperiali e le stesse ce­ lebrazioni del consenso dell’esercito: si tratta di affermazioni tanto ba­ nali e tanto poco programmatiche da non permettere né di negare né di confermare il carattere filosenatoriale di Tacito di cui parla la Storia Augusta. La monetazione di un principe al momento della sua ascesa al trono non è l’enunciazione di un programma, ma riprende larga­ mente i tipi tradizionali che erano già quelli dei suoi predecessori ed eventuali rivali. Esiste naturalmente una moneta di Traiano che rappresenta il princi­ pe e il Senato fianco a fianco, ma espone qui un programma di futura politica filosenatoriale, poiché l’imperatore regnava già da tre anni. Questa moneta commemora un avvenimento,76 e cioè il discorso di Traiano al Senato del 1° gennaio dell’anno 100, con il quale il sovrano invitava il Senato a parlare liberamente e a dividere con il principe la cura imperii?1 C’è quindi della verità nell’insegnamento di Paul Strack, secondo il quale le monete commemorano le azioni compiute da un imperatore e non i princìpi cui si appella. I nuovi tipi che compaiono in una monetazione celebrano un fatto saliente e non sono dichiarazioni di principio. La monetazione di Nerva è particolarmente precisa in questo senso: vehiculatione Italiae remissa ofisci ludaici calumnia subia­ te, leggiamo sul verso delle sue monete. Quando, dopo l’uccisione di Domiziano, la monetazione di Nerva vantò la providentia Senatus, la hbertas publtca e l’anno della lìbertas restituta, questo non fu un bel programma di governo, ma la celebrazione di quel che era appena ac­

caduto in quell’anno. Allo stesso modo, il verso delle monete con l’alle­ goria della Spes sembra proprio ricordare la nascita o la designazione dei princìpi ereditari.78 Per farla breve, le monete commemorano le vit­ torie e le benemerenze del principe. Aggiungiamo solamente alla teoria di Strack che le benemerenze in questione non sono necessariamente da individuare in determinate misure politiche; l’imperatore era un be­ nefattore per definizione, tanto che il regno presente faceva vivere au­ tomaticamente i popoli nella libertà e nella prosperità,79 che erano opera sua; esse erano «imperiali» o «dell’imperatore», Pax o Felicitas augusta o Augusti. Ritroviamo la mentalità monarchica di cui parlavamo a propo­ sito della differenza tra propaganda e fasto. La monetazione non era nemmeno informazione in senso stretto, non era destinata ad annunciare le notizie ufficiali: dopo quanti anni una moneta coniata nel 71, con la leggenda ludaea capta o, sotto Aure­ liano, restitutor Galliarum , sarebbe arrivata nelle mani di un abitante della Britannia o dell’Egitto? Costoro, del resto, avevano saputo al mo­ mento giusto, tramite un editto del governatore della provincia, queste «buone novelle», questi evangelia imperiali, e avevano ricevuto l’ordi­ ne di festeggiarli insieme a tutti gli abitanti del loro borgo.801 cicli mo­ netari non fanno altro che rendere immortali i meriti del principe agli occhi della posterità e dell’eternità. La prima cura di un pretendente al trono, di un «usurpatore», era di battere moneta, e, in particolare, di coniare la moneta d’oro.81 Non era per informare le popolazioni né per farsi propaganda, perché monete coniate in Siria o in Britannia aveva­ no poche possibilità di giungere per tempo in Italia o in Pannonia; l’usurpatore voleva semplicemente incidere per l’eternità il suo nome e il suo profilo nel metallo e nella storia. La monetazione, questo diritto dei sovrani, è una componente del fasto monarchico. Allo stesso modo, la prima preoccupazione di un nuovo imperatore non era quella di esporre un programma e organizzare la propaganda, ma di annunciare il fatto compiuto e far conoscere alle popolazioni i tratti della sua augu­ sta persona: il suo ritratto veniva esposto a Roma82 e dei corrieri si lan­ ciavano rapidi lungo tutte le strade per andare a esibire un ritratto di­ pinto del nuovo signore in ogni città che avessero attraversato.83 Di contro, un imperatore non si serviva delle sue monete per diffon­ dere le proprie convinzioni. Un esempio probante in questo senso è la numismatica di Costantino: la monetazione costantiniana è così poco sistematicamente cristiana, così discreta, così riservata in materia spiri­ tuale da provare l’assenza di una propaganda religiosa organizzata tra­ mite il mezzo monetario.84 Le monete avevano quindi un’influenza sull’opinione pubblica? Mattingly85 e Sutherland86 ne hanno discusso. A nostro parere, queste monete, le cui allegorie ripetono che il principe è il benefattore e il di­

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fensore dei suoi sudditi, non erano altro che elementi d’apparato. A differenza delle nostre campagne pubblicitarie o propagandistiche, non avevano un grande impatto sulle coscienze; se la loro presenza mo­ notona non portava nulla di nuovo, la loro assenza avrebbe stupito maggiormente: si era sudditi altrettanto fedeli del principe sia prima che dopo. Si trattava di formule di cortesia, decretate automaticamente per tutti gli imperatori, all’incirca negli stessi termini; esse non erano né credute né non credute: erano dovute e nessuno si sarebbe preso la briga di contraddirle. Tali formule non intendevano forzare la convin­ zione, suggerivano piuttosto quel che già riscuoteva il consenso, o avrebbe dovuto farlo. In breve, erano inoffensive come i nostri franco­ bolli. Le eccezioni, Augusto il carismatico o Domiziano il censore, non diventano, di conseguenza, che più significative. Per concludere su questo punto, la monetazione voleva essere più consensuale che programmatica e propagandistica; si asteneva, gene­ ralmente, dall’esporre quale fosse la linea politica peculiare a determi­ nati imperatori, dal momento che una linea politica è sempre discutibi­ le e discussa: era meglio far sprofondare le popolazioni nell’ignoranza dei programmi piuttosto che riscuotere il consenso. L’idea moderna e, in fin dei conti, democratica di propaganda presuppone che sia neces­ sario politicizzare il popolo, che soltanto un’azione positiva del potere ponga e mantenga le masse nella direzione auspicata, e che la loro ob­ bedienza sia ima creazione continua. Questa è una visione troppo otti­ mistica delle cose: la sottomissione all’ordine stabilito, l’obbedienza, è la cosa più diffusa al mondo, altrimenti la storia sarebbe molto diversa da quel che è. È per questo che, nel corso dei millenni, l’efficace strategia di gover­ no è stata non quella di politicizzare le masse a colpi di propaganda, ma di lasciarle vivere nell’inconsapevolezza; ci si asteneva dal provoca­ re spiriti pronti all’insubordinazione.87 Quale catastrofe sarebbe stata se, alle guerre fra usurpatori del trono imperiale, alle minacce barbare sul Danubio e l’Eufrate e ai progressi dell’ateismo cristiano, si fosse ve­ nuto ad aggiungere il sommovimento incontrollabile di una plebe fatta uscire dal suo torpore!

Passiamo ora alla forza pragmatica delle immagini, che agisce anche quando esse sono mal interpretate o appena intraviste. Milioni di stu­ denti e migliaia di professori sono passati tra Place du Panthéon, a Pa­ rigi, e la Sorbona, senza aver mai guardato le figure di marmo, nude o in abiti di foggia antica che, sui frontoni di questi due edifici, esaltano

la Patria e la Scienza. Non le hanno mai guardate; di più, non sapreb­ bero nemmeno dire quante sono le colonne sulla facciata del Panthéon. Gli psicologi hanno mostrato da lungo tempo che non si ha molta con­ sapevolezza dello scenario quotidiano nel quale ci muoviamo alla cieca, ma allo stesso tempo a colpo sicuro. Tuttavia suggestioni dell’ambiente producono il loro effetto in misu­ ra non minore: quel biancore dei marmi appena intravisti basta per ri­ cordare l’esistenza di un ordine superiore di grandi parole, di grandi e indistinte idee, che si impone a tutti i membri della collettività. Come dice Zanker, «era sufficiente, passando, uno sguardo distratto per regi­ strarli, sia pure a livello inconscio»; la pubblicità moderna, aggiunge, agisce in parte tramite questo effetto fuggevole su un osservatore o un ascoltatore disattento.88 Zanker ha ragione ad attribuire a costui un’at­ tenzione superficiale: opere d’arte, immagini sacre, manifesti pubblicitari, non sono oggetti di contemplazione, eccetto che per un esteta, per un iconolatra o per uno storico; queste immagini agiscono come un se­ gnale: basta un istante per realizzare che siamo davanti a un monumen­ to pubblico, a un’immagine sacra o imperiale. Non essendo propaganda, il fasto non fornisce particolari, non enu­ mera le scene successive di un fregio istoriato come altrettante argo­ mentazioni logiche; racconta invece per sommi capi, occupa lo spazio e mostra l’insieme di un edificio. La decorazione figurativa della Colon­ na Traiana ne esaltava lo splendore, ma era il monumento nel suo insie­ me a dare l’ammonimento principale, e bastava una fugace visione glo­ bale per saperlo. La colonna era sormontata da una statua del principe, circostanza che fa comprendere cos’era questo monumento: l’esagera­ zione di una tipologia architettonica antica di ventisette secoli, la statua elevata in cima a una colonna. Evocava, al contempo, il trionfo dell’im­ peratore, i suoi funerali e la sua apoteosi.89 Ricordiamo come un antico visitatore «molto speciale» nel 357 vide la Colonna Traiana, quella Antonina e quella Aureliana con la loro scala interna e la statua dell’imperatore posta in cima: esse «si elevano da una piattaforma, su cui si può salire e [...] sulla cima portano statue di pre­ cedenti imperatori».90 La visione del popolo accoglieva questa lezione, perché distingueva le categorie del pubblico e del privato; sapeva che il Louvre era il palazzo del re e non considerava il palazzo del Palatino al­ la stessa stregua degli horrea Galbana, che pure occupavano una super­ ficie dello stesso ordine di grandezza. Lo scenario urbano e l’ambiente circostante suggeriscono la loro identità politica agli abitanti. La socializzazione infatti non si compie soltanto attraverso la parola o l’iconografia. Vi sono da una parte la propaganda o l’insegnamento, che sono imprese discorsive, e dall’altra una socializzazione involonta­ ria che si impone grazie a un condizionamento silenzioso. Abbiamo la

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VII

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tendenza a privilegiare quel che «dice» qualcosa, testi o iconografia, ma un quadro muto,91 non tendenzioso, quotidiano, condiziona più ef­ ficacemente gli spiriti e viene recepito con meno diffidenza di una pre­ dicazione intenzionale. Nella nostra epoca, rinsegnamento scolastico non può sostituire Γapprendimento, assai diverso, delle regole sociali o politiche, l’esempio familiare e sociale, e da ciò discende la drammatica inefficacia dell’educazione civica scolastica.92 L’insegnamento silenzio­ so a opera dell’ambiente circostante è più trascinante, e insegna che una potenza superiore fa parte del contesto in cui viviamo, come può farne parte una catena montuosa. E poi, la parola «propaganda», che si è imposta in seguito al comu­ niSmo, al fascismo e al nazismo, è sproporzionata quando viene appli­ cata all’antichità. Vedremo nell’ultimo capitolo di questo libro che, a partire dall’arco dei Severi nel foro romano, nell’anno 203, l’arte uffi­ ciale al servizio degli imperatori ha adottato uno stile populistico e ha abbandonato il nobile stile classico. Ma questo «populismo» dei bassorilievi imperiali bastava per avere influsso sulle masse? L’imperatore (o gli artisti che credevano di essere utili alla sua immagine) aveva soltan­ to intenzione di agire su di esse? Non accadeva forse che l’imperatore, pensando forse di creare meraviglia, faceva o lasciava rappresentare l’i­ dea che aveva di se stesso, di quel che voleva o credeva di essere? Si tende a disconoscere il narcisismo dei potenti, il loro bisogno di espri­ mersi e la loro scarsa conoscenza degli atteggiamenti popolari. E basta­ va innalzare un arco a Roma o incidere delle leggende monarchiche sul verso delle monete (sono stato lì lì per scrivere «sui francobolli») per condizionare un intero popolo? In realtà, la preoccupazione degli arti­ sti o della burocrazia imperiale non era tanto ipnotizzare degli ipotetici osservatori quanto piuttosto dare dell’imperatore un’immagine degna di lui stesso. Nel X X secolo, la propaganda dei regimi dittatoriali ha avuto fini completamente diversi e tutt’altra portata, e ha dovuto il suo successo soltanto a circostanze politiche e sociali particolari che rendevano le folle pronte a recepire il messaggio politico.93 Nell’antichità, era meglio una propaganda realizzata attraverso gli spettacoli, messa in atto da quegli artisti che furono Nerone e Commodo: ecco il genere di spetta­ coli che il pubblico era pronto a recepire. Lo studio culturale dell’ico­ nografia imperiale romana o della retorica dei panegiristi è una cosa, il tentativo di rispondere alla domanda se questa pretesa «propaganda» influisse sugli spiriti è un’altra questione, che non è mai stata presa in esame in modo approfondito. Inoltre la propaganda vera e propria è un fenomeno dell’era delle masse democratiche; prima del X IX secolo, le masse contadine, cioè i tre quarti della popolazione, erano del tutto estranee alla politica.

Vili Ci avviamo qui a cogliere la differenza tra fasto e propaganda. Non si può qualificare come propaganda ogni messaggio che promani dal Po­ tere;94 i preamboli in tono moralizzante degli editti imperiali, con le lo­ ro considerazioni lambiccate, che si riteneva giungessero direttamente dal monarca, e su cui si sorvolava nella lettura, non mettono in rilievo alcun tipo di propaganda, ma piuttosto esaltano la tecnica sermoneg­ giarne: qui l’imperatore si conforma alla sua immagine di censore dei costumi, più di quanto non cerchi di agire sull’opinione pubblica; gli omaggi che il popolo e il Senato rendevano al sovrano, gli elogi enfatici dell’imperatore,95 di rigore in ogni pubblica dichiarazione, non erg.no nemmeno propaganda, ma un semplice rituale monarchico e patriotti­ co. Propaganda e cerimoniale sono completamente diversi tra loro. Prendiamo per esempio le immagini del sovrano che, un tempo co­ me oggi, erano e sono esposte nei luoghi pubblici. Ai giorni nostri, in ogni dittatura, immagini giganti del capo sono innalzate o esposte sui muri con dei manifesti a ogni angolo della strada: si tratta di propagan­ da. Nell’antichità, una statua dell’imperatore regnante si levava sulla piazza pubblica di ogni città: era parte del cerimoniale. La statua impe­ riale era stata innalzata per l’imperatore, da parte del consiglio munici­ pale, come un omaggio al principe. Di contro, l’effigie del dittatore è presentata alla popolazione, come risposta al presunto bisogno di avere senza posa davanti agli occhi l’immagine del capo beneamato. E questa effigie da chi è proposta? Da folle entusiaste? Da un ministero della propaganda? Non osiamo rispondere: meglio credere che il bisogno sia stato sufficiente per creare il suo organo... L’onnipresenza di quest’effi­ gie impone a tutti la gravosa consapevolezza del potere. Al contrario, nell’antichità classica, la statua dell’imperatore si radi­ cava nello scenario della pubblica piazza; in tempi normali, non la si notava più di quanto noi notiamo la bandiera nazionale che sventola immancabilmente sulla facciata degli edifici pubblici. Naturalmente, il ritratto dell’imperatore, al momento della sua ascesa al trono, veniva accolto con una solenne cerimonia, e se dei rivoltosi abbattevano que­ st’immagine sacra, si trattava di un crimine ancora più grave di quanto non sia per noi strappare la bandiera del nostro paese durante una ma­ nifestazione. Ma, scrive Peter Brown, sarebbe un errore credere che, quando le immagini dell’imperatore non erano né accolte né rovescia­ te, esse venissero adorate. La situazione è ben diversa: queste immagini erano date assolutamente per scontate: nelle piazze cittadine, rischiava­ no costantemente di essere nascoste dalle statue di personaggi che tra­ smettevano emozioni più violente, attori, cocchieri della repubblica, gladiatori che lottavano con le belve nell’arena. A detta di Brown, nes­

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suno, vedendo il volto dell’imperatore, scoppiava in lacrime per l’emo­ zione.96 Un solo colpo d’occhio bastava ai passanti per constatare che il nuovo imperatore, la cui statua era appena stata innalzata, aveva il vol­ to di un feroce difensore dell’impero e dell’ordine morale, come Caracalla, o, al contrario, che i suoi lineamenti erano pieni di dolcezza, co­ me quelli di Alessandro Severo o di Teodosio II. E, sospirando, il pas­ sante pensava che, miti o selvaggi, «loro» erano sempre gli stessi, per­ ché, alla fine, le imposte erano sempre ugualmente pesanti e le frontie­ re ugualmente minacciate. Eccoci al punto centrale per quel che riguar­ da la «propaganda imperiale».97 Per maggior chiarezza, cominciamo con una definizione: la propa­ ganda, come la pubblicità, è l’impresa di conquista di un’opinione an­ cora incerta; «la propaganda è in relazione a un’opinione, non a un consenso; concerne soltanto le questioni controverse e non quelle su cui si esclude a priori ogni dissenso».98 Essa mira a dissuadere delle per­ sone non ancora convinte o che sono senza un’opinione definita, cerca di conquistarsi dei consumatori, degli elettori, dei partigiani. La propa­ ganda fides della Controriforma, per esempio, era certo una propagan­ da, perché si indirizzava ai non credenti, o agli eretici. L’antica Roma non lo ignorava: il conflitto tra Ottaviano e Antonio aveva visto comparire una letteratura di pamphlet, e in ogni momento, «falsi» oracoli sibillini erano stati lo strumento prediletto delle propa­ gande estremistiche e dei sollevamenti servili. Sotto l’impero, i tentativi di usurpazione davano luogo a quel che potrebbe essere definita una propaganda, ma il desiderio di conquistarsi dei partigiani o di rovescia­ re il Senato poteva non essere la sua sola motivazione. Nel 360, Giulia­ no venne proclamato imperatore a Parigi dai suoi fedeli soldati e diven­ ne usurpatore, contro il vasto esercito palatino di Costanzo II. Allora, scrive Zosimo, egli mandò lettere al Senato romano e alle città greche. Ci è giunta la sua Lettera agli ateniesi, secondo Gibbon «uno dei mi­ gliori manifesti politici che esistano in qualsiasi lingua», dove Giuliano espone le perfidie, la crudeltà e l’avarizia di Costanzo nei suoi confron­ ti e si giustifica dalle accuse di mancanza di rispetto, ambizione, com­ plotto e ingratitudine. Giuliano non critica la politica di Costanzo,99 non parla di religione, non cerca di costituire un qualche «partito paga­ no»; si riferisce esclusivamente a questioni di virtù personale e di rela­ zioni etiche interpersonali. Perché questa propaganda, se ne esiste una? Sarebbe forse per far vacillare l’opinione pubblica delle città provinciali che, seguendo l’e­ sempio, avrebbero arruolato truppe locali? Il semplice desiderio disin­ teressato e assolutamente umano di dare una buona opinione di sé non avrebbe anch’esso avuto il suo ruolo? Nel 1718, il reggente Filippo d’Orléans decise di dichiarare guerra alla Spagna e fece preparare da

Fontenelle un manifesto giustificativo della sua decisione. Ma, scrive Saint-Simon, al momento della pubblicazione, il pubblico non fu doci­ le, e in quell’occasione apparve chiaramente che la nazione non era fa­ vorevole alla guerra come il reggente aveva potuto sperare.100 Il mani­ festo non ebbe altra conseguenza, favorevole o sfavorevole, e non pote­ va averne; del resto, non ci si aspettava di più. Quanto a Giuliano, il Se­ nato, ricevuto il suo manifesto, evitò prudentemente di prendere parti­ to a favore del giovane pretendente. Tralasciamo questa dubbia forma di propaganda e passiamo al fasto. Esso dunque non mira a conquistare il favore dei sudditi del re, dal mo­ mento che non si suppone neppure per un momento che possano dubi­ tare del loro signore. Il culto, l’incenso, l’«adulazione» che circondavano Elisabetta I d’Inghilterra o Luigi XIV celebravano la loro gloria e non si proponevano di porli saldamente sul trono; il castello di Versailles potrà fare di Luigi XIV un re più grande degli altri, ma non potrà renderlo più re: era re «già per sempre», se possiamo dire così. Si fa propaganda per diventare dittatore o per restare tale, mentre si dà prova di fasto perché si è il re. La propaganda è retorica, mira a con­ vincere, così si può parlare di una propaganda menzognera, mentre parlare di un fasto reale menzognero non avrebbe molto senso: il re non può mentire, perché non dice nulla; non fa altro che mostrarsi così com’è, non fa nulla di più che essere se stesso, mentre la propaganda è assertiva. Individuo grande per natura, il monarca non appartiene al mondo delle regole e delle convenzioni; noi confondiamo il fasto con la propaganda perché riduciamo la monarchia a istituzioni e a effetti di potere, misconoscendone l’opacità psichica. Quali che fossero i fonda­ menti ideologici o giuridici del cesarismo, un’inclinazione psicologica conduce al sentimento monarchico ed essa trascinò gli spiriti; Augusto, primo magistrato e campione della repubblica, fu presto immaginato con i tratti di un monarca. Ai giorni nostri, a Washington o a Brasilia, e nell’antichità, sull’acropoli di Atene, il fasto è proprio soltanto di un’a­ strazione, la Città, lo Stato, la Nazione.

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IX Tuttavia il fasto è efficace quanto la propaganda, anche se agisce per vie opposte. La propaganda, in quanto forma di retorica, cerca di per­ suadere del diritto di comandare; il fasto, da parte sua, presuppone che questo diritto esista e che tutti ne siano persuasi. Presupporre però è un modo di imporre: il fasto arriva allo stesso risultato della propagan­ da, ma lo fa e lo deve fare in un certo senso a sua insaputa. Questa espressione impressionante di sé mantiene i sudditi nella loro convin­ 349

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zione relativa alla grandezza reale. O, per meglio dire, evita che essi la­ scino perdere questa convinzione: il fasto procura al monarca non un più (come fa la propaganda), ma l’assenza di un meno. Il monarca si rende conto benissimo del fatto che, se non dispiegasse sufficiente fa­ sto, ne patirebbe la convinzione dei suoi sudditi. Una democrazia paci­ fica può fare a meno della propaganda, ma una monarchia è impensa­ bile senza fasto. Verso il 1450, a Firenze, Pitti, dopo aver conquistato il potere con la violenza, e volendo legittimare la sua autorità, si fece im­ mediatamente costruire il gigantesco palazzo che conosciamo.101 Si pensa che il fasto non sia frutto di alcun calcolo; un’aria di grandez­ za non è un atteggiamento che si possa assumere per un proposito deli­ berato; il re è fastoso per natura, e non si può voler essere naturali. Il re è legittimato non dalla volontà del popolo, ma dal suo diritto personale, perché è un leone, e non esistono leoni senza criniera; il suo fasto è la rappresentazione fisica della sua grandezza naturale: Il fasto appartiene a una categoria particolare di azioni che un sociologo weberiano definisce in questi termini: le azioni che, per raggiungere il loro scopo, devono ignorarlo.102 Quando si inizia a riflettere sui modi e sui mezzi per mante­ nere salda una convinzione, è perché questa sta già languendo.103 Il fasto è un’espressione di sé che non cerca di fare effetto e che, proprio per questo, ha un effetto, perché sembra essere un prodotto della natura re­ gale, indifferente, come è la natura, alla presenza di spettatori. Lo si vede bene, nella nostra epoca, con la caduta dei regimi dittato­ riali. Quando, in uno Stato contemporaneo, il dittatore fa piazzare il suo ritratto in tutte le strade, ciò prova che quest’uomo è dovunque il pa­ drone, ma non riesce a essere avvertito come legittimo, e non può fare a meno di una polizia politica. Nelle defunte «democrazie popolari» so­ vietiche, alcuni altoparlanti diffondevano discorsi ufficiali nelle strade. Il potere provava con questo fatto, «pragmaticamente», di occupare lo spazio pubblico, ma i suoi discorsi di propaganda avevano il torto di ar­ gomentare anziché presupporre, cosicché non convincevano nessuno e venivano qualificati come «politichese».

Proprio il caso di Augusto, dicevamo, era stato diverso. Con lui, i mo­ numenti, le cerimonie e l’iconografia avevano assunto un’importanza politica completamente nuova. In un libro notevole, Zanker ha analiz­ zato questa politica attraverso l’architettura, l’iconografia e la stilistica. Si assistette dovunque alla moltiplicazione di simboli ideologici molto semplici, ripetitivi, comprensibili a tutti, che mostravano a ciascuno co­ me si stesse aprendo una nuova era, e quale fosse l’eroe che l’aveva

aperta.104 L’effetto pragmatico fu forse ancora più potente: la Roma di Augusto è una città trasformata dall’impianto di una vasta scenografia architettonica e scultorea; agli occhi più distratti e più ignoranti, è di­ ventata un teatro approntato per qualche grande azione inedita. Quel che risulta dal libro di Zanker è un tertium quid: né propagan­ da né fasto, ma carisma. Per propaganda intendiamo un’impresa che, da parte di qualche regime forte, miri a organizzare l’opinione pubbli­ ca; il fasto reale, di contro, è un attributo che si dispiega automaticamente attorno a ogni monarca, come ha circondato i suoi predecessori e come circonderà i suoi successori, e come, effettivamente, ne daran­ no prova i successori di Augusto. La situazione era stata diversa pro­ prio per Augusto che non era stato il «fondatore» nel senso stretto del termine: nel suo caso, non si può parlare di propaganda, dal momento che un’opinione pubblica, convinta più che per metà, è, per così dire, andata spontaneamente incontro al principe. Le immagini ufficiali non cercavano di conquistare l’opinione pubblica, non facevano propagan­ da, scrive Zanker: era a malapena utile presso il popolo, che era già conquistato alla causa di Augusto, e inefficace presso l’opposizione ari­ stocratica.105 Non bisogna nemmeno parlare di fasto, perché, invece della venerazione, automaticamente dovuta a ogni monarca, Augusto è stato oggetto di un’esaltazione sui generis, quella che è tributata al capo di una crociata dagli entusiasti seguaci della sua impresa, quella che è designata con la parola «carisma», così spesso usata a sproposito. Un capo carismatico non deve dar mostra di fasto eccessivo, sareb­ be un grave errore. Augusto non ne sfoggiava molto: il suo abbiglia­ mento era modesto come la sua dimora.106 Egli sottolinea non la sua persona né la sua corona, ma la sua missione e la sua dinastia. Dal gior­ no successivo alla vittoria, inizia a far innalzare il suo mausoleo fami­ liare, monumento per metà trionfale che celebrava Augusto come Co­ lui che, vincendo, aveva salvato la repubblica e che si è rivelato il solo campione abbastanza forte per poterla riformare;107 e il suo successo sarà abbastanza completo, secondo la concezione antica,108 perché il suo potere passi naturalmente ai suoi discendenti. La sua domus, la sua modesta abitazione privata, è come saldata al tempio di Apollo, la qual cosa fa di Augusto l’eletto dal dio per questa missione di rigene­ razione.109 Così è stata messa in atto quella che resterà un’originalità unica (molto più della «copertura ideologica») del cesarismo nel corso di quattro secoli: il principe è un buon cittadino che ha potuto porsi in posizione preminente per prendere in mano gli interessi di quell’or­ ganismo che sino alla fine si chiamerà repubblica.110 L’autorità di Augusto fu quella di un campione della repubblica che doveva tutto al suo merito: era stato scelto dagli dèi per compiere una missione patriottica, cioè rigenerare Roma o, almeno, renderle

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un volto morale e religioso che fosse degno di lei (il volto pubblico, ufficiale, della patria è quel che più importa a un’opinione pubblica patriottica, il cui amor proprio si preoccupa delle apparenze) e apri­ re, nella speranza e nelle intenzioni (l’entusiasmo non chiede di più), un’età di pace e di prosperità. Augusto non faceva altro che suggerire tutto ciò, ma non ha mai organizzato né controllato alcuna campagna propagandistica, scrive Zanker, né tantomeno ha avuto alcun mini­ stro della propaganda.111 Nel foro di Augusto, l’elogio dell’imperato­ re è stato affidato alle buone cure del Senato;112 nemmeno gli avver­ sari del principato potevano sostenere che l’Ara Pacis esaltasse la per­ sona del principe più della sua missione.113 Augusto non si è fatto adorare: città, province e ordines rivaleggiavano nell’esaltarlo, nel moltiplicare i suoi ritratti,114 per non parlare dei poeti e della loro sin­ cerità evidente.115 Questa esaltazione del capo di una crociata da parte dei suoi crociati è propria di tutti i tempi; questo carisma, personale per definizione, è molto diverso dall’attaccamento, meccanico come il fasto, che circon­ dava un tempo ogni sovrano, i suoi predecessori e i suoi successori. A Roma, alcuni ritratti della famiglia imperiale, immagini grossolane e poco costose, erano visibili in ogni negozio e venivano anche appese sopra il talamo coniugale.116 Ripetiamolo, qui ritroviamo i tre ideali-ti­ po del potere secondo Max Weber: il potere istituzionale moderno, con un programma e un’eventuale propaganda; il potere tradizionale, con il fasto cerimoniale e l’amore per il re; il potere carismatico, carat­ terizzato dal fascino del capo e dal culto della sua personalità.117

Un’altra ragione è che la politica di Augusto non si limitava a rispon­ dere a delle attese, a medicare i mali del passato: il carisma augusteo prometteva un futuro inedito, un’età dell’oro. Una politica può convin­ cere rispondendo a bisogni o a rivendicazioni, può imporsi con la for­ za, giocare su riallineamenti interessati e sulla passività, ma può anche fare di più. Uno stretto razionalismo ci fa postulare che ogni avveni­ mento si spiega con quel che lo precede, con il passato, il contesto, le condizioni della società. Dimentichiamo che la prima crociata, la rivo­ luzione del 1789, l’imperialismo napoleonico o l’impressionismo furo­ no dovuti a una folla o a un gruppo che si infiammò d’entusiasmo per un progetto, per qualche impresa gloriosa o di conquista, per delle pos­ sibilità artistiche da mettere a frutto, che avrebbero finito per modifi­ care il futuro e non scaturivano direttamente dal passato.119 La vera causa efficiente, la miccia imprevedibile all’origine di tutto, è la rappresentazione di questo futuro: le cause solitamente addotte sono puramente coadiuvanti, sono la materia infiammabile. La libertà è un fatto empirico e l’azione umana, nella sua evidente varietà, ha ambizio­ ni inventive, è «creatrice», scopre e sfrutta delle virtualità.120 Questa libertà inventiva e in grado di motivare all’azione spiega co­ me Augusto abbia potuto restare al di qua della propaganda e come egli sia stato seguito ben al di là del fasto e dell’amore meccanico per il re, che diventeranno un’abitudine presso i suoi successori. Effettiva­ mente, se il potere considerato è carismatico, quanto di propagandisti­ co o di fastoso è da esso dispiegato non fa altro che confermare il cari­ sma del capo, senza farlo nascere dal nulla; se si tratta di un potere di tipo tradizionale, la pretesa propaganda è un fasto tradizionale che si irraggia dall’istituzione monarchica stessa e non dalla personalità dei re successivi.

XI Senza dubbio il vincitore di Azio si trovava in posizione di forza e giocò sulla consueta mescolanza di adesione sincera e accomodamento con l’ordine stabilito: si dava la parola soltanto agli scritti e alle immagini di quanti parteggiavano per lui. Quanti si fossero riallineati al nuovo ordi­ ne stabilito avrebbero prosperato a spese di quanti non l’avessero fatto. Si verificò anche quella mescolanza di commedia e di sincerità che è propria del ivishful thinking, quando si crede alla realtà di quel che si auspica. Bisogna tuttavia smettere di opporre una realtà cinica a un’ap­ parenza ingannevole: si voleva diventare un popolo rigenerato, e se ne riproducevano gli atteggiamenti. E questo accadeva a ragion veduta: per sfinimento dopo le guerre tra pretendenti, l’opinione pubblica si era volta a considerare con favore la monarchia, creduta una garanzia di pace; abbiamo prima citato un passaggio di Flavio Giuseppe118 che lo afferma. 352

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Ringrazio il professor Paul Zanker per la sua ben conosciuta amabilità, e Stéphane Benoist, Francois Lissarague e Jean-Claude Passeron per le loro critiche e suggeri­ menti, come pure Jacqueline Dentzer-Feydy. Errors are mine. Così, in un libro istruttivo, A. Ellenius (dir.), Iconographie, propagande et légitimation, Paris 2001. Opera di Adriano secondo A. Claridge, Hadrian’s Column ofTrajan-, «Journal of Roman Archaelogy», 6,1993, pp. 5-22. P. Zanker, in un artìcolo penetrante, «Bild-Raume und Betrachter im kaiserzeitlichen Rom, Fragen und Anregungen fiir Interpreten», in A.H. Borbein, T. Holcher e P. Zanker (Hrsg.), Klassische Archeologie: eine Einfiihrung, Berlin 2000, pp. 206-226. P.ZsmkeT,Augustus und die Macht der Bilder, cit. (trad.it .op. cit., pp. 380 ss.). Secondo la definizione di J. Elsner, «Frontality in thè Column of Marcus Aurelius», in Autour de la colonne Aurélienne: geste et image sur la colonne de Marc Aurèle, Tumhout 2000, pp. 263. 353

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R. Syme, The Augustan Aristocracy, cit., p. 439 (trad. it. op. cit., pp. 425 ss.). Mi permetto di rinviare al mio La Société romaìne, cit., pp. 320-324. M.W. Jones, One Hundred Feet and a Spirai Stair: thè Froblem ofDesigning Trajan’s Column, «Journal of Roman Archaelogy», 6,1993, p. 23. R. Brilliant, Roman Art from thè Republic to Constantine, London 1974, p. 192: lo spettatore « grasped at all once wherever thè view stood». La Société romaìne, cit., p. 324 (con la citazione di Brilliant, p. 323). Le persone che scrutano questi rilievi, non vi distinguono granché (ma sentono che, se fossero meglio posizionati, potrebbero comprendere meglio la raffigurazione, fatto da non trascurare). R. Cagnat e V. Chapot, Manuel d’archéologie romaìne, Paris 1916,1, p. 641. K. Lehmann-Hartleben, Die Trajanssàule, Berlin 1926,1, p, 1, pensa a una cattiva coordina­ zione fra l’ideatore del ciclo decorativo e l’équipe degli scultori. „F. Lepper e S. Frere, Trajan’s Column: A New Edition ofthe Cichorius Plates, Commentary and Notes by A. Sutton, Gloucester 1988, p. 33, ci vedono uno zelo inutile e assurdo dello sculto­ re. R. Bianchi Bandinelli giustifica la scarsa visibilità dei rilievi della colonna con la li­ bertà dell’artista che lavora solo per se stesso (in Dall’Ellenismo al Medioevo, Editori Riuniti, Roma 1978, p. 139, «L a Colonna Traiana o della libertà dell’artista»). Per S. Settis, in A. Beyer (Hrsg.), Die Lesbarkeit der Kunst: zur Geistes-Gegenwart der Ikonologie, Berlin 1992, p. 44, la ridondanza di informazioni del fregio traianeo mostra che il dettaglio in queste immagini aveva una funzione «documentaria, arriverei a di­ re un carattere archivistico». Lo stesso vale per la lunga iscrizione delle Res gestae. Su questa iscrizione G .G . Belloni (citato da Settis, ibid.), scrive in «Aevum», 64,1990, p. 98: «Augusto era consapevole di un fatto ovvio, cioè che le lastre deU’iscrizione sa­ rebbero state viste da una folla, osservate da molti e lette da pochissimi: qualche pa­ rola qua e là, mentre l’occhio salta da un punto all’altro». J.B . Ward-Perkins, Roman Imperiai Architecture, cit., p. 87. Non avevo «confuso progetto e realizzazione», malgrado la critica amicale rivolta­ mi in Autour de la colonne Aurélienne, cit., p. 10. Tra le obiezioni, è stata avanzata anche quella che certe figure dei fregi traianeo e aurelianeo presenterebbero un al­ lungamento delle figure destinato a compensare la prospettiva obliqua (il che mi pare oltremodo dubbio) o che gli autori del fregio avrebbero dato all’imperatore una silhouette fissa e riconoscibile. Forse è così, ma, anche se fosse, non cambie­ rebbe nulla nel fatto che, per osservare nel dettaglio questo allungamento o questo stereotipo, serve un binocolo. In realtà, gli artisti della Colonna Traiana non hanno tenuto in nessun conto gli spettatori: basta paragonare il loro lavoro minuzioso con la colossale testa di Costantino nella basilica di Massenzio, con le sue semplifica­ zioni macroscopiche che tengono conto della distanza dell’osservatore. Un articolo intitolato, La colonne Trajane, lisibilité, structure et idéologie, «Pallas», 44, pp. 159181, è assai ingenuo. S. Settis, « L a Colonne Trajane: l’empereur et son public», conferenza tenuta a Bruxelles e a Parigi, e ripresa in «Revue archéologique», 1991,1, pp. 186-198; «D ie Trajanssàule: der Kaiser und sein Publikum», in A. Beyer (Hrsg.), Die Lesbarkeit der Kunst, cit., pp. 40-42; pubblicato anche nella rivista «D er Freibeuter». Non è chiaro se lo spettatore di cui parla Settis sia proprio lo spettatore ideale co­ me lo si intende comunemente; si tratterà, piuttosto, di uno spettatore reale: un passante, un curioso, che si trova, come succede nella realtà, al livello del suolo. Lo spettatore ideale, da parte sua, è un essere immaginato dalla ragione, conforme al­ le esigenze dell’opera e che corrisponde agli auspici dell’artista: si tratta di un per­ sonaggio aereo, che può porsi (come era stato lo scultore nel corso del suo lavoro) 354

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in piedi davanti a ogni rilievo, fino alle più alte spire, abbastanza vicino da poter ammirare i dettagli dell’opera. Una volta riconosciuta la differenza tra i due spetta­ tori si delinea un problema molto reale: in cui i rilievi rappresentano, per la loro maggioranza, un messaggio che nessuno riceve perfettamente, allo stesso modo lo scultore lavorava per uno spettatore immaginario, ideale, la qual cosa pone un pro­ blema di psicologia della creazione; cfr. P. Veyne, La Société romaìne, cit., p. 329. Per la ridondanza, cfr. nota 29. Cfr. nota 10. Nella comunicazione è pragmatico tutto quel che non è semiotico. Il contenuto si­ gnificante di un messaggio (contenuto che può essere piacevole) è semiotico; il fat­ to di comunicare questo messaggio a un interlocutore prendendo un’attitudine al­ tezzosa è pragmatico; questo è un aspetto della realtà e non della parola. S. Settis in A. Beyer (Hrsg.), Die Lesbarkeit der Kunst, cit., pp. 44-45. Ma R. Bian­ chi Bandinelli non ci credeva molto (Roma: l’arte romana nel centro del potere, Fel­ trinelli, Milano 1969). In Hadrian's Column ofTrajan, Amanda Claridge ha appena dimostrato che nel 113 la colonna innalzata a Traiano aveva un fusto liscio e che il fregio scolpito era stato eseguito dopo la morte di Traiano su ordine di Adriano («Journal of Roman Archaeology», 6,1993, p. 5). Per R. Bianchi Baldinelli, Roma: l’arte Romana nel centro del potere, cit., p. 240, bi­ sogna cercare gli antecedenti della composizione dei rilievi nella pittura trionfale. I rilievi dell’arco dei Severi riproducono con sicurezza gli ampi quadri che dopo la sua campagna panica Settimio Severo fece esporre a Roma prima del suo ritorno, secondo la testimonianza di Erodiano III, 9,12. G. Rodenwaldt l’ha detto più vol­ te, in particolare nei Rómische Mitteilungen, 36-37, 1921-22, pp. 81-86, e nella Cambridge Ancient History, XII: The Imperiai Crisis and Recovery, Cambridge 1939, p. 546; la qual cosa, secondo R. Bianchi Bandinelli, op. cit., p. 66, è «molto convincente». Cfr. L. Franchi, Ricerche sull’arte di età severiana, «Studi miscella­ nei», 4,1964, pp. 28-32. La differenza è che i rilievi severiani hanno conservato lo stile popolare di queste pitture, mentre, sulla Colonna Traiana, i pannelli corri­ spondenti sono stati trasposti in uno stile classico. Sulla molteplicità delle mani (disuguali nell’esecuzione, ma anche nella composizione e nel Kunstwollen) che hanno lavorato alla Colonna Traiana, cfr. W. Gauer, Untersuchungen zur Trajans­ sàule (Monumenta Artis Romanae, XIII), Berlin 1977, e in particolare p. 83. Abitudine nota da testi dettagliati: Appiano, Guerre puniche, 66, e prima di tutto Flavio Giuseppe, La guerra giudaica, VII, 5,139-147; Plinio il Vecchio, Storia natu­ rale XXXV, 22 e 23 (il trionfatore stesso, all’inizio, illustrava al popolo i pannelli dipinti); Erodiano III, 9,12, e VII, 2, 8 (cfr. Storia Augusta, Vita dei due Massimini, XII, 5-10). Altre pitture di carattere «informativo» erano esposte al Comitium. Si pensa talora che queste pitture fossero caratterizzate da una prospettiva a volo d’uccello. Cfr. M. Torelli, Typology and Structure of Roman Historical Reliefs, Ann Arbor 1982, pp. 120-125; C. Picard, L’idéologie de la guerre et ses monuments dans l’Empire Romain, «Revue archéologique», 1 ,1992, in particolare p. 119 e p. 135; F. Zevi, «L’art populaire», in La Feinture de Pompéi: témoignages de l’art romain dans la zone enseveliepar le Vésuve, Paris 1993,1, in particolare pp. 306-307. L’abitudi­ ne è di origine ellenistica, secondo J.J. Pollitt, Art in thè Hellenistic Age, Cambrid­ ge 1986, pp. 45,155,284. Verso l’anno 400, questa tradizione verrà profondamen­ te trasformata: un testo del pagano Eunapio (fr. 78 Miiller), segnalatomi da Chri­ stophe Goddard, dice che certe immagini trionfali non mostravano più «il corag­ gio dell’imperatore, la forza dei soldati o una guerra regolare», ma, ridicolmente e 355

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•volgarmente, la mano di Dio che usciva da una nube per cacciare i barbari. Non ho potuto procurarmi un articolo di G. Zinserling, Wissensch. Zeitschrift der FriedrichSchiller Universìtdt Jena, 9,1959-1960, p. 403. Questa somiglianza prova che i rilievi della colonna sono proprio la riproduzione delle pitture trionfali: questi rilievi sono una cronaca delle due campagne di Dacia, cronaca dettagliata come lo era stata la serie di quelle pitture che avevano raccon­ tato gli episodi della conquista. Gli autori dei rilievi non hanno cercato di riassu­ mere, di condensare, di scegliere, di stilizzare, o non ne sono stati capaci. Si tratta del lavoro di una équipe di buoni esecutori. Non accade la stessa cosa con i rilievi dell’arco dei Severi nel foro; i loro autori, a partire dalle pitture trionfali, di cui hanno conservato lo stile popolare (immaginiamo l’arco di trionfo dell’Étoile di Parigi decorato di rilievi nello stile delle immagini di Épinal), hanno scelto, con­ densato, riorganizzato, e hanno anche decorato ogni facciata con una sorta di tap­ pezzeria fiamminga, secondo le parole di Eugenia Strong. P. Zanker, Bild-Raume und Betrachter im kaiserzeitlichen Rom, Fragen und Anregungen ftir lnterpreten, cit., p. 223: «L a non visibilità dei rilievi diventava un’e­ spressione a modo suo: il monumento era fatto per l’eternità, l’immensa gloria del sovrano era annunciata non soltanto ai mortali, ma anche, per così dire, al cielo». P. Veyne, La Société romaine, cit., p. 321: la colonna proclama la gloria di Traiano di fronte al cielo e al tempo. Nelle mastabe egiziane si ritrovano oggetti e affreschi che evocano la vita quotidia­ na del ricco defunto. Possiamo intravedere quale sia la concezione egiziana dell’al­ dilà: il morto vive nella sua tomba. Ma, quando leggiamo Wittgenstein e quando apprendiamo da lui a distinguere tra le razionalizzazioni dottrinali e le reazioni da lui chiamate istintuali, ci vediamo piuttosto un desiderio di esprimere per sempre, nell’oscurità della tomba, quel che furono il defunto, la sua ricchezza e la sua vita. Egli era ricco, e tale resta per tutta l’eternità. Miraculorum densitate [...]. Singularem sub omni caelo structuram (Ammiano Mar­ cellino, XVI, 10). Allusione alla scala interna di centottantacinque gradini che permette di accedere alla cima della colonna. Elatosque vertices qui scansili suggestu consurgunt (Ammiano Marcellino, XV I,

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Siamo in dubbio, non sapendo se un semiologo possa vedere in questo una ridon­ danza: la parte di un messaggio che non è trasmessa è cosa diversa dalle ripetizioni che il lettore trascura volutamente in un messaggio trasmesso interamente. In altre parole, quel che è trasmesso con ridondanza, è il dettaglio di ogni scena: due guer­ rieri sarebbero bastati per la comprensione di una scena di battaglia, là dove lo scultore ne ha invece messi tre. Questi dettagli ridondanti non sono la stessa cosa di cui parla S. Settis, e cioè il senso generale di queste scene di guerra (vale a dire che Traiano è un grande conquistatore). Ma, a voler considerare l’insieme del fre­ gio, esso non presenta una ridondanza nel senso con cui Settis usa questa parola: due distinte battaglie possono pure rassomigliarsi un poco, ma non sono ridondan­ ti né per lo storico né per quanti hanno combattuto in esse. Abbiamo visto come S. Settis qualifichi come «archivistico» il racconto militare tanto dettagliato della Colonna Traiana. Ma cosa può significare con precisione questa parola? Degli archivi vengono conservati per i funzionari e per i curiosi; ma nessuno poteva andare a consultare quei bassorilievi muti per scrivere una storia delle guerre di Traiano! Con questa parola, «archivistico», Settis riconosce implici­ tamente che questi rilievi non erano destinati a lettori umani, ma all’eternità. 356

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Sulla distinzione di queste tre funzioni (che prefigurano le sei funzioni del linguag­ gio in Jakobson), cfr. K. Biihler, Die Axiomatik der Sprachwissenschaften, «KantStudien», 38,1933, pp. 74-90. Più che con il loro contenuto: accade lo stesso con la propaganda e il fasto come con l’arte e E corteggiamento: questi comportamenti sono impositivi e imposti per­ ché sono inutilmente «costosi» per la ricchezza, la fatica, per l’organizzazione che presuppongono (per esempio, una sfilata hitleriana), per la complessità. P. Veyne, La Société romaine, cit., pp. 331-334. Sull’importanza che, per uno stori­ co, riveste l’aspetto pragmatico di fronte a quello semantico, si veda la critica mos­ sa a Gadamer ed Heidegger dallo storico Egon Flag, la loro Kinderkrankheiten der neuen Kultur geschichte, «Rechtshistorisches Journal», 18, 1999, p. 468. Come scrisse un giorno J.-M. David, a Roma, l’idea di spazio pubblico di discussione, ca­ ra ad Habermas, sarebbe «anacronistica» perché « l’auctoritas del parlante deter­ minava sempre la pertinenza e l’efficacia di ogni discorso politico». R. Parker, Athenian Religion, Oxford 1996, ha sorpreso più di un lettore e un re­ censore affermando che E messaggio del Partenone «does not reside in thè detaEs of thè decoration». Al British Museum, vediamo E fregio così come apparve un tempo soltanto agli oc­ chi degli esecutori, sottolinea lo stesso C. Picard, Manuel d’archéologte grecque. La Sculpture, II, 1, p. 436; cfr. P. Zanker, Bild-Raume und Betrachter im kaiserzeitli­ chen Rom, Fragen und Anregungen ftir lnterpreten, cit., p. 222, AbbEdung 3. Cfr. T. Kovès, La Formation de Γancien art chrétien: l’espace, la composition, la conception de la plastique, Paris 1927, p. 57: questi mosaici sono posti troppo in alto e sono troppo piccoli. Del resto, questo spiace ancora di più dato che la loro paren­ tela con l’arte deEa miniatura è stata fatta più volte notare, e che essi hanno deEe fini sfumature colorate che sfuggono aEo spettatore. À la recherche du temps perdu, Paris 1973,1, p. 638, (trad. it. Alla ricerca del tempo perduto, Mondadori, MEano). Cfr. nota 12. T. Holscher, Staatsdenkmal und Publikum Vom Untergang der Republik bis zur Festigung des Kaisertums in Rom, 1984, pp. 15-16 (trad. it. Monumenti statali e pub­ blico, L’Erma di Bretschneider, Roma 1994); P. Zanker, Augustus und die Macht der Biedes, cit., p. 24 (trad. it. op. cit., pp. 20-21). J.P. Meier in quel capolavoro di dottrina e di onestà inteEettuale che è Jesus, a Mar­ ginai Jew, New York 1994-2001 (trad. it. Un ebreo marginale, Queriniana, Brescia 2004). André Bernard si è posto la domanda della leggibEità deEe iscrizioni in Sorciers grecs, Paris 1991, pp. 404-405. Le Res Gestae di Augusto ad Ankara sono inci­ se ad altezza d’uomo e di lettore, come E Tarif di Paimira. I racconti dei miracoli del dio nella grande iscrizione di Epidauro (Inscriptiones Graecae, IV, 1,121 ss.; W. Dittenberger, Sylloge inscriptionum Graecarum, n. 1168-1173) sono destinati aU’edificazione dei fedeli, come le «steli di confessione» asiatiche (G. Petzl, Die Beichtinschriften Westkeinasiens, «Epigraphica Anatolica», 22,1994); ora, la maggioran­ za dei fedeli non poteva assolutamente leggerle. Senza dubbio, E personale del san­ tuario giocava qui un importante ruolo e ne dava lettura ad alta voce al pubblico (ibid., ρ. XVI). Si pensi poi alla difficoltà di decifrare lunghi testi le cui parole non erano separate. CIL, VI, 960; H. Dessau, Inscriptiones Latinae selectae, 294. P.A. Brunt, Roman Imperiai Themes, cit., p. 448. Si potrebbe ribattere che in un paese greco E testo deEe Res Gestae è stato tradotto in greco e che si calcolava dun­ que che avrebbe avuto dei lettori. Queste obiezioni sarebbero meno decisive che 357

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semplicistiche e poco sagaci: il bisogno di dispiegare se stessi e la propria persona­ lità, il narcisismo dell’autore prevalgono sul calcolo realista, a tal punto che non ci si raffigura chiaramente il proprio pubblico, anche se si desidera essere letti. Que­ sto desiderio occupa il posto della realtà. P. Brown, Society and thè tìoly in Late Antiquity, Berkeley, 1982, p. 201; trad. fr., La Société et le Sacré dans VAntiquité tardive (trad. it. La società e il sacro nella tar­ da antichità, Einaudi, Torino 1988, pp. 145 sgg.). J. Engemann, Deutung und Bedeutung fruhchristlicher Bildwerke, Darmstadt 1997, cfr. p. 130, con relativa bibliografia: l’affermazione di Gregorio Magno non è che un’apologià delle immagini contro uno dei loro detrattori, che è un antenato dell’i­ conoclastia. Bisogna del resto distinguere «tra il livello d’emissione di quanti pro­ muovono le immagini e il livello di ricezione proprio degli spettatori contempora­ nei». Secondo Peter Brown («Images as a Substitute of Writing», in E. Chrysos e I. Wood (edd.), East and West: Modes o f Communication, Leiden 1999, pp. 23-25), il testo celebre di Gregorio Magno non dice che le immagini servono per istruire gli illetterati, ma che bisogna fare delle immagini un uso intellettuale, rapportarle al loro contenuto informativo, e non adorarle e prosternarsi davanti a esse, incensar­ le e baciarle. O. Pachi, Methodisches zur kùnstlerischen Praxis: Ausgewiihlte Schriften, Miinchen 1977 (trad. it. Metodo e prassi nella Storia dell’arte, Bollati e Boringhieri, Torino 1994, p. 61). R. Recht in «L’Histoire», n. 249, dicembre 2000. P. Zanker, Bild-Ràume und Betrachter im kaiserzeitlichen Rom, Fragen und Anregungen fiirlnterpreten, cit., pp. 220-221. R. Preimersberger, in A. Ellenius (dir.), Iconographie, propagande et légitimation, cit., p. 195, a proposito della fontana di Nettuno nella Bologna pontificale: «L a bellezza e la complessità del monumento fanno nascere nello spettatore del 1560 un sentimento confuso di presenza rappresentativa. Ma è possibile che la dichiara­ zione esoterica sia stata socialmente limitata al gruppo colto che, in virtù della sua educazione classica, poteva seguire le indicazioni offerte dall’opera». P. Zanker, Bild-Ràume und Betrachter im kaiserzeitlichen Rom, Fragen und Anregungen fiirlnterpreten, cit., p. 219. Ibid., p. 222. J.-M. David, «Les contìones militaires des colonnes», in Autour de la colonne Aurélienne, cit., p. 213. Infatti un militare non era semplicemente «un soldato»: una grande differenza separa gli eserciti antichi e quelli dell’età moderna. I primi erano formati soltanto da soldati e unicamente da soldati, mentre il nucleo dei secondi si riduceva a una aristocrazia, al solo corpo degli ufficiali, dove i soldati erano soltanto provvisoriamente arruolati per obbedire ai loro comandi. Schematicamente, un esercito dell’Ancien Régime (si veda von Clausewitz) ha per asse portante gli uffi­ ciali; al di sotto di essi, gli uomini della truppa. L’esercito romano ha come asse por­ tante proprio i soldati: al di sotto di questi, gli ufficiali. Nel racconto di un testimo­ ne oculare e veritiero, Ammiano Marcellino, Giuliano, durante la sua campagna in terra persiana, riuniva il suo esercito in una contio per discutere alcune operazioni. P. Zanker, Augustus und die Machie der Bilder, cit., pp. 273-279. Id., Bild-Ràume und Betrachter im kaiserzeitlichen Rom, Fragen und Anregungen fiir Interpreten, cit., p. 220. T. Hólscher, Staatsdenkmal und Publikum: Vom Untergang der Repuhlik his zur Festigung des Kaisertums, cit., p. 23. Su questa decorazione vegetale, cfr. la messa a punto recente di P. Gros, «Revue archéologique», 1,2000, pp. 114-115. 358

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P. Zanker, Augustus und die Macht der Bilder, cit., pp. 184-188. D i contro, il «Basso impero» doveva in parte la sua cattiva reputazione alla sua ar­ te poco elegante, espressionista, non naturalista, in virtù della nostra tendenza a prendere l’arte per il volto della società, per la sua diretta e immediata espressione: diventava così un mondo politicamente e socialmente difforme come lo sono i suoi ritratti. P. Gros, «L a militarisation de l’urbanisme trajanien à la lumière des recherches récents sur le forum Traiani», in J. Gonzalez (coords.), Frajano emperador de Roma, L’Erma de Bretschneider, Roma 2000, p. 247. Ovidio percorse attentamente il foro di Augusto e diede conto dettagliatamente degli elogia di Enea e di Romolo (Fasti, V, 563-566, citato da P. Zanker, Il foro di Augusto, Palombi, Roma 1984, p. 17 e n. 77). L o sappiamo dalla scoperta delle tavolette dei Sulpici (G. Camodeca, Fabulae Pompeianae Sulpiciorum: edizione critica dell’archivio puteolano dei Sulpicii, Edizioni Quasas, Roma 1999). Pensiamo a Ermogene, bestia nera di Tertulliano: questo pittore cristiano si occupava di teologia, voleva conciliare il materialismo stoico e il dogma cristiano e non aveva ri­ nunciato alla sua inclinazione per le donne. Nessuno ignorava, del resto, che gli artisti andassero a letto con le loro modelle (Giustino Martire, Prima Apologia 1,9,4). Digesto, X X I, 1,65: «Velutisi [servus] ludos adsidue velit spedare aut tabulaspietas studiose intueatur». Orazio, Satire, II, 7, 96. M. Oppermann, Ròmische Kaiseneliefs, Leipzig 1985, pp. 79-114. P. Zanker (Bild-Ràume und Betrachter im kaiserzeitlichen Rom, Fragen und Anre­ gungen fiirlnterpreten, cit., pp. 219-220) riporta due casi estremi: un retore molto istruito, come il Filostrato delle Immagini, che comprende le allusioni mitologiche in un dipinto, e gli spettatori comuni di un sarcofago mitologico che «davanti al se­ polcro, si aspettano dalle immagini una consolazione o un invito ad assaporare le gioie della vita, per superare quel momento di afflizione e lutto». D a qui alcuni stu­ pefacenti errori sulle leggende rappresentate sui sarcofagi, dove il mito, a prezzo di controsensi, è stato adattato alle attese dello spettatore medio che conosceva male la leggenda (Id.,«Phadras Trauer und Hippolitos Bildung: zu einem Sarkophag im Thermenmuseum» in Im Spiegel des Mythos: Bilderwelt und Lebenswelt, Wiesbaden 1999, p. 131). Id. Augustus und die Macht der Bilder, cit., p. 106. Quando parliamo delle Chiese della Controriforma, affermiamo talora che gli affreschi della cupola, dove alcuni angeli si levano in volo verso il cielo, di cui essa è un’immagine, siano finalizzate al disegno propagandista teso a elevare le anime verso Dio; ma, pur avendo visitato parecchie chiese barocche, non ho vi­ sto molti fedeli levare gli occhi in direzione della cupola; i soli a farlo sono i tu­ risti che hanno studiato la loro guida. In realtà, i pittori hanno voluto semplicemente, con una sorta di calembour visivo, giocare sull’analogia tra la cupola e la volta celeste. Ma, beninteso, è possibile in certi casi: cfr. per esempio K. Dunbabin, Mosaics o f thè Greek and Roman World, Cambridge 1999, pp. 317-326. L e immagini e le legende delle monete erano un’esperienza tanto familiare a tutti che se ne traevano alcune comparazioni esplicative. Frontone, A d Antoninum de oratoribus, 12, biasima l’uso di parole invecchiate, che paragona alle vecchie mone­ te; ora, scrive, si preferiscono le monete di Antonino o di Marco Aurelio alle mo­ nete repubblicane completamente usurate che portano i nomi dei magistrati mo­ netari provenienti da antiche gentes ormai estinte. 359

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La Storia Augusta, II, 6, (pretende che alcune monete di Diadumeno gli attribuis­ sero il nome di Antoninus, fatto oggi confermato (H. Mattingly e H. Sydenham edd.), The Roman Imperiai Coinage, IV, 2, p. 13). Giuliano vanta «la semplicità di costumi e la modestia del vestito che si notano an­ cora sui ritratti di questo imperatore» (Elogio dì Costanzo, 5, p. 7 A.). Vita di Costantino, IV, 15 e 73; cfr. A. Cameron e S.G. Hall, Eusebius, Life o f Con­ sta tin e Translated with Introduction and Commentary, cit, pp. 107 ss. Vita di Costantino, III, 3 ,1 : Costantino fa esporre davanti alla porta del palazzo imperiale «un’altissima pittura» che lo raffigurava come vincitore di un dragone e in cui si può riconoscere Licinio; cfr. A. Alfoldi, The Conversion o f Constantine and Pagan Rome, Oxford 1948 (1998), p. 84, cfr. p. 34 (trad. it. Costantino tra pa­ ganesimo e cristinaesimo, Laterza, Roma-Bari 1976). Si tratta della porta monu­ mentale o chalke del palazzo di Costantino secondo G. Dagron, Naissance d’une capitale, cit., p. 390. Vita di Costantino, IV, 69,2, cfr. per la spiegazione A. Alfoldi, The Conversion o f Constantine and Pagan Rome, cit., p. 117. Sulle loro monete, che furono emesse all’inizio del loro regno (dal momento che i loro regni furono brevi), Galba, imitato da Vespasiano e da Nerva hanno utilizza­ to diverse allegorie significative - Aequitas Augusta, Libertas Publica, Roma renascens; nuovi arrivati nell’agone politico, in seguito a una tirannia o alla caduta di una dinastia, essi dichiaravano qui non un programma per il futuro, ma il senso dell’avvenimento che era stato la loro venuta al potere, e cioè una liberazione. Ma, a parte questi casi «rivoluzionari», più spesso le benemerenze e i successi del regi­ me imperiale e del regno presente, richiamati nel corso di ogni regno, saranno all’incirca gli stessi: Pax, Felicitas temporum, Aequitas, Spes, Salus... L a monetazione ha un fine tanto poco determinato che il beneficio imperiale dell’annona, di cui beneficiava la sola Urbs, è costantemente celebrato dall’officina addetta alla mo­ netazione di Roma, ma talvolta anche da quello di Serdica, in Bulgaria, e di Siscia, nell’attuale Ungheria. Quel che viene ripetuto da quasi tutte le serie monetarie è che, grazie al principe, regnano ora la pace, la pietà, la concordia e la prosperità. Questa monotonia con­ trasta con certi regni: il verso delle monete di Domiziano celebra, più che i suoi me­ riti, la sua relazione con Minerva, sua dea protettrice e la sua funzione di censore perpetuo: il suo titolo di censor perpetuus in grandi caratteri balza agli occhi sul ver­ so di queste monete, e non soltanto in esergo sul recto, nella titolatura. Un altro ori­ ginale è Adriano, con la serie monetaria delle «province dell’impero»: essa celebra i viaggi del principe, ma anche una concezione nuova dei rapporti fra Roma e le sue province (dal momento che Antonino, che non viaggiò, riprese questa serie). A mio avviso, queste serie monetarie sono una prefigurazione dell’editto di Caracalla nel

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Tacito, Annali XIII, 4 ,2 ; Cassio Dione, LX I, 3 ,1 ; Plinio, Panegirico, LXVI, 2 ,3 . Codice teodosiano, Novelle di Maggioriano, 1. P. Strack, Untersuchungen zur rómischen Reickspragung des zweiten Jahrhunderts, I, Traian, η. 1, e p. 48, n. 113. Plinio, Panegirico, LVI, 2. M. Corbier in R. Frei-Stolba e K. G ex (dir.), Recherches récentes sur le monde héllenistique, Berne 2001, p. 314. Secondo un luogo comune frequente, per esempio nel papiro Rylands, II, 77,1. 35 (A.S. Hunt e C.C. Edgar, [edd.], Select Papyri, II: Public Documents, n. 241, pp. 155-156), o, sotto Tiberio, nel senatus consultum su Gneo Pisone che è stato pub­ 360

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blicato nell’«Année épigraphique», 1996, n. 885,1,13: «Presentistatu reipublicae, quo, beneficio principis nostri, fruì contigli». Su questi fatti ben noti, L. Mitteis e U. Wilcken, Grudziìge und Chrestomathie der Papyruskunde, cit., 1 , 1 Historischer Teil, Grendziige, p. 420; A.S. Hunt e C.C. E d ­ gar (edd.), Select Papyri, II: Publics Documents, nn. 222 e 235; Tituli Asiae Minoris, III, 1 (Termessos), 5; Inscriptiones Graecae II (Atene), 1077; Theologisches Worterbuch zum Neuen Testament, Π, pp. 719-722; Realexicon fiir Antike und Christentum, VI, p. 1110. Le monete d’oro battute dagli «usurpatori» o dagli imperatori che avevano regna­ to solo per poco tempo non sono una rarità, com’è confermato dal loro prezzo nei cataloghi delle aste numismatiche. Dunque, la prima cura di un candidato al trono era quella di emettere delle monete d’oro, senza aspettare di avere regnato a lungo. Lattanzio, De mortibus persecutorum, 25; Zosimo, II, 9,2. Un’iscrizione di Oinoanda in Licia (H. Dessau, Insciptiones Latinae selectae, 8870; R. Cagnat, Inscriptiones Graecae ad res Romanas, III, n. 481) ci dice che, per una fe­ lice coincidenza, il giorno stesso in cui si celebravano delle venationes per l’anniver­ sario del dies imperii (tale ci sembra essere il senso delle parole agein inperion), «fu portata l’immagine sacra del nostro signore Valeriano, novello Augusto» (cfr. T. Mommsen, Staatsrecht, II, 2, cit., indice degli argomenti, ρ. X , in nota). Pertanto, dei corrieri a cavallo si sono precipitati per tutte le strade, cambiando cavallo all’incirca ogni trenta chilometri; al passaggio, esibivano in ogni città un ritratto dipinto del nuovo Augusto, come hanno fatto a Oinoanda. Un ritratto dipinto, e uno solo, dal momento che un cavaliere del cursus publicus non poteva portare più di trenta lib­ bre (Codice teodosiano, V ili, 5, 8 eccetera); deve trattarsi di corrieri rapidi (dromos tachus, cfr. A.H.M. Jones, The Late Roman Empire, cit., p. 1344, n. 14). Ora, Filo­ strato (Vita di Apollonio di Tiana, V, 8), ci fa sapere che era il dromos tachus che era incaricato di annunciare alle popolazioni le «buone novelle» imperiali (euangelia). Si veda il bilancio numismatico in H. Lietzmann, Histoire de l’Église ancienne, trad. A. Jundt, Paris 1962, III, pp. 152-154. Le monete che, a partire dal 315, por­ tano un discreto simbolo cristiano (croce, monogramma sull’elmo di Costantino e una sola volta, nel 326, il labarum) provano quale fosse la religione personale e confessata dell’imperatore: Alfoldi l’ha detto bene (The Conversion o f Constantine and Pagan Rome, cit., p. 27). Costantino non ha tuttavia sistematicamente utilizza­ to le emissioni monetarie per rendere pubblica o promuovere la sua religione, e non sembra aver condotto la campagna di propaganda numismatica di cui parla Alfoldi. Aureliano, invece, celebrava abbondantemente sulle sue monete «Sol dominus imperi Romani» (o ancora, se la dottrina di Strack è vera, la fondazione del tempio e del culto di quel dio). Se si resiste alla tentazione di «sovrinterrogare» ap­ passionatamente i documenti, i fatti costantiniani sono soprattutto negativi. Il me­ daglione di Ticinum con il labarum è, come si è detto, una sorta di ex voto per la vittoria del ponte Milvio. Dopo il 321, le immagini degli dèi pagani spariscono dal­ la monetazione costantiniana, come dopo il 322 la legenda Sol Invictus. A mio pa­ rere, alcune apparizioni isolate di simboli cristiani sono dovute a «eccessi di zelo» dei funzionari monetari. Claude Lepelley me ne cita un esempio: in una determi­ nata annata, alcune pietre miliari africane recentemente scoperte portano un m o­ nogramma cristiano al di sopra della loro dedica a Costantino, poi questo segno cristiano sparisce da qui; la sua apparizione momentanea era dovuta all’iniziativa isolata di qualche alto funzionario. Nella vecchia Cambridge Ancient History, XII: The Imperiai Crisis and Recovery, cit., p. 716: « I romani studiavano attentamente le loro monete, perché sapevano 361

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che in esse avrebbero trovato qualcosa degno di attenzione. E poche altre cose at­ tiravano allo stesso modo il loro interesse». Cfr. C.H.V. Sutherland, The Intelligibility o f Roman Imperiai Coin Types, «JR S», 49,1959. Nel 1814, al momento dell’invasione degli alleati riuniti in lega contro Napoleone, Stendhal volle armare la popolazione contro gli invasori e creare dei corpi franchi; il prefetto di Grenoble glielo impedì: «Guardatevi dal fare appello a sentimenti di apparente generosità che siano troppo vicini all’insubordinazione popolare». Ver­ so il 1943, se devo prestar fede ai miei ricordi d’infanzia, la diffidenza ostile susci­ tata dalla Resistenza al nazismo in una parte della popolazione non aveva a che fa­ re con il ruolo svolto dai comunisti in essa, come a volte si legge; quest’ostilità era più globale, più istintiva, era l’odio pieno di paura dei possidenti e dei non possi­ denti per l’insubordinazione e l’«anarchia». P. Zanker, Bild-Ràume und Betrachter im kaiserzeitlichen Rom, Fragen und Anregungen fiirlnterpreten, cit., p. 223. M. Jordan-Ruwe, Das Saulenmonument. Zur Geschichte der erhóhten Aufstellung antiker Rortràtstatuen, «Asia Minor Studien», 19,1995, p. 207. Cfr. Plinio, Storia Maturale, XXXTV, 27, citato dall’autore, p. 53: «Columnarum ratio erat attolli supra ceteros mortales, quod et arcus significant novicio invento». L a statua sulla cima fu all’inizio un ex voto, poi una statua funeraria o onorifica; così, la Sfinge dei Nassi a Delfi, le due colonne che a Olimpia sorreggono le statue-ritratto di Tolomeo Filadelfo e della sua sorella-sposa Arsinoe, o, a Costantinopoli, la colonna che sostiene ima statua equestre di Giustiniano. Ammiano Marcellino, XVI, 10,14 (ed. it. op. cit., voi. I, p. 287). P. Zanker, Augustus und die Macht der Bilder, cit., p. 13. J.-M. Schaeffer, Pourquoi la fiction?, cit., p. 127. R.O. Paxton, The Anatomy ofFascism, New York 2003; (trad. it. Ilfascismo in azio­ ne, Mondadori, Milano 2006). H.D. Lasswell e A. Kaplan, Power and Society: A Framework for Politicai Inquiry, New Haven 1950, p. 104, n. 2 (trad. it. Potere e società, Etas, Milano 1969): biso­ gna smettere di ripetere che « everything is propaganda». Numerosi esempi sono riuniti da R. MacMullen, Roman Govemment’s Response to Crisis, New Haven 1976, pp. 25-45. P. Brown, La società e il sacro nella tarda antichità, cit., p. 267, che rinvia al Codice teodosiano, XV, 17,12 (o Codice giustinianeo, XI, 41,4). Traiano è rappresentato di profilo o di tre quarti sulla colonna, mentre Marco Au­ relio è rappresentato sulla sua colonna frontalmente, in frontalità e in maestà. Mi pare poco probabile che, per questo semplice fatto, Marco Aurelio abbia acquisito più peso o più potere agli occhi dei suoi sudditi... La frontalità rendeva al sovrano, conformemente a un nuovo modo di rappresentazione, gli onori che gli erano do­ vuti per tradizione; questa modalità rappresentativa non faceva parte di una qual­ che campagna di propaganda attorno alla sua persona, destinata a consolidare o rafforzare il suo potere. H.D. Lasswell e A. Kaplan, Power and Society, cit., p. 111. Cfr. p. 104, n. 2 «It is useful to restrict thè term propaganda to symbols deliberately manipulated for certain purposes». Abbiamo visto sopra che un imperatore non doveva proporre un programma ai suoi sudditi né presentarsi a essi, ma intendeva essere obbedito d’autorità. E, in ef­ fetti, nel suo manifesto agli ateniesi, Giustino non si presenta come un pagano, non si giustifica per il fatto di esserlo: lascia vedere che lo è, e non mostra di preoccu­ 362

Fini dell’arte, propaganda e fasto monarchico parsi di quel che se ne possa pensare (V ili, 280 D e ΧΙΠ, 286 D). Un altro esem­ pio di propaganda per un pretendente al trono è la lettera indirizzata ad alcune le­ gioni da parte dell’esercito di Vitellio (Tacito, Storie, II, 86). 100. L, de Saint-Simon, Mémoires, inizio del 1719 (trad. it. Memorie, Einaudi, Torino 1973). 101. Machiavelli, Istorie fiorentine, VII, 4. Al contrario, nel 165, C. Ottavio fu aiutato, per la sua elezione al consolato, da una magnifica casa che si era fatto costruire sul Palatino. «A l prestigio può dunque contribuire la casa, ma non può il prestigio consistere solo in essa; né il padrone deve essere nobilitato dalla casa, ma la casa dal suo padrone», scrive Cicerone, De officiis, I, 139 (ed. it. I doveri, trad. di A.R. Barrile, Bur, Milano 1992, p. 203). 102. J.-C . Passeron, Les formes de la preuve dans les Sciences historiques, «Revue européenne des Sciences sociales», 39, n. 120,2001 (in particolare pp. 34-37: «Cynisme, nàiveté, convinction menteuse», cinismo, ingenuità, convinzione fallace). Id., «Pareto: L’economie dans la sociologie», in C. Malandrino e R. Marchionatti (a cu­ ra di), Economia, sociologia e politica nell’opera di Vilfredo Pareto, Olschki, Firenze

2000. 103. H.D. Lasswell, Politics: Who Gets What, When, How, New York 1936, p. 31. Alla fine del X V III secolo, la sagace Madame Campan, nelle sue memorie, ha chiara consapevolezza della necessità politica del fasto; questa chiara consapevolezza ri­ vela che lo spirito rivoluzionario è già nell’aria del tempo. 104. P. Zanker, Augustus und die Macht der Bilder, cit., pp. 57, 98-103,118. 105. Ibid., p. 13. Quanto all’aristocrazia, essa fu sedotta in parte dal ristabilimento della respublica che non ebbe nulla di una finzione ingannevole (ibid., p. 105; J. Bleicken, Verfassungs- undSozialgeschichte des rómiscken. Kaiserreiches, cit., p. 78); questo compromesso un po’ zoppicante (D. Kienast, Augustus Prinzeps undMonarch, cit., p. 78) garantiva almeno all’aristocrazia senatoriale la gestione regolare degli honores. 106. P. Zanker, Augustus und die Macht der Bilder, cit., p. 164. 107. Ibid., pp. 82-83. 108. Arrivare a trasmettere il proprio potere al proprio erede è il compimento di un re­ gno riuscito; sarà ancora lo stesso a Bisanzio (G. Dagron, Empereur et prètre, cit., pp. 42-43). E , del resto, preparare la trasmissione pacifica del proprio potere è uno dei doveri di ogni imperatore (R. Syme, Tacitus, cit., I, p. 234). 109. P. Zanker, Augustus und die Macht der Bilder, cit., pp. 59-61. 110. J. Béranger, Recherches sur l’aspect idéologique du principat, cit., p. 272. 111. P. Zanker, Augustus urid die Macht der Bilder, cit., pp. 105-107 e332. 112. Ibid, p. 216. 113. Ibid., p. 198, 114. Ibid., p. 106. Sull’entusiasmo popolare per Augusto e sullo zelo di consacrare una focaccia (propin facere) ad Augusto a ogni pasto, cfr. E. Fraenkee, Horace, Oxford 1957, pp. 446-447. 115. Dire sincerità è riduttivo: davanti a questa novità imprevedibile che fu il ruolo sto­ rico di Augusto alla fine delle guerre civili, certi intellettuali vissero una crisi filoso­ fica e religiosa. Come cercheremo di spiegare altrove, Orazio non credeva ormai agli dèi più di quanto non credesse in essi un Cameade, un Cicerone o un Sesto Empirico, o, forse, si chiedeva cosa fossero esattamente; di contro, si poneva il grande problema degli intellettuali del suo tempo: il mondo era retto dal Fato, dal­ la Fortuna, notoriamente cieca, o da una Provvidenza? E aveva optato per la For­ tuna. Ma il trionfo della buona causa con Augusto gli fece comprendere che questa stessa Fortuna era provvidenziale; il suo comportamento era simile a quello di un 363

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moderno intellettuale che si interroghi sul «senso della storia», dopo un clamoroso avvenimento. Frontone, Ad Marcum Caesarem, IV, 12: si vedono in tutti i negozi delle raffigura­ zioni malae pictae, opere di una crassa Minerva, che rappresentano Marco Aurelio e Faustina. Si impone di avvicinare queste pitture con una raffigurazione popolare egiziana che rappresenta la famiglia dei Severi (B. Andreae, Rómische Kunst, Frei­ burg 1973, fìg. 539). Nella Storia Augusta, due aneddoti apocrifi sui ritratti impe­ riali non sono per questo meno rivelatori (Tacito, IX, 5 e Alessandro Severo, XIII, 2: ritratto imperiale appeso sopra il letto coniugale). La propaganda, da una parte, e il fasto, dall’altra, mirano allo stesso bersaglio, che si può chiamare «la società», ma procedono per vie diverse, non hanno gli stessi ef­ fetti e sono separati da un abisso storico. La confusione tra propaganda e fasto vie­ ne dalla tendenza di una recente storiografia ad avere occhi soltanto per la società, senza vedere la altre differenze. Inoltre, il rapportarsi con la società è, per questa storiografia, la chiave transtorica di tutta la storia, tanto che essa non vede quale rottura separi fasto e propaganda. Antichità giudaiche, X IX , 3,228. Aggiungiamo Tacito, Annali 1 ,2: «Suspecto senatuspopulique imperio ob certamina potentium». Frangole Furet ^ferm ava che la metà dell’anno 1789 aveva visto la Francia infiam­ marsi per un’improvvisa politicizzazione che nulla lasciava prevedere. Facciamo fatica a credere che Pimperialismo napoleonico non abbia fatto altro che prolunga­ re la difesa della patria della Rivoluzione, come dicevano gli storici di tendenza marxista, e che non si trattasse piuttosto di un’innovazione, della pressione di un’ambizione piena di immaginazione. Gli impressionisti (movimento difficilmen­ te spiegabile a partire dalla «società del loro tempo») hanno intravisto tutta una pittura da creare a partire da Manet, da Boudin, da Corot, dall’arte giapponese; una causa coadiuvante è stata data dal fatto che le regole della pittura accademica e altre convenzioni, romanticismo e gli albori del relativismo storico, avevano perso il loro potere intimidatorio. Un’amica tedesca che aveva, nella prima giovinezza, condiviso l’entusiasmo per la salita al potere del nazismo mi aveva detto questo: il colpo di genio del M ostro (al contrario del demagogo francese Le Pen) non era stato il prendere come argomento politico centrale il risentimento (contro la disfat­ ta bellica, il Oolchstofi in den Riicken, l’ingiustizia del trattato di Versailles, l’infla­ zione, la disoccupazione, i colpi di mano della fazione bolscevica e altre concause), ma il fatto di suscitare un entusiasmo positivo per un futuro di potenza e di purez­ za nazionali, riscaldando e stimolando così il sangue della gioventù. Quest’idea della potenza creatrice dell’azione è una delle verità che sono servite a Nietzsche per comporre la sua mitologia psico-metafìsica della volontà di potenza. Ci­ tiamo L a volontà di potenza, I: «G li storici si ingannano perché partono dai dati pre­ senti e guardano indietro; la realtà presente è una cosa nuova che non può essere sog­ getto di inferenze, a partire dalle sue cause pretese». Una forza interiore utilizza e sfrutta le circostanze esteriori, che non sono cause. «Contro la teoria del milieux e del­ le cause esteriori: la forza interna è infinitamente superiore; gli stessi milieux possono essere interpretati e sfruttati in modi opposti tra loro; non ci sono fatti che possano spiegarlo. Un genio non si spiega secondo tali condizioni di produzione». Bergson scrive più sobriamente, nella sua memoria su II Possibile e il Reale, che se l’avveni­ mento si spiega sempre, giorno dopo giorno, con questo o quel fatto precedente, un evento del tutto diverso potrebbe spiegarsi altrettanto bene, nelle stesse circostanze, con antecedenti altrimenti scelti, e, addirittura, con gli stessi antecedenti interpretati in modo diverso con « l’attenzione retrospettiva».

8 Culto, devozione e morale nel paganesimo greco-romano1

«Ogni religione» scriveva Kant «consiste in quel che noi consideriamo Dio rispetto a tutti i nostri doveri, come il legislatore da rispettare»; ta­ le sarebbe «la religione entro i confini della pura ragione». La religione sarebbe dunque profondamente legata alla morale? Ciò è vero soltanto per quanto concerne una religione della salvezza come il cristianesimo, la sola cui pensasse Kant. Da due secoli a questa parte noi riteniamo, con Georg Simmel, che il rapporto tra religione e morale sia un proble­ ma insolubile se lo si tratta secondo princìpi diversi da quelli storici; l’essenza di una religione non può essere esterna alla sua storia. Sì, il mondo è popolato da esseri personali potenti che si offrono alla nostra adorazione, e dai quali ci possiamo aspettare dei beni e dei mali - ecco che cos’è un dio -, ma essi non sono necessariamente irreprensibili. La morale, scrive Bergson,2 è andata definendosi autonomamente dalla re­ ligione, e gli uomini hanno sempre ricevuto in eredità dalla tradizione i loro dèi, senza domandare loro di esibire un certificato di moralità. Nel caso del paganesimo, è ai nostri occhi «un gran problema la mancanza di una giusta relazione tra gli dèi greci e la giustizia»; tuttavia, a partire da Omero e da Esiodo, Zeus è il protettore della giustizia, ma «la giu­ stizia non appartiene alla dimensione più intima del suo essere, mentre sta a cuore a Yahweh».3 Il paganesimo si impicciava della morale soltanto in maniera indi­ retta e sporadica. Morale e religione si sono trovate parzialmente lega­ te perché agli dèi si chiedeva di favorire i buoni e di castigare i malva­ gi, e del resto capitava loro di farlo. Dèi e uomini, in effetti, giudicava­ no gli individui, il bene e il male allo stesso modo, dal momento che condividevano la stessa morale, come lo stesso era il mondo che abita­ vano; dunque, gli dèi si riservavano la decisione ultima su ciascun av­ venimento la cui riuscita non dipendesse interamente dall’azione uma­ na. Più tardi, con la filosofia, la cultura, la paideia, si farà della divinità il fondamento del Bene, e questa fede in una trascendenza durerà all’incirca sino al XVIII ο X IX secolo. Questo sarà precisamente il nostro punto di vista per abbozzare un 365

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Culto, devozione e morale nel paganesimo greco-romano

quadro del paganesimo greco-romano, tanto lontano dall’idea etnocen­ trica che, a partire dal cristianesimo, talora ci si fa della religione. Nel far questo, ci atterremo ai tratti comuni alla Grecia e a Roma, senza preoccuparci troppo di rilevare l’originalità di Roma, la cui ellenizzazione è iniziata molto presto.4 Alcuni di questi tratti comuni sono dura­ ti più di un millennio, permearono a lungo la cultura popolare ed eb­ bero così lunga vita; altri sono stati rimodellati a uso della paideia delle classi sociali colte.

Per provare a vederci chiaro, chiediamoci cosa fosse un dio del paganesi­ mo. Questo dio avrà soltanto il nome in comune con l’essere onnipoten­ te, creatore del mondo, che sarà il dio del cristianesimo. Le divinità anti­ che vivono nel nostro stesso mondo e sono come noi creature naturali, esseri corporali e animali,3 che formano una delle tre faune sessuate (ogni dio è maschio o femmina, sive deus, sive dea), che popolano la natura. Vi sono gli animali, si diceva, che non sono né immortali né razionali, gli uo­ mini, che sono dotati di ragione e mortali, e gli dèi, che sono razionali e immortali.6 All’interno del mondo al quale gli uni e gli altri appartengo­ no allo stesso titolo, dèi e uomini, benché diversi, si muovono in un mo­ do del tutto simile. In molte religioni, gli dèi non valgono più degli uomi­ ni, sono solamente più potenti; sarà una rivoluzione nella religione delle élite greche quando, sotto l’azione riformatrice di alcuni pensatori, gli dèi, divenendo esseri metafisici, saranno modelli di virtù. Gli dèi, come gli uomini, costituiscono una specie vivente, una stir­ pe, un genus, una sorta di razza di extraterrestri. Sono potenti stranieri, che conducono un’esistenza separata e vivono per se stessi. Tuttavia, gli dèi si interessano in qualche modo all’umanità, esercitano un certo po­ tere sul suo destino, ma senza avere con lei (o con un popolo eletto) quel rapporto esclusivo e passionale che è proprio del dio ebreo o cri­ stiano. Gli dèi si interessano agli uomini soltanto per le stesse ragioni e occasioni, assai variegate, che fanno sì che gli uomini stessi si interessi­ no ad altri uomini. Gli dèi si interessano per prima cosa a se stessi, e la loro preoccupazione sovrana non è il benessere dell’umanità.7 Se so­ praggiungesse una qualche catastrofe cosmica, la loro unica cura sareb­ be di fuggire altrove per mettersi al sicuro; nel 79 dopo Cristo, al mo­ mento dell’eruzione del Vesuvio, i pompeiani credevano che il mondo stesse finendo e che gli dèi l’avessero già abbandonato.8 A maggior ra­ gione, non è così ovvio che gli dèi si intromettessero per far regnare la giustizia o per insegnare la virtù. Queste divinità antropomorfe non sono entità che comportano l’as­

soluto o l’infinito. Sono una fauna, dicevamo, una specie vivente, si ri­ tiene che appartengano come noi al mondo concreto, quello che com­ porta il più e il meno, e vi apparterranno sino al secolo dei sofisti e di Socrate; gli dèi sono «gli esseri più potenti degli uomini», hoi ton anthropon kreittous, come si legge in vari passi, dai tragici a Libanio. Per sa­ lire di livello dagli uomini agli dèi, si persegue un più, non si fugge ver­ so l’infinito. È questo il motivo per cui i re ellenistici e gli imperatori romani hanno potuto essere fittiziamente divinizzati; si trattava di un’i­ perbole, ma non di un linguaggio assurdo: non si trasgredivano frontie­ re di categoria quando si passava dagli uomini agli dèi. Era concepibile una certa familiarità cerimoniosa con gli dèi; le città greche, nelle teossenie, e quelle romane, nei lettisterni, invitavano quei nobili stranieri a cenare in un ricevimento diplomatico. E forse persino i semplici priva­ ti cittadini potevano fare lo stesso.9 Gli dèi sono potenti, dicevamo, e la loro potenza si esercita sulla ter­ ra degli uomini, ma stiamo attenti: allo stadio dell’evoluzione del pen­ siero di cui ci stiamo occupando, essi non sono onnipotenti, non gover­ nano il cosmo più di quanto non l’abbiano creato oppure organizzato. In principio sono i padroni del mondo, ma, in pratica, i loro decreti stendono la loro influenza soltanto sull’intervallo che separa gli atti umani e i fatti fortuiti dal loro esito, favorevole o sfavorevole: la batta­ glia sarà vinta ó persa, il malato morirà o guarirà, i raccolti saranno buoni o cattivi; quando un guerriero o un cacciatore scocca una frec­ cia, ha l’avvertenza di recitare una preghiera, dal momento che non è mai sicuro di raggiungere il bersaglio. Gli interventi divini vertono su questo margine di imprevedibile, che sovrapponiamo a quel che fami­ liarmente chiamiamo sorte; riusciremo in quell’impresa con l’aiuto del­ la sorte, se gli dèi lo vogliono, syn theois, cum dis volentibus. I «primiti­ vi» hanno tanto senso del reale quanto noi; quando vedono il vento piegare l’erba, la corrente far rotolare i ciottoli o il loro piede sollevare la polvere, pensano soltanto a una causa fisica.10 Gli dèi intervengono unicamente quando un particolare effetto è dovuto al gioco del caso che incide sulla vita umana, o quando un esito non dipende interamen­ te dalla natura o dalla tecnica, ma lascia il posto a un intervallo d’incer­ tezza: sarà il partito giusto a vincere questa battaglia? Quel malvagio un giorno espierà i suoi crimini? Il ruolo giocato dalla divinità negli eventi incerti della vita spiega l’e­ sistenza, tra gli dèi, di astrazioni personificate e divinizzate. La Sorte, la Buona Fortuna (Agathe Tyche), il Buon Esito (Bonus Eventus ) sono di­ vinità. Alla Concordia venne consacrato un tempio a Roma dopo un conflitto tra il patriziato e la plebe da ultimo riconciliatisi, e la Pace eb­ be ad Atene un altare nel 371 avanti Cristo, alla fine di una guerra con­ tro Sparta. La Febbre e la Peste avevano santuari ed ex voto un po’ do­

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Culto, devozione e morale nel paganesimo greco-romano

vunque in Italia. La difficoltà intellettuale nel distinguere gli esseri in­ corporei da quelli corporei fa sì che l’avvenimento chiamato peste si confonda con un ente, la Peste, che è autrice dell’epidemia e quindi è una divinità. Non ci si chiede, del resto, come, in concreto, gli dèi o le astrazioni divinizzate diffondano un’epidemia o facciano vincere una battaglia, o se guidino il braccio dei soldati; ci si limita a constatare gli effetti di quel che i teologi cristiani chiameranno la Provvidenza particolare, sen­ za interrogarsi sulle cause seconde che sono le sue vie d’azione. Quel­ l’intervallo d’incertezza non lascerà apparire con meno chiarezza se questa Provvidenza esista e se gli dèi, che hanno come noi un senso morale, s’interessino abbastanza all’umanità per farvi regnare una giu­ stizia immanente, invece di occuparsi soltanto di se stessi e del culto a essi dovuto. Si tratterà di un possibile punto di unione tra la religione e la morale. Infatti, dal momento che gli dèi sono antropomorfi, simili agli uomini, essi hanno come loro un senso morale, sebbene la loro condotta non sia sempre irreprensibile; la morale regge alla meno peggio la società degli dèi omerici, che la rispettano, come fanno gli uomini, eccetto quando ca­ pita loro, come agli uomini, di infrangerla. La stirpe degli dèi e quella de­ gli uomini, che coesistono nello stesso mondo, hanno in comune la me­ desima morale, che è autonoma, che esiste di per sé, come la terra o la lu­ ce; uomini e dèi la trovano, per così dire, nell’aria che respirano. Cos’è la Giustizia? È la sorella delle Stagioni.11 La morale si sostiene da sola, è na­ turale come l’ordine delle stagioni. A questo stadio storico, o piuttosto logico, la divinità non è ancora il fondamento della giustizia, e nemmeno la prescrive ai mortali. In materia di morale, dèi e uomini sono sullo stes­ so piano. E così Eschilo potrà rappresentare certe divinità, in urto sulla sorte che devono riservare al matricida Oreste, intente a perorare la loro causa presso un tribunale umano, l’Areopago di Atene. Tra uomini e dèi intercorrono quelle stesse relazioni internazionali che vi sono tra due stirpi {gens deorum, dicevano i sacerdoti romani), indipendenti, ma con diverso potere, e la devozione consiste nel rico­ noscere, con atti e parole, la superiorità della stirpe divina.12 Questi mutui rapporti sono discontinui e circostanziali, all’infuori del fatto che in virtù della loro superiorità e della loro potenza gli dèi si aspetta­ no da parte degli uomini onori {timai, honores) che sarebbe impruden­ te non rendere loro in perpetuo, perché gli dèi castigano presto o tardi gli empi, facendosi così giustizia da sé. Roma si vanta di rendere loro questi onori scrupolosamente, di essere in pace con gli dèi e conservare la loro benevolenza {pax et venia deorum) P Nondimeno, di fronte agli dèi, a fianco di una devozione umile e af­ fettuosa, i greci amano conservare un po’ di dignità e mantenere una

distanza diplomatica verso questi stranieri di cui non sono le creature. Il rapporto dei greci con i loro dèi non ha nulla di una confidenza fi­ liale e sentimentale, né di un’umile sottomissione. Essi sanno che gli dèi sono i più forti: li rispettano, li venerano, ma è tutto; la loro fierez­ za impedirà loro di definirsi schiavi di un dio, cosa che invece fecero le religioni della Siria o dell’Arabia; bisogna sempre conservare di fronte agli dèi la propria indipendenza, la sicurezza di sé, la disinvol­ tura che un uomo libero mantiene verso i suoi superiori; non farlo, tremare davanti a un dio sarebbe «aver paura degli dèi», sarebbe deisidaimonia, una parola che si traduce in modo approssimativo con «su­ perstizione». Nella società umana i grandi e i potenti sono tutti rispettabili e meri­ tano onori, ma ogni individuo sceglie fra di essi un protettore perma­ nente od occasionale. Allo stesso modo, la stirpe degli dèi intende cer­ to essere venerata ed essere oggetto di un culto, ma in pratica ogni in­ dividuo e ogni gruppo adora, oltre ai propri dèi domestici, una partico­ lare divinità che ha scelto per proteggere la sua città o per guarire da una malattia. Gli dèi, dicevamo, vivono la loro vita, non si impongono da sé agli uomini; l’unica cosa che pretendono da essi è il rispetto. Ogni città, ogni famiglia, ogni individuo aveva un culto preferito; come dice John Scheid, «un grande principio delle religioni antiche era l’essere le­ gate a una localizzazione».14 I diversi templi di Giove o di Mercurio non formavano certo una Chiesa «gioviana» o «mercuriana» governata da una sorta di papa. La «libera iniziativa» religiosa era naturalmente consentita: ciascuno poteva edificare un santuario privato per la divi­ nità che aveva scelto e attendere il cliente.15 Gli dèi sono accessibili alle richieste degli uomini e, se sopraggiunge una pestilenza, si fa appello alla loro misericordia.16 In qualsiasi mo­ mento ciascuno può stabilire con loro legami permanenti od occasio­ nali, indirizzare loro una preghiera per chiedere aiuto in cambio di un dono; agli dèi vengono offerti sacrifici, scrive Teofrasto, per onorarli, per ringraziarli di un favore o, infine, per domandarne uno; in Grecia come a Roma, questa domanda di favore è un «voto» {euche, votum), di cui bisogna sdebitarsi se si è stati esauditi (nessun tribunale umano condannerà colui che viene meno all’obbligo, ma il dio può punirlo).17 Il marito la cui moglie sta per partorire, il viaggiatore che teme di fare naufragio,18 il contadino che ha perso la sua coppia di buoi, lo schiavo che si auspica di essere un giorno liberato,19 indirizzano la loro pre­ ghiera, o la loro proposta di contratto, alla divinità che hanno scelto; se essa esaudisce la preghiera e accorda il favore, riceverà un’offerta ac­ compagnata da un ex voto esplicativo. Il devoto guarito dalla divinità la ringrazierà per «aver potuto constatare di poter confidare in lei e per aver recuperato la salute»;20 il rapporto che lega un fedele al suo dio è

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10 stesso che lega un acquirente a un fornitore più o meno affidabile. Si tratta comunque di uno scambio pio e riconoscente, dal momento che ogni contatto con una divinità è caloroso, come vedremo più avanti. Nondimeno, greci e romani non vivono alle dipendenze dei loro dèi, non accettano da loro qualsiasi cosa, buona o cattiva che sia. Li ringra­ ziano di volta in volta dei benefici ricevuti, e così: «Tizio, onorato della carica di tribuno della plebe, sale al Campidoglio e vi compie un sacri­ ficio».21 Come scrive Ramsay MacMullen, ci si aspettava dal cielo que­ sto o quel favore - conoscere il futuro, sfuggire a un pericolo, avere buoni raccolti o restare in buona salute - ma non se ne concludeva che bisognava per questo avere con la divinità un rapporto di sottomissio­ ne personale e continua; il carattere interessato del culto non sollevava 11 benché minimo imbarazzo.22 Ancora, bisogna che gli dèi siano leali in questi scambi impari ma li­ beri e interessati, e che ci sia una «pietà degli dèi verso gli uomini»,23 il che non capita sempre: troppo spesso bisogna loro rimproverare la loro ingratitudine; abbandonano alla sua infelicità un adoratore che aveva tuttavia offerto loro numerosi sacrifici24 e che non nasconde a nessuno la sua delusione. Se il dio non si mostra equanime, non si esi­ ta a indirizzargli rimproveri, e a rifiutare, da quel momento in poi, di venerarlo.25 Alla morte di un principe molto amato, Germanico, la plebe romana gettò pietre contro i templi e rovesciò gli altari, come ai giorni nostri i manifestanti lanciano sassi contro un’ambasciata stra­ niera;26 sul finire dell’antichità, un passatista, l’imperatore Giuliano, indignato per aver subito una disfatta militare, rifiutò di sacrificare a Marte.27 «G li dèi non mi hanno risparmiato, ma nemmeno io li rispar­ mierò»,28 si legge in una lettera privata. Gli dèi sono capricciosi, volu­ bili,29 rancorosi,30 sordi o ingiusti;31 sono eccessivi,32 i loro disegni so­ no incomprensibili, persino incoerenti.33 «Serbo rancore agli dèi» era un’espressione usuale.34 L’aristocratico Teognide, vedendo gente di nessun valore prendere il potere, si indirizza al signore degli dèi con una fermezza da bon ton: «Zeus, io non ti capisco!».35 Gli dèi hanno i loro favoriti, o fanno del favoritismo, divina suffragatio, ma non hanno sempre ragione. Capita loro anche di arrossire della loro stessa con­ dotta: si sono alla fine vergognati di aver permesso ad Annibaie di mal­ trattare così a lungo quella Roma che non si era mai distolta dal loro culto.36 Una favola di Esopo37 che è, a suo modo, una teodicea, la dice lunga su quello che si era troppo spesso portati a pensare degli dèi: un uomo, sottolineando l’ingiustizia degli dèi, raccontava come essi avevano fatto colare a picco un vascello e fatto annegare degli innocenti per far mori­ re un solo empio (una superstizione affermava, effettivamente, che un 370

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vascello rischiava di fare naufragio quando un empio era a bordo).38 E per questo egli decise di distruggere un intero formicaio perché una so­ la formica l’aveva morso. Allo stesso modo fanno gli dèi quando un em­ pio li morde, conclude il favolista: come noi, fanno piazza pulita di quel che li infastidisce. Non essendo gli dèi né disinteressati né scrupolosi, il rispetto che si porta a questi potenti non esclude quella cosa, sorprendente a prima vista, che è lo humour sul sacro.39 Aristofane e già Omero scherzano sugli dèi, prestano loro atteggiamenti burleschi, li mettono in situazioni ridicole, atteggiamento che non ha nulla a che vedere con l’incredulità, ma significa piuttosto prendere una rivincita ironica su questi potenti che non hanno niente di esemplare. La canzonatura più apprezzata dal pubblico era il rappresentare gli dèi come ingordi, avidi di ricevere i sa­ crifici degli uomini. Il rispetto non escludeva, a maggior ragione, mer­ canteggiamenti tra dèi creditori e uomini debitori; per esempio, si con­ sacrava a un dio un gioiello, ma si continuava a portarlo sulla propria persona invece di depositarlo nel suo tempio (un’iscrizione incisa sul­ l’oggetto bastava ad attestare che apparteneva al dio).40 Lo si vede sin troppo bene, il teologo e storico Adolf von Harnack aveva ragione scrivendo che la parola «dio» non aveva lo stesso senso per i pagani e per i cristiani. L’altra metà della verità è che un dio, sia esso pagano o cristiano, risveglia un’affettività che lui solo può suscita­ re, e possiede una «qualità», il divino o ciò che è degno di adorazio­ ne,41 che lui solo possiede e che la lingua moderna male identifica con la parola «sacro».42 Si può dire che c’è una qualità se, per essere capiti quando si designa qualcosa, bisogna che l’interlocutore abbia già la co­ noscenza di questa cosa: la qualità non si può spiegare con nozioni an­ teriori, perché è un’esperienza primaria; ci si ridurrebbe altrimenti alla tautologia o alla parafrasi, come succede quando si descrivono i colori a un cieco.43 Il divino, cui gli individui sono così inegualmente sensibi­ li44 (donde tante dispute) è, nondimeno «una qualità primaria che non si può far derivare da altro», diceva Simmel; è irriducibile, attraverso i suoi mutamenti storici, come il sentimento del bello, per esempio. Non pretendo tuttavia che si tratti dell’intuizione di una realtà.45 Si pensava agli dèi come a esseri sconvolgenti, degni di adorazione, di una levatura superiore a quella umana, circondati da un’aura so­ prannaturale che suscitava ammirazione affettuosa, terrore e brivido. Quando, improvvisamente, sorprendentemente, sentiamo questi esseri invisibili per natura vicini, si prova un thambos, uno stupore misto a paura, incantato, sconvolgente. Nel suo inno ad Apollo, Callimaco, da virtuoso del mimetismo, fa sentire quale sia l’emozione che promana dalla santità: quando il dio arriva, invisibile, e si avvicina ai suoi adora­ tori davanti al suo tempio, emette un’onda che scuote ogni cosa. La 371

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santità degli dèi fa sì che la religione sia qualcosa di molto elevato, an­ che agli occhi di molti individui a essa poco sensibili. In che modo es­ seri tanto santi come gli dèi potrebbero essere indifferenti alla morale, che non è meno elevata? La loro santità metteva gli dèi antichi in una categoria separata ri­ spetto ad altri esseri immaginari che ne erano privi. Sotto l’impero, da Plutarco a Origene, da Porfirio a sant’Agostino, il mondo invisibile sarà popolato da una folla di «demoni» buoni o malvagi, segretamente atti­ vi in numerosi ambiti (gli oracoli, le convulsioni dei neonati, le som­ mosse. ..). Ora, a differenza degli dèi, i demoni non avranno un’aura di santità, non si avrà un vibrato denso d’emozione nell’anima o nella vo­ ce quando si parlerà di loro, non saranno oggetto di culto né di ex vo­ to: essi hanno a che fare con la «superstizione» e non con la religione. Infine, per la maggior parte della popolazione, che aveva sensibilità religiosa, l’idea degli dèi era commovente; si provava un amore filiale per questi esseri superiori e protettori circondati da un’emanazione so­ prannaturale. Non si passava davanti ai santuari o alle immagini degli dèi senza inviare loro un bacio con la punta delle dita.46 Questo fervore è percepibile negli Inni omerici·, riconoscenza e commiserazione per Demetra che dona grano e che cerca dappertutto la figlia scomparsa, ammirazione per Apollo che uccide il serpente, o giubilo nell’inno a quel beffardo amante degli scherzi qual era Ermes. Non si può credere agli dèi senza amarli. Aristotele47 dedica qualche parola a quest’amore {philia), paragonandolo a quello dei bambini per i loro genitori; è pres­ soché il solo autore antico a dire che si amavano gli dèi, perché non c’è bisogno di soffermarsi su un sentimento così normale da essere sconta­ to e che non era fine a se stesso, come lo è invece nel cristianesimo o nella bhakti indiana; il bhakta è sottomesso a Vishnu «come una donna innamorata al suo amante». Ciò non toghe che, per anime più religiose di altre, il contatto con gli dèi procurasse, o almeno così suppongo, una sensazione di pienezza, quella di una sicurezza interiore che non doveva nulla alla dura realtà,48 e, come mi dice Lucien Jerphagnon, quella di una trascendenza che po­ teva aureolare gli incidenti più quotidiani, quando il voto di ritrovare un oggetto perduto o rubato era esaudito. Si provava sicuramente quel­ le sensazioni indirizzando una richiesta al dio (una «preghiera» nel sen­ so antico del termine), celebrando un sacrificio, entrando in un santua­ rio, adorando un’immagine, portando su di sé la statuetta di una divi­ nità di propria scelta. Non tutti provavano questo sentimento; per altri, un sacrificio era soltanto il rinnovo di un contratto di assicurazione agricola e una statuetta era soltanto un amuleto che avrebbe magica­ mente allontanato ogni male. Non più di quanto non parlino di amore per gli dèi, i testi antichi non menzionano questi sentimenti, eccetto

Euripide. Che dire di quel canto veramente devoto, di quel puro inno alla dea vergine quale l’invocazione di Ippolito alla sua Artemide: «O mia regina, ti porto questa corona colta e intrecciata con le mie ma­ ni»?49 Che dire di questo caso limite che è l’amore di un ragazzo per la sua divinità d’elezione? Un’altra tragedia, lo Ione, il cui giovane eroe è ministro del culto in un santuario, deve la sua poesia alla tranquillità metaempirica di cui parlavamo. Benché raramente menzionato, questo sentimento non era meno vis­ suto, nonostante non lo si sapesse esprimere molto; gli antichi manca­ vano ugualmente di parole, di idee, o, per meglio dire, di tutta la topica dei moderni per esprimere (o per dettagliare) il loro sentimento della natura o la loro sensibilità artistica e letteraria, tuttavia spiccata quanto la nostra (la selezione che essi han fatto dei loro grandi artisti e scrittori lo prova, visto che è ancora la nostra selezione). Per una contraddizione che è anche quella del quarto Vangelo con i «Vangeli dell’infanzia» o La Leggenda aurea, e di cui i credenti non sembrano aver particolarmente sofferto, questi dèi amati, che non so­ no ancora diventati entità filosofiche, hanno ciascuno la loro biografia mitica (variabile a seconda dei santuari e dei narratori), le loro passio­ ni e il loro aspetto fisico modellato dagli artisti, che il credente ricono­ sce quando un dio gli appare in sogno;50 hanno la loro personalità (anch’essa variabile a seconda dei luoghi, dei fedeli e delle occasioni); cer­ tuni hanno un’attività specializzata, divinazione oracolare o guarigio­ ne dalle malattie. La mitologia nutriva la più sincera devozione religio­ sa pur divertendo l’immaginazione,51 e conferiva a ciascun dio una personalità che consentiva al fedele di distinguerli, di avere il suo pre­ ferito,52 di scegliere la divinità che conveniva ai suoi bisogni o al suo gusto. A Roma come in Grecia, la mitologia era due cose insieme. Era una letteratura di racconti per il piacere dell’ascoltatore o del lettore, di racconti che le nutrici narravano ai bambini53 e che fornivano sog­ getti a pittori e scultori; ed era, allo stesso tempo, una componente della religione: la personalità di Giove, padre degli dèi e degli uomini, dell’ingegnoso e familiare Mercurio o della vergine Diana viene loro proprio dalla biografia mitica. Una frattura separa l’umanità da questi dèi forniti di una personalità e di una biografia: più che esseri reali sono personaggi di fantasia sorti dall’immaginazione narrativa. Per esempio, il loro tempo non era quel­ lo dei loro fedeli. Non che questa temporalità mitica fosse originaria, «archetipale»: era semplicemente narrativa, era quella in cui vivono i personaggi dei racconti e dei romanzi. Gli dèi avevano raggiunto cia­ scuno una certa età, ma si erano bloccati a quel punto, non invecchia­ vano più; avevano avuto figli, ma sarebbe stato impensabile che ne na­ scessero di nuovi, dice uno fra gli interlocutori del De natura deorum di

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Cicerone; un greco o un romano sarebbe stato a disagio se gli si fosse fatto sapere, come se fosse stata la notizia del giorno, che Giove aveva appena avuto un figlio. Gli dèi hanno un corpo e una fisionomia, ma le dimensioni di questo corpo sono indeterminate come quelle del corpo di Gargantua. Oltre alla saga delle loro origini politiche, i romani avevano le loro peculiari leggende religiose, i loro miti, quello di Acca Larenzia54 per esempio, o di Tarpeia; ma, a differenza di quanto avvenne in Grecia, esse non si erano moltiplicate sino a formare un vasto corpo di lettera­ tura orale e scritta. Come gli etruschi, i romani avevano adottato i miti greci, e il loro atteggiamento davanti ai miti era diventato lo stesso. Uno scrittore greco, Plutarco, e uno scrittore romano che gli è alPincirca contemporaneo, Giovenale, ci dicono che, quando una donna del po­ polo passava davanti a un’immagine di Diana, PArtemide dei greci, pregava la dea di donarle una figlia bella come lei;55 quando un com­ merciante romano consacrava la decima dei suoi guadagni a Mercurio, era pienamente consapevole della personalità leggendaria di quel dio astuto; volendo simboleggiare la loro personalità politica, un re greco e un imperatore romano sceglievano tra Zeus, Apollo, Dioniso, Ercole o Minerva per le stesse ragioni mitiche.56 Dunque, questi dèi, simili agli uomini, e come loro individualizzati, condividono la loro stessa morale; si può quindi supporre che essi non amino gli uomini malvagi, non più di quanto li amino gli uomini stessi; il loro alto esempio mostra che i buoni sono nel vero, la qual cosa è consolante. Così, questi stessi dèi sono i padroni degli uomini, o piut­ tosto, di quel che la sorte di ciascuno e di tutti ha di imprevedibile. Ci si augura che questi padroni puniscano i malvagi e ricompensino i buo­ ni, come si chiede loro di farci vincere la battaglia o di guarirci da una malattia. Se gli dèi non sono egoisti, sarà imprudente spiacere, con la nostra cattiva condotta, a coloro che tengono in mano il nostro destino. Ma essi sono egoisti? Qui comincia a incrinarsi la relazione della morale con la religione greco-romana. Gli dèi s’interessano agli uomini, tois theois melei ta anthropina, o almeno a certi uomini, e l’individuo così favorito non manca di gloriarsene.57 Ma, come regola generale, è vero che essi sono dei padroni indifferenti che si preoccupano unicamente di ricevere gli onori e i sacrifici loro dovuti? O, piuttosto, detesteranno virtuosamente i malvagi e favoriranno le persone dabbene? Si può esitare, dal momento che, nel mondo di quaggiù, talvolta trionfa il bene e talvolta il male; i malvagi non sono sempre puniti, né i buoni ricompensati. Gli dèi non permettono che si abusi del loro nome in falsi giuramenti o che uno scellerato insozzi il loro santuario con la sua presenza impura;58 ma, quando non li riguarda personal­

mente, la morale dei mortali non è affar loro. Finché non saranno di­ ventati i garanti trascendenti del bene, gli dèi avranno le stesse pas­ sioni e le stesse debolezze dei mortali, tra cui la gelosia; mezzo millen­ nio dopo Socrate, nel pieno del secolo degli Antonini, un greco dotto e tradizionalista, Pausania, riterrà ancora che se un re o una città su­ biscono una disfatta militare la colpa non è dei combattenti, ma della gelosia degli dèi.59 In conclusione, gli dèi sono virtuosi o sono egoisti e avidi? A secon­ da delle gioie e dei dolori o dell’umore dei loro fedeli, si passava facil­ mente dall’una all’altra di queste concezioni; si poteva anche esitare o dire che la colpa non era degli dèi, ma del Destino o della Fortuna. Nel­ le classi elevate, le due concezioni coesisteranno sino al secolo di Socra­ te e la prima avrà sempre fortuna tra il popolo. Cominciamo dalla seconda delle due, quella secondo la quale gli dèi esigono innanzitutto che si renda loro quel che è a loro dovuto, e, pur avendo senso morale, hanno nondimeno le stesse debolezze degli uomi­ ni. Saranno sensibili alle lusinghe e nulla dipinge meglio il modo in cui gli antichi vivevano la loro fede delle astuzie che questa mette in atto per carpire il favore degli dèi. Si cerca di «prenderli per sfinimento» (fatigare deos) a forza di sacrifici,60 li si punge sull’amor proprio lanciando loro una preghiera-sfida: «Venere, tu, la cui potenza regna sulle terre e sui mari, metti fine alle nostre guerre civili»61 (sottintendendo: se non lo fai, la tua potenza sarà messa in dubbio.)62 «Zeus, aiutami, altrimenti ti con­ sidereremo come una nullità»,63 si legge altrove. Altre religioni hanno inventato imo strumento di pressione più efficace della carta dell’amor proprio, ovvero il fatto di imporsi privazioni ascetiche e anche sofferen­ ze per muovere a pietà gli dèi. Se si era parlato male di una divinità, o se si era penetrati in un santuario in stato di impurità, si cercava di farsi perdonare prosternandosi in atteggiamento di servi davanti al tempio (dove non si poteva entrare, poiché i templi erano aperti solo eccezio­ nalmente); ci si trascinava sulle ginocchia con suppliche, si picchiava la testa contro lo stipite della porta, si davano baci sulla soglia (dare oscula liminibus).M Verrà un giorno in cui l’imperatore Giuliano porrà fine a un terremoto distruttivo per una provincia esponendosi per ore a una pioggia ghiacciata,65 rischiando così la vita per sfidare gli dèi. «Si possono facilmente volgere gli dèi in nostro favore», sosteneva la massa.66 Importava poco la moralità degli adoratori: un brigante pote­ va sacrificare agli dèi per sfuggire alle guardie. Finché rendeva loro il culto dovuto, la contadina Fidile di cui parla affettuosamente Orazio in una delle sue più belle poesie poteva sperare che, se avesse placato l’o­ stilità dei Penati (mollivit adversos Penates ), «la vigna non avrebbe sof­ ferto per il vento dell’ovest, né la messe avrebbe patito per la carie del frumento».67 Gli dèi sono dunque tanto ostili? Sì, gli dèi sono poco di­

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sponibili nei confronti degli uomini, come lo sono troppo spesso i po­ tenti nei confronti degli umili. «Si sente volgarmente ripetere» scrive Arnobio «un’idea di cui il popolo è convinto: si sacrifica agli dèi soltan­ to per farli rinunciare alle loro collere e al loro cattivo umore».68 È quel che scriveva Taine a proposito della religiosità popolare italiana del suo tempo: «I potenti celesti come i potenti politici sono personaggi temi­ bili di cui si evita la collera con genuflessioni e offerte». Ecco il primo atteggiamento di cui parlavamo. Ce n’era un altro op­ posto e propriamente pio che consisteva nello sperare nei benefici de­ gli dèi anziché temere la loro collera. Gli dèi sono i nostri signori e be­ nefattori, li si ama come si amano i propri genitori, diceva Aristotele. Il popolino ama generalmente i suoi padroni e si persuade, di solito, che si tratta di buoni padroni. C’era sicuramente dell’affetto nei gesti di Fi­ dile quando coronava di rosmarino le statuette dei suoi irritabili Pena­ ti; invece di temere raccolti cattivi, si chiede con amore agli dèi di in­ viarne di buoni. È grazie ai suoi Penati che Fidile può sperare di non avere la carie del grano. Soffermiamoci su questa credenza, quella del paese profondo, che formerà sino all’ultimo lo zoccolo duro del paganesimo. La religione degli illitterati, scrive Plutarco in un testo illuminante, consiste in feste, in preghiere e nella buona speranza.69 La parola «speranza» è infine pronunciata, per gli individui come per le collettività; si tratta, beninte­ so, non di una salvezza, ma di speranza nell’aldilà. Le Eumenidi di Eschilo promettono ad Atene buoni raccolti, abbondanza di pascolo per i suoi armenti e di cibo per i suoi cittadini e, grazie ad Atena, la vit­ toria sui suoi nemici. Cinque anni prima dell’interdizione dei culti pa­ gani, Libanio, in termini commoventi,70 perorerà la causa della speran­ za contadina contro l’intolleranza cristiana. Queste speranze temporali, il cui nome è spesso pronunciato,71 contavano tanto quanto la salvezza eterna nelle altre religioni. «Che l’uomo, finché vive, resti pio nei confronti degli dèi e conservi la speranza» scrive Teognide:72 pietà verso gli dei e speranza vanno di pari passo. I romani non sono un popolo eletto, devono le loro conqui­ ste non alla scelta di cui sarebbero stati oggetto da parte di un dio pos­ sessivo e geloso, ma al fatto che sono più pii degli altri uomini, e quindi preferiti a essi; finché gli antichi dèi saranno onorati, Roma non soc­ comberà sotto i colpi dei barbari, ripeteranno gli ultimi pagani. Tale era il ritmo della vita religiosa: a ogni raccolto annuale, a ogni avveni­ mento della vita pubblica, a ogni episodio della vita privata, malattie,* viaggi, parti, si riponeva la propria speranza negli dèi, speranza che ri­ marrà viva nel cristianesimo popolare.73 Dai tempi di Omero sino al Carme secolare di Orazio e al tardo Pervigilium Veneris, il culto pubblico consisterà principalmente in sacrifi­

ci, inni e danze eseguite da cori; le orge e l’invasamento resteranno pra­ tiche marginali e guardate con sospetto. Soffermiamoci piuttosto sui piccoli gesti della gente comune. Sotto il regno di Augusto, ogni mese, al novilunio, la contadina che Orazio chiama Fidile levava le mani al cielo in un gesto di preghiera, offriva incenso agli dèi domestici, inco­ ronava le loro statuette e sacrificava un porcellino. Tre secoli prima o più, ogni mese, al novilunio, un contadino arcade che la leggenda chia­ ma Clearco compiva il sacrificio tradizionale, onorava Ermes ed Ecate offrendo loro incenso e focacce, e, secondo il costume greco e romano, strofinava con l’olio, per farle brillare, le statuette di queste divinità do­ mestiche.74 La speranza rendeva gioiosa e amata una religione le cui ce­ rimonie erano feste popolari e dove i sacrifici erano seguiti da altrettan­ ti festini.

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II In compenso, quel che non offriva il paganesimo era l’amore di un Dio affettuoso. Non si avevano rapporti di tipo sentimentale con questi po­ tenti stranieri che vivevano in primo luogo per se stessi. I loro fedeli non dialogavano in cuor loro con questi grandi personaggi, non aveva­ no con essi la relazione mutua e appassionata dei Salmi. Il paganesimo ignorava ogni contatto tra dèi e uomini che vivesse nel profondo delle coscienze. Il cristianesimo invece sarebbe stata una religione più amo­ rosa, più appassionata; con il suo calore etico, con il suo Dio temibile ma affettuoso con il quale si può conversare intimamente avrebbe avu­ to il successo di un best-seller75 che rimescola le viscere.76 Tuttavia, questo best-seller, per la sua particolarità, può non piacere a tutti. La religiosità pagana era meno patetica e virtuosa; essa si palesava prima di tutto, scrive John Scheid, nel rito sacrificale.77 Senofonte e il «pio Enea» furono due pagani profondamente devoti. Nella sua Enei­ de, «Virgilio fa consistere tutta la devozione in pratiche sacrificali»,78 come scrive Macrobio; Enea invoca gli dèi offrendo loro sacrifici. Nel­ le circostanze drammatiche in cui si trovava l’eroe troiano, un cristiano non avrebbe smesso di parlare al suo Dio, di invocarlo in preghiere, suppliche, slanci, di tentare di riconfortarsi al pensiero dell’amore del suo Dio per le sue creature. Quanto all’Anabasi di Senofonte, le cui cir­ costanze politiche sono appena meno drammatiche, essa non contiene molte frasi devote; il ritmo del libro è scandito dai sacrifici offerti pri­ ma di ogni impresa militare o diplomatica, sulle quali si deliberava solo dopo aver ispezionato le viscere della vittima. Nel paganesimo, gli dèi non sono abbastanza legati all’umanità per­ ché li si possa disturbare a ogni piè sospinto e senza cerimonie. Non li

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Culto, devozione e morale nel paganesimo greco-romano

si rende partecipi dei propri stati d’animo; al massimo si ricorderanno loro i legami che possono essere stati personalmente contratti con uno di loro o i sacrifici che sono stati loro spesso offerti. Come si diceva, la preghiera consiste nel proporre loro un contratto di voto, nel suppli­ carli di essere soccorrevoli o indulgenti, e, talvolta, nel chiedere loro, a bassa voce, la sventura di un rivale, ma non nel parlare loro nel rifugio del proprio intimo, nel raccogliersi per prendere una risoluzione o una decisione, nel ricapitolare le proprie convinzioni, nel rinvigorire la pro­ pria fede e la propria speranza o, molto semplicemente, nel recitare il testo di una preghiera già precostituita. Tuttavia, non consideriamo il paganesimo come un arido ritualismo. La questione del ritualismo pagano è un falso problema, nato da un’il­ lusione di prospettiva: noi guardiamo al paganesimo a partire dal cri­ stianesimo, ci stupiamo di non sentire quasi mai i pagani dichiarare so­ lennemente di «credere» nei loro dèi e immaginiamo che essi sacrifi­ cassero senza pensare a nulla. In realtà, è il cristianesimo a rappresentare l’eccezione con la sua in­ sistenza sulla professione di fede, mentre il paganesimo è la regola: per esso, come per la maggior parte delle religioni, se si onorano gli dèi, se si offrono loro sacrifici, evidentemente è perché si crede in essi, anche se si giudica inutile esprimere ciò che è scontato. Come dice Scheid, «fare, è credere». Certamente i riti restavano la parte più visibile di questa religione, per­ ché essa comportava poco di scritto e di orale:79 non aveva né libri sacri, né sermoni nel corso delle cerimonie, né dogmi o credi da professare, non esistendo nessuna Chiesa che potesse esigere questo o quello. Era dai suoi atti che si riconosceva se un uomo credeva a questo o quel dio: gli rende­ va infatti un culto. Quando alcuni imperatori vorranno costringere i cri­ stiani ad accettare gli dèi romani, non chiederanno loro una professione di fede pagana, né chiederanno di maledire il loro Dio, pretenderanno in­ vece da loro l’esecuzione dei riti pagani. Riformare la religione era rifor­ mare i riti, cosa che voleva fare Teofrasto e faceva Apollonio di Tiana. Cos’è una religione? È un insieme di pratiche, e questo non vuol dire necessariamente avere determinate convinzioni, pensare determinate cose. Come dice Marc Augé, «la credenza è credenza soltanto per chi non crede»; parlano di credere soltanto coloro che non credono, storici ed etnografi. I credenti, dal canto loro, praticano. Non si parlava di «credere agli dèi» a proposito di questa pratica, poiché il fatto di crede­ re vi era, evidentemente, implicato. Tuttavia qualche volta lo si esplicita­ va: Socrate fu accusato di «considerare come dèi» (theous nomizein)m divinità sconosciute ad Atene; per l’imperatore Giuliano, essere restato fedele al paganesimo voleva dire avere conservato la fiducia negli dèi.81 È soltanto per i cristiani che il fatto di credere non è implicito e che,

oltre alla pratica, bisogna anche professare i princìpi della propria reli­ gione, perché il cristianesimo, oltre a essere una religione di Salvezza, è anche, come dice Foucault, una religione confessionale, dove non biso­ gna soltanto credere, ma professare quello in cui si crede.82 La ragione di questo, suppongo, sta nel fatto che il cristianesimo si è sviluppato contro una religione concorrente, tanto che i fedeli erano tenuti a di­ chiarare solennemente quale campo avessero scelto; «credere» designa­ va un’affiliazione; si professava la propria fede (fides serve come sostan­ tivo per il verbo credo), si era fedeli alla Chiesa, si credeva al suo inse­ gnamento; più ancora, credere voleva dire avere fiducia in Dio, credere in lui,83 il che presuppone una relazione personale, estranea al pagane­ simo. Un’altra ragione è che il cristianesimo è una religione interiorizza­ ta: oltre alla pratica, i naturali sentimenti di pietà e di amore che impli­ ca devono renderla l’oggetto di una acquisizione culturale deliberata. Le immagini religiose cristiane rappresenteranno una persona della Trinità, la Vergine, un santo o la loro leggenda, ma quasi mai una mes­ sa {La messa di Bolsena di Raffaello è l’eccezione che conferma la rego­ la); i bassorilievi pagani, al contrario, rappresentano allo stesso modo la persona di una divinità o la sua leggenda, ma anche, molto spesso, una scena di sacrificio (o, nell’arte greca, una scena di pellegrinaggio o di processione che precede un sacrificio); le pitture dei vasi greci ci fanno assistere ai diversi atti di devozione,84 dal momento che era proprio du­ rante le ore in cui ci si consacrava al loro culto che si provavano per gli dèi sentimenti forti; la pietà verso gli dèi non era una fiammella di fede perpetua che bisognava tener continuamente viva. Le immagini dipinte o scolpite che dettagliavano i momenti di un sacri­ ficio erano emozionanti per i pagani; se si misconoscesse il fervore con cui assolvevano ai riti, non comprenderemmo nemmeno quelle immagini sa­ cre più di quanto un essere asessuato potrebbe comprendere un’immagi­ ne erotica. Lo zelo che si metteva per rispettare alla lettera le prescrizioni rituali, scrive John Scheid, dimostra che il ritualismo «era interiorizzato e giocava nella vita spirituale un ruolo altrettanto grande di quello che rive­ stiva per il cristiano la contemplazione di un mistero della Salvezza».85 Al­ lo stesso modo, nella nostra vita di tutti i giorni, gli umili gesti scrupolosi in cui un servitore ha messo tutte le sue cure e tutto il suo zelo provano il suo attaccamento meglio di qualsiasi dichiarazione di devozione.

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ΙΠ Soffermiamoci sull’aspetto di questa religione che è il più estraneo alla morale, il fatto che gli dèi non si preoccupano che di se stessi, e passia­ mone in rassegna qualche manifestazione. Gli dèi intendono fare ri-

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spettare la loro persona, il loro nome e il loro tempio, e la moralità non ha nulla a che vedere con tutto questo; se Apollo manda la peste nell’e­ sercito acheo, è perché Agamennone non ha rispettato il dio nella per­ sona del suo sacerdote. Le leggi sacre appese all’entrata del tempio proibiscono, lo vedremo, di entrare nel santuario se, per il rispetto do­ vuto al dio, non si è in stato di purezza rituale, di pietà e di buona mo­ ralità. Se gli dèi castigano colui che ha fatto un falso giuramento in loro nome, è perché si è abusato di questo nome. Sì, in materia di giustizia, puniscono lo spergiuro, ma, in questo caso, non fanno altro che vendi­ care la loro personale dignità: rivestono il ruolo di giustizieri soltanto per far giustizia a se stessi. Null’altro indica per il momento che in altri ambiti gli errori umani abbiano attirato la loro collera. Il giuramento, per cominciare da qui, oscilla da un automatismo ma­ gico al rispetto per gli dèi e alla necessità, da parte di questi ultimi, di rispettare la parola data. Questa pratica ha per formula una maledizio­ ne condizionata contro se stessi: che Zeus o Diespiter invii la sciagura su di me se sono infedele alla mia promessa!86 Ma perché Zeus dovreb­ be inviarla? Perché è il dio della giustizia? Perché si è attentato alla sua maestà compromettendo il suo nome in un falso giuramento? No, al­ meno non originalmente: la maledizione bastava di per se stessa ad atti­ rare la sventura su colui che non teneva fede al giuramento, e il dio del­ la folgore non era molto più che il prestanome del corso naturale delle cose;87 esattamente allo stesso modo si invocavano, a fianco di Zeus, gli elementi del mondo, sole, fiumi, terra, la Vendetta o piuttosto le Erin­ ni, e, per buon peso, tutti gli dèi.88 Intravediamo qui una concezione magica del potere delle parole e insieme una prudenza superstiziosa: chi ha giurato rischia di sfidare la cattiva sorte ed è per la sventura un’occasione di farsi avanti perché la maledizione è diretta proprio contro colui che la pronuncia: il suo autore e il suo bersaglio sono tan­ to vicini l’uno all’altro da confondersi. Si era nondimeno pronunciato il nome degli dèi nel giuramento, essi erano stati compromessi e avrebbero sicuramente punito lo spergiuro che, avendo così abusato del loro nome, era un empio. Quindi le sven­ ture che opprimono gli spergiuri vengono loro dagli dèi. Ma un falso giuramento può compromettere gli dèi soltanto se esso è un male... Una religione non ha di per se stessa alcun legame necessario con la morale; ma gli dèi greci, da parte loro, ne hanno una loro propria, essendo, co­ me gli uomini, provvisti di senso morale, e quindi ripugna loro trovarsi mescolati alla slealtà. Questo fatto è dimostrato dalla storia dello sleale Glauco, che aveva chiesto all’oracolo di Delfi se poteva fare un falso giuramento e che Apollo, per punirlo di questo progetto, aveva privato di ogni discendenza.89 Meglio ancora, moralità e pietà verso gli dèi si incontrano sul terreno

del giuramento; l’uomo che mantiene la parola data rispetta e al con­ tempo preserva intatta la dignità divina e la morale cara agli dèi come agli uomini. Il poeta ellenistico latino Catullo formula questa preghie­ ra:90 o dèi, per la mia devozione, accordatemi il favore che vi chiedo, dal momento che penso di essere pio, poiché non ho violato la venera­ bile buona fede e poiché in nessun patto è accaduto che io abbia abu­ sato della potenza divina per ingannare gli uomini. Resta da sapere se gli dèi accorderanno veramente al pio Catullo il favore chiesto. Viceversa, invieranno davvero la sventura agli spergiu­ ri? Come noi, essi amano la virtù, ma esercitano una giustizia imma­ nente? Era pio ed edificante dirlo, ma il senso della realtà lasciava un dubbio negli spiriti. Senza spingersi troppo in là, si poteva assicurare, con Esiodo,91 che gli autori dei falsi giuramenti sarebbero stati puniti nella loro discendenza (ogni speranza di giustizia immanente non è quindi persa anche se li si vede vivere nella prosperità sino all’ultimo giorno); si poteva inoltre sperare che chi non avesse abusato del nome degli dèi potesse un giorno ottenere la loro benevolenza, possibilità che gli spergiuri non avrebbero mai avuto. Nel prologo della Rudens di Plauto, la stella Arturo è stata inviata da Giove per osservare le buone e le cattive azioni degli uomini.92 Giove, afferma la stella, vuole sapere se gli uomini rispettano «la pietà e la buo­ na fede»; non gradisce i sacrifici e le suppliche di coloro che fanno falsi giuramenti nei tribunali per coprire i loro debiti, né di quanti cercano di vincere un processo con lo spergiuro. Non si saprebbe affermare ca­ tegoricamente che la sua giustizia castigherà a colpo sicuro chi vien me­ no alla parola data, ma, in ogni caso, gli dèi non accordano più la loro benevolenza al mentitore, il che si tradurrà sicuramente, un giorno o l’altro, in una sventura che si abbatterà su di lui. Di contro, continua il drammaturgo, l’uomo pio incontrerà il favore degli dèi «più facilmen­ te» dello scellerato. Ritroveremo più avanti questa mezza-credenza in una giustizia immanente. Questa giustizia si esercita soltanto perché gli dèi sono personalmen­ te implicati nei giuramenti; nulla ancora indica che, in altri campi, le condotte umane avrebbero attirato la loro attenzione, un fatto che è confermato, in piena epoca imperiale, da un centinaio di curiosi monu­ menti chiamati «steli di confessione». In Frigia, nei pressi di Sardi, quando un contadino era stato vittima di qualche grave malattia o di lunghi anni di cecità, attribuiva volentieri la sua sventura a una colpa che aveva commesso; dopo la guarigione, faceva incidere una stele sul­ la quale confessava la sua colpa e diceva quale castigo la divinità gli aveva inflitto. E quali erano queste colpe? Misfatti di cui il dio in per­ sona era stato vittima o che chiamavano in causa il suo nome o la sua potenza. Il colpevole aveva sottratto le colombe sacre dal santuario del

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dio, aveva spergiurato invocando il suo nome, aveva pronunciato men­ dacemente una maledizione proprio contro di lui, era l’autore di qual­ che delitto la cui vittima aveva pregato il dio di assicurare la vendetta. In tutti i casi, «il dio era invocato come giudice e parte entro gli affari concernenti i suoi propri interessi».93 Allo stesso modo le leggi sacre esposte all’entrata dei santuari e i di­ vieti con cui colpiscono chiunque voglia penetrarvi riguardano perso­ nalmente la divinità. Bisognava, per prima cosa, avere una tenuta cor­ retta; nella trilogia di Eschilo, la Pizia, che non riconosce le Erinni nel­ le donne coperte di stracci sedute sull’altare di Apollo, esclama a gran voce: «E il loro modo di vestire! Una simile tenuta non è decorosa da­ vanti ad immagini divine, non più di quanto lo sia alla soglia di dimore umane».94 Sei o sette secoli dopo, sulla sua «stele di confessione», la frigia Antonia dichiarerà pubblicamente di essere stata colpita da una malattia mandata da Apollo per il fatto di essere entrata nel suo santua­ rio con un mantello sudicio.95 Le leggi sacre prescrivevano anche di essere pii, onesti e puri. Nel tempio di Atena a Lindo,96 i divieti erano di tre specie: non avere nodi alla cintura97 (ogni nodo, ogni blocco è magicamente inquietante), non essere insozzato da nulla di maledetto e di impuro, non aver fatto nulla che sia contrario alle leggi, essere puri non soltanto nel corpo, ma an­ che nell’anima, non aver avuto contatto da un certo numero di giorni con un parto, un funerale, una prostituta, una donna mestruata, uno stupro, un lutto. Pare infine che, per offrire un sacrificio, bisognasse essere in abito bianco (lampros),98 colore liturgico in Grecia come a Ro­ ma. La diversa conservazione della documentazione storica (i greci in­ cidevano iscrizioni di notevole lunghezza molto più di quanto non fa­ cessero i romani) fa sì che io possa citare quasi soltanto un esempio la­ tino di legge sacra,99 quella di un tempio di Esculapio di epoca impe­ riale: «Chiunque voglia salire sul basamento del tempio per entrare do­ vrà essersi astenuto da tre giorni dai rapporti carnali con donne, dalla carne di maiale, dalle fave, dall’andare dal barbiere, dal bagno pubbli­ co. Non entrare nel recinto sacro con le calzature ai piedi». Ma sappia­ mo anche che le leggi sacre latine prescrivevano di entrare nei templi soltanto con abiti puliti: «Pura cum veste venito» scrive Tibullo.100 Esseri puri significava avere una tenuta corretta, ma, oltre al vestito e all’apparenza esteriore, la purezza concerneva anche il corpo e quegli intriganti fenomeni fisiologici che sono la sessualità, il ciclo mestruale, il parto, la morte, il sangue, lo sperma e, a Roma, il ronzio nelle orec­ chie. Questa è l’eredità di un passato in cui tutto questo costituiva un aspetto molto importante della realtà, ed è a questo che si riferivano la nozione di puro e di impuro. Poiché è, in fondo, una questione di «buon contegno», la questione 382

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dell’impurità si pone soltanto per colui che penetri nell’ambito del sa­ cro e del rispetto a esso dovuto: quel che è impuro in relazione a que­ st’ambito può essere indifferente fintanto che si resti nell’ambito profa­ no.101 Il puro e l’impuro hanno attinenza con il bene e il male soltanto per confusione o per caso: un assassino è impuro perché ha del sangue sulle mani come lo è il ciclo mestruale per altri, analoghi, motivi. L’idea di purezza estenderà il suo ambito verso l’inizio della nostra epoca, quando riguarderà tutta la sessualità; sarà impuro tutto quello che è «contro natura»: adulterio, omosessualità e aborto.102 Ma, diversamen­ te, quella religione «leggera» non soffocava la vita quotidiana sotto una massa di divieti rituali. Le leggi sacre sono ben lungi dal limitarsi alla purezza; esigono an­ che che il visitatore abbia un atteggiamento pio. Spesso si prescrive di entrare nell’ambito sacro con l’animo puro {agnos)\m nel santuario di Epidauro un’iscrizione diceva: «L a purezza consiste nel pensare santa­ mente».104 La santità degli dèi vuole che si entri nei loro santuari con raccoglimento; se si offre loro un sacrificio, dirà un giorno Porfirio, bi­ sogna farlo con ardore e non distrattamente (parergos);105 se si indirizza loro una preghiera, bisogna farlo con tutta l’anima, in prece totus esse, scrive Ovidio.106 Bisogna anche scacciare ogni idea empia. I santuari ri­ cevevano la visita di scettici, pronti a ironizzare sulla credulità dei de­ voti e sui miracoli attribuiti dagli ex voto alla potenza del dio.107 Ogni santuario aveva i suoi riti peculiari e certi visitatori sghignazzavano «su riti che non conoscevano».108 Potrebbe infine darsi che l’anima pura delle leggi sacre implichi il fatto di non avere crimini sulla coscienza,109 e che questa clausola sia un modo discreto di vietare l’accesso al san­ tuario a ogni scellerato. Davanti a un grande personaggio bisogna dare prova di modestia. La legge vieta alle visitatrici di sfoggiare le loro ricchezze; esse non de­ vono entrare nel santuario con abiti troppo belli né con gioielli, altri­ menti il custode avrà il diritto di strappare loro gli abiti,110 dal mo­ mento che si offendono gli dèi quando si ostenta superiorità. Non bi­ sogna credere di abbindolarli sacrificando loro vittime costose: «A un tessalo che portava ad Apollo dei buoi dalle corna d’oro e delle eca­ tombi, la Pizia dichiarò che il dio aveva preferito un uomo di Ermione che, come sacrificio, aveva offerto in tutto tre dita di pasta tolta dalla sua bisaccia».111 Il personale dei santuari attribuiva evidentemente grande valore al­ la devozione di un fedele, e non avrebbe rinnegato le parole di un poeta: «Sappilo bene, se è da parte di un cuore pio che si offre agli dèi anche il più modesto sacrificio, si viene esauditi»,112 un’idea desti­ nata a un grande futuro, lo vedremo. E il lettore non penserà senza un briciolo di emozione alle offerte della povera gente, al gallo offer­ 383

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to ad Asclepio da un’umile eroina di Eronda, offerta accompagnata da un’immagine di Igea dipinta su legno, per perpetuare il ricordo del sacrificio, o alla carcassa carbonizzata di un mezzo pollo, sacrifi­ cato prima del 24 agosto del 79 e ritrovato sull’altare di un crocicchio a Pompei, in via dell’Abbondanza.113 Infine, le leggi sacre esigono con assoluta chiarezza che i visitatori siano gente perbene. La divinità non tollera l’immoralità nella sua casa. L’accesso ai santuari è vietato ai criminali, agli assassini: «Non bisogna che una mano malvagia tocchi gli dèi», dicono i poeti.114 Se le leggi sa­ cre non lo dicono prima dell’epoca ellenistica,115 è perché la legge non poteva pensare a menzionare tutti i sacrilegi possibili, bisognava limi­ tarsi a quelli che il fedele avrebbe potuto commettere inavvertitamente. Era inutile precisare che bisognava togliersi le scarpe prima di entrare nel cuore del santuario, dal momento che questo obbligo non era igno­ rato da nessuno.116 Appendere all’entrata «Divieto di entrata a ogni as­ sassino», sarebbe stato tanto vano quanto assurdamente strambo: l’in­ terdetto che escludeva il criminale era noto a tutti. In un santuario dell’Acaia fondato da Oreste, una leggenda affermava che ogni assassino che si azzardava a entrare diventava immediatamente folle per la paura; la stessa sorte attendeva l’empio visitatore che entrava per curiosare:117 anche qui ima legge scritta sarebbe stata inutile, dal momento che il cu­ stode poteva difficilmente decidere dell’empietà di un visitatore a se­ conda dell’aspetto di quest’ultimo. Il silenzio di molte leggi non permette di supporre che via sia stato un processo evolutivo dalla sozzura materiale delle mani insanguinate alla colpa morale: in ogni tempo l’assassino è stato escluso per il suo crimine stesso; oltre alla storia di Oreste, i testi, da Antifonte a Lisia, da Platone a Demostene e Aristotele, lo dicono espressamente.118 L’at­ to criminale è qualche volta qualificato come una sozzura,119 ma que­ sta è soltanto un’esagerazione in termini: si distinguevano benissimo l’impurità rituale e l’immoralità. Più ancora, nel II secolo avanti Cri­ sto, una legge sacra cretese120 distinguerà l’intenzione criminale e l’o­ micidio accidentale; tratterà molto particolareggiatamente degli autori degli omicidi involontari, dei ferimenti fortuiti, come delle vittime e delle loro piaghe; né quelli né queste sono esclusi dal santuario. Non l’abbiamo dimenticato, gli dèi non sono soltanto egoisti e fallibili. I racconti epici e le leggende mitologiche, fatti per il diletto degli ascol­ tatori, potevano certo prestare agli dèi peccatucci carichi di attrattive; ma la fede seria, la pietà, l’amore per gli dèi attribuivano loro lo stesso senso morale a cui gli uomini attribuivano un’importanza decisiva per la loro vita sociale.

IV

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Veniamo dunque a quest’altra concezione del divino per la quale ci si dimenticava che gli dèi fossero fallibili e si voleva vedere in essi soltan­ to esseri esemplari. Il legame tanto frequente tra le religioni e la morale non è tuttavia nato direttamente dalla religione di per se stessa, da qual­ che carattere della sua essenza, ma dall’importanza vitale, etologica, della moralità: si esige che ognuno rispetti gli imperativi e i divieti della collettività. Gli dèi, che sono simili agli uomini, hanno la stessa esigen­ za per loro stessi e si aspettano altrettanto dagli uomini. Si arriverà sino a voler credere che essi facciano regnare una giustizia immanente e che la realtà stessa sancisca i giudizi umani. Questo desiderio così potente di credere a un mondo fatto a nostra immagine, unito all’importanza sociale attribuita alla morale, mette a profitto l’antropomorfismo per trasformare gli dèi in esseri giusti. Si potrà dunque invocare l’esempio e la volontà di queste creature auguste e temibili per condurre un’ani­ ma ribelle a piegarsi alla legge: la virtù è raccomandabile perché sono gli dèi a raccomandarla, se addirittura non la fondano o prescrivono. Troveremo quest’inclinazione a credere a una giustizia divina nell’e­ popea omerica e in Esiodo. Vi si invoca l’autorità degli dèi nei confron­ ti di quanti sono nella condizione di supplici, ci ài compiace nel crede­ re che Zeus condivida la nostra indignazione contro i re malvagi, e si ha qualche volta la febee sorpresa di constatare che la divinità è passata al­ le vie di fatto e li ha effettivamente puniti facendo trionfare i buoni. Ci si spinge talora fino a sostenere che gli dèi distribuiscano la felicità e l’infelicità ai mortali a seconda dei loro meriti; Esiodo insegnerà ai pigri che Zeus dona prosperità e buona fama all’uomo onesto e lavoratore. Anche nell’epica, l’idea che gli dèi siano più potenti che virtuosi coe­ siste con una concezione più edificante, secondo il gusto del poeta epi­ co o le necessità della trama. In un passaggio che è stato talora giudica­ to interpolato, Omero parla di giudici che emettono sentenze inique «senza preoccuparsi dello sguardo degli dèi»; in un passaggio esente da ogni sospetto, ci dice: non respingere chi ti supplica, ma «abbi rispetto degli dèi».121 Questo discorso è indirizzato all’inflessibile Achille: Pria­ mo, venuto a implorarlo di rendergli il corpo di suo figlio, adduce a giustificazione il fatto che gli dèi amano che si faccia buona accoglienza ai supplici. Fenice, per riconciliare Achille con Agamennone, simil­ mente aveva allegato come prova il fatto che gli dèi stessi si lasciavano piegare da offerte, sacrifici, suppliche, quando avevano commesso qualche errore.122 Non seguire il loro alto esempio sarebbe contrario alla concezione «feudale» dell’onore, sarebbe sminuire se stessi, perde­ re il diritto di essere fieri di sé. In nome della moralità gli dèi, o almeno una parte di loro, subissa­ 385

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no di rimproveri Achille che, folle di dolore dopo la morte di Patro­ clo, si accanisce sul cadavere di Ettore. Le diverse posizioni assunte dagli dèi in questa circostanza sono rivelatrici delle due coesistenti concezioni della moralità divina: Era, Poseidone e Atena, che odiano i troiani, non vogliono che il corpo sia sottratto ai suoi oltraggi; ma Apollo è indignato contro Achille che «ha perduto il senso della pietà, né conosce vergogna».123 Infatti, non rispettare i supplici,124 scrive al­ trove il poeta, significa non rispettare gli dèi, che li rispettano, sono misericordiosi125 e amano che anche gli uomini siano tali. Non esserlo è abbandonarsi all’hybris, a una tracotanza che offende gli dèi, poiché è una forma di empietà, contraria alla modestia che un mortale deve avere davanti a essi.126 Ma cosa ottengono Fenice o Priamo tenendo ad Achille questo di­ scorso? Due cose in una: gli ricordano come gli dèi giudichino la con­ dotta umana, e gli ricordano anche che bisogna tener conto del loro giudizio, non foss’altro che per rispetto nei loro confronti, per fierezza verso se stessi e per evitare prudentemente la tracotanza. Così la reli­ gione non consiste soltanto in determinate condotte destinate a conser­ vare il favore degli dèi (un brigante, dicevamo, sacrificherà agli dèi per sfuggire ai gendarmi); ma offre anche lo spettacolo di un mondo dal­ l’alto del quale gli dèi sostengono una morale che, senza imporsi asso­ lutamente, è negoziabile e raccomandabile. Ecco pertanto gli dèi diventati autorità in materia di condotta uma­ na. Ora, la loro autorità non può che esercitarsi sulla cosa più impor­ tante che esista al mondo: la morale. L’onnipotente esigenza collettiva, etologica, della moralità, si impadronisce della religione, che non può restare indifferente al bene e al male. Resta da precisare quale fosse il legame che univa così paganesimo e morale, e che non era lo stesso che in altre religioni. Gli dèi greci non avevano donato le tavole della Legge e la morale esisteva di per sé. Accadrà lo stesso a Roma.127 Una gran parte della letteratura latina (storica, satirica, di divulgazione filosofica) ha un fine di edificazione morale: tuttavia, essa contiene assai pochi ri­ ferimenti agli dèi come esseri che vigilano sulla moralità. La morale s’impone di per sé; il paganesimo può rientrare sotto la sua influenza, ma può anche non preoccuparsi di farlo. Spesso l’esem­ pio dato dagli dèi sarà soltanto un argomento occasionale al quale si ri­ correrà unicamente nel caso in cui la morale comune si riveli insuffi­ ciente: davanti a un carattere ribelle come quello di Achille o nei casi incerti, quelli in cui un imperativo etico deriva non tanto dal nucleo fondante della morale quanto piuttosto da una morale graziosa e uma­ nitaria. In breve, si fa appello alla religione là dove essa non corre su un doppio binario rispetto alla morale comune: in favore dei supplici, dei vinti, degli emarginati, di tutti coloro che non sono protetti né da alcu­

na giustizia né da alcuna themis·, o in favore di un rapporto di aiuto re­ ciproco che è lodevole senza essere strettamente dovuto. Uno scrittore latino scriverà un giorno: «E un dio che fa sì che un mortale aiuti un al­ tro mortale»;128 un altro arriverà sino a sostenere che la famosa pietas romana comportava la pietà nei confronti dei vinti.129 Una delle numerose funzioni di una religione è quella di essere da incentivo a condotte disinteressate o altruiste, all’ospitalità, all’elemo­ sina e più genericamente a quegli atteggiamenti che non sapremmo ben spiegarci; per fare un esempio, se si innalzano dei cairn {hermaia, hermakes) lungo le strade per guidare i viaggiatori, ogni ciottolo che il passante vi aggiunge e che ne assicura l’eterna durata sarà un’offerta a Ermes.130 Si poteva andare ancora più lontano e fare della devozione religiosa la garanzia e il pegno di tutte le virtù. Ulisse naufrago, arrivando su una spiaggia sconosciuta, si domanda presso quali mortali sia arrivato, pres­ so uomini «violenti, selvaggi, senza giustizia, oppure ospitali, e che han mente pia verso i numi?».131 Rispettare gli dèi è rispettare tutte le virtù; chiunque voglia essere davvero ospitale rispetterà anche, a fortiori, lo stretto obbligo di giustizia. La fede appare come la virtù meno legata alla realtà empirica, ai suoi guadagni, alle sue tentazioni, ai suoi rischi. Supera la concezione feudale dell’onore, si innalza al di sopra degli ap­ petiti e delle pulsioni, rappresenta la parte di elevazione di cui ciascuno è capace. Chiunque ha questo rispetto disinteressato per la religione lo avrà anche per ciò che è rispettabile. Nella sua situazione disperata, Ulisse si attacca a quell’idea confortante che è la religione. La pietà è il contrario della barbarie, corona e sussume sotto di sé tutte le virtù. «Io solo sono stato salvato dal naufragio, perché sono un uomo pio» dirà un eroe di un romanzo di età imperiale, per aggiungere, più avanti: «Io solo sono stato salvato perché, in tutta la mia vita, non ho mai commes­ so una cattiva azione».132 La Bruit Zaidman ha sapientemente studiato questo legame finale tra giustizia e devozione, quest’integrazione della morale e della reli­ gione.133 Pausania racconta che, nei tempi assai antichi in cui Sparta intraprendeva la conquista della Messenia, i messeni accusavano i lo­ ro aggressori di essere sacrileghi (anosious) verso gli dèi comuni a tutti i dori; come si è giustamente fatto notare, «l’empietà è da un la­ to la trasgressione delle leggi che si impongono a tutti e dall’altro è la negazione della reverenza dovuta agli dèi».134 Si può supporre che la propria capacità di mantenere un comportamento pio lusingasse in molti individui il pensiero ideale che nutrivano di se stessi, il sen­ timento di una perfezione generale dell’essere umano, nella quale re­ ligione e morale erano ugualmente necessarie; un popolo senza reli­ gione non era civilizzato, un uomo sprovvisto di fede era incompleto

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(allo stesso modo in cui nella nostra epoca un individuo apolitico è un essere mediocre e mutilo). La devozione fu una delle virtù del mi­ glior cavaliere del mondo ai suoi tempi, Agesilao: aveva tutte le qua­ lità, e in politica, la sua religiosità gli consentiva di rispettare i giura­ menti in modo ammirabile.135 Al contrario, chiunque non rispetti gli dèi non rispetterà nemmeno la giustizia umana. Le leggi divine sono più solenni di quelle umane e chi le viola non saprà rispettare nulla. Queste leggi divine rendono sa­ cri santuari e sepolture, violarli è il colmo dell’empietà, come potrebbe esserlo l’incesto. I crimini di guerra che la coscienza universale condan­ nava erano quelli che non riguardavano gli uomini, ma gli dèi e i mor­ ti.136 Il decemviro Appio Claudio, che ha ridotto illegalmente Virginia in stato di schiavitù e che è responsabile del ratto e della morte di que­ sta vergine, è un mostro che non ha esitato a «porsi al di fuori delle leg­ gi, al di là delle norme comuni del vivere cittadino e umano»; del pari, «professa il suo disprezzo per gli dèi e per gli uomini» (deorum homiCosì quindi, da sempre, da Omero, la morale poteva accompagnarsi alla devozione. Questa concezione coesisteva con l’idea che ogni dio agiva soltanto secondo il suo criterio singolare; attorno al cadavere di Ettore, gli dèi si sono divisi fra coloro che volevano che la pietà avesse la meglio e quelli che si abbandonavano al loro livoroso odio contro Troia. Accade agli dèi come agli uomini: la razza umana in quanto tale rispetta la morale e vuole che la si rispetti, ma ogni individuo preso sin­ golarmente può sbagliare; allo stesso modo, la razza degli dèi è morale, ma ogni dio può peccare. Coesistono, di conseguenza, due modi di par­ lare della divinità: il singolare e il plurale non hanno lo stesso significa­ to. Un dio designato nominalmente, al singolare, può avere i suoi ca­ pricci, i suoi torti e le sue debolezze, ma, al plurale, «gli dèi», presi nel loro insieme, rispettano la morale e vogliono che i malvagi siano vinti o puniti. Gli dèi non permetteranno che... gli dèi finiranno per punire questo scellerato, gli dèi ci vendicheranno, gli dèi ci hanno vendicati, hanno donato la vittoria alla fazione giusta. Oltre al plurale, si ricorre in questo impiego a un nome collettivo, «il dio», il daimon, o a un’astrazione, «la divinità», to theion. O ancora, si ricorre a «Zeus», che è il dio per eccellenza, che riassume in sé tutti gli dèi, e che è ima sorta di plurale implicito; è per questo motivo che è di­ ventato il dio della giustizia.138 Infatti, oltre alle due funzioni di dio pro­ tettore degli ospiti (xenios ) e dei supplici (hikesios), Zeus è il «dio passe­ partout», quello che si invoca in caso se ne invochi solo uno,139 quello con più epiteti, che supplisce a qualsiasi altro dio. Qui inizia la grande avventura di Zeus come dio supremo, e il suo nome, in futuro, verrà usato abitualmente per il dio dei filosofi; la figu­

ra mitologica del padre degli dèi e degli uomini diventerà un’entità fi­ losofica. Ci si rifiuta di credere che gli dèi non provino l’amore per la giustizia; e, fra essi, eminentemente Zeus, perché è il più grande fra tut­ te le altre divinità e fra tutti gli altri uomini. In Esiodo, la Giustizia e le Stagioni sono sorelle, lo ricorderemo sempre; così, dunque, legge natu­ rale e legge morale sono la stessa cosa, l’universalità del diritto è la stes­ sa di quella di fatto, l’Essere e il Bene sono un’unica entità: sono gli ini­ zi della filosofia classica. Avevo però tralasciato di dire che, secondo Esiodo, quelle sorelle sopra citate hanno per padre Zeus, il cui nome questo poeta non smetterà di ripetere. Il bisogno di giustizia che divora Esiodo promuove Zeus al rango di padre della giustizia; la morale eleva così la religione, che sembra subito porsi un giardino più alto della sua promotrice. Zeus o gli dèi soppiantano la muta evidenza della natura come fondamento trascendente dell’ordine fisico e morale del mondo. Vi è sotto quest’atteggiamento un monoteismo latente, che altro non è se non la tendenza filosofica alla sistematizzazione e al monismo. Si tratta dunque di un monoteismo degno di questo nome, mentre le tre grandi religioni monoteistiche di cui si parla molto in questo momento meritano meno onori. Ci si sbaglia sulla loro antichità (il preteso mono­ teismo ebraico fu, per lungo tempo, il culto di un dio non unico ma ge­ loso, geloso degli altri dèi, di quelli degli altri popoli, i quali sì esisteva­ no ai suoi occhi e agli occhi del suo popolo, ma, beninteso, Yahweh era più forte delle altre divinità); ci si sbaglia sulla loro realtà (con la Tri­ nità, i santi e la Vergine, il monoteismo cristiano è un mero punto d’o­ nore dei teologi); ci si sbaglia sulla loro portata (Allah è dio unico in virtù di una superstizione gratuita come quella del politeismo; è il pro­ dotto del desiderio di esaltare un dio-re): no, il monoteismo non è af­ fatto un asse cardinale della storia delle religioni.140 Ritorniamo al paganesimo, che credeva con facilità al fatto che gli dèi amassero e favorissero la giustizia, e che facessero trionfare la fazio­ ne giusta. O, almeno, ce lo si augurava, lo si voleva credere; il linguag­ gio del vecchio Laerte, appena venuto a sapere che Ulisse ha trionfato sui proci, lo mostra bene: «Zeus Padre! Sì, che esistono ancora gli dèi sull’eccelso Olimpo, se veramente i principi la folle violenza [hybris] pagarono!».141 Questo credere in una giustizia immanente è la consola­ zione del vinto o dell’oppresso. Gli dèi raddrizzano i torti. Qui il lega­ me tra la religione e la morale nasce dal desiderio di credere che quel che ci si augura accada, dal whishful thinking. Ora, una simile fede, ge­ neralmente, è creduta soltanto a metà. Si è visto quale strano linguag­ gio fosse quello di Laerte: dopo che il fatto si era verificato, egli scopre, con una sorpresa rapita, che quella giustizia, alla cui esistenza si suppo­ ne ognuno credesse, esiste davvero, e la sua sorpresa rivela che, nel profondo del suo animo, non aveva osato sperarlo.

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Un’altra mezza credenza vendicatrice voleva che le tempeste deva­ statrici fossero l’espressione di una collera di Zeus contro degli op­ pressori. Uno dei passaggi più frementi e più coinvolgenti delYlliade ce lo fa sapere svolgendo una similitudine; le prodezze di Patroclo hanno affossato l’esercito troiano nella nera nube di ima disfatta;142 il nembo scoppia «come sotto un ciclone si fa pesante e scura tutta la terra, in un giorno d’autunno, quando con più violenza Zeus versa pioggia, quando sdegnato s’adira con gli uomini, che con prepotenza in piazza danno sentenze inique», ed ecco così i fiumi che straripano e il torrente che devasta le coltivazioni degli abitanti.143 Non siamo più nel mondo aristocratico dell’epopea, ma in una società plebea e scon­ tenta. Siamo anche, è vero, nel secondo termine di una similitudine, che l’autore prende a prestito, per maggior credibilità, da idee gene­ ralmente accettate; nulla prova che egli le condivida davvero ed è quindi inutile supporre qui un’interpolazione originata dal testo di Esiodo; quest’interpretazione della tempesta era un detto diffuso, ec­ co tutto. La tempesta dimostra del resto meno senso della giustizia di quanto ne abbia, come nella favola di Esopo, la collera di un tiranno la cui vendetta devasta ciecamente i campi degli innocenti. Del resto la visione di Esiodo pone le sue basi in un pensiero caro al­ la plebe che ama credere che Zeus «facilmente abbatte l’illustre e in­ nalza l’ignoto».144 Nelle sue opere, anche i re malvagi danno sentenze false; fanno piangere la dea Giustizia, che si è appena seduta ai piedi di Zeus, suo padre; e il dio, nella sua collera, manda peste, carestia, nau­ fragio e disfatta, «cosicché il popolo paga per le sentenze ingiuste dei re; spesso un’intera città risente della colpa di un solo uomo».145 In compenso, i giudici che emettono rette sentenze vedono fiorire la loro città e il popolo vivere nell’abbondanza; messi e mandrie prosperano146 e Zeus non invia la guerra.147 La stessa cosa accadrà a Roma; durante i quattro anni della censura di Catone le messi risulteranno abbondanti. Un movimento irresistibile aveva spinto la moralità a subordinarsi da sé alla religione, per rinvigorirsi e trovare un fondamento. Esiodo di questa possente sintesi fa un uso moralizzante, ideologico; la sua gran­ de idea è quella della retribuzione: ciascuno ha la vita che merita, cia­ scuno forgia il proprio destino con il suo lavoro e il suo modo di com­ portarsi nella vita, e gli dèi vegliano su questo, punendo i malvagi e ri­ compensando l’uomo lavoratore, onesto e pio. Nell’incipit delle Opere e i giorni , la caduta di Prometeo e quella della razza d’argento erano meritate e messe in atto da Zeus.148 NelYIliade, al contrario, Zeus pe­ scava a caso estraendo da due giare i beni e i mali che distribuiva ai mortali;149 questo è il pessimismo omerico. Esiodo, da parte sua, vuole credere invece che il giudice che emette giuste sentenze riceverà da Zeus la prosperità per sé e per la sua discendenza;150 mentre la felicità

degli adulteri e degli incestuosi, di quanti respingono i supplici o accu­ mulano ricchezze con la violenza non durerà a lungo e la loro posterità avvizzirà,151 poiché Zeus in persona si adira contro i malvagi e i pigri. «Gli dèi e gli uomini si sdegnano per colui il quale vive ozioso»,152 arri­ va ad affermare. Come i Dieta Catonis a Roma, le Opere e i giorni appartengono al ge­ nere della letteratura sapienziale; ci fanno capire quel che si andava ri­ petendo per educare le giovani generazioni: l’uomo poco saggio perde­ va agiatezza e reputazione, l’uomo saggio sposava una ragazza del vici­ nato e non una sconosciuta «dai fianchi bizzarramente bardati»,153 ric­ chezza e buona fama erano il frutto di una vita carica di lavoro, onesta e pia. Zeus in persona determinava il verificarsi di queste conseguenze che sono del resto naturali, perché Yhybris è gravida del suo proprio castigo: quando ci si spinge troppo in là, va sempre a finir male. Processi naturali e giustizia divina si sovrappongono. Accade lo stes­ so nell 'Iliade, quando l’anziano precettore di Achille, Fenice, cerca di riconciliare l’eroe con gli achei che l’implorano di rinunciare alla sua collera. Fenice illustra al suo allievo un’allegoria del suo repertorio: le Suppliche (L itai ) sono delle vecchie piene di rughe (da quanto tempo si sentono i supplici ripetere gli stessi ritornelli!), zoppe e guerce (la vendetta divina è spesso lenta a venire!); nondimeno, esse finiscono sempre per ottenere da Zeus che l’uomo che ha rigettato un supplice sia da quel momento in poi votato al suo Errore154 (Fenice si guarda bene dal pronunciare la parola hybris), che gli farà scontare un giorno il prezzo della sua durezza.155 Allora, perché Fenice ed Esiodo fanno intervenire, per ricompensare e vendicare contemporaneamente Zeus e determinati processi naturali che comportano di per se stessi la loro sanzione? Per dare più spicco alla morde legando a essa la santità della religione, da una parte, e per­ ché, d’altro canto, nemmeno essi credono troppo a una giustizia imma­ nente che non si potrebbe dispiegare naturalmente. Virtù e saggezza sono sancite dagli dèi, la condotta di ogni uomo è sotto il loro sguardo, perché «trentamila infatti, sulla terra nutrice di molti, sono gli immor­ tali, inviati da Zeus, custodi agli umani mortali».156 Esiodo crede vera­ mente che essi ricompenseranno i buoni e castigheranno i malvagi? Ci crede più del vecchio Laerte? Alcuni versi lasciano perplesso il lettore, perché generano un dubbio: se l’ingiustizia non venisse punita, Esiodo, disperato, cesserebbe di essere giusto! Ma, aggiunge immediatamente dopo, «io credo che il saggio Zeus non permetterà tali cose».157 Alcuni secoli più fardi, Menandro crederà ancora meno a queste fa­ vole da predicatore e farà dire a uno dei suoi personaggi: «Credi che gli dèi abbiano abbastanza tempo libero per distribuire quotidianamente il bene e il male a ciascuno? Vi sono, all’incirca, mille città, che hanno

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ciascuna trentamila abitanti: che vita faticosa sarebbe quella degli dèi se dovessero mandare in rovina o salvare ogni singola persona!».158 La simpatia di Menandro per Epicuro non spiega tutto: il dubbio sulla giustizia immanente degli dèi era sempre esistito a fianco della fede ne­ gli dèi come elargitori di ricompense.

Lasciamo i discorsi di carattere generale e veniamo ora ai dati di fatto. Che homo religiosus era il «greco medio», il «romano medio»? Quale era quella religione civica di cui gli storici parlano spesso e volentieri? Quale era ad Atene la forma di devozione delT«uomo della strada»? La stessa di quella dell’«uomo della strada» nella maggior parte delle so­ cietà: ogni popolo ha i suoi costumi, compresi quelli religiosi, e la mag­ gioranza dei membri del gruppo li rispetta; essi praticano la loro reli­ gione allo stesso titolo di tutte le altre usanze e si sottomettono all’im­ perativo imposto loro perché si riconoscono come facenti parte del gruppo sociale che le accetta e ne mantiene la pratica. Certamente esistevano qua e là degli increduli, o, piuttosto, indivi­ dui che si facevano beffe della religione; simili impulsi scettici sono probabilmente esistiti sempre e dovunque. Ne danno testimonianza i propositi disdicevoli che, in pieno V secolo avanti Cristo, un testo gre­ co attribuisce a due schiavi: «Ma tu, ci credi davvero, agli dèi?» dice al­ l’altro uno di questi due mascalzoni.159 Essi sghignazzano sulla religio­ ne come, in ogni tempo, tipi poco raccomandabili hanno sghignazzato su tutto quello che era degno di rispetto, morale, patria, cultura o buo­ ne maniere, con una sorta di rivincita beffarda sul conformismo impo­ sto. E un comportamento puerile e innocente come quello che si vedrà a Ostia, nelle terme dei Sette Saggi, in quelle rappresentazioni che at­ tribuiscono proprio a questi sapienti aforismi scatologici, ed è un poeta comico, Aristofane, a riportare i discorsi dei due schiavi prima nomina­ ti, per divertire il pubblico ateniese. Lasciamo perdere questi propositi infelici a cui non si conferiva una serietà tragica. Conformarsi ai costumi del gruppo, in ambito religioso e in altri campi, equivaleva ad ammettere di far parte di questo gruppo, era un comportarsi da un buon cittadino. Nella concezione antica, una collettività sussiste in primo luogo grazie alla virtù di ciascuno degli in­ dividui che la compongono, alla maniera di una cordata di alpinisti la cui salvezza dipende dal comportamento di ciascuno; questa era la po­ litologia del tempo, che ignorava gli effetti derivanti dai processi di ag­ gregazione. Le diverse virtù dell’individuo, tra cui la devozione, erano altrettante condizioni per la sopravvivenza collettiva. Questa conclu­

sione sociologica era concepita in un «discorso» teologico: la religiosità di ogni cittadino era la condizione per la sopravvivenza di tutti, perché l’empietà di un cittadino avrebbe attirato i fulmini celesti su tutta la città. Il destino di una città è pieno d’imprevisti, il suo futuro è sempre incerto e, come si è visto prima, ogni esito fatale, ogni infelicità indivi­ duale o collettiva ha gli dèi come autori. Il buon cittadino, questo pila­ stro politico della città, deve dunque essere anche un uomo pio, dal momento che la collera degli dèi contro un empio rischierebbe di toc­ care la città nella sua interezza. Come in Esiodo, causalità soprannatu­ rale e causalità politica sono l’una immagine dell’altra. Civismo e pietà verso gli dèi erano ritmiti da un conformismo globa­ le, motivato dai timori tra loro gemelli dell’imprevisto e della collera divina. Tuttavia, i grandi princìpi e la quotidianità sono due cose di­ stinte: la realtà di tutti i giorni era più leggera, più aristofanesca. Gli oratori ateniesi non parlano molto degli dèi, anche quando cercano di perseguire un’eloquenza a effetto;160 allegano come motivazioni le leggi scritte, non la devozione religiosa. In qualità di buon cittadino, l’ate­ niese medio aveva due doveri da compiere, doveri che erano distinti unicamente in funzione della loro destinazione, il primo rivolto agli dèi e l’altro verso gli uomini: bisognava che egli «praticasse la pietà e la giustizia», delle quali la prima consisteva nel «rendere il culto agli dèi», nel praticare cioè la religione.161 Bisogna fare come fanno tutti, questo è il consiglio di Isocrate: «Prima di tutto dimostra la tua pietà verso gli dèi, non solo con i sacrifici, ma anche col mantenere i giuramenti [...]. Onora sempre la divinità, ma soprattutto nelle manifestazioni di culto pubblico: così infatti tu apparirai sia sacrificare agli dèi, che restare fe­ dele alle leggi».162 Per Isocrate, come per la maggior parte degli uomi­ ni, la morale e la religione formano uno stesso, unico blocco di conve­ nienze tradizionali. Morale e religione erano due conformismi gemelli. Ciò che avevano in comune era di essere, entrambe, degli obblighi, e, di conseguenza, si pensava, di urtare l’una e l’altra contro le nature ribelli; si presumeva che chiunque si rivoltasse contro l’una non rispettasse nemmeno l’al­ tra. Platone lo scrive e la voxpopuli lo dice anche in Euripide: quanti osano negare gli dèi non rispetteranno nemmeno le leggi163 e, vicever­ sa, «si comincia col disobbedire alle leggi, si finisce con l’infischiarsi dei giuramenti, dei patti e degli dèi».164 Quel che era conformismo in un Isocrate e per la maggior parte dei suoi compatrioti era una vera e propria forma di religiosità in un’élite più ferventemente religiosa. Nelle Eumenidi di Eschilo si svolge un conflitto tra le Erinni, Apollo e Atena per la sorte di Oreste. La riconci­ liazione finale, però, con il suo mito di fondazione dell’Areopago, sa­ cralizza quest’assemblea che era il terrore dei cattivi cittadini. Atena di­

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ce infatti alle Erinni, diventate protettrici di Atene: «G li empi, sì, sar­ chiali! Come un buon giardiniere, non amo veder soffrire la stirpe dei giusti che sono qui».165 Dal momento che empietà e ingiustizia (o man­ canza di senso civico) si confondevano, l’erba cattiva degli empi avreb­ be finito per soffocare i buoni cittadini. Ciononostante, la realtà del culto ateniese restava poco gravosa. Nemmeno un Eschilo avrebbe osato imporre una religione di Stato, dal momento che la religione della città non era una sola; un ateniese non era tenuto ad adorare Atena e ad adorare solo lei: era la città a in­ caricarsene. Se egli indirizzava di preferenza i suoi voti o i suoi ringra­ ziamenti ad Atena, era perché si trattava della protettrice più prossima. Ad Atene come altrove, si venerava Atena, ma anche Apollo, Dioniso e ogni altra divinità a seconda delle occasioni, in particolare Asclepio; a Roma, le immagini divine più numerose che siano state ritrovate non sono quelle di Giove Capitolino, protettore della città, né di Venere nuda o vestita, ma del dio della buona salute, Esculapio. Non mancano esempi di sacerdoti di una divinità che dedicano un ex voto a una divi­ nità diversa dalla loro.166 Socrate fu accusato di avere dèi diversi da quelli degli ateniesi; l’accusa non menzionava Atena, patrona delle città, ma parlava di «dèi», al plurale, senza altra precisazione. Ciascuno adorava gli dèi che voleva e la città, da parte sua, faceva altrettanto. Evitiamo di ricondurre tutto alla città, di farne il soggetto olistico della storia greca. Gli dèi non hanno nazionalità: se Atena è legata ad Atene che la ri­ compensa, questo non è un rapporto esclusivo, né da parte della dea, né da parte della città; Atene non si batte per la sua dea, ma è, al con­ trario, Atena che la protegge o anche che combatte per la città in cielo e talvolta sulla terra stessa.167 Giove non è il dio nazionale di Roma, ma questa città ha stipulato con lui, oserei dire, una sorta di abbonamento, un contratto d’assicurazione che rinnova solennemente nei suoi voti annuali. Quando Enea giunge infine a «introdurre i suoi dèi nel La­ zio», come dice il sesto verso dell 'Eneide, non lo fa in veste di missiona­ rio che porta la sua religione ai latini, ma di pioniere, che fonda la sua città e la sua dimora, stabilendovi «i suoi Penati» e i penati pubblici di Troia, che tutti i suoi compatrioti sono pronti a difendere contro gli in­ digeni italici. I troiani si batteranno «per il loro focolare e per gli altari» delle loro case e della loro città, prò aris et focis, secondo la formula consacrata. Il paganesimo era poco portato ad aggregare la società o la città, a inquadrare la popolazione; non esisteva nulla di paragonabile alla mes­ sa cristiana. Notiamo, tuttavia, una differenza fra la Grecia e Roma:168 al momento delle feste pubbliche dell’Atene classica, ogni cittadino ri­ ceveva la sua parte di vittime immolate, come ha mostrato la Schmitt394

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Pantel, mentre a Roma questa divisione delle carni del sacrificio fra i cittadini presenti al rito non esisteva; nei sacrifici pubblici, la carne del­ le vittime era riservata ai sacerdoti o rimessa allo Stato, che la vendeva come carne da macelleria.169 Resta il fatto che, in età imperiale, i grandi culti, sia greci che romani, saranno riservati all’aristocrazia; gli umili non vi prenderanno parte né come officianti né come partecipanti, e potranno soltanto guardare la cerimonia da lontano.170 Né l’impero, né la città, né la famiglia, né alcun altro gruppo impo­ neva una religione o inquadrava tutta la vita religiosa. Il culto era affare di ogni individuo come lo era del gruppo sociale dove quest’ultimo si collocava in una data circostanza, come per esempio le associazioni e organizzazioni professionali. Nell’impero romano, ognuna di queste associazioni locali e anche ogni ufficio della burocrazia aveva la sua di­ vinità protettrice tanto che si può trovare un genio dei carpentieri e al­ trove un genio delle imposte indirette (Genius portorii);171 cionono­ stante, i membri di questi gruppi, per i loro affari personali, si trattasse di un parto o della perdita di un oggetto, si rivolgevano alla divinità che volevano. E quadro di riferimento, naturalmente, era spesso quello familiare, con il padre di famiglia seguito dalla sua sposa, dalla sua di­ scendenza e dalle persone di casa, cosicché la maggior parte degli atti di culto si svolgevano in tal contesto: questo è un fatto completamente naturale, non una struttura essenziale. Abbiamo visto la schiava inten­ dente Fidile offrire ogni giorno pane e sale ai Lari e ai Penati che pro­ teggono la villa e i raccolti del pater familias, suo padrone. Su numerosi ex voto ateniesi, dal V al III secolo avanti Cristo, si vede una famiglia che è venuta a rendere grazie o che talora sacrifica a Zeus Meilichio, all’Artemide di Brauron, ad Anfiarao di Ramnunte; la divinità o l’eroe li accolgono. Il padre avanza davanti a tutti, seguito dalla madre, da pa­ recchi bambini, da uno schiavo che regge un vassoio carico di offerte e da una serva che porta sulla testa il paniere per il pranzo al sacco.172 Ecco, su mosaici o bassorilievi funerari d’epoca imperiale, il padro­ ne in persona che, secondo l’usanza, riceve i «doni di rigore» annuali da parte dei suoi mezzadri: un volatile e un fascio di grano, simboli del contratto di mezzadria; egli li riceve a titolo di decima dovuta agli dèi protettori della sua proprietà173 e lo vediamo altrove174 mentre sacrifi­ ca lui stesso a questi dèi in presenza dei suoi dipendenti. Ecco, su un sarcofago di Arezzo, la sposa e padrona di casa che saluta la statuetta della protettrice del suo matrimonio, Venere, statuetta che è stata por­ tata in casa con la sua dote e che una schiava toglie ogni mattina dal­ l’altare dei Lari per presentarla alla sua padrona.175 Ecco la camera dell’imperatore stesso nel suo palazzo. Vi si trova il suo larario privato il cui culto è affidato a un piccolo schiavo.176 Attorno ai Lari o ai Pe­ nati «domestici» e spesso al genius del padrone, tutta la familia, liberti 395

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e schiavi compresi,177 è spesso riunita per un ex voto. Almeno una vol­ ta è accaduto, in un periodo di persecuzione, che un padrone cristiano venisse ucciso dai suoi schiavi perché aveva infranto le immagini del Lari in un impeto di pio zelo.178 E tuttavia l’autorità religiosa dei pa­ droni di casa era tanto grande179 che nel III secolo dopo Cristo, presso i cristiani, tutta la fam ilia si convertiva in blocco al cristianesimo, fittavoli e mezzadri compresi, se lo faceva il padrone; in tempo di persecu­ zione, se le autorità pubbliche esigevano che si sacrificasse agli idoli, era lui solo a rinnegare la propria religione o a spingere tutta la gente di casa a fare altrettanto.180 La città, senza dubbio, ha autorità su tutti i cittadini, che le devono tutto. Anche così, però, servivano circostanze eccezionali perché una città ordinasse per decreto a ogni cittadino di prendere parte a una ce­ rimonia pubblica, e, nel caso, lo faceva soltanto timidamente. Davanti a un pericolo che minacciava la collettività o, al contrario, dopo essere stata liberata da un pericolo comune, la città supplicava gli dèi o rende­ va loro grazie (supplicationes ) e ciascuno aveva l’ordine di prendere parte a questa cerimonia comunitaria.181 Il giorno in cui la città di Ma­ gnesia al Meandro istituì il culto di Artemide Leucofriene, ogni cittadi­ no dovette innalzare davanti alla sua porta un altare alla dea e sacrifi­ carvi:182 «Se qualcuno non lo fa, che egli possa non viver bene» {me ameinon auto einai).m La città non può spingersi oltre queste formule di augurio e di maledizione, perché i rapporti di un individuo con gli dèi restavano una sua questione privata; nulla gli può venire imposto in nome degli dèi, poiché costoro non si fan carico di incarnare il Bene e spesso si limitano a mandare disgrazie ai malvagi. Anche quando la vo­ lontà collettiva aveva parlato, la legge esitava a spingersi oltre. Questa esitazione si ritrova, a mio avviso, in una legge dei triumviri che, nel 42 avanti Cristo, ordinava a tutti i cittadini di festeggiare il compleanno di Cesare divinizzato e che specificava che «quanti avreb­ bero trascurato di farlo sarebbero dichiarati maledetti di fronte a Gio­ ve e a Cesare stesso»;184 lungi dal significare che questi empi sarebbero stati puniti con la condanna a morte, come dimostra Mommsen, questo deve significare che la legge lasciava agli dèi la cura di vendicare da sé l’empietà. Il principio, a Roma come in Grecia, era che toccava agli dèi punire le ingiurie fatte a loro: «Deorum iniuriae dis curae»;18,5 l’empietà è un disonore, ma non un delitto, si dirà a Roma. Nel V secolo avanti Cristo in Grecia, i processi per empietà (asebeia ) erano stati un’ecce­ zione. In effetti, come dice André Vauchez, l’empietà non è un delitto come gli altri: è un crimine che non uccide né deruba, un crimine senza vittima. Eschilo stesso non si comportava diversamente dai suoi compatrioti conformisti: malediceva gli empi, ma lasciava alle Erinni il compito dì

punirli. Il poeta non osava andare contro la tradizione del «non inter­ vento» pubblico nelle relazioni fra individui umani e individui divini. Tuttavia, la maledizione lanciata da questo poeta contro i concittadini empi fa comprendere come, nel corso di una grave crisi politica che aveva richiamato a un ordine morale, la paura esagerata degli dèi (deisidaimonia ) sia potuta servire da pretesto per esigere delle condanne: la vittima di questo fu Socrate. Ci si rende qui conto di un’altro tipo di legame della religione con la morale, o, piuttosto, di un altro suo riflesso gregario, che fortunatamen­ te non ha avuto molto successo: la collettività prova nei confronti degli empi e, per esempio, dei cristiani, un orrore «sacro», una repulsione di cui essa stessa misconosce la vera natura, e giustifica con la paura che gli dèi voltino le spalle alla città. Gli dèi governano l’imprevedibile e l’in­ controllabile; in caso di inondazione o di terremoto, dirà ironicamente Tertulliano, si grida: «I cristiani ai leoni!».186 Questa deisidaimonia po­ polare sarà fatale ai cristiani, benché le autorità, educate da sette secoli di elevata cultura, non l’abbiano particolarmente condivisa. Le autorità non credevano nemmeno che i cristiani mangiassero i neonati o praticassero l’incesto tutte le domeniche; la polemica di Celso contro la nuova religione non fa nessuna allusione a ciò e si attiene a ca­ pi d’accusa di matrice sociologica (il Dio dei cristiani non è quello di al­ cuna nazione determinata) o patriottica (i cristiani sono separatisti che si disinteressano della sorte dell’impero). La persecuzione dei cristiani ha avuto un precedente poco rilevato, ma illuminante: sotto Nerone, il senatore Trasea Peto, uno stoico, fu costretto al suicidio perché, benché fosse romano e senatore, non viveva da vero romano e fuggiva i suoi si­ mili; ai suoi occhi «sdegnava come deserti le piazze, i teatri, i templi»; egli apparteneva a ima «setta» ed era colpevole di «secessione».187 Nelle masse popolari, al contrario, l’odio e il timore ispirati dai cri­ stiani avevano un’altra ragione, e cioè la repulsione, analizzata dalla ce­ lebre antropoioga Mary Douglas, per quel che non è netto, per ciò che è ibrido, ambiguo; per quel che non è «né carne né pesce» e che dun­ que è proibito mangiare. Si potrebbe forse scorgere qui un aspetto par­ ticolare di un problema generale: per entrare in relazione con altri, vo­ gliamo innanzitutto sapere con chi abbiamo a che fare; spesso, senti­ menti di repulsione non sono dovuti a particolari caratteristiche della persona con cui si entra in contatto, ma al fatto che non si capisce chia­ ramente che genere di persona sia.188 Ora, per la massa dei pagani, i cristiani, questi esseri ibridi, al con­ tempo vicini e lontani, erano per loro degli enigmi e, dunque, mostri. Il cristianesimo era un sistema di pensiero che non avrebbe potuto essere più diverso dal paganesimo, e, tuttavia, non era straniero; i pagani non potevano limitarsi a ignorarlo, dal momento che questi mostri si svilup-

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pavano tra di loro. I cristiani appartenevano all’impero, ma senza aver­ ne i costumi,189 fuggivano la società degli altri, non prendevano parte alle feste e agli spettacoli collettivi e non onoravano gli dèi nazionali, dal momento che il loro Dio non era quello di alcuna nazione determi­ nata, a differenza di quello degli ebrei. Lungi dall’isolarsi in una legitti­ ma differenza nazionale, questo Dio pretendeva di soppiantare gli dèi nazionali. Questa repulsione per quel che non era dichiaratamente straniero e che restava, tuttavia, inclassificabile e anormale si trasformò in dottri­ na. Si fece per questo ricorso a idee comunemente accettate: bisogna­ va far rispettare il mos maiorum, il costume ancestrale, argomento p as­ separtout che veniva usato soltanto contro le innovazioni cui si era osti­ li. O ancora, bisognava salvaguardare l’unità religiosa e morale della collettività. Gli imperatori che perseguitarono i cristiani li condanna­ rono per la loro anormalità e non per qualche slealtà; come ha mostra­ to Fergus Millar,190 il rifiuto di rendere un culto agli imperatori non è stato un motivo di persecuzione; nel 249 dopo Cristo, il grande editto di persecuzione ordinava a tutti di sacrificare «agli dèi». Il fine della condanna, secondo la sentenza pronunciata nel 180 contro i martiri di Scilli, in Africa, era di far tornare i cristiani alla Roman way oflife {«ad Romanorum morem redire»).m Verso l’anno 300, Diocleziano tenterà di ristabilire per decreto la purezza morale nel suo impero; allegherà come motivazioni le venerabili e pure disposizioni delle leggi romane e ricorderà come esse siano da rispettare; ma aggiungerà, per finire, un argomento tradizionale: «Non c’è dubbio» che gli dèi saranno fa­ vorevoli a Roma, come lo sono sempre stati, quando vedranno che tut­ ti i sudditi dell’imperatore conducono una vita pia, devota, pacifica e casta.192 Per ricapitolare, dal processo di Socrate a Costantino l’antichità ha esitato fra due concezioni della religione: talora i rapporti tra gli indivi­ dui e gli dèi sono ritenuti un affare privato delle due controparti, in cui è meglio che la comunità non si immischi; talaltra, invece, la collettività nella sua interezza si sentiva minacciata dall’empietà di uno dei suoi membri. Quest’esitazione faceva sì che la legislazione greca o romana non prevedesse leggi contro l’empio. Allora, contro i cristiani, le auto­ rità dovettero improvvisare ma il sistema che elaborarono non risultò giuridicamente ben congegnato. Tertulliano, che era giurista, ne de­ nuncia brillantemente le contraddizioni: il giudice doveva punire i cri­ stiani, ma non doveva cercarli; se essi confessavano il loro presunto cri­ mine, esso veniva loro perdonato. Era lo scontro di due religioni troppo diverse. I pagani avevano na­ turalmente per religione quella del loro paese, allo stesso modo in cui ci si serve dei fornitori del proprio quartiere, e potevano cambiare dèi 398

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come si cambiano i fornitori, dal momento che con le loro divinità avevano rapporti di utilità, rinnovabili di volta in volta o per contrat­ to, ma non una relazione da coscienza a coscienza. Ora, essi avevano di fronte a loro un corpo estraneo, composto da uomini e donne che si consideravano come i figli affettuosi e riamati di una divinità pater­ na e autoritaria. Dire che il cristianesimo fosse una religione di sal­ vezza in base alla quale i fedeli credevano alla loro vita eterna è dire poco: la loro religione li penetrava più intimamente, era la loro iden­ tità stessa, era il loro «io», era per ciascuno quel che egli aveva di più caro; portavano il nome della loro fede, si chiamavano essi stessi «cri­ stiani». Mettevano in gioco il loro sé nella religione,193 posta tanto considerevole che apportare modifiche alla dottrina sarebbe stata un’aggressione contro questa identità; da qui il loro odio per i falsi dèi, da qui le persecuzioni e i martiri e, più tardi (aggiungendosi il principio di autorità pastorale), i conflitti tra ortodossia ed eresie e le guerre di religione. Ma, tutto considerato, messo da parte il problema cristiano, messa da parte la violenta ondata di paura degli dèi che portò al processo di Socrate, la concezione della religione che ha dominato tutta l’antichità è stata molto pacifica: ogni popolo aveva i suoi dèi nazionali e aveva di­ ritto a questo, compresi gli ebrei (è la grande idea di Celso, nel suo pamphlet contro i cristiani); gli dèi del paganesimo non erano divinità gelose. Quando ci si trovava all’estero (era il caso, per esempio, dei sol­ dati romani), era prudente venerare il dio locale dal nome barbaro e in­ dirizzare la propria preghiera a Marte Halamar o a Marte Caturix.194 Tutti questi dèi erano senza dubbio autentici: erano gli dèi locali, poco conosciuti all’estero. Senza sviscerare il problema, una città, Deio o Roma, poteva per xe­ nofobia opporsi all’introduzione di una «superstizione straniera», dal momento che le divinità dei barbari erano talvolta poco raccomandabi­ li. Ma accadeva anche che una città ritenesse necessario importare una divinità esotica, come si fa con le piante di una qualche utilità; così fe­ cero Atene nel 433 avanti Cristo per Artemide Bendis e Roma nel 204 della stessa era per Cibele di Pessinunte. Si pensava spesso che, essen­ do gli dèi delle diverse popolazioni tutti autentici, erano all’incirca gli stessi dèi, con nomi che però variavano da una lingua all’altra, allo stes­ so modo in cui una quercia è dovunque una quercia e ha un nome di­ verso in ogni lingua. Tutte concezioni, queste, che i cristiani respinge­ vano con tanta forza da non poter risultare altro che atei, nemici degli dèi e degli altri uomini.

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VI

Ritorniamo indietro di molti secoli, fino alla seconda metà del V secolo avanti Cristo ad Atene; assisteremo alla crisi del paganesimo e dei suoi rapporti con la morale come li abbiamo descritti sino a ora. Si era sem­ pre preferito credere che gli dèi fossero dei genitori affettuosi, ma lo erano davvero? Ci si augurava che dispensassero ricompense, si era re­ sa la pratica religiosa parte integrante del conformismo civico. Ma gli dèi erano conformi a quel che i fedeli si auguravano? Laerte ed Esiodo stesso ci credevano soltanto a metà. Vedremo Antigone di Sofocle che, a dispetto delle apparenze, le esigenze della coscienza morale fanno a meno degli dèi; in Euripide, i dubbi sulla provvidenza divina arrivano a mettere in discussione resi­ stenza degli dèi tradizionali (eccetto di un dio più sublime di loro, l’E ­ tere). Per finire, alcuni autentici increduli (perché ce ne saranno) ve­ dranno nella religione un’invenzione umana, un’astuzia destinata a ren­ dere docili le masse. Altri, senza nemmeno chiedersi se gli dèi esistano o no, si limiteranno a constatare con indifferenza che rendere loro un culto non serve a granché. L’Antigone di Sofocle ha seppellito suo fratello, benché l’ordine di un tiranno prescrivesse di lasciare senza sepoltura il corpo di questo traditore della patria. Al tiranno che le dice: «Eppure hai osato trasgre­ dire questa norma?» Antigone replica, adducendo a giustificazione la volontà divina, superiore a tutti i decreti umani: «Sì, perché questo editto Zeus non proclamò per me, né Dike, che vive con gli dèi sotter­ ranei; né avrei attribuito ai tuoi proclami tanta forza che un mortale potesse violare le leggi non scritte, incrollabili degli dèi».195 Stiamo attenti però a non pensare che queste parole significhino che le leggi morali siano in generale emesse dagli dèi: Antigone sta qui parlan­ do soltanto di certe leggi che sono divine, sante, sacre, superiori alle al­ tre, e cioè le leggi relative ai santuari e alle tombe; fa anche riferimento alle leggi funerarie che prescrivono di rendere gli ultimi onori a un fami­ liare; così, è «in compagnia degli dèi inferi» che la Giustizia ha istituito queste leggi, e nessun decreto umano può cambiare nulla in esse. Gli dèi di Antigone e di Sofocle non sono i garanti della morale in generale; non si era ancora mai parlato del loro ruolo di legislatori,196 né si raccontava in giro di qualche equivalente greco del Sinai. Dopotutto, Antigone ag­ giunge che «queste leggi vivono da sempre e nessuno può dire quando sianò apparse». Esse sono conosciute di per sé, non c’era bisogno che un dio dicesse agli uomini che dovevano rendere gli onori funebri ai loro parenti. Nel teatro di Atene, dove si discuteva spesso dell’obbedienza al­ le leggi della città, le parole «leggi non scritte» che pure Antigone pro­ nuncia, erano usuali, ma in un senso più banalmente quotidiano.197

La tragedia di Sofocle comincia quindi con un conflitto tra le sante leggi funerarie e le leggi umane. Ma il colpo di genio del poeta è che lo spettatore o il lettore dimentichi presto questo punto di partenza, di cui il seguito della tragedia non parla più molto; come nota finemente Nilsson, nel resto dell’opera non si discuterà più dei diritti dei defunti e dell’aldilà;198 Antigone diventa una tragedia della coscienza indivi­ duale, il cui vero soggetto è il dovere di agire secondo la propria co­ scienza, di fronte alle decisioni pubbliche. Laerte ed Esiodo volevano sperare che, grazie agli dèi, qualche volta la giustizia in questo mondo potesse trovare realizzazione, malgrado le smentite troppo frequenti della realtà. Antigone non ha quest’ingenuità, non minaccia Creonte di qualche castigo divino: la sua coscienza individuale le basta. Antigone fa a meno degli dèi nella sua coscienza etica, così come Sofocle. Per lui, gli dèi erano soprattutto indifferenti, e incomprensi­ bili; davanti alla sventura di Edipo o di Aiace, il poeta si perdeva, al di là del bene e del male, in un sentimento oceanico, quello della «colpa tragica», e di quella che chiama a chiare lettere «la grande insensibilità degli dèi».199 La loro indifferenza, però, le loro sentenze incomprensi­ bili, non impedivano di essere pii e di onorarli; d’altro canto Sofocle restò famoso per la sua religiosità, così come nella Bibbia il libro di Giobbe pur presentandoci uno Yahweh incomprensibile resta un li­ bro Sacro. La morale dell 'Antigone resta una morale senza dèi, che potrà così diventare una morale «naturale» per la generazione successiva a quella di Sofocle. Antifonte, Socrate e i sofisti diranno che certe leggi esistono «per natura», e altre soltanto «per convenzione». Aristotele citerà pro­ prio i versi d éRAntigone quando opporrà nella Retorica «la legge parti­ colare, scritta o non scritta, e la legge comune, che è secondo la natu­ ra». Esiste infatti un diritto naturale, sia esso fondato sulla ragione, la natura, l’intuizione o la provvidenza; una teoria, questa, destinata a un successo millenario dall’eclettismo scettico e di tono predicatorio di Cicerone che contribuì a introdurre la filosofia greca a Roma: «Niente di più assurdo» scriverà «che pensare che tutte le intuizioni e le leggi stabilite dai diversi popoli siano giuste; forse, lo sarebbero anche le leg­ gi dei tiranni?». La giustizia non ha bisogno dell’appoggio trascenden­ te degli dèi, dal momento che essa è integralmente naturale.200 Come il libro di Giobbe uno o due secoli prima di lui e come sant’Agostino otto secoli più tardi, Sofocle ammetteva il fatto che la giustizia divina, se è una giustizia, ci resti incomprensibile. Si tratta del medesi­ mo problema del giusto che soffre e del malvagio felice che sarà posto ancora dalla Consolazione della filosofia di Boezio verso l’anno 523 do­ po Cristo. L’ultimo dei grandi tragici, Euripide, è più esigente: trova in­ sopportabile che la divinità possa essere ingiusta, soffre a dover vivere

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in un mondo assurdo. Il suo teatro espone le ragioni del dubbio sull’e­ quità degli dèi e dunque sulla loro stessa esistenza. Per lui infatti - e questa è una tappa decisiva - un dio è giusto o non esiste. Giuliano di Eclano, futuro avversario e vittima di sant’Agostino, non sopporterà nemmeno l’idea che Dio possa essere ingiusto. Euripide fu un uomo pio? Non si avverte in lui una spiccata sensibi­ lità religiosa, non si sente un vibrato, fatta eccezione per la sua stessa sofferenza e per le numerose volte in cui parla dell’Etere, che «è Zeus», e tale era, senza dubbio, la sua fede personale. La religione non smette di ossessionarlo e l’ingiustizia di questo mondo lo opprime; chiede ren­ diconti alla religione del suo tempo. In una delle sue tragedie, la vec­ chia Ecuba, in rivolta contro l’atrocità degli uomini, spera unicamente nella Legge, che lei pone al di sopra degli dèi stessi: «Sì, noi siamo schiavi, e senza potere, forse: ma gli dèi il potere ce l’hanno, e ce l’ha la Legge, che governa gli dèi. È grazie alla legge che crediamo agli dèi, e viviamo distinguendo tra il bene ed il male».201 Ma ha ragione di spera­ re nel fatto che gli dèi la vendicheranno? La religione si aspetta da noi che abbiamo devozione sufficiente per essere giusti, ma gli dèi stessi ce l’hanno? Si racconta che essi a loro volta non rispettino sempre le leggi che ci impongono,202 e, soprattutto, si vede bene che la loro giustizia immanente non spiega la sorte di ciascuno.203 Il coro dell’Ippolito into­ na questo canto: «Grande cosa è per me la provvidenza divina; quando entra nel mio animo, questo pensiero allevia il dolore. Ma pur avendo nel profondo una qualche speranza di capire, si resta delusi a vedere le azioni e le vicende degli uomini; gli eventi si succedono mutevoli uno dopo l’altro, e di volta in volta cambia la vita travagliata degli uomi­ ni».204 Da sempre, i greci ammettevano con rassegnazione che i disegni degli dèi e il corso che essi imprimevano al mondo restavano incom­ prensibili; ma volevano sperare che i disegni divini fossero, in ultima istanza, ispirati dalla giustizia. Euripide, da parte sua, non si rassegna più. Egli si fa dell’Etere un’idea troppo elevata per contentarsi delle idee popolari sugli dèi. Questo figlio di un’età illuministica (o supposta tale) tende più a rettificare le idee sulla religione che a cancellarla. Se veramente gli dèi sono giusti, bisognerà che lo sia anche il corso delle cose: «Bisognerebbe non credere più agli dèi, se prevale l’ingiu­ stizia».205 Come dice la madre di Ifigenia,206 «se esistono gli dèi» il ge­ neroso Achille verrà ricompensato. «Se sono saggi» gli dèi favoriran­ no l’uomo dabbene,207 ma sono poi davvero saggi?208 A voler guarda­ re i destini umani, si constata forzatamente che le divinità non ragio­ nano come i mortali, che vorrebbero che le persone perbene fossero ricompensate,209 e che i loro disegni restano oscuri.210 In caso di infe­ licità, non è assurdo invocarli, purché non si conti troppo sul loro soc­ corso,211 perché li si vede lasciare il giusto nell’infelicità.212 Essi «non

si allietano della morte degli uomini pii»,213 come Ippolito, ma non fanno nulla per evitarla. Non esistono dèi, qualsiasi altra cosa si rac­ conti, afferma l’empio Bellerofonte, dal momento che tiranni crudeli ed empi sono spesso più felici di uomini o intere città che onorano gli dèi.214 Quanto al pubblico di Euripide, preferiva senza dubbio crede­ re, a differenza del poeta, ma come Claudel, che il dio «scrive diritto con linee ricurve», e che compie tutto per il meglio, anche se la felice conclusione è lenta a venire e passa per vie che possono urtare contro la morale: tale è la doppia lettura che lo Ione di Euripide permette prudentemente. Se gli dèi non sono giusti, non valgono nulla, non sono nulla; per far­ la breve, non esistono. Tuttavia, più spesso che a questa negazione, ci si atteneva alla convinzione, biasimata da Platone,215 che gli dèi non si oc­ cupassero delle questioni umane e che, dunque, fosse inutile onorarli e fare sacrifici, perché non si aveva nulla da sperare da parte loro. L’atei­ smo si limitava a negare l'utilità di rendere un culto agli dèi. Un indiffe­ rente in materia di religione, un incredulo, era un uomo «che non ri­ volgeva né sacrifici né preghiere agli dèi, che non faceva ricorso alla di­ vinazione e che si faceva beffe di coloro che lo facevano»; come dice uno di loro in Senofonte: «Tieni ben presente, o Socrate, che se credes­ si che gli dèi prestino una qualche attenzione agli uomini, non me ne disinteresserei».216 Il fatto che per otto secoli interi l’incredulità consi­ sterà nel negare l’utilità della religione, più spesso di quanto negherà l’esistenza degli dèi stessi è stupefacente ma comprensibile: gli uomini non hanno sempre avuto una mentalità metafisica, seguono l’ordine dei fatti più spesso di quello della ragione; non cominciano a riflettere a partire dall’esistenza di Dio o degli dèi, ma da quel che vedono da più vicino, dall’autorità del loro curato,217 o dai riti che si ritiene assicurino dei buoni raccolti. Gli dèi erano i padroni delle cose umane, che sono sempre incerte, ma non si avevano con loro rapporti che implicassero il sentimento; la loro esistenza o non esistenza non toccava i loro fedeli nel profondo del cuore. Qui inizia uno dei principali capitoli, poco studiati, della storia della religione greco-romana: per i sette od otto secoli successivi, il problema religioso, per la classe colta, sarà non tanto sapere se gli dèi esistono, né appurare la loro natura, quanto piuttosto decidere se il mondo sia guida­ to da una Provvidenza divina, da una Fortuna imprevedibile o da una Fatalità immutabile. Alla fine dell’antichità, l’imperatore cristiano Co­ stantino riproporrà il problema nel suo «Discorso del Venerdì Santo».218 Queste tre entità non sono tesi metafisiche incompatibili, ma traducono tre atteggiamenti umani diversi: «Si può sempre sperare nella bontà provvidenziale degli dèi» e pregarli; «nulla è prevedibile, ogni avveni­ mento, buono o cattivo, meritato o no, può verificarsi», e si può pregare

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la Fortuna; «bisogna rassegnarsi, era scritto nel mio oroscopo, è scienti­ fico». Il problema religioso era diventato un problema esistenziale. Vi erano, da ultimo, in certi politici, determinati machiavellismi ante litteram, spiegazioni demistificatrici delle credenze religiose: la religio­ ne era un’astuzia, ima menzogna utile che serviva a rendere gli uomini virtuosi o docili. Un oligarca, frequentatore dei sofisti e poeta, Crizia, fa dire a uno dei suoi eroi, l’infame Sisifo, che un uomo ingegnoso ha reso alla società il servizio di far credere all’esistenza degli dèi, per spa­ ventare i criminali, persuadendoli del fatto che temibili potenze celesti conoscono tutti gli atti e tutti i pensieri degli uomini e li puniranno del­ le loro malefatte, se anche riuscissero a sfuggire alla giustizia umana.219 Il conformista Isocrate penserà allo stesso modo: «Quanti hanno preso le parti della religione in modo da presentare i premi e i castighi come più grandi di quanto realmente sono, questi tali giovano moltissimo al­ la vita umana».220 Tre secoli più tardi, a Roma, Polibio ritroverà le stes­ se paure, e, secondo lui, lo stesso calcolo; i timori superstiziosi vengono qui deliberatamente inculcati nella gente del popolo, perché la vile moltitudine può essere contenuta soltanto «dalla paura dell’ignoto, dal­ le idee sugli dèi e dalle credenze relative agli inferi».221 Questa teoria avrà un durevole successo; ancora nel XVIII secolo, alcuni pensatori atei si chiederanno se una società di atei potrebbe essere suscettibile di sviluppo. Questa visione della religione è un bel saggio di sociologia arcaica; in quell’epoca, non era la Società che passava come capace di poter spiegare tutto, ma la Parola. Crizia, Isocrate, Polibio e un giorno Vol­ taire sono degli increduli che, non provando essi stessi niente per la religione, possono spiegarsela soltanto come un astuto discorso. In­ fatti, ai loro occhi, gli atti si spiegano tramite delle idee, le rappresen­ tazioni decidono delle condotte, cosicché scambiano un effetto con la causa: poiché la maggior parte delle persone rispetta i divieti e condi­ vide le credenze della propria società, il machiavellico ne deduce che queste credenze spieghino questo rispetto; ai suoi occhi, determinate credenze rendono docili nei confronti dell’autorità, non è l’autorità del seggio curule o della cattedra vescovile che fa credere. La socializ­ zazione, infatti, invece di essere un habitus tacitamente inculcato e in­ dotto dall’ambiente, diventa per loro l’insegnamento esplicito e deli­ berato di determinati convincimenti senza i quali una società non sa­ rebbe in grado di svilupparsi. E l’individuo che riceve quest’insegna­ mento è ai loro occhi cera vergine dove si può imprimere ciò che si vorrà. Prima di lasciare quella che fu la prima forma del paganesimo anti­ co, al di fuori dell’influenza della filosofia, diamo ancora uno sguardo indietro. Un’emozionante strofa di Orazio ossessiona la memoria per­

ché racchiude in sé tutto; si tratta del finale dell’ode dove la nostra cara Fidile spera che il culto da lei reso agli dèi della tenuta proteg­ gerà vigneti e messi. Ora, come il poeta lascia capire, Fidile è la più onesta delle schiave,222 cosicché gli dèi gradiscono le sue povere of­ ferte. Effettivamente, dice la strofa finale, «una mano che tocca l’alta­ re223 in modo gratuito224 senza aggiungere al suo accordo una vitti­ ma225 intenerisce i Penati226 semplicemente con del frumento rituale e dei cristalli di sale». È stato detto tutto: le speranze materiali riposte nel culto, l’idea popolare che, come tutti i potenti, gli dèi sono poco amabili nei confronti del popolino e che il loro favore si conquista a prezzo di offerte, l’idea più morale che essi gradiscano maggiormente la povera offerta di una mano pura. E anche l’idea che virtù e devo­ zione religiosa vadano di pari passo; che, nella gente del popolo, la religiosità sia garanzia di buoni costumi (in effetti, una persona sem­ plice e onesta rispetta candidamente tutti gli ordini, tanto religiosi quanto morali). Tale fu all’inizio il «genio del paganesimo». Ma, se la visione di Orazio ha saputo così abbracciare tutto in quattro versi, è perché lui stesso si pone a molta distanza dalla religione popolare e perché non ci crede molto. Non ne è meno emozionato, ma alla maniera degli scettici. «La religione» scriveva Benjamin Constant «è toccante soprattutto per chi non ci crede molto. Io sono sempre emozionato quando vedo prega­ re».227 Non ne facciamo tuttavia un incredulo: il problema personale di questo letterato era di farsi una concezione credibile e «demitologizzata» del divino; dopo aver creduto soltanto alla Fortuna, la disfatta di Antonio e la restaurazione monarchica da parte di Augusto, che egli approvava di tutto cuore, provarono a quest’incredulo che la Fortuna poteva anche essere una Provvidenza. Infine, è con la poesia stessa che un poeta ha volentieri una relazione pressoché religiosa; sarebbe tacere in parte la portata di questa strofa se si omettesse di dire che, per la sensibilità di Orazio, essa stessa era un’offerta, più imponderabile an­ cora del frumento e del sale, rivolta a non si sa cosa.

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VII A due riprese, di cui ecco qui la prima, l’antichista appassionato che sono si arrischierà a fare considerazioni di carattere generale. Abbiamo appena visto la religione chiamata in soccorso della morale. Effettiva­ mente, la si chiama in soccorso di molte cose che spesso non hanno nulla a che vedere con gli dèi. Il falso concetto della religione designa, in realtà, un aggregato di credenze e di pratiche molto diverse che va­ riano da una religione storica a un’altra, una sorta di ripostiglio dal con­

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tenuto disparato in cui si possono trovare, secondo l’occasione, nazio­ nalismo e molte altre cose. Vi si trovano più o meno sempre dei riti, eccezionalmente una Chie­ sa, e un’aura di santità che promana dagli dèi; troviamo festività, molte solennità, riti di passaggio, battesimo, sepoltura, costumi etnici (divieti alimentari), speranze di buona fortuna e per i futuri raccolti, previsioni per il futuro, guarigione dalle malattie, insegnamenti morali, spiegazio­ ne dei fenomeni naturali che più colpiscono in natura e delle condotte umane poco motivabili (dall’altruismo all’ispirazione). Troviamo anche la spiritualità, la ricerca della tranquillità, una dottrina di salvezza, la speranza o la paura di una giustizia immanente, l’ascetismo, l’esperien­ za estatica, la trance, un ethos o uno stile di vita, la coscienza pura, la sensazione di essere protetti, amati, consolati (e sorvegliati), il deside­ rio di dare al mondo un senso conforme a quel che ci auguriamo; tro­ viamo delle utopie, la legittimazione di un potere politico o della so­ cietà tradizionale, un’ideologia di classe, l’espressione di un’identità nazionale eccetera. E troviamo anche l’erotismo! Ho rischiato di di­ menticarlo, come anche il sentimento della natura, che divinizza con un epiteto il nome di un bel luogo o vi pone un santuario. Infine, pos­ siamo includere nella nozione di religione alcune superstizioni, e così finisce che si può essere credenti per le ragioni più diverse: propria­ mente religiose (ci ritorneremo), filosofiche, politiche, consolanti, o per rispettare la tradizione (il che, socialmente, non è la minore delle ragioni). Notiamo che il paganesimo, religione poco gravosa come dice Mario Vegetti, aveva in sé poco proselitismo, poca intolleranza, pochi divieti, poche implicazioni nazionali o messianiche e persino poche im­ plicazioni politiche,228 e che non era molto consolante. Dal momento che non è un’essenza, la religione poteva essere soltan­ to la forma assunta da alcuni riti di passaggio, da certi imperativi o da certe tradizioni: non è la religione che obbliga, ma l’obbligo o la tradi­ zione a essere espressi in termini religiosi. Da qui deriva l’equivocità di tanti fatti definiti religiosi. Tutto sembra religioso nell’antichità, perché la sua funzione solennizzante fa sì che in quel dato momento storico la religione ci appaia onnipresente e capitale. Un’abbondante documen­ tazione prova che le gare atletiche a Olimpia erano vissute come spetta­ coli profani, nonostante fossero dedicate a Zeus e a Eracle (allo stesso modo in cui il Palio di Siena è dedicato alla Vergine); gli spettatori ci andavano per lo sport e per l’adunata, o « panegyris», che si teneva al contempo. Quasi tutte le componenti dell’amalgama potrebbero esistere al di fuori di una religione e venire espresse in altro modo. Inoltre questa molteplicità di funzioni crea più di un falso problema: «L a religione non è forse responsabile di molti conflitti politici attuali?». Ma se in

ogni tempo ci si è battuti per tante cose, perché non per la religione o sotto la sua bandiera? La posta in gioco che i combattenti difendono attraverso la loro religione consiste in quel che hanno investito in essa, per esempio, la loro identità, o la loro individualità, la loro autonomia; durante le guerre di religione per i protestanti è stata quella di non di­ pendere più dai sacerdoti e dai teologi per la propria salvezza. La religione è una rappresentazione maestosa grazie alla sua santità. In un regime politico, il rispetto religioso può accrescere l’autorità dei governanti. Nella Roma repubblicana, ciò avveniva con i magistrati, e quest’alleanza del seggio curule e degli altari del culto pubblico colpì un osservatore greco, Polibio; in Francia, i sudditi del re ereditario lo veneravano anche in quanto consacrato a Reims. Ancora, bisogna che si continui ad accettare quest’autorità. Se non si vogliono più magistra­ ti o re, si smette di investire in questo senso. Nell’impero romano, du­ rante la crisi del III secolo dopo Cristo, si riteneva che l’imperatore avesse il Sole come protettore e compagno celeste, e tuttavia dodici imperatori sono morti assassinati in trentacinque anni. Nulla può ri­ durre definitivamente la libertà soggettiva; meglio ancora, nessuna re­ ligione ha mai potuto occupare tutto il campo mentale. Una religione inizia a pesare fortemente soltanto quando una popolazione è inqua­ drata da un partito o da un clero (ma il paganesimo non aveva inqua­ dramento clericale), o quando è affascinata da una personalità cari­ smatica, demagogo o profeta. Ma sappiamo bene che ogni investimento comporta sfumature indi­ viduali e che, d’altro canto, la collettività è qualcosa di più complesso della semplice somma degli individui. Fra quanti investono in una reli­ gione nazionale, alcuni si appassionano soprattutto per la loro naziona­ lità, altri per la religione in se stessa. Nondimeno, devono tutti tener conto gli uni degli altri, cancellare le sfumature, adottare uno stesso linguaggio e una stessa disciplina così come un partito riunisce indivi­ dui pronti a cancellare le loro differenti ragioni di adesione. Noi non pretendiamo per questo motivo che, in un nazionalismo o in un impe­ rialismo religioso, la devozione religiosa sia soltanto la «copertura ideo­ logica» della politica; non crediamo a una simile doppiezza volta a na­ scondere la realtà. Con sfumature individuali che non sono indizio di duplicità, devozione religiosa e patriottismo sono entrambi sinceri, dal momento che, anche se le loro motivazioni dipendono da «facoltà del­ l’anima» distinte, il risultato effettivo forma un tutt’uno, un «miscu­ glio» di cose di natura differente. I sentimenti coesistono spesso in questo stato misto, come il nudo artistico, malgrado Kant, non sempre è casto ma allo stesso tempo este­ tico e sensuale. Un sacrificio in cui gli dèi hanno soltanto le ossa, le frat­ taglie e il fumo, mentre la carne buona è per gli uomini,229 è tanto pio

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quanto interessato. Attraverso i secoli, le forze sociali più potenti sono state generalmente mescolanze indivisibili di sentimenti, di idee e di in­ teressi.230 Nulla, però, è più difficile da riconoscere per un pensiero che ammette soltanto sentimenti puri, «sinceri» (esigenza ebraico-cristia­ na), idee chiare e distinte (esigenza classica), o che vuole essere sospet­ toso e demistificatore (esigenza contemporanea). Quando pensiamo al fenomeno religioso, pensiamo soprattutto a un fatto sui generis, al «senso religioso» del divino, un senso che non tutti possiedono (come alcuni non hanno nessun senso musicale, diceva Max Weber confessando di non avere quello religioso). Ma questo sen­ so di una qualità irriducibile e specifica, che farebbe supporre che la religione sia un’essenza, è lungi dal caratterizzare tutte le manifestazio­ ni dette religiose e di essere presente allo stesso grado in tutti quelli che la praticano: una cerimonia sacra sarà per alcuni un’occasione per ban­ chettare, un rito di passaggio o il mezzo per affermare la propria appar­ tenenza a una collettività. Molti vi assistono soltanto perché la tradizio­ ne vuole così. Nondimeno, questo conformismo dà loro l’occasione di saggiare i valori religiosi, ai quali senza dubbio qualcosa fa eco nella maggior parte degli uomini. Ci può essere una divisione nel tempo. In Grecia, ogni sacrificio era seguito da un banchetto in cui si pensava soltanto a mangiare carne e a rallegrarsi, tanto che l’appellativo di philothytes, cioè di uomo uso a molti sacrifici, designava praticamente un anfitrione che usava fare molti inviti.231 Nell’Africa cristiana, i pellegrinaggi ai monumenti com­ memorativi dei martiri terminavano, al calar della notte, con dei festeg­ giamenti (laetitiae) poco edificanti.232 Il pellegrinaggio dei Racconti di Canterbury fu un viaggio allegro. Durante il sacrificio, però, o all’arrivo davanti alle reliquie del santo, si avevano alcune ore di raccoglimento (allo stesso modo, oggi, il turismo, dispendioso cambiamento di luoghi e di abitudini, ha spesso un pretesto culturale al quale ci sacrifichiamo all’arrivo con qualche visita guidata a musei e monumenti). Un pellegrinaggio può quindi essere un’occasione di turismo o vaga­ bondaggio. Tuttavia, il divino è un elemento tanto specifico che tale miscuglio nel suo insieme potrà essere considerato come una religione, anche se il dosaggio del divino è molto variabile da un caso all’altro. Alcuni sono fedeli di una religione o di una Chiesa perché ne amano la morale o il senso dell’autorità, senza fare nulla di più che credere leal­ mente all’esistenza di Dio, senza mettervi alcuna sensibilità personale, senza nemmeno amarlo molto; nondimeno, non avrebbero cercato questo senso morale in una religione se non ci fosse stata in loro alme­ no una goccia di senso del divino. Sembra difficile cercare a freddo un’identità nazionale in una religione senza, al contatto, essere conta­ giati da un po’ di senso del divino.

Di contro, non ogni fervore è religioso. Il «culto della personalità» staliniano non aveva il vibrato della trascendenza, ma quello del cari­ sma, e solo un abuso di linguaggio potrebbe far dire che il marxismo e il comuniSmo, che non posseggono una goccia di questo senso, fossero una sorta di religione. Non ho visto in nessun luogo ex voto dedicati a Stalin per ringraziarlo del ritrovamento di un oggetto, non più di quan­ ti ne abbia visti di dedicati a Elvis Presley.

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Vili Dopo Euripide e Socrate, dopo le conquiste di Alessandro, nel corso dei lunghi secoli ellenistici e romani, la Giustizia cara a Esiodo venne del tutto dimenticata; non si facevano più processi agli dèi che distri­ buivano a caso felicità e sventura. Il tono aspro di Euripide, uomo tor­ mentato che voleva poter credere e sperare, è sparito. Ora l’assurdità di un mondo imprevedibile è confessata e, allo stesso tempo, neutraliz­ zata, in quanto opera della Fortuna, capricciosa per natura, ma che possiamo pregare, sperando di ottenerne i favori. Vi sono poi alcune divinità, come Iside, persino più potenti della Fortuna (lo dicono le li­ tanie rivolte a quest’egiziana ellenizzata). Quanto all’ideologia politico­ religiosa di un Eschilo, essa ha smesso ugualmente di essere attuale: le città sono sempre amate tanto quanto i loro cittadini, sono sempre la cornice degli obblighi, delle ambizioni e della dedizione, ma, messe a confronto con regni ellenistici, queste piccole repubbliche perdono il loro rilievo internazionale e la dignità di oggetto filosofico sul quale meditare. D ’altro canto, però, è insopportabile l’idea di un mondo assurdo, il mondo di Edipo e della sua innocente «colpa tragica», quello degli dèi indifferenti di Sofocle, degli dèi incomprensibili di Euripide. Bisogna che il mondo abbia un senso che sia conforme a quanto ci auguriamo. Allora comincia il grande capovolgimento. Piuttosto che far loro ri­ compensare i buoni e i malvagi secondo i meriti e i demeriti di ciascu­ no (cosa che facevano molto male), ci si appresta a dare agli dèi il ruolo di garanti del Bene: non si limiteranno più a regolare quel che il futuro ha d’incerto e, talvolta, a punire i malvagi; nell’assoluto, essi daranno ragione ai buoni: una novella Antigone, benché assassinata da un tiran­ no, dalla sua parte nondimeno gli dèi avrà, come garanti della sua co­ scienza limpida. Il legame tra religione e morale è diventato radicale; invece di esigere che la realtà sia conforme ai nostri desideri (o di de­ plorare, come Euripide, che essa non sia tale), gli uomini di cultura hanno inventato l’esistenza di un livello profondo, filosofico, che è ga­ rante del Bene. A partire dal IV secolo avanti Cristo, nell’élite intellet­

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tuale, plasmata dalle lezioni dei filosofi, fu necessario quindi farsi una nuova concezione degli dèi. Ecco dove comincia il rovesciamento decisivo del pensiero religioso: con la filosofia gli dèi diventano l’assoluto, il fondamento del Bene. Il popolo, da parte sua, si contenta, come in precedenza, di riporre in es­ si la sua speranza di buoni raccolti, ma, per le élite educate dal sistema della paideia, l’età delle trascendenze è iniziata e durerà all’incirca due millenni e mezzo. Quando Nietzsche scriverà che Dio è morto, non penserà in modo particolare al Dio cristiano, ma affermerà che con la grande cesura del X IX secolo si è smesso di credere a un fondamento trascendente dell’uomo, del Vero e del Bene; non si dirà più che il co­ smo è fatto male, ma che non è fatto del tutto. Tale fu la rivoluzione religiosa dei letterati, l’età dei sofisti, di Socra­ te e della filosofia. Ci inganniamo, secondo me, quando vogliamo scor­ gervi un’età illuministica, un’epoca di incredulità in cui si è indebolita la religione tradizionale. L’archeologia e l’epigrafia ellenistiche, dai grandi templi alle migliaia di piccoli ex voto, provano massicciamente che la grande maggioranza degli uomini avrebbe continuato a credere negli dèi sino alla fine del paganesimo. Non sbagliamoci di secolo, non facciamo un XVIII secolo ante lìtteram di qualche caso d’indifferenza religiosa o di erudita incredulità. Quel che si è prodotto è stato piutto­ sto ima trasformazione della religiosità tra i letterati, una nuova età del­ la devozione, ima religione razionalizzata. Va ormai imponendosi da un millennio la tripartizione degli stoici e di Varrone, che distinguono tre concezioni dei medesimi dèi: secondo le città, secondo i filosofi e secondo le narrazioni dei poeti.233 Gli dèi secondo i poeti sono quelli della mitologia, di questa letteratura di sva­ go, orale o scritta, che, in Grecia, non era quella filosofia primitiva cui la parola «mito» ci fa pensare. Gli dèi secondo le città sono quelli con­ cepiti e rappresentati nel culto pubblico, secondo i termini delle leggi. Quanto agli dèi secondo i filosofi, li vediamo sul punto di nascere in un verso di Euripide che suona all’incirca così: «Se gli dèi agiscono male, non sono veramente dèi». Ora, gli stoici erano persuasi del fatto che gli dèi non potessero agire male; prenderanno dunque in esame a ritroso il ragionamento di Euripide e ne concluderanno che gli dèi agi­ scono sempre in maniera perfetta e meritano pienamente il loro no­ me,234 che sono «dotati di tutte le virtù e senza traccia di male», dirà Cleante.235 Tra i letterati, è arrivato, per così dire, il tempo della devo­ zione moderna. E ormai, o almeno per una parte della classe colta, gli dèi hanno smesso di essere la fauna di cui parlavamo, l’etnia straniera potente, che vive per se stessa e di cui l’uomo acquista i favori; non hanno più biografia, né mitologia, sono diventati le entità metafisiche di un dei­

smo o anche semplici allegorie. Non sono più mediamente virtuosi, lo sono tanto assolutamente quanto il concetto stesso di virtù. L’anima purificata è dunque felice di sentire di essere... diciamo, la figlioletta obbediente e amata degli dèi provvidenziali? No. Gli dèi sono gli ele­ vati amici dell’anima, i suoi nobili parenti: uomini e dèi sono diversi, ma simili.236 Anche il dio supremo del deismo stoico sarà il padre degli uomini;237 il paganesimo rimarrà sempre una religione molto umani­ sta... Gli uomini non hanno alcun obbligo di dipendenza verso gli dèi sotto il pretesto della riconoscenza e della gratitudine, come sarà inve­ ce il caso della carità agostiniana. Nel tempo in cui la clientela e l’evergetismo, con i loro «benefici» vincolanti, regnavano nella società gre­ co-romana, gli uomini non erano i clienti degli dèi, rifiutavano fiera­ mente di esserlo. Tuttavia, mentre gli uomini colti avevano questa relazione egualitaria con i loro dèi, un altro tipo di relazione si andava diffondendo qua e là tra il popolo: per piegare la divinità, ci si spingeva a definirsi il suo umi­ le servitore, il suo schiavo238 (il che avrebbe sorpreso un contempora­ neo di Aristofane e avrebbe tolto le parole per l’orrore a un letterato di qualsiasi epoca). Le diverse relazioni che gli uomini hanno con la divi­ nità, diceva il teologo Friedrich Heiler,239 sono sempre immaginate per analogia con le relazioni che gli uomini possono intrattenere fra di loro. Quel che non era stato inventato, di contro, era, alla maniera cristiana, un amore della divinità nei confronti dell’umanità o, piuttosto, per gli uomini considerati singolarmente, poiché ogni pecorella è preziosa e amata. Continuiamo a confrontare le due religioni. Nel cristianesimo, la de­ vozione sarà il vertice e la summa di tutti i doveri, tanto che non si po­ trà mai essere troppo pii; si distingueranno dunque alcuni gradi di me­ rito: l’eccellenza è la santità, la norma è essere un buon cristiano, l’u­ mana mediocrità non basta; si divideranno i buoni cristiani che vivono la loro fede dai tiepidi che si limitano a rispettare l’usanza. Nel pagane­ simo, la devozione era un dovere tra altri, anche se il più elevato, è ve­ ro. Essa non si situava su una scala di livello, ma, secondo la definizio­ ne di Aristotele, era il giusto mezzo tra due eccessi, giusto mezzo che consisteva nel rendere esattamente agli dèi gli omaggi loro dovuti e di fermarsi qui. «Onorare gli dèi in maniera tiepida e incostante»240 equi­ valeva a discostarsi dal giusto mezzo verso il basso, ma veniva biasima­ to soprattutto l’eccesso contrario, detto «paura degli dèi», deisidaimonia. Questa paura non era il tremore biblico davanti a una divinità giu­ stiziera e terribile, quella paura che faceva prendere coscienza dell’infi­ nita distanza che la separava dalle sue creature; solo uno spirito limita­ to e credulo poteva raffigurarsi gli dèi come superiori vendicativi ed esigenti e, per timore di non onorarli abbastanza, onorarli troppo, rovi­

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narsi moltiplicando i sacrifici e i voti, come dice il poeta Lucrezio, o far loro promesse insensate.241 Per l’umana fierezza e la dignità dei letterati, la paura esagerata degli dèi sembrava degna di maggior biasimo che non la scarsa devozione: si preferiva la mancanza all’eccesso. Quel che colpisce, in questa questio­ ne, è, di nuovo, la moderazione pagana: questo popolo in cui ognuno, sofista, guerriero o atleta, cercava di eccellere, di avere la meglio sui suoi rivali, si è astenuto dal fare lo stesso in materia religiosa; non ha prodotto, eccetto che tardivamente, quel che il cristianesimo e l’India conoscono tanto bene: dei «virtuosi» della religione, dei santi. Sareb­ bero passati per superstiziosi o ciarlatani. Un mezzo per misurare l’impatto della nuova concezione degli dèi sulla morale è quello di partire da un’idea diffusa, da un proverbio che si legge dovunque in greco e in latino,242 e che riflette la nuova religio­ sità: gli dèi preferiscono l’offerta poco costosa dell’uomo pio (o onesto, o l’una e l’altra cosa) al più sontuoso sacrificio di un malvagio. Il pove­ ro che offre di sua mano doni modesti, dice Euripide, è più pio dei ric­ chi con le loro ecatombi.243 Sono gli omaggi degli uomini pii, diceva Socrate, a procurare maggior piacere agli dèi, cui le grandi offerte non piacciono più di quelle piccole; altrimenti, i doni dei malvagi potrebbe­ ro essere loro più graditi di quelli della gente perbene.244 Credere di potersi conquistare gli dèi a prezzo di sacrifici e preghiere è un errore che rasenta l’ateismo.245 «Che l’empio non osi voler placare con doni la collera degli dèi!»246 Notiamo, di passaggio, che quest’opinione secon­ do la quale si potevano piegare gli dèi con offerte continuava a essere e resterà sempre quella della maggioranza della popolazione... Si era sta­ bilito un altro principio di cui parla più di un autore latino: si devono indirizzare alle virtuose divinità solo preghiere che lo siano altrettanto, non si deve chieder loro la sventura di un rivale; quando si formula un voto sul Campidoglio, bisogna enunciarlo a voce alta e ben udibile, perché possa venir sentito da tutti.247 Per misurare su un dettaglio il passo compiuto, possiamo constatare come lo humour sugli dèi, caro a Omero e ad Aristofane, sia diventato impossibile, come lo sarà quello sulle persone della Santa Trinità o sul­ la Vergine Maria. Certamente, esso si perpetuerà sino alla piena età imperiale, ma soltanto nell’arte popolare;248 non meno impensabile è diventato il fatto di criticare gli dèi; non si può più parlar male né ri­ dere di loro. Tra gli uomini di cultura e gli dèi si è stabilita la relazione di fiducia (pistis) di cui parla qualche pagano.249 I contemporanei di Omero non avevano negli dèi la fiducia che si ha per esseri che non sa­ prebbero fallire né mentire. Nell’Iliade, l’invenzione epica faceva di Zeus un marito oggetto delle beffe della moglie Era; nell’Eneide Virgi­ lio smentisce la sua stessa invenzione poetica, quella di Giunone che

perseguita Enea con la sua collera: «Le anime celesti possono nutrire tali risentimenti?».

E grande testo che segna l’affermarsi della nuova devozione religiosa, quattro secoli prima dell’era cristiana, è il Trattato sulla pietà di un di­ scepolo di Aristotele, Teofrasto. Un libro che sarà autorevole per sette secoli, per Cicerone, per Plutarco e ancora per Porfirio. Il sacrificio era sempre stato ritenuto un omaggio simbolico, dove il gesto contava al­ meno tanto quanto il prezzo dell’offerta.250 Qundi, scrive Teofrasto, si possono fare sacrifici modestissimi: l’importante è farli spesso. «Se ci si vuole distinguere in materia religiosa» scriveva «non bisogna offrire al­ la divinità grandi sacrifici, ma onorarla senza posa [pykna] ; nel primo caso questo è un sintomo di ricchezza, nel secondo di religiosità»;251 il dio «si compiace non di vittime di gran peso, ma di vittime assolutamente ordinarie».252 L’onore più grande che possiamo rendere agli dèi è consacrare loro a ogni pasto una minima parte del nostro nutrimento quotidiano, come prescrive la tradizione.253 Se ci si rifiuta di sacrificare agli dèi animali innocenti, dice (ed è quello che egli si augura), «il costo modesto e la facilità nel procurarsi offerte vegetali favoriranno l’eserci­ zio continuo della pietà \syneches eusebeia]»·, un sacrificio facile a ese­ guirsi facilita questa syneches euseheia, ripete (Plutarco si ricorderà, credo, di questa «pietà religiosa permanente» che avrà un gran succes­ so nel neoplatonismo).254 L’idea di un culto frequente e continuo non era nuova: un uomo dabbene doveva infatti essere sempre in relazione con gli dèi moltiplicando, nel corso dei giorni, le offerte e le preghiere, come aveva decretato Platone. E, di fatto, i più antichi esempi di un culto quotidiano si situano all’incirca nella sua epoca.255 L’originalità principale di Teofrasto, secondo me, non è questa, ma quella di aver fatto della devozione una virtù. E nostro autore si serve di vocaboli significativi.256 La divinità, scrive, «guarda più al carattere [ethos] del sacrificante che alla qualità del sacrificio»; l’idea era diventa­ ta banale, ma la parola ethos lo è di meno: è un termine aristotelico, co­ me la parola hexis, disposizione interiore permanente, che egli pure usa.257 Ora, per un aristotelico, una virtù è una potenzialità interiore che è permanente e che può così tradursi in atti ogni volta che si presenti l’obbligo; è uno stato abituale per definizione: non si viene qualificati come virtuosi se en passant si compie una buona azione. In conclusione, Teofrasto predica una concezione epurata della devozione e la concettualizza come una virtù 258 come una hexis o un habitus, come un modo di essere continuo, e non come il fatto di compiere atti di devozione este­

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riori e discontinui ogni volta che il calendario liturgico preveda di rin­ graziare gli dèi per un favore o il bisogno esiga che se ne richieda loro uno. Un eroe di Omero era pio in virtù dei sacrifici che compiva,259 un contemporaneo di Platone o di Teofrasto è pio perché porta in sé una disposizione interiore permanente che fa sì che egli possa moltiplicare, giorno dopo giorno, piccole e poco costose devozioni. Questa virtù ha dapprima supposto un lavoro su di sé per acquisire l’abitudine,260 uno sdoppiamento che crea uno spazio interiore, uno sforzo spirituale. È dall’intimo di ciascuno che ora si ritiene provengano le azioni vir­ tuose. Ora che la giustizia e la pietà verso gli dèi (per limitarsi a queste due funzioni) sono così interiorizzate, un uomo deve possederle en­ trambe, a rischio del discredito. Come prendere sul serio gli atti di de­ vozione di un truffatore? Può trattarsi soltanto di ipocrisia tartufesca. Un tempo, quando la devozione religiosa era soltanto uno dei com­ piti esteriori che un uomo doveva compiere, un brigante poteva sacrifi­ care spesso e mostrarsi in questo modo assai pio, ma ora che essa è in­ teriorizzata e viene da un’anima virtuosa, si mette in atto una sistema­ tizzazione etica della condotta. Basta pensare al nostro disagio di fron­ te al caso di Heidegger: se la filosofia non è un ruolo esteriore, un sape­ re tecnico come la meccanica dei fluidi o la linguistica romanza, se, al contrario, essa promana dalla vita interiore di un uomo, allora resisten­ za di un filosofo nazista (e restato impenitente) è impensabile, oscena. Un’immagine ideale, un ideale del proprio io, regge soltanto se è senza macchia e coerente. Ora, chiunque abbia un briciolo di vita intcriore e di virtù ha un tale ideale di se stesso; ecco una nuova via tramite la quale la morale si è unita alla nuova religiosità. Da questo focolare interiore derivano le di­ verse condotte virtuose, siano esse civiche, belliche, morali, religiose... Si ritrova qui, sotto un abito filosofico, l’ideale di una completa perfe­ zione umana di cui parlavamo prima. L’idea dell’unità del sé interiore avvia così a una dispersione dell’uomo tra i suoi differenti ruoli. Questa concettualizzazione basta a modificare la percezione che il soggetto ha di se stesso: l’uomo nuovo è un civilizzato volto verso la sua interiorità e come sdoppiato, che ha una coscienza di cui deve occuparsi e un ideale di sé. Un lettore di Platone, Senofonte o Teofrasto non ignora che So­ crate avesse cura di sé, come dice Michel Foucault; la qual cosa signifi­ ca (non ci inganniamo) che si preoccupava di «migliorare la sua anima» per diventare quanto migliore possibile «in virtù e intelligenza».261 Il re guerriero Agesilao non aveva nulla di un eroe omerico; Senofonte, suo contemporaneo, lo proponeva come modello a «chi voleva esercitarsi nella perfezione morale», essere «padrone di sé», per diventare «pio, giusto, moderato, temperante» e «servire da modello» a sua volta. Gli dèi non sono più soltanto oggetti di devozione, ma garantiscono la cor­

rettezza dell’ideale che si ha di se stessi; Agesilao ripeteva che «si com­ piacciono tanto delle buone azioni che delle vittime pure».262 La cura di sé, l’ideale del proprio io, la paideia, saranno la base della filosofia o, piuttosto, delle scuole filosofiche che, con il lavoro del sé su di sé e con gli esercizi spirituali, o piuttosto intellettuali, occuperanno, nella vita interiore di un pugno di uomini e nella cultura dei letterati, il posto che con il cristianesimo sarà preso dalla religione 263 Dobbiamo sorvolare velocemente su questo vasto e ben conosciuto capitolo, ma non senza prima ricordare una differenza decisiva fra le sette. Per un profeta religioso quale Platone (profeta di un’élite, è vero) la devozione religiosa occupa il posto centrale. Poco prima della fine del paganesimo, Libanio ha riassunto questa dottrina in una frase: un uomo esemplare (nel caso specifico, Giuliano l’Apostata) «ha per uni­ co piacere una coscienza senza macchia, si rende simile agli dèi eserci­ tandosi nella virtù, prendendosi cura della propria anima e dominando i suoi cattivi desideri»;264 e così un uomo «degno di dio finisce per es­ sere lui stesso un dio»,265 e la devozione religiosa porta a ima sorta di autodivinizzazione grazie alla imitazione degli dèi virtuosi. Per le altre scuole filosofiche, al contrario, l’imitazione degli dèi non ha nulla di pio; la devozione è soltanto una delle virtù e non è il motore del lavoro del sé su di sé; questo non è altro che la ricerca della «felicità» (suppo­ nendo prima la moralità, beninteso) o anche del piacere; e l’autodivinizzazione consiste nello sforzarsi di rendersi felici come gli dèi, nel di­ ventare, grazie alla felicità, un dio mortale (queste parole sono da pren­ dersi alla lettera) 266 Lasciamo le utopie delle scuole filosofiche e torniamo alla religione degli uomini di lettere, a quel che è diventata dopo Socrate, Senofonte e Teofrasto. Si è dunque determinata una rivoluzione del pensiero, il che è un prodotto della paideia-, la saggezza e la moralità degli dèi sono ormai incontestabili, entrano nella loro stessa definizione, e ciò ha tra­ sformato i rapporti fra morale e religione. Quest’ultima passava sino ad allora per l’antropomorfismo e per il desiderio di credere in una giusti­ zia immanente; ormai, essa passa anche attraverso l’identificazione del­ la santità degli dèi con il Bene; il desiderio di credere che il mondo sia ben fatto ha trionfato per lunghi secoli, la religione ha ormai un nucleo etico e questa circostanza si perpetuerà sino a Kant. Questa nuova evidenza poggerà sulla certezza che il mondo è orga­ nizzato dagli dèi. Sino alla fine del mondo antico, quando le diverse scuole filosofiche mediteranno sul cosmo sarà per decidere se il mondo sia l’opera di una Provvidenza divina, di una Natura che non è una dea, o del puro caso. Socrate provava l’esistenza degli dèi e di questa orga­ nizzazione con la finalità biologica del corpo umano.267 E sicuramente gli dèi non avrebbero potuto organizzare il mondo per l’uomo senza

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incorporarvi l’elemento più importante che ci sia, la morale, essendo essi stessi impeccabili, esemplari, perfetti. Divinità perfette sono, evidentemente, disinteressate; non hanno bi­ sogni e non vendono assolutamente i loro favori. La loro perfezione è uno stato di fatto che s’impone di per sé come diritto: non si potrebbe­ ro contestare valori posti da una divinità impeccabile, tanto che, secon­ do Platone, «Dio in grado supremo è universale misura di tutte le co­ se».268 Gli dèi, continua Platone, gradiscono gli omaggi soltanto da par­ te di uomini moralmente limpidi come loro, «e non è ammissibile che un uomo giusto oppure Dio accolgano mai doni da parte di un uomo insozzato dalla colpa».269 Dunque, se si vuole essere in buoni rapporti con la divinità, bisogna essere onesti come essa lo è: si supponeva ciò da sempre, ma ora lo si crede fermamente. Per essere amati dal dio, bi­ sogna imitare il suo esempio, moderarsi, diventare giusto e quant’altro»;270 in mancanza di un modello divino, un incredulo è «incontinen­ te e sfrenato per cercare il piacere e fuggire il dolore.271 Ora, dèi e uo­ mini onesti sono amici, appartengono alla stessa famiglia: chi si assomi­ glia si avvicina;272 tra dèi e uomini onesti si forma così un pio sodalizio nel rispetto scrupoloso della morale. Tale era la nuova idea corrente presso le persone educate: non credere più che gli dèi abbiano soltanto relazioni episodiche, interessate o amichevoli che siano, con gli uomini che si sono indirizzati loro per sollecitarli o ringraziarli ma piuttosto che essi siano d’emblée gli amici di tutti gli uomini dabbene, e soltanto di costoro.273 Certi letterati spingevano troppo oltre l’idea di una società degli dèi e degli uomini virtuosi, e sostenevano che le relazioni tra i membri di questa società non avevano niente a che vedere con riti, offerte, sacrifi­ ci. Un epigramma ellenistico274 scritto ingegnosamente sviluppa questo paradosso: «I santuari sono aperti alle persone dabbene e non c’è affat­ to bisogno di purificazioni; volgi indietro i tuoi passi, cuore malvagio; infatti bagnarti il corpo non purifica per niente la tua anima»; altri ostentano di negare, alla maniera cinica, l’utilità dei sacrifici: «I veri dèi non desiderano offerte e non ne reclamano; se non si adempie a esse, si è esenti da colpa, e, se si adempie a questa pratica, esse non aprono al­ cun diritto alla riconoscenza».275 La religione si sarebbe allora ridotta a una spiritualità vaga; l’intervallo tra valori spirituali ed etici e vane norme rituali che non significa­ no più nulla per i fedeli avrebbe rischiato di svuotarla di significato. La salvò il senso dell’utilità dei riti: sopprimere il culto, i sacrifici, i gesti e tutti gli omaggi che vengono resi agli dèi avrebbe significato miscono­ scere le necessità della vita sociale e l’utilità dei segni convenzionali; in seno alla società degli dèi e degli uomini perbene, i riti, compiuti nelle forme tradizionali,276 restano e resteranno gesti e formule di deferenza

(ritenuti, poi, molto più tardi, «teurgici», magici), che permettono agli uomini di onorare i loro amici superiori. Il formalismo e l’arbitrio dei riti fanno sentire che i loro divini desti­ natari non sono astrazioni, ma persone che, in quanto tali, sono legate al rispetto delle forme, pronte a indispettirsi per ogni mancanza. Porfi­ rio ce lo fa capire bene: offrire sacrifici di poco valore, ma spesso e con sollecitudine, scrive, è il modo giusto di onorare gli dèi, «come alzarsi in piedi davanti agli uomini perbene per lasciar loro la propria sedia [proedria]». Ciononostante, Porfirio vorrebbe anche che i riti non ve­ nissero compiuti distrattamente (parergos) e per obbligo, «alla maniera in cui si pagano le tasse»:277 bisogna metterci tutta l’anima. Ma questo non vorrebbe dire falsare, per eccesso di zelo, il ruolo del ritualismo? Non siamo tutti i giorni di umore tale da provare sentimenti forti, e, del resto, è necessario provarne? I riti forniscono una prova materiale della religiosità di ciascuno. Essa non viene giudicata in base al suo grado di intensità, a rischio di diventare infrequente. Solo il rispetto delle forme rituali può far durare una religione, che può prender corpo unicamen­ te attraverso quei riti dove risiede la sua realtà obiettiva; ciò è ancora più vero se essa non ha un’altra realtà, quella dei libri santi. A cosa servono i riti, in effetti? A permettere al fedele di rendere agli dèi quello che egli deve loro attivando il «pilota automatico»: quali che siano i suoi sentimenti momentanei, l’omaggio verrà meccanicamente reso. I riti servono anche e soprattutto a rassicurare gli dèi sulla devo­ zione del loro fedele molto più efficacemente di quanto non farebbero le più calorose dichiarazioni. I riti fanno e non dicono niente, anche quando comportano parole; essendo composti di enunciati immutabili e di gesti, sono più affidabili e definitivi degli enunciati ordinari, poi­ ché sono enunciati performativi e non comportano dunque, o escludo­ no, un metalinguaggio che potrebbe rettificarli o annullarli.278 Lo esclu­ dono ancora di più se non «vogliono dire nulla» allo spirito di quanti vi assistono (e il caso è frequente: si sa a chi e a che cosa si rapportano i ri­ ti, ma generalmente si ignora quel che significano).279 Avranno ugual­ mente avuto luogo e avranno ugualmente onorato gli dèi. Così la devozione colta conservò sempre l’elemento rituale; i plato­ nici avvertivano che, senza i suoi riti, una religione perdeva ogni consi­ stenza istituzionale e si dissolveva in stati d’animo individuali. Gli ulti­ mi platonici, al seguito di Plotino, arriveranno sino a considerarli come formule magiche e, paradossalmente, a «razionalizzarli» in questo mo­ do in una teurgia. John Scheid insiste su questo aspetto a giusto titolo, il «nocciolo» del paganesimo sta nel dovere di onorare gli dèi secondo le forme definite. Anche presso l’élite, la devozione investiva tutte le sue energie nei riti con emozione; ne dà testimonianza Plutarco: alcuni officianti, mentre offrono un sacrificio, «sono pallidi sotto la loro coro­

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na» e «fanno bruciare l’incenso con mani tremanti».280 Per un’anima autenticamente religiosa, l’esecuzione dei riti procurava quel che i cri­ stiani ottengono con la preghiera (nel senso cristiano della parola): av­ vertiva la vicinanza di un essere santo e amato, provava uno stato di si­ curezza metaempirica. Inoltre, i riti erano aperti a tutti in questa reli­ gione dove ciascuno, uomo, donna o schiavo come Fidile, poteva offi­ ciarli un giorno o l’altro. Non esisteva una casta sacerdotale. Questi riti, emozionanti se si pensa ai loro destinatari, pittoreschi per il loro formalismo e senza età,281 accrescevano il fascino di una de­ vozione che era di tipo sentimentale e che faceva sognare anche gli in­ differenti in materia religiosa. Nella pittura vascolare, quando si voleva mostrare una donna graziosa impegnata in liete occupazioni, la si mo­ strava impegnata nel farsi bella o mentre versava una libagione. Nella pittura parietale, non v’era un paesaggio dove non comparisse un san­ tuario di campagna. L’effetto delle cerimonie poteva essere abbastanza profondo da ricondurre per un momento i più scettici al ritualismo. Nell’ode Exegi monumentum, scritta a gloria delle proprie poesie, Orazio riesce a dare la misura della sua esaltazione soltanto evocando una cerimonia di quella religione in cui non crede molto: l’apparizione di una coppia muta e solenne attraversa la sua memoria e, in alcuni versi emozionanti, annuncia che la sua poesia durerà tanto quanto Roma, «finché sul Campidoglio salirà con la vergine muta [virgo tacitai il Pon­ tefice». Per la gente del popolo, le attività religiose, come anche le gare o «giochi» greci e gli spettacoli romani, rappresentavano la parte del lo­ ro tempo e delle loro idee che si innalzava al di sopra di quanto era utile e vincolante; il paganesimo era la metà della loro cultura, altro non era che un racconto meraviglioso i cui personaggi appartenevano a un ordine superiore alla realtà. Una cultura non consiste soltanto nel conoscere più verità, ma nell’avere più idee, come direbbe Leibniz, nell’aggiungere qualcosa alla realtà, si tratti di centauri o chimere. Non esisteva una città senza templi, né una campagna senza un bosco sacro che si stagliasse all’orizzonte, né un promontorio di cui un santuario non completasse il racconto mitologico; sulla riva, una vecchia nave abbandonata è consacrata a un dio del mare.282 Il mondo comportava giorni di festa e obblighi carichi di senso, altari, immagini sante cui in­ viare baci, alberi o rocce ritenuti portatori del divino che venivano un­ ti con l’olio o che si cingevano con sacre bende.283 All’élite dirigente che aveva ricevuto un’educazione liberale la paideia forniva poesie e romanzi metafisici piuttosto che racconti meravigliosi;284 nondimeno, le credenze popolari, o piuttosto, maggioritarie, s’imponevano su di essa e, tramite la sua mediazione, assorbivano una grande parte del surplus economico. Avevano ricoperto il mondo con un costoso man­

tello policromo di templi, allo stesso modo in cui un giorno ogni vil­ laggio avrebbe avuto la sua chiesa pronta a stagliarsi al di sopra delle capanne.

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X La storia religiosa non è quella di un’eterna lotta tra la fede e l’incredu­ lità. Resta il fatto che, a voler dare uno sguardo generale, nell’impero greco-romano, quanto valeva nel mondo ellenistico valeva anche nell’e­ poca imperiale: i credenti sono superiori per numero; l’archeologia e l’epigrafia lo provano abbondantemente. «La gran parte degli uomini rispetta gli dèi, tutti li temono, pochi li negano» scrive Apuleio; le folle greche e tutti i barbari credono negli dèi, e gli increduli sono soltanto un pugno di uomini, secondo l’ammissione di Luciano.285 A dire il ve­ ro, però, il giusto approccio alla questione non è quantitativo, statisti­ co; è meglio pensare alla differenza istituita dai linguisti tra le forme «marcate» (il modo condizionale, per esempio) e quelle che sono «non marcate» (l’indicativo). Anche tra i letterati, la fede negli dèi era non marcata, si riteneva che fosse scontata; era l’incredulità affermata a far­ si notare, a essere marcata; su di essa ricadeva l’obbligo di dare una prova, al contrario di quel che accade da noi all’incirca dagli anni dopo il 1860, dove invocare Dio e la verità religiosa è un fatto marcato, non è più scontato e può accadere soltanto in un libro o in un giornale che si dichiari esplicitamente come confessionale. Tutto il resto è una conseguenza di questo. Di fronte alla fede e al­ le credenze popolari, le convenienze imponevano alla classe dirigen­ te un conformismo religioso in pubblico, mentre la loro distinzione guardava dall’alto le ingenuità popolari e la religione era un argo­ mento di cui non si parlava molto in società. Questo argomento è in­ fatti assente dalla corrispondenza di Cicerone, eccetto quando scher­ za con un amico sulla religiosità di sua moglie che assicura il culto domestico. Gli dèi vengono pomposamente presentati nei suoi di­ scorsi pubblici; le sue opere filosofiche parlano della divinità in sen­ so generale (il che non costava poi molto) e scherzano su tutti i det­ tagli; ma pur essendo augure e assolvendo regolarmente a tutti i do­ veri di questo onorifico pubblico sacerdozio, scriveva che due aru­ spici non potevano incontrarsi senza scoppiare a ridere. Questo era lo spirito dei seri senatori romani e dei notabili greci e romani: gli «dèi della città», cioè quelli di tutti, quelli del popolo, potevano es­ sere oggetto di scetticismo, di scherzi o, almeno, di interrogativi, ma sarebbe stato sconveniente ironizzare sui culti pubblici della repub­ blica e delle città greche e romane. Questo è l’atteggiamento ambiva-

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lente del pontefice Cotta nella De natura deorum·. rispetta i riti e ha dei dubbi. Si scorra la serie degli Atti dei fratelli Areali, dal 20 avanti Cristo al 304 dopo Cristo: rispettando scrupolosamente i riti ancestrali nel corso dei secoli, si tentava di provare a se stessi che la società tradizionale si perpetuava (alla maniera di un’aristocrazia moderna e del suo ballo an­ nuale, se mi si perdona questo paragone). Lo stesso ritualismo si trova­ va nell’Oriente greco sotto la dominazione romana: il culto, diretto e fi­ nanziato dai notabili della città, con processioni, sacrifici, inni corali, addobbi sontuosi e quant’altro, era sempre più fastoso. Coesistevano così un conformismo ufficiale e un distacco elegante; per uno scettico come Cicerone, la soluzione alla sua scomoda situazione era affrontare la religione in un modo rituale e ufficiale, e lasciare alle mogli le cure del culto domestico. Varrone, che credeva soltanto agli dèi autentici, a quelli dei filosofi, ammetteva tuttavia di rispettare quelli della sua città per indurre anche il popolo a rispettarli, dal momento che certe cre­ denze hanno effetti positivi sull’educazione morale.286 Plinio il Giovane non parla molto degli dèi nella sua corrispondenza di uomo onesto che si propone come esemplare, eccetto che in pochi casi: al pellegrinaggio del Clitumno, ha un sorriso emozionato davanti all’ingenua devozione popolare; altrove ci fa sapere di aver fatto co­ struire a sue spese un tempio in una piccola città vicina a una delle sue tenute e di cui è il patrono; ci dice inoltre di aver contribuito alla rico­ struzione di un altro tempio, situato sulle sue terre, che era un centro di festeggiamenti popolari.287 Più tardi i grandi proprietari faranno co­ struire chiese di campagna sui loro fondi, per i loro contadini. Questi notabili facevano dono di santuari al popolo, allo stesso modo in cui donavano loro il pane e i giochi del circo. Inoltre, aver rivestito una ca­ rica sacerdotale pubblica faceva parte della dignità di ogni senatore e di ogni notabile greco o romano. Si può supporre che la maggioranza di loro avesse almeno irn'incli­ nazione per la religione, per attenersi alla testimonianza di Lucano e di Apuleio; ma le convenienze volevano che non si prendessero in con­ siderazione le proprie convinzioni religiose in società, dal momento che la religione era, come ai nostri giorni, problematica. Quando aves­ sero letto Cicerone e il suo De natura deorum o, molto semplicemente, una volta che, da bambini, avessero imparato la mitologia in Virgilio, ben sapendo che la loro cultura li distingueva dal popolo, non poteva­ no lasciarsi andare a nessuna ingenuità. A partire dall’ultimo secolo della repubblica, l’élite romana ragionava sulla religione e faceva teo­ logia filosofica.288 Fra i letterati, questi pepaideumenoi che avevano compiuto i loro studi «classici», alcuni erano del tutto increduli, come l’enciclopedista Plinio il Vecchio. «La letteratura allontana e distoglie

dalla religione»,289 aveva detto Cicerone, che era ben cosciente dell’ar­ retramento secolare della credulità. Un pugno di altri uomini si era convertito alla dottrina di una delle scuole filosofiche allora presenti ed era generalmente deista. Tra incre­ duli e deisti le discussioni potevano essere accese. L’eco di una di esse è giunto sino a noi e rassomiglia a quelle di Bouvard e Pécuchet con il lo­ ro curato. Il medico Galeno credeva risolutamente alla Provvidenza e alla finalità biologica. Supponeva anche che quelle divinità costituite dai corpi celesti fossero ancora più ammirevolmente finalizzate dei cor­ pi umani, fatti di fango. Ora, egli incappò in un terribile incredulo (un epicureo, senza dubbio), che gli obiettò come la Natura avesse sbaglia­ to: avrebbe dovuto piazzare l’ano e l’uretra sulla punta del piede, il che sarebbe stato più estetico e più comodo. Galeno, colmo d’indignazio­ ne, ribattè che li aveva assennatamente posizionati il più lontano possi­ bile dagli organi di senso.290 Non esageriamo, del resto, gli effetti del­ l’incredulità: deisti e increduli avevano all’incirca la stessa morale; nes­ suna credenza sussume sotto di sé tutta la vita sociale e mentale. La morale praticata è di origine sociale più che religiosa, tanto che fedeli e increduli si comportano più o meno allo stesso modo, né meglio né peggio; sono soprattutto quei grandi princìpi un po’ vuoti a scontrarsi. Molti uomini di lettere avevano un modo di credere che era loro proprio: interrogarsi e essere inquieti. I pagani vivevano la religione come un problema, alla maniera, penso, con cui oggi molti cristiani istruiti vivono i dogmi e i libri santi della loro religione. Gli uni esita­ vano tra la Provvidenza, la Fortuna e il Fato. Altri si chiedevano quale potesse mai essere la vera natura di quegli dèi ai quali, nel coro collet­ tivo, era difficile non credere: esistevano, nessuno ne dubitava, eccetto gli epicurei nel senso più banale della parola, ma quale era la loro au­ tentica natura? L’antica ingenuità era del tutto morta. Dai presocratici in poi, i pensatori greci si fecero beffe dell’antropomorfismo, interpre­ tarono allegoricamente la mitologia e auspicarono talvolta una religio­ ne senza statue e senza immagini.291 Verso il 150 avanti Cristo, un grande spirito, Cameade, aveva osato argomentare i propri dubbi re­ lativi all’esistenza degli dèi e aveva posto domande perfide: se Zeus e Apollo esistono, perché non dovrebbero esistere i centauri e altre chi­ mere? Cosa fa Apollo del suo grande arco, la notte? Come mai gli dèi non hanno più figli? Uno spirito educato e colto non poteva, inoltre, rappresentarsi gli dèi con i tratti prestati loro dagli scultori e dal popo­ lo, ne esigeva un’idea più credibile e più elevata, ma quale? In queste condizioni, il deismo, quello degli stoici e di tutti gli spiriti elevati, era una soluzione per difetto: vi si aderiva in mancanza di una soluzione meno povera. La cosa più sicura da fare era seguire ancora il consiglio dato dal poeta comico Filone tre secoli prima di Cicerone: «Credi agli

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dèi, onorali, ma non porti su di loro vane domande, non ti chiedere se esistono o no». Insomma, il problema degli uomini di lettere romani, come dei loro maestri greci parecchi secoli prima di loro, era di «demitologizzare» il paganesimo (vedremo che ne morirà) pur conservandone i riti. Una delle ragioni del successo del cristianesimo fu che Gesù, da parte sua, era un personaggio storico vissuto al tempo dei primi imperatori e non nella temporalità poco plausibile del mito. Ora, se i pagani non crede­ vano più molto al mito, conservavano, di contro, tutte le superstizioni; credevano agli «uomini divini», alle apparizioni, agli esorcismi. Lo sto­ rico Svetonio un giorno fu atterrito da un sogno premonitore; l’impera­ tore Adriano era ossessionato dai presagi;292 Marco Aurelio, stoico co­ scienzioso, attribuisce agli dèi provvidenziali tutte le opportunità o tut­ ti i meriti della sua vita, ma la sua religiosità imprecisa si riduce a cre­ dere a sogni premonitori, a incidenti che sono altrettanti segni (o «ora­ coli», come li chiama) inviati dagli dèi 293 Un futuro governatore di pro­ vincia vide in pieno giorno apparigli il genio della provincia d’Africa; nel corso del II secolo della nostra era, non lontano da Mileto, si veri­ ficò un inquietante fenomeno: le apparizioni di divinità si moltiplicava­ no; era un presagio buono o cattivo? Verso l’anno 221, tutti i testimoni attestano che un «demone» che affermava di essere Alessandro Magno apparve sul basso Danubio e attraversò due province senza che nessu­ no osasse opporglisi, e poi sparì294 Ma, oltre ai superstiziosi, ai conformisti, agli inquieti e ai rari conver­ titi alla filosofia, esisteva forse un genere di uomini profondamente reli­ giosi che si distinguevano grazie a un’elevata moralità da tutti ricono­ sciuta. La loro devozione organizzava la loro personalità e dava loro un senso morale che essi portavano dipinto sul volto. Incappiamo in uno di essi nel corso di una tirata in cui Seneca insegna che il saggio secon­ do i filosofi si fa tanti scrupoli quanto «un uomo religioso e venerabile che custodisce con cura quanto gli è stato affidato» (religiosus homo sanctusque solet tuerifidei commissa).295 Saremmo meno colpiti da que­ sta frase se Seneca non avesse parlato di un uomo religioso, ma sempli­ cemente di un uomo onesto che, in quanto tale, rispetta i fidecommes­ si. Bisogna dunque che il suo uomo religioso abbia qualcosa di più, che sia stato un tipo umano a parte, che abbia beneficiato di m a considera­ zione superiore a quella delle semplici persone oneste. C’erano quindi, credo, uomini che facevano professione di devozione, allo stesso modo in cui altri facevano professione di filosofia e ne portavano l’apparenza esteriore. Senza dubbio si trattava di sacerdoti di santuari privati, ma anche di semplici privati cittadini dalla particolare religiosità. Questa comportava m a moralità che attirava, a buon diritto, la fiducia; in que­ sto tipo umano, destinato a un bell’avvenire in Occidente, si concilia­ 422

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vano e si sostenevano vicendevolmente la personalità etica, sociale, e la personalità «mistica», straniera a questo basso mondo. Ci basterebbe pertanto aver incontrato m homo religiosus alla svolta di m a strada di Roma per trarre m conclusione sull’esistenza di tutta m a tipologia umana? Perché no? Altre realtà antiche sono conosciute grazie a una sola frase. Del resto, è un secondo homo religiosus che ci accingiamo a ritrovare nel tono satirico dell’astrologo Tolomeo,296 che mette in relazione la devozione, un’attitudine morale degna e l’eleva­ zione dell’anima al prezzo di qualche ascetismo: colui che nasce sotto Saturno in congiunzione con Venere è misoneista, poco socievole, ne­ mico del bello, ostinato, credente, praticante, appassionato di iniziazio­ ni misteriche, ma tuttavia serio, coscienzioso, riservato, riflessivo, pen­ soso, padrone di se stesso, marito fedele. Ormai, un uomo che spicca per la sua devozione sulla media dei suoi contemporanei è non meno rimarchevole per la sua alta tenuta morale. Già l’Ippolito di Euripide prefigurava questo ethos, ma suo padre Teseo, reso cieco dall’ira, lo prende per m ipocrita che si atteggia a seguace dell’orfismo: Euripide presta a Teseo questa reazione da «borghese» diffidente e indispettito davanti a quanto superi la sua capacità di comprensione. L’asceta sportivo Ippolito è non meno degno di nota per il suo rifiuto di Afrodite e per la sua relazione emozionale con la vergine Artemide. Egli mostra quale sia il legame tra una religione (o una filosofia) e la mo­ rale ascetica con il rifiuto della sessualità.297 Perché l’ascetismo? È sem­ plice, perché nessuno saprebbe servire due padroni e perché «quelli che sono ricchi di piaceri mondani non sono capaci di consolazioni spiritua­ li», come disse san Francesco da Sales?298 Questa pretesa incapacità non è unica e parecchie personalità letterarie o artistiche hanno avuto una vita intima meno edificante della loro vita spirituale. Si ritrova qui uno dei grandi tipi di estetizzazione di cui abbiamo già parlato a proposito di Heidegger: l’ideale di un «sé» unitario che si semplifica per non esse­ re che l’incarnazione di un’idea. Il platonismo era persuaso del fatto che l’accesso alla verità fosse dato soltanto al prezzo di una purificazione dell’anima. Servirà Cartesio per mutare totalmente argomento e fissare il principio che l’accesso alla verità dipende unicamente da un buon «metodo». Prima di lui, essere un pensatore non consisteva nell’esercitare un’attività specializzata, di cui bastava rispettare il metodo: era, in­ vece, uno stile di vita che impegnava l’individuo nella sua interezza, una sorta di elencato.299 Gli atleti che si allenavano per le Olimpiadi pratica­ vano, in modo simile, l’astinenza. Il pensatore doveva innalzarsi al di so­ pra del sensibile, rinchiudersi in se stesso come in una citta della fortifi­ cata;300 dopo Aristotele, sposo di una principessa minore della casa rea­ le di Macedonia, e prima di Hegel (perché ci fu una signora Hegel), nes­ sun grande filosofo, in ventidue secoli, è stato sposato. 423

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Allo stesso modo i sacerdoti, in contatto permanente con la santità, erano compenetrati dai medesimi princìpi. Certamente, «i sacerdoti erano cittadini come gli altri e non uomini di Dio»,301 nondimeno, un certo Valerio Fiacco, vissuto verso il 200 avanti Cristo, che aveva passa­ to la sua prima giovinezza nel vortice dei piaceri, una volta nominato flamine per fargli cambiare vita, effettivamente «rivolse la sua attenzio­ ne alla cura delle cose sacre e delle cerimonie [...] e, facendosi guidare dalla religione nella frugalità, quanto prima era stato esempio di disso­ lutezza, tanto divenne, poi, modello di modestia e di santità».302 Tale fatto è considerevole: in quest’uomo, la religione non inizia soltanto quando si entra in rapporto con gli dèi, ma essa colora tutta la sua esi­ stenza. Tuttavia, come nota John Scheid, «questa condotta esemplare implicava il fervente rispetto dei riti, obblighi e privilegi legati al sacer­ dozio cui ci si riferisce, e non implicava invece la pia contemplazione del mistero divino». Altrove vediamo ancora i limiti di questa psicagogia: nessuno dei nu­ merosi scritti antichi di consolazione (è un genere letterario tradiziona­ le) parla di rifugiarsi nella contemplazione degli dèi - fatta eccezione, è vero, per un riferimento ai misteri dionisiaci.303 Gli dèi potevano infat­ ti essere buoni nei confronti dell’umanità in generale (lo professavano gli stoici), ma, come abbiamo già detto, non consolavano gli uomini uno per uno; di contro, avevano i loro protetti nella complicità dei mi­ steri, una sorta di massoneria del soprannaturale. Non tutti i sacerdoti, pubblici o privati, erano come il Valerio Fiacco di cui abbiamo appena parlato. C’erano anche dei pedanti del rituali­ smo e degli arcani sacri, gonfi della loro scienza, come l’Eutifrone di Platone nel dialogo che porta il suo nome. C’era anche il caso inevita­ bile dell’uomo illuminato che non dimenticava i suoi interessi materia­ li. Il fondatore di un santuario era generalmente mosso dalla convinzio­ ne di agire su ordine del dio, ma poteva considerare anche i profitti che avrebbe ricavato dalla sua impresa, dal momento che una parte deter­ minata delle vittime sacrificate ritornava al sacerdote (che le rivendeva, tanto che i santuari facevano concorrenza alle macellerie).304 Guardia­ moci dall’ironizzare: questa è una delle «mescolanze» troppo umane di cui parlavamo prima. Pensiamo, piuttosto, allo Ione di Euripide, a que­ sto giovane dal cuore puro e devoto che ha servito da modello a Racine per il suo Eliacin: tesoriere di Apollo Delfico, vive soltanto per il suo dio, e, senza lasciare mai il recinto del dio, «vi conduce una vita degna di rispetto». Questo dato parla: restiamo sociologi e non siamo conven­ zionali. In questa religione senza inquadramento, che cos’era un sacer­ dote o un custode del tempio (aedituus)? Un essere a parte, in ragione della sua vocazione elevata, e marginale, dal momento che non aveva un inquadramento. Ci si poteva quindi aspettare da lui il meglio e il

peggio, di trovare fra uomini di tal tipo sia santi che ciarlatani. Uno di loro, a rischio della vita, salvò dalla morte, nascondendolo nella sua ca­ mera, il futuro imperatore Domiziano, sorpreso in una Roma tenuta in scacco dai seguaci di Vitellio; ma alcuni dei suoi confratelli, in quel pe­ riodo privo di alberghi degni di questo nome, affittavano la loro came­ ra a coppie irregolari alla ricerca di un nido d’amore.305 Ma, infine, restava inteso che il sacerdote ideale non era un indivi­ duo come gli altri e che doveva essere impregnato della santità della sua missione, la qual cosa è dimostrata chiaramente dall’arte del ritrat­ to a partire dall’epoca ellenistica. Sappiamo che, fin verso il regno di Marco Aurelio, il ritratto greco-romano mostra visi lisci, senza rughe, un realismo più o meno accentuato e fisionomie che esprimono dignità, ma tanto rassicurate da questa dignità da non esprimerla molto; sono calme, serene, naturali: notabili, senatori e anche, spesso, imperatori si limitano a far percepire la loro presenza, che è sufficiente, senza biso­ gno di altro segno di autorità esteriore o di giustificazione della loro vi­ ta interiore. Karl Marx avrebbe potuto dire di loro quel che diceva del Borghese: che si prendevano per l’Uomo universale, senza qualità. Fan­ no tuttavia eccezione a quest’universalità certe vocazioni venerabili per tutti: saggi, filosofi, oratori e alcuni imperatori, che sfoggiano la fi­ sionomia e diversi attributi delle loro rispettive dignità. Si è notato che, a questa lista di eminenti eccezioni, si potevano aggiungere i sacerdoti. La fisionomia data loro dagli scultori esprime in permanenza il racco­ glimento, la tensione prossima all’ansia, ispirata loro dal sacerdozio. Ecco, proveniente da un santuario di Afrodite a Cipro, un ritratto femminile306 di una tensione sobria e di una grazia che si è tentati di qualificare come «elettrici» - parola maldestra, che può essere detta soltanto di un’opera dell’epoca altoellenistica. Il bel modello ha ricevu­ to i tratti di Afrodite e tuttavia una preoccupazione pesa su questo viso, sugli occhi pensosi e sulle belle labbra chiuse e tormentate. Sarebbe questa l’immagine, improbabile in un’epoca simile, di una passante crucciata? No, la dama ha un’acconciatura da sacerdotessa e il suo viso è quindi gravido di una preoccupazione sacra. Ecco, al Museo del Pi­ reo (prima in quello di Atene),307 la testa, coronata di mirto, di un sa­ cerdote dal viso emaciato, dalle sopracciglia aggrottate; a un estremo e all’altro delle sue labbra chiuse cominciano a scavarsi quei solchi sub­ nasali che chiamiamo «rughe d’espressione». Questo viso tutto chiuso in se stesso non riflette «l’angoscia della sua epoca» di cui parla un luo­ go comune, ma l’interiorizzazione del suo sacerdozio. I sacerdoti che avessero soddisfatto i doveri della loro dignità rice­ vevano il diritto di consacrare nel santuario la loro statua «onorifica» alla divinità che avevano ben servito. L’artista attribuiva loro come fi­ sionomia permanente l’espressione compresa che aveva il loro viso du­

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rante l’esecuzione dei riti; su alcuni dei numerosi bassorilievi romani che rappresentano una scena di sacrificio, è l’espressione che viene data agli officianti,308 dopo che il sacerdote ha pronunciato le parole favete linguis, che invitavano ciascuno a osservare un silenzioso racco­ glimento. Questo raccoglimento, questa concentrazione, marcati sugli occhi, la bocca e le rughe ai lati del naso, si ritrovano in epoca imperiale in mol­ ti ritratti sacerdotali (e non soltanto in questi, come si vedrà). Ecco, al Museo di Eieusi, uno ierofante con la testa cinta da un diadema, conforme allo schema fisiognomico:309 «Il suo sguardo profondo vede gli abissi dell’interiorità» scrive Ernst Buschor.310 Se ne troveranno molti altri esempi311 nella lunga serie di sacerdoti che portano una co­ rona cerimoniale il cui medaglione centrale, sulla fronte, reca l’immagi­ ne del loro dio (che non è esclusivamente un imperatore divinizzato,312 come si è lungamente pensato). Limitiamoci a ima testa di serie di grande qualità, il preteso Gordia­ no del Museo del Bardo a Tunisi,313 opera del III secolo dopo Cristo che definiremmo potente più che «espressionista», termine qui scarsa­ mente elogiativo: sotto la corona a medaglione, un viso di vecchio ru­ goso, segnato dall’età; emaciato, quasi scarno, è divorato da una tensio­ ne spirituale di cui conosciamo la pia motivazione. Inizialmente, in epoca ellenistica, sembra proprio che queste fisionomie di sacerdoti siano state ispirate agli alessandrini dall’iconografia egiziana,314 dove i sacerdoti non erano i soli ad avere da lungo tempo un’espressione con­ centrata e rughe profondamente scavate ai lati del naso;315 alcuni esem­ plari erano giunti in Europa; così, ad Atene, c’è un ritratto del sacerdo­ te di Iside.316 Ciononostante, un cambiamento rivelatore, di cui riparleremo, si ve­ rifica alla fine del II secolo dopo Cristo: queste fisionomie interiorizza­ te non sono più riservate ai sacerdoti, ma si diffondono nell’arte del ri­ tratto greco-romano per tutte le categorie di defunti; le rughe ai lati del naso diventano uno stereotipo, anche, qualche volta, per le donne.317 È cambiata epoca, l’uomo non è più tranquillamente sicuro della sua su­ periorità e del suo buon diritto, ma ha iniziato ad avere una vita inte­ riore e un’autocoscienza: questa ricchezza scrupolosa è, ormai, quel che lo giustifica. Facciamo ora un passo indietro verso i ritratti di sa­ cerdoti che, da lungo tempo, recavano la stessa ricchezza interiore sul viso: vediamo che erano individui che guardavano in se stessi e non ver­ so un gregge di fedeli. Il paganesimo ignorava il principio d’interiorità (che si direbbe affettuosa e apparirebbe piena di dolcezza), quell’auto­ rità che si legge sui visi episcopali che si allineeranno in lunghe file di medaglioni sui mosaici cristiani della fine dell’antichità; il viso ideale dei suoi sacerdoti non era un viso da capo spirituale.

XI Ritorniamo ora alla religione delle folle, alle realtà banali, e passiamo in rivista testi che mostrino quali potessero essere gli ordinari comporta­ menti pii sotto l’Alto impero; saranno dettagli, ma siamo convinti del fatto che una religione è caratterizzata proprio nelle sue condotte det­ tagliate. Mezzo millenio dopo la morte di Euripide, nel secolo degli Antonini, ecco da cosa si riconosceva un empio nell’Africa romana: «Non ha mai supplicato nessun dio [...], non ha mai frequentato nes­ sun tempio e, se passa accanto a qualche sacello, considera empietà ac­ costare la mano alle labbra in atto di adorazione. Nemmeno agli dèi della campagna [...] offre mai le primizie delle messi o della vigna o del gregge; nella sua fattoria non si trova nessun tempietto, non vi è nessun bosco sacro o luogo consacrato»;318 questa è, in negativo, la li­ sta delle pratiche seguite da un romano considerato normalmente pio. Sei secoli prima, il greco Senofonte offriva a sua volta alcuni di questi sacrifici di ringraziamento che il latino chiama supplicationes, aveva fondato un santuario di Artemide sulla sua proprietà di Scillunte e ver­ sava la decima alla dea.319 Capitava che ci si appassionasse periodica­ mente, a un dio di propria scelta; l’imperatore Augusto, per un certo periodo, «dopo aver dedicato in Campidoglio il tempio a Giove To­ nante, lo frequentava assiduamente».320 Vediamo, del resto, alcuni romani che «venerano con gesti le imma­ gini degli dèi, le supplicano stando in ginocchio, si prosternano [ado­ ranti, restano per un’intera giornata seduti o in piedi davanti a esse, sa­ crificano loro, gettano loro una moneta».321 Alcune di queste pratiche potevano essere un’abitudine messa in atto «distrattamente», come di­ ce Porfirio; ma restare seduto vicino a un’immagine degli dèi o fre­ quentare il tempio322 di un dio per il quale si aveva una devozione par­ ticolare significava provare amore per una creatura santa. «I viaggiatori pii» scrive Apuleio «hanno l’abitudine, se si presenta sul loro cammino un bosco sacro o un luogo santo, di formulare un auspicio, di fare l’of­ ferta di un frutto, di sedersi un momento».323 Questo significava fare di quei minuti di riposo un momento di quel conforto, di quell’elevazione e di quel raccoglimento che gli uomini pii nostri contemporanei vanno cercando entrando in una chiesa posta sulla loro strada. Una celebre pagina di Seneca mette disdegnosamente in scena un gruppo di povera gente che, davanti al tempio di Giove Capitolino, fa il gesto di massag­ giare il dio, di pettinare Giunone, di porgerle uno specchio; un vecchio attore interpretava ogni giorno un pezzo teatrale davanti al tempio per rallegrare il dio:324 questo sarà un giorno il tema di quel capolavoro che è Le Jongleur de Notre-Dame. Questa povera gente, questi schiavi of­ frono agli dèi quel che possono offrire: giornate del loro lavoro. Poiché

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il rapporto di fiducia tra il fedele e il suo dio poteva essere tale, siamo tentati di credere che Properzio dica il vero, o piuttosto che parli se­ condo verosimiglianza, quando mostra la sua padrona nella finzione letteraria, Cinzia, che, guarita da una malattia mortale, «compiuti i sa­ crifici» in onore del grande Giove, «siederà ai [suoi] piedi, e narrerà assisa i lunghi pericoli della sua vita»,325 nel modo in cui una donna del Sud racconterebbe i suoi guai alla Madonna: qui sfioriamo la devozio­ ne propriamente detta, il dialogo con una divinità salvatrice o consola­ trice. Si crederebbe più facilmente a Properzio se Cinzia avesse raccon­ tato i suoi guai a Iside piuttosto che a Giove, a quella Iside che dispen­ sa «ai miseri in travaglio il dolce affetto che può avere una madre»326 (ma la funzione delle religioni orientali nel mondo greco-romano esula dagli scopi del presente lavoro). Questi eccessi esotici in cui si dava spettacolo, e che erano indegni di un uomo libero e del sesso forte, provocavano un sorriso intenerito o divertito sulle labbra degli uomini sensati,327 ma si trattava comunque di momenti o di gesti che permettevano di uscire dalla quotidianità prosaica e tramite i quali si rendeva percepibile la prossimità del divi­ no, senza però compromettere l’importanza delle necessità quotidiane. Tuttavia, più si avanza verso il III secolo dopo Cristo e più si vedono raffinati uomini di lettere giungere a livelli assai diversi di religiosità e smettere di recalcitrare di fronte alle più umili pratiche di pietà. Venen­ do a sapere che Lucio Vero ha da poco recuperato la salute, Frontone, che si trova in campagna, si reca, scrive, «nelle cappelle, ai piedi di tut­ ti gli altari, visita tutti i boschi sacri e fa le sue devozioni a tutti gli albe­ ri consacrati». Verso la fine del II secolo dell’impero si apre, effettivamente, una nuova era religiosa di cui però non parleremo; nel suo La religion romaine d‘Auguste aux Antonins, un vecchio libro che ha ancora molto da dire, Gaston Boissier ha mostrato quale fosse stato il cambiamento: passando dall’età di Cicerone a quella di Marco Aurelio, si lascia un’e­ poca in cui un’aristocrazia elegante e sicura di sé guardava alla religio­ ne tradizionale unicamente con un sorriso superiore o un conformismo di facciata e si arriva a un’altra epoca in cui il fervore e l’umiltà intellet­ tuale diventano lo stile distintivo in materia religiosa. La religione è di­ ventata, nella buona società, un argomento lecito di conversazioni, di­ scussioni e testimonianze: la ricchezza interiore conferma il valore per­ sonale dei membri della classe dirigente e dei governanti, il che testi­ monia a sua volta, a partire dal regno di Marco Aurelio, il cambiamen­ to su cui abbiamo già speso una parola nell’arte del ritratto privato. Al­ lo stesso modo, gli imperatori erano diventati capi vigili, preoccupati, responsabili, ispirati. Arriviamo ai limiti della nostra ricerca, verso la fine del secolo degli 428

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Antonini, quando medio-platonismo e cristianesimo in progresso tra­ sformano il paesaggio mentale. Ma come non spendere una parola su Elio Aristide328 e sui suoi rapporti bilaterali con il suo dio guaritore, Asclepio? Questo Aristide, scrive Laurent Pernot,329 ci appare sempre meno come un retore megalomane, ma anzi mostra, come sotto una potente lente d ’ingrandimento, qualche tratto della nuova religiosità. Dicevamo prima che la moderazione pagana non aveva conosciuto la tipologia umana del virtuoso della religione, e che l’amore per gli dèi non superava il livello di un normalissimo attaccamento. Su questi due punti, Aristide comincia a smentirci: quest’ipocondriaco è, a suo mo­ do, un santo pagano (cosa che sarà anche Giuliano)330 che ha con Asclepio un rapporto personale e fervente. Egli ci racconta la sua autobiografia e i particolari delle sue malattie soltanto per esaltare il valore e la potenza del dio che lo protegge e lo guarisce.331 Quest’ultimo bagliore del paganesimo, almeno nella classe elevata, è vicino alla sua fine. Il neoplatonismo degli ultimi pagani, infatti, fa spic­ care un nuovo modo di credere che consiste nell’«avere delle convin­ zioni», e ciò è sintomatico: si poteva avere la fede del carbonaio unita­ mente a una dottrina da letterato? Era una domanda che ci si poteva già porre a proposito della religione astrale (la religione intellettuale di cui parla Pierre Aubenque), che, da Platone in poi, considerava gli astri come dèi. Per il neoplatonismo, per l’imperatore Giuliano (come già per Plutarco) la devozione religiosa è il primo dei beni dell’anima e per­ mette di «frequentare senza posa» gli dèi.332 Ma leggiamo i grandi Inni omerici, e di seguito gli Inni del neoplatonico Proclo o i discorsi che Giuliano, autoproclamatosi dottore del paganesimo, aveva pronuncia­ to in elogio della Madre degli dèi o di HeHos re. Negli Inni omerici, il racconto delle imprese, dei favori o dei vagabondaggi di una divinità ne esaltava la figura e procurava un momento di fervore all’uditorio. Nei suoi discorsi, con la loro febbrile accumulazione di affermazioni teologiche disordinate, è la propria emozione che Giuliano coltiva, è sul fuoco della sua passione che soffia. Si tratta di una nuova forma di devozione in cui il fervore dell’animo era ricercato come un fine in sé. Allo stesso modo, in Plotino, per il quale la relazione dell’uomo con l’Uno è nondimeno unilaterale, la devozione sgorga da una sorgente spirituale non meno profonda, mette la nuda individualità di fronte al­ l’assoluto e procede «da solo a solo», monos pros monon. Questa è la grande novità: la devozione religiosa si è innalzata fino a essere asceti­ ca, spirituale, e, talvolta, mistica.333 Infatti, salvo errori, è in Elio Aristi­ d i 34 e poi in Plotino che si trovano le prime menzioni pagane dell’e­ sperienza estatica. Sfortunatamente, se si passa da questa spiritualità alle credenze del­ l’ultimo paganesimo, il quadro è più deludente. I neoplatonici e gli ul­ 429

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timi uomini di lettere pagani sono stati dei rea2ionari del paganesimo, non facevano altro che reagire: si mobilitavano contro degli invasori. Dando degli dèi un’interpretazione astrusa (Mercurio non è più il dio degli oratori e dei mercanti, ma colui che mette in movimento le ani­ me), hanno potuto riprendere a loro vantaggio il politeismo, l’antropomorfismo e la mitologia, tutto quel che, da secoli, rendeva il paganesi­ mo poco credibile per degli uomini di lettere; vanno cercando divinità dimenticate, riti strani,335 tentano di rivitalizzare l’aruspicina. Vogliono credere a tutti gli dèi, e anche a un po’ di più. Un giorno, il retore Libanio voleva imbarcarsi per tornare ad Atene a tenere i suoi corsi, ma poi­ ché il mare era cattivo pregò le cinquanta Nereidi e il loro padre affin­ ché tornasse bel tempo.336 In realtà, Nereo e le sue figlie non erano mai stati dèi, non avevano mai ricevuto un culto, erano dei personaggi in­ ventati dal mito e dai racconti popolari dei marinai. In virtù dell’umana mediocrità, il conflitto «storico» tra pagani e cri­ stiani, nella maggior parte dei casi, non è andato oltre un conflitto tra un partito di centro-sinistra e uno di centro-destra. In compenso, il partito dei pagani convinti, quello di un Giuliano, di un Libanio, aveva il carattere dottrinale e volontarista di un partito estremista, che reagi­ sce a una minaccia esterna; invece di essere semplicemente se stessi, si restava fedeli a delle convinzioni. Lo stesso non si potrebbe dire dei te­ sti cristiani coevi: gli estremisti cristiani, da parte loro, avevano l’inizia­ tiva, e poi erano troppo appassionati dalle loro dispute interne per do­ versi forzare. Accadde all’ultimo paganesimo come al vaso incrinato di cui parla un poeta: «Non lo toccate, è rotto».

Vorrei aprire su quest’argomento una seconda e ultima parentesi. Quando ci si appresta a descrivere la devozione religiosa e l’incredu­ lità in un qualsiasi secolo, l’esperienza suggerisce che la distribuzione delle frequenze e delle intensità è sensibilmente la stessa da un secolo all’altro. A dispetto delle enormi differenze riscontrabili sotto ogni al­ tro aspetto, la distribuzione statistica di picchi e mediocrità non cam­ bia molto. Forse più di altri fatti sociali, la religiosità non è né individuale né so­ ciale, non è né un habitus collettivo né una peculiarità individuale lega­ ta al caso, ma è altro: due «partiti virtuali» dividono in parti uguali la popolazione. Come il senso musicale, la sensibilità religiosa non è data a tutti (di contro, è presentita da molti, anche se con debole intensità). In uno di questi partiti, la religione, che varia al variare delle epoche, è ima consuetudine ben radicata, o comunque gode di un pregiudizio fa­

vorevole o di un consenso passivo. Per l’altro partito, al contrario, la religione è una cosa indifferente, estranea e talvolta odiata. Questa è un’altra costante: anche nelle epoche dette «di fede», esistono un’indif­ ferenza religiosa e addirittura un’ostilità, spesso silenziose o che s’igno­ rano esse stesse, pur tradendosi nelle sfumature del comportamento.337 Il fatto fondamentale è che il «partito virtuale» favorevole alla reli­ gione, quale che sia la sua intensità, è probabilmente sempre maggiori­ tario. Questo soltanto sembra poter spiegare il considerevole ruolo oc­ cupato dalle religioni in tutte le società. Ai nostri giorni ancora, in Oc­ cidente, la simpatia per la religione resta forte,338 anche laddove la pra­ tica religiosa si fa di giorno in giorno più rara, e dove molte persone non pensano una sola volta alla religione nel corso della giornata o di tutto l’anno. Non dimentico che, in ogni epoca, le persone profonda­ mente pie sono rare quanto i veri melomani, e che nelle epoche dette «di fede» la devozione, nella maggior parte dei casi, è soltanto un mero rispetto della tradizione o una forma banale di senso del dovere.339 Ma anche ai nostri giorni, se si interroga l’indifferenza, essa rivela spesso una simpatia nei confronti della religione, che le ispira rispetto, bene­ volenza, un sentimento affettuoso, una simpatia di principio e al mini­ mo dell’interesse e della curiosità: si corre nella banlieue di Parigi per vedere e ascoltare il papa. Ci si dichiara personalmente senza religione, ma si evita di dichiararsi non credenti, e di tenere un linguaggio più ca­ tegorico che ferirebbe qualcosa nella natura umana; se si trattasse di politica, si sarebbe meno riservati. Questa parzialità dipende da una particolarità di cui le religioni non sono le sole a beneficiare: noi non restiamo insensibili a valori (religiosi, culturali, etici...) che ci limitiamo a presentire e a intrave­ dere da lontano. Per citare Bergson, quando questi valori parlano, «c’è, nel profondo dell’animo della maggior parte degli uomini, qual­ cosa che, impercettibilmente, fa loro eco», il sentimento vago, ma specifico, di una realtà «altra». No, non ironizziamo nemmeno sulle visite guidate di turisti incolti nelle pinacoteche: anche se non sono destinati a scoprire tutto in un giorno, avranno presentito qualcosa e questa vaga sensazione non significa soltanto subire l’autorità della «cultura dominante». La religiosità non è universale, non è né un tratto antropologico né Yhabitus di un momento storico-sociale, ma è maggioritaria. Perché bi­ sognerebbe spingersi oltre quell’empirismo che sfugge alle ganasce del­ la tenaglia «individuo o società»? L’esistenza di «partiti virtuali» po­ trebbe dare la chiave interpretativa di effetti sociali non spiegati. Al di là di un sociologismo olistico e al di là di una libertà basata sul caso, la probabilità statistica è una realtà, dicevano Quételet e MerleauPonty.340 Per una disposizione inscritta nella specie, certi tratti indivi-

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duali sono diffusi più largamente di altri (il che non impedisce che il lo­ ro aspetto vari secondo le epoche). Sotto i diversi habitus di un mo­ mento storico-sociale, la diversità individuale e la sua probabilità stati­ stica dividono la collettività in «partiti virtuali», ciascuno dei quali ten­ derebbe volentieri a imporsi sull’intera società.341 Si può credere che, nell’antichità, quanti provavano nel loro cuore un senso di affetto calo­ roso (misto a paura) pensando agli dèi erano più numerosi di coloro che non provavano nulla; in altre epoche, la propensione favorévole si riduce al rispetto per la religione e al sentimento che esiste un non si sa cosa di «altro» e di elevato. Ora, questi sentimenti vaghi ma maggioritari bastano a produrre effetti storici considerevoli quando il «partito» religioso arriva a imporsi a tutta la società, come ha sempre fatto sino a epoche recenti. Quanto alla scelta individuale, il suo motivo è nascosto nell’inaccessibile «scatola nera» di cui parlano gli psicologi. Agostinia­ ni e calvinisti l’hanno constatato a modo loro attraverso la dottrina del­ la predestinazione. La realtà è così costituita da «partiti virtuali», da una propensione in maggioranza favorevole, ma anche di un’intensità generalmente medio­ cre. Mentre una religiosità vaga è maggioritaria, è soltanto presso una minoranza che essa è intensa. Certamente, ci sono santi, credenti fervi­ di, mistici, ammirevoli testi religiosi, ma la religiosità della maggioranza non è spiegabile alla luce di questi picchi di devozione più di quanto la produzione di migliaia di romanzi sia dovuta al gusto per la grande let­ teratura. Anche in una popolazione restata largamente praticante, la maggior parte dei fedeli rispetta i riti per senso del dovere, come dice Scheid,342 non senza un po’ di fastidio, forse. Nondimeno, questa tradi­ zione identitaria può essere radicata nei fedeli tenacemente e inesplica­ bilmente. L’efficacia di un sentimento non è proporzionale all’intensità con cui viene vissuto, come ci farebbe credere un’illusione bovarista. Si può tenere alla propria religione e anche farsi uccidere per essa, senza viverla fortemente;343 i valori traspaiono dalla condotta più di quanto non ardano nei cuori. Tutto sommato, se non si prendono in considerazione i picchi, il ca­ so di un’élite, ma ci si limita ai grandi effetti di massa, una sociologia della religione potrebbe sensatamente supporre due princìpi che han­ no sapori opposti, il conformismo e il presentimento. 1) Ogni gruppo ha le sue usanze tradizionali, che gli conferiscono la sua identità, e la maggior parte dei membri del gruppo le rispettano, praticando la reli­ gione allo stesso titolo delle altre usanze. 2) Non si resta insensibili a valori che tuttavia ci si limita a sentire indistintamente e che non ven­ gono messi seriamente in pratica. E questo basta per trovarsi iscritto in un «partito virtuale» e per rendere maggioritario quello, fra questi par­ titi, che parteggia per la religione. 432

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XIII Nella dottrina stoica, morale e religione sembrano aver avuto, a torto o a ragione, legami particolarmente stretti. Erano tenute insieme da una terza via, diversa dalle precedenti: la morale derivava dall’organizzazio­ ne provvidenziale del cosmo. Gli stoici professavano che la realtà era ordinata, sottomessa a regole, come diceva galantemente Epitteto,344 non bisogna rubare la sposa di altri, perché, in un banchetto ben orga­ nizzato, le parti di cibo sono state distribuite fra i convitati, e non si ru­ ba la porzione del vicino. Il dio supremo aveva organizzato il cosmo e preparato gli uomini a compiere le funzioni che spettavano loro all’in­ terno di quest’ordine. Si aveva interesse a seguire queste regole, non in virtù di un imperativo categorico, ma per eudaimonismo, per la pro­ pria felicità, dal momento che gli stoici definivano «felicità» lo stato di colui che compie tutti i suoi doveri. Uno strambo paragone permetterà di non dilungarci: il cosmo è come una città ben organizzata dove, gra­ zie alla previdenza delle autorità, certe strade sono a senso unico; una regolamentazione che un buon cittadino della città cosmica, della «Città di Zeus», troverà naturale rispettare. Sarà «felice» se compirà, costi quel che costi, i doveri (o officia) che fanno funzionare l’ordine di­ vino. Una simile visione del mondo può far vibrare i numerosi lettori che sono sensibili al calore etico, ma, se non si amano le idee vaghe, ca­ lore etico e calore religioso restano due cose distinte. Sarebbe una disquisizione fine a se stessa decidere se la parola «reli­ gione» debba essere interpretata in un’accezione ristretta o, al contra­ rio, possa designare ogni ardente sentimento per un oggetto non pro­ saico: morale, cultura, poesia, senso della storia... A seconda del signi­ ficato che si vuole attribuire a questa parola, Spinoza risulterà uno spa­ ventoso panteista, naturalista e ateo, un esagerato deista o un mistico monoteista. Con il suo cosmo immutabile e impersonale, Plotino è si­ curamente un mistico,345 ma è un uomo religioso in senso stretto? È re­ ligione credere, con gli stoici, che esista un ordine, al contempo reale e tassativo, e che sia il nostro supremo bene obbedire a esso346 come a un dovere, allinearci a esso come alla ricetta di una certa «felicità», e sotto­ metterci a esso come a una fatalità cui resisteremmo invano? Prendere­ mo qui la parola «religione» in un senso molto stretto, per cercare di distinguere le sfumature che il lettore definirà a suo piacimento. Gli stoici, diremo allora, hanno fervore, rispetto, vita interiore e tut­ to ciò che si vuole, ma questi razionalisti panteisti non hanno il senso della santità, né, del resto, hanno il senso del sacro. I loro dèi sono ele­ menti fisici (fatto che non impedisce loro di essere pensanti): Nettuno è l’Acqua e il grande dio che essi chiamano spesso Zeus, è il Fuoco, il cui pensiero e la cui azione organizzano il cosmo; questo Fuoco Artefi433

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XIV

ce è quasi come il Grande Orologiaio di Voltaire, o, piuttosto, non è al­ tro che l’Anima del mondo e il Bene riuniti. Vi è nello stoicismo, scrive Simmel, un progetto umanamente contraddittorio, quello di incorpo­ rarsi interamente nel piano divino, di fondersi in esso e di ricavare, dal­ la grandezza e dalla bontà di questo piano, un valore che sia per noi un bene personale.347 Questa contraddizione sorregge tutta la sensibilità di Marco Aurelio, che non arriva mai ad abolire il suo «sé», la sua pau­ ra della morte, prendendo in considerazione la sublimità del piano co­ smico. Marco Aurelio vede la legge del mondo e della morte con una rassegnazione generalmente triste, ed eccezionalmente lirica.348 Insomma, sia nella religione stoica che nel panteismo manca quel faccia a faccia con la divinità di cui l’uomo ha bisogno per realizzare la sua religiosità.349 Con questo dio non si hanno rapporti personali, non gli si domandano favori, non si dialoga con lui. Il mondo degli stoici è incolore, persino i loro dèi non hanno sede nel cielo azzurro. La loro dottrina tradisce piuttosto una sensibilità rivolta al sublime, quello del cosmo e il loro. L'Inno a Zeus di Cleante350 è un’allegoria filosofica en­ tusiasta che imita gli inni dei santuari; vi si percepisce un vibrato, ma è quello dell’ebbrezza intellettuale che conosce la verità del Tutto, l’eb­ brezza di partecipare a questo grande Tutto lasciandosi trasportare da lui, subendo tutto da lui e per lui, per l’amore rassegnato del Tutto, della sua necessità e del suo bene. A differenza dell’Uno o del Bene così lontano di Plotino, l’azione del dio stoico è direttamente visibile nell’organizzazione delle cose e nello svolgimento degli avvenimenti. Quest’Anima del mondo che però non ne porta il nome non suscita senso del sacro, ma induce un altro sentimento, quello di partecipare a una potenza, d’essere portati da essa, pur collaborando con lei, e di venirne legittimati, di essere «nel senso» del cosmo (ma facciamo qui attenzione a non cadere in un equivoco).351 Questo esalta la volontà e, talvolta, il volgersi di quest’ultima in un entusiasmo autosacrifìcale, «cristologico». Il cosmo, lo sappiamo, si distrugge periodicamente con tutto quello che ha in sé, prima che il Fuoco Artefice lo faccia rina­ scere identico a se stesso, e Seneca pensava spesso a questo: «Di vita è avi­ do chi non voglia, morendo il mondo con lui, morire».352 Né Seneca né Epitteto vivono lo zelo della loro setta come una for­ ma di devozione. La critica filosofica ha ucciso la religione stessa, che è morta ovunque nella classe colta, eccetto che fra gli ultimi pagani, que­ sti volontari che credevano di poterla salvare estremizzandola, come Libanio, o approfondendola, come Proclo. La preoccupazione dell’eti­ ca è stata non meno distruttiva:353 se da una religione ci aspettiamo che serva a rendere migliore l’uomo o il cittadino, la svuotiamo di significa­ to, ne perdiamo l’essenza; e questo è quel che faceva Crizia, o Orazio nell’ode a Fidile,354 o ancora quel che avrebbe fatto Voltaire.

Il lettore si chiede forse perché non ho parlato, a proposito della mora­ le religiosa, di ricompense e castighi nell’aldilà, di scellerati tormentati negli inferi, delle credenze relative all’oltretomba. È perché queste cre­ denze erano esterne alla religione propriamente detta: il paganesimo non è una religione di salvezza che ingloba la vita e la morte in una stes­ sa sintesi. Non necessariamente ogni religione si occupa della morte e dell’aldilà. Il culto degli dèi e il culto dei morti sono due cose distinte; le mettiamo insieme soltanto perché l’uno e l’altro sono «credenze», ma non hanno le stesse radici. L’elemento più originale dell’aggregato costituito dalla religione è il senso del divino, di quel che è «santo», mentre la radice dei culti e delle credenze funerarie è una sensibilità nei confronti dei cadaveri, come si vedrà. Certamente, esistevano dottrine sull’aldilà che erano il grande inse­ gnamento e la grande speranza delle iniziazioni, i misteri e, al riguardo, bisogna spendere una parola per fare alcuni distinguo.355 Le iniziazioni erano la più grandiosa esperienza mistica che si potesse vivere e la mi­ sura di ogni altra.356 I miti orfici o le iniziazioni dionisiache alle quali aveva accesso una minoranza di ricchi uomini colti promettevano i fa­ vori degli dèi nell’aldilà e una sorte più invidiabile della mezza-vita sen­ za luce e inerte del morto comune. In particolare i miti orfici insegna­ vano il cammino da seguire nell’aldilà e ne fornivano la parola d’ordi­ ne. Questo paradiso sotterraneo, però, non comportava un’eternità da trascorrere negli inferi. L’iniziato, dopo la sua morte, accedeva a un’im­ mortalità felice nella casa degli dèi diventati suoi familiari, una volta scontata la pena prevista per gli atti ingiusti che aveva commesso. Nella peggiore delle ipotesi, sarebbe passato attraverso una specie di purga­ torio, ma non poteva essere condannato per l’eternità: una volta purifi­ cato, avrebbe raggiunto il mondo dei beati. Il grande dilemma tragico cristiano della salvezza o della dannazione eterna non si poneva. I misteri non erano una religione di salvezza, come si diceva in altri tempi, e ancora meno una rivelazione di alta spiritualità, ma una mas­ soneria dell’aldilà, e niente di più; garantivano ai loro iniziati non la sal­ vezza, ma una vita privilegiata nell’oltretomba, materialmente più feb­ ee di quella degli altri,357 grazie alla protezione del dio di cui si era l’ini­ ziato. Certi cristiani (tra cui l’imperatore Costantino in persona) pro­ crastinavano spesso il battesimo fino a quando non fossero stati in pun­ to di morte: assimilavano il battesimo a un’iniziazione, che confonde­ vano con la salvezza. Come l’iniziato, il battezzato riteneva di essere na­ to a una nuova vita, «rinato», renatus, e pensava che il passato non con­ tasse più. Questa rinascita era costosa, bisognava pagare l’iniziazione. Quanto all’immaginazione popolare, non aveva alcun romanzo me­

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tafisico da svolgere. Aveva a disposizione le sue sole risorse per pensare a quella cosa inconoscibile di cui non si sa che cosa pensare. Essa si raf­ figurava il luogo di soggiorno dei morti come un posto triste e privo di luce, dove la vita era rallentata e tetra. Questi sono gli inferi omerici o lo sheol dell’Antico Testamento. I defunti sottoterra continuavano a of­ frire l’immagine di sé che avevano offerto agli occhi dei loro simili, ma ogni sostanza corporea era sparita da quest’immagine puramente vi­ suale: se si fosse abbracciato un morto, le braccia si sarebbero richiuse sul vuoto. L’immaginazione per avvicinarsi all’immobilità del cadavere proiettava la vita al rallentatore. Di certo, la fede in ima sopravvivenza così poco consolante non aiutava a nascondersi la realtà e non aveva nulla dell’«oppio dei popoli». Per stupirsene, bisognerebbe postulare che le credenze religiose o funerarie siano un’illusione utile, che abbia­ no un ruolo esistenziale, addirittura darwiniano, quello di spiegare l’e­ nigma metafisico del mondo o quello di rassicurare gli uomini sul futu­ ro e sulla morte. In realtà, tali credenze potrebbero essere soltanto un’inclinazione nativa, inutile e disinteressata dell’immaginazione di molti individui. È nel dubbio se le credenze nell’immortalità dell’anima siano abbastanza solide per fungere da scudo contro la paura della tomba e per rispondere a un desiderio d’immortalità più spesso proiet­ tato nel senso del dovere, nella devozione, nei progetti o nei propri fi­ gli. Per prendere in esame un caso estremo, ogni tipo di martire si vota alla morte per rendersi eterno, e non perché ha una fede ferrea nell’im­ mortalità della loro anima. Tuttavia, a fianco delle speranze coltivate da un pugno di iniziati e di seguaci di una setta, e della credenza generale in una vita di tono mino­ re sottoterra, correvano anche, a partire dal V secolo avanti Cristo, o da sempre, racconti relativi ai supplizi che aspettavano i criminali negli inferi, alle vendette messe in atto dagli dèi o ai castighi degli empi.358 Queste credenze servivano soprattutto a soddisfare il risentimento con­ tro i malvagi, a vendicare la coscienza pubblica, a poter dire: «Egli esalò l’anima, meditando sul suo peccato di fallacia e d’ingratitudine, come se un carnefice gli tormentasse la coscienza, perché capiva bene che il suo trapasso dalla vita alla morte era inviso agli dèi superi e sa­ rebbe stato detestato dagli inferi».359 Si trattava comunque di credenze senza consistenza cui non si pre­ stava fede se non a metà. L’idea più diffusa o almeno più diffusa delle convinzioni relative a un aldilà dionisiaco o di altro genere, diceva che la morte era un sonno eterno, ovvero una mezza vita.360 Sarebbe artifi­ cioso esporre troppo didatticamente le credenze antiche sull’aldilà: era­ no incerte, e su di esse prevaleva spesso l’evidenza dello sconosciuto. Giovenale non manca di stigmatizzare un’incredulità che crede recen­ te.361 Plutarco ritiene fermamente che questa fede sia utile per trattene­

re i malvagi lungo la china del male, ma pretende, disdegnosamente, che «queste paure sono quelle di un piccolo numero di uomini; sono discorsi di comari e di nutrici, sono favole e racconti»,362 favole inde­ gne di occupare gli intellettuali della Seconda sofistica363 e i filosofi.364 Fabulae Manes in Orazio sono quelle anime di morti di cui si parla sen­ za sapere su di esse nulla di certo. Sull’aldilà, esisteva in linea di massi­ ma un abisso tra la superstizione popolare, che credeva alla sopravvi­ venza «al rallentatore» dei defunti, e lo scetticismo delle classi colte; Cesare, grande pontefice, poteva, senza empietà né scandalo, afferma­ re, nel bel mezzo del Senato, che non c’era nulla dopo la morte.365 Lun­ gi dall’essere testimonianza di uno spiritualismo elevato, la credenza in una sopravvivenza passava spesso per essere soltanto un’ingenuità.366 Era una questione di dignità sociale: i membri della classe elevata ave­ vano il dovere di essere superiori anche in lucidità. In effetti, come poter credere seriamente, tranquillamente, a un al­ dilà di cui non si può sapere nulla? Crederci come a una diceria vaga o a una fede di cui si fa professione? Queste credenze fanno parte di quel che J.-C. Passeron367 chiama i moods, le cose di cui non si sa bene che cosa pensare, sulle quali si vacilla a seconda dell’umore, l’interlocutore 0 le circostanze. Vacillano così, meno credule di quanto non lo si direb­ be, le attuali credenze popolari sugli extraterrestri o sugli oroscopi che si leggono sui giornali, e le credenze di un tempo sull’aldilà. Tra i lette­ rati, vacillavano ancora di più. Lo storico vorrebbe sperare che, di contro, i riti funerari, gli onori che venivano resi ai defunti, gli possano dare una documentazione sulle credenze oltremondane più affidabile delle testimonianze verbali. Molti popoli depongono cibo sulle tombe. Non è forse la prova che essi cre­ dono nella continuazione della vita dei defunti sottoterra? Ahimè, ri­ sponderebbe uno spirito emulo di Voltaire e un poco brusco, gli atti provano ancora meno delle parole. Quando noi stessi mettiamo fiori su una tomba o quando gli antichi vi ponevano del cibo, non pensiamo davvero che i morti verranno a respirarne il profumo o si godranno le pietanze.368 In virtù del principio di realtà, non si nutrono i morti con la stessa convinzione con cui si dà da mangiare a un vivo affamato; per la stessa ragione, li si nutriva una sola volta all’anno, nella ricorrenza ritua­ le. Infatti, quel che diciamo e facciamo nelle nostre relazioni con il so­ prannaturale si muove su un piano diverso rispetto a quello di gesti e parole apparentemente identici che si rapportano al mondo empirico.369 1 riti funerari, concluderebbe il nostro emulo di Voltaire, sono soltanto gesti consolatori, modi di onorare il defunto o metafore della devozione ispirata dal suo ricordo; li si pratica credendoci soltanto a metà. Sfortunatamente per questo intellettualismo, la sua bella coerenza urta, come contro un muro, contro fatti massicciamente attestati e che

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non hanno nulla di metaforico, per esempio, con il culto delle reliquie a partire dalla fine dell’antichità cristiana (il minimo contatto con i cor­ pi santi guariva le malattie e la loro presenza proteggeva le città). Si so­ no avute quasi sempre reazioni «irrazionali» di fronte ai corpi dei de­ funti e queste reazioni non erano dovute a una fede, a una dottrina sul­ l’aldilà: al contrario, la dottrina era ricavata da queste reazioni, di cui essa era solo una razionalizzazione; ecco perché si credeva a questa dot­ trina soltanto a metà, secondo i moods. Questa antica razionalizzazione era esattamente il contrario di quella operata dagli storici attuali: «La presenza del morto» si diceva «ci incita invincibilmente a nutrirlo e a onorarlo, e pertanto il morto vive sotto terra»; lo storico moderno inve­ ce dirà: «Gli antichi credevano che il morto vivesse sotto terra, pertanto lo nutrivano». La prima reazione, di contro, non aveva niente di una razionalizzazione. Ancora ai nostri giorni, molti di noi percepiscono ima presenza fisica del morto, almeno a uno stato larvale; alcuni vanno a «fare visita» (come si dice) ai loro defunti al cimitero perché, senza credere alla sopravvivenza del morto sotto terra né, forse, in cielo, non vogliono abbandonarlo, lasciarlo solo, trascurarlo; provano emozione davanti alla tomba dove, senza crederci, la loro sensibilità avverte, non­ dimeno, una presenza; al contrario, ad altre persone, la cui pena non è minore, la vista della tomba procura soltanto l’amara delusione di una fredda assenza priva di senso. Anche nell’antichità le reazioni indivi­ duali erano verosimilmente ineguali. Allora, dove stava la verità? Era nelle credenze, seppur vacillanti, o in una reazione della sensibilità preconcettuale, anteriore alla verbalizzazione logica370 e senza «fede»? Il filosofo Wittgenstein ha risolto quest’aporia:371 non si trattava, diceva, dell’applicazione di credenze sul­ l’aldilà e del fatto di nutrire i morti, e, a maggior ragione, non si tratta­ va nemmeno di gesti simbolici, destinati semplicemente a onorare i de­ funti, ma di una terza possibilità: comportamenti non sostenuti da cre­ denze. Esistono infatti condotte tali da bastare a se stesse, e che non presuppongono credenze di cui sono la messa in atto e in cui trovano spiegazione; questi comportamenti si situano infatti a un livello di sen­ sibilità predottrinale. Certi oggetti, gli dèi, il soprannaturale, il sangue versato, un cadavere, non sono cose come le altre; inducono, invece, condotte suscitate dall’oggetto stesso e non da una credenza relativa a esso. Noi ci comportiamo come se qualcosa in noi non potesse impe­ dirci di sentire che il cadavere ha sempre una vita immobile e una sen­ sibilità. Tuttavia, queste condotte, lo si è visto, differiscono un po’ dalle con­ dotte apparentemente analoghe che si riferiscono al mondo empirico: esse sono legate a gesti «simbolici». In seguito, capiterà spesso che una dottrina, un razionalismo vengano a esplicitare quel che esse sembrano

implicare, e cioè il fatto che il morto sia, in qualche modo, vivo, tanto che ai comportamenti verranno a sovrapporsi delle «credenze». Prima viene la sensibilità e soltanto in un secondo tempo la credenza intervie­ ne a razionalizzare la prima. Ne consegue che si può raramente spiega­ re un mutamento della tradizione funeraria con un cambiamento nella dottrina sull’aldilà, di cui la tradizione sarebbe l’applicazione.372 Tuttavia, non voglio misconoscere la capacità umana di credere in­ tensamente, e non pretendo che tutto si riduca a razionalizzazioni e moods·. cerco, al contrario, di distinguere tra queste condotte, proprie di una sensibilità primaria, che possono eventualmente venir raziona­ lizzate in credenze, e credenze primarie che determinano condotte di cui sono la vera spiegazione.373 La sensibilità è primaria quando uno dei nostri contemporanei pone nel feretro di uno dei suoi cari il libro o il disco preferito del defunto pur non credendo che il morto lo leggerà o lo ascolterà; così facendo infatti risponde a una sua sensibilità e non a una credenza che non ha374 (e, se l’avesse, questa credenza si situereb­ be a un livello intellettuale e varierebbe allora secondo i moods). L’e­ mulo di Voltaire che avevamo ipotizzato si ingannava: quest’offerta fu­ neraria non è un onore reso al defunto né una consolazione che chi è rimasto vivo dà a se stesso: è veramente al defunto che vuole fare piace­ re, ma la sua sensibilità ci «crede» soltanto implicitamente, in gesti che sono soltanto «schizzi» simbolici. Per uno storico, lo zoccolo duro del culto dei morti non si trova per­ tanto in questa o in quella convinzione sull’aldilà, ma in tale sensibilità primaria che si rivela nelle azioni che compiamo più che in quel che di­ ciamo;375 una sensibilità che è mutata nel corso dei secoli e che oggi è meno viva e meno diffusa che in altri tempi, mentre essa era imperiosa nell’antichità, almeno in molte persone. Ne risultava che, malgrado l’in­ cognita rappresentata dall’aldilà, l’incredulità era meno diffusa della fede, e questa fede, benché vacillasse secondo i moods, faceva temere i castighi infernali, anche fra gli uomini di cultura. Vi erano tra di loro dei superstiziosi, «dei paurosi tratti in inganno dalla favola sulla so­ pravvivenza dei morti».376 Plutarco racconta tre leggende diverse sull’aldilà e sul giudizio delle anime, pie fantasie che nutrivano la curiosità dei contemporanei, ma anche le loro inquietudini. Da Democrito377 a Lucrezio, a Seneca378 e Luciano, gli increduli lavoravano per rassicurare i loro lettori, per ne­ gare quelle favole terrificanti o parodiarle, e ciò lascia pensare che capi­ tasse ai loro lettori di sentirsene scossi. Ci sembra stupefacente che rac­ conti puerili abbiano potuto trovare credito presso degli uomini di let­ tere, ma l’antichità ammetteva che certi individui o certe sette detenes­ sero come privilegio un sapere misterico che poteva venir acquisito sol­ tanto dalla loro bocca; così, si prestava orecchio a tutto quel che si mor­

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morava su questi saperi, a tutti i «si dice». Quel che, ai nostri giorni, è superstizione di sette un po’ balzane, allora aveva la sua dignità intellet­ tuale. Nondimeno, ci si chiede dubbiosamente se queste paure siano state sufficienti a terrorizzare gli istinti malvagi e impedire molti adulteri o furti.379 Credenze e pulsioni sono due cose distinte:380 le pulsioni vivo­ no nel presente, «il paradiso, il più tardi possibile», l’inferno anche un po’ più tardi, come il cancro del fumatore. Quando una religione incul­ ca valori o divieti, lo fa attraverso la prassi della sua predicazione, della sua autorità, della sua insistenza, quella di Fenice e di Priamo nei con­ fronti di Achille, quella delle omelie cristiane o dei sermoni buddisti, cioè attraverso un condizionamento che agisca sotto il livello della co­ scienza, e non attraverso il contenuto e l’argomentazione di questa pre­ dicazione: i miti e i ragionamenti ai quali essa fa credere hanno scarsa forza contro i desideri e contro la paura della morte. Ogni uomo di lettere poteva esitare tra lo scetticismo dell’alta so­ cietà e l’esoterismo dell’alta cultura. All’inizio della Repubblica, Cefalo, vegliardo pieno di dignità, dichiara questo: «Quando uno è vicino a credere di essere alla fine sopravvengono in lui timore e preoccupazio­ ne di cose a cui prima non pensava; perché le cose che si raccontano sull’Ade , cioè che chi ha commesso ingiustizia deve là pagarne il fio, fi­ no ad allora derise, ecco che a questo punto volgono la sua anima al so­ spetto che forse sono vere».381 Ammettiamo tuttavia che le paure agghiaccianti relative agli inferi siano soltanto vane fole; pensiamo anche che le relazioni degli dèi con gli uomini siano soltanto di circostanza, come per esempio la relazione tra creditore e debitore. Come un pagano dallo spirito solido potreb­ be quindi avere quel che il cristiano chiamerà una «buona morte»? È ancora il vecchio Cefalo che ce lo fa sapere: alla sua morte, non biso­ gna lasciare debiti né con gli uomini né con gli dèi; «deve assolvere ai sacrifici dovuti alla divinità e pagare i suoi debiti con gli uomini, non deve partirsene per andare di là pieno di paure».382 Così fece Socrate dopo avere bevuto la cicuta: «Noi dobbiamo un gallo ad Asclepio; da­ teglielo, e cercate di non dimenticarvene».383 Così farà anche un con­ temporaneo dei triumviri romani, il padre dello storico Nicola di Da­ masco: «Morendo, non diede a suo figlio e a suo fratello altro incarico che di far fabbricare, dopo la sua morte, il bruciaprofumi che aveva precedentemente promesso a Zeus, volendo significare, con questo, che bisogna essere pii verso gli dèi anche quando si muore e quando non resta più da vivere».384 Bisogna dunque conservare una pia onestà nei confronti dei propri divini creditori, anche quando non ci si può più aspettare da loro nulla, né di favorevole né di sfavorevole (queste righe implicano il fatto che, agli occhi del padre di Nicola, non esistes­

se un aldilà dove gli dèi avrebbero potuto castigare il loro debitore in­ solvente). Il diritto romano ha la stessa onestà: si occupa solo eccezio­ nalmente delle relazioni tra gli uomini e gli dèi, per stabilire la norma secondo la quale l’erede è tenuto a eseguire un voto contratto dal de­ funto.385 Secondo la «buona morte» pagana, questa morte senza preghiere, si paga il dovuto agli dèi e agli uomini prima di congedarsi per l’eternità dagli dèi come dai mortali; in effetti, chiunque esca dal mondo si sepa­ ra dagli dèi: uomini e dèi hanno esistenza e interessi distinti. Fatta ecce­ zione per i pochi iniziati, l’aldilà aveva poco a che vedere con la religio­ ne. Di più, i moods sugli inferi erano abbastanza incerti perché gli epi­ taffi facessero raramente affidamento su quelle mezze convinzioni; an­ che i defunti che vi si dichiarano espressamente devoti di Dioniso o sa­ cerdoti del dio non parlano386 di una sorte migliore che li avrebbe aspettati nell’aldilà. Ecco l’epitaffio di un sacerdote romano del dio orientale Sabazio che ha stupito e scandalizzato gli eruditi cristiani: «Mangia, bevi, divertiti e vieni a me. Finché vivrai, prenditi i tuoi piaceri, li porterai con te. Qui giace Vincentius, sacerdote del dio Sabazio, che con cuore puro ha cele­ brato le sante cerimonie divine».387 Un iniziato che banchetterà negli in­ feri grazie al suo dio non ha intenzione di fare a meno di banchettare in questo mondo. Nulla di più banale, sulle tombe di comuni defunti, del consiglio, dato ai passanti, di approfittare dei piaceri di questa vita;388 ma non dobbiamo sospettare per così poco che il culto di Sabazio abbia comportato delle orge. Manteniamoci, piuttosto, ugualmente sicuri del fatto che, se Vincentius ha fatto valere il suo diritto di innalzare la sua statua nel santuario del suo dio, l’artista gli avrà dato l’espressione com­ presa di cui parlavamo prima. Abbiamo tenuto a concludere con questo testo che ci mostra non una delle vette religiose dell’umanità, ma la vasta piana in cui si trovava il greco o il romano medio e dove si accalcano, in ogni epoca, persone mediocri, ovvero la maggior parte degli uomini, sia­ no pure credenti. Torniamo alla nostra domanda iniziale e concludiamo. Perché reli­ gione e morale sarebbero legate? L’adorazione degli esseri santi (se non sempre esemplari) è una cosa, l’esistenza di imperativi e di divieti è un’altra. Una religione di salvezza assorbe la morale; il paganesimo, da parte sua, ha spesso chiamato gli dèi in soccorso di una morale che esi­ steva di per se stessa. L’ha fatto attraverso tre vie. Una relazione si è sta­ bilita subito tramite l’antropomorfismo, messo al servizio della pressio­ ne morale esercitata da una collettività sui suoi membri; tuttavia, i rap­ porti fra gli individui e gli dèi restavano, il più delle volte, una loro que­ stione personale e la città esitava a intromettersi. Poi, con la paideia (che, mi sembra, sia stata una riforma religiosa più che un movimento

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alla Voltaire), la relazione è scaturita dall’interiorizzazione di tutti gli imperativi nell’unità di una personalità completa, dal momento che la devozione religiosa era diventata l’esercizio di una delle virtù. Con la metafisica, religione e morale sono state unificate nella visione normati­ va di un cosmo conforme ai nostri auspici, e quindi provvidenziale; ma, in mancanza di un dio personale, questo provvidenzialismo rischiava di essere soltanto un freddo deismo moralizzatore. 11 paganesimo è servito alla morale soltanto come argomento, come abbellimento o fondamento. Non è mai arrivato sino a ossessionare la coscienza di un colpevole, non buttava sul piatto della bilancia la paura della dannazione. Certamente, bisognava entrare in un santuario sol­ tanto con mani e cuore puri e dopo un periodo di castità: ma questa non era l’occupazione di tutta una vita, non si potrebbe trovare nell’an­ tichità l’equivalente del re Luigi XV che oscillò senza posa tra costumi libertini e ritorni a una devozione impastata dai rimorsi e dalla paura di essere dannato. Quando la paura degli dèi dava a un pagano paure e ri­ morsi, si trattava della paura di un’incombente sventura mandata da un dio per un sacrificio trascurato, per un rito trasgredito, per un voto non adempiuto, e non per un peccato che si fosse commesso. Agli occhi della massa, la devozione religiosa consisteva soprattutto nel rendere agli dèi, per prudenza e per affetto nei loro confronti, gli onori rituali a essi dovuti. Ora, i riti agiscono, non parlano (il che fa la loro forza), e un pensatore cristiano, Lattanzio, potrà scrivere che «il culto degli dèi non comporta saggezza, perché non vi si impara nulla che faccia pro­ gredire in morale e in conformazione della condotta».389

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I miei ringraziamenti vanno a Jean-Pierre Cèbe, Frangoise Frontisi, Lucien Jerphagon, Frangois Lissarrague, Frangoise Mareschal, Claudia Moatti, Jean-Claude Passeron; sorella Marguerite Peyras MDC, Didier Pralon, John Scheid, Joél Thomas, André Vauchez presso l’École Frangaise de Rome, Stéphanè Verger e i miei stu­ denti in questa scuola. Errors are mine. Le due fonti della morale e della religione. G . Simmel, Einleitung in die Moralwissenschaft, Berlin 1892 (Aalen 1983), I, p. 451. M. Nilsson, Geschichte der griechischen Religion, cit., I, pp. 313 e 315. Id., «D ie Griechengótter und die Gerechtigkeit», in Opscula selecta, Lund 1960, III, pp. 303-321. John Scheid nella sua Lezione inaugurale al Collège de France (2002), pp. 24-25: «Se le condotte religiose sono universali, la loro varietà è infinita, e la storia consiste in questa infinita varietà, non nella vaga universalità dei comporta­ menti [..·]· Quando pratica la sua religione, il romano non si preoccupa né della sopravvivenza né della salute della sua anima». Vasto argomento che si evocherà con qualche allusione. L’antico Canto dei fratelli Arvali è un peana di tipo greco (E. Norden, Aus altrdmischen Priesterbuchern Lund 1939), la parola triumphus è il greco thriambos, il verbo ovo è il greco euoi, il nostro «évohé». Cinque-sei secoli prima dell’era cristiana, i templi di Roma erano adorni 442

Culto, devozione e morale nel paganesimo greco-romano di statue di Atena, con l’elmo in testa e il sorriso sul viso, che presentava Eracle al­ l’assemblea degli dèi (Sant’Omobono) o di amazzoni ferite (Esquilino). Nel IV se­ colo, si ponevano nelle tombe, alla maniera greca, delle statuette di terracotta che rappresentavano delle Afroditi o degli Eros (Via Salaria, secondo l’Enciclopedia dell’arte antica, Supplemento, 1970, p. 665). L a facciata del sepolcro degli Scipioni dopo il 200 è greca (H. Lauter, Die Architektur des Hellenismus, Darmstadt 1986, p. 131). Lo «spirito romano» non era refrattario alla mitologia: le città etnische e Roma hanno iniziato presto a impregnarsi di miti greci, che iniziavano ima carriera internazionale. «G li dèi romani sono dovunque travestiti da divinità greche, e, nel corso di secoli, i romani hanno visualizzato i loro dèi unicamente attraverso questo travestimento greco» (A. Grabar). Tuttavia « l’ellenizzazione tocca le forme plasti­ che, ma non i culti nella loro essenza» (C. Rolley); la penetrazione della mitologia nel culto stesso e nei riti è stata molto più difficile. I romani non amavano le genea­ logie divine, le parentele fra divinità: l’associazione del dio greco (ed etrusco) Apol­ lo con sua madre Latona, a partire dal 432 avanti Cristo, è un’eccezione; Apollo sarà associato, sul modello greco, a sua sorella Diana soltanto molto più tardi (G. Radke, Zur Entwicklung der Gottesvorstellung in Rom, Darmstad 1987, pp. 34-35, cfr. 67,179,218). Ma, d’altra parte, 1apaideia ha trasformato profondamente la re­ ligione greca, almeno nella classe colta; ora, siccome i letterati romani avevano adottato la cultura dei letterati greci, la loro concezione degli dèi era la stessa. 5. Nella Teogonia di Esiodo, dèi e uomini sono nati da Gaia, la Terra. Filodemo, De dis, III, col. G., 5 ,2 5 , Sesto Empirico, Contro iprofessori, 9,139. 6. Cicerone, De officiis, II, 3,11, Galeno, Protrettico, 9 {Galeni opera I, p. 21, Kuhn). 7. H. Lloyd-Jones, Thejustice ofZeus, Berkeley 1971, p. 161. 8. Plinio il Giovane, Lettere, VI, 20. 9. Cfr. Inviter les dieux, sacrifier, banqueter, «Annales H SS», 2000, p. 4 (Artemidoro di Daldi) e p. 41 (Orazio). In latino, ciò si dice invitare deum o cena deorum. 10. H. Bergson, Le due fonti della morale e della religione·, O. Leroy, La Raison Primiti­ ve: essai de réfutation de la théorie du prélogisme, Paris 1927, in particolare pp. 242-266. 11. Esiodo, Teogonia, 901-902; ritorneremo più avanti su questi versi, 12. J. Scheid, Religion et Piété à Rome, Paris 2001, p. 74. 13. G. Wissowa, Religion undKultus der Rómer, cit., p. 390 e η. 1. Cfr. Plauto, Mostellaria, 524: «Pax est mihi cum mortuis». 14. J. Scheid in «Gnomon», 2003, p. 708, che aggiunge: «N on esisteva nel mondo ro­ mano né una religione né una autorità religiosa centrale, ma una molteplicità di au­ torità, di prescrizioni e di concezioni che formava un insieme globale, ma non era controllata da una stessa autorità». 15. Eccetto che (falsa eccezione che conferma la regola) quando un santuario o la sua immagine di culto è data come se fosse la «succursale» (aphidryma) di un grande e rinomato santuario, o quando la legge sacra fatta valere da un santuario è la stessa di quella di un santuario celebre. Ripenso a ima strada di Harlem, a New York, do­ ve si allineano dei negozi di «venditori» di culti, con ciascuno che espone la sua dottrina nella sua vetrina. 16. Valerio Massimo, I, 8, Rom., 2; Tucidide, Π, 47,4, 17. Esempi di queste punizioni in L. Robert, Nouvelles Inscriptions de Sardes, Paris 1964,1, p. 30. Cfr. anche, nella stessa opera, le formulazioni scritte dei voti esaudi­ ti e di cui ci si è sdebitati, p. 30 e n. 4; p. 35, n. 4; p. 39, n. 5; p. 54, η. 1; queste for­ mulazioni (kat’euchen o euxamenos) sono l’equivalente della formula latina votum solvit libens merito. Cfr. F.T. Van Straten, «G ifts for thè G ods», in H.S. Versnel 443

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(ed.), Faith, Hope and Worship, cit., p. 65; J. Scheid, Les aléas de la voti sponsio, «Scienze dell’antichità», 3-4,1989-1990 (Atti del convegno internazionale «Anathema»), p. 773. Non ci sono differenze tra la Grecia e Roma in materia di voti; vale dappertutto lo stesso principio: «Ti offro un dono, o dio, poiché tu lo hai fatto a me». Si veda per esempio il voto di Diomede in Iliade X , 291; o quello di Ulisse in Odissea X III, 356; il voto di Eteocle nei Sette contro Tebe, 271. Verso il 350 avanti Cristo, a Farsalo, un certo Trochilos scioglie un voto che aveva fatto per diventare arconte («Revue des études anciennes», 1964, p. 307); allo stesso modo una formu­ la latina recita «quod miles voverat, veteranus solvit» («Latomus», 23,1964, p. 34). Per sollecitare un dio si scriveva il suo nome su ima tavoletta che veniva posta sul­ le sue ginocchia (Giovenale, X , 55; Prudenzio, Apoteosi, 457). Si può fare un’offer­ ta «preventiva»; si può offrire loro un sacrificio per avere un figlio (Diogene Laer­ zio, VI, 64). Si arriva anche a far loro delle offerte per amore o per garantirsi il loro favore, indipendentemente da ogni voto, in un’azione di grazia. In età imperiale, un viaggiatore, trovandosi in Attica, nel porto di Halai, di cui è celebre il santuario di Artemide (Euripide, Ifigenia in Tauride, 752), vede in sogno (ex viso) la dea che gli chiede di indirizzarle un voto; arrivato in porto a Enona, in Dalmazia, si sdebita di questo voto a Diana (CIL, III, 2970). Sui voti dei viaggiato­ ri, una lista è in Poikila: études offertes à Jean-Pierre Vernant, Paris 1987, p. 391, nn. 9 e 1 0 .1 marinai incidevano i loro ringraziamenti agli dèi su una roccia (per esempio, Inscriptiones Graecae, X II, 5,871). Su numerosi ex voto la cui formula è «servus vovit, liber solvit». Cfr. «Latom us» 23,1964, p. 32. In Orazio, un liberto vota la sua catena di quando era schiavo ai Lari (Satire 1,5, 65). In Marziale (III, 29), a Saturno, il cui tempio custodiva i regi­ stri dello stato civile. A. Beschaouch, in Comptes rendus de l'Académie des Inscriptions, Paris 1975, p. 112: «Pro comperta fide et prò servata salute». Epitteto, Diatribe, 1 , 19,24. R. MacMullen, Christianizing thè Roman Empire, cit., p. 13. Cfr. il mio La société romaine, cit., p. 290. Ma questa buona fede esiste? «S i qua est caelo pietas. ..» (Eneide, II, 536 e V, 688). Altri riferimenti in Frangoise Dunand in G. Dorivai e D. Pralon (dir.), Nier les dieux, nierDieu, Aix-en-Provence 2002, pp. 74-75. Euripide, Elettra, 200. Id., Eracle, 1307; Plauto, Poenulus, 449-452. Svetonio, Caligola, V; G . Wissowa, Darstellungen aus des Sittengeschichte Roms, Leipzig 1920, III, pp. 196-197; cfr. il mio La société romaine, cit., pp. 282-288; ag­ giungiamo a questo Dione di Prusa, X X XV III, 20; Epitteto, II, 2 2 ,1 7 e III, 4, 8; Libanio, disc. X X , 12 e X X X III, 33 (i kata ton theon remata, sono «il vociferare contro gli dèi»). Agli esempi di rimproveri indirizzati anche al Dio dei cristiani (p. 284, n. 10), si aggiunga Salviano, De gubernatione Dei, IV, 11 (J.-P. Migne, Patro­ logia Latina LU I, col. 83): i bestemmiatori tacciano Dio di negligenza, di distra­ zione, d’indifferenza, di mancanza di pietà, e gli rimproverano di non governare il mondo. Ammiano Marcellino, XXIV, 6, conclusione. Ci si può stupire che un neoplatonico devoto come Giuliano abbia intrattenuto con un dio un rapporto polemico, come un pagano dei tempi antichi. Forse questo era una conseguenza della lettura di Porfirio, che distingue più classi di divinità, di cui alcune sono soggette a lasciarsi trascinare dai loro capricci (Sant’Agostino, La Città di Dio, X , 9, conclusione)? Nella sua Lettera ad Anebo, quarta aporia, Porfirio si chiede se gli dèi sono em444

Culto, devozione e morale nel paganesimo greco-romano patheis, «capaci di passioni», cioè suscettibili di essere colpiti da qualcosa (cfr. Let­ tera ad Anebo, a cura di Giuseppe Faggin, Sansoni, Firenze 1954, p. 40). 28. P Oxy., VII, 1065, in L. Mitteis e U. Wilcken, Grundzuge und Chrestomathie der Papyruskunde, cit., 1 ,2, p. 149, n. 120 (III secolo della nostra era). 29. Euripide, Elena, 1140. 30. Id., Ippolito, 1327; Baccanti, 1348; Andromaca, 1164. 31. Id., Eracle, 212,347. 32. Id., Ione, 252 («tolmemata theon»); Elena, 1105 (la dea non è metria). 33. Ibid., 711 e 1137; Ifigenia in Tauride, 476. 34. Epitteto, Diatribe, III, 4, 8: i contadini e i marinai non cessano di maledire Zeus e Cesare; Manuale, X X X I, 4; Euripide, Ippolito, 1146 («devo ammonire Febo: che gli prende?»); 877-878; Elettra, 1246. 35. «Thaumazo se, Zeu». 36. Valerio Massimo, IV, 7, Rom., Praef-, 1 , 1, Rom., 15: «Magnus Caelestibus iniectus est rubor». 37. Favola 48 nell’edizione di E. Chambry (Les Belles lettres): L’homme mordu par une fourmi et Hermès. 38. Euripide, Elettra, 1355. Questa credenza spiega Petronio, CXTV, 5: la tempesta è dovuta a Encolpio che ha rubato il velo di una dea e poi, per una sfortunata coin­ cidenza, si è imbarcato su una nave che ha lo stesso nome e che porta l’immagine della medesima dea, la quale ne protegge la navigazione (nei Tristia Ovidio, imbar­ cato sulla Minerva, indirizza a Minerva una supplica di felice traversata). Sul mare, il codardo di Teofrasto (Caratteri, XXV, 2) «se si leva un po’ di maretta, domanda se tra i naviganti vi sia qualcuno non iniziato» (ed. it. Caratteri, trad. di L. Torraca, Garzanti, Milano 1994, p. 69). Cfr. la replica di Orazio, Odi III, 2,25-29. 39. Si tratta dello Zeus schernito nel canto X IV dell 'Iliade, o il concilio degli dèi sul fregio del Tesoro dei Sifni a Delfi: Atena, giovane e forte (si riconosce la virago del canto X X I dell’Iliade) si volta con vivacità verso gli dèi che la contraddicono assisi dietro di lei e, per sfidarli o in atteggiamento beffardo, mette loro sotto il naso il gomito. Sulla parodia del sacro, il giudizio indulgente del Lesky (Geschichte der griechischen Literatur, Bem-Munchen, 1963 [trad. it. Storia della Letteratura greca, il Saggiatore, Milano 1996, p. 486]) e di J.-P. Cèbe (La Caricature et la Parodie dans le monde romain, Paris 1966, p. 467: «U na presa in giro inoffensiva») sembra più giudizioso della severità di M. Nilsson (Geschichte der griechischen Religion, cit., I, pp. 799 e 143). 40. Trimalcione porta un braccialetto d’oro del peso di dieci libbre, fatto con la deci­ ma parte delle sue offerte consacrate a Mercurio (Petronio, Satyricon, LX V II, 8, con il commento di Friedlànder). In caso di bisogno, venderà quest’oro, suppon­ go, previa promessa al dio di restituirglielo prima possibile; così agivano gli atenie­ si con il tesoro di Atena. Il defunto del sarcofago di Simpelveld porta un anello d’oro dedicato alla sua Giunone, «Iunoni Meae». Cfr. «Revue archéologique» II, 1983, pp. 296-297. Così si spiega, credo, la statuetta d’oro massiccio raffigurante un togatus che è uno dei pezzi forti del Museo di Lubiana: è rimmagine del gentus protettore del padre di famiglia, che ha investito in essa i suoi risparmi, la conserva nel suo larario e potrà farsela prestare dagli dèi in caso di bisogno. 41. Il tedesco das Heilige, «il carattere di ciò che è santo e sacro». Si tratta del titolo di quella sorta di fenomenologia che è lo studio di Rudolf Otto, Das Heilige, che, per esempio, in italiano è stato tradotto II sacro (Feltrinelli, Milano 1989). 42. Si tratta della celebre teoria di E. Durkheim, Le forme elementari della vita religio­ sa. Ma gli dèi non sono soltanto sacri, intoccabili e separati dal resto delle cose so445

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ciali; essi sono «passabili di adorazione»; un santuario è consacrato, ma non è il santuario stesso a essere adorato, è il dio. Il sacro è ambivalente, può essere male­ detto, il divino non lo è mai; il divino non ha nulla di profano, ma il contrario non è vero, perché quel che è sacro non è tuttavia divino. Il sacro rappresenta una ce­ sura sociale o etica, il divino è una qualità sui generis, abbastanza specifica per giu­ stificare l’esistenza della parola «religione», anche se il sentimento del divino oc­ cupa generalmente un posto ridotto in quegli aggregati confusi e variabili che so­ no le religioni. La riduzione della religione al sacro, a questa barriera ambivalente che taglia in due le cose sociali, a questa potenza che agisce su quanto è profano, sarebbe un appiattimento della complessità dei fenomeni. Il sacro, potenza anoni­ ma, senza volto, non basterebbe a scatenare i sentimenti e le condotte che vengo­ no liberate soltanto da una divinità personale (o, talvolta, da un’astrazione perso­ nificata e divinizzata). Una conseguenza divertente è che impossibile descrivere quel che potrebbe essere un sesto senso che venisse ad aggiungersi ai nostri cinque sensi: nessun autore di fantascienza è riuscito in questo; alcuni cani possiedono una sensibilità che li infor­ ma circa la presenza di elettricità statica nell’aria, ma ci è impossibile immaginare quali siano i tratti (quale sia la qualità) sotto i quali questa presenza viene raffigura­ ta nella loro consapevolezza. Quel che mi fa credere che la nostra intenzionalità ha delle inclinazioni specifiche ed extra-empiriche è un’esperienza diversa da quella del divino: la paura dei fantasmi, che è menzionata anche da Rudolf Otto. Se l’esi­ stenza dei fantasmi fosse provata da esperienze fisiche, fotografie o contatore Gei­ ger, essi perderebbero la loro specificità, smetterebbero di essere entità sopranna­ turali e non incuterebbero più paura. Gli extraterrestri cui credono alcune sette attuali (e ci credono sino a suicidarsi collettivamente) sono indubbiamente circondati da quest’aura divina. Dal momen­ to che «ogni fatterello vero» secondo Stendhal è istruttivo per uno storico o per un sociologo, l’autore delle presenti pagine, che non ha alcuna sensibilità religiosa, ma che svolge ottimamente il ruolo di pubblico, può quindi testimoniare che una del­ le due sole volte nella sua vita in cui, con le lacrime agli occhi, ha provato il senso del divino fu vedendo lo sbarco degli extraterrestri alla fine del film Incontri ravvi­ cinati del terzo tipo. L’altro episodio è uno di quei rari ricordi isolati che, come si sa, restano della nostra prima infanzia: un essere sovrano, più grande del naturale, avanza con decisione nella mia direzione con un sorriso di una bontà ineffabile; è la mia nonna che mi avvicina un biberon colmo di latte. Ora, precisamente, Jean Piaget ritiene che il sentimento religioso abbia la sua sorgente nei rapporti del bambino con i genitori, sia il sentimento filiale stesso (La rappresentazione del mon­ do nel fanciullo). Ma fatichiamo a credere che una qualità possa essere il prodotto di una proiezione psicologica; crederemmo piuttosto che il bimbo scopra il divino nei suoi genitori. Contro Piaget giocherebbe la critica di G. Simmel: la religiosità è «una categoria a priori che non si può ricavare da nienti altro» (Die Religion, Frank­ furt 1912, p. 96 [trad. it. La religione, Bulzoni, Roma 1994]) e ogni tentativo di ri­ cavarla da qualche altra entità, dalla paura, dall’amore, dall’angoscia eccetera, non potrebbe mai spiegare da dove possa provenire questo salto verso quella qualità tanto diversa che è il senso religioso (p. 100). Non ne consegue però che quanto faccia avvertire il senso del divino esista: nessu­ na intuizione intellettuale, nel senso dato dai filosofi a queste parole, mostra Dio alla maniera in cui intuisco quello che ho davanti agli occhi, come so quello che penso, o come, in un’allucinazione, credo di vedere dei fantasmi. Ovidio, Fasti, V, 433: «Digitis, medio cum pollice, iunctis»', Vitruvio, IV, 5: «Simil446

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mente, se i templi saranno lungo le pubbliche vie, si orientino in modo che i pas­ santi li possano riguardare davanti a sé, e salutare le divinità fronte a fronte» (ed. it. Architettura trad. di S. Ferri, Bur, Milano 2002, p. 261). «Revue archéologique», 1 , 1985, p. 52, con la rettifica comparsa in «Metis», V, 1990, p. 25, n. 22. Minucio Felice, Octavius, II, 4; Apuleio, Apologia, LVI, 4. Su un mosaico di Dafne che raffi­ gura alcuni cacciatori davanti a un’immagine di Diana, uno dei cacciatori, portan­ do le dita alla bocca, manda un bacio alla statua (M. Henig [ed.], A Handbook of Roman Art: A Survey ofthe Visual Arts o f thè Roman World, Oxford 1983, [1995], p. 120, n. 35 e tav. 1). Anche il Dyskolos di Menandro (prologo, w. 10-11) saluta Pan quando passa davanti al suo altare. Non ho potuto procurarmi G . Amad, Le Baiser rituel: un geste de culte méconnu, Beyrouth 1973. Etica Nicomachea, Vili, 1162 A 4: «L’amicizia [philia] verso i genitori è per i figli e quella verso gli dèi è per gli uomini - come un’amicizia verso un essere buono e superiore» (ed. it. L'Etica Nicomachea, trad. di M. Zanatta, Bur, Milano 1991, p. 753). Cfr. anche Dione di Prusa, XII, 42 (Olimpico). Aristotele, è vero, scrive altro­ ve che sarebbe insensato dire che si ama Zeus (citato da E.R. Dodds, The Greeks and thè Irrational, Los Angeles 1953, p. 35 [trad. it. I Greci e l’irrazonale, Sansoni, Milano 2005]; ma, malgrado Dodds, non si può trarre nessuna conclusione sui sentimenti degli uomini comuni (H. Lloyd-Jones, Thejustice ofZeus, cit., p. 33): è la teoria di un filosofo secondo il quale colui che basta a se stesso non ha bisogno dell’aiuto né dell’amicizia di nessuno, e questo è proprio il caso del dio che non ha amici e non ha bisogno di amici (Etica Eudemia, VII, 1244 B). Questo sentimento di sicurezza metaempirica non è proprio delle religioni. René Char lo trovava nella pratica della poesia («la sicurezza è un profumo» scrive) e lo storico cristiano Marrou mi diceva che per lui il suo lavoro era preghiera. Euripide, Ippolito, 73 ss. Artemide prova, di ritorno, una viva amicizia per Ippolito (1394-1398). Questa creazione letteraria ricorda un altro legame personale, fatto di stima e simpatia, che è l’amicizia di Atena per Ulisse (nella stupefacente scena di Odissea, ΧΙΠ, 186-354). Si tratta qui della finzione epica o tragica. Di contro, l’a­ more di Ippolito per Artemide sarebbe stato una finzione incomprensibile per gli spettatori della tragedia se non avesse trovato corrispondenza in casi individuali reali, che gli Ateniesi potevano vedere qua e là attorno a loro. Artemidoro, E interpretazione dei sogni, II, 36 (p. 162, Pack). Cfr. lo humour di Ci­ cerone, De natura deorum, 1 ,19, 81. Sul sogno, cfr. Roikila, cit., pp. 384-388. Allo stesso modo, gli innumerevoli A tti dei Martiri apocrifi (il cui contenuto po­ trebbe essere così riassunto: sex, sadism and snohism) hanno nutrito, pur dilettan­ do, la più sincera devozione medievale. Gli achei si preparano alla battaglia: « E ciascuno sacrificava, chi all’uno, chi all’al­ tro [allos alloi\ dei sempiterni, pregando di sfuggire alla morte ed alla furia di Ares» (Iliade, II, 400, [ed. it. Iliade, trad. di Giovanni Cerri, Bur, Milano 2006, p. 73]). Filostrato, Immagini, I, 15: «Arianna fu abbandonata durante il suo sonno da Te­ seo che l’aveva ingannata. [...] La tua nutrice ti ha senza dubbio fatto questo rac­ conto, perché esse, le donne di questa condizione, sono sapienti in tale argomento, e piangono a volontà, raccontando». Cfr. il ricordo compiaciuto di sant’Agostino, La Città di Dio, VI, 7. Sulle antiche divinità che sono Larenzia e Tarpeia, cfr. G. Wissowa, Religion und Kultus der Romer, cit., p. 233; G. Radke, Zur Entwicklung der Gottesvorstellung in Rom, cit., pp. 164 e 296. Giovenale, X , 289; Plutarco, De superstitione, 170 B. 447 /

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Si sceglieva più spesso una divinità in base alla sua specialità (medicina, parto, cac­ cia, commercio, navigazione...), o secondo la sua fama di efficacia o di accogli­ mento benevolo, o perché era il dio geograficamente e fisicamente più vicino e quindi un capo naturale - il dio della propria città, quello del quartiere o della strada (parecchi testi parlano, con un tono scherzoso, del fatto di avere un dio co­ me vicino) - o perché si trattava del dio della regione dove ci si trovava a soggior­ nare o a passare. «Artemide che si cura di me» dice Ippolito (al verso 60) in Euripide. «Apollo si cu­ ra di noi poeti» (Antologia Palatina, X, 17). «Apollini mea carmina curae» (Virgilio, Bucoliche, III, 61), Giuliano, I Cesari, 321 C: è la divinità che si è preoccupata di punire gli assassini di Giulio Cesare; Libanio è stato per tutta la sua vita il protetto della Fortuna (disc. 1,26, passim [Autobiografia]). Un passaggio dalla purezza rituale alla purezza morale si produrrà in Grecia e si ri­ troverà a Roma sotto l ’influenza greca, secondo J.H.W .G. Liebeschuetz, Continuity and Change in Roman Religion, Oxford 1979, p. 49. Cicerone, De legihus, Π, 8,19: «A d deos adeunto caste», Pausania, VII, 14,6. Tacito, Storie, I, 27,1 e 29,1: Galba «sfinisce gli dèi» moltiplicando le preghiere che precedono il sacrificio di vittime le cui exta non sono concordi, cosicché non si arriva mai alla litatio (G. Wissowa, Religion undKultus derRomer, cit., p. 418). Lo stesso metodo veniva seguito in Grecia: si moltiplicano i sacrifici sino a ottenere presagi favorevoli (kallierein). Si è riconosciuta la preghiera che apre il De rerum natura di Lucrezio e la cui natu­ ra di preghiera-sfida non è sempre stata ben compresa. Cfr. S. Pulleyn, Prayer in Greek Religion, London 1997, p. 2 0 0 .1 filologi chiamano questo schema Relativstil: E. Norden, Agnostos Theos: Untersuchungen zur Formengeschichte religioser Rede, Leipzig 1912, p. 172 (trad. it. Agnostos Theos: ricerche sulla storia della forma del discorso religioso, Brescia 2002). Euripide, Ciclope, 606: «Efesto e Hypnos, [non abbandonate Ulisse] altrimenti bi­ sognerebbe ritenere il Caso come un essere divino e le divinità come inferiori al Caso»; v. 354: «Zeus protettore degli ospiti, vedi dove sono; se tu non guardi, si parla inutilmente di te, Zeus, come di un dio, quando invece tu non sei affatto un dio». Lo stesso modo di chiamare in causa Dio pungendolo e provocandolo sull’o­ nore è nei Salmi: «Aiutaci, Signore, o i pagani nostri nemici diranno: “Ma cosa fa il loro dio? Dove è?”» (Salmi, 47, 11, fine; 79,9-10; 115,2). Euripide, Ciclope, 534: « Nomizei to meden on theos». Tibullo, I, 2, 83-85. Pratica superstiziosa che passerà a cristiani poco istruiti; si ve­ da P. Brown, «Augustine and a Practice of thè imperiti», in Augustin prédicateur, Paris 1998, p. 367, che mi è stato amichevolmente segnalato da C. Lepelley: san Paolino di Nola mostra un contadino che, entrando in una chiesa, «si prosterna e bacia la porta e gli stipiti» (p. 369). Secondo Orazio, Satire, II, 3, 89-295, alcune madri immergevano il figlio nel Tevere ghiacciato per convincere Zeus a guarirlo dalla febbre quartana. Cfr. anche Giovenale, VI, 522, e Seneca, De vita beata, XXVI, 8. Diventato cieco, un uomo confessava che se l’era proprio meritato con la sua empietà (Ovidio, Lettere dal Ponto, I, 1, 51-54). Menandro ironizzava sui siriani che si siedono su un mucchio di letame (come Giobbe?) per soddisfare la loro di­ vinità (Porfirio, De ahstinentia, IV, 15, [p. 253, Nauck]). La vittima di una disgra­ zia si fa male per provocare fastidiosamente l’indifferenza degli dèi o per ottenere la loro pietà; è un ricatto, alla maniera di imo sciopero della fame. Ma, come ogni sofferenza è ritenuta un castigo divino, ci si fa anche del male per punirsi di un er­ 448

Culto, devozione e morale nel paganesimo greco-romano rore e ottenere il perdono divino e la fine dei mali. L a colpa in questione non è un peccato contrario alla morale, ma una colpa nei confronti degli dèi (per esempio, si è trascurato un rito, e il dio si è vendicato). Più avanti parleremo delle «steli di confessione». 65. Libanio, disc. XVIII, 177. 66. Credenza empia stigmatizzata da Platone, Leggi, X , 884 A. Ibid., X , 906 E: è ridi­ colo credere che gli dèi si lascino corrompere dal vino delle libagioni e dal grasso delle vittime. 67. Orazio, Odi, III, 23. 68. Arnobio, Adversus gentes, VII, 5 (J.-P. Migne, Patrologia Latina, V, col. 1223): «Sequitur ut illam quoque inspiciamus partem quam iactari audimus vulgo et populan in persuasione versari, sacrificia superis ea fieri diis causa ut iras atque animos ponant, reddanturque mites et placidi, fervidorum pectorum indignatione sedata». 69. Plutarco, Non posse suaviter vivi, 21 (M oralia, 1101 D): «L ’atteggiamento delle masse illitterate nei confronti del dio mescola senza dubbio alla venerazione e agli onori ima certa dose di febbrile paura, ma vi si trova anche qualcosa di mille volte migliore: la buona speranza, molta gioia, preghiere che chiedono e ricevono ogni buona cosa come se venisse dagli dèi». Pseudo-Luciano, Amores, 12, conclusione: al santuario di Afrodite a Cnido, sotto gli alberi «vi sono dei piacevoli letti convi­ viali per quanti vogliono far festa laggiù; i cittadini in vista vi vanno raramente, ma il popolo vi si trova in massa». Ce n’erano dello stesso tipo a Roma nel santuario di Venere Ericina (oltre l’attuale Porta Pia). 70. Libanio, disc. X X X , 9-10 (In difesa dei templi)·. «Quando [gruppi di monaci] han­ no amputato una proprietà al santuario, questa ormai è cieca, giace inerte, è morta. Infatti, o imperatore, è proprio perché i templi sono l’anima della campagna che essi, questi introiti delle rendite agricole, attraverso tante generazioni, sono arrivati agli uomini di oggi. Sono pure morte, presso i coltivatori insediati stabilmente su queste terre, tutte le speranze che essi nutrivano per gli uomini, le donne, i bambi­ ni, i buoi, le terre seminate e coltivate; la proprietà in cui è arrivata questa disgrazia ha mandato in rovina lo zelo dei contadini con le loro speranze, dal momento che essi pensano che i loro sforzi saranno vani, una volta che siano stati privati degli dèi che conducevano al successo i loro sforzi». 71. Plutarco, Vita di Alessandro, 74; Non posse suaviter vivi, 21, (Moralia, 1101 e 1102 A-B-C); Vita di Pericle, VI, 1. Allo stesso modo, cfr. Epicuro, Lettera a Meneceo, 134. Si parla, beninteso, di fiduciosa speranza in quest’avvenire terrestre; è soltan­ to in Elio Aristide (nel suo Discorso agli abitanti di Eleusi, XXII, 10) o in Porfirio (Lettera a Marcella, 24) che la parola si riferisce all’aldilà. 72. Teognide o Pseudo-Teognide, 1143, citato da L. Bruit Zaidman, Le Commerce des dieux: essai sur la piété en Grece ancienne, Paris 2001, p. 107. 73. Nel VI secolo dopo Cristo, negli Otto libri dei miracoli di Gregorio di Tours, i san­ ti (che vengono invocati con preghiere e cui si fanno offerte) o il contatto con le lo­ ro reliquie preservano il campo dalla grandine, guariscono i malati, fanno ritrovare gli oggetti smarriti eccetera. 74. Orazio, Odi, III, 24; Teopompo in Porfirio, De ahstinentia, II, 16, 4, con la nota dell’edizione Bouffartigue-Patillon, p. 204, sull’abitudine di far risplendere le im­ magini sacre; stesso costume a Roma (Giovenale, X, 55: «Crediamo lecito coprire le ginocchia degli dèi di tavolette di cera», [ed. it. Satire, trad. di E. Barelli, Bur, Milano 1989, p. 197]). 75. In effetti, il brusco successo di una religione (per non parlare della sua permanen­ za, una volta che essa è su piazza ed è diventata tradizionale) non viene dal fatto 449

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che essa risponda meglio di altre a bisogni o desideri naturali, iscritti nell’uomo; questi bisogni, è essa stessa a crearli, o, se si preferisce, è essa che li fa scoprire alla maniera di un nuovo «prodotto» lanciato dalla pubblicità. La nuova Eloisa, con il suo successo fulminante, ha creato una sensibilità sentimentale preromantica, una «m oda» artistica e umana che, una volta nata, ha iniziato ad avere le sue esigenze. Una religione crea essa stessa i desideri o le insoddisfazioni che assicureranno il suo particolare successo. L’orginalità di questo best-seller, largamente ispirato al giudaismo del tempo (cui nemmeno il proselitismo era estraneo), aveva fatto il successo del giudaismo tra le religioni orientali dell’impero romano. La prossimità delle due religioni va molto oltre il problema superficiale e confuso del monoteismo. J. Scheid, Romulus et ses frères, Rome 1990, p. 752. Saturnali, III, 5,7. Ecco la grande differenza tra il paganesimo e quello che Averil Cameron chiama la retorica o il discorso cristiano (Christianity and thè Rhetoric o f Empire: The Development o f Christian Discourse, Los Angeles 1994). Il cristianesimo disponeva così di potenti mezzi di propaganda. Allo stesso modo, nei patti di alleanza, due città si impegnano a «considerare [nomizein] come amici e nemici gli stessi popoli». Sinossi del problema in W. Fahr, Theous nomizein: Zum Prohlem der Anfcinge des Atheismus bei den Griechen, New York 1969; qui semplifichiamo il dettaglio. Giuliano Imperatore, A Helios re, 153 A. M. Foucault, Dits et Écrits, II, p. 1623. Il luogo comune millenario che oppone «credere a» e «credere in» trova la sua ori­ gine in sant’Agostino, come abbiamo appena appreso; cfr. F, Dolbeau, Augustin d’Hippone, vingt-six sermons au peuple d’Afrique, «Etudes Augustiniennes», 147, 1996, p. 50. Per tutti i diversi atti e gesti della devozione, rimandiamo a L. Bruit Zaidman, Le Commerce des dieux, cit., pp. 19-55. Per gli ex voto e le scene di sacrificio in Gre­ cia, G. Neumann, Probleme des griechischen Weihreliefs, cit., e anche, dello stesso autore, Gesten und Gebàrden in der griechischen Kunstischen, Berlin 1965. Su Ro­ ma, cfr. la ricca raccolta con molte illustrazioni di I. Scott Ryberg, Rites o f thè State Religion in Roman Art, Memoirs of thè American Academy in Rome, X X II, Rome 1955. J. Scheid, Religion romaine et spiritualité, «Archiv fiir Religionsgeschichte», 5, 2003, pp. 197-209, in particolare p. 204. Tito Livio, 1,24. Ecco perché il ruolo di Zeus come garante dei giuramenti è poco rimarcato e perché questo è solo un tratto secondario della sua personalità. Si parla raramen­ te di Zeus Orkios (M. Nilsson, Geschichte der griechischen Religion, cit., I, p. 421); magicamente efficace di per sé, la formula di maledizione lasciava poco spazio a un dio. Lbid., p. 41. Erodoto, VI, 86. Catullo, LXXV I, 2 e 26. Le Opere e i Giorni, 284, verso ripreso dall’oracolo in Erodoto, II, 86. Questa stella osservatrice proviene dall’astrologia caldea, come ha scoperto M. Nilsson, Geschichte der griechischen Religion, cit., I, p. 276, a partire da Diodoro, II, 30; si tratta di un’astrologia che Plauto ha conosciuto attraverso i suoi modelli ellenistici. Sulla religione ellenistica in Plauto, cfr. M. Nilsson, op. cit., pp. 194-195. 450

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G. Petzl, Die Beichtinschriften Westkleinasiens, cit., p. ΧΠΙ. Eschilo, Eumenidi, 55-56. G. Petzl, Die Beichtinschriften Westkleinasiens, cit., p. 52, n. 43. F. Sokolowski, Lois sacrées des cités grecques, cit., Supplemento, p. 159, n. 91. Servio, Commento al libro LV dell’Eneide, 518: «Non è consentito accedere ai riti di Giunone Lucina che con dei nodi sciolti». Per un atto sacro o magico, bisogna essere liberi da ogni legame, «pedibus nudis passo captilo» (Orazio, Satire, I, 8,24); «exorat pacem divum vittasque resolvit» (Virgilio, Eneide, III, 370). L a Sibilla cumana scompiglia i suoi capelli per accogliere il dio (ibid., VI, 48: «Non comptae mansere comae»). Per morire, Didone libera il suo piede dai lacci della sua calzatu­ ra e scioglie la cintura del suo abito (IV, 518). Al santuario del monte Cinzio, a De­ io, bisogna entrare senza cintura (F. Sokolowski, Lois sacrées des cités grecques, cit., Supplemento, p. 114, n. 59,1.20). Teofrasto in Porfirio, De abstinentia, II, 19,4; sul senso di lampros, «bianco» e non «brillante», L. Robert, Comptes rendus de VAcadémìe des inscriptions, 1982, p. 273, n. 214 (Opera minora selecta, V, p. 836). Stesso colore liturgico a Roma (per esem­ pio Ovidio, Tristia, Π, 14,14 e V, 5, 8; Persio, Satire, II, 40). Possediamo un certo numero di leggi sacre latine (G. Wissowa, Religion und Kultus derRomer, cit., p. 6, n. 3; H. Dessau, Lnscriptiones Latinae selectae, nn. 49064916; A. Degrassi, lnscriptiones Latinae liberae reipublicae, cit, nn. 504-510; Cassio Dione, LV, 10,2), ma esse non sono destinate ai visitatori: regolano la proprietà sa­ cra e gli obblighi dei sacerdoti. R. Cagnat, A. Merlin e L. Chatelain, Inscriptions latins d’Afrique, Paris 1925, n. 225. Bisogna togliersi i calzari quando si entra nel cuore di un santuario (Euripide, Ione, 221). Sul divieto di entrare con le calzature nel tempio di Serapide, cfr. Varrone, SatireMenippee (F. Buecheler, n. 439), edizione di J.-P. Cèbe, XI, p. 1803. Ti­ bullo, Π, 1,13, e più sotto, n. 103. Suppongo che il barbiere e il bagno siano proi­ biti come se fossero piaceri inficiati da mollezza; ci si fa un’idea inesatta del con­ cetto antico di pulizia: i romani puzzavano, e così anche i loro vestiti; l’odore di su­ dore era la prova di un temperamento virile. Il bagno non era una questione d’igie­ ne, ma era un piacere, il che era sospetto. M. Nilsson, Geschichte der griechischen Religion, cit., I, p. 90. Il regolamento del culto di Cirene distingue quel che è sacro (kieron), impuro (miaron), profano (bebelon)·, cfr. F. Sokolowski, Lois sacrées des cités grecques, dt., Supplemento, p. 187, n. 115; 1. 9-10. Lbid., Π, p. 290. L’omosessualità è «contro natura» a partire da Platone, Leggi, I, 636 B. Per accedere al santuario del Cinzio, bisogna avere «lo spirito e le mani pure» (F. Sokolowski, Lois sacrées des cités grecques, cit., Supplemento, n. 59). «Bisogna esse­ re puro entrando nel santuario. Non è cosa che si ottenga grazie ad abluzioni, ma è l’essere puri nello spirito» (santuario di Serapide o di Asclepio a Rodi, ibid., p. 108, e indice alla parola loutrori)·, ripresa di questi concetti in F. Dunand, Le Culte d’Lsis dans le bassin orientai de la Méditerranée, Leyde 1973, III, pp. 197-200. Allo stesso modo, a Mitilene (Supplemento, n. 82) bisogna «entrare n d santuario in stato di purezza e con pensieri pii». A Creta, la Grande Madre, in età imperiale, ama gli uomini pii: essi non moriranno senza discendenza; ella ha in odio quanti peccano contro gli dèi; bisogna entrare n d santuario soltanto con pietà e con parole pie {Ln­ scriptiones Creticae, I, X X III, n. 3; cfr. M. Nilsson, Geschichte der griechischen Reli­ gion, cit., II, p. 290). Secondo la legge sacra di Epidauro, per entrare nel tempio puri, bisogna essere puri non in virtù di un bagno, ma in spirito (Porfirio, De absti451

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nentia, II, 19; Clemente Alessandrino, Stromati, IV, 22, p. 71). In una litania a Iside (P. Oxy., 1380, col. VII, 1. 152) viene detto: «T i vedono quanti ti invocano» (kata topiston). Festugière traduce: «Quelli che sono degni di fede [fide digiti], perché essi ti invocano secondo il tuo vero nome»; F. Chapouthier, De la bonne fo i dans la dévotion antique, «R E G » 45,1932, pp. 391-396, comprende la buona fede e la ret­ ta intenzione necessaria alla preghiera, sulla scia di Apuleio, Metamorfosi, XI, 5 ,2 . Teofrasto, De pietate, in Porfirio, De abstinentia, II, 19,5, con la nota dell’edizione Bouffartigue-Patillon, p. 206, n. 7. Porfirio, De abstinentia, II, 61,1. Ovidio, Fasti, VI, 251: «In prece totus eram». Cfr. Plinio il Giovane, Panegirico, I, 3 ,5 : gli dèi amano la sincerità; vogliono che ci si avvicini ai loro altari con pensieri puri e casti; alle preghiere troppo costruite essi preferiscono l’innocenza e i pensie­ ri santi. Su questi scettici pronti a ironizzare, cfr. Platone, Leggi, X, 908 C. Così, nella lun­ ga iscrizione dei miracoli operati da Asclepio a Epidauro (Inscriptiones Graecae, IV, 1,121 ss; W. Dittenberger, Sylloge inscriptionum Graecarum, 3a ed., 1168, III, IV, IX, X , XXXVI): un pellegrino non crede ai racconti sulle guarigioni e agli ex voto che li rappresentano. Una donna non crede alle guarigioni. Parecchi visitatori si fanno beffe della semplicità d’animo di un guercio che sperava di ritrovare il suo occhio. Un passante nega che Asclepio possa rendere la sua integrità a un vaso rot­ to. Uno zoppo scettico e ironico è punito dal dio, che lo rende zoppo anche dall’al­ tro piede, ma finisce per lasciarsi piegare dalle suppliche e gli rende l’uso delle gambe. Esiodo, L e opere e igiorni, 755-756, se tale è proprio il senso di me momeuein aidela, non trovare nulla da ridire sul rito sacrificale sconosciuto (U. von Wilamowitz, Hesiodos Erga, Berlin 1928, p. 126). Lo si potrebbe supporre in base a Platone, Leggi, X, 910 D, ma Platone potrebbe anche riprendere qui le formule delle leggi sacre dando loro un senso che è pro­ prio di lui solo. F. Sokolowski, Lois sacrées des cités grecques, cit., n. 6 6 ,1 . 23-26 e n. 6 8 ,1 . 2-7; Supplemento n. 33. Si tratta del primo dei tre aneddoti delfici ripresi da Porfirio, De abstinentia, II, 1517 (si veda l’edizione di Bouffartigue-Patillon, II, pp. 83-86, e note alle pp. 203205). Teofrasto e Porfirio ne traggono la conclusione che gli dèi preferiscano le of­ ferte modeste e i sacrifici incruenti, ma Pliiss ha mostrato che il vero senso di que­ sti aneddoti edificanti era il mostrare che bisogna restare modesti di fronte agli dèi («Neue Jahrbiicher fiir klassiches Altertum», Phydile-, 3,1899, p. 498); cfr. M. Nilsson, Geschichte der griechische Religion, cit., I, p. 648. D a qui, credo, un proverbio mal compreso che viene chiamato in causa con humour da Orazio, Odi, III, 16,21: «Più ci si rifiutano cose, più se ne otterranno dagli dèi», i quali amano che gli uo­ mini abbiano soltanto modeste pretese e li ricompensano per questo. Euripide, fr. 946 Nauck. Eroda, Mimi, IV, 12-19; W. Van Andringa, Autels de carrefour, organisation vicina­ le et rapports de voisinage à Pompéi, «Rivista di Studi Pompeiani», XI, 2000, p. 77. Sul legame tra il sacrificio e un ex voto che lo commemora, cfr. Antologia Palatina, VI, 147 (Callimaco, Epigrammi, 54), citato in «Revue archéologique», II, 1983, p. 283: se Asclepio reclamasse di nuovo quel che il suo fedele gli aveva promesso for­ mulando voti (euxamenos), la raffigurazione testimonierebbe che il dio è già stato pagato! Ovidio, Metamorfosi, IX, 792: « Dant munera templis, addunt et titulum». Effettivamente, dal momento che si amano gli dèi, l’ex voto è contemporaneamen­ 452

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te una testimonianza di gratitudine e un oggetto-ricordo; ma, dal momento che non siamo gli schiavi o i bambini degli dèi, esso è anche un pagamento e un certifi­ cato di pagamento. 114. Euripide, Ione, 1317, e Orazio, Odi, III, 23. 115. Lo Ione di Euripide dichiara (w. 1312-1317): «È tremendo che il dio abbia impo­ sto leggi ai mortali secondo un criterio iniquo e irragionevole: anziché lasciar sede­ re all’altare i colpevoli, bisognerebbe cacciarli. Non è bello che sia il malvagio, ma solo il giusto, a toccare con la sua mano ciò che è sacro» (ed. it. Ione, trad. di M.S. Mirto, in II teatro greco. Tragedie, Bur, Milano 2006, pp. 1009-1010). Più tardi però, nel II secolo dopo Cristo, a Lindo, bisogna «non avere nulla di terribile sulla coscienza» (W. Dittenberger, Sylloge inscriptionum Graecarum, 3“ ed., n. 983; F. Sokolowski, Lois sacrées des cités grecques, cit., p. 238, n. 139). Nel II secolo avanti Cristo, una legge a Ereso menzionava già i traditori e gli assassini (ibid., n. 124). 116. H. Seyrig, Quatre cultes de Thasos, «Bulletin de correspondance hellénique», 1927, p. 197. Sui piedi senza calzari, cfr. Euripide, Ione, 221 (leukopous) e, sopra, cfr. no­ ta 99. 117. Pausania, VII, 25,7 : «Asebes eselthein thelon theasasthai». 118. Riferimenti in F. Sokolowski, Lois sacrées des cités grecques, cit., Supplemento, p. 183. 119. Ancora in Platone, Leggi, IV, 716 D-717 A: il malvagio è akathartos, miaros. 120. F. Sokolowski, Lois sacrées des cités grecques, cit., Supplemento, p. 181, n. 112. 121. Iliade, XVI, 387 e XXIV, 503. 122. Ibid., IX, 499-501. Allo stesso modo, gli dèi hanno anche pietà dei naufragi (Odis­ sea, V, 447-448). 123. Iliade, XXIV, 44: «Onde boi aidos»; (ed. it. op. cit., p. 518). 124. Ibid., XXI, 74. Odissea, XVII, 483-487: «Antinoo, male colpisti un ramingo mfelice, pazzo; e se fosse per caso un nume del cielo? Spesso gli dèi, simili ad ospiti d al­ tre contrade, sotto tutte le forme girano per le città, per vedere i soprusi o i retti costumi degli uomini» (ed. it. Odissea, traduzione di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1989, pp. 491-493). 125. Iliade, XXIV, 503. 126. Idea comune a tutta l’antichità. Orazio, Odi, III, 6,5: «Dis te minorem quod geris, imperas» (gli dèi sono i «più potenti», i kreittones dei greci; la devozione consiste nel venerare la loro superiorità). 127. Tutto quel che segue è derivato da J.H.W.G. Liebeschuetz, Continuity and Change in Roman Religion, cit., pp. 39-54 («Morality and Religion»). 128. Plinio, Storia Naturale, II, 5,18. Sulla formula deus est, cfr. Euripide, Elena, 560: «È dono di un dio rivedere coloro che amiamo» (ed. it. Elena, trad. di M. Fusillo, in 11 teatro greco. Tragedie, cit.). 129. Properzio, III, 22,21: «Quantum ferro, tantum pietate potentes stamus» (si veda tutto il contesto, che dà il senso esatto dell’espressione). Sul tema della devozione, della clemenza e dell’umanità romane, P.A. Brunt, Roman Imperiai Themes, cit., pp. 314-316 e 439; P. Veyne in A. Giardina (a cura di), Duomo romano, cit. 130. Si veda soprattutto Cornuto, Theologiae Graecae compendium, XVI (p. 168, Gale; 24, Lang), da aggiungere a M. Nilsson, Geschichte der griechischen Religion, cit., I, p. 503. 131. Odissea, VI, 120-121 e IX, 175-176 (ed. it. op. cit, p. 163). Comparare a questo il linguaggio di Abramo: «Mi ero detto: forse il timore degli Elokim non esiste in questo paese, e mi uccideranno a causa di mia moglie» (Genesi, 20,11): «Temere gli Elohim» equivale qui ad «avere senso morale»; la religione è un segno di civiliz­ 453

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zazione, di appartenenza alle leggi comuni dell’umanità, Bisogna qui tradurre con il vero plurale e non con il plurale di maestà, perché, subito dopo, Abramo dirà: «G li Elohim mi hanno fatto errare», con il verbo al plurale e non al singolare che segue il plurale di maestà. Si può pensare sia che Abramo adatti il suo linguaggio al politeista Abimelech, sia che questa rappresenti una traccia dell’antico politeismo ebraico (o piuttosto, della non esclusività del futuro Dio geloso), di cui vi sono al­ tre tracce in questa parte del testo. Non è assurdo mettere Ulisse e Abramo fianco a fianco, perché quest’episodio della vita di Abramo non ha nulla di un racconto storico e teologico: è un’antica leggenda, raccontata ad delectandum, «analoga ai racconti dei narratori arabi» diceva Renan che pronuncia anch’egli il nome di Ulis­ se (E. Renan, Légendes patriarcales des Juifs et des Arabes, corso inedito pubblicato da Laudyce Rétat, Paris 1989, pp. 38-40). Caritone di Afrodisia, Cherea e Calliroe, III, 3 e 4. L. Bruit-Zaidman, Le Commerce des dieux, cit., pp. 104-109 e 113-118, che parla di una integrazione del modello sociale e del modello religioso. Pausania, IV, 8, 2; M. Casevitz, «Sur la piété de Pausanias», in L. Mary e M. Sot (dir.), Impies Pai'ens entre AntiquitéetMoyen Age, Paris 2002, p. 61. Cfr. dello stes­ so autore, la fine analisi di «Pausanias croyait-il aux dieux?», in G . Dorivai e D. Pralon (dir.), Nier les dieux, nier dieu, cit., pp. 81-92. Senofonte, Vita di Agesilao, 3. Si veda quanto scritto da Polibio circa la distruzione dei santuari di Dione, in M a­ cedonia, e di Termo, in Etolia (IV, 62,3-4; V, 8-11; IX, 36; X I, 7 ,2 ). Agli occhi di questo politico puro, per niente sconvolto dai massacri di popolazioni, bisogna, in guerra, rispettare i santuari, «fare la guerra agli uomini e non agli dèi». Si veda ancora Tito Livio, X X X I, 30 (sulla scia di Polibio): gli ateniesi, assediati da Filip­ po di Macedonia, ammettono che devastare il territorio nemico e ridurre la popo­ lazione in schiavitù è conforme alle leggi della guerra; ma essi accusano Filippo di avere violato «tutte le leggi divine e umane», distruggendo i templi degli dèi supe­ ri, e di aver fatto guerra agli dèi inferi distruggendo alcune sepolture. Tito Livio, III, 57,1 («Legum expertem et civilis et humani foederis») e 2, citato da Dolorès Pralon-Julia in G. Dorivai e D. Pralon (dir.), Nier les dieux, nier dieu, cit., p. 104. A.D. Nock, Essays on Religion and thè Ancient World, cit., I, p. 260. M. Nilsson, Geschichte der grieckischen Religion, cit, I, pp. 739,748,760,775; Π, p. 197. Per esempio, in Eschilo, Agamennone, 160-178. L’idea elevata che si fa della divinità un filosofo antico, idea talvolta più elevata di quella di un monoteismo vero o preteso, non dipende dal fatto che questa filosofia sia monoteista; più spesso, essa non si pone nemmeno il problema e parla, indiffe­ rentemente, del dio o degli dèi. Platone, gli stoici e Plotino sono politeisti. Il mo­ noteismo non è nato dall’oriente e dal deserto, ma dalla lotta di alcune religioni esclusive contro altre religioni, lotta che rompe con l’idea antica che ogni popolo ha la propria religione, o ancora, che tutti gli dèi sono veritieri, oppure che sono gli stessi dèi sotto nomi diversi. Odissea, XXIV, 351-352 (ed. it. op. cit., p. 673). Iliade, XVI, 364-365. Ibid., 384-392 (ed. it. op. cit., p. 362). Esiodo, Le opere e i giorni, 6 (ed. it. Le opere e i giorni. Lo scudo di Eracle, trad. di L. Maguglioni, Bur, Milano 2002, p. 89). Per tutto quel che si è appena detto, ibid., 240-280. Ibid., 219. 454

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147. Ibid., 229. 148. Zeus ha distrutto la razza d’argento e distruggerà la razza di ferro a causa dei loro errori; quanto alla razza di bronzo, essa s’è distrutta da sé per la sua stessa violenza cfr. U. von Wilamowitz, Hesiodos Erga, cit., p. 142. 149. Iliade, XXIV, 527-533. L’imprevedibilità del corso del mondo veniva chiamata Zeus, il cui capriccio era sempre il più forte (XVII, 176); se dei pirati riuscivano nel loro malvagio colpo, era perché Zeus l’aveva voluto (Odissea, XIV, 86). Quando il paga­ nesimo sarà diventato più morale, l’imprevedibilità non sarà più opera di Zeus, dio giusto, ma di Tyche, la Fortuna. 150. Le opere e i giorni, 280. 151. Ibid., 325-334. Allo stesso modo, Teognide consiglia a Cimo di non essere come quegli uomini ingiusti che si appropriano dei beni altrui «senza tenere minima­ mente in conto gli dèi immortali» (1147-1150). 152. Ibid., 303-304 (ed. it. op. cit., p. 117). 153. In effetti, ignoriamo il senso esatto dell’hapax «pygostolos», ma questa parola sicu­ ramente non è elogiativa nelle intenzioni del poeta. 154. Su Ate, l’«Errore fatale», cfr. S. Sa'id, La Faute tragique, Paris 1978, pp. 77-84. 155. Iliade, IX, 502-515. 156. Esiodo, Le opere e igiorni, 248 (ed. it. op. cit., p. 113). 157. Ibid., 213, (ed. it. op. cit. p. 115). 158. Menandro, Epitrepontes, 1084-1091 Sandbach (ed. it. Menandri Epitrepontes, a cu­ ra di P. Martina, Kepos editore, Roma 1997). 159. Aristofane, I cavalieri, 32. 160. Osservate la sobrietà d’argomenti messa da Lisia in bocca al suo accusatore in una questione di sacrifici pubblici; non una frase sugli dèi e sulla pietà, tutto sulle fi­ nanze pubbliche (XXX, 17-21 [Contro Nicomaco]). 161. Isocrate, V ili, 33 (Per la pace); XV, 282 {Antidosi). 162. Id., 1 ,13 {A Demonico) (ed. it. Orazioni, a cura di A. Argentati e C. Gatti, Utet, To­ rino 1965, p. 82). 163. Euripide, Ifigenia in Tauride, 275: «Uno stolto che l’empietà fa tracotante, irrise al­ la preghiera» (ed. it. Ifigenia inTauride, trad. di F. Ferrari, in II teatro greco. Trage­ die, cit., p. 945). 164. Platone, Leggi, III, 701 B-C. 165. I miei ringraziamenti vanno a Didier Pralon, la cui dottrina e amicizia mi hanno chiarito su questi tre versi il cui senso è incerto e il cui testo è stato spesso corretto. I «giusti che sono qui» sono sia gli spettatori del dramma, sia, secondo Sommerstein, gli aeropagiti (cfr. v. 487). La correzione di Heath «fai crescere soprattutto nomini pii» (invece di «sarchia gli empi») non cambierebbe, del resto, nulla nell’e­ quivalenza tra la devozione e la virtù civica. Anche Platone crede a questa equiva­ lenza e riprende utilmente la credenza popolare {Leggi, X, 910 B). 166. R. MacMullen, Paganism in thè Roman Empire, New Haven 1981, p. 93. Per Esculapio a Roma, cfr. F. Matz e F. von. Duhn, Antike Bildwerke in Rom, cit. 167. Atena perorerà la causa di Atene nell’assemblea degli dèi: così si esprime l’oracolo reso agli ateniesi prima di Salamina: Pallade pronuncia un’orazione a difesa della sua città davanti a Zeus (Erodoto, VII, 141). Nove secoli dopo, al momento del­ l’invasione dei goti, nel 397 dopo Cristo, Atena apparirà sulle fortificazioni di Ate­ ne e impedirà ad Alarico di saccheggiare la città. 168. J. Scheid, Sacrifice et banquet à Rome: quelques problèmes, «Mélanges de Fècole frangaise de Rome», 97,1985, pp. 193-206. 169. Sulle carni consumate unicamente dai sacerdoti, cfr. gli Atti dei fratelli A nali; sul­ 455

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la loro rivendita, cfr, Valerio Massimo, II, 2, 8, passo discusso da T, Mommsen, Staatsrecht, II, 1, cit., p. XII, η. 1. M. Nilsson, Geschichte der griechischen-Religion, cit., II, p. 372. Si veda, all’inizÌo delle Storie di Tacito, quale sia il pubblico che assiste al sacrificio di Galba: non dei partecipanti attivi, ma dei curiosi. Un sacrificio offerto davanti al tempio di Giove Capitolino non poteva riunire che qualche migliaio di curiosi, dal momento che la spianata davanti al Campidoglio misurava settemila metri quadri, ed era per giunta ingombra di templi di minori dimensioni, di statue, di monumenti di dedica. Esempi possibili fra mille, cfr. H. Dessau, Inscriptiones Latinae selectae, 7263,1855 {Genius portoriipublici sul basso Danubio), 2447 {Genius tabulariiprincipis). Talvolta, coprendo tutto il fondo della scena, un sipario inatteso restringe con­ venzionalmente l’ampio sfondo rustico; così, su di un ex voto del Museo di Ate­ ne (G. Neumann, Probleme des griechischen Weihreliefs, cit., p. 63 e tav. 40 B; o ET. Van Straten, H i era Kala: Images o f Animai Sacrifice in Greece, Leiden 1995, fig. 57). P. Veyne, Les cadeaux des colons à leur propriétaire, «Revue Archéologique» II, 1981, pp. 245-252. Supra, cap. 5, nota 161. P. Veyne, Les saluts aux dieux, «Revue archéologique», 1 , 1985, p. 51 e fig.; e La Vénus de Trimalcion, «Latomus», 23,1964, pp. 802-806. Sulla statuetta di Venere portata in dote, cfr. F. Burkhalter, Les statuettes en bronze d’Aphrodite en Égypte, «Revue archéologique», 1 , 1990, pp. 51-60. Sulla presenza nei larari di altre divi­ nità, diverse dai Lari e dai Penati, M. Nilsson, «Roman and Greek domestic cult», nei suoi Opuscula selecta, cit., Ili, p. 277. Svetonio, Domiziano, XVII, 2. H . Dessau, Inscriptiones Latinae selectae, 3594-3608. Nelle iscrizioni, questi Lari sono chiamati casanici, domestici, familiares. Verso il 303, il canone 60 del sinodo di Elvira si prende la briga di sancire che un padrone ucciso per questo motivo non verrà considerato come un martire (il che è conforme alla dottrina ufficiale: non bisogna provocare i persecutori). Senza dub­ bio, un fatto di cronaca che aveva colpito gli spiriti è all’origine di una decisione su di un caso così particolare. Le conseguenze di questo fatto possono arrivare molto lontano. L a padrona di una villa vicina a Roma, a Torre Nuova, era una grande dama proveniente da una fami­ glia illustre di Mitilene, città di cui Dioniso era il dio protettore. Questa dama ha trasformato la sua cerchia di parenti e le sue centinaia di servitori in membri di un collegio di adoratori di Dioniso, facendo così di questo dio protettore di una città greca l’equivalente del suo Lare domestico, proprio nel cuore dell’Italia. San Cipriano, Lettere, LV, 13, 2; Eusebio, Storia ecclesiastica, V, 2. Altri riferimenti in A. von Harnarck, Die Mission und Ausbreitung des Christentums, cit., p. 193, nn. 1 e 3. G . Wissowa, Religion und Kultus der Romer, cit., p. 399; J. Marquardt, Rdmische Staatsverwaltung, III, pp. 208-210. O. Kern, Die Inschriften von Magnesia am Meander, cit., n. 100 b. Sono state ritro­ vate ad Atene, Sparta, Pergamo, Mitilene eccetera, delle serie di piccoli altari, tutti uguali, innalzati, evidentemente, allo stesso modo in seguito a un decreto che cele­ brava l’entrata solenne di un re (nel papiro di Gourob), di un imperator (Pompeo a Mitilene) o di un imperatore; cfr. P. Veyne, in «Latomus», 21, 1962, pp. 72-75; L. Robert, Sur un déaet d’Ilion et sur un papyrus concernant des cultes royaux, «Ame­ rican Studies in Papyrology», I, Essays in Honor o f Bradford Welles, 1966, pp. 175456

Culto, devozione e morale nel paganesimo greco-romano 211. A Priene, delle piccole placche d’altare devono essere riferite all’istituzione di un culto pubblico di Atena Polias, forse sotto Domiziano (F. Hiller von Gartringen, Inschriften von Priene, cit,, nn. 164-167). Probabilmente è in virtù del fatto di aver fondato un culto municipale della Minerva di Domiziano e di averlo fatto sa­ pere tramite ambasciatori all’imperatore che Tolosa e qualificata come Palladia da Marziale, IX, 100,3. 183. La sanzione che si legge decine di volte nelle iscrizioni greche; a Cos (W. Dittenberger, Sylloge inscriptionum Graecarum, n. 398), il popolo istituisce un giorno sa­ cro per celebrare la disfatta dei galli davanti a Delfi; tutti gli abitanti dovranno por­ tare corone in quel giorno, «e possano grandemente prosperare quanti si corone­ ranno». Di contro, si punivano gli attentati sacrileghi; sotto il regno di Alessandro Magno o all’incirca in quell’epoca, i magistrati di Efeso condannano a morte un certo numero di abitanti di Sardi che avevano attaccato degli ambasciatori sacri di Efeso; cfr. Die Inschriften von Ephesos, voi. I (H. Wankel), Bonn, 1979, n. 6; J. e L. Robert, «Bulletin épigraphique», 1965, n. 342. 184. Cassio Dione, XLVII, 18; T. Mommsen, Strafrecht, cit., p. 586, n. 3. 185. Tacito, Annali, 1 ,73; Codice giustinianeo, IV, 1 ,2 (cfr. IX, 8,2): «Iuris iurandi con­ templa religio satis deum ultorem habet». Si veda un lungo esempio in Cicerone, De legibus, Π, 17,42-44. Le nuove sette e i riti estranei al «buon senso» sono perseguiti, ma perché turbavano l’ordine pubblico e costituivano una sorta di sedizione (T. Momm­ sen, Strafrecht, cit., p. 579, n. 2). Tuttavia, su questo punto, come sulla persecuzione del cristianesimo, avvertiamo l’imprecisione delle regole del diritto e le esitazioni delle autorità: la sedizione di cui si parla non consiste in atti, ma nella particolarità e nella stranezza delle credenze e dei riti. Allo stesso modo, si perseguiterà il crimine costitui­ to dall’essere cristiano {nomen christianum) e non degli atti. 186. Tertulliano, Apologetico, 40, e altri testi citati da E.R. Dodds, Pagan and Christian in an Age ofAnxiety, Cambridge 1965 (trad. it. Pagani e cristiani in un’epoca di an­ goscia, La Nuova Italia, Firenze 1970). 187. Tacito, Annali, XVI, 28 (ed. it. op. cit,, p. 799): «Q ui fora, theatra, tempia prò soli­ tudine haberet», XVI, 22: seda, secessio. 188. I prasseologi che hanno studiato le situazioni concrete dei giochi che implicano cooperazione hanno constatato che la soluzione razionale verrà raggiunta soltanto se i due contendenti sono essi stessi razionali e se arrivano a negoziare; ma essi ne­ gozieranno, per il loro mutuo vantaggio, soltanto se ciascuno di loro crede di sape­ re che l’altro è razionale come lui. 189. Cfr. una celebre pagina della Lettera a Diogneto, V. 190. In Entretiens sur l’Antiquité classique, X IX : Le Culte des souverains, cit., p. 164. 191. Passio Scillitanorum, 14 (H. Musurillo, The Acts of thè Christian Martyrs, Oxford 1972, p. 88). 192. Mosaicarum et Romanarum legum collatio, VI, 4; Codice giustinianeo, V, 4,17. 193. Come dice Michel Foucault, in un gruppo di questo tipo l’eresia e l’ortodossia non rappresentano un’esagerazione fanatica dei meccanismi dottrinali, ma fondamen­ talmente vi appartengono (L’Ordre du discours: leqon inaugurale au Collège de Tran­ ce, Paris 1971, pp. 44-45 [trad. it. L’ordine del discorso, Einaudi, Torino 1985]). 194. H. Dessau, nn. 4561 e 4553, in Germania, dove un beneficiarius consularis ha fatto le cose con larghezza: egli onora Giove Capitolino, Marte Caturix, e, per essere an­ cora più sicuro, il genio del luogo. Cfr, L. Friedlànder, Sittengeschichte Roms, cit., Ili, pp. 143, e 176-178. 195. Sofocle, Antigone, 450-457 (ed. it. Antigone, trad. di F. Ferrari, in II teatro greco. Tragedie, cit., p. 333). 457

L’impero greco-romano 196. Euripide può ben dire che gli dèi hanno «scolpito delle leggi» per gli uomini (Io­ ne, 442-443), ma affermare che il divieto dell’incesto e dell’adulterio sono una legge incisa sul volto del cielo è solo un modo di dire. G li uomini hanno trovato incisa questa legge santa e non hanno visto gli dèi inciderla. 197. «Quel che la massa chiama leggi non scritte» (Platone, Leggi, VII, 793 A 10) è per esempio l’abitudine di nascondere pudicamente quel che ha a che fare con il sesso (V ili, 841 B 4). Si tratta di regole non sanzionate dal legislatore, ma la cui trasgres­ sione «attira il generale disprezzo sul colpevole» (Tucidide II, 37 ,3 ); o ancora, è l’equità che vieta di trattare come colpevole colui che ha avuto la sfortuna di vede­ re fallire i suoi progetti positivi (Demostene, Per la corona, 275). Ai magistrati è vietato applicare le leggi non scritte (Andocide, Sui Misteri, 85-89). Sulle leggi non scritte degli Eumolpidi, Andocide, 116, e Lisia, VI, 10. Le parole «leggi non scrit­ te» ricompariranno in un senso nuovo, postsocratico, nei Memorabili di Senofon­ te, IV, 4,19-23: queste leggi, dal momento che sono comuni ai popoli tra loro più diversi, possono provenire unicamente dagli dèi; esse prescrivono di onorare que­ sti ultimi, di rispettare i genitori, di contraccambiare ai benefìci ricevuti e di rifug­ gire l’incesto. Gli dèi hanno predisposto che queste leggi comportassero di per se stesse la loro sanzione; i discendenti delle unioni incestuose nascono deformati, e gli ingrati sono evitati da tutti e colpiti dal biasimo generale. L a rivoluzione socra­ tica è passata per di qui. 198. M. Nilsson, Geschichte der griechischen Religion, cit., I, pp. 756-757. Quando An­ tigone, al verso 74, afferma che avrà più tempo per compiacere i morti che non per compiacere ai vivi, questa è un’allegoria che oppone l’eternità dell’assoluto al tem­ po e ai suoi errori, più di quanto non faccia allusione agli incontri fra defunti nel regno delle ombre. 199. Sofocle, Trachinie, 1266 (ed. it. Trachinie, trad. di M.P. Pattoni, in II teatro greco. Tragedie, cit. p. 390). 200. Aristotele, Retorica, 1 , 13, precisa che la legge naturale non si ritrova fra tutti i po­ poli in virtù di un qualche caso o di qualche intesa, ma perché essa è conforme alla natura (pbysei); è a questo proposito che egli cita i versi famosi di Antigone, 456457. Il momento capitale è l’identificazione della legge naturale con la ragione nel­ lo stoicismo (G. Watson, «The Naturai Law and Stoicism», in A.A. Long [ed.], Problems in Stoicism, London 1971, p. 216). Da qui deriva Cicerone, De legibus, I, 15,42: tutti i pensatori greci, eccetto gli epicurei, sono in fondo d’accordo nel pro­ fessare che il giusto e l’onesto siano fondati sulla natura, che ci ha dato la ragione, dal momento che abbiamo ricevuto dei regali dagli dèi, dal dio (ibid., I, 9,27; 12, 33 ss.); il diritto naturale è fondato su un sentimento innato («innata vis», De inventione, II, 22, 65 e 53,161). Il diritto romano e i giureconsulti parlano talora di diritto naturale, ma non ne fanno alcun uso dogmatico né sistematico. Al massimo, ne fanno un uso naturalista («la parentela naturale», i legami di sangue: l’incesto è proibito agli schiavi, benché i legami di sangue non siano loro riconosciuti nel di­ ritto) o pragmatico (determinate istituzioni sono comuni, per la loro utilità, a tutti i popoli). Si tratta solo del fatto che sulla schiavitù la filantropia del loro linguaggio oppone il diritto naturale, che ignora lo schiavismo, ai diritti positivi, di cui i giureconsulti non contestano affatto la legittimità. L a concezione filosofica del diritto naturale non ha avuto seguito nel diritto positivo; questa circostanza cambierà un po’ soltanto dopo Costantino (M. Kaser, Das ròmische Privatrecht, Miinchen 1971, II, pp. 60-63). Di contro, i testi di Cicerone (De republica, III, 22,33; De legibus, I, 6,18-19 e 7 ,3 3 ), avranno molta importanza nelle discussioni dei tempi moderni sul diritto naturale. In Hegel, l’opposizione tra la legge divina, che è quella della 458

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famiglia, e l’autentica universalità, che è quella della potenza dello Stato, si trova in una delle sezioni della Fenomenologia dello Spirito, «Il mondo etico, la legge uma­ na e la legge divina, l’uomo e la donna», dal momento che è la donna a incarnare la legge divina e familiare, che passerà ben presto sotto il rullo compressore della dia­ lettica. Hegel pensa certamente ad Antigone senza nominarla, ma, se la mia memo­ ria non mi tradisce, la nominerà neWEnciclopedia. Euripide, Ecuba, 799-801 (ed. it. Ecuba, trad. di L. Battezzato, in II teatro greco. Tragedie, cit. p. 706). Id„ Ione, 442-445; Eracle, 1315-1319. Quando un malvagio invecchiava nella prosperità, si affermava, sulla scorta di Plu­ tarco, che i tempi della giustizia divina erano lenti, ma che, per il fatto di giungere più tardi, il castigo non sarebbe per questo stato meno pesante (Valerio Massimo, 1 ,1, Ext. 3). Se il malvagio moriva nella felicità, si ripeteva, con Esiodo, che la sua discendenza si sarebbe indebolita. E, se anche l’empio espiava tardi, o non aveva mai espiato, la divinità l’avrebbe tormentato durante tutto il corso della sua vita in­ viandogli senza posa terrore e pericoli (Lisia, VI, 20). Ma gli spergiuri si facevano forti della speranza che i loro figli, e non loro stessi, sarebbero stati puniti (Isocra­ te, XI, 25 [Busiride]). Si veda su questi figli anche la fine della nota 196. Ippolito, 1104-1110. Altri, e non tra gli interpreti meno illustri, ritengono che l’idea della Provvidenza è un conforto e che si indovina l’esistenza di una Intelligenza in cui si spera. Questo è far dire al testo più di quanto non possa contenere e noi se­ guiamo la tradizione più rigorosa di W.S. Barrett, Euripides: «Hippolytos», Oxford 1964, p. 371. Il coro dell’Elena, 1137-1150, sembra dire la stessa cosa, ma il testo è incerto. Elettra, 583. Si possono davvero definire giuste le divinità? (Supplici, 610)? Ifigenia in Aulide, 1034. Elena,851. Capita loro di essere asophoi (Elettra, 1302). Eracle, 655-672; Supplici, 610-612. Ifigenia in Tauride, 477. Troiane, 469. Cfr. Ifigenia in Aulide, 1034-1035: «M a tu, se gli dèi esistono, da uo­ mo giusto qual sei, ne otterrai il favore. Altrimenti, ogni sforzo è vano» (ed. it. Ifi­ genia in Aulide, trad. di F. Ferrari, in II teatro greco. Tragedie, cit., p. 1144). Ifigenia in Tauride, 560. Ippolito, 1349 (ed. it. Ippolito, trad. di G. Paduano, in II teatro greco. Tragedie, cit., p. 646). Fr. 286 Nauck. Cfr. Ecuba, 488-491: «O Zeus, che cosa dire? Che ti importa qual­ cosa degli uomini? Oppure questa che ti sei procurato è una fama immeritata (fal­ sa, pensando che esista la stirpe degli dèi) e invece è il caso che sovrintende a tutto ciò che capita loro?» (ed. it. Ecuba, trad. di L. Battezzato, in II teatro greco. Trage­ die, cit., p. 698. Le parole fra parentesi sono spesso ritenute interpolate). Nelle Leggi, X , 885 B, Platone distingue tre concezioni intollerabili degli dèi: essi sono corruttibili per mezzo di sacrifici e di voti, e questa è l’opinione popolare; es­ si non esistono, idea di mostruosi fisici; essi esistono, ma non si curano delle sorti degli uomini. Platone si leva con violenza contro quest’ultima concezione, nata dal fatto di aver visto alcuni scellerati che erano stati felici durante tutta la loro vita e che avevano lasciato una discendenza prospera (X, 899 D-900 B). Senofonte, Memorabili, 1,4 ,11 (ed. it. Memorabili, trad. di A. Santoni, Bur, Milano 1989, p. 129). Come nota B. Groethuysen, Origines de Vesprit bourgeoìs en Trance, I: L’Église et 459

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la Bourgeoisie, cit., pp. 40-44, a partire dal XVIII secolo e senza aspettare M. Homais, per un borghese discutere di religione consisteva nel discutere con il suo cu­ rato, considerato come il rappresentante di Dio, l’ambasciatore del Cielo. Coloro che non credono dicono: «Una delle due: gli Dèi o non possono nulla o p ­ pure hanno un potere. Dunque, se non possono nulla, perché innalzi preghie­ ra?» (Marco Aurelio, Ricordi, IX, 40 [ed. it. Ricordi, trad. di E. Turolla, Bur, M i­ lano 2002, p. 373). Nel Romanzo delle riconoscenze o Omelie clementine dello Pseudo-Clemente romano, XIV, 3, preghiere e atti di devozione sono inutili, se­ condo quanto afferma un ateo caduto nella sventura: tutto dipende dall’orosco­ po. Questo incredulo ha dunque risolto troncandolo di netto, con la negazione della Provvidenza, il grande problema religioso dei letterati dell’età ellenistica e imperiale: il mondo è governato da una Provvidenza, da una Fortuna imprevedi­ bile o da un Destino ineluttabile? Quando tutto va bene, si saluta la Provviden­ za; in caso di disgrazia, si incolpa la Fortuna (Caritone, III, 3 e II, 8). «Qualcuno dirà: che mi giova la filosofia, se c’è un destino immutabile? Che giova, se c’è un dio che ci governa? Che giova, se è il caso che ci com anda?» (Seneca, Lettere a Lucilio, XVI, 4 [ed. it. Lettere a Lucilio, trad. di G . Monti, Bur, Milano 1993, p. 139]). Le tre potenze sono passate in rassegna da Plinio il Vecchio, Storia natura­ le, II, 7 ,5 , 15-26. Già la preghiera delle Troiane di Euripide, 884-888, le vedeva chiedersi se il mondo sia retto da un logos provvidenziale o da un Destino; il ruo­ lo della Fortuna è già presente in Ecuba, 491; Elettra, 890; Ciclope, 354. Il «D i­ scorso del Venerdì Santo» di Costantino, 5-7, forma il libro V della Vita di Co­ stantino di Eusebio nell’edizione di Heikel. Lo stesso avviene nell’Antico Testa­ mento: quanti negano Yahweh «non negano la sua esistenza: essi non credono nel suo intervento né nella sua potenza, decidono di fare a meno di lui», scrive Marguerite Harl in G. Dorivai e D. Pralon (dir.), Nier les dieux, nierDieu, cit., p. 126. Crizia in Sesto Empirico, Contro i fisici, 1 ,54; edizione H. Diels-Kranz dei Preso­ cratici. Isocrate, X I 24 (Busiride) (ed. it. Opere, trad. di M. Marzi, Utet, Torino 1991, p. 531). Polibio, VI, 56,11-12. Sulla manipolazione politica della religione a Roma, cfr. Lily Ross-Taylor, Party Politics in thè Age ofCaesar, Berkeley 1949 cap. 4. Cicerone, che ridicolizza la divinazione nel De Divinatione, la difende per evidenti ragioni di ma­ nipolazione politica nel libro II nel De legibus. Come dice Max Weber (GesammelteAufsàtze zur Religionssoziologie, cit., II, p. 39), tutte le religioni ritualiste, l’ebrai­ ca e la romana comprese, hanno fatto buon uso della possibilità di aprire nel rito delle porte segrete, in caso di estrema necessità. Non c’è bisogno di far notare che la rustica Fidile, il cui nome significa «la risparmiatrice», è una vilica, un’intendente di condizione servile, gravata della gestione del fondo agricolo; ella non deve condurre alla rovina il suo padrone con dei sacrifi­ ci costosi (come si augurerebbero da parte loro gli schiavi di campagna che potreb­ bero in quel giorno mangiare carne): tutti i contemporanei di Orazio capivano que­ sto fatto. Era prescritto alla vilica di non fare sacrifici senza il permesso del padrone: cfr. Catone, De agricultura, 143; Columella, I, 8, 6 e XI, 1,22; bisogna che ella non sia né superstiziosa, né golosa, né incline al bere (XII, 1,3). Ci troviamo nella poesia rustica dello schiavismo, nel mondo dell’Old South e di Via col vento, in quello dei coloni algerini che «amavano i loro indigeni», così come Orazio ama la sua Fidile. Per tetigit aram, cfr. «aras contegerunt» (sic) negli A tti dei fratelli Arvali pubblicati da J. Scheid (Commentarlifratrum Arvalium, Roma 1998, n. 101,1, 6, p. 303), che ripete in Romulus et ses frères (cit., pp. 522 e 629) che il verbo contingere non può 460

Culto, devozione e morale n el paganesimo greco-romano avere un senso preciso a prescindere dal contesto. Può trattarsi di un gesto di desi­ gnazione, di appropriazione o di consacrazione. Qui, è un gesto di consacrazione. 224. Il senso di immunis è discusso. Questa parola significa sia «senza pagare nulla», sia «senza dovere nulla», si veda il gioco di parole di Plauto, Trinummus, 350 e 353. Una relazione amorosa in cui l’amante non viene pagata, contrariamente al costume invalso nella buona società, è definita immunis da Orazio. Si traduce spesso immunis come «innocente», immunis (sceleris). Io credo piuttosto che qui immunis significhi «senza pagare nulla»; il verso seguente, « non sumptuosa blandior hostia», spiega immunis insistendo su questa mano priva di offerte. Il senso di quest’ultima strofa è pertanto questo: Orazio constata che può soddisfare i Pe­ nati con una povera offerta; ciò prova che gli dèi preferiscono un cuore onesto a una ricca offerta, secondo un’idea molto diffusa: tale è la lezione dell’ode. Cfr. G. Boissier, La Religion romaine d’Auguste aux Antonins, Paris 1874, II, pp. 268-269: «O razio consola una donna del popolo che si rattrista di non poter immolare né buoi né pecore alle divinità che la proteggono, dicendole che basta incoronarne i simulacri con rosmarino e mirto, e che esse si contentano di una focaccia di farina e di qualche granello sfavillante di sale». Del pari, A. Kiessling e R. Heinze nella loro edizione di Orazio, e G . Williams, The Third hook o f Horace’s « Odes» , Oxford 1969 (1996), p. 120. L a conclusione, tanto più emozionante quanto più essa resta implicita, è che la vilica di condizione servile Fidile è la più disinteressa­ ta e onesta delle povere donne ingenue; la sua mano vuota è innocente, altrimenti essa non avrebbe «intenerito i Penati» e sarebbe stata sacrilega. Cfr. Tito Livio, XLV, 5: «Omnis praefatio sacrorum eos quibus non sunt purae manus sacris arcet»·, Platone, Leggi, IV, 716 D: né un uomo dabbene né un dio sarebbero in grado di ricevere alcuna offerta da mani insozzate; Euripide, Ione, 1315-1316: «N on è bel­ lo che sia il malvagio, ma solo il giusto, a toccare con la sua mano [psauein) ciò che è sacro» (ed. it. Ione, trad. di M.S. Mirto, in II teatro greco. Tragedie, cit., p. 1010). Per lo scettico Orazio, come per Voltaire, la vera utilità della religione sta nel fatto di essere legata alla morale e ai costumi del popolo. 225. In blandior vidima, l’ablativo victima non è complemento di causa, ma comple­ mento di misura, d’intervallo (uno pede altior nel senso di «più alto di un piede», taller by one foot, ein Tufi hdher). 226. Ogni giorno si dava ai Lari o ai Penati (adolere Penates) la loro parte (simbolica) del pasto: uno schiavo depositava un po’ di cibo davanti alla fiamma del focola­ re o davanti al larario domestico (G. Wissowa, Religion und Kultus der Ròmer, cit., p. 410 e n. 8; p. 162 e nn. 1-4; Varrone, Satires Ménippées, edizione di J.-P. Cèbe, VII, 1985, p. 1181). Una volta che il cibo era stato posto sul focolare, uno schiavo dichiarava: «Deos propitios!». Questi dèi avevano dunque smesso di es­ sere gli aversos Penates dell’ode. O ancora, una donna pia offriva ogni mattina dell’incenso e una libagione di vino (Plauto, Aulularìa, 23; G . Wissowa, Reli­ gion und Kultus der Ròmer, cit., p. 12, n. 3). Nelle case della buona società, do­ ve i pasti si svolgevano in modo differente, si portava una delle statuette dei Pe­ nati (adhibere Penates) su una della tavole della sala da pranzo al momento del secondo servizio e veniva versata loro una libagione (Eneide, V, 6; Orazio, Odi, IV, 5, 3; G. Wissowa, Religion und Kultus der Ròmer, cit., p. 162, η. 1, e 173 n. 5; Orazio, Odi, IV, 5, 3; G . Wissowa, Religion und Kultus der Ròmer, cit., p. 162, η. 1, e 173 n. 5; Orazio, Odi, IV, 5, 31; Dione Cassio, LI, 19, 7), e lo schia­ vo diceva che gli dèi erano propizi (Petronio, Satyricon, L X , 8). Ovidio mostra sua moglie prostrata a terra davanti ai L ari aversi la sera in cui il poeta lascia Roma per andare in esilio (Tristia, 1 ,3, 45). 461

L’impero greco-romano 227. Diario, 17 febbraio 1804. 228. Fatta eccezione per l’inclinazione monarchica dei pitagorici, come mi fa amiche­ volmente notare Lucien Jerphagnon. 229. I poeti comici se ne divertono; rimandi nell’edizione di J. Martin del Dyscolos, p. 97. 230. «N el sentimento estetico» scrive J.-C. Passeron «una molteplicità eterogenea e in­ definita di interessi estrinseci è una componente del piacere artistico, il che va con­ tro i tentativi di isolare una qualità pittorica o letteraria specifica, pura». Come scrive altrove, «le mescolanze di sentimenti e di idee sono stati i motori più efficaci delle rivoluzioni scientifiche o politiche (o religiose), come pure hanno costituito il nerbo delle continuità più resistenti nel tempo. Tali mescolanze restano impenetra­ bili all’analisi combinatoria, insensibili a obiezioni troppo lontane dalle evidenze della vita vissuta, ribelli a essere costrette in modelli troppo precisamente formaliz­ zati da parte di una strategia razionale» («Revue européenne des Sciences sociales», 41,2003, p. 91). 231. Aristofane, Le vespe, 82; M. Nilsson, Geschichte der griechischen Religion, cit., I, p. 145; II, pp. 194 e 383. Allo stesso modo, il verbo thuein, «sacrificare», finisce per significare semplicemente «abbattere un animale»: Giovanni, 10, 10; Eliodoro, Etiopiche, II, 19, e soprattutto cfr. un testo perfettamente chiaro di Libanio, X X X , 17-19, che gioca sui due significati del verso. Il senso di hiereuein è ugualmente in­ debolito già a partire daUtOdissea. 232. Si vantava la virtù di un sant’uomo che aveva saputo restare casto anche quando frequentava le «feste dei martiri» (Teodoreto di Ciro, citato da P. Brown, La Vie de Saint Augustin, cit. [trad. it. Agostino d’Ippona, Einaudi, Torino 2005]). 233. M. Nilsson, Geschichte der griechischen Religion, cit., II, p. 191 e η. 1, e pp. 282283; G. Wissowa, Religion und Kultus der Romer, cit., p. 68. Varrone è conosciuto soprattutto attraverso La Città di Dio·, cfr. l’esposizione di Patrice Cambronne nel­ le Oeuvres di Sant’Agostino, edizione di L. Jerphagnon, Paris 1998,1, pp. 14981501; P. Boyancé, «Sur la théologie de Varron», nei suoi Ètudes sur la religion romaine, Rome 1972, p. 253. Ma, malgrado Boyancé, non è certo che vi sia una gran­ de divaricazione fra la tripartizione di Varrone e quella degli stoici, conosciuta at­ traverso Aezio. Varrone non diceva, e non poteva dire, che esistono tre specie di dèi. Legislatori, poeti e filosofi avevano gli stessi dèi, Giove, Nettuno eccetera, ma essi se ne avevano tre opinioni diverse, e diversamente esatte. Allo stesso modo, se­ condo Plutarco (Amatorius, XVIII, 10), poeti, filosofi e legislatori sono i tre autori delle nostre opinioni (doxai) sugli dèi. D a allora, l’intervallo tra Varrone e gli stoici consiste in una sola parola, e anche in meno ancora: secondo la testimonianza di Aezio, vi sono tre specie (eide) di venerazione (sebasmos) degli dèi, la filosofica o fisica (da quest’ultima parola si riconosce bene lo stoicismo), la mitica e la legale. Secondo Varrone, ci sono tre generi (genera) di modalità per parlare degli dèi (teo­ logia). Venerazione o teologia? Ma questa teologia implica la venerazione, il culto, dal momento che Varrone dice che avrebbe preferito, da parte sua, una concezione filosofica degli dèi e un culto senza immagini, senza statue, come lo concepivano gli stoici. Del resto, egli ammette che è utile che il popolo prenda come verità certe opinioni false (La Città di Dio, IV, 31, 1). Sull’atteggiamento molto diverso di Q. Muzio Scevola, Claudia Moatti, La Raison de Rome: naissance de ΐ esprit critique à la fin de la République, Paris 1997, p. 179. Il caso di Dione di Prusa (XII, 39-42 e 44) è molto diverso; egli si chiede da dove possa provenire la venerazione per gli dèi e la attribuisce prima di tutto a una sorta di innato sentimento filiale, rafforzato dalle prescrizioni delle leggi e dagli «incoraggiamenti» dei poeti. 462

Culto, devozione e morale nel paganesimo greco-romano 234. Euripide, fr. 292 Nauck (Bellerofonte), verso citato da Crisippo in H . von Arnim, Stoicorum veterum Fragmenta (SVF), III, 1125. 235. Citato da Sesto Empirico, Contro ifisici, 1 ,91. 236. Convinzione che si ritrova in Pindaro o Cleante (cfr. n. 236 e 272) come in Plotino: l’uomo non è una creatura, è uguale al dio per dignità, se non in potenza. In Ploti­ no, l’Anima del Mondo è «sorella» della nostra (Enneadi, IV, 3,6) e questo rappor­ to di parentela è all’opposto del pessimismo degli gnostici, ovvero dei cristiani, «che non disdegnano di chiamare fratelli gli uomini più vili», ma rifiutano questo nome agli astri (che sono dèi), e all’Anima del Mondo (II, 9,18). Questi uomini vi­ li sono «la folla miserabile, che non è altro che una m assa di lavoratori manuali buoni solo per produrre gli oggetti necessari agli uomini di qualità» (Π, 9,9); infat­ ti «le città ben governate non sono quelle composte da eguali» (III, 2,11). 237. Padre degli uomini, che possiedono come lui il Logos, ragione è parola sonora, di­ ce l’Inno a Zeus di Cleante, che aggiunge che questa parentela è il privilegio esclu­ sivo degli uomini, non degli animali. 238. H.W. Pleket, «The “Believer” as Servant of thè Deity in thè Greek World», in H.S. Versnel (ed.), Faith, Hope and Worship, cit., pp. 152-192. 239. F. Heiler, La Prière, trad. Kriiger-Marty, Paris 1931, p. 137; cfr. pp. 86,1 0 4 ,1 1 4 , 144,152 eccetera. Queste creazioni metaforiche sono agli antipodi della sociologia ingenua che vuole che, per una via misteriosa, la religione ricalchi il regime politico della società, per cui il monoteismo sarebbe la conseguenza della monarchia impe­ riale romana. In realtà, il modello di san Paolo è familiare (il Padre, il Figlio, il Fra­ tello, e presto la Madre...). 240. Orazio, Odi, 1,34: «Parcus deorum cultor et infrequens» (ed. it. Odi. Epodi, trad. di M. Ramous, Garzanti, Milano 1986, p. 85). Eschilo, Persiani, 496: nella difficoltà «chi in passato aveva spregiato gli dèi, allora si profuse in suppliche e preghiere» (ed. it. Persiani, trad. di F. Ferrari, in II teatro greco. Tragedie, cit., p. 86). 241. Orazio, Satire, II, 3,288-295, impiega le parole timor deorum, traduzione di deisidaimonia, e ne dà un esempio che mostra come questa paura degli dèi non sia il tremendum biblico. Lucrezio equipara la devozione, che non è altro se non su­ perstizione o paura degli dèi, a quell’eccesso che fa «d el sangue di numerosi quadrupedi spargere Fare e appendere voti su voti» (ed. it. La natura, V, 1202, trad. di B. Pinchetti, Bur, Milano 1991, p. 385). Il De legibus di Cicerone, II, 19 e 24, e i Dieta Catonis, IV, 38, cfr. 14, condannano saggiamente i sacrifici troppo costosi. 242. Prima di tutto, Senofonte, Memorabili, 1 ,3 ,3 , e Menandro, Dyscolos, 447-453. Eu­ ripide, fr. 946 (Zaleucos), in Stobeo, IV, 2 ,1 9 (IV, p. 124, Wachsmuth-Hense): il dio chiede un cuore puro e non grandi spese. Cicerone, De natura deorum, II, 28, 71. Ovidio, Tristia, II, 75-76; Lettere dal Ponto, IV, 8,37-42; cfr. Fasti, II, 535; Se­ neca, De beneficiis, I, 6, 3; fr. 123 Haase (Lattanzio, Istituzioni divine, VI, 2 3,5). Persio, Satire, II, 55-75; Stazio, Tebaide, II, 245-248; Dione di Prusa, X III, 35; X X X I, 15; cfr. IV, 75 e X X X III, 28. L’idea è stata riconosciuta da J . e L. Robert in un’iscrizione del Didimeo pubblicata da Rehm e Harder («Bulletin épigraphique» n. 430,1958, e Opera minora selecta, III, pp. 1627 e 1630). L’offerta è tanto più ef­ ficace quanto più è povera (Valerio Massimo, II, 5 ,5 ). L’offerta del povero è molto gradita (Filostrato, Vita di Apollonio di Tiana, V, 15, storia di Esopo; Plinio il Vec­ chio, Storia Naturale, Praef. 11: si offre un po’ di farina salata se non si ha incenso). Allo stesso modo, la preghiera di un uomo giusto ha più peso di quella di chiunque altro (Terenzio, Adelphoe, 703). Numerosi riferimenti in J.-P. Cèbe (éd.), Varron, Satires Ménippées, Rome 1975, III, pp. 430, nn. 9-11. 463

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Danae, fr. 329 Nauck. Senofonte, Memorabili, 1,3,3. Platone, Leggi, X , 885 B. Cicerone, De legibus, II, 9,22, citato da J.-P Cèbe. Orazio, Lettere, I, 16, 57-62 e Persio, inizio della Satira I, citati da J.-P. Cèbe, La Caricature et la Parodie dans le monde romain, cit., pp. 206 e 278; cfr. Seneca, De benefidis, II, 1,4: «Saremmo più avari di voti se li dovessimo dare apertamente». Cfr. W. Kiesel, Aulus Persius Flaccus, Satiren, Heidelberg 1990, p. 297. R. MacMullen, Paganism in thè Roman Empire, cit., p. 63: in una taverna di Pom­ pei, pittura oscena ai danni di Iside; non lontano, un banchetto umoristico degli dèi. È altrettanto infantile e innocente di una pittura di Ostia, nelle terme dei Sette Saggi, che attribuisce a questi saggi aforismi scatologici. Vedi supra. Plutarco, Non posse suaviter vivi, X X I, (Moralia, 1101 C): riporre la propria fidu­ cia negli dèi; Porfirio, Lettera a Marcella, 24: i quattro elementi della relazione con il dio sono la verità, l’amore (eros), la speranza (elpis), la fede (pistis), che consiste nell’essere convinti che la salvezza è il ritorno al dio. Lo pensa persino l’ingenuo Eutifrone (Platone, Eutifrone, 14 A). Teofrasto, fr. 10 (p. 164, Potscher), in Stobeo, III, 3,42. Fr. 9 (p. 162, Potscher), secondo Porfirio, Π, 20,1. Cfr. Filostrato, Vita di Apollo­ nio di Piana, VI, 11, 6: «G li dèi preferiscono che si sacrifichino loro delle piccole cose, piuttosto di versare per loro il sangue dei tori». Fr. 9, r. 13 (p. 164, Potscher). Plutarco, fr. 47 Sandbach (voi. XV, p. 136, dell’edizione di Plutarco della collezio­ ne Loeb), raccomanda la continuità (synecheia) delle pratiche di devozione, il che è possibile se agli dèi si fanno soltanto offerte facili a procurarsi (euporistoi). Questo passaggio sarà da aggiungere come testimonianza per la ricostruzione del Trattato sulla pietà di Teofrasto, la parola euporistos è comune ai due testi. «Prosomilein aei tois theois» (Platone, Leggi, IV, 716 D). Nicia sacrificava ogni giorno «agli dèi» (Plutarco, Vita di Nida, IV, 2), e Teocrito scrisse un epigramma (Antologia Palatina, VI, 337), per un medico che ogni giorno sacrificava ad Ascle­ pio. Cfr. M. Nilsson, Geschichte der griechischen Religion, cit., II, p. 188,194,381383. In Sicilia, il greco Heius, una vittima di Verre, sacrificava «quasi ogni giorno» (prope quotidié) ai propri dèi domestici (Cicerone, De signis). Cfr. anche Pausania, VII, 243, 11. Un esempio tardivo di preghiera quotidiana nella penna di Marco Aurelio in Frontone, AdMarcum Caesarem, V, 25: «Tutte le mattine, prego gli dèi per la salute di Faustina». Teofrasto, fr. 7, rr. 33 e 52 Potscher (Porfirio, Π, 13,4; 14,3; 15,3). Ethos, carattere, modo abituale d ’essere, ricompare nel fr. 9 (Porfirio, II, 19, 4); hexis, disposizione interiore abituale che rende atti a compiere azioni determinate (virtuose, amichevoli...), è detto a proposito degli dèi nel fr. 12, r. 48 (p. 168, Pot­ scher; Porfirio II, 24,1). Si deve a Potscher questa concezione della riforma di Teofrasto; quest’autore cita la definizione peripatetica della pietà: «Hexis che si prende cura degli dèi e dei demoni, e che occupa il posto mediano tra l’ateismo e la superstizione» (in Sto­ beo II; p. 147, Wachsmuth-Hense). Per esempio, Ettore (Iliade, XXIV, 33-34), o Ulisse (Odissea, I, 66-67). Come si diceva non si può essere considerati virtuosi poiché una volta, e forse per caso, ci è capitato di compiere un’azione virtuosa. Ma sotto quest’idea c’è di più: la virtù, dice Aristotele, viene acquisita con la pratica assidua delle azioni virtuose, si­ no a che questa non divenga un’abitudine e che tramite essa il modo di vivere del­ 464

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l’individuo ne venga mutato. Si ritrova qui l’idea socratica della «cura di sé», se­ condo Foucault, ovvero della cura tesa al miglioramento del proprio modo di esse­ re per mezzo di un lavoro di se stessi su se stessi, del prendere se stessi come og­ getto di una trasformazione, al prezzo di un difficile mutamento che presuppone uno sdoppiamento. Platone, Apologia di Socrate, 29 E e 36 C. Senofonte, Agesilao, X, passim, e XI, 4. Michel Foucault mi ha parlato di questa Vita di Agesilao cui attribuiva una grande portata storica. È in questo senso che gli apologisti cristiani dei primi secoli ripeteranno con ra­ gione che il cristianesimo era la nuova filosofia; essi fanno meno allusioni al con­ tenuto della dottrina che non alla sua funzione: essa occuperà lo stesso posto del­ le sette filosofiche, e cioè si interesserà alla vita interiore e spirituale e al lavoro su se stessi. Secondo loro, soltanto il cristianesimo era una filosofia fatta per tutti, e non per una ristretta cerchia acculturata. La Verità sull’uomo, il mondo e Dio verrà conosciuta da tutti i fedeli. Libanio, disc. XVI, 18 (Ad Antiochia sulla collera dell’imperatore). Porfirio, Lettera a Marcella, 16. Seneca, Lettere a Ludlio, 25,4 e 41,4; Epicuro, Lettera a Meneceo, 135; Lucrezio, TTT, 123; Plutarco, Non posse suaviter vivi, VII (Moralia, 1091 B-C). Senofonte, Memorabili, 1,4. Il tema è destinato ad avere in Galeno un grande futu­ ro; sant’Agostino ancora lo svilupperà nel «sermone Dolbeau», 29, sulla Provvi­ denza, pubblicato nella «Revue des études augustiniennes» nel 1995. Platone, Leggi, IV, 716 C (ed. it. Leggi, trad. Enrico Turolla, Bur, Milano 1964, p. 388). Ibid., 717 (ed. it. op. dt., p. 389), Ibid., 716 C-D. Ibid., X, 908 C, (ed. it. op. cit., p. 623). Si tratta del tema, molto antico, della parentela tra gli uomini e gli dèi. «Noi e gli dèi» dice Pindaro «abbiamo origine dalla stessa madre; soltanto la potenza ci di­ stingue e ci separa in tutto» (Nemea, VI, si veda l’edizione di Puech). Platone, Leg­ gi, IV, 716 D (ed. it. op. dt., p. 389). Filostrato, Vita di Apollonio di Piana, 1 ,12,1; Apollonio rifiutò di presentare (synistasthai, termine del linguaggio diplomatico) ad Asclepio un ingenuo e semplice questuante che gli chiedeva questo favore perché egli aveva già un rapporto di ospitalità (xenos) con il dio. Era inutile, bisognava e bastava che egli fosse un uomo onesto. Antologia Palatina, XIV, 71. Varrone, Antiquitates rerum divinarum, in Arnobio, VII, 1, citato da J.-P. Cèbe, in Id. (éd), Varron, Satires Ménippées, cit., Ili, p. 430, n. 12. I filosofi stessi non hanno né modificato né soppresso i riti (una rara eccezione è costituita da Teofrasto, avversario dei sacrifici di animali). Socrate trovava che sol­ tanto un esagitato potesse voler inutilmente cambiare qualche elemento in quelli che erano i riti «della città» (Senofonte, Memorabili, 1,3, 1; cfr. IV, 6,2-4); cioè, non soltanto in quei riti del culto pubblico, ma anche nei riti usuali tra i suoi con­ cittadini, inclusi i culti privati. Allo stesso modo scrive Epitteto (Manuale, XXXI, 5). Epicuro stesso prescrive di sacrificare agli dèi per rendere omaggio a questi es­ seri superiori; «inoltre, così facendo, tu ti adegui in qualche modo alle tradizioni religiose» (P. Oxy., 1,215; A.A. Long e D.N. Sedley, The Hellenistic Philosophers, Cambridge 1987, II, p. 152; A. J. Festugière, Épicure et ses dieux, Paris 1968, p. 99). Porfirio non è lontano dall’ammettere un culto soltanto spirituale, scrive che 465

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«gli altari degli dèi, se vi si fanno sacrifici, non fanno nulla di male, e se li si trascu­ ra, non comportano nessuna utilità», e finisce per ammettere che «la vera devozio­ ne consiste nell’onorare la divinità secondo i costumi della propria patria», ma for­ mandosi un’idea giusta di Dio e del poco valore delle «opere» (erga)·, cfr. Lettera a Marcella, 16-19 e 23. »Syntaxeon doseis»: Porfirio, De abstinentia, II, 61,1-2, (passaggio che non si deve far risalire a Teofrasto; le argomentazioni di Bouffartigue e Patillon, p. 27 della lo­ ro edizione, sembrano convincenti). Questa è la differenza di funzione (se non di origine o di contenuto) tra i riti e i simboli. Non si può agire con scaltrezza e astuzia con i riti come lo si può fare con i simboli, fare delle restrizioni mentali (questa specie di metalinguaggio) mentre si esegue il rito: se lo si facesse, il rito non avrebbe minore efficacia operativa ex ope­ re operato, come dicono i teologi, e l’indegnità personale dell’officiante o quello che egli può pensare nel suo cuore non cambierebbero niente in esso. Se anche il rito fosse formulato in una lingua straniera o immaginaria che non viene compresa né dall’officiante né da quanti assistono alla cerimonia, il rito non opererebbe di meno. Certamente, i riti possono essere stati elaborati come simboli e anche inse­ gnare delle credenze e dei dogmi attraverso dei simboli (è il caso, questo, dei riti cristiani). Ma la loro funzione non è soltanto rappresentativa e didattica, è, per pri­ ma cosa, performativa: come promettere consiste nel pronunciare le parole «io prometto» (da allora, la promessa è effettiva e nessuna restrizione mentale le potrà impedire di impegnare chi l’ha fatta), così onorare gli dèi consiste nell’eseguire i ri­ ti che li onorano. G. Bateson, La Cérémonie du Naven, Paris 1986, p. 170: «Un giorno in cui si cele­ brava una cerimonia relativa alla fertilità e alla prosperità, al momento della posa di una nuova pavimentazione, la maggior parte di coloro dai quali ottenni l’infor­ mazione mi disse che la cerimonia veniva celebrata a causa della nuova pavimenta­ zione-, pochi erano gli uomini che avevano la piena consapevolezza del significato rituale della cerimonia o che vi avevano un interesse peculiare»; cfr., anche, ibid., la legenda della tavola di p. 326. Plutarco, De superstitione, IX (Moralia, 169D). Euripide, Baccanti, 201, «L e tradizioni avite, quelle che in quanto antiche come il tempo noi abbiamo acquisito» (ed. it. Baccanti, trad. di V. Di Benedetto, in II teatro greco. Tragedie, cit., p. 1168). Antologia Palatina, VI, 69-70; IX, 34-36; Valerio Fiacco, Argonautiche II, 285, e il bel carme IV di Catullo (il Phaselus). Per esempio, Arnobio, I, 9; Prudenzio, Contro Simmaco, II, 1006-1011. Filostrato, Eroico, 1,7, ricava un aneddoto dal contrasto delle due culture. Apuleio, Il demone di Socrate, 3. Varrone in sant’Agostino, La Città di Dio, III, 4; VI, 31; e VI, 2. Plinio, Lettere, V ili, 8; IV, 1; e IX, 39. Cfr. R. MacMullen, Christianizing thè Ro­ man Empire, cit., p. 197 e n. 63. Allo stesso modo, Pollio Felice ricostruisce presso Sorrento, in un luogo ancora oggi chiamato Marina di Puolo, un tempio di Ercole che era un centro di festeggiamenti popolari: egli vi aveva istituito una competizio­ ne di boxe «inoffensiva» (vi si combatteva a mani nude, senza indossare guanti rinforzati con piombo); e davanti alla sua casa vi era un santuario di Nettuno (Sta­ zio, Silvae, III, 1, e II, 2, 23). Si assiste spesso alla circostanza di latifondisti che si prendono cura di un santuario innalzato sulle loro terre (spesso centro di pellegri­ naggio o di fiere, di nundinae)·, più tardi, vi faranno costruire chiese rurali (W.H.C. Frend, The Donatisi Church: A Movement o f Protesi in Roman North Africa, 466

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Oxford 1952, p. 176). Cfr. Digesto, I, 8, 6 ,3 . Sulla via Cassia, all’uscita di Roma, «sacrarium Liberi Patris in praediis Constantiorum omnibus annis celebrantur» (No­ tizie degli Scavi, 1925, p. 397; «Année épigraphique», 1927, n. 103); doveva trattar­ si di un luogo di pellegrinaggio popolare. Si veda anche la bella iscrizione in CIL, V, 5005 (H. Dessau, n. 3761). A Treviri «conosciamo almeno tre santuari [...] co­ munitari, ma che [...] si trovavano sul territorio di una villa» (J. Scheid in Les Sanctuaires celtiques et leurs rapporti avec le monde méditenanéen: actes du colloque de Saint-Riquier, Paris 1990, p. 46). Si pensi ai tre templi della magnifica villa dell’Ìso­ la di Brioni, in Istria. Su altri santuari appartenenti a ville, G. Fouet, La Villa galloromaine de Montmarin, supplemento X X a «G allia» 1969, p. 164; J. Holmgren e A. Leday, Typologie des villas du Berry, «G allia» 39,1981, p. I l i e 119; nei dintor­ ni di Treviri, H. Cuppers e A. Neyses, Der Gutshof mit Grabbezirk und Tempel bei Newel, apparso dapprima nella «Trierer Zeitschrift» del 1971 e ripreso in F. Treutti (Hrsg.), Die romische Villa, Wege der Forschung, C LX XX II, 1990, pp. 219-269. Un papiro parla di un santuario privato dei Dioscuri, innalzato su ordine di un oracolo (P. Giessen, 20, in L. Mitteis e U. Wilcken, Grundzuge und Chrestomathie der Papyruskunde, cit., Historischer Teil, Chrest., p. 123, n. 94. Caritone, Cherea e Calliroe, V, 10,1: «Sovrana Afrodite, tu mi hai ingannato, quando ho fondato in tuo onore un santuario sulle mie terre e quando spesso vi faccio sacrifici». A. Momigliano, The Theological Efforts ofthe Roman Upper Class in thè First Century B. C., «Classical Philology», 1984, p. 199; J.H.W.G. Liebeschuestz, Continuity and Change in Roman Religion, cit., pp. 29-39. De Hurispicum responso, IX, 18. Galeno, De usu partium, III, 10 (III, p. 236, Kuhn), e XVII, 1 (IV, p. 358), Cfr. Se­ nofonte, Memorabili, 1 ,4,2-6; Cicerone, De natura deorum, II, 56,141. P. Boyancé, «Sur la théologie de Varron» nei suoi Études sur la religion romaine, cit., pp. 262-263. Plinio il Giovane, Lettere, 1 ,18; Ammiano Marcellino, XXV, 4. Marco Aurelio, IX, 27,3; 1 ,17,1,11 e 20-21. La parola «oracolo» (chresmos) desi­ gnava i segni (chrematismos) premonitori più diversi («Latomus», 45,1986, p. 271). L’epoca si sforzava di rendersi fervente e usava per questo le parole religiose con un’enfasi impropria. Plinio il Giovane, Lettere, VII, 27; L. Robert, Hellenica, X I-XII, p. 544; Cassio Dione, LX X X , 18. Seneca, De tranquillitate animi, XI, 2. Il diritto civile forniva pochi ricorsi contro gli affidatari sleali di fidecommessi, incaricati di conservare denaro. Tolomeo, Tetrabiblos, (p. 344, Robbins). Si tratta dello schizzo di un ritratto satiri­ co del tipo dei Caratteri di Teofrasto. Altri tratti rimarchevoli (pp. 330-352), le confessioni (exagoriai, cfr. qui nota 92), il gusto dell’esoterismo, l’interpretazione dei sogni e dei presagi, la paura superstiziosa (deisidaimonia), la frequentazione dei santuari, dei riti e degli dèi. La sessualità resta l’aspetto evitato prima di tutti gli altri dai diversi ascetismi. E f­ fettivamente, essa mette in gioco troppi elementi ed è anche l’anello al contempo più fragile e più pesante della catena: è impulsiva, corporale, esigente, intensa, po­ co controllabile (può essere selvaggia o, al contrario, romanzesca), ha troppe im­ plicazioni compromettenti o difficili da gestire con il prossimo e con la società; inoltre, in alcuni individui dei due sessi, si trova in disaccordo con il resto del loro carattere o con l’ideale che hanno di se stessi, cosicché il loro stesso desiderio è per loro un peso; non smette certo di esistere, ma li mette a disagio con il loro corpo, e in conflitto con loro stessi. Infine, la sessualità interessa in modo diverso gli indivi­ 467

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dui, quale che sia il loro sesso, e questo provoca un conflitto sociale latente. L a ses­ sualità umana non è uno dei successi maggiori della natura, o, più esattamente, della cultura (benché si tratti, diceva spiritosamente Nietzsche, di una delle rare at­ tività umane in cui si può «fare del bene a se stessi facendolo a un’altra persona: la natura è raramente tanto clemente»). Tutta questa questione ha pesanti conseguen­ ze storiche: spesso l’ascetismo viene imposto a tutta una società e la rende repressa; è la vittoria di uno di quei «partiti virtuali» di cui parliamo altrove (cfr. in merito la nota 341), il partito di quanti sono messi a disagio dalla sessualità e che impongono la loro legge all’altro «partito virtuale». San Francesco di Sales, Introduzione alla vita devota, IV, 14,5 (ed. it. Introduzione alla vita devota, Bur, Milano 1999, p. 357). Cicerone scriveva neWHortensius (cita­ to da sant’Agostino) che il piacere fisico impedisce la riflessione e l’attenzione, confondendo in questo punto, per giustificare l’ascetismo, alcuni stati momentanei e il resto del tempo. Durante i momenti in cui un asceta vive determinati stati intel­ lettuali o religiosi elevati e mentre «fa orazione», la concupiscenza, la collera o l’in­ vidia sono molto lontane da lui; ma egli non prega per tutto il tempo, e, nei mo­ menti ordinari, ritorna a essere accessibile a queste tentazioni. M a la concezione globale della personalità tende a dimenticare questo «resto del tempo» e può così opporre, artificialmente, due totalità: l’uomo dai pensieri elevati e l’uomo dedito ai bassi piaceri. Bisognerebbe moltiplicare qui le distinzioni. Le professioni elevate esigevano tutto dall’uomo, che doveva sottrarsi ai doveri triviali di un padre di famiglia e restare un uomo celibe, serio, astinente. Quest’ascetismo, che doveva elevarsi al di sopra di un’esistenza volgare, non è, evidentemente, la stessa cosa rispetto all’ascetismo cristiano che lotta contro il demone della carne in un Giovanni Cassiano; è non meno differente la capacità di saper controllare e dominare i piaceri (dalla loro «gestione», come si suol dire), che doveva essere praticata dall’idea di cittadinanza antica, dal momento che un cittadino degno di questo nome doveva essere padro­ ne di se stesso. Inoltre, si ricordi una realtà psicologica: la sessualità non sempre in­ teressa degli individui predisposti alla spiritualità. Cfr. il libro classico di P. Brown, Society and Holy in Late Antiquity, cit. Sant’Agostino, Soliloquia, 1 ,17: il giovane Agostino vuole giungere alla conoscenza di Dio e dell’anima, ma nulla allontana maggiormente dalla sua cittadella fortifica­ ta uno spirito virile di quanto non facciano le sfrontate provocazioni di una donna ed il contatto dei corpi. J. Scheid, «Ronald Syme et la religion des Romains», in Entretiens sur l’Antiquité classique, XLVI: La Révolution romaine après Ronald Syme, Vandoeuvres-Geneve, 2000, p. 54. Valerio Massimo, VI, 9, Rom. 3, citato da John Scheid (ed. it. Detti e fatti memora­ bili, trad. di R. Faranda, Tea, Milano 1988, pp. 459-461). Cfr. il riferimento a Plutarco nella sua Consolatio ad uxorem, nota 357. Illuminato calcolatore: si veda il caso di un certo Zoilo che, dietro ordine del dio, vuole fondare un santuario di Serapide e parla del finanziamento della sua impre­ sa a un ministro di Tolomeo Filadelfo: cfr. C.C. Edgar, Zenon Papyri, I, p. 55, n. 59034, commentato da A.D. Nock, Conversion: The Old and New in Religion from Alexander to Constantine, Oxford 1933 (1963), p. 49 (trad. it. La Conversio­ ne: società e religione nel mondo antico, Laterza Roma-Bari, 1974). Sul commercio della carne (degli «idolothyti»), ricordiamo la lettera di Plinio a Traiano sui cri­ stiani: per provare al suo principe che nella sua provincia il cristianesimo era or­ mai in decadenza, scrive che è ricominciato il commercio della carne venduta dai 468

Culto, devozione e morale nel paganesimo greco-romano templi (Lettere, X , 96,10: «Denuo venire victimarum carnem»·, la parola carnem è un’integrazione, in sostituzione della quale Bickermanon ha proposto vectigal che mi sembra meno plausibile; c’era naturalmente una tassa imperiale sui sacrifici, lo sappiamo specialmente dallo Gnomon dell’Idiologo, ma vectigal mal si accorda con il verbo venire). 305. Tacito, Storie, III, 74; Svetonio, Domiziano, I; Minucio Febee, XXV I, 11. Un’altra risorsa degli innamorati era la casa di un amico (riferimenti in T. Mommsen, Strafrecht, cit., p. 700, n. 2). 306. Cfr. nel Museo di Nicosia, il ritratto della sacerdotessa di Afrodite proveniente dal santuario di Afrodite ad Arsos, III secolo avanti Cristo. Un’eccellente fotografia si trova in K. Papaioannou et al., l i Art grec, cit. Ma questo ritratto potrebbe essere anche quello di una sovrana lagide, velata come sulle monete, se la tenia che la cin­ ge è un diadema; riferimenti in «Revue archéologique», 1 ,1995, p. 48, n. 30. 307. Museo nazionale, inventario n. 351; S. Karouzou, National ArchaeologicalMuseum, Athens 1968, p. 186. Questo ritratto, datato comunemente al I secolo, è più tardi­ vo, a causa dell’acconciatura, secondo K. Fittschen in Id. (Hrsg.), Griechische Portrdts, Darmstadt 1988, p. 26 e tav. 133. Si noterà la grande somigfianza di questa te­ sta con il ritratto 658 deba Ny Carlsberg (R.R.R. Smith, Hellenistic Sculpture, cit.), e con un ritratto del Museo di Boston, dato come proveniente da Traile e datato agli anni attorno al 150 in J. Inan e E. Alfoldi-Rosembaum, Ròmische undfriihbyzantinische Portràtplastik aus der Tiirkei: neue Funde, Mainz 1979, n. 215, e in R.R.R. Smith in «JRS», 88,1998, p. 85 e nn. 153 e 156. Si tratterà di un personag­ gio celebre del suo tempo? 308. Così, su un ribevo funerario del Museo di Ostia, che mostra un sacerdote mentre depone deb’incenso in un bruciaprofumi e che Raissa Calza data ab’età dei Flavi in Scavi di Ostia, 5 : 1 ritratti, 1, Libreria dello Stato, Roma 1965, p. 50, n. 71 e tav. X L I; le pieghe subnasab e la serietà debo sguardo e deba bocca dabe labbra serra­ te sono tah da conferire ab’officiante un’aria piuttosto sinistra. O ancora, si veda al Louvre fi ribevo Mattei, dove due ministri conducono fi bue che verrà sacrificato: vi è nel loro sguardo la stessa concentrazione (I. Scott Ryberg, Rites o f thè State Re­ ligion in Roman Art, cit., p. 130 e n. 32, e tav. XLVI; buone fotografie dei visi in G. Traversar! Aspetti formali della scultura neoclassica a Roma, L’Erma, Roma 1961, figg. 51 e 52, e p. 71). 309. A. Giuhano, La cultura artistica delle province della Grecia in età romana, L’Erma, Roma 1965, p. 79, e tavola 30, fig. 2: «Sacerdote [...] dal viso emaciato, il volto in­ tensamente raccolto». 310. E. Buschor, Das Portràt, Bildniswege in fiin f Jahrbunderten, Munchen 1960, p. 139 e fig. 95; cfr. anche H.P. L’Orange, The «Jamblichus» type, in «Acta ad archaeologiam», 6,1975, p. 60 e tav. 3. Entrambi gb studiosi datano il ritratto al III secolo. 311. Scorrendo la Roman and Early Bizantine Portrait Sculpture in Asia Minor di J. Inan e E. Alfoldi-Rosembaum, London 1966, per esempio p. 199, n. 274, e tav. CLI, o il ritratto di Damiano con la sua enorme corona, n. 151, tav. LX XX V II, con la fronte solcata da rughe e le sopraccigha aggrottate. Cfr. anche YEnciclopedia dell’arte anti­ ca, Roma 1958,1, articolo «Arte alessandrina», p. 221, fig. 333. Passeggiando per Venezia, lungo Ruga Giuffa, tra Santa Maria Formosa e San Zaccaria, si può vede­ re una debe teste in fondo al vicolo Ramo Grimani, sopra una porta laterale deb’omonimo palazzo ricco di testimonianze deb’antichità. 312. Come ha dimostrato A. K. Massner, Corona civica, Priesterkranz oder Magistratinsigne?, «Athenische Mittelungen», 103,1988, pp. 239-250. Ad Afrodisia è stata ri­ trovata una testa con una corona con medagbone, che sicuramente è queba di un 469

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sacerdote del tempio locale di Afrodite (ha la fisionomia che ci si aspetta e, in più, ha delle profonde rughe sulla fronte); si dirà lo stesso anche della corposa serie di ritratti sacerdotali provenienti da Paimira. Non ho letto J . Rumscheid, Kranz und Krone: besondere Arten des Kopfschmuckes in der rom. Kaiserzeit und ihre Bedeutung, «Istanbuler Forschungen», 43,1999. R. Bianchi Bandinelli, Roma: la fine dell’arte antica, Feltrinelli, Milano 1970, p. 221, fig. 204. Il problema è stato sondato a partire dal 1946, nella «Revue archéologique», da F. Chamoux, Une tète égyptienne en basalte vert. La bibliografia delle influenze egizia­ ne sull’arte ellenistica del ritratto è lunga; ho letto solo C. Kuthmann, Der griine Kopf der Berliner Àgyptischen Museums, «Zeitschrift fiir Agyptische Sprache und Altertumskunde», 88,1963, pp. 37-42; B.V. Bothmer, Roman republican andlateEgyptian portraiture, «American Journal of Archaeology», 58,1954, p. 1453; e A. Adriani, Ri­ tratti dell’Egitto greco-romano, «Romische Mitteilungen», 77,1970, p. 72. Esem pi di questi ritratti egiziani: S. Donadoni, L’arte egizia, Tea, Milano 1994; R.R.R. Smith, Hellenistic Sculpture, cit.; Kleopatra, Àgypten um die Zeitenwende, Mainz 1989, pp. 134-165, passim. H. Harrison in The Athenian Agora, I: Portrait Sculptures, Princeton 1953, p. 12, n. 3, tav. 3; G. Hafiner, Spàthellenistische Bildnisplastik, Berlin 1954, p. 60, η. A2 e tav. 25. Questi ritratti risalgono ai primi decenni del I secolo dopo Cristo. Il sacerdote porta una corona dalla sezione circolare, ed è completamente calvo e glabro; i suoi occhi, le labbra e le pieghe ai lati del naso sono quelli che ci aspettiamo. Le rughe sulla fronte sono incise, non plastiche. Basta scorrere, per esempio, il ricco apparato iconografico di M. Bergmann, Studien zur rom. Portràt des 3. ]ahrhunderts, Bonn 1977, o di S. Wood, Roman Portrait Sculpture, 217-260 A. D., Leiden 1986. Apuleio, Apologia, LVI, 4-5 (ed. it. Apologia, trad. di C. Moreschini, Bur, Milano 2000, p. 203). Senofonte, Anabasi, IV, 8,25 e V, 3,4-9. Svetonio, Augusto, X C I, 2 (ed. it. Vite dei Cesari, trad. di F. Dessi, Bur, Milano 2000, p. 281). Seneca, fr. 120 H aase (Lattanzio, Istituzioni divine, II, 2, 14); cfr. S ’esseoir auprès des dieux, fréquenter les temples, «Revue de philologie», L X III, 1989, pp. 175-194 (ripreso nel mio Société romain, cit., dove... non ho citato questo fram­ mento). Sui lanci di monete nei guadi e nelle sorgenti, W. van Andringa, La Religion en Gaule romaine, Paris 2Q02, pp. 121-122; A. Grenier, Archéologie galloromaine, II: L’Archéologie du sol, 1: Les Routes, Paris 1934, p. 185. Nel momen­ to in cui scrivo queste righe, si annuncia il ritrovamento di monete dei primi quattro secoli nella fontana di Vaichiusa. Sui thesauroi (da cui il termine thesauri in Seneca e nell’iscrizione Dessau n. 9260), queste cassette per le offerte po­ ste nei templi, si veda, in aggiunta ai riferimenti epigrafici nelle leggi sacre gre­ che, la descrizione che ne fa F. H iller von Gàrtringen, Die Insel Thera, I, pp. 260-264. In greco, «eis hiera phoitan» in Giuliano, Misopogon, 15, 346 C, e l’hapax « hierophoitan», in Tolomeo, Tetrabiblos, Π, 13, (p. 340, Robbins). Florida,!, 1. Seneca, fr. 36 Haase, in sant’Agostino, La Città di Dio, VI, 10. Un caso diverso è quello delle esibizioni (epideixeis) del loro talento offerte gratuitamente da alcuni artisti in Grecia di fronte a un pubblico; si considerava che essi avessero offerto «agli dèi» quest’esibizione gratuita, come primizia (aparche). 470

Culto, devozione e morale nel paganesimo greco-romano 325. Properzio, II, 28 B, 45-46 (ed. it. Elegie, trad. L. Canali, Bur, Milano 1998, p. 237). 326. Apuleio, Metamorfosi XI, 2 5 ,1 (ed. it. Metamorfosi, trad. di C. Anneratone, Bur, Milano 1976, p. 691). 327. Questo è l’atteggiamento di Plinio il Giovane e dei suoi pari davanti ai graffiti di ingenui devoti nel santuario alle fonti del Clitumno (Lettere, V ili, 8 ,7 ). Su questi graffiti nel mondo greco, cfr. A. Bernard, articolo «Graffito II» del Reallexikon fiir Antike und Christentum, X II, in particolare col. 669 ss. In latino, «Année épigraphique», 1977, n. 219. 328. Elio Aristide, Discours sacrés: rève, réligion médecine au secondsiècle après J.-C., intr. et trad. Festugière, preface de J. Le Goff, Paris 1986; Elio Aristide, Discorsi sa­ cri, a cura di S. Nicosia, Adelphi, Milano 1984. Si veda poi il capitolo VI di A.-J. Festugière, Personal Réligion among thè Greeks, Los Angeles 1960, pp. 85-104. 329. Nel ritratto giudizioso che ha tracciato di Aristide negli Atti dell’Accademia Pontaniana, Napoli, LI, 2002, pp. 369-383. 330. Sui rapporti personali di Giuliano con gli dèi, sulle loro conversazioni, si veda la stupefacente testimonianza di Libanio, disc. XV, 30-31; si veda anche XVIII, 392. 331. Si può dire che i Discorsi sacri di Elio Aristide sono una gigantesca aretologia. Ve­ niva chiamato aretologia un piccolo discorso che vantava i meriti, il valore (arete), le capacità o dynameis di un dio; alcuni ciceroni lo recitavano ai visitatori nei san­ tuari. Si veda R. Reizenstein, Hellenistische Wundererzàhlungen, Leipzig 1963, par­ te I. 332. Si vedano, poco sopra, le note 296 e 322 (Tolomeo), 255 (Platone) e 254 (Plutar­ co). Di questa continua frequentazione (syneches homilia) degli dèi, Giuliano è un esempio: egli visitava tutti i templi nel corso dei suoi spostamenti, nel suo palazzo di Antiochia aveva fatto costruire un santuario e aveva fatto disporre la sua stanza a fianco del tempio, cosa che poteva fare senza essere impuro, dal momento che trascorreva le sue notti in completa castità (Libanio, disc. XVIII, 127-129 [Orazio­ ne funebre di Giuliano)). E inoltre egli offriva un sacrificio quotidiano nel giardino del palazzo (disc. I, 121 [Autobiografia)). Egli moltiplicava poi i sacrifici pubblici (Giuliano, Misopogon, 15,346 B-D). 333. Prendo qui «mistico» in senso stretto, per designare quello stato fisico sui generis che è l’estasi, come in Plotino o in santa Teresa d’Avila, quei minuti di felicità amo­ rosa, così differente dalla trance, in cui ci si sente partecipe dell’Assoluto: di Dio, di un dio, dell’Uno-Bene di Plotino, del Dio-Natura di Spinoza, dell’Amore, dello Slancio Vitale, della Bellezza, della Natura; assoluto diventato «palpabile» (Ploti­ no), e così vicino che ci si può fondere in quest’alterità. Questo stato, perfettamen­ te lucido, può essere provocato da ogni sentimento forte, religioso o no: la divinità, un paesaggio, la poesia, una grande idea, un’impresa, la passione amorosa eccete­ ra. Bisogna stare in guardia quando si ha a che fare con la parola greca ekstasis, che designa, in modo vago, ogni entusiasmo o ogni eccitazione, e non il fenomeno as­ solutamente specifico dell’estasi in Plotino o nei mistici cristiani. (E.R. Dodds, Pagan and Christian in an Age o f Anxiety, cit.). 334. Nel secondo discorso sacro di Elio Aristide, al paragrafo 23 (p. 399 Keil; p. 52 ed. Festugièr), si trova la descrizione stupita di un’estasi. 335. Per esempio, si veda la descrizione dettagliata e affascinata di un rito di purifica­ zione in Claudiano, Per il VI consolato di Onorio, w. 324-330. 336. Libanio, 1 ,32 (Autobiografia) (cfr. 92, fine). 337. G . Bras, Étude de sociologie religieuse, Paris 1956, II, p. 564 e n. 4: «Ecco il vero problema, che avrebbe scandalizzato molti dei nostri antenati: la Francia è mai sta­ ta cristianizzata? [...] Quanti tratti di empietà popolare [...] nel medioevo!». La 471

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stessa domanda patetica nel teologo Friedrich Heiler, che scopre il «paganesimo cristiano» della condizione contadina: «Π nostro popolo è mai stato cristiano?». La diversità, o la diseguale intensità delle credenze individuali in una stessa epoca è diventata un fatto ammesso, banale (non si parla più di «epoche di fede»), Ibid,, p. 627: «Come il costume giuridico, il costume religioso risulta dall’unanimità o dalla quasi unanimità. Ma, a differenza del costume giuridico, essa non s’impone inelut­ tabilmente a tutti: essa viene proposta a ciascun individuo. Il gruppo fa pressione sull’individuo, ma non gli può togliere la sua libertà naturale»; p. 636: «fede profonda, [...], semplici conformisti»; p. 562: «Sarà conveniente iniziare con la psicologia dell’individuo [...]. Grado verosimile di libertà, di spontaneità, di fer­ vore...». Per un panorama sullo stato attuale, che vede non un declino della religiosità in ge­ nerale, ma innovazioni e trasformazioni profonde nei paesi sviluppati, ho letto il n. 109 degli «Archives des Sciences sociales des religions», XLV, 2000. Un esempio antico, ma classico, è quello di G. Le Bras, Étude de sociologie religieuse, cit., II, p. 475: verso il 1950, in Francia, la presenza alla messa domenicale era compresa tra il 10 e il 20% , in media, nelle grandi città; 30% nella parrocchia parigina di SaintHonoré d’Eylau e 5 % a Belleville e Ménilmontant. Nella Francia cattolica alla metà del secolo appena trascorso, Le Bras distingueva i devoti che recitavano d’a­ bitudine il rosario, quelli che frequentavano regolarmente la messa domenicale, i «conformisti stagionali», che festeggiavano la Pasqua, e i non religiosi che non fre­ quentavano mai la chiesa. Nell’anno 2000, all’incirca un quarto dei francesi si defi­ niscono cattolici, ma più della metà di essi non praticano mai («Archives de Scien­ ces sociales des religions», XLV, 2000, p. 15). Per Madame de Sévigné, era un dovere consacrare ogni giorno un momento a una meditazione religiosa: «Alle cinque, un libro di devozione e un altro di storia, pen­ sare un poco a Dio, alla sua provvidenza, possedere la propria anima, pensare al futuro; infine, verso le otto, sento una campanella, è la cena» (29 giugno 1689). Dovere quotidiano un poco leggero: san Francesco di Sales era molto più esigente per la sua Filotea. Per esempio, malgrado enormi variazioni storiche, l’eterosessualità è sempre più frequente dell’omosessualità (il che non prova evidentemente nulla), e il gusto per la musica, buona o cattiva, pare più diffuso della sensibilità pittorica. Cfr. M. Mer­ leau-Ponty, pp. 498 ss. e 515 Fenomenologia della percezione, il Saggiatore, Milano 1965. C ’è una probabilità statìstica per cui i ricchi possono essere più contenti del­ la loro sorte di quanto non lo siano i poveri. Se vi fosse soltanto una forma di so­ cializzazione di tipo durkheimiana, non esisterebbe una minoranza borghese che vota a sinistra. E, al contrario, se esistessero soltanto delle variazioni individuali, la storia sarebbe molto diversa entrando pienamente in gioco la legge dei grandi nu­ meri, la metà esatta dei membri della borghesia voterebbe a sinistra, e un ebreo su due sarebbe antisemita. Come ha mostrato Quételet, l’individualismo e il nomina­ lismo hanno come limite l’esistenza di tipi: il Ricco, il Povero eccetera. Si veda, alla fine della nota 297, qui sopra, un altro esempio di «partiti virtuali». J. Scheid, Romulus et ses frères, cit., p. 741: «N on conosco alcuna religione in cui i fondamenti e i prolungamenti teologici dei servizi religiosi potrebbero essere senti­ ti in permanenza e da tutti coloro che vi hanno assistito. Nella religione romana, come in tutte le altre, la maggior parte dei fedeli che assistono alle cerimonie si ac­ contentavano di avvertirne come esito che la tradizione era rispettata, che avevano fatto come gli altri e che la comunità cui appartenevano era in regola con gli dèi». A proposito delle folle che si facevano uccidere in massa nel 1914, non è esatto 472

Culto, devozione e morale nel paganesimo greco-romano scrivere come Apollinaire che «nel cuore del soldato palpita la Francia»; nel loro cuore non palpitava assolutamente nulla, anche se erano «visceralmente» patrioti (il che, del resto, non è dimostrato). 344. Diatribe, II, 4. 345. Plotino, questo virtuoso della spiritualità, dell’estasi e dell’amore, non parla mai, se non mi sbaglio, di devozione, e, del resto, pronuncia la parola «santo» (hagios) sol­ tanto in un breve passaggio di carattere allegorico e mitico {Enneadi, IV, 3 ,3 2 , fi­ ne). Egli ama con fervore l’Uno-Bene e l’Anima del Mondo, ma 1 Uno non ama nessuno al di fuori di se stesso, e ama coloro ai quali si unisce e che diventano, ap­ punto, parte integrante di lui stesso (VI, 8, 15). Non sapremmo dialogare con l’U ­ no; la preghiera non è la relazione personale di due esseri, ma esercita un’azione fi­ sica o, scrive Plotino, magica (IV, 4,26), dal momento che nulla può infatti interve­ nire ad alterare, nel senso personale del termine, il funzionamento impersonale e inalterabile di un mondo che, a suo modo, è altrettanto «razionale» di quello di Spinoza. Parimenti, i santuari e le immagini degli dèi esercitano un’attrazione pu­ ramente fisica sull’Anima del Mondo (IV, 3,11). Di contro, Plotino ha il senso del sacro (hieros): per lui, «tutto lo spazio [cosmico] è sacro» (1,8,14,37), anche le ce­ rimonie sacre (V, 5 ,1 1 ,1 6 ). 346. W. Jones, The varieties o f religious experience, Harmondswordt 1982 (trad. it. Le varie forme dell1esperienza religiosa: uno studio sulla natura umana, Morcelliana, Brescia 1998, p. 43). 347. G. Simmel, Die Religion, cit., p. 66; si veda per esempio Marco Aurelio, XII, 23. 348. Si tratta del lirismo di IV, 23 («Tutto quello che a te, o mondo, conviene, tutto a lei pure conviene! [...] O cara città di Zeus!» [ed. it. Ricordi, trad. di E. Turolla, Bur, Milano 2002, p. 161]), a fronte di V, 8 e 10 dove predomina l’accettazione rasse­ gnata e triste. L’immagine della città è così naturale per lo spirito antico che la ri­ troveremo in Plotino, Enneadi, IV, 4,40: «L a ragione dell universo potrebbe esse­ re paragonata a una ragione capace di introdurre 1 ordine e la legge in una città». 349. G. Simmel, Die Religion, cit., p. 86. 350. H. von Arnim, SVF, 1 ,537. Lo Zeus di Cleante è padrone della folgore che desi­ gna, allegoricamente, il Fuoco Artefice. Si veda anche 1 eulogia del Bene (in pro­ sa) fatta da Cleante (H. von Arnim, SVF, I, 557), con la sua accumulazione di epiteti nello stile degli inni «orfici»: in poche parole, il Bene è definito pio e do­ cile al dio (poiché il cosmo e il Bene sono opera del Fuoco Artefice), mentre tut­ ti gli altri aggettivi ed epiteti traducono un identificazione entusiastica con un principio astratto di chiarezza, autonomia, sicurezza atarattica e di forza personale. . 351. Non dobbiamo confondere il senso stoico del cosmo con il senso marxista della storia. Il comuniSmo, secondo Marx, era entro il senso della storia, e si sarebbe realizzato, presto o tardi, in virtù di una necessità razionale e auspicabile dell’eco­ nomia: un bel giorno, finalmente, le forze di produzione non potranno evitare di spazzar via i rapporti capitalistici, che governano la produzione stessa; necessità e ottimismo, infatti, coincidono (questo è il grande sottinteso). Bisogna dire che que­ sto fatto, inevitabile nel futuro, è, allo stesso tempo, un imperativo etico secondo il quale è cosa lodevole aderire al comuniSmo? Sì, è lodevole, si dirà sdegnosamente agli intellettuali di buona volontà, ma lasciando loro intravedere che essi fanno, per così dire, da mosca cocchiera. Il fatto importante è che il comuniSmo è nel sen­ so economico e infrastrutturale della storia; indivisibile da questa circostanza e la considerazione che, nella sovrastruttura, la classe operaia aderirà al comuniSmo e contribuirà così alla sua attuazione: le forze oggettive di produzione e i rapporti 473

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umani di produzione vanno di pari passo, dal momento che il mondo è ben costi­ tuito; necessità materiale e razionalità umana convergono metafisicamente. Questo sistema è diverso dallo stoicismo, che non ha mai né pensato né cercato che le folle potessero aderire a esso e, del resto, non ha mai nemmeno avuto l’ambizione o la speranza di conquistare il mondo, nella convinzione che gli uomini, nella loro im­ mensa maggioranza, fossero dei «folli» che non capivano niente di niente. Secondo lo stoicismo, il senso del cosmo fa sì, per esempio, che ciascuno di noi un giorno morirà; sia che accettiamo la morte come conforme al piano divino o che ci rivol­ tiamo follemente, nondimeno moriremo ugualmente. Aderire con partecipazione attiva al senso della storia e accettare passivamente il senso del cosmo non sono la stessa cosa; si accetta il cosmo perché non si può fare diversamente, e perché è co­ stituito nel modo meno malvagio possibile, dal momento che il dio è buono. Seneca, Tieste, 882-884 (ed. it. Tieste, trad. di F. Nenci, Bur, Milano 2002, p. 189); allo stesso modo, cfr. Questioni naturali, VI, 2, 7: «Essendo inevitabile uscir di vita ed esalare lo spirito un giorno o l’altro, è meglio farlo per una causa di morte più grandiosa» (ed. it. Questioni naturali, trad. di D. Vottero, Utet, Torino 1998, p. 589). Consolazione a Marcia, X X V I, 7: «Anche noi, anche noi allora, piccola goccia nel marasma cosmico, torneremo a dissolverci negli elementi primordiali», (ed. it. Le consolazioni, trad. di A. Traina, Bur, Milano 1994, p. 128). Questo è il lirismo che si ritrova in un’eruzione vulcanica o nel sacrificio di sé. Cfr. la nota 380. Così mi diceva M. Foucault. Cfr. supra, note 222-227. Si veda il numero speciale, L’orphisme et ses écritures della «Revue de l’histoire des religione», 219, fascicolo 4,2002. Sfortunatamente, le numerose tavolette orfiche o dionisiache in oro, che sono state ritrovate nelle tombe come «passaporto per l’al­ dilà» non ci informano sulla sorte dei non iniziati. Per Elio Aristide, un’iniziazione è il non plus ultra dell’emozione religiosa (Discorsi sacri, II, 28; III, 48; IV, 7). Si veda anche una celebre pagina di Plutarco, fr. 178 Sandbach in Stobeo, IV, 52, 49 (V, p. 1089, Hense). Sull’immortalità nei misteri dionisiaci, non ci esentiamo dal citare Plutarco, Conso­ latio ad uxorem (Moralia, 611 E). Si veda il passaggio di Polibio citato sopra, nota 221. M. Nilsson, Geschichte der griechischen Religion, cit., I, pp. 815-818, non crede che il movimento illuminista rappresentato dai sofisti sia riuscito ad abolire queste paure, che sono attestate dal­ le Rane di Aristofane e dalle pitture di Poiignoto nella Lesche degli Gnidi a Delfi. Valerio Massimo, VII, 8, Rom., 8 (ed. it. Detti e fatti memorabili, trad. di R. Faranda, Tea, Milano 1988, p. 537). Sappiamo ora, grazie a Paul Zanker, che i rilievi mitologici di cui sono adorni i sarcofagi greco-romani non simboleggiano speranze religiose sull’aldilà, ma i diversi sentimenti che potevano venir suscitati dalla morte o il ricordo del defunto, delle sue qualità o della buona vita «bacchica» che aveva condotto, e anche i banchetti funebri (ci sono, allo stesso modo, rappresentazioni conviviali nelle catacombe). Si veda il testo fondamentale di P. Zanker e B.C. Ewald, Mit Mytben leben: die Bilderwelt der romischen Sarkophage, Miinchen 2004. Satire, II, 149-152, «N on c’è più nessuno che lo creda, nemmeno i bambini» (ed. it. Satire, trad. di. E. Barelli, Bur, Milano 1989, p. 64). Annunciare che una cala­ mità o un bizzarro difetto sia una novità o un vizio moderno è consustanziale alla satira antica e a questa moderna forma di satira che è rappresentata da una certa «sociologia» popolare. Non posse suaviter vivi, X X V (Moralia 1104 B) e X X V II (1105 A). 474

Culto, devozione e morale nel paganesimo greco-romano 363. Eccezione che conferma la regola sono le ultime regole dell’Eroico di Filostrato, che riferisce, da letterato sensibile alle credenze del popolo, delle credenze folkloriche. 364. Nella Consolazione a Marcia, X IX , 4-6, Seneca dice che, non essendo i racconti sul­ l’aldilà e sulla sopravvivenza dell’anima altro che favole, Marcia deve consolarsi della morte di suo figlio. 365. Sallustio, La congiura di Catilina, LI, 20. 366. Questo si ritrova altrove; mi ricordo di una Upanishad che insegnava come credere alla sopravvivenza dopo la morte fosse soltanto una superstizione. Ma le Upani­ shad erano testi per persone colte. 367. In «Revue européenne des Sciences sociales», 41,2003, p. 94. 368. Padre Huc, Souvenirs d’un voyage dans la Tarlane, le Thibet et la Chine, Paris 19251927 (trad. it. Attraverso il Tibet, Pime, Milano 1946), chiede un giorno, a un man­ darino che ha appena offerto un sontuoso pranzo davanti al feretro di un defunto, se pensa che i morti abbiano bisogno di nutrirsi. Il mandarino chiede a padre Huc se lo prende per uno sciocco e aggiunge che lui stesso fa così «unicamente per ono­ rare la memoria dei suoi amici, per testimoniare loro che essi vivono ancora e che amiamo ancora servirli come se esistessero. Tra il popolino si raccontano molte fa­ vole, ma chi ignora che le persone grossolane e incolte sono sempre portate alla credulità?». L o stesso aneddoto in A.R. Radcliffe-Brown, Structure et Fonction dans la société primitive, p. 232 (trad. it. Struttura e funzione nella società primitiva, Jaca Book, Milano 1975); a un australiano che gli pone la stessa domanda di padre Huc, un cinese risponde: «Secondo la sua domanda, suppongo che in Australia mettete mazzi di fiori sulla tomba di un morto perché credete che gli piacerà sen­ tirne il profumo?». Meglio ancora, nel 1898, il viceré di Hong-Kong scrive: «G li europei onorano i loro morti, come facciamo del resto anche noi, dal momento che l’atto di porre fiori sulle tombe è da loro considerato un segno indicante rispetto per i defunti» (Tchang Tche-T’ong, Exortation à l’étude, tradotto dal cinese da J. Tobar, Shanghai 1898, p. 5). 369. Il filosofo Wittgenstein diceva che il «sasso-malattia» estratto da un medecin man australiano dal corpo di un malato ha soltanto il nome in comune con un sasso co­ mune della strada. L’albero di cui parla un mito greco che narra come Apollo cau­ sò la trasformazione di Dafne in alloro non è lo stesso lauro di un botanico né l’al­ loro di cui i vivaisti parlano e che coltivano. Allo stesso modo, dice altrove Witt­ genstein, udire delle voci soprannaturali non è la stessa cosa che udire delle voci reali: nel primo caso, è persino scontato che il destinatario le ode, mentre non le odono le altre persone presenti (Fiches, n. 717). Esiste anche un ambito di verità che è proprio della teologia (Ricerche filosofiche, 116 e 373); se qualcuno afferma di credere al Giudizio finale e l’interlocutore gli risponde: «Non ci credo, perché non ho alcuna ragione di crederci», questa replica rappresenta un tipo di linguag­ gio falso: infatti, colui che crede al Giudizio finale «si muove su un piano comple­ tamente diverso» (Lezioni sulla credenza religiosa) di quello dei ragionamenti (ad­ dirittura dei suoi desideri: il paradiso non è un luogo dove desidereremmo entrare hinc et nunc morendo prima possibile). 370. L’indistinzione precedente al linguaggio fa sì che chi compie e chi subisce l’azione, l’attivo e il passivo non siano distinti: la Morte è uno scheletro (una morte) e impu­ gna una falce (è un’assassina). L’orrore per il sangue versato o per lo stupro inglo­ ba la vittima come il colpevole: è un orrore per la cosa in generale. E gli dèi sono spesso rappresentati mentre tengono in mano una coppa per libagioni; non si trat­ ta del fatto che rendano un culto a se stessi, come si è creduto, o che diano l’esem­ 475

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pio, ma del fatto che dio e fedele non si distinguono ancora: tutto ciò è santo, glo­ balmente. Cfr. Images de divinités tenant une patère, «M etis», V, 1990, pp. 17-28. L. Wittgenstein, Remarques sur « Le Rameau d'or» de Frazer, trad. Lacoste, L au ­ sanne 1982; ripreso nel 2000 nel n. 6 della rivista Agone, con un commento di J. Bouveresse; per una trad. it. cfr. Note sul «Ramo d’oro» di Frazer, Adelphi, Milano 1985. L o si può fare quando un’autorità spirituale che prende le razionalizzazioni dottri­ nali alla lettera impone l’inumazione, per esempio, o vieta la cremazione. Anche ragioni materiali possono giocare per mutare le pratiche funerarie; nell’antichità, i ricchi adottavano l’inumazione perché la moda concedeva il primato ai costosi sarcofagi. Ma, di solito, una tradizione funeraria viene osservata perché si tratta, ap­ punto, semplicemente della tradizione, che «è come si fa da noi», anche se con­ traddice la sensibilità (come fa la cremazione: ma non ci si pensa nemmeno perché la tradizione comanda). I cambiamenti sono dovuti spesso a circostanze attinenti alla sensibilità, profonde e «irrazionali», che vengono a capo della pesantezza so­ ciologica della tradizione; se interroghiamo i nostri contemporanei sulla loro prefe­ renza per l’inumazione o la cremazione, ci sentiamo talora addurre come motiva­ zione una ripugnanza per la putrefazione o, al contrario, un orrore istintivo per un rogo. Questa sensibilità spiega verosimilmente l’orrore (mal documentato) dei pri­ mi cristiani per la cremazione, un orrore che i semplici fedeli razionalizzavano nel timore che la cremazione impedisse la resurrezione dei corpi. Tertulliano si fa bef­ fe di queste ingenuità (ridebo vulgus), ma ne condivide allo stesso modo la sensibi­ lità che quest’ingenuità razionalizza; la pietà cristiana, scrive, risparmia non l’ani­ ma (che ha lasciato il corpo), ma il corpo stesso, nei confronti del quale non biso­ gna «essere crudele, perché un essere umano non merita che il suo corpo sia con­ dannato a un supplizio penale»: quale non è l’assurdità dei pagani, che «bruciano in modo atroce i defunti, poi li nutrono grassamente» (De anima, 51, e De resurrectione, 1, citati da A. von Harnack, Die Mission und Ausbreitung des Christentums, cit., p. 191, n. 3 [trad. it. Missione e propagazione del cristianesimo nei primi tre se­ coli, Ed. Bocca, Milano 1945]. Ecco un esempio di credenza reale, di cui sono debitore a un testimone oculare: se qualcuno pensa di essere perseguitato da un demone (crede ai demoni fidandosi di altri, dal momento che tutti parlano di essi nella società in cui vive), egli attraver­ serà di corsa una strada proprio davanti a un’automobile che sopraggiunge, spe­ rando che il demonio che lo segue sarà schiacciato dall’auto, a rischio di essere schiacciato lui stesso. Così si faceva nell’Indocina francese. Quella era un’azione conseguente a una credenza autentica; allo stesso modo, crediamo sulla fiducia ad altri che ci hanno insegnato che esistono microbi e virus, tanto che ci facciamo iniettare sieri e vaccini. Wittgenstein distingue le condotte non sorrette da creden­ ze (quelle reazioni che non implicano riflessione) dalle rappresentazioni false (o vere: virus, demoni), in virtù delle quali si mettono in pratica certi comportamenti. Wittgenstein fa il seguente esempio: «Quando sono infuriato contro qualcosa, bat­ to qualche volta il mio bastone per terra o contro un albero, tuttavia non credo che la terra sia responsabile, o che il fatto di colpirla possa produrre qualche migliora­ mento. Quel che conta, è soltanto la somiglianza di quest’azione con un atto di ca­ stigo, ma non c’è niente più da constatare oltre a questa similitudine»: non bisogna supporre una superstizione bizzarra che spiegherebbe il mio gesto. Wittgenstein scrive anche: «Bruciare in effigie, abbracciare l’immagine dell’amata. Quest’atto non si fonda certamente sulla credenza di produrre un certo effetto sull’oggetto rappresentato dall’immagine. Ciò mira a procurare una soddisfazione, ed effettiva­ 476

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mente ci riesce. O piuttosto, questo non mira a niente: noi agiamo così e allora proviamo un sentimento di soddisfazione». Ancora nel X V III secolo, lungi da ogni credenza religiosa, si facevano a pezzi i corpi dei grandi uomini per spartirne le parti; se la memoria non mi inganna, il cuore di Voltaire, in un’urna, è all’Académie Frangaise. Seneca, coro delle Troiane, 371-408, di alta qualità poetica. Fr. 297 Diels, citato da M. Nilsson, Geschichte der griechischen Religion, cit., I, p. 816, che, contro Diels, traduce kakoperagmosyne con «cattive azioni», come fa an­ che J.-P. Dumont nella sua traduzione dei presocratici (Paris 1988). Seneca, Consolazione a Marcia, 19,4; Lettere a Lucilio, 2 4,18 e 82,16. Cicerone, De natura deorum, 1,31,86: «Tante migliaia di uomini esercitano il brigan­ taggio, nonostante il reato sia punito con la pena di morte» (ed. it. La natura divina, trad. di C. M. Calcante, Bur, Milano 1992, p. 115). Per esempio, i martiri cristiani e gli attuali kamikaze musulmani erano e sono pro­ babilmente convinti di ritrovarsi in paradiso; tuttavia, l’energia e la forza per mo­ rire in un parossismo non viene loro da questa rappresentazione, di cui altri milio­ ni di loro correligionari sono convinti (nella misura in cui lo si può essere circa l’aldilà); questa forza viene loro dalla «pulsione eristica», da un fantasma loro pe­ culiare, dell’ebbrezza di immolarsi e di fondersi in un avvenimento o in un evento parossistico e «sublime» (cfr. nota 352), negli orrori dell’arena o in un attentato. Non si tratta tuttavia di psicotici: questa pulsione poco comune, senza essere mol­ to rara, non impedisce di essere «norm ale». Georges Bataille non è pane per i miei denti, ma ha utilmente testimoniato su questo sentimento, noto anche ai me­ dievisti. Sui martiri cristiani, Luciano generalizza in maniera tendenziosa quando pretende che la maggior parte di essi si consegnano alla morte volontariamente (Morte di Peregrino, 13). L a realtà del martirio ricercato, volontario, non è meno incontestabile e i testi che la provano sono numerosi; riferendo il martirio di Policarpo, la comunità di Smirne si preoccupa di aggiungere con sollecitudine di non approvare «quanti vanno da sé al martirio», dal momento che «non è quello che il Vangelo insegna» (Martirio di Policarpo, 4); un secolo e mezzo più tardi, il canone 60 del concilio di Elvira preciserà che, se si infrangono degli idoli per essere sup­ pliziati, non si sarà riconosciuti come martiri (A. von Harnack, Die Mission und Ausbreitung des Christentums, cit., p. 304). Su questi fatti molto conosciuti, A.D. Nock, Conversion, cit., pp. 197-202; E.R. Dodds, Pagan and Christian in an Age o f Anxiety, cit.; W. Bowersock, Martyrdom and Rome, Cambridge 1995; A.R. Birley, «D ie “freiwillingen” Martyrer: zum Problem der Selbst-Auslieferer», in R. von Haehling (Hrsg.), Rom und das himmlische ]erusalem: die fruhen Christen zuiischen Anpassung und Anlehnung, Darmstadt 2000, pp. 97-123. Platone, Repubblica, 1 ,330 E-331 B. (ed. it. Repubblica, trad. di F. Adorno, Rizzoli, Milano 1996, p. 5). Ibid., 331 B. Id., Fedone, 118 (ed. it. Fedone, trad. di E. Turolla, Bur, Milano 1983, pp. 10591060). Socrate dà prova, nei confronti di Asclepio, di una devozione propria di un uomo onesto e non vuole assolutamente dire, da neoplatonico ante litteram, che la vita è una malattia del corpo da cui la cicuta lo stava liberando. Il Socrate delle ultime pagine dell’Apologià di Socrate, più vicino alla realtà storica di quello del Fedone, diceva di non sapere se la morte fosse la fine di tutto o se esistesse un aldilà. Nicola di Damasco, frammento della sua autobiografia, in C. Muller, Fragmenta historicorum Graecorum, III, p. 348, fr. 1; e in F. Jacoby, Die Fragmente der griech.

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Historiker, III, A, n. 90, p. 420, fr. 131. Citato da U. von Wilamowitz, Platon, II, p. 58; cfr. I, p. 178, η. 1. Ulpiano, Digesto, L, 12,2,2: «Sidecimam quis honorum vovit [...]. Votienim obligationem ad heredem transire constai». Se Nicola di Damasco fosse stato cittadino romano ed erede di suo padre, egli sarebbe stato autorizzato da Ulpiano a consa­ crare a Giove il bruciaprofumi. Detto questo, non era prevista alcuna sanzione per il mancato adempimento del voto e suppongo che questa clausola non faccia altro che autorizzare un erede scrupoloso a sottrarre il costo del voto dalla massa dell’e­ redità che deve ridistribuire fra legatari ed eventuali coeredi. A mio avviso, oltre al caso dell’erede, il diritto si guarda dall’obbligare chi ha contratto di sua spontanea volontà un voto a ubbidire a esso: Ulpiano ha cura di precisare che non basta che un uomo prometta a un dio di consacrargli uno dei suoi beni perché quest’oggetto smetta di appartenergli agli occhi della legge, diventi una cosa sacra (L, 12, 2, e 12), e cessi di conseguenza di far parte della massa della futura eredità; questo be­ ne diventerà consacrato al dio soltanto se l’erede decide di consacrarlo lui stesso agli dèi. Il diritto non vuole mescolarsi a queste questioni: l’erede riceverà l’ere­ dità, anche se non consacra quel bene. Un caso differente è quello in cui un testa­ tore lascia un’eredità o predispone un legato combinandolo con una condizione scritta (religiosa o no), tale che «se il mio erede sale al Campidoglio» o «se una na­ ve arriva da Rodi» (Digesto, X X X I, 1 e 3; XXXV, 1,2 e 29; XXVIII, 5 ,60 [59], 5 e 68 [67], così come 68 [67]): qui l’erede deve adempiere alla condizione per ottene­ re l’eredità. Su questi voti cui adempiono gli eredi, Svetonio, Augusto, LIX: «Alcu­ ni padri di famiglia, nel testamento, ordinarono ai loro eredi di portare in Campi­ doglio delle vittime con un cartello, sciogliendo così, in vece loro, il voto, perché Augusto era sopravvissuto a loro»; (ed. it. Vite dei Cesari, trad. di Felice Dessi, Bur, Milano 2000, voi. I, p. 241,243); su un altare funerario del Vaticano, vediamo ima vedova, preceduta da una figura che porta un cartello, che adempie così a un voto del suo defunto marito (P. Veyne, Titulus praelatus, «Revue archéologique», II, 1983, pp. 281-300). Cfr. il rilievo epigrafico di Susan Guettel Cole, «Voices from beyond thè grave: Dionysos and thè deads», in H.T. Carpenter e C. Faraone (edd.), Marks ofDionysos, New York 1933, p. 280. CIL, VI, 142; F. Cumont, Les Religions orientales dans le paganisme romain, Paris 1929, p. 306, n. 25; R. Turcan nei suoi ormai classici Cultes orientaux dans le mon­ de romain, cit., p. 320. Cfr. gli epitaffi che traduciamo supra, nel cap. 3, nota 59. Lattanzio, Istituzioni divine, IV, 3: «Deorum cultus non habet sapientiam, quia nihil ibi discitur quod proficiat ad mores excolendos vitamque jormandam».

9 Pagani e carità cristiana davanti ai gladiatori1

La pratica dei giochi gladiatori2 è un fenomeno esorbitante, una singo­ larità vistosa, forse sconosciuta al di fuori di Roma. La sua ferocia non caratterizzava la civiltà romana in generale, e tuttavia la maggioranza degli uomini semplici e dei letterati, tanto greci quanto romani, tanto Seneca quanto Marco Aurelio, la accettava con una tranquillità che ci stupisce; nondimeno, essa suscitava il disagio di una minoranza. E pro­ prio il cristianesimo ad aver posto fine a questi combattimenti, ma con difficoltà, tardivamente, e per ragioni peculiari di quell’epoca che non sono sempre quelle che supporremmo oggi; per esempio, non fu per commiserazione nei confronti dei gladiatori, dal momento che i cristia­ ni li ritenevano assassini professionisti e non vittime di una istituzione mostruosa, come invece è per noi.

I I cristiani non avevano assolutamente torto, perché, cosa da tener pre­ sente, i gladiatori propriamente detti (così come i cacciatori di fiere nell’arena)3 sono sempre dei volontari; non sono né condannati, né combattenti forzati. Per la maggior parte sono uomini di nascita libe­ ra,4 che si sono impegnati di propria volontà, come ai giorni nostri i to­ reri; ci sono anche schiavi che non vi prendono parte per semplice ob­ bedienza: serve una vocazione. La ragione è semplice: con dei combat­ tenti forzati, lo spettacolo sarebbe stato mediocre. Possiamo avere da ridire sul loro grado di libertà, incriminare l’istituzione e la società, ma ripetiamo ancora con Mommsen5 che se queste persone si battono, è perché lo vogliono davvero; era inteso che un gladiatore fosse «un uo­ mo coraggioso, fosse pure un mascalzone spinto dal suo impeto irri­ flesso a disprezzare la morte».6 Seneca ricorda di aver sentito dire che, durante il regno dell’avido Tiberio, un gladiatore si lamentava della ra­ rità dei combattimenti: «Che bei giorni perduti!», il che veniva com­ mentato dal pensatore in questi termini: «Il coraggio cerca il pericolo 479

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[...] perché anche i patimenti fanno parte della gloria».7 La pratica gla­ diatoria, tutto considerato, è una nobile arte, tanto che la nobiltà e la giovinezza dorata furono talvolta messe a contribuire a essa: si recluta­ rono gladiatori tra le loro fila.8 Nella «scuola dei gladiatori» (ludus gladiatorius) che era la loro casa e dove ciascuno di loro aveva una camera da occupare con la propria compagna e i propri figli, questi volontari non vivevano come in una prigione, potevano entrare e uscire libera­ mente.9 Senza dubbio, vivevano in un clima misto di cameratismo e di durezza. Quel che potrebbe confondere le nostre idee sulla volontarietà del­ la pratica dei gladiatori è la condanna a essere giustiziati nell’arena: certi criminali, specie i rapitori di bambini, invece di essere gettati in pasto ai leoni, erano, molto semplicemente, messi a morte per mano di gladiatori professionisti (damnatio ad gladium ludi). Il pubblico popo­ lare era in grado di distinguere bene i condannati all’arena, che trova­ va talvolta ingiustamente condannati, dai veri gladiatori, che, a suo giudizio, dovevano affrontare la morte senza ripugnanza.10 La messa a morte dei condannati non aveva luogo nel corso dello spettacolo vero e proprio, ma durante l’intervallo, nella pausa di mezzogiorno,11 men­ tre gli spettatori sensibili o gli appassionati del vero sport preferivano andare a pranzo. Un’altra fonte di confusione era il fatto che anche al­ tri criminali, e prigionieri di guerra di origine barbara, erano condan­ nati a compiere un soggiorno nella scuola imperiale dei gladiatori {damnatio ad ludum publicum)·, vi ricevevano un minimo di allenamen­ to ai duelli all’arma bianca, per essere infine uccisi nell’arena dopo una parvenza di combattimento impari12 con un vero gladiatore, cioè con un volontario professionista.13 Questa era una delle ingegnose messinscene di supplizi capitali di cui riparleremo; la corrente d’opi­ nione cristiana più ostile alla gladiatura sarà anche l’avversaria della pena di morte. Soltanto i volontari di cui sopra erano i veri gladiatori, soltanto loro facevano carriera e diventavano delle star popolarissime; quanto ai con­ dannati, la durata della loro vita non superava la giornata... L’arena consentiva anche di sbarazzarsi di prigionieri di guerra troppo nume­ rosi; li si dava in pasto alle fiere, li si forzava a combattere le bestie co­ me cacciatori o a uccidersi reciprocamente a coppie o in massa.141 ger­ mani fatti prigionieri dal giovane Costantino furono per punizione usa­ ti negli spettacoli e stancarono le fiere tanto erano numerosi.15 Certi si suicidavano16 per non servire da zimbello (ludibrium)17 allo scherno popolare; un prigioniero germano, sulla carretta fatale che lo conduce­ va a una caccia nell’arena, «come se il capo gli ciondolasse per il sonno, lo abbassò tanto da cacciarlo tra i raggi, e si tenne fermo sul suo banco finché la ruota, girando, gli troncò l’osso del collo».18 480

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Seconda circostanza da non dimenticare: un combattimento gladia­ torio non è un duello il cui esito verrà deciso dalla sorte delle armi, con imo dei duellanti che finisce per essere ucciso o ferito. Π combattente che è abbattuto o che si dichiara vinto viene graziato, o, più raramente, solennemente sgozzato dal suo compagno, dal suo avversario, dal suo vincitore, su ordine di colui che presiede ai giochi, che può conformar­ si o meno alle manifestazioni del volere del pubblico: la grazia o la mor­ te sanciscono il fatto che sia stato molto o scarsamente coraggioso, e la sua notevole o ridotta resistenza. Ogni combattimento si svolgeva se­ condo un regolamento annunciato precedentemente attraverso dei ma­ nifesti: ci si batterà sino alla prima ferita, o sino a che uno dei combat­ tenti chieda la grazia, o sino alla morte di uno dei due (combattimento sine missione). A Lione, il gran sacerdote del culto degli imperatori die­ de un giorno uno spettacolo con trentadue combattimenti, di cui otto sine missione:19 solo un combattimento su quattro finì con la messa a morte del vinto. Un’ottima cosa per il gran sacerdote, che pagando lo spettacolo di tasca propria avrebbe avuto otto cadaveri da rimborsare all’impresario dei gladiatori {lanista), da cui aveva ingaggiato quei com­ battenti! Ma, per applicare al suo caso un verso di Giovenale, egli ha per otto volte «compiaciuto il suo pubblico, uccidendo»;20 un mecena­ te di Minturno, nella sua iscrizione, si vanta di aver fatto sgozzare undi­ ci gladiatori sulle undici coppie che aveva ingaggiato. Il cristiano Cle­ mente Alessandrino21 parlerà all’incirca come Giovenale: la ricerca del­ la popolarità si spinge sino a uccidere. Nel contesto romano, un uomo che occupava un’alta posizione non si faceva molti scrupoli nel far ca­ dere delle teste.22 Giovenale però mostra anche che, a dispetto della lo­ ro popolarità, i combattimenti dell’arena ispiravano l’orrore che si pro­ va davanti a un omicidio: questa è l’ambivalenza della gladiatura. L’uccisione di un uomo a terra era la conclusione, se non di tutti i duelli, almeno di quelli che entusiasmavano gli spettatori, e il momento in cui lo sconfitto veniva sgozzato era l’apogeo del piacere: il pubblico si sentiva popolo sovrano, che prendeva decisioni sulla vita e sulla mor­ te. Questo possibile assassinio era accompagnato da un vero e proprio cerimoniale: annuncio solenne, decisione di colui che presiedeva ai gio­ chi (il gesto famoso del pollice rivolto al suolo), squilli di tromba... e il gladiatore sconfitto si faceva un punto d’onore del morire con dignità, senza raggomitolarsi su se stesso al momento fatale.23 Per rivivere la realtà di queste atrocità, basta meditare sui termini dolciastri, acuti e implacabili di un incredibile epitaffio, trovato nell’I­ talia romana, a Trieste, e che risale al secolo degli imperatori cristiani: «Constantius, che ha offerto uno spettacolo nell’arena, ha donato que­ sta tomba ai suoi gladiatori per ringraziarli del successo che ha riscos­ so il suo regalo [lo spettacolo]. A Decorato, reziario, che ha ucciso Ce­ 481

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ruleo ed è caduto a terra, ucciso anch’esso. È stato l’arbitro a mettere fine ai giorni di entrambi [capiamo che l’arbitro ha trasmesso ai loro vincitori l’ordine di sgozzarli, dato da Constantius]; il rogo funebre è la loro dimora, comune all’uno e all’altro. Decorato aveva combattuto otto incontri contro reziari [era quindi sopravvissuto a sette o otto combattimenti]. Era la prima volta che causava un dolore alla sua spo­ sa Valeria».24

Come si è arrivati qui? La genesi della gladiatura è senza misteri, basta aprire VIliade: Patroclo è stato ucciso e, per solennizzare i suoi funerali, vengono organizzati giochi funebri, tra i quali un combattimento arma­ to che durerà finché uno dei due combattenti non ferisca l’altro, finché la spada non ne attraversi la corazza e ne coli il sangue.25 In molte so­ cietà antiche, il dolore deve essere manifestato con qualche eccesso: ci si lacerano gli abiti, ci si strappano i capelli, ci si straziano le guance, ci si infliggono ferite sino ad avere il corpo ricoperto di sangue, ci si taglia un dito che si getta nella fossa. Durkheim descrive, presso gli aborigeni australiani, l’inusitato combattimento di due parenti del defunto da­ vanti alla sepoltura.26 E dolore può arrivare sino al suicidio: nel 69 do­ po Cristo, dopo la disfatta di Bedriacum e la morte di Otone, alcuni dei suoi soldati si diedero la morte vicino al rogo del loro imperatore, «non per rimorso o paura, ma per devozione al principe e per emularne il nobile gesto».27 Quattro secoli prima, nel 317 avanti Cristo, lontano dall’Italia romana, il giovane successore di Alessandro Magno ebbe un funerale che fu coronato dagli straordinari combattimenti di quattro dei suoi soldati;28 questo giovane principe era stato assassinato mentre Otone si era suicidato, la qual cosa spiega forse il dolore eccessivo dei loro fedeli. A Roma, la gladiatura è iniziata, in modo parallelo, come rito funera­ rio, una manifestazione di dolore, e lo è rimasta a lungo: i gladiatori si battevano e si ferivano davanti al rogo di un personaggio illustre. Come le prefiche che si percuotevano il petto e si strappavano i capelli, i gla­ diatori erano da principio professionisti del lutto; assolvevano, al posto dei fedeli amici del defunto, al dovere di far scorrere il sangue e di af­ frontare la morte per mostrare la loro grande disperazione. E carattere funerario della gladiatura è perdurato sino all’ultimo se­ colo della repubblica, ma era soltanto un pretesto: i combattimenti fu­ nebri erano diventati ormai uno spettacolo offerto agli elettori e al pub­ blico, felici di veder scorrere il sangue. I grandi che si candidavano a qualche magistratura pubblica donavano al popolo questi spettacoli,

con la scusa di dare lustro ai funerali di uno dei loro parenti che era morto da molti anni. Questo accadeva sotto la repubblica romana, cioè in una società oligarchica dove i grandi erano separati dal popolino da una distanza superiore a quella della Grecia classica, e dove essi pote­ vano far uccidere quasi a loro arbitrio. Quest’oligarchia, causa prima del fenomeno, avrebbe perpetuato l’usanza per un millennio o quasi; sarebbe entrata in urto soltanto con l’affermarsi del cristianesimo. Per rivestire il ruolo poco invidiabile di candidati alla morte, si ricor­ reva a condannati cui si donava la possibilità di scegliere: difendere la loro vita con le armi alla mano, o essere consegnati al boia. Tuttavia, questa divenne presto una specie di carriera, la strada verso la celebrità, tanto che certi desperados, uomini adusi alle risse o emarginati, presero volontariamente E posto dei condannati, un fatto deplorato da Cicero­ ne:29 non è più morale, non si tratta più di un supplizio cui valga la pe­ na di assistere, è l’esibizione degli «stracci» della società. Se non fosse per lo sgozzamento deliberato e il passaggio dal com­ battimento funerario allo spettacolo ludico, la prassi gladiatoria non ha nulla di straordinario, né dal punto di vista sportivo né psicologico. Si trattava di uno sport imperniato sul combattimento che si spingeva molto oltre, spesso sino alla morte, ma, in questo, non si distingueva dalla norma degli sport antichi, che erano di una brutalità diventata per noi inconcepibile. Poniamoci nel mondo di Shakespeare; al princi­ pio di Come vi piace, E lottatore professionista del duca dice al suo pa­ drone: «Domani, signore, io lotto per la mia reputazione e vostro frateUo dovrà comportarsi molto bene per sfuggirmi senza essersi rotto un braccio o una gamba». Spostiamoci ora nel mondo deUe competizioni greche. A Olimpia, farsi uccidere in un incontro di pugilato non era contrario a una concezione legalista deUo sport: era deplorevole e am­ mirevole, come morire in guerra. Era onorevole, per E rampoEo di un sommo magistrato,30 diventare un pugEe, dal momento che significava mettere in conto di morire per amore di gloria e per fedeltà a un ideale. Gli atleti «scelgono spesso di morire nel corso di combattimento»31 scrive Dione di Prusa. I guantoni dell’antico pugilato, guarniti di borchie di piombo, non servivano ad attenuare i colpi, ma a renderli più temibili.32 Nel pancrazio, una tattica era quella di spezzare le dita dell’avversario. Nel 561 avanti Cristo, un tale Arrichione fu atterrato e strangolato, ma, poiché, prima di essere soffocato, era riuscito a spezzare le dita dei piedi del suo avversario e gli aveva fatto toccare terra, i giudici incoro­ narono E suo cadavere. Sette o otto secoli più tardi, Olimpia onorò un pugile che la pubblica ammirazione aveva soprannominato Camelos, «II Cammello», tanta era stata la resistenza di cui aveva dato prova: era morto sotto i colpi deU’avversario piuttosto che dichiararsi vinto.

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Lungi dall’essere gli inconvenienti dello sport, era questa l’autentica essenza della disciplina sportiva; più la prova di coraggio (o, per i gre­ ci, di resistenza) era vicina alla realtà, più era significativa. Le gare atle­ tiche non erano giochi, ma prove di ambizione e di tenacia. Da qui de­ riva l’alto concetto che san Paolo33 e Dione di Prusa34 si fanno dell’a­ tleta, di questo guerriero dei tempi di pace. I rischi corsi dagli aurighi nelle corse del circo non erano inferiori, ma senza di essi il piacere de­ gli spettatori sarebbe stato ridotto.35 La società romana non ammetteva l’omicidio più di quanto lo accet­ tiamo noi e più di quanto lo accetti qualsiasi corpo sociale; colui che ha le mani lorde di sangue è dovunque disprezzato; senza questo divieto, nessun gruppo umano potrebbe sussistere. D ’altro canto, la società ro­ mana non è più crudele della maggior parte delle altre civiltà del suo tempo; quando i romani conquistavano un territorio barbaro, la loro prima cura era di vietarvi i sacrifici umani; quando si venne a sapere a Roma del massacro degli innocenti voluto da Erode, vi fu una reazione inorridita.36 Ma le competizioni greche e i giochi degli spettacoli roma­ ni erano un ambito a parte, una peculiar institution che ammetteva de­ roghe alla morale comune. Allo stesso modo, nella nostra società, la morale nobiliare ammetterà, contro la morale cristiana, che ci sia una deroga al divieto biblico di uccidere: il duello. Infatti, una morale con­ suetudinaria ammette deroghe, ce lo insegna uno scettico: in materia di morale, «mettiamo questo o quel modo di vita [agoge] in opposizione con la morale. Benché non si abbia il diritto di colpire un uomo Ubero di nobile nascita, i lottatori di pancrazio si colpiscono tra loro a causa del loro modo di vivere particolare, e, mentre è proibito uccidere un uomo, per la stessa ragione i gladiatori si uccidono vicendevolmente».37 Questa deroga degU spettacoli romani al divieto di uccidere non fa­ ceva altro che rimarcare un fenomeno largamente diffuso: gU spettacoU erano un’occasione di allegria (laetitia), un piacere (voluptas), una fe­ sta, e le feste, in qualsiasi epoca si situino, rappresentano una cesura con la vita di tutti i giorni, e derogano in qualche misura ai suoi divieti. Uno dei piaceri che le contraddistinguono sta nel fatto di poter eserci­ tare in quel giorno violenza e crudeltà. Nel suo Tableau de la Trance, Michelet probabilmente non si sbaglia quando, parlando del giorno della Tarasca di Tarascona, scrive: «La festa non è bella se non c’è una gamba o un braccio rotto». Talvolta, le pubbliche manifestazioni di al­ legria sono battaglie con sassaiole tra due città o due quartieri con tan­ to di feriti.38 Il sociologo Paul Yonnet suggerisce che, nel calcio inglese, il fenomeno degli hooligans non è un effetto della miseria popolare, ma ima reazione della tradizionale violenza popolare contro il fairplay caro alla nobiltà britannica.39 Da qui viene, ci insegna Richard Hoggart,40 l’ostilità di questo pubblico popolare verso gli arbitri che, in nome di

un formalismo giuridico all’insegna della pignoleria, impediscono ai giocatori di mostrare tutto il loro ardore sportivo. Dimentichiamo per un attimo la gladiatura nell’antichità. Immagi­ niamoci un’aperta campagna e un pubblico radunato, due cavalieri stanno per lanciarsi l’uno contro l’altro: è un torneo. Dal Lexikon des Mittelalters veniamo a sapere che nel 1130 il concilio di Clermont vietò che si tenessero «questi ripugnanti mercati o fiere in cui dei ca­ valieri, secondo l’abitudine, si ritrovano per misurare la loro forza e il loro ardimento, la qual cosa porta spesso alla morte di un uomo e a un grande pericolo per le anime». Venne pertanto deciso che ogni cava­ liere ferito mortalmente in un torneo ricevesse le consolazioni della re­ ligione, ma che gli fosse rifiutata la sepoltura in terra consacrata. Que­ sti cavalieri avevano un animo da gladiatori. In qualsiasi società, un in­ dividuo su cento o su mille, non so quantificare con precisione, è pronto a rischiare la sua vita per il piacere proveniente dall’esercizio della violenza. Georges Duby diceva pensare a questi cavalieri quando vedeva passare a tutta velocità un giovane motociclista col giubbotto nero. Ne abbiamo visti di questi giovani affascinati dalla violenza e dall’autodistruzione. Gladiatori, hooligans, cavalieri: la sostanza del combattimento è la stessa, se, almeno, ho ragione a sospettare una realtà umana poco lucci­ cante dietro incontri, risse, tornei, amori e violenza magnificati dal Lancelot in prosa. Mi è stato obiettato che la vera spiegazione della cavalle­ ria errante era la società del tempo, il diritto di primogenitura, la crisi della nobiltà: lo credo, ma la storia sociale non spiega tutto; anche la psicologia individuale gioca la sua parte, come l’esclusione sociale: que­ sti giovani nobili sarebbero potuti diventare uomini di Chiesa. A Ro­ ma, una specie peculiare di gladiatori, i tunicati, era ritenuta infame dai compagni d’arme stessi: si trattava infatti di omosessuali che «avevano cercato rifugio in una scuola di gladiatori dove potessero mettere in pratica la loro anormalità»41 e, possiamo sospettare, per compensare la loro femminilità in virilità suicida.

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Ili Ecco dunque perché ha potuto esistere la gladiatura: perché questa mostruosa singolarità si è formata a poco a poco, a piccoli passi, e per­ ché in nessuno di questi passi ha incontrato resistenza; al contrario, il pubblico trovava tutto questo normale e ci prendeva gusto. Così nasco­ no e crescono le cattive abitudini... Niente e nessuno ha impedito che il pubblico vi trovasse quel piacere dato dalle emozioni forti, che vi sod­ disfacesse un gusto diffuso per la crudeltà (dal momento che l’indiffe­

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renza all’altrui sorte non era meno diffusa). Certi fatti di civiltà assu­ mono una grande importanza non tanto per una qualche potente causa che li spinga a verificarsi (una società ad alto tasso di crudeltà, per esempio), ma piuttosto per l’assenza di ostacoli che li blocchino; certe cose hanno conseguenze tanto ridotte, minacciano interessi tanto ri­ stretti da fluttuare, per così dire, liberamente. La ripugnanza per la cru­ deltà di questi combattimenti è esistita, lo dice Cicerone, ma non ha fatto resistenza. Il cristianesimo, da parte sua, opporrà parecchi ostaco­ li alla pratica gladiatoria; cercheremo di precisare quali. Dove ho letto o sentito dire che l’orrore per i combattimenti nell’a­ rena era sopportabile per gli spettatori perché il pubblico li vedeva soltanto da lontano, come in un impersonale incontro di scherma? Non si potrebbe essere più lontani dalla triste verità, comprovata da una massiccia documentazione, tanto scritta che figurativa: il pubblico si augurava di vedere distintamente questo spettacolo di morte e se ne dilettava. Mi si perdonino alcune sgradevoli ma necessarie considera­ zioni di ordine generale: il nostro orrore indignato per la morte vio­ lenta, per i supplizi, per la prassi gladiatoria è un atteggiamento che definiremo «secondario», e che è frutto di un’educazione collettiva, di un addestramento etico, di divieti portati dalla civiltà. In assenza di una simile educazione - o in caso di abolizione di questi divieti, di can­ cellazione di questa educazione in un terremoto rivoluzionario o ideo­ logico —1 attitudine spontanea, «primaria», di una maggioranza di in­ dividui è di provare gioia alla vista del sangue e della morte violenta: 1 omicidio di un uomo procura il piacere dato da ogni sensazione for­ te. O, almeno, si vede morire con indifferenza, senza orrore e senza commiserazione, anche quando ci si chiama Seneca o Marco Aurelio: ce lo proveranno i loro scritti. Madame de Sévigné guardò e descrisse in una lettera, con una curiosità indifferente, il supplizio di un’awelenatrice bruciata viva; durante l’Ancien Régime, si accorreva in massa per assistere a questo genere di spettacoli.42 Un atteggiamento molto diverso, ma non meno «primario», è quel­ lo di una minoranza che vede il sangue scorrere con un orrore spa­ ventato e che non sopporta la vista né dei supplizi né dei gladiatori, né, addirittura, delle corride. Da noi, attorno alla vittima di qualche incidente automobilistico, alcuni spettatori dissimulano a stento la lo­ ro curiosità, o il fatto di essere attirati dallo spettacolo, mentre altri friggono via inorriditi. Allo stesso modo, possiamo supporre che tra il pubblico delle antiche arene su tutti i visi si delineasse un’espressione sgomenta e crudele. Due versi dei Litiganti di Racine mettono in sce­ na due atteggiamenti non usuali di fronte alla tortura giudiziaria du­ rante Γ Ancien Régime. Un giudice propone galantemente a una ra­ gazza di venire ad assistere a una seduta di «interrogatori». Ecco il lo­ 486

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ro dialogo: «Ah, signore, si possono veder soffrire gli infelici? - Bah, questa è sempre un’occupazione che fa passare un’ora o due». Stori­ camente, è importante vedere con chiarezza come questa sensibilità nei confronti del prossimo sia, il più delle volte, frammista a paura per noi stessi; non si tratta soltanto della pietà per chi subisce il sup­ plizio, di commiserazione e di misericordia. Come dice Aristotele, «la pietà è una forma di sofferenza di fronte ad un male manifestamente rovinoso o doloroso che ricade su una persona che non lo merita, un male che anche noi possiamo attenderci di subire, noi stessi o uno dei nostri familiari».43 Un biasimo etico «secondario» da persona civiliz­ zata si è aggiunto nel corso dei secoli, ma è differente dal primo.44 I gruppi umani si fanno guerra reciprocamente, ma all’interno di ogni gruppo un minimo di non aggressione reciproca è doveroso e in esso devono essere uccisi soltanto gli assassini, altrimenti ognuno avrà ti­ more per la propria sorte. L’indifferenza e anche la gioia primarie non erano sadismo, erano, se possiamo dirlo, sentimenti innocenti. Paul Zanker ha avuto ragione neU’obiettarmelo,45 i combattimenti di gladiatori non radunavano i per­ versi della città, anzi, sui gradini dell’anfiteatro prendeva posto gente normale. Gioia sanguinaria o indifferenza «primaria»; incapacità non meno «primaria» ed egoista di sopportare la vista della morte violenta, orrore e indignazione «secondarie» ispirati da un’educazione civilizza­ ta: tali sono gli atteggiamenti conosciuti nella storia. Soltanto i due at­ teggiamenti «primari» si ritrovano nel paganesimo; più ancora della commiserazione e della carità, sarà l’incapacità «primaria» di tollerare la vista degli eccidi che finirà per far abolire la gladiatura in epoca cri­ stiana. Effettivamente, quelli che vengono rallegrati o lasciati indiffe­ renti dai supplizi e quelli che non ne sopportano la vista formano, per così dire, due «partiti virtuali» che vengono qualche volta a combatter­ si; il primo partito è, solitamente, più forte, ma, in epoca cristiana, il «partito virtuale» della mitezza e della debolezza l’ha avuta vinta sul­ l’argomento della prassi gladiatoria, se non su quello dei supplizi. Quanto alla vernice «secondaria» della civiltà, essa è sottile e non viene mai definitivamente acquisita: è fatta di obbedienza all’autorità e alla morale prevalente, più che di senso morale interiorizzato e autono­ mo; nel X X secolo, il divieto di torturare e di massacrare ha potuto spesso essere rimosso dalle autorità ideologiche, dittatoriali o coloniali senza incontrare particolare opposizione. E, sempre e dovunque, il di­ vieto di uccidere è stato derogato in due casi, nella guerra e nella pena di morte; nel nostro mondo, tale divieto è stato eliminato anche per il duello. A Roma, questo divieto ha finito per essere soppresso nel caso degli spettacoli. Certamente, in ogni collettività, la vista del sangue che scorre casual­ 487

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mente o per intenzione criminosa ispira a ciascuno paura: «Se il sangue viene a sgorgare dalla carne di un mortale, chiunque veda questa scena ne è terrificato».46 Da questa paura però veniamo riconfortati quando la vittima è un soggetto esterno al gruppo: un nemico, un condannato o, ancora, un escluso. Una volta sedata la paura, la gioia e l’indifferenza «primarie» possono prendere il loro corso, e questi due atteggiamenti sono ben attestati nella Roma antica. Ma vedremo anche che, in man­ canza di un’educazione «secondaria» attenta al prossimo, esisteva un’altra educazione, quella del civismo: la gioia sui gradini di un edifi­ cio pubblico doveva conservare un’aria dignitosa. Nel 99 dopo Cristo, per festeggiare la sua entrata a Roma, Traiano donò al popolo dei giochi, non giochi teatrali, ma «un genere di spet­ tacolo pubblico non floscio e rilassato, né tale da affievolire o fiaccare i virili animi, ma piuttosto tale da infiammare alle onorate ferite e al disprezzo della morte, e da suscitare anche nelle persone degli schiavi e dei malfattori l’amore della gloria e il desiderio della vittoria».47 La prassi gladiatoria come preparazione militare: quest’ideologia copriva decorosamente lo scandalo di combattimenti istituiti in tempo di pace e all’interno della cerchia dei cittadini. Il panegirista di Traiano oppo­ ne combattimenti così educativi a un altro tipo di spettacoli che ram­ mollisce gli animi e che dunque è immorale, la «pantomima» (una spe­ cie di opera). La prassi gladiatoria era educativa in un altro senso di cui i testi non parlano: mostrava che la violenza non era esclusa dalla vita pubblica, che Roma non avrebbe esitato a far scorrere il sangue per difendersi, scrive Peter Brown;48 non si faticherà a crederlo se ci si ricorda che, dopo aver schiacciato la rivolta ebraica, Tito fece «ucci­ dere reciprocamente» una folla di prigionieri ebrei, in combattimenti gladiatori posticci, offerti a Cesarea, Beirut, e in tutte le città siriane da lui attraversate.49 Tuttavia, alcuni non avevano l’animo abbastanza virile, dal momento che «giudicano crudele e disumano lo spettacolo gladiatorio»,50 ci fa sapere Cicerone. L’educazione filosofica poteva confermare «seconda­ riamente» questa delicatezza; uno stoico romano, Musonio Rufo, filel­ lenico convinto, lasciò Atene quando si iniziò anche lì a offrire combat­ timenti nell’arena: avreste dovuto per prima cosa abolire l’altare innal­ zato nella vostra città alla Pietà, dice agli ateniesi.51 Questa sensibilità (che non era necessariamente quella degli uomini colti) era una delle particolarità divertenti della vita quotidiana. In un manuale di retorica, si raffigura un avvocato che grida: «Come potete sostenere che ogni marito ingannato vendicherà il suo onore nel sangue? Come potete supporre che sia un marito compiacente se non lo fa?», «Pensate che alcuni spingono la loro mitezza sino a non poter sopportare la vista del sangue! Molti non vogliono vedere gladiatori feriti».52 Così, dunque, 488

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quello che passava come normale agli occhi dell’opinione pubblica (la retorica giudiziaria poggia sempre sull’opinione della maggioranza) era guardare i combattimenti dei gladiatori con occhio sereno; la cosa che era meno normale (addirittura ridicola come la debolezza di un marito ingannato) era il fatto di non sopportarne la visione. Il cristianesimo rovescerà i termini di questo rapporto: quello che sarà anormale sarà il guardare scorrere il sangue, la norma sarà il rifiutare di assistere a que­ sti spettacoli, o almeno fintanto che si tratterà del sangue dei gladiatori, non di quello dei suppliziati né dei cacciatori di belve nell’arena. Le anime sensibili non avevano tutte la bella imparzialità del pagano Libanio, che, per sfidare i cristiani, fece un grande elogio di «questi combattimenti tra gladiatori nei quali cadevano o vincevano uomini che si sarebbero detti emuli dei trecento delle Termopili», pur confes­ sando di non aver mai assistito a essi (preferisce la lettura),53 di non po­ ter veder «scorrere il sangue», né di poter assistere al supplizio dei con­ dannati alla sferza,54 e che «anche dall’alto di un albero, non avrebbe mai sopportato la vista di un esercito schierato per la battaglia».55 Co­ me l’anima di questo professore, anche quella dei bambini, che è trop­ po debole o non educata, non può tollerare gli spettacoli sanguinosi; nella sua prima gioventù un futuro tiranno, Caracalla, piangeva e disto­ glieva lo sguardo quando vedeva dei criminali dati in pasto alle belve, e gli spettatori ne erano inteneriti.56 Plutarco pare ignorare se sia «la na­ tura o l’educazione a far sì che noi proviamo piacere nel vedere degli uomini battersi tra loro, con la spada alla mano».57 Questi combattimenti erano offerti come spettacolo al popolo a tito­ lo di scuola di coraggio, di indurimento degli animi, e si riteneva che venissero osservati con lo stesso spirito. Veder affrontare il pericolo e veder scorrere il sangue sono entrambi piaceri, ma molto diversi e che possono essere disgiunti l’uno dall’altro; soltanto il primo piacere era presumibilmente presente nell’anima degli spettatori, il secondo invece doveva essere ignorato. Un giorno, in un combattimento di gruppo, un gladiatore ferito (un omosessuale, il che aggravava lo scandalo), che l’imperatore aveva già ordinato di sgozzare, ugualmente si rialzò, e, da solo, riuscì a sterminare i suoi vincitori; il principe, indignato, deplorò quel massacro in un editto in cui destinava all’esecrazione il pubblico che aveva sostenuto la vista di un simile scandalo.58 Ogni combattimen­ to deve essere conforme al regolamento e non diventare occasione di uno scatenamento della violenza; l’anima degli spettatori deve essere non meno disciplinata, la loro tenuta deve essere degna (gli spettatori che non hanno indossato il pesante e costoso vestito delle cerimonie ci­ viche, la toga, sono ricacciati verso le gradinate superiori).59 Gli spetta­ coli, infatti, sono un piacere, ma un piacere pubblico, ufficiale, civico: sulle gradinate, bisogna comportarsi bene. 489

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Colui che presiedeva i giochi, verso il quale si rivolgevano tutti gli occhi, doveva dare l’esempio,60 però, qualche volta, la sua fisionomia tradiva sentimenti indegni. Claudio faceva sgozzare i combattenti che erano caduti a seguito di un unico passo falso, «perché amava guardare il loro volto mentre spiravano»;61 la cosa più grave non era questa cru­ deltà, ma la mancanza d’impassibilità: come capo supremo, Claudio avrebbe dovuto restare padrone di se stesso come degli altri. Druso provava «un eccessivo compiacimento nel veder spargere sangue, per quanto fosse di uomini vili», e puniva con la morte la disfatta di una porzione troppo grande di gladiatori; essi erano gente di vile condizio­ ne, colpiti dalla legge con l’infamia come accadeva agli uomini di tea­ tro, il che rendeva questo principe tanto ripugnante quanto crudele.62 Bisognava relazionarsi ai gladiatori con molta cautela, e soltanto i catti­ vi soggetti frequentavano queste infami vedettesi Druso e Claudio erano lungi dall’essere eccezioni, e queste testimo­ nianze provano, al contempo, sia che ai combattimenti presumibilmen­ te si assisteva con una disposizione d’animo puramente sportiva, sia che non tutti gli spettatori avevano l’animo tanto puro. Vedere un uo­ mo coraggioso che affronta con destrezza il pericolo è il piacere nato dall’ammirazione che danno le corride,64 in cui essere ferito o ucciso è un incidente temuto; questo non era il piacere che ci si aspettava dalla gladiatura, dove lo scontro in armi vivacizzava unicamente l’attesa e ri­ tardava il vero scopo dello scontro: il giudizio sul coraggio mostrato dal vinto, che sarebbe stato graziato, frustato o sottoposto al puro e semplice sgozzamento. Non si ignorava affatto la voluttà del sangue e della morte,65 non saranno i cristiani a doverne fare la scoperta, ma i maliziosi la scoprivano più facilmente sul volto dei potenti che non in se stessi. Conoscevano bene questo lato dell’animo umano e le confessioni mute (mosaici, decorazioni di lampade) di questa consapevolezza sono numerose. In questi «spettacoli sinistri», si ama «godere del sangue umano»66 scrivono alcuni pagani. «Il sangue compiace la voluttà degli sguardi crudeli» scrive san Cipriano, «nutre una voluttà» secondo Pru­ denzio.67 Assistere a questi combattimenti di gladiatori equivaleva, per definizione, ad andare a vedere uomini impegnati in ima lotta all’ulti­ mo sangue, intenti a ferirsi o a uccidersi o che rischiavano, in spettaco­ li di gala, di ricevere deliberatamente il colpo di grazia.68 AU’incirca nel periodo in cui Costantino promulgava l’editto di tolleranza nei con­ fronti del cristianesimo, il diavolo tentava un eremita nel deserto egi­ ziano mostrandogli la morte di un gladiatore nell’arena.69 Il pubblico conta quanti colpi di giavellotto riesca a sopportare un gladiatore ar­ mato alla leggera o quanti colpi di tridente, dietro la sua maschera di bronzo, riesca a tollerare un gladiatore pesantemente armato.70 «Più il 490

Vagarli e carità cristiana davanti ai gladiatori

popolo vede gladiatori lottare con ferocia in combattimento l’uno con­ tro l’altro, come se fossero realmente nemici, più li vede lottare con una rabbia folle, più li ama e li applaude e questi applausi li eccitano.»71 Non è sicuro che in ogni spettacolo vi fossero dei morti; se fosse ac­ caduto così, un gladiatore sarebbe stato troppo poco sfruttato e la rota­ zione del personale sarebbe stata così rapida che la pratica gladiatoria non avrebbe potuto essere un mestiere insegnato in scuole professiona­ li. Nelle piccole città, il mecenate che aveva deciso quale sarebbe stato il regolamento dello scontro nell’arena evitava di rovinarsi facendo sgozzare troppi gladiatori, e i combattenti dimostravano scarso entu­ siasmo nel farsi uccidere, senza lasciare vedere con troppa chiarezza che si erano precedentemente accordati, altrimenti il pubblico li avreb­ be fatti bastonare o frustare.72 A questo si aggiunge un fatto poco co­ nosciuto: un documento tardo (datato al IV secolo dopo Cristo)73 ci informa del fatto che, nel corso di uno stesso spettacolo, alcuni com­ battimenti si svolgevano con armi cui era stata messa una protezione sulla punta, altri, invece, con armi affilate che potevano uccidere o feri­ re l’avversario, e soltanto alcuni combattimenti erano sine missione, senza grazia finale. Marco Aurelio autorizzava, almeno in Roma stessa, soltanto combattimenti con armi rese innocue in questo modo74 (al contempo per evitare la spesa e per risparmiare vite umane, come si ve­ drà più avanti). Altrove, però, il regolamento di certi spettacoli di gala implicava spese molto più elevate; un finanziatore generoso, o sadico, poteva decidere che tutti i combattimenti fossero senza grazia.75 In un simile caso, l’incontro è ancora più appassionante, teso verso la vita o la morte: uno dei due contendenti sarà ucciso nello scontro, sgozzato o graziato. Un momento critico è quello in cui la «bestia umana» è messa alle strette: «Non vi avvicinate al gladiatore ferito» {retro a saució) dice­ va un proverbio.76 Se c’è la morte di un uomo, si guarderà a questa morte con il piacere dato da un’emozione forte disgiunta dal rischio. Il poeta cristiano Pru­ denzio canterà con forza la violenza dei colpi che risuonano sul metal­ lo, le scie di sangue sulla sabbia, le ferite di cui il pubblico apprezza il largo squarcio. La sofferenza della vittima durante il combattimento «è una voluttà» e il pubblico è «deliziato» se il vincitore affonda la sua spada nella gola del vinto. La natura è sconvolta, i gladiatori sono esse­ ri sordidi che vendono la propria vita per vivere, ed è proprio una tene­ ra vergine, una sacerdotessa pagana, una vestale, un individuo che do­ vrebbe essere puro e mite che, con il pollice volto verso il basso, vota il loro sgozzamento.77 Altrettanto potente e più penetrante è una famosa pagina di sant’Agostino:78 il suo grande amico, il dotto e raffinato Ali­ pio, aveva sempre rifiutato di assistere ai combattimenti, ma un giorno vi si lasciò trascinare. Dapprima tenne gli occhi chiusi, ma poi li apri 491

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per lo stupore quando la caduta di un combattente fece levare un grido da tutto il pubblico; ahimè, «vedere quel sangue e imbeversi di cru­ deltà fu tutt’uno: non ne distolse gli occhi, anzi, ve li fissò; respirava fu­ rore senza accorgersene, prendeva gusto a quella lotta criminale, ebbro di sanguinario piacere; [...] Guardò, gridò, si entusiasmò». La messinscena dello spettacolo gladiatorio era volutamente maca­ bra. Si iniziava arroventando delle lame di ferro che avrebbero con­ sentito di verificare se un gladiatore ferito non stava simulando la mor­ te; quando i cadaveri erano portati fuori dall’arena, si dava a questo momento una solennità da parodia;79 un carnaio veniva talvolta posi­ zionato nel mezzo dell’arena, «perché l’anfiteatro lo veda».80 I docu­ menti figurativi confermano questi gusti macabri. I combattimenti so­ no rappresentati su un gran numero di oggetti usuali e poco costosi, sulle stoviglie e su innumerevoli piccole lampade a olio, insieme ad al­ tri due soggetti altrettanto frequenti: le corse del circo e i festini. Dal momento che i vasai usavano i gladiatori come soggetto favorito per le decorazioni, è evidente come questo tema riscuotesse il favore del pubblico e non facesse diminuire il volume delle vendite. Queste im­ magini sulle lampade sono di dimensioni ridotte e con pochi detta­ gli,81 ma il gusto per i combattimenti era tanto vivo nel grande pubbli­ co che anche così tali raffigurazioni erano suggestive, allo stesso modo in cui la minima immagine di nudità femminile è sufficiente per risve­ gliare il desiderio. Sui muri di Pompei, innumerevoli graffiti esaltano grandi celebrità e modesti combattenti locali.82 Quanto ai ricchi, ai mecenati, sui mosaici delle stanze dove ricevevano gli ospiti essi facevano con fierezza rap­ presentare ima scena di sgozzamento o i corpi dei gladiatori che aveva­ no fatto uccidere pagando a caro prezzo lo spettacolo,83 stessa ragione per cui indicavano l’ammontare della loro spesa nell’iscrizione apposta sugli edifici pubblici che avevano fatto costruire con i loro finanzia­ menti. Uno spirito elevato, Simmaco, chiamerà in suo soccorso l’esem­ pio di Socrate e la filosofia per consolarsi del suicidio di ventinove pri­ gionieri di guerra sassoni che avevano dato prova di barbarie dandosi la morte proprio il mattino del giorno in cui suo figlio si accingeva a farli uccidere reciprocamente nell’arena come gladiatori forzati.84 Quest’indifferenza all’altrui morte e questa gioia nell’osservarla so­ no lungi dall’essere una vergogna peculiare della società romana; esse possono ritrovarsi in qualsiasi società e possono riapparire anche in quella più civilizzata, in qualsiasi epoca; non presuppongono né una particolare mentalità collettiva né il peso di un particolare passato: è sufficiente che, per un p o ’ di sfortuna, la vernice «superficiale» di umanità, là dove esiste, venga meno. Appena i greci conobbero la prassi gladiatoria, la adottarono85 e guardarono con indifferenza al suo 492

Vagarti e carità cristiana davanti ai gladiatori

stabilirsi.86 Ho citato precedentemente le righe elogiative di Libanio. Quando la Grecia e l’Oriente grecizzato divennero province romane, la gladiatura si sparse ovunque, seguendo il culto degli imperatori.87 Alcuni intellettuali ne parlarono con riprovazione, ma più per senti­ mento antiromano che per senso di umana pietà; ricordiamo Plutarco: «Non confonderò certamente i nobili gladiatori greci con quelle bestie selvagge che sono i gladiatori romani».88 Lo stesso successo venne ri­ scosso in Gallia; al contrario, i gladiatori ebbero poco seguito in Siria e in Egitto.89 Come avrebbero potuto gli spettatori romani non sopportare con serenità o con gioia i combattimenti con le loro eventuali e «proprie» brutali uccisioni, quando, durante l’intervallo di mezzogiorno, si suppliziavano dei cristiani «piuttosto di non far nulla»?90 Si ricordi poi che, in altri momenti, potevano assistere a supplizi dieci volte più spa­ ventosi. Una morte atroce era predisposta per i condannati nelle mes­ sinscene mitologiche:91 si faceva rivestire a un condannato il costume di Ercole sull’Età e lo si bruciava vivo.92 Alcuni cristiani condannati a morte furono fatti travestire da Danaidi e quindi preventivamente stuprati, oppure da Dirce e quindi attaccati alle corna di un toro.93 Prima di Beccaria, sotto l’Ancien Régime, i supplizi erano atroci, ma in un senso particolare: il potere regale, con una serietà terribile, si abbatteva con tutta la sua forza sul criminale che aveva violato le sue leggi, per far toccar con mano la sproporzione delle forze tra il sovra­ no e il suddito e l’enormità del misfatto;94 le messinscene romane, da parte loro, sono un ludibrium,95 un atto di sarcasmo: il corpo civico si prende gioco del criminale, per ridere di colui che si era creduto più forte di tutti. Anche l’ingegnosità dei supplizi estasiava il pubblico, che si compli­ mentava con gli organizzatori. Il Libro degli spettacoli di Marziale fa rizzare i capelli in testa; in versi garbati e raffinati, il poeta rende onore al principe regnante per gli ingegnosi travestimenti e per le torture che erano serviti da intermezzo degli spettacoli imperiali: queste sono al­ trettante prove della preoccupazione che ha l’imperatore di far regnare la giustizia e l’ordine pubblico.96 In una narrazione romanzesca umori­ stica e un po’ snob, Apuleio ci fa entrare nella dimora di un ricco nota­ bile: poiché quest’ultimo si accingeva a offrire uno spettacolo alla sua città, si vedevano nella sua casa dei condannati che, scrive, «venivano ingrassati soltanto per nutrire le fiere»; si vedevano anche orsi in gab­ bia, di cui il nostro autore, riprendendo un’antica battuta di Gorgia, dice che saranno i nobili sepolcri dei condannati.97 Capiamo che que­ sto mecenate aveva acquistato dei condannati a morte presso il fisco imperiale, loro proprietario, che ne faceva commercio e li vendeva ai mecenati privati, a condizione che venissero sottoposti a supplizio nel 493

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corso degli spettacoli.98 Forse il mecenate farà poi rappresentare la loro esecuzione su un grande mosaico nella sala destinata all’accoglienza degli ospiti.99 Con la cristianizzazione del potere imperiale, le messinscene sarca­ stiche si avvieranno a conclusione: la legge di Dio è stata schernita, e ciò merita il rogo sotto gli occhi di tutti, dal momento che l’indignazio­ ne del pubblico è connivente con quella del giudice,100 ma questo non si presta più a nessuna beffa; non è più il popolo dei cittadini che si ri­ vela come il più forte, ma è la giustizia del sovrano che si manifesta. I cristiani biasimeranno la pratica gladiatoria, ma soltanto una minoran­ za tra essi condannerà, invano, i supplizi capitali. IV Lasciamo da parte il pubblico formato da popolani: quale doveva esse­ re, di fronte alla pratica gladiatoria, l’atteggiamento dell’élite colta, la cui parola-guida, dopo l’ellenizzazione, era philanthropia o humanitasì E quello di questo stoicismo di cui si parla bene sotto ogni aspetto, quella di un Seneca o di un Marco Aurelio? Accantoniamo i pii anacro­ nismi: l’uno e l’altro restavano per metà allo stato «primario»; Marco Aurelio e Seneca non erano di quelle anime deboli che non tollerano la vista del sangue; essi, da parte loro, guardavano alla morte di un uomo senza provare piacere, naturalmente, ma senza nemmeno provare trop­ pa pena. Così, Seneca ha potuto essere un ammiratore dei combatti­ menti nell’arena. Marco Aurelio, da parte sua, non condivideva la passione di Seneca per la gladiatura, né, del resto, per alcun tipo di spettacolo. Ecco tutto quello che ha da dire in proposito: egli non ama «l’anfiteatro e simili luoghi», dove «la visione delle stesse cose e la monotonia rende lo spet­ tacolo noioso».101 Davanti all’uccisione di un gladiatore, l’imperatore filosofo non ha alcuna reazione indignata; il sangue freddo con cui si esprime mostra che egli possiede l’insensibilità «primaria» che osserva uccidere un uomo con indifferenza, o addirittura con noia se le uccisio­ ni si ripetono. Indubbiamente, il peso della tradizione cancellava in lui l’orrore, come in quasi tutti i suoi contemporanei, per tacere dell’ordi­ naria indifferenza all’altrui sorte. Marco Aurelio si conformava alle convenienze e, ancora da semplice senatore, ordinò l’allestimento di uno spettacolo funerario di gladiatori per la morte di suo nonno.102 Al contrario, come imperatore, Marco Aurelio considerava seria­ mente uno dei problemi permanenti dell’economia imperiale: l’e­ norme spreco di denaro causato dal mecenatismo, che, per i ricchi, era un dovere;103 i combattimenti tra gladiatori contribuivano a in­ 494

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taccare il patrimonio dei mecenati municipali e dei grandi officianti del culto imperiale. Fece dunque approvare dal Senato un progetto di legge104 mirante ad abolire la pesante tassa105 che gravava sulle vendite106 di gladiatori o a limitare il prezzo di vendita autorizza­ to.107 Lo scopo dichiarato e autentico del ribasso di questo progetto era quello di confortare le finanze dei ricchi,108 dal momento che i mercanti di gladiatori scaricavano su di loro l’ammontare dell’impo­ sta imperiale. La nuova legge veniva in soccorso «delle finanze delle città e dei patrimoni della classe elevata» dichiarò un senatore al mo­ mento della discussione. Secondo uno dei suoi colleghi, i mercanti di merce umana venderanno ormai questa merce a prezzi più equi, meno esosi, più umani (per una tragica ironia, è proprio a proposito del ribasso di questi prezzi che si trova impiegata nel testo la parola humanitas). Non temendo più di rovinarsi, i mecenati saranno sol­ tanto più solleciti nel donare al popolo questi spettacoli, aggiunge abilmente quest’oratore. Effettivamente, la politica imperiale cerca­ va costantemente il giusto mezzo tra due necessità opposte: impedi­ re ai ricchi di spendere troppo per il popolo e, nondimeno, obbli­ garli a spendere. Dunque, obiettivamente, la legge di Marco Aurelio facilitava la mes­ sa a morte di un più alto numero di gladiatori. E tuttavia, un altro sena­ tore, per esaltare questa stessa legge, si congratulò con l’imperatore per la sua nobile intenzione; la gladiatura, disse, «è contraria a tutte le leggi divine e umane», e ormai il fisco imperiale «non sarà più insozzato dal sangue umano». L’oratore riconosceva, quindi, che l’arena costituiva ima deroga immorale al divieto che proibiva l’omicidio in ogni società; essa, l’abbiamo visto, risvegliava la pietà di alcuni, suscitava disagio, trascinava dietro di sé un’ombra rossa di sangue. È possibile quindi che la legge avesse come scopo secondario quello di permettere all’im­ peratore filosofo di scagionarsi da quest’immoralità lavandosene fiscal­ mente le mani. Uno dei suoi successori rinuncerà a intascare l’imposta su un’altra immoralità, la prostituzione.109 Come Marco Aurelio, Seneca è per metà esponente di quel sentire «primario» e per metà filosofo, ma, a differenza dell’imperatore, non prova noia davanti agli spettacoli dei gladiatori, al contrario, ci va per proprio diletto. Acconsente come tutti a questa deroga autorizzata dalla tradizione, benché il pensatore che c’è in lui la condanni o, piut­ tosto, la deplori; questi combattimenti non sono precisamente un’ope­ ra di pietà, scrive, vi scorre infatti il sangue umano.110 Ma, infine, si re­ ca nell’anfiteatro di sua spontanea volontà, niente e nessuno lo co­ stringe, ci va per divertirsi, e non pensa a nascondersi.111 Rivolgendosi a una dama, le parla della bizzarria dei nostri umori: «Cerchiamo a volte di non pensare [al dolore] assistendo a giochi e a incontri di gla­ 495

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diatori, ma, fra gli stessi spettacoli che ci distraggono, si fa sentire una lieve fitta di dolore».112 Seneca, assistendo alla messa a morte del gladiatore sconfitto nell’a­ rena, è paragonabile allo spettatore di una corrida che potrebbe trova­ re crudele la morte del toro (poiché, suppongo, è amico degli animali), ma che non amerebbe per questo di meno vedere uomini coraggiosi impegnati ad affrontare rischi reali. Il fatto che lo sconfitto venga sgoz­ zato è crudele, ma, senza questa conclusione, la prova del coraggio non sarebbe più unica: come altri «sport» antichi, i combattimenti dell’are­ na erano test di coraggio per le situazioni reali. È per questo che, nono­ stante la loro parte di crudeltà, i combattimenti nell’arena sono, agli occhi di Seneca, un nobile spettacolo cui egli va ad assistere senza ver­ gogna; forse ce ne ricordiamo, egli esprime stima per il coraggio113 e la capacità di resistenza dei gladiatori, per il loro amore per la gloria.114 I supplizi nell’arena al contrario sono, scrive Seneca, omicidi puri e semplici,115 dove si mira alla morte dei condannati a colpi di sferza e di ferro incandescente: «Perché quello va incontro alle armi con tanta paura? [...] Lo si spinga al combattimento a nerbate; l’uno e l’altro espongano i petti nudi ai reciproci colpi».116 Un giorno Seneca si è ca­ sualmente trovato sulle gradinate al momento della pausa di mezzo­ giorno, all’ora di questi orrori,117 e ha constatato quanto affascinassero il pubblico. Si tratta unicamente di criminali condannati per un giusto motivo. «Naturalmente, ma che bisogno hai, tu, di veder scorrere il sangue?» Seneca è forse il solo autore pagano che abbia intravisto quanto fosse perverso provare diletto alla vista dei supplizi. In Seneca, però, l’uomo e il filosofo stoico si confondono soltanto in parte. Per quest’ultimo, i combattimenti sono empi al pari dei supplizi, violano ugualmente il divieto di uccidere, dal momento che tutti abita­ no a pari titolo la Città cosmica. Le forme pagane di saggezza, e quella di Seneca in modo particolare,118 facevano dell’amore reciproco tra gli uomini un dovere o, piuttosto, un’inclinazione naturale, essendo tale sentimento nato da quella specie di legame di parentela naturale (ioikeiosis) che tutti hanno fra di loro. Ora, «l’uomo, cosa sacra all’uo­ mo, viene ucciso ormai per semplice divertimento; e mentre un tempo era peccato solo il fatto che s’insegnasse a uno a infliggere o a ricevere ferite, ora quello stesso uomo è esposto nelle arene, nudo e inerme, a ogni offesa, e lo spettacolo non sarà completo finché non morirà per mano di un altro uomo».119 Gli uomini primitivi ignoravano ancora queste immoralità, ma erano innocenti soltanto per il fatto di non aver ancora avuto il tempo di sco­ prire il male e di inventare la prassi gladiatoria; essi «si astenevano dall’uccidere anche le bestie, tanto erano diversi dagli uomini d’oggi che, non per ira, non per paura, ma solo per godersi lo spettacolo, uccidono i

loro simili» .120 Quest’innocenza non offriva alcuna garanzia per il futuro, dal momento che «non è la natura a dare la virtù: per diventare buoni c’è un’arte [ars]»121 e quest’arte porta il nome di filosofia. Capiamo allora perché Seneca ceda tanto facilmente al suo gusto per gli spettacoli: l’im­ moralità dell’umanità attuale è dovuta non tanto al peccato personale di ogni singolo uomo quanto piuttosto a un’inevitabile decadenza, imputa­ bile all’umanità nel suo insieme. Soltanto il lungo studio delle acquisizio­ ni o «dogmi» della filosofia122 permette di conquistare, al prezzo di con­ tinui esercizi,123 quella scienza costituita dalla virtù. Più in generale, sen­ za essere filosofo, ogni uomo di cultura, a Roma, doveva essere pieno di humanitas; in virtù di questa filantropia, Cicerone, pur approvando la di­ struzione di Cartagine, la ribelle, rimpiange che i suoi antenati abbiano cancellato dalle carte geografiche Corinto, e Seneca condanna energica­ mente uno dei suoi contemporanei che, da governatore di provincia, par­ lava del piacere regale che provava a far decapitare trecento uomini.124 Seneca non si ritiene un saggio e sa che non sarà mai tale;125 è soltan­ to un uomo della decadenza che lavora per migliorarsi. Quando va a vedere dei combattimenti, segue la consuetudine e il suo piacere, vive come un membro della società così com’è (ed essa non è perfetta, dal momento che è costruita sulla «follia» quasi universale), allo stesso mo­ do in cui confessa di essere ricchissimo,126 quando l’oro è una scoperta del vizio.127 Nel nostro tempo, avrebbe stigmatizzato la «società dei consumi», pur continuando a consumare. Le saggezze ellenistiche erano eudaimonismi d’élite che si indirizza­ vano quasi esclusivamente agli uomini di cultura e che insegnavano lo­ ro a essere fehci considerando il mondo dall’alto e a guardare le debo­ lezze umane con il distacco del saggio. Come dice Georges Ville, il loro atteggiamento davanti a queste debolezze proprie dell’uomo comune «era costituito, in primo luogo, da un’indifferenza in cui rientravano, al contempo, la filosofia e un certo atteggiamento aristocratico».128 Que­ ste saggezze si consideravano, evidentemente, come vere per tutti, ma non si proponevano di andare a educare ogni uomo né di riformare la società: si offrivano a ciascun individuo che cercasse di essere felice, aprivano, per così dire, un negozio di felicità in attesa del cliente. Que­ sta dottrina che predicava l’autosufficienza era anche poco incline al proselitismo, non sperava né pretendeva di ricondurre un giorno a sé l’intera umanità; dipendeva da ogni singola individualità il fatto di ri­ spondere all’offerta, di cercare la propria felicità. Il cliente stoico si oc­ cupava di sé per mettersi al riparo dal mondo a forza di meditare la ve­ rità della dottrina e di lasciarsene compenetrare; esercitando così la propria anima, riteneva di riuscire, un giorno, a fare di sé una sorta di palombaro che avrebbe attraversato il mondo in uno stato di sicurezza interiore e di autarchia. Il mondo così com’è era un oggetto degno di

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essere deplorato o di venir considerato con sarcasmo, ma non degno di un’azione riformatrice. Seneca ha scritto che l’uomo è sacro per l’uomo e gli si rende onore per questa frase, degna di un autore cristiano, si dice. Ma, dopo averla scritta sospirando, Seneca si è fermato qui; non ha voluto insegnare ai suoi lettori a non andar più nell’anfiteatro, ci andava lui stesso. Il cri­ stiano Lattanzio, lettore di Seneca, riprenderà un giorno questa frase: Dio ha voluto che l’uomo sia un essere sacro, inviolabile, un santcum animai,129 ma Lattanzio lo dirà perché ormai questo principio si tradu­ ce in atti. Sì, è proprio il cristianesimo che ha posto fine alla pratica gladiato­ ria, ma l’ha fatto con giri tortuosi e per vie cui non penseremmo spon­ taneamente. Prima di affrontare quest’argomento difficile, ricapitolia­ mo gli atteggiamenti pagani di fronte ai combattimenti dell’arena. L’atteggiamento normale era quello di amare questi combattimenti: veder affrontare la morte era un nobile spettacolo, veder scorrere il sangue era un piacere assai diffuso in ogni epoca. L’atteggiamento del pubblico andava dal sadismo (quello dell’imperatore Claudio) all’indif­ ferenza, non meno comune, per il dolore altrui. Certi dotti biasimavano questi omicidi in nome della pietà (Musonio) o della morale filosofica (Seneca), ma questa riprovazione restava platonica: la morale pagana corrente era una morale consuetudinaria e non speculativa né religiosa e i gladiatori, almeno a Roma, facevano parte della consuetudine. Una reazione più diffusa, ma considerata alla stregua di una debo­ lezza, era il non poter tollerare la vista del sangue: era fatta di egoismo più che di altruismo, si trattava di paura per se stessi. Ma, appunto, questa paura presso i deboli aveva la sua giustificazio­ ne: è un dato di fatto antropologico che l’omicidio sia proibito tra i membri di uno stesso gruppo umano; può essere messo a morte sol­ tanto il nemico o il criminale. Nulla è più banale del «Tu non uccide­ rai» del Decalogo. Il cristianesimo ricondurrà alla normalità lo scan­ dalo antropologico e l’eccezione che era rappresentata dalla pratica gladiatoria.

La fine della prassi gladiatoria si spiegherebbe dunque con tanta sem­ plicità? Siamo tentati di supporre che, con i cristiani, arrivino, infine, sulla scena storica personaggi che guardino a questi combattimenti con i nostri occhi. «Conquistati dal Vangelo» scriveva Carcopino «i romani arrossirono di questa vergogna inveterata e si rifiutarono di proseguirla

più a lungo».130 No, questo linguaggio edificante e vago misconosce una storia più complessa e dimentica che i comportamenti umani sono «bal­ canizzati»; per citare Marc Bloch, la legge del Cristo «può essere com­ presa come un insegnamento di mitezza e di misericordia, ma, durante l’età feudale, la fede più viva nei misteri del cristianesimo si associò sen­ za apparente difficoltà con il gusto per la violenza».1311 nostri valori, la cui formulazione è la più ampia, la più generosa possibile - carità cri­ stiana, parentela stoica fra tutti gli uomini -, hanno generalmente un campo d’applicazione più limitato; il saggio Marco Aurelio procedeva, oltre il Danubio, a quello che da noi chiamiamo un genocidio.132 Non si può pensare a ogni cosa in ogni epoca. I cristiani non hanno mai pensato di abolire la schiavitù, al contrario,133 ma fare di questo una nota a loro demerito, sarebbe peccare di anacronismo. In compen­ so, è proprio il cristianesimo che ha finito per porre una battuta d’arre­ sto alla gladiatura (con difficoltà, perché la società faceva resistenza): esso ha condannato questi combattimenti perché la legge divina vieta di uccidere un uomo ingiustamente; non ha condannato, invece, lo spettacolo sadico dei supplizi giudiziari né le rischiose cacce alle belve nell’arena, che avevano preso il posto dei combattimenti gladiatori. La pratica gladiatoria? I cristiani ne erano meno impressionati di noi, dal momento che, come i loro contemporanei pagani, consideravano la morte di un uomo (o di un martire) senza scandalo; si era abituati ai supplizi, o alla tortura, normale a quell’epoca, e se ne era testimoni sen­ za grande turbamento.134 È stato nondimeno il cristianesimo a porre fi­ ne alla prassi gladiatoria per cinque motivi: 1) un divieto ascetico era stato lanciato da parte della Chiesa su tutti gli spettacoli, a cominciare dalle corse dei carri. 2) È scritto: «Tu non ucciderai», e guardare in azione quegli assassini che erano i gladiatori equivaleva a farsi complici di omicidi.135 3) Attribuire alla carità cristiana la fine della gladiatura significa farsene un’idea falsa e approssimativa. Lo spirito evangelico di mitezza non è la stessa cosa, ed è a questo che bisogna attribuirne il merito; «il sangue diletta il piacere degli sguardi crudeli» scrive san Ci­ priano «l’uomo vi è ucciso per il piacere dell’uomo».136 4) Oltre a que­ sto spirito, l’orrore per il sangue versato, provato da molti pagani, trae­ va la sua origine da una paura un po’ egoista della violenza. 5) Infine, presso alcuni cristiani, un’ideologia della non violenza biasimava con­ giuntamente il gladiatore, il soldato e il giudice forte della spada della giustizia, malgrado le necessità della vita sociale. Mitezza evangelica e ideologia della non violenza hanno fatto considerare come normale, e non più come una debolezza da uomo pieno di paure, l’orrore per il sangue versato in piena pace entro il proprio gruppo sociale. L’aboli­ zione della prassi gladiatoria sarà il trionfo della mitezza e, del resto, il suo solo trionfo.

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Certamente, la stretta giustizia che vieta l’omicidio presso tutti i po­ poli ha fatto tanto quanto questa mitezza per l’abolizione della prassi dei giochi gladiatori. Ma essa non avrebbe potuto finire per imporsi, senza una tripla originalità della morale cristiana: lungi dall’essere ba­ sata sulla tradizione, è una morale di princìpi che non ammette dero­ ghe; questa morale, speculativa a modo suo, s’impone nondimeno a tutti gli uomini, invece di essere riservata a un’élite colta; si tratta, infi­ ne, di una morale interiorizzata: provare piacere nel guardare un omici­ dio, è essere un omicida nel proprio cuore. Dal momento che il tempo contribuisce molto alla questione, dobbia­ mo distinguere tra le epoche. Prima del 313 dopo Cristo, anno in cui il cristianesimo diventa la religione personale degli imperatori, la Chiesa è tona setta sospetta, talvolta perseguitata, e una delle sue preoccupazioni è proteggere i fedeli dai costumi di una società pagana che sarebbe inca­ pace di riformare. I suoi fedeli si impegnano a vivere virtuosamente e non a militare contro i vizi di ima città che non è la loro;137 la vera Città di Dio, lascia intendere 11 Pastore di Erma, si realizzerà dopo il ritorno del Cristo-Giudice tra i turbini tempestosi, e non nel mondo attuale. Dopo il 313, al contrario, sotto un imperatore cristiano, la pratica gla­ diatoria potrà diventare uno scandalo per la Chiesa e per lo Stato. In più, agli esordi, questa religione era molto diversa da quel che sa­ rebbe diventata nel corso dei secoli, per esempio con il francescanesi­ mo, per parlare soltanto di esso, e dalla concezione che se ne sarebbe fatta l’umanitarismo del X IX secolo.138 La «Croce invincibile» era il simbolo della vittoria del Cristo139 sulla morte, sui falsi dèi, sui demoni. Ma il tema che ci è più familiare da molti secoli, e cioè la Passione del Cristo e la Crocifissione, è assente dall’arte cristiana140 e dalla patristica greca e latina dei primi quattro secoli e oltre, eccetto un paio di ecce­ zioni. Il cristianesimo antico ignorava le sofferenze del Crocifisso e l’a­ more della Vergine Madre; il Cristo non era un modello di umanità af­ fettuosa, era venuto a portare la salvezza o la dannazione, al prezzo di una profonda opera di trasformazione personale del singolo, dell’osser­ vazione scrupolosa di una morale severa o di lunghe penitenze. Nei te­ sti cristiani dei primi tre secoli, gli appelli alla carità non mancano, ma sono più numerosi141 gli appelli al rispetto degli altri comandamenti. Il latte dell’umana tenerezza stilla poco nella letteratura paleocristiana, dove ha la meglio il rigore morale e pastorale, fatto del tutto compren­ sibile considerando che i divieti e le astinenze sono più realizzabili del­ l’utopia rivoluzionaria di amare il proprio prossimo: dopo l’elemosina e le opere di misericordia, cosa si poteva ancora prescrivere che fosse possibile? Lo spirito evangelico appare come l’essenza del messaggio cristiano per eccellenza soltanto a partire dal X IX secolo; verso il 1848, si amava credere che la fine della schiavitù fosse dovuta alla carità.142

Poiché la sociologia sarebbe nata soltanto quindici o venti secoli do­ po, il gladiatore non poteva ancora essere ritenuto una vittima della so­ cietà romana: non è mai stato un oggetto di commiserazione e non è stata pronunciata su di lui nessuna parola caritatevole. L’arena ha due colpevoli secondo Taziano: il mecenate che finanzia lo spettacolo143 e il gladiatore stesso.144 Perché quest’ultimo «possa uccidere, esiste una competenza, un allenamento, una tecnica: il crimine non viene sola­ mente eseguito, viene insegnato» scrive san Cipriano.145 Il gladiatore che segue quest’insegnamento è un assassino prezzolato, un furfante che vende la sua pelle per vivere,146 una sorta di prostituto; a meno che non si tratti di un forsennato, come sono i bestiari, i cacciatori nell’are­ na, che mettono a rischio la loro vita senza che nessuno li obblighi a questo, che se ne fanno gloria per una sorta di rabbiosa follia e che im­ pongono la vista di questo spettacolo al loro fratello, alla loro sorella, alla loro madre che ha pagato caro il posto per partecipare alle angosce del figlio.147 Vi è tuttavia una parziale eccezione, sant’Agostino, la cui lucidità gli ha permesso di capire che i gladiatori erano vittime delle passioni del­ la folla prima ancora di iniziare il gioco. La passione per gli spettacoli, scrive148 «rende gli uomini simili a demoni. Con i loro clamori, eccita­ no, spingendole a uccidersi reciprocamente, persone che non hanno nessun altro motivo - eccetto che il desiderio di compiacere un pub­ blico di fanatici - per combattere quanti non hanno fatto loro nulla»; questo pubblico si trova «trascinato dalla follia dei combattenti resi a loro volta folli proprio da esso», sobillando le loro reciproche rivalità. Seguono però alcune righe rivelatrici: oltre ai gladiatori, il medesimo circolo vizioso di passione folle e rivalità trascina anche «gli attori, i musicisti, gli aurighi del circo e quei miserabili cacciatori che costrin­ giamo a battersi contro le fiere» nell’arena. Ciò significa mettere sullo stesso piano uno spettacolo in cui degli uomini uccidono e muoiono e una corsa di velocità su pista o gli equivalenti antichi del teatro, del musical o dell’opera. Agostino si attiene dunque a quello che risultava dopo tre secoli di critica cristiana consacrata: tutti gli spettacoli sono colpevoli, sia che si tratti dell’arena, del circo o del teatro, gli uni al pari degli altri, e la loro uguale colpa sta nel fatto di smuovere delle passioni, di turbare l’anima degli attori e del pubblico. «Tale è il nutrimento, tale è lo stato di salu­ te: come potrebbe conservarsi in pace uno spirito che si nutre dello spettacolo di rivalità e di combattimenti corpo a corpo?» Questa pace «dolce e gradevole, anche nel mezzo dell’amarezza delle pene della vita presente», questa «gioia di una buona coscienza», viene provata da co­ lui che obbedisce ai comandamenti divini e fugge dalle false gioie «del­ la ricchezza, degli spettacoli, del circo, della lascivia delle terme, della

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dissolutezza».149 La condanna degli spettacoli da parte delle autorità ecclesiastiche era destinata a un avvenire assai durevole; Bossuet e la Lettera a d’Alembert sugli spettacoli di Jean-Jacques Rousseau tuone­ ranno ancora contro il teatro. VI E i gladiatori? Li abbiamo forse dimenticati? No, ma la condanna in massa di tutti gli spettacoli cancella un po’ la specificità di questi assas­ sini, che sono doppiamente colpevoli: uccidono e fanno parte della ca­ tegoria degli uomini di spettacolo. Il primo capo d’imputazione era ca­ pitale agli occhi di alcuni cristiani. Di contro, per la gerarchia ecclesia­ stica che aveva l’incarico di vegliare sul gregge dei fedeli, la seconda ac­ cusa era forse più grave: la Chiesa considerava gli spettacoli, tutti senza distinzione, come uno dei peggiori pericoli per le anime e faceva grandi sforzi per tenerne lontani i fedeli. La gladiatura era, ai suoi occhi, sol­ tanto uno spettacolo fra gli altri, forse non il peggiore.150 Tutti gli spet­ tacoli erano vietati ai cristiani.151 Tale divieto era indiscusso e rispettato dal gregge dei fedeli? Questo è un dato meno sicuro. Ancora, bisogna distinguere le ragioni del divieto, che non sono sem­ pre quelle avanzate dai moralisti cristiani e che non sono né semplici né sempre coscienti. Lasciamo da parte il carattere falsamente sacro degli spettacoli: era soltanto un pretesto.152 Georges Ville ha dimostrato che il circo, il teatro e l’arena erano interamente desacralizzati, almeno sot­ to l’Alto impero;153 erano unicamente dei piaceri. Ed è precisamente questo che i cristiani rimproverano loro, per via di «un puritanesimo incline a condannare ogni ricerca del piacere»,154 o a causa di questa svalutazione del mondo implicata da ogni religione di salvezza. Gli spettacoli sono altrettante «voluttà dei sensi»,155 e li si deve evitare alla pari delle terme, delle palestre, dei ricchi ornamenti femminili e di tut­ to quello che può chiamarsi lusso e vita mondana.156 Allo stesso modo, per ascetismo, alcuni pagani, sacerdoti o astrologi, «si tenevano lontani dalle seduzioni degli spettacoli».157 Il solo piacere consentito era quello dato dall’esercizio della virtù.158 Ora, si va a questi tre tipi di spettacolo (circo, teatro, arena) soltanto per il piacere, per concupiscenza. Tre parole sono riassuntive di questa situazione: furor, saevitia, impudicitia, «entusiastico trasporto», «cru­ deltà», «mancanza di pudore».159 Si va a cercare il delirio generato dal­ le corse dei cocchi, dove gli spettatori scommettono sul vincitore o si battono tra loro per la loro squadra,160 si assapora la crudeltà dell’anfi­ teatro, questa scuola di omicidio, e le turpitudini insegnate dal teatro: infatti esso mostra delle divinità adultere, Venere e Marte e dà l’esem­ 502

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pio del parricidio e dell’incesto con Edipo e Pelope: ima casta matrona ne ritornerà impudica.161 Teofilo di Antiochia si spinge oltre: vedere ima pantomima che mostra il banchetto cannibalico di Atreo e Tieste, equivale a «pensare di fare altrettanto».162 Date queste premesse, ci si arrischiava a pensare che le turpitudini del teatro fossero equivalenti ai crimini dell’anfiteatro. Tuttavia, si avanzava quest’idea soltanto al negativo: «La sozzura del teatro non è meno deplorevole di quella dell’arena»;163 si reagiva contro un primo impulso che era quello di trovare l’arena peggiore del teatro e si esitava tra l’ascetismo e la semplice umanità. Resta il fatto che i cristiani, come i loro contemporanei pagani, consideravano la morte di un uomo (o di un martire) a sangue freddo. Gli spettacoli sono colpevoli, e, di conseguenza, lo sono anche gli nomini di spettacolo. Poiché i gladiatori hanno la duplice colpa di es­ sere uomini di spettacolo e assassini, nessun cristiano saprebbe eserci­ tare la loro professione. Nel primo quarto del III secolo dopo Cri­ sto,164 il sacerdote Ippolito da Roma pretende che, nel caso un gladia­ tore voglia convertirsi al cristianesimo, «cessi di esibirsi o venga rifiu­ tato». Ippolito esige altrettanto anche dall’auriga, dal teatrante, dalla prostituta e dal lenone, che saranno accettati come catecumeni soltan­ to se abbandoneranno il loro mestiere; questa era, all’incirca, la lista di coloro che erano tacciati di infamia nel diritto romano:165 coloro il cui mestiere consisteva nel prostituire al pubblico il loro corpo o l’imma­ gine della loro persona. Questo, però, non era affatto il criterio di Ip­ polito, le cui esigenze erano religiose ed etiche: uno scultore o un pit­ tore non dovranno più fabbricare idoli o verranno respinti, un astrolo­ go non farà più predizioni. «A un soldato è vietato uccidere un essere umano; se ne riceve l’ordine, non gli conficcherà [l’arma] nel corpo», altrimenti verrà respinto come catecumeno. In virtù dello stesso impe­ rativo della non violenza, il magistrato che abbia il diritto di pronun­ ciare condanne a morte dovrà rinunciare alla sua carica. Il mestiere d’insegnante è sospetto, se non respinto: «Chi impartisce un insegna­ mento ai bambini, sarebbe buona cosa che desistesse»; tuttavia, «gli si perdonerà [di continuare a farlo] se non ha un [altro] mestiere».166 La ragione di questo è, credo, che gli insegnanti erano sospettati di nutri­ re un disonesto interesse per gli allievi (l’ossessione dei genitori degli allievi era trovare un maestro che fosse al riparo da un simile vizio).167 L’interdetto lanciato contro gli spettacoli e contro quanti erano im­ pegnati in essi non era dovuto soltanto ai diversi peccati di cui erano occasione, ma anche, e soprattutto, a un tratto a essi comune che la­ sciava i moralisti cristiani ancora più sbalorditi di quanto non facessero i peccati stessi,168 e cioè la sovreccitazione del pubblico che si scatenava tanto nel circo quanto a teatro e nell’anfiteatro; gli spettacoli agitano e 503

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appassionano le nostre anime, che dovrebbero essere «tranquille e in pace».169 Trasportiamoci nel passato: è mattino, ci sarà oggi una caccia nell’arena; uno dei tuoi amici, appassionato di queste cacce, teme che tu dimentichi l’ora, viene a svegliarti, ti scuote, ti fa fretta, poco ci man­ ca che ti agguanti per la vita per farti sedere di peso sui gradini dell’an­ fiteatro.170 Un altro capo d ’accusa, ancora più decisivo, non è, per quanto ne so, mai formulato, senza dubbio perché un gruppo dedito al proselitismo non deve perdere a priori la speranza per tutti coloro che restano da conquistare al nuovo credo: ma cosa sperare da folle che si interessano unicamente a vani spettacoli e il cui sguardo non si solleva mai più in alto? Esse sono soltanto una massa amorfa, indifferente, un suolo sterile, dove il buon seme di grano, se vi cadesse, morirebbe. Oltre a quest’accusa, che era meglio tacere, i moralisti avevano una buona ragione per essere inorriditi. Secondo il suo corso ordinario, il «mondo» seduce con le sue massime, le sue vanità, i suoi cattivi esem­ pi; ma la violenza delle passioni sollevate dagli spettacoli non ha nulla di ordinario; nulla più di questa violenza è contrario alla mortificazio­ ne, al raccoglimento dell’anima cristiana che dovrebbe «morire al mon­ do», tranquilla nella pace del suo Dio; la passione per gli spettacoli ren­ de l’anima sorda ai comandamenti della volontà divina, durante gli spettacoli essa è spossessata da sé e non appartiene più a Dio. Ma allo­ ra, a chi appartiene? Forse a quei «demoni» che si aggirano dovunque? Alla società pagana? Di demoni, ce n’erano dappertutto, e dovunque essi erano segretamente attivi; li si temeva come noi temiamo i virus e i microbi, e si so­ spettava dovunque il loro intervento nella vita pubblica e privata. Da Tertulliano sino alle Costituzioni apostoliche e a sant’Agostino, molti autori definiscono quelle assemblee urlanti che sono gli spettacoli con degli aggettivi lungi dall’essere privi di senso: demoniache, o anche sa­ taniche; il pubblico in delirio attira i demoni come una facile preda di cui essi vengono a fomentare la follia.171 E, per finire e rendere ancora più fosco il quadro, ecco il vero problema: perché i moralisti cristiani si sfinivano in quest’ossessione contro gli spettacoli? Assistere a uno spet­ tacolo voleva dire commettere un doppio peccato, lo abbiamo visto, ma perché i cristiani attribuivano a queste gioie profane, che non erano il peggiore dei mali, un’importanza smisurata, uguale a quella conferita loro dalla società pagana, per motivi opposti? Nulla nel paganesimo li riempiva di altrettanta indignazione, eccetto i sacrifici offerti agli idoli. «Noi altri cristiani ci teniamo lontani dalle vostre cerimonie religiose \pompae\ e dai vostri spettacoli.»172 Anche le gare di atletica alla maniera greca (ce n’erano a Cartagine), che non avevano nulla di immorale, erano colpite dall’interdetto di Ter­ tulliano per le ragioni più inaspettate e con una sorta di repulsione.173

Tutti i pretesti sono buoni: altrove, Tertulliano pretende che il circo e l’arena avessero un significato religioso; come direbbe Gilbert Dagron, egli paganizza gli spettacoli per demonizzarli. Sono dunque gli spetta­ coli in quanto tali l’oggetto della sua riprovazione. C’è qui, negli intel­ lettuali cristiani e nei vescovi, più di un rifiuto giustificato: una vera fo­ bia. Cos’era stato dunque a esacerbare una questione del tutto legitti­ ma? Attraverso l’interdetto con cui li colpivano, avrebbero forse voluto non soltanto combattere il peccato, ma anche evidenziare simbolicamente che la Chiesa rompeva con la società imperiale pagana nella sua interezza, con il «mondo»? Lo si potrebbe supporre, dal momento che la città pagana, dal canto suo, conferiva un’importanza pressoché ideo­ logica ai suoi cari spettacoli, reclamandoli come un diritto. Un’originalità ben nota della città greco-romana è quella di aver isti­ tuzionalizzato i piaceri della festa (rompere con il corso ordinario della vita, essere felici e sentire che si è in tanti a esserlo contemporaneamen­ te) e di aver fatto di questo uno dei diritti del cittadino (il che implica­ va per i ricchi notabili l’obbligo, morale o legale, di essere mecenati). I vantaggi comuni ai cittadini (i commoda), scrive Cicerone, sono la citta­ dinanza, le istituzioni civili e giudiziarie, le feste e gli spettacoli.174 La città li aveva istituzionalizzati a titolo di piaceri, di pubblici rallegra­ menti, e ne dava loro il nome (laetitiae, voluptates), sebbene la loro oc­ casione o il loro pretesto, subito dimenticato dagli spettatori, fosse reli­ gioso. Gli spettacoli non avevano nulla a che vedere con il sentimento di solidarietà civica, il gregarismo, con Norimberga e nemmeno con Bayreuth: una città antica era una collettività che riuniva individui in carne e ossa, amanti dei piaceri, e non soltanto cittadini in astratto, in­ tercambiabili, per cosi dire, e gravati soltanto da doveri. Gli spettacoli erano la prova del fatto che quella città fosse prospera, civilizzata e conforme al proprio ideale. Ciascuno vi prendeva parte o no, secondo la sua preferenza; la plebe ci andava in massa, o aveva la nomea di farlo; gli uomini di lettere si di­ cevano reticenti o semplicemente vi assistevano. Nondimeno, questi piaceri pubblici erano un diritto posseduto dalla popolazione, per la quale essi rappresentavano la quota di superfluo al di là delle necessità della pura sussistenza, la parte di civiltà al di là di quello che la natura esige: il pane, ma anche il circo. La città procurava tutto questo ai suoi abitanti, dal momento che essa rappresentava la collettività umana compiuta. Dopo una guerra o un’invasione, la prima preoccupazione di una città era quella di ristabilire gli spettacoli per provare a se stessa di essere ritornata alla normalità, di continuare a esistere e prosperare assieme alla civiltà.175 Nel V secolo dopo Cristo, a Treviri, a Costantina o a Cartagine, minacciate o saccheggiate dai barbari, la gente reclama­ va spettacoli, con grande scandalo di un moralista cristiano che vede in

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questo il gusto ossessivo per i piaceri proprio di una società che ha adottato un cristianesimo soltanto di facciata.176 Sant’Agostino ironizza amaramente: «Sporca età, dura età», sentiamo ripetere intorno a noi, ma non per questo si smette di organizzare spettacoli nell’arena.177 Ve­ dremo, nella conclusione di questo libro, che in piena era cristiana, do­ po il sacco di Roma da parte dei goti nel 410 e la liberazione della città, si ristabilirono momentaneamente i combattimenti dei gladiatori. Dopo una guerra o una rivoluzione, la prima cura dei Guermantes, di questi membri di una perfetta alta società, sarebbe stata, in modo si­ mile, quella di dare nuovamente ricevimenti mondani per manifestare che la loro esistenza raffinata continuava come prima. Di conseguenza, rifiutare per principio di accettare il loro invito equivarrebbe a isolarsi, a rifiutare i loro valori, a separarsi dalla loro società. Tutto sta nelle sfu­ mature: gli spettacoli antichi non plasmavano una forma di socievolez­ za, piuttosto la davano come presupposto; non avevano nulla di grega­ rio, l’abbiamo visto, appartenevano alla Roman way oflife, a un pecu­ liare modo di vivere che la gente seguiva senza pensarci. Prendervi par­ te non consisteva nel rendergli omaggio. Ma il reciproco non è vero: non limitarsi alla non partecipazione, ma rifiutare per principio queste feste della grande famiglia civica avrebbe significato respingere questa forma di socialità e separarsi dai propri simili. Il narcisismo di una so­ cietà che è fiera di se stessa e dei vantaggi che garantisce (commoda) fa sì che essa consideri negativamente il fatto di snobbare questi ultimi e la sua way oflife. C’è un testo pagano che meriterebbe di essere addot­ to come testimonianza a proposito del cristianesimo e degli spettacoli: nel 66, Nerone vuole sbarazzarsi di un senatore che gli si oppone, Trasea; egli sguinzaglia contro questo membro della setta stoica alami ac­ cusatori che gli rimproverano di disertare «il foro, i teatri, i templi».178 Con questo non gli rimproverano di aver avuto di meglio da fare in una giornata di spettacoli, o di non essere stato dell’umore giusto per parte­ cipare alla festa, ma lo accusano di rigettare la società dei suoi pari per spirito di setta e di opposizione. Era un modo di far passare un oppositore degli abusi del cesarismo per un nemico della società. I moralisti cristiani, credo, riceveranno un’analoga calunnia: saranno sospettati di voler fare gruppo a parte, di rompere con la società attraverso un gesto simbolico come il rifiuto de­ gli spettacoli. I loro fedeli, vincolati a questa società da tutti i legami del civismo, dell’interesse e dell’affetto, non li avrebbero seguiti; non potevano evitare il contatto con i pagani, vivevano e lavoravano con lo­ ro.179 E, fatta eccezione per alcuni estremisti apocalittici, davanti ai quali Tertulliano stesso esitava,180 i loro intellettuali avevano appreso da san Paolo181 che i doveri dei fedeli sudditi dell’impero e dell’impera­ tore pesavano sui cristiani. Ma essi hanno delle buone ragioni per esita­ 506

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re o per essere in tensione: sono, al contempo, cittadini della Città ter­ restre e stranieri di passaggio182 e, là dove le leggi dell’impero si oppon­ gono alla legge divina, è alla legge di Dio che devono obbedire. Se il loro rifiuto degli spettacoli (rifiuto giustificato da questa legge) ha assunto il carattere di una fobia, non era per una qualche ossessione di rompere completamente con la Città terrestre, ma per due particola­ rità, delle quali l’una era implicita e l’altra era pressoché ignota a se stessa. La prima era il principio stesso degli spettacoli, che faceva guar­ dare a essi con indignazione, come se fossero uno scandalo: i piaceri pubblici erano piaceri, ne portavano il nome e, poiché erano pubblici, ostentavano un diritto al piacere, erano il manifesto di un principio di piacere. La seconda particolarità va individuata nella realtà concreta degli spettacoli: sulle gradinate dell’arena o del teatro si formava mo­ mentaneamente una forma di socievolezza concorrente di cui la società cristiana era gelosa a sua insaputa. Sintomo rivelatore ne è il fatto che gli scrittori cristiani considerino gli spettatori soltanto sotto un aspetto collettivo, quello di una massa umana urlante in un luogo di perdizio­ ne; evocano delle folle in delirio, ma, a meno di chiamarsi sant Agosti­ no, non spiegano nel dettaglio quel che accade nell anima di un indivi­ duo che si arrischia in questi luoghi, né che pericoli essa corra. A-che prò soffermarsi sui dettagli? Un cristiano che si avventurasse in questi luoghi si sarebbe subito perduto per i suoi confratelli, non sarebbe sta­ to più uno dei loro, avrebbe dimenticato il legame comunitario che li legava per urlare come gli altri e con gli altri. Questa gelosia aveva buo­ ni motivi per sussistere: gli spettacoli facevano una dura concorrenza al messaggio cristiano, attiravano vaste folle, incluse masse di fedeli poco rispettosi del divieto. VII Dando così delle lezioni di morale allo spettatore, la Chiesa rivelava quanto la stessa parola «morale» potesse avere un senso nuovo, di­ verso da quello che avrebbe potuto darle tanto la società pagana quanto un Seneca e con lui tutta la saggezza antica. Sarebbe servita questa rivoluzione mentale perché i combattimenti gladiatori finisse­ ro per sparire. Per la morale romana, ce ne ricordiamo, questi combattimenti era­ no una deroga al divieto di uccidere: gli spettacoli erano considerati come un caso particolare, mentre la nuova morale, al contrario, non poteva ammettere alcuna deroga a quella che era la legge stessa di Dio. La morale cristiana, effettivamente, non era consuetudinaria, a differenza di quella praticata da tutta l’antichità pagana: per la prima 507

L’impero greco-romano

Pagani e carità cristiana davanti ai gladiatori

volta nella storia, una morale religiosa speculativa si diffondeva nel vasto mondo. Gli dèi del paganesimo non si disinteressavano della morale, ma non erano stati loro a donarla agli uomini: praticavano la medesima morale, che avevano come loro respirato nell’aria da sempre. Essa non era esplicitata in un insegnamento dottrinale, era appresa tramite l’uso, l’e­ sempio, i proverbi, e consisteva nel «fare come tutti», nel rispettare le istituzioni e i costumi del mondo civico e umano; i differenti ambiti della realtà si giustapponevano in essa orizzontalmente, il divieto di uc­ cidere vi coesisteva con la deroga gladiatoria. La morale cristiana, al contrario, era insegnata in maniera esplicita ai fedeli, che imparavano quali fossero i dogmi religiosi e quali fossero i comandamenti di Dio. Senza dubbio la morale cristiana aveva larghi tratti di somiglianza con quella dei pagani; secondo entrambe, non bisognava né uccidere né ru­ bare; una massima pagana diceva di non fare ad altri quello che non si vorrebbe fare a se stessi.183 Secondo i cristiani, però, non bisognava farlo perché Dio l’aveva proibito. La loro morale non consisteva nell’insegnare «quel che si fa», ma nel fare quel che Dio voleva che l’uomo facesse. Ora, la creatura umana non sarebbe in grado di derogare di testa propria alla legge di­ vina. «Il precetto che dice “Tu non ucciderai” non comporta alcuna deroga» scrive il cristiano Lattanzio; la consuetudine (consuetudo) e l’opinione degli uomini non saprebbero prevalere contro di esso.184 I comandamenti di Dio avevano quindi lo stesso carattere generale dei precetti di una morale filosofica. Essi ne avevano anche la stessa carica di universalità, dal momento che questa morale non è riservata a un’élite, alla maniera delle etiche della filosofia antica: con il cristianesimo, è nata una morale non con­ suetudinaria che si imponeva su tutti gli uomini in quanto uomini; essa non faceva concessioni sprezzanti alla mediocrità delle folle, ma mirava a essere universalmente osservata. Quando Teofilo di Antiochia, san Gerolamo185 o Prudenzio tuonavano contro la perversità del teatro o dell’arena, non lanciavano lo sguardo distaccato di un saggio sulla «foi­ ba» umana, ma volevano essere obbediti, volevano distogliere i fedeli, per la loro salvezza, da questi luoghi di perdizione e finirla con quella deroga criminale. L’apologetica cristiana non mentiva quando afferma­ va che la nuova religione rendeva filosofi tutti i suoi fedeli, compresi gli ilhtterati: il meno istruito dei cristiani era a suo modo un intellettuale, la sua condotta non seguiva la consuetudine, ma obbediva a una dottri­ na di cui Cristo era l’insegnante. Quest’universalismo scava un abisso tra la morale cristiana e l’etica delle sette filosofiche pagane il cui contenuto sembra non meno eleva­ to. La setta stoica, per esempio, insegnava la filantropia, l’amore per

l’umanità;186 tuttavia, ci si ingannerebbe se si esaltasse questa setta defi­ nendola paleocristiana. Infatti, con il cristianesimo, ritenere che i com­ battimenti nell’arena siano immorali non è più l’idea elevata e platonica di un’élite impotente, rassegnata e soddisfatta della propria superiorità: si tratta invece di un’evidenza universale che bisogna mettere in pratica nei fatti. Si è visto prima che Seneca e Lattanzio non dicevano la stessa cosa quando affermavano con le stesse parole che l’uomo è un essere sacro per l’uomo: dovrebbe esserlo, ahimè, diceva Seneca; bisogna che lo sia, dice Lattanzio. Bisogna intendersi su quanto questo abbia avuto di rivoluzionario. La natura speculativa e universale della sua morale è ciò che il cristia­ nesimo ha portato di più nuovo e di più durevole ai secoli a venire; a questo bisogna aggiungere l’organizzazione ecclesiastica e il governo pastorale delle anime. Si è vista per la prima volta una dottrina organiz­ zarsi per imporsi e dirigere tutti gli spiriti;187 in seguito, la imiteranno riformatori e utopisti. Per questa circostanza, l’esempio cristiano resta una delle componenti della civiltà occidentale, a fianco del liberalismo e dell’illuminismo, del socialismo, del femminismo eccetera, altre for­ me di speculazione plasmate sul suo modello; ormai, non ci si accon­ tenterà più di «fondare ima setta» come si apre un negozio e di aspetta­ re l’acquirente, ma si vorrà riformare la società a mezzo di un clero o di un partito. Quanto al contenuto della morale cristiana, esso era banale («Tu non ucciderai»), utopico b