Le guerre in un mondo globale
 8867287133, 9788867287130

Table of contents :
Occhiello
Frontespizio
Colophon
Indice
Tommaso Detti, Introduzione. Alcuni dati sulle guerre nell’età contemporanea
Nicola Labanca, Guerra, Grande guerra, guerra totale, guerra globale. Appunti di storia di concetti novecenteschi
I. Le guerre tra Ottocento e Novecento
Carmine Pinto, Una prima guerra globale. Impero e nazioni tra Atlantico e Mediterraneo (1806-1914)
Tiziano Bonazzi, La guerra civile americana
Bruna Bianchi, Grande guerra e popolazione civile: violazione delle libertà e dei diritti, sradicamento, violenza strategica
Antonella Salomoni, La seconda guerra mondiale e il fronte orientale. Spazio del genocidio e rovine ebraiche
Guido Samarani, Le guerre in Asia nel Novecento: l’esperienza della Cina e dell’Asia orientale (1895-1945)
Guido Formigoni, Guerra fredda o «lunga pace»: pervasività del conflitto e logiche di ordinamento
II. I volti della guerra
Edoardo Greppi, Guerra e diritto internazionale
Fabio Degli Esposti, Guerra ed economia
Gianluca Fiocco, Guerra e tecnologia
Irene Di Jorio, Guerra e propaganda
Marco Impagliazzo, Guerra e religione nel Novecento
Andrea lollini, La sovrapposizione storia e diritto: l’esperienza della Commissione sudafricana verità e riconciliazione
Indice dei nomi

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I libri di Viella 236

sissco

- società italiana per lo studio della storia contemporanea

Le guerre in un mondo globale

a cura di Tommaso Detti

viella

Copyright © 2017 - Viella s.r.l. Tutti i diritti riservati Prima edizione: gennaio 2017 ISBN 978-88-6728-713-0 (carta) ISBN 978-88-6728-789-5 (e-book pdf)

viella libreria editrice via delle Alpi, 32 I-00198 ROMA tel. 06 84 17 758 fax 06 85 35 39 60 www.viella.it

Indice

tommaso detti Introduzione. Alcuni dati sulle guerre nell’età contemporanea nicola labanca Guerra, Grande guerra, guerra totale, guerra globale. Appunti di storia di concetti novecenteschi

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I. Le guerre tra Ottocento e Novecento carmine pinto Una prima guerra globale. Impero e nazioni tra Atlantico e Mediterraneo (1806-1914)

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tiziano bonazzi La guerra civile americana

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bruna bianchi Grande guerra e popolazione civile: violazione delle libertà e dei diritti, sradicamento, violenza strategica

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antonella salomoni La seconda guerra mondiale e il fronte orientale. Spazio del genocidio e rovine ebraiche

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Guido samarani Le guerre in Asia nel Novecento: l’esperienza della Cina e dell’Asia orientale (1895-1945)

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Guido FormiGoni Guerra fredda o «lunga pace»: pervasività del conflitto e logiche di ordinamento

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Le guerre in un mondo globale

II. I volti della guerra edoardo Greppi Guerra e diritto internazionale

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Fabio deGli esposti Guerra ed economia

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Gianluca Fiocco Guerra e tecnologia

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irene di Jorio Guerra e propaganda

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marco impaGliazzo Guerra e religione nel Novecento

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andrea lollini La sovrapposizione storia e diritto: l’esperienza della Commissione sudafricana verità e riconciliazione

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Indice dei nomi

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tommaso detti Introduzione. Alcuni dati sulle guerre nell’età contemporanea

Questo volume contiene gli atti del convegno della SISSCO – Società italiana per lo studio della storia contemporanea – svoltosi a Perugia il 18-20 settembre 2014 e dedicato a Le guerre in un mondo globale.1 I saggi tratti dalle relazioni presentate in quella sede sono stati raggruppati in due parti anziché in tre: Le guerre fra Ottocento e Novecento e I volti della guerra.2 Non sono stato incaricato di curare quest’opera per ragioni di competenza, ma per aver presieduto il comitato scientifico dal cui lavoro è scaturito il taglio del convegno,3 cosicché peccherei di presunzione se tentassi di sintetizzarne i risultati. Mi limiterò dunque ad anteporre ai saggi alcuni dati quantitativi sul mutare del volto della guerra fra Ottocento e Novecento, nella speranza di fornire al lettore una sorta di sfondo che possa contribuire a un sommario inquadramento dei contenuti del volume. I problemi sui quali mi soffermerò riguardano nell’ordine: la periodizzazione dei fenomeni bellici degli ultimi due secoli; il numero, le tipologie e la geografia delle guerre, e in particolare di quelle civili; la loro “severità”, cioè in sostanza la questione del numero delle vittime. Senza entrare nel merito del problema delle periodizzazioni della storia contemporanea, è appena il caso di far notare che questo volume ricalca più o meno esplicitamente quella che ne colloca le origini nelle grandi rivolu1. Il convegno è stato promosso in collaborazione con l’Università degli Studi e l’Università per Stranieri di Perugia e con il contributo della Regione Umbria. 2. È stata cioè soppressa la terza parte – Guerra e pace – anche a causa del venir meno delle relazioni di Silvia Salvatici, L’umanitarismo di guerra, e Alessandro Colombo, Guerra e pace nelle relazioni internazionali, i cui autori non hanno potuto rielaborarle per motivi personali. 3. Ne hanno fatto parte Alfonso Botti, Anna Bravo, Valerio De Cesaris, Mario Del Pero, Marcello Flores, Roberto Morozzo della Rocca, Silvia Salvatici e Luciano Tosi.

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Tommaso Detti

zioni dell’ultimo quarto del XVIII secolo. Se infatti Nicola Labanca fa sua l’idea di Peter Paret secondo il quale la classica «duplice rivoluzione» di Eric J. Hobsbawm potrebbe essere integrata da una terza, cioè da una rivoluzione militare,4 Carmine Pinto – richiamandosi a David A. Bell5 – parla del ciclo di guerre del 1792-1815 come del primo conflitto globale della storia. Non è certo sorprendente, d’altra parte, che tutti gli autori individuino un salto di qualità nelle due guerre mondiali, confermando così indirettamente una tripartizione dell’età contemporanea secondo la quale a una fase di globalizzazione sviluppatasi nel “lungo Ottocento” seguì un periodo di crisi e deglobalizzazione (ma anche di globalizzazione di ideologie assolute): per l’appunto una «Guerra dei Trent’anni del Novecento»,6 dopo la quale si aprì una nuova fase di globalizzazione. E ancora, a proposito del rapporto fra fenomeni bellici ed economia, Fabio Degli Esposti distingue un’«epoca della guerra limitata» fino al 1914 da quella dei due conflitti mondiali e da una terza, segnata dall’avvento delle armi nucleari. Per quanto riguarda la prima fase, infine, questo quadro generale è confermato da Tiziano Bonazzi: richiamandosi a Michael Geyer e e Charles Bright,7 egli inserisce infatti la guerra civile americana in un ciclo globale di conflitti e di rivolte sviluppatosi nei decenni centrali del XIX secolo ed esteso dall’Asia all’Europa e alle Americhe. Né è forse un caso che, come ricorda Edoardo Greppi, fu proprio nel contesto di quel ciclo che nacque il diritto di guerra. Certo, benché prefigurata con largo anticipo da William H. McNeill,8 al pari di ogni altra questa periodizzazione non ha valore assoluto ed è suscettibile di essere discussa, articolata e attraversata. Guardando alla Cina e ai suoi rapporti con il Giappone, ad esempio, Guido Samarani apre e chiude il suo saggio con i conflitti sino-giapponesi del 1894-95 e del 4. P. Paret, Napoleone e la rivoluzione della guerra, in Guerra e strategia nell’età contemporanea, a cura di N. Labanca, Genova 1992 [1986], pp. 43-60. 5. D.A. Bell, The First Total War. Napoleon’s Europe and The Birth of Warfare as We Know It, New York 2007. 6. L’immagine fu coniata com’è noto da A. J. Mayer, Il potere dell’ancien régime fino alla i Guerra mondiale, Roma-Bari 1982. 7. M. Geyer, Ch. Bright, Global Violence and Nationalizing Wars in Eurasia and America. The Geopolitics of War in the Mid-Nineteenth Century, in «Comparative Studies in Society and History», 38/4 (1996), pp. 619-657. 8. W.H. McNeill, Caccia al potere. Tecnologia, armi, realtà sociale dall’anno Mille, Milano 1984 (ed. or. Chicago 1982).

Introduzione

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1937-45. A sua volta Gianluca Fiocco fa sua l’idea di Leonardo Paggi di un «secolo spezzato»,9 ravvisando una forte accelerazione delle tecnologie militari nell’intero periodo 1870-1945 e proponendo di considerarlo anche da questo punto vista come una fase unitaria. Ciò detto, per verificare se e in quale misura la tripartizione da cui ho preso le mosse sia effettivamente applicabile ai fenomeni bellici e per trarne alcune indicazioni sui loro mutamenti occorre mettere a confronto il numero e la natura dei conflitti combattuti nelle diverse fasi. Soltanto per le prime due, tuttavia, l’operazione è relativamente semplice perché dei grandi progetti di ricerca esistenti sull’argomento solo uno – il Correlates of War Project (Cow)10 – copre il periodo precedente il 1946, fornendo dati elaborati con criteri unitari, anche se a partire dal 1816. A esso si può affiancare peraltro un lavoro di Andreas Wimmer e Brian Min, che hanno rielaborato i dati di Cow fino al 2001.11 Più complesso è il problema per la terza fase, riguardo alla quale il Center for Systemic Peace di Vienna (Csp), l’Uppsala Conflict Data Program (Ucdp) e il Peace Research Institute di Oslo (Prio) adottano criteri diversi tra loro e da quelli di Cow. Se pure gli ultimi due hanno elaborato un dataset unitario,12 più in generale i vari progetti differiscono tra loro persino su che cosa sia definibile come guerra. Partiamo dunque da Cow, che offre dati comparabili per l’intero periodo 1816-2007. Richiamandosi ai loro iniziatori Melvin Small e J. David Singer,13 gli autori precisano che per guerra intendono un «sustained combat, involving organized armed forces, resulting in a minimum of 1,000 battlerelated combatant fatalities within a twelve month period».14 Su tali basi si 9. L. Paggi, Un secolo spezzato, in Novecento. I tempi della storia, a cura di C. Pavone, Roma 20082. 10. The Correlates of War Project, COW War Data, 1816-2007 (v4.0), http://www. correlatesofwar.org/data-sets/COW-war. 11. A. Wimmer, B. Min, From Empire to Nation-State: Explaining Wars in the Modern World, 1816-2001, in «American Sociological Review», 71 (2006), 867-897. 12. Center for Systemic Peace, Integrated Network for Societal Conflict Research Data Page, http://www.systemicpeace.org/inscrdata.html; Uppsala Universitet, Department of Peace and Conflict Research, http://www.pcr.uu.se/research/ucdp/datasets/; Prio, Data on Armed Conflict, https://www.prio.org/Data/Armed-Conflict/. 13. M. Small, J.D. Singer, con la collaborazione di R. Bennett, K. Gluski, S. Jones, Resort to Arms: International and Civil Wars, 1816-1980, Beverly Hills (CA) 1982. 14. M.R. Sarkees, The COW Typology of War: Definizing and Categorizing Wars (Version 4 of the Data), http://cow.la.psu.edu/COW2%20Data/WarData_NEW/COW %20 Website%20-%20Typology%20of%20war.pdf. Cfr. anche Ead., Defining and Categorizing

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Tommaso Detti

guerre nel 1816-1913, 82 nel 1914-45 e 239 nel 1946-2007, ma – come mostrano Tab. 1 e la Fig. 1 – le guerre loro caratteristiche loro andacalcola chela venissero combattute 339 nel 1816-1913, e 82il nel 1914-45 e 239 nel 1946-2007, ma – come mostrano la Intra-state tab. 1 e la fig. 1 – leo loro camento sono stati molto diversi. Quelle (civili locali) ratteristiche e il loro andamento sono stati molto diversi. Quelle intra-state hanno avuto infatti un'impetuosa ascesa dal 37% iniziale al 72%, men(civili o locali) hanno avuto infatti un’impetuosa ascesa dal 37% iniziale al tre le Extra-state (coloniali) sono passate dal 37 al 9% e anche le Non72%, mentre le extra-state (coloniali) sono passate dal 37 al 9% e anche le state sono scese dal 15 al 4%. Come pure era prevedibile, infine, i connon-state sono scese dal 15 al 4%. Come pure era prevedibile, infine, i conflitti Inter-state risultano relativamente più numerosi nel 1914-45. flitti inter-state risultano relativamente più numerosi nel 1914-45. 15 Tab. 1. Tab. 1 – Numero e tipologia delle guerre, 1816-2007 Numero e tipologia delle guerre, 1816-200715 Valori assoluti 1816-1913 1914-1945 1946-2007 Totale Percentuali 1816-1913 1914-1945 1946-2007 Totale

Non-state Intra-state Extra-state Inter-state 51 125 125 38 2 43 18 19 9 171 21 38 62 339 164 95 15,0 36,9 36,9 11,2 2,4 52,4 22,0 23,2 3,8 71,5 8,8 15,9 9,4 51,4 24,8 14,4

Totale 339 82 239 660 100 100 100 100

Per renderne visibile l’andamento nel corso del tempo ho raffigurato nella fig. 2 il numero e la tipologia delle guerre in atto in ciascuno degli anni tra il 1816 e il 2007, utilizzando medie undicennali mobili per evidenziarne meglio le linee di tendenza. Si notano in particolare i picchi dei decenni centrali del XIX secolo e degli ultimi cinquant’anni, il secondo dei quali dovuto a un fortissimo aumento dei conflitti intra-state. Almeno su un piano molto generale questo trend non è contraddetto dai dati di Wimmer e Min, che pure hanno integrato e riclassificato i dati di Cow, distinguendo i conflitti inter-state da quelli di conquista, d’indipendenhttp://cow.la.psu.edu/COW2%20Data/WarData_NEW/COW %20Website%20Wars, in Ead., F.W. Wayman, Resort to War: A Data Guide to Inter-State, Extra-State, Intra%20Typology%20of%20war.pdf. Cfr. anche Ead., Defining and Categorizing Wars, State, and Non-State Wars, 1816–2007, Washington DC 2010, pp. 39-73. in Ead., F. W. Wayman, Resort to War: A Data Guide to Inter-State, Extra-State, 15. Fonte: The Correlates of War Project, cow War Data, 1816-2007, http://www. corIntra-State, and Non-State Wars, 1816–2007. Washington, DC 2010, pp. 39-73. relatesofwar.org/data-sets/COW-war, che definisce non-state le guerre in territori senza Stato 15 The Correlates of War Project, COW War Data, 1816-2007, o Fonte: attraverso confini statali; intra-state quelle civili e i conflitti interni regionali ohttp://www. locali; extracorrelatesofwar.org/data-sets/COW-war, che definisce Non-state le guerre in terstate quelle fra potenze coloniali e colonie o società senza Stato; inter-state quelle fra due o più Stati. In questo come in altri casi, comunque, i dati d’insieme quelle civili e i conflitti necessiterebbero di essere ritori senza Stato o attraverso confini statali; Intra-state corretti perché le guerre “miste” sono conteggiate più volte. La rivoluzione ungherese del interni regionali o locali; Extra-state quelle fra potenze coloniali e colonie o socie1919, ad esempio, è inclusa sia tra i conflitti intra-state, sia tra quelli inter-state. Nella tabella tà senza Stato; Inter-state quelle fra due o più Stati. In questo come in altri casi, le guerre iniziate in un periodo e concluse nel successivo sono contate due volte. comunque, i dati d'insieme necessiterebbero di essere corretti perché le guerre "miste" sono conteggiate più volte. La rivoluzione ungherese del 1919, ad esempio, è inclusa sia tra i conflitti Intra-state, sia tra quelli Inter-state. Nella tabella le guerre iniziate in un periodo e concluse nel successivo sono contate due volte.

Introduzione

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ig. 1 – Numero e tipologia delle guerre, 1816-2007

Per renderne visibile l'andamento nel corso del tempo ho raffigurato nella Fig. 2 il numero e la tipologia delle guerre in atto in ciascuno degli anni tra il 1816 e il 2007, utilizzando medie undicennali mobili per evidenziarne meglio le linee di tendenza. Si notano in particolare i picchi dei decenni centrali del I secolo e degli ultimi 50 anni, il secondo dei quali dovuto a un fortissimo aumento dei conflitti Intrastate. ig. 2 – Numero e tipologia delle guerre i atto og i a 1816-2007 – medie u di e ali mobili



o,

Fig. 1. Numero e tipologia delle guerre, 1816-2007. Per renderne visibile l'andamento nel corso del tempo ho raffigura-

to nella Fig. 2 il numero e la tipologia delle guerre in atto in ciascuno degli anni tra il 1816 e il 2007, utilizzando medie undicennali mobili per evidenziarne meglio le linee di tendenza. Si notano in particolare i picchi dei decenni centrali del I secolo e degli ultimi 50 anni, il secondo dei quali dovuto a un fortissimo aumento dei conflitti Intrastate. ig. 2 – Numero e tipologia delle guerre i atto og i a 1816-2007 – medie u di e ali mobili

o,

Fig. 2. Numero e tipologia delle guerre in atto ogni anno, 1816-2007 (Cow – lmeno su un piano molto generale questo trend non è contraddetmedie undicennali mobili).

to dai dati di Wimmer e in, che pure hanno integrato e riclassificato za e i dati di COW, distinguendo i conflitti Inter-state da quelli di conquicivili.16 Ne escono in primo luogo ridimensionate le visioni del periodo

1815-1914 basate sull’immagine sostanzialmente eurocentrica di una «pace dei cento anni» elaborata da Karl Polanyi, che pure era in parte giustificata dalle inaudite dimensioni del conflitto in corso quando scriveva, nel 1944.17 16. Wimmer, Min, From Empire to Nation-State. I dati sono su http://www.columbia. edu/~aw2951/. 17. Senza peraltro trascurare che l’autore parlava pur sempre di guerre civili, rivoluzioni e controrivoluzioni «all’ordine del giorno» nella prima metà dell’Ottocento e di «una lmeno su un piano molto generale questo trend non è contraddetserie quasi incessante di guerre» nella seconda metà, precisando anche che «ciascuno di

to dai dati di Wimmer e in, che pure hanno integrato e riclassificato i dati di COW, distinguendo i conflitti Inter-state da quelli di conqui-

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Tommaso Detti

Il suo eurocentrismo è comunque ribadito da un altro lavoro di Wimmer e Min centrato sulle località in cui le guerre ebbero luogo, stando al quale meno del 23% di quelle precedenti il 1914 fu combattuto in Europa, impero russo compreso.18 Su queste basi, specie se letta in una linea di continuità con il «conflitto globale» del periodo tra Settecento e Ottocento, la storia della guerra dal 1816 al 1914 assume insomma connotati abbastanza diversi da quelli a lungo accolti da gran parte della storiografia. Per quanto riguarda in particolare i conflitti del 1840-80 (e al loro interno il picco degli anni Cinquanta-Sessanta), Geyer e Bright ne hanno collocato gli epicentri da un lato nelle Americhe, dall’altro in quello che hanno definito «Eurasian seam». A loro avviso in questo periodo la guerra fu connessa nel primo caso al consolidamento degli Stati-nazione sorti sulle ceneri degli imperi marittimi transatlantici, nel secondo alle dinamiche di imperi terrestri ancora lontani dalla loro crisi finale (russo, ottomano e cinese), che in India e altrove coinvolsero anche la Gran Bretagna in una «basically non-European confrontation».19 Certo, parlando di «nationalizing wars», gli autori non trascurano eventi che cambiarono la carta geopolitica dell’Europa, come le unificazioni italiana e tedesca, ma è significativo che le inseriscano in tale contesto. A loro volta Wimmer e Min hanno sostenuto che «modern wars have resulted from two processes of institutional transformation: incorporation into empire and nation-state formation». Ceteris paribus, «the transition from empire to nation-state increases the likelihood of both interstate and civil wars», ma secondo i loro dati fino ai primi del Novecento il 50-60% dei territori del mondo era ancora governato da imperi, coloniali e no.20 Se è vero che «è il nazionalismo che genera le nazioni, e non l’inverso»,21 ciò non mette in forse la nostra immagine dell’Ottocento come secolo delle nazioni, ma c’è da chiedersi se dal punto di vista degli esiti anch’essa non debba essere rivista. Secondo Wimmer e Yuval Feinstein, ad esempio, gli Stati-nazione creati tra il 1820 e il

questi conflitti […] era localizzato»: K. Polanyi, La grande trasformazione, introduzione di A. Salsano, Torino 1974 (ed. or. New York-Toronto 1944), p. 8 e più in generale cap. I. 18. A. Wimmer, B. Min, The Location and Purpose of Wars Around the World: A New Global Dataset, 1816-2001, in «International Interactions», 35/4 (2009), pp. 390-417 (i dati sono in http://www.columbia.edu/~aw2951/WarList.xls). 19. Geyer, Bright, Global Violence and Nationalizing Wars. 20. Wimmer, Min, From Empire to Nation-State, pp. 870, 876. 21. E. Gellner, Nazioni e nazionalismo, Roma 1985 (ed. or. Ithaca 1983), p. 64.

Introduzione

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1913 furono ben pochi rispetto a quelli del 1914-2001 (rispettivamente il 30 e il 70% del totale) ed erano quasi tutti nelle Americhe e in Europa.22 In questo panorama un primo significativo mutamento intervenne nel 1914-45, anche se la scomparsa degli imperi austro-ungarico, russo e ottomano incrementò il numero degli Stati-nazione quasi soltanto in Europa.23 Ma com’è ovvio la grande novità di questa fase è costituita dalle due guerre mondiali, che segnarono un brusco salto di qualità per numero dei paesi coinvolti, capacità distruttiva, dimensioni degli eserciti ecc. È un dato così evidente, che su questo punto non è necessario soffermarsi, salvo che ci tornerò tra poco affrontando il problema del numero delle vittime. Non andrebbe comunque trascurata un’altra significativa peculiarità della “guerra dei Trent’anni” del Novecento, costituita da un primo forte aumento dei conflitti intra-state. Questi coprono infatti oltre la metà di quelli del periodo e sono quasi tutti guerre civili. Senza entrare nel merito delle riserve sollevate dalla classificazione di Cow,24 anche su questo piano uno sguardo centrato sui fenomeni bellici contribuisce a precisare alcune diffuse immagini della fase tra le due guerre mondiali, fondate sulla priorità assegnata ad altri concetti. A lungo, infatti, la nozione di guerra civile è stata «subsumed under phenomena implicitly deemed more important, such as revolution, peasant rebellion, or ethnic conflict».25 Dare un rapido sguardo alle caratteristiche del periodo post 1945, come ho anticipato, è meno agevole per la presenza di più dataset, che adottano diversi criteri di rilevazione e classificazione. A differenza di Cow, infatti, Ucdp-Prio considera attivi i conflitti con «at least 25 battle-related deaths per calendar 22. A. Wimmer, Y. Feinstein, The Rise of the Nation-State across the World, in «American Sociological Review», 75/5 (2010), pp. 764-790. Ometto le cifre assolute perché gli autori proiettano indietro nel tempo i confini degli Stati attuali, sicché i dati del supplemento online del saggio non corrispondono alla realtà storica: la nascita della Cecoslovacchia, ad esempio, è conteggiata due volte. 23. Più in generale, secondo i dati a corredo di A. Alesina, E. Spolaore, R. Wacziarg, Economical Integration and Population, in «The American Economic Review», 90/5 (2000), pp. 1276-1296 (gentilmente trasmessimi dagli autori) tra il 1914 e il 1945 il numero degli Stati salì soltanto da 62 a 72. 24. Cfr. in particolare N. Sambanis, What Is Civil War? Conceptual and Empirical Complexities of an Operational Definition, in «The Journal of Conflict Resolution», 48/6 (2004), pp. 814-858. 25. S.N. Kalyvas, The Logic of Violence in Civil War, Cambridge-New York 2006, p. 17. Cfr. anche Guerre fratricide. Le guerre civili in età contemporanea, a cura di G. Ranzato, Torino 1994.

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year».26 Csp si riferisce a sua volta a «major episodes of political violence» e li definisce come conflitti che «involve at least 500 “directly-related” fatalities and reach a level of intensity in which political violence is both systematic and sustained (a base rate of 100 “directly-related deaths per annum”)».27 Sta di fatto che tra il 1946 e il 2007 Cow ne conta 239, Ucdp-Prio 243 (261 fino al 2014) e Csp ben 314 (339 fino al 2015). In tutti i casi, comunque, le medie undicennali mobili dei conflitti in atto ogni anno raffigurate nella fig. 3 evidenziano un trend ascendente fino al 1989-91, discendente in seguito. Se quel picco risulta molto più alto per Ucdp-Prio e Csp, ciò si deve essenzialmente al fatto che i loro dati comprendono un maggior numero di conflitti. Secondo i dati di Cow l’aumento del periodo 1946-91 è dovuto alla crescita impetuosa delle guerre intra-state (per il 94% civili) e ciò trova conferma negli altri dataset: contese «internal» per Ucdp-Prio, civili e soprattutto etniche per Csp. Tutte e tre le fonti registrano inoltre una diminuzione delle altre guerre, tra cui quelle inter-state. Quanto agli anni successivi al 1991, per Cow in termini relativi la decrescita non tocca le intra-state – che salgono dal 68 all’82% del totale – e una tendenza analoga risulta dalle altre fonti: dal 67 all’82% le «internal» di Ucdp-Prio, dal 28 al 59% quelle etniche di Csp. Viceversa le inter-state scendono ai minimi termini (in cifre assolute rispettivamente 8, 9 e 14 guerre), tanto da far parlare di un «global shift» da esse a quelle intrastatali.28 Un contributo estremamente sintetico come questo non consente di entrare nei dettagli per spiegare le motivazioni di tutto ciò, ma l’aumento del periodo fino al 1991 ha senz’altro a che vedere prima con il processo di decolonizzazione dell’Asia e dell’Africa, poi con il disfacimento dell’Urss e della Jugoslavia. A questo proposito può essere significativo un confronto tra il numero dei conflitti e quello degli Stati. La fig. 4, nella quale ho fatto = 100 i valori iniziali per rendere comparabili i dati, mostra un’indubbia coerenza fra l’andamento degli Stati e delle guerre, specie per quelle rilevate da Ucdp-Prio: in ascesa fino ai primi anni Novanta, i conflitti diminuiscono quando il numero degli Stati si stabilizza.29 Non a caso nel 1946-91 26. Uppsala Universitet, Department of Peace and Conflict Research, Definitions, http://www.pcr.uu.se/research/ucdp/definitions/. 27. M.G. Marshall, Major Episodes of Political Violence, 1946-2015, http://www.systemicpeace.org/warlist/warlist.htm. 28. Kalyvas, The Logic of Violence in Civil War, p. 16, che conta 7 guerre interstatali fra il 1989 e il 2004. 29. Per gli Stati la fonte sono i dati a corredo di Alesina, Spolaore, Wacziarg, Economical Integration and Population, che ho aggiornato fino ad arrivare agli attuali 195.

Introduzione

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Fig. 3. Guerre in atto ogni anno, 1816-2015 (medie undicennali mobili).

Fig. 4. Numero degli Stati e delle guerre, 1946-2014 (numeri indice, 1946 = 100 – medie quinquennali mobili).

l’indice di correlazione tra le due serie degli Stati e di Ucdp-Prio è molto elevato (0,91 su una scala da 0 a 1), ma anche con Cow si arriva a 0,85. Per evidenziare alcune altre caratteristiche di questo periodo mi riferirò brevemente ai dati di Ucdp-Prio, più aggiornati e completi. La distribuzione geografica delle guerre, in primo luogo, mostra un’assoluta, costante prevalenza del Medio Oriente, dell’Africa e dell’Asia con l’85-86% del totale. Tra il 1946-91 e il 1992-2014 le Americhe scendono dal 9,8 al 6,8% per il venir meno dei conflitti interni della fase precedente (colpi di Stato, rivoluzioni, ecc. nell’America Latina). Viceversa i conflitti scoppiati nelle aree dell’ex Unione sovietica e dell’ex Jugoslavia fanno salire l’Europa dal 5,6 al 7,2%.

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Tommaso Detti

Quanto alle tipologie, a fare la parte del leone sono state le guerre intra-state, che specie dagli anni Settanta al 2009 hanno oscillato intorno all’80% del totale, per diminuire soltanto in seguito fino al 65% del 2014. Fra le altre cose, ciò indica che c’è stata una forte, costante crescita dei conflitti “a bassa intensità”: quelli con meno di 1.000 morti all’anno, che negli anni Cinquanta superavano già il 60% del totale, oscillano intorno al 70 negli anni Sessanta-Novanta e agli inizi del XXI secolo eccedono quasi sempre l’80%. Per quanto significativi, comunque, l’andamento e i caratteri delle guerre possono risultare addirittura fuorvianti se non si tiene conto di altri fattori, tra i quali in primo luogo il numero delle vittime. Al riguardo è però indispensabile un’ulteriore premessa. In questo caso i criteri utilizzati per le diverse stime sono infatti tanto diversi, che si è parlato persino di una «battle of indicators».30 Né le divergenze che ne derivano sono rilevanti per i soli periodi più lontani e meno documentati: nel 1946-2007 Cow calcola 6,6 milioni di «battle-related combatant fatalities», mentre Prio ne stima 10,431 e la differenza si deve essenzialmente alle guerre intra-state. Molto più alte sono infine le cifre proposte da Csp, che ne conta ben 24,2 milioni fino al 2007 (26,2 fino al 2014), ma considera anche episodi di violenza politica non classificati come guerre. Benché questi non incidano molto sui totali, salvo diversa indicazione mi baserò dunque sulle stime di Cow e di Prio.32 Concentriamoci anzitutto sulla prima per seguire l’andamento delle «battle-related combatant fatalities» nell’intero periodo 1816-2007. Da questo punto di vista è molto significativo un confronto fra le tabb. 1 e 2 e le figg. 2 e 5: il numero dei caduti, che è pari a 4,8 milioni nel 1816-1913 e a 6,6 nel 1946-2007, durante la “guerra dei Trent’anni del Novecento” balza a 29,1 milioni, di cui 25,2 dovuti ai due conflitti mondiali. 30. M.-A. Pérouse de Montclos, General Introduction: Armed Conflicts and the Body Count: An Issue for Population Studies and Development, in Violence, Statistics, and the Politics of Accounting of the Dead, a cura di M.-A. Pérouse de Montclos, E. Minor, S. Sinha, New York 2016, p. 4. Ma cfr. in particolare Id., Numbers Count: Dead Bodies, Statistics, and the Politics of Armed Conflicts, ibidem, pp. 47-69. 31. Prio, The Battle Deaths Dataset version 3.0, https://www.prio.org/Data/ArmedConflict/Battle-Deaths/The-Battle-Deaths-Dataset-version-30/. La fonte contiene tre diverse stime: low, high e best: ho usato la best quando è presente e negli altri casi ho fatto una media tra le altre due. 32. Marshall, Major Episodes of Political Violence avverte del resto che i dati di Csp sono «provided solely as a referent point» e «should be regarded simply as estimates of the general magnitude of the violence».

Introduzione

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Tab. 2. Numero dei caduti per tipologia delle guerre, 1816-2007 Non-State E tra-state Intra-State Inter-State Totale Valori assoluti 1816-1913 251.847 1.256.504 1.598.055 1.663.170 4.769.576 1914-1945 4.000 163.512 2.127.486 26.800.819 29.095.816 1946-2007 26.886 707.120 2.339.831 3.544.920 6.618.757 Totale 282.733 2.127.136 6.065.371 32.008.909 40.484.149 Percentuali 34,9 1816-1913 5,3 26,3 33,5 100,0 1914-1945 0,0 0,6 7,3 92,1 100,0 1946-2007 0,4 10,7 35,4 53,6 100,0 Totale 0,7 5,3 15,0 79,1 100,0

ig. i di È un – datoilio atteso, maaduti per tipologia delle guerre, 1816-2007 non per questo meno rilevante. La fig. 6, per elaborare la quale ho suddiviso anno per anno i caduti in conflitti pluriennali, mostra nel modo più chiaro il rilievo assoluto di queste guerre: la prima 30 con 8,6 milioni, la seconda con 16,6, insieme coprono il 78,6% del totale 25 dei conflitti inter-State degli ultimi due secoli. Secondo altre stime, per 20 tali dati risultano inferiori alla realtà e i morti in battaglia ammongiunta, tarono15 addirittura a 10 milioni nel 1914-18 e a 24 nel 1939-45.33 10 il discorso può essere limitato alle «battle-related combatant fataliNé ties», dovendosi ovviamente considerare anche le vittime civili. Più ancora 5 che per le prime, per queste va tenuta presente la diversità dei criteri utiliz0 1946-2007 zati per le varie1816-1913 stime, ma è certo –1914-1945 come scrive fra gli altri Bruna Bianchi in questo volume – che il conflitto del 1914-18 costò un numero molto Non-state E tra-state Intra-state Inter-state elevato di morti anche tra i non combattenti, inaugurando una tendenza che da allora ha avuto ulteriori, fortissimi sviluppi. In verità anche in precedenza le guerre avevano mietuto vittime civi un dato atteso, ma non per questo meno rilevante. La Fig. 6, per li, ma si era trattato in gran parte di morti “indirette” per fame o malattia. elaborare la quale ho suddiviso anno per anno i caduti in conflitti pluNella grande guerra, invece, il diretto coinvolgimento delle popolazioni fu riennali, mostra nel modo più chiaro il rilievo assoluto di queste guermolto più pesante. Le stime delle vittime civili oscillano in genere intorno re: la prima con 8,6 milioni, la seconda con 16,6, può insieme coprono al 10%, ma contando anche le morti “indirette” il dato salire oltre il 30. il 78,6% del totale dei conflitti Inter-State degli ultimi due secoli. Secondo altre stime, per giunta, tali dati risultano inferiori alla realtà e i 33. Cfr. A. Prost, The Dead, in The Cambridge History of the First World War, III, morti in battaglia ammontarono addirittura a 10 milioni nel 1914-18 e Civil Society, a cura di J. Winter, Cambridge 2014, pp. 561-591; Csp, Estimated Annual 33 a 24 nel 1939-45. Deaths from Political Violence, 1939-2011, http: //www.systemicpeace.org/conflicttrends. html, che però non riporta dati dettagliati.

33

Cfr. . Prost, e Dead, in e Ca ridge istor of t e irst World War, vol. 3. Ci il Societ , a cura di . Winter, Cambridge 2014, pp. 561-591; CSP, Esti ated An-

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1816-1913 1914-1945 1946-2007 Totale

5,3 0,0 0,4 0,7



26,3 33,5 0,6 7,3 10,7 35,4 5,3 15,0 Tommaso Detti



34,9 92,1 53,6 79,1

100,0 100,0 100,0 100,0

ig. – ilio i di aduti per tipologia delle guerre, 1816-2007 30 25 20 15 10 5 0 1816-1913 Non-state

1914-1945 E tra-state

Intra-state

1946-2007 Inter-state



ig. 6 – ilio aduti ra tati Fig. 5. Milioni di caduti per i di tipologia delle elle guerre guerre, 1816-2007. un dato atteso, ma non per questo meno rilevante. La Fig. 6, per e elle altre guerre, 1816-2007



0,0

1816 1823 1830 1837 1844 1851 1858 1865 1872 1879 1886 1893 1900 1907 1914 1921 1928 1935 1942 1949 1956 1963 1970 1977 1984 1991 1998 2005

elaborare la quale ho suddiviso anno per anno i caduti in conflitti plu3,0 riennali, mostra nel modo più chiaro il rilievo assoluto di queste guerre: la 2,5 prima con 8,6 milioni, la seconda con 16,6, insieme coprono il 78,6% del totale dei conflitti Inter-State degli ultimi due secoli. Se2,0 condo altre stime, per giunta, tali dati risultano inferiori alla realtà e i 1,5 morti in battaglia ammontarono addirittura a 10 milioni nel 1914-18 e 33 a 24 nel 1939-45. 1,0 0,5 33 Cfr. . Prost, e Dead, in e Ca ridge istor of t e irst World War, vol. 3. Ci il Societ , a cura di . Winter, Cambridge 2014, pp. 561-591; CSP, Esti ated Anltre guerre Inter-state nual Deat s fro Political Violence, 1 -2011, http: //www.systemicpeace.org/conflicttrends.html, che per non riporta dati dettaFig. 6. Milioni di caduti nelle guerre fra Stati e nelle altre guerre, 1816-2007. gliati. Né il discorso pu essere limitato alle battle-related combatant fa-

talities , dovendosi ovviamente considerare anche le vittime civili. Più ancora che per le prime, per queste va tenuta presente la diversità dei criteri utilizzati per le varie stime, ma è certo – come scrive fra gli In quest’ambito, fra l’altro, andrebbe considerata anche la terribile pandemia altri runa ianchi in questo volume – che il conflitto del 1914-18 coinfluenzale (la cosiddetta “spagnola”), che nel 1918-20 provocò nel monst un numero morti nei anche tra europei i non combattenti, do 40-50 milioni dimolto morti,elevato 2,3 deidi quali popoli già duramente inaugurando una tendenza che da allora ha avuto ulteriori, fortissimi provati dal conflitto.34 Per questa come per altre guerre, infine, andrebbero sviluppi. In verità anche in precedenza le guerre avevano mietuto vittime ci34. C.W. Potter, A History of Influenza, in «Journal of Applied Microbiology», vili, Cfr. ma si era trattato in gran parte di morti "indirette" per fame o 91 (2001), pp. 572-579; N.P.A.S. Johnson, J. Mueller, Updating the Accounts: Global Mortalmalattia. Nella "grande guerra", invece, il diretto coinvolgimento delle popolazioni fu molto più pesante. Le stime delle vittime civili oscillano in genere intorno al 10%, ma contando anche le morti "indirette" il dato pu salire oltre il 30. In quest'ambito, fra l'altro, andrebbe considerata anche la terribile pandemia influenzale (la cosiddetta "spagnola"), che nel 1918-20 provoc nel mondo 40-50 milioni di morti, 2,3 dei

Introduzione

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considerati anche i costi delle migrazioni forzate, che interessarono milioni di persone non mancarono di produrre altre vittime tra i profughi.35 Da tutti i punti di vista, in ogni caso, fu la guerra del 1939-45 a segnare un impressionante cambio di marcia: se per Marcello Flores quel conflitto costò 50 milioni di morti, circa la metà dei quali civili,36 Richard Bessel ha parlato di 60 milioni, al cui interno i civili «substantially exceeded» i militari,37 e Csp ne ha stimati addirittura 74, due terzi dei quali non combattenti.38 Per questo periodo, oltre che per il successivo, sono disponibili anche alcune tabelle elaborate da Benjamin A. Valentino. Intendendo per mass killing «the intentional killing of a massive number of noncombatants», genocidi compresi, egli ha stimato 39,3 milioni di mass killed tra il 1914 e il 1945.39 Di questi ben 34,1 vengono ascritti alla seconda guerra mondiale e a quella sino-giapponese del 1937-45; sommandoli ai 17,6 delle «battlerelated combatant fatalities» di Cow, risulta che i due conflitti sarebbero costati 51,7 milioni di morti, il 66% dei quali civili.40 Quanto alla prima guerra mondiale, per l’autore il genocidio degli Armeni e il blocco alleato della Germania avrebbero prodotto il 13,5% del totale delle vittime. Per il periodo successivo i punti di riferimento principali sono costituiti dallo stesso Valentino e da un’indagine di Milton Leitenberg. Il primo considera però anche gli effetti di politiche non collegabili a fenomeni bellici e tra queste in particolare la riforma agraria e il “grande balzo” della ity of the 1918-1920 “Spanish” Influenza Pandemic, in «Bulletin of the History of Medicine», 76/1 (2002), pp. 105-115. 35. Cfr. J.C. Moya, A. McKeown, Global Migration in the Long Twentieth Century, in Essays on Twentieth Century History, a cura di M. Adas, Philadelphia 2010, pp. 9-52; A. Ferrara, N. Pianciola, L’età delle migrazioni forzate. Esodi e deportazioni in Europa, 1853-1953, Bologna 2012. 36. Cfr. M. Flores, Tutta la violenza di un secolo, Milano 2005, che considera le vittime dei bombardamenti aerei, i massacri compiuti dagli eserciti regolari e lo sterminio degli ebrei. 37. R. Bessel, Death and Survival in the Second World War, in The Cambridge History of the Second World War, III, Total War: Economy, Society and Culture, a cura di M. Geyer, A. Tooze, Cambridge 2015, p. 252. 38. Csp, Estimated Annual Deaths from Political Violence, 1939-2011. 39. B.A. Valentino, Final Solutions. Mass Killing and Genocide in the 20th Century, Ithaca-London 2004, tabb. 1-7. Il dato nel testo è una media delle stime minime e massime fornite dall’autore; per i fenomeni che coprono anche il periodo successivo ho calcolato i morti di ogni anno, riportando solo i totali della fase 1914-45. 40. Ho sommato le due guerre perché Cow considera conclusa nel 1941 quella sinogiapponese. Rispetto alla quale, peraltro, in questo volume Samarani cita stime tra 18-20 e 30 milioni di perdite cinesi.

1946 1948 1950 1952 1954 1956 1958 1960 1962 1964 1966 1968 1970 1972 1974 1976 1978 1980 1982 1984 1986 1988 1990 1992 1994 1996 1998 2000 2002

da 43,2 milioni a 15,2. Come si vede dalla Fig. 7, in cui sono raffigurati anno per anno i attle-deat s di P IO e i ass- illed di alentino, la differenza non è cosa da poco: i secondi scendono infatti dall'83 al Tommaso Detti 20 63,3% del totale. nel corso del tempo e in particolare tra gli anni della guerra fredda e i ig. 7 – orti i battaglia e i ili mass killed, 1 6-2002 1 successivi. Per alentino il rapporto civili-militari è salito dal 62,1% del 1946-91 al 72,5 del 1992-2002, per Leitenberg dal 67,7 all'83,3% fino 3.500.000 al 2000 e a prima vista ci parrebbe confermare la distinzione di ary 3.000.000 43 aldor tra guerre vecchie e nuove. In realtà, senza entrare nel merito 2.500.000 del dibattito sollevato dalle sue tesi,44 un esame più articolato degli 2.000.000 stessi dati mostra il carattere schematico di una periodizzazione binaria 1.500.000 centrata sul turning oint del 1989-91, anche se è indubbio che il 1.000.000 contesto geopolitico degli anni più recenti sia drasticamente mutato. Pur 500.000 evidenziando la diversità dei criteri di rilevazione degli autori (specie per la fase iniziale), la Fig. 8 mostra che le quote delle vittime 0 civili rispetto ai attle-deat s di P IO, già salite intorno al 60% negli anni sessanta, hanno rasentato l'80 nella seconda metà del decennio attle deat s ass illed illed C ina 1 -72 seguente. La risalita della fase successiva ass precede inoltre il 1991 e la tendenza si inverte dalla metà degli anni novanta. Leitenberg ha parlato a sua volta di quasi 41 milioni di decessi dalla Fig. 7. Morti in battaglia e civili mass killed, 1946-2002. ig. 8 – er e tuali delle ittime i ili, 1 6-2002 fine della seconda guerra mondiale al 2000, inclusi quelli per fame e medie ui ue ali mobili malattia, ma in molti casi riporta soltanto i totali e solo per 82 dei 158



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1946 1948 1950 1952 1954 1956 1958 1960 1962 1964 1966 1968 1970 1972 1974 1976 1978 1980 1982 1984 1986 1988 1990 1992 1994 1996 1998 2000 2002

conflitti da lui analizzati fornisce dati sia per i civili, sia per i militari. 90 42 80 Si tratta comunque di 23,7 milioni di morti, per il 67,8% civili, e ci 70 suggerisce che dalla seconda guerra mondiale in poi il dato delle vit60 time civili si sarebbe mantenuto sostanzialmente costante intorno al 50 65%. 40 30 esta per da capire se e in quale misura questi dati siano mutati Il picco nero del 1946-47 è dovuto soprattutto all'espulsione dei tedeschi dall'Europa orientale, quello del 1971 alla guerra del angladesh e quello del 1994 alentino Leitenberg al genocidio dei Tutsi nel wanda. 42 . Leitenberg, Deat s in Wars and Conflicts in t e 20t Centur , Cornell niversity Peace Studies Program, Paper quinquennali 29, ietnam e del 3rd ed., 2006, Fig. 8. Percentuali delle vittime civili,Occasional 1946-2002 (medie mobili). Dai massacri indonesiani del 1965-66 ai conflitti del https://pacs.einaudi.cornell.edu/sites/pacs/files/Deaths-Wars-Conflicts3rdangladesh, dal genocidio cambogiano (1975-79) alle guerre civili nied.pdf. Per altre 8 guerre vi sono dati sui soli militari, per 12 sui soli civili.

(1967-70) e sudanese degli anni ottanta ecc., un'analisi dei 28 Cinageriana di Mao, che assieme alla rivoluzione culturale sarebbero costati milioni di morti dal 1949 al 1972. Togliendoli dal conto, anche se la rivo 43 luzione è inclusa da a Cow fra le guerre intra-state, le oma 2001 vittime civili . culturale aldor, e nuo e guerre. iolenza organizzata nell et glo ale, dell’intero 1999 . periodo scenderebbero da 43,2 milioni a 15,2. Come si vede ecc sono ie, guerre nuo e. Coanno rendere i conflitti ar ati conte oranei, dalla44 Cfr. Guerre fig. 7, in cui raffigurati per anno i battle-deaths di Prio e i a cura di N. Labanca, ilano 2009 e, per quanto riguarda in particolare le guerre mass-killed di Valentino, la differenza non è cosa da poco: i secondi scencivili, alyvas, Ne And Old Ci il Wars. A Valid Distinction , in World Polidonoticsinfatti dall’83 al 63,3% del totale.41 , 53 (2001), 1, pp. 99-118. 41. Il picco nero del 1946-47 è dovuto soprattutto all’espulsione dei tedeschi dall’Europa orientale, quello del 1971 alla guerra del Bangladesh e quello del 1994 al genocidio dei Tutsi nel Rwanda.

Introduzione

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Leitenberg ha parlato a sua volta di quasi 41 milioni di decessi dalla fine della seconda guerra mondiale al 2000, inclusi quelli per fame e malattia, ma in molti casi riporta soltanto i totali e solo per 82 dei 158 conflitti da lui analizzati fornisce dati sia per i civili, sia per i militari. Si tratta comunque di 23,7 milioni di morti, per il 67,8% civili,42 e ciò suggerisce che dalla seconda guerra mondiale in poi il dato delle vittime civili si sarebbe mantenuto sostanzialmente costante intorno al 65%. Resta però da capire se e in quale misura questi dati siano mutati nel corso del tempo e in particolare tra gli anni della guerra fredda e i successivi. Per Valentino il rapporto civili-militari è salito dal 62,1% del 1946-91 al 72,5 del 1992-2002, per Leitenberg dal 67,7 all’83,3% fino al 2000 e a prima vista ciò parrebbe confermare la distinzione di Mary Kaldor tra guerre vecchie e nuove.43 In realtà, senza entrare nel merito del dibattito sollevato dalle sue tesi,44 un esame più articolato degli stessi dati mostra il carattere schematico di una periodizzazione binaria centrata sul turning point del 1989-91, anche se è indubbio che il contesto geopolitico degli anni più recenti sia drasticamente mutato. Pur evidenziando la diversità dei criteri di rilevazione degli autori (specie per la fase iniziale), la fig. 8 mostra che le quote delle vittime civili rispetto ai battle-deaths di Prio, già salite intorno al 60% negli anni Sessanta, hanno rasentato l’80 nella seconda metà del decennio seguente. La risalita della fase successiva precede inoltre il 1991 e la tendenza si inverte dalla metà degli anni Novanta. Dai massacri indonesiani del 1965-66 ai conflitti del Vietnam e del Bangladesh, dal genocidio cambogiano (1975-79) alle guerre civili nigeriana (1967-70) e sudanese degli anni Ottanta ecc., un’analisi dei singoli conflitti responsabili del maggior numero di vittime civili non farebbe che confermarlo e precisarlo. Oltre a mettere in dubbio l’immagine di John L. Gaddis della guerra fredda come «lunga pace»,45 discussa in que42. M. Leitenberg, Deaths in Wars and Conflicts in the 20th Century, Cornell University Peace Studies Program, Occasional Paper #29, 20063, https://pacs.einaudi.cornell. edu/sites/pacs/files/Deaths-Wars-Conflicts3rd-ed.pdf. Per altre 8 guerre vi sono dati sui soli militari, per 12 sui soli civili. 43. M. Kaldor, Le nuove guerre. La violenza organizzata nell’età globale, Roma 2001. 44. Cfr. Guerre vecchie, guerre nuove. Comprendere i conflitti armati contemporanei, a cura di N. Labanca, Milano 2009 e, per quanto riguarda in particolare le guerre civili, S. Kalyvas, “New” And “Old” Civil Wars. A Valid Distinction?, in «World Politics», 53/1 (2001), pp. 99-118. 45. J.L. Gaddis, The Long Peace. Inquiries into the History of the Cold War, OxfordNew York 1987.

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Tommaso Detti

sto volume da Guido Formigoni, tutto ciò indica che i fenomeni bellici hanno iniziato a cambiare volto già nell’epoca bipolare. Specie in Africa, nel Medio Oriente e in Asia, inoltre, il mutamento non ha riguardato le sole guerre intra-state, pur essendo connesso in misura crescente a una privatizzazione della violenza organizzata in contesti di debolezza e crisi della sovranità statale. Il che naturalmente non esclude che possano essere individuati alcuni significativi tratti di novità nei conflitti della fase post-bipolare, e tra essi quelli riconducibili alle tesi di Samuel P. Huntington sullo “scontro di civiltà”, molto discusse ma tornate in qualche modo attuali negli ultimi anni.46 Alcuni elementi peculiari emergono inoltre da un saggio di Adam Roberts, che pure critica sia le tesi di Kaldor, sia la “leggenda metropolitana” secondo la quale il 90% delle vittime sarebbe ormai costituito da civili. L’autore, infatti, non esclude che «some conflict situations have something close to a 9:1 ratio» e si riferisce non solo alla Cambogia del 1975-79 e al Rwanda del 1994, ma anche a conflitti come quelli del Congo e del Darfur, apertisi rispettivamente nel 1996 e nel 2003. «Worryingly – conclude Roberts a questo proposito –, these recent and ongoing wars in Africa are perhaps now more typical of the wars of the post-Cold War world than was, say, the war in Bosnia-Herzegovina».47 A sua volta Alessandro Colombo, pur discutendo anch’egli il «mito delle nuove guerre» e ravvisando molti presupposti del panorama attuale negli stessi conflitti mondiali, ha parlato di una «grande trasformazione» della guerra contemporanea, caratterizzata dal declino dei conflitti interstatali, dall’ascesa di quelli «imperiali», civili e «di disgregazione territoriale», nonché dal venir meno delle stesse distinzioni pace-guerra, pubblicoprivato, militari-civili, uomini-donne, interno-esterno ecc.48 Comunque sia, sta di fatto che negli ultimi vent’anni sono diminuiti sia il numero e l’intensità delle guerre, sia la quantità delle loro vittime. Ciò 46. S.P. Huntington, Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale, Milano 1997 (New York 1996); A. Lepre, Guerra e pace nel XX secolo. Dai conflitti tra stati allo scontro di civiltà, Bologna 2008, vi accenna nel sottotitolo, ma cita Huntington solo a proposito della “civiltà latinoamericana”. 47. A. Roberts, Lives and Statistics: Are 90% of War Victims Civilians?, in «Survival», 52/5 (2010), pp. 115-136. 48. A. Colombo, La grande trasformazione della guerra contemporanea, in Fondazione G. Feltrinelli, «Quaderni», 2 (2015), http://www.fondazionefeltrinelli.it/article/lagrande-trasformazione-della-guerra-contemporanea/.

Introduzione

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ha indotto alcuni a ritenere che l’impatto distruttivo delle guerre sia entrato ormai in una fase calante, ma resta aperto il dilemma se non si tratti invece soltanto di un dato temporaneo, del quale è difficile prevedere gli sviluppi in un senso o nell’altro.49 A mettere in forse ogni visione troppo ottimistica stanno comunque le spese militari, discese da 1.563 miliardi di dollari nel 1988 a 1.054 nel 1998, ma risalite a 1.760 nel 2015, facendo registrare gli aumenti più forti in Africa, in Asia e nel Medio Oriente.50 Come concludere queste brevi note? Ha senz’altro ragione Roberts quando critica le generalizzazioni basate su stime e criteri diversi, osservando che «to build up a more accurate picture, there is a need to focus on actual wars».51 Alle molte avvertenze di metodo contenute nel suo saggio, fra l’altro, ne andrebbe aggiunta una relativa al valore delle cifre assolute, a cui per brevità mi sono riferito. La reale “severità” di un conflitto, infatti, dovrebbe essere misurata rapportandole alla consistenza delle popolazioni interessate. Con tutti i suoi limiti, tanto più evidenti in un breve contributo come questo, risalire dal particolare al generale rimane tuttavia un’operazione indispensabile per cercare di delineare le linee di tendenza di ogni fenomeno storico e di interpretarne i singoli aspetti, collocandoli in un contesto globale.

49. Per una discussione dei punti di vista prevalenti negli studi sulle relazioni internazionali cfr. Id., Guerra e discontinuità nelle relazioni internazionali. Il dibattito sul declino della guerra e i suoi limiti, in «Rivista italiana di scienza politica», 42/3 (2012), pp. 431-448. 50. Stockholm International Peace Research Institute, sipri Military Expenditure Database, https://www.sipri.org/sites/default/files/SIPRI-Milex-data-1988-2015.xlsx. 51. Roberts, Lives and Statistics.

nicola labanca Guerra, Grande guerra, guerra totale, guerra globale. Appunti di storia di concetti novecenteschi

Di recente un gran parlare di “guerra globale”, o di “guerre globali” (come se fosse la stessa cosa), ha invaso gli spazi dell’opinione pubblica, della politica, delle scienze sociali e infine della storia. Tutti ne parlano, anche se non è sicuro che tutti stiano pensando allo stesso oggetto. Pur ipotizzando per adesso che vi sia accordo su cosa sia stata la guerra fra Ottocento e Novecento, e cosa ad esempio l’abbia distinta dalla pace, e pur non volendo esaminare qui quanto il carattere di questa guerra contemporanea stia cambiando negli ultimi anni o decenni, non dovrebbe essere difficile riconoscere che oggi attorno a cosa sia questa “guerra globale” i pareri differiscono. Ovviamente non è la prima volta che ciò accade, in questo campo delicatissimo dei problemi della guerra e della pace. Spesso v’è stata più di un’incertezza attorno alla qualificazione di quale sia il carattere saliente della guerra in un certo periodo. Guerra assoluta, grande guerra, guerra europea, guerra mondiale, guerra totale e ora guerra globale sono sintagmi nati forse in successione. La loro stessa esistenza potrebbe far pensare a una natura sempre nuova della guerra nella storia. In questo caso, sarebbe legittimo usare qualificazioni diverse per capire e designare conflitti sempre diversi. Il fatto è che la storia ci dimostra come in più di un caso lo stesso sintagma è stato usato per designare conflitti diversi, o – al contrario – definizioni diverse sono state proposte per lo stesso conflitto. E ciò genera confusione. Una spiegazione di questi chiasmi esplicativi potrebbe essere liquidata addebitandola all’imprecisione di chi usa tali definizioni. In effetti, ad esempio, fra storia e scienze sociali, fra cultori di discipline diverse la lingua è comune, ma le categorie utilizzate – anche quando hanno lo stesso nome – non sempre hanno gli stessi valori. Fra la lingua degli studiosi e in

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particolare degli storici e quella della politica la distanza è ancora maggiore. Essa poi cresce ulteriormente fra la lingua e le categorie degli studiosi e quelle circolanti nell’opinione pubblica. Si potrebbe insomma liquidare la confusione addebitandola all’uso improprio o non appropriato della stessa categoria da parte di chi la utilizza: sarebbe stato questo a far nascere incomprensioni fra la storiografia, le altre scienze sociali e ancor di più la politica e il discorso pubblico. Questo soprattutto in Italia, dove le competenze pur disponibili sul campo della storia della guerra non vengono mobilitate, lasciando il campo a chi è competente in altri campi o non lo è.1 Si ritiene di intendere la stessa cosa perché si utilizza lo stesso nome, ma si pensa a cose diverse. Ma non c’è solo questo. E purtroppo non siamo aiutati nemmeno da opere per molti altri versi fondamentali. La voce relativa a Krieg di quell’Historisches Lexikon zur politisch-sozialen Sprache che fu la Geschichtliche Grundbegriffe fu scritta ormai più di un terzo di secolo addietro e la “guerra globale” lì non c’è. Le pagine che seguono non pretendono di esaurire tutta questa ampia questione, che ha impegnato studiosi di molte discipline (tranne la storia). Né ci compete formulare nuove definizioni di guerra dal punto di vista teorico. Queste pagine mirano soltanto a suggerire che la prospettiva storica non è inutile, anche in questo campo, e può contribuire a sciogliere alcuni dilemmi e a far ordine. Ad esempio, “guerra globale” è definizione nuova per definire una guerra dalla natura diversa dalle precedenti, o è una definizione (relativamente) vecchia, nata per una guerra precedente, che ora applichiamo ad una realtà bellica nuova? La questione, non solo dal punto di vista storico, non è indifferente. Due cose queste pagine vogliono suggerire: la prima, di metodo, è che – assieme ai filosofi politici, ai cultori di scienze strategiche, ai politici o agli osservatori – proprio gli storici possono dare un contributo all’interpretazione di questi concetti; la seconda, di merito, è che tali concetti, spesso dati per scontati, hanno invece conosciuto una storia per certi versi sorprendente e una continua re-interpretazione. 1. Un esempio perfetto di questo andazzo è stata la recente iniziativa del 18 settembre 2015, che appare organizzata dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, presso l’Accademia dei Lincei, cioè si sarebbe inclini a ritenere per cura e nella sede culturalmente più prestigiosi, alla presenza della stessa ministra, sotto la moderazione di Alberto Melloni, sul tema A cento anni dalla guerra mondiale: l’Europa e la guerra, i cui atti sono poi rimasti pubblicati nel volumetto Senza la guerra, Bologna 2016, dove nessuno studioso accademico specialista della prima guerra mondiale, o della guerra in generale, compare.

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1. Guerra assoluta In principio era stato Clausewitz.2 Nell’età moderna, e soprattutto nel XVIII secolo, che cosa fosse la guerra era abbastanza chiaro: un conflitto armato fra Stati, gli Stati moderni postwestfaliani. A questa guerra potevano essere accostati, ma erano considerati conflitti armati di natura diversa, quelli esterni dispiegantisi nei territori coloniali (non importa se per conquistarli o per tenerli soggiogati) o quelli interni, finalizzati a tenere in ordine province piagate dal brigantaggio o a piegare sommosse dal carattere spesso sociale (per le più gravi delle quali era pronta la definizione di guerra civile). La guerra fra gli Stati poteva essere giusta o meno, ma la sua natura era tutto sommato chiara. In quel XVIII secolo che vide gli illuministi riflettere su tutta questa ampia materia, la guerra fra Stati europei non assunse le forme devastanti che aveva conosciuto nella crisi del Seicento. In verità la guerra dei Sette anni, che vide contrapposte alcune potenze non solo europee ma coloniali, ebbe un’estensione insolita, su più continenti. Ma nel complesso i teorici del tempo, illuminati o meno che fossero, ritennero che la guerra avesse assunto ormai la forma delle guerre limitate: conflitti armati interstatuali, cioè, che riuscivano a non proliferare, rimanendo circoscritti a pochi Stati, e tenevano per quanto possibile basso il tasso di militarizzazione delle proprie società. Nel definire e auspicare queste guerre limitate si trovarono appaiati tanto gli illuministi vagheggianti la pace perpetua quanto i principi, illuminati o meno, che sapevano quanto le guerre costavano al loro bilancio. Tutto questo cambiò con la rivoluzione francese e con le guerre napoleoniche. Forse era già cambiato quando la rivoluzione industriale aveva posto le premesse per un’esponenziale produzione di manufatti bellici: costarono meno così non solo i tessuti per l’India ma anche i cannoni e le colubrine per gli eserciti e le flotte d’Europa, e fu possibile armare grandi masse di soldati, quante non se n’erano viste nel Settecento della guerra limitata. Certo è che la difesa della repubblica francese, con la legge 2. L’edizione ormai standard è C. von Clausewitz, On War, a cura di M. Howard, P. Paret, Princeton 1976 (versione ridotta a cura di B. Heuser, New York 2007). Citiamo invece da quella, meno affidabile, Della guerra, traduzione dal tedesco del generale di Corpo d’armata A. Bollati e del ten. colonnello E. Canevari, Roma, 1942 (in testa al frontespizio: Stato maggiore R. Esercito, Ufficio storico), poi Milano 1970. Una nuova importante versione ridotta è Id., Della guerra, a cura di G.E. Rusconi, Torino 2000.

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Jourdan, e l’offensiva delle guerre napoleoniche sortirono un risultato che sarebbe stato impensabile tanto ai prìncipi, quanto agli illuministi del secolo che andava chiudendosi. Il tutto aveva una base strutturale nelle due rivoluzioni, politica e industriale: ma un’autorità internazionale in questo campo di studi ha suggerito potersi parlare anche di rivoluzione militare, la terza quindi dopo la più nota “duplice rivoluzione”. Com’è noto, Carl von Clausewitz aveva visto e aveva combattuto tutto questo dalla parte della Prussia e poi della Russia. Aveva osservato con disappunto ma con realismo come armamento di massa ed entusiasmo patriottico, legati a una nuova tattica sul campo di battaglia, avessero creato le premesse per una rivoluzione della guerra. Al fine di vincere l’avversario napoleonico, egli aveva analizzato nel profondo la rivoluzione militare intervenuta e gli parve chiaro che il 1789 e Napoleone avevano scatenato qualcosa che si avvicinava, all’opposto della guerra limitata del secolo precedente, a una guerra assoluta. In quanto consigliere del re di Prussia e riformatore militare, ammonì che tutti gli Stati, da allora in poi, avrebbero dovuto prepararsi anch’essi a combattere quel tipo di guerra. Le posizioni politiche controrivoluzionarie di von Clausewitz non erano state tali da portarlo a ignorare la rivoluzione intervenuta negli affari militari. Com’è noto, Clausewitz non era uno storico (per quanto ricostruisse le guerre del suo tempo) e le sue riflessioni rimasero a lungo ignote al largo pubblico, influenzando al massimo una cerchia di generali e politici prussiani, e più tardi di cultori della materia. Tanto Clausewitz era stato “apocalittico” e “rivoluzionario”, quanto la dottrina militare che s’impose nell’Europa della Restaurazione e poi del post-1848 fu invece quella “neoclassica” e geometrica di Antoine-Henri Jomini. La guerra assoluta fu riscoperta solo dopo il 1870-71, non dai vittoriosi generali prussiani – ora tedeschi – che la conoscevano, ma dai loro contemporanei europei. V’era una ragione: il sistema di coscrizione obbligatorio (il “modello prussiano”) e il buon armamento, frutto di una produzione industriale, avevano vinto. Fra gli esegeti di Clausewitz la discussione attorno al sintagma di “guerra assoluta” è ancora in corso: era una descrizione del conflitto cui il generale prussiano aveva assistito? O era una definizione della guerra che egli aveva temuto o vaticinato per il futuro? Quello che è certo è che l’effettività delle guerre rivoluzionarie e napoleoniche aveva fatto sentire la necessità di ridefinire, qualificare e precisare il sostantivo guerra con un aggettivo. Indipendentemente dal fatto che la sua “guerra assoluta” fosse

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quella appena combattuta, quella avvenire o ambedue, muoveva un primo passo una storia che arriva sino ai giorni nostri. 2. Grande guerra La “guerra assoluta” di Clausewitz non entrò nel dizionario militare del lungo Ottocento. Esso fu rivoluzionato solo alla sua fine, e quindi assai tardi, quando nel 1914 – per descrivere l’immane tragedia che andò delineandosi dall’estate di quell’anno – si diffuse e si impose la definizione di “grande guerra”. Ma era un termine nuovo coniato per delineare una realtà nuova? Per rispondere è necessario fare un passo indietro. I cambiamenti introdotti dagli anni rivoluzionari e napoleonici nella storia della guerra avevano ammaestrato gli Stati della Restaurazione, ma una riflessione profonda su di essi – a parte quella di Clausewitz – ebbe bisogno di tempo per affermarsi. Essi sembrarono a molti episodici, irripetibili, e non strutturali: influiva a pensare in tal senso la realtà della guerra interstatuale negli anni fino al 1848, e forse sino al 1870. La novità, semmai, rispetto al passato, stava nel consolidarsi – per i regni restaurati – di una minaccia substatuale rappresentata dalle sette e dalle insurrezioni democratiche. Ma solo assai episodicamente queste riuscivano a incontrarsi con il favore popolare e in ogni caso configuravano contesti di “piccola guerra”, o (con un termine spagnolo invalso dal 1808) guerrilla. Insomma, era una minaccia minore. La guerra fu ancora a lungo, diciamo, guerra senza aggettivi. In vari ambienti, tuttavia, usata con varie accezioni, una nuova definizione si era affermata, ma per rappresentare non una situazione unica e univoca, bensì proprio per parlare di realtà assai diverse: remote, passate prossime e persino future. In Francia, ad esempio, e sia pure in un’atmosfera jominiana, i militari avevano chiaro che il presente della guerra era cambiato a causa delle innovazioni sperimentate fra 1789 e 1815. A metà del secolo, per le operazioni di terra o di mare, scrivevano così dei nuovi manuali, che parlavano di una «grande guerre».3 3. Archiduc Charles d’Autriche, Principes de la grande guerre suivis d’exemples tactiques raisonnés de leur application, Paris 1851; S. Bourgois, La Guerre de course, la grande guerre et les torpilles, par le vice-amiral B., Paris 1886 (estratto dalla «Nouvelle Revue» [1886]).

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Sempre attorno a quella data il sistema internazionale emise scricchiolii preoccupanti, tali da far pensare a un’imminente guerra grande. L’impero ottomano non era ancora il grande malato d’Oriente, ma anche prima della guerra russo-turca del 1877 vi fu chi vide la possibilità di un conflitto europeo allargato, e non solo fra qualche Stato: da qui la minaccia della «grande guerre», di un conflitto futuro, anche prossimo secondo alcuni.4 Forse questo parlarne al presente e al futuro influenzò gli storici, che guardano di mestiere al passato, sia pur con le parole del loro presente. Da qui, in quegli anni di metà secolo, un certo emergere del sintagma di grande guerra anche per riferirsi a conflitti del passato: non necessariamente conflitti armati interstatuali, come quelli preparati dai militari e avvertiti dai politici, ma anche solo periodi di instabilità forte e prolungata. Da qui volumi dedicati alla Francia del Tre-Quattrocento, o del Seicento, e alle sue grandi guerre.5 L’uso del termine era qui volutamente improprio, allusivo: ai francesi non sfuggiva che la “grande guerra” vera era stata per loro quella rivoluzionaria e napoleonica, ma al tempo stesso, per il loro forte contenuto politico e per l’acceso dibattito ideologico rappreso attorno a questi eventi, il 1789-1815 era da loro visto come un grande snodo politico. Non come una guerra. A parlarne come guerra erano semmai gli oppositori, e da qui qualche titolo di memorie vandeane, incline a ricordarlo appunto come anni di guerre.6 Il cambiamento di linguaggio, nella misura in cui in Francia ci fu, venne solo con il 1870-71.7 Per l’Esagono, però, la sconfitta nella guerra franco-prussiana non era solo un fatto militare, riassumibile nel declino del modello francese di eserciti volontari a lunga ferma e nell’ascesa del modello prussiano di eserciti basati sulla coscrizione obbligatoria. Fu la 4. Un esempio: F. Roustan, Résumé de la Question d’Orient. Très prochainement conflagration générale de l’Europe. Une grande guerre est inévitable, Paris 1877. 5. A. Weill, Histoire de la grande guerre des paysans, Paris 18602; R. de Belleval, La grande guerre. Fragments d’une histoire de France aux XIVe et XVe siècles, Paris 1862; A. Le Moyne de La Borderie, Critique hagiographique S. Clair et S. Yves. La grande guerre de la succession de Bretagne au XIVe siècle, Paris 1888. 6. M.-J.-N. Boutillier de Saint-André, Mémoires d’un père à ses enfants. Une famille vendéenne pendant la grande guerre (1793-1795), a cura di E. Bossard, Paris 1896; F. Charpentier, Un des anciens de la grande guerre, le P. Girard, Vannes 1906 (due fogli) (chapitre extrait de «Ma Paroisse sous la Terreur [Saint-André-Goule-d’Oie en 1793], notes et souvenirs d’un vieux Vendéen»). 7. O. Féré, La Grande guerre, Paris 1871.

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catastrofe dell’orgoglio nazionale. Per questo pochi avevano voglia di parlarne in termini di grande guerra. Semmai, non a caso, negli anni successivi al 1870 si tradusse a Parigi Clausewitz, appunto come teorico di quella “grande guerra” che aveva atterrato l’orgoglio della Grande Nation.8 Ma, quando si scrisse di quel conflitto, raramente (per pudore, per vergogna) in Francia venne utilizzato il sintagma appunto di grande guerra. Esso riprese ad apparire invece, e vedremo che non fu solo un fatto francese, negli ultimi anni del secolo e nel primo decennio del Novecento. In quegli anni, di nuovo, il sistema internazionale europeo cominciò a scricchiolare. Le mosse azzardate dell’Impero guglielmino e in generale la crescita degli armamenti e delle forze armate europee (ormai tutte sul sistema prussiano, anche quelle francesi) per un verso garantivano la pace ma per un altro verso la minacciavano.9 Pacifisti, militari, opinionisti, talora anche sotto pseudonimi, cominciarono a parlare di «grande guerre» riferendosi non più al passato ma al futuro, spesso ritenuto imminente. Fu così che quando nel luglio 1914 lo scontro fra Potenze centrali e Intesa si fece militare, tutti erano pronti a parlare del conflitto in termini di «grande guerre».10 Già nel 1914 questa fu la norma, in Francia. Nel Regno unito la necessità di usare un sintagma nuovo (great war) per designare conflitti passati, presenti o futuri conobbe una parabola analoga a quella francese, sia pure con qualche scostamento interessante e rivelatore su cui conviene riflettere. Mentre a Parigi si era ancora incerti, già a metà del secolo a Londra vi era certezza su quale era stata l’ultima grande guerra: quella napoleonica, che aveva visto il Regno unito impegnato e vittorioso.11 Per tale ragione, nelle isole britanniche la rivendicazione fu 8. Von Clausewitz, Théorie de la grande guerre, Paris 1889. 9. É. Massard, La France et la Russie contre la Triple Alliance. La grande guerre par le lieutenant-adjudant-major M., Paris 1893; Seestern, La Grande guerre, 1906, Paris 1906. 10. J. Péladan, La Grande Guerre de 1914. Le prophétie de l’Antéchrist de frère Johannès, Paris 1914; L’Italie et la grande guerre, lettre d’un Italien au directeur d’une revue allemande, Torino 1914. 11. H.E. Bunbury, Narratives of Some Passages in the Great War with France, from 1799 to 1810, London 1854; C.L. Cummings, The Great War Relic... Valuable as a Curiosity of the Rebellion. Together with a Sketch of my Life, Service in the Army, and how I Lost my Feet Since the War; Also, Many Interesting Incidents Illustrative of the Life of a Soldier. Harrisburg, Pa. 1870 [?]; e soprattutto S. Walpole, A History of England from the Conclusion of the Great War in 1815, 3 voll., London 1879-1880; W.H. Fitchett, How England Saved Europe: The Story of the Great War 1793-1815, 4 voll., London 1899-1900 (e New

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più rapida e, soprattutto, fu integrata prima che altrove in una narrazione compiutamente storiografica, e non soltanto memorialistica. Non solo la dinamica vincitore/vinto ma anche un certo distacco, buon produttore di obiettività, avvantaggiò la Londra della seconda metà del XIX secolo a riconoscere prima di Parigi se una guerra potesse, o dovesse, essere definita grande. Riteniamo che non fu per caso se, a differenza dei francesi, che forse avevano poca voglia di parlarne, e di parlarne in termini glorificatori, gli inglesi capirono subito che anche la guerra franco-prussiana era stata davvero un “grande guerra”.12 Ma Londra era la capitale di un grande impero mondiale e non era interessata a discutere solo le guerre europee, che vi avesse partecipato (come contro Napoleone I) o meno (come nell’attacco prussiano a Napoleone III). Non sorprende quindi che, quando l’Impero britannico si trovò invischiato nella difficile guerra sudafricana – o, come si diceva una volta, angloboera – subito vi fu chi si si accorse che anche quella era una “grande guerra”: certamente più grande ed impegnativa, in numero di uomini e di bilancio e di rilevanza strategica, di qualsiasi altra guerra coloniale combattuta da quello stesso impero.13 Londra come Parigi, invece, assistette alla moltiplicazione di opuscoli e volumi che, dalla seconda metà degli anni Novanta sino alla prima guerra mondiale, intesero allarmare l’opinione pubblica, e di riflesso i governi, circa il rischio di una deflagrazione europea: ne sarebbe sortita una guerra che tutti i loro autori definivano “grande”.14 Questo era di speciale rilevanza politica per il governo del Regno Unito. Se con tutta evidenza, ad esempio, Parigi non avrebbe potuto rimanere estranea ad una grande guerra combattuta sul suolo europeo, Londra cosa avrebbe fatto? Avrebbe prevalso un tradizionale isolazionismo britannico o invece le dimensioni nuove della guerra futura avrebbero costretto il Regno Unito ad abbandonare l’attitudine di distacco dalle vicende militari del continente? Doveva York 1899-1900); J.W. Fortescue, British Statesmen of the Great War, 1793-1814, Oxford 1911. 12. L.P. Brockett, The Great War of 1870 Between France and Germany, New York 1871; W.H. Russell, My Diary During the Last Great War, London 1874. 13. J. Barnes, The Great War Trek with the British Army of the Veldt, New York 1901. 14. P.H. Colomb, The Great War of 189-. A Forecast, London 1893; W. Le Queux, The Great War in England in 1897, London 1894; A.W. Kipling, The New Dominion. A Tale of To-morrow’s Wars, London 1908; Id., The Shadow of Glory. Being a History of the Great War of 1910-1911, London 1910.

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Londra prevedere una partecipazione militare di terra, anche consistente, poiché la guerra sarebbe stata davvero grande? E cosa avrebbe messo in azione militarmente l’Impero britannico, che per tradizione si basava su una imponente flotta e su un piccolo e rude esercito coloniale di volontari? Sarebbero stati questi mezzi adatti per influire su una grande guerra europea terrestre?15 L’aggettivo qualificativo “grande” era insomma centrale per la risposta all’interrogativo: ad una piccola guerra localizzata il grande Impero britannico avrebbe potuto anche essere indifferente: ma cosa fare con una great war? Come si vede, il caso britannico di adozione del sintagma in questione è assai istruttivo. La parabola dell’uso della definizione di “grande guerra” può essere assai diversa da nazione a nazione, quanto meno in una fase ottocentesca di parziale globalizzazione; può dapprima intendere conflitti diversi; può avere un senso – nel caso delle guerre future – chiaramente politico, di sollecitazione all’azione (o meno). Passando alla Germania, il suo caso nazionale presenta sia conferme sia interessanti variazioni rispetto ai due già incontrati. Gli anni francesi-napoleonici non avevano lasciato molti libri a essi dedicati che si incentravano sul fatto se quella di e contro Napoleone fosse stata una guerra di dimensioni eccezionali. Per quanto alla fine vittoriosa, Berlino avrebbe dovuto ammettere in fin dei conti un bilancio molto alterno, intessuto anche di umilianti disfatte. Questo spiega un qualche silenzio della pubblicistica, che certo riconosceva la rilevanza dell’evento ma pareva poco propensa a dedicarle monografie di un certo impegno. Anzi, nei paesi di lingua tedesca, di grosse Kriege sembrava che ce ne fossero state altre. A dimostrazione del fatto che, anche solo a giudicare dai tre casi nazionali sin qui esaminati, alcune grandi guerre erano state grandi per tutti, mentre altre lo erano state solo per alcuni, e sempre diverse. Tutt’affatto diverso fu invece il discorso relativo al 1870-71. Se Parigi era stata riluttante ad ammetterlo, e se Londra l’aveva correttamente registrato ma senza più di tanto insistervi, a Berlino invece la grosse Krieg francoprussiana fu posta al centro di un vero e proprio culto.16 Evento creatore dello 15. W.H. Russell, The Great War with Russia. The Invasion of the Crimea. A Personal Retrospect, London 1895. 16. R. König, Der große Krieg gegen Frankreich im Jahre 1870. Der deutschen Jugend erzählt, Bielefeld 1871; J. Disselhoff, Der grosse Krieg zwischen Frankreich und Deutschland in den Jahren 1870 und 1871. Dem deutschen Volke erzählt von J.D., Kaiserswerth am Rhein 1872.

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Stato unitario, mito di fondazione nazionale, il 1870-71 come grande guerra ricorse innumerevoli volte nei titoli dei volumi tedeschi. Ciò avvenne da subito, e poi in occasione del suo venticinquennale,17 quando con l’avvio della politica guglielmina e l’abbandono delle prudenze bismarckiane il ricordo del conflitto assunse il colore, più che di una celebrazione, di un’anticipazione di mosse ulteriori verso una Weltpolitik. A dimostrazione che i popoli e gli Stati preferiscono definire ‘grande’ una guerra vinta. La società tedesca era però articolata: assieme al più esclusivo gabinetto dell’imperatore convissero presto il più forte partito socialdemocratico d’Europa e una serie assai vivace di personalità e movimenti di vocazione pacifista. Non stupisce quindi che anche in Germania, fra gli anni Novanta dell’Ottocento e il primo decennio del Novecento, si moltiplicassero i testi dedicati alla grande guerra: ma non quella – da guardarsi con orgoglio patriottico – fondatrice dell’unità nazionale, bensì quella futura – da temere con orrore – che avrebbe potuto essere scatenata sul continente.18 Di nuovo, l’esame di un diverso caso nazionale quale quello tedesco conferma che un certo consenso si era costruito sia su quali erano state sia su come avrebbero potuto essere nel futuro le grandi guerre:19 ma anche che ciò era avvenuto non senza differenziazioni, sfumature, ed anche vere e proprie divergenze. Altri casi nazionali confermano che il sintagma di grande guerra era in uso, sia pure aurorale, ben prima della prima guerra mondiale e che lo stesso sintagma poteva essere usato in una abbastanza diversificata varietà di casi. Negli Stati uniti d’America, ad esempio, comprensibilmente, la vera “grande guerra” dell’Ottocento era stata quella della tentata secessione del sud. Ma raramente il conflitto era definito tale: solo in alcuni casi vi si fece riferimento nei termini di una «great war of rebellion», da parte dei vinci17. W. Buchner, Der große deutsch-französische Krieg 1870-1871. Für das Volk und die Jugend erzählt, Lahr 1895; P. von Elpons, Der große Krieg 1870-71 in Zeitberichten (Tagebuch des deutsch-französischen Krieges), nuova ed. a cura di J. Kürschner, Berlin 1895; E. Georgi, Der grosse Krieg von 1870 und 1871, Dem deutschen Volke erzählt von E.G., Eisleben 1895; P. Margueritte, Der große Krieg. Ein Roman-Cyklus über den Krieg 1870-71, Ulrik 1902. 18. P.H. Colomb, J.F. Maurice, Der grosse Krieg von 189-; ein Zukunftsbild, Berlin 1894. 19. L. von Falkenhausen, Der grosse Krieg der Jetztzeit. Eine Studie über Bewegung und Kampf der Massenheere des 20. Jahrhunderts, Berlin 1909; W. Bonsels, Das junge Deutschland und der große Krieg. Aus Anlaß des Briefwechsels Romain Rollands mit Gerhart Hauptmann über den Krieg und die Kultur, München 1914.

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tori ovviamente.20 Per il resto il trauma del conflitto era riassorbito in una storia nazionale alla ricerca di una composizione unitaria. Qualche minima eccezione a questa regola è riscontrabile nel caso di chi, in chiave patriottica, ricordava la propria (grande) guerra d’indipendenza, con alleati i francesi della Rivoluzione e dell’Impero.21 Si trattava però di casi isolati. Più significativo, allora, semmai, era il caso neo-patriottico o proto-imperialista della fine del secolo, quando nel 1899 un volume intendeva presentare al pubblico Hero Tales of the American Soldier and Sailor, as Told by the Heroes Themselves and Their Comrades. Il sottotitolo non era meno significativo della prospettiva ormai adottata da un’America ben diversa da quella dell’indipendenza così come dalla guerra civile: The Story of Our Great War.22 Come si vede, la prospettiva nazionale era davvero importante. Lo conferma un caso secondario. In Italia, infatti, è piuttosto interessante osservare che, se i cataloghi non ingannano, in tutto l’Ottocento nessun autore pensò mai di intitolare un suo volume a una grande guerra, qualunque essa fosse stata. Si dovette attendere il primo Novecento perché ne apparisse uno, edito per gli allievi dell’Accademia navale di Livorno.23 La localizzazione e la funzionalizzazione del testo non stupiscono, visto che i militari – italiani come europei – sapevano benissimo che un eventuale scontro generale, per mare o per terra, fra la Triplice Alleanza e quella che da lì a poco si sarebbe chiamata Intesa liberale, visto lo stadio raggiunto dallo sviluppo delle forze armate e dei relativi sistemi d’arma, sarebbe stato micidiale. A quel punto, per il lettore italiano, la prima “grande guerra” sarebbe stata l’aggressione alle province ottomane di Tripoli e di Bengasi e quindi l’occupazione della Libia. Scritti analitici e, forse ancor più, testi di propaganda o di auto-mobilitazione della società civile furono pronti ad adottare questa definizione: un foglio volante parlava (tutto assieme) di 20. Ch.L. Francis, Narrative of a Private Soldier in the Volunteer Army of the United States, During a Portion of the Period Covered by the Great War of the Rebellion of 1861, Brooklyn 1879; B.F. Thompson, History of the 112th Regiment of Illinois Volunteer Infantry, in the Great War of the Rebellion, 1862-1865, Toulon (Ill.) 1885. 21. E.M. Stone, Our French Allies in the Great War of the American Revolution, Providence 1884. 22. J.W. Buel, Hero Tales of the American Soldier and Sailor. As Told by the Heroes Themselves and Their Comrades. The Story of Our Great War, New York 1899. 23. G. Sechi, Elementi di arte militare marittima, I, La guerra marittima e la grande guerra, Livorno 1903.

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Intorno all’Impresa libica. Come originò e Come venne decisa l’Impresa. La preparazione italiana. Cavalleria.... Ingenua? Forze e piano Turcoarabo. Forze e piano italiano. La rivolta araba. La grande guerra. Spese di impianto e di esercizio, mentre un poeta popolare sardo dedicò una lunga poesia in dialetto In onore del Governo italiano per la Vittoria nella grande Guerra tripolina nel 1911.24 Non mancavano, anche in questo caso, le ragioni: per l’opinione pubblica, e in genere per il paese, la guerra di Libia era stata davvero una grande impresa militare all’estero, che impiegò il doppio delle forze militari destinate nel 1895-96 ad Adua (anche se esse erano pur sempre meno di un terzo di quelle spedite dopo il 1861 a reprimere il brigantaggio) e che fu sostenuta compattamente da un ampio arco di forze politiche, dalle liberali alle cattoliche (a differenza di quanto era accaduto nelle guerre coloniali precedenti). Tutto ciò detto, e spiegato il perché di titoli così tardi, rimarrebbe da spiegare perché – a differenza di tutti i casi sopra esaminati, francese e britannico, tedesco e statunitense – in Italia non ci fu nessuno, prima e dopo l’Unità, che avesse avuto voglia di intitolare un volume ad almeno qualcuna delle guerre cui negli altri paesi ci si era interessati definendole “grandi”. Non che, si badi bene, non si pubblicassero opere sulle guerre napoleoniche o su quella del 1870-71, sulla guerra civile statunitense o su quella angloboera (per la verità, negli ultimi due casi, piuttosto poche): ma nessuno volle definirle sin dal titolo come grandi. Ammesso che il problema storico esista e sia rilevante, le sue spiegazioni possono essere varie: ridotto interesse dell’opinione pubblica italiana per questa dimensione militare degli avvenimenti internazionali, scarsità di specialisti in grado di delucidarli, enfatizzazione nazionalistica solo della propria storia militare. In questa sede basterà indicare la questione: che certo, per il momento, appare un po’ insidiare la considerazione per cui il Risorgimento nazionale e il liberalismo italiano postunitario abbiano rappresentato una unica e continua esaltazione della violenza, del sangue e della guerra. In tutti i casi nazionali sin qui esaminati, com’è noto, senza fra loro alcuna sensibile distinzione, a partire dall’estate 1914 si cominciò a par24. E.C. Boccardo, Intorno all’Impresa libica. Come originò e Come venne decisa l’Impresa. La preparazione italiana. Cavalleria. Forze e piano Turco-arabo. Forze e piano italiano. La rivolta araba. La grande guerra. Spese di impianto e di esercizio, Vicenza 1912; G.F. Pirisi Pirino, In onore del governo italiano per la vittoria nella grande Guerra tripolina nel 1911. Poesia, Cagliari 1912.

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lare di grande guerra.25 La guerra appena deflagrata era in effetti nuova e più grande delle precedenti. Ma la definizione utilizzata aveva una sua storia, non era nuova, e sino ad allora aveva indicato conflitti fra loro diversi, o quanto meno non necessariamente identici, cronologicamente e geograficamente. È probabile che per un po’ essa quindi continuasse a evocare, prima che si “globalizzasse” il nuovo significato, cose un po’ diverse nelle diverse nazioni e soprattutto a seconda di chi utilizzava quella definizione: militari, uomini di comunicazione, politici e infine storici. Anche successivamente le appartenenze nazionali continuarono a marcare significative differenze. Il primo conflitto mondiale fu chiamato, in Italia e per ragioni diverse in Francia, Grande guerra molto di più che nel Regno Unito e in Germania: nella quale, forse, continuarono a imperare un paio delle regole che ora dovrebbero esserci familiari, cioè che non si potesse chiamare grande una guerra persa e che non si potessero avere grandi guerre troppo ravvicinate: e per la Germania quella del 1870-71, fondatrice dell’unificazione nazionale, si era già impressa come la grande guerra. Solo di recente anche in Germania per la prima guerra mondiale, il cui ricordo è stato per tante ragioni nazionali sopraffatto dall’esperienza e dalla memoria del secondo conflitto mondiale, sembra iniziare ad imporsi la definizione di grande guerra. 25. Per il caso italiano la documentazione è vasta: fra la pubblicistica di una qualche dimensione G. Bordoni, La grande guerra. La conflagrazione europea, Milano 1914; I documenti della grande guerra, raccolti da G.A. Andriulli, prefazione di G. Ferrero, Milano 1914; L. Barzini, Scene della grande guerra. Viste da L.B., Milano 1915. Nei periodici e nei fogli volanti il termine era se possibile ancora più diffuso: cfr. ad esempio La grande guerra europea. L’immensa battaglia sull’Aisne. I francesi conquistano una bandiera ad un reggimento tedesco, Foligno 1914; La più grande guerra, Milano-Sesto San Giovanni 1915; Almanacco italiano. Piccola enciclopedia popolare della vita pratica, annuario diplomatico, amministrativo e statistico, con la cronaca illustrata dell’anno 1915 e la cronistoria della grande guerra italiana e europea, articoli illustrati e note statistiche su ciascuna delle nazioni che partecipano al grande conflitto. Effemeridi astronomiche per uso dei naviganti. Anno di guerra 1916, Firenze 1915; Ore d’ozio di un giubilato (L’esercito moderno; Idee e proposte; Servizio di vettovagliamento nell’esercito; Divagazioni politico-militari libiche; Guerra Italo-turca 1911-12; Introduzione allo studio della grande Guerra europea), Torino 1915; L’Italia chiamata dagli eventi e dal fato storico a partecipare alla più grande guerra che la storia ricordi, s.l. 1915 (Costituzione di un fondo cassa per le famiglie bisognose dei militari, Carolei, giugno 1915).

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3. Guerra europea I meccanismi che abbiamo visto in opera per la costruzione del passaggio da guerra a grande guerra si sono poi ripresentati anche per altre definizioni, che apparentemente hanno qualificato, ed esteso, il campo della guerra. Sappiamo ad esempio che, agli inizi del conflitto 1914-18 il termine di guerra europea fu frequentemente utilizzato, e non di rado incorporando una certa enfasi come sinonimo di grande guerra, cioè di un conflitto fra più Stati. Ma, di nuovo, il termine aveva una sua storia precedente. Sino al 1914, “guerra europea” era stato utilizzato sostanzialmente per due ragioni. Per un verso esso mirava a qualificare geograficamente un conflitto armato da parte di chi non apparteneva a quell’area geografica. Ad esempio, gli statunitensi – ma anche gli inglesi – vi avevano fatto ricorso, non necessariamente con intenzioni enfatiche. Si indicava così semplicemente guerre che erano state26 o che erano combattute in Europa.27 Per un altro verso, più in generale, il termine significava invece un conflitto maggiore di una guerra diadica fra due Stati: quindi tendenzialmente annunciava una guerra generale, “più grande” di una guerra tradizionale. In questo senso era stato utilizzato ad esempio da militari (che con ciò volevano significare un conflitto richiedente un notevole impegno da parte del paese), così come dai critici e dai pacifisti (che, usando quel termine, intendevano ammonire i governanti e l’opinione pubblica dal sottovalutare scelte politiche che avrebbero potuto scatenare appunto una guerra europea, generale).28 Il concetto fu riservato cioè, al contrario dell’uso drammatizzante dell’anteguerra, a chi intendeva minimizzare.29 26. J. Thomson, On the Existing State of Our Herring Fishery. With a Preface, on the Probable Result, in the Contingency of a European War, to that Branch of National Industry, Aberdeen 1854; W. Hutcheson, The Fifth Vial. Or, The Coming European War, Glasgow-London 1859; Watson’s New Military Map of Europe to Explain the European War of 1870, Chicago 1870. 27. The New York Times current history of the European war, I/1-III/5, New York 1914-1916; Best Stories of the 1914 European War, New York 1914. 28. B. von Suttner, “Ground arms!” “Die waffen nieder!” A Romance of European War, Chicago 1906; E. Ducommun, The Probable Consequences of a European War, London 1906. 29. Ch. McClellan Stevens, The True Story of the Great European War; Facts, Explanations and Descriptions of the World-Staggering Crash of Events, Gathered Impartially from Every Source of Reliable Authority on Both Sides of the Great Conflict, Chicago 1914; Collected Diplomatic Documents Relating to the Outbreak of the European War, London 1915.

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La realtà della guerra, in questo caso del 1914-18, aveva sopravanzato la lingua e i concetti. E, come in quello precedente di “grande guerra”, il concetto di “guerra europea” aveva già una sua storia e fu a suo modo riadattato quando il suo uso si diffuse per definire il conflitto seguito all’assassinio di Sarajevo. 4. Guerra mondiale Il concetto di guerra europea fu peraltro spesso abbandonato, sostituito da quello di guerra mondiale. La logica e l’estensione del conflitto 191418, d’altronde, lo avevano reso inevitabile. Ma, ancora una volta, guerra mondiale non fu un sintagma nuovo per designare una guerra nuova: fu piuttosto un adattamento, e un rinnovamento, di un concetto precedente in una congiuntura nuova. L’estensione del conflitto nato a Sarajevo fu effettivamente mondiale, e nuova, e lasciò sorpresa la maggior pare degli osservatori. Per alcuni si rivelò però una conferma. Erano i critici che, negli anni precedenti il conflitto, avevano ammonito governi e opinione pubblica – ormai è corretto dire, inutilmente – dei rischi a cui l’Europa e l’umanità andavano incontro. Secondo loro uno scontro fra le potenze centrali e l’Intesa poteva essere l’evoluzione di controversie fra due Stati qualsiasi delle due alleanze ma poteva aprire a un cataclisma ancora maggiore, appunto mondiale. Pochissimi fra questi critici però potevano essere sicuri dell’intensità e delle forme che il conflitto avrebbe assunto. Qualche grande pacifista aveva chiara l’entità della minaccia, anche se non sempre le analisi erano concordi: Ivan Bloch, col suo pacifismo tecnologico, non avrebbe concordato del tutto con la lezione economica di Norman Angell o con quella politica di Bertha von Suttner, o con quella, in fondo morale, di Lev Tolstoj o Romain Rolland. Ciò nonostante nessuno di loro, pur presentendole (e forse più di tutti Bloch vi si sarebbe avvicinato) avrebbe potuto antivedere le colossali dimensioni assunte dal conflitto. Quando questi parlavano di guerra mondiale, prima che scoppiasse, non avevano quindi chiaro quanto davvero mondiale essa sarebbe divenuta. L’altro uso del concetto di guerra mondiale, a conflitto iniziato, fu diciamo più banale, semplicemente descrittivo. In effetti assai presto, in tutte le lingue e in tutti i paesi, coinvolti o meno, la guerra del 1914-18 divenne

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– per i suoi teatri – la guerra mondiale.30 Anche in questo caso, è ovvio, non si trattava solo di una definizione geografica: guerra europea, grande guerra, guerra mondiale erano per certi versi sinonimi, nella misura in cui non computavano solo la latitudine del fenomeno bensì anche la sua intensità, la severità dei lutti provocati, il carattere colossale delle forze storiche scatenate. Di nuovo, anche coloro che utilizzarono il concetto in tal senso non sarebbero stati sorpresi: pochi di loro avrebbero potuto pensare che quella sarebbe stata solo la prima guerra mondiale.31 Si potrebbe dire che la storia aveva realizzato ciò che, qualche anno prima, un originale pensatore e scrittore aveva forse vaticinato. A rigor di termini La guerra dei mondi di Herbert G. Wells (1898) non era una guerra mondiale perché, in fondo, era ambientata nel Regno Unito.32 Inoltre, a molti sembrò una critica dell’imperialismo britannico, più che un’anticipazione di una guerra possibile: e, in effetti, di tripodi (i marziani che secondo Wells avrebbero invaso l’Inghilterra per dare la scalata al controllo della Terra) non se ne vedevano al momento tracce. Ma La guerra dei mondi di Wells, come ogni buon romanzo di fantascienza, non solo metteva in campo una previsione di sistemi d’arma che poi effettivamente avrebbero visto la luce o sarebbero stati implementati nel 1914-18. Il fatto per cui viene qui menzionato è che il volume di Wells, già prima di Sarajevo, mise in evidenza come la guerra allora prossima ventura avrebbe potuto essere mondiale. Esattamente come quella avviata nell’estate 1914, sia pure in forme non sospettabili. Persino da uno scrittore di fantascienza. 30. Per una solo indicativa rassegna su diversi paesi di questi usi nei primissimi anni del conflitto cfr. La Guerre mondiale. Bulletin quotidien illustré, Genève 1914-1919; Guerre mondiale, 1914, par un docteur en sciences politiques d’une Université belge, Roma 1914; C. Helfferich, Les origines de la guerre mondiale, d’après les publications des puissances de la Triple entente, Berlin 1915; La guerre mondiale. Faits acquis à l’histoire. Avant la guerre; préliminaires de la guerre; la guerre. Documents. Les témoins de la barbarie austroallemande, Paris 1915; A. Fua, La guerre mondiale préméditée et concertée par l’Allemagne et les Jeunes-Turcs, Paris 1915; G. Andrássy, Whose Sin is the World War?, New York 1915; Ch. Turner Gorham, The World War. Who is to Blame? A Reply to Professor Haeckel and Dr. Paul Carus, London 1915; L. Marshall, The World War. A History of the Nations and Empires Involved and a Study of the Events Culminating in the Great Conflict, Philadelphia 1915. 31. A.H. Fried, The Fundamental Causes of the World War, New York 1915; M. Wright Sewall, Women, World War and Permanent Peace, San Francisco 1915; A.E. Knight, The World War and After. An Inquiry and a Forecast, London 1915; Th. Roosevelt, America and the World War, New York 1915. 32. H.G. Wells, The War of the Worlds, New York-London 1898.

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A ulteriore dimostrazione, se ce ne fosse stato bisogno, che – non diversamente da quelli di grande guerra e di guerra europea – il concetto di guerra mondiale era già presente quando poi venne riempito di contenuti nuovi, con il primo conflitto mondiale. 5. Guerra totale Che il primo conflitto mondiale abbia rappresentato uno snodo cruciale e un momento di accelerazione straordinaria nella storia umana – origine e fine di secoli, creatore della memoria moderna, laboratorio delle novità, terribili quanto affascinanti, della modernità, di cui avrebbe rappresentato secondo alcuni persino l’apocalisse – lo dimostra anche il suo aver elaborato, rielaborato e consumato i concetti finalizzati a definirlo. La lingua dovette sembrare insufficiente, a chi lo visse. Da qui, come abbiamo visto, le sorti di aggettivi e sintagmi come guerra grande, europea, mondiale. Cui si aggiunse infine quella di guerra totale. Di tutte le qualificazioni della guerra novecentesca, quella di conflitto totale è stata certamente la più fortunata. Hanno contribuito a ciò cause fra loro assai diverse e del tutto impreviste al momento del conio del concetto: che un regime politico si definì non solo totale ma totalitario; che esso si fece sostenitore di una guerra appunto totale; che per raggiungere tale scopo (o per combatterlo) da più parti ci si industriò di suggerire vie e mezzi fra loro assai diversi; che il sistema di mobilitazione improvvisato nel 1914-18 sembrò essere un esperimento da cui imparare e a cui tornare nei decenni successivi tanto in pace quanto in guerra; che la società del Novecento sviluppò un sistema di comunicazione delle notizie e di convinzione delle menti in grado di far apparire a portata di mano l’obiettivo della manipolazione delle coscienze; che a una prima guerra mondiale ne seguì un’altra ancora più distruttiva, e infine una terza non combattuta e calda ma fredda, eppure in grado di realizzare molti degli obiettivi che gli scatenatori delle prime due si erano dati. Come si vede, come con i precedenti, il concetto di guerra totale venne per tutte queste ragioni via via aggiornato e fatto sempre più inclusivo rispetto alle sue originarie formulazioni. Non è possibile qui, per ragioni di spazio, ripercorrere tutta la letteratura che utilizzò il termine di guerra totale o quella storiografica – o strategica, politologica, persino filosofica – che l’ha commentato. Proseguendo

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il filo del nostro discorso (che peraltro si distingue da molti altri simili perché inserisce organicamente quello di guerra totale in una catena storica di concetti: catena che lo precede, e che a esso non si arresta, conducendoci al punto da cui eravamo partiti, e cui vorremmo infine arrivare, cioè quello della guerra globale) sarà però conveniente rimarcare che il primo uso consapevole del concetto di guerra totale venne, com’è ormai noto, con il volume del pubblicista francese Leon Daudet.33 Datato marzo 1918, La guerre totale di Daudet era un classico esempio di propaganda di guerra. Enunciava cioè una verità, ma deformandola a propri fini. Nel volumetto, il pubblicista visceralmente nazionalista, monarchico e già antidreyfusista, accusava la Germania di combattere una guerra nuova e sleale. Secondo l’autore, infatti, Berlino mobilitava le coscienze del proprio Impero, cercava di sovvertire quelle del nemico, e si avvaleva di quinte colonne francesi (socialisti, anarchici, pacifisti). Accusando così il perfido nemico, il nazionalista Daudet insultava pesantemente il tedesco in genere, demonizzando l’avversario. L’interesse sollevato dal volume presso gli analisti era offerto dal fatto che Daudet metteva in luce un dato di verità: la nuova centralità della mobilitazione delle coscienze in una guerra moderna, e totale, e non soltanto di quelle dei combattenti armati bensì anche delle altre sul fronte interno. Il dato di propaganda era invece evidente a chiunque, perché di tutto questo non era responsabile solo il Secondo impero tedesco bensì tutti gli Stati in guerra. Daudet fu solo un simbolo. Molti altri, molto meglio di lui, avevano colto la capacità di quel conflitto di mobilitare tutte le risorse vive dei paesi in guerra. Spiegandolo e persino teorizzandolo con finezza anche molto maggiore del volumetto di propaganda dell’agitatore dell’Action française, si erano però arrestati di fronte all’utilizzo del termine “totale”. A Daudet va riconosciuto quindi il suo primo uso consapevole, già guerra durante.34 La guerra era ormai diventata non solo più estesa (grande, europea, mondiale) ma più intensa: appunto, totale. Al tempo stesso, a Daudet va fatta ricadere la responsabilità della confusione che da allora è rimasta legata all’uso di quel concetto: quell’aggettivo qualificativo, formalmente 33. Fabrizio Bientinesi, in un recente convegno organizzato a Reggio Emilia (25-27 maggio 2016) dalla Società italiana per la storia del lavoro, ha proposto una serie di interessanti riflessioni sulla cronologia dell’uso del termine di “guerra totale” nell’ambito della riflessione degli economisti. 34. L. Daudet, La guerre totale, Paris 1918.

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di grado zero, aveva infatti in sé l’equivoco di trasportarsi un significato assoluto. Cosa poteva esserci di più di qualcosa che già era “totale”? Ma la storia non era destinata a fermarsi con la prima guerra mondiale. E allora, successivamente, con quali parole definire conflitti che senza alcun’ombra di dubbio apparvero più totali di quello del 1914-18? Non sarebbero stati infatti più totali della Grande guerra la guerra nazista all’Est del 1941-44, o più in generale, la seconda guerra mondiale, o per certi versi persino la guerra fredda? Intanto, se la guerra totale doveva essere la «mobilitazione d’una società in vista della disfatta di un nemico diabolizzato», più di Daudet sarebbe stato il generale tedesco Erich Ludendorff nel 1935 con il suo Der totale Krieg a siglare il successo del termine.35 Per la verità, come è stato osservato, anche Ludendorff non inventava niente. Il generale tedesco, anzi a quel tempo filo-nazista, utilizzò una definizione della guerra moderna che nel suo paese era diventata già popolare in vari ambienti: da quello militare, ovviamente, a quello politico, in particolare nazista. Fra gli altri, se pure già non fosse bastato il suo noto In Stahlgewittern (Nelle tempeste d’acciaio) del 1920,36 nel 1930 Ernst Jünger aveva pubblicato un influente articolo su Die totale Mobilmachung in un volume da lui curato e dedicato a Krieg und Krieger (Guerra e guerrieri), in cui il concetto di guerra totale era presentato e affinato.37 Più professionale anche se meno immaginifico, il generale Ludwig Beck, capo di stato maggiore dell’esercito dal 1933 al 1938, anche se poi cambiò idea, era già un sostenitore della stessa tesi. A ciò si aggiunga che, sia pure senza la stessa assertività, altri militari o strateghi degli stessi anni avevano elaborato teorie analoghe. Non dovrebbe essere qui necessario ricordare l’apporto dell’italiano Giulio Douhet che, sia pur insistendo meno del nazista sul punto politico della mobilitazione delle coscienze, sottolineò la possibilità che lo sviluppo delle capacità militari e tecnologiche – a partire ovviamente dall’arma aerea – avrebbe permesso in un’eventuale guerra una strategia ed una vittoria rapide e sicure.38 Insomma non stupisce se il generale tedesco Wilhelm Groener, già ministro della guerra, recensendo Ludendorff, affermò che nel suo libretto non c’era niente di 35. E. Ludendorff, Der totale Krieg, München 1936. 36. E. Jünger, Nelle tempeste d’acciaio, intr. di G. Zampa, Parma 1995 (ed. or. 1920). 37. Id., Die totale Mobilmachung, in Krieg und Krieger, a cura di Id., Berlin 1931. 38. Su cui cfr. E. Lehmann, La guerra dell’aria. Giulio Douhet, stratega impolitico, Bologna 2013.

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nuovo. (È stato osservato che, solo rimanendo in Germania, persino un operaio oppositore comunista vi faceva riferimento, nel racconto autobiografico della propria esperienza della prima guerra mondiale intitolato Vaterlandslose Gesellen: Das erste Kriegsbuch eines Arbeiters, anch’esso del 1930 come l’articolo di Jünger).39 Ma Ludendorff sapeva di non poter inventare e le prime parole del suo libro contenevano l’ammissione di non voler dare vita a una nuova teoria della guerra. E non strumentalmente egli intendeva collocarsi nella tradizione tutta tedesca della guerra assoluta clausewitziana e della grande guerra franco-prussiana. Ciò detto Ludendorff fu assai efficace nel riassumere e coordinare gli aspetti economici, politici e militari, strategici, operativi e tattici, tratti dalla propria esperienza di comandante della prima guerra mondiale tedesca con gli obiettivi di quel nazismo in cui in quel momento credeva. Da qui la sua guerra totale. Sbagliava su un punto solo, ma decisivo, e che sarebbe stato esiziale per il regime hitleriano: quello secondo il quale solo la Germania sarebbe stata capace di condure una guerra simile. Come è stato osservato, al fondo, Clausewitz e Ludendorff erano profondamente distanti (e non solo per il contesto storico in cui vissero): il generale prussiano mirava in guerra alla battaglia decisiva e quindi – pur influenzato dalle rivoluzionarie novità francesi e napoleoniche – pensava ancora in una maniera tutto sommato tradizionale e militare; il generale nazista invece prevedeva, o quanto meno non escludeva, nella sua logica tutta politica di completo disconoscimento dell’avversario, il ricorso al genocidio, cioè all’estirpazione dalla faccia della terra del nemico de-umanizzato. Questo tipo di guerra totale atteneva, prima che all’elaborazione di un concetto da parte di Ludendorff, alla natura del sistema politico hitleriano, così come i primi travolgenti successi della Wehrmacht e della Luftwaffe furono dovuti, prima che alle teorizzazioni del suo Der totale Krieg, ai meccanismi di costruzione di un’oleata macchina da guerra. In un certo senso, alla fine, la politica militare della ricerca della battaglia decisiva (da parte delle Nazioni unite antifasciste) avrebbe avuto la meglio sulla politica del genocidio (da parte dell’Asse nazifascista).40 Nonostante tutto quanto si possa osservare circa le debolezze del volume di Ludendorff, va però riconosciuto che esso ebbe un successo e un im39. A. Scharrer, Vaterlandslose Gesellen. Das erste Kriegsbuch eines Arbeiters, Rostock (BS), s.d. 40. G.L. Weinberg, A World at Arms. A Global history of World War II, Cambridge 1994 (e già J. Brooman, Global war the Second World War, 1939-1945, Harlow 1990).

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patto, senza precedenti. In pochi mesi aveva raggiunto già quattro edizioni, con più di 120.000 copie diffuse: conobbe traduzioni in tutte le principali lingue, contribuendo a diffondere il sintagma della “guerra totale”, anche se la traduzione in inglese parlò di “guerra totalitaria”. (Alla sua fortuna fra gli studiosi contribuì anche la quasi immediata identificazione del suo testo come uno dei Makers of modern strategy nella prima edizione dell’omonima influente raccolta di studi, molti a firma di intellettuali che avevano abbandonato la Germania nel 1933).41 Possiamo quindi concludere che a fondare la fortuna del concetto di guerra totale, più che i due padri effettivamente coniatori dei loro titoli, fu l’effettiva trasformazione della guerra stessa fra primo e secondo conflitto mondiale.42 Furono infatti i cambiamenti nella natura dei regimi politici, nelle società, nelle forze armate a decidere che le vecchie qualificazioni (grande, europea, mondiale) andavano aggiornate e per certi versi integrate, se non proprio sostituite, dalla nuova qualificazione: guerra totale. Furono insomma il carattere totalitario dei regimi nazifascisti (e non solo), l’enormità dei loro obiettivi politici, la trasformazione della società di massa fra le due guerre, lo sviluppo dei sistemi d’arma (dall’arma aerea ai mezzi corazzati, dall’armamento chimico alle scoperte in termini di missilistica, sino ai più “normali” progressi nei processi di coscrizione e addestramento di forze armate di massa) a rendere possibile quello che Daudet e Ludendorff avevano vaticinato, e per la verità anche ad andare molto al di là. Un’altra lezione generale è possibile trarre da questa storia per il nostro discorso: la lingua della guerra è data dalla guerra stessa,43 prima che dai concetti pensati per definirla. Si potrebbe semmai accennare qui, incidentalmente e come in una parentesi, a una questione che interessa l’intera catena concettuale di cui ci stiamo occupando. Colpisce, in questa storia, che sia piuttosto assente ogni riflessione relativa a una guerra – o a un insieme di guerre e di operazioni militari – che pure impegnarono le potenze europee per secoli. Si tratta delle guerre, o operazioni, coloniali.44 41. Makers of Modern Strategy, a cura di E. Mead Earle, Princeton 1943. 42. Cfr. già H. Speier, Ludendorff, The German Concept of Total War, ibidem. 43. R. Overy, Why the Allies Won, New York 1995. 44. D. Porch, Wars of Empire, London 2000. Cfr. anche N. Labanca, La frontiera coloniale e il suo labile confine fra ordinario e straordinario, in Il governo dell’emergenza. Poteri straordinari e di guerra in Europa tra XVI e XX secolo, a cura di F. Benigno, L. Scuccimarra, Roma 2007, pp. 221-238.

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Sin dal 1415 le potenze europee si erano avventurate con alterne fortune in un’espansione oltremare extraeuropea. A partire da questa costruirono colossali imperi coloniali che ebbero durata diversa, ma dentro un’esperienza collettiva che durò più di mezzo millennio. Il ricorso alla forza fu ovviamente, in questa enorme e diversificata esperienza, assai diverso: a seconda che si trattasse del momento della conquista o della gestione o della pacificazione, a seconda che vi si facesse ricorso al tempo degli archibugi, dei cannoni a retrocarica e delle mitragliatrici o (per quanto ovviamente non in colonia) al tempo della bomba atomica, nonché a seconda che si trattasse delle popolazioni dell’America latina, dell’Asia, dell’Australia o dell’Africa. La differenza fu insomma un dato costitutivo dell’esperienza coloniale. Nel periodo preso in esame in queste pagine, nell’Ottocento e nel Novecento, quell’esperienza fu costante e talora traumatica. Basterebbero pochi esempi: il primo genocidio del Novecento si svolse in Namibia, contro gli Herero, e non in Europa; a metà del secolo, al tempo dei “trenta gloriosi” e dei “miracoli economici”, operazioni sanguinarie si svolsero in Algeria e in altri territori nei conflitti di decolonizzazione. Ebbene, parlando di guerra totale, non può non fare sensazione che il linguaggio comune occidentale della guerra non abbia previsto categorie e concetti specifici per questi conflitti. L’evoluzione delle guerre intra-europee, o mondiali, scandisce e accompagna l’evoluzione del dizionario della guerra, che pare però muto o reticente di fronte alle guerre e alle operazioni coloniali. Eppure alcune guerre coloniali, pur combattute con armi diverse da quelle europee o mondiali, conobbero intensità non minore. Inoltre negli stessi due conflitti mondiali, per i quali il concetto di guerra totale fu coniato (alla fine della prima, in preparazione e all’avvio della seconda), combatterono complessivamente milioni di uomini assoldati dai territori coloniali delle potenze europee agli ordini delle loro potenze coloniali. Ma tutto questo, nel linguaggio per la guerra, non ha lasciato traccia. E quindi qui si chiude la nostra parentesi, mirante solo a segnalare il carattere eurocentrico di questo linguaggio e di questo vocabolario di concetti. Per il resto, per la “nuova” categoria di guerra totale si ripresentarono le stesse problematiche già affacciatesi per le definizioni precedenti. La guerra totale era uno stadio di sviluppo, uno stato di cose, o indicava un processo sempre in atto di “totalitarizzazione” dello scontro bellico? Una guerra sarebbe stata totale per ragioni tecnologiche (e non mancarono indicazioni in questo senso, fra 1914 e 1945), o per via degli obiettivi politici che i singoli governi si sarebbero posti? La “vera” guerra totale era tale perché governi e forze armate avevano convinto con la loro propaganda il proprio fronte interno, caso mai

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influenzando anche il fronte interno dell’avversario, o perché la condotta sul campo delle proprie forze combattenti era davvero totale, spietata, senza limiti? Chi abbia svolto riflessioni, anche approfondite, soltanto su questo concetto potrebbe ritenere, e ha ritenuto, essere questi interrogativi legati solo a esso. Chi invece, come in queste pagine, abbia percorso tutta la catena concettuale che ha accompagnato l’evoluzione della guerra contemporanea, cercando di darne ragione, sa ormai che si tratta invece di questioni ricorrenti. Come sa anche che, al solito, il conio del concetto – pur riflettendo una realtà nuova – non sarebbe riuscito a contenere tutte le successive trasformazioni della guerra stessa. Né Daudet né Ludendorff avrebbero potuto immaginare realisticamente l’orrore dello sterminio razziale nazista. Né avrebbero immaginato che, per fermare la guerra e per affermare il proprio potere internazionale, sarebbe stata una potenza democratica a sganciare su due città – quindi su obiettivi civili – le bombe più distruttive della storia: le bombe atomiche. Per certi versi, fu solo a distanza di più di venti e dieci anni da Daudet e Ludendorff che la guerra divenne davvero totale. Un filosofo politico italiano ha osservato che fu allora che la distinzione fra guerra totale e guerra assoluta si fece minima, a partire dal suo rapporto con la politica: Si arriva allo stadio della guerra assoluta, intesa però non nel senso clausewitziano di pieno dispiegamento del concetto, ma in quello duplice di perdita, da parte della politica, della capacità di governare e limitare la guerra, e di subordinazione della guerra a una politica assoluta, incapace cioè di autolimitarsi. E si arriva allo stadio della guerra totale, attraverso la progressiva cancellazione di ogni linea di confine tra sfera militare e sfera civile, tra combattenti e non combattenti, attraverso la mobilitazione totalizzante delle energie economiche e intellettuali della società e attraverso un impiego sempre più intensivo di tecnologie di distruzione e sterminio.45

Tanto totale che, di nuovo, fu inevitabile cercare un nuovo concetto per definirla. 6. Guerra globale: origini e attualità Dopo la fine del quasi mezzo secolo di guerra fredda (1989-91), dopo l’attacco terroristico alle Due torri di New York dell’11 settembre 2001, 45. P.P. Portinaro, Grandi guerre e tecnologia, in Atlante del Novecento, dir. da L. Gallino, M.L. Salvadori, G. Vattimo, I, Eventi, spazi e protagonisti, popolazione, ambiente e sviluppo, Torino 2000, pp. 58-73.

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dopo la formale e pubblica dichiarazione da parte dell’allora presidente degli Stati uniti d’America George W. Bush che – a seguito di quell’attacco – una vera e propria «global war on terrorism» era stata lanciata, il concetto di “guerra globale” è diventato di uso comune e, soprattutto, è stato chiamato a definire un aspetto rilevante della contemporaneità, se non l’intera fase postbipolare. Che si viva oggi al tempo della guerra globale è così diventata, purtroppo, un’affermazione di senso comune. Come studiosi, conviene invece sottoporre anche questo concetto, o definizione, al vaglio di una prospettiva storica, se non altro perché alcuni dati, vedremo, sembrano invece mirare in senso opposto. Al solito, c’è da chiedersi se “guerra globale” è concetto nuovo coniato per spiegare una realtà nuova, o se invece è termine con una propria storia riutilizzato per parlare di un fenomeno che ha elementi in parte nuovi e in parte no, in parte obiettivi e in parte costruiti proprio grazie a quella stessa definizione. Elementi dello scenario contemporaneo sembrano confermare tale interpretazione. Uno scenario segnato, per un verso, da una serie di interventi militari internazionali in cui le misure di sostegno alla pace o alla ricostruzione postconflitto si sono intrecciate con, o sono seguite a, interventi più “cinetici” di ricorso alla forza. E caratterizzato, per un altro verso, dal susseguirsi di attacchi terroristici sanguinosi non soltanto in Asia e in Africa, dove purtroppo in alcuni paesi essi rappresentano una sorta di “basso continuo” della vita quotidiana da alcuni decenni, quanto in Europa (Madrid 11 marzo 2004, Beslan 1 settembre 2004, Londra 7 luglio 2005, Parigi 2 novembre 2011, Bruxelles 24 maggio 2014, Parigi 7 gennaio e 13 novembre 2015, Bruxelles 22 marzo 2016, solo per citarne alcuni) o in località frequentate anche da europei (Sharm el-Sheikh 23 luglio 2005, Tunisi 18 marzo 2015), che hanno fortemente mosso le opinioni pubbliche europee ed occidentali.46 Guerre e attentati terroristici quindi sembrano a molti aver configurato un’età della “guerra globale”, o delle “guerre globali”: un’età segnata dalla guerra pervadente, da una guerra senza pace. Il nuovo concetto sarebbe qualificante, a seconda degli osservatori e dei casi, di tutta la realtà presente. Troppo spesso, però, si ignora che anche questo concetto non è un 46. S. Metz, To Insure the Domestic Tranquility. Terrorism and the Price of Global Engagement, in Terrorism. National Security Policy and the Home Front, a cura di S.C. Pelletiere, Carlisle Barracks (PA) 1995.

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neologismo e anzi ha una sua storia, che risale a più di mezzo secolo prima, cioè alla seconda guerra mondiale. L’estensione geografica delle alleanze che tra 1939 e 1945 si combatterono, tanto quella nazifascista quanto quella antifascista, legittimavano pienamente dal punto di vista orizzontale, geografico, la sua qualificazione come “mondiale”. Per quanto riguarda la straordinaria intensità dei suoi combattimenti, dovuti tanto agli obiettivi che si poneva chi aveva scatenato il conflitto quanto alla dimensione nuova degli armamenti con cui era ora possibile combattersi, la guerra deflagrata apertamente dal settembre 1939 fu presto qualificata anche come guerra “totale”. Ma a qualcuno queste due qualifiche non bastarono. A parlare di «global war» si era così già cominciato, per definire quel conflitto mentre esso era in corso, o appena fu finito. Ad esempio, già a metà del 1942, il corrispondente statunitense dall’Europa Edgar Ansel Mowrer, con l’aiuto della geografa Marthe Rajchman, pubblicò un anticipatore Global War. An Atlas of World Strategy. La prefazione, firmata dal segretario per la Marina statunitense, ne parlava come di un «libro ambizioso», lasciando che l’autore descrivesse quella che gli pareva «una rivoluzione nella guerra» dovuta, fra l’altro, al fatto che i nuovi mezzi bellici avevano «ampliato l’area della battaglia all’intero pianeta».47 Ma a rendere la guerra globale non erano solo carri armati, aerei, navi (un “super-armamento”) e potenza industriale: un’altra “trasformazione militare” era inerente allo sviluppo della democrazia: la “guerra psicologica”, o propaganda. Tutta questa “guerra globale” avrebbe potuto essere superata da una “pace globale”, attraverso istituzioni internazionali. Per quanto simili ricerche terminologiche non siano facili né prive di insidie, è possibile documentare che il sintagma di “guerra globale” era già in uso prima che finisse la guerra. Se i cataloghi informatizzati delle biblioteche non ingannano, un filmato di propaganda statunitense già nel 1944 l’aveva usato. Che quella del 1939-45 fosse vista come qualcosa di più di una guerra mondiale (estensione) o totale (intensità) lo presentirono in molti. Fra questi un altro statunitense, l’oggi dimenticato Adrian Van Sinderen, che nel 1946 fece stampare presso la Yale University Press una sua The Story of the Six Years of Global War.48 Van Sinderen (figura eccentrica di ban47. E.A. Mowrer, con M. Rajchman, Global War. An Atlas of World Strategy, New York 1942 (ma anche London 1942). 48. A. Van Sinderen, The Story of the Six Years of Global War, New York 1946.

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chiere statunitense, che avrebbe lasciato la propria collezione di volumi a quella prestigiosa università e cui sarebbe poi stato intitolato un premio per collezionisti librari), stupito della dimensione che la guerra mondiale aveva preso, aveva già nel 1943 e nel 1944 raccolto anno per anno quella che aveva chiamato una chronicle di una world war, la quale pure già gli appariva tremendamente lunga e importante. Ma nel 1945, aggiornando e chiudendo la sua raccolta sino alla sconfitta finale del Giappone, e quindi all’uso della bomba atomica, quel world gli era dovuto sembrare insufficiente e, per rafforzarlo, lo aveva sostituito con global. Dopo la fine del conflitto l’uso della definizione di guerra globale non sparì, come dimostra, qualche anno più tardi, il suo impiego – sempre da parte statunitense – in una storia appunto globale della logistica militare, elemento essenziale per la vittoria delle Nazioni unite sul nazifascismo.49 Ma certo deperì e appassì, lasciando incontrastato il campo alla definizione del conflitto in termini di guerra mondiale e alla sua analisi in termini di guerra totale. Ciò avvenne anche mentre, nell’analisi del conflitto, prevalevano la storia militare più tecnica, la storia politica e diplomatica. Ma fra gli anni Sessanta e Settanta la presa in esame di alcuni suoi aspetti, o l’emergere di nuove atmosfere e nuovi soggetti storici, rese forse insoddisfacente una definizione che poteva essere applicata senza distinzioni anche all’altro, primo, conflitto mondiale, impedendo così che emergessero a sufficienza le novità del secondo. Una maggiore consapevolezza della rilevanza dell’avvento di un’età nucleare e l’avvio di una profonda riflessione su quanto il fattore genocidiario avesse caratterizzato l’intero conflitto con le sue logiche di sterminio (esame e riflessione indotti anche da eventi contemporanei, dalla crisi di Cuba al processo Eichmann) iniziarono a far sentire la necessità di una più radicale definizione. Spingevano nella direzione di una riconsiderazione dell’intensità del conflitto 1939-45 anche gli studi di storia economica e sociale, che testimoniavano la profondità delle modificazioni suscitate dalla guerra. La grande decolonizzazione di quegli anni non era senza conseguenze verso un apprezzamento dell’estensione planetaria, assai più che per il 1914-18, della presa della guerra. E, ovviamente, soffiava nelle vele di una visione globale del conflitto la crescita impetuosa degli studi di world history e di storia globale. Fra questi, conviene forse ricordare che William H. McNeill, al più tardi nei 49. R.M. Leighton, R.W. Coakley, Global Logistics and Strategy, Washington 19551968.

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primi anni Ottanta, proprio a partire da una storia della globalizzazione della guerra che aveva visto il suo culmine nel secondo conflitto mondiale, aveva prefigurato un contesto globale per la gestione della guerra: Per fermare la corsa agli armamenti, sembra necessario un cambiamento a livello politico. Una potenza che godesse di sovranità globale e che volesse, e potesse, imporre un monopolio dell’armamento atomico potrebbe permettersi di disperdere le équipe di ricerca e smantellare tutte le testate nucleari, salvo un piccolo numero simbolico. Nulla di meno radicale, mi sembra, potrebbe essere lontanamente sufficiente. Anche in un mondo del genere, non per questo cesserebbe lo strepito delle armi, finché gli esseri umani si ameranno, si odieranno e avranno paura l’uno dell’altro, e si riuniranno in gruppi la cui coesione e sopravvivenza si esprimono e si sostengono nella rivalità. Ma un impero planetario potrebbe riuscire a limitare la violenza, impedendo agli altri gruppi di dotarsi di armamenti tanto elaborati da minacciare il largo margine di superiorità della potenza sovrana. In un mondo siffatto, quindi, le guerre tornerebbero alle proporzioni usuali nel passato preindustriale. Esplosioni di terrorismo, azioni di guerriglia e banditismo continuerebbero a fornire uno sfogo all’ira e alla frustrazione dell’uomo; ma la guerra organizzata quale l’ha conosciuta il ventesimo secolo scomparirebbe. L’alternativa sembra essere l’improvvisa e totale annichilazione della specie umana. Se e quando ci sarà la transizione da un sistema di Stati a un impero esteso a tutta la terra, è il problema più serio che l’umanità si trova di fronte. La risposta verrà solamente col tempo.50

Altri studiosi avevano intanto messo la guerra al centro della storia globale dello Stato e, negli stessi anni, avevano messo in evidenza il ruolo e la responsabilità degli Stati nel «tentativo di porre il crescente peso dei militari nel mondo di oggi in una prospettiva storica»: Distruggete lo Stato e creerete il Libano; fortificatelo e creerete la Corea. Finché altre forme non sostituiranno lo stato nazionale, non vi sono alternative. La sola reale risposta è distogliere l’immenso potere degli stati nazionali dalla guerra e spostarlo verso la creazione di giustizia sociale, sicurezza personale e democrazia.51 50. W.H. McNeill, Caccia al potere. Tecnologia, armi, realtà sociale dall’anno Mille, Milano 1984 [1982], p. 315. 51. Ch. Tilly, L’ oro e la spada. Capitale, guerre e potere nella formazione degli stati europei, 990-1990, Firenze 1991 [1990], p. 245. Cfr. anche S.E. Finer, La formazione dello Stato e della nazione in Europa e la funzione del “militare”, in La formazione degli stati nazionali nell’Europa occidentale, a cura di Ch. Tilly, Bologna 1984 [1975].

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Con diversità di metodi e di risultati, da più parti si sottolineò insomma la centralità della guerra nell’aver unito il pianeta, nell’averne interconnesso le sorti. Infine, giovò l’avvento di una nuova storia militare, più attenta alla prospettiva war and society e non più solo histoire bataille.52 Per vedere i risultati compiuti di questa reinterpretazione del conflitto, cui non parve più sufficiente una definizione di guerra “solo” mondiale e totale, ci volle del tempo. Ma fra gli anni Ottanta e Novanta un aggiornamento si era prima delineato nel linguaggio degli scienziati della politica e degli strateghi, per il presente,53 e nel frattempo affermato fra gli storici, per il passato. Ad esempio la storia ufficiale tedesca, prodotta da liberi ricercatori in gran parte civili, sia pure operanti all’interno del Militärgeschichtliche Forschungsamt sotto la direzione di Wilhelm Deist, sospinta da una storiografia critica, ammetteva ormai il carattere totale della guerra all’Est e le corresponsabilità della Wehrmacht nei crimini nazisti e definì globale non solo quella nazista ma tutta la guerra.54 E nel 1995 Gerhard Weinberg, storico statunitense di origini tedesche, allievo di quell’Hans Rothfels che aveva collaborato al primo Makers of Modern Strategy, scriveva una monumentale A World at Arms: A Global History of World War II, dove l’interconnessione fra scacchieri anche lontani e fra aspetti diversi del conflitto era alla base dell’interpretazione del conflitto appunto come evento compiutamente globale.55 Cambiava così il giudizio storico su quella guerra e al tempo stesso se ne sottolineava la rilevanza storica, come potente stimolo alla globalizzazione del pianeta. 52. N. Labanca, Sviluppo e cambiamento nella storia militare dalla seconda guerra mondiale ad oggi, in «Revue internationale d’histoire militaire», 91 (2013), pp. 11-81 (disponibile anche come Development and Change in the Writing of Military History from World War Two to the Present, International commission of military history occasional papers, February 2014). 53. W.R. Thompson, On Global War. Historical-Structural Approaches to World Politics, Columbia 1988; J.S. Nye Jr., K. Biedenkopf, M. Shiina, Global Cooperation after the Cold War. A Reassessment of Trilateralism. A Task Force Report to the Trilateral Commission, special consultant B. Wood, New York 1991; P. Rogers, M. Dando, A Violent Peace. Global Security after the Cold War, Brassey’s 1992; A. Toffler, H. Toffler, War and AntiWar. Making Sense of Today’s Global Chaos, London 1995. 54. Das Deutsche Reich und der Zweite Weltkrieg, VI, Der globale Krieg. Die Ausweitung zum Weltkrieg und der Wechsel der Initiative, 1941-1943, a cura di Militargeschichtlichen Forschungsamt, Stuttgart 1990, (disponible anche come Germany and the Second World War, a cura di W. Deist, VI, The Global War. Widening of the Conflict into a World War and the Shift of the Initiative, Oxford-New York 2000). 55. Weinberg, A World at Arms.

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Per la verità, se la raccolta curata da Deist e il volume di Weinberg possono essere considerati due fondamentali mete d’arrivo, a complicare il quadro dell’uso del termine di “guerra globale”, quanto meno da quegli stessi anni Novanta, ci pensò un po’ anche il naturale e generale sviluppo degli studi. Nuovi studiosi riesaminarono conflitti già studiati e cominciarono a vederli nell’ottica di guerre globali, o totali, anche se dispiegatesi a notevole distanza di tempo dal secondo e persino dal primo conflitto mondiale. Fu così che in quegli stessi anni quella di secessione americana fu vista come un’anteprima della guerra totale novecentesca, che le guerre napoleoniche furono giudicate da alcuni studiosi guerre globali del loro tempo,56 così come, da altri, vennero valutate la guerra dei Sette anni57 o la guerra d’indipendenza americana.58 A spiegare questi giudizi storici può essere chiamato il naturale, dall’interno, processo di continua revisione degli studi o anche, dall’esterno, la sempre maggiore diffusione del concetto nel dibattito pubblico, sia pure nel senso politico-attualistico di cui parleremo fra poco. Non c’era più una guerra globale che, teleologicamente, culminava una storia precedente di guerre diverse, bensì sia una varietà di guerre globali dei loro tempi, sia una cangiante prospettiva storiografica che adesso guardava da un’ottica globale a guerre del passato di cui pure la globalità poteva non essere stato il carattere più significativo. Un esempio recente di questo rinnovato atteggiamento è certamente la lettura in termini di storia globale della prima guerra mondiale:59 una lettura che ha portato eccezionali contributi esplicativi proprio nel centenario della Grande guerra, caduto per l’appunto in un tempo di guerre globali. Con buona pazienza dei cultori della cronologia, quindi, ha fatto discutere ma non ha scandalizzato chi oggi ha sostenuto che la prima guerra totale e industriale è stata quella di secessione statunitense o al massimo quella franco-prussiana, che la prima mondiale è stata quella francese-napoleonica, che la prima globale è stata la guerra dei Sette anni. Ma perché? 56. D.A. Bell, The First Total War. Napoleon’s Europe and the Birth of Warfare as We Know It, New York 2007; M. Rapport, The Napoleonic Wars. A Very Short Introduction, Oxford 2013. 57. D. Baugh, The Global Seven Years War, 1754-1763. Britain and France in a Great Power Contest, Harlow-New York 2011. 58. R.E. Dupuy, G. Hammerman, G.P. Hayes, The American Revolution. A Global War, New York 1977. 59. The Cambridge History of the First World War, I, Global war, a cura di J. Winter, Cambridge-New York 2014.

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Il fatto è che, in quegli anni Novanta, accanto e al di là del cambiamento di prospettive da parte degli storici sul 1939-45, e in qualche caso sul XX secolo,60 nasceva una enorme questione d’interesse affatto generale, che coinvolgeva e interrogava non solo le ristrette cerchie degli storici interessati ai conflitti del passato, ma tutte intere le società, i governi, la politica del momento. Insomma, finita la guerra fredda, quale volto stava assumendo la guerra nel mondo attuale? La risposta più comune iniziò a essere: guerra globale. La definizione e l’adozione del concetto, già delineatasi negli anni Novanta, avrebbe assunto nuova e più generale presa negli anni Duemila, dopo l’attacco alle Due torri, l’Afghanistan e l’Iraq. L’interrogativo sollevava questioni colossali, che invero ancora oggi non hanno trovato una risposta stabile, e che certo non possono essere esaurite nei nostri sommari accenni. Quella domanda ne copriva altre: finita la guerra fredda, era finita anche la guerra? o si era trasformata? Le società potevano passare alla riscossione del “dividendo della pace”, dopo le enormi spese militari del mezzo secolo del periodo bipolare? Non si trattava, com’è evidente, di un interrogativo accademico, ché la discussione cui rinviava e che traduceva era tutta politica. Quell’interrogativo e quella discussione si svolgevano peraltro, in quegli anni Novanta, sotto l’influenza dei primi grandi dibattiti generali sulla globalizzazione. Era la prospettiva dell’unificazione del pianeta, adesso sotto le insegne fatte evidenti della vittoria politica dell’Occidente sull’Oriente, a offrire il contesto. Non più solo l’economia finanziaria o la letteratura, ma in quegli anni tutto – dalla religione alla cultura, dagli spostamenti dei popoli alla politica – era visto come globale. Perché non anche la guerra? Ecco che allora – proprio mentre come abbiamo visto gli storici del secondo conflitto mondiale iniziavano a parlare del 1939-45 come di uno scontro globale – militanti, politici, intellettuali, persino militari cominciarono parallelamente a definire quella dei propri tempi utilizzando la stessa qualificazione: guerra globale. Qui il concetto aveva evidentemente altre radici. A livello scientifico, in precedenza avevano accennato alla globalizzazione e alla guerra, accostando i termini, gli scienziati politici alla ricerca di una relazione fra 60. D.R. Brower, The World in the Twentieth Century. The Age of Global War and Revolution, Englewood Cliffs (N.J.) 1988; Ch. Leitz, Nazi Foreign Policy, 1933-1941. The Road to Global War, London-New York 2004.

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conflitti armati e regimi politici internazionali: oltre che, come abbiamo visto, “storici globali”. Ma era soprattutto a livello politico che il termine si era imposto. Militanti contro le guerre, analisti del disordine politico internazionale, cultori di strategia e centri di consulenza strategica dei governi furono i più forti utilizzatori, negli anni Novanta, della nuova categoria di guerra globale. Negli stessi anni, seppur su tutt’altro versante, la ripresa di forza di alcune organizzazioni internazionali multilaterali, sino ad allora sedate o silenziate dalla coltre della guerra fredda e dai rapporti bilaterali diretti fra le due superpotenze, le aveva incoraggiate a darsi obiettivi ambiziosi e dichiarare proprie global wars: come ad esempio l’Oecd, che aveva dichiarato una «global war on poverty».61 Che nel primo decennio postbipolare ci fosse necessità di una riflessione su quali fossero, come aveva detto Norberto Bobbio in altri frangenti, «le vie della guerra e della pace»,62 era evidente a tutti. Con la fine della guerra fredda la guerra non era affatto scomparsa, come pure molti avevano sperato: si era anzi ripresentata in forme nuove e coinvolgenti, e si era fatta calda. I conflitti internazionali dell’Iraq-Kuwait 1991, della Somalia 1992-95, del Rwanda 1994, della ex Jugoslavia 1991-95, del Kossovo 1999 – solo per citarne alcuni – e il delinearsi di un diversificato ricorso all’azione terroristica da una pluralità di gruppi politici a livello internazionale sollecitavano una riflessione in tal senso. Parte di questi conflitti spingevano a riconsiderare le nuove forme storiche assunte dalla guerra, andando oltre l’evidente orrore che esse instillavano (intensità) e la loro dimensione adesso davvero planetaria (estensione). È importante sottolineare che il dibattito era eminentemente politico, con una posizione di rilievo da parte di chi era stato contrario a molte se non a tutte queste guerre. Alcuni intellettuali si incaricarono di distillare questa discussione. Fra questi vanno ricordati i nomi dei Toffler, William Thompson, Colin Gray e soprattutto Mary Kaldor, il cui tempestivo e fortunato volume parve offrire una spiegazione complessiva.63 Ma alla fine non furono i pacifisti a imprimere il proprio marchio di fabbrica al termine di guerra globale. Dopo l’attacco terroristico alle Due 61. Waging the Global War on Poverty. Strategies and Case Studies, a cura di R. Halvorson-Quevedo, H. Schneider, Paris 1995. 62. N. Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, Bologna 1979; Id., Il Terzo assente. Saggi e discorsi sulla pace e la guerra, Torino 1989. 63. M. Kaldor, Le nuove guerre. La violenza organizzata nell’età globale, Roma 1999.

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torri di New York fu l’amministrazione repubblicana di George W. Bush a dichiarare una «global war on terror».64 Fu da qui che l’etichetta di guerra globale conobbe una straordinaria diffusione, sospinta sia dall’emozione suscitata dall’attentato, sia dai dibattiti innescati dalla nuova politica statunitense e dalle sue prime attuazioni: fra cui la guerra in Afghanistan, avviata in quel 2001 e di fatto ancora oggi non terminata. La definizione coniata a Washington conobbe un successo globale. Il concetto fu ripreso ovunque, dai sostenitori e, forse ancor più, dai critici. Pur avendo ben poco a che vedere con l’altro significato, nel frattempo lentamente affinato dagli storici del secondo conflitto mondiale per il passato, essa diventò davvero globale per designare lo stato di cose militari del presente. Un concetto elaborato dagli storici divenne tutt’altra cosa in mano ai politici, di governo come d’opposizione, e ai militari. Eppure, a prenderli letteralmente, ciascuno dei termini della “guerra globale al terrorismo”, o guerra globale per sintesi, era inefficace a descrivere il nuovo fenomeno. Che quella lanciata dagli Usa contro al Qaeda fosse una “guerra”, quanto meno nel classico senso di impegno armato di almeno due autorità statuali, fu immediato oggetto di discussione, sia sotto il profilo dell’effettività, sia sotto quello dell’opportunità e dell’efficacia. Che fosse “globale”, nel senso di coinvolgimento compiuto di tutto il pianeta, era anch’esso oggetto di discussione, visto che i dati sulla diffusione del terrorismo indicavano chiaramente come quella minaccia, pure diffusa e potenzialmente generalizzabile, era in realtà effettuale solo in pugno, pur non piccolo, di paesi. Che infine si potesse esaurire in termini di “terrorismo” l’azione di movimenti politici, a prevalente ma non esclusiva connotazione islamista radicale, fu ed è oggetto di moltissime discussioni. Peraltro a quel tempo, nel 2001, persino chi nel decennio precedente aveva dichiarato, con la fine della guerra fredda, la fine della storia e l’avvento di un’era di disordine internazionale basato sullo scontro delle civiltà e delle culture aveva cambiato idea.65 Insomma, la nave del concetto della guerra globale imbarcava acqua da tutte le parti. 64. Report on United States efforts in the global war on terrorism. Communication from the President of the United States. A report, consistent with the War Powers Resolution and Public Law 107-40 to keep the Congress informed on U.S. efforts in the global war on terrorism, Washington 2002; Al-Qaeda and the global reach of terrorism. Hearing before the Committee on International Relations, House of Representatives, One Hundred Seventh Congress, first session, October 3, 2001, Washington 2001. 65. S.P. Huntington, Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale, Milano 1997 [1996] (e prima Id., The Clash of Civilizations?, in «Foreign Affairs», [1993]).

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Ma non sarebbe stata solo una critica – diciamo – interna e filologica a far dubitare della sostenibilità del concetto. Studi qualificati e osservatori imparziali avevano conteggiato e analizzato la conflittualità internazionale degli anni Novanta, e poi del primo decennio del nuovo secolo, ed avevano osservato che, rispetto alla guerra fredda, le guerre (internazionali, interne, civili ecc.) erano diminuite, non aumentate.66 Analogamente, qualificati centri studi – sia pure sulla base di raccolte di dati fra loro non poco contraddittorie e non sempre del tutto affidabili – avevano dichiarato che la minaccia terroristica internazionale era in calo, sotto alcuni se non tutti i suoi indicatori (numero di organizzazioni, di azioni, di vittime ecc.), privata di quel combustibile dello scontro ideologico della guerra fredda che l’aveva tenuta accesa per mezzo secolo. Insomma, non avevano del tutto ragione i più irenici sostenitori della «pace democratica» o del «dividendo della pace»,67 ma nemmeno – alla prova scientifica dei fatti – avevano basi solide i teorizzatori della guerra globale diffusa e onnipresente. Insomma, come concetto, la “guerra globale al terrorismo”, e più in generale la guerra globale, sembrava proprio una categoria ideologica. A portarla alle sue estreme conseguenze c’era da sconfinare davvero nella guerre fra le civiltà. La discussione era insomma di portata generale, e politica. Che fosse in corso, o che si dovesse fare, una guerra globale, era questione che si intrecciava con altre, non meno generali e fondamentali per l’analisi del tempo presente. Il più grande attore militare e politico del mondo postbipolare, gli Usa, era una potenza storicamente in grado di reggere una gestione unipolare del pianeta? O era invece in declino?68 Inoltre, l’ordine politico internazionale che andava costituendosi poteva essere definito in termini di “impero” o non piuttosto di multipolarismo polarizzato? Se gli Usa fossero stati in declino, relativo o assoluto, e il mondo multipolare, una guerra globale dichiarata a Washington poteva essere percepita come una guerra di una sola parte del mondo stesso. Su tutto ciò com’è evidente regnava, e regna, un aspro dibattito.69 66. Th. Pettersson, P. Wallensteen, Armed Conflicts, 1946–2014, in «Journal of Peace Research», 52/4 (2015), pp. 536–550. 67. B.M. Russett, Controlling the Sword. The Democratic Governance of National Security, Cambridge (Mass.) 1990; Id., Grasping the Democratic Peace. Principles for a Post-Cold War World, Princeton 1993. 68. P. Kennedy, Ascesa e declino delle grandi potenze, Milano 1989 [1988]. 69. Guerre vecchie, guerre nuove. Comprendere i conflitti armati contemporanei, a cura di N. Labanca, Milano 2009.

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Negli stessi anni una discussione, questa volta scientifica, era avviata anche più in generale sulle questioni della guerra e della pace nel corso del Novecento. La fine quasi coincidente della guerra fredda, del secolo e del millennio aveva infatti spinto gli studiosi a riflettere quanto, sulla lunga prospettiva, il Novecento fosse stato davvero il secolo delle guerre. Uno storico “realista” come Niall Ferguson sosteneva che nessun altro secolo era stato luttuoso come la prima metà del Novecento.70 D’altro canto uno scienziato cognitivo, psicologo e divulgatore come Steven Pinker parlava invece, sul lunghissimo periodo, di declino della violenza.71 Altri esperti, contemporaneisti come John Keegan72 o antichisti come Ian Morris,73 obiettavano. D’altro canto da tempo tutta una filiera di studi aveva “contato” le guerre degli ultimi due secoli: dal pionieristico progetto dei Correlates of War,74 d’impianto più politologico, a studiosi o pubblicisti di storia.75 Fra tutti il dibattito era stato, ed è, forte. Costruendo serie di dati diverse, o discutendo quelle presenti, soprattutto dopo la fine della guerra fredda nuove interpretazioni si erano intanto affacciate.76 Tali analisi retrospettive si incontravano, e si sovrapponevano, con le più attuali e contemporanee esigenze di capire se, proprio dopo la fine del bipolarismo, la comunità internazionale stava vivendo un incremento o un decremento della conflittualità: esigenze dall’evidente 70. N. Ferguson, The Pity of War, London 1999; Id., The War of the World. Historyʼs Age of Hatred, London 2006. 71. S. Pinker, Il declino della violenza. Perché quella che stiamo vivendo è probabilmente l’epoca più pacifica della storia, Milano 2013 [2011]. 72. I. Morris, War. What is it Good For? The Role of Conflict in Civilisation, from Primates to Robots, London 2014. 73. J. Keegan, La grande storia della guerra. Dalla preistoria ai giorni nostri, Milano 1996: Id., La guerra e il nostro tempo. Lezioni alla BBC, Milano 2002. 74. M. Small, J.D. Singer, con la collaborazione di R. Bennett, K. Gluski, S. Jones, Resort to Arms. International and Civil Wars, 1816-1980, Beverly Hills (CA) 1982. 75. Su questi aspetti cliometrici, a lungo, avevano imperato M. Clodfelter (di cui cfr. ora Warfare and Armed Conflicts. A Statistical Encyclopedia of Casualty and Other Figures, 1494–2007, Jefferson [N.C.] 20083) e, con il suo sito, l’impreciso M. White (di cui cfr. adesso The Great Big Book of Horrible Things. The Definitive Chronicle of History’s 100 Worst Atrocities, New York 2012). 76. Fra chi di recente ha insistito sulla “decadenza” della guerra cfr. J.S. Goldstein, Winning the War on War. The Decline of Armed Conflict Worldwide, New York 2011; soprattutto Pinker, Il declino della violenza. Ma cfr. anche Human Security Project, Human Security Report 2009/2010. The Causes of Peace and the Shrinking Costs of War, New York 2011; Id., Human Security Report 2013. The Decline in Global Violence. Evidence, Explanation, and Contestation, Vancouver 2013.

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valore politico.77 Di fronte all’interpretazione “democratica” di un calo della conflittualità, non pochi studiosi “realisti” hanno obiettato.78 Altri hanno cercato di contraddire le letture più ottimistiche insidiando il valore scientifico delle basi di dati nel frattempo raccolte.79 Insomma a livello scientifico non c’era, e non c’è, unanimità di consensi attorno a chi vede il Novecento come un “secolo delle guerre” naturalmente sfociato, dopo la fine della guerra fredda, in un’anarchica guerra globale. Ciononostante il concetto di guerra globale ha continuato a dilagare. Soprattutto dopo il 2003 e il discutibile risultato della guerra in Iraq, e di nuovo in questi ultimi anni, segnati dalla difficoltà di stabilizzazione di alcuni regimi e dal dilagare di eclatanti azioni terroristiche di matrice islamista, di guerra globale si è parlato assai. Ne restituiscono una buona immagine alcune pagine di Carlo Galli, miranti a fornire un “rapido e potente schizzo” del presente della guerra globale, visto come quello di un’umanità assediata dall’animalità, di una città circondata dalla campagna, di una civiltà esposta alla natura ostile, di un Bene interno aggredito dal Male esterno, ci sono sdegno e angoscia, rabbia e disprezzo razziale, presa d’atto del fardello che l’Urbe deve sopportare con disincantata convinzione che sia suo dovere fronteggiarlo.

Scrive Galli: L’elemento qualificante della guerra globale è che non ha propriamente né un’origine né un telos; che non vi si può ricercare una contraddizione strate77. Aggiornamenti in M. Reid Sarkees, F. Whelon Wayman, Resort to War 18162007, Washington 2010; N.P. Gleditsch et al., Armed Conflict 1946-2001. A New Data Set, in «Journal of peace research», 39/5 (2002), pp. 615-647; B. Lacina, N.P. Gleditsch, Monitoring Trends in Global Combat. A New Dataset of Battle Deaths, in «European journal of population», 21 (2005), pp. 145–166. 78. Fra quelli di parere nettamente, forse pregiudizialmente, contrario cfr., fra i vari, J.E. Mueller, Retreat from Doomsday. The Obsolescence of Major War, New York 1989; e di recente R. Jervis, Pinker the Prophet, in «National interest», nov.-dic. 2011, pp. 54-64; V. Page Fortna, Has Violence Declined in World Politics? A Discussion of Joshua S. Goldstein’s Winning the war on war: The decline of armed conflict worldwide, in «Perspectives on politics», 11/2 (2013), pp. 566-570; J.S. Levy, W.R. Thompson, The Decline of War? Multiple Trajectories and Diverging Trends, in «International studies review», 15/3 (2013), pp. 411-416. 79. Una recente critica ad esempio è venuta da T.M. Fazal, Dead Wrong? Battle Deaths, Military Medicine, and Exaggerated Reports of War’s Demise, in «International security», 39/1 (2014), pp. 95-125, mentre si annuncia J. Auchter, Paying Attention to Dead Bodies. The Future of Security Studies?, in «Journal of global security studies», 1/1 (2016), pp. 136-150.

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gica, e che al contempo non è nemmeno interpretabile come direttamente ‘determinata’ dalla globalizzazione, come se questa fosse la causa prima di ogni conflitto, che si trasmette a cause seconde che fungono da empirico detonatore. In realtà non c’è una catena di cause: nelle sue varie forme concrete la guerra globale ha genesi sue proprie, le più diverse (da rivendicazioni di minoranze a questioni identitarie che si presentano in forme religiose, alle esigenze di controllo di risorse come l’acqua, il petrolio, le miniere di metalli preziosi), ma dalla globalizzazione politica e economica è “surdeterminata”: è potenzialmente globale ogni conflitto che si accende nello spazio politico globale, perché questo è un disordine durevole che non è fatto per contenere il conflitto, ma per lasciarlo essere, o per produrlo. Nella guerra globale si riproducono in forma militare le caratteristiche della globalizzazione: la guerra globale, anzi, è un modo d’essere della globalizzazione, è la manifestazione del fatto che questa è “contraddizione non resa sistema”. Il che significa che la politica globale contiene la guerra non come strumento utilizzabile, ma come immediata manifestazione delle proprie contraddizioni. Questo nuovo rapporto immediato tra guerra e politica significa che la guerra non è più decisa con un atto sovrano dalle istituzioni politiche, dallo Stato, come avveniva in età moderna, ma che si presenta come un fenomeno ‘naturale’, non più circoscritto dai limiti, dai confini, dagli assi categoriali e spaziali – interno/esterno, pubblico/privato, civile/militare – che l’età moderna aveva forgiato e all’interno dei quali faceva rientrare la normalità della politica e della guerra, le loro regolarità. Oggi, è appunto il rapporto fra regolare e irregolare, fra norma ed eccezione, ad essere sottilmente ma radicalmente modificato, nella guerra globale.80

Il rischio della indistinzione e della generalizzazione insito in una categoria la cui adozione è stata fortemente marcata dalla politica e dall’ideologia è insomma evidente. Fra anni Novanta e anni Duemila, così, da concetto avanzato dai testimoni e poi affinato dagli storici per definire un conflitto specifico (la seconda guerra mondiale) la politica contemporanea si era impadronita della categoria di guerra globale, riconfigurandola e persino sublimandola. Sostenuto o subito dai paesi entrati a far parte delle numerose coalizioni internazionali dei volenterosi passate all’azione per combatterla, così come avversato dalle ampie e diversificate schiere dei suoi oppositori, militanti o moderati, il concetto di guerra globale pare essersi affermato. E non è detto che molto recenti e impegnative affermazioni da parte del presidente, ora in scadenza, Barack Obama circa la fine di molti fra gli impegni militari 80. C. Galli, La guerra globale, Roma-Bari 2002, p. V e p. 55.

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oltremare statunitensi riescano davvero a invertire una situazione di fatto creatasi in un quarto di secolo. Non che mancasse la necessità, allora e oggi, di un nuovo concetto per comprendere come lo scenario della guerra era cambiato dopo la fine della guerra fredda: ma v’è da chiedersi se il concetto della guerra globale, in questa o quella sua accezione, sia davvero il migliore a restituire una realtà dall’estensione quantitativa e dalla intensificazione qualitativa diversa dai conflitti dei decenni precedenti. Ciò che ci pare emerga, in ogni caso, è che nel corso della storia tutti i più importanti concetti definitori della guerra e della sua evoluzione hanno avuto una loro storia, mai sono stati coniati per descrivere la guerra che hanno finito per designare, sempre sono state rielaborazioni di concetti pensati per guerre precedenti o diverse: così come diverse sono state le sue accezioni a seconda che se ne siano serviti storici, studiosi, politici, opinione pubblica in genere. Forse è il destino dell’umanità nella storia, costretta a descrivere con parole e concetti vecchi situazioni sempre nuove, e perciò obbligata a forzarne e modificarne il contenuto. 7. Guerre, Italia e “dettagli” Disegnare alcune tracce di storia dei maggiori concetti che hanno accompagnato l’evoluzione della guerra negli ultimi due secoli non può certo esaurire il problema. Molti passaggi, per ragioni di spazio, sono stati solo abbozzati, confidando nelle conoscenze del lettore italiano. Questo ci ricorda che c’è, da noi, un altro problema nel problema. Ci pare infatti difficile negare che, sia in assoluto sia soprattutto in comparazione con quelle di altri paesi, la storiografia italiana si è in gran parte disinteressata di questioni militari, ha a lungo fatto sfoggio di suprema sufficienza e distrazione su questo fronte, con motivazioni ora culturali ora politiche, e al suo interno pochissimi se ne sono occupati. Fra questi, la pattuglia degli storici militari – degli studiosi cioè che professionalmente si sono dedicati all’esame di queste tematiche – è ristretta.81 Si ricorderà al proposito il noto intervento di Piero Pieri al con81. Storie di guerre ed eserciti. Gli studi italiani di storia militare negli ultimi venticinque anni, a cura di N. Labanca, Milano 2011.

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vegno di Perugia degli storici italiani nel 1967, il quale disse che, a sua conoscenza, gli storici militari italiani erano… tre.82 Quella pattuglia in una certa fase è cresciuta. Ma il numero non è ampio come in altri paesi. È non è questione di soli contemporaneisti, se di un’analoga disattenzione si sono lamentati, nella generazione di storici successiva, con parole diverse ma convergenti, antichisti come Giovanni Brizzi, medievisti come Franco Cardini e Aldo Settia, modernisti come Piero Del Negro, e, ovviamente, fra noi, contemporaneisti come Giorgio Rochat.83 È vero che, negli ultimi due decenni, anche in Italia si è percepito un benefico convergere di interessi di molti storici verso (diciamo in generale) la guerra. Ci sono stati così studi su alcuni momenti della storia d’Italia che con la guerra si sono incrociati, studi di grande valore: ad esempio sull’età della rivoluzione e delle repubbliche giacobine, sul lungo 1848, sul peso della guerra nelle identità di genere e nel nazionalismo italiano ed europeo, sulle guerre coloniali, ovviamente sulla Grande guerra e sulle guerre del fascismo, e per certi versi anche sulla guerra fredda o sul postbipolarismo (periodi in verità ancora troppo spesso trascurati o ignorati). Anche altri studi sono stati di grande rilevanza ed hanno riflesso una straordinaria e complessa evoluzione storiografica: si pensa qui agli studi sulla Resistenza italiana, ad esempio.84 Significativi infine, anche se più recenti, sono stati anche altri filoni di studi che storiche e storici italiani hanno iniziato a sondare cogliendo risultati di assoluto rilievo internazionale. Sono – solo per fare alcuni esempi – gli studi, originali ed utilissimi, dedicati al carattere seduttivo della guerra e alla sua rilevanza anche per la costruzione di un’identità di genere, alle mentalità dei combattenti in guerra, agli stupri di guerra, alle guerre ai civili (nella seconda ma ora anche nella prima guerra mondiale), al ruolo delle religioni e delle Chiese nelle guerre, alle propagande di guerra, alla stentata storia dei diritti umani, alle terribili storie patite dalle displaced persons, all’intricata relazione fra guerre e migrazioni di massa, nonché più in generale alle ineguaglianze a livello mondiale causate non di rado dall’esplodere di sanguinosi conflitti, così come alle storie del pacifismo. 82. P. Pieri, La storia militare, in La storiografia italiana negli ultimi vent’anni, Milano 1970, pp. 1351-1357. 83. La storiografia militare italiana negli ultimi venti anni, Milano 1985; Storie di guerre ed eserciti. 84. Dizionario della Resistenza, a cura di E. Collotti, R. Sandri, F. Sessi, 2 voll., Torino 2000-2001.

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Tutti questi studi confermano il diffondersi dei temi e dei dibattiti sopra ricordati al tempo della guerra globale. Sono studi che segnalano anche l’evoluzione del sentire delle storiche e degli storici italiani, della loro contemporanea mentalità. (Anche se questo non è, talora, senza riflesso sull’impostazione stessa delle loro ricerche: osserviamo che, per fare un esempio recente, a quasi settant’anni dalla fine del secondo conflitto mondiale e dopo quasi mezzo secolo di guerra fredda, l’orrore odierno contro la guerra ha portato a definire, nello studio dei crimini di guerra del 1943-45 contro gli italiani, “strage” o “massacro” l’uccisione di cinque, o addirittura tre civili.85 Non è questa forse la prova che talora il nostro sentimento attuale condiziona lo stesso vocabolario, e quindi i giudizi storici, che utilizziamo?) Il moltiplicarsi di curiosità e attenzioni ha così moltiplicato gli studi e le conoscenze. Lo stesso convegno da cui queste pagine prendono le mosse non sarebbe stato pensabile vent’anni fa. Né sarebbe stato pensabile mezzo secolo fa o anche un venticinquennio fa lo stesso depliant che promuoveva quel convegno di studi da cui il presente volume prende le mosse (la stessa immagine ne adorna oggi la copertina): volendo parlare della prima guerra mondiale, esso ritraeva un highlander e un dogra (a rischio di essenzializzazione, popolazioni fra Kasmir e Punjab, in gran parte hindu ma anche musulmani) colti assieme, a Fauquissart, oggi Laventie, comune del dipartimento di Pas-de-Calais, regione Nord-Pas-de-Calais, della Fiandra francese. Non sarebbe stato pensabile perché, invece di concentrarsi sull’onore nazionale o patriottardo, ritraeva un angolo davvero “globale” dei combattenti della Grande guerra. Qualche anno fa un simile riferimento sarebbe stato fatto solo dagli studiosi di storia coloniale o da qualche storico militare specializzato in forze armate estere. Oggi è stato fatto patrimonio comune dell’associazione che mira a raccogliere tutti gli storici contemporaneisti italiani. Non v’è dubbio che qualcosa sia cambiato. Non sempre però, dietro tutti questi nuovi interessi, vi è costanza di studi. E guardando alle bibliografie, settoriali, nazionali o internazionali, si osserva come gli storici contemporaneisti italiani siano stati piuttosto assenti – tranne qualche isolato “combattente” di quella piccola “pattuglia” – dal dibattito internazionale fra gli storici della guerra e sulla guerra. Ma purtroppo, o per fortuna, per vincere l’indeterminatezza, l’imprecisione, la professionalità è necessaria. E per capire la guerra è necessario conoscerne 85. http://www.straginazifasciste.it/?page_id=9, e http://www.straginazifasciste.it/?page_ id=316.

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bene anche quelli che ad alcuni appaiono i suoi dettagli. Già in altri sedi è stato osservato che, anche al tempo della guerra globale, senza conoscerne qualche aspetto, è difficile – da storici – intenderne il cambiamento. Non dovrebbe allora sembrare superfluo, o anzi dovrebbe essere considerato necessario, sapere86 che nel Cinquecento il fuciliere sparava pallottole di calibro attorno al mezzo pollice, con armi che nel Seicento, con la cartuccia di carta permettevano una cadenza di tiro di due colpi al minuto (invece di un solo colpo ogni due o tre minuti). Ma i fucili a canna liscia erano poco efficaci oltre i 20 metri. Agli inizi del Settecento i migliori arrivavano a 70 metri, anche se nelle guerre napoleoniche colpivano in genere a meno di 40 metri. Intanto nel XVIII secolo la bacchetta in acciaio aveva accresciuto la cadenza di tiro. In ogni caso solo con la canna rigata si poté arrivare a 160 metri. Una rivoluzione fu la moderna cartuccia, contenente sia la polvere sia il proiettile, e poi al tempo della guerra franco-prussiana il fucile a retrocarica e in seguito la polvere infume. A quel punto un fucile era preciso fino a 600 metri. La fanteria conobbe però nella prima guerra mondiale una nuova arma: una mitragliatrice che sparasse 500 colpi al minuto era normale. Miglioramenti non mancarono nemmeno alle armi individuali: solo venticinque anni più tardi, nella seconda guerra mondiale, un M1 Garand, semiautomatico, faceva 40-50 colpi al minuto, preciso a mezzo chilometro. Nella guerra fredda, un M-16/AR-15, avrebbe sparato sempre a 400-600 metri, ma adesso anche 60 colpi al minuto nella sua versione semi-automatica, e 800 in quella automatica. Infine oggi il fucile d’assalto M-4, utilizzato in Iraq e Afghanistan, arriva a 500-600 metri ma con 700-950 colpi al minuto, con proiettili ormai di due decimi di pollice (per le cartucce Nato 5,56 × 45 mm). Che si voglia affermare o criticare il cambiamento della natura della conflittualità odierna, deve essere considerato necessario sapere che l’esperienza può essere a volte ingannevole delle reali dimensioni di una guerra, e di una battaglia, che sola la ricerca storico-militare può tentare di precisare. L’Austerlitz di cui aveva scritto Tolstoj (2 febbraio 1805) aveva visto in campo 73.000 francesi contro 86.000 austro russi, che riportarono rispettivamente 1.300 e 11.600 morti. Difficile invece dire quanti francesi 86. I dati che seguono, come si può facilmente comprendere, sono ripresi da molte e diverse letture. Se si dovesse indicare un’opera, per tutte, fra quelle di reference, cfr. The Oxford Companion to Military History, a cura di R. Holmes, consultant editor H. Strachan, associate editors Ch. Bellamy, H. Bicheno, Oxford 2001.

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e quanti tedeschi avessero combattuto a Verdun: basterà dire che 66 delle 96 divisioni francesi vi erano passate, e 42 delle tedesche, lasciando sul campo invece forse 280.000 tedeschi e 310.000 francesi, nonostante (o a causa di) 22 e 15 ml di colpi di artiglieria, fra febbraio e agosto 1916. Le battaglie della seconda guerra mondiale non erano state meno cruente: in quella notissima di Stalingrado (agosto 1942-febbraio 1943) compresi i prigionieri e i morti, le vittime sovietiche erano state almeno 490.000 (ma v’è chi ha parlato di 1.100.000) e quelle tedesche 150.000. Ma anche quella meno nota e pure non meno decisiva di Kursk (luglio 1943), peraltro una moderna battaglia di carri, vide 180.000 morti su 1.900.000 impegnati, e 70.000 tedeschi su 770.000. Le dimensioni della morte nelle campagne delle coalizioni internazionali del dopo guerra fredda hanno altre misure: l’intera campagna per l’Iraq (dal 2003 ad oggi) avrebbe fatto 120-140.000 morti nella popolazione e forse 50.000 fra i combattenti iraqeni prima e i terroristi poi, mentre la Coalizione avrebbe riportato circa 4.800 caduti militari (33 italiani) e 468 contractors militarizzati. Un caso esemplare del carattere asimmetrico del conflitto può essere letto in una singola battaglia, come quella di Falluja del 2004: nell’aprile i 2.200 militari della Coalizione contro i forse 3.600 “insorgenti” avevano avuto rispettivamente 27 e 184 morti, e circa 600 civili; nel novembre-dicembre, con sempre 13.000 e forse 3.700-4.000, v’erano stati 107 e 1.200-1.500 morti, con 800 civili. In Afghanistan (2001-2015) ci sono stati 3.417 morti, e forse 1.100 contractors, dalla parte della Coalizione (48/53 italiani) che ha oggi quasi 90.000 uomini in campo, con formalmente 380.000 delle forse nazionali di sicurezza afghane, che hanno però subito più di 10.000 caduti, contro forse 25.000-40.000 terroristi in armi. 20-25.000 i caduti civili afghani. Armi e morti non esauriscono una guerra. Ad esempio la logistica, troppo spesso trascurata, ne è parte costituente.87 E allora deve essere considerato necessario, per uno studioso che voglia discettare di guerra, sapere che ogni soldato di un esercito non meccanizzato della seconda guerra mondiale aveva bisogno di circa 6-12 kg di rifornimenti al giorno (il che equivale, per un medio corpo di spedizione di 100.000 uomini, circa 1.000 tonnellate al giorno da movimentare). Molto dipendeva dalle tradizioni e dai teatri operativi. Per un esercito mediamente meccanizzato ma spartano, come quello tedesco, si calcolavano 12 kg quotidiani di rifornimenti; quello statunitense 87. Anche qui, per indicare un testo fra i molti, cfr. ancora M. van Creveld, Supplying War. Logistic from Wallenstein to Patton, Cambridge 1977.

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ne prevedeva invece quasi il doppio. Pochi anni fa si parlava solo per cibo di quasi 2,5 kg di alimenti e 8 litri d’acqua al giorno per soldato. Ma il cibo era una parte secondaria del peso della logistica. Nella seconda guerra mondiale il 40% del peso era dato dalle munizioni, un po’ meno dai combustibili, poi c’erano in proporzioni ugnali le parti di ricambio e appunto il cibo. Oggi, in reparti completamente meccanizzati, il combustibile pesa per il 60%, le munizioni per il 20% e il resto sono ancora parti di ricambio e cibo. Ovviamente, ancora una volta, si tratta di medie assai orientative. Alla fine della guerra fredda un soldato aveva un peso logistico quotidiano fra 40 e 200 kg quotidiani, a seconda dei teatri d’operazione, un marinaio di 250 kg e un aviatore persino di 400 kg al giorno. È facilmente intuibile la crescente complicazione delle guerre dal punto di vista della logistica: la prima battaglia da vincere è nei rifornimenti, ben prima di incontrare il nemico. Si tenga inoltre conto del fatto che, con questi ordini di grandezza, è la logistica militare il primo avversario di se stessa: spedire per 100 km una tonnellata significa consumare più di 5 kg di combustibile, per camion su vie di terra 10, per aereo 20-50, per elicottero 100. Un moderno corpo di spedizione di 250.000 uomini ha bisogno di 2,5 ml tonn. Il corpo statunitense di mezzo milione di uomini operante in Iraq nel 1991 aveva rifornimenti per 7 ml tonn. Studiare i concetti è importante. Ma quanti storici italiani potrebbero confrontarsi con competenza attorno a “dettagli” come quelli sopra riportati? Se mai c’è stato, ormai è finito il tempo in cui gli storici militari potevano arrogarsi il monopolio degli studi attorno alle guerre. Ma ciò comporta che tutti coloro che vogliano studiare tali temi conoscano tanto le categorie e i concetti elaborati per pensare la guerra quanto questi (apparenti) dettagli. È a tutti evidente che la storia delle guerre non è fatta solo di dettagli relativi agli armamenti, ai caduti o alla logistica. La guerra era, è e sarà sempre legata alla politica. Un esperto, il generale Clausewitz, lo sapeva bene e, com’è noto, aveva insistito sul fatto che la guerra non è che una parte del lavoro politico, e non è perciò affatto una cosa a sé stante. Nessuno ignora certo che la guerra deriva dalle relazioni politiche fra i governi e i popoli; ma ordinariamente si pensa che con essa venga a cessare il lavoro politico, e che subentri uno stato di cose del tutto diverso, regolato soltanto da proprie leggi. Affermiamo invece che la guerra non è se non la continuazione del lavoro politico, al quale si frammischiano altri mezzi. Diciamo: vi si frammischiano altri mezzi, per affermare in pari tempo che il

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lavoro politico non cessa per effetto della guerra, non si trasforma in una cosa interamente diversa, ma continua a svolgersi nella sua essenza, qualunque sia la forma dei mezzi di cui si vale; e che le linee generali, secondo le quali si svolgono gli avvenimenti bellici ed alle quali essi sono legati, non sono che i fili principali della politica, penetranti attraverso l’intreccio della guerra, e svolgentisi di continuo fino alla pace. D’altronde, come potrebbero le cose concepirsi altrimenti? L’interruzione delle note diplomatiche fa mai cessare i rapporti politici fra le varie nazioni e i vari governi? La guerra è forse altra cosa che una specie di scrittura o di linguaggio nuovo per esprimere il pensiero politico? Questa lingua ha senza dubbio la propria grammatica, ma non una logica propria. In conseguenza, la guerra non può mai essere separata dal lavoro politico; e se, eventualmente, si vuol fare astrazione da esso nelle ponderazioni, tutti i fili dei rapporti vengono in certo qual modo rotti e ne esce una cosa priva di senso e di scopo.88

Ma ciò non vuol dire che lo storico politico, o sociale, o culturale, possa disinvoltamente discettare di guerre, globali o meno, senza aver prima studiato e capito i suoi “dettagli”. Certo, non è impresa facile. Ma è necessaria. Non è detto che debbano sussistere settorialismi, il lavoro di équipe e multidisciplinare è auspicabile, ma competenze e professionalità sono necessarie, in particolare attorno a questioni così complesse. Per questo forse non è allora fuor di ruolo concludere ricordando, ancora una volta, un altro passo di Clausewitz. La guerra non è facile, e la comprensione della guerra non è facile, egli si crucciava: Finché non si conosca la guerra per esperienza, non si vede in che cosa consistano le difficoltà di cui sempre si parla ed in cosa possano servire le straordinarie facoltà intellettuali ed il genio che si esigono dal capo militare. Tutto sembra così semplice. Le conoscenze necessarie così poco profonde, le combinazioni così insignificanti, che quando le si paragona al più semplice problema di matematica superiore questo si pone ben altrimenti, rivestendo una certa scientifica dignità [...]. ma quando si è veduta la guerra, tutto si spiega: e tuttavia è difficile descrivere che cosa determini questo cambiamento e denominare questo fattore così impalpabile ma la cui azione si manifesta ovunque. Tutto è molto semplice, in guerra: ma ciò che è semplicissimo non è facile. Le difficoltà si accumulano e producono nel loro complesso un attrito, che non ci si può raffigurare esattamente senza aver veduto la guerra […] il rendimento

88. Von Clausewitz, Della guerra, p. 86.

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si riduce, in guerra, sotto l’influenza di piccole cause innumerevoli che è impossibile apprezzare a tavolino.89

Sarebbe positivo se il centenario del primo conflitto mondiale, qui in Italia, fosse stato l’occasione per far convergere più numerose energie intellettuali attorno al tema: non solo attorno alla sola Grande guerra ma più in generale – da storici – alle guerre. Sarebbe positivo che, parlando di guerre, si costruisse un alfabeto comune di conoscenze e di concetti fra i cultori degli studi storico-militari, la disciplina che più sistematicamente le ha studiate, e che delle guerre hanno continuato ad occuparsi ad un livello di specializzazione non conosciuto dalla comunità degli storici, e tutti gli altri studiosi. Sarebbe positivo: ma, al tempo delle guerre globali, la prudenza è d’obbligo.

89. Ibidem, p. 811.

I Le guerre tra Ottocento e Novecento

carmine pinto Una prima guerra globale. Impero e nazioni tra Atlantico e Mediterraneo (1806-1914)

1. Guerra e rivoluzione La guerra del 1792-1815 fu il primo conflitto globale della storia contemporanea.1 Si intrecciò con le grandi ondate rivoluzionarie nordamericana (1776), francese (1789) e ispano-americana (1810), determinando la formazione di processi ideologici e istituzioni nazionali radicalmente nuovi, oltre a portare eserciti, idee e uomini da Mosca alla Terra del fuoco, fino alle coste dell’Asia e dell’Africa. Guerra e rivoluzione modificarono anche gli assetti geopolitici mondiali. Il mondo borbonico fu la principale vittima di questa intensa e turbolenta fase. Aveva raggiunto una dimensione imperiale dopo le guerre di Luigi XIV (Successione spagnola, 170114), era stato riformato da Carlo III, prima nella sua appendice napoletana (1735-59) poi nell’area imperiale ispanica e atlantica (1759-88). Alla metà del Settecento era all’apice del suo potere. La guerra dei Sette anni, il primo conflitto globale delle potenze europee, determinò invece un nuovo ciclo, oltre che un netto vantaggio inglese, sulla Francia, nella lotta per la supremazia atlantica. La Spagna intervenne a fianco della casa madre con risultati disastrosi (1762).2 Il conflitto non determinò solo l’insuccesso delle monarchie borboniche: fu un grande moltiplicatore di eventi, per le sue conseguenze sugli imperi atlantici e sulle metropoli europee.3 Rese evi1. D.A. Bell, The First Total War. Napoleon’s Europe and The Birth of Warfare as We Know It, New York 2007. 2. F. Anderson, Crucible of War. The Seven Years’ War and The Fate of Empire in British North America, 1754-1766, London 2000. 3. J. Elliott, Imperi dell’Atlantico. America Britannica e America spagnola, 14921830, Torino 2010.

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denti le loro debolezze, stimolò politiche di riforma e dibattiti intellettuali. Nell’impero borbonico queste misure suscitarono profondi cambiamenti: furono messi in campo una radicale centralizzazione fiscale e amministrativa e un tentativo di modernizzazione politico-ideologico, forieri però di profonde resistenze da parte dei settori politici, sociali, territoriali della monarchia composita.4 Gli Stati borbonici di Carlo III e dei suoi eredi sopravvissero alla crisi degli anni Settanta-Ottanta (che colpì prima l’impero inglese e poi la monarchia francese), evitarono fratture radicali in America (nonostante alcune rivolte locali) e mantennero con mano ferma il processo di centralizzazione a Madrid e a Napoli. Non poterono evitare però l’ondata provocata dalla guerra di indipendenza nordamericana e dalle conseguenze politiche, intellettuali e sociali del secolo illuminista. Quando la Francia, culla del mondo borbonico, fu travolta e diventò il principale terreno di sperimentazione di modelli alternativi all’Antico regime, rivoluzionari e imperiali, la scossa traumatizzò le monarchie da lei promosse. La dinastia originaria non sopravvisse alla Restaurazione (1830) ma la Francia repubblicana, napoleonica e orleanista rinnovò la sua vocazione di grande potenza. I regni mediterranei (Napoli e Madrid) e i territori americani (dal Messico all’Argentina) subirono una radicale crisi di legittimità che non ebbe esempi simili in Europa, determinando l’implosione di istituzioni e tradizioni secolari (1794-1810) e poi la fine dell’antico spazio imperiale (1810-25), spostando definitivamente l’equilibrio geopolitico nel Mediterraneo e nell’Atlantico a vantaggio di altre potenze europee e della nascente democrazia statunitense. La guerra e la rivoluzione non si limitarono a sconvolgere il mondo borbonico, ma mobilitarono forze che cercarono di offrire risposte e soluzioni a un crollo rovinoso, inventando un corposo numero di Statinazione.5 Le antiche fratture furono moltiplicate, in tre decadi di crisi, dalla guerra globale e dall’esplosione di una serie di conflitti civili. Finito lo scontro per il potere mondiale (1815) i contrasti sui progetti nazionali continuarono fino alla seconda metà del XIX secolo (e oltre) caratterizzando i processi di formazione (o di rinnovamento) di questi stati. Il risultato fu il 4. Reform and Insurrection in Bourbon New Granada and Peru, a cura di J.R. Fisher, A.J. Kuete, A. McFarlane, Baton Rouge-London 1990; S.J. Stein, B.H. Stein, Apogee of Empire. Spain and New Spain in the Age of Charles III, 1759-1789, Baltimore 2003. 5. Crolli borbonici, a cura di C. Pinto, in «Meridiana», 81 (2014), pp. 1-188.

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consolidamento o la formazione delle nuove nazioni in America e nell’Europa borbonica. Lo studio della guerra consente pertanto di comprendere la relazione tra la fine del sistema imperiale e la formazione della prima ondata di Stati-nazione della storia, passando da una prospettiva interna alle storie nazionali a uno schema comparativo generale. 2. La prima guerra globale: crisi imperiale e rivoluzioni nazionali La rivoluzione e la guerra travolsero la monarchia in Francia. Le corti di Madrid e Napoli restarono paralizzate, poi reagirono maldestramente, partecipando con poca convinzione e scarsi risultati alla guerra della Prima Coalizione (1793-98), sul fronte dei Pirenei (gli spagnoli) e nell’assedio di Tolone (i napoletani), oltre che in modeste campagne locali. Il decennio si chiuse con un quadro desolante. La Spagna uscì dal conflitto ingloriosamente con la Seconda pace di Basilea (1795), dopo aver abbracciato la crociata contro la rivoluzione. La guerra servì soprattutto a evidenziare la fragilità dello Stato e delle sue istituzioni. Carlo IV si mostrò debole e indeciso, prigioniero delle vicende della corte, mentre le forze armate e le istituzioni non si dimostrarono all’altezza della mobilitazione bellica. Allo stesso tempo, la guerra fece emergere un nuovo patriottismo monarchico cattolico e antifrancese e pose le condizioni per una sua rinascita nel decennio successivo.6 Al contrario, il regno napoletano fu travolto dalle conseguenze dell’offensiva napoleonica in Italia, continuata con la guerra della Seconda Coalizione (1799-1802). La disastrosa politica di Ferdinando IV e l’impreparazione militare portarono alla rapida sconfitta, all’invasione e alla costituzione di una repubblica rivoluzionaria e filo-francese (1799). Il Napoletano conobbe una sanguinosa guerra civile, forse la più violenta della storia italiana (almeno fino alla seconda guerra mondiale). Negli anni del Consolato, e con la formazione dell’Impero, le monarchie borboniche si ridussero a Stati a sovranità limitata e tornarono, almeno in parte, nell’area d’influenza francese. Ferdinando IV subì l’occupazione delle Puglie da parte di un corpo di spedizione napoleonico e dovette concedere l’amnistia per i suoi nemici politici, rimettendo in circolazione i 6. P. Rújula López, Guerre controrivoluzionarie in Spagna: 1793-1840. Dal conflitto internazionale alla guerra civile, in «Meridiana», 81 (2014), pp. 45-65.

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superstiti del 1799. Carlo IV accettò un’alleanza subordinata e mortificante con l’imperatore dei francesi, anche se in continuità con l’antica sfida atlantica tra l’impero di Carlo III (e dei suoi predecessori) e gli storici nemici inglesi. Tra il 1805 e il 1810 l’espansione del Grande Impero coincise con il radicale declino delle monarchie mediterranee e causò la loro definitiva crisi di legittimità. I due figli del re riformatore furono costretti a lasciare il trono per decisione di Napoleone (1806 a Napoli, 1808 a Madrid). La politica di Ferdinando IV, durante la guerra della Terza Coalizione, determinò il crollo del regno, la dissoluzione dell’esercito e la fuga del re. Dopo Austerlitz a Napoli si registrò un cambio di regime radicale, con l’imposizione di un re napoleonide (Giuseppe Bonaparte e poi Gioacchino Murat) e l’inizio del Decennio francese, la fase di più intensa e drammatica modernizzazione dello Stato napoletano. Il re Borbone, dalla Sicilia, utilizzò il patrimonio politico e ideologico del 1799 per scatenare una resistenza che, per quanto intermittente, mantenne buona parte delle province in uno stato di perenne conflitto civile. Ancora più sconfortante fu la crisi spagnola. Gelosie personali, divergenze politiche e aspirazioni di potere frantumarono il governo, la corte e la stessa famiglia reale. Napoleone utilizzò questa situazione per portare definitivamente la penisola nel progetto imperiale europeo e rinnovare a suo modo la politica di Luigi XIV. Nel 1808 ottenne le abdicazioni di Bayonne dei due Borbone (padre e figlio, Carlo IV e Ferdinando VII), impose il fratello Giuseppe sul trono di Madrid e avviò anche in Spagna una politica laica e modernizzante di tipo imperiale-rivoluzionario. Anche in questo caso, ma in proporzioni largamente maggiori che a Napoli, la sua politica fu contrastata dall’autoconvocazione di organismi locali e da una sempre maggiore resistenza anti francese. A differenza degli anni Novanta la crisi non si limitò al Mediterraneo, ma travolse tutto il sistema borbonico. Nell’America spagnola, con la formazione delle giunte autoctone, per la prima volta il complesso e plurisecolare sistema di governo imperiale, scosso dalle riforme di Carlo III, si trovò a elaborare processi decisionali in forma del tutto autonoma dalla metropoli e dal governo reale. Il mondo ispano-americano conobbe una crisi molto diversa da quella delle colonie britanniche di quarant’anni prima, perché fu determinata dal vuoto dell’autorità tradizionale, non dallo scontro con essa. Due anni dopo questo precario equilibrio iniziò a spezzarsi. In molte città e territori americani si determinò un confronto tra i realisti più

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fedeli e chi iniziò a mostrarsi propenso all’autonomia, provocando un progressivo ricorso alla violenza.7 Alla fine del 1810 la grande offensiva napoleonica, sovrapponendosi alle fratture politiche, ideologiche e sociali precedenti, aveva provocato il crollo del potere tradizionale, concentrato nella persona del re, a Madrid, a Napoli e in America. Si trattò di un caso unico nell’Europa della guerra globale, perché il cambio di regime non fu comparabile alle occupazioni militari di Vienna, Berlino o Mosca. In questi sistemi monarchici, e imperiali, non fu messa in discussione la legittimità delle dinastie regnanti, se non con semplici e condivisi cambi nella struttura di potere (come in Svezia), non furono realizzate trasformazioni istituzionali, sociali, che invece avvennero in Italia, Spagna e nei territori confinanti con la Francia (Piemonte, Belgio e Olanda).8 Nel mondo borbonico la crisi di legittimità del sistema monarchico-imperiale si accompagnò alla rovina di uno dei più importanti poteri dell’età moderna, improntato, almeno dall’epoca di Carlo V, su una linea di espansione geopolitica e ideologica. La giornata di Trafalgar, nell’ottobre del 1805, con la distruzione della flotta combinata franco-spagnola, rappresentò la fine del duello che dal XVII secolo le potenze europee avevano disputato per la supremazia nell’Atlantico (rendendo tra l’altro impossibile grandi spedizioni navali per l’eventuale riconquista dell’America spagnola). L’invasione napoleonica creò le condizioni per una intensa mobilitazione delle società peninsulari ed americane del vecchio impero. Se questo fenomeno contribuì alla definizione di nuove identità politiche, allo stesso tempo cambiò completamente la prospettiva degli equilibri imperiali. Il XIX secolo registrò l’inizio impetuoso di un divario incolmabile tra i sistemi imperiali europei e quelli asiatici che sarebbe durato fino al XX secolo inoltrato.9 A partire dagli anni Quaranta la 7. J.C. Chasteen, Americanos. Latin Americas struggle for independence, New York 2008; 1810. Antecedents, desarrollo y consecuencias, a cura di M. Jaramillo, C.J. Reyes, Bogotá 2010. 8. R. Cobb, Reactions to the French Revolution, London-New York 1972; J. Godechot, The counter-revolution: doctrine and action, 1789-1804, New York 1971; J.-C. Martin, I bianchi e i blu. Realtà e mito della Vandea nella Francia rivoluzionaria, Milano 1989; R. Schnur, Rivoluzione e guerra civile, Milano 1986; D.M.G. Sutherland, France 1789-1815: Revolution and Counterrevolution, New York 1986. 9. J. Black, War and the World. Military Power and the Fate of Continents 1425-2000, New Haven 1998; D. Armitage, Three concepts of Atlantic history, in The british atlantic world, 1500-1800, a cura di D. Armitage, M.J. Braddick, Palgrave Macmillan 2002; J. Bur-

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vecchia Cina imperiale dovette progressivamente incassare una sconfitta dopo l’altra, dalle guerre dell’oppio fino alla umiliante occupazione della capitale durante la guerra dei boxer, all’inizio del nuovo secolo. Invece nell’Atlantico borbonico la crisi del centro imperiale dopo due secoli di una storia fortemente centralizzato e generalmente coesa, lasciò un ampio spazio vuoto, sia per le tendenze ad un frammentazione dei gruppi politici regionali, che per la contestuale azione imperiale napoleonica, inglese e poi alla fine del secolo della potenza statunitense. Gli inglesi occuparono rapidamente lo spazio imperiale, iniziando una politica che nel Mediterraneo e nell’Atlantico non avrebbe avuto rivali almeno fino all’epoca di Napoleone III (e oltre). In Spagna assunsero progressivamente la direzione delle principali operazioni militari, anche dopo la temporanea fuga del primo corpo di spedizione e il riflusso della resistenza determinato dall’intervento diretto dell’Imperatore (1808). Il duca di Wellington diventò il vero regista della sconfitta francese in Spagna. In Sicilia William Bentinck rappresentò anche formalmente il protettorato inglese su Ferdinando IV, esercitato sia con la direzione delle azioni belliche che con funzioni politiche (ministro degli esteri del governo siciliano).10 In entrambi i casi furono gli inglesi a imporre (Palermo) o a sostenere (Cadice) le soluzioni costituzionali che modificarono in parte l’impostazione ideologica della lotta anti-francese. Nell’America spagnola, militari e diplomatici britannici iniziarono con prudenza una politica di penetrazione che sarebbe diventata imponente dopo la sconfitta di Napoleone. Londra diventò immediatamente il crocevia delle reti indipendentiste, massoni, liberali, rivoluzionarie che lavoravano per l’indipendenza, accogliendo San Martin, Bolivar, Miranda, Bello e molti altri.11 Il collasso imperiale del 1821-23 aprì lo spazio anche alla crescente influenza della giovane potenza nordamericana. L’ammutinamento delle truppe spagnole a Cadice impedì di completare una campagna di riconquista che, fino alla fine della decade precedente, era stata quasi sempre vittoriosa. La rivoluzione e la costituzione determinarono il progressivo collasso delle roccaforti imperiali in Messico e nel sud del Perù, oltre che la bank, F. Cooper, Empire in World History. Power and the Politics of Difference, Princeton, 2010. 10. J. Rosselli, Lord William Bentinck: the making of a Liberal Imperialist, 17741839, London 1974. 11. L. Cuervo Marquez, Independencia de las Colonias Hispano-Americanas. Participación de la Gran Bretaña y los Estados Unidos. Legión Británica, 2 voll., Bogotá 1938.

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guerra civile nel centro metropolitano. Questo diede lo spazio a John Quincy Adams di elaborare la dottrina esposta dal presidente pronunciata da James Monroe nel messaggio al Congresso il 2 dicembre 1823. Gli Stati Uniti annunciarono che non avrebbero tollerato interventi nel continente americano, assestando un colpo mortale alle già poche e disperate speranze dei realisti creoli e della monarchia borbonica.12 Da quel momento, l’affermazione della potenza nordamericana contribuì ad impedire la creazione di un erede della monarchia imperiale, prima sostenendo l’indipendenza del Texas (1836), poi dimezzando il territorio messicano (guerra del 1846-48), infine isolando l’esperimento imperiale asburgico (1863-1867) a favore dei liberali di Juarez. Gli Usa continuarono questa politica determinando anche la definitiva espulsione dell’ultima eredità imperiale con la guerra di Cuba (1898) che fu solo la conclusione della lunga crisi iniziata quasi un secolo prima. In tutto il mondo borbonico, lo scontro per la titolarità del potere diventò il fulcro della lotta politica, mentre prussiani, austriaci, inglesi e russi mantennero, anche se con percorsi disomogenei (e in qualche caso fugaci alleanze con Napoleone), la guerra ai francesi al centro della propria azione e del rinnovamento dell’identità nazionale. La rivoluzione, la guerra globale e la crisi di legittimità determinarono in America, a Napoli e in Spagna la moltiplicazione di progetti nazionali che volevano dare soluzione al crollo del centro monarchico. Nella fase iniziale si trattò di uno scontro politicoideologico, dove si opposero modelli tradizionali (trasmissione dinastica) a ipotesi nuove (imperiali pan-europee), ma nel giro di poco tempo sia sul fronte rivoluzionario che contro rivoluzionario si svilupparono e mescolarono tra loro ipotesi diverse. Nuove forme di patriottismo monarchico, progetti imperiali o rivendicazioni indipendentiste si confrontarono con i progetti liberali e repubblicani, soprattutto con la scoperta o l’invenzione di marcate identità nazionali.13 Nella grande crisi (1806-14) il conflitto civile diventò progressivamente un elemento centrale della lotta politica e dello sviluppo dello Stato. 12. L. Axel Lawson, The Relation of British Policy to the Declaration of the Monroe Doctrine, New York 1922; J.S. Poetker, The Monroe Doctrine, Columbus 1967; F. Merk, The Monroe Doctrine and American Expansionism, 1843-1849, New York 1966; G. Murphy, Hemispheric Imaginings: The Monroe Doctrine and Narratives of U.S. Empire, Durham 2005; W. Russell Mead, Il serpente e la colomba, Storia della politica estera degli Stati Uniti d’America, Milano 2005; M. Mariano, L’America nell’”Occidente”. Storia della dottrina Monroe (1823-1963), Roma 2013. 13. Pinto, Sovranità, guerre, nazioni.

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A Napoli questi caratteri si erano già prepotentemente annunciati nel 1799. La grande insurrezione del 1806 anticipò le feroci guerre fratricide che avrebbero imperversato in tutto il mondo borbonico. La guerra determinò un’intensa politicizzazione che fu la premessa dei partiti del XIX secolo, mobilitò parti importanti della società, iniziò a sviluppare comunità politiche che si sarebbero palesate e contrapposte con nettezza dopo il 1814, quando il re ritirò la costituzione poco dopo il rientro a Madrid.14 Nei paesi latino-americani il conflitto tra creoli marcò l’epoca delle rivoluzioni di indipendenza. Gli abitanti dei territori borbonici si divisero con lealtà e programmi differenti, tra chi sostenne il rinnovato legame con la madre patria e la monarchia e coloro che, dopo sperimentazioni di diverso tipo, iniziarono a pensare a formare Stati indipendenti. Anche in questo caso fu l’evoluzione del conflitto a determinare la formazione di appartenenze nazionali innovative e radicali, modificando le opzioni originali.15 Nei primi anni della crisi i principali centri dell’Impero si schierarono con il re (La Habana, Lima e Ciudad de México), la rivoluzione vinse soprattutto nelle periferie (Caracas, Buenos Aires, Bogotà) e anche qui con esiti alterni. Nonostante differenze profonde, tutti i territori borbonici conobbero la moltiplicazione della violenza, la diffusione di nuove forme di organizzazione politica, il crescente volume di eserciti e guerriglie, la larga circolazione di esuli, mercenari, veterani e avventurieri ma anche di idee e progetti istituzionali.16 La politicizzazione di ampi settori delle città 14. B. Hamnett, La Politica Espanola en Una Epoca Revolucionaria, 1790-1820, Mexico 1985; C. Esdaile, The peninsular war. A new history, New York 2003; J.M. Cuenca Toribio, La Guerra de la Independencia: un conflicto decisivo, 1808-1814, Madrid 2006; R. Fraser, Napoleon’s cursed war: Spanish popular resistance in the Peninsular War, 18081814, New York-London 2008; R. Hocquellet, Resistencia y revolución durante la Guerra de la Independencia. Del levantamiento patriótico a la soberanía nacional, Zaragoza 2008; R. Fraser, Napoleon’s Cursed War: Spanish Popular Resistance in the Peninsular War, 1808-1814, New York-London 2008; Guerra de Ideas. Política y Cultura en la España de la Guerra de Independencia, a cura di P. Rújula López, J. Canal, Madrid 2012. 15. T. Pérez Vejo, Elegía criolla. Una reinterpretación de las guerras de independencia hispanoameriacanas, México 2010; J. Tutino, From Insurrection to Revolution in Mexico: Social Bases of Agrarian Violence, 1750-1940, Princeton 1986; F.-X. Guerra, Modernidad e independencias: ensayos sobre las revoluciones hispánicas, Madrid 1992; J.E. Rodríguez, Revolución, independencia y la nuevas naciones de América, Madrid 2005; Id., La independencia de la América española, Colmex México 2010. 16. M. Brown, Aventureros, mercenarios y legiones extranjeras en la independencia de la Gran Colombia, Medellin 2010.

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e delle campagne mostrò la forza del conflitto nel plasmare nuove identità regionali e locali, inserendo nell’arena le classi subalterne, assorbendo le fratture sociali, promuovendo dirigenti politici moderni.17 Il 1815 non risolse i problemi causati dalla guerra globale, dall’implosione e dal collasso del sistema imperiale. Il conflitto continuò e cambiò di senso modificando e ridefinendo i disegni politici, oltre che la stessa identità del mondo borbonico e la sua relazione con lo spazio imperiale. Tra il 1814 e gli anni Venti in America Latina fu messa definitivamente in discussione la questione dell’indipendenza e della fedeltà al re, mentre forze sempre maggiori si orientarono verso obiettivi di fondazione di uno Stato sovrano sostenute tanto dall’impero inglese che dagli Usa. Nei paesi mediterranei, settori che avevano combattuto contro i francesi (in Spagna), o spesso al loro fianco (a Napoli), diedero vita alle reti del liberalismo, decise ad un cambiamento in senso monarchico costituzionale dello Stato. Nel biennio 1814-15 l’assolutismo trionfò. I re spodestati tornarono a Madrid e a Napoli, ricostituirono e spazzarono via le costituzioni. Le forze realiste riconquistarono quasi tutti i territori americani, da Cartagena des Indias fino a Santa Fé de Bogotá, Quito e Caracas. Per un momento lo spazio imperiale sembrò ricostituito. Il ritiro delle costituzioni aveva spazzato via i sogni liberali o autonomisti in Italia e in Spagna, ma anche cancellato le pur ridotte opportunità di partecipazione offerte ai rappresentanti dei territori americani.18 Le monarchie si mostrarono incapaci di integrare l’opposizione interna.19 La decade 1814-25 evidenziò l’assenza di poteri ampiamente riconosciuti nei vecchi territori borbonici. La moltiplicazione dei conflitti civili fece risaltare la presenza di molteplici concetti di Stato (monarchia assoluta o costituzionale, impero atlantico o nazioni indipendenti) e l’assenza di élite capaci di ricostruire una solida egemonia interna, pur continuando a misurarsi in un ambiente affine. Si trattava di gruppi politici che parlavano la stessa lingua ovunque e, in America, dove pure esistevano differenze etniche e razziali, erano, come nel Mediterraneo, culturalmente e socialmente simili. Ovunque l’implosione del centro imperiale, l’assenza di un centro unificante e la 17. A. Annino, M. Ternavasio, El laboratorio constitucional ibero-americano, 18071808-1830, Madrid 2012. 18. T.E. Anna, Spain and The Loss of America, Lincoln 1983. 19. J.M. Portillo Valdés, Crisis atlántica. Autonomia e indipendencia en la crisis de la monarquía hispánica, Madrid 2006.

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ripetizione del conflitto civile rese evidente la continua confusione tra progetti di Stato e la ricerca dell’essenza stessa di nuove e vecchie nazioni. Il ricorso alla violenza si ripropose a livello globale dopo Cadice e la proclamazione della costituzione. La rivoluzione del 1820 e le reazioni conseguenti unificarono per un breve momento il mondo borbonico (oltre che ampliarsi poi ad altri spazi territoriali, dal Piemonte alla Russia o alla Grecia), per poi frantumarlo e dividerlo per sempre. Tra il 1819-23 (sconfitta realista nell’America Settentrionale) e il 1821-23 (intervento della Santa Alleanza in Europa) si registrarono cambi epocali. A Cadice e poi a Napoli si svolse la rivoluzione costituzionale, in Messico l’esercito realista diventò l’alfiere dell’indipendenza, in Cile San Martin mise in crisi il cuore dell’impero (preparando il colpo mortale a Lima). Nuove fratture regionali o politiche costrinsero i borbonici a fuggire dalla Sicilia, paralizzarono i dirigenti realisti in Perù o in Ecuador o crearono le condizioni per la formazione di nuovi territori come il Paraguay e i piccoli Stati dell’America centrale.20 Rivoluzione liberale e ricerca di nuove identità nazionali continuarono a trovare nel conflitto civile l’unica possibile soluzione, ma i risultati furono del tutto diversi nei due lati dell’Atlantico. La potenza navale borbonica era a pezzi, dopo Trafalgar, mentre San Martin utilizzò navi e militari inglesi per realizzare il suo piano continentale, invadere il Perù e colpire al cuore l’Impero. Anche Bolívar reclutò veterani napoleonici (e soprattutto le legioni anglofone), per conquistare l’emisfero settentrionale.21 L’isolamento della Spagna e le conseguenze di Cadice convinsero i gruppi sociali più importanti che solo l’indipendenza poteva garantire le proprie aspirazioni, la sicurezza e i beni. La proclamazione della dottrina Monroe chiuse questo ciclo. Tra il 1819 e il 1825 i realisti erano stati sconfitti ovunque, o erano passati al bando vincente. Al contrario, in Europa l’intervento della Santa Alleanza, francese in Spagna e austriaco a Napoli e a Torino, spazzò via i liberali. I controrivoluzionari utilizzarono il patrimonio della guerra antifrancese per recuperare, almeno in parte, un rinnovato patriottismo 20. E. Gandía, La independencia Americana, Buenos Aires 1960; F.-X. Guerra, Las Revoluciones hispánicas: independencias americanas y liberalismo español, Madrid 1995; P. Guardino, Peasants, politics, and the formation of Mexico’s national state. Guerrero 1800-1857, Stanford 1996. 21. A.G. Flórez Malagón, Las Fuerzas Mercenarias en Las Luchas de Independencia del Siglo XIX , in «Memoria y Sociedad», 4 (2000), 8, pp. 89-116.

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monarchico. Allo stesso tempo i liberali rafforzarono identità e tradizioni politiche che avrebbero marcato tutto il secolo. La monarchia cattolica cessò il suo secolare protagonismo mondiale mentre il suo antico nemico, l’Inghilterra diventò la maggiore potenza marittima e politica globale.22 Inoltre vecchi e nuovi Stati che si formarono, o rinnovarono, sulle ceneri del sistema imperiale, raccolsero l’eredità di violenze civili e divisioni politiche decennali. Mentre le altre potenze ponevano le basi di un crescente rafforzamento politico e ideologico dello Stato centrale, nei territori borbonici o ex borbonici il conflitto interno era la soluzione maggiormente praticabile per rinnovare o edificare gli edifici nazionali. Inglesi, russi, prussiani non avevano conosciuto nessuna crisi di legittimità paragonabile a quella degli Stati eredi di Carlo III, ma neppure una imponente soluzione repubblicana o imperiale come i francesi, e iniziarono il processo di consolidamento di poderose istituzioni nazionali dove sempre più imponente era il volume degli eserciti e dell’apparato fiscale, con crescenti obiettivi di espansione ideologica e territoriale. Al contrario, nei paesi ex borbonici, anche se con obiettivi diversi (lo scontro tra assolutismo e liberalismo nel Mediterraneo, la costruzione di Statinazione in America), il problema non era il potenziamento imperiale dello Stato, della potenza continentale o della unificazione etnico-linguistica, ma il superamento di una radicale frattura politico-ideologico che aveva determinato il crollo dell’autorità legittima e tradizionale.23 3. La formazione del mondo moderno: guerre civili e Stati-nazione La fine dell’Impero borbonico generò la prima grande ondata di costruzione di Stati nazionali della storia contemporanea. Sulle sue ceneri si formarono quindici paesi (a cui aggiunsero il Texas – poi negli Usa –, Cuba, Panama e Santo Domingo), la Spagna diventò una nazione moderna, il Regno delle Due Sicilie un pezzo del nuovo Stato italiano. Questo percorso si stabilizzò tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del nuovo secolo, mentre dagli anni Venti in poi la guerra fu un dato permanente in questi 22. N. Ferguson, Impero: come la Gran Bretagna ha fatto il mondo moderno, Milano 2007. 23. C. Pinto, Crisi globale e conflitti civili. Nuove ricerche e prospettive storiografiche, in «Meridiana», 78 (2013), pp. 9-30.

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territori. Si registrarono almeno sessanta conflitti di una certa importanza, senza contare un numero impressionante di rivolte, colpi di Stato, insurrezioni locali e ammutinamenti militari.24 La crisi di legittimità delle monarchie e i conflitti successivi avevano generato identità alternative, blocchi con propri progetti nazionali e risorse ideologiche, insieme alle condizioni per la ripetizione e la moltiplicazione della violenza politica e sociale. Questa combinazione impedì il consolidamento di nuove istituzioni centralizzate e sovrastrutture imperiali (o federali), fece della questione della sovranità il tema fondamentale dello scontro politico e del conflitto civile il principale motore di costruzione dello Stato-nazione. Nella prima metà del secolo si registrarono comunque progetti di ricostruzione di grandi istituzioni con larghe ambizioni federali o progetti imperiali. In almeno due casi si proposero obiettivi di potenza capaci di modificare almeno in parte l’equilibrio registrato dalla crisi e dalla frammentazione del centro imperiale: il tentativo di Bolivar di una repubblica presidenziale del nord dell’America Latina e quello di Iturbide di un grande impero dell’intera America centrale. In entrambi i casi, con dimensioni territoriali ed ambizioni politiche capaci di competere largamente con la democrazia statunitense. Questo sogno continuò almeno fino alla seconda metà del secolo, anche se il progetto imperiale dei conservatori messicani e di Massimiliano d’Asburgo, pur puntando sugli eventuali effettivi disgregatori della guerra civile nordamericana, partì in condizioni largamente differenti. In ogni caso testimoniarono l’esigenza di superare la drammatica frammentazione dell’antica monarchia atlantica. La definitiva scomparsa di un centro unificante, dopo tre secoli di storia imperiale, non coincise con la formazione di nuovi Stati forti (come in Europa) o di federazioni continentali (come nel Nordamerica), ma produsse condizioni esattamente opposte. Nessuno degli eredi del mondo borbonico riuscì a proporre un centro sovranazionale capace di rinnovare la funzione imperiale della monarchia: la Gran Colombia di Bolivar, la federazione dei territori del settentrione dell’America meridionale (gli attuali Colombia, Venezuela, Ecuador e Panamà) fracassò in meno di un decennio, l’impero messicano di Iturbide nell’America centrale crollò un anno dopo l’indipendenza, con la scissione delle Province unite (che portò poi alla fondazione 24. P. Kelly, Checkerboards and Shatterbeltes: The Geopolitics of South America, Austin 1997; C Pinto, Sovranità, guerre e nazioni. La fine del mondo borbonico e la formazione degli Stati moderni (1806-1920), in «Meridiana», 81 (2014), pp. 9-25.

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di Guatemala, El Salvador, Nicaragua, Honduras e Costa Rica). Sul versante europeo, il tentativo spagnolo di riconquista del Messico nel 1829 finì in una serie di inutili quanto inconsistenti scaramucce e il progetto di Napoleone III (1863) non aveva vocazione continentale.25 La frammentazione del potere imperiale cambiò radicalmente la funzione della guerra esterna che, al contrario che nei secoli passati, diventò un fenomeno marginale.26 La Spagna non partecipò a nessuna guerra europea, neppure al conflitto mondiale. Il Regno delle Due Sicilie si impegnò per pochi giorni, e senza nessuna volontà, nella prima guerra d’indipendenza italiana. In America Latina si combatterono poche guerre tra Stati, concentrate nelle aree di frontiera e destinate a finire una volta supera i problemi di supremazia regionale o controllo di vie commerciali,27 in paesi scarsamente popolati e privi di concrete rivalità economiche,28 oltre che segnati dalla incapacità di creare un sistema fiscale efficiente e istituzioni militari conseguenti.29 Solo la feroce Guerra de la Triple Alianza tra Brasile, Argentina, Uruguay e il Paraguay (1864-70) fu un conflitto paragonabile alla campagna di Crimea o alle guerre nella pianura padana.30 Al contrario, la fine del centro imperiale consentì molti interventi esterni. Molti furono gli interventi esterni.31 La Spagna subì l’invasione francese nel 1823 e l’iniziativa statunitense a Cuba del 1898, Napoli conobbe l’intervento austriaco nel 1821 e quello piemontese del 1860, il Messico due azioni sempre causate da fratture interne (l’intervento francese chiesto dai conservatori) o da ripetute crisi politiche (che favorirono gli Usa nella guerra del 1846-49),32 la Colombia e l’Argentina registrarono intromissioni causate dallo scontro tra liberali e conservatori, caudillos e città. Queste iniziative internazionali furono provocate da guerre

25. C.A. Patiño Villa, Guerra y construcción del Estado en Colombia, 1810-2010, Bogotá 2010. 26. Pinto, Sovranità, guerre e nazioni. 27. R.N. Burr, Reason or Force: Chile and the Balancing of Power in South America, 1930-1905, Berkeley-Los Angeles 1965; O. Oszlak, La formación del Estado argentino, Buenos Aires 1982; S. Collier, W. Sater, A History of Chile, 1808-1994, Cambridge 1996. 28. A. Timothy, The Fall of Royal Government in Mexico City, Lincoln 1978; L. Bethell, The Independence of Latin America, Cambridge 1987; Pinto, Crolli borbonici. 29. M.A. Centeno, Blood and Deb. War and Nation-State in Latin America, Pennsylvania 2002. 30. P. Box, The Origins of The Paraguayan War, New York 1967. 31. B. Dunér, Military Intervention in Civil Wars: the 1970s, Gower 1985. 32. A. Ferrer, Insurgent Cuba: Race, Nation and Revolution, 1868-1898, Chapel Hill 1999.

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civili, consentirono in qualche caso la creazione di più solide identità patriottiche ma confermarono la fragilità delle nazioni.33 L’assenza di Stati forti era diretta conseguenza della presenza di soggetti nazionali incapaci di ricreare anche al proprio interno istituzioni centralizzate e riconosciute. Gli eredi del mondo borbonico conobbero continue guerre civili, senza contare le altre forme di violenza politica che formarono l’immagine di paesi deboli e divisi, sottoposti a continue intromissioni esterne, colpi di Stato, rivolte che prolungarono per tutto il XIX secolo i processi politici emersi negli anni Venti. Si stabilì una relazione diretta tra l’implosione dell’Impero, la crisi di legittimità delle monarchie e lo sviluppo di progetti nazionali alternativi.34 La fine del sistema imperiale infatti non registrò solo l’impossibilità della ricostruzione di un centro unificante, ma esasperò le sue eredità nelle periferie. Il complesso e difficile processo di edificazione di stati nazione risentì della fine dell’equilibrio costruito dall’impero al punto da determinare una serie ininterrotta di guerre civili nelle più importanti realtà emerse dalla conclusione della monarchia composta.35 In Spagna la frattura tra liberalismo e assolutismo esplose con la rivoluzione e fu temporaneamente bloccata dall’intervento francese (1823). Negli anni Trenta lo scontro si intrecciò con una complessa interpretazione della legittimità dinastica.36 La conseguenza fu una serie di conflitti civili (1833-40, 1846-49, 1872-76) che contribuirono alla costruzione della nazione liberale, capace di sconfiggere sempre gli assolutisti carlisti, superando definitivamente la memoria della monarchia composita.37 La Spagna conobbe anche una sequenza di conflitti esterni, ma esattamente opposti a quelli combattuti da altre potenze europee. Non si trattava di costruire (o ampliare) un grande impero ma difendere, senza successo, prima nel Mes33. Pinto, Sovranità, guerre e nazioni; P.M. Regan, Sixteen Million One: Understanding Civil War, Boulder 2009. 34. F. López Alves, La formación del estado y la democracia en América Latina, 1830-1910, Barcelona 2003. 35. Rumors of War: Civil Conflict in Nineteenth-Century Latin America, a cura di E. Rebecca, London 2000; D. Bushnell, N. Macalauy, The Emergence of Latin America in the Nineteenth Century, New York 1988. 36. P. Rújula López, Contrarrevolución, Realismo y Carlismo en Aragón y el Maestrazgo, 1820-1840, Zaragoza 1998. 37. J.C. Clemente, Las guerras carlistas, Barcelona 1982; Las guerras carlistas en sus documentos, a cura di A. Bullón de Mendoza, Barcelona 1998.

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sico e poi nel Pacifico, almeno il prestigio della vecchia eredità asburgica e borbonica. Negli ultimi decenni del secolo, il tentativo di conservare Cuba, Santo Domingo (e le Filippine) causò invece la sua disastrosa conclusione, con il decisivo intervento statunitense del 1898 e la riduzione della Spagna a una modesta potenza regionale europea.38 In Messico la rivoluzione di Cadice provocò il crollo dell’autorità borbonica che aveva resistito con successo a un decennio di tentativi rivoluzionari (1810-20). La soluzione alla crisi provocata dal moto liberale furono l’indipendenza e un breve tentativo imperiale dell’ex comandante realista Iturbide. Nel 1823, superato l’impero e fondata la repubblica, il conflitto politico diventò rapidamente un confronto armato tra liberali e conservatori, con opzioni repubblicane ma anche monarchiche, che durò mezzo secolo. Il peso del passato coloniale emerse nei conflitti etnici e razziali (la guerra de Castas contro i maya e quelle contro gli indiani) o nella lunga crisi della frontiera settentrionale che portò alla guerra contro gli Usa e alla perdita dei territori del nord (1846-49). L’intervento francese e il Secondo impero da un lato, la radicale riforma liberale dall’altro, furono le più importanti risposte a questa lunga instabilità e alla presenza di progetti nazionali opposti. In realtà, solo con la presidenza modernizzante, autoritaria e monocratica di Porfirio Díaz (1877-1911), si pose (provvisoriamente) fine a questa interminabile lacerazione.39 Il conflitto colombiano iniziò prematuramente, non solo per la guerra tra realisti e indipendentisti, ma anche per i continui scontri tra gli stessi rivoluzionari che iniziarono nel 1811 e continuarono fino alla resa dei conti definitiva del 1829 (con la fine della Gran Colombia e la scissione del Venezuela e dell’Ecuador).40 La scontro tra bolivariani e santanderisti si trasformò nell’interminabile guerra tra liberali e conservatori che durò fino al XX secolo inoltrato. Nell’Ottocento questo conflitto assorbì le tensioni tra la capitale e le province, tra federalisti e centralisti, causando almeno

38. J.G. Cayuela Fernández, Bahía de Ultramar. España y Cuba en el siglo XIX. El control de las relaciones coloniales, Madrid 1993; G. Cardona, J.C. Losada, Weyler, nuestro hombre en La Habana, Barcelona 1988; M. Moreno Fraginals, Cuba–España, España–Cuba. Historia común, Barcelona 1995; E. Weyler, de la leyenda a la Historia, Madrid 1998. 39. E. Pani Bano, El Segundo Imperio. Pasados de usos múltiples, Mexico 2004; F.X. Guerra, Le Mexique: de l’ancien régime à la révolution, Paris 1985. 40. D. Gutierrez Ardila, Un Nuevo Reino. Geografía política, pactismo y diplomacia durante el interregno en Nueva Granada (1808-1816), Bogotà 2010.

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nove importanti guerre civili, senza contare conflitti e rivolte locali.41 Queste tensioni esplosero definitivamente nella guerra di los Mil Dias, dove le fratture ideologiche, sociali e territoriali causarono il maggior conflitto civile della storia colombiana e la separazione di Panamà, ma anche il riconoscimento definitivo e reciproco dei due gruppi avversari. In Venezuela ci furono cinquant’anni di guerra tra caudillos e capi locali che continuarono la competizione tra conservatori e liberali, iniziata durante il regime di Páez, l’ex luogotenente di Bolivar fondatore dello stato. Anche in questo caso il conflitto interno assorbì le divisioni sociali ed etniche, particolarmente forti nell’ex colonia, come le tensioni tra la capitale Caracas e le province. Si combatterono almeno undici conflitti civili importanti, fra cui la terribile Guerra Federal che causò decine di migliaia di morti.42 Questi sanguinosi episodi continuarono per tutto il XIX secolo, quando le diverse posizioni finirono per fondersi tra loro e furono poi superate dalla dittatura di Juan Vicente Gómez (1908-35).43 L’Argentina fu in perenne guerra civile dal momento della sua costituzione (1814). Le tensioni della fondazione della repubblica, causa di dure lotte per il potere già nella guerra d’indipendenza, si trasformarono con la fondazione dei partiti liberale e conservatore. Nel Rio della Plata lo scontro sull’organizzazione centrale o federale dello Stato, sulla funzione dei caudillos e della capitale, sulla chiusura o apertura economica del paese alimentarono questa sfida.44 In Argentina si combatterono almeno otto grandi conflitti definiti guerre civili, durati a volte molti anni, come lo scontro tra il Directorio e la capitale.45 Solo nel 1880 si raggiunse un accordo definitivo sull’organizzazione dello Stato e sull’apertura del paese all’economia globale e all’emigrazione di massa europea. In tutti questi paesi la complessa successione di cambi di regime e trasformazioni costituzionali confermò lo stato di perenne instabilità. La Spagna conobbe un doppio cambio di dinastia (dalla prima reggenza borbonica alla monarchia napoleonica e poi alla seconda reggenza), un conflitto interno alla casa borbonica (isabelisti e carlisti), la rapida esperienza della monarchia pie41. Patiño Villa, Guerra y Construcción del Estado en Colombia. 42. J.M. Spence, La tierra de Bolívar: o, guerra, paz y aventura en la republica de Venezuela, Caracas 1966; R.L. Sheina, Latin America’s Wars: The Age of the Caudillo, 1791-1899, Washington, DC 2003. 43. E. Esteves González, Las Guerras de Los Caudillos, Caracas 2006. 44. F. Best, Historia de las Guerras Argentinas, Buenos Aires 1980. 45. J. Álvarez, Las guerras civiles argentinas, Buenos Aires 1983.

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montese di Amedeo di Savoia (1870-73), un esperimento repubblicano (187374) e la terza reggenza. Furono approvate otto costituzioni, da Bayonne fino a quella del 1876, senza contare infiniti statuti, atti addizionali e riforme.46 Il Messico ebbe quarantanove governi in trentatré anni, non solo per le diverse ipotesi liberali e conservatrici, federaliste e centraliste, ma anche per la coabitazione tra soluzioni imperiali e repubblicane, che portarono alla fondazione di due imperi (1822 e 1863), due repubbliche (1823 e 1867) e almeno tre costituzioni (1824, 1835, 1857), senza contare atti addizionali e riforme. La Colombia, dopo la conclusione dell’esperimento bolivariano (1830) conobbe una lunga serie di trasformazioni istituzionali e cinque costituzioni,47 oltre alla Reforma del 1876. Anche il Venezuela registrò otto costituzioni (dopo la Gran Colombia) e quella federale che sancì la dittatura di Gómez.48 In Argentina solo dopo decenni e tre cambi costituzionali si giunse a una carta condivisa (1853), anche se fu cambiata altre tre volte.49 La guerra e la mobilitazione politica si differenziarono per luoghi e obiettivi regionali. A Napoli e a Madrid era continuata la lotta tra rivoluzione e controrivoluzione, anche se aggiornata con le novità del nazionalismo romantico, del liberalismo e del patriottismo monarchico. Nei paesi latinoamericani liberali e conservatori avevano assorbito le fratture sociali, religiose, etniche territoriali dell’Impero. Le diverse visioni del rapporto dell’organizzazione centrale o federale dello Stato, della soluzione monarchica o repubblicana, del ruolo della Chiesa, dell’economia aperta o protezionistica avevano prolungato e trasformato le fratture della decade 1814-25 fino alla fine del secolo. Solo negli anni Settanta-Ottanta dell’Ottocento iniziò il definitivo superamento di questa lunga crisi. In Spagna la Rigenerazione prese quota dopo la disastrosa sconfitta del 1898. In Messico e Venezuela il porfiriato e la dittatura di Gomez, due poteri forti e monocratici, entrambi ultradecennali, spezzarono definitivamente le eredità dell’Antico regime. In Colombia (1903) e Argentina (1880) le riforme costituzionali e gli accordi seguiti alle guerre civili tentarono invece una mediazione tra i protagonisti 46. Le costituzioni del 1808, 1812, 1820, 1837, 1845, 1869; M. Espadas Burgos, Alfonso XII y los orígenes de la Restauración, Madrid 1990; La época del liberalismo. Vol. 6 de la Historia de España, a cura di J. Fontana, R. Villares, Barcelona 2006. 47. Le costituzioni del 1843, 1853, 1856, 1863, 1886. 48. Le costituzioni del 1830, 1857, 1858, 1864, 1874, 1881, 1891, 1893, 1901 e quella del 1909. 49. V. Paura, De las guerras civiles a la consolidación del estado nacional argentino, Buenos Aires 2003.

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del conflitto politico secolare. Questa fase di stabilizzazione coincise con la più ampia espansione imperiale dell’Europa: russi, inglesi, francesi (con importanti eccezioni nel 1848 e nel 1871), asburgici, prussiani e piemontesi avevano invece combattuto guerre di espansione nazionale o coloniale e mobilitarono su questo terreno risorse economiche e ideologiche, creando rinnovate nazioni o grandi imperi.50 Coloro non avevano conosciuto il crollo del centro imperiale o monarchico, nei paesi dell’Occidente in via di industrializzazione, fecero della guerra di potenza e della nazionalizzazione delle società i motori della centralizzazione dello Stato e della conseguente mobilitazione delle risorse politiche, economiche e ideologiche.51 4. Imperi, guerre, nazioni All’inizio del Novecento ventuno nazioni erano nate sulle ceneri dell’Impero di Carlo III.52 Se si eccettua l’Europa centrale e balcanica dopo il 1848, solo la conclusione delle due guerre mondiali e della guerra fredda determinarono ondate di queste proporzioni. La fine degli Imperi centrali causata dalla Grande guerra, la decolonizzazione dopo la seconda guerra mondiale, la dissoluzione dell’Impero sovietico nel 1989-91 replicarono per molti aspetti questo modello. Si tratta di una prospettiva cruciale per lo studio della relazione tra potere territoriale, governo politico e dimensione globale nella formazione del mondo moderno. Non si trattava certo dell’unico caso di crisi e crollo di sistemi analoghi: gli imperi si svilupparono a partire del terzo millennio a.C. e fino al XIX secolo si conoscevano ben sessanta casi di imperi fioriti e poi scomparsi per cause e problemi differenti.53 La grande novità, annunciata nel XV e nel XVI secolo, prima 50. C. Pinto, La “guerra civil borbónica”. Crisis de legitimidad y proyectos nacionales entre Nápoles y el mundo iberoamericano, in Entre Mediterraneo y Atlantico, circulaciones, conexiones y miradas, 1756-1876, a cura di L. Mascilli Migliorini, A. De Francesco, Santiago del Chile 2014, pp. 341-60. 51. C. Tilly, From Mobilization to Revolution, New York 1978; Id., L’oro e la spada. Capitale, guerre e potere nella formazione degli stati europei, 990-1990, Firenze 1991 [1990]; M.E. Brown, The International Dimensions of Internal Conflict, Cambridge 1996. 52. Argentina, Bolivia, Chile, Colombia, Costa Rica, Cuba, Republica Dominicana, Ecuador, El Salvador, Guatemala, Honduras, Italia (l’ex Regno delle Due Sicilie), México, Nicaragua, Panama, Paraguay, Perù, Porto Rico, Spagna, Uruguay, Venezuela. 53. W.H. McNeill, Caccia al potere. Tecnologia, armi, realtà sociale dall’anno Mille, Milano 1984 [1982]; J.S. Goldstein, Long Cycles, Prosperity and War in the Modern Age,

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a Genova e Venezia, poi nelle Province Unite, in Gran Bretagna e nel resto dell’Europa occidentale, fu la formazione degli Stati-nazione che, nel lungo periodo, portarono al progressivo superamento dei sistemi imperiali territoriali (nel 2010 erano membri delle Nazioni Unite 193 Stati ufficialmente riconosciuti). La guerra fu sempre un elemento cruciale sia nell’affermazione del successo degli imperi che nella costruzione delle nazioni.54 Nell’epoca contemporanea la combinazione tra guerre globali e conflitti civili che disgregò grandi sistemi imperiali produsse ondate di formazione di Statinazione, offrendo efficaci linee di indagini e più per comprendere questo fenomeno. Negli anni Venti dell’Ottocento questo schema aveva conosciuto la sua prima sperimentazione: le rivoluzioni e la guerra globale avevano frammentato uno spazio geopolitico che per secoli aveva mantenuto una sua coerente organicità. Alla fine della guerra, la crisi di legittimità delle monarchie non fu seguita dalla creazione di un nuovo potere centralizzato e riconosciuto, capace di federarsi, come nel modello nordamericano, o di una rinnovata iniziativa imperiale, come per le potenze europee. Al contrario si moltiplicarono i centri di potere statale e, al loro interno, diversi e complessi progetti nazionali tra loro alternativi. La seconda parte del XIX secolo, che coincise con la massima espansione ideologica, culturale e politica dell’Europa, tra gli eredi del mondo borbonico non significò che una lunga e ininterrotta serie di conflitti civili.55 Nessuno di questi paesi era capace di ricostruire l’Impero o immaginare una politica globale, fortificare istituzioni centralizzate, dotate di grandi risorse fiscali e militari o della coesione ideologica della Monarchia cattolica. La guerra di potenza diventò un fenomeno marginale, anche nei processi di centralizzazione e consolidamento dello stato. Una volta stabilizzate le frontiere o i problemi di leadership regionali, intorno agli anni Cinquanta-Sessanta del XIX secolo, i conflitti esterni sparirono o si New Haven 1988; J. Burbank, F. Cooper, Empire in World History. Power and the Politics of Difference, Princeton 2010. 54. I. Wallerstein, The Politics of World-Economy, Cambridge 1984; J. Black, War and the World. Military Power and the Fate of Continents 1425-2000, New Haven 1998; J. Darwin, After Tamerlane. The Global History of Empire, New York 2007. 55. Sociedades en guerra civil. Conflictos violentos de Europa y América Latina, a cura di P. Waldmann, F. Reinares, Barcelona 1999; Guerras civiles. Una clave para entender la Europa de los siglos XIX y XX, a cura di J. Canal, E. Gonzáles Calleja, Madrid 2012.

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confinarono nell’ambito confuso degli interventi internazionali provocati da fratture interne. Questo processo ebbe caratteri diversi, tra Europa e America e nelle grandi aree regionali (Mediterraneo, America Centrale, Caribe, Cono Sur, frontiera del Pacifico) ma sempre all’interno di un contesto omogeneo. Le nazioni non avevano le capacità di combattere grandi conflitti o immaginare vasti obiettivi geopolitici, eppure nel loro caso la fine della guerra significò la moltiplicazione della violenza. L’implosione del sistema prolungò le sue conseguenze per buona parte del XIX secolo ma mostrò notevoli uniformità nello scontro politico sullo Stato, sull’identità nazionale o sulla religione. Inoltre furono i conflitti civili e le diverse forme di politicizzazione della società ad assorbire e interpretare le fratture ideologiche, ridefinendo problemi sociali, molto spesso creando comunità e tradizioni politiche capaci di riprodursi anche per generazioni e decenni, in territori poco toccati dalla trasformazione capitalistica che inizierà poi a coinvolgere buona parte dell’Occidente.56 In Spagna lo scontro tra liberalismo e assolutismo, anche se progressivamente modificato dalle culture nazionali, dalle identità territoriali e dal rapporto con la monarchia, continuò fino alla fine del secolo. In paesi latino-americani il conflitto tra liberalismo e conservatorismo fu declinato di volta in volta con l’emergere prepotente del caudillismo o con lo scontro tra centralisti e federalisti. Solo alla fine del secolo il rafforzamento dell’autorità centrale stabilizzò le nazioni, ma nessuno di questi paesi era lontanamente in grado di competere con le potenze europee (e con gli Usa) in una politica di potenza o imperiale. Nei paesi nati con le guerre di indipendenza in Europa (Grecia e poi altri paesi balcanici) o con quelle di unificazione (Germania e Italia con aspetti diversi), l’individuazione di uno o più nemici esterni fu abbastanza semplice o comunque centrale nella diverse narrazioni. Nel Mediterraneo, come in America, i modelli erano simili a quelli europei: monumenti, inni nazionali, bandiere, campi di battaglia, edifici o case di eroi fondatori iniziavano a puntellare una nuova carta dell’identità patriottica.57 Nelle nazioni formatesi con la fine dell’Impero 56. C.A. Bayly, La nascita del mondo moderno, 1780-1914, Einaudi, Torino 2007 [2004]. 57. R. Cortazar, Monumentos, estatuas, bustos, medalones y placas conmemorativas, Bogotà 1938; O.M. Helman, J.E. Serchio, Las naciones americanas y sus simbolos, Buenos Aires 1989; M.A. Centeno, War and Memory: Symbols of State Nationalism in Latin America, in «European Review of Latin American and Caribbean Studies», 66 (1999), pp. 75106; T. Pérez Vejo, Nación, identidad nacional y otros mitos nacionalistas, Oviedo 1999;

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borbonico o il suo progressivo superamento, questo schema fu però molto più complicato, si basò sulla rimozione e sulla cancellazione del conflitto civile tra spagnoli, napoletani e creoli, come strumento della formazione degli Stati nazionali.58 Molti degli elementi della storia di questi paesi riemersero, anche se in forme diverse, per buona parte del XX secolo. La Spagna e il Messico conobbero due delle più famose guerre civili del Novecento. La Colombia fu l’ultimo paese del mondo a sperimentare negli anni Cinquanta una feroce lotta fratricida tra conservatori e liberali, l’Argentina e il Cile sperimentarono dittature militari e colpi di Stato. Anzi, tutti tentativi di ricostruire spazi di dimensione almeno regionale si infransero proprio per l’azione combinata della frammentazione interna e della prepotente emersione della nuova potenza continentali o dei rinnovati interessi globali britannici.59 Il mondo borbonico non riuscì mai più a rinnovare la proiezione imperiale ereditata dagli Asburgo, riproponendo un diverso ciclo, finendo per diventare vittima allo stesso tempo delle ambizioni imperiali europee ed occidentali e dei nuovi progetti di stato nazione. La triangolazione tra impero, guerra e nazioni contribuisce pertanto a spiegare la relazione tra crisi del mondo borbonico, la funzione della violenza e i processi di costruzione nazionale in questi paesi, ma offre anche un importante strumento interpretativo per il confronto con la dissoluzione di altri sistemi imperiali.

Inventando la nación. Iberoamérica siglo XIX, a cura di F.-X. Guerra, A. Annino, México 2003; A. De Francesco, La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale, Milano 2012. 58. D. Singer, M. Small, Resort to Arms: International civil war, 1816-1980, Beverly Hills 1982; M. Van Creveld, The Transformations of War, New York 1991; M.E. Brown, The International Dimensions of Internal Conflict, Cambridge 1996; S. Kalyvas, The Logic of Violence in Civil War, Cambridge 2006; Le guerre civili, a cura di C. Pinto, in «Contemporanea», 1 (2014), pp. 105-150. 59. J.S. Goldstein, Long Cycles, Prosperity and War in the Modern Age, New Haven 1988; J. Darwin, After Tamerlane. The Global History of Empire, New York 2007.

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1. Dopo 150 anni la guerra civile del 1861-65 agita ancora la memoria degli americani. È sufficiente una veloce ricerca online per rendersi conto dell’impressionante numero di siti che la riguardano e che svelano un universo di musei, di parchi storici dedicati a ogni battaglia, di monumenti ai caduti delle due parti in centinaia di cittadine, di cimiteri militari, un mondo di siti sulla storia di singoli reggimenti nordisti e sudisti, per non parlare dell’American Civil War Research Database1 che riporta notizie biografiche su circa 4.000.000 di militari coinvolti anche solo tangenzialmente nella guerra, nonché i siti dedicati ai diari, alle lettere, alle fotografie, alla vita quotidiana, alle donne, agli schiavi e alla partecipazione dei neri al conflitto. L’attento positivismo ingegneristico americano ha scavato in ogni direzione. Non basta, occorre anche ricordare le associazioni che annualmente organizzano i reenactment – la simulazione in costume di episodi bellici della guerra civile –, feste allegre per famiglie, con bande, parate, picnic e, se si è prossimi a un’elezione, qualche candidato che passa a stringere mani. È l’universo vero della cultura popolare degli Stati Uniti. Accanto a questo le associazioni di élite come la potente United Daughters of the Confederacy, che raccoglie le discendenti dei combattenti della Confederazione, o i Sons of Confederate Veterans per gli uomini, il cui comune scopo è preservare l’eredità ideale del Sud. Il massacro compiuto la primavera scorsa in una storica chiesa nera di Charleston, South Carolina, da un ragazzo vicino a gruppi suprematisti bianchi che postava foto di sé armato con la bandiera confederata a fianco, ha dato il via a un vivace, a tratti violento dibattito sul fatto che quella ban1. www.civilwardata.com/.

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diera sia ancora issata in luoghi ed edifici pubblici del Sud accanto a quella statunitense. Il principale risultato è stato di far togliere quella che io stesso ho visto un paio di anni fa garrire accanto alla statua al soldato confederato di fronte al Parlamento statale della South Carolina a Columbia, la capitale. Una decisione presa dal Governatore dopo un dibattito nel Parlamento statale in cui vari deputati hanno difeso la presenza della bandiera in nome della memoria storica, anche se dalle parole di alcuni traspariva un palese riferimento all’eredità della Confederazione. Vi è, quindi, ancora chi tiene viva la fiamma della lost cause2 di cui la cultura sudista si è nutrita ben oltre la metà del Novecento. La causa perduta di un Sud martire come Cristo, militarmente sconfitto ma moralmente vincitore perché i suoi ideali e la sua way of life erano davvero americani, ben superiori a quelli materialisti del Nord. Qualche manifestazione se ne è vista anche in questi anni, per il centocinquantesimo della guerra civile. Nulla, però, in confronto a quanto avvenne nel 1961 per il centenario,3 quando la Commissione sudista per le celebrazioni, contro le indicazioni della Commissione federale istituita dal Presidente Dwight Eisenhower, ne fece l’occasione per esaltare la causa del Sud e la Southern way of life. Si era nel pieno del movimento per i diritti civili e quando a Charleston, nella cui baia vennero sparati i colpi che diedero il via alla guerra nell’aprile 1861, gli alberghi della città, tutti segregati, rifiutarono di ospitare un membro nero della delegazione del New Jersey giunta per l’inaugurazione delle manifestazioni celebrative, scoppiò una tempesta politica nella quale intervenne lo stesso Presidente Kennedy per affermare che in un evento nazionale si dovevano rispettare le linee antisegregazioniste del governo. La Commissione sudista, tuttavia, non si piegò al diktat federale, tutto il Sud si levò a difesa del diritto della South Carolina di gestire a modo proprio i suoi affari interni e si giunse a un goffo compromesso in base al quale vari delegati furono ospitati in un edificio di Charleston non segregato in quanto federale. Ancor più interessanti in questa sede sono, però, le guideline che erano state date alle Commissioni locali da quella federale, nelle quali si chiedeva che le celebrazioni avessero un valore educativo ed esaltassero il valore militare di entrambe le parti, nonché l’unità nazionale scaturita dalla 2. Ch. Wilson, Baptized in Blood. The Religion of the Lost Cause, 1865-1920, Athens (GA) 2011. 3. R. Cook Jr., Troubled Commemoration. The American Civil War Centennial, Baton Rouge 2007.

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guerra civile provata dalla partecipazione di nordisti e sudisti assieme alle due guerre mondiali, come se il significato della guerra civile fosse stato quello di un test del valore americano dimostrato poi nel Novecento.4 Una tesi, quella dell’unità nazionale nata dalla guerra, che si era cominciata a formare fra Otto e Novecento con manifestazioni comuni di ex combattenti unionisti e confederati che culminarono nel 1915 con la celebrazione del cinquantesimo della battaglia di Gettysburg, che riunì sessantamila veterans nordisti e sudisti, esclusivamente bianchi. I neri erano presenti solo come inservienti nell’immenso accampamento eretto per gli ex combattenti, anche se 200.000 afroamericani, liberi e schiavi fuggiaschi, si erano arruolati nelle fila dell’Unione. Il Presidente Woodrow Wilson, emblema del riformismo progressista americano, pronunciò il discorso inaugurale ed espresse il senso che veniva ormai dato alla guerra civile esaltando il valore di tutti i combattenti e parlando della guerra civile come del fondamento dell’unità nazionale che aveva reso l’America grande. Non menzionò né la schiavitù, né Lincoln, né il famoso Address da questo pronunciato all’inaugurazione del cimitero dei caduti dell’Unione il 23 novembre 1863.5 Il discorso di Wilson, di cui le linee guida della Commissione per il centenario replicavano nella sostanza il senso, riassumeva i contenuti di quel “patto razziale” fra bianchi, come lo ha definito David Blight,6 che a fine Ottocento consentì la pacificazione fra Nord e Sud nel nome di una trionfante white America e legittimò la segregazione razziale. Le guidelines della Commissione federale di Eisenhower si innestano sulle premesse della pacificazione bianca; ma vanno comprese nel contesto dell’ideologia sorta alla fine degli anni Trenta e dominante fino agli anni Sessanta, che trovò espressione nella storiografia detta “del consenso”. Gli storici consensualisti sostenevano che fin dalle origini gli Stati Uniti erano stati una società middle class e democratica, il che aveva consentito loro di evitare il nazionalismo, la lotta di classe e il socialismo che avevano tormentato e finito col distruggere l’Europa. Era il cosiddetto “eccezionalismo storico”,7 strumento scientifico della guerra fredda, che ipotizzava vi 4. J. Bodnar, Remaking America. Public Memory, Commemoration, and Patriotism in the Twentieth Century, Princeton 1992, capp. 7 e 8. 5. T. Bonazzi, Abraham Lincoln. Un dramma americano, Bologna 2016. 6. D. Blight, Race and Reunion. The Civil War in American Memory, Cambridge (MA) 2001. 7. Fra gli “storici del consenso” degli anni Quaranta e Cinquanta: L. Hartz, La tradizione liberale in America, Milano, 1968 [1955] e D. Boorstin, The Americans, 2 voll.,

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fosse un baratro invalicabile fra la storia di libertà degli Stati Uniti e quella europea e legittimava l’egemonia americana sull’Occidente, nonché il ruolo guida degli Stati Uniti nella lotta al comunismo mondiale. La Commissione istituita da Eisenhower intendeva che le celebrazioni del centenario servissero a sostenere questa tesi, anche se la interpretavano in modo meno ostile agli afroamericani. Se queste erano le tendenze dominanti negli Stati Uniti fino agli anni Sessanta, ciò non impediva che i dibattiti fra gli storici della guerra civile fossero vivacissimi, addirittura aspri, sia per quanto riguardava le cause che le colpe della medesima. L’argomento era, infatti, cruciale per definire il senso e l’eredità della storia statunitense e, quindi, anche per interpretare il presente. Il nazionalismo eccezionalista faceva sì che gli studi sulla guerra civile fossero chiusi in un bozzolo nazionale che riteneva impossibile studiarla in un contesto più ampio. Una tragedia di tali proporzioni, con oltre 600.000 morti, parrebbe non rientrare nell’essenzialmente ottimistico paradigma eccezionalista; ma nella sua lettura come evento del tutto interno era intrinseco un significato esclusivo ed eccezionale: l’espiazione di colpe di un passato soltanto americano, la schiavitù, da cui gli Stati Uniti erano ripartiti verso un presente di gloria – non si dimentichi la natura profondamente cristiana della cultura statunitense –, oppure una tragedia provocata dal tentativo di coartare la libertà del Sud e, con questo, di mettere in pericolo l’intera libertà americana; pericoli evitati con la successiva pacificazione che consentiva di vedere nella guerra civile un evento unificante. Il contesto internazionale veniva preso in considerazione pressoché soltanto per l’atteggiamento europeo, in particolare inglese,8 nei confronti dei belligeranti, e a farlo era spesso una parrocchia di studiosi a sé stante, quella degli storici della politica estera americana. 2. A cinquant’anni di distanza dal centenario tutto ciò sembra appartenere alla preistoria. Dagli anni Settanta la storia sociale, i black studies, la women’s history e più di recente la storia internazionale9 hanno spostato New York 1958 e 1965; una delle principali confutazioni dell’eccezionalismo in J. Higham, Beyond Consensus. The Collapse of Consensus History, in «The Journal of American History», 75 (1989), pp. 460-466. 8. R.J. Blackett, Divided Hearts. Britain and the American Civil War, Baton Rouge 2001. 9. I. Tyrrell, Transnational America. United States History in Global Perspective, Basingstoke 2007; Th. Bender, A Nation among Nations. America’s Place in World History, New York 2006.

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l’attenzione sul mondo e la cultura degli schiavi;10 sul ruolo dei neri nella guerra e sulla libertà “conquistata coi piedi” dagli schiavi, varie centinaia di migliaia dei quali fuggirono dai loro padroni per dirigersi verso le linee nordiste che si avvicinavano; sulla mobilitazione interna e la vita quotidiana11 in una guerra che fu totale e sul ruolo delle donne in essa;12 sull’orrore dei campi di battaglia e della vita militare;13 sugli scontri politici e le divisioni sia a Nord che a Sud che dimostrano quanto differenziate e contraddittorie fossero l’Unione e la Confederazione al loro interno;14 sulla società civile nordista e sudista, nonché sulla natura industriale della guerra civile di cui in quegli anni scrisse fra i primi il principale storico italiano della medesima, Raimondo Luraghi.15 Da decenni, quindi, la storiografia sulla guerra civile si è trasformata al pari di tutti gli studi storici, anche se questo non ha fatto perdere importanza alla storia generale e a quella politica, vivificata, ad esempio, dai black studies e dall’attenzione dedicata alla resistenza, spesso passiva, ma sempre presente degli schiavi. Una resistenza che i bianchi del Sud riuscirono con la violenza istituzionale e fisica a impedire diventasse attiva, però al costo, per John Ashworth e William Freehling ad esempio,16 di far deteriorare i rapporti con il Nord. Anche la storia militare continua a essere ampiamente praticata dagli specialisti,17 ma non è più il cuore degli studi. 10. D. Brion Davis, The Problem of Slavery in the Age of Emancipation, New York 2014; D.H. Boster, African American Slavery and Disability. Bodies, Property and Power in Antebellum South, New York 2013; R. Worth, Slave life on the Plantation, Berkeley Heights (NJ) 2004; I. Berlin, Generations of Captivity. A History of African American Slaves, Cambridge (Mass) 2003. 11. The World of the Civil War. A Dayly Life Encylopedia, a cura di L. Tendrich Frank, Santa Barbara 2015; J. Mobley, Weary of War. Life on the Confederate Homefront, Westport 2008; D.D. Volo, Dayly Life in Civil War America, Westport 1998. 12. N. Silber, Gender and the Sectional Conflict, Chapel Hill 2008; N. Silber, Daughters of the Union. Northern Women Fight the Civil War, Cambridge (Mass) 2005; Th. McDevitt, Women and the American Civil War. An Annotated Bibliography, Westport 2003. 13. M. Adams, Living Hell. The Dark Side of the Civil War, Baltimore 2014; F. Clarke, War Stories. Suffering and Sacrifice in the Civil War North, Chicago 2011; D.G. Faust. This Republic of Suffering. Death and the American Civil War, New York 2008. 14. D. Williams, Bitterly Divided. The South’s Inner Civil War, London 2008. 15. R. Luraghi, Storia della guerra civile americana, Torino 1966. 16. J. Ashworth, Slavery, Capitalism, and Freedom in the Antebellum Republic, 2 voll., Cambridge 1995; W. Freehling, The Road to Disunion, 2 voll., Oxford 1990 e 2007. 17. J. Robertson, Military Strategy in the American Civil War, Richmond 2012; J. Keegan, The American Civil War. A Military History, New York 2010.

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Vi è stato anche un altro importante mutamento, in quanto l’ossessiva ricerca delle cause della guerra civile, non di rado nel secolo scorso usata come arma polemica, si è trasformata in un’analisi delle trasformazioni socioeconomiche e culturali degli Stati Uniti dopo la rivoluzione, che portarono alla nascita di due sezioni alla fine nemiche a partire dall’enorme diversificazione e addirittura frammentazione interna e dal velocissimo mutare del paese nel suo primo mezzo secolo di vita. Un coagularsi di “falde tettoniche”, come ho scritto,18 che non riuscirono a compattarsi in una sia pur molto differenziata nazione. Questo tipo di analisi, fecondato dalle nuove prospettive apertesi dagli anni Sessanta, si colloca nel contesto di un’ulteriore evoluzione che ha scosso la storiografia statunitense dalle fondamenta. Si tratta del tentativo di far uscire la storia americana dall’eccezionalismo per inserirla in un ambito più vasto, comune ai paesi europei e non solo, che trovò il suo manifesto in un numero dell’«American Historical Review» del 1991, in cui si discusse dell’internazionalizzazione della storia americana da compiere sulla scia della nascente storia transnazionale.19 Il tentativo è riuscito e l’eccezionalismo è morto fra gli storici, anche se persiste indomabile nel popolo americano. Il che è normale, perché la ricerca scientifica nulla può contro i miti politici e l’eccezionalismo, l’idea di una missione storica di libertà tutta e soltanto americana, è il mito politico base dell’identità nazionale e del nazionalismo statunitensi. Fino all’inizio del nuovo millennio, tuttavia, l’internazionalizzazione della storia americana ha riguardato in particolare l’età rivoluzionaria e la prima età repubblicana fino alla seconda guerra contro la Gran Bretagna del 1812-15, nonché gli anni a partire dalla seconda rivoluzione industriale; mentre la grande maggioranza degli studi ha ancora per qualche tempo considerato i decenni intermedi un periodo in cui gli Stati Uniti andavano studiati su un piano soprattutto interno. Oggi anche questa barriera è caduta, come si può cogliere da una scorsa all’enorme letteratura degli ultimi due decenni e da pubblicazioni quali il Forum su Nazionalismo e internazionalismo nell’età della Guerra civile apparso nel 2011 sul «Journal of American History»,20 il lungo saggio di Michael Woods del 2012 nel18. Bonazzi, Abraham Lincoln. 19. AHR Forum: American Exceptionalism in an Age of International History, in «The American Historical Review», 96/4 (1991), pp. 1031-1072. 20. Interchange: Nationalism and Internationalism in the Era of the Civil War, in «The Journal of American History», 78/2 (2011), pp. 455-489.

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la stessa rivista sulla storiografia della guerra civile successiva all’anno 200021 e il precedente numero del 2009 dedicato a Abraham Lincoln.22 Il punto di partenza diretto o indiretto dello AHR Forum è il noto saggio del 1996 di Geyer e Bright sulle guerre di nazionalizzazione o rinazionalizzazione nel periodo 1848-70 che coinvolsero Europa, America e Asia, dalla rivolta cinese di Taiping, alle guerre di unificazione nazionale europee a quelle americane, la guerra civile statunitense e quella di Argentina, Uruguay e Brasile contro il Paraguay.23 In questo contesto la guerra civile non appare più come un evento tutto americano, bensì come un episodio di una storia transnazionale o di una storia nazionale embedded, particolarmente densa fra Europa e Stati Uniti, che si apre alla storia globale. In quest’ambito, ad esempio, Nicholas e Peter Onuf e Brian Schoen24 hanno analizzato l’inizio della coltivazione massiccia del cotone ai primi dell’Ottocento come una precisa scelta dei piantatori del Sud, compiuta in base a una maturata e matura convinzione della sua centralità nel sistema manifatturiero e ad attente analisi di mercato. Il che ha rafforzato l’immagine della classe dei piantatori come attenti businessmen ben inseriti nel nascente capitalismo sottraendoli definitivamente all’idea che fossero espressione di una romantica cultura unica e peculiare, ovvero di un’economia retrograda rispetto al progresso industriale europeo e nordista. Il sistema di piantagione sudista, economicamente e organizzativamente razionale, era parte integrante e attiva del capitalismo ottocentesco, parallelo e non in contrasto con lo sviluppo manifatturiero del Nord. Di conseguenza la schiavitù nel Sud non può essere studiata che come un fenomeno atlantico di lunga durata legato a doppio filo all’espansione europea e ai suoi bisogni economici, del quale la schiavitù negli Stati Uniti è integralmente 21. M. Woods, What Twenty-First Century Historians Have Said about the Causes of Disunion. A Civil War Sesquicentennial Review of Recent Literature, in «The Journal of American History», 99/2 (2012), pp. 414-439. 22. Lincoln Studies at the Bicentennial. A Round Table, in «The Journal of American History», 96/2 (2009), pp. 417-461. 23. M. Geyer, Ch. Bright, Global Violence and Nationalizing Wars in Eurasia and America. The Geopolitics of War in the Mid-Nineteenth Century, in «Comparative Studies in Society and History», 38/4 (1996), pp. 619-657. 24. N. Onuf, P. Onuf, Nations, Markets, and War. Modern History and the American Civil War, Charlottesville (Va)-London 2006; B. Schoen, The Fragile Fabric of the Union. Cotton, Federal Politics, and the Global Origins of the Civil War, Baltimore 2009.

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parte.25 Anche il radicalizzarsi dell’ideologia razzista e schiavista nel Sud a partire dagli anni Venti viene ormai visto in rapporto alle conseguenze della rivoluzione haitiana del 1791 e dell’abolizione della schiavitù nelle nuove repubbliche latinoamericane e negli imperi inglese e francese e, quindi, delle paure e del senso di isolamento e debolezza che accompagnavano il successo economico sudista.26 È vero che il Sud costruì una propria specifica cultura che finì con lo scontrarsi con quella sviluppatasi a Nord; ma ciò avvenne attraverso processi incomprensibili se visti esclusivamente in un rapporto antagonistico col Nord, perché gli americani, per quanto fieri nazionalisti e alienati dall’Europa della Santa Alleanza, erano ben lungi dal vivere culturalmente isolati dal resto del mondo. La stessa ideologia razzista legata alle tesi poligeniste, ad esempio, doveva molto ad analoghi sviluppi europei; ma era l’intera cultura politica, economica, letteraria americana a essere intrecciata a quella del Vecchio mondo, in particolare britannica e francese. In campo economico Henry Carey giungeva a negare Ricardo e a sostenere l’armonia degli interessi economici negli Stati Uniti attraverso un dialogo intenso con le opere degli economisti europei; in quello filosofico il common sense britannico regnava nei college e nutriva l’etica delle élite e il nascente individualismo. Quanto alla produzione letteraria, i grandi autori di metà Ottocento avevano forti legami con il romanticismo e l’idealismo europei. Sottratta al chiuso universo eccezionalista, la guerra civile americana viene oggi vista come parte di un complessivo scenario euro-americano – o della Grande Europa, come amo dire per indicare il sistema degli Stati che ha legato assieme i due continenti fino alla seconda guerra mondiale per essere sostituito dall’egemonia statunitense e sovietica durante la guerra fredda – negli anni in cui erano in pieno svolgimento su entrambi i lati dell’Atlantico i processi di formazione dello Stato-nazione, del nazionalismo, del liberalismo e della democrazia ottocenteschi. Di tali legami le élites e la vieppiù robusta classe media americana erano pienamente consapevoli e li seguivano attentamente, servendosene per interpretare le 25. R. Blackburn, The American Crucible. Slavery, Emancipation, and Human Rights, New York 2011; E. Dal Lago, American Slavery, Atlantic Slavery, and Beyond. The U.S. Peculiar Institution in International Perspective, London 2012. 26. E.B. Rugemer, The Problem of Emancipation. The Caribbean Roots of the American Civil War, Baton Rouge 2008.

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vicende del loro paese. Gli studi di Andre Fleche,27 Don Doyle28 e altri hanno dimostrato che il pubblico americano era attentissimo all’Europa attraverso la ubiquita stampa – 300 quotidiani e quasi 3.000 settimanali nutriti dal reseau delle linee telegrafiche coprivano gli interi Stati Uniti a metà secolo – e seguì con grande partecipazione il 1848 francese, ungherese, tedesco, italiano. Per quanto riguarda l’Italia vale la pena ricordare che negli Stati Uniti nacque Young America, un movimento culturale iniziato negli anni Trenta, democratico, nazionalista e legato all’idea di progresso, che si rifaceva alla Giovane Italia mazziniana;29 la nota trascendentalista Margaret Fuller prese parte alla Repubblica romana del 1849 e ne scrisse estesamente per i giornali americani;30 i diplomatici americani negli Stati italiani seguirono con attenzione il Risorgimento, come ha dimostrato Daniele Fiorentino.31 La ricerca ha, quindi, potuto evidenziato che lo scontro nord-sud, poi la guerra erano visti negli Stati Uniti come un conflitto che si collocava nella scia del nazionalismo liberale del 1848 e nell’ambito della lotta internazionale fra libertà repubblicana e dispotismo monarchico di cui entrambe le parti si servivano per sostenere le proprie ragioni. Superata l’ossessiva ricerca di chi, se il Nord o il Sud, sia stato il vero rappresentante dello spirito e dei valori americani e di chi, invece, abbia deviato da essi, oggi gli storici convergono sul fatto che nelle due sezioni venivano date due versioni della stessa narrazione in quanto Unionisti e Confederati erano prima di tutto patrioti americani e si ritenevano tutti portacolori della rivoluzione del 1776 e della missione americana di essere modello di libertà nel mondo. Così, ad esempio, gli inviati della Confederazione in Europa presentarono la secessione come una prosecuzione della lotta per la libertà del 1776 e lo fecero in nome del diritto dei popoli all’indipendenza, nel quale credevano profondamente. Con questi argomenti ottennero l’appoggio di vari grandi liberali, ad esempio Lord Acton, e anche l’attenzione di Gladstone, oltre alla benevola neutralità inglese, 27. A. Fleche, The Revolution of 1861. The American Civil War in the Age of Nationalist Conflict, Chapel Hill 2012. 28. D. Doyle, The Cause of All Nations. An International History of the American Civil War, New York 2015. 29. Y. Eyal, The Young America Movement and the Transformation of the Democratic Party, Cambridge 2007. 30. Gli americani e la Repubblica romana del 1849, a cura di S. Antonelli, D. Fiorentino, G. Monsagrati, Roma 2000. 31. D. Fiorentino, Gli Stati Uniti e il Risorgimento d’Italia, Roma 2013.

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francese e spagnola. Negli anni in cui si compiva l’unità italiana e in Germania si lottava per lo stesso scopo l’Unione, che dichiarava di combattere per mantenere unito lo stato, ebbe difficoltà a non passare per un governo che coartava con le armi il popolo sudista. Essa riuscì a vincere la battaglia ideale in Europa soltanto quando, con il Proclama di Emancipazione del 1 gennaio 1863, mise in luce la natura illiberale del Sud, che difendeva la schiavitù come uno strumento di difesa della libertà quando gli Stati europei in nome della libertà la avevano ormai abolita.32 La guerra civile americana, lungi dall’essere un evento soprattutto locale, fu, quindi, al centro di un intenso dibattito internazionale sulle due sponde dell’Atlantico e venne discussa ampiamente in tutta Europa, come si può evincere dal volume del 2004 curato da Carlo Galli e da me e anche dall’interesse che suscitò in Marx ed Engels, che la seguirono da vicino e la commentarono su giornali inglesi e tedeschi.33 Ovunque essa fu giudicata un test della capacità di sopravvivere della libertà politica valido anche per l’Europa, ovvero a contrario, come ad esempio in Spagna, come la dimostrazione che il destino storico del liberalismo era segnato. Essa fu anche la dimostrazione di quanto profondamente gli Stati Uniti fossero parte del sistema politico internazionale della Grande Europa e come, quindi, gli eventi americani avessero immediate ripercussioni nel Vecchio Mondo.34 Unione e Confederazione cercarono entrambe di trascinare dalla loro parte le potenze europee e per tutto il 1862 un intervento mediatore di Gran Bretagna, Francia e Spagna parve prossimo e necessario per le gravi conseguenze economiche della guerra sull’industria tessile europea e anche per le potenziali conseguenze politiche destabilizzanti. Gli Stati Uniti, però, erano una polveriera in cui tutti esitavano a mettere le mani, la Gran Bretagna per prima, la quale temeva che il tentativo di mediazione potesse portare a una guerra con l’Unione che avrebbe messo in pericolo il Canada senza che fossero in gioco vitali interessi britannici. Gli inglesi preferirono quindi attendere lo svolgersi degli eventi sul campo, come dichiarò 32. Blackett, Divided Hearts. 33. La Guerra civile americana vista dall’Europa, a cura di T. Bonazzi, C. Galli, con un’antologia di testi, Bologna 2004; K. Marx, F. Engels, La guerra civile, a cura di E.M. Forni, Roma 1971; R. Blackburn, Marx and Lincoln. The Unfinished Revolution, LondonNew York 2011. 34. H. Jones, Blue and Gray Diplomacy. A History of Union and Confederate Foreign Relations, Chapel Hill 2010; A. Foreman, A World on Fire. Britain’s Crucial Role in the American Civil War, New York 2011.

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Gladstone. Alla prudenza britannica fece riscontro l’arrembante e rischiosa politica di Napoleone III che, finito nel nulla il progetto di mediazione europea, si sentì libero di intervenire in Messico dove nel 1864 mise sul trono Massimiliano d’Asburgo quale primo passo verso un’alleanza di stati cattolici americani ed europei contro il mondo protestante. Un progetto non solo retrogrado, ma impossibile in pratica per la resistenza messicana e perché, appena terminata la guerra, bastò una dura dichiarazione del Segretario di Stato americano John Seward, che minacciò la guerra se non cessava l’appoggio francese a Massimiliano, per far fare marcia indietro a Napoleone. Negli anni Sessanta gli Stati Uniti non solo erano parte del sistema della Grande Europa; ma non ne erano neppur più una periferia lontana. La loro volontà era dominante in Nordamerica e la posizione del paese riunificato non fece che rafforzarsi, come si vide con la cessione dell’Alaska agli Stati Uniti da parte della Russia nel 1866: una mossa, quella russa, volta a impedire, con l’eventuale acquisizione dell’Alaska, l’ampliarsi della sfera di influenza britannica ai confini con l’Impero russo. 3. Un altro tema centrale della storiografia contemporanea è quello della guerra civile come una guerra al tempo stesso nation preserving e nation making. Gli splendidi documenti illuministi che stanno a fondamento degli Stati Uniti danno l’idea di un paese già formato e adulto alla nascita. Il che ha coperto la realtà di uno Stato che, per la lontananza economica, politica e culturale fra i tredici Stati originari, poté nascere solo attraverso compromessi laboriosi, a volte creativi come il federalismo, a volte immorali come quello sulla schiavitù, fra le tante aree del paese: aree geoclimatiche diversissime, comunità locali del tutto autonome – “comunità-isola” come le ha chiamate Robert Wiebe35 – tradizioni, gruppi religiosi, interessi etnici ed economici divaricati quando non contrastanti. È vero che nei settant’anni fino alla guerra civile si impose uno spirito nazionale sostenuto dall’introiezione dei principi della rivoluzione e dell’ideale della libertà; ma esso diede una forma solo parzialmente comune agli Stati Uniti. Sotto a esso le “rivoluzioni” – come sono state chiamate dagli storici per evidenziarne il carattere trasformatore – degli anni successivi alla seconda guerra anglo-americana, quelle dell’evangelicalismo, dei 35. R. Wiebe, The Segmented Society. An Introduction to the Meaning of America, New York-Oxford 1975.

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trasporti, commerciale, industriale, democratica36 non unificarono il paese, ma crearono “placche tettoniche” parziali e anche confliggenti che davano forma a singole parti geografiche o sociali del paese, il quale restò diviso in regioni e aree diverse e società dalle tradizioni e culture lontane fra loro, come ad esempio il New England e il basso Mississippi. L’impossibilità di ridurre gli Stati Uniti a un comun denominatore se non dal punto di vista, pur importante, di istituzioni innovative ma sotto molti aspetti non delineate (la Costituzione, ad esempio, tace su come si debbano dirimere i possibili conflitti fra i poteri del governo federale e quelli degli Stati che fu il nodo che fece precipitare la secessione), e di un nazionalismo tanto efficace verso l’esterno, quanto interpretato in vari modi all’interno, ebbe conseguenze drammatiche. Il dispiegarsi delle varie rivoluzioni della prima metà dell’Ottocento sul territorio fece infatti uscire gli Stati Uniti dalla disorganizzata diversità delle origini, ma non diede vita a una sia pur pluralista nazione. Le varie “placche tettoniche”, i cui effetti erano diversi a seconda delle situazioni, finirono, infatti, col coagularsi in due realtà tutt’altro che univoche al loro interno, però riconoscibili, che vennero chiamate sezioni, il Nord e il Sud. Fino a questo punto non ho parlato della schiavitù perché a lungo essa non ebbe un peso determinante nelle vicende statunitensi. Il federalismo – la Costituzione non dava poteri al governo federale sulla schiavitù che era materia riservata agli Stati –, una serie di interessi convergenti – le manifatture tessili del Nord, iniziatrici negli anni Venti della rivoluzione industriale americana, dipendevano dal cotone del Sud e il Sud dipendeva dal Nord per i rifornimenti alimentari e molti servizi commerciali e bancari – e il fortissimo timore di disunion,37 uno spettro presente fin dall’epoca rivoluzionaria che se si fosse materializzato era opinione comune avrebbe portato gli Stati Uniti al destino di impotenza degli stati dell’America Latina, impedivano infatti che la si attaccasse direttamente, nonostante le campagne degli abolizionisti, del tutto minoritarie, e pur se molti, anche a Sud, la ritenevano immorale. Al che deve aggiungersi la comune convinzione dell’inferiorità dei neri che anche negli Stati del Nord, dove la schiavitù 36. S. Wilentz, The Rise of American Democracy, Jefferson to Lincoln, New YorkLondon 2005; R. Wiebe, The Opening of American Society, from the Revolution to the Eve of Disunion, New York 1984. 37. E.R. Varon, Disunion. The Origins of the American Civil War, 1789-1859, Chapel Hill, 2008.

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venne presto abolita, fece proliferare le leggi che li privavano di gran parte dei diritti dei bianchi. La situazione prese a mutare negli anni Quaranta, col mutare di una delle idee che avevano nutrito la rivoluzione, vale a dire il primato nel popolo del lavoratore autonomo, il cui modello era il farmer, il contadino proprietario guardiano della libertà contro il cancro del potere secondo la tesi del repubblicanesimo inglese importata oltreatlantico a metà Settecento.38 Nel Nord, infatti, dove la rivoluzione industriale era ormai pienamente in atto, al farmer si aggiunse il lavoratore salariato come degno di cittadinanza e si cessò di accomunarlo, come era avvenuto fino ai primi decenni dell’Ottocento, alla situazione di dipendenza del servo a contratto, del marinaio, del lavoratore a giornata. Da qui l’imporsi negli Stati del Nord dell’idea, che finì col diventare il fulcro della visione nordista della nazione americana, della centralità etico-politica del lavoro liberamente scelto. Un lavoro che, se negato come nel caso degli schiavi, viola il principio secondo cui in un paese libero ogni essere umano ha diritto di scegliere il proprio lavoro e di goderne i frutti – idea di cui Abraham Lincoln fu uno dei più convinti sostenitori.39 La schiavitù apparve così come la negazione del principio sottinteso alla libertà americana e il Sud venne visto in una luce diversa, come una deviazione dai principi veri dell’americanismo o, al più, il popolo sudista fu ritenuto vittima di una cospirazione dei piantatori. A occhi nordisti il Sud, cercando di imporre lo schiavismo come componente costitutiva dell’Unione, metteva in pericolo la libertà degli stessi bianchi, negava la missione di libertà degli Stati Uniti ed evocava lo spettro della disunion, almeno a livello ideale. Gli storici paiono oggi d’accordo sul fatto che è su queste basi e non per una rivolta morale nordista contro la schiavitù che si può ritenere quest’ultima causa della guerra civile. Ogni discussione in materia va approfondita con attenzione perché occorre valutarla in rapporto all’avanzare a Nord del lavoro libero e, quindi, del contratto come espressione di autonomia personale e cardine della libertà e del progresso americani. Il che rende più chiaro anche l’atteggiamento sudista, che a partire dagli anni Trenta divenne una sempre più aggressiva difesa della schiavitù interpretata come “bene positivo” sia su basi bibliche40 e scientifiche, sia come mezzo necessario a garantire la libertà e 38. B. Bailyn, The Ideological Origins of the American Revolution, Cambridge (MA) 1967. 39. Bonazzi, Abraham Lincoln. 40. J.P. Daly, When Slavery Was Called Freedom. Evangelicalism, Pro-slavery, and the Causes of the Civil War, Lexington (Ky) 2002.

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l’uguaglianza dei bianchi. Uguaglianza assicurata, al di là delle diseguali strutture sociali e di potere, dal fatto che essa garantiva a tutti i bianchi indistintamente i diritti dai quali dovevano essere esclusi i membri di una razza inferiore.41 Una difesa che quasi naturalmente divenne una pressante richiesta di far espandere la schiavitù nell’estremo ovest, nei territori strappati al Messico nel 1848, e addirittura per molti estremisti, come il leader della South Carolina John Calhoun, di render possibile ai proprietari di schiavi di andare a vivere con essi negli Stati che la avevano abolita. Un passo, questo, che implicava il riconoscimento dello schiavismo come elemento costitutivo di tutta la nazione americana. La radicalizzazione dello scontro portò quindi al sorgere di due visioni nazionali opposte, di due nazionalismi o forse di due protonazionalismi usciti dal tronco comune del nazionalismo americano, che organizzarono il paese al di là di quanto le precedenti “rivoluzioni” avevano fatto; ma il risultato fu di spaccare gli Stati Uniti in due entità nemiche, pur se tutt’altro che compatte al loro interno.42 4. Il conflitto risolse definitivamente la questione delle due potenziali nazioni che si erano venute delineando in seguito allo scontro sezionale e unificò gli Stati Uniti, anche se a un incredibile costo in vite umane. Di conseguenza si può ritenere la guerra civile una guerra nation preserving, almeno nel senso che mantenne in vita le istituzioni del 1776 e garantì l’unità dello Stato stabilendo la supremazia del governo federale nel federalismo; ma in modo ancor più netto ritengo la si debba considerare una guerra nation making perché gli Stati Uniti che uscirono da essa non erano quelli desiderati dal Sud prima di secedere e neppure, se non in parte, quelli intesi dal Nord nel corso del conflitto. La guerra civile viene ritenuta una guerra moderna,43 la prima guerra moderna assieme a quella di Crimea, per il largo uso di armi come i fucili a canna rigata, le pistole a ripetizione, le pallottole Minié, le navi corazzate e 41. E. Genovese, E. Fox-Genovese, Fatal Self-Deception. Slaveholding Paternalism in the Old South, Cambridge 2011; R. Bonner, Mastering America. Southern Slaveholders and the crisis of American Nationhood, New York 2009; L.K. Ford, Deliver Us from Evil. The Slavery Question in the Old South, Oxford 2009. 42. P. Quigley, Shifting Grounds. Nationalism and the American South, 1848-65, Oxford-New York 2012. 43. B.H. Reid, The American Civil War and the Wars of the Industrial Revolution, London 1999.

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il primo, limitato uso delle mitragliere Gatling, nonché per vari, prolungati episodi di guerra di trincea quali i molti mesi di assedio a Petersburg, vicino a Richmond, che terminarono con la caduta della capitale confederata. A caratterizzarla in modo innovativo furono però, assai più degli armamenti, il massiccio uso delle decine di migliaia di chilometri di linee ferroviarie e telegrafiche esistenti, nonché la capacità che ebbero sia l’Unione, sia la Confederazione di organizzare e tenere in campo per quattro anni milioni di uomini su un fronte che andava dalla costa atlantica al Mississippi e da qui a sud fino al Golfo del Messico, senza parlare del blocco unionista alle coste della Confederazione e del conseguente conflitto navale. Uno sforzo produttivo, organizzativo e logistico senza precedenti, che mette in luce le capacità produttive e organizzative dell’economia americana di metà Ottocento e quelle delle società delle due parti che furono interamente mobilitate a scopi bellici,44 tanto da potersi dire che la guerra civile non fu solo una guerra moderna, ma il primo esperimento di guerra totale. La volontà dell’Unione e del suo Presidente Abraham Lincoln era di giungere a una riunificazione degli Stati Uniti nel nome degli ideali della Dichiarazione di Indipendenza e della Costituzione così come venivano letti nel Nord, vale a dire come un’unione nel nome della libertà proclamata dal popolo americano e non dai tredici Stati allora esistenti, il che implicava la fine della schiavitù in base al diritto naturale alla libertà contenuto nella Dichiarazione. Lincoln nei suoi ultimi mesi di vita e la maggioranza dei nordisti negli anni seguenti andarono oltre il XIII Emendamento del 1865, che stabilì la fine della schiavitù, tanto che i successivi XIV e XV concessero agli ex schiavi la cittadinanza con i diritti che ne conseguivano. In precedenza, inoltre, Lincoln e il Congresso avevano approvato una serie di leggi volte a garantire l’efficacia dello sforzo bellico da un punto di vista sia economico che politico. Tali misure, che capovolgevano decenni di politiche che andavano in senso contrario, erano volte a promuovere la nascita di un unico mercato continentale al posto di quelli regionali con opere pubbliche sussidiate dal governo federale – la prima transcontinentale, ad esempio, costruita fra il 1863 e il 1869 –, che avrebbero unito fisicamente la costa atlantica e quella pacifica e consentito lo sfruttamento delle enormi risorse minerarie delle Montagne Rocciose, con la concessione di terre gratuite ai pionieri nell’Estremo ovest per venire incontro sia a una richiesta molto popolare, che per dare il via a una massiccia produzione cerealicola, 44. G.W. Gallagher, The Union War, Cambridge (MA) 2011.

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nonché con la concentrazione del potere finanziario nelle mani di dieci grandi national bank private del Nordest alle quali vennero subordinate le centinaia di banche minori al fine di promuovere grandi investimenti e stabilizzare il sistema bancario.45 Questo progetto economico ebbe un enorme successo, ma non nel modo pensato dai suoi estensori, che solo in parte ne immaginarono le conseguenze. Il piano di fare dei neri liberi o ex schiavi dei cittadini al pari dei bianchi fallì nonostante vari anni di occupazione militare dell’ex Confederazione da parte delle truppe federali. La resistenza del Sud, portata avanti con la politica in Congresso e con il terrore negli Stati già secessionisti, e quella di molti nordisti che consideravano i neri incapaci di vivere come cittadini, convinse il Partito repubblicano nel 1877 a venire a un accordo con i Democratici, in maggioranza meridionali, per consentire al progetto economico disegnato durante la guerra di produrre tutti i suoi effetti anche a Sud.46 Fu l’inizio di quel “patto razziale” ricordato all’inizio che consentì la pacificazione nazionale; ma portò alla segregazione dei neri negli Stati del Sud e anche all’esclusione dalla società americana degli immigrati asiatici nella costa del Pacifico, nonché dei nativi, costretti nelle riserve. Rapidamente e senza scosse fu, invece, raggiunta l’unificazione economica dell’Unione e dopo il 1877 quella dell’intera nazione, tanto che già a metà anni Settanta gli Stati Uniti non erano più quelli di un decennio prima e la società del Middle West in cui Lincoln era vissuto e in cui credeva come modello per l’America andava scomparendo. Una società di contadini proprietari inseriti nel mercato, di piccole industrie legate al territorio, di spesso minuscole città che servivano la campagna circostante con i servizi forniti dai loro mercanti, piccoli imprenditori, avvocati, medici, giornalisti, agrimensori, ministri delle tante chiese. Una società di orgogliosi, autonomi cittadini. Essi non erano neppure gli Stati Uniti della società prebellica della costa atlantica, con le sue grandi città – New York aveva superato un milione di abitanti nel 1860 e Philadelphia il mezzo milione –, una forte industria leggera e pesante soprattutto tessile e siderurgica, le principali banche, i grossisti e i potenti mercanti atlantici, i college più importanti, 45. Capitalism Takes Command. The Social Tansformation of 19th Century America, Chicago 2012; H.C. Richardson, The Greatest Nation of the Earth. Republican Economic Policy during the Civil War, Cambridge (Mass) 2009. 46. A.C Guelzo, Fateful Lightning. A New History of the Civil War and Reconstruction, Oxford-New York 2012; E. Foner, Forever Free. The Story of Emancipation and the Reconstruction, New York 2005.

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perché quella era ancora una società regionale la cui influenza sulle altre parti del paese era indiretta. A fine anni Settanta, invece, il Nord Atlantico dominava direttamente e guidava l’intera economia nazionale con le miniere che i suoi capitali stavano facendo sorgere nelle Montagne Rocciose, l’inizio dell’esportazione in Europa dei cereali delle Grandi pianure e le prime aziende per il trasporto, macellazione e distribuzione a est dei bovini texani – il cui centro stava diventando una Chicago ormai del tutto legata a New York –, gli investimenti nelle piantagioni del Sud. Il tutto favorito da un reseau ferroviario ormai primo al mondo per dimensioni e di proprietà di grandi imprese oligopolistiche del Nordest. La guerra civile non portò neppure al risultato assegnatole dai molti che vi scorgevano una rigenerazione cristiana del paese che avrebbe dato il via al millennio e avvicinato il ritorno di Cristo sulla terra – negli Stati Uniti naturalmente. Essa consentì invece alle straripanti forze economiche del Nordest, che durante la guerra si erano alleate con i politici repubblicani, di far recedere la democrazia dei cittadini indipendenti e self-reliant a favore del lavoro salariato in un capitalismo dominato da grandi monopoli che provocò una dura lotta di classe. Quando negli ultimi due decenni dell’Ottocento tutto quanto detto divenne lo standard del paese, gli ex combattenti erano ormai diventati fantasmi di un tempo passato, riveriti e amati, ma usati senza remore per esaltare il trionfo dell’America bianca e anglosassone e del suo destino di grande nazione industriale, che nel 1898 – con la vittoriosa guerra contro la Spagna – iniziò la sua politica di potenza. La guerra civile distrusse la schiavitù e giunse a riunificare gli Stati Uniti allontanandoli, però, rapidamente e definitivamente da ciò che erano stati nel 1861 e da ciò per cui gran parte degli americani avevano combattuto.

bruna bianchi Grande guerra e popolazione civile: violazione delle libertà e dei diritti, sradicamento, violenza strategica*

Condotta dalle risorse di tutta la nazione, il scopo ultimo della guerra è quello di esercitare pressioni su un intero popolo, affliggendolo con ogni possibile mezzo, così da costringere il governo nemico a capitolare.1

La Grande guerra, una catastrofe senza precedenti nella storia d’Europa, in cui nove milioni di uomini persero la vita nelle trincee, non risparmiò la popolazione civile. Pur in assenza di dati certi, sembra che le morti tra i civili abbiano superato le perdite subite dagli eserciti che si fronteggiarono sui campi di battaglia. Nel 1920 l’economista John Atkinson Hobson valutava il numero dei decessi causati dalla guerra tra i non combattenti in non meno di tredici milioni.2 Eppure, la convinzione che nella prima guerra mondiale i civili abbiano sofferto incomparabilmente meno rispetto alla seconda è ancora molto

*Questo saggio riprende e per certi versi amplia alcuni temi già affrontati in precedenti pubblicazioni: I civili: vittime innocenti o bersagli legittimi?, in La violenza contro la popolazione civile durante la grande guerra. Deportati, profughi, internati, a cura di B. Bianchi, Milano 2006, pp. 13-82; Crimini di guerra e contro l’umanità. La violenza ai civili sul fronte orientale (1914-1919), Milano 2012. 1. Dal documento dello Stato maggiore della Marina britannica presentato nel 1921 alla Commissione imperiale di difesa, citato da M. Howard, Temperamenta Belli: Can War Be Controlled?, in Restraints on War. Studies in the Limitation of Armed Conflict, a cura di M. Howard, Oxford 1979, p. 10. 2. J.a. Hobson, Failure of Recuperative Forces, in The Needs of Europe. Its Economic Reconstruction. A Report of the International Conference Called by the Fight the Famine Council, 11-13 September 1920, London 1921, p. 15.

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diffusa e sostenuta da autorevoli storici3 e solo negli ultimi anni la storiografia ha iniziato a mettere in discussione una tesi tanto consolidata. Come hanno rivelato i recenti studi, in quegli anni drammatici furono legittimate modalità belliche che varcarono ogni limite posto dalle Convenzioni internazionali, si affermarono strategie volte a colpire le popolazioni “nemiche” e a giustificarle come conseguenze ineluttabili della guerra moderna.4 Governi e autorità militari, consapevoli che nessuna vittoria sul campo sarebbe stata risolutiva fino a che le società fossero state in grado di resistere e di produrre, sottoposero la popolazione civile a pressioni crescenti: la mobilitazione si estese a tutti i livelli della vita pubblica e privata, a tutti gli strati sociali e a tutte le fasce di età, annullando progressivamente le differenze tra fronte e fronte interno, tra civili e combattenti. Il ricorso a misure di emergenza divenne una pratica corrente e in ogni paese migliaia di persone furono internate, deportate, persero le libertà civili. Nei territori occupati le risorse furono sfruttate all’estremo, gli abitanti vennero costretti al lavoro forzato e sottoposti a indicibili privazioni. Le barriere poste all’approvvigionamento alimentare dei paesi “nemici” causarono tassi altissimi di mortalità, in particolare tra i bambini e le donne. La violenza strategica contro la parte più debole della popolazione civile si rivelò l’arma di guerra decisiva per la vittoria. A est la ridefinizione dei confini etnici e territoriali condusse all’espulsione e alla persecuzione delle minoranze, all’annientamento di contesti culturali, alla degradazione delle donne; cambiò la composizione etnica di intere regioni, accrebbe vecchie ostilità e causò nuovi antagonismi; distrusse strutture sociali, convivenze e comunità e in alcune regioni diede avvio a una spirale di odio difficile da spezzare. 1. Violazione delle libertà e dei diritti civili Molti sostenitori della «guerra per la libertà» danno per scontato che quando la guerra finirà la trappola d’acciaio che dal 1914 si è stretta intorno alle nazioni europee si aprirà e automaticamente i popoli che vi erano stati rinchiusi 3. J. Keegan, La prima guerra mondiale. Una storia politico-militare, Milano 2000 [1998], p. 16. 4. h. Slim, Killing Civilians: Methods, Madness and Morality in War, New York 2008; a.b. Downes, Targeting Civilians in War, Ithaca-London 2008.

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ne usciranno con tutte le loro antiche libertà intatte, con nuovi poteri e aspirazioni democratiche. Ha senso una tale supposizione?5

Così scriveva Hobson nel 1917 in Democracy After the War, una delle opere più lucide sulle conseguenze della guerra sulla struttura dello Stato e sul potere politico. La trasformazione di una guerra lampo in guerra totale, se da una parte pose in primo piano la necessità di ottenere il consenso della popolazione e costrinse tutti i paesi a rivolgere la propria attenzione alla società, produsse contemporaneamente profonde lacerazioni nell’ambito dei diritti dei cittadini. In ogni paese tali diritti vennero drasticamente limitati, si affermò il prevalere dell’esecutivo sul legislativo e sul giudiziario, si limitarono le funzioni del Parlamento. Estesi poteri in materia civile passarono nelle mani delle autorità militari, inclusa la produzione industriale e il controllo del mercato del lavoro. La necessità divenne il fondamento della legge e il principio di legalità fu sostituito da quello di legittimità in base al quale divenne lecito tutto ciò che era ritenuto necessario per la difesa e la sicurezza nazionale. Gli Stati si dotarono di legislazioni e di apparati repressivi eccezionali,6 misero in atto campagne propagandistiche volte a ottenere una totale identificazione della popolazione con gli obiettivi politici e militari della classe dirigente e ad insinuare un modo di pensare imprigionato in rigide opposizioni: amico/nemico; civiltà/barbarie; vittoria totale/sconfitta totale. All’inizio del conflitto la tensione popolare – frutto di timori, disorientamento e incertezza del futuro – fu indirizzata contro i cittadini stranieri di nazionalità nemica favorendo una «mentalità persecutoria» che condusse a fatti gravi di aggressione, a vendette e delazioni. Ai cittadini stranieri residenti nel paese fu revocata la cittadinanza, limitata la capacità giuridica, furono messi messo sotto sequestro i beni. La lotta alle spie, ai sabotatori e ai traditori in molti casi assunse i caratteri di una vera e propria psicosi xenofoba.7 Dopo questa prima fase i provvedimenti repressivi si rivolsero 5. J.A. Hobson, Democracy after the War, London 1917, p. 16. 6. G. Procacci, Stato di guerra, regime di eccezione e violazione delle libertà. Francia, Inghilterra, Germania, Austria, Italia dal 1914 al 1918, in Le guerre mondiali in Asia Orientale e in Europa. Violenza, collaborazionismi, propaganda, a cura di B. Bianchi, L. De Giorgi, G. Samarani, Milano 2009, pp. 33-52. Della stessa autrice si veda il recente Warfare-welfare: Intervento dello Stato e diritti dei cittadini (1914-1918), Roma 2013. 7. Per una rassegna degli studi su questo tema si veda B. Bianchi, Cittadini stranieri di nazionalità nemica, Internamenti, espropri, espulsioni (1914-1920). Bibliografia com-

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contro i «nemici interni», una campagna che assunse i toni più violenti dove maggiore era il disagio sociale e più acuto il conflitto politico o etnico. Migliaia di uomini e donne che avevano manifestato opinioni pacifiste, avevano partecipato a scioperi e a manifestazioni contro la guerra o avevano manifestato la propria stanchezza, furono internate senza alcuna possibilità di difesa. Una tale deviazione giuridica produsse effetti per molti versi permanenti lasciando segni profondi anche nei paesi democratici. La legislazione d’eccezione, infatti, continuò a essere invocata per reprimere il dissenso politico. Come previde Hobson nel 1917, le restrizioni imposte durante il conflitto in nome della difesa nazionale sarebbero state mantenute in tempo di pace e giustificate sulla base del bene collettivo: Il passaggio dalla guerra alla pace sarà il passaggio da un militarismo più accentuato a un militarismo meno accentuato, ma il carattere fondamentalmente militare dello stato quando il paese uscirà dalla guerra rimarrà impresso in tutte le funzioni del governo. […] E non c’è alcuna ragione di ritenere che dopo un breve periodo di adattamento […] le libertà individuali, di movimento, di commercio, così come la giustizia e l’autogoverno saranno ripristinate. Nessuna persona ragionevole può pensarlo. Perché questa guerra per chiunque sappia osservare è stata in ogni paese una rivelazione delle forze della reazione che non può essere ignorata.8

Negli anni di guerra si fece strada un modello di gestione del potere mutuato dall’ideologia militare e fondato sul principio di una forte autorità centrale e sull’eliminazione del dissenso. «I regimi totalitari degli anni tra le due guerre avrebbero reso permanente lo stato di eccezione sperimentato durante la guerra».9 La Grande guerra inoltre portò a compimento il processo di annientamento dell’autodeterminazione individuale che culminò nell’omologazione forzata, nel declino della pluralità e della libertà. Distrutta la solidarietà di classe, ha scritto Hannah Arendt, il conflitto lasciò gli individui isolati e vulnerabili, sradicò milioni di persone e pose le basi per lo sviluppo della società di massa e il dominio totalitario. «In questa atmosfera di sfacelo gementata, in «DEP. Deportate, esuli, profughe. Rivista di studi sulla memoria femminile», 3/5-6 (2006), pp. 323-358. Un aggiornamento della bibliografia sarà pubblicato nella stessa rivista in uno dei prossimi numeri. 8. Hobson, Democracy after the War, pp. 18-19. 9. Procacci, Stato di guerra, p. 52.

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nerale si formò la mentalità dell’uomo di massa europeo»10 affascinato dal leader, pronto a trasferire su di lui ogni responsabilità, creatività, azione. Se in Occidente le modificazioni più profonde riguardarono la sfera economica e la struttura giuridica dello stato, all’Est il carattere distintivo del conflitto fu quello della devastazione, degli esodi e delle espulsioni di massa, della denazionalizzazione e del genocidio. 2. Espulsioni e trasferimenti forzati Le violazioni più gravi, infatti, gli eccidi su scala più vasta si verificarono sul fronte orientale. In Turchia si perpetrò il genocidio degli armeni e delle minoranze greche e assiro-caldee; in Russia e nella Galizia orientale si sfiorò il genocidio degli ebrei, espulsi a centinaia di migliaia; in Serbia, in Macedonia e in Dobrugia gli occupanti bulgari misero in atto forme di denazionalizzazione che decimarono la popolazione. In Galizia la popolazione ucraina, accusata di spionaggio e collaborazionismo, subì feroci repressioni da parte delle autorità austro-ungariche, fu espulsa e deportata in lager speciali. Nel corso della ritirata dell’esercito russo dalla Galizia fu messa in atto la politica della «terra bruciata», che ebbe conseguenze economiche gravissime e per molti anni a seguire condannò alla fame milioni di persone.11 La progressiva estensione del potere conferito alle autorità militari in tema di sicurezza, i sistemi coercitivi ampiamente adottati nel corso del primo anno di guerra furono gli strumenti delle espulsioni e delle deportazioni di massa e, nel caso delle minoranze cristiane nell’Impero ottomano, del genocidio. E queste misure furono giustificate con le stesse argomentazioni a cui in ogni paese si era fatto ricorso per colpire i «nemici interni»: la necessità suprema della difesa della nazione, il pericolo rappresentato da spie e franchi tiratori. Il contesto della guerra totale, la sospensione del controllo parlamentare e le leggi di eccezione, furono determinanti nel processo decisionale del governo turco, determinando tattiche e procedure del genocidio. Le divisioni etniche ebbero sempre un ruolo decisivo nel determinare le forme e l’estensione della violenza. Il processo di dissoluzione degli imperi multinazionali e la loro trasformazione in Stati indipendenti – a cui 10. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Verona 1996 [1951], pp. 436-437. 11. p. Wróbel, The Seeds of Violence. The Brutalization of an East European Region, 1917-1921, in «Journal of Modern European History», 1/1 (2003), pp. 125-148.

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il primo conflitto mondiale diede un impulso decisivo – fu caratterizzato da una violenza estrema nei confronti delle minoranze, considerate corpi estranei da eliminare o assimilare forzatamente con ogni mezzo.12 Questi processi assunsero caratteri di particolare gravità in quella vasta zona che Omer Bartov ha definito «borderland region», una regione che si estendeva dall’Europa centrale e baltica fino a quella sud-orientale e all’Asia Minore, punto di incrocio di quattro imperi (tedesco, russo, austroungarico e ottomano), dove divisioni e antagonismi etnici erano acuti e di antica data.13 L’idea che i confini nazionali sarebbero stati sicuri e durevoli solo se avessero rispecchiato le divisioni etniche a partire dalla Grande guerra divenne un principio indiscusso nelle relazioni tra gli stati. Da allora le espulsioni e i trasferimenti forzati di popolazione ottennero legittimazione internazionale, furono considerati parte del processo di formazione dello Stato, logico corollario dell’autodeterminazione. «Paradossalmente – ha scritto Marc Levene a proposito del genocidio armeno – la Turchia aveva affermato la propria indipendenza e sovranità attraverso una guerra sterminatrice» ed era entrata a far parte di un moderno sistema internazionale.14 Adottando il modello nazionale occidentale, i leader della Turchia post-Ottomana avevano forzato la propria via verso un moderno stato nazionale e di indipendenza sovrana. Gli stati occidentali non solo riconobbero quello stato, ma strinsero con esso accordi politici, cementati da quelli economici. Il fatto che la Turchia in questo processo non avesse rispettato le regole ufficiali e avesse preso una serie di «scorciatoie», incluso il genocidio, venne opportunamente ignorato.15

Il succedersi di trasferimenti forzati di popolazione mutò radicalmente il carattere etnico di molte regioni. Scrisse André Andréadès nella sua monografia sulle conseguenze sociali ed economiche in Grecia: «Oggi in Ma12. M. Mann, The Dark Side of Democracy: Explaining Ethnic Cleansing, Cambridge 2005. 13. O. Bartov, E.D. Weitz, Shatterzone of Empires. Coexistence and Violence in the German, Habsburg, Russian, and Ottoman Borderlands, Bloomington-Indianapolis 2013. 14. M. Levene, Creating a Modern «Zone of Genocide». The Impact of Nation and State Formation in Eastern Anatolia, 1878-1923, in «Holocaust and Genocide Studies», 12/3 (1998), p. 415. 15. Ibidem, p. 421.

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cedonia, a Creta, in Tracia orientale e in Anatolia la questione delle nazionalità praticamente non esiste più. È un risultato di portata immensa».16 Nel corso delle espulsioni di massa, delle repressioni, delle persecuzioni, la violenza alle donne fu sempre presente; sul fronte orientale gli stupri assunsero caratteri di massa e di inusitata efferatezza, un’arma di guerra che aveva lo scopo di costringere alla fuga, umiliare un intero popolo, rappresentarne simbolicamente l’annessione o la volontà di annientamento.17 Questi processi di sradicamento, non dissimili da quelli che avrebbero caratterizzato la seconda guerra mondiale, privarono intere popolazioni dei diritti legati alla cittadinanza. La stessa sorte toccò agli esuli politici, così descritta da Emma Goldman nel 1934: Il massacro mondiale ha messo fine all’epoca d’oro in cui un Bakunin, un Herzen, un Marx e un Kropotkin [...] e tanti altri potevano andare e venire senza alcun impedimento. [...] Questi rivoluzionari non avrebbero mai immaginato, nemmeno nei loro sogni più inquietanti, che il mondo si sarebbe trasformato in un’immensa prigione, o che la situazione politica potesse diventare più disumana e dispotica di quella del periodo peggiore dello zarismo. La guerra per la democrazia e l’avvento delle dittature di destra e di sinistra hanno distrutto ogni possibilità di movimento di cui i profughi politici avevano goduto in precedenza. Decine di migliaia di uomini, donne e bambini sono stati trasformati in moderni Ahasuerusi, costretti a vagare per il mondo, senza possibilità di essere accolti in alcun luogo.18

3. L’arma della fame La guerra economica, ovvero l’accaparramento delle risorse alimentari e naturali dei paesi occupati e le barriere poste all’approvvigionamento alimentare dei paesi “nemici”, ebbero esiti altrettanto drammatici. Nel do16. A. Andréadès, Les effets économiques et sociaux de la guerre en Grèce, New Haven-Paris 1928, p. 137. Se nel 1912 i greci rappresentavano il 42,6% della popolazione, turchi, albanesi e zigani il 39,3% e i bulgari il 9,9%, nel 1926 le percentuali erano rispettivamente: 88,3%; 0,1%; 5,3%: ibidem, pp. 138-139. 17. Bianchi, Crimini di guerra, pp. 151-195. 18. E. Goldman, La tragedia degli esuli politici, in B. Bianchi, Negazione dei diritti civili, deportazione ed esilio negli scritti e nei discorsi pubblici di Emma Goldman (19171934), in «DEP. Deportate, esuli, profughe. Rivista di studi sulla memoria femminile», 5/8 (2008), p. 149, http://www.unive.it/nqcontent.cfm?a_id=41888.

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poguerra Herbert Hoover calcolava in dieci milioni le morti per fame tra i civili.19 Iniziata nella certezza di una rapida soluzione sul campo di battaglia, la guerra si bloccò nel fango delle trincee dove gli eserciti si dissanguarono per cinque anni senza risultati di rilievo. Decisivo per le sorti del conflitto si rivelò il blocco navale, una strategia programmata e organizzata dall’alto da governi e autorità militari, che colpì deliberatamente la popolazione civile ed ebbe gravissime sulla sua parte più debole. L’idea che l’interdipendenza economica tra gli Stati avrebbe reso le guerre obsolete perché controproducenti era stata avanzata da Jan de Bloch e soprattutto da Norman Angell. La guerre future (1896) e The Great Illusion (1909) diedero avvio a un ampio dibattito sul significato economico dei conflitti moderni. Il danno arrecato a un paese, secondo Angell, avrebbe inevitabilmente avuto gravi ripercussioni sugli altri. La guerra era dunque un modo arcaico di soluzione dei conflitti, un’irrazionale devastazione di energie economiche, espressione del ritardo nell’adeguare i comportamenti politici alla realtà economica delle relazioni internazionali. Popoli e governi – sosteneva Angell – restavano vittime della illusione della vantaggiosità della guerra mentre lo sviluppo capitalistico, la globalizzazione e il libero mercato portavano naturalmente alla pace. In realtà l’interdipendenza economica, per poter rappresentare uno strumento di pace, avrebbe dovuto coniugarsi con la cooperazione tra le nazioni e la giustizia sociale, ovvero con un processo di democratizzazione delle relazioni internazionali e una limitazione della sovranità nazionale. Al contrario, in un mondo profondamente segnato dagli antagonismi economici e politici, la catena delle dipendenze economiche rivelò tutto il suo potenziale distruttivo. Lo ricordò, ancora una volta, l’«economista eretico» John Atkinson Hobson: Il fatto che i popoli siano collegati gli uni con gli altri non come gruppi di esseri umani [...] ma come potenze è la negazione completa di qualsiasi moralità nelle relazioni internazionali. Nei tempi moderni il possesso di maggiori opportunità economiche è lo strumento principale del dominio.20

Nei decenni precedenti il conflitto l’abbandono di una prospettiva di autosufficienza alimentare da parte dei paesi industrializzati e la specializ19. Citato in J.r. Marrack, Experience of Last War and Since. Current State of Nutrition in Occupied Europe and Elsewhere, in «Proceedings of the Nutrition Society», 2/3-4 (1944), pp. 177-179. 20. Hobson, Democracy after the War, p. 20.

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zazione agricola a livello internazionale avevano alterato i rapporti tra le nazioni, avevano generato nuovi problemi di sicurezza nazionale e condotto a una politica di riarmo navale volta a garantire e proteggere gli approvvigionamenti alimentari. Impedire l’accesso alle risorse alimentari per indurre alla resa e distruggere il morale di un’intera popolazione era lo scopo del blocco navale, uno strumento paragonabile ai bombardamenti di massa della seconda guerra mondiale che si andò configurando come una sofisticata e potente arma di guerra e che richiese un’intensa attività diplomatica e un’organizzazione centralizzata. Occorreva «strangolare la Germania per fame e fare in modo che sulle strade di Amburgo crescesse l’erba»,21 o come dirà più tardi Winston Churchill, «tenere la Germania sotto assedio e indurla alla resa riducendo alla fame tutta la popolazione: uomini, donne e bambini; giovani e vecchi, sani e malati».22 Poche settimane prima della dichiarazione del blocco, il 10 febbraio 1915, il ministro della guerra britannico, in una nota indirizzata al governo degli Stati Uniti, aveva giustificato la necessità di colpire la popolazione civile con l’impossibilità di distinguere tra combattenti e non: Il motivo di tracciare una distinzione tra i generi alimentari destinati alla popolazione civile e quelli destinati all’esercito o a un governo nemico sparisce quando la distinzione stessa tra popolazione civile e combattenti sparisce. [...] L’esperienza dimostra che la facoltà di requisizione sarà utilizzata al massimo grado per soddisfare le esigenze dell’esercito.23

Quanto maggiori fossero state le privazioni inflitte ai civili dai loro stessi governi, tanto più rigoroso avrebbe dovuto essere il blocco. La verità era – scriverà Herbert Hoover nel 1951 – che i soldati, i funzionari governativi, i lavoratori delle fabbriche di munizioni [...] avrebbero sempre e comunque ricevuto il necessario alla vita e che l’impatto del blocco sarebbe ricaduto sui deboli, sulle donne e i bambini.24

L’idea che il diritto internazionale e le convenzioni volte a limitare la guerra sui mari cessassero di essere cogenti di fronte allo “stato di ecce21. G. Best, Humanity in Warfare: the Modern History of the International Law of Armed Conflicts, London 1980, p. 248. 22. H.C. Peterson, Propaganda for War. The Campaign Against American Neutrality, 1914-1917, Norman 1939, p. 83. 23. L. Nurick, The Distinction between Combatants and the Noncombatants in the Law of War, in «American Journal of International Law», 29/4 (1945), p. 689. 24. The Memoirs of Herbert Hoover. Years of Adventure 1874-1920, New York 1951, p. 257.

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zione”, che il principio di necessità dovesse prevalere su quello di legalità è ben esemplificata dalla dichiarazione del Lord Cancelliere Viscount Haldane al console americano a Londra, Walter Page: «Dalla nostra parte – affermò – abbiamo la necessità, dalla vostra parte avete la legge, o meglio quel che ne rimane».25 La politica della guerra sottomarina indiscriminata da parte della Germania non era dissimile negli obiettivi, ma si rivelò assai meno efficace del blocco navale, le cui conseguenze furono devastanti. A causa della denutrizione, la resistenza alle malattie diminuì rapidamente: in Germania, tra il dicembre 1916 e la fine del conflitto, i casi di tubercolosi raddoppiarono; nel solo 1917 le morti di bambini e adolescenti (da 5 a 15 anni) superarono di 50.000 quelle dell’ultimo anno di pace. La mortalità delle giovani donne, dai 15 ai 25 anni, negli anni di guerra triplicò.26 In un Memorandum a cura del Ministero tedesco della sanità del 1918, il numero dei decessi tra la popolazione civile a causa del blocco era valutato in 763.000.27 Nel 1920 il fisiologo Ernest Starling, che nel 1919 si era recato in Germania per conto del governo britannico per verificare lo stato di salute della popolazione, affermò: Nessun altro mezzo avrebbe potuto essere più efficace per spezzare lo spirito di una nazione che rappresentava un pericolo per la civiltà europea [...]. Trascorrerà molto tempo prima che questo paese possa essere considerato una minaccia per la pace.28

In ciò, naturalmente, Starling si sbagliava, e – come ricordarono alcuni pacifisti negli anni Venti e Trenta – le conseguenze del blocco causarono rancori profondi e gettarono il seme di nuove catastrofi.29 In Austria la situazione fu ancora più grave: il blocco, la perdita della produzione granaria della Galizia, la regione che più di ogni altra garantiva 25. Peterson, Propaganda for War, p. 83. 26. C.P. Vincent, The Politics of Hunger. The Allied Blockade of Germany, 19151919, Athens-London 1985, pp. 124-156. 27. Dieci anni più tardi le stime della mortalità della popolazione civile al di sopra di un anno di età parlavano di 633.000 decessi: A. Offer, The First World War: An Agrarian Interpretation, Oxford 1989, p. 34. 28. E.H. Starling, Food Supply of Germany During the War, in «Journal of the Royal Statistical Society», 83/2 (1920), p. 232. 29. Sull’atteggiamento e le eleborazioni teoriche del pacifismo durante la guerra, e in particolare sulla guerra ai civili, rimando al mio L’avventura della pace. Pacifismo e Grande guerra, in corso di pubblicazione.

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il rifornimento alimentare dell’impero, l’entrata in guerra della Romania a fianco dell’Intesa, l’indiscussa priorità assicurata all’esercito negli approvvigionamenti, condussero il paese sull’orlo della morte di massa per fame.30 4. L’effetto a catena Se sulle conseguenze del blocco navale in Austria-Ungheria e Germania molto è stato scritto, poco ancora si conosce degli effetti a catena che la paralisi del commercio internazionale causò nei paesi alleati degli Imperi centrali. In Bulgaria, la situazione economica rimase sempre difficilissima e nell’ultimo anno di guerra divenne insostenibile. Austria e Germania esercitarono il diritto di precedenza sulle materie prime provenienti dalle zone di occupazione bulgara, in particolare dalle fertili regioni della Macedonia, della Serbia e della Romania. In Turchia, dipendente dall’estero per un terzo del suo fabbisogno alimentare, il blocco navale causò un’impennata della mortalità. Nel 1918 a Costantinopoli la mortalità femminile aumentò del 65% rispetto al 1917, quella dei bambini del 60%.31 Anche le condizioni della popolazione nei paesi occupati dagli Imperi centrali divenne sempre più drammatica. Com’è noto, lungo tutto l’arco del conflitto le zone occupate furono l’epicentro dello sforzo bellico della Germania da cui essa trasse materie prime, attrezzature e forza lavoro. Il progressivo peggioramento delle condizioni alimentari in patria non fece che aggravare lo sfruttamento delle risorse e delle energie lavorative dei paesi occupati. Scriveva nel 1928 nella sua monografia sul Belgio durante il conflitto lo storico belga Henri Pirenne: Il blocco navale organizzato dall’Inghilterra poneva la Germania in una posizione di netta inferiorità rispetto ai suoi nemici. […] Di fronte ai suoi nemici, ai quali le ricchezze del mondo erano accessibili, si trovava confinata in quella parte d’Europa centrale che tracciava tutto intorno a lei una linea di trincee. Al suo territorio si aggiungevano, senza neppure raddoppiarlo, il Belgio, il nord della Francia e le zone invase della Russia e della Polonia. È su questi territori che si ritrovò costretta a vivere. Per sostenere la lotta non aveva altro mezzo che utilizzare tutte le risorse. La sua salvezza aveva questo prezzo. La 30. J.e. Gumz, The Resurrection and Collapse of Empire in Habsburg Serbia, 19141918, Cambridge 2009. 31. a. Emin, Turkey in the World War, New Haven-London 1930, p. 250.

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necessità che la costringeva a sfruttare il suo popolo, non poteva farle risparmiare i popoli nemici momentaneamente conquistati dalle sue truppe.32

La storiografia recente ha ricostruito nel dettaglio le privazioni della popolazione in Belgio e Francia.33 Per quanto gravi, esse furono di gran lunga meno terribili di quelle subite in altri paesi occupati. Per quattro anni due milioni di francesi e sette milioni di belgi sopravvissero grazie agli aiuti organizzati all’estero, in particolare dalla commissione presieduta da Herbert Hoover: The Commission for Relief of Belgium (CRB). I rifornimenti americani evitarono la morte di massa per fame, benché la struttura economica di quelle ragioni fosse gravemente compromessa. Secondo la Rockefeller Foundation, nell’autunno 1915 il Belgio era libero dall’incubo della fame e non vi era penuria di abiti alla vigilia dell’inverno.34 Nel 1916 Emily Hobhouse – la pacifista britannica che aveva denunciato la politica della terra bruciata e la deportazione di donne e bambini nei campi di concentramento nel corso della guerra anglo-boera – di ritorno dalla sua “missione di pace in Belgio”,35 scrisse: Sono entrata in Belgio dalla Svizzera, via Herbsthal. Ero preparata a vedere un paese devastato. Il mio lungo soggiorno in Sud Africa dopo la guerra anglo-boera mi aveva insegnato cosa aspettarmi dopo che i soldati hanno compiuto il loro lavoro col ferro e col fuoco. [...] le case distrutte in Belgio si possono contare pressappoco in 15.000 su un complesso di oltre 2.000.000. Confrontando questi dati con quelli del Sud Africa, l’unico esempio di devastazione di cui ho esperienza, sembrerebbe che i belgi siano sfuggiti abbastanza bene agli artigli della guerra.36 32. h. Pirenne, La Belgique et la guerre mondiale, Paris-New Haven 1928, pp. 167-168. 33. Tra i lavori più recenti si veda, per il Belgio, L. Zuckerman, The Rape of Belgium. The Untold Story of World War I, New York 2004; G. Nath, Brood willen we hebben! Honger, sociale politiek en protest in België tijdens de Erste Wereldoorlog, Antwerpen 2013. Sulla Francia si veda: H. McPhail, The Long Silence. Civilian Life Under the German Occupation of Northern France, London 2001; P. Nivet, La France occupée: 1914-1918, Paris 2011. 34. M.B.B. Biskupski, Strategy, Politics, and Suffering: The Wartime Relief of Belgium, Serbia, and Poland, 1914-1918, in Ideology, Politics and Diplomacy in East Central Europe, a cura di Id., Rochester 2004, p. 34. 35. Sulla “missione segreta” della pacifista britannica in Belgio e Francia si veda J. V. Crangle, J.O. Baylen, “Emily Hobhouse’s Peace Mission”, in «Journal of Contemporary History», 19/4 (1979), pp. 731-744. 36. E. Hobhouse, In Belgium, in Women’s Writing of the First World War, a cura di A.K. Smith, Manchester-New York 2000, pp. 44-45.

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Fu l’importanza strategica e propagandistica del Belgio a indurre la Gran Bretagna ad allentare il blocco navale e a consentire così che giungessero aiuti anche alla Francia, il suo maggiore alleato. Il Belgio era vicino alla Francia, era parte della sua stessa difesa; «quel piccolo, coraggioso paese» era assurto a simbolo della barbarie tedesca, un simbolo attorno cui ruotava tutta la propaganda che presentava la guerra come una lotta per la libertà, il diritto, la giustizia. Un tale cedimento rispetto a quella che era considerata l’arma decisiva per la vittoria implicava che in ogni altro caso il rigore sarebbe stato assoluto, pena il crollo dell’efficacia e del valore strategico del blocco. Le ripercussioni sui paesi occupati furono gravissime. In Italia nel corso dell’anno di occupazione l’eccedenza di mortalità tra i civili fu di 26.756 rispetto alla media degli anni immediatamente precedenti al conflitto.37 Era indubbio, secondo la Commissione sulla violazione del diritto delle genti, che la causa più importante di una tale mortalità doveva essere attribuita alla fame. Tragica la situazione nei paesi occupati dell’Europa centro-orientale. La Polonia fu il primo paese per il quale si pose l’urgenza degli aiuti; la miseria estrema della popolazione civile sollevò l’attenzione delle organizzazioni internazionali dei paesi neutrali, in particolare del CRB, della Rockefeller Fundation e della Croce Rossa americana. Alcuni rappresentanti di queste due ultime organizzazioni, che già nell’ottobre 1914 si erano recati in Polonia con l’intenzione di organizzare gli aiuti, trovarono una situazione di gran lunga peggiore di quella del Belgio e lanciarono l’allarme incontrando un’assoluta rigidità da parte di Francia e Inghilterra. Alla fine del conflitto in Polonia – secondo le ricostruzioni della storiografia polacca – la carestia minacciava almeno cinque milioni di persone, un quinto della popolazione. I morti per fame, freddo e malattie avevano raggiunto il milione.38 E il tifo infuriava, minacciando di estendersi all’Europa, come il fuoco in una prateria. Lo stesso rifiuto ostinato ad allentare il blocco affinché potessero giungere gli aiuti si ripeté per la Serbia. La storiografia serba contemporanea ha verificato che solo nel 1917 le persone gravemente ammalate in ciascuna delle zone di occupazione della Serbia (austriaca, tedesca e bulgara) furono 100.000 con un tasso di mortalità del 30%.39 37. G. Mortara, La salute pubblica in Italia durante e dopo la guerra, Bari-New Haven 1925, p. 79. 38. Biskupski, Strategy, Politics, and Suffering, p. 52. 39. V. Stojanevic, Polozhai stanovnishtva u Srbii 1917 godine, in Srbiia 1917 godine, a cura di S. Terzich, Beograd 1988, pp. 37-44. Il saggio è corredato da un ampio riassunto in francese.

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Lo sfruttamento delle risorse fu portato all’estremo anche in Persia, paese la cui neutralità fu violata, oltre che dalla Turchia, anche da Russia e Gran Bretagna; dall’aprile 1917 al luglio 1918 la Gran Bretagna occupò tutto il territorio persiano. L’occupazione condusse il paese al collasso e a una carestia di enormi proporzioni.40 A impoverire il paese, oltre alle devastazioni e alle requisizioni commesse da tutti gli occupanti, furono i massicci acquisti di derrate alimentari da parte della Gran Bretagna dai proprietari terrieri, che a loro volta accaparravano tutti i raccolti a danno dei contadini. Lo sfruttamento delle risorse era volto a garantire agli occupanti britannici il vettovagliamento delle truppe in Persia, Mesopotamia e nella Russia meridionale senza far ricorso al trasporto marittimo di merci provenienti dall’India. Mentre la propaganda tedesca taceva sulle conseguenze del blocco nel timore che emergessero le discriminazioni e le inefficienze del sistema di distribuzione, quella dei paesi dell’Intesa evitava di denunciare lo sfruttamento di risorse e persone nei paesi occupati dagli Imperi centrali, e comunque non con la stessa forza e insistenza con cui furono additate all’opinione pubblica le atrocità commesse nel corso delle invasioni, dell’affondamento del Lusitania o degli attacchi sottomarini. Muovere accuse ai metodi dell’amministrazione tedesca avrebbe comportato la necessità di confutare le motivazioni avanzate dalla Germania a giustificazione di quello sfruttamento, ovvero le conseguenze del blocco navale sulla popolazione civile tedesca. Avrebbe inoltre sollevato la questione dello sfruttamento delle risorse in Persia e della politica della terra bruciata da parte dell’esercito russo in Polonia, «il Belgio dei paesi dell’Intesa», che seminò morte e devastazione in un vasto territorio. Così la mortalità tra i civili continuò ad aggravarsi. Il blocco navale e, soprattutto, la sua prosecuzione dopo l’armistizio, fu considerato un crimine di guerra e contro l’umanità da alcuni pacifisti, in particolare dalle pacifiste britanniche che, di fronte alla tragedia della morte di massa dei bambini, nella primavera del 1919 fondarono Save the Children.41 Alla Conferenza di pace, tuttavia, le violazioni dei vincitori non vennero menzionate. 40. M. Gholi Majd, The Great Famine and Genocide in Persia, 1917-1919, Lanham 2003. 41. Su Save the Children, e in particolare sull’attivismo delle donne si veda L. Mahood, Feminism and Voluntary Action: Eglantyne Jebb and Save the Children, 1876-1928, New York 2009.

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5. Versailles e le leggi di guerra La questione dei crimini di guerra e di quelli contro l’umanità fu al centro della Conferenza di pace. Il 25 gennaio 1919 venne istituita la Commissione sulla violazione delle leggi di guerra (Commission on the Responsibility of the Authors of the War and on Enforcement of Penalties) presieduta dal Segretario di stato americano Robert Lansing. Essa presentò il suo rapporto finale, Report Presented to the Preliminary Peace Conference, il 29 marzo 1919.42 Il rapporto stabiliva che il conflitto da parte degli Imperi centrali era stato condotto con metodi barbari e illegittimi e che era necessario perseguire coloro che avevano commesso le atrocità documentate nei rapporti presentati dai paesi dell’Intesa e dai loro alleati, inclusi i capi di Stato. La Commissione propose inoltre l’istituzione di un Tribunale supremo internazionale per la punizione delle 32 violazioni individuate e documentate. L’impostazione del lavoro della Commissione era innovativa sotto molti aspetti, ma conservava un limite di fondo. I crimini che per la prima volta venivano definiti, ricostruiti e indicati alla punizione erano esclusivamente quelli commessi dai paesi sconfitti, dagli Imperi centrali e dai loro alleati, un limite che secondo alcuni autori ha impedito da allora in poi il processo di elaborazione di una vera e propria legislazione penale internazionale per la punizione dei crimini di guerra e contro l’umanità.43 I crimini commessi dai paesi dell’Intesa: l’applicazione illegale del blocco navale, e in particolare la sua prosecuzione per mesi dopo l’armistizio, le persecuzioni commesse dall’esercito russo in Galizia, la politica della terra bruciata, la violazione della neutralità della Persia e le violenze e contro i civili commesse in quel paese, non rientravano nel mandato della Commissione. Inoltre il 4 aprile 1919 la delegazione americana presentò le proprie riserve al rapporto finale della Commissione nel Memorandum of Reservations. In primo luogo i delegati americani rilevarono che la Commissione 42. Carnegie Endowment for International Peace, Division of International Law, Pamphlet 32, Violation of the Laws and Customs of War. Reports of Majority and Dissenting Reports of American and Japanese Members of the Commission of Responsibilities Conference of Paris 1919, Oxford 1919. 43. T. McCormack, Selective Reaction to Atrocity: War Crimes and the Development of International Criminal Law, in «Albany Law Review», 60/2 (1997), pp. 682-733.

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aveva sconfinato dal suo mandato, ovvero quello di svolgere le proprie indagini ed esprimere pareri esclusivamente sui crimini di guerra. Diveniva in questo modo impossibile giudicare e punire i crimini commessi dagli Stati nei confronti delle minoranze. I crimini contro l’umanità esulavano, a parere di Scott e Lansing, dai compiti della Commissione. Il concetto di “umanità” – sostennero – non avendo carattere di universalità, rimaneva un principio vago e, soprattutto, giuridicamente infondato. Nello stesso tempo il Memorandum dilatava al massimo la discrezionalità delle autorità militari nella definizione degli «atti di guerra disumani e illeciti». In guerra non era possibile una netta distinzione tra lecito e illecito; la misura dell’ammissibilità di una pratica di guerra era esclusivamente il vantaggio militare. La cautela nel definire e punire i crimini di guerra, e in particolare quelli commessi contro la popolazione civile, era motivata dalla consapevolezza che i civili nella guerra moderna erano stati – e lo sarebbero stati in misura maggiore nelle guerre future – il bersaglio principale. Lo affermò lo stesso Lansing nelle settimane immediatamente successive alla conclusione del trattato: Nel passato [...] la parte non combattente della popolazione ha rappresentato un gruppo senza valore dal punto di vista militare e pertanto non oggetto di attacchi ostili. Oggi, al contrario, ogni individuo autosufficiente, benché non inserito nell’esercito, è una preziosa risorsa per la conduzione della guerra. [...] Questa Grande guerra è stata una guerra di popoli, e non soltanto una guerra di eserciti e di flotte. L’intera nazione è stata mobilitata nel supremo sforzo di vincere il nemico. Quali conseguenze una tale evidenza comporterà sulle regole che stabiliscono la protezione e l’immunità dei non combattenti richiederà una considerazione molto attenta.44

A proposito del blocco, Lansing auspicava che le leggi di guerra messe a punto nell’immediato futuro fossero più stringenti per consentirne la piena efficacia. La guerra aveva spazzato via anche la distinzione tra paesi neutrali e paesi belligeranti e ci si doveva interrogare sull’opportunità di tutelare le relazioni commerciali dei paesi neutri. Una delle poche voci che si levarono perché il blocco fosse bandito dai metodi di guerra fu quella di Herbert Hoover. Nel 1929, in qualità di presidente degli Stati Uniti, Hoover propose alla comunità internaziona44. R. Lansing, Some Legal Questions of the Peace Conference, in «American Journal of International Law», 13/4 (1919), pp. 638-639. Il corsivo è mio.

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le di garantire l’immunità delle navi mercantili che trasportavano rifornimenti alimentari. L’immunità avrebbe rappresentato una sorta di disarmo poiché avrebbe fatto cadere una delle giustificazioni più diffuse per il mantenimento di potenti flotte, ovvero la necessità di proteggere i propri mercantili. Era giunto il tempo, sosteneva Hoover, di «bandire dai metodi di guerra la morte per fame di donne e bambini». James Wilford Garner, tra i più autorevoli studiosi di diritto internazionale, riportando la proposta di Hoover, osservò che l’immunità dei mercantili avrebbe privato la Società delle Nazioni di un’arma fondamentale come l’embargo: Finché la guerra stessa sarà riconosciuta come un mezzo per risolvere le controversie […] privare il nemico dei rifornimenti alimentari, anche se ciò causa sofferenze e morte per fame alla popolazione civile, difficilmente si può considerare più condannabile dal punto di vista umanitario di altre misure considerate lecite e che producono lo stesso effetto.45

Garner tracciava un’analogia tra blocco e bombardamenti aerei, a cui nell’immediato dopoguerra si era ormai rivolta la strategia militare. Le convenzioni internazionali del 1899 avevano proibito il bombardamento aereo, ma durante la guerra i bombardamenti dalla terra e dal cielo erano stati numerosi e sempre più distruttivi; le vittime furono migliaia.46 A partire dall’estate 1916, per la prima volta, nei bombardamenti sulla capitale macedone fu utilizzato il gas e la popolazione, colta nel sonno all’interno delle cantine, morì lentamente fra atroci sofferenze. Ne fu testimone il criminologo svizzero Rodolphe Archibald Reiss.47 Anche il bombardamento di Karlsruhe del 22 giugno 1916 prefigurò lo scenario inquietante che si sarebbe riproposto su vasta scala nella seconda guerra mondiale. In quell’occasione le vittime furono in gran parte bambini. Ne diede notizia un articolo apparso nel giornale socialista di Breslau «Wolkswacht» tradot45. J.W. Garner, The Proposed Immunity of Food Ships in Time of War, ibidem, 24/3 (1930), p. 567. 46. D. Voldman, Les populations civiles, enjeux du bombardement des villes (19141945), in La violence de guerre 1914-1915, a cura di S. Audoin-Rouzeau, A. Becker, C. Ingrao, H. Rousso, Bruxelles 2002, pp. 151-173. Sulle vittime dei bombardamenti in Gran Bretagna e Germania si veda: The War Office, Statistics of the Military Effort of the British Empire During the Great War 1914-1920, London 1922, pp. 674-676; 687. Per l’Italia: Mortara, La salute pubblica in Italia, pp. 28-29. 47. r.a. Reiss, Infringements of the Rules and Laws of War Committed by the Austrobulgaro-germans: Letters of a Criminologist on the Serbian and Macedonian Front, London 1919, pp. 80-81.

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to da Dorothy Buxton, cofondatrice di Save the Children, e pubblicato in «The Cambridge Magazine»: Ricordiamo con orrore quel giorno infelice quando una squadriglia anglofrancese apparve sopra Karlsruhe e sganciò il suo carico di bombe, destinate alla vecchia stazione ferroviaria, sul parco giochi della città. Oltre cento bambini uccisi e feriti giacevano al suolo tra lamenti strazianti o in terribili condizioni. Alcuni genitori persero uno, due, tre dei loro figli che avevano mandato a giocare nel prato antistante il circo. Essi raccolsero in cesti i resti irriconoscibili [...]. La stessa cosa è accaduta a Londra e noi ne siamo ugualmente addolorati.48

Eppure, già nel corso del conflitto tra i paesi belligeranti si era diffusa la convinzione che le norme delle convenzioni che ponevano limiti ai bombardamenti dovessero essere superate.49 Negli anni Venti e Trenta i numerosi progetti di revisione delle leggi di guerra furono ignorati dai governi e dalla Società delle Nazioni; le più importanti istituzioni di diritto internazionale, l’Institut du droit international e la The Hague Academy of International Law non affrontarono più l’argomento.50 Il sorgere dei totalitarismi contribuì a rendere ancora più completa la paralisi. Mentre si andava aggravando la vulnerabilità giuridica dei civili, aumentava pericolosamente la potenza dei mezzi con i quali sarebbe stato possibile infierire su di loro. In un articolo comparso nel 1921 sul British Year Book of International Law l’anonimo autore così esprimeva la propria sfiducia nella possibilità di porre limiti alla conduzione dei conflitti: Nella prossima grande guerra la distruzione totale di intere città con bombardamenti aerei sarà permessa da usi di guerra che con ogni probabilità verranno accettati. Una tale opera di distruzione mieterà altrettante vittime tra la popolazione civile di quante ne ha causato la guerra di trincea tra i soldati negli ultimi cinque anni. Inoltre il più potente mezzo in assoluto nell’ultima guerra è stato il blocco che ha causato la morte per fame della popolazione civile dei 48. Germany and the Air Raids, in «The Cambridge Magazine», 28 luglio 1917, p. 815. 49. C. Geinitz, The First Air War against Noncombatants. Strategic Bombimg in German Cities in World War I, in Great War, Total War, a cura di R. Chickering, S. Förster, Cambridge-New York 2000, p. 214. 50. J. Kunz, The Chaotic Status of the Laws of War and the Urgent Necessity for their Revision, in «American Journal of International Law», 45/1 (1951), pp. 37-61.

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paesi nemici. Non c’è alcun dubbio […] che nessun belligerante vorrà rinunciare a tale arma. È pertanto una ovvietà accolta da ogni teorico militare che nessuna regola potrà prevenire che la prossima guerra colpisca la popolazione civile in modo infinitamente maggiore rispetto all’ultima guerra.51

6. La mancata soluzione del problema delle minoranze Il disconoscimento del concetto stesso di crimine contro l’umanità non soltanto impedì la punizione dei colpevoli delle peggiori atrocità commesse durante il conflitto, di genocidi ed espulsioni, in primo luogo il genocidio dei cristiani nell’impero ottomano, ma abbandonava le minoranze all’interno dei nuovi Stati a un destino di pericolosa precarietà. Se odi e intolleranze furono ovunque esacerbati dalla guerra – si pensi “all’estate di sangue” del 1919 negli Stati Uniti52 – nell’Europa orientale la minoranza ebraica fu oggetto di inaudita violenza. Nei pogrom che si verificarono nel corso della guerra civile persero la vita almeno 120.000 ebrei, altri 250.000 morirono di fame, abbandono, privazioni, malattie.53 Il problema delle minoranze, e in particolare quello degli ebrei dell’Europa orientale, si pose all’attenzione a livello internazionale già 11 giorni dopo la firma dell’armistizio quando, al momento dell’ingresso delle truppe polacche a L’viv, scoppiarono violenti pogrom e ancora nel marzo 1919: quando l’esercito polacco attaccò la Bielorussia e la Lituania, centinaia di ebrei rimasero uccisi nelle violenze di massa. I pogrom del primo dopoguerra furono i «più spietati mai avvenuti a memoria d’uomo».54 Erano episodi che rischiavano di compromettere l’ordine internazionale che si stava disegnando a Versailles. Gli imperi austro-ungarico e russo si erano dissolti e la regione era in pieno caos politico e sociale. Il destino 51. The League of Nations and the Laws of War, in «The British Year Book of International Law», 1 (1920-1921), p. 112. 52. Il timore dell’ascesa sociale della minoranza di colore, che dall’impegno nel conflitto si attendeva riconoscimenti e diritti, condusse all’esplosione della violenza razziale di massa. C. McWhirter, Red Summer: The Summer of 1919 and the Awakening of Black America, New York 2011. 53. M. Levene, Frontiers of Genocide: Jews in the Eastern Zones, 1914-1920 and 1941, in Minorities in Wartime, a cura di P. Panayi, Oxford 1993, pp. 83-117. 54. G. Mosse, Il razzismo in Europa dalle origini all’olocausto, Milano 1996, p. 191.

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degli ebrei, quello di rappresentare tante piccole minoranze in tanti piccoli Stati, sembrava peggiore di quello precedente il conflitto.55 Sempre nel marzo giunse a Parigi la delegazione dell’American Jewish Congress e assunse la direzione del Comitato delle delegazioni ebraiche. Essa sostenne che gli ebrei dell’Europa orientale rappresentavano una nazionalità distinta che richiedeva protezione e autonomia.56 Una richiesta che, appoggiata da Germania e Unione Sovietica, suscitava le più grandi preoccupazioni nei vincitori che guardavano con terrore a un possibile espansionismo dell’Urss e a una sua alleanza con la Germania. Per contrastare questa possibilità le potenze vincitrici vollero favorire la formazione in Europa orientale di Stati nazionali militarmente forti, ignorando il principio dell’autodeterminazione e giungendo ad incoraggiare il loro ingrandimento territoriale attraverso la guerra. Le minoranze stesse accolsero l’idea dello Stato nazionale come forma ideale di organizzazione politica e nei loro progetti di indipendenza fecero riferimento non tanto all’idea di cittadinanza, libertà ed eguaglianza dei diritti, quanto a quella di comunità etnico-culturale omogenea, rivendicazioni che furono considerate pericolose per la stabilità dello Stato. James Headlam Morley, una delle personalità che ebbe un peso rilevante nell’elaborazione del trattato sulle minoranze, fu molto esplicito sulla questione: «Il riconoscimento dei diritti nazionali degli ebrei polacchi sarebbe stato completamente incongruente con la sovranità territoriale dello Stato che è la base di tutto il nostro sistema politico».57 Il 28 giugno fu approvato il Polish Minority Treaty, 12 articoli che con poche modifiche comparvero anche nei trattati con la Cecoslovacchia, la Romania, la Jugoslavia, la Grecia, l’Austria, l’Ungheria, la Bulgaria e successivamente con Lettonia, Estonia e Lituania.58 Gli articoli principali del trattato impegnavano lo Stato a proteggere la vita e la libertà di tutti gli abitanti senza discriminazione di nascita, nazionalità, lingua, razza e religione. In base al trattato, tuttavia, i non polacchi 55. m. Levene, Nationalism and Its Alternatives in the International Arena: The Jewish Question at Paris, 1919, in «Journal of Contemporary History», 28 (1993), pp. 511531. 56. M. Levene, War, Jews and the New Europe, The Diplomacy of Lucien Wolf 19141919, Oxford 1992. 57. Levene, Nationalism and Its Alternatives, p. 519. 58. C. Fink, The Paris Peace Conference and the Question of Minorty Rights, in «Peace & Change», 21/3 (1996), pp. 273-288.

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non erano riconosciuti come distinti gruppi nazionali, bensì come minoranze linguistiche, religiose o etniche. Infine l’articolo 12 stabiliva che la responsabilità dell’applicazione del trattato ricadeva sulla Società delle Nazioni, all’interno della quale le minoranze non erano rappresentate. Tuttavia la Società delle Nazioni non assolse a questo impegno e nell’Europa orientale favorì apertamente l’autorità dei nuovi Stati sulle proprie minoranze. La Polonia, ad esempio, mise in atto un processo di denazionalizzazione nei confronti della popolazione ucraina, rifiutò di concedere qualsiasi autonomia, soppresse giornali, allontanò funzionari pubblici, esercitò un pesante controllo su scuole e università. Nell’Europa orientale l’eredità del primo conflitto mondiale, delle guerre che infuriarono nel 1920-21 e delle antiche ostilità interetniche rafforzarono correnti di radicalismo politico e alimentarono la violenza che sarebbe esplosa ancora e con maggior forza nella seconda guerra mondiale.59

59. Wróbel, The Seeds of Violence.

antonella salomoni La seconda guerra mondiale e il fronte orientale. Spazio del genocidio e rovine ebraiche

Kiev, 29 settembre 1944. Lo scrittore di lingua yiddish Itzik Kipnis pronuncia un’orazione funebre, in occasione del terzo anniversario del massacro di Babij Jar,1 dalla quale affiorano due sentimenti in aspro contrasto: il desiderio di rappresaglia nei confronti dei responsabili della strage e la pietà per le vittime ebree, disperse in un’immensa fossa comune o ridotte in ceneri sparse sul terreno. La difficoltà di orientamento della parola e di controllo emotivo sta tutta in due domande che seguono l’arrivo dei superstiti nello spazio aperto in cui si è consumato l’eccidio: «Dirupi sabbiosi franano sotto i nostri piedi e ci trascinano giù… Grandi burroni ricoperti, profondi fossati, boscaglia. “Dove siamo?” – “È questo il luogo?”».2 1. La guerra sul fronte orientale La storia della seconda guerra mondiale combattuta nelle regioni orientali dell’Europa è stata assegnata per diversi decenni, quasi in diritto esclusivo, al modo di fare storia che si conviene chiamare histoire-bataille. Non si tratta, evocando questo giudizio che per le sue origini polemiche percepiamo senza appello come negativo, di pensare che si possa fare a meno dei lavori, per citare solo alcuni nomi, di John Erickson, David 1. Y. Kipnis, Baby-Yar (Tzum dritn yortsayt), in Id., Untervegns un andere dertzeilungen, New York 1960, pp. 347-352. Sull’eccidio di 33.771 ebrei a Babij Jar (29-30 novembre 1941), rimando a un mio lavoro di prossima pubblicazione: Le ceneri di Babij Jar, Bologna 2017. 2. Kipnis, Baby-Yar, pp. 349-350.

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Glantz o Evan Mawdsley – che restano tra i massimi studiosi dell’evento denominato dalla strategia militare “fronte orientale”.3 Non si tratta nemmeno, ponendosi a un livello quantitativamente più ampio, per via dello spazio preso in esame, di mettere in discussione dei modelli di ricerca paragonabili a quello che Gerhardt L. Weinberg ci ha consegnato nel suo Mondo in armi – una sintesi costruita in forma di una compiuta storia globale del conflitto.4 L’indispensabile lavoro di raccolta e critica delle fonti messe a disposizione dai diversi governi belligeranti, un prodotto direttamente proporzionale all’allargamento dell’accesso agli archivi, è stato però accompagnato da un’attività di ricerca, altrettanto importante, in zone d’archivio – comprese quelle orali, narrative, archeologiche – che documentano gli effetti sociali, mentali e morali della guerra, sia sui soldati (dall’arruolamento alla smobilitazione), sia sulle popolazioni civili. Il lavoro degli storici della società, delle mentalità e dei comportamenti è stato così intenso da esercitare un grande influenza sulla stessa storia militare. Penso, ad esempio, a riviste come «War in History» o «War and Society», alle pubblicazioni dell’Institut de recherche stratégique de l’école militaire del governo francese, agli studi della sezione di antropologia e psicologia storico-militare «Čelovek i vojna» [Uomo e guerra] istituita presso l’Accademia russa delle scienze.5 La comparazione degli effetti sociali, mentali e morali dei conflitti in un mondo globale, con le sue differenze e/o uguaglianze di sentimento, oltre che di comportamento, è ancora arretrata rispetto alle ricerche di carattere monografico e locale, per lo più circoscritte ad aree linguistiche omogenee. Ma da ciò che sta emergendo dagli studi culturali si intravede, specie con l’estensione di campo della semiotica del conflitto,6 una sta3. Fra i molti studi, cfr. J. Erickson, Stalin’s War with Germany, I, The Road to Stalingrad, London 1975; II, The Road to Berlin, London 1983; D. Glantz, When Titans Clashed. How the Red Army Stopped Hitler, Lawrence 1995; Id., Colossus Reborn. The Red Army at War, 1941-1943, Lawrence 2005; E. Mawdsley, Thunder in the East. The Nazi-Soviet War 1941-1945, London 2005; Id., World War II. A New History, Cambridge 2009. Per una discussione generale cfr. J. Barber, M. Harrison, Patriotic War, 1941 to 1945, in The Cambridge History of Russia, III, The Twentieth Century, a cura di R.G. Suny, Cambridge 2006, pp. 217-242. 4. G.L. Weinberg, Il mondo in armi. Storia globale della Seconda Guerra Mondiale, Torino 2007 [2005]. 5. Vedi, ad esempio, E.S. Senjavskaja, 1941-1945: Frontovoe pokolenie. Istorikopsichologičeskoe issledovanie, Moskva 1995. 6. Cfr. C. Demaria, Semiotica e memoria. Analisi del post-conflitto, Roma 2006.

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gione ricca di risultati. Tra le più recenti acquisizioni occorre aggiungere quelle dell’archeologia del conflitto, una disciplina che si avvale – nell’ambito degli studi sul contemporaneo – di tutti gli strumenti messi dalla tecnica a disposizione dell’archeologia classica per “scavare” nei luoghi dei massacri, tenendo sempre presente che, dopo le guerre, si procede alla disqualificazione e riqualificazione di tali luoghi.7 Senza nemmeno sfiorare le complicazioni di carattere etico che tale lavoro ha comportato,8 va messo in evidenza, perché interessa il mio schema, il legame con gli studi sul trauma di guerra di coloro che non smettono di pensare ai corpi senza sepoltura o all’ammasso dei corpi nelle fosse comuni. È questa la ragione per cui, rovesciando qualcosa che ha a che fare con i primi gesti dello “scavo” americano nei campi di sterminio (bulldozers), l’archeologia del conflitto, chiedendo ai sopravvissuti di partecipare alle riesumazioni, si presenta anche come una pratica commemorativa. 2. Spazio di genocidio Il “fronte orientale” di cui parlerò non è quello degli storici militari. E non è neppure quello degli storici degli effetti sociali mentali morali sulle persone e popolazioni coinvolte.9 È piuttosto vicino a ciò che Omer Bartov ha definito il «luogo del genocidio».10 Non adotterò però la prospettiva dell’Europa orientale come “luogo” della memoria – cioè luogo fissato e conservato nello sguardo dei soldati reduci dal fronte e nella mente dei civili sopravvissuti alla 7. Vedi, ad esempio, G. Moshenska, The Archaeology of the Second World War: Uncovering Britain’s Wartime Heritage, Barnsley (UK) 2013; C. Sturdy Colls, Holocaust Archaeologies: Approaches and Future Directions, New York 2015. 8. Tra i primi casi segnalo quello discusso da M.Z. Rosensaft, The Mass-Graves of Bergen-Belsen. Focus for Confrontation, in «Jewish Social Studies», 41/2 (1979), pp. 155186. Per un approccio più ampio alla questione, vedi Ethics and the Archaeology of Violence, a cura di A. González-Ruibal, G. Moshenska, New York 2015. 9. Tra gli approcci più originali segnalo A. Weiner, Saving Private Ivan: From What, Why, and How?, in «Kritika: Explorations in Russian and Eurasian History», 1/2 (2000), pp. 305-336; Id., Making Sense of War: The Second World War and the Fate of the Bolshevik Revolution, Princeton-Oxford 2001. 10. O. Bartov, L’Europa orientale come luogo del genocidio, in Storia della Shoah, a cura di M. Cattaruzza, M. Flores, S. Levis Sullam, E. Traverso, Torino 2005, II, pp. 419459; Id., Eastern Europe as the Site of Genocide, in «The Journal of Modern History», 80/3 (2008), pp. 557-593.

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furia bellica, già oggetto di saggi di grande spessore.11 L’Europa orientale è infatti anche il territorio in cui ridisegnare la mappa della rimozione fisica, prima ancora che politica e istituzionale, dei segni della violenza e, soprattutto, del genocidio. Con questa avvertenza: che la lotta contro la rimozione di tali tracce non riguarda solo l’azione distruttiva della guerra (gli anni dello sterminio realizzato dai nazisti e dai loro alleati o collaboratori), ma anche le azioni ricostruttive del dopoguerra, in una connessione che gli studi in corso mostrano essere sempre più inquietante.12 Il problema che vorrei sollevare, delineandone solo alcuni primi aspetti, è quello della mancata inclusione del passato ebraico nella ricostruzione materiale del territorio, sebbene il patrimonio di quel passato facesse parte integrante della sua storia. Ho dunque deciso di porre al centro dell’analisi il modo in cui si manifesta e viene piegata o spezzata – ma non senza resti, visto che alcuni dei suoi frammenti riappaiono altrove – la volontà dei soggetti, individuali e collettivi, di resistere alla cancellazione fisica dei luoghi ebraici in rovina, una cancellazione che molti stati del dopoguerra avviano, inserendola nelle politiche di ricostruzione, con l’obiettivo di dare forma a uno spazio privo di segni atti a comunicare la storia del genocidio o, in altri termini, di dare senso ad uno spazio che non comunichi più il contenuto di una storia in forma di evento. È sottintesa, in questa scelta, l’importanza che attribuisco al “fronte orientale” per un approccio transnazionale alla storia dell’Europa, come è già emerso da ricerche come quelle di Timothy Snyder, Alexander Prusin o Michael Meng.13 11. Ad esempio: J. Hellbeck, “The Diaries of Fritzes and the Letters of Gretchens”. Personal Writings from the German-Soviet War and Their Readers, in «Kritika: Explorations in Russian and Eurasian History», 10/3 (2009), pp. 571-606; O. Budnitskii, The Intelligentsia Meets the Enemy. Educated Soviet Officers in Defeated Germany, 1945, ibidem, pp. 629-682; (anche in Fascination and Enmity: Russia and Germany as Entangled Histories, 1914-1945, a cura di M. David-Fox, P. Holquist, A.M. Martin, Pittsburgh 2012, pp. 123-153, 176-226). 12. Sui precedenti di questa linea di ricerca vedi soprattutto R. Bevan, The Destruction of Memory: Architecture at War, London 2006; M. Meng, Shattered Spaces: Encountering Jewish Ruins in Postwar Germany and Poland, Cambridge 2011; Id., A Cemetery of Ruins: The Ghetto Space and the Abject Past in Warsaw’s Postwar Reconstruction, in Re-mapping PolishGerman Historical Memory: Physical, Political, and Literary Spaces since World War II, a cura di J. Beinek, P. Kosicki, Bloomington (IN) 2011, pp. 11-38; G.D. Rosenfeld, Building After Auschwitz. Jewish Architecture and the Memory of the Holocaust, New Haven-London 2011. 13. T. Snyder, Terre di sangue. L’Europa nella morsa di Hitler e Stalin, Milano 2011 [2010]; A.V. Prusin, Lands Between: Conflict in the East European Borderlands, 1872– 1992, Oxford 2010; Meng, Shattered Spaces.

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Il progetto di lungo termine è quello d’isolare la documentazione proveniente dalla fase “tecnica” deterritorializzante e dai piani di riedificazione urbanistica, intesi non come tappe di una politica che riguardò tutti i paesi usciti dal conflitto e comportò spesso l’adozione di procedure oggettive di disqualificazione e riqualificazione dello spazio, ma come incartamenti indiziari dello specifico “trattamento” riservato al luogo del genocidio: un trattamento che non solo rendeva difficile la messa a punto della mappa fisica in cui appaiano tutti i “punti” nei quali vi furono massacri di popolazione, ma disorientava i sentimenti d’appartenza dei sopravvissuti all’ambiente e alla sua storia.14 La scelta di partire da “qualcosa” che sta dopo la guerra per capire la guerra esige una breve spiegazione. In una cronologia e in una topologia non evenemenziali, il prima e il dopo del conflitto non sono stabiliti dalle date d’inizio (1939) e di fine (1945), ma si estendono in un tempo e uno spazio che sono di volta in volta da misurare e ridefinire. Hanno una durata estremamente variabile a seconda dei “fatti” presi in considerazione e soprattutto della loro percezione. Nello schema che ho predisposto vi è sia la differenziazione di strati temporali soggettivi, sia la compresenza di durate, sia la sovrapposizione di spazi. Lo studio delle deterritorializzazioni e riterritorializzazioni dei luoghi, in particolar modo di quelli ebraici, interessa lo spazio del dopo. Lo studio dei sentimenti dei soldati occuperà lo spazio del durante. Non potrò qui svolgere questo secondo aspetto, così come non potrò nemmeno accennare alla realtà di yiddishland nello spazio del prima. Prenderò in considerazione soprattutto la fase del dopo, ma occorrerà avere presente quel particolare dispositivo per cui, all’accentuarsi del discorso della vendetta durante il conflitto, si affianca un inatteso processo di “giudaizzazione” empatica della lingua che si manifestò nella prosa e nei versi di scrittori e poeti, i quali così tradussero la loro esperienza di testimoni, soldati, corrispondenti di guerra, investigatori o ricercatori;15 ma si mani14. Su più ampia scala vedi come punto di riferimento il progetto Qualifier des lieux de détention et de massacre, a cura di B. Fleury, J. Walter, 4 voll., Nancy 2008-2011. 15. Cfr. M. Grinberg, “I am to be read not from left to right, but in Jewish: from right to left”. The Poetics of Boris Slutsky, Brighton 2011; A. Epelboin, A. Kovriguina, La littérature des ravins. Écrire sur la Shoah en URSS, Paris 2013; M.D. Shrayer, I SAW IT: Ilya Selvinsky and the Legacy of Bearing Witness to the Shoah, Boston 2013; C. Coquio, La littérature en suspens. Écritures de la Shoah: le témoignage et les œuvres, Paris 2015, pp. 97-172. Uno sguardo più ampio sul topos della seconda guerra mondiale nella letteratura

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festò anche nel tentativo, da parte di reduci e sopravvissuti, di restaurare la dignità dei luoghi, dare una adeguata sepoltura alle vittime ed erigere dei memoriali (matseyve). 3. Sentimenti in oggetto Con la liberazione dei territori orientali che erano stati occupati dai tedeschi, gli ebrei si trovarono di fronte alla scoperta della dimensione del genocidio che soldati e ufficiali, giornalisti, personale delle commissioni militari d’inchiesta stavano documentando.16 Il sentimento di rivalsa animò le ultime fasi del conflitto e rimase vivo anche nei mesi e negli anni successivi.17 Ne rende testimonianza la storia del gruppo Nakam, guidato dal partigiano lituano Abba Kovner, che possiamo considerare come modello per studiare la traduzione del sentimento in una “istituzione”.18 E poi ci sono le lettere inviate dal fronte, i diari e le memorie di guerra, che esprimono spesso ansia di distruzione e volontà di ritorsione nei confronti del nemico.19 Alimentato da scrittori e corrispondenti dell’esercito, questo sentimento fu rafforzato dalle autorità militari, che richiamavano di continuo l’attenzione sulle atrocità e i saccheggi; che procedevano alla riesumazione di salme dalle fosse comuni e portavano testimonianze sui maltrattamenti subiti dai lavoratori forzati; che affiggevano “tabelle della vendetta” e convocavano “comizi della rivalsa” negli accampamenti.20 I soldati e gli russa e sovietica in F. Ellis, The Damned and the Dead: The Eastern Front Through the Eyes of Soviet and Russian Novelists, Lawrence 2011. 16. Cfr. A. Salomoni, L’Unione Sovietica e la Shoah. Genocidio, resistenza, rimozione, Bologna 2007, pp. 214-232. 17. Cfr. B. Lang, Holocaust Memory and Revenge. The Presence of the Past, in «Jewish Social Studies», 2/2 (1996), pp. 1-20; D. Cesarani, Holocaust Controversies in the 1990s: The Revenge of History or the History of Revenge?, in «Journal of Israeli History», 23/1 (2004), pp. 78-90; Sh. Lavi, “The Jews are Coming”: Vengeance and Revenge in postNazi Europe, in «Law, Culture and the Humanities», 1/3 (2005), pp. 282-301. 18. D. Porat, The Fall of a Sparrow: The Life and Times of Abba Kovner, Stanford (CA) 2009, pp. 210-236. 19. Vedi in particolare i taccuini di guerra del giovane ufficiale ebreo V.N. Gel’fand, Dnevnik 1941-1946, Moskva 2015. 20. Cfr. A. Salomoni, La vendetta sul fronte orientale: realtà, rappresentazioni, controversie, in Teatri di guerra: rappresentazioni e discorsi tra età moderna ed età contemporanea, a cura di A. De Benedictis, Bologna 2010, pp. 297-318.

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ufficiali ebrei, avanzando verso occidente nelle fila dell’Armata Rossa, non solo si trovarono sovente ad attraversare le regioni in cui erano nati, ma vi si recarono anche, alla prima licenza, per avere notizie dei familiari. Diventarono così gli autori delle prime informali inchieste, raccogliendo dai compaesani superstiti, pur sommariamente, indicazioni preziose sull’entità e le modalità degli eccidi, che precedettero molti accertamenti legali e deposizioni in sede giudiziaria. Nella loro laconicità, si trattava di rapporti nondimeno completi, dove non si trascurava di dare conto delle forme più rudimentali dello sterminio per fucilazione e si metteva bene in luce l’indifferenza con cui le vittime erano spesso sotterrate ancora vive. La grande quantità di resoconti su bambini morti per le percosse, avvelenati o annegati, bruciati o sepolti agonizzanti, gettati nei precipizi o usati come bersagli mobili per esercitazioni di tiro, fa crescere e rafforzare, soprattutto dalla primavera del 1944, l’esigenza “morale” della punizione: un sentimento alimentato di continuo dalla scoperta di nuove fosse comuni, dalla visione dei primi campi di sterminio e dall’afflusso dei racconti fatti da sopravvissuti. È un mutamento psicologico profondo per uomini che – come scriveva a Il’ja Erenburg, nell’ottobre del 1944, il tenente superiore Zejlik D. Šterngarc – prima della guerra erano «pressoché ignari di cosa fosse l’antisemitismo».21 Il soldato Gofman, il 10 marzo 1944, apprende dall’unica superstite della comunità i particolari dei massacri nella città natale di Krasnopol’e (Bielorussia) in cui avevano perso la vita, nell’autunno-inverno del 1941, circa 1.800 ebrei, tra i quali i suoi più stretti familiari: «Sono un marito senza moglie e un padre senza figli. Ormai non sono più giovane, ma è il terzo anno che sono al fronte: mi sono vendicato e continuerò a vendicarmi». Anche il fratello minore, colonnello sul primo fronte ucraino, stava «consumando la sua vendetta». Gofman aveva già visto campi di battaglia coperti dai cadaveri di tedeschi, ma non si sentiva appagato: «Quanti di loro devono morire per ogni bambino ucciso? […] Finché sarò in grado d’impugnare un’arma, continuerò a vendicarmi».22 Il soldato M.G. Štejnberg confida invece a un vecchio istruttore, anch’egli di nazionalità ebraica, di non essersi mai sentito «così ebreo come adesso, dopo tutto ciò che ho vi21. Sovetskie evrei pišut Il’e Erenburgu, 1943-1966, a cura di M. Al’tšuler, I. Arad, Š. Krakovskij, Jerusalem 1993, doc. 19, p. 165. 22. Il libro nero. Il genocidio nazista nei territori sovietici, 1941-1945, a cura di V. Grossman, I. Erenburg, Milano 1999 [1993], p. 273.

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sto». La sua famiglia era stata sterminata, dei fratelli non aveva più notizie. Non lo turbava la possibilità di cadere al fronte, ma l’immagine della morte di centinaia di persone sotterrate vive: «Un terribile sentimento di vendetta è affiorato nel mio animo e mi prenderò una rivincita sul tedesco fintanto che la vita me lo consentirà».23 Il sentimento della vendetta, come si può capire dall’analisi del discorso militare sull’odio per il nemico, si manifesta in quanto tale solo nelle condizioni che determina l’avanzata dell’esercito sovietico verso occidente e soprattutto nel drammatico contatto fisico con la popolazione tedesca. Ma, una volta finita la guerra, sciolta la contiguità territoriale tra vincitori e vinti e restaurata una parvenza di società civile, esso esce dalla congiuntura che gli aveva dato corpo e si smilitarizza. La pietà per i morti si trasforma allora in uno strumento di rigiudaizzazione da opporre alla crescente volontà politica di degiudaizzazione. L’ebraismo si ricostituisce nelle reti rafforzate delle relazioni parentali, nelle strutture familiari allargate e, infine, nelle fervorose iniziative di gruppi che escono allo scoperto senza più preoccuparsi di un riconoscimento ufficiale. Anche le rare sinagoghe superstiti hanno la stessa funzione. Ma, rispetto al passato, non hanno più forza “spirituale” perché il ritorno alla religione copre in realtà il ritorno alla cultura. La pietà per i morti dispersi nelle fosse comuni, nei burroni, nelle discariche, assorbe l’energia sentimentale dei sopravvissuti. Le comunità che si vengono ricostituendo, il più delle volte in modo informale, la riconvertono nei tentativi di salvaguardare le tracce di una presenza, d’installare lapidi o steli commemorative, di preservare i cimiteri ancora esistenti, aggrediti da una nuova furia litoclasta. 4. Rovine materiali e mentali Nel dopoguerra l’antisemitismo fu spesso accompagnato, in tutta l’Europa orientale, dalla violenza collettiva. È nota soprattutto la situazione della Polonia, con il caso emblematico dei tumulti nella città di Kielce (4 luglio 1946).24 Simili pogromy si produssero in numerose altre città 23. Po obe storony fronta. Pis’ma sovetskich i nemeckich soldat 1941–1945 gg. / Auf beiden Seiten der Front, a cura di A.D. Šindel’, Moskva 1995, pp. 38-39, citato in Hellbeck, “The Diaries of Fritzes and the Letters of Gretchens”, p. 587. 24. B. Szaynok, Pogrom Żydów w Kielcach 4 lipca 1946, Warszawa 1992; Wokół pogromu kieleckiego, a cura di Ł. Kamiński, J. Żaryn, Warszawa 2006; J.T. Gross, Fear: Anti-Semitism in Poland After Auschwitz. An Essay in Historical Interpretation, Princeton-

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e villaggi: Białystok, Cracovia, Lublino, Łódź, Rzeszów, Varsavia, ecc.25 Notizie molto più frammentarie si hanno sugli eventi occorsi in territorio sovietico, ma è ormai possibile affermare con sufficiente certezza che tra il 1943 e il 1946, in particolar modo in Ucraina, i casi di violenze nei confronti degli ebrei aumentarono in modo esponenziale nelle zone già soggette all’occupazione tedesca – come risulta dai rapporti che gli organi di sicurezza, a partire dall’estate del 1944, iniziano a far pervenire alla dirigenza del partito comunista, informandola sugli incidenti scoppiati in quasi tutte le maggiori città.26 Uno degli episodi più gravi si consumò a Kiev il 4-7 settembre 1945. Non fu mai riconosciuto ufficialmente e solo in tempi recenti se ne sono avute ricostruzioni abbastanza circostanziate.27 Una seconda fase di ostilità si produsse nel periodo 1948-53, stavolta nel contesto della campagna antisionista, che consentì il riemergere dei soprusi e il riattivarsi di stereotipi a sfondo razziale.28 Abbiamo oggi la possibilità di confrontarci in modo abbastanza ampio con il punto di vista degli ebrei superstiti, dispersi o sfollati, che rientrano o tentano di rientrare nelle città, nei villaggi, nei borghi appena liberati. Qui vengono accolti con astio aperto, sono oggetto di soprusi amministrativi e discriminazioni, con difficoltà estrema riescono a far valere i propri diritti di proprietà o di usufrutto, quando non diventano il bersaglio delle violenze antisemite. Agli sconvolgimenti provocati dalle vessazioni fisiche e dalla perdita delle famiglie, non di rado si aggiunge il trauma di ritrovarsi davanti ai persecutori o, più frequentemente, ai complici e ai delatori. Molte lettere parlano delle difficoltà della convivenza con chi ha denunciato e depredato i vicini ebrei; dell’indignazione nel vedere aggirarsi Oxford 2006, pp. 81-166; J. Tokarska-Bakir, Communitas of Violence, in «Yad Vashem Studies», 41/1 (2013), pp. 23-61. 25. Vedi ad esempio A. Cichopek, The Crakow Pogrom of August 1945. A Narrative Reconstruction, in Contested Memories. Poles and Jews During the Holocaust and its Aftermath, a cura di J.D. Zimmerman, New Brunswick (NJ) 2003, pp. 221-238. 26. Cfr. M. Altshuler, Antisemitism in Ukraine Toward the End of the Second World War, in «Jews in Eastern Europe», 3 (1993), pp. 40-81; Bitter Legacy. Confronting the Holocaust in the USSR, a cura di Z. Gitelman, Bloomington (IN) 1997, pp. 77-90; M. Micel’, Evrei Ukrainy v 1943-1953 gg. Očerki dokumentirovannoj istorii, Kiev 2004, pp. 36-53, 126-129. 27. Micel’, Evrei Ukrainy v 1943-1953 gg., pp. 63-66; Gosudarstvennyj antisemitizm v SSSR. Ot načala do kul’minacii, 1938-1953, a cura di G.V. Kostyrčenko, Moskva 2005, pp. 62-72. 28. F. Grüner, Did Anti-Jewish Mass Violence Exist in the Soviet Union? Anti-Semitism and Collective Violence in the USSR During the War and Post War Years, in «Journal of Genocide Research», 11/2 (2009), pp. 356-357.

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in libertà i responsabili di persecuzioni ed eccidi, per giunta spesso armati perché chiamati a “difendere la patria”; dello stupore nello scoprire che chi aveva avuto ruoli di direzione sotto l’occupazione tedesca continua a ricoprire quegli stessi incarichi o a esercitare altre importanti funzioni amministrative. Ne consegue il sentimento diffuso, come scrive un abitante della regione di Rivne (Ucraina) nel febbraio del 1945 in una accorata lettera-denuncia, che «l’antisemitismo non solo [non] diminuisce, ma al contrario aumenta di giorno in giorno».29 Nei territori liberati, coloro che si erano appropriati degli averi dei perseguitati, avevano occupato le loro abitazioni o erano subentrati nei loro impieghi, manifestarono un atteggiamento marcatamente ostile nei confronti dei reduci, che si trovarono a dover affrontare enormi difficoltà, psicologiche e materiali, nella ricostruzione delle proprie vite.30 Frequenti erano dunque gli scontri, non di rado favoriti dalla questione irrisolta della restituzione dei beni.31 In un contesto così deteriorato, ogni tentativo, anche solo provvisorio e rudimentale, di commemorare le vittime ebree risultò subito in contrasto con il culto dell’eroismo attivo e i vincoli imposti dalla riconciliazione nazionale (particolarmente complicata in Ucraina e nei territori nei quali si era manifestato, in dimensioni più preoccupanti, il collaborazionismo), con lo stile e la lingua delle cerimonie ufficiali, con la scelta di luoghi celebrativi che spesso avevano poca relazione con i siti dei massacri, con le nuove modalità di controllo centralizzato su ogni progetto memoriale o museale. L’annientamento degli ebrei era però un “fatto” ben noto alle popolazioni locali e le tracce materiali, malgrado i tentativi di cancellazione messi in opera dai tedeschi, ne restavano chiaramente visibili.32 L’assenza fisica dei perseguitati era un dato macroscopico sia in grandi città come 29. Sovetskie evrei pišut Il’e Erenburgu, doc. 28a, pp. 193-194. 30. Cfr. Y. Ro’i, The Reconstruction of Jewish Communities in the USSR, 1944-1947, in The Jews Are Coming Back: The Return of the Jews to Their Countries of Origin after WWII, a cura di D. Bankier, New York-Jerusalem 2005, pp. 186-205. 31. Sulle difficoltà del rientro e la complessa questione dei diritti di restituzione, negati agli sfollati e ancor più a quelli ebrei, vedi R. Manley, “Where Should We resettle the Comrades Next?”. The Adjudication of Housing Claims and the Construction of the Postwar Order, in Late Stalinist Russia: Society Between Reconstruction and Reinvention, a cura di J. Fürst, London 2006, pp. 233-246; R. Manley, To the Tashkent Station: Evacuation and Survival in the Soviet Union at War, Ithaca 2009, pp. 238-269. 32. Tematica al centro di nuove ricerche, ad esempio: B. Shallcross, The Holocaust Object in Polish and Polish-Jewish Culture, Bloomington (IN) 2011; Ruin Memories. Ma-

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Varsavia, Łódź, L’viv, Kiev, Minsk, Vilnius, che nelle centinaia di borghi (shtetlekh) svuotati dei loro abitanti. Se la guerra lascia in tutta l’Europa delle “rovine” materiali e mentali,33 nelle regioni orientali vi si aggiunge il fatto che chiunque s’imbatte continuamente (potremmo dire che inciampa quotidianamente) in fosse comuni, sinagoghe incendiate, cimiteri devastati o trasformati in ampi spazi vuoti, e altri segni tangibili della distruzione intenzionale d’intere comunità, compreso il loro patrimonio culturale.34 L’analisi del trauma prodotto dall’impatto con queste “rovine” può offrire elementi importanti non solo per una migliore comprensione della natura e degli effetti dei massacri di popolazione in una prospettiva globale, ma può anche indicare una strada per rileggere e rivalutare una nozione controversa come quella di “genocidio culturale”.35 4.1. Sepolture a cielo aperto I soldati che rientrano dal fronte e i civili che ritornano dalle zone d’evacuazione devono affrontare il trauma che genera la visione di luoghi con resti umani dispersi in ogni direzione. La consapevolezza della profanazione dei corpi emerge da corrispondenze e ricordi: migliaia di salme giacciono in pozzi e fossati privi di qualsiasi recinzione o in campi attraversati da strade; i siti degli eccidi, per quanto ben noti, sono privi d’indicazione e lasciati nel più completo abbandono; si percepisce un diffuso atteggiamento di disprezzo nei confronti delle vittime, che «demoralizza» gli abitanti rientrati nelle loro residenze e i combattenti in visita nei paesi d’origine.36 terialities, Aesthetics and the Archaeology of the Recent Past, a cura di B. Olsen, Þ. Pétursdóttir, London 2014. 33. Vedi l’ampia discussione di M. Carli, Tutelare, restaurare, ricostruire. Nuovi studi sul patrimonio culturale e il tessuto urbano nei teatri della guerra totale, in «Il Mestiere di storico», 4/2 (2012), pp. 13-24. 34. Per la ricaduta contemporanea cfr. Jewish Space in Contemporary Poland, a cura di E. Lehrer, M. Meng, Bloomington (IN) 2015. 35. Sulle difficoltà della Convenzione in relazione a tale questione, cfr. J. Cooper, Raphael Lemkin and the Struggle for the Genocide Convention, Basingstoke 2008, pp. 90-91; per una più ampia valutazione, vedi invece A.D. Moses, Raphael Lemkin, Culture, and the Concept of Genocide, in The Oxford Handbook of Genocide Studies, a cura di D. Bloxham, A.D. Moses, Oxford 2010, pp. 19-41. 36. Testimonianza del maggiore R.M. Oksenkrug, 4 settembre 1944, dalla regione di Cherson, in Sovetskie evrei pišut Il’e Erenburgu, doc. 14, p. 151.

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Il colonnello David A. Dragunskij, uno dei più famosi comandanti dell’Armata Rossa, protagonista della presa di Berlino, riporta nelle sue memorie alcuni episodi della liberazione che lo avevano particolarmente impressionato: la scoperta, nei sotterranei di un granaio alla periferia di Waldau, di una ventina di fuggitivi dal ghetto di Varsavia («cenciosi, coperti di cicatrici, emaciati, inselvatichiti, insieme a decine di corpi in decomposizione»);37 e l’incontro, a Praga, con alcuni superstiti di Terezín («tutti con il medesimo aspetto, teste rasate, figure macilente e lacere»), in gran parte giovani donne sulle quali non era riuscito a «trattenere lo sguardo» perché vi aveva intravisto le sorelle, ricavandone uno stato di agitazione che non gli aveva consentito più di dormire.38 In una lettera inviata qualche tempo dopo, nel dicembre 1945, dalla regione di Brjansk a Solomon M. Michoels, presidente del Comitato Antifascista Ebraico, il colonnello lamentava il fatto che le autorità del suo villaggio non possedessero né un elenco delle persone massacrate né una mappa dei luoghi di esecuzione: Nella mia terra, i tedeschi hanno sterminato tutta la mia famiglia – complessivamente settantaquattro persone. Ma ciò che più mi ha turbato è che non sono state preparate delle tombe per accoglierne i resti. Le ossa delle mie sorelle e dei bambini sono sparpagliate per il campo. Il bestiame le calpesta.

Per evitare «la negazione di ogni dignità umana» – concludeva Dragunskij – occorreva delimitare con recinzioni i luoghi delle stragi, erigere steli e cippi funerari, apporre iscrizioni, procedere al calcolo dei caduti e accertare le date degli eccidi.39 4.2. Cimiteri profanati Altrettanto grave era la condizione dei cimiteri, che gli ebrei chiamavano non solo “casa dell’eternità” (bet olam), ma anche “casa dei viventi” (bet ẖayyim). Quando non si presentavano come luoghi distrutti e saccheggiati, privi di cancelli e recinzioni, con sepolture aperte e violate, resti esumati e disseminati, essi si erano trasformati in vasti spazi vuoti. La loro devastazio37. D.A. Dragunskij, Gody v brone, Мoskva 1983, p. 259. 38. Ibidem, p. 359. 39. Evrejskij antifašistskij komitet v SSSR, 1941-1948. Dokumentirovannaja istorija, a cura di Sh. Redlich, Moskva 1996, doc. 41, pp. 107-108 (lettera a S.M. Michoels, 4 dicembre 1945).

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ne fu perseguita con sistematicità in tutte le località soggette all’occupazione. Il più delle volte si fece ricorso a speciali brigate di prigionieri incaricate di fare a pezzi i sepolcri, rovesciare le cripte, abbattere le recinzioni murarie.40 Nel maggio del 1942 Emanuel Ringelblum, nell’annotare nel proprio diario come i tedeschi stessero radendo al suolo la necropoli del distretto di Praga (Bródno) a Varsavia («i demoni non lasciano riposare nemmeno i morti»), sottolineava così l’implicita finalità di distruzione del patrimonio ebraico: «Che cosa può contare per loro un fatto trascurabile come l’antichità di un cimitero, la sua importanza culturale e storica?».41 Adam Broner, un ebreo polacco fuggito da Łódź per arruolarsi nell’Armata Rossa, rientra nella città natale nella prima metà di febbraio del 1945. Il luogo in cui viveva prima della guerra – via Wesoła – è «deserto». Anche le strade circostanti, tutte incluse nel ghetto liquidato nell’autunno del 1944, presentano «un simile vuoto» e l’intero quartiere gli appare come «un enorme camposanto, sebbene privo di cadaveri». Ma è la vista del cimitero in senso proprio, già distrutto dai tedeschi nel 1942, a scuoterlo di più: «I nazisti non [vi] avevano risparmiato i morti, a partire dai loro stessi nomi», allusione al fatto che le lapidi, «invece di segnare i luoghi di pace eterna del defunto», erano servite per pavimentare i marciapiedi delle strade e il più delle volte erano state poste, per sommo disprezzo, in modo da farne calpestare le iscrizioni.42 Il rabbino David Kahane, internato nel ghetto di L’viv, fa un’osservazione simile rievocando quel «lavoro ignominioso», prolungatosi in città per circa un anno: «I nazisti non si accontentarono di infierire sugli ebrei ancora in vita, ma scaricarono la propria collera anche sui morti».43 Kahane aveva dovuto partecipare in prima persona alla profanazione della necropoli di via Szpitalna, forse il più antico cimitero ebraico della Galizia orientale, «testimonianza silenziosa della vivacità della vita ebraica a L’viv». Al momento di abbattere con le proprie mani le «pietre sacre», aveva avuto l’impressione di «lacerare il cuore pulsante dall’organismo vivente degli ebrei di L’viv, un corpo che era in agonia».44 40. Sulla «morte della morte» vedi D. Patterson, Along the Edge of Annihilation. The Collapse and Recovery of Life in the Holocaust Diary, Seattle-London 1999, pp. 240-248. 41. E. Ringelblum, Sepolti a Varsavia. Appunti dal Ghetto, Milano 1965 [1961], p. 346. 42. A. Broner, My War Against the Nazis. A Jewish Soldier with the Red Army, Tuscaloosa 2007, pp. 101-102. 43. D. Kahane, Lvov Ghetto Diary, Amherst 1990, p. 53. 44. Ibidem, p. 104. Durante l’inverno del 1941, il Dipartimento per le questioni religiose del Consiglio ebraico del ghetto di L’viv avviò il progetto di fotografare e registrare

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Il rabbino Ephraim Oshry, sopravvissuto del ghetto di Kaunas, evocava a sua volta il «supplizio» a cui si era sentito sottoposto nello scoprire la diffusione di simili atti sacrileghi in Lituania e dava il seguente responsum alla domanda etica se fosse consentito ad un ebreo di camminare sopra le pietre tombali: «Finché le iscrizioni sulle lapidi sono visibili e leggibili non c’è maggiore profanazione della memoria dei morti che permettere che siano calcate dai piedi delle persone o pestate da animali con il muso sporco di fango e escrementi». Non si poteva aggiungere oltraggio ad «una vergogna già così profonda».45 Lo scrittore e poeta Avrom Ja. Kagan visitò invece il bet olam di Luk’janivka, a Kiev, di ritorno dall’evacuazione. Era a conoscenza del fatto che, nell’estate del 1942, le autorità di occupazione avevano deciso di «disperdere e distribuire» tra la popolazione «tutto ciò che non avevano distrutto, affinché non rimanesse più una sola traccia del cimitero ebraico». L’ordinanza con cui autorizzavano chiunque lo desiderasse a «ricevere gratuitamente lastre di monumenti funerari e cancellate in ferro» non ebbe però grande seguito. Fu pertanto necessario occuparsi altrimenti dell’opera di «profanazione e distruzione», impiegando a più riprese, per oltre un anno, il lavoro di prigionieri di guerra e civili internati, obbligati a «mandare le tombe in frantumi, poi utilizzati per acciottolare le strade». Kagan aveva ora l’opportunità di verificare de visu i risultati di quell’«intollerabile oltraggio» al riposo eterno dei defunti: il cimitero di Kiev era «irriconoscibile» per la presenza di «interi mucchi di sepolcri spaccati» nei pressi dell’entrata, «cancellate piegate e attorcigliate» al di sopra dei cumuli, «muri crollati, antiche iscrizioni ricoperte di fuliggine». L’intero percorso era «ingombro di pietre tombali» e costellato di monumenti in marmo «divelti, poi frantumati in piccoli pezzi e sparsi per le strade come ghiaino».46 tutte le iscrizioni sulle pietre tombali, ma i materiali raccolti scomparvero insieme ai volontari che si erano assunti tale compito (ibidem). Qualcosa di simile fu intrapreso nel ghetto di Łódź, dove – di fronte all’impossibilità di evitare la profanazione – si cercò di realizzare un particolareggiato piano topografico con l’obiettivo di ristabilire la posizione delle tombe nel dopoguerra. Cfr. The Chronicle of the Łódź Ghetto, 1941-1944, a cura di L. Dobroszycki, New Haven-London 1984, p. 213 (annotazione del 26 giugno 1942). 45. E. Oshry, La Torah au cœur des ténèbres, Paris 2011, pp. 247-248. 46. Citato in B. Czerny, Témoignages et œuvres littéraires sur le massacre de Babij Jar, 1941-1948, in «Cahiers du monde russe», 53/4 (2012), pp. 556-557.

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È vero che al momento della liberazione lo stato di abbandono dei luoghi di sepoltura riguardava cimiteri di qualsiasi fede e comunità. Di fronte alla mancanza di sorveglianza, alla negligenza o insensibilità delle autorità, la popolazione a livello locale aveva razziato ogni cosa che potesse dare «una qualche forma di reddito o uso»: croci e recinzioni servivano come legna da ardere; barriere di pietra e lapidi diventavano materiale da costruzione; cappelle e camere mortuarie erano impiegate come stalle; le distese erbose furono aperte al pascolo degli animali; i lotti di terreno vennero arati come orti o trasformati in discariche.47 Nel caso dei cimiteri ebraici, all’indifferenza istituzionale si affiancò però l’ostilità ambientale, al punto che divenne sempre più pericoloso avventurarsi in luoghi nei quali erano frequenti gli atti di saccheggio e vandalismo.48 Ne risulta il profondo senso di umiliazione dei sopravvissuti, il più delle volte incapaci di trovare una qualche traccia delle sepolture di familiari e avi, come succede a Vladka Meed [Feigele Peltel], già internata nel ghetto di Varsavia e attiva nella resistenza: Tutto intorno era desolazione e distruzione, la terra contaminata, disseminata di lapidi e tabelle. Stavamo lì senza sapere cosa fare. Vicino ai nostri piedi giacevano sparsi dei teschi. Che uno di quelli fosse di mio padre? Come avrei mai potuto riconoscerlo? Nulla. Non era rimasto nulla del mio passato, della mia vita nel ghetto, nemmeno la tomba di mio padre…49

4.3. Ghetti cancellati e shtetlekh deserti Il ghetto di Varsavia, raso al suolo nel maggio del 1943 subito dopo la repressione della rivolta, è sicuramente l’emblema della cancellazione totale. Vladka Meed esitò qualche giorno, poco dopo la liberazione della capitale polacca, prima di avventurarsi insieme al futuro marito tra le macerie, «in mezzo a muri squarciati e cumuli di calcinacci e detriti, sopra 47. Vedi un rapporto del Consiglio per gli affari religiosi presso il Sovnarkom dell’URSS, citato in M. Altshuler, Religion and Jewish Identity in the Soviet Union, 19411964, Waltham (MA) 2012, p. 208. 48. Testimonianza di Sarra Kolčinskaja in Iz pisem, in Babij Jar, Jerusalem 1981, p. 63. Il termine “vandalismo” va qui inteso nell’accezione teorizzata da Raphael Lemkin già nel 1933, che ha una forte componente culturale: R. Lemkin, Akte der Barbarei und des Vandalismus als delicta juris gentium, in «Anwaltsblatt Internationales», 19/6 (1933), pp. 117-119. 49. Vl. Meed [F.P. Międzyrzecki], On Both Sides of the Wall. Memoirs from the Warsaw Ghetto, s.l. 1972 [1948], p. 335.

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mattoni, pietre e grate arrugginite». Si mosse con circospezione, cercando «di non spostare nulla, di non modificare nulla tra quelle rovine, i resti delle vite dei nostri familiari più stretti e delle persone più care», nella convinzione che fosse necessario «guardare in silenzio la landa morta e desolata dove ogni pietra, ogni granello di sabbia era intriso di lacrime e sangue degli ebrei».50 Michael Zylberberg fissa le sue impressioni sul ghetto («esso era silenzioso come una tomba») nelle note di diario relative alla liberazione, spaventato dal pallore che la neve imprime al sito deserto: «Vagai senza meta tra le rovine. Non c’era alcun segno riconoscibile di ciò che un tempo vi era esistito. Era lugubre e terrificante».51 Ma l’impatto con i “luoghi” del genocidio è ovunque traumatico e devastante: strade, piazze, abitazioni delle zone liberate portano i segni inequivocabili della distruzione.52 Il 23 marzo 1944, il capitano Efim S. Gechman attraversa sconvolto il borgo natio di Braïliv, nella regione di Vinnycja: Mai come quella volta avevo perso il controllo delle mie emozioni. Conoscevo, si può dire, la storia di ogni casa di quel luogo […]. Camminavo in un villaggio rimasto intatto, in molte case c’erano ancora tutti i vetri alle finestre, ma per le strade non incontravo nessuno. I miei passi erano i soli a risuonare in quel luogo deserto.

Anche l’abitazione di Gechman è «apparentemente intatta», ma dalla finestra può vedere «le tracce di sangue sulle pareti e le piume dei letti sparpagliate sul pavimento». A quel punto non ha più domande da porre: «Del resto, a chi avrei potuto rivolgerle?».53 L’ufficiale Abram Granovskij raggiunge la natia Katerynopil’, nella regione di Čerkasy, il 9 maggio 1944. Il borgo è stato cancellato e, come egli riesce subito ad appurare, resta una sola ebrea sopravvissuta: «Non trovai più la nostra casa. Al suo posto c’era uno spiazzo deserto. Girai fra le 50. Ibidem, pp. 333-334. 51. M. Zylberberg, A Warsaw Diary: 1939-1945, London 1969, p. 211. 52. Cfr. N. Aleksiun, Returning from the Land of the Dead: Jews in Eastern Galicia in the Immediate Aftermath of the Holocaust, in «Kwartalnik Historii Żidów/Jewish History Quarterly», 2 (2013), pp. 257-271; M. Meng, Traveling to German and Poland: Toward a Textual Montage of Jewish Emotions after the Holocaust, in Jewish Histories of the Holocaust. New Transnational Approaches, a cura di N.J.W. Goda, New York-Oxford 2014, pp. 266-281. 53. Il libro nero, p. 63.

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rovine in cerca di qualcuno, ma non vidi nessuno, erano stati tutti fucilati. Nessuno mi venne incontro, nessuno mi strinse la mano, nessuno condivise con me la gioia della vittoria».54 Baruch Milch, negli ultimi giorni di marzo del 1944, esce dal nascondiglio in cui è stato rinchiuso negli ultimi dieci mesi e rientra nel borgo di Tovste [Tłuste], regione di Ternopil, laddove svolgeva la professione di medico. La maggior parte delle abitazioni degli ebrei sono in cenere, compresa la sua; i rari superstiti assomigliano a «corpi riesumati dalle proprie fosse» e poche sono le famiglie che si sono conservate integre: nella maggior parte dei casi s’incontrano «bambini senza genitori, genitori senza figli, mariti senza mogli».55 Nel cimitero le tombe sono ancora al loro posto, ma vi sono vaste fosse comuni che raggiungono mezzo metro di profondità. Milch contribuisce a coprire i resti umani che ne emergono ancora «qua e là». Poi si reca nella città natale di Pidhajci, senza trovarvi traccia dei familiari, oltre trenta persone. Vi giunge una domenica mattina, mentre gli abitanti cristiani («la maggior parte giovani, le donne con molti bambini») rientrano dalla funzione religiosa senza prestare attenzione al fatto che «molte delle lastre su cui camminavano erano lapidi prese dal cimitero ebraico; iscrizioni, nomi e date sulle pietre erano perfettamente leggibili».56 Milch si aggira, strada dopo strada, studiando la devastazione: muri anneriti di fuliggine, minacciose case bruciate, con enormi squarci al posto di finestre e porte; […] ovunque mucchi di mattoni, vetri infranti, grossi pezzi di legno e ferro, stracci, utensili domestici rotti, scarpe sfondate; ovunque piume danzanti come farfalle bianche ad ogni alito di vento.

Pidhajci si presenta come investita da un pogrom, con la maggior parte delle abitazioni, istituzioni pubbliche e sinagoghe demolite fino alle fondamenta, ma ancora nell’atto di «ritrarsi e tremare per effetto del fuoco onnipresente e della distruzione».57 Il centro della città e le vie circostanti, una volta piene e animate, sono deserte e in rovina: Ricordai la Pidhajci di un tempo, una località piena di vita. Ora era polvere e cenere. La Pidhajci ebraica e la sua gente si erano estinte nei ghetti, negli 54. Ibidem, p. 89. 55. B. Milch, Can Heaven Be Void, Jerusalem 2003, p. 227. 56. Ibidem, pp. 232-233. 57. Ibidem, p. 234.

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scantinati, nei bunker, nei pozzi profondi, nei boschi, nei campi, nelle fosse comuni. Mi sembrò di sentire le voci delle persone che vi avevano vissuto e fui preso da uno strano impulso: scappare via.58

Adam Broner, tornato per una seconda volta dopo la liberazione nella città natale di Łódź, rimane «attonito» per ciò che gli si presenta davanti: «Nella mia strada non c’erano più case. Che cosa era successo? Come avevano fatto a sparire gli edifici? Non c’era stato nessun combattimento che avesse potuto distruggere un’intera strada». Più tardi viene a conoscenza della ragione di quel vuoto inatteso rispetto alla sua prima visita: Si era sparsa la voce che nel ghetto, ormai abbandonato, erano stati nascosti dei tesori. I polacchi avevano demolito tutti gli edifici alla ricerca del bottino. Nel maggio del 1945, l’area fu completamente devastata in un vergognoso atto di avidità e disprezzo per la memoria dei loro vicini ebrei.59

5. Conservazione o ricostruzione? C’è una forte contraddizione tra l’indifferenza dell’antico pensiero ebraico per la conservazione dei luoghi di culto (la cui santità non è data da un edificio in sé, ma dal fatto che esso raccolga un minyan) e la tensione restaurativa che anima i sopravvissuti, i quali cercano d’iscrivere il genocidio in spazi fisici destinati espressamente a ricordare e commemorare. È una sorta di ritorno alla centralità della sinagoga, non come bet hamidrash, ma come centro per la ricostruzione della vita comunitaria. Sono rari coloro che raccolgono l’appello del poeta Julian Tuwim il quale, nel dare forma alla Polonia futura, scriveva nel 1944 che il modo migliore «per mantenere viva ed eterna la memoria del popolo massacrato tra le generazioni future» era quello di conservare il luogo (il ghetto) – «a Varsavia, come in ogni altra città della Polonia» – nella forma in cui si presentava alla fine 58. Ibidem, p. 242. Tra i resoconti più significativi, vedi anche J. Pat, Ash un fayer, New York 1946; Sh.L. Shneiderman, Tsvishn shrek un hofenung: A rayze iber dem nayem Poyln, Buenos Aires 1947. 59. Broner, My War Against the Nazis, p. 106. Broner rimanda qui all’attività dei “cercatori d’oro” nei luoghi dei massacri, nei ghetti o nei cimiteri, invano denunciata da sopravvissuti e autorità religiose ebraiche. Cfr. J.T. Gross, Złote żniwa: rzecz o tym, co się działo na obrzeżach zagłady Żydów, Kraków 2011, e il film di Władysław Pasikowski, Pokłosie (2012).

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della guerra: «un frammento conservato intatto […] in tutto il suo orrore di macerie e distruzione». Ne sarebbe così risultato un memoriale, la cui «drammaticità» sarebbe stata «evidenziata dagli edifici moderni, dalle case di vetro della città ricostruita», sorte all’intorno.60 Anche il rabbino Shimon Efrati, richiamandosi alla distruzione del Tempio, chiedeva nell’aprile del 1948 che i luoghi della morte fossero «lasciati al loro destino, nella più totale desolazione», perché solo le vestigia «di un terreno abbandonato e di uno spazio vuoto» potevano descrivere o rappresentare in modo adeguato la catastrofe e perpetuarla attraverso le generazioni: «La distruzione può essere colta solo dalla negazione, dalla totale assenza di colore».61 Quelli di Tuwim e di Efrati, l’uno dal punto di vista laico e l’altro dal punto di vista religioso, erano responsa che avevano già elaborato un’idea di lutto, o meglio di pietà, che avrà grande importanza nella riduzione dell’ebraismo a un “fatto” mentale, proprio perché esso verrà in gran parte privato dei suoi “luoghi” in tutta l’Europa orientale e limitato nella sua azione di autonomia culturale. Ma, come si è detto, sono rari coloro che raccolgono tale invito. Malgrado le difficoltà, le iniziative di commemorazione si fanno infatti sempre più numerose nel dopoguerra.62 Ne abbiamo oggi una importante mappatura attraverso il progetto The Untold Stories presso Yad Vashem.63 Potremmo intendere questa forma specifica di “pietà per i morti”, nata per rispondere alla profanazione dei corpi, come una sorta di ripresa delle pratiche delle confraternite che si prendevano cura della preparazione e sepoltura delle salme (khevra qaddisha). Ciò significa che il sentimento si trasforma lentamente in “istituzione” e l’istituzione rigenera la cultura comunitaria in un gruppo costretto a di60. J. Tuwim, Noi ebrei polacchi, Roma 2009 [1984], pp. 18-19. In realtà, il 19 aprile 1948 verrà inaugurato a Varsavia il monumento di Nathan Rapoport agli eroi della rivolta del ghetto. Cfr. J.E. Young, The Biography of a Memorial Icon: Nathan Rapoport’s Warsaw Ghetto Monument, in «Representations», 26 (1989), pp. 69-106. 61. Rabbinic Responsa of the Holocaust Era, a cura di R. Kirschner, New York 1985, p. 151. Per comprendere l’originalità di tale posizione si pensi al fatto che l’idea di monumento come spazio vuoto (o contro-monumento) in autori come Horst Hoheisel e Jochen Gerz/ Esther Shalev-Gerz è solo degli anni Novanta; vedi J.E.Young, The Counter-Monument: Memory against Itself in Germany Today, in «Critical Inquiry, 18/2 (1992), pp. 267-296. 62. G.N. Finder, Ju.R. Cohen, Memento Mori: Photographs from the Grave, in «Polin», 20 (2007), pp. 55-73. 63. http://www.yadvashem.org/untoldstories/database/homepage.asp.

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menticarla.64 Tra le esigenze più urgenti poste dai sopravvissuti troviamo non solo la volontà di ritrovarsi in assemblee commemorative, ma anche di salvaguardare i siti degli eccidi, di promuovere l’installazione di semplici steli o altri segni sepolcrali, di riesumare i corpi violati e provvedere alla loro ritumulazione, di restaurare i camposanti vandalizzati.65 Laddove i sopravvissuti riuscirono nei loro intenti, ciò avvenne soprattutto perché evitarono il confronto diretto con le autorità, raccogliendo di propria iniziativa le risorse necessarie ai lavori e limitando, di norma, la costruzione di memoriali entro i confini dei vecchi cimiteri ebraici.66 Ma già nel 1947, in coincidenza con l’avvio della campagna contro le “deviazioni nazionalistiche”, in diverse provincie si registrano i primi rifiuti da parte delle istituzioni di accondiscendere – salvo rare eccezioni – alle iniziative particolaristiche, con la motivazione che era prerogativa del potere centrale perpetuare, in qualsiasi forma lo si ritenesse necessario, la memoria degli avvenimenti.67 Ecco perché, nel luglio del 1948, gli esponenti della comunità ebraica di Kam’janec’-Podil’skyj lamentarono l’arbitrio degli amministratori locali, che negavano loro il diritto di celebrare una giornata di lutto. Da oltre tre anni – si legge nella denuncia – camminiamo per le strade della città calpestando le pietre sepolcrali dei nostri avi, con le loro iscrizioni in ebraico, usate per lastricare i marciapiedi durante l’occupazione tedesca. Quando abbiamo domandato di rimuoverle e sostituirle con altre pietre, abbiamo ricevuto un rifiuto.

Eguale diniego era stato opposto alla richiesta di «sistemare, in modo sobrio, le fosse comuni». Era necessario intervenire con urgenza visto che, se fosse trascorso «ancora un anno», non si sarebbe più potuto «riconosce64. Utilizzo il termine “istituzione” nel senso datogli da Marcel Mauss («Qu’est-ce en effet qu’une institution sinon un ensemble d’actes ou d’idées tout institué que les individus trouvent devant eux et qui s’imposent plus ou moins à eux?»), in P. Fauconnet, M. Mauss, Sociologie (1901), ripreso in M. Mauss, Essais de sociologie, Paris 1971, p. 16. 65. Cfr. M. Altshuler, Jewish Holocaust Commemoration Activity in the USSR Under Stalin, in «Yad Vashem Studies», 30 (2002), pp. 271-296; Id., Religion and Jewish Identity, pp. 205-228. 66. Sugli sforzi “privati” di commemorazione, vedi R.L. Golbert, Holocaust Sites in Ukraine: Pechora and the Politics of Memorialization, in «Holocaust and Genocide Studies», 18/2 (2004), pp. 205-233; Ead., Holocaust Memorialization in Ukraine, in «Polin», 20 (2007), pp. 222-243. 67. Ro’i, The Reconstruction of Jewish Communities, p. 199.

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re il luogo»: le fosse si stavano coprendo di erbacce, che avrebbero fatto «scomparire ogni traccia e memoria di vita».68 La “privatizzazione” del trauma fu sospinta dal divieto, sempre più perentorio, di organizzare raduni commemorativi e tenere cerimonie di agnizione pubblica. Il pretesto invocato dalle autorità comuniste era che si trattasse di manifestazioni di “sciovinismo” e “nazionalismo”. I richiami alla “natura provocatoria” di tali iniziative portano dunque – con una classica procedura di ribaltamento – ad attribuire alle stesse comunità ebraiche la responsabilità di fomentare l’ostilità di stampo antisemita. Manca di conseguenza ogni gesto ufficiale di riconoscimento della dignità delle vittime e di restituzione dell’identità per la quale erano state assassinate. Si giungerà, al contrario, a risoluzioni grottesche, come la richiesta di rimuovere le stelle di David, in quanto «emblemi sionisti», dalle lapidi funerarie, dai muri delle sinagoghe, dagli scialli di preghiera.69 Le ultime parcelle di molti antichi cimiteri ebraici scompariranno alla fine degli anni Quaranta con la costruzione delle nuove reti viarie; parte delle lapidi rimaste intatte saranno utilizzate per la costruzione e pavimentazione, oppure il consolidamento del manto stradale. Come ci farà capire lo scrittore Viktor Nekrasov,70 fu così che ebbe inizio l’epoca della morte della pietà.

68. М. Micel’, Zapret na uvekovečenie pamjati kak sposob zamalčivanija Cholokosta: praktika KPU v otnošenii Bab’ego Jara, in «Holokost i Sučasnist’», 1 (2007), p. 10; Documents on Ukrainian Jewish Identity and Emigration, 1944-1990, a cura di Vl. Khanin, London 2003, doc. 13, pp. 86-87. 69. P.Ja. Vil’chovyj a I.V. Poljanskij, 13 marzo 1953, in M. Micel’, Obščiny iudejskogo veroispovedanija v Ukraine (Kiev, L’vov: 1945-1981 gg.), Kiev 1998, pp. 75-76; Documents on Ukrainian Jewish Identity, doc. 19, pp. 95-96. 70. V. Nekrasov, Počemu eto ne sdelano?, in «Literaturnaja Gazeta», 10 ottobre 1959; Id., Zapiski zevaki, in «Kontinent», 4 (1975), pp. 81-83; Id., Kamen’ v Bab’em Jaru, in Іzhoj. Viktor Nekrasov u spohadach sučasnykiv, Kyïv 2014, pp. 194-203.

Guido samarani Le guerre in Asia nel Novecento: l’esperienza della Cina e dell’Asia orientale (1895-1945)

1. Premessa Il continente asiatico, con le sue mille particolarità e specificità, fu indubbiamente un protagonista essenziale di quella bloodiest era, di quella sanguinosa fase della storia (il XX secolo) profondamente segnata dal fattore guerra. In effetti, se guardiamo al periodo che intercorre tra la guerra sino-giapponese del 1894-95 e gli eventi bellici che hanno segnato periodicamente l’esistenza di numerosi paesi asiatici nel corso del Novecento, non si può non restare sbalorditi dalle stime, per quanto incerte e approssimative possano essere, sulla distruzione di vite umane. Se si stimano a oltre 230 milioni i morti per causa di guerre e conflitti nel corso del XX secolo,1 infatti, è ipotizzabile che il 20% circa del totale sia da ascriversi alle perdite nella guerra di resistenza al Giappone del 1937-45 (inclusi i dati relativi alla guerra del Pacifico), nelle guerre civili cinesi degli anni Venti-Trenta e seconda metà anni Quaranta, nella guerra 1. Tale stima è la sintesi di varie e spesso diverse elaborazioni succedutesi nel corso dei decenni, diverse delle quali riferite a periodi specifici (prima guerra mondiale, seconda guerra mondiale, guerre e conflitti pre o post 1945, ecc.). A semplice titolo di riferimento, segnaliamo tra le altre: E.J. Hobsbawm, Il secolo breve, Milano 1995 [1994]; Id., War and Peace in the Twentieth Century, in War and Peace in the Twentieth Century and Beyond, a cura di G. Lundestad, O. Njølstad, Singapore 2002, pp. 25-40; Z. Brzezinski, Out of Control. Global Turmoil on the Eve of the Twenty-First Century, New York 1993, in particolare pp. 7-18; M. Leitenberg, Deaths in Wars and Conflicts in the 20th Century, Cornell University Peace Studies Program, Cornell University 2006; B. Lacina, N.P. Gleditsch, Monitoring Trends in Global Combat: A New Dataset of Battle Deaths, in «European Journal of Population», 21 (2005), pp. 145-166.

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di Corea e in quella del Vietnam (dopo l’intervento statunitense).2 In realtà, stime cinesi degli ultimi anni hanno ipotizzato che le perdite cinesi nella guerra sino-giapponese del 1937-45 abbiano largamente superato la soglia – sin qui largamente condivisa – dei 18-20 milioni avvicinandosi o addirittura superando la soglia dei 30 milioni;3 o ancora che le perdite cinesi in battaglia nella guerra di Corea – sinora vagamente quantificate e inserite nella cifra totale di circa 3 milioni di militari e civili caduti e dispersi – superarono in realtà la quota di 180.000.4 La vastità, etereogeneità e complessità degli eventi da considerare nell’ambito del continenente asiatico suggerisce di concentrare la discussione nelle pagine che seguono sul caso della Cina, vista nel più generale contesto dell’Asia orientale ed in particolare nel rapporto con il Giappone nel corso dei cinquant’anni circa che intercorrono tra lo scoppio della guerra sino-giapponese del 1894-95 e la fine della guerra di resistenza al Giappone nell’ambito della conclusione della seconda guerra mondiale, facendo riferimento in particolare ad alcuni momenti chiave ed alcuni aspetti significativi nell’arco di questo periodo storico. Nella prima parte verrà discussa la questione dell’importanza del fattore “guerra/militare” in Cina nel corso del Novecento; nella seconda verranno analizzati alcuni problemi relativi alle guerre tra Cina e Giappone (1894-1945); e infine, nella terza e conclusiva parte, sarà trattato brevemente il tema degli effetti della guerra chimica e batteriologica giapponese in Cina, visto attraverso alcuni casi specifici. 2. R. Mitter, China’s War wih Japan, 1937-1945. The Struggle for Survival, London 2013, in particolare p. 387: Mitter sottolinea tra l’altro che il conflitto del 1937-45 creò tra gli 80 e i 100 milioni di rifugiati cinesi; R. Mitter, A.W. Moore, Introduction, in Kangzhan. China in World War II, 1937-1945: Experience, Memory, and Legacy, in «Modern Asian Studies», 45/2 (2011), p. 226, num. monografico; Lacina, Gleditsch, Monitoring Trends, p. 154. 3. Cfr. R.J. Rummel, China’s Bloody Century: Genocide and Mass Murder Since 1900; G. Rugui, Zhongguo kangRi zhanzheng zhengmian zhanzheng zuozhan ji [Memorie delle guerra totale nella guerra di resistenza al Giappone], Nanjing 2005; M. Guoxiang, Zhongguo kangRi sunshi yanjiu de huigu yu sikao [Rivisitazioni e riflessioni circa le perdite durante la guerra di resistenza al Giapppone], in «KangRi zhangzheng yanjiu» [Ricerche sulla guerra di resistenza al Giappone], 4 ( 2006), pp. 171-189; New figures reveal Chinese casualties, in «China Daily», 15 luglio 2015. 4. Y. Jie, 180,000 Chinese soldiers killed in the Korean War, in «China Daily», 28 giugno 2010. I dati si basano sugli studi del Generale Xu Yan, che insegna anche presso la National Defense University dell’Esercito popolare di liberazione (le forze armate cinesi).

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2. Le guerre e la crescita del ruolo del fattore militare in Cina Le radici della crescita del fattore guerra in Cina sono certamente legate agli eventi dell’ultima parte del XIX secolo, agli sforzi compiuti e ai successi più significativi registrati nella lotta e nella vittoria contro le grandi rivolte e sollevazioni contadine e popolari che segnarono la storia della ultima parte dell’Impero mancese (Qing), e in particolare le rivolte dei Taiping, Nian, delle minoranze musulmane, ecc., da parte, più che al tradizionale sistema militare (le cosidette bandiere mancesi e mongole), delle milizie create da vari governatori regionali per contrastare gli insorti e i ribelli. In effetti a partire dalla seconda metà dell’Ottocento vi fu una devoluzione del potere insita nella nomina, da parte imperiale, di commissari speciali incaricati di creare delle milizie poste sotto la guida dei governatori e responsabili regionali e locali al fine di contrastare l’attività degli insorti e difendere i villaggi e le comunità rurali. Ciò portò presto a dotare tali commissari e le élites locali di maggiori poteri fiscali (per finanziare le milizie): come ha sottolineato Wakeman,5 quando le rivolte ebbero fine e il centro si rivelò largamente impotente ad assumersi molti degli oneri della ricostruzione, furono ancora una volta i poteri locali a gestire larga parte dell’opera di ricostruzione, gestendo welfare, educazione, opere pubbliche, interventi assistenziali. Più in generale, le vicende e i cambiamenti introdotti dal sostanziale indebolimento e poi disfacimento delle strutture politiche-istituzionali nell’ultima parte dell’Ottocento posero le basi, nella prima parte del secolo successivo, per un mutamento della natura dei controlli interni statali e diedero poteri crescenti e nuovi ai militari. Quando i Qing avevano consolidato il potere nella seconda metà del XVII secolo, la loro strategia fondamentale, ad esempio sul tema delle frontiere, era stata essenzialmente difensiva e preventiva: se scoppiavano conflitti, si tendeva a ricorrere a compromessi e a marginalizzare i militari, secondo la tradizione secolare che vedeva una supremazia del potere civile su quello militare e il controllo da parte dei funzionari civili anche delle politiche della guerra. La qualità delle truppe cinesi, inoltre, era in genere bassa, essendo i soldati malpagati e di basso livello educativo. Dopo le guerre dell’oppio della metà dell’Ottocento, tuttavia, i Qing furono costretti a riformare la politica militare: furono enfatizzati formazione e disciplina e aumentati i salari, presero vita altresì le 5. F. Wakeman Jr., The Fall of Imperial China, New York 1975.

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cosiddette “Nuove Armate”, in cui venne emergendo un corpo di ufficiali selezionato. E gli stessi rivoluzionari che combattevano contro la dinastia mancese non mancarono di sottolineare l’assenza in Cina e nel popolo cinese di una tradizione “militaristica”, che aveva di fatto lasciato il paese impotente di fronte alle armate occidentali. Non è certo ed assodato se esista un legame chiaro e diretto tra questa crescente importanza dell’elemento militare nell’ultima parte dell’impero e il sorgere e diffondersi del fenomeno del militarismo, dei warlords o signori della guerra, a partire dagli anni Venti del Novecento. Di fatto, il militarismo si sviluppò a cavallo tra crisi dello Stato centrale e rivalutazione dei bisogni locali in tutto il paese: esso divenne effettivamente una forza disgregante per il paese con gli anni venti, ma è altrettanto vero che le sue radici affondano almeno in parte negli eventi degli anni precedenti. In particolare, alcuni elementi vanno evidenziati al riguardo:6 1) le riforme modernizzatrici e professionalizzanti portate avanti crearono un corpo di ufficiali più politicizzato e un legame stretto tra singole unità e i loro comandanti piuttosto che tra forze armate e dinastia; 2) la nuova rispettabilità dei militari produsse una nuova e inedita capacità attrattiva dell’elemento militare in termini di status, carriera, ambizioni; 3) il fallimento della rivoluzione del 1911 e della fondazione della repubblica nel 1912 (che portarono alla fine della dinastia e del millenario sistema imperiale cinese) nella capacità di creare governi stabili aprì un ampio vuoto di potere che fu occupato crescentemente da comandanti militari che divennero di fatto arbitri in vece del potere politico, segnato da fazionalismi e incapace di raggiungere degli accordi; 4) le forme che la rivoluzione del 1911 assunse (secessione di numerose province invece di una vera e propria guerra civile tra rivoluzione e conservazione) portò le armate regionali e i loro capi in prima fila nell’agone politico e di potere; 6. Sul fenomeno del militarismo e della militarizzazione della vita politica e sociale cinese si rimanda tra gli altri a H.J. van de Ven, War and Nationalism in China: 1925-1945, New York-London 2003; Scars of War. The Impact of Warfare on Modern China, a cura di D. Lary, S. MacKinnon, Vancouver-Toronto 2001; S.C.M. Paine, The Wars for Asia 19111949, New York 2012.

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5) i poteri civili e le élites locali, una volta crollato il potere centrale, tesero a rivolgersi al potere militare per sostenere le proprie esigenze e bisogni, a cominciare dalla difesa delle comunità e dei villaggi dal banditismo, dando vita ad una militarizzazione dal basso verso l’alto che tese ad incrociarsi con quella dall’alto verso il basso; 6) tra il 1912 e il 1916, la soppressione – pur formalmente temporanea – delle istituzioni repubblicane, per quanto fragili ed impopolari esse fossero, l’eliminazione delle forze politiche e parlamentari di opposizione, l’insistenza sulla necessità di un potere forte top-down, dall’alto in basso, aprì ulteriormente le porte alla militarizzazione del potere e della stessa società cinese; 7) la crisi, la delegittimazione e il discredito del potere e delle istituzioni civili portò all’ascesa dei valori militari benché i soldati fossero in gran parte temuti e odiati dalla popolazione. Il sistema politico che emerse con gli anni venti con lo stesso Partito nazionalista di Chiang Kai-shek e che sarebbe stato assorbito, pur in modo diverso, dallo stesso Partito comunista più avanti, condusse ad un ruolo crescente dell’elemento militare nella vita politica e nelle formazione dei governi, fornendo allo stesso tempo a un paese e a una società umiliati e disgregati un modello del buon cittadino in cui disciplina, fede, zelo, sacrificio, inseriti in un contesto vago ma effettivo di modernità, si intrecciavano; 8) in termini sociali il militarismo ebbe effetti disastrosi, soprattutto nelle aree rurali, aggravando una situazione già drammatica. I warlords portarono la tassazione e gli obblighi di coscrizione a livelli insopportabili; le comunità locali ebbero sempre più bisogno di protezione armata per difendersi, ma spesso il confine tra milizie locali, armate venute da fuori e banditismo risultò molto stretto. Niente e nessuno poteva ormai più rappresentare un elemento di fiducia per i contadini e le loro famiglie: i soldati, spesso malpagati e maltrattati dai propri ufficiali, tesero ad appropriarsi di tutto quanto potevano trovare e con ogni mezzo. Negli anni che precedono lo scoppio della guerra di resistenza al Giappone nel 1937,7 settori legati alle forze armate e in particolare vari gruppi 7. Si tratta del periodo del cosiddetto “decennio di Nanchino” (1928-37), in cui la capitale cinese era stata spostata da Pechino a Nanchino e in cui Chiang Kai-shek e il Partito nazionalista guidavano il paese.

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di ufficiali svolsero un ruolo specifico nella lotta contro quella che veniva definita la “decadenza della società”, il male della corruzione, e ovviamente contro i comunisti ma anche la minaccia giapponese. Cuore di questo sistema era rappresentato dalla Società per l’azione vigorosa (Lixingshe), che raggiunse negli anni d’oro i 500.000 membri ed era articolata in vari gruppi e associazioni, ma anche celle segrete in seno all’esercito, la polizia e strutture governative. Tra queste associazioni quella probabilmente più familiare all’opinione pubblica, per i suoi atti efferati di spedizioni punitive ed anche assassinio di oppositiori del regime nazionalista, fu la Società delle Camicie azzurre, chiaramente ispirata alle Camicie nere italiane e a quelle brune tedesche. Diversi studiosi hanno utilizzato nel caso delle Camicie azzurre il termine «fascismo» in quanto parametro di identità ideologica della società.8 Tuttavia, studi più recenti hanno messo in luce come al di là del gruppo specifico delle Camicie azzurre l’impiego del termine “fascismo” per numerosi gruppi ed associazioni che guardavano a Chiang Kai-shek come al leader supremo e a Germania e Italia come possibili modelli, appare supeficiale: in realtà, in tali gruppi ed associazioni troviamo ammiratori del totalitarismo e dei modelli di autorità incarnati dal führer e dal duce, ma anche ammiratori tout court dell’efficienza organizzativa e tecnocratica, nonché del modello di ordine sociale, presenti nell’esperienza tedesca; altri, che cercavano di trovare una sintesi tra tali modelli e la rivalutazione di tradizioni morali presenti nel passato nazionale, e altri ancora che cercavano semplicemente modelli di rottura radicale e iconoclastica indipendentemente dal colore politico-ideologico.9 Di fatto, se guardiamo alle aspettative e alle visioni di Chiang Kaishek e di molta parte della classe dirigente nazionalista dell’epoca, questo successo del “nazionalismo fascista” in Europa ed auspicabilmente in Cina era radicato nella visione e convinzione della superiorità di tali modelli sull’individualismo liberale e forniva al potere dello Stato il modo di proclamare la propria supremazia e criticare quelli che venivano visti come eccessi individualistici e di libertà. 8. Il classico punto di riferimento sul tema è ancor oggi rappresentato dallo studio di L.E. Eastman, The Abortive Revolution: China Under Nationalist Rule, 1927-1937, Cambridge (MA) 1974. 9. Si vedano in particolare le analisi di W.C. Kirby, Germany and Republican China, Stanford 1984, e Images and Realities of Chinese Fascism, in Fascism Outside Europe. The European Impulse Against Domestic Conditions in the Diffusion of Global Fascism, a cura di S.U. Larsen, New York 2001, pp. 233-268.

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Un elemento centrale in tale visione era rappresentato per Chiang dalla disciplina militare vista come modello per la società; ad essa egli volle accompagnare il richiamo a certi valori tradizionali. La combinazione tra questi due elementi portò alla creazione del Movimento vita nuova (Xin shenghuo yundong), il cui obiettivo finale era la creazione di una società pienamente disciplinata.10 Parallelamente, anche il percorso storico del Partito comunista cinese (Pcc) vide crescere l’importanza del fattore guerra e la militarizzazione del potere politico. Dopo la disfatta del 1927-28 contro i nazionalisti, che mise a rischio la stessa sopravvivenza del Pcc in quanto organizzazione politica, tra la fine degli anni Venti e la prima metà del decennio successivo Mao Zedong – che non era ancora il Presidente Mao di storica memoria e nemmeno uno dei dirigenti di massimo livello nel partito – creò insieme ad altri comunisti sfuggiti alla repressione del 1927-28 e successivamente guidò la creazione e lo sviluppo di basi rivoluzionarie (“soviet”) nella Cina centro-meridionale. Uno dei punti essenziali per la capacità di queste basi di resistere agli attacchi nemici, pur in condizioni di enorme differenza quanto a forza militare, fu l’adozione di una strategia che combinava la difesa della base con tattiche di guerriglia, evitando da una parte insostenibili scelte di guerra di posizione e valorizzando dall’altra l’opera di gruppi di guerriglia ben organizzati e disciplinati. La base sovietica era chiamata a a procurare le risorse necessarie per l’armata attraverso la confisca di terre e beni dei ricchi proprietari e in seguito attraverso un sistema regolare di tassazione. Il cuore del sistema militare comunista era rappresentato dall’Armata Rossa, nata proprio nel 1927-28. I suoi effettivi, non superiori alle 10.000 unità nel 1928, andarono espandendosi nel corso degli anni toccando alcune centinaia di migliaia prima della Lunga Marcia (1934-35), per poi cadere a meno di 100.000 in seguito alle gravi perdite subite nella stessa e risalire in seguito a partire dalla fine degli anni Trenta, sfruttando l’impegno patriottico e la popolarità comunista nella guerra di resistenza al Giappone, da 300.000 (1939) a 850.000 alla fine della guerra (1945). 10. Sul tema si rimanda in particolare a: A. Dirlik, The Ideological Foundations of the New Life Movement. A Study in Counterrevolution, in «The Journal of Asian Studies», 34/4 (1975), pp. 945-980; F. Ferlanti, The New Life Movement in Jiangxi Province, 19341938, in «Modern Asian Studies», 44/5 (2010), pp. 961-1000; B. Tsui, Clock Time, National Space and the Limits of Guomindang Anti-Imperialism, in «Positions», 21/4 (2013), pp. 921-945.

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Nelle analisi ed elaborazioni della fine anni Trenta-prima metà degli anni Quaranta, Mao Zedong e gli altri dirigenti cinesi non vollero – come talvolta si è indicato, facendo in particolare riferimento al celebre detto “il potere nasce dalla canna del fucile” – affermare meramente l’esigenza di una politica militarista e di pura violenza militare, quanto semmai sottolineare come nel contesto storico-politico del periodo in Cina la disponibilità di una struttura militare disciplinata e organizzata costituiva una premessa vitale per la difesa delle conquiste e delle prospettive della rivoluzione di fronte alla repressione nazionalista prima e a quella giapponese poi. Un altra componente essenziale per l’Armata Rossa era che i soldati – che erano in generale contadini – disponessero sia di un senso della disciplina (differenziandosi così dalle varie bande che scorazzavano nelle campagne e terrorizzavano e depredavano i contadini), sia di chiare motivazioni del perché combattevano (differenziandosi quindi da altri eserciti, spesso infarciti di mercenari). Una delle prime misure adottate fu l’abolizione delle punizioni corporali per i soldati, pratica estremamente diffusa nella storia delle forze armate cinesi, a cui si accompagnò lo sforzo per introdurre forme chiare di egualitarismo. Non è certo un caso che negli anni Trenta molti scritti di Mao fossero dedicati a questioni di tattica e strategia militare, né che molti degli uomini che affiancarono Mao in quegli anni (e che spesso sarebbero stati al suo fianco nella lotta finale per la conquista della Cina nel secondo dopoguerra e nella creazione e sviluppo della Repubblica popolare cinese) fossero esperti in temi militari: Zhu De (il padre dell’Armata Rossa); Peng Dehuai (che avrebbe guidato i “volontari cinesi” in Corea); Lin Biao (che sarebbe stato posto alla fine degli anni Cinquanta alla guida delle forze armate cinesi e sarebbe diventato il potenziale successore di Mao negli anni Sessanta), Chen Yi, lo stesso Deng Xiaoping, che fu commissario politico nell’Armata Rossa, e altri ancora. Il ruolo di Mao da questo punto di vista fu principalmente quello di sistematizzare alcune regole della guerriglia che riflettevano tradizioni già consolidate in Cina legate ai fenomeni di resistenza contadina al potere e alle attività di società segrete e di banditi vari. Ai soldati Mao e gli altri dirigenti comunisti chiesero in quegli anni di essere pazienti e flessibili, di attendere gli errori del nemico, di ritirarsi quando il nemico era troppo forte e attaccarlo quando era debole, di concentrare le forze per attaccare piccoli contingenti nemici e di poggiare sul supporto e l’aiuto delle popo-

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lazioni locali, «come un pesce che nuota nell’acqua» (in cui ovviamente l’acqua era il popolo e il pesce le unità comuniste). La lezione positiva che venne all’Armata Rossa e al Pcc in quegli anni fu che era possibile creare una macchina da guerra relativamente efficace e radicata nel popolo (cioè tra i contadini); al contrario, la lezione negativa che emerse nel corso del 1934, durante l’ultima e più massiccia campagna organizzata contro di loro e contro le basi sovietiche da parte di Chiang Kai-shek – la quale portò alla fine all’abbandono della base centrale e di gran parte delle basi nel sud e all’avvio dell’epica Lunga Marcia – fu che era indispensabile creare delle basi più ampie e più solide dal punto di vista economico, le quali consentissero di mobilitare risorse sempre più ampie e sostenere efficacemente anche una guerra di posizione protratta e non solo azioni di guerriglia. Con la resa del Giappone, tra l’ultima parte del 1946 e il 1949, nazionalisti e comunisti si trovarono nuovamente di fronte: i primi potevano contare su circa 3 milioni di effettivi e 6.000 pezzi di artiglieria, spesso supportati dall’aviazione; i secondi su 1 milione circa di truppe e 600 pezzi di artiglieria, praticamente senza supporto aereo. La sconfitta di Chiang e dei nazionalisti in soli tre anni circa fu dovuta a vari fattori: politici (corruzione) ed economici (inflazione), che si intrecciarono strettamente con le questioni militari. Nella primavera del 1947 i nazionalisti avevano cercato di creare e rafforzare alcuni corridoi vitali nella Cina settentrionale, che collegavano varie città e guarnigioni ed erano imperniati sul controllo delle maggiori città e dei centri di trasporto più importanti, al fine di contrastare più efficamente l’espansione comunista che aveva nelle aree rurali la propria forza e di spezzare la crescente attività di guerriglia che minava le loro linee di rifornimento. Nella primavera del 1948, tuttavia, la situazione per Chiang appariva disperata: le città manciuriane di Changchun e Mukden (oggi Shenyang) erano praticamente circondate dalle forze comuniste che stavano lentamente chiudendo gli spazi a circa 200.000 soldati nazionalisti che difendevano Mukden e altri centri. È stato a più riprese notato come Chiang commise nel corso della campagna manciuriana alcuni errori fondamentali, anche contro il parere dei suoi consiglieri statunitensi, ostinandosi a difendere a oltranza Mukden e altri centri manciuriani sui quali aveva investito molto del suo prestigio politico e personale. Nell’autunno del 1948 la campagna manciuriana era sostanzialmente vinta dai comunisti: Mukden e Changchun caddero in loro mano con l’annientamento, la

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resa o la diserzione di gran parte dei 400.000 uomini che difendevano le due città. Solo circa 20.000 soldati riuscirono a fuggire e furono evacuati via mare. Alla fine del 1948 lo scontro si spostò dal nord al centro, con la conquista comunista dell’importante snodo di Xuzhou, mentre nel gennaio 1949 Lin Biao – il principale artefice dei successi in Manciuria – catturava Tianjin nel nord. Il 31 gennaio cadeva Pechino. Nel corso del 1949 la linea di divisione tra armate nazionaliste e comuniste si era ormai spostata nel cuore della Cina centrale, segnata dalle acque dello Yangzi. Nell’aprile 1949 il Pcc diede l’ultimatum ai nazionalisti per una possibile resa che avrebbe risparmiato ulteriori perdite umane e di fronte al rifiuto ordinò alle truppe di attaccare le difese nemiche lungo lo Yangzi: Nanchino, Hangzhou, Wuhan caddero rapidamente, Shanghai nel mese di maggio, Changsha in agosto, Canton a metà ottobre e la capitale nazionalista, Chongqing, a metà novembre 1949, quando la Rpc era già stata ufficialmente proclamata. 3. Cina vs Giappone: una storia infinita La storia del processo di espansione e aggressione giapponese alla Cina affonda, come è noto, le sue radici nel processo di sviluppo e modernizzazione avviato dal Giappone con le Riforme Meiji del 1868, con la fame di terra e di risorse naturali ed energetiche in un territorio povero di materie prime e in cui la pressione contadina e popolare per la terra trovava risposte insufficienti nella conformazione del territorio giapponese, nonché nell’emergere prepotente di altri elementi. Tra questi la volontà di liberarsi dalla plurisecolare tutela cinese; la convinzione che toccasse ora al Giappone aiutare una Cina che, dalla metà dell’Ottocento, era entrata in una fase di evidente crisi e declino e che aveva perso il controllo di ampie porzioni del proprio territorio; l’idea di un panasiatismo che avrebbe liberato l’Asia dal dominio dell’uomo bianco e ridato l’Asia agli asiatici, ovviamente sotto guida giapponese; l’irritazione per la scarsa propensione dei cinesi ad accettare l’“aiuto fraterno” giapponese; le difficoltà e le battute d’arresto conosciute, in certi momenti, dall’espansione militare nipponica sul suolo cinese. L’ultimo punto è evidenziato tra l’altro dal caso del «Massacro di Nanchino» (fine 1937-inizi 1938), in cui giocò un ruolo importante la profonda frustrazione delle truppe nipponiche di trovarsi di fronte a un nemico tenace e capace di resistenze impreviste, facendo cade-

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re rapidamente le ottimistiche analisi dei comandi giapponesi che avevano nutrito le truppe dell’idea di una avanzata facile e incontrastata.11 I tempi storici di questo confronto bellico tra Giappone e Cina, che peraltro avrebbe coinvolto potenze come la Russia/Urss e gli Usa, sono scanditi da alcuni eventi: 1) la guerra sino-giapponese del 1894-95 che ebbe come oggetto il controllo della Corea, ma portò anche all’occupazione giapponese di Taiwan, che sarebbe rimasta colonia giapponese per 50 anni; 2) la vittoria giapponese contro la Russia del 1904-05, che lasciò via libera ai progetti di Tokyo di penetrazione e controllo in Manciuria sia attraverso l’insediamento di truppe, sia attraverso l’opera della South Manchurian railway company, i cui compiti andavano ben oltre lo sviluppo di un moderno sistema ferroviario contemplando la produzione di impressionanti studi, ancor oggi consultabili in alcune grandi biblioteche giapponesi, circa le risorse economiche, la struttura sociale, i costumi, la fauna, la flora manciuriane e poi anche della Cina settentrionale; 3) la prima guerra mondiale,12 in cui emerse il ruolo del Giappone sin dal 1914 con l’attacco alle basi tedesche nella provincia cinese dello Shandong, mentre sappiamo che la Cina entrò nel conflitto a fianco dell’Intesa solo nel 1917, in particolare in seguito alle pressioni statunitensi; 4) l’escalation del 1931-32, che portò all’espansione ulteriore della presenza giapponese, alla creazione dello stato-fantoccio del Man11. Sul tema dei massacri, degli stupri e della violenza da parte delle truppe giapponesi in Cina la bibliografia è ormai molto ricca: qui ci si limiterà a rimandare ad alcuni testi in lingua italiana: I. Chang, Lo stupro di Nanchino. L’olocausto dimenticato della seconda guerra mondiale, Milano 2000; Le guerre mondiali in Asia orientale e in Europa. Violenza, collaborazionismi, propaganda, a cura di B. Bianchi, L. De Giorgi, G. Samarani, Milano 2009; K. Tokushi, Il massacro di Nanchino e la struttura del negazionismo politico in Giappone, Roma 2011. 12. Non si può non notare come, nell’occasione del centenario della prima guerra mondiale, in molti casi le storie proposte o riproposte in forma aggiornata trascurino essenzialmente il fronte asiatico, che fu certamente marginale rispetto a quello europeo ma che, come si cerca di evidenziare in queste pagine, ebbe comunque una rilevanza non trascurabile nell’ambito del progetto di espansione giapponese in Cina ed in Asia. Per una recente ed eccellente analisi del tema si rimanda al volume di recente pubblicazione Japan and the Great War, a cura di O. Frattolillo, A. Best, New York-London 2015.

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zhouguo, al primo attacco a Shanghai e al cuore del sistema economico-industriale moderno cinese nelle province centrali, portando alla creazione di un sistema integrato nell’occupazione giapponese tra Manciuria e Cina settentrionale, con la creazione altresì dei primi governi cinesi collaborazionisti; 5) la guerra degli otto anni, 1937-45, che portò al controllo nipponico di gran parte del territorio cinese (ma soprattutto delle grandi aree urbane e delle principali vie di comunicazione, lasciando spazi crescenti tra le linee all’azione militare nazionalista e comunista) e che si intrecciò con lo scoppio della seconda guerra mondiale in Europa ed Africa e poi con l’intervento statunitense nel Pacifico.13 Per quanto riguarda più specificamente il conflitto del 1937-45, nei primi anni di guerra il governo di Chiang Kai-shek ricevette aiuti molto limitati dall’esterno: lo stesso Stalin non aveva mai evidenziato una particolare fiducia nelle possibilità future dei comunisti cinesi e aveva quindi deciso alla fine di aiutare la Cina solo entro certi limiti. Diverse migliaia di consiglieri sovietici, che presero per lo più il posto di quelli tedeschi ritirati da Hitler in seguito all’alleanza con il Giappone, aiutarono le forze armate cinesi a migliorare le proprie capacità militari e alcune centinaia di aerei sovietici da combattimento furono altresì inviati a sostegno dello sforzo bellico; a loro volta gli Stati Uniti concessero ai cinesi dei prestiti che erano tuttavia molto limitati se posti a confronto delle esigenze di Chiang, il quale comprese tuttavia che i cinesi avevano un’occasione storica, con la guerra, per dimostrare al mondo intero il loro valore e coraggio e soprattutto che la speranza di ottenere nel prossimo futuro aiuti più sostanziosi era

13. Qui non si non può sottolineare, come ha fatto recentemente Rana Mitter, uno degli studiosi più autorevoli del conflitto sino-giapponese, come tale conflitto rivesta un ruolo molto importante non solo sul piano regionale, ma anche su quello “globale”, dato il suo intreccio con lo scoppio della guerra in Europa due anni dopo e il suo legame con la guerra nel Pacifico. A parere di Mitter, tale ruolo è ancora a tutt’oggi sottovalutato nell’analisi complessiva sulla crisi del sistema internazionale negli anni Trenta e Quaranta; esso è altresì cruciale per comprendere a fondo come l’eredità della guerra e dello sforzo patriottico cinese siano parte integrante e fondamentale del processo di ricostruzione dell’identità nazionale che fu avviato sin da quegli anni e che trova oggi una sua chiara espressione nel peso assegnato alla memoria storica con particolare attenzione ai giovani: cfr. Mitter, China’s War with Japan, pp. 7-14. Si veda altresì Negotiating China’s Destiny in World War II, a cura di H. van de Ven, D. Lary, S. MacKinnon, Stanford 2015.

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strettamente legata alla dimostrazione che la Cina era in grado di resistere anche da sola. Gli sviluppi del conflitto sino-giapponese dopo il 1937-38 e sino a Pearl Harbour furono sostanzialmente caratterizzati da una guerra di attrito e dall’assenza – salvo rare eccezioni – di grandi battaglie. I problemi per Chiang e per la Cina si acuirono tuttavia a fine 1938 quando Canton, centro della Cina meridionale, venne occupata dai giapponesi, bloccando di fatto gli aiuti che sino ad allora erano arrivati a Chongqing (dal 1938 la capitale del governo cinese), nel sudovest, da Hong Kong; e poi ancora nel 1940 quando la linea ferroviaria che collegava il Vietnam (Haiphong) alla Cina meridionale (Kunming, e poi da qui a Chongqing) venne chiusa dal governo di Vichy. L’unica alternativa via terra restò a quel punto la Burma Road, che collegava Lashio, in Birmania, con Kunming (e da qui poi verso Chongqing) nella Cina merdionale attraverso un percorso di oltre 1000 chilometri. La costruzione della Burma Road era stata avviata dai cinesi poco dopo lo scoppio della guerra con il Giappone nel 1937, era stata completata nel 1939 e svolse per alcuni anni un ruolo vitale di approvviggionamento per i territori controllati da Chiang nella Cina meridionale.14 La Burma Road fu tuttavia chiusa dai giapponesi nella primavera del 1942, dopo l’occupazione della Birmania, lasciando al governo cinese l’unica alternativa della cosidetta Hump, ossia del rifornimento aereo da parte statunitense dall’India sino a Kunming, attraverso le aree montagnose himalaiane.15 Nonostante gli sforzi, si stima che la quantità di aiuti forniti via aerea dagli alleati a Chiang dopo la chiusura della Burma road solo nel 1944 sarebbe riuscita ad eguagliare quanto la Cina aveva ricevuto annualmente negli anni precedenti. Le fasi finali del conflitto furono segnate da alcuni elementi importanti, in un’ottica chiaramente rivolta al dopoguerra. Benché nominalmente dal 1937 fosse esistito un fronte unito patriottico tra nazionalisti e comunisti, esso aveva funzionato in realtà con grande difficoltà e l’Armata Rossa nel nord era stata in grado, nonostante le gravi perdite subite, di espandere il proprio potere nelle aree settentrionali. Il partito e l’esercito comunisti erano stati inoltre irrobustiti dall’arrivo di diverse centinia di migliaia di persone fuggite dalle città occupate dai giapponesi. 14. La questione non toccava di fondo, al contrario, le forze comuniste che avevano il loro centro nella Cina nord-occidentale. 15. Il nome “Hump” (lett.: ‘collina’, ‘collinetta’) fu dato scherzosamente dai piloti alleati che compivano le missioni di rifornimento.

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4. Gli effetti dell’aggressione giapponese alla Cina, 1937-45: alcune considerazioni sul caso dei “villaggi delle gambe putrefatte” Negli ultimi anni, nell’ambito degli studi e delle testimonianze circa gli effetti dell’impiego in Cina da parte giapponese di armi chimiche e batteriologiche, è stato aperto un nuovo fronte di indagine e di ricerca che riguarda i cosiddetti “villaggi delle gambe putrefatte”, in riferimento a coloro che ancor oggi portano i pesanti segni della contaminazione con armi chimiche e biologiche negli anni Trenta e Quaranta.16 Si tratta di analisi che richiedono ovviamente ulteriori documentazioni e verifiche ma che, allo stato attuale, configurano in ogni caso una realtà terribile e raccapricciante. Dalle prime indagini ed interviste raccolte in varie parti del paese sui cinesi che portano ancor oggi il segno sul proprio corpo dell’impiego di armi chimiche e batteriologiche, risultano numerosi casi nelle province dello Hunan, Jiangxi, Guangdong, Yunnan, Jilin e Heilongjiang. Ricerche più dettagliate e documentate sono state portate avanti nella provincia del Zhejiang, ove in numerosi villaggi sono state raccolte testimonianze e fotografie di vittime di quegli anni, dando per l’appunto vita all’espressione “villaggi delle gambe putrefatte”. Ad esempio, nei villaggi di Caojie e Quzhou e nelle aree distrettuali di Jinhua e Yiwu sono state segnalate varie centinaia di vittime ancora in vita della guerra chimica e batteriologica giapponese, soprattutto in seguito all’attacco portato dalle truppe nipponiche negli anni Quaranta. È noto come gran parte della produzione chimica e batteriologica giapponese utilizzata in Cina fosse prodotta dal famigerato laboratorio di Pingfan, un centro vicino alla città di Harbin, sede della cosiddetta “Unità 731”: si sarebbe trattato di un gigantesco complesso di circa 6 kmq ospitante circa 3.000 addetti giapponesi, tra cui alcune centinaia di medici e scienziati. Risulta altresì che proprio diverse aree della provincia del Zhejiang furono oggetto, nei primi anni Quaranta, di una serie di test sulla popolazione circa l’efficacia di certe armi batteriologiche e chimiche attraverso la loro dispersione sul territorio da parte di aerei che volavano a bassa quota. 16. Riferimenti al caso dei “villaggi delle gambe putrefatte” possono essere tra l’altro reperiti nei siti www.taipeitimes.com (Stories untold) e www.city-journal.org (When Germ Warfare Happened).

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I risultati delle nuove informazioni e testimonianze emerse hanno dato vita ad un’ampia e articolata serie di iniziative atte a sensibilizzare l’opinione pubblica nazionale e internazionale, ma anche a porre le basi per la creazione di gruppi ed associazioni impegnate sul tema della memoria e miranti ad ottenere giustizia nelle sedi opportune. Tra queste: la creazione nell’area distrettuale di Yiwu di una Associazione delle vittime della guerra batteriologica; la pubblicazione nel 2005 del libro Blood-Weeping Accusations da parte di Li Xiaofang, nel quale tuttavia le analisi tendono in parte a divergere tra coloro che attribuiscono all’antrace le gravi ferite subite e coloro che indicano nel cimurro la causa principale; o ancora la produzione di una serie di documentari, basati su interviste e testimonianze, tra cui quelli girati da una troupe guidata dai registi Hong Zijian (James T. Hong) e Chen Yinru: due artisti di origine cinese ma formatisi negli Stati Uniti. Il primo breve documentario fu 731: Two Versions of Hell del 2006-07, seguito da Wounds that Never Heal del 2009-10 e da Cutaways of Jiang Chungen-Forward and Back Again del 2012, che narra la storia di Jiang Chungen, colpito da armi batteriologiche all’età di 2 anni. Tra il 2004 e il 2010 venne inoltre portato a termine un lavoro più approfondito culminato con il documentario Lessons of the Blood, che si presenta come una versione lunga dell’originale Wounds that Never Heal.17 5. Conclusioni La crescente importanza del fattore guerra e il costante processo di militarizzazione della vita e del sistema politici cinesi rappresentano, come si è cercato di mettere in evidenza, una costante nel trapasso della Cina dall’impero alla repubblica e successivamente nello sviluppo dell’esperienza repubblicana, largamente segnata da ampi periodi di conflitti (guerre civili, guerre di resistenza all’aggressione esterna, ecc.) e da poche fasi di pace. In questo ambito, la guerra di resistenza al Giappone del 1937-45 rappresenta, anche in relazione con il più ampio contesto mondiale, una fase chiave in quanto la Cina fu trasformata, attraverso gli anni del conflitto, da una potenza minore ad un protagonista internazionale, partecipando – rappresentata da Chiang Kai-shek – alla Conferenza del Cairo del novem17. I titoli sono forniti nella traduzione inglese ma ovviamente i documentari sono in lingua cinese; nel caso del libro citato, è stato pubblicato anche in inglese

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bre 1943 e divenendo nel dopoguerra uno dei membri fondatori dell’Onu. Se si guarda a posteriori a quegli anni, alle prospettive che si aprivano ai cinesi dopo le devastanti vittorie giapponesi del 1937-38, non si può non guardare con sgomento al fatto che gli appelli all’aiuto internazionale da parte cinese furono accompagnati da numerosi attestati di simpatia e di sostegno morale ma da limitati aiuti concreti. Dopo lo scoppio della guerra in Europa nel settembre 1939, le teoriche possibilità di assistenza da parte britannica e francese svanirono del tutto e la Cina si trovò per oltre due anni, prima di Pearl Harbour, a fronteggiare sostanzialmente da sola un nemico più forte, meglio preparato e determinato a vincere ad ogni costo. Fu dunque la guerra del Pacifico a fornire una collocazione importante alla guerra di resistenza anti-giapponese nel più ampio contesto della lotta contro l’aggressione nazifascista e nipponica, spezzando definitivamente ogni spazio residuo per i richiami panasiatici da parte di Tokyo. La fine della guerra nel 1945 pose le basi per una profonda svolta ma lasciò un’eredità che non fu colta all’esterno, né dagli Usa né dall’Urss: la guerra aveva certo reso la Cina più forte ed autorevole internazionalmente e tuttavia, all’interno, l’equilibrio di potere tra nazionalisti e comunisti si era fortemente modificato, ponendo le basi pochi anni dopo per quella vittoria comunista che nessuno aveva previsto.

Guido FormiGoni Guerra fredda o «lunga pace»: pervasività del conflitto e logiche di ordinamento

La guerra fredda è stata uno dei fenomeni più invasivi e incombenti del XX secolo, suscitando comprensibilmente un’enorme mole di dibattito storiografico. Come era prevedibile, dopo il 1989-91 si è sviluppato un ulteriore fervore di studi e controversie, tipico di una rivisitazione complessiva di un fenomeno storico, che diventava possibile con occhi più distaccati dopo la sua conclusione. A distanza di un quarto di secolo da quel tornante storico, siamo ormai di fronte alla possibilità di compiere un primo bilancio di questa amplissima e complessa stagione di ricerca. Sono comparse le prime articolate sintesi complessive, anche in Italia e in lingua italiana.1 Sono anche apparsi cospicui lavori collettivi, in cui ampi pool di studiosi specialisti hanno sondato in modo articolato i vari aspetti del problema, presentando sinteticamente i frutti di ricerche complesse.2 Gli ultimi cinque anni quindi hanno permesso di tirare alcune somme e di mettere alcuni punti fermi in questo percorso, anche se naturalmente siamo lontani dall’avere arato completamente il terreno, come dalla costruzione 1. Ad es. F. Romero, Storia della guerra fredda. L’ultimo conflitto per l’Europa, Torino 2009; C. Pinzani, Il bambino e l’acqua sporca. La guerra fredda rivisitata, Firenze 2011; J.L. Harper, La guerra fredda. Storia di un mondo in bilico, Bologna 2013 [2011]; in campo internazionale: G.-H. Soutou, La guerre froide 1943-1990, Paris 20112; N. Stone, The Atlantic and its Enemies. A History of the Cold War, New York 2011; C. Fink, The Cold War. An International History, Boulder 2013; M. Gilbert, Cold War Europe. The Politics of a Contested Continent, Lanham 2014. 2. The Cambridge History of the Cold War, a cura di M.P. Leffler, O.A. Westad, 3 voll., Cambridge-New York 2010 [d’ora in poi Chcw]; The Oxford Handbook of the Cold War, a cura di R.H. Immerman, P. Goedde, Oxford-New York 2013 [d’ora in poi Ohcw]; The Routledge Handbook of the Cold War, a cura di A.L. Kalinovsky, C.H. Daigle, NewYork-London 2014 [d’ora in poi Rhcw].

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di approcci del tutto condivisi, come è naturale che sia in una prospettiva di crescita della storiografia. Vorrei tentare di ricavare dagli studi più recenti alcuni ragionamenti complessivi sulla vicenda quarantennale della guerra fredda. Il tentativo sarà quello di collegare il fenomeno al quadro storico più generale, alle grandi tendenze internazionali e globali del XX secolo. Per capire tale originale conflitto occorre infatti usare l’avvertenza di non considerarlo come un fenomeno conchiuso in se stesso, oppure più sottilmente come una cornice che definisce tutta un’epoca, bensì ricollegarlo sempre a tendenze e fenomeni di più lunga portata e di più profondo impatto nella storia. Per quanto decisiva, la guerra fredda fu in sé un fenomeno circoscritto. Più passano gli anni dalla sua conclusione, più si staglia anche la sua parzialità, che anzi appare forse maggiore alla generazione che l’ha vissuta all’epoca come un orizzonte esperienziale personale piuttosto incombente. 1. Un conflitto globale totalizzante, che restò sul limite della guerra aperta La particolare caratteristica della guerra fredda, come è noto, fu quella di essere un conflitto “totale” – nella forma propria e non generica con cui questa espressione può essere usata nel Novecento – tra due sistemi ideologico-politici universalistici contrapposti. Una guerra di “identità”, con il proprio carattere geopolitico strettamente intrecciato a quello ideologico: una guerra quindi che intendeva la dimensione territoriale come punto di caduta e di valutazione della reciproca influenza politico-ideologica. Guerra per «conquistare i cuori e le menti», non solo per modificare assetti o conquistare territori. Guerra tra visioni del mondo che condividevano ambedue una certa tensione tra messianismo e determinismo.3 Non poteva esserci in qualche modo che un vincitore unico, data la costruzione originaria di una contrapposizione totale tra i due “mondi”. Sotto questo profilo, la guerra fredda rappresentò l’epoca culminante della lunga stagione contemporanea della politica assoluta a forte conte3. Cfr. R. Jervis, Identity and the Cold War, in Chcw, II, p. 22-43; N. Shibusawa, Ideology, Culture, and the Cold War, in Ohcw, pp. 32-49; M. Del Pero, Incompatible Universalisms: the United States, the Soviet Union and the Beginning of the Cold War, in Rhcw, pp. 3-17; M.P. Leffler, For the Soul of Mankind. The United States, the Soviet Union, and the Cold War, New York 2007.

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nuto ideologico: potremmo parlare di questo fenomeno come una sorta di culmine della modernità. Oppure, potremmo anche dire, fu un episodio cruciale della “sacralizzazione” contemporanea della politica.4 Cui non sfuggiva più nessun aspetto, nemmeno la politica estera, che non era più soltanto campo del confronto tra Stati-nazione, nell’elitario e rarefatto meccanismo di gestione delle scelte statuali (al riparo dalle passioni interne e dalle demagogie, secondo l’algido detto right or wrong, my country). Anche le relazioni tra Stati erano divenute campo di legittimazione ideologica, orizzonte di riconoscimento o di scontro globale, motivo di contesa frontale nella dialettica politica interna. Un conflitto che fu poi globale anche perché venne “rappresentato” nel cuore di una opinione pubblica globale. Un conflitto che creava nuovi intrecci di solidarietà o di rottura, a cavallo tra gli attori in competizione nel contesto nazionale e i poli di riferimento ideali e politici internazionali, in quanto collegati a miti universalistici. Anders Stephanson ha ragionato con efficacia sulla costruzione prevalentemente statunitense di questo modello concettuale, identificandone le radici anche in una simbologia di tipo religioso.5 Ma, appunto, la guerra fredda fu anche un conflitto che non venne mai combattuto militarmente a livello globale. Non sfociò mai in una guerra maggiore tra le superpotenze, nonostante un lungo periodo di rischio continuo e di politiche di brinkmanship condotte da una parte e dall’altra, che crearono una tensione altissima e duratura, almeno per parecchi anni dopo il cruciale 1947. In conseguenza di questo fatto, fu anche una guerra che abbastanza presto – ma progressivamente in modo sempre più chiaro – venne strutturata come una competizione totalizzante che usava tutti i mezzi prima del conflitto aperto (short of war), almeno a livello globale e a quel livello centrale europeo che era stato quello su cui lo scontro era iniziato. In questo senso, John Lewis Gaddis ha potuto parlare, con una certa dose di volontà di spiazzamento, della guerra fredda come di una «lunga pace».6 Cioè di una vicenda che ha portato con sé strutture crescenti di stabilizzazione delle relazioni internazionali. Si trattò solo di una provocazione? Oppure, dato che in questa visione c’è un indubbio elemento di 4. E. Gentile, Le religioni della politica. Fra democrazie e totalitarismi, Roma-Bari 2001, pp. 167 ss. 5. A. Stephanson, Quattordici note sul concetto di guerra fredda, in «900», 2/2 (2000), pp. 67-87. 6. J.L. Gaddis, The Long Peace. Inquiries into the History of the Cold War, OxfordNew York 1987.

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verità, come convivono questi due lati apparentemente contraddittori della vicenda? Bisogna propriamente partire dal carattere ambiguo dello scontro, che era appunto totale sul piano simbolico, e tale rimase fino alla fine. Ma abbastanza presto ci si accorse che questo vincitore “totale” non poteva risultare dalla contrapposizione militare. Per una serie di ragioni, si comprese presto che nessuno dei grandi attori del sistema bipolare intendeva scatenare o nemmeno preparare attivamente uno scontro militare globale, anche se ambedue lo temevano, e quindi lo preparavano febbrilmente. E quindi il conflitto venne controllato e via via addirittura negoziato sul piano pratico. Si creò una «conflittualità controllata» come l’ha definita Charles Maier.7 Non venne ad esempio mai del tutto cancellata, nemmeno nel periodo più teso e rischioso, l’eredità dal 1945: il risultato della guerra antinazista e antifascista, che aveva spiazzato i precedenti progetti di duratura segmentazione imperiale del mondo, a loro volta elaborati come risposta alla grande crisi degli anni Trenta.8 Resistette quindi un margine di comunità internazionale condivisa se non unitaria (imperniata sull’Organizzazione delle nazioni unite), ancorché fragile e certo sul piano pratico piuttosto ingessata e impotente. Certo, si può interpretare la volontà staliniana di sottrarsi all’unificazione del mondo perseguita dal sistema capitalista come una sorta di ultimo episodio dello scontro tra imperi territoriali chiusi e modello globalizzante. Ma Stalin stesso si guardò bene dal chiudere rigidamente l’orizzonte geografico della politica sovietica, anche e proprio per mettere le basi di un possibile ampliamento della propria influenza, una volta assicurata la fondamentale protezione geopolitica dell’Europa orientale.9 Una visione semplificata attribuisce questa sorta di necessitata virtù all’«equilibrio del terrore» e cioè alla presenza determinante della nuova 7. C. Maier, The Cold War as an Era of Imperial Rivalry, in Reinterpreting the End of the Cold War. Issues, Interpretations, Periodizations, a cura di S. Pons, F. Romero, London 2005, p. 14. 8. I. Clark, Globalizzazione e frammentazione. Le relazioni internazionali nel XX secolo, Bologna 2001, pp. 213-214; J. Ikenberry, Dopo la vittoria. Istituzioni, strategie della moderazione e ricostruzione dell’ordine internazionale dopo le grandi guerre, Milano 2003, pp. 231 ss. 9. J. Haslam, Russia’s Cold War. From the October Revolution to the Fall of the Wall, New Haven-London 2011, pp. 69 ss.; V. Žubok, C. Pleshakov, Inside the Kremlin’s Cold War: from Stalin to Khruscev, Cambridge (MA) 1996, pp. 78 ss.

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arma costituita dalla bomba atomica. In realtà, si è convincentemente argomentato, la chiara visione delle potenzialità distruttive enormi della bomba atomica crebbe solo con il tempo, giungendo a maturazione solo negli anni Sessanta, nell’epoca dei missili balistici intercontinentali, che dovevano introdurre un fattore di invulnerabilità al possibile utilizzo della bomba atomica, dapprima inesistente nell’epoca dei bombardieri strategici. Prima di allora, la bomba di Hiroshima e Nagasaki poteva essere ritenuta semplicemente un piccolo miglioramento di una straordinaria e indiscriminata capacità distruttiva che già era stata dispiegata con i bombardamenti a tappeto sulle città nel corso della seconda guerra mondiale. E quindi, se un fattore prevalente deve essere richiamato per la scelta convergente di evitare una terza guerra mondiale, già in epoca precedente, esso deve risiedere altrove: forse proprio nel carattere sconvolgente degli eventi chiusi con il 1945, che nessuno poteva permettersi di riproporre a breve.10 Già nelle prime crisi della guerra fredda (dal blocco di Berlino del 1948 alla guerra di Corea del 1950) questo aspetto era del tutto evidente: il braccio di ferro fu condotto con la ricerca spasmodica di migliorare le proprie posizioni nel processo di definizione geopolitica dei blocchi, ma ambedue i contendenti furono attentissimi a non scavalcare quella sottile linea della provocazione che poteva dividere da uno scontro globale diretto. Le élite delle superpotenze acquisirono consapevolezza piena e definitiva di questa situazione in qualche modo bloccata solo dopo la crisi di Cuba, che si giostrò appunto sulla questione dei missili nucleari. Anzi, addirittura, la svolta stabilizzatrice del 1962-63 su cui ha ragionato efficacemente Marc Trachtenberg, realizzò una sorta di provvisoria sistemazione europea, mancata nel 1945, non formalizzata ma implicitamente riconosciuta.11 Si arrivò quindi senza ulteriori grandi scosse alla successiva “grande distensione”, collocabile tra il 1968 e il 1977-79. È stato efficacemente messo in luce un aspetto conservatore di questa direttiva di convivenza, dato che ambedue le superpotenze dovettero affrontare qualche difficoltà (di consenso nei propri “mondi” o di solidità socio-economica e politica interna). Usa 10. D. Holloway, Stalin and the Bomb. The Soviet Union and Atomic Energy 19391956, New Haven 1994; Cold War Statesmen confront the Bomb. Nuclear Diplomacy since 1945, a cura di J.L. Gaddis, P.H. Gordon, E.R. May, J. Rosenberg, Oxford–New York 1999; ma si può risalire alle riflessioni di R. Aron, Pace e guerra tra le nazioni, Milano 19702, pp. 468-508. 11. M. Trachtenberg, A Constructed Peace. The Making of the European Settlement 1945-1963, Princeton 1999, pp. 398-399.

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e Urss intesero quindi concordemente stabilizzare e forse anche irrigidire il bipolarismo per poter affrontare meglio questi elementi problematici.12 Secondo Žubok il riconoscimento reciproco, dal lato sovietico, fu motivato anche da un certo depotenziamento della tensione ideologica, ben rappresentato dal grigiore dell’epoca brežneviana.13 La competizione si spostava sull’efficacia dei rispettivi modelli contrapposti di sviluppo economico e sociale, o comunque sui tempi lunghi di un confronto non più risolvibile con una spallata improvvisa. Ma anche in questa situazione, da ultimo John Harper ha mostrato efficacemente come da una parte e dall’altra le posizioni “messianiste” si opposero sempre, per ragioni di varia natura (in molti casi per simmetriche ragioni di politica interna), a trasformare la precaria intesa sulle regole in un sistema più stabile e in una cooperazione che comportasse una vera de-escalation militare e un negoziato politico più articolato.14 Anche durante la distensione, anzi, l’assolutamente sproporzionato apparato militare che da una parte e dall’altra era stato costruito e continuamente rinnovato per garantire la sicurezza rispetto a una sfida sempre possibile, continuò a crescere (il percorso dei Salt non ne rappresentò che un calmiere parzialissimo). D’altronde la pianificazione strategica reciproca non escluse mai la possibilità di una guerra, anzi quella sovietica la ribadì, nonostante il peso dell’atomica, strutturando l’ipotesi di poter vincere una guerra per il controllo dell’Europa.15 Inoltre l’Urss continuò a pensare che la “coesistenza pacifica” globale non escludesse la guerra di classe, soprattutto nel Terzo mondo. Dall’altra parte, neanche il sussulto di tensione della cosiddetta “seconda guerra fredda” degli anni Ottanta16 impedì di scivolare verso la fine pacifica del conflitto. La quale normalmente viene collocata tra 1989 e 1991, mentre forse sarebbe più adeguato anticiparla, riconoscendo che avvenne per tappe e si concluse con ogni evidenza nel 1987 dei grandi accordi Reagan-Gorbačëv, che

12. J.M. Hanhimäki, The Rise and Fall of Détente. American Foreign Policy and the Transformation of the Cold War, Washington 2013. 13. V. Žubok, Soviet Foreign Policy from Détente to Gorbachev, 1975-1985, in Chcw, III, pp. 93-94. 14. Harper, La guerra fredda, pp. 216-221. 15. Cardboard Castle? An Inside History of the Warsaw Pact 1955-1991, a cura di V. Mastny, M. Byrne, Budapest–New York 2005. 16. O. Njølstad, The Collapse of Superpower Détente, in Chce, III, pp. 135-155.

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escludendo ormai di fatto l’ipotesi di una guerra riducevano per la prima volta parte dell’apprestamento nucleare rispettivo.17 Tale condizione articolata tra convivenza e scontro si riprodusse all’interno delle società europee, almeno in quelle occidentali. Gli esiti di questo intreccio non furono ovvi, alla luce delle vicende iniziali dello scontro. Dove infatti si costituirono strutture costituzionali e sistemi politici ispirati agli accordi antifascisti – e siamo qui a parlare di una gamma ampia di paesi, che va dalla Francia all’Italia, fino alla Repubblica federale tedesca –, la divisione internazionale anticomunista della guerra fredda non le spazzò via. Certo, vi si sovrappose, appesantendo il clima ovunque. L’ipotesi di un esito violento dello scontro sul cleavage dell’anticomunismo non fu esclusa per lungo tempo. C’era però indubbiamente diversità di situazioni. Va considerata attentamente a questo proposito l’eccezione tedesca: in questo caso si trattava di una divisione cristallizzata addirittura nella geografia, che venne quindi codificata e in qualche modo portata a fondo con la collocazione fuorilegge della Kpd ad Ovest nel 1956.18 In Francia o in Italia, invece, la presenza di forti partiti comunisti implicò un periodo di tensione dopo il 1947, in cui dopo la loro estromissione dai governi di unità antifascista si rischiò fortemente il deragliamento violento dello scontro. Nel caso francese, la presenza del generale de Gaulle costituì una variante sostanziale, introducendo uno scarto tra due modi di essere nell’Occidente, segnati dallo scontro sul nazionalismo (e sull’anti-partitismo).19 Nel caso italiano, il sistema politico invece si ridefinì piuttosto esattamente attorno alla frattura globale, ma dopo anni di rischio molto alto, fu evitata sia una possibile deriva eversiva del Pci sia l’irrigidimento delle regole da parte governativa (che fosse la messa fuorilegge della forza definita come “quinta colonna” del 17. Così O.A. Westad, Beginnings of the End. How the Cold War Crumbled, in Reinterpreting the End, pp. 68-81. 18. D. Patton, Cold War Politics in Postwar Germany, London-New York 1999; H.M. Harrison, Berlin and the Cold War Struggle over Germany, in Rhcw, pp. 56-73; C. Spagnolo, Tra antifascismo e anticomunismo. Aspetti della stabilizzazione dell’Europa occidentale nella formulazione della politica estera americana (1944-1947), in Antifascismi e Resistenze, a cura di F. De Felice, in «Fondazione Istituto Gramsci. Annale», VI (1997), pp. 491-515. 19. G.-H. Soutou, France and the Cold War 1944-63, in «Diplomacy and Statecraft», 12/4 (2001), pp. 35-52; G.J. Martin, General de Gaulle’s Cold War: Challenging American Hegemony, 1963-68, New York 2013; G. Quagliariello, De Gaulle e il gollismo, Bologna 2003.

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nemico, oppure una più vaga ma incombente ipotesi autoritaria che scontasse il rischio di una guerra civile). La rottura dell’alleanza antifascista e la nascita di un sistema politico bipolare non comportarono cioè una guerra civile aperta: lungo tutto il quarantennio successivo lo scontro fu controllato, moderato, “inalveato” nelle condizioni di vita di una democrazia istituzionale e di un senso minimale della nazione, mai venuti drasticamente meno e anzi sempre più condivisi.20 Non diversissimo il caso britannico, con una guerra fredda interna che non condusse alla messa fuori legge del (piccolo) partito comunista, ma certamente a un crescente controllo governativo dei posti pubblici e di altri ruoli ritenuti cruciali (specialmente nel sindacato) per ridurne l’influenza. La convergenza di laburisti e conservatori su questo livello di controllo interno, anzi, aiutò a rafforzare una sostanziale bipartisanship anche nella politica estera.21 Spicca in questo discorso la condizione diversa della periferia del sistema. Anche nella periferia europea, ad esempio, la Grecia fu segnata in ben due riprese (con la guerra civile del dopoguerra e poi con il golpe dei colonnelli nel 1967) dalla deriva violenta di uno scontro politico interno che ricalcava quello bipolare. Potremmo paragonare questa condizione agli interventi sovietici all’Est, dall’Ungheria del 1956 alla Cecoslovacchia del 1968. Ma le cose sono ancora più chiare quando si tratta di prendere in considerazione il mondo extraeuropeo. Il punto di vista di Gaddis sottostima il fatto che per molte popolazioni fuori dall’Europa la guerra fredda fu all’origine di processi di devastante violenza bellica (basti pensare all’Asia orientale, con i durissimi conflitti aperti dalla Corea al Vietnam, di durata venticinquennale). Oppure almeno comportò un’istituzionalizzazione politica della violenza, permessa o qualche volta addirittura sostenuta dalla superpotenza egemone, come nel caso di molti paesi in cui si susseguirono rivoluzioni e colpi di Stato spesso violenti e sanguinosi, spesso estesi in vere guerre civili, più o meno collegati alla frattura internazionale dei mondi (dall’Iran del 1953 all’Iraq del 1958, dall’Indonesia del 1965 al Cile del 1973; per giungere in parallelo a Cuba nel 1959, all’Etiopia del 1974 o al Nicaragua del 1979). 20. Su questo aspetto rinvio al mio lavoro su Storia d’Italia nella guerra fredda (1943-1978), Bologna 2016. 21. A. Deighton, Britain and the Cold War, in Chcw, I, pp. 112-132; K. Larres, Britain and the Cold War, 1945-1990, in Ohcw, pp. 141-157; Cold War Britain, 1945-1964. New Perspectives, a cura di M.F. Hopkins, M.D. Kandiah, G. Staerck, New York-London 2003.

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2. La particolare pervasività del conflitto nei diversi “mondi” Per approfondire questo scenario, credo ci si possa utilmente interrogare sulla particolare forma di pervasività della guerra fredda: il conflitto strutturava il sistema internazionale, ma tendeva sempre a debordare in una più capillare strutturazione degli spazi sociali e politici interni agli Stati secondo logiche di tipo conflittuale e/o militarizzato (che appunto potevano essere più o meno stabili e in qualche modo condivise, oppure instabili e violente). La guerra fredda tese cioè a strutturare tutta la politica come guerra (political warfare, come la definì precocemente George Kennan),22 andando a influenzare tutto lo scenario mondiale e i molteplici scenari locali con questo elemento genetico. Il carattere pervasivo della struttura internazionale della guerra fredda si collega anche in questo caso a una tendenza generale dell’età contemporanea, che ebbe appunto un suo vertice dopo il 1945: la crescita dell’interdipendenza e il vero e proprio vertice dell’influenza crescente delle grandi dinamiche internazionali ai livelli nazionali e locali. Dopo la sconfitta dei progetti autoritari di segmentazione del mondo, diveniva sempre più difficile costruire modelli politici statuali o nazionali che non subissero l’influenza delle grandi forze globali e quindi anche degli attori più influenti del sistema internazionale, quali furono (in modo del tutto dissimile tra loro) le due superpotenze. Le superpotenze esprimevano al massimo grado un altro esito della stagione delle guerre mondiali: la concentrazione negli Stati più potenti di enormi risorse di controllo civile, culturale e militare, sostenute in questo caso anche da progetti ideologici “rivoluzionari” globali.23 E quindi da una volontà di controllo e di oggettiva influenza verso l’esterno che caratterizza tipicamente i modelli imperiali. Ne derivava un indubbio aspetto disciplinante della dinamica bipolare. Non occorre seguire la versione per certi versi estrema di questa tesi, quella di Mary Kaldor dell’imaginary war, secondo cui la tensione ideologica fu tenuta strumentalmente alta, in quanto serviva a rassicurare e tutelare la posizione della rispettiva potenza-guida all’interno dei blocchi.24 22. J.L. Gaddis, George F. Kennan. An American Life, New York 2011, cap. XIV; S.-J. Corke, George Kennan and the Inauguration of Political Warfare, in «The Journal of Conflict Studies», 26/1 (2006). 23. O.A. Westad, The Cold War and the International History of the Twentieth Century, in Chcw, I, pp. 8-11. 24. M. Kaldor, The Imaginary War. Understanding East-West Conflict, Oxford-Cambridge 1990.

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Nel caso del blocco orientale, il sistema mondiale del movimento comunista già dopo il fallimento dell’ipotesi di rivoluzione mondiale e la conseguente precoce scelta del «socialismo in un solo paese» – quindi ben prima della guerra fredda – è stato certo fortemente accentrato.25 Di più, dopo il 1945, l’area comunista si configurò inizialmente come un ridotto territoriale contiguo all’Unione Sovietica, costruita sulla base di ossessive volontà staliniane di innalzare la propria sicurezza in un futuro inevitabile conflitto con il capitalismo, garantita dalla presenza dell’Armata Rossa, e strutturata nella forma della sovietizzazione forzata, unica modalità di costruzione di consenso coerente alla cultura politica del bolscevismo.26 Con alcuni partiti impegnati in partibus infidelium a sabotare la stabilizzazione capitalistica, soprattutto dopo il lancio del piano Marshall, percepito come premessa di un’aggressione occidentale. Nell’iniziale consolidamento, spiccavano i sospetti di Stalin verso le leadership comuniste nazionali non controllabili, o addirittura la costruzione di un “nemico interno” al proprio campo come strategia di compattamento. In questa direzione si è studiata la lotta al titoismo per consolidare la presa sulle democrazie popolari, scelta che non dipese da mosse particolarmente autonome del leader croato, si tende oggi a dire: con l’esito infausto che una volta fallita la sostituzione di Tito stesso al vertice di Belgrado, la Jugoslavia venne persa alla causa.27 Progressivo e lento fu l’allargamento universalizzante di questo “mondo” comunista, che crebbe fortemente solo nell’epoca della distensione, quasi però che la garanzia di stabilità globale fosse necessaria alla leadership sovietica per poter lanciare la sfida nel Terzo Mondo, come accenneremo oltre. Anche nella fase successiva di estensione geografica progressiva della volontà di influenza non è che il nesso tra comunismo e specificità locali fosse molto più elaborato che nell’epoca staliniana. Ne abbiamo conferma da un discorso di Brežnev ai dirigenti cecoslovacchi dopo l’invasione del 1968: «In nome dei morti della II guerra mondiale che hanno dato la vita anche per la vostra libertà, siamo pienamente giustificati se mandiamo soldati nel vostro paese, in modo da sentirci realmente sicuri nei nostri comuni 25. S. Pons, La rivoluzione globale. Storia del comunismo mondiale 1917-1991, Torino 2012, pp. 58 ss. 26. V. Mastny, Il dittatore insicuro. Stalin e la guerra fredda, Milano 1996; F. Bettanin, Stalin e l’Europa. La formazione dell’impero esterno sovietico (1941-1953), Roma 2006. 27. S. Rajak, The Cold War in the Balkans, 1945-1956, in Chcw, I, pp. 208-213.

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confini».28 Il decisivo conflitto russo-cinese degli anni Sessanta fu da questo punto di vista il fallimento più chiaro di questo nesso rigido: le realtà locali prevalevano sulle necessità di alleanze strategiche. La sfera di cooperazione del mondo comunista con il suo peso, non riuscì alla fine a sormontare «percezioni e false percezioni derivate dal rispettivo etnocentrismo culturalmente delimitato».29 E tale scontro ebbe un peso difficilmente sottovalutabile nel delegittimare il concetto di «campo socialista» internazionale e forse anche nel determinare l’andamento e la conclusione del conflitto globale. I rapporti più articolati tra centro e periferia nel sistema occidentale (fin dall’inizio più globale, in quanto concepito come «aperto» e non chiuso territorialmente) sono stati elementi non ultimi della dissimmetria delle rispettive forze e capacità di durata. Federico Romero ha mostrato con efficacia come le pratiche multilaterali che hanno strutturato il sistema occidentale, soprattutto grazie all’impulso della leadership statunitense, sono state molto più articolati ed efficaci («alleanze pluralistiche, che integravano forze culturalmente e politicamente diverse in ampie coalizioni negoziate e flessibili»).30 Il punto da notare è però che questa capacità di inclusione funzionò con attori diversi del mondo relativamente sviluppato (socialdemocratici e cristiano-democratici europei o conservatori giapponesi, potremmo dire) ma molto meno con le nascenti élite del Terzo mondo. E inoltre che la capacità inclusiva non eliminava elementi di carattere “imperiale” al progetto statunitense postbellico. Una riflessione sull’“invito” delle classi dirigenti europee (secondo la fortunata espressione di Lundestad)31 appare infatti troppo limitata a questo proposito: sottovaluta l’intenzione apertamente messa in campo dalla leadership americana già fin dal coinvolgimento nella guerra del 1941 di modificare la struttura del mondo secondo le proprie intenzioni. Naturalmente, qui si parla di un impero del tutto particolare, che si concepiva come un impero irresistibile sotto il profilo di un modello socioeconomico vincente e pervasivo (la formula di Victoria De Grazia),32 che 28. Cit. in Pinzani, Il bambino e l’acqua sporca, pp. 273-274. 29. Shu Guang Zhang, The Sino-Soviet Alliance and the Cold War in Asia, in Chcw, I, p. 375. 30. Romero, Storia della guerra fredda, p. 340. 31. G. Lundestad, The American Empire and other Studies on U.S. Foreign Policy, Oxford-Oslo 1990. 32. V. De Grazia, L’impero irresistibile. La società dei consumi americana alla conquista del mondo, Torino 2006.

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avrebbe avuto la capacità di diffondersi quasi spontaneamente. In questo orizzonte, la grande capacità egemonica della superpotenza statunitense nel primo ventennio post-bellico fu testimoniata alla rapida capacità di inclusione di popoli e classi dirigenti nello schema internazionale economicamente «aperto» proposto dopo il 1945, che si estese in particolare al recupero rapidissimo – costruito in modo non coercitivo, ma mediativo e compromissorio – dei vinti del 1945.33 Ma a questa fiducia si collegava la percezione della sfida sovietica e quindi della necessità di contrapporvi non solo una larga previsione di strumenti militari per contenere il comunismo – e fin qui saremmo nel classico approccio realista – ma anche di strumenti politici articolati per rafforzare e sfruttare le proprie capacità di influenza statuale diretta all’estero. Dove non bastasse la forza coesiva e il riflesso consensuale dell’inserimento di crescenti territori e popolazioni in un mobile e flessibile sistema di interdipendenze, garantito dal vertice, l’approccio imperiale giungeva a servirsi di meccanismi intrusivi e coercitivi più forti. Il limite dell’intervento militare aperto venne sfiorato in molti casi, e adottato come è noto in alcune determinanti situazioni. Giungiamo in questa linea all’algido aforisma di Kissinger, espresso dopo la vittoria elettorale di Allende in Cile: «Non vedo perché dovremmo lasciare che un paese diventi comunista solo a causa dell’irresponsabilità del suo popolo».34 Come si può agevolmente considerare, abbiamo in questa logica un costrutto implicito che non è molto diverso dalla speculare visione di Brežnev citata sopra. Tale confidenza in se stessi venne però drasticamente meno dopo la sconfitta in Vietnam e la conseguente “sindrome” della necessità di evitare interventi troppo diretti, che sarebbe durata per quasi vent’anni. Anche le transizioni democratiche nell’Europa mediterranea ne vennero fortemente condizionate, venendo gestite dalla superpotenza con una certa linea oscillante e poco determinata.35 In questo senso, occorre considerare come il sistema bipolare abbia sempre influito nel condurre a escludere o a ridimensionare ipotesi politiche terze o comunque meno nettamente schierate. Faceva parte del carattere assoluto del conflitto l’intenzione di rappresentare la guerra fredda come 33. T.W. Zeiler, Aprire le porte dell’economia mondiale, in Il mondo globalizzato. Dal 1945 a oggi, a cura di A. Iriye, Torino, 2014, pp. 181 ss. 34. Cit. in L. Schoultz, Beneath the United States: A History of U.S. Policy Toward Latin America, Cambridge (MA) 1998, p. 349. 35. M. Del Pero, V. Gavin, F. Guirao, A. Varsori, Democrazie. L’Europa meridionale e la fine delle dittature, Firenze 2010.

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un gioco a somma zero, dove ogni posizione leggermente più sfumata o meno allineata diveniva di per sé un possibile cedimento all’avversario. Il bipolarismo configurava una continua limitazione delle alternative possibili. In questo senso furono un’eccezione le abili gestioni della neutralità da parte della Finlandia o dell’Austria in Europa,36 mentre l’unica vera possibilità di lucrare politicamente sul non allineamento è stata quella di Tito dal 1950 in poi, proprio per la sua collocazione geografica europea e la sua cruciale posizione strategica. Jeremi Suri ha mostrato in modo convincente come proprio la necessità di rispondere ai diversi movimenti “sovversivi” sviluppatisi attorno al 1968 abbia favorito addirittura una convergenza delle superpotenze in chiave stabilizzatrice e conservatrice del bipolarismo.37 La lotta per estendere l’influenza delle superpotenze oltre il cuore europeo della guerra fredda, ha notato Westad, è stato il fulcro più dinamico del conflitto.38 Anche se forse è esagerato dire che ne sia stato il vero perno sostanziale, perché il carattere europeo delle origini e delle svolte essenziali della guerra fredda non va mai messo tra parentesi. Gli Stati Uniti si sono trovati a sospettare di ogni movimento di emancipazione anticoloniale – non solo antieuropeo, pensiamo alle ex colonie giapponesi – perché hanno visto il comunismo all’opera in molti di questi movimenti (dalla Cina all’Indocina, fino alla Corea).39 Di conseguenza, hanno anche lottato aspramente contro i nazionalismi neutralisti fuori d’Europa, come in Iran nel 1953 o in Guatemala nel 1954 oppure a Cuba nel 1961 o in Congo nel 1965. Mentre i sovietici, dopo un primo lungo periodo di prudenza e di privilegio accordato solo ai movimenti guidati da comunisti, si sono illusi di poter coltivare posizioni rivoluzionarie laddove c’erano solo movimenti postcoloniali che cercavano strumentalmente sostegno internazionale. E quindi poi si sono concentrati negli anni Settanta su interventi militari a sostenere forze locali impegnate in vari conflitti, più che sperare nell’evoluzione socialista di modelli nazionali. Illudendosi che le dinamiche rivoluzionarie del Terzo Mondo spostassero a lungo andare la «correlazione delle 36. J. Rainio-Niemi, The Ideological Cold War. The Politics of Neutrality in Austria and Finland, New York-London 2014. 37. J. Suri, Power and Protest. Global Revolution and the Rise of Détente, Cambridge (MA) 2003. 38. O.A. Westad, La guerra fredda globale. Gli Stati Uniti, l’Unione Sovietica e il mondo: le relazioni internazionali del XX secolo, Milano 2015 [2005]. 39. M.P. Bradley, Decolonization, the Global South and the Cold War, 1919-1962, in Chcw, I, pp. 470 ss.

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forze» globali, salvo trovarsi di fronte a cocenti smentite a partire dalle contemporanee vicende del caso iraniano e di quello afghano del 1979.40 Non aiutò il consolidamento di posizioni “terze” la fatica con cui si trovarono forme di collaborazione internazionale fuori dai due blocchi maggiori. Certamente il Terzo mondo nei primi Cinquanta – quando Alfred Sauvy coniò l’espressione, alludendo a una possibile convergenza di Stati e popoli nuovi attorno a un progetto comune di emancipazione – non esprimeva ancora un’entità unitaria e men che meno coesa. Il più solido tentativo di dare forma organizzativa a queste istanze, il movimento dei paesi non allineati consolidatosi nei primi anni Sessanta dopo i primi tentativi di dialogo di Bandung, nonostante alcuni successi nel coordinamento delle posizioni in sede di Assemblea delle Nazioni Unite e nella posizione del tema del «nuovo ordine economico mondiale», soffriva di molteplici limiti che ne appesantirono le potenzialità.41 Ma nessuna ricerca di autonomia poteva consolidarsi e rimanere indisturbata in questo contesto così rigido. 3. Disciplinamento bipolare e resistenze locali C’è però un ulteriore passaggio su cui riflettere. Il controllo disciplinato di tipo imperiale non può essere letto come uno schema unico e ricorrente, capace di successo indifferenziato e generalizzato. Anzi, quasi sempre le istanze pervasive delle superpotenze e degli schemi bipolari, innestandosi sulle originalità delle variegate periferie del mondo, davano luogo a un gioco complesso di rimandi. Per cogliere appropriatamente il senso del funzionamento di questo tipo di dinamiche, occorre infatti considerare come l’ulteriore ondata postbellica di integrazione del mondo ebbe alcuni caratteri interessanti. Coincise con l’influenza maggiore di alcune reti transnazionali che si intrecciavano con gli attori statuali (Chiese, movimenti pacifisti, scienziati, Ong, ecc.): vicende che hanno un loro interesse tematico e che stanno emergendo sempre più come uno dei campi interessanti di 40. Žubok, Soviet Foreign Policy, pp. 98-104; Haslam, Russia’s Cold War, pp. 295 ss. 41. R.M. Irwin, Decolonization and the Cold War, in Rhcw, pp. 91-104; The NonAligned Movement and the Cold War. Delhi, Bandung, Belgrade, a cura di N. Miskovic, H. Fischer-Tiné, N. Boskovska, New York-London 2014; G. Garavini, Dopo gli imperi. L’integrazione europea nello scontro Nord-Sud, Firenze 2009.

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una storia globale.42 La nuova rilevanza dell’internazionalizzazione restava inoltre coeva e connessa alla prevalenza di modelli politici statuali ancora tutto sommato forti. Secondo il classico schema (risalente addirittura a Barraclough) della lunga transizione all’età contemporanea, anzi, avremmo sperimentato proprio nel lungo dopoguerra il vertice della parabola di rafforzamento del potere territoriale dello Stato moderno, che solo dopo gli anni Settanta avrebbe conosciuto una progressiva consumazione, o almeno ridefinizione e metamorfosi.43 Fu all’intreccio del processo di globalizzazione con le necessità e le regole, o anche le diverse stagioni, dello State building che si collocò appunto il modo concreto in cui funzionò in ogni parte del mondo il carattere pervasivo della guerra fredda: condizionati dalle dinamiche globali, gli attori politici ed economici locali che controllavano la territorialità statualmente definita non si limitarono a subirle passivamente, quasi si concepissero come semplici strumenti o proconsoli dell’impero. Cercarono invece quasi sempre la propria legittimazione nella capacità di utilizzare le forze e le pressioni internazionali e di sfruttarle, rielaborandone le conseguenze alla luce dei propri variabili e conflittuali progetti interni. Tentarono cioè sempre di incrociare le fedeltà internazionali con le proprie tradizioni, identità e progetti. E spesso trovarono la forza per avere almeno relativo successo in operazioni di questo tipo. Detto in un altro modo, lo schema bipolare fu sempre anche piuttosto «poroso, permeabile e soggetto a una miriade di influenze e di trend trasformativi».44 La generale confrontation interna e internazionale si articolò quindi con la dialettica tra “cliente” e “patrono” all’interno dei due campi: le prospettive delle superpotenze e quelle delle classi dirigenti degli Stati intermedi e minori non sempre coincidevano, causando tensioni o limitazioni reciproche, talvolta addirittura conflitti, nuovamente sciolti con mediazioni o soluzioni politiche innovative e flessibili. Il centro degli “imperi” poteva drasticamente ridurre le possibilità e i margini d’azione degli attori locali, 42. Cfr. A. Iriye, Global Community. The Role of International Organizations in the Making of the Contemporary World, Berkeley 2004; Id., La costruzione di un mondo transnazionale, in Il mondo globalizzato, pp. 763 ss; P.H. Kosicki, The Catholic Church and the Cold War, in Rhcw, pp. 259-272. 43. G. Barraclough, Guida alla storia contemporanea, Roma-Bari 1971; C.S. Maier, Secolo corto o epoca lunga? L’unità storica dell’era industriale e le trasformazioni della territorialità, in ’900. I tempi della storia, a cura di C. Pavone, Roma 1990, pp. 40-45. 44. Pons, Romero, Introduction, in Reinterpreting the End, p. 9.

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ma molto minore era la sua capacità di imporre direttamente e positivamente la propria volontà alla periferia. Nemmeno era sempre possibile “comprare” la fedeltà degli interlocutori locali: la letteratura piuttosto ampia sui flussi di finanziamento imperiale lo dimostra. Egemonia non significava affatto dominio incontrastato. Si potevano selezionare gli interlocutori politici da sostenere e incoraggiare, ma i limiti nel foggiare a propria immagine le élite della periferia dovevano via via apparire impietosi agli occhi degli stessi americani. Il recente lavoro di Kaeten Mistry mostra bene come il successo del primo cospicuo apprestamento di political warfare, messo in campo da parte statunitense nelle decisive elezioni italiane del 1948, illuse moltissimo sulle capacità di condizionamento degli strumenti propagandistici, del finanziamento di partiti alleati e delle covert operations collegate alla guerriglia psicologica.45 Un’illusione cui dovevano forzatamente seguire delusioni e frustrazioni, diffuse nei decenni seguenti. Difficile ad esempio anche dire quanto l’Usia o altre agenzie come il Congress for cultural freedom riuscissero veramente a influenzare le società straniere. Gli studi esistenti parlano per ora di successi parziali e incertezze diffuse, di rielaborazioni sottili secondo culture locali dei modelli americani.46 Emily Rosenberg è giunta a osservare che dagli anni Ottanta in poi la vittoria finale del modello occidentale è avvenuta forse anche in quanto la diffusione globale e transnazionale dell’economia consumistica è apparsa sempre meno strettamente “americana” e ormai ampiamente adattabile a diverse forme culturali.47 Era piuttosto normale che gli stessi attori locali scegliessero interlocutori, accentuassero processi, utilizzassero le priorità della superpotenza per i propri fini interni, secondo convenienze che spesso si mostrarono ardue da controllare verticisticamente. Ci fu la capacità di alcuni protagonisti di 45. K. Mistry, The United States, Italy and the Origins of Cold War. Waging Political Warfare, 1945-1950, Cambridge-New York 2014. 46. Cfr. J. Gienow-Hecht, Transmission Impossible. American Journalism As Cultural Diplomacy in Postwar Germany, 1945-1955, Baton Rouge 1999; M. Hochgeschwender, Il fronte culturale della guerra fredda: il Congresso per la libertà della cultura come esperimento di forma di lotta transnazionale, in «Ricerche di storia politica», n.s., 6/1 (2003), pp. 35-60; S. Tobia, Advertising America. The United States Information Service in Italy (1945-1956), Milano 2008; su linee diverse F.S. Saunders, La guerra fredda culturale. La Cia e il mondo delle lettere e delle arti, Roma 2004. 47. E.S. Rosenberg, Consumer, capitalism and the End of the Cold War, in Chcw, III, p. 490.

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sfruttare le fasi di maggior tensione del conflitto per compattare i propri partiti o le proprie coalizioni contro un «nemico» interno/internazionale minaccioso, oppure quella di altri protagonisti di enfatizzare i minimi spazi offerti dalle stagioni distensive per modificare i confini delle contrapposizioni interne. Questi margini d’azione periferici furono tanto più ampi quanto più le linee politiche secondo cui le superpotenze esprimevano la loro leadership nei confronti degli Stati minori erano articolate e composite, frutto della risultanza di spinte e ambienti interni diversi che perseguivano i disegni generali della potenza-guida in modi diversi, con priorità e attenzioni cangianti. Ovviamente, questo era evidente soprattutto a proposito della superpotenza statunitense, che era una tipica poliarchia democratica. Sul cruciale tema di come combattere il comunismo in Europa (e poi anche nel Terzo Mondo), le prospettive dei partiti, dei presidenti, dei diplomatici americani, non furono affatto sempre omogenee: si può schematizzare almeno una differenza originaria tra chi lo identificava come frutto dell’arretratezza, da combattere con riforme sociali modernizzanti; e chi lo vedeva come longa manus politico-militare dell’Urss, da combattere con gli strumenti della repressione poliziesca, della limitazione legislativa del suo spazio politico e al limite anche utilizzando un logica di contrasto puramente militare.48 Ma una dialettica interna tra militari e politici non mancò mai nemmeno a Mosca. Ovvio che gli attori locali potessero cercare di inserirsi in questa dialettica, con triangolazioni spesso complesse. In termini più strettamente storico-politici, il discorso su queste triangolazioni è ancora da approfondire ampiamente in termini comparativi. La ridefinizione continua dei nessi tra sistema internazionale e diversi contesti politici nazionali, l’ibridazione continua di identità e progetti locali con il nuovo apparato bipolare è un terreno ancora ampiamente da arare, forse quello più promettente per futuri studi sul funzionamento concreto della guerra fredda, in tutte le sue dimensioni. Una prospettiva “pericentrica” è ancora poco praticata, anche se è stata teorizzata proprio in riferimento al contesto della guerra fredda.49 48. M.P. Leffler, The Specter of Communism. The United States and the Origins of the Cold War, 1917-1953, New York 1994; A. Brogi, Confronting America. The Cold War between the United States and the Communists in France and Italy, Chapel Hill 2011. 49. T. Smith, New Bottles for New Wine. A Pericentric Framework for the Study of the Cold War, in «Diplomatic History», 24/4 (2000), pp. 567-591; Local consequences of the Global Cold War, a cura di J.A. Engel, Washington 2007.

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Là dove il bipolarismo si innestava su aspri conflitti locali, oppure conosceva crisi locali che assumevano visibilità e centralità internazionale, fu tipica e ricorrente la dinamica che si venne a creare. Gli attori più radicali del contesto periferico erano in grado di affermare le proprie istanze, sfruttando la propria rendita di posizione e trascinando le superpotenze oltre le loro stesse volontà. Mentre le superpotenze intervenendo tentavano di calmierare i conflitti (perché non si generalizzassero), ma al tempo stesso finivano per perpetuarli sostenendo i propri alleati, e quindi rendendo involontariamente più ardue le già modeste possibilità di risolverli. Si pensi al caso del Vietnam: i gruppi Vietminh infiltrati a Sud dopo il mancato rispetto degli accordi del 1954 convinsero Hanoi alla guerra di popolo nel 1959; Pechino e Mosca, inizialmente più che scettici, vennero via via attratti a sostenere la lotta. E il discorso potrebbe valere specularmente per le capacità di Diem a Saigon di ottenere aiuti americani senza ascoltare nessuna lezione sulle priorità politiche da seguire.50 Un parallelo interessante potrebbe essere la questione mediorientale. Siria ed Egitto manipolarono analogamente le volontà di Brežnev sia nel 1967 che nel 1973, mentre Israele riuscì ampiamente a imporre le sue priorità a Washington, dopo che l’alleanza divenne sempre più stretta.51 Altri casi esemplari di «tirannia del debole» potrebbero essere elencati, come quello nordcoreano.52 John Gaddis ha parlato di situazioni in cui «fu la coda a muovere il cane».53 Non appare radicalmente diverso il caso latinoamericano. Qui la guerra fredda comparve in una fase più avanzata, potremmo dire dopo la rivoluzione cubana e la sua evoluzione filo-sovietica. La reazione statunitense fu contorta e problematica sul caso locale, ma l’Amministrazione Kennedy tentò come è noto una risposta articolata sul piano continentale con la cosiddetta Alleanza per il progresso. Furono le resistenze delle élite locali conservatrici e delle classi medie a portare alla sconfitta di una potenziale alleanza riformatrice: alla fine Kennedy e Johnson vennero 50. Ultimamente il tema è stato rilanciato da un’ampia discussione attorno al lavoro di P. Asselin, Hanoi’s Road to the Vietnam War 1954-1965, Berkeley 2013. 51. The Cold War and the Middle East, a cura di Y. Sayigh, A. Shlaim, Oxford-New York 1997; The Cold War in the Middle East: Regional Conflict and the Superpowers 196773, a cura di N.J. Ashton, New York-London 2007; S. Yaqub, The Cold War and the Middle East, in Ohcw, pp. 251-256. 52. C. Armstrong, Tyranny of the Weak: North Korea and the World, 1950-1990, Ithaca 2013. 53. J.L. Gaddis, The Cold War: A New History, New York 2005, p. 132.

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indotti ad appoggiare la stabilizzazione anticomunista, a costo di drastiche involuzioni autoritarie, piuttosto che correre i rischi di cambiamenti radicali. Ancora una volta gli attori primari del processo furono quelli interni alle società locali.54 Si potrebbe ragionare alla luce di questi schemi interpretativi anche delle vicende dei singoli Stati europei. Ci si permetteranno due parole sull’esperienza italiana, sintetizzando i risultati di una più ampia ricerca.55 Nel lungo periodo, l’influsso delle superpotenze fu evidente, ma forse più ancora che la guerra fredda in senso stretto, contò l’interiorizzazione delle sue dinamiche nel paese (e quindi il loro sfruttamento a variabili finalità interne da parte dei protagonisti locali). Se nelle svolte decisive del dopoguerra la Dc seppe legittimarsi con la propria “scelta occidentale”, utilizzando fino in fondo la panoplia degli strumenti della guerra fredda per assorbire le opinioni moderate e contenere l’influenza comunista, seppe anche ammorbidire in qualche modo le forme dello scontro, evitando di evocarne i fantasmi peggiori. La capacità di sfruttare l’evoluzione delle fasi dello scontro bipolare fu importante (dalla scelta degasperiana del 1947 al completamento del centro-sinistra nel 1962-63, in cui si intravedeva un’inedita distensione). La dialettica con il “partito nuovo” togliattiano – i suoi equilibri interni non semplicissimi, a loro volta in triangolazione con Mosca – e i suoi sviluppi successivi naturalmente fecero da pendant a questa condizione di primaria importanza. Nonostante questo sostanziale successo nel gestire il conflitto, quando si posero problemi di evoluzione del sistema politico, o di scelte rispetto alla difficile costruzione statuale in una democrazia fragile, la stessa area occidentale interna al paese si rivelò divisa e lacerata: si espresse un “partito dell’evoluzione” del sistema politico e sociale, che tentò di allargare le compatibilità della guerra fredda in direzione di una moderna società di massa, governata da un Welfare State europeo. Contrastato però da un “partito dell’immobilismo” con diverse componenti palesi o anche occulte: dalle componenti moderate della Dc a settori delle istituzioni, a un conservatorismo sommerso di cui è difficile sottovalutare l’importanza. Questa componente tentò di utilizzare ampiamente gli argomenti 54. F. Costigliola, Us Foreign policy from Kennedy to Johnson, in Chcw, II, pp. 121-122; L. Schoultz, Latin America, in Ohcw, pp. 197-203; Espejos de la guerra fría: México, América Central y el Caribe, a cura di D. Spenser, México 2004; L’America Latina tra Guerra fredda e globalizzazione, a cura di M. Cricco, M.E. Guasconi, M.L. Napolitano, Firenze 2010. 55. Rimando sinteticamente su questi temi (su cui esiste un’ampia bibliografia) a Formigoni, Storia d’Italia.

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da cold warrriors e le retoriche dello scontro per condizionare, limitare, impedire le svolte sistemiche (centro-sinistra, solidarietà nazionale) o per rafforzare soluzioni più gradite del nesso politica-economia (come un capitalismo di bassi salari e bassi consumi). Mentre aleggiava sotterraneamente la presenza continua di un minoritario “partito della guerra civile”, che gli statunitensi a tratti blandirono e monitorarono, ma che non riuscì mai ad affermare le proprie istanze. Il contesto internazionale non fu quindi mai solo una sorta di “cornice” del quadro, e men che meno un semplice calco di logiche globali: era un elemento del processo, in quanto gli attori politici del paese – quelli palesi e quelli più riservati o addirittura occulti – lo evocavano continuamente, ma lo rielaboravano e utilizzavano in modi più o meno strumentali, nella trama del loro confronto-scontro sul futuro del paese. Questo intreccio condizionò profondamente una democrazia fragile, ma non impedì del tutto il suo sviluppo. L’accesissimo confronto si svolse bene o male dentro il quadro delle nuove regole politiche e costituzionali democratiche, approvate di comune accordo dalle forze dell’antifascismo, nella complessa transizione compiutasi tra 1944 e 1949. In questo alveo – inizialmente forzato e poi via via più condiviso – ambedue gli schieramenti furono spinti dalla convivenza conflittuale a una modificazione interna, a una vera e propria progressiva mutazione. Che permise alla democrazia italiana di costruire una sua tormentata evoluzione, anche addomesticando i fantasmi della guerra fredda, evitando la possibile degenerazione dello scontro e inserendosi positivamente in un alveo europeo, secondo itinerari non troppo dissimili da quelli dei suoi partner più avanzati. Con queste poche note penso sia emerso quanto sia stata feconda la stagione di studi sulla guerra fredda che abbiamo alle spalle, ma anche quanto ancora sia possibile lavorare per approfondirne il senso, collegando tale vicenda ai grandi processi storici dell’età contemporanea. La peculiarità del conflitto si è situata appunto a cavallo tra guerra e pace: comprendendone la particolare radicalità totalizzante e la pervasività onnicomprensiva, occorre al contempo coglierne da una parte il carattere trattenuto e sorvegliato (che fece necessariamente contemperare convivenza e scontro) e dall’altra parte le modificazioni e triangolazioni cui il bipolarismo venne sottoposto, nell’intreccio con la varietà delle esperienze locali del mondo in via di globalizzazione.

II I volti della guerra

edoardo Greppi Guerra e diritto internazionale

L’ordinamento giuridico della comunità internazionale prende tradizionalmente in considerazione la guerra sotto due profili: lo ius ad bellum (in quali casi uno Stato possa muovere guerra a un altro) e lo ius in bello (le norme che pongono limiti all’esercizio della violenza bellica). Oggi questo classico binomio “guerra-diritto” si pone in una prospettiva più ampia: si preferisce fare riferimento alla nozione di “uso della forza” e, quando si parla di guerra, la si colloca nel contesto più esteso e comprensivo di “conflitto armato”. Tuttavia in alcuni strumenti normativi di diritto internazionale troviamo ancora riferimenti alla “guerra”, intesa come la classica situazione giuridica nella quale uno Stato, normalmente con una dichiarazione formale, manifestava le proprie intenzioni ostili nei confronti di uno o più altri Stati, accompagnando questa volontà con atti violenti caratterizzati dall’uso delle armi.1 Inoltre, essenzialmente in Italia, si verifica un fenomeno curioso. Per una singolare forma di pudicizia lessicale, non si ricorre mai al sostantivo “guerra”. Per coloro i quali hanno riferimenti più raffinati, il bando del riferimento alla “guerra” si collega al suo ripudio consacrato nella Carta costituzionale. Per contro, soprattutto nel mondo anglosassone e in lingua inglese, si parla sempre e apertamente di war: war in Afghanistan, Iraqi war, war in Syria, war on terror. Nel marzo 2003 un gruppo di autorevoli professori inglesi (e un francese) di diritto internazionale scrisse una lettera aperta al primo ministro britannico Tony Blair, avvertendolo che «War would be illegal», chiamando cioè quella guerra con il suo nome.2 1. Cfr. M. Castellaneta, Conflitti armati (diritto internazionale), in Enciclopedia del Diritto. Annali, V, Milano 2012, p. 316. 2. http://www.theguardian.com/politics/2003/mar/07/highereducation.iraq.

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Dal momento che la “guerra” rappresenta una radicale discontinuità rispetto a quello che siamo soliti chiamare “tempo di pace”, il diritto internazionale l’ha tradizionalmente fatta oggetto di norme specifiche, applicabili in quella che delineava come una peculiare relazione giuridica: il “rapporto di belligeranza”. Tradizionalmente, la guerra iniziava con una “dichiarazione” e terminava con un “trattato di pace”. Negli ultimi decenni, poi, proprio quando il diritto internazionale si orientava di preferenza verso la nozione di “conflitto armato”, chiamata a sostituire quella di “guerra”, entravano nell’uso espressioni che utilizzavano il vecchio e abusato sostantivo. Così, si faceva riferimento alla “guerra fredda”, in realtà per qualificare un periodo storico di estesa contrapposizione militare e diplomatica, caratterizzato da una conflittualità generalizzata, una “guerra” combattuta con mezzi militari, ma anche e soprattutto politici, economici, commerciali e finanziari, accompagnati dall’incombente minaccia di un conflitto nucleare tra le superpotenze. Il pericolo dell’ecatombe nucleare, peraltro, conferiva un connotato inedito alla guerra fredda, facendo sì che le relazioni interstatuali non fossero condotte secondo le regole del diritto di guerra, bensì da una peculiare forma di diritto della coesistenza. Di conseguenza, la “guerra fredda” si presentava sia come titanic global struggle sia come un periodo di notevole stabilità tra le grandi potenze.3 In epoca ancora più recente, l’11 settembre 2001 ha portato all’introduzione del riferimento a una globale War on terror, dai connotati di difficile qualificazione, oscillanti tra i caratteri dell’attacco armato e quelli dell’orrendo crimine internazionale, e scatenando conflitti nei quali appare evidente che il terrore è più una tattica che un nemico agevolmente identificato e circoscritto.4 La guerra è stata sempre collegata al principio di sovranità, considerata suo indiscutibile corollario. Lo Stato la riteneva un’espressione delle sue illimitate prerogative sovrane. Oggi i talebani, Al Qaeda, l’Isis dimostrano che gli Stati, i tradizionali soggetti dell’ordinamento internazionale, hanno perso il monopolio della guerra. L’ordine politico internazionale si presenta sempre più elastico, frammentato, minacciato dal caos. Ai tradizionali e parzialmente persistenti lineamenti di un ordine mondiale pluralistico 3. Cfr. D. Kennedy, Of War and Law, Princeton 2006, p. 3. 4. In argomento, cfr. H. Duffy, The “War on Terror” and the Framework of International Law, Cambridge 2015.

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(come quello scaturito dalla guerra dei Trent’anni e dai trattati di Vestfalia del 1648) o di quello fondato sull’equilibrio delle potenze (come quello delineato dal congresso di Vienna del 1815) si affianca e parzialmente sostituisce un World in Disorder, che condiziona l’ordinamento giuridico della comunità internazionale.5 In questo contesto, così radicalmente mutato, il diritto internazionale ottocentesco, astratto, formale e rule-oriented, è andato evolvendo verso il segno della legittimità, e la legittimità è diventata la «valuta del potere».6 1. Gli Stati e l’uso della forza 1.1. Liceità della guerra e tentativi di bandirla dopo la Grande guerra L’attuale regime normativo si fonda sulla Carta delle Nazioni Unite, entrata in vigore il 24 ottobre 1945.7 Nel XIX secolo la prassi degli Stati contemplava il ricorso alla guerra – «come strumento di soluzione delle controversie internazionali» (per ricorrere alla formulazione adottata dalla nostra Costituzione per sancirne il ripudio), come mezzo lecito, addirittura come attributo tipico della sovranità. Non solo, ma in nome di una generale accettazione della più larga connotazione del principio di effettività, l’esito di una guerra di conquista era accolto come titolo di sovranità: ex facto oritur ius, anche quando il fatto fosse la violenza bellica. Insomma, non esisteva alcun obbligo di produrre un titolo giuridico per fare ricorso alla guerra ed essa poteva essere scatenata anche dalla semplice volontà di tutelare un interesse dello Stato.8 La tragedia della Grande guerra, con il successivo Trattato di Versailles del 1919, portò alla previsione di meccanismi istituzionali affidati alla Società delle Nazioni (SdN), finalizzati ad assoggettare il ricorso alla guerra a limiti e procedure. Gli Stati, tuttavia, erano ancora riluttanti a uscire dagli schemi dell’Ottocento e a rinunciare a quello che consideravano un 5. Cfr. H. Kissinger, World Order, New York 2014. 6. Così Kennedy, Of War and Law, p. 45. 7. Cfr. il classico I. Brownlie, International Law and the Use of Force by States, Oxford 1963. Cfr. inoltre C. Gray, International Law and the Use of Force, Oxford 2008 e P. Gargiulo, Uso della forza (diritto internazionale), in Enciclopedia del diritto. Annali, V, p. 1419. 8. N. Ronzitti, Diritto internazionale dei conflitti armati, Torino 2014, p. 23.

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corollario delle prerogative sovrane, il diritto a muovere guerra. Esaurite le procedure stabilite negli artt. 11-17 del Patto della SdN del 28 aprile 1919, infatti, uno Stato poteva ricorrere alla guerra, a dispetto dell’obbligo formalmente assunto (art. 10) di rispettare l’integrità territoriale e l’indipendenza politica degli altri Stati. Assai più incisivo è stato il Trattato generale di rinuncia alla guerra, più noto come Patto Briand-Kellogg, stipulato il 27 agosto 1928 e vincolante per 63 Stati, cioè tutti gli Stati eccetto 4, della comunità internazionale del tempo. Con questo Patto – tuttora formalmente in vigore – le Alte Parti Contraenti dichiaravano solennemente la loro condanna del ricorso alla guerra per la soluzione delle controversie internazionali, vi rinunciavano come strumento di politica nazionale (art. I) e accettavano di dare soluzione con mezzi pacifici a qualsiasi controversia o conflitto di qualunque natura o origine (art. II). Numerosi Stati apposero riserve, accettate dagli altri contraenti, invocando il diritto alla legittima difesa individuale e collettiva. Il Patto Briand-Kellogg era il primo vero trattato multilaterale che imponeva precisi obblighi a carico degli Stati e fu richiamato in occasione di numerosi conflitti successivi, dalla guerra sino-giapponese del 1931 all’aggressione sovietica della Finlandia nel 1939. Né la Società delle Nazioni né il Trattato generale del 1928 riuscirono, però, a imprimere una svolta significativa, numerosi Stati ignorarono gli impegni assunti e il mondo inesorabilmente scivolò in un nuovo terrificante conflitto.9 Non si possono, tuttavia, negare alcuni importanti sviluppi che proprio dal Patto della SdN e da quello Briand-Kellogg hanno avuto origine. Il primo è rappresentato dalla formazione di una norma consuetudinaria che precede gli impegni della Carta delle Nazioni Unite. Il Patto Briand-Kellogg, inoltre, divenne il parametro di riferimento per la prassi degli anni 1928-39. Infine, esso sarà il pilastro degli atti di accusa dei processi dei Tribunali militari internazionali di Norimberga e di Tokyo, che proprio sulla violazione degli impegni a rinunciare alla guerra costruirà la qualificazione dei crimini contro la pace. L’art. 6 a) dell’accordo di Londra dell’8 agosto 1945, istitutivo del Tribunale militare internazionale di Norimberga, definiva la guerra di aggressione come crimine contro la pace, riprendendo il cammino di elaborazione normativa iniziato dopo la Grande guerra e 9. Si pensi al conflitto tra Cina e Unione Sovietica nel 1929, alla successiva guerra tra Cina e Giappone (1931), alla conquista italiana dell’Etiopia (1935) e alla condanna, da parte della Società delle Nazioni dell’invasione sovietica della Finlandia (1939).

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aprendo la strada a un’evoluzione che condurrà alla condanna dell’aggressione10 e ai divieti posti dalla Carta delle Nazioni Unite. Gli sviluppi del secondo dopoguerra non si limitano a riprendere la pur nobile impostazione del Patto Briand-Kellogg, perché il suo orizzonte non andava oltre l’esplicito divieto della guerra, non spingendosi fino a proibire la measures short of war, quali l’intervento o le rappresaglie armate. 1.2. La Carta dell’Onu e il generale divieto dell’uso della forza La Carta dell’Onu, entrata in vigore il 24 ottobre 1945, dopo aver fatto nel preambolo un solenne riferimento alla volontà di salvare le future generazioni dal flagello della guerra, opera una significativa svolta, spostando l’oggetto di un generale divieto dalla “guerra” in senso tecnico (caratterizzata della presenza di un animus bellandi) al più ampio ambito dell’“uso della forza”, al ricorso ad azioni militari che non costituiscono “guerra” in senso proprio. Nell’art. 2, rispettivamente ai paragrafi 3 e 4, si stabilisce l’obbligo di soluzione pacifica delle controversie internazionali in modo che la pace, la sicurezza e la giustizia non siano messe in pericolo, e gli Stati assumono l’impegno ad astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza «sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite». In particolare l’art. 2, par. 4 è stato definito la pietra angolare del sistema della Carta.11 Sono poi state adottate alcune dichiarazioni di principi dell’Assemblea generale dell’Onu (n. 2625 del 1970, sulle relazioni amichevoli; n. 3314 del 1974 sulla definizione di aggressione; n. 42/22 del 1987 sul rafforzamento dell’efficacia del principio del non ricorso alla forza nelle relazioni internazionali). Ancorché prive di efficacia vincolante, in quanto raccomandazioni che promanano da un organo privo del potere di adottare decisioni (cioè atti dotati di efficacia vincolante), queste dichiara10. Il crimine di aggressione è stato oggetto di specifica regolamentazione alla Conferenza di Kampala del 2010. Cfr. L. Poli, Il crimine di aggressione dopo la Conferenza di Kampala: una soluzione di compromesso con ridotta efficacia dissuasiva, in ISPI, «Analysis», 19 (2010). 11. Così J.L. Brierly, The Law of Nations. An Introduction to the International Law of Peace, Oxford 1963, p. 414, e Brownlie’s Principles of Public International Law, a cura di J. Crawford, Oxford 2012, p. 746.

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zioni hanno contribuito ad una più precisa interpretazione della portata del divieto. Secondo la Corte internazionale di giustizia il divieto, irrobustito da una consistente opinio iuris, è da considerare ormai norma consuetudinaria, generale.12 L’aggressione, nel diritto internazionale contemporaneo, è oggetto di un divieto di ius cogens, di diritto imperativo. 1.3. Le eccezioni al divieto L’ordinamento delle Nazioni Unite prevede, tuttavia, una fondamentale eccezione, che – secondo la Corte internazionale di giustizia nel citato caso Nicaragua c. Stati Uniti – si fonda su una preesistente norma consuetudinaria. L’art. 51 della Carta qualifica come “diritto naturale” (così nel testo francese, mentre è inherent right in quello inglese) la legittima difesa individuale o collettiva «nel caso abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite».13 Il suo esercizio è circoscritto dai tradizionali limiti della necessità e proporzionalità, e dall’obbligo di ricondurre comunque il conflitto alla competenza dell’Organizzazione («fintantoché il Consiglio di sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale»). Il Consiglio di sicurezza, ad esempio, ha ritenuto che fosse legittima la reazione del Regno Unito all’attacco armato argentino contro le isole Falkland, dal momento che Londra aveva il diritto di ripristinare lo status quo ante. Nella risoluzione 502 del 1982, il Consiglio ha riconosciuto la violazione della pace e chiesto l’immediato ritiro delle forze argentine dalle isole.14 Nella prassi si è posto il problema della liceità di forme di legittima difesa “preventiva” o anticipatory. Essa appare esclusa in una lettura rigorosa dell’art. 51, e la prassi è nel senso di considerarla illecita. Il Consiglio di sicurezza, nella risoluzione 487 del 1981, ha condannato l’attacco israeliano contro il reattore nucleare iracheno come «clear violation of the Charter of the United Nations». In anni più recenti, il dibattito è stato riacceso dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001 e la formulazione della cosiddetta “dottrina Bush” nel settembre 2002.

12. In questo senso la fondamentale sentenza del giugno 1986 nel caso sulle attività militari e paramilitari in Nicaragua e contro il Nicaragua. 13. Cfr. P. Lamberti Zanardi, La legittima difesa nel diritto internazionale, Milano 1972; Y. Dinstein, War, Aggression and Self-Defence, Cambridge 2011. 14. Cfr. M.N. Shaw, International Law, Cambridge 2014, p. 831.

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La questione della liceità di un’azione preventiva è oggetto di «perdurante divisione degli Stati e dell’impossibilità di ricostruire con certezza qualsiasi sviluppo normativo della materia».15 Neppure i documenti ufficiali e i cospicui contributi della dottrina aiutano a delineare con precisione i connotati di questa nozione. Troviamo, infatti, riferimenti a pre-emptive self-defence, preventive self-defence, anticipatory self-defence, interceptive self-defence, e non sempre in senso univoco.16 I documenti delle Nazioni Unite, in particolare quelli elaborati all’inizio del XXI secolo, quali A More Secure World: Our Shared Responsibility17 e In Larger Freedom. Towards Development, Security and Human Rights for All18 vanno oltre un’interpretazione restrittiva della legittima difesa, ritenendo che uno Stato minacciato possa adottare misure militari nel caso in cui un attacco sia “imminente”, altri mezzi siano impraticabili e sia rispettato il principio di proporzionalità nel condurre l’azione militare “anticipata”. Sul più delicato punto dell’ipotesi di una minaccia soltanto potenziale, non imminente (ad esempio con sviluppo e acquisizione di capacità militare nucleare, eventualmente anche da parte di gruppi terroristici), questi testi respingono la tesi della legittimità di un’azione unilaterale, non autorizzata dal Consiglio di sicurezza dell’Onu. L’art. 51 riconosce e codifica anche la norma generale relativa al diritto di legittima difesa collettiva. Nella prassi, basti ricordare la risoluzione 661 del 1990, nella quale il Consiglio di sicurezza ha fatto esplicito riferimento al diritto naturale di legittima difesa individuale o collettiva come risposta all’attacco dell’Iraq al Kuwait. I contorni sono stati delineati dalla Corte internazionale di giustizia nella citata sentenza del 1986 relativa al caso Nicaragua, che ha evidenziato due condizioni: che si tratti di un attacco armato e che lo Stato che lo ha subito lo denunci come tale e richieda assistenza. Un contributo alla chiarificazione delle norme in esame è stato offerto dalla citata risoluzione del 1974 sulla definizione di aggressione, che deve essere intesa come uso della forza armata da parte di uno Stato contro la sovranità, integrità territoriale o indipendenza politica di un altro Stato o in qualsiasi altra maniera incompatibile con la Carta delle Nazioni Unite 15. Così Gargiulo, Uso della forza (diritto internazionale), p. 1403. 16. Ad esempio, la National Security Strategy del presidente Bush chiama «pre-emptive» quella che i successivi documenti delle Nazioni Unite considerano come «preventive». 17. Report of the Secretary-Generals’ High Level Panel on Threats, Challenges and Change, New York 2004. 18. Report of the Secretary-General, New York 2005.

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(art. 1, che riecheggia il dettato dell’art. 2, par. 4 della Carta). I successivi articoli 2 e 3 contribuiscono a una più precisa connotazione dell’aggressione, facendo riferimento al primo uso della forza da parte di uno Stato in violazione della Carta; all’invasione o all’occupazione militare, anche temporanea, o all’annessione con la forza del territorio dello Stato o di parte di esso; al bombardamento o uso di armi contro il territorio di uno Stato; al blocco navale delle coste; all’attacco alle forze armate terrestri, navali o aeree di uno Stato; all’impiego delle forze armate che si trovino nel territorio di un altro Stato in violazione degli accordi che ne disciplinano la presenza; all’azione di uno Stato che ha messo il suo territorio a disposizione di un altro Stato e che venga usato da questo per un atto di aggressione nei confronti di uno Stato terzo; all’invio di bande armate, gruppi irregolari o mercenari che conducano azioni armate contro un altro Stato. Ancorché, come si è detto, priva di efficacia vincolante (in quanto raccomandazione adottata dall’Assemblea generale e adottata per consensus e, quindi, caratterizzata da formulazioni talora generiche e non prive di ambiguità), la dichiarazione ha dato un rilevante contributo alla precisazione della portata della norma e alla rilevazione della prassi. Il generale divieto dell’uso della forza è accompagnato – nella Carta dell’Onu – da un’ulteriore eccezione. Pur nel rispetto del principio di sovranità, gli Stati hanno voluto conferire alla massima organizzazione mondiale alcuni precisi connotati di istituzionalizzazione, tali da permettere all’ordinamento internazionale di superare in parte i limiti che gli derivano dall’essere espressione di una società anorganica, nella quale non vi è un’autorità sovraordinata agli Stati, enti superiorem non recognoscentes. Nel configurare un embrione di ordine mondiale istituzionalizzato, gli Stati fondatori hanno voluto che l’Onu desse vita a un sistema di ordine pubblico, incentrato sull’attribuzione all’organizzazione di un monopolio dell’uso della forza nell’ambito di meccanismi di “sicurezza collettiva”. Un organo specifico – il Consiglio di sicurezza – è stato posto al centro del sistema di sicurezza collettiva, con precise attribuzioni di una responsabilità primaria nel mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Con la sola eccezione della legittima difesa (che consente agli Stati di agire unilateralmente, in forma individuale o collettiva), il Consiglio è la sola autorità cui è stato conferito il potere di action a fronte di minacce alla pace, violazione della pace o atti di aggressione (così nell’intitolazione del cap. VII, cuore del sistema). Il Consiglio, organo politico, ha potere di decisione e ampia discrezionalità. L’apparato istituzionale è completato

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dalla previsione di accordi regionali, chiamati a integrare la costruzione del livello universale (cap. VIII). L’art. 39 stabilisce che il Consiglio valuti la situazione che si è determinata e decida quali azioni intraprendere. L’art. 40 riguarda le c.d. misure provvisorie, quale, ad esempio, la richiesta di un immediato “cessate il fuoco”, che lascia impregiudicate le pretese delle parti in conflitto. L’art. 41 prevede il ricorso a «misure non implicanti l’uso della forza» (embargo, interruzione delle comunicazioni, ecc.) e, infine, l’art. 42 contempla le misure «implicanti l’uso della forza». Il sistema di sicurezza collettiva configurato nella Carta è incentrato sulle norme degli articoli 43 e seguenti, che stabiliscono che gli Stati forniscano contingenti di forze militari al Consiglio di sicurezza, e che sia costituito un Comitato di stato maggiore, composto dai capi di stato maggiore delle cinque potenze membri permanenti. La prassi delle Nazioni Unite ha deviato da queste previsioni istituzionali. La guerra fredda e l’abuso del diritto di veto da parte dei membri permanenti (il cui record appartiene all’Unione Sovietica e poi Russia) hanno impedito che il Consiglio divenisse il direttorio della politica mondiale. Gli accordi che gli Stati avrebbero dovuto stipulare per mettere a disposizione dell’Onu contingenti delle proprie forze armate non sono stati stipulati e il Comitato di stato maggiore non è stato costituito. Si è quindi ripiegato su azioni di peace-keeping (che poggiano sul consenso degli Stati sul cui territorio sono dislocate le forze armate sotto l’egida dell’Onu, i c.d. Blue Helmets, come nel caso di Suez 1956), e sulla pratica dell’autorizzazione, della delega agli Stati per compiere azioni di peace-enforcement. Così fu in Corea nel 1950 e poi nel caso dell’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq nel 1990-91 e nel 2011 in Libia. In altri termini, nell’impossibilità di dare vita a un sistema gestito direttamente dall’organizzazione, si è accettato che fossero gli Stati a provvedere in nome degli obiettivi dell’organizzazione. Ovviamente, perché gli Stati e le organizzazioni regionali (come la Nato) possano intervenire, occorre che il Consiglio di sicurezza li autorizzi. Quindi, è da ritenersi lecito l’intervento del 1990-91 contro l’Iraq, mentre non lo sarebbe quello del 1999 della Nato in Kosovo. I tortuosi e faticosi processi decisionali in seno al Consiglio di sicurezza – organo politico sempre sotto la spada di Damocle di veti da parte di un membro permanente – hanno anche fatto sì che nella prassi questo organo (che detiene il potere di decisione) non autorizzi l’uso della forza chiamandolo col suo nome. Dalla risoluzione 678

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del 1990 in poi, il Consiglio ha autorizzato gli Stati a usare «all necessary means», una formula (e quelle simili) davvero eufemistica e rivelatrice dei limiti del massimo organo politico mondiale.19 Prassi e dottrina sono generalmente ostili a ipotesi di “autorizzazione implicita”, come quella invocata da Stati Uniti e Gran Bretagna nel 2003 per cercare un improbabile (e inaccettabile) giustificazione a una vera e propria guerra in Iraq.20 Come già qui anticipato, «War would be illegal» era la corretta valutazione offerta da un gruppo di autorevoli internazionalisti.21 1.4. Intervento umanitario e Responsibility to Protect Un aspetto particolare in tema di uso della forza è quello relativo al cosiddetto intervento umanitario. La nozione di “intervento umanitario” si riferisce a un’azione militare intrapresa da uno o più Stati contro un altro Stato in situazioni di gravi, persistenti e sistematiche violazioni dei diritti umani.22 Nello specifico, si richiama spesso con riguardo a situazioni di genocidio, pulizia etnica, omicidi e stupri su larga scala, tortura, schiavitù. La dottrina dell’intervento umanitario, elaborata negli anni Novanta con finalità di prevenzione della commissione di atrocità di massa, nei primi anni del Duemila ha conosciuto una interessante stagione evolutiva, con l’elaborazione della dottrina della Responsibility to Protect (R2P).23 Essa ha trovato un parziale 19. Cfr. C. Gray, International Law and the Use of Force, Oxford 2004, p. 204; Cfr. anche U. Villani, L’ONU e la crisi del Golfo, Bari 2005. 20. Cfr. Brownlie’s Principles of Public International Law, p. 766. 21. In argomento, cfr. P. Sands, Lawless World. America and the Making and Breaking of Global Rules, London 2006. 22. Cfr. Gargiulo, Uso della forza (diritto internazionale), p. 1419. 23. In argomento, cfr. G. Evans, The Responsibility to Protect. Ending Mass Atrocity Crimes Once and For All, Washington 2008; P. Gargiulo, Dall’intervento umanitario alla responsabilità di proteggere: riflessioni sull’uso della forza e la tutela dei diritti umani, in «La Comunità Internazionale», 62/4 (2007), p. 639; C. Focarelli, La dottrina della “responsabilità di proteggere” e l’intervento umanitario¸ in «Rivista di diritto internazionale», (2008), p. 317; F. Zorzi Giustiniani, La “responsabilità di proteggere”. Riflessioni a margine del caso birmano, in «Diritti umani e diritto internazionale», 2 (2009), p. 33; L. Poli, R2P as an emerging rule of international law and the opinio necessitatis of an accountable international community, in «La Comunità Internazionale», 66 (2010), p. 579; S. Zifcak, The Responsibility to protect, in International Law, a cura di M.D. Evans, Oxford 2010, p. 504; L. Poli, La responsabilità di proteggere e il ruolo delle organizzazioni internazionali regionali, Napoli 2012; E. Greppi, The “Responsibility to Protect” in International Law, in Studi in onore di Ugo Draetta, Napoli 2011, p. 281.

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ma significativo accoglimento nella prassi degli Stati e delle Organizzazioni internazionali, dopo essere stata fatta propria dai capi di Stato e di governo partecipanti al World Summit delle Nazioni Unite nel 2005. La dottrina dell’intervento umanitario ha origini nell’Ottocento, ma come argomento politico ad adiuvandum, dal momento che a quel tempo non vi erano limiti all’uso della forza da parte degli Stati.24 Nell’ambito dell’Onu, la prassi si è originariamente orientata nel senso di ritenere questo tipo di intervento incompatibile con il generale divieto dell’uso della forza. Così è stato nei casi di India contro Pakistan (1971), del Vietnam in Cambogia (1978), di Tanzania contro Uganda (1979). In questi casi si è preferito addurre motivazioni di legittima difesa. Il tema, nella sostanza, rientrava tra quelli che subivano un pesante condizionamento degli schieramenti politici e ideologici della guerra fredda. Le principali obiezioni rispetto alla legalità di questi interventi erano fondate sull’opinione che l’intervento potesse essere espressione di aspirazioni di tipo egemonico, e sul timore che – tollerando interventi di questo genere – si minassero i principi della sovranità e del divieto di intervento. Nella prassi dopo la fine della guerra fredda, si riscontrano casi nei quali il Consiglio di sicurezza ha adottato un approccio decisionale “umanitario” e altri nei quali le azioni sono state decise al di fuori della cornice del potere decisionale del Consiglio stesso. In Somalia (1992), il Consiglio ha ritenuto che vi fosse una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale, e così pure nello stesso periodo in Bosnia Erzegovina. Nel caso della popolazione curda in Iraq (1991), invece, il Consiglio non ha autorizzato esplicitamente azioni militari secondo il cap. VII della Carta e le successive iniziative unilaterali da parte di Stati Uniti, Francia e Regno Unito non hanno trovato le necessarie conferme in sede di Consiglio di sicurezza per via delle obiezioni di Russia e Cina. Nel 1999, poi, il Consiglio non autorizzò azioni di intervento militare nel caso del Kosovo, pur riconoscendo la sussistenza di minacce alla pace e di una «overwhelming humanitarian catastrophe». La successiva iniziativa della Nato rimase quindi senza espressa autorizzazione da parte del Consiglio di sicurezza.25 24. Cfr. G. Venturini, M. Costas Trascasas, Intervento umanitario e Responsibility to Protect secondo il diritto internazionale, in B.M. Bilotta, F.A. Cappelletti, A. Scerbo, Pace Guerra Conflitto nella società dei diritti, Torino 2009, p. 183. Sullo ius ad bellum prima del divieto dell’uso delle forza cfr. Ronzitti, Diritto internazionale dei conflitti armati, p. 23. 25. In argomento, cfr. B. Conforti, C. Focarelli, Le Nazioni Unite, Padova 2015, pp. 379 ss. (con la bibliografia ivi citata).

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La dottrina ha considerato la limitata (e controversa) prassi di “interventi umanitari” come scarsamente indicativa dell’esistenza di una opinio iuris idonea a conferire legittimità a questo tipo di azioni, e ha considerato con scetticismo ed estrema cautela la possibilità di rinvenire un adeguato fondamento a questa impostazione concettuale.26 Certo, è innegabile che alcune impostazioni siano apparse dotate di un forte appeal. Tra queste, si segnala quella secondo cui vi sarebbe una norma generale che consenta l’uso della forza in attuazione di obblighi erga omnes, a tutela di interessi e valori essenziali della comunità internazionale.27 In linea generale, però, prassi complessivamente scarsa e perplessità della dottrina sono parse inidonee a provare l’esistenza di un “diritto”. Né ha contribuito a sostenere questa dottrina la giurisprudenza della Corte internazionale di giustizia che, nel caso delle «Attività militari e paramilitari in Nicaragua e contro il Nicaragua» (1986) si è sostanzialmente pronunciata nel senso di privilegiare il valore della pace e della sicurezza rispetto a quello (peraltro emergente) della tutela dei diritti umani. Tuttavia, restava irrisolto il problema centrale dell’evidente inadeguatezza dell’assetto normativo nei casi di paralisi o di inazione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. La tiepida adesione della prassi e della dottrina alla nozione di “intervento umanitario” ha stimolato la ricerca di altri percorsi, soprattutto in ragione della persistente necessità di trovare modi idonei a dare una risposta a tragedie come il genocidio in Rwanda (1994) e quello di Srebrenica (1995). Nel 2000, il governo canadese istituì una International Commission on Intervention and State Sovereignty (ICISS), presieduta dall’ex ministro degli esteri australiano Gareth Evans e da Mohamed Sahnoun, chiamata ad affrontare «the question of when, if ever, it is appropriate for States to take coercive – and in particular military – action, against another State for the purpose of protecting people at risk in that other State». Nel dicembre 2001 la Commissione ha pubblicato il suo report, dal titolo The Responsibility to Protect (R2P). Il documento28 si presenta con interessanti elementi innovativi, a partire da un tentativo – di natura squi26. Il più significativo contributo alla dottrina dell’intervento umanitario è di M. Bettati, Le droit d’ingérence. Mutation de l’ordre international, Paris 1996. 27. Cfr. P. Picone, Comunità internazionale e obblighi “erga omnes”, Napoli 2006. 28. Iciss, The Responsibility to Protect - Report of the International Commission on Intervention and State Sovereignty, Ottawa 2001.

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sitamente concettuale – di rivisitare il tema della possibilità di usare la forza armata per azioni miranti alla protezione di popolazioni esposte al rischio di subire gravi atrocità. Il report, inevitabilmente, parte dalla nozione dell’intervento umanitario, ma per modificarne le premesse proprio in sede teorica. Non si parla più di “intervento”, sostantivo che evoca una concezione incompatibile con il rispetto rigoroso dei presupposti stessi della sovranità. Si delinea, invece, una ampia configurazione di una “responsabilità di proteggere” le popolazioni e, così facendo, difendere anche gli Stati stessi dai pericoli di cadere preda di violenze interne e fenomeni disgregativi. Nella nuova lettura che viene proposta, si sottolinea che la responsabilità primaria viene attribuita agli Stati sovrani, ai quali compete l’obbligo di adottare le azioni e le misure necessarie per prevenire le tragedie umanitarie. Soltanto nel caso in cui il governo interessato non abbia provveduto a esercitare questa sua responsabilità, essa dovrebbe essere fatta propria dalla comunità internazionale. Le reazioni in dottrina sono state di segno diverso. Vi è chi ha ritenuto che sia stata sostanzialmente un’operazione di maquillage rispetto alla impostazione in termini di ingerenza umanitaria.29 Per coloro i quali invece ne sostengono la novità, avrebbe il merito di spostare il riferimento dallo Stato in quanto soggetto che interviene al destinatario di un diritto ad essere protetto (con conseguente responsabilità in capo al soggetto che deve proteggere).30 Un punto delicato riguarda la cauta apertura che il rapporto dell’Iciss lascia all’eventualità che si possa dare corso a interventi non autorizzati dal Consiglio di sicurezza.31 In dottrina vi è chi ritiene che vi sia il rischio di legittimare gli interventi degli Stati più forti, che perseguono loro interessi politico-strategici piuttosto che genuini obiettivi umanitari.32 Alcuni importanti documenti hanno ripreso la nozione di “responsabilità di proteggere” e hanno attirato l’attenzione delle istituzioni internazio29. Così L. Boisson de Chazournes, L. Condorelli, La responsabilità di proteggere: una nuova veste per una nozione già acquisita, in Conflitti armati e situazioni di emergenza: la risposta del diritto internazionale, a cura di I. Papanicolopulu, T. Scovazzi, Milano 2007, p. 6. 30. Così in primis Evans, The Responsibility to Protect. 31. Cfr. i par. 6.14 e 6.37, nel quale si prova a bilanciare il danno che arrecherebbe all’ordine internazionale l’aggirare il Consiglio con quello che deriverebbe agli esseri umani dalla violazione grave dei loro diritti. 32. Cfr. Focarelli, La dottrina della “responsabilità di proteggere”, p. 327.

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nali e della società civile: la citata relazione dell’High-Level Panel, A More Secure World: Our Shared Responsibility, e quella del Segretario Generale delle Nazioni Unite, In Larger Freedom. La dottrina viene descritta come «emerging norm», legittimando le azioni coercitive ai sensi della Carta delle Nazioni Unite, fino all’intervento militare come misura estrema. Infine, la dottrina ha trovato autorevole consacrazione nel documento finale del vertice dei capi di Stato o di governo del 2005 (World Summit Outcome Document, par. 138 e 139). In quell’occasione, l’Assemblea generale dell’Onu, riunita al massimo livello, ha riconosciuto che «each individual State has the responsibility to protect its populations from genocide, war crimes, ethnic cleansing and crimes against humanity», e che la comunità internazionale dovrebbe in primo luogo e soprattutto «encourage and help States to exercise this responsibility and support the United Nations in establishing an early warning capability». Ove i mezzi pacifici fossero inadeguati e le autorità nazionali «unable or unwilling» rispetto al loro obbligo di protezione, la comunità internazionale dovrebbe essere pronta all’azione collettiva in modo tempestivo e decisivo, attraverso i meccanismi decisionali incentrati sul Consiglio di sicurezza che agisca in conformità con la Carta dell’Onu, compreso il capitolo VII, «on a caseby-case basis and in cooperation with relevant regional organizations as appropriate». Il vertice mondiale del 2005 non qualifica espressamente la responsabilità di proteggere come “norma emergente”. Gli Stati, però, dichiarano di essere «pronti a adottare azioni collettive attraverso il Consiglio di sicurezza», sulla base di valutazioni caso per caso. Anche se questo documento non è un accordo concluso nelle debite forme (quelle di cui alla Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati), esso può tuttavia essere considerato un’autorevole affermazione dei doveri della comunità internazionale. Indica una posizione condivisa da oltre 170 Stati membri delle Nazioni Unite. Dunque, i documenti dell’Onu, qualificano la R2P come «emerging norm». Vi è chi ritiene che si tratti di una norma ormai esistente, oppure che sia un principio sulla strada di diventarla. All’estremo opposto, vi è chi ritiene che si collochi nella sfera della politica piuttosto che in quella del diritto. Si tratterebbe, cioè, di un impegno politico, ancorché solennemente proclamato, privo del necessario corredo di una norma giuridica: la sua obbligatorietà, a sua volta collegata a un contenuto dai contorni molto netti e identificabili.

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Una responsabilità della comunità internazionale nel suo insieme sorge soltanto quando lo Stato sovrano interessato sia «unable» di prevenire la commissione di uno di questi crimini. L’inabilità può essere (e spesso è) la conseguenza del fallimento di uno Stato. Nei Failed States, infatti, si realizza frequentemente un «collapse of State institutions».33 Le misure coercitive potranno essere adottate dalla sola autorità legittima, il Consiglio di sicurezza,34 e dovranno essere fondate sul potere che gli è stato attribuito dagli Stati membri nel cap. VII della Carta dell’Onu. Ogni ipotesi di legittimità di interventi unilaterali è da ritenersi esclusa. Questo insieme di elementi sembra deporre a favore di chi ritiene che si tratti essenzialmente di impegni che gli Stati assumono in una dimensione politica. Perché si possa ritenere che da impegno politico la R2P sia transitata nella dimensione di un obbligo giuridico, occorre che se ne cerchi il fondamento in una delle fonti dell’ordinamento internazionale. Finora la R2P non è stata oggetto di assunzione di obblighi in un trattato multilaterale. Né si può ritenere convincente la tesi di chi ritiene che, dal momento che vi è stata un’accoglienza unanime da parte dell’Assemblea generale dell’Onu (World Summit del 2005) riunita a livello di capi di Stato o di governo, saremmo in presenza di una norma vincolante in senso proprio.35 Altra verifica deve essere fatta circa una possibile configurazione come norma consuetudinaria. Perché si possa constatarne l’esistenza occorre che vi sia una pratica estesa e consistente (diuturnitas), e accompagnata dalla convinzione della sua conformità al diritto internazionale (opinio juris).36 Perché la R2P “norma emergente” possa “emergere” compiutamente e assumere i connotati propri della consuetudine occorre, dunque, che il Consiglio di sicurezza estenda la sua prassi fondata su un’interpretazione ampia della nozione di “minacce”, considerando tali le situazioni di crisi umanitaria circoscritte all’interno di uno Stato. Una consistente prassi in questa direzione favorirebbe la formazione di una specifica norma consuetudinaria, in virtù della quale sarebbe considerato legittimo un intervento deciso o autorizzato dal Consiglio di sicurezza e finalizzato alla prevenzione di un genocidio o altra catastrofe umanitaria. Soltanto così si realizze33. Cfr. B. Boutros-Ghali, An Agenda for Peace, New York 1995. 34. Dalla risoluzione Uniting for Peace del 1950 si è sviluppata una norma che attribuisce all’Assemblea generale una competenza sussidiaria. 35. È l’opinione autorevole di Evans, The Responsibility to Protect. 36. Cfr. B. Conforti, Diritto internazionale, Napoli 2014, p. 39.

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rebbero le condizioni per superare legittimamente il divieto di cui all’art. 2, par. 4 (a sua volta norma consuetudinaria, di ius cogens) e avviare le azioni secondo quanto previsto dall’art. 39 della Carta, con la determinazione della natura della situazione in termini di «minaccia alla pace e sicurezza internazionale». In definitiva, una corretta interpretazione e applicazione della R2P riporta il Consiglio di sicurezza al centro del sistema istituzionale finalizzato a perseguire gli obiettivi della Carta dell’Onu (pace e sicurezza nel rispetto dell’integrità territoriale e dell’indipendenza politica degli Stati; divieto di intervento e rispetto della domestic jurisdiction; protezione degli esseri umani dalla commissione di genocidi e altri crimini di atrocità di massa). La R2P è stata richiamata dal Consiglio nel caso della Libia (ris. 1970 e 1973 del 2011), mentre la tragedia siriana è rimasta senza risposta adeguata. Qui risiede, quindi, il vero problema. Il Consiglio di sicurezza è e resta l’unico organo legittimato a decidere o almeno autorizzare l’uso della forza contro uno Stato o all’interno di uno Stato. Ma il Consiglio è un organo politico, le cui dinamiche sono condizionate da equilibri, interessi, rapporti di forza. La sua inadeguata rappresentatività nell’attuale composizione (con connesse difficoltà di riforma), l’abuso del diritto di veto da parte dei membri permanenti (con conseguente paralisi decisionale), la frequente mancanza di volontà politica, le continue variazioni degli assetti delle relazioni internazionali, accompagnati dalla scarsa propensione delle maggiori potenze ad assumersi seriamente “responsabilità”, nel senso più alto e nobile della nozione rendono difficile l’auspicabile affermazione della R2P in assenza di una riforma istituzionale incisiva. In definitiva, il dilemma relativo a sovranità statuale e intervento resta il problema centrale e gli Stati sono i responsabili dell’inadeguatezza del sistema. Come ha puntualmente rilevato a suo tempo Lord Jebb (Segretario Generale ad interim delle Nazioni Unite da ottobre 1945 a febbraio 1946), «the United Nations is a mirror of the world around it, if the reflection is ugly, the international organization should not be blamed». 2. Il diritto internazionale umanitario dei conflitti armati Il secondo profilo della tematica “guerra e diritto internazionale” riguarda lo ius in bello, cioè il complesso delle norme giuridiche stabilite per porre limiti alla violenza bellica e per proteggere le vittime dei conflitti armati.

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Si tratta del “diritto internazionale umanitario dei conflitti armati”, che un tempo si chiamava “diritto di guerra” o “diritto bellico”.37 Oggi, come si è visto, la “guerra” è vietata, non può essere “dichiarata”, e si preferisce fare riferimento alla nozione più ampia e comprensiva di “conflitto” anche ai fini di regolamentarlo. La guerra, poi, era tradizionalmente un rapporto tra Stati, mentre la conflittualità contemporanea si caratterizza per essere ormai prevalentemente all’interno di Stati in disgregazione o “falliti”, oppure “guerra civile”, o conflitto interetnico o di religione. Anche per quanto riguarda i combattenti, nei conflitti odierni non si schierano più – o non più soltanto – le forze armate regolari degli Stati sovrani (con le loro uniformi, le bandiere), ma si assiste alla crescente partecipazione di una quantità di “attori non statali”, quali gruppi armati di ribelli, fazioni in lotta, organizzazioni terroristiche, guerriglieri, pirati, private military and security companies… Il conflitto è preso in considerazione come situazione di fatto. Non occorre, cioè, che vi sia stata una dichiarazione formale (prevista dalla II Convenzione dell’Aia del 1907). Sono sufficienti comportamenti concludenti, che mostrino l’esistenza di un animus bellandi e di forme di violenza organizzata. Le origini del diritto di guerra sono antiche,38 ma questo ambito del diritto si è essenzialmente sviluppato a partire dalla metà del XIX secolo. Ruolo determinante è stato quello svolto da Henri Dunant che, colpito dalla brutalità della battaglia di Solferino del 24 giugno 1859, diede vita a iniziative che condussero alla stipulazione della Convenzione di Ginevra del 22 agosto 1864 per il miglioramento delle condizioni dei feriti degli eserciti sul campo e alla costituzione di quello che divenne poi il Comitato internazionale della Croce Rossa.39 Nel 1868 la Dichiarazione di San Pietroburgo proibiva l’uso di proiettili esplosivi di peso inferiore a 400 37. Oltre al citato Ronzitti, Diritto internazionale dei conflitti armati, cfr. C. Rousseau, Droit des conflits armés, Paris 1983; L. Green The Contemporary Law of Armed Conflict, Manchester 2000; E. David, Principes de droit des conflits armés, Bruxelles 2008; J. Crowe, K. Weston-Scheuber, Principles of International Humanitarian Law, Cheltenham 2013; A. Clapham, P. Gaeta, The Oxford Handbook of International Law in Armed Conflict, Oxford 2014; R. Kolb, Advanced Introduction to International Humanitarian Law, Cheltenham 2014. Un’efficace sintesi è P. Benvenuti, Il diritto internazionale umanitario e i conflitti armati, in La guerra, le guerre, a cura di F. Cerutti, D. Belliti, Trieste 2003. 38. Ci permettiamo di rinviare a E. Greppi, I crimini dell’individuo nel diritto internazionale, Torino 2012, pp. 18 ss. 39. Un’accurata narrazione delle origini e dello sviluppo del diritto umanitario si trova in C. Moorehead, Dunant’s Dream, London 1998.

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grammi e apriva la strada per l’ampia codificazione normativa realizzata con le Convenzioni dell’Aia del 1899 e del 1907, volte a porre limiti alla condotta delle ostilità.40 Questo complesso di norme convenzionali è stato denominato dalla dottrina come “diritto dell’Aia”, da intendersi essenzialmente come “di regolamentazione”, in quanto volto a proibire comportamenti nella condotta delle ostilità e a vietare determinate armi, e mezzi e metodi di guerra. Dalla prima Convenzione ginevrina del 1864 (rivista nel 1906) si è sviluppato il filone che più propriamente umanitario che ha portato alla stipulazione delle Convenzioni di Ginevra del 1929 e, infine, alla più estesa e comprensiva codificazione nelle quattro Convenzioni del 12 agosto 1949 (dedicate alla protezione dei feriti, malati e naufraghi nella guerra terrestre e in quella sul mare, al trattamento dei prigionieri di guerra e alla tutela della popolazione civile), integrate dai due Protocolli aggiuntivi dell’8 giugno 1977 sui conflitti armati internazionali e su quelli non-internazionali. Fulcro del sistema convenzionale ginevrino è il principio secondo il quale le persone non attivamente coinvolte nelle ostilità devono essere trattate con umanità. Di qui derivano divieti quali quelli della tortura, della presa di ostaggi, delle rappresaglie contro persone protette. La Corte internazionale di giustizia ha precisato che la distinzione tra un “diritto dell’Aia”, inteso come diritto di regolamentazione della violenza bellica e un “diritto di Ginevra” come diritto di protezione può ormai ritenersi superata. I due ambiti «have become so closely interrelated that they are considered to have gradually formed one single complex system, known today as international humanitarian law».41 Asse portante del diritto umanitario è il fondamentale principio di distinzione tra combattenti e persone non coinvolte attivamente nelle ostilità. La distinzione si estende ai beni, per cui quelli di carattere civile non possono essere oggetto di violenza bellica. La I e la II Convenzione pongono il generale obbligo di rispetto e di protezione «in all circumstances» e i feriti, malati e naufraghi che cadono nelle mani del nemico devono essere trattati 40. Per tutti i testi normativi citati, cfr. E. Greppi, G. Venturini, Codice di diritto internazionale umanitario, Torino 2012. 41. Cfr. il parere della Corte internazionale di giustizia sulla legalità della minaccia o dell’uso dell’arma nucleare del 1996, in Report of the International Court of Justice, 1 August 1996 – 31 July 1997, New York 1997, pp. 226, 256. La Corte ha anche ritenuto che l’unità e la complessità di questo cospicuo corpus normativo è confermata dalle previsioni dei due Protocolli aggiuntivi del 1977.

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con umanità e senza discriminazione. Sono vietate tutte le forme di violenza, di tortura, di esperimenti biologici. Specifiche norme disciplinano le funzioni e stabiliscono obblighi di protezione per il personale che soccorre, assiste e cura i feriti e i malati, e appositi emblemi sono riconosciuti dai belligeranti (la croce rossa e la mezzaluna rossa). La III Convenzione è dedicata al trattamento dei prigionieri di guerra, e amplia notevolmente lo spettro delle previsioni di quella del 1929. Il cuore del sistema di protezione è rappresentato dalla definizione, che collega lo status di prigioniero di guerra a quello di legittimo combattente. L’esperienza della seconda guerra mondiale ha portato a guardare oltre il tradizionale scenario degli eserciti nazionali contrapposti, estendendo lo status a milizie, corpi volontari, forze di resistenza. Le quattro condizioni stabilite per rendere praticabile questa estensione sono nella pratica controverse e fonte di seri problemi di applicazione: essere comandati da una persona responsabile per i suoi subordinati; portare un segno distintivo fisso e riconoscibile a distanza; portare apertamente le armi; rispettare le leggi e consuetudini di guerra. La genuina logica di protezione ha fatto sì che l’originaria previsione (art. 5) per cui, nei casi dubbi, una persona godrà dello status di prigioniero finché un tribunale non ne abbia determinato la condizione giuridica fosse modificata con l’art. 45 del I Protocollo. Questo stabilisce che una persona che prende parte alle ostilità e cade in potere del nemico beneficerà della presunzione che sia prigioniero di guerra e, quindi, protetto dalla III Convenzione. Alla radice, questa peculiare condizione giuridica si fonda sul fatto che tale forma di prigionia è un atto legittimo di guerra, mirante essenzialmente a sottrarre forze combattenti al nemico. Non è, quindi, una sanzione individuale contro individui che hanno commesso reati e che sono, quindi, condannati a una pena detentiva. Gli obblighi di protezione sono estesi e dettagliati. I prigionieri devono essere trattati con umanità, protetti da violenza ma anche da insulti e pubblica curiosità. Le guerre recenti hanno visto casi di prigionieri costretti a sottoporsi a riprese televisive umilianti, a confessare presunti crimini o esprimere critiche al proprio governo: si tratta di violazioni gravi. La grande novità della codificazione del secondo dopoguerra è rappresentata dalla IV Convenzione, che mira a proteggere i civili che, in conseguenza di ostilità o di occupazione bellica, sono in potere di uno Stato del quale non sono cittadini. Anche qui la protezione è estesa, e stabilisce obblighi di rispetto per la persona, per l’onore, le convinzioni religiose, e

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prevede i divieti di tortura e altri trattamenti crudeli, disumani o degradanti, di presa di ostaggi e di rappresaglie. Anche la condotta delle ostilità deve essere ispirata a principi umanitari. Il “diritto dell’Aia” deve realizzare un delicato e non facile ma essenziale equilibrio tra la necessità militare ed esigenze umanitarie. Questa impostazione è accolta e codificata dal I Protocollo del 1977, che sviluppa il principio di distinzione tra la popolazione civile e i combattenti e, per quanto riguarda i beni, delinea le modalità per la liceità degli attacchi ai soli obiettivi militari. Per alcune categorie di beni, gli sviluppi normativi sono stati particolarmente significativi. Basti pensare alle norme relative agli obblighi di protezione dei beni culturali, oggetto di estesa attività di codificazione normativa che ha il suo riferimento principale nella Convenzione dell’Aia del 14 maggio 1954 e nei suoi protocolli. Numerose sono ormai anche le norme che hanno sviluppato i principi enunciati nella Dichiarazione di San Pietroburgo del 1868, per cui vi sono imprescindibili laws of humanity e l’unico scopo legittimo che gli Stati possono perseguire in guerra è l’indebolimento delle forze del nemico. La conseguenza è che il diritto dei belligeranti ci scegliere metodi e mezzi di guerra non è illimitato.42 Il Regolamento allegato alla IV Convezione dell’Aia del 1907 precisa che è proibito adoperare armi, proiettili o materiali «calculated to cause unnecessary suffering» (art. 23). Questo principio si accompagna a quello dell’obbligo di distinzione, alla luce del quale sono vietate armi che non permettano di discernere gli obiettivi. Particolari categorie di proiettili, gas, armi chimiche, mine antipersona, armi convenzionali, sono oggetto di specifiche convenzioni. Il diritto di guerra ha tradizionalmente conosciuto la distinzione tra conflitti armati internazionali e non-internazionali. I primi erano tipici delle relazioni interstatuali ed erano, quindi, regolati da quella specifica parte del diritto internazionale che diventava applicabile quando alla normale condizione di pace si sostituiva lo stato di guerra. I secondi, invece, erano considerati “interni” alla domestic jurisdiction degli Stati sovrani, che quindi erano riluttanti ad accettare l’applicazione di regole di diritto internazionale. Oggi si constata una netta prevalenza di conflitti non-internazionali e i presupposti logici e giuridici per il mantenimento di una netta distinzione 42. Cfr. Y. Dinstein, The Conduct of Hostilities under the Law of International Armed Conflicts, Cambridge 2010.

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hanno iniziato a vacillare. La logica umanitaria che permea il diritto dei conflitti armati ha gradualmente portato all’affermazione dell’applicabilità di molte norme del diritto dei conflitti armati internazionali a quelli non-internazionali. Un formidabile contributo è stato offerto dal Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia che, nella ormai storica giurisprudenza del caso Tadic, ha precisato che «an armed conflict exists whenever there is a resort to armed force between States or protracted armed violence between governmental authorities and organised armed groups or between such groups within a State», concludendo che il diritto umanitario si applica durante tutta la durata delle ostilità, fino al raggiungimento della pace o di una soluzione pacifica. Il Tribunale ha anche affermato che il diritto umanitario si applica su tutto il territorio dello Stato o, nel caso di conflitti interni, su tutto quello controllato da una delle parti.43 I conflitti dei nostri giorni presentano un ulteriore elemento di complicazione, per via della presenza di elementi di extra-territorialità. Alcuni, infatti, generano una sorta di spill over nel territorio degli Stati vicini. Altri vedono forze multinazionali combattere accanto a quelle dello Stato e nel suo territorio. In altri ancora, si verificano forme transfrontaliere, con forze di uno Stato che combattono un attore non statale che opera da uno Stato vicino. Il c.d. “Stato islamico” enfatizza questo carattere “transnazionale”, con gruppi armati senza chiara identificazione geografica. Le Convenzioni di Ginevra del 1949 erano essenzialmente volte a disciplinare i conflitti internazionali (le “guerre” tradizionali), ma un articolo 3 comune a tutte e quattro offre un minimo di garanzie di protezione per le persone che non partecipano attivamente alle ostilità in un conflitto non internazionale. Esse devono essere trattate con umanità senza distinzione, e alcuni atti sono a tal fine proibiti: violenze alla vita e alla persona, in particolare assassinio, trattamenti crudeli e torture; presa di ostaggi; oltraggi alla dignità umana, in particolare trattamenti umilianti e degradanti; condanne a morte ed esecuzioni in assenza di equo processo. Il II Protocollo di Ginevra del 1977 ha ulteriormente sviluppato la protezione nei conflitti interni. Il Comitato internazionale della Croce Rossa, l’ente promotore delle più importanti Convenzioni di diritto umanitario e “custode” delle sue norme, ha autorevolmente formulato i principi-guida. Le persone hors de combat e quelle che non prendono diretta parte alle ostilità hanno diritto al rispetto della loro vita e integrità fisica e morale, e dovranno essere protette 43. Cfr. IT-94-1-AR 72 (in www.ICTY.org/cases/party/787/4).

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e trattate con umanità “in ogni circostanza”. È vietato uccidere o ferire un nemico che si arrenda o che sia hors de combat. I feriti e i malati dovranno essere raccolti e curati dalla parte in conflitto che li ha in suo potere; la protezione copre anche il personale medico, gli edifici, i trasporti e il materiale; l’emblema della croce rossa (e quello di mezzaluna rossa) è il segno di questa protezione e deve essere rispettato. I combattenti catturati e i civili sotto l’autorità di una parte avversa hanno diritto al rispetto della vita, dignità, dei diritti personali e delle convinzioni; saranno protetti da ogni atto di violenza e da rappresaglie; avranno diritto di corrispondere con le loro famiglie. Ognuno avrà diritto a godere delle fondamentali garanzie giudiziarie; nessuno sarà ritenuto responsabile per atti che non ha commesso; nessuno sarà assoggettato a torture fisiche o mentali, punizioni corporali o trattamenti crudeli o degradanti. Le parti in un conflitto e i membri delle loro forze armate non hanno illimitato diritto di scelta di mezzi e metodi di condotta delle ostilità; è vietato impiegare armi o metodi di guerra di natura tale da causare perdite non necessarie o sofferenze eccessive. Le parti in conflitto dovranno in ogni tempo distinguere tra la popolazione civile e i combattenti, al fine di risparmiare la popolazione e i beni civili; né la popolazione civile né le persone civili saranno oggetto di attacchi, e gli attacchi dovranno essere diretti esclusivamente contro obiettivi militari. Per quanto riguarda i conflitti non internazionali, il Comitato ha precisato regole generali. L’obbligo di distinguere tra combattenti e civili è regola generale applicabile anche ai conflitti non internazionali, e proibisce gli attacchi indiscriminati. Sono vietati gli atti di violenza intesi principalmente a seminare il terrore tra la popolazione civile. La proibizione di mali superflui o sofferenze non necessarie è regola generale, e proibisce in particolare l’uso di mezzi di guerra che inutilmente aggravino le sofferenze di uomini inabili o rendano la loro morte inevitabile. Il divieto di uccidere, ferire o catturare un avversario con ricorso a perfidia è regola generale, così come l’obbligo di rispettare e proteggere il personale medico e religioso è regola. La norma generale che vieta attacchi alla popolazione civile comporta, come corollario, il divieto di attacchi alle abitazioni e installazioni usate solo dalla popolazione, nonché il divieto di attaccare, distruggere, rimuovere o rendere inutilizzabili oggetti indispensabili alla sopravvivenza della popolazione. La regola generale di distinzione tra combattenti e civili e il divieto di attacchi contro la popolazione civile come tale o contro individui civili comporta che ogni possibile precauzione sia adottata per evitare lesioni, danni o perdite alla popolazione civile.

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Le violazioni gravi del diritto umanitario costituiscono crimini internazionali, e comportano la responsabilità dell’individuo under international law. Crimini di guerra, crimini contro l’umanità, genocidio e l’aggressione determinano il sorgere della responsabilità penale individuale, oltre a quella dello Stato. Dai processi di Norimberga e di Tokyo si è sviluppato un cospicuo diritto internazionale penale, accompagnato dalla costituzione di giurisdizioni internazionali per giudicare e punire gli autori dei crimini che «offendono la coscienza dell’umanità».44 Il Consiglio di sicurezza ha costituito due Tribunali penali internazionali ad hoc, per l’ex Jugoslavia e il Rwanda, e nel 1998 è stato adottato lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale, il primo organo giurisdizionale permanente e precostituito. Le Convenzioni di Ginevra del 1949 sono i trattati internazionali più ratificati al mondo perché regolano un ambito delicato, cui gli Stati sono molto sensibili. Un alto ufficiale che ha ricoperto delicati incarichi al Ministero della Difesa del Regno Unito, il colonnello Charles Garraway, in un intervento su questi temi ha efficacemente concluso: «In England we have a National Lottery, whose slogan used to be “It could be you”. When talking to soldiers, I use much the same idea when talking about prisoners of war. When faced with a prisoner, think how you would wish to be treated. Then “go and do thou likewise”».45 La conflittualità contemporanea è fatta di una sorta di bellum omnium contra omnes. Basti vedere le situazioni in Siria o in Libia, dove ciascuna fazione combatte contro tutte le altre, in una girandola di interessi aggrovigliati e alleanze tattiche. Basti pensare alle diverse denominazioni che si è cercato di dare ai conflitti del nostro tempo: guerra civile, guerra insurrezionale, guerra limitata, guerra a bassa intensità, guerra preventiva, guerra asimmetrica, guerra al terrorismo; e poi guerra di liberazione, di secessione, locale, etnica, di religione, guerra “per procura”. La brutalità di 44. Cfr., oltre al citato Greppi, I crimini dell’individuo, The Oxford Companion to International Criminal Justice, a cura di A. Cassese, Oxford 2009; R. Cryer, International Criminal Law, in International Law, a cura di M. Evans, Oxford 2010, p. 752; H. Ascensio, E. Decaux, A. Pellet, Droit international pénal, Paris 2012; A. Cassese, P. Gaeta, Cassese’s International Criminal Law, Oxford 2013; G. Werle, F. Jessberger, Principles of International Criminal Law, The Hague 2014. Per i fondamenti, cfr. G. Vassalli, La giustizia penale internazionale, Milano 1995. 45. C. Garraway, The Protection of Prisoners of War foreseen by Humanitarian Law, in Pontifical Council for Justice and Peace, Humanitarian Law and Military Chaplains, Città del Vaticano 2004, p. 53.

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questi conflitti porta a gravi violazioni, con gruppi armati che rifiutano di applicare il diritto umanitario e Stati che, pur avendo ratificato le convenzioni, tendono a sottrarsi agli obblighi di rispetto in nome della lotta al terrorismo, negando l’esistenza di un conflitto armato. Peraltro, la distinzione tra internazionali e non-internazionali persiste, ed è stata confermata dai Protocolli del 1977 e dall’art. 8 dello Statuto di Roma in tema di crimini di guerra. Se si applicasse integralmente la disciplina degli uni agli altri, si accorderebbe lo status di legittimo combattente e di prigioniero di guerra ai membri delle organizzazioni di opposizione armata, rendendo impossibile perseguire chi prende le armi contro uno Stato. Il cammino di una (lenta) convergenza, tuttavia, prosegue, dall’art. 3 comune alle convenzioni sulle armi chimiche (1993) e sulle mine antipersona (1997) fino all’estensione del diritto consuetudinario.46 Questa conflittualità disordinata richiede una forte riaffermazione dei valori che sono sottesi alle norme sull’uso della forza e a quelle di diritto internazionale umanitario. Il pericolo viene soprattutto dai nuovi attori non statali, come si ricava da un’intervista recente a un combattente curdo, che dichiara: «ce n’était pas une guerre normale. Dans une guerre, il y a une morale, une culture et même des règles. Mais Daesh (l’acronyme arabe du groupe ES, l’ISIS, ndr) ne respecte pas aucune de ces règles; eux, ils avaient tous en tête l’idée de mourir en martyrs pour aller au paradis».47 Nella comunità internazionale contemporanea il conflitto armato, la guerra, l’uso della forza richiamano costantemente le ragioni insopprimibili del diritto.

46. Cfr. lo studio del Cicr, J.M. Henckaerts, L. Doswald-Beck, Customary International Humanitarian Law, Cambridge 2005. 47. «Libération», 30 gennaio 2015.

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1. Premessa Da sempre le guerre si fanno anche – e forse soprattutto – per motivi economici. I principi greci avrebbero superato le loro divisioni e sarebbero rimasti dieci anni sotto le mura di Troia solo per riportare la bella Elena a Sparta? Difficile crederlo. Del rapporto fra guerra ed economia si può parlare in molti modi: guardando agli effetti distruttivi che la guerra provoca sulle società, e dunque sui sistemi economici, ma anche alle risorse umane e materiali che, fin dal tempo di pace, vengono messe a disposizione delle forze armate. Gli Stati europei dell’età moderna furono una risposta alla necessità di strutture permanenti, via via più grandi e complesse, impegnate nella preparazione della guerra, in cui l’aspetto economico assunse un’importanza sempre maggiore. E ciò ci porta al ruolo di stimolo che in epoca contemporanea – ma ovviamente il fenomeno è precedente – la “domanda” militare esercita su numerosi settori economici (non solo quelli strettamente legati alla produzione delle armi), con risvolti di cui è spesso difficile valutare gli effetti. Si potrebbe ad esempio guardare alla distribuzione territoriale della spesa militare, che ha fatto la fortuna di alcune regioni a spese di altre, o ai fenomeni di spin-off, l’elaborazione in ambito militare di tecnologie suscettibili di trovare poi applicazione in altri settori o nella normale vita civile. Non è un caso che gli studiosi impegnati nell’analisi delle spese militari abbiano dedicato una crescente attenzione al peso relativo del settore R&D (Ricerca e Sviluppo) all’interno dei bilanci. Non potendo, in queste brevi note, tenere conto di tutti questi possibili approcci, si è deciso di porre al centro della riflessione il concetto di guerra

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totale, facendone uno strumento con cui prendere in esame il rapporto fra guerra, economia e società in epoca contemporanea, iniziando dalla fine dell’Ottocento per arrivare al secondo dopoguerra, individuando tre momenti principali: 1) guerra ed economia nel periodo precedente il primo conflitto mondiale, che potremmo definire l’epoca della guerra limitata; 2) l’economia della guerra totale, fase relativamente breve, ma cruciale per l’intera società: essa induce infatti trasformazioni che perdurano anche nel tempo di pace, o che rimangono come “soluzioni di riserva” per affrontare nuove eventuali fasi di emergenza; 3) infine gli anni seguiti all’avvento delle armi nucleari. Si torna al passato dopo Hiroshima? Le armi nucleari sono sì estremamente costose, ma impediscono – almeno questa è l’ipotesi – una nuova guerra totale. Si ritornerebbe così a una situazione apparentemente simile a quella pre-1914, in cui il legame fra guerra ed economia rimane ovviamente importante – potremmo riassumerlo con la formula del complesso militare-industriale – ma non decisivo nella vita delle società postbelliche. Si tratta ovviamente di un’approssimazione: quanto appena detto vale, entro certi limiti, soprattutto per il mondo occidentale, meno per il blocco comunista. Inoltre, se la guerra è scomparsa per alcuni decenni dall’orizzonte europeo, essa è rimasta invece una costante in altre parti del mondo, dove si continuano a combattere vere e proprie “guerre totali”, sia pure su teatri locali. Va infine osservato che la natura “asimmetrica” assunta da molti conflitti contemporanei richiede un dispendio sempre maggiore di risorse e di energie: di fronte a chi ha poche risorse materiali, ma poco da perdere sotto il profilo delle risorse umane, quelli che hanno molto da perdere sotto il profilo delle risorse umane debbono essere pronti ad affrontare un impiego su larga scala di risorse materiali. 2. La fase della guerra limitata I padri fondatori dell’economia classica ritenevano che la guerra fosse un fenomeno residuale, destinato a scomparire. Nella Ricchezza delle nazioni (1776), riflettendo sulle necessità della spesa pubblica destinata alla difesa – si badi bene: difesa, non guerra – Adam Smith affermava lapidariamente:

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Il sovrano, ad esempio, con tutti gli ufficiali civili e militari che sono a lui sottoposti, tutto l’esercito e tutta la marina, sono lavoratori improduttivi. Essi sono servitori dello Stato e sono mantenuti con una parte della produzione annua dell’attività di altre persone. Il loro servizio, per quanto onorevole, per quanto utile, per quanto necessario esso sia, non produce niente con cui ci si possa poi procurare un’uguale quantità di servizio. La protezione, la sicurezza e la difesa della comunità, effetto del loro lavoro di un anno, non acquisteranno la protezione, la sicurezza e la difesa per l’anno successivo.1

Con il progredire delle società umane, continuava l’economista scozzese, la quota di popolazione dedita alle armi tendeva a ridursi: ciò, almeno in teoria, le rendeva vulnerabili nei confronti di popoli più primitivi, ma capaci di mobilitarsi per la guerra; tuttavia il progresso tecnologico – le armi da fuoco – restituiva la superiorità alle nazioni civilizzate. La possibilità di una guerra fra le potenze europee condotta con i mezzi moderni non veniva contemplata. Naturalmente Smith non era un ingenuo: intendeva semplicemente ribadire che altre erano le vie che conducevano i popoli alla prosperità. A cento anni di distanza le cose erano però cambiate. Herbert Spencer, nel contrapporre lo «Stato industriale» allo «Stato militare», affermava che quest’ultimo, rafforzando sempre più il suo controllo sulla società, finiva per intervenire pesantemente anche sul terreno economico, spingendo verso la creazione di un’economia autarchica, intesa come garanzia di sicurezza nei confronti di eventuali minacce esterne.2 Inutile dire che le preferenze di Spencer andavano a favore dello Stato industriale, quello che lasciava le più ampie libertà ai propri cittadini, chiamandoli sì a difendere le proprie istituzioni in caso di necessità, ma solo per scopi difensivi, e solo nella misura in cui la difesa fosse ritenuta possibile: Perciò per gli scopi di una guerra difensiva si giustifica quel sacrificio contingente di integrità fisica che serva per la difesa della società: questo supponendo che la difesa sia possibile. Sembra implicito che se la forza d’invasione fosse superiore in misura schiacciante, il sacrificio di questi individui non sarebbe giustificato.3 1. A. Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Milano 1977, p. 326. 2. H. Spencer, The Principles of Sociology, New York 1900, II, pp. 568-602, in particolare p. 578 sulle tendenze autarchiche degli Stati militari, e p. 588 sui caratteri del moderno Impero tedesco, che rappresentava un ottimo esempio di moderno Stato militare. 3. Id., The Principles of Ethics, New York 1898, II, p. 71 (traduzione nostra).

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In campo socialista Marx aveva analizzato soprattutto le “rivoluzioni nazionali borghesi”: le guerre risorgimentali italiane o la stessa guerra franco-prussiana, almeno nella fase che aveva portato all’abbattimento del regime di Napoleone III, vennero salutate con favore, come accelerazione del fenomeno di affermazione del capitalismo e dunque di preparazione della rivoluzione socialista. Al contrario, Friedrich Engels fu testimone del consolidamento delle economie industriali capitalistiche e dei loro crescenti contrasti per l’egemonia, e le sue previsioni – talvolta lucidissime – non erano affatto ottimistiche: E in ultima analisi l’unica guerra ormai possibile per la Prussia-Germania è una guerra mondiale, e più precisamente una guerra di ampiezza e intensità senza precedenti: otto o dieci milioni di soldati si ammazzeranno fra loro e così l’Europa intera sarà completamente spogliata, peggio che se fosse passato uno sciame di locuste. Le desolazioni della Guerra dei trent’anni si condenseranno in tre o quattro anni e si estenderanno a tutto il continente: fame, epidemie, un imbarbarimento generale, legato al bisogno, dell’esercito e delle masse popolari. Sconvolgimento senza rimedio delle attività commerciali, industriali e creditizie, fino alla bancarotta generale […]. Sarà impossibile prevedere come tutto finirà e chi uscirà vincitore dalla lotta. Solo un esito appare certo: un esaurimento generalizzato e il manifestarsi delle condizioni per la vittoria finale della classe operaia.4

Non è difficile riconoscere in questo passaggio posizioni che verranno poi riprese da altri autorevolissimi esponenti del socialismo internazionale: basti pensare al Lenin dell’Imperialismo, fase suprema del capitalismo.5 Tuttavia accettare l’idea della guerra, e di una guerra disastrosa dal punto di vista dei lutti e delle distruzioni che avrebbero colpito il proletariato dei vari paesi, non era facile, per cui l’attività della II Internazionale socialista si indirizzò verso il tentativo di scongiurare una conflagrazione europea. Del resto, come osservò Jean Jaurès nel 1905, la guerra europea poteva sì portare alla rivoluzione, ma anche a crisi controrivoluzionarie e a un nazionalismo esasperato, dittatoriale e militarista. Per questo la classe ope4. K. Marx, F. Engels, Werke, Berlin 1975, XXI, pp. 350-351. Si tratta dell’introduzione (1887) a S. Borkheim, Zur Erinnerung für die deutschen Mordspatrioten, 1806-1807 (traduzione nostra). 5. V.I. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo. Saggio popolare, Roma 1948 (ed. or. 1916).

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raia invece di prestarsi a questo barbaro gioco d’azzardo avrebbe dovuto guidare l’emancipazione del proletariato attraverso la via della democrazia socialista europea. Senza successo, come sappiamo.6 Che la guerra non fosse un affare per nessuno lo sostenevano non solo i dirigenti dell’Internazionale, ma anche non pochi osservatori del campo borghese. Ad esempio Ivan Bloch, finanziere ebreo polacco – dunque suddito zarista –, che pubblicò nel 1898 una ponderosa opera in sei volumi in cui, prendendo in esame il livello raggiunto dalla tecnologia militare e lo sviluppo economico delle principali potenze europee, asserì che una conflagrazione generale si sarebbe risolta in un disastro economico. Bloch individuava con chiarezza due aspetti essenziali: il primo era la capacità dei militari di cogliere le possibilità offerte dal progresso tecnologico degli armamenti, ma non le conseguenze che esso avrebbe avuto sul modo di fare la guerra. La crescente potenza di fuoco non era cioè la premessa per una guerra di movimento più efficace, bensì per il verificarsi di una situazione di blocco dei fronti e di un estenuante conflitto di logoramento. Il secondo era una considerazione sulla natura generale della guerra moderna: uno scontro che, percepito dalle nazioni industrializzate come lotta per l’esistenza, avrebbe determinato una completa mobilitazione delle risorse, per arrivare dopo tre anni di sforzi – questa era la previsione azzardata da Bloch – alla paralisi dei rispettivi sistemi economici.7 Il lavoro di Bloch ebbe grande risonanza, ma si trattò di un successo transitorio: il mainstream culturale europeo andava in senso diverso: prevaleva cioè la convinzione che la guerra sarebbe stata cruenta, ma breve. Bloch venne dunque letto, apprezzato, e dimenticato.8 L’influenza del milieu culturale è decisiva anche per comprendere le sorti de La grande illusione (1909), saggio uscito dalla penna del pubblicista britannico Norman Angell e subito divenuto una delle bibbie del pacifismo borghese europeo. Delle tesi di Angell si ricorda soprattutto l’idea che la guerra non potesse portare ad alcun reale vantaggio economico, nemmeno per i vincitori. Un’intuizione nient’affatto peregrina, visto che le 6. G. Haupt, Il fallimento della Seconda Internazionale, Roma 1970 (ed. or. 1964). 7. Si vedano le interessanti annotazioni di N. Labanca, Il pacifismo tecnologico di Ivan Bloch. Pace, guerra e società nell’età dell’imperialismo, in «Rivista di storia contemporanea», 20/4 (1991), pp. 598-628. 8. J.W. Chambers, The American Debate over Modern War, 1871-1914, in Anticipating total war. The German and American Experiences, 1871-1914, a cura di M.F. Boemeke, R. Chickering, S. Förster, Cambridge 1999, pp. 241-279, in particolare pp. 259-261.

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interdipendenze esistenti nelle economie avanzate erano già rilevanti: se ne potrebbe parlare come di prime forme di globalizzazione. Una sommaria analisi delle posizioni degli imprenditori europei di fronte alle prospettive della guerra sembra confermare che questi temevano l’ipotesi di un conflitto su larga scala, il quale nel giro di qualche mese avrebbe sconvolto i delicati equilibri produttivi, commerciali e finanziari europei. Di fronte a questa realtà i sostenitori della guerra preferivano quindi puntare sull’accentuazione dell’aspetto morale: la guerra serviva a preservare le società dall’infiacchimento e dal filisteismo materialista. Ma dietro questo atteggiamento – denunciava Angell – si nascondeva in realtà il sopravvivere, nella concezione della guerra moderna, di un istinto predatorio, arcaico: la guerra aveva in ultima analisi lo scopo di spogliare l’avversario delle sue ricchezze. Per quanto acute, le riflessioni del futuro premio Nobel per la pace avevano anche diversi limiti. Il primo, su cui avremo modo di tornare fra poco, consisteva nel fatto che, iniziate le ostilità, non arrivò la prevista paralisi dei sistemi economici, che furono invece riorganizzati per le esigenze di un conflitto industriale. Il secondo riguardava invece gli obiettivi di guerra. Pur avendo denunciato la natura primitiva della guerra, anche di quella moderna, Angell sembrava convinto del fatto che, terminato il conflitto, gli equilibri precedenti si sarebbero gradualmente ricostituiti: se un paese ne avesse conquistato un altro, i vincoli della politica economica e finanziaria avrebbero obbligato gli occupanti a rispettare la vita e la proprietà privata dei nuovi sudditi. Si trattava di un evidente richiamo all’idea di Spencer sull’irragionevolezza della resistenza a un avversario soverchiante; ad Angell sfuggiva però il fatto che la logica predatoria sembra possedere una razionalità economica tutta sua, poco interessata a creare e mantenere, ma tesa a sfruttare per scopi immediati: è, come si può facilmente intendere, la razionalità economica che sarà poi propria del nazismo. 3. La guerra totale Nonostante gli ammonimenti sui costi della guerra e sulle sue implicazioni economiche, la pianificazione militare non ne tenne conto. Il mondo economico continuò a fare i propri affari e i militari a giocare alla guerra: sebbene alcuni importanti capi militari tedeschi fossero in convinti che il

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piano Schlieffen fosse un azzardo con poche possibilità di riuscita, non fecero alcun serio tentativo di prendere provvedimenti per tenere sotto controllo le risorse finanziarie e materiali del paese in vista di una loro mobilitazione per una guerra lunga.9 Proprio per questo possiamo dire che la Grande guerra fu un conflitto da tutti preparato, ma che colse tutti di sorpresa, rivelandosi un vero e proprio spartiacque. Venuta meno la prospettiva di un conflitto breve e instauratasi la dinamica della guerra di logoramento, fu necessario mobilitare tutte le risorse umane e materiali delle società per alimentare lo sforzo bellico. Pur senza entrare nei dettagli, possiamo dire che i problemi da risolvere erano essenzialmente gli stessi, per cui le soluzioni adottate presentano non poche analogie, a partire dal ruolo fondamentale svolto dallo Stato.10 Furono create strutture per la promozione e coordinamento della produzione bellica: in Inghilterra la fase del business as usual tramontò definitivamente nella tarda primavera del 1915 con la nascita del Ministry of Munitions, incaricato di guidare la produzione – sottraendola al controllo dei militari – e di gestire le delicate relazioni fra capitale e lavoro. Una soluzione simile a quella adottata in Germania con il Wumba (Waffen- und Munitionsbeschaffungsamt) e ai Ministeri per le Armi e Munizioni cui si diede vita in Francia e in Italia: nel nostro paese l’istituto della Mobilitazione Industriale ebbe in primo luogo il compito di attuare una militarizzazione degli operai, ma promosse anche forme di mediazione dei conflitti di lavoro, coinvolgendo le rappresentanze sindacali e stimolando l’attuazione di forme di welfare all’interno degli stabilimenti. Si resero necessarie organizzazioni per la gestione delle importazioni strategiche (e fra queste anche i generi alimentari) e per il censimento e la distribuzione delle risorse disponibili sul mercato interno. La Germania, subito tagliata fuori dai mercati internazionali, si mosse precocemente con l’istituzione del Kra (Kriegsrohstoffabteilung) ispirato da Walther Rathenau, ma anche in Gran Bretagna si attuarono subito uno stretto controllo delle importazioni e una gestione centralizzata del traffico navale, mentre in Francia e in Italia i governi crearono strutture ministeriali per le impor9. S. Förster, Dreams and Nightmares: German Military Leadership and the Images of Future Warfare, 1871-1914, in Anticipating total war, pp. 343-376. 10. Oltre al classico studio di G. Hardach, La prima guerra mondiale 1914-1918, Milano 1982 (ed. or. 1973), ci si consenta il rinvio a F. Degli Esposti, Stato, società ed economia nella prima guerra mondiale. Una bibliografia, Bologna 2001.

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tazioni di beni strategici: per il nostro paese possiamo ricordare l’organizzazione per le importazioni di carbone e il Commissariato (poi Ministero) per gli approvvigionamenti e consumi. La guerra di logoramento mise infine in evidenza che le risorse umane non erano inesauribili: era anzitutto necessario che tutti dessero il loro contributo allo sforzo del paese – volontariamente o con il ricorso alla coercizione.11 Così in Inghilterra si arrivò prima, non senza grande fatica, all’introduzione della leva obbligatoria (fine 1916), poi al superamento della concezione del “tutto per l’esercito” a favore una più attenta alle esigenze della produzione, con la creazione nel 1917 del Ministry of National Service. In Germania il tentativo di arrivare ad una mobilitazione totale delle società, caratterizzata da forti aspetti coercitivi, ebbe come approdo nel novembre 1916 la Hilfdienstgesetz (Legge per il servizio ausiliario), che tuttavia, come ha osservato Gerald Feldman, non funzionò nel senso auspicato dagli ambienti militari che l’avevano proposta perché aprì maggiori spazi di contrattazione sulla gestione dello sforzo bellico sia al parlamento, sia soprattutto ai sindacati.12 Ci furono ovviamente anche differenze di rilievo, legate in primo luogo alle diversità istituzionali e alle caratteristiche del contesto politico. In Gran Bretagna e in Francia la direzione del conflitto rimase sempre saldamente nelle mani del governo civile, che anzi erose alcuni ambiti di competenza inizialmente affidati ai militari; in Germania i militari ebbero un ruolo dominante sia perché questo era previsto fin dall’inizio, sia perché essi vennero visti come l’unica forza in grado di guidare il paese con sufficiente energia. Anche in Italia il ruolo centrale giocato per lungo tempo dall’elemento militare fu legato alle debolezze della politica interna: quella dell’intervento non era stata infatti una scelta condivisa. Tuttavia nell’ultima parte del conflitto, soprattutto dopo Caporetto, l’esecutivo guidato da Orlando e Nitti ampliò la sfera di controllo e di indirizzo del governo rispetto al Comando supremo e agli altri apparati militari. Un’altra doverosa precisazione riguarda la necessità di stare in guardia dalle razionalizzazioni ex post. Il sorgere e l’affermarsi degli uffici e dei 11. Su questi aspetti G. Procacci, Warfare-Welfare. Intervento dello Stato e diritti dei cittadini (1914-18), Roma 2013 e anche State, Society and Mobilization in Europe during the First World War, a cura di J. Horne, Cambridge 1997. 12. G.D. Feldman, Army, Industry and Labor in Germany, 1914-1918, Princeton 1992 (ed. or. 1966).

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ministeri cui abbiamo fatto sommariamente cenno non avvenne dall’oggi al domani; si trattò piuttosto di risposte ad hoc, prese “in corsa” per affrontare problemi imprevisti, che richiesero spesso un faticoso processo di adattamento per poter funzionare in modo relativamente efficace. La memorialistica del dopoguerra (ad esempio le War Memories del premier inglese David Lloyd George) tese ovviamente a sostenere la validità dei risultati ottenuti, e a questo limite non sfugge nemmeno parte della prima riflessione storiografica sulle esperienze di quegli anni, promossa dalla Fondazione Carnegie. Per la verità bisogna dire che – almeno negli studi della serie italiana – gli autori non risparmiarono critiche all’organizzazione dell’economia di guerra, anche se questo è da considerarsi in parte dovuto al loro orientamento prevalentemente liberista. Non c’è però dubbio sul fatto che la guerra apparve ai contemporanei un grande “laboratorio sociale”, e non sorprende che la riflessione del secondo dopoguerra sul capitalismo organizzato, l’instaurarsi cioè di dinamiche triangolari fra Stato, mondo imprenditoriale e organizzazioni sindacali per la definizione degli assetti generali del sistema economico in un’ottica di collaborazione, abbia guardato agli anni della prima guerra mondiale come possibile fase “genetica”. Il dibattito è giunto tuttavia a conclusioni piuttosto caute: l’esperienza del 1914-18 può forse essere rubricata come fase di War Socialism, un momento eccezionale in grado di produrre soluzioni nuove, ma transitorie, con il ripristino, al ritorno della pace, di schemi più tradizionali di gestione dell’economia e del conflitto sociale.13 È però vero che quanto sperimentato in quegli anni rimase una sorta di “memoria” non cancellabile, pronta a riemergere in caso di necessità: la seconda guerra mondiale fu più totale della prima, ma il solco era già stato tracciato. C’è un ultimo aspetto che fa da trait d’union fra la prima e la seconda guerra mondiale: la questione degli obiettivi economici di guerra e della loro continuità. Il dibattito non può che prendere le mosse dalla riflessione di Fritz Fischer, che in Assalto al potere mondiale, uscito all’inizio degli anni Sessanta,14 puntò l’indice contro i programmi espansionistici elaborati non solo dagli ambienti pangermanisti tedeschi, ma – sia pure con toni più moderati – dallo stesso governo imperiale. Una tesi che Fischer ha ripreso 13. Organisierter Kapitalismus. Voraussetzungen und Anfänge, a cura di H.A. Winkler, Göttingen 1974. 14. F. Fischer, Assalto al potere mondiale. La Germania nella guerra 1914-1918, Torino 1965 (ed. or. 1961).

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e accentuato, convinto dell’esistenza di una continuità politico-economica fra la Weltpolitik guglielmina e la Lebensraumpolitik di marca nazista.15 Quest’interpretazione, che sottolinea appunto la persistenza del carattere “predatorio” della guerra tedesca, è stata poi almeno in parte smussata: Feldman, nel valutare le posizioni del magnate dell’industria pesante Hugo Stinnes, pure vicino ai programmi pangermanisti, ha evidenziato come gli ingrandimenti territoriali avessero scopi più strategici che economici: Stinnes era convinto che nel dopoguerra i rapporti economici internazionali sarebbero ripresi secondo gli schemi dell’anteguerra.16 Georges-Henri Soutou, in un monumentale lavoro sugli obiettivi economici di guerra delle nazioni belligeranti, afferma addirittura che la Germania andò progressivamente moderando i suoi obiettivi economici; fu invece l’Intesa a elaborare progetti sempre più duri nei confronti della Germania e dei suoi alleati, già a partire dal 1916. Ciò si tradusse nelle clausole di Versailles, che certo non erano il viatico migliore per una stabilizzazione degli equilibri europei: un armistizio di vent’anni, pare le avesse definite il maresciallo Foch.17 La nuova guerra sarebbe stata simile a quella del 1914-18? Se si dava, com’era logico, una risposta positiva, era necessario trovare alternative. Gli esperti di strategia e di pianificazione militare si sforzarono di superare l’idea dell’esercito di massa – e della guerra di posizione – così come si era manifestata in modo iperbolico durante il primo conflitto mondiale, per ritornare a una guerra di movimento, possibilmente breve. La tecnologia dava parecchie speranze in questo senso: come ha osservato un eminente storico militare tedesco, Rolf Dieter Müller, la prima guerra mondiale aveva sì rappresentato un deciso progresso tecnologico, ma solo incrementale, e ciò si era tradotto nello stallo delle operazioni. Ora però quello che era stato solo intuito o parzialmente realizzato – mezzi corazzati e aeronautica come armi strategiche – era divenuto possibile. Gli esperti militari di tutti i paesi discussero vivacemente sulla presunta 15. Id., Bündnis der Eliten. Zur Kontinuität der Machtstrukturen in Deutschland 1871-1945, Düsseldorf 1979. 16. G.D. Feldman, War Aims, State Intervention, and Business Leadership in Germany. The Case of Hugo Stinnes, in Great War, Total War. Combat and Mobilization on the Western Front, 1914-1918, a cura di R. Chickering, S. Förster, Cambridge 2000 pp. 349-367. 17. G.-H. Soutou, L’Or et le sang: le buts de guerre économiques de la Première Guerre mondiale, Paris 1989.

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superiorità di eserciti relativamente piccoli, dotati però di grande mobilità, rispetto ad avversari più grandi ma più lenti e meno potenti: si pensi ad autori britannici come John F.C. Fuller e Basil Liddell Hart, al tedesco Hans von Seeckt, primo responsabile della Reichswehr weimariana, o a un personaggio notissimo come Charles de Gaulle, autore nel 1934 di Vers l’armée de métier, in cui si sostenevano i pregi dell’esercito professionale e, ovviamente, meccanizzato.18 Naturalmente ciò non significava trascurare la questione della preparazione economica: il già citato Seeckt aveva creato istituti di ricerca nel campo della Wehrwirtschaftswissenschaft, cioè per la preparazione economica della guerra. Sebbene alcuni, ad esempio Erich Ludendorff (Der Totale Krieg, 1935), ritenessero che guerra totale significasse essenzialmente “mobilitazione spirituale”, Adolf Hitler aveva già lasciato capire, fin dalla presa del potere, che la guerra che intendeva scatenare sarebbe stata un conflitto industriale.19 La Germania, anche volendo contare sugli alleati dell’Asse, si trovava in questo senso in una posizione di evidente inferiorità. In una guerra di logoramento l’Intesa avrebbe lentamente ma sicuramente stritolato i propri avversari. Secondo Alan Milward la strategia del Blitzkrieg, di cui sono solitamente più conosciuti gli aspetti militari, ebbe anche una dimensione economica:20 la Germania avrebbe puntato su campagne brevi, con obiettivi relativamente limitati, in modo da poter impiegare le fasi di pausa come strumento per ripristinare la propria efficienza militare senza gravare troppo sul fronte interno. In parte si trattava di una scelta obbligata: secondo Tim Mason il nazionalsocialismo era riuscito a distruggere le organizzazioni della classe operaia tedesca, ma non l’aveva “conquistata”, per cui non era possibile imporle, in caso di guerra, sacrifici eccessivi. Allorché il generale Thomas, responsabile della preparazione economica del riarmo, aveva fatto presente che la futura 18. H. Strachan, War and Society in the 1920s and 1930s, in The Shadows of Total War. Europe, East Asia, and the United States, 1919-1939, a cura di R. Chickering, S. Förster, Cambridge 2003, pp. 255-263. 19. M. Kutz, Fantasy, Reality, and Modes of Perception in Ludendorffs’ and Goebbels’s Concept of “Total War”, in A World at Total War. Global Conflict and the Politics of Destruction, 1937-1945, a cura di R. Chickering, S. Förster, B. Greiner, Cambridge 2005, pp. 189-206. 20. A.S. Milward, Guerra, economia e società 1939-1945, Milano 1983 (ed. or. 1977).

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guerra avrebbe comportato oneri pesanti per la popolazione, il capo della Deutsche Arbeitsfront Robert Ley aveva replicato che esisteva un limite ben preciso a quanto si poteva chiedere alla classe operaia.21 Solo con il fallimento dell’operazione Barbarossa e il varo della Direttiva Rüstung nel gennaio 1942 l’economia di guerra tedesca si sarebbe mossa verso una prospettiva di guerra totale, avviandosi verso l’inevitabile sconfitta. La tesi del Blitzkrieg economico è affascinante, ma è stata sempre più apertamente criticata, essenzialmente con la motivazione che in realtà la Germania investì risorse massicce nella preparazione della guerra ben prima dello scoppio del conflitto, e che già nel periodo 1939-41 si ebbero sia forti limitazioni dei consumi civili, sia una mobilitazione di settori della società – ad esempio le donne – che il regime, anche per motivi ideologici, non avrebbe voluto coinvolgere.22 Albert Speer, posto a capo dello sforzo bellico tedesco, riuscì a ottenere grandi risultati mediante provvedimenti di razionalizzazione, ma la Germania nazista uscì comunque schiacciata dal confronto con gli alleati. Le altre potenze dell’asse, con economie ancora più fragili, erano destinate a soccombere in tempi anche più brevi. Gli studi di Fortunato Minniti, Massimo Legnani, Lucio Ceva e Andrea Curami offrono un quadro desolante della preparazione alla guerra condotta dal fascismo.23 L’Asse doveva insomma necessariamente perdere, ma non mancarono gravi errori nella gestione del potenziale economico e umano che le prime favorevoli fasi del conflitto le avevano messo a disposizione. Si pensi ad esempio al fronte orientale, cruciale per gli esiti del confronto. Mark Harrison, che ha dedicato numerosi lavori all’economia di guerra dell’Urss, 21. T.W. Mason, La politica sociale del Terzo Reich, Bari 1980 (ed. or. 1977). 22. Si vedano per esempio R. Overy, “Blitzkriegswirtschaft”? Finanzpolitik, Lebensstandard und Arbeitseinsatz in Deutschland, 1939-1942, in «Vierteljahrshefte für Zeitgeschichte», 36/3 (1988), pp. 379-435; Id., Germany, “Domestic Crisis” and War in 1939, in «Past and Present», 116/1 (1987), pp. 138-168; più recentemente W. Deist, “Blitzkrieg” or Total War? War Preparations in Nazi Germany, in The Shadows of Total War, pp. 102-111. 23. Di F. Minniti ricordiamo, per brevità, solo il saggio riepilogativo L’industria degli armamenti dal 1940 al 1943: i mercati, le produzioni, in Come perdere la guerra e vincere la pace, a cura di V. Zamagni, Bologna 1997; di L. Ceva e A. Curami ricordiamo, fra gli altri, La meccanizzazione dell’esercito italiano dalle origini al 1943, 2 voll., Roma 1989; fra i contributi di M. Legnani segnaliamo Sul finanziamento della guerra fascista, in L’Italia nella seconda guerra mondiale, a cura di F. Ferratini Tosi, G. Grassi, M. Legnani, Milano 1988, pp. 283-306; Id., Guerra e governo delle risorse: strategie economiche e soggetti sociali nell’Italia 1940-1943, in «Italia contemporanea», 17/179 (1990), pp. 229-261.

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ha evidenziato che all’inizio del 1942 il sistema sovietico era molto vicino alla soglia del collasso, al punto cioè in cui la popolazione, a dispetto della pesantezza dell’apparato repressivo, avrebbe cessato di collaborare allo sforzo bellico dei bolscevichi. Se ciò non avvenne fu dovuto anche al fatto che i tedeschi avevano già dato prove sufficienti del durissimo trattamento che intendevano infliggere alle popolazioni dei territori conquistati, che pure in alcuni casi li avevano accolti favorevolmente, come “liberatori” dal giogo sovietico. I “ratti”, come li definisce Harrison, non abbandonarono la nave staliniana semplicemente perché erano consapevoli che sarebbero comunque annegati.24 Lo sfruttamento selvaggio dei territori occupati e il trattamento disumano riservato alle popolazioni locali – non necessariamente solo agli ebrei – rappresentarono un enorme dispendio di risorse potenziali per il Reich, che solo gradualmente, e sempre con mille riserve, finì per rassegnarsi all’idea di uno sfruttamento più razionale dell’enorme bottino raccolto nelle campagne del 1939-42.25 Quello che avvenne nell’Europa occupata fa riemergere, ancora una volta, il carattere predatorio dell’economia di guerra, ora “potenziato” dalle spinte distruttive dell’ideologia razziale. 4. Il secondo dopoguerra È inutile chiedersi cosa sarebbe potuto accadere se la collaborazione instauratasi fra potenze occidentali e Unione Sovietica fosse continuata: i rapporti interni allo schieramento che aveva sconfitto l’Asse si sarebbero probabilmente incrinati in ogni caso. Il raffreddamento fra le parti, già manifestatosi a Potsdam (giugno 1945), continuò nei mesi successivi, e ancor prima del discorso di Stalin al Bol’šoj del febbraio 1946, che segnalava l’ulteriore peggioramento dei rapporti fra i vecchi alleati, e della conseguenze redazione del “lungo telegramma” da parte di George Kennan, era evidente che nessuno dei due schieramenti era disposto ad abbassare la 24. M. Harrison, The USSR and Total War: Why Didn’t the Soviet Economy Collapse in 1942?, in A World at Total War, pp. 137-156. 25. U. Herbert, Hitler’s Foreign Workers. Enforced foreign labor in Germany under the Third Reich, Cambridge 1997. Un atteggiamento che riguardò anche gli ex alleati, come gli italiani: G. Hammermann, Gli internati militari italiani in Germania, 1943-1945, Bologna 2004.

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guardia. La smobilitazione americana proseguì, ma senza tornare ai livelli prebellici; dal canto suo l’Unione Sovietica continuò l’economia di guerra in tempo di pace che già caratterizzava il paese fin dall’avvio dei piani quinquennali. Naturalmente lo scenario mutò in misura significativa con l’avvento delle armi atomiche, soprattutto nel momento in cui, negli anni Cinquanta, anche i sovietici si misero nelle condizioni di poter rispondere a un’eventuale minaccia statunitense con sufficiente forza dissuasiva. Prescindendo dal costo, tutt’altro che indifferente, delle armi nucleari e dei relativi vettori, l’impossibilità di arrivare a una vera “guerra totale” portò, come si potrebbe supporre, a un rallentamento della spesa militare nel suo insieme? La risposta deve essere negativa. Le spese militari continuarono, non solo nelle due superpotenze, ma anche all’interno dei rispettivi blocchi di alleanze politico-militari e nel resto del mondo, soprattutto nelle zone di crisi: Medio ed Estremo Oriente, Asia sud-orientale, Africa subsahariana e così via. I dati presentati (figg. 1-6) cercano di descrivere i mutamenti avvenuti nel quarantennio successivo alla fine della guerra. Si tratta di semplici approssimazioni: soprattutto per quanto riguarda i paesi del mondo comunista i dati sono probabilmente inferiori ai livelli reali.26 Essi individuano tuttavia alcuni fenomeni essenziali: il declino (assai relativo) delle due superpotenze, il mantenimento di un ruolo di rilievo per l’Europa occidentale, l’emergere della Cina e in generale del Terzo Mondo, un peso sempre maggiore dell’area di crisi medio-orientale. Questo quadro si era già andato delineando verso la fine degli anni Sessanta e venne analizzato con toni molto preoccupati nel primo annuario pubblicato dallo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri). Nel presentare lo “storico” del secondo dopoguerra, l’istituto di ricerca svedese evidenziava che a partire dal 1947-48 si era speso in armamenti assai più di quanto era avvenuto durante la “corsa agli armamenti” che aveva preceduto il primo conflitto mondiale. Se a inizio secolo le spese per la difesa non erano andate mai oltre il 3-3,5% del PIL, nel dopoguerra si era passati al 7-8%, soprattutto per effetto dell’enorme espansione dei 26. Abbiamo fatto ricorso alle stime dello Stockholm International Peace Research Institute (Sipri); altri studi fanno riferimento al rapporto World Military Expenditures and Arms Transfers pubblicato annualmente dalla Arms Control and Disarmament Agency, un’agenzia governativa statunitense.

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bilanci militari statunitensi; questi non avevano seguito un ritmo costante, ma erano cresciuti a balzi, in connessione con i periodi di crisi, senza che però a queste seguissero apprezzabili fasi di arretramento. Prendendo in esame l’inizio della exit strategy statunitense in Vietnam gli analisti del Sipri concludevano che ciò non avrebbe portato ad una decisa contrazione delle spese militari: gli ambienti politici di Washington insistevano infatti nel sottolineare la persistente minaccia sovietica, accusando Mosca di essere alla ricerca di una first strike capability in campo strategico. Gli Stati Uniti avrebbero dunque continuato a impegnarsi nel perfezionamento dei sistemi difensivi Abm (Anti-ballistic Missile) e a dare ulteriore impulso all’arsenale strategico con le armi Mirv (Multiple Independently targetable Reentry Vehicles), provocando l’inevitabile reazione sovietica. A questo scenario già preoccupante si aggiungeva il ruolo del Terzo Mondo, ancora minoritario ma in rapida ascesa: lo mostravano le statistiche sul commercio delle armi, che segnalavano anche il netto progresso tecnologico dei sistemi d’arma (aerei supersonici e missili) oggetto delle transazioni. In declino il peso della penisola indocinese (le sorti del conflitto pendevano ormai a favore del Vietnam del Nord), si evidenziava quello crescente del Medio Oriente, legato sia alla ricostituzione degli arsenali dei paesi coinvolti nelle guerre dell’area (la più recente era quella dei Sei giorni, ma di lì a qualche anno ce ne sarebbe stata un’altra ancor più gravida di conseguenze), sia al fatto che anche paesi non direttamente coinvolti stavano acquistando armi in misura ben superiore alle loro effettive necessità di sicurezza.27 Negli anni successivi questi trend si mantennero, con alcune novità potenzialmente assai pericolose. Nel passare in rassegna gli sviluppi della dottrina strategica americana – e indirettamente di quella sovietica – il Sipri evidenziava la tendenza ad annunciare le svolte più importanti nell’ambito dei sistemi d’arma e del loro impiego nel momento in cui essi erano di fatto già divenuti realtà: così era avvenuto per il sistema Mirv, annunciato nel 1968 ma allo studio già da parecchi anni, e per il sistema Abm (1970). Alla metà degli anni Settanta le nuove frontiere erano il sistema Marv (cioè testate guidabili anche dopo il distacco dal vettore) e le rampe di lancio mobili per i missili intercontinentali. L’aspetto più preoccupante era costituito dal fatto che le armi nucleari si stavano avvicinando al piano tattico, a quello che gli esperti militari 27. World military expenditure, in «SIPRI Yearbook», 1 (1968-1969), pp. 18-89, più l’appendice statistica.

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chiamavano surgical strike, considerato tuttavia un ulteriore esercizio di azzardo (brinkmanship), addirittura peggiore della deterrenza. L’ingresso sulla scena delle armi nucleari tattiche era legato alla tradizionale inferiorità della Nato nel campo degli armamenti convenzionali, e alla scarsa propensione degli alleati europei degli Stati Uniti ad aumentare il livello delle spese militari. Come già affermato implicitamente nella dottrina della “risposta flessibile” formulata dall’amministrazione Kennedy all’inizio degli anni Sessanta, le armi atomiche tattiche erano ormai divenute parte integrante della “deterrenza realistica” elaborata dalla nuova amministrazione Nixon. Dal canto loro i sovietici, pur avendo ormai raggiunto la parità sotto il profilo strategico, continuavano a curare le loro forze convenzionali, che potevano comunque essere estremamente utili sui teatri di crisi locali che si stavano moltiplicando. Anche Mosca stava dunque perseguendo una strategia sempre più articolata e complessa.28 Sviluppo e diversificazione degli arsenali nucleari non avevano poi indebolito i motivi per continuare a produrre e commerciare armi convenzionali, secondo schemi che risalivano già alla fine dell’Ottocento: alcuni attori nuovi si erano nel frattempo aggiunti, altri avevano cambiato ruolo, ma alcune regolarità di fondo si erano conservate. Possiamo chiederci, in conclusione, quale sia l’impatto economico complessivo della produzione di armamenti sull’economia mondiale nel primo trentennio del dopoguerra, con un particolare riguardo ai paesi industrializzati. Nel delicato equilibrio fra “burro” e “cannoni” – per usare una vecchia metafora – quali sono state le scelte effettuate, e che ruolo hanno avuto i “cannoni” nell’ambito del sistema economico? Prenderemo in esame quattro casi: Stati Uniti, Unione Sovietica, Israele e Italia. Negli Stati Uniti la seconda guerra mondiale aveva portato alla nascita del complesso militare-industriale, le cui proporzioni erano divenute tali da condizionare il tono dell’economia nel suo complesso: la crisi legata alla fine delle ostilità era stata superata prima con l’inizio della guerra fredda e la creazione della Nato, poi con la guerra di Corea, e infine con il Vietnam. Secondo Fabrizio Battistelli, che riprendeva le riflessioni di Herbert Marcuse ne L’uomo a una dimensione, all’inizio degli anni Sessanta gli Stati Uniti erano progressivamente divenuti un 28. The nuclear deterrence debate, in «SIPRI Yearbook», 5 (1974), pp. 55-96. Si veda anche D. Holloway, L’Unione Sovietica e la corsa agli armamenti, Bologna 1984 (ed. or. 1983), pp. 83-89.

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warfare-welfare State, in cui spese militari e spese sociali crescevano parallelamente e la prosecuzione dei programmi di warfare era divenuta una premessa per il welfare.29 Il giudizio di Battistelli è forse troppo univoco, ma ha il merito di evidenziare alcuni dei tratti caratteristici del primo paese al mondo per spesa militare e produzione degli armamenti: ad esempio il livello elevatissimo di investimenti per R&D in campo militare,30 in cui il gruppo delle imprese principali, ormai relativamente ristretto, ha assunto i caratteri di una lobby interessata in primo luogo a intrattenere rapporti vantaggiosi con le agenzie governative. Nel corso degli anni le aziende americane hanno mostrato anche una crescente attenzione per le vendite sui mercati esteri, ma l’export di armamenti avrebbe conservato uno scopo prevalentemente politico, continuando a essere ispirato dal governo.31 Quanto all’Unione Sovietica, in mancanza di una valutazione attendibile dell’incidenza delle spese militari sul prodotto nazionale lordo del paese, ci si muove invece sul terreno delle ipotesi più sfrenate, tant’è che persino il Sipri – le cui stime sono sempre state estremamente prudenti (fig. 7) – ha smesso nel 1978 di pubblicarle. La maggior parte degli analisti occidentali ritiene che le spese per la difesa sovietiche non siano mai scese sotto l’11-13% del Pil32 e abbiano probabilmente registrato una tendenza all’aumento nella misura in cui, a partire dagli anni Settanta, è stato sempre più difficile conciliare progresso militare e crescita economica.33 Anche l’export di armi, pure legato prevalentemente, come per gli Stati Uniti, a considerazioni di ordine politico, avrebbe assunto col tempo un significato 29. F. Battistelli, Armi: nuovo modello di sviluppo? L’industria militare in Italia, Torino 1980, pp. 68-87. 30. Si vedano le stime del Sipri in Resources devoted to military research and development, in «SIPRI Yearbook», 4 (1972), pp. 149-239. 31. J. Reppy, The United States, in The structure of the defence industry: an international survey, a cura di N. Ball, M. Leitenberg, New York 1983, pp. 21-47; sulle esportazioni si veda anche K. Krause, Arms and the State: patterns of military production and trade, Cambridge 1992, pp. 99-112. 32. Si vedano i saggi pubblicati su «Soviet Studies» già a partire dagli anni Settanta, anche se spesso il loro taglio specialistico li rende spesso poco comprensibili ai non economisti. Per esempio S. Rosefielde, Soviet Defence Spending. The Contribution of the New Accountancy, in «Soviet Studies», 42/1 (1990), pp. 59-80; D. Steinberg, Trends in Soviet Military Expenditure, ibidem, 42/4 (1990), pp. 675-700; Id., The Soviet Defence Burden: Estimating Hidden Defence Costs, ibidem, 44/2 (1992), pp. 237-264. 33. Holloway, L’Unione Sovietica e la corsa agli armamenti, pp. 268-280.

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Fabio Degli Esposti

economico sempre maggiore.34 Si può dire che l’Unione Sovietica ha sacrificato il burro ai cannoni; visto come sono finite le cose, non sembra essere stata la scelta migliore. Del tutto peculiare è il caso di Israele, paese in perenne stato di guerra, che fin dagli esordi come nazione indipendente ha sentito la necessità di creare forze armate potenti e un’industria degli armamenti – posta in gran parte sotto l’egida dello Stato – in grado di garantire il livello di autonomia più elevato possibile. L’industria militare è dunque fortissima: tanto per fare un esempio, negli anni Ottanta l’Iai (Israeli Aircraft Industries) era il primo datore di lavoro nel paese. Questo risultato è stato ottenuto sia mediante lo sviluppo delle produzioni su licenza, con il tentativo di realizzare un miglioramento incrementale del prodotto, sia seguendo la strada della partecipazione ai progetti di sviluppo e produzione di nuovi sistemi d’arma. Soluzione questa, più difficile, per motivi politici: Stati Uniti e paesi europei non intendono infatti inimicarsi troppo il mondo arabo, che di Israele è nemico giurato. Israele dispone inoltre di uno sviluppatissimo settore R&D e di un capitale umano – scienziati, tecnici, lavoratori – che gli hanno permesso di continuare a godere di una posizione di vantaggio rispetto agli altri Stati dell’area.35 Il burden of defence è però sempre rimasto elevatissimo e le esportazioni di armi hanno sempre avuto come principale obiettivo quello di migliorare una bilancia dei pagamenti resa fortemente deficitaria proprio per effetto delle spese militari (fig. 8).36 Se volessimo trovare un equivalente moderno dell’esercito che possiede uno Stato, espressione riferita alla Prussia settecentesca, dovremmo guardare in questa direzione. I cannoni dunque prevalgono, anche se finora il burro è bastato. Chiudiamo infine con qualche notazione sul nostro paese. Deposte le ambizioni di potenza mondiale, l’Italia ha vissuto abbastanza tranquillamente nell’ambito di una Nato che, soprattutto nei primi decenni, era dominata dalla presenza americana. Il settore militare, che aveva una buona tradizione e buone capacità, ha attraversato prima una fase di dipendenza assoluta, in cui le forniture dei sistemi d’arma più moderni venivano garantite dagli Stati Uniti, per entrare poi in una fase di dipendenza articola34. Ibidem, pp. 202-206. 35. G. Steinberg, Israel, in The structure of the defence industry, pp. 278-304. 36. The Burden of defence: the case of Israel, in «SIPRI Yearbook», 14 (1983), pp. 191-194.

Guerra ed economia

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ta, cioè di produzione su licenza di armamenti concepiti altrove – di solito statunitensi – e infine in una di complementarità, in cui, pur rimanendo un forte legame con l’alleato d’oltreoceano, l’industria nazionale si è inserita in consorzi di produzione di sistemi d’arma moderni, anche indipendenti dalla tecnologia americana. Parallelamente, e questo è un dato importante, è avvenuta una riqualificazione della spesa militare del paese: questa è andata nel complesso diminuendo, ma è cresciuta al suo interno la quota destinata all’approvvigionamento di armamenti, traducendosi in una domanda che ha privilegiato il sistema delle imprese nazionali; queste sono state interessate da un processo di ristrutturazione e di concentrazione che ha fatto emergere alcune società medio-grandi, in buona misura controllate da holding statali.37 Sebbene il mercato interno fosse rimasto importante, grazie a una serie di leggi straordinarie per marina, esercito e aviazione che hanno mobilitato risorse consistenti per l’ammodernamento tecnologico, nel corso degli anni Settanta il nostro paese stava acquisendo (o riacquisendo) una notevole visibilità anche sul mercato internazionale delle armi. Il settore militare ha dunque lavorato, in termini di fatturato e profitti, in controtendenza rispetto al sistema industriale nel suo complesso, con un ruolo dell’export sempre più rilevante.38 Proprio questo induceva Battistelli a chiedersi se le armi, nel nostro paese, stessero delineando un nuovo modello di sviluppo, in cui, per cui per avere il burro, bisognava produrre i cannoni. Le cose, in fin dei conti, sembrano essere andate diversamente. Meglio così.

37. Battistelli, Armi: nuovo modello di sviluppo?, pp. 126-191. 38. Ibidem, pp. 191-233.



Appendice Ripartizione delle spese militari nel mondo, 1949-8339 Fabio Degli Esposti 236 39 1. 1949-53 Ripartizione delle spese militari nel mondo, 1949-83



Appendice

1. 1949-53

3% Cina 4% Altri paesi Varsavia 3%

3%

4%

4%

6% Resto del mondo 6%

6%

USA Usa 44% Altri Paesi NATO 44%

USA URSS 28%

44%

Altri Paesi NATO Altri P. Varsavia URSS Cina

28%

Altri P. Varsavia Resto del Mondo Cina

15% Urss 28%

Resto del Mondo 15%





Altri paesi Nato 15%

Fig. 1. Ripartizione delle spese militari2. nel1954-60 mondo, 1949-53 (fonte «Sipri Yearbook»).

Cina 3% Altri paesi Varsavia 3%

24%

3%

3%

3%

7%

3%

7%



Resto 2. del 1954-60 mondo 7% Usa 47%

48%

USA Altri Paesi NATO

USA URSS 48%

24%

Altri Paesi NATO Altri P. Varsavia URSS Cina

Urss 24%

Altri P. Varsavia Resto del Mondo 15% Altri paesi Nato 16%

Cina Resto del Mondo

15%

Fig. 2. Ripartizione delle spese militari nel mondo, 1954-60 (fonte «Sipri Yearbook»).





39 Fonte: «SIPRI Yearbook», annate varie.

Guerra ed economia

237

3. 1961-65 3. 1961-65

Altri paesi Varsavia 3%

Medio Oriente 1% 3% 1% 3% 1%

Cina 3%

7% 7%

Resto del mondo 7%

3% 3%

Usa 41%

41% 41%

29% 29%

Urss 29%





16% 16% Altri paesi Nato 16%

USA USA Altri aesi NATO Altri aesi NATO URSS URSS Altri P. Varsavia Altri P. Varsavia Medio Oriente Medio Oriente Cina Cina Resto del Mondo Resto del Mondo

Fig. 3. Ripartizione delle spese militari nel mondo, 1961-65 (fonte «Sipri Yearbook»).



4. 1966-73 4. 1966-73 Medio Oriente 2%

Altri paesi Varsavia 3%

4% 4% Cina 4% 2% 2% 4% 4%

8% 8%

Resto del mondo 8%

39% 39%

29% 29% Urss 29%

Usa 40%

14% paesi Altri 14% Nato 14%

USA USA Altri aesi NATO Altri aesi NATO URSS URSS Altri P. Varsavia Altri P. Varsavia Medio Oriente Medio Oriente Cina Cina Resto del Mondo Resto del Mondo

Fig. 4. Ripartizione delle spese militari nel mondo, 1966-73 (fonte «Sipri Yearbook»).



5. 1974-79 5. 1974-79

Fabio Degli Esposti

238

Estremo Medio Oriente Oriente 4% 8% 7% 4% 8%

Cina9% 8%

Resto del mondo 9%

USA USA Altri aesi NATO Usa 26% Altri aesi NATO URSS URSS Altri P. Varsavia Altri P. Varsavia Medio Oriente Medio Oriente stre o Oriente 20% stre o Oriente Cina 20% Cina Altri paesi Resto del Mondo Nato 20% Resto del Mondo

9%

26% 26%

4% 7% 7%

2% 2% Altri paesi Varsavia 2%

24% 24% Urss 24%





Fig. 5. Ripartizione delle spese militari nel mondo, 1974-79 (fonte «Sipri Yearbook»).



6. 1980-83 6. 1980-83

Estremo Oriente 5%

Resto del mondo 9%

Usa 28%

Cina 6% Medio 6% Oriente 6% 5% 8%

10% 10%

USA USA Altri aesi NATO Altri aesi NATO URSS URSS Altri P. Varsavia Altri P. Varsavia Medio Oriente Medio Oriente stre o Oriente stre o Oriente 19% 19% Altri paesi Nato Cina Cina 19% Resto del Mondo Resto del Mondo

27% 27%

5% 8% 8%

2% 2% Altri paesi Varsavia 2%





23% 23% Urss 23%

Fig. 6. Ripartizione delle spese militari nel mondo, 1980-83 (fonte «Sipri Yearbook»).











Guerra ed economia

Diagramma 7

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Incidenza % delle spese militari sul PIL (1952-1988) 16

14

USA 12

URSS 10

8

6

88

86

19

84

19

19

19

82

80 19

78 19

76

74

19

72

19

70

19

68

19

66

19

62

60

58

56

54

64

19

19

19

19

19

19

19

19

52

4

Fonte: «Sipri Yearbook» annate varie.

Diagramma 8 Fig. 7. Incidenza % delle spese militari sul Pil, 1952-88 (fonte «Sipri Yearbook»). Incidenza % delle spese militari sul PIL (1952-1988) 45 Egitto

40

Iran 35

Israele

30 25 20 15 10 5

Fig. 8. Incidenza % delle spese militari sul Pil, 1952-88 (fonte «Sipri Yearbook»).

19 88

86 19

19 84

82 19

80 19

78 19

76 19

19 74

72 19

70 19

19 68

66 19

64 19

62 19

60 19

58

56

19

54

19

19

19

52

0

Gianluca Fiocco Guerra e tecnologia

1. Dinanzi alla guerra industriale Il nesso sempre più stretto e incalzante tra guerra e tecnologia, a partire dalla seconda rivoluzione industriale, è riflesso già nella percezione e nella prima elaborazione dei contemporanei. Un interrogativo cruciale viene posto da Werner Sombart alla vigilia dello scoppio del primo conflitto mondiale: oltre a essere influenzata dall’evoluzione della tecnica e dell’economia, la guerra esercita a sua volta un influsso sullo sviluppo del capitalismo e delle sue tecnologie?1 In seguito, studiosi come John U. Nef avrebbero risposto di no, negando che la guerra avesse mai favorito lo sviluppo del genere umano. Più esattamente, si sarebbe affermato che, guerra o non guerra, tutta una serie di sviluppi tecnologici fondamentali avrebbero fatto comunque la loro comparsa, anche se in forme e tempi diversi.2 Ma tale considerazione non può soddisfare lo storico, che al di là dei se e dei ma deve concentrarsi su come le cose sono andate realmente, e da questo punto di vista la ricerca ha evidenziato un innegabile influsso esercitato dalle esigenze militari sull’evoluzione della tecnica e dei processi produttivi. Oggi, ad esempio, è un’acquisizione condivisa il fatto che nel Cinquecento la ricerca di una sempre maggiore precisione nelle armi da fuoco svolse un ruolo chiave nel sorgere del concetto di produzione standardizzata, a sua volta elemento determinante per i successivi sviluppi dell’indu1. W. Sombart, Krieg und Kapitalismus, München 1913. 2. J.U. Nef, War and Human Progress. An Essay on the Rise of Industrial Civilization, Cambridge (MA) 1950. Su questo dibattito cfr. P. Malanima, Uomini, risorse, tecniche nell’economia europea dal X al XIX secolo, Milano 2003, pp. 245-47.

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Gianluca Fiocco

stria moderna. Il capitalismo moderno è anche figlio della rivoluzione della polvere da sparo. Rispondere affermativamente alla questione posta da Sombart è una condizione indispensabile per condurre l’analisi storica alla sua corretta dimensione dialettica. Cento anni fa questa posizione poteva sollevare il sospetto di darwinismo sociale, oppure (fenomeno persistente nel corso del Novecento) indurre considerazioni moralistiche sui conflitti come “lato oscuro” del progresso. In verità, oggi come allora, si tratta di fare i conti col fenomeno guerra come attività sociale diffusa e continuata nel tempo, i cui effetti si riverberano necessariamente sul corso storico generale, dimensione tecnica compresa. La “seconda guerra dei Trent’anni” si incarica di fornire sul campo una prima risposta a Sombart, con la sua bruciante accelerazione tecnologica. Nel 1942, lo scienziato politico e giurista americano Quincy Wright, col suo A Study of War (summa monumentale di un progetto collettivo e pluriennale sul fenomeno guerra, nato negli anni Venti per riflettere sulle lezioni scaturite dal conflitto del 1914-18), propone una visione in cui è la tecnologia il fattore primario che determina le cesure nella storia della guerra e più in generale nel cammino umano. Sotto la spinta dei drammatici avvenimenti mondiali, il rapporto guerra-tecnologia assurge a fattore fondamentale della spiegazione storica. Wright scrive e insegna a Chicago, la città dove proprio in quei mesi Enrico Fermi sta per mettere in funzione la prima pila atomica, passo cruciale nell’ambito del Progetto Manhattan; poco dopo, l’avvento dell’arma nucleare sembra confermare le interpretazioni “tecnocentriche”. Le conquiste tecnologiche legate alla guerra appena conclusa paiono infatti determinanti nel comporre l’agenda politica, economica e culturale del dopoguerra.3 2. Una rivoluzione storiografica Dopo il 1945 la ricerca e il dibattito su questi temi sono proseguiti, in cortocircuito con le nuove guerre, a partire da quella mai combattuta ma segnata da una vera ossessione tecnologica: l’incombente resa dei conti 3. Volumi “classici” che restituiscono il clima formatosi tra guerra e dopoguerra sono J.F.C. Fuller, Armament and History. A Study of the Influence of Armament on History from the Dawn of Classical Warfare to the End of the Second World War, New York 1945; B. e F. Brodie, From Crossbow to H-Bomb, New York 1962.

Guerra e tecnologia

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fra Usa e Urss, le due superpotenze nucleari della guerra fredda. A guidare gli studi sono in una prima fase esponenti delle scienze sociali,4 mentre gli storici forniscono un contributo minore e caratterizzato da alcuni limiti strutturali. La disciplina della storia della tecnologia rappresenta un po’ una nicchia chiusa, con un approccio limitato al piano strettamente tecnico (“dadi e bulloni”). Abbondano gli studi dedicati a singole armi, scarseggiano le visioni d’insieme.5 Le cose iniziano a cambiare negli anni Sessanta, sulla scia della nuova storia “militare-sociale” sorta in ambito anglosassone. Si moltiplicano gli approcci alla storia militare, le sue relazioni con gli altri ambiti storiografici e con gli sviluppi delle diverse scienze sociali.6 Tutto ciò getta le basi per una nuova storiografia che per analogia potremmo definire “tecnologico-sociale”: l’evoluzione tecnologica in campo militare comincia a non essere vista solo come problema a sé, ma colta nelle sue implicazioni e nel suo impatto a livello politico, culturale, sociale. Se ci si occupa ad esempio di corsa agli armamenti, è tutto lo sfondo economico-sociale delle nazioni coinvolte che viene richiamato.7 Se l’attenzione si volge alla storia dell’aviazione, si cerca di fare i conti con che cosa significhi per politici, capi militari, scienziati, semplici cittadini il sorgere di uno strumento che può radere al suolo intere città e sconvolgere il tessuto sociale dalle fondamenta.8 Allo storico militare si richiede di compiere incursioni in campi prima a lui preclusi. Per converso, questioni un tempo ristrette a specialisti tecnici, vengono ora affrontate sempre più da studiosi della politica, della società, della cultura. Un passaggio fondamentale sembra quello degli anni Ottanta, quando a detta di alcuni studiosi si verifica una vera e propria rivoluzione storio4. Esempio celebre è quello di H.A. Innis, Impero e comunicazioni, a cura di A. Miconi, Roma 2001 (ed. or. 1950). 5. Cfr. B.C. Hacker, Military Institutions, Weapons, and Social Change: Toward a New History of Military Technology, in «Technology and Culture», 35 (1994), pp. 769 ss. 6. Un quadro stimolante di questi mutamenti è offerto da P. Paret, The History of War and the New Military History, in Understanding War: Essays on Clausewitz and the History of Military Power, Princeton 1992, pp. 209 ss. 7. A tal proposito cito solo due esempi noti al pubblico italiano: G.W.F. Hallgarten, Storia della corsa agli armamenti, prefaz. di E. Ragionieri, Roma 1972; J.R. Hale, Guerra e società nell’Europa del Rinascimento, Roma-Bari 1997. Per il caso italiano, di importanza pionieristica fu la ricerca di F. Bonelli, Lo sviluppo di una grande impresa in Italia. La Terni dal 1884 al 1962, Torino 1975. 8. Si pensi ad esempio a U. Bialer, The Shadow of the Bomber. The Fear of Air Attack and British Politics, 1932-1939, London 1980.

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grafica nel campo degli studi tecnico-militari.9 L’interazione guerra-tecnologia, vista nella sua valenza dialettica, di influenza reciproca, diviene pienamente terreno dell’indagine storica tout court, assurgendo a elemento interpretativo fondamentale sia di ricerche particolari che di importanti opere di sintesi. Questa stagione di rinnovamento degli studi ha, tra le altre, due caratteristiche importanti: a) parte da una prospettiva di lunga durata, plurisecolare, come nel caso della celebre opera di William H. McNeill, The Pursuit of Power, che esordisce dall’anno Mille;10 b) si pone in genere la sfida di spiegare le ragioni e le specificità dell’ascesa dell’Occidente rispetto alle altre parti del globo (sempre per scegliere un esempio noto, si pensi ad esempio a Geoffrey Parker, The Military Revolution).11 Tutto questo ha fatto della storia tecnico-militare una sorta di anticipatrice della Global History. I processi temporali e spaziali di diffusione delle tecnologie si sono rivelati degli elementi formidabili nella costruzione di narrazioni globali, che in certi casi si sono spinte a tracciare l’intera vicenda del genere umano: se ne è avvalso ad esempio Jared Diamond in lavori che hanno avuto risonanza mondiale e generato anche accuse di determinismo da parte degli storici, sebbene più a livello geografico che tecnologico.12 Nonostante questa dimensione del lungo (talvolta lunghissimo) periodo, la storia contemporanea deve essere considerata pienamente protagonista della temperie determinatasi intorno agli anni Ottanta. Se pensiamo solo all’Ottocento e al primo scorcio di Novecento, viene gettata nuova luce sull’evoluzione tecnologica e sulle campagne coloniali dell’imperialismo;13 sui legami tra l’industria delle armi e l’incubazione del fordismo in America;14 sulle prime corse agli armamenti e il loro im9. Cfr. A. Roland, Technology and War. The Historiographical Revolution of the 1980s, in «Technology and Culture», 34 (1993), pp. 117-134. 10. W.H. McNeill, Caccia al potere. Tecnologia, armi, realtà sociale dall’anno Mille, Milano 1984 (ed. or. 1982). 11. G. Parker, The Military Revolution: Military Innovation and the Rise of the West, 1500-1800, Cambridge 1988. 12. J. Diamond, Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, Torino 1998; Id., Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere, Torino 2005. Sulle controversie generate dall’autore, cfr. G. Callahan, The Diamond Fallacy, http://mises.org/daily/1774. 13. D.R. Headrick, Al servizio dell’impero. Tecnologia e imperialismo europeo nell’Ottocento, Bologna 1984. 14. Cfr. ad esempio M.R. Smith, Harper’s Ferry Armory and the New Technology. The Challenge of Change, Ithaca 1977; D.A. Hounshell, From the American System to Mass Production, Baltimore 1984.

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patto sulle classi dirigenti dell’epoca.15 Ma anche per quanto riguarda l’età delle guerre mondiali e la guerra fredda, si registrano ricerche che nutriranno la riflessione storiografica successiva. Particolare rilevanza assume la storiografia sulla bomba atomica e sul fattore nucleare nella guerra fredda: si tratta del “caso supremo” in cui la tecnologia sembra debba essere posta alla base della ricostruzione storica. 3. Cos’è una rivoluzione tecnologico-militare? Con gli anni Novanta, la fine del confronto Est-Ovest apre una nuova stagione (tuttora in corso) in cui gli studiosi sono portati a cercare di conferire un senso all’intera parabola novecentesca e a spiegare le ragioni tecnologiche alla base dell’ascesa degli Stati Uniti e della vittoria americana nella guerra fredda. Il tutto si intreccia al dibattito che si apre sul fatto se sia o meno in corso una Revolution in Military Affairs (Rma), centrata sulle tecnologie informatiche e guidata dagli Stati Uniti, tale da far parlare di una fase completamente nuova nella storia tecnologica della guerra. Corollario di tale prospettiva è che l’Urss ha perduto la guerra fredda anche perché ha mancato il treno della rivoluzione informatica, e i suoi vertici hanno dovuto alzare a un certo punto bandiera bianca, riconoscendo l’impossibilità di continuare a sfidare gli Stati Uniti per il primato tecnologico. Il ripiegamento gorbacioviano avrebbe dunque avuto una forte “base tecnica”. Uno dei libri simbolo di questa stagione di trapasso è il volume di Alvin e Heidi Toffler del 1993 su War and Anti-War.16 Gli autori abbracciano senza dubbi la tesi che sia in atto una rivoluzione tecnologica che ben presto renderà obsoleti gli arsenali del XX secolo. Essa è basata sui rapidi e determinanti sviluppi dell’Information Technology, ultima frontiera della sfida americana. I Toffler riprendono, se vogliamo, la prospettiva di Quincy Wright, cercando di spiegare i grandi cicli della storia in termini di evoluzione tecnologica applicata agli armamenti.17 È l’avvento di nuove tecnologie a segnare le cesure storiche, come è avvenuto nel passaggio dalle civiltà agricole – conduttrici 15. Esempio importante è lo studio di P. Kennedy, The Rise of the Anglo-German Antagonism, 1860-1914, Boston 1980. 16. A. Toffler, H. Toffler, War and anti-war. Survival at the dawn of the 21st century, Boston 1993. 17. Cfr. A. Roland, Technology and War, 2. The Transformation of Conventional War, http://www.unc.edu/depts/diplomat/AD_Issues/amdipl_4/roland2.html.

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della war of muscle power – a quelle industriali – che introducono la war of machines. Ora starebbe avvenendo un nuovo passaggio, dalla guerra industriale “classica” a conflitti di tipo “post-industriale”, in cui la gestione del flusso di informazioni in tempo reale condiziona il tipo di armamenti e il loro coordinamento nella macchina bellica. È opportuno notare che secondo questa visione, a prescindere dalla sua fondatezza, sta terminando il ciclo storico che Wright aveva fatto iniziare nel Cinquecento, con la rivoluzione della polvere da sparo. La storia starebbe dunque rompendo un orizzonte plurisecolare per addentrarsi verso imprevedibili sviluppi. Mi sembra interessante rilevare, su questo punto della discontinuità storica, una differenza fondamentale rispetto a un altro libro di quegli anni che pure riflette l’“euforia” occidentale, e in particolare statunitense, per la vittoria nella guerra fredda: la Fine della Storia di Francis Fukuyama,18 che invece considera l’umanità giunta all’ultimo stadio del suo sviluppo, vale a dire la liberaldemocrazia capitalista. La chiave di lettura militare-tecnologica non può condividere il senso di approdo ultimo hegeliano della chiave politico-economica. Il dibattito sulla Rma è legato anche alle letture che vengono date della guerra del Golfo del 1991: i teorizzatori della rivoluzione in corso scorgono proprio in questo conflitto la prova delle loro convinzioni. A essi si contrappone chi mette in dubbio il carattere realmente innovativo delle operazioni condotte nel deserto. Gli studiosi più accorti propongono di uscire da una disputa tutta schiacciata sul presente, per cercare nella storia della guerra elementi utili a valutare con equilibrio gli sviluppi contemporanei. Un importante convegno sulla fondatezza o meno della Rma, svoltosi alla Naval Postgraduate School di Monterey (California) nel 1996, alla presenza di illustri storici della tecnologia militare, si trasforma in un serrato confronto sulle più importanti rivoluzioni tecniche-militari avvenute nella storia dell’umanità.19 I partecipanti (singolarmente, senza un consenso unanime) individuano alla fine 25 rivoluzioni militari nel corso della storia, di cui ben 19 sono tecnologiche. L’evoluzione tecnologica emerge come il fattore chiave che condiziona la storia della guerra e plasma le caratteristiche che assume il combattere nei diversi periodi storici. Per quanto concerne la fase dalla seconda guerra mondiale a oggi, vengono suggerite tre rivoluzioni: quella legata alla formula “ricerca e sviluppo”, che ha nelle armi nucleari il campo maggiore di applicazione; gli sviluppi legati alla microelettronica e all’ingegneria genetica; i mutamenti nel campo dell’informazione (satelliti, Internet, gps, ecc.). 18. F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Milano 1992. 19. Sull’andamento del convegno cfr. Roland, Technology and War, 2.

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Sorge un significativo dibattito fra gli studiosi presenti su cosa si debba intendere per rivoluzione militare e per rivoluzione militare-tecnologica in particolare. Ogni studioso è chiamato a difendere le proprie indicazioni e a pronunciarsi su quelle dei colleghi. Non c’è accordo sull’esistenza reale di una Rma: cinque studiosi la accettano, quattro no, ma questa ristretta maggioranza non convince con le proprie argomentazioni il discussant Barry Posen. Questi sostiene un concetto che in quegli anni, e anche dopo, riscuote consensi presso vari studiosi: gli arsenali delle potenze, nel segno della crescente accelerazione tecnologica, si sono aggiornati in continuazione dopo il 1945 e quindi gli sviluppi del Golfo e dintorni sono in linea di continuità con tutto quanto è avvenuto negli ultimi decenni. La guerra fredda e il grande incubo nucleare hanno fatto passare sotto silenzio i terribili e incessanti sviluppi della guerra “convenzionale”, la sua complessità sempre maggiore, ma con gli anni Novanta e la Tempesta nel Deserto si è passati dagli scenari della guerra impensabile, quella termonucleare, al carattere in ogni caso spaventosamente distruttivo della guerra reale. Però si tratta di un mutamento mediatico e di percezione, piuttosto che tecnologico: sotto quest’ultimo profilo, siamo ancora figli del 1945 piuttosto che del 1989-91.20 Nel complesso, la conferenza di Monterey rilancia la centralità storica del nesso guerra-tecnologia. Emergono, nel corso dei lavori e nel dibattito successivo, varie questioni sulla natura e sul potenziale esplicativo di tale nesso sul corso storico generale; viene lanciata una sfida per ulteriori ricerche e approfondimenti che nell’ultimo quarto di secolo è stata raccolta con risultati incoraggianti. Ha visto infatti la luce una ricca messe di studi, della quale appare impossibile tracciare un quadro esauriente. Proverò almeno a individuare dei nodi tematici relativi all’età contemporanea che hanno assunto rilievo nel dibattito storiografico. 4. Le peculiarità del Novecento: un secolo “spezzato”? Le ricerche e le riflessioni dei contemporaneisti hanno fatto emergere un blocco cronologico che potremmo definire “età dell’acciaio”, dal 1870 circa al 1945, caratterizzato dall’impatto della seconda rivoluzione indu20. Cfr. le considerazioni riassuntive di W. Murray, Lessons Learned or not Learned. The Gulf War in Retrospect, in The Use of Force after the Cold War, a cura di H.W. Brands, College Station (TX) 2000, pp. 101-107.

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striale sugli armamenti.21 L’insistenza su questa finestra temporale costituisce una sorta di “alternativa tecnologica” a periodizzazioni incentrate sullo spartiacque del 1914. Ciò che conferisce una particolare coesione all’arco 1870-1945 è la nuova relazione che si stabilisce fra tecnici, industriali, politici e militari, nel segno del crescente (per quanto non lineare) intervento dello Stato per favorire l’ammodernamento tecnologico delle proprie forze armate. Al di là del piano prettamente militare, entrano in gioco interagendo tra loro complessi fenomeni storici come la nazionalizzazione delle masse, l’imperialismo, la corsa alla spartizione coloniale, i mutamenti nella percezione dello spazio e del tempo vissuti dalle classi dirigenti e da interi popoli.22 Entra in campo la grande industria sempre più automatizzata (i mattatoi di Chicago, la Ford a Detroit come icone del processo), che segna una netta discontinuità rispetto alla prima fase industriale (periodo 1700-1850, caratterizzato da una sostanziale staticità degli armamenti) e rende concepibili gli eserciti di massa del 1914.23 Accettare l’unitarietà del blocco 1870-1945 vuol dire collocare una cesura forte alla metà del XX secolo: invece del secolo breve di Hobsbawm abbiamo piuttosto un secolo spezzato, che nella sua seconda parte vede aprirsi scenari inediti proprio in ragione della bruciante accelerazione tecnologica dell’età dell’acciaio. La linea divisoria è rappresentata dalla comparsa dell’arma atomica e più in generale dalla constatazione che nuove grandi guerre fra potenze scatenerebbero un meccanismo distruttivo in cui il gioco non vale più la candela. Gli armamenti nucleari assumono la duplice veste di culmine della corsa tecnico-militare del 1870-1945 e di apertura al tempo stesso di una nuova fase (che ancora viviamo), in cui le regole tradizionali della politica e della guerra sono poste radicalmente in discussione. Il fungo di Hiroshima appare, insomma, come un filo rosso del Novecento straordinariamente pregnante, in grado di rappresentare sia 21. Cfr. le osservazioni di L. Paggi, Un “secolo spezzato”. Le periodizzazioni e la ricerca di identità, in L’età degli estremi. Discutendo con Hobsbawm del Secolo breve, a cura di S. Pons, Roma 1998, pp. 82 ss. Si osservi anche come l’innovativa Storia del mondo curata da J. Osterhammel e A. Iriye, in cui lo sviluppo e la diffusione delle tecnologie occupano un posto cruciale, individua una unitarietà del periodo 1870-1945, a cui è dedicato il quinto volume: I mercati e le guerre mondiali, 1870-1945, a cura di E.S. Rosenberg, Torino 2015. 22. Cfr. S. Kern, Il tempo e lo spazio. La percezione del mondo tra Otto e Novecento, Bologna 1988. 23. Cfr. D. Pick, La guerra nella cultura contemporanea, Roma-Bari 1994.

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gli scenari dell’età delle guerre mondiali che quelli successivi della guerra fredda: un elemento quindi di separazione nel mezzo del secolo, ma anche di profonda unità. Con l’avvento del nucleare si tocca lo zenit del fattore tecnologicomilitare come chiave esplicativa dell’intero processo storico. Si tratta del tema che più è andato al di là della cerchia degli storici militari e della tecnologia, occupando studiosi di tutti gli altri ambiti. Il nucleare dà il segno a un’intera epoca, determinando l’entrata nell’età della possibile autoestinzione del genere umano, con tutte le note implicazioni che spaziano dalla filosofia alle scienze ambientali. Secondo alcuni si determina la rottura epocale di un ciclo risalente almeno al Cinquecento. Il nesso guerra-tecnologia sembra alterare in una misura senza precedenti il corso della storia mondiale: nell’età delle armi nucleari non sono più concepibili conflitti tra le principali potenze.24 Alcuni studiosi hanno insistito sui rischi deterministici di una simile prospettiva, rintracciando nel passato della storia europea altri periodi pluridecennali di assenza di grandi conflitti. Si è tornati in particolare a riflettere sulla pax britannica ottocentesca e su quella che Karl Polanyi aveva definito la Pace dei cento anni.25 A tal proposito, appare proponibile un parallelo fra alcuni conflitti locali della guerra fredda (specie in Africa) e le campagne coloniali ottocentesche: in entrambi i casi si tratterebbe di “valvole di sfogo” che recano sì un certo grado di pericolo di deflagrazione generale, ma in realtà sono soprattutto un elemento stabilizzatore dell’equilibrio generale e un test per nuovi armamenti e dottrine operative.26 Una differenza fondamentale tra le fasi “incruente” del passato e la lunga pace nucleare risiederebbe però nel fatto che quest’ultima riposa su una ragione tecnologica, vale a dire l’eccezionale distruttività delle armi che verrebbero impiegate. Prima e dopo il 1945, la ricerca ha individuato un’altra specificità cruciale del secolo, “spezzato” o meno che sia: assai più delle epoche precedenti, non solo la tecnologia influenza la guerra, ma quest’ultima influenza in modo decisivo la prima, alterandone tempi, priorità, ambiti e forme 24. Cfr. J.E. Mueller, Retreat from Doomsday. The Obsolescence of Major War, New York 1989; M. Mandelbaum, Is Major War Obsolete?, in «Survival», 40 (1998-99), 4, pp. 20-38. 25. K. Polanyi, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Torino 2010 (ed. or. 1944). 26. Cfr. O.A. Westad, The Global Cold War. Third World Interventions and the Making of our Times, Cambridge 2005.

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organizzative. Per la seconda guerra mondiale, ad esempio, si è messo in evidenza come i programmi di ricerca dei paesi belligeranti producano una accelerazione tecnologica che poi caratterizzerà gli sviluppi dell’economia civile dopo il 1945. Si pensi solo all’energia nucleare, al computer, alla propulsione a reazione e alla missilistica, ai sistemi radar e agli elicotteri. Il ciclo di globalizzazione a guida americana del trentennio successivo al 1945 è figlio del primato tecnico raggiunto dall’«arsenale delle democrazie» voluto da Roosevelt.27 Di quest’ultimo è stata opportunamente indagata la consapevolezza tecnologico-militare che nutre il suo disegno di politica internazionale: nell’età del bombardiere intercontinentale la sicurezza degli Usa non può più affidarsi alle vecchie ricette dell’isolazionismo.28 Non a caso, egli comprende immediatamente l’importanza che il suo paese arrivi primo nella corsa alla bomba atomica. 5. L’American Way of War Il grande laboratorio d’indagine sui caratteri dell’età nucleare è stata proprio l’America, vale a dire il paese che più si è preparato agli scenari di un conflitto combattuto con le armi atomiche, che più ha riflettuto su di esse, avendo tra l’altro condotto l’unica guerra atomica mai avvenuta. Sono stati dunque gli storici americani in prima fila nel cercare di sviscerare tutte le problematiche e le implicazioni determinatesi dal 1945 in poi. Anche in quest’ambito gli anni Ottanta sono stati cruciali perché hanno visto gli storici conquistare uno spazio più significativo che in passato rispetto alle altre scienze sociali, grazie anche al “naturale” effetto della profondità temporale. Questo sviluppo degli studi è avvenuto inoltre sotto la spinta del grande dibattito, legato alla “seconda guerra fredda”, sulla sostenibilità o meno di un conflitto nucleare. Gli Stati Uniti rappresentano all’epoca il paese in cui più si era cercato (riuscendovi in misura significativa) di mobilitare la popolazione nel segno della possibilità di combattere e vincere uno scontro nucleare; su questo punto si registra una netta differenza con l’opinione pubblica europea occidentale, che non denota 27. Cfr. gli spunti in A.H. Molina, The Social Basis of the Microelectronics Revolution, Edinburgh 1989. 28. Cfr. J.S. Underwood, The Wings of Democracy. The Influence of Air Power on the Roosevelt Administration 1933-1941, College Station (TX) 1991.

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alcuna fiducia patriottica al riguardo. Quando nel novembre del 1983 la rete televisiva Abc mostra a decine di milioni di americani il film The Day After, che racconta gli effetti spaventosi di un attacco nucleare al territorio nazionale, l’impressione è enorme.29 Forse per la prima volta si spiega allo spettatore americano medio, in prima serata, che l’inverno nucleare potrebbe cancellare la vita sulla faccia della Terra. Si levano accuse di disfattismo e pacifismo imbelle da parte di associazioni patriottiche e ambienti legati alle forze armate e al complesso militare-industriale. Si svolgono veglie per la pace in alcune delle città che nel film vengono raffigurate completamente distrutte. Decenni di rassicurazioni governative sulla capacità del paese di fronteggiare qualsiasi minaccia vengono messe in discussione e il dibattito che si apre si intreccerà col quarantennale di Hiroshima, che ufficialmente continua a svolgersi come celebrazione della vittoria e della tecnologia americana.30 In questi anni gli storici gettano nuova luce sull’avvento dell’era atomica: tra le chiavi di lettura messe a frutto vi è la nascita della Big Science e la condizione di tecnici e scienziati militarizzati.31 Il Progetto Manhattan viene analizzato non come avventura singolare e quasi irripetibile, secondo la raffigurazione “romantica” e propagandistica che aveva avuto corso nel dopoguerra, ma come il determinarsi, consapevolmente ricercato, di un modo di mettere la scienza e la tecnica al servizio degli armamenti che diventerà pratica abituale nel corso della guerra fredda.32 Quest’ultima rappresenta l’ambiente favorevole per la prosecuzione di quel modello di mobilitazione delle risorse nazionali che aveva consentito agli Stati Uniti di uscire definitivamente dalla depressione economica. Con questo non si è inteso però fornire spiegazioni rozzamente economiciste delle origini della guerra fredda. Si tratta però di riflettere sul fatto che la guerra fredda consolida e “cristallizza” un modello di organizzazione militare, tecnica e produttiva che si afferma con la seconda guerra mondiale e che sopravviverà alla caduta del muro di Berlino. L’arma atomica è l’elemento principe di questo modello e la dimostrazione che i conflitti futuri non si vinceranno semplicemente con la 29. Cfr. Ch.E. Gannon, Rumors of War and Infernal Machines, Lanham 2005, pp. 128-137. 30. Si veda Hiroshima in History and Memory, a cura di M.J. Hogan, New York 1996. 31. Cfr. ad esempio S.W. Leslie, The Cold War and American Science. The Military Industrial Academic Complex at MIT and Stanford, New York 1993. 32. Cfr. R. Rhodes, L’invenzione della bomba atomica, Milano 1990.

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supremazia fordista nell’ingrandire gli arsenali, ma anche se non soprattutto con la capacità di trovarsi all’avanguardia tecnologica. La spasmodica ricerca della superiorità tecnica in ogni campo (sino a forme di culto della tecnologia)33 si traduce in un potere di distruzione di massa senza precedenti, che rappresenta l’altra faccia della medaglia dell’American Way of Life e della produzione di massa.34 Il caso statunitense è quello in cui più chiaramente emerge un intreccio inestricabile tra tecnologia di guerra e di pace. Il sistema difensivo americano, nel corso della guerra fredda, riserva quote crescenti del proprio bilancio alla attività di ricerca,35 con ricadute fondamentali anche sul piano civile; interi cicli produttivi vengono già progettati con una finalità dual use, e la Reaganomics degli anni Ottanta secondo molti vedrebbe una applicazione rinnovata e sistematica di tale principio. In quest’ambito si completa il passaggio storico dei militari da «guerrieri» a «manager della violenza».36 La fine della guerra fredda non sembra alterare i caratteri principali del modello americano, che continua a essere segnato dal nesso tecnologicomilitare. Si tratta di una delle principali eredità del Novecento nel mondo del XXI secolo: non si può più concepire un ruolo di potenza senza un esteso complesso militare-industriale alle spalle, che anche in tempo di pace si sviluppa e condiziona permanentemente la vita pubblica.37 Questo fatto rappresenta oggi una delle principali fonti di legittimazione del ruolo nazionale svolto dal Partito comunista cinese. 33. Cfr. ad esempio il concetto di «technological fanaticism» in M.S. Sherry, The Rise of American Air Power. The Creation of Armageddon, New Haven 1987. 34. Cfr. Th.G. Mahnken, Technology and the American Way of War since 1945, New York 2008. 35. Nel 1940, il governo americano e le imprese nazionali spendono circa un miliardo di dollari in ricerca applicata agli armamenti; nel 1985, il solo Dipartimento della Difesa stanzia 30 miliardi. Sul totale delle spese militari del paese, il settore Ricerca e sviluppo passa dal 5% alla fine del secondo conflitto mondiale a oltre il 50% della metà degli anni Settanta. 36. Roland, Technology and War, 2. 37. Si tratta di un’eredità della seconda guerra mondiale prima ancora che della guerra fredda. Cfr. World War II and the transformation of business systems. The International Conference on Business History 20: Proceedings of the Fuji Conference, a cura di J. Sakudō, T. Shiba, Tokyo 1994. Sulla declinazione sovietica del fenomeno, si vedano D. Holloway, L’Unione Sovietica e la corsa agli armamenti, Bologna 1984; Id., Stalin and the Bomb. The Soviet Union and Atomic Energy, 1939-1956, New Haven-London 1994; The Soviet Defence-Industry Complex from Stalin to Khrushchev, a cura di J. Barber, M. Harrison, New York 2000; I. Bystrova, Russian Military-Industrial Complex, in «Aleksantery Papers», 2 (2011), http://www.helsinki.fi/aleksanteri/julkaisut/tiedostot/ap_2-2011.pdf.

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Quello americano è il modello della guerra delle macchine, in cui la percentuale dei soldati schierati sul campo diventa sempre più minoritaria rispetto alle schiere di tecnici, operatori degli armamenti a distanza, addetti alla logistica.38 Per giocare metaforicamente con un altro noto film degli anni Ottanta, esso rappresenta la negazione ma anche paradossalmente l’affermazione del paradigma Rambo, nel senso che nella pellicola è l’uomo stesso, reduce del Vietnam, a farsi simbolicamente macchina da guerra.39 Gli studiosi hanno lavorato su questo tema, articolandolo al livello della storia del complesso militare-industriale, dei programmi continui di aggiornamento degli armamenti (ciò in collegamento col problema economico e sociale del “keynesismo militare”),40 di come questo modello guerresco interagisce con la politica e viene proposto all’opinione pubblica. Questi ultimi spunti rimandano al tema parallelo “tecnologia e democrazia”, che è stato affrontato soprattutto in relazione alla società statunitense. Ci riferiamo a questioni come il funzionamento della democrazia rappresentativa in rapporto a una guerra totale termonucleare che sarà forse decisa dal presidente e da un pugno di collaboratori in pochi minuti;41 ai progetti di mobilized society che intendono coinvolgere l’intera popolazione nei preparativi militari in tempo di pace, attraverso i programmi di addestramento della difesa civile antiatomica.42 Un altro filone di ricerca (collegato al precedente) è quello incentrato sulla guerra del Vietnam, che ha attirato molto gli studiosi per il suo significato, almeno apparente, di “lezione antitecnologica” che incrina le certezze della macchina bellica americana. In Indocina gli statunitensi intendono program38. Cfr. gli spunti in Feeding Mars. Logistics in Western Warfare from the Middle Ages to the Present, a cura di J.A. Lynn, San Francisco 1993. 39. Cfr. G.A. Waller, Rambo: Getting to Win This Time, in From Hanoi to Hollywood. The Vietnam War in American Film, a cura di L. Dittmar, G. Michaud, New BrunswickLondon 1990, pp. 113-128. 40. Si è parlato a tal proposito di obsolescenza programmata degli armamenti e del passaggio dall’organizzazione della produzione di singoli modelli ai cosiddetti sistemi d’arma. Cfr. Mahnken, Technology and the American Way of War; F. Osler Hampson, Unguided Missiles. How America Buys its Weapons, New York 1989; per il caso britannico, G. Hartcut, The Silent Revolution. Development of conventional Weapons, 1945-1985, London 1993. 41. Cfr. E. Scarry, Thermonuclear Monarchy. Choosing between Democracy and Doom, New York 2014; B.M. Russett, Democracy, Public Opinion and Nuclear Weapons, in Behavior, Society and Nuclear War, Oxford 1989, pp. 174-208. 42. Cfr. ad esempio L. McEnaney, Civil Defense Begins at Home. Militarization Meets Everyday Life in the Fifties, Princeton-Oxford 2000.

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maticamente far valere il loro strapotere tecnologico e la ricerca ha evidenziato come il decennio vietnamita (1965-75) veda un intreccio tra l’escalation del conflitto e la crescita della richiesta di armi sempre più sofisticate nell’ambito del complesso militare-industriale americano. Gli Stati Uniti confermano di essere in grado di produrre distruzioni enormi e immediate su vasta scala, i cui effetti vengono attentamente monitorati da una minuziosa organizzazione statistica (anche in questo senso è una guerra industriale, con le sue procedure di controllo della qualità e adattamento delle catene di montaggio).43 Il Vietnam del Nord viene a un certo punto bombardato come se fosse una grande potenza industrializzata, secondo il modello della campagna aerea contro Germania e Giappone della seconda guerra mondiale. La sproporzione tra le ingenti perdite vietnamite e quelle americane è impressionante, eppure non basta agli americani per raggiungere la vittoria.44 Ciò però non determina una vera crisi del paradigma fordista e tecnologico imperante a Washington, ma solo un suo processo di ricalibratura e adattamento (che influirà anche su armamenti e dottrine operative della Nato in Europa). I vertici politici e militari americani non mettono in discussione gli imperativi tecnologici del sistema, bensì pongono sotto esame la tecnologia esistente e il modo in cui è stata utilizzata nel delta del Mekong: la conclusione è che serve un nuovo ciclo di ammodernamento tecnologico delle forze armate, il che conferma gli schemi del keynesismo militare e della sfida tecnologica a oltranza.45 Un particolare interesse ha suscitato la figura di Robert McNamara, che incarna in modo irripetibile e inimitabile l’intreccio tra produzione e distruzione di massa nel modello americano, con il suo percorso da presidente della Ford a massimo responsabile della macchina bellica a stelle e strisce; a ciò dobbiamo aggiungere il suo successivo percorso di riflessione storica ed etica sulle vicende del Vietnam e sulla guerra fredda in generale. La ricerca, e la stessa testimonianza fornita dal protagonista, hanno chiarito lo spirito manageriale e fordista con cui affronta la guerra e il graduale manifestarsi dei suoi dubbi dinanzi all’insufficienza di misure che di volta in volta erano state giudicate come risolutive.46 Il fatto che a capo della 43. Cfr. G.A. Daddis, No Sure Victory. Measuring U.S. Army Effectiveness and Progress in the Vietnam War, New York 2011. 44. Cfr. M. Clodfelter, The Limits of Airpower. The American Bombing of North Vietnam, New York-London 1989. 45. Roland, Technology and War, 2. 46. Al riguardo è sempre utile G. Palmer, The McNamara Strategy and the Vietnam War. Program Budgeting in the Pentagon, 1960-1968, Westport-London 1978. Si veda

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guerra ci sia un manager conduce all’apice un’impostazione “produttivista” delle operazioni militari non priva di successi parziali, che però fallisce a livello complessivo nel momento in cui non è accompagnata da una corretta lettura socio-politica del contesto in cui si agisce. 6. La chiave delle comunicazioni Nonostante la prossimità temporale, anche il dopo guerra fredda è stato oggetto di incursioni dei contemporaneisti, a volte in veste di commentatori, oppure a margine conclusivo di loro ricerche sugli anni precedenti. Come abbiamo accennato, il dibattito è stato molto condizionato dagli sviluppi in campo informatico e delle comunicazioni, il che ha probabilmente favorito nuove riflessioni di più lungo periodo su come l’evoluzione del sistema di diffusione delle informazioni ha influito sul corso della guerra. Di particolare rilievo appaiono al riguardo studi recenti come quello di Peter Hugill sulle Comunicazioni mondiali dal 1844.47 L’autore illumina e interpreta in modo originale questioni storiche di lunga durata, come ad esempio la strategia britannica per fronteggiare la sfida egemonica lanciata da Germania e Stati Uniti a partire dalla seconda rivoluzione industriale. La capacità della Gran Bretagna di mantenere un ruolo di primo piano nel campo delle comunicazioni, dalla radio al radar e anche oltre, aiuta a comprendere come Londra riesca a mantenere una posizione di grande influenza nonostante il suo declino complessivo, conservando pure dopo il 1945 una relazione speciale con Washington, che continua a dipendere da determinati ambiti della tecnologia britannica. La chiave di lettura tecnica si rivela insomma di importanza fondamentale, e riguarda anche strumenti e ricerche che non sono di valore unicamente militare. Risulta inoltre confermato l’assunto che buona parte degli sviluppi fondamentali della inoltre R.S. McNamara (con B. VanDeMark), In Retrospect: The Tragedy and Lessons of Vietnam, New York 1995. 47. P.J. Hugill, Le comunicazioni mondiali dal 1844. Geopolitica e tecnologia, Milano 2005. Di notevole importanza anche il precedente lavoro di D.R. Headrick, The Invisible Weapon. Telecommunications and International Politics, 1851-1945, New York-Oxford 1991. Da osservare che, mentre Headrick si arresta nella sua ricostruzione alla fine della seconda guerra mondiale, Hugill si spinge fino ai primi anni Settanta, sulla soglia della rivoluzione informatica. Ciò indica l’importanza da lui assegnata a una cesura tecnologica in parte alternativa sia al 1945 che al 1989-1991.

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tecnologia novecentesca sono segnati dal fattore militare, sebbene non in modo univoco e deterministico.48 Il termine a quo scelto da Hugill non è casuale, in quanto si riferisce alle prime trasmissioni telegrafiche. Una delle specificità del nesso guerratecnologia in età contemporanea viene individuata nella serie di rivoluzioni che avvengono nel campo delle telecomunicazioni, dal telegrafo alla radio, dal telefono alla telescrivente, dalla rivoluzione satellitare a internet. Sono tutte innovazioni tecnologiche in cui in partenza vi è un nesso inestricabile fra interessi economici e militari, in forme inedite e in tempi enormemente accelerati rispetto al passato. Si entra in una fase storica in cui spesso nel corso di una stessa generazione mutano caratteri fondamentali della quotidianità tecnologica (e questa lezione va al di là del piano delle comunicazioni). L’impatto sull’organizzazione militare è sempre più stringente e sempre più ineludibile per chi si occupa di storia politica e delle relazioni internazionali. La crisi dei missili di Cuba assume certe caratteristiche e una particolare evoluzione anche perché si svolge in una determinata “finestra” temporale tecnologica (dieci anni prima o dopo non sarebbe la stessa cosa). La chiave delle comunicazioni è stata applicata anche a guerre del tempo presente che hanno alimentato il dibattito fra gli studiosi, ad esempio a quelle che hanno avuto come teatro l’Iraq, a partire dal conflitto contro l’Iran degli anni Ottanta. Per certi versi, si può dire che abbia preso quasi corpo un nuovo paradigma mesopotamico, da distinguere rispetto a quello tradizionale popolato dai Sumeri, dagli Ittiti e dagli Assiri. L’Iraq è stato visto come il laboratorio dove sono stati sperimentati tutta una serie di moderni ritrovati tecnologici, alla ricerca di conferme per varie dottrine operative.49 La campagna del 1991 sotto l’egida dell’Onu, in particolare, è stata a suo tempo descritta come lo scontro tra un vedente e un cieco: nelle prime vesti opera la coalizione a guida americana, che si avvale delle più moderne tecniche di comunicazione ed è in grado di impedire quelle del nemico; nelle seconde troviamo le truppe di Saddam, che non hanno conosciuto il necessario aggiornamento (lo schema si ripete in modo ancora più accentuato all’epoca del conflitto del 2003, che reca tutte le novità della 48. Cfr. la recensione al volume di Hugill di J. Coopersmith, in «The Business History Review», 74/2 (2000), pp. 307-309. 49. Cfr. R.P. Hallion, Storm over Iraq. Air Power and the Gulf War, Washington 1992; J.F. Dunnigan, A. Bay, From Shield to Storm: High-Tech Weapons, Military Strategy, and Coalition Warfare in the Persian Gulf, New York 1992; W. Murray, R.H. Scales Jr., The Iraq War: A Military History, Cambridge (MA) 2003.

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accelerazione informatica). L’interrogativo che sorge nel corso degli anni Novanta è, per dirla con una formula, se nell’età dell’informazione e del controllo satellitare saranno possibili nuovi Vietnam e nuovi sentieri di Ho Chi Minh. I vietcong hanno resistito al napalm, ma forse non sarebbero stati in grado di sfuggire all’occhio del gps. Da questa prospettiva può scaturire la conclusione che, dinanzi a uno strabordante potere di comunicazione e controllo del territorio, l’unica forma possibile di guerra asimmetrica diventa quella di ristretti nuclei mimetizzati: la via terroristica stile Al Qaeda. Un simile approdo sembra però più una proiezione per il futuro che una concreta realtà tecnologica dei nostri tempi, come del resto le travagliate vicende mediorientali sembrano puntualmente confermare. 7. Alcuni principi a mo’ di conclusione A proposito del dibattito sugli ultimi anni, mi riconosco nella posizione di chi non ha ritenuto particolarmente periodizzante la fine della guerra fredda, con il corollario che siamo ancora figli del paradigma tecnologico che nel 1945 si stagliava sulle macerie di Dresda e Hiroshima. L’esempio più eloquente al riguardo è il carattere sostanzialmente immutato dell’American Way of War attraverso il passaggio del 1989-91 e la cosiddetta Rma. Su questa linea mi sembra attestato uno studioso, Alex Roland, che ha dedicato particolare attenzione a ricostruire le evoluzioni problematiche del nesso guerra-tecnologia e a confrontarsi con la relativa storiografia.50 In conclusione, propongo schematicamente per punti delle osservazioni generali su questo tema, in massima parte debitrici della sua riflessione di lungo corso: 1) non basta dire che la tecnologia non è di per sé né buona né cattiva, bisogna anche sottolineare che non è neutrale; 2) la tecnologia fornisce a società e governi delle possibilità che rappresentano una “porta aperta”, ma poi bisogna decidere se e come varcarla, il che porta a superare qualsiasi visione determinista; 3) la tecnologia militare non rappresenta un lato oscuro a sé del generale progresso tecnologico, ma è inestricabilmente intrecciata alle 50. Cfr. A. Roland, War and Technology, in Foreign Policy Research Institute, February 2009, http://www.fpri.org/articles/2009/02/war-and-technology.

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applicazioni civili e ciò vale particolarmente per l’età contemporanea (se fino all’Ottocento, con tutti i limiti dell’esperimento, si può provare a scrivere una storia del progresso tecnologico prescindendo dal fattore guerra, dalla seconda rivoluzione industriale l’esercizio risulta incomprensibile e intellettualmente disonesto); 4) un’altra peculiarità degli ultimi 150 anni è la misura senza precedenti in cui la tecnologia contribuisce a plasmare gli arsenali, le loro dottrine di utilizzo e le guerre stesse; specie a partire dalla seconda guerra mondiale, si determina una situazione in cui la tecnologia militare condiziona in modo rivoluzionario l’intero corso degli affari mondiali, la visione stessa del mondo, della storia, del posto del genere umano e del ruolo del progresso; 5) la bomba atomica è il fattore che più di ogni altro contribuisce a imprimere questo mutamento rivoluzionario, e la cesura da essa introdotta rimane l’ultimo grande spartiacque di una vicenda iniziata con la rivoluzione neolitica. Aggiungo che una grande sfida per gli storici che lavorano su questi temi mi sembra sia quella di contemperare in modo equilibrato, e di volta in volta convincente, l’interazione tra i fattori tecnologico-militari e gli altri elementi della ricostruzione storica. Un esempio specifico per i contemporaneisti: chi si occuperà di studiare e raccontare la risposta americana all’11 settembre non potrà prescindere dal piano tecnologico-militare. La decisione di scatenare guerre in piena regola in Afghanistan e in Iraq è legata anche alla scelta di muoversi su un terreno in cui si pensa di far valere la superiorità tecnologica del proprio apparato militare, secondo le modalità in cui tale apparato è stato addestrato a operare. Inoltre il Medio Oriente diventa un laboratorio ritenuto utile per verificare la riorganizzazione delle forze armate, alla luce del dibattito in corso sulla Rma. Ma tutti questi fattori dovranno essere posti in relazione con altri elementi pure imprescindibili: ad esempio, l’obiettivo di mobilitare in forme chiare la società americana contro un nemico non invisibile; i conti rimasti “aperti” dagli anni Novanta con il regime di Saddam Hussein; il controllo delle risorse petrolifere; la cultura e la visione del mondo dell’amministrazione Bush (pensiero “neocon” e dintorni) e via discorrendo. La chiave di lettura tecnologico-militare riveste una forza esplicativa di importanza fondamentale, che si accresce quanto più accelera il ritmo dello sviluppo tecnico, ma non potrà mai essere lo strumento assoluto che apre tutte le porte. Un

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compito rilevante degli storici è stato e sarà quello di moderare le visioni “tecnocentriche”, che ambiscono appunto a spiegare tutto con l’elemento tecnologico. Collegato a questo è il vecchio problema del rapporto tra la storia e quelle discipline, tecniche e sociali, che tendono a costruire delle teorie generali per spiegare i fenomeni studiati; teorie di cui lo storico può legittimamente avvalersi, ma sottoponendole sempre al vaglio della singola e irripetibile circostanza storica.

irene di Jorio Guerra e propaganda

1. Attualità di un binomio desueto A fine agosto 2014 Dick Costolo, l’amministratore delegato di Twitter, annunciava la decisione di sospendere tutti gli account in cui si trovassero link al video della decapitazione del giornalista statunitense James Foley da parte dell’Isis. Un servizio di micro-blogging – in apparenza trasparente e attivo su scala virtualmente planetaria – faceva una scelta editoriale o, per dirlo altrimenti, applicava una forma di censura.1 Twitter era seguito a ruota da Youtube e il dibattito sull’opportunità o meno di diffondere quelle immagini si sviluppava in rete.2 Ne seguivano minacce ai dipendenti di Twitter; poi, la migrazione dello Stato Islamico su altri social network3 e un gran parlare di questa guerra di propaganda online.4 Nove mesi più tardi, a fine maggio 2015, il «Courrier international» dedicava la sua copertina al Ritorno della propaganda, la cui pervasività non risparmiava alcuna latitudine: 1. E. Bell, Liberiamo le notizie («The Guardian»), in «Internazionale», 05 settembre 2014, p. 93. 2. Per una sintesi, A. Altman, Why Terrorists love Twitter, in «Time», 11 settembre 2014 e il blog di F. Chiusi, Contro la propaganda di ISIS su Twitter la censura non funziona, http://chiusinellarete-messaggeroveneto.blogautore.repubblica.it/2014/09/04/ contro-la-propaganda-di-isis-su-twitter-la-censura-non-funziona/ (consultato il 15 settembre 2014). 3. S. Gibbs, Islamic State moves to other social networks after Twitter clampdown, in «The Guardian», 21 agosto 2014. 4. Si veda, ad esempio: http://www.wired.it/attualita/media/2014/09/13/come-nonaffrontare-propaganda-online-isis/ (consultato il 15 settembre 2014).

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fra Washington e la Russia infuria la guerra dell’informazione, e anche l’Europa cerca di far sentire la sua voce. Ma il pubblico non ha più fiducia nei media. Lo scontro è diventato mondiale: in Medio-Oriente Daech ha capito l’interesse di ricorrere a Internet, mentre il potere di influenza della Cina inquieta l’Occidente.5

Sono alcuni esempi fra i tanti dell’attualità del binomio guerra e propaganda, parola che va qui intesa in senso etimologico, come comunicazione volontariamente persuasiva, quali che siano gli attori coinvolti (dittature o democrazie, stati o gruppi di varia natura), i media da loro usati o i contenuti da essi diffusi. È un binomio talmente scontato che si è perfino coniata un’espressione ironica per designare questo legame inscindibile: M&M’s che, in gergo, non indica un noto confetto al cioccolato ma la diade Military & Media. Questa persistente attualità è in parte legata all’evoluzione dei paesaggi mediatici: se «la quantità dei conflitti armati del periodo post-bipolare è inferiore a quella del periodo bipolare»,6 la copertura mediatica è infatti senz’altro aumentata.7 Ma esistono anche ragioni legate a quello che Jean-Marie Charon e Arnaud Mercier chiamano il «paradosso dell’informazione in tempo di guerra»: la contraddizione fondamentale fra una domanda d’informazione particolarmente intensa, servita da una mobilitazione eccezionale dei media, e la segretezza con cui le autorità politiche e soprattutto gli eserciti avvolgono l’essenziale delle operazioni, lasciando filtrare solo quello che corrisponde agli interessi delle manovre in corso, o quel che può suscitare l’adesione della popolazione.8

Binomio d’attualità, dunque, le cui questioni non attirano solo l’attenzione della stampa d’informazione, ma anche dei periodici specializzati e della letteratura accademica9 che, a giusto titolo, vedono nella comunica5. Le retour de la propagande, sezione monografica di «Courrier international», 2127 maggio 2015, pp. 1 e 34-41. 6. N. Labanca, Introduzione. Guerra fredda e postbipolarismo, passato e presente, storia e politica, in Guerre vecchie, guerre nuove, a cura di Id., Milano 2009, pp. 1-69. 7. F. Webster, Information Warfare in an Age of Globalization, in War and the Media. Reporting Conflict 24/7, a cura di D. Kishan Thussu, D. Freedman, London-Thousand Oaks-New Delhi 2003, pp. 57-69 (qui pp. 63-64). 8. J.-M. Charon, A. Mercier, Liminaire. Les enjeux médiatiques des guerres, in Armes de communication massive. Informations de guerre en Irak: 1991-2003, a cura di J.-M. Charon, A. Mercier, Paris 2003, pp. 5-27 (qui p. 9, traduzione nostra). 9. Per quanto riguarda il panorama storiografico italiano, sono ancora valide le considerazioni di N. Labanca e C. Zadra nell’introduzione del volume, da loro curato, Costruire un nemico. Studi di storia della propaganda di guerra, Roma 2011, pp. VII-XXV.

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zione un elemento costitutivo delle guerre attuali.10 Mi sembra che si stia assistendo da alcuni anni a un vero e proprio «Propaganda boom», per riprendere un’espressione utilizzata da Philip Taylor per descrivere l’ondata di studi sulla propaganda di guerra che caratterizzò l’inizio degli anni Ottanta.11 Riviste ad hoc, come «Media, War & Conflict»,12 tematizzano ormai apertamente il legame fra la guerra e le dinamiche comunicative; siti web, come quello del War and Media Network, favoriscono gli scambi fra mondo dell’informazione, accademico e militare;13 svariati progetti europei sono dedicati a questo nesso.14 Benché il binomio paia quindi attualissimo, non possiamo nasconderci che l’uso della parola propaganda crea spesso un certo disagio: essa sembra infatti rinviare non solo a qualcosa di antico – il che è normale perché «la propaganda è vecchia come la guerra stessa»15 – ma a qualcosa di intuitivamente desueto, datato, lessicalmente inadatto alla presunta novità delle cyber guerre o “guerre informatiche” del XXI secolo.16 Non è solo un’impressione. Se si esclude l’accezione spregiativa in cui la parola propaganda viene usata nella stampa o nei dibattiti pubblici (e questo uso abbonda), di propaganda si parla relativamente poco al giorno d’oggi. C’è chi ritiene che esista una distinzione pressoché ontologica fra comunicazione politica e propaganda, quest’ultima essendo incompatibile con un regime 10. Fino ad affermare che la comunicazione sarebbe la continuazione della guerra con altri mezzi, come S. Sonderling, Communication is war by other means. Towards a war-centric communication theory for the 21st century, in «Communicatio. South African Journal for Communication Theory and Research», 40/2 (2014), pp. 155-171. 11. P.M. Taylor, The New Propaganda Boom, in «The International History Review», 2/3 (1980), pp. 485-502. 12. Rivista fondata nel 2008, molto attenta alla dimensione dell’analisi del discorso e delle rappresentazioni (http://mwc.sagepub.com/ consultato il 15 settembre 2014). 13. http://www.warandmedia.org/ (consultato il 15 settembre 2014). 14. Ad esempio, il progetto Infocore, sul rapporto fra conflitti e informazione in Medio Oriente, nei Balcani e nella regione africana dei grandi laghi: http://www.infocore.eu/ (consultato il 15 settembre 2014). 15. Per riprendere le parole con cui si apre il tomo di oltre mille pagine curato da H. Coutau-Bégarie su Les médias et la guerre, Paris 2005. L’opera, che raccoglie i risultati dell’indagine condotta dalla Commission Française d’Histoire Militaire, offre uno sguardo diacronico largo sul rapporto fra i media e la guerra, dalla propaganda politico-militare della Grecia antica alla guerra d’Iraq del 2003. 16. Sull’idea di cyber guerra, M. Baud, La cyberguerre n’aura pas lieu, mais il faut s’y préparer, in «Politique étrangère», 77/2 (2012), pp. 305-316.

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democratico, se non in situazioni d’eccezione come appunto la guerra.17 Senz’altro, nelle riviste di scienze umane e sociali, si preferiscono altri termini, più “moderni”. È possibile farsene un’idea usando i database bibliografici, come quelli della ricca piattaforma Ebsco,18 e inserire in più lingue le parole chiave guerra e propaganda. Ne risulteranno, senza sorpresa, numerosissimi articoli e recensioni di opere sulle due guerre mondiali e la guerra fredda; quasi nulla sulle guerre post-bipolari, ad eccezione di scritti che vogliano esplicitamente ostentare un giudizio di valore negativo sulla forma di comunicazione analizzata (ad esempio, la propaganda jihadista). Questa discontinuità terminologica – che ci dice chiaramente quale sia il peso simbolico ormai assunto dalla parola – nasconde tuttavia una sostanziale continuità nell’interesse per le forme di comunicazione persuasiva all’epoca delle cosiddette “nuove guerre”. Con una particolarità: che per trovare quel che ci interessa dobbiamo parlare la lingua del politicamente accettabile e utilizzare sinonimi eufemizzanti, come marketing, advertising, information warfare, public diplomacy, soft power, nation brands, perception management.19 Appare allora evidente la costanza dell’interesse per questo nesso da parte del mondo accademico, ma anche da parte del mondo militare e commerciale. Anzi, percorrendo le pubblicazioni di questi ultimi anni, si ha l’impressione che, pur con altre parole, la sfera commerciale-comunicativa e quella militare si lancino fruttuosi sguardi incrociati. Riviste come la «Public Relations Review» dedicano un’attenzione crescente alla guerra, ai conflitti, agli eserciti e alla comunicazione strategica, che indicano d’altronde come uno dei possibili campi d’impiego per la professione delle PR.20 Si noti che, se la parola propaganda è bandita da queste riviste, esse non rinunciano tuttavia a dare una profondità storica allo studio delle loro loro pratiche, arrivando a parlare di public relations anche per 17. Cfr. G. Mazzoleni, L’incerto confine fra propaganda e comunicazione politica. Per una definizione contemporanea, in Propagande contro. Modelli di comunicazione politica nel XX secolo, a cura di A. Baravelli, Roma 2005, pp. 43-50 e La comunicazione politica, Bologna 2012 (ed. or. 1998). 18. https://www.ebscohost.com/ (consultato il 3 settembre 2015). 19. J. Pamment, Articulating Influence: Toward a research agenda for interpreting the evaluation of soft power, public diplomacy and nation brands, in «Public Relations Review», 40/1 (2014), pp. 50-59. 20. A. Gregory, Reviewing public relations research and scholarship in the 21st century, in «Public Relations Review», 38/1 (2012), pp. 1-4.

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la propaganda medievale.21 Egualmente frequenti sono i rimandi fra riviste di comunicazione e riviste di natura strategico-militare come «Studies in Conflict and Terrorism» o la «Military Review». Vorrei proprio partire da questi sguardi incrociati del tempo presente per proporre qualche spunto di riflessione, per nulla esaustivo, sul nesso che ci interessa: il legame fra guerra e propaganda in un mondo globale. E vorrei farlo adottando uno sguardo retrospettivo orientato, cercando – come consigliava Barraclough – quando i problemi che oggi sono attuali hanno assunto per la prima volta una loro chiara fisionomia.22 Per far questo, scelgo di partire da un dato di fatto – la polifonia della parola propaganda – che ci fornisce di per sé e nella sua storia svariate piste di riflessione: innanzitutto, sul modo attuale di concettualizzare (o non concettualizzare) la propaganda di guerra; quindi, sui principali assi tematici sui quali si è strutturata la ricerca su guerra e propaganda, ricerca che trascende – e pour cause – i confini disciplinari; infine, su certe questioni d’attualità le cui origini risalgono all’inizio del “secolo breve”. 2. Polifonia diacronica Come dicevamo, benché la parola propaganda sembri fuori moda, il nesso fra guerra e propaganda appare oggi più che evidente. Qualcuno ne parla come di una novità. Per gli storici è chiaro che, su questo terreno, siamo piuttosto su un registro di continuità con il Novecento,23 il “secolo della propaganda”. Con la massificazione della guerra e della politica, la comunicazione persuasiva diventa una dimensione costitutiva dei conflitti: lo diceva già il giovane Harold Lasswell nel 1927, quando definiva la propaganda un elemento costitutivo della moderna guerra totale («government management of opinion»).24 È in questo contesto – quello della pri21. J. Xifra, M.-R. Collell, Medieval propaganda, longue durée and New History. Towards a nonlinear approach to the history of public relations, in «Public Relations Review», 40/4 (2014), pp. 715-722. L’articolo è parte di un numero monografico dedicato alla storia delle public relations. 22. G. Barraclough, Guida alla storia contemporanea, Roma-Bari 2011 (ed. or. 1964). 23. Cfr. N. Labanca, Guerre del periodo postbipolare: la centralità della comunicazione, in Informazione di guerra, informazione in guerra, a cura di Id., Siena 2004, pp. 11-35. 24. H.D. Lasswell, Propaganda Technique in the World War, London-New York 1927, p. 15.

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ma guerra mondiale e del primo dopoguerra – che la parola propaganda, la cui accezione era fino ad allora più che positiva,25 assume una serie di connotazioni che continuano fino a oggi. La prima è quella della propaganda come arma di guerra, necessaria sia per rafforzare il fronte interno sia per minare il morale dei nemici, nel bene e nel male, come avrebbe scritto Willi Münzenberg nel suo libro sulla propaganda hitleriana, significativamente intitolato Propaganda als Waffe (La propaganda come arma), tradotto nel 1938 dal servizio informazioni dell’esercito francese con il titolo La propagande hitlérienne instrument de guerre. Non c’è bisogno di attardarsi. Va solo segnalato che questa accezione resta ben presente nella letteratura accademica, si tratti di studi sull’influenza delle immagini26 o sulla guerra psicologica, altra espressione che raramente gli analisti prendono il rischio di definire.27 Come arma, la propaganda ha un valore neutro. E questo conduce al secondo significato: quello della propaganda come insieme di vettori (tecnologie dell’informazione e tecniche di comunicazione persuasiva) che gli attori coinvolti nei conflitti contemporanei devono padroneggiare e la cui utilità va oltre la guerra: idea chiaramente espressa fin dagli anni Venti dal fondatore delle public relations negli Stati Uniti, Edward Bernays, quando affermava che, se si poteva usare la propaganda in guerra (cosa che lui stesso aveva fatto lavorando per il wilsoniano Committee on Public Information), la si poteva senz’altro utilizzare anche in tempo di pace.28 È in tal senso che la propaganda diventa – terza accezione – anche un oggetto di studio da parte del mondo militare, ma anche politico, commerciale e indubbiamente accademico. Harold Lasswell è certo uno degli apripista, ma dagli anni Venti in poi questo interesse non fa che crescere, dando luogo a una vera e propria esplosione di studi sulla propaganda di guerra, tanto negli Stati Uniti quanto in Europa.29 Nel 1933 un primo saggio biblio25. E.W. Fellows, “Propaganda”: History of a Word, in «American Speech», 34/3 (1959), pp. 182-189; F. d’Almeida, Propagande, histoire d’un mot disgracié, in «Mots. Les langages du politique», 23/69 (2002), pp. 137-148. 26. Ad esempio B. O’Loughlin, Images as weapons of war: representation, mediation and interpretation, in «Review of International Studies», 37/1 (2011), pp. 71-91. 27. F. Géré afferma che caratteristica dell’«arma psicologica» è di sfuggire a ogni definizione chiara e distinta (La guerre psychologique, Paris 1997, p. 15). 28. E. Bernays, Propaganda: della manipolazione dell’opinione pubblica in democrazia, Bologna 2008 (ed. or. 1928). 29. Pochi di questi classici sono stati tradotti in italiano.

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grafico conta all’incirca mille pubblicazioni su censura e propaganda di guerra;30 due anni dopo esce la colossale opera bibliografica su Propaganda and Promotional Activites, dal cui titolo si evince chiaramente la porosità dei confini fra pratiche e campi affini, come quello della propaganda politica e della comunicazione commerciale.31 Ma gli sguardi incrociati fra ricerca, guerra e propaganda non sono a senso unico: basti pensare al coinvolgimento del mondo accademico negli apparati di propaganda della seconda guerra mondiale e al ruolo svolto dalla guerra nell’istituzionalizzazione delle scienze della comunicazione. Sappiamo, ad esempio, che fra il 1941 e il 1942 vari docenti universitari americani si stabilirono a Washington DC per collaborare con strutture governative o militari. È il caso di Carl Hovland, il padre delle ricerche psicologiche sulla persuasione, che cominciò la sua carriera analizzando, per conto dell’esercito americano, i film di propaganda destinati ai soldati. Le prime analisi del contenuto furono prodotte, nello stesso contesto, da Harold Lasswell che, alla Library of Congress, applicava questi metodi allo studio della white and black propaganda. La cibernetica, la prima scienza dell’informazione, fece i suoi primi passi al Mit, nelle ricerche che Norbert Wiener stava conducendo per migliorare la precisione dei cannoni antiaerei. Claude Shannon, il fondatore della teoria matematica dell’informazione, iniziò facendo analisi crittografiche sul sistema di codifica e decodifica delle telecomunicazioni.32 C’è dunque una circolarità, che continuerà con la guerra fredda,33 fra pratica della propaganda e studio della propaganda. La natura di massa e, quindi, psicologica della guerra non solo trasforma la propaganda in un oggetto di studio, ma contribuisce a cambiare la connotazione della parola da un altro punto di vista: quello del senso comune, che vede passare progressivamente la propaganda dal regno delle cose nobili («le cose da propagare», appunto) a quello delle cose cattive e 30. R.H. Lutz, Studies of World War Propaganda, 1914-1933, in «The Journal of Modern History», 5/4 (1933), pp. 496-516. 31. H.D. Lasswell, R.D. Casey, B.L. Smith, Propaganda and Promotional Activities. An Annotated Bibliography, Minneapolis 1935. 32. S. Proulx, Les recherches nord-américaines sur la communication: l’institutionnalisation d’un champ d’étude, in «L’Année sociologique», 51/2 (2001), pp. 467-486. Ma si pensi anche allo straordinario lavoro di crittoanalisi svolto da Alan Turing: cfr. A. Hodges, Alan Turing. Storia di un enigma, Torino 2014 (ed. or. 1991). 33. Fra i vari lavori, L. Risso, Propaganda and Intelligence in the Cold War. The Nato Information Service, London 2014.

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pericolose. Quindi, neanche la reticenza all’uso della parola è una novità.34 Già negli anni Venti e Trenta la parola propaganda iniziava a dare segni di crisi per rientrare fra le parole tabù della politica, come sottolineava un deputato francese che invitava i colleghi dire «dunque nettamente “informazione” e non “propaganda”», non senza ricordare che «qualunque sia la parola, bisogna realizzare la cosa».35 Insieme di pratiche necessarie, in pace come in guerra, ma da nominare con cautela: una tendenza che si sarebbe confermata nel secondo dopoguerra. Oggi, solo gli storici usano ancora la parola propaganda, e con reticenze, quasi si trattasse di un termine che svilisce o discredita per il suo solo uso il loro oggetto di studio.36 3. Polifonia storiografica in crescendo Che si parli di psychological warfare, public diplomacy o soft power, la propaganda di guerra è stata e continua a essere oggetto di numerosi studi. Non è mia ambizione tracciare uno stato dell’arte, ma vorrei approfittare di questa riflessione ad ampio raggio per indicare alcune correnti sintomatiche degli sviluppi recenti della ricerca su guerra e propaganda. Oggi nessuno si sognerebbe più di chiedere se i media siano spettatori o attori dei conflitti. Il loro modo di informare sui conflitti, di metterli in forma, fa di essi un attore essenziale dei conflitti stessi. Donde l’importanza – e la ricchezza – delle ricerche sulle rappresentazioni: come i media rappresentano le guerre, come costruiscono l’immagine della nazione in armi, come strutturano il noi contrapposto al loro, all’immagine del nemico, come giustificano la guerra nei loro discorsi,37 nelle immagini,38 attraverso il loro 34. Si veda, ad esempio, D. Georgakakis, La République contre la propagande. Aux origines perdues de la communication d’Etat en France (1917-1940), Paris 2004. 35. E. Pezet, Défense et illustration de la France. Sous les yeux du monde, Paris 1935, p. 31. 36. Si nota, peraltro, un processo simile anche per la parola “guerra”, spesso eufemizzata nel linguaggio politico delle guerre post-bipolari (vedi A. D’Orsi, 1989. Del come la storia è cambiata, ma in peggio, Milano 2009, pp. 58 ss.). La parola sembra in crisi anche nelle riviste di studi strategici: vedi ad esempio C.P. David, La guerre pourrait-elle devenir chose du passé?, in «La Revue Internationale et Stratégique», 90 (2013), pp. 40-56. 37. A. Morelli, Principi elementari di propaganda di guerra: utilizzabili in caso di guerra fredda, calda o tiepida, Roma 2005 (ed. or. 2001). 38. Per uno sguardo generale sul legame fra rappresentazioni della guerra e sviluppi tecnologici, cfr. C. Saouter, Images et sociétés. Le progès, les médias, la guerre, Montréal 2003.

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linguaggio, che cambia nel tempo, ma che è sempre specifico ai contesti. In ragione di queste specificità, lo studio delle rappresentazioni si focalizza generalmente su un singolo conflitto e in una prospettiva di corta durata.39 Ci si interessa, in tal caso, dei prodotti dell’attività comunicativo-propagandistica (le rappresentazioni, le immagini, i discorsi) piuttosto che del processo di produzione, in quello che è e resta senz’altro l’asse di ricerca più battuto, seppur con un certo disequilibrio nella copertura dei conflitti. Come notava ancora nel 2005 Jean-Paul Marthoz, il direttore dell’informazione a Human Rights Watch, la maggior parte delle guerre contemporanee avviene nel sud del mondo, ma ben pochi studi sono dedicati al ruolo dei media in queste guerre:40 la maggior parte delle ricerche, condotte soprattutto a partire dalla guerra d’Iraq del 1991, sono, in effetti, sul modo in cui i media occidentali rappresentano questi conflitti41 e non sul ruolo che vi svolgono i media. È soprattutto dalla fine del primo decennio degli anni Duemila e, ancor più, dopo il cosiddetto Arab Spring che la prospettiva eurocentrica di molte pubblicazioni ha ceduto il passo a nuovi sguardi come, ad esempio, quelli sull’evolvere del paesaggio mediatico nel mondo arabo, dall’emergere di una stampa panaraba, alle tv satellitari e alle cosiddette «arabità numeriche».42 E questo mi porta al secondo punto. Quando si parla di guerra, media e propaganda, si parla di rappresentazioni, ma anche di tecnologie dell’informazione e della comunicazione, del loro evolvere in parallelo ad armi dalle potenzialità distruttive sempre più “di massa” e del loro possibile impatto sulla condotta di guerre stesse. Gli storici della comunicazione sanno quanto il legame fra guerra e propaganda si nutra, nel tempo, della disponibilità di nuovi media: la possibilità di riprodurre in quantità testi e immagini grazie alle nuove tecniche di stampa svolse un ruolo essenziale nei conflitti confessionali del Cinquecento;43 il telegrafo 39. Benché si contino ormai varie eccezioni in prospettiva comparata e diacronica, come L’immagine del nemico. Storia, ideologia e rappresentazione tra età moderna e contemporanea, a cura di F. Cantù, G. Di Febo, R. Moro, Roma 2009, o il già citato Propagande contro. 40. J.-P. Marthoz, Journalisme global ou journalisme de métropole. Les conflits africains dans les médias du Nord, in Afrique Centrale. Médias et Conflits. Vecteurs de guerre ou acteurs de paix, a cura di M.S. Frère, Bruxelles 2005, pp. 299-316. 41. Un esempio è l’ottimo libro di A. Pizarroso Quintero, Nuevas guerras, vieja propaganda (de Vietnam a Irak), Madrid 2005. 42. Y. Gonzalez-Quijano, Arabités numériques. Le printemps du Web arabe, Arles 2012. 43. E. Eisenstein, La rivoluzione inavvertita. La stampa come fattore di mutamento, Bologna 1985; A. Briggs, P. Burke, Storia sociale dei media: da Gutenberg a Internet, Bologna 2008.

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ottico si sviluppò in Francia all’epoca delle guerre rivoluzionarie, la radio ricevette notevole impulso dalle esigenze della flotta britannica44 e le origini di Internet devono molto alle esigenze militari.45 Anche oggi il legame fra guerra e propaganda è alimentato della disponibilità di “nuovi media”, che determinano un aumento degli attori coinvolti nella comunicazione di guerra. Prima militari e giornalisti (ossia professionisti socializzati a un codice professionale) erano le fonti prime di mediatizzazione; ora alle immagini da essi prodotte si aggiungono le testimonianze, più o meno amatoriali, di migliaia di utilizzatori di una rete tecnicamente orizzontale, ma non esente da forme di controllo come quella, ricordata in apertura, esercitata dai gestori dei social network stessi.46 Vari livelli si possono distinguere. La possibilità per chiunque di produrre immagini, suoni e dati, determinata dall’affermarsi delle fotocamere digitali, poi annesse ai telefonini, ha ripercussioni di varia natura sulla rappresentazione delle guerre, ma anche sulla loro condotta e sugli attori in esse coinvolti. Il ruolo dei due attori classici, giornalisti e militari, cambia. I giornalisti non sono più i fornitori primi dell’informazione, all’epoca in cui Internet permette una comunicazione mondiale diretta, l’emergere di un citizen journalism e varie forme di moblogging (da mobile e blog). Parecchio si è scritto47 e molto si è discusso delle potenzialità liberatorie dei social network e delle tecnologie digitali nel 2011, visti come strumenti dalle potenzialità rivoluzionarie nelle mani dei giovani dell’Arab Spring: l’uccellino di Twitter e gli smartphone sono diventati un simbolo di quella che da più parti veniva descritta come una rivoluzione, anche se già dall’aggressione americana all’Iraq nel 2003 si era assistito all’uso delle fotocamere annesse ai telefoni cellulari come strumenti di controinformazione dal basso. 44. P. Flichy, Storia della comunicazione moderna: sfera pubblica e dimensione privata, Bologna 1994. 45. Gli studi attenti agli usi sociali dei media e alle loro interazioni hanno tuttavia mostrato quanto questa dimensione non vada assolutizzata: vedi C. Lejeune, Démocratie 2.0. Une histoire politique d’Internet, Bruxelles 2009, e T. Detti, G. Lauricella, Le origini di Internet, Milano 2013. 46. Per uno sguardo sintetico sulle implicazioni politico-economiche delle tecniche di profiling (la raccolta dei dati relativi all’utente) e l’industria dei meta-dati, vedi Ippolita, “La rete è libera e democratica”. Falso!, Roma-Bari 2014. Ippolita è un gruppo di ricerca interdisciplinare particolarmente attento alle “tecnologie del dominio” (http://www.ippolita.net). 47. Si veda, ad esempio, CyberOrient, Online Journal of the Virtual Middle East, http://www.cyberorient.net (consultato il 16 settembre 2014).

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Di fronte a chi gridava all’ennesima rivoluzione delle comunicazioni, c’è stato chi ha ricordato che si trattava di strumenti di comunicazione tout court, soggetti a usi molteplici, da parte di attori molteplici. E infatti, cambiando prospettiva e passando da quella dal basso a quella dall’alto di qualsiasi esercito, le questioni cambiano. È la tensione fra comunicazione e controllo che diventa particolarmente delicata in presenza di una rete che permette di far circolare immagini e informazioni di ogni natura su scala planetaria. Ce lo ricorda il caso del soldato americano Bradley (oggi Chelsea) Manning, condannato a 35 anni di carcere per aver trasmesso a WikiLeaks il video di un raid aereo americano in Iraq nel 2007.48 Da una parte, gli eserciti si servono sempre più dei social media come di strumenti di comunicazione esterna. Che si tratti dell’US Army o dell’Esercito Italiano, la maggior parte delle forze armate occidentali dispone, oltre che di un sito web istituzionale, di account ufficiali su piattaforme di video sharing, su Twitter o su social network come Facebook.49 L’uso di questo «arsenale numerico» appare ormai inevitabile come strumento di public relations, per diffondere rapidamente messaggi o una precisa versione dei fatti in caso d’incidente.50 Ma, rovescio della medaglia, essi pongono la questione della sorveglianza, le cui tecnologie si raffinano, d’altronde, con il tempo, come mostra chiaramente il caso dei droni di cui parlano David Lyon e Zygmunt Bauman.51 Come ricordano gli studiosi della cosiddetta «guerra 2.0», i social media rappresentano una sfida complessa per gli eserciti. Questo per ragioni demografiche (le fasce d’età più attive su Facebook sono le più numerose negli eserciti), istituzionali («l’esercito è un’istituzione centralizzata e gerarchica, il cui funzionamento in teoria mal corrisponde alla struttura decentralizzata e alle dinamiche bottom up dei nuovi media») e legate alla natura del lavoro militare e al suo proprium, la discrezione.52 Da un lato, i militari sono sensibili a questi media perché, alla maggior parte dei soldati lontani da casa, i social network permettono di tenere un contatto con la famiglia e gli amici. Dall’altro, devono evitare fughe d’immagini o informazioni che potrebbero rivelar48. https://collateralmurder.wikileaks.org/ (consultato il 28 settembre 2015). 49. Si veda, ad esempio, http://www.esercito.difesa.it/ (consultato il 28 settembre 2015) ove, in alto a destra, campeggiano le icone dei vari servizi. 50. M. Hecker, T. Rid, Les armées doivent-elles craindre les réseaux sociaux?, in «Politique étrangère», 77/2 (2012), pp. 317-328 (qui pp. 317-318). 51. Z. Bauman, D. Lyon, La sorveglianza nella modernità liquida, Roma-Bari 2013. 52. Hecker, Rid, Les armées doivent-elles craindre, p. 323.

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si problematiche per la sicurezza dei soldati o per la reputazione dell’esercito stesso. Ne abbiamo avuto un caso flagrante con Abu Ghraib, ma anche con le foto pubblicate su Facebook da Eden Abergil, ex soldatessa dell’esercito israeliano che, nel 2010, si ritraeva sorridente davanti a prigionieri palestinesi bendati e legati.53 O ancora, con i selfie alla frontiera dell’Ucraina postati su Instagram dal soldato russo Sanya Sotkin, che rischiarono di trasformarsi in casus belli nell’estate del 2014.54 Varie ricerche sono oggi dedicate al modo in cui gli eserciti si adattano ai social network. Esse non fanno che riattualizzare questioni abbastanza note agli storici, che ci ricordano quanto sia importante interrogarsi sugli usi sociali e politici dei media, nuovi o vecchi che siano. Il rapporto fra comunicazione persuasiva in tempo di guerra e tecnologie dell’informazione non è una novità. In questo, uscire dall’ipercontemporaneo per abbracciare una prospettiva di più lunga durata sulle questioni di storia delle comunicazioni55 permette di vedere il carattere ricorrente di certi dibattiti, come quello sull’impatto delle nuove tecnologie: i cyber-ottimisti, sedotti dalle potenzialità liberatorie dei nuovi media, e i cyber-pessimisti, preoccupati dalle possibilità di controllo panottico, gli integrati e gli apocalittici.56 In risposta alle tesi che postulavano la portata rivoluzionaria dell’introduzione in Europa dei caratteri mobili da parte di Gutenberg, Asa Briggs e Peter Burke mostravano che i nuovi media non avevano soppiantato i vecchi, come l’oralità o le immagini, non a caso colpite dalle pratiche iconoclastiche all’epoca delle guerre di religione.57 Anche le “nuove guerre” ci mostrano che i vecchi media sono ancora d’attualità: nato nella prima guerra mondiale58 e consacrato nella seconda come strumento di psychological warfare, il volantino aviolanciato sulle linee nemiche o sulle città è stato 53. «Haaretz», 16 agosto 2010, http://www.haaretz.com/news/israel/idf-soldier-postsimages-of-blindfolded-palestinians-on-facebook-from-best-time-of-my-life-1.308402 (consultato il 14 settembre 2014). 54. «Le Monde», 01 agosto 2014, http://www.lemonde.fr/europe/article/2014/08/01/ l-armee-russe-trahie-par-les-reseaux-sociaux_4465920_3214.html (consultato il 14 settembre 2014). 55. Come nel libro fondamentale di P.M. Taylor, Munitions of the Minds. A history of propaganda from the ancient word to the present era, Manchester-New York 2003 (ed. or. 1991). 56. U. Eco, Apocalittici e integrati, Milano 2013 (ed. or. 1964). 57. Briggs, Burke, Storia sociale dei media, pp. 25-91. 58. B. Wilkin, Propagande militaire aérienne et législation durant la Première Guerre mondiale, in «Revue historique des armées», 274 (2014), pp. 87-94.

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largamente riattualizzato nelle guerre dell’ultimo ventennio, ora accompagnato da messaggi radio, telefonici o da megafoni che annunciavano bombardamenti di città e quartieri, dall’Afghanistan all’Iraq, al Libano e alla striscia di Gaza. E questo ci porta al terzo punto che vorrei affrontare. Insieme alla moltiplicazione dei bersagli di guerra, una delle caratteristiche delle guerre contemporanee sub specie communicationis è la pluralità degli attori coinvolti nei processi di produzione dell’informazione. Da alcuni anni si assiste a un allargarsi dei centri d’interesse degli storici in questa direzione: la dimensione – fondamentale, ma talvolta disincarnata – delle rappresentazioni s’integra così con lo studio della produzione e dei produttori della comunicazione in situazione di guerra. Si pensi alle numerose pubblicazioni sulla storia del giornalismo di guerra o alle riflessioni degli storici sulla fabbricazione delle immagini di guerra, dall’uso della fotografia alle foto e ai video digitali.59 La guerra d’Iraq del 1991 e, poi, quella in Afghanistan nel 200160 hanno certamente svolto un ruolo importante in tutto ciò, mostrando la funzione delle agenzie di public relations e/o di comunicazione strategica, come la Hill & Knowlton e il Rendon Group. Si potrebbero evocare i vari spin doctors di cui parlano Nancy Snow61 o Arnaud Mercier e Jean-Marie Charon nel loro scritto sulle «armi di comunicazione massiva»,62 ma è vero che la presenza di esperti in comunicazione oggi non stupisce più nessuno. Si è tuttavia spesso portati a considerare questa professionalizzazione della comunicazione, questa centralità strategica dei saperi necessari a organizzare la comunicazione persuasiva (in quanto arma di guerra), questi sconfinamenti fra il commerciale e il militare come un fenomeno tipico, appunto, delle cosiddette “nuove guerre”. In questo, la capacità dello storico di dare una profondità storica allo studio della comunicazione contemporanea permette di uscire dall’idea di una 59. La letteratura su questi temi è talmente vasta che sarebbe vano tentarne una sintesi. La fabbricazione delle immagini di guerra è ormai al centro di veri e propri corsi universitari, come quello organizzato a Sciences-Po Paris da Julie Maeck: http://formation. sciences-po.fr/en/enseignement/2014/bdba/1555 (consultato il 20 settembre 2015). 60. Si veda ad esempio War and the Media. Reporting Conflict 24/7, a cura di D.K. Thussu, D. Freedman, London-Thousand Oaks-New Delhi 2003. L’opera ha il merito di integrare tre dimensioni essenziali per lo studio dei media: rappresentazioni, innovazioni tecnologiche, evolvere dei mestieri legati all’informazione di guerra, in primis i giornalisti. 61. N. Snow, Information War. American propaganda, free speech and opinion control since 9-11, New Tork 2003. 62. A. Mercier, J.-M. Charon, Armes de communication massive.

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presunta cesura o specificità recente, allargando nel contempo i suoi assi di riflessione e oggetti di studio. Le ricerche sui mestieri della comunicazione mostrano che questi sguardi incrociati fra commerciale, militare e politico non cominciano con le guerre post-bipolari, ma, almeno un secolo prima, con la Grande guerra: prima guerra “totale”, che assume una dimensione “psicologica” essenziale giacché le frontiere fra civili e militari si attenuano e tutta la società è mobilitata. Da almeno un secolo gli specialisti della comunicazione commerciale sono coinvolti, a vario titolo, nei conflitti.63 Non si parla solo dell’interesse commerciale delle guerre per l’industria dei media – «già all’epoca di Théophraste Renaudot, le guerre facevano aumentare gli abbonamenti»64 –, ma della mobilitazione in guerra dell’expertise elaborata in altri ambiti. Si cita spesso l’impegno di Madison avenue nelle attività del Committee on Public Information di George Creel e il ruolo svolto dalla prima guerra mondiale nella legittimazione della professione pubblicitaria. Come ricordava Bernays in un suo scritto del 1942 sulla propaganda di guerra, già negli anni Venti Lasswell diceva che la propaganda era diventata una professione, che stava sviluppando i suoi praticanti e i suoi professori, e che verosimilmente i governanti si sarebbero appoggiati sempre più su questi propagandisti professionali.65 Uscire dalla singolarità (sia essa nazionale, ideologica o settoriale) per interrogarsi sulla trasversalità di certi fenomeni – come quello degli scambi fra commerciale, politico e militare – pare indispensabile per studiare le guerre contemporanee, caratterizzate dalla scala globale dei processi comunicativi. Uscire dalla singolarità e allargare l’angolo prospettico permette di vedere cose nuove anche nelle vecchie guerre, per scoprire, ad esempio, che i transfer di competenze fra commerciale e politico non sono né una specificità americana né un fenomeno così recente.66 Per chiudere 63. Si vedano, ad esempio, F. Fasce, Le anime del commercio. Pubblicità e consumi nel secolo americano, Roma 2012, pp. 59-109 e I. Stole, Adwertising at War: Business, Consumers, and Government in the 1940s, Urbana 2012. 64. M. Mathien, L’emprise de la communication de guerre. Médias et journalistes face à l’ambition de la démocratie, in «La Revue Internationale et Stratégique», 56 (2004), pp. 89-98 (qui p. 98). 65. E. Bernays, The marketing of national policies: a study of war propaganda, in «The Journal of Marketing», 6/3 (1942), pp. 236-244 (qui p. 242). 66. Sui transfer tra commerciale e politico, si vedano «Mots. Les Langages du politique», 33 (212) (numero monografico dedicato a Publicité et politique) e il dossier curato da I. Di Jorio, V. Pouillard, Publicité et propagande, in «Vingtième siècle. Revue d’histoire», 101 (2009), pp. 3-80.

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con esempio tratto dalle mie ricerche,67 questi transfer li ritroviamo anche in Italia, nelle pubblicazioni di quella professione nascente all’inizio del Novecento che sono i pubblicitari. «L’Impresa moderna», la prima rivista italiana di organizzazione aziendale e tecnica pubblicitaria, si afferma proprio negli anni della prima guerra mondiale. I redattori della rivista, primo fra tutti Emilio Grego, autore del celebre libro Come si lancia un prestito di guerra,68 s’interrogano sui benefici che la guerra ha apportato alla pubblicità finanziaria, ma anche e soprattutto sul contributo che la pubblicità può dare alla propaganda di guerra, non senza vantare la versatilità delle loro competenze. C’è una professione nascente, in cerca di legittimazione, che studia quel che si fa in materia di comunicazione persuasiva e nel fare questo si interessa a Ciò che insegnano le idee degli altri (questo il titolo di una rubrica fissa): dai manifesti d’arruolamento britannici e americani alla propaganda bolscevica, a conferma di come questa riflessione sulle tecniche di comunicazione persuasiva o (per dirla con la parola etimologicamente più appropriata) di propaganda attraversi le frontiere fra regimi politici, ideologie e professioni, fra sfera politica e commerciale, fra paesi e aree geografiche diverse, fra guerra e dopoguerra.69 Vorrei in tal senso chiudere sull’importanza che riveste per questo l’esercizio euristico della comparazione, in senso sincronico ma anche diacronico, orientata non solo allo studio dei contenuti e delle rappresentazioni, sempre specifici ai contesti, ma allo studio delle pratiche, delle tecniche e dei saperi che fanno della propaganda una realtà costitutiva delle guerre in un mondo globale.

67. Per approfondire, I. Di Jorio, La nascita del pubblicitario, in «Storia e problemi contemporanei», 66 (2014), pp. 89-116 e Pubblicitari in guerra. Saperi e tecniche di propaganda in Italia (1914-18), in «Passato e presente», 95 (2015), pp. 75-100. 68. E. Grego, Come si lancia un prestito di guerra. Studio di psicologia applicata, Milano 1918. 69. Questo permette di dare concretezza all’analisi delle rappresentazioni e capire, ad esempio, i vettori della migrazione di certi schemi iconografici, come quelli esaminati da C. Ginzburg, Your country needs you, in «History Workshop Journal», 52 (2001), pp. 1-22.

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1. Dio esce dalla storia, la guerra no Le mie considerazioni si aprono con una constatazione semplice ma imprescindibile per il nostro tema. Il Novecento, il “secolo laico” e della secolarizzazione, è stato quello più insanguinato della storia. I 110 milioni di donne e uomini uccisi direttamente dalla guerra tra il 1900 e il 1995, corrispondenti al 4,4% della popolazione del secolo, lo dimostrano. Nell’Ottocento tale percentuale si era fermata all’1,6%.1 L’aumento è esponenziale e avviene dopo che, per quattro secoli, in Europa si è combattutto per motivi spesso legati alle fedi religiose. I termini guerra santa, guerra religiosa, crociata, erano diffusi nella coscienza collettiva, come emerge dagli studi di Alphonse Dupront, Paul Alphandéry e altri.2 «Crociata e cristianità si sono fatte assieme, in una creazione reciproca […] cristianità e crociata esprimono due realtà essenziali del sentimento religioso collettivo».3 E non si può dimenticare il mito di Lepanto in Occidente, «vittoria tecnicamente inutile, ma psicologicamente consacrante»,4 come nota Dupront. Nel Novecento si realizza quell’eclissi del sacro, con la riduzione delle religioni alla sfera privata e le fedi marginalizzate dalla conoscenza scientifica e dal progresso tecnologico, voluta e pronosticata nei secoli pre1. I dati sono tratti da W. Eckhardt, War-related Deaths Since 3000 BC, in «Bulletin of Peace Proposals», 22/4 (1991), pp. 437-443; R. Leger Sivard, World Military and Social Expenditures, Washington 1996. 2. Cfr. P. Alphandéry, A. Dupront, La cristianità e l’idea di crociata, Bologna 1974, in particolare le pp. 453-66. 3. Ibidem, p. 454. 4. Ibidem, p. 461.

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cedenti. Ne consegue il minor coinvolgimento delle religioni nei conflitti, religioni che pure continuano a occupare l’orizzonte politico. Sono ora i totalitarismi a chiedere obbedienza e fede, e perseguitano – con gradi e modi diversi – le religioni “concorrenti”. Il nazismo trasforma l’ebraicità in razza e non lascia scampo agli ebrei. Riscrive il cristianesimo introducendo il mito del Gesù ariano. Il fascismo aggredisce l’Etiopia indipendente colorando l’impresa di toni di conquista cattolica, accompagnato dall’entusiasmo di alcuni vescovi e dalla freddezza e riprovazione da parte di Pio XI.5 La guerra civile spagnola, nell’accanimento omicida di entrambe le parti, vede scatenarsi una persecuzione religiosa verso la Chiesa cattolica con la distruzione del 70% degli edifici religiosi, e l’uccisione di circa diecimila tra laici, religiosi, clero e vescovi. Dopo il 1945, dei dieci conflitti con più di un milione di vittime – la «prima guerra mondiale d’Africa» per il dopo Mobutu in Congo (4,5 milioni di morti); la guerra di Corea (3 milioni); il genocidio in Cambogia (2,8 milioni); la guerra del Vietnam; la Nigeria (Biafra); l’Afghanistan (intervento sovietico); il Sudan; il Mozambico; il Bangladesh; la Cina (guerra civile) – solo uno è stato da alcuni rappresentato come guerra di religione: quello sudanese. Le due lunghe guerre civili che hanno insanguinato quel paese fin dall’indipendenza, tuttavia, sono ascrivibili al disegno di predominio e spoliazione di Khartoum su un Sud ancor più arretrato, piuttosto che a un progetto di conquista o l’espressione di odio religioso da parte del Nord a prevalenza musulmana. Anche la seconda guerra civile, con il coinvolgimento di un esponente del radicalismo islamico come Hassan el Turabi, si è innescata e combattuta per la disputa sui proventi del petrolio, causato dai provvedimenti – contrari alla costituzione – varati dal presidente Nimeiri per spostare interamente al nord la raffinazione e la commercializzazione dell’oro nero. La guerra in Afghanistan è invece emblematica del sostegno dell’Occidente antisovietico ai mujahidin afghani. Nello stesso periodo in cui cominciò a imporsi nelle opinioni pubbliche occidentali l’impressione di uno stretto legame tra estremismo religioso islamico e terrorismo anti-occidentale, in Afghanistan si combatteva un’aspra guerra contro un governo protetto dai russi prima e contro l’esercito russo invasore poi, nella quale i combattenti, i mujahidin, ricevevano sostanziosi aiuti dagli Stati Uniti. I 5. Cfr. L. Ceci, Il papa non deve parlare, Roma-Bari 2010, nel quale si ricostruisce la ferma opposizione di papa Ratti all’impresa d’Etiopia, ma pure la scelta finale di non rendere pubblici i passi per scongiurarla.

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combattenti impiegati nella guerra santa divennero – per un certo periodo – sinonimo di eroica resistenza alla tirannide. Nel marzo 1986 un rappresentante del movimento Hizb i Islami fu ricevuto a Downing Street da Margaret Thatcher e descritto da «The Times» come un leader della resistenza. Dopo il ritiro sovietico i partiti islamici afghani si divisero ferocemente al loro interno e si imbarcarono in una crudele guerra civile.6 Con il tramonto delle ideologie – ma in realtà ancor prima – lo scenario muta notevolmente. Dio si prende la sua “rivincita”, per citare Gilles Kepel.7 Resta il fatto che la temporanea scomparsa della religione dagli spazi pubblici non ha portato una diminuzione della conflittualità interna e internazionale. È accaduto il contrario. Il secolo “uscito da Dio”, come lo ha definito Émile Poulat,8 ha conosciuto violenze di proporzioni prima sconosciute. La guerra del Novecento – tutt’altra cosa rispetto agli eventi bellici dei secoli precedenti, tanto che occorrerebbe coniare un termine apposito – non si combatte quasi mai per motivi religiosi. Nazionalismo, imperialismo, conquista, razzismo, ideologia, controllo delle risorse, assunzione di potere scatenano conflitti facili ad iniziarsi e complicatissimi da far cessare. A partire dal 1989, cambia il ruolo delle superpotenze negli equilibri geopolitici su scala planetaria; il «nuovo disordine mondiale» descritto da Todorov permette ad attori non convenzionali – gruppi, etnie, movimenti pseudoreligiosi – di scatenare conflitti, quasi che a tutti fosse possibile iniziare una guerra.9 L’11 settembre 2001 ha portato alla ribalta un gruppo terroristico di stampo dichiaratamente confessionale, così da far dire a molti opinion makers che la religione contiene in sé radici di intolleranza e violenza. Sulle colonne del «Corriere della Sera», per fare un esempio tra i moltissimi, si leggeva nel 2002, a firma di uno degli editorialisti di punta, che «ora le fedi religiose vengono investite da passioni identitarie di massa che tendono a farne veicoli di pulsioni belliciste».10 Poco tempo prima un altro opinionista aveva contestato la distinzione introdotta da alcuni tra 6. P. Partner, Il Dio degli eserciti. Islam e cristianesimo: le guerre sante, Torino 1997, pp. 329-330. 7. G. Kepel, La revanche de Dieu. Chrétiens, juifs et musulmans à la reconquête du monde, Paris 2003. 8. É. Poulat, L’era post-cristiana. Un mondo uscito da Dio, Torino 1996. 9. T. Todorov, Il nuovo disordine mondiale. Le riflessioni di un cittadino europeo, Milano 2003. 10. A. Ronchey, Medio Oriente e altre guerre, in «Corriere della Sera», 28 febbraio 2002.

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religione autentica e fondamentalismo: «Non sarà più o meno fondamentalista ogni religione presa sul serio, a cominciare da quella cristiana, quando si incarna in figure come Francesco d’Assisi o Teresa di Lisieux?».11 Ma, già prima dell’attentato alle torri gemelle, una corrente influente segnalava il pericolo. L’antropologo e studioso di religioni William Edelen scriveva in un fondo del 14 ottobre 2000: «Senza la religione la terra sarebbe molto più pacifica: ogni guerra che si combatte sulla terra ha la religione come carburante che la alimenta di continuo. La religione genera stragi di esseri umani, compiute in nome di Dio». Il nuovo scenario post 11 settembre risponderebbe dunque alla “profezia” di Huntington, lo scontro delle civiltà.12 In realtà, tutte le grandi religioni si sono confrontate con il dilagare della violenza e della guerra nel Novecento, con esiti imprevedibili. È certo il caso del cristianesimo e dell’islam. Le pagine che seguono vogliono essere un excursus, necessariamente incompleto e provvisorio data l’enormità del soggetto, circa la novità nel modo di considerare, affrontare, concepire l’evento guerra da parte di alcune grandi tradizioni religiose con diffusione globale. 2. Il primo genocidio del Novecento: il jihad al servizio dell’omogeneità etnica nazionale Le appartenenze religiose non scompaiono d’incanto, persistono e influenzano i destini dei popoli. Contano con forza quando la passione nazionalista infiamma gli europei e il mondo mediterraneo tra Otto e Novecento: si iniziano a sacrificare coabitazioni secolari e convivenze multireligiose al principio dell’omogeneità, eretto a legge basilare dei nuovi soggetti dall’identità in costruzione. Laddove essa si definisce prevalentemente in relazione alla confessione religiosa degli abitanti, come nei Balcani, la nascita delle nazioni sulle ceneri degli imperi si accompagna a pulizie etniche massicce: espulsioni, deportazioni, massacri, fino al genocidio. Il caso più noto, che ha aperto la drammatica sequela dei genocidi nel Novecento, è 11. E. Galli della Loggia, L’ultimo tabù dell’Occidente, in «Corriere della Sera», 11 novembre 2001. Cfr. poi C. Biscotti, Gli intellettuali italiani e lo scontro di civiltà dopo l’11 settembre 2011, Tesi di laurea, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Roma 3, a.a. 2012-2013. 12. S.P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Milano 1997.

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quello della Turchia. La storia del massacro di più di un milione di armeni e di altri cristiani da parte del governo «Giovane Turco» iniziato il 24 aprile del 1915 costituisce una tragedia che ha rappresentato qualcosa di decisivo per la storia di un popolo, ma è al tempo stesso una delle vicende centrali del XX secolo, la “questione armena”.13 Le celebrazioni del centenario e l’ampia risonanza che hanno avuto – anche in seguito alle perduranti polemiche circa l’ascrivibilità di quelle violenze alla categoria del genocidio – hanno definitivamente rimosso il velo d’oblio che avvolgeva questa pagina di storia. I massacri, del resto, non avvennero in segreto. Fin dalle prime stragi gli Alleati dichiararono pubblicamente che «davanti a questo nuovo crimine della Turchia contro l’umanità e la civiltà, i governi alleati riterranno personalmente responsabili i membri del governo turco assieme a quei funzionari che avranno partecipato a questi massacri».14 Su questa questione la bibliografia è sconfinata, sia a livello internazionale sia negli scrittori di parte armena e di parte turca. Nuovi studi si aggiungono ogni giorno, tra cui, in Italia, il più significativo è il volume di Andrea Riccardi, Il massacro dei cristiani. Mardin, gli armeni e la fine di un mondo. A queste ricerche ho contribuito con il mio Il martirio degli armeni. Un genocidio dimenticato (Brescia 2015), mentre già nel 2000 ho tradotto e pubblicato le memorie di un missionario domenicano francese, Jacques Rhétoré, Les Chrétiens aux bêtes. Souvenirs de la guerre sainte proclamée par les Turcs contre les Chrétiens en 1915.15 Il manoscritto costituisce un’impressionante testimonianza delle vicende storiche che portarono all’eliminazione di gran parte della popolazione cri13. Le ricerche su questo tema sono numerose. La storiografia armena ha prodotto un gran numero di lavori. Quella turca, come noto, è stata fino ad alcuni anni fa quasi interamente negazionista. In occasione del centenario sono poi apparsi diversi importanti studi. Tra i saggi più noti cfr. Y. Ternon, Les Arméniens, histoire d’un génocide, Paris 1975; A. Becker, H. Bozarslan, Le génocide des Arméniens. Un siècle de recherche 1915-2015, Paris 2015; V. Dadrian, Histoire du génocide arménien, Paris 1998; M. Flores, Il genocidio degli armeni, Bologna 2006; G. Lewy, Il massacro degli armeni. Un genocidio controverso, Torino 2006; A. Riccardi, Il massacro dei cristiani. Mardin, gli armeni e la fine di un mondo, Roma-Bari 2015. La sproporzione tra studi sui massacri di armeni e quelli che hanno coinvolto gli altri cristiani resta grande, malgrado la recente comparsa di Y. Yacoub, Qui s’en souviendra? 1915: le génocide Assyro-Chaldéo-Syriaque, Paris 2014. 14. La dichiarazione congiunta è citata in J.M. Carzou, Un génocide exemplaire, Paris 1975, p. 130. 15. M. Impagliazzo, Una finestra sul massacro. Documenti inediti sulla strage degli armeni (1915-1916), Milano 2000.

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stiana dell’Anatolia durante la prima guerra mondiale. La tragedia toccò tutte le comunità cristiane dell’Impero, talvolta in maniera sostanziosa. Gli armeni furono le vittime principali dei massacri: gli ottomani li attaccarono preventivamente per scongiurare eventuali tentativi di creazione di uno Stato autonomo. Per compiere questi massacri di massa non bastava però l’apparato di cui il governo giovane turco poteva disporre, occorreva mobilitare le masse, facendo leva sulle motivazioni «religiose», islamiche o anticristiane, più sentite rispetto agli argomenti del nazionalismo turco. La distinzione tra cristiani delle diverse comunità (armeni, siro-ortodossi, sirocattolici, caldei, assiri…) non era netta nella coscienza popolare. Gli scritti di Rhétoré si concentrano su una delle province più cristiane dell’Anatolia, quella di Mardin. Qui esisteva, come notano gli stessi domenicani nei loro appunti, una «certa fraternità tra i suoi abitanti musulmani e cristiani». La sollecitazione a cambiare questo clima di «antica concordia» venne dal valì di Diyarbakir, Rachid Bey, il quale prese contatto con i responsabili musulmani della città per guadagnarli alla causa del massacro. Molti motivi furono addotti per giustificare le persecuzioni verso i cristiani: il jihad proclamato contro gli infedeli nemici (nonostante l’alleanza con gli Imperi centrali, non certo musulmani), tra i quali furono surrettiziamente ricompresi i cristiani autoctoni, considerati collaboratori degli stranieri; l’invidia sociale; la spinta a conformare la società alla comunità musulmana. Pesò poi l’autorità del potere centrale e il timore di contrastarlo. Nota Rhétoré: Per supplire alla mancanza di patriottismo, la Turchia ricorse al fanatismo chiamando il popolo musulmano alla guerra santa [...]. Il popolo musulmano comprese bene che la guerra santa contro gli infedeli francesi, inglesi o russi gli avrebbe procurato il quasi certo vantaggio di divenire Chahid o martire.16

Si tratta di osservazioni particolarmente importanti che mettono in luce il ruolo della mobilitazione religiosa in funzione nazionalista. Sta in questo la “nuova politica” dei Giovani Turchi, alla ricerca di un’identità nazionale ottomana.17 In turco il termine patria è espresso dalla parola vatan, che indica però il luogo di nascita; millet vuol dire nazione, ma con riferimento alla comunità 16. Ibidem, p. 60. 17. È impossibile fornire qui una bibliografia esaustiva su questi temi; mi limito a segnalare alcuni studi recenti di ricercatori turchi, in relazione anche al genocidio: U. Ümit Üngor, The Making of Modern Turkey: Nation and State in Eastern Anatolia, 1913-1950, Oxford 2011; Id., Confiscation and Destruction: The Young Turk Seizure of Armenian Property, London 2013; T. Akçam, From Empire to Republic: Turkish Nationalism and the Ar-

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religiosa. Esisteva, come noto, un millet musulmano, ma non uno turco, arabo o curdo. Il patriottismo e il nazionalismo di marca europea non trovarono immediatamente un vocabolario con cui esprimersi. La religione restava la motivazione capace di scendere nella profondità delle coscienze, richiamando l’impegno del buon musulmano a lottare e a morire per la vera fede. In guerra il soldato turco si sacrificava non per la patria, come quello europeo, ma per l’islam. L’islam sarebbe rimasto il collante per la mobilitazione, coinvolgendo anche gli arabi accanto ai turchi in nome della fedeltà musulmana e non di valori nazionali comuni. Questi non erano ancora maturi, sebbene dalla fine dell’Ottocento si fosse sviluppato il turchismo, con il recupero delle origini turaniane. I Giovani Turchi, voltate le spalle a un ottomanismo multinazionale e cosmopolita incapace di resistere alle forze disgregatrici, avevano avvertito il richiamo di questo nazionalismo turco, tanto da farne il tratto principale della loro politica. Il programma del Comitato Unione e Progresso puntava a far considerare come caduca la concezione tradizionale dell’ottomanismo multietnico, per valorizzare il “turchismo” e turchizzare l’intero tessuto della società ottomana. La “nuova politica”, quando da Istanbul arrivava a Mardin, assumeva però i panni della lotta all’infedele, spogliandosi di ogni atteggiamento nazionalistico turco, in un ambiente, oltretutto, a maggioranza curda. Non a caso Rachid Bey, il valì di Diyarbakir, a Mardin trovò qualche ostacolo nei funzionari pubblici ottomani e dovette fare appello ai sentimenti religiosi dei capi musulmani. Il caso armeno è rilevante. Ma non sembrano essere molti nel «secolo breve» i casi di guerra fondati su motivazioni religiose. 3. I mondi islamici e il dilemma della modernità L’ampiezza e la complessità della Dar al Islam e delle sue vicende non permettono di sviluppare qui un discorso organico e dettagliato. Mi limito dunque ad alcune considerazioni. La prima riguarda l’esperienza storica, sociale e politica di molti paesi musulmani nel Novecento, alle prese con la costruzione di Stati laici, moderni, e con i problemi dello sviluppo. Dalla fine della prima guerra mondiale alla fine del periodo del nazionalismo arabo di Nasser – gli ultimi anni Sessanta – il tema del jihad, della guerra santa (il termine del resto ha significati e accezioni molteplici) lungi dall’essere menian Genocide, London 2004; Id., Un acte honteux: Le génocide arménien et la question de la responsabilité turque, Paris 2008.

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centrale è rimasto sullo sfondo del dibattito nel mondo islamico.18 Come ha scritto Peter Partner, «nei paesi musulmani degli anni Cinquanta e Sessanta la guerra santa sembrava arcaica ed irrilevante nel grande gioco delle forze politiche».19 In Egitto il dibattito era incentrato su nazionalismo e marxismo. Nasser citava il tema della dimensione islamica del mondo arabo, mentre sopprimeva la società dei Fratelli musulmani. Il Baath in Iraq e Siria sosteneva che era il mondo arabo a racchiudere l’islam e non il contrario. E «nella quasi totalità del mondo islamico il nazionalismo sembrò avere quasi escluso il linguaggio e l’idea panislamici e l’islamismo».20 La ribellione algerina fu prevalentemente laica tra il 1954 e il 1962, nella leadership e nell’ideologia. Non ci si pose nemmeno la questione se definire la guerra come jihad. Il partito religioso Étoile Nord-africaine di Messali al-Hajj fu ripudiato. Ottenuta l’indipendenza, i leader algerini immaginarono un ruolo importante del loro paese nelle lotte del Terzo mondo contro il colonialismo. Il presidente pakistano Ayub Khan, parlando al Cairo di fronte a Nasser nell’autunno del 1960, dichiarava: «Che ci piaccia o no, e non ci dovrebbe piacere, la forza motrice oggi non è più la religione, come avveniva una volta, ma il territorialismo nazionale».21 Si tratta dello stesso Stato islamico, il Pakistan che mai, né nella guerra del 1971, né nei numerosi conflitti attorno al Kashmir, ha preso in seria considerazione la possibilità della dichiarazione di una guerra santa nazionale. Una guerra santa contro l’India a maggioranza hindu avrebbe esposto la vasta minoranza musulmana indiana a pericoli inimmaginabili che avrebbero fatto impallidire i terribili eventi del 1947. E la separazione del Bangladesh è avvenuta nonostante la comune fede sunnita. L’unico Stato moderno islamico che abbia dichiarato una guerra santa in questo secolo – dopo il jihad anticristiano del 1915 di cui si è detto – è 18. Nell’ampia bibliografia su questi temi, trattati spesso superficialmente nel dibattito pubblico attuale, mi limito a segnalare alcuni saggi chiarificanti: B. Tibi, War and Peace in Islam, in Islamic Political Ethics. Civil Society, Pluralism, and Conflict, a cura di S.H. Hashmi, Princeton 2002, pp. 175-193; M. Khadduri, War and Peace in the Law of Islam, Baltimore 1955; J.L. Esposito, Unholy War: Terror in the Name of Islam, Oxford 2002; B. Scarcia Amoretti, Teorizzare il “Jihād”: Percorsi interni all’Islam e letture storiografiche, in Guerra santa e guerra giusta dal mondo antico alla prima età moderna, numero speciale di «Studi Storici», 43 (2002), pp. 739-53. 19. P. Partner, Il Dio degli eserciti, cit. p. 259. 20. Ibidem. 21. Ibidem, p. 279.

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lo Stato wahabbita dell’Arabia Saudita. Si tratta dell’azione di Ibn Saud contro le tribù che negli anni Trenta rifiutavano di riconoscergli il primato. Ma anche contro Israele e, all’epoca della guerra del Golfo, contro l’Iraq. Il caso della ribellione banzamoro nelle isole di Mindanao, nelle Filippine, è ugualmente emblematico. Si tratta di un contesto di conflitto di lunghissima durata, colorato di tinte religiose a causa della prevalenza musulmana in questa regione meridionale del grande Stato cattolico. I leader religiosi sono stati – proprio di recente – alla base della soluzione, più che all’origine degli scontri, che erano piuttosto di natura politica e amministrativa. Ma torniamo all’India.22 La lotta per l’indipendenza ha avuto nel subcontinente un risvolto culturale. Dopo secoli di predominio della cultura europea, gli indiani si posero il problema di una rivalutazione e riappropriazione della propria identità culturale.23 Dove trovare elementi unificanti in una storia così ricca e al tempo stesso frammentata? Non vi era una lingua comune, né l’India era mai stata un’entità politica, mentre le uniche compagini politiche imperiali erano di ispirazione islamica. Dove trovare un fulcro di identità se non nella cultura brahmanica? Questa scelta finì per escludere i musulmani, sebbene fossero parte integrante di quella storia. La loro posizione divenne oggettivamente difficile. Si giunse poi come noto alla Partition, che diede forma a uno Stato indiano che oggi si presenta comunque laico e multireligioso non concepito come nazione degli hindu (a differenza del Pakistan, nazione dei musulmani). In quel clima erano nate organizzazioni di militanti hindu e, in risposta, analoghe organizzazioni islamiche. Prese piede un hinduismo politico, con la trasformazione nel 1924 della Hindu Mahasabha, organizzazione nata nel 1914 per tutelare gli interessi socio-religiosi degli hindu. Da essa sarebbe sorta la Rashtriya Swayamsevak Sangh (Rss), destinata a giocare un ruolo decisivo nel futuro del paese.24 Nel 1923 D.V. Savarkar pubblicò 22. Sul nazionalismo indiano l’ultima e approfondita opera in italiano è di G. Battaglia, L’altro fondamentalismo. India, nazionalismo, identità, Napoli 2015. 23. Cfr. M. Torri, Dalla collaborazione alla rivoluzione non violenta: il nazionalismo indiano da movimento di élite a movimento di massa, Torino 1975 e Gurus and Their Followers. New Religious Reform Movement in Colonial India, a cura di A. Copley, New Delhi 2000. F. d’Orazi Flavoni, Storia dell’India. Società e sistema dall’Indipendenza ad oggi, Venezia 2000, contiene importanti riflessioni su questi temi a partire dalle vicende della seconda metà del Novecento. Sui temi della laicità e del pluralismo religioso vedi anche A. Sen, Laicismo indiano, a cura di A. Massarenti, Milano 1998. 24. Per quel che riguarda l’Rss, vedi W.K. Andersen, S.D. Damle, The Brotherwood in Saffron. The Rashtriya Swayamsevak Sangh and Hindu Revivalism, Delhi 1987.

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il pamphlet Hindutva. Who is a hindu? per contestare quello che egli definì pan-islamismo e divulgare il nuovo credo secondo il quale è autenticamente indiano colui che condivide cultura, lingua e religione del paese.25 E dell’anima dell’India fanno parte le religioni nate nel suo sacro territorio, escludendo dunque islam e cristianesimo. Dagli ambienti dell’Rss sarebbe venuto l’assassino di Gandhi. Il Mahatma era un grande oppositore della Partition e sostenitore di una grande India multireligiosa. A partire dagli anni Cinquanta le formazioni politiche di marca induista si moltiplicano, con posizioni più o meno radicali: nel 1951 il Bharatya Jana Sangh (Bjs), di destra; nel 1964 il Vishwa Hindu Parishad (Vhp) che vuole coinvolgere il vasto mondo degli asceti e dei sadhu; nel 1966, a Bombay, lo Shiv Sena, movimento urbano animato dal nazionalismo maharathi con coloriture militariste, contrapposto all’immigrazione. Da tutte queste realtà discende nel 1980 il Bharatya Janata Party (Bjp), che si affermerà nelle elezioni politiche generali nel 1998 e nel 2014.26 Nel 1986 si è riaperto il caso della moschea di Ayodhya, costruita dal fondatore della dinastia Moghul Babur (1483-1530) nei luoghi in cui secondo la tradizione sarebbe nato Rama, sostituendo – come in molti altri casi analoghi di monumenti Moghul – i templi hindu preesistenti. La disputa, complicata da risvolti legali, è stata cavalcata dal Bjp che ne ha fatto la sua grande battaglia ideale.27 Gli hindu chiedono la demolizione della moschea per poter procedere alla ricostruzione del tempio. Stretta d’assedio da masse di militanti, assaltata dalla folla, il 6 dicembre 1992 la moschea viene distrutta. Si scatena una serie di disordini in tutto il paese, con scontri tra manifestanti e polizia e tra hindu e musulmani. Un piano di attacco probabilmente prestabilito viene messo in atto negli slums di Bombay e di altre città. Il bilancio finale è di 2.000 morti, quasi tutti musulmani. Ad animare il pogrom anti-islamico di Bombay è soprattutto 25. V.D. Savarkar, Hindutva. Who is a Hindu?, New Delhi 2005. 26. Per quel che riguarda il nazionalismo hindu e le sue aggregazioni politiche e sociali, vedi l’opera fondamentale di C. Jaffrelot, The Hindu National Movement and Indian Politics. 1925 to the 1990s. With New Afterword, New Delhi 1999, nonché P. Gosh, BJP and the Evolution of Hindu Nationalism. From Periphery to Centre, Delhi 1999; C. Bhatt, Hindu Nationalism. Origins, Ideologies and Modern Mythes, Oxford-New York 2001; P. Appaiah, Hindutva. Ideology and Politics, Delhi 2003. Di un certo interesse è anche l’autobiogra di Lal Krishna Advani, esponente di punta del nazionalismo hindu: L.K. Advani, My Country My Life, New Delhi 2008. 27. Cfr. K. Elst, Ayodhya. The Case Against the Temple, New Delhi 2002.

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lo Shiv Sena. Gli scontri si placano solo quando una serie di esplosioni colpisce la città. A partire dagli anni Novanta l’aggressività del nazionalismo hindu si indirizza anche verso i cristiani. Restano i musulmani, tuttavia, il bersaglio principale. Il 27 febbraio 2002 un vagone del Sabarmati Express prende fuoco nella stazione di Godhra, nel Gujarat, provocando la morte di 59 passeggeri, tutti attivisti e pellegrini hindu. Godhra è una cittadina abitata da hindu e musulmani e già teatro in passato di incidenti intercomunitari. La dinamica dell’incidente presenta sin dal principio molti lati oscuri. Primo ministro del Gujarat era allora Narendra Modi. Il ministro dell’interno del governo centrale era Lal Krishna Advani (anch’egli del Bjp). I disordini che seguono l’episodio sembrano ancora una volta rispondere a un piano preordinato di attacco ai musulmani, abbandonati per giorni alla ferocia della folla hindu, che si abbandona a uccisioni, stupri, incendi e distruzioni.28 La polizia e l’esercito intervengono solo in un secondo momento. Il bilancio ufficiale parla di 1.000 vittime, ma fonti indipendenti avanzano ipotesi più drammatiche. I profughi, tutti musulmani, sono 100.000. Il caso del Kashmir è stato da molti citato come chiaro esempio di conflitto religioso. Come non ricordare, tuttavia, il “peccato originale” alla base del contendere, vale a dire l’assegnazione all’India, al momento della Partition, di una terra al 90% sunnita, senza per lo più concedere un’adeguata autonomia alla regione. Il locale maharajah hindu in qualche modo fa scontare al Kashmir il fatto di aver dato i natali al leader del Partito del Congresso Nehru. Nel Kashmir la guerra del 1947 è riesplosa nel 1965 e nel 1971. Cinque risoluzioni del Consiglio di sicurezza rimangono lettera morta. Una missione Onu permane in zona, ma non riesce a far implementare le risoluzioni, mentre trent’anni di negoziati bilaterali non hanno condotto ai risultati sperati. Finché, negli anni Novanta, la situazione si è polarizzata, con l’apparire di gruppi mujaheddin religiosamente radicali, addestrati militarmente in Pakistan, provenienti da famiglie immiserite dal conflitto. Ne è risultata la ripresa degli scontri che, pur definiti «a bassa intensità» (cinica definizione), hanno mietuto 35.000 vittime tra 1989 e 2002. Per quanto possano pesare gli opposti radicalismi religiosi, è soprattutto la posizione strategica (tra Afgha28. Agli incidenti di Godhra dedica un’approfondita ricostruzione M.C. Nussbaum, Lo scontro dentro le civiltà. Democrazia, radicalismo religioso e future dell’India, Bologna 2009. Si tratta di una riflessione sui temi della laicità, del nazionalismo e della democrazia in India.

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nistan, Pakistan e Cina), e la ricchezza naturale a condannare questa regione all’infinita contesa tra due parti che non arretrano dalle rispettive posizioni. Si può così individuare una caratteristica e ricorrente nell’attuale scenario geopolitico: gli estremismi religiosi si radicano e prosperano nelle situazioni di conflitto incancrenito, laddove vi sono tensioni decennali nate per motivi altri, che si prestano perfettamente alla propaganda radicale e all’individuazione di un nemico di altra fede contro cui scagliarsi.29 Qualcosa di analogo avviene nel conflitto arabo-israeliano, dove l’apparizione di forze connotate religiosamente, da ambo le parti, è un frutto del protrarsi del conflitto e dell’impossibilità di trovare una soluzione. In Israele la guerra dei Sei giorni, nel 1967, ha operato una saldatura tra elementi del sionismo religioso (Kook) e l’ideologia dell’estrema destra nazionalista. Dall’altra parte, l’insuccesso dell’Olp e la sua corruzione hanno portato alla crescita di Hamas, creatura della Fratellanza, a Gaza, in opposizione a un gruppo precedente, la Jihhad al Filistini. Ovviamente il grande fatto periodizzante in questo mondo è costituito dalla rivoluzione iraniana del 1979. Seppure in un contesto sciita, essa ha dato impulso decisivo al moderno islamismo radicale, mostrando le possibilità di riuscita di una rivoluzione. Occorre sottolineare, tuttavia, che neppure il regime degli ayatollah, con la sua guida suprema, di fronte all’invasione irachena del 1980 nel sudovest del paese proseguita in una guerra sanguinosa durata otto anni, osò porre la questione della guerra santa. Nonostante la natura laica del regime di Saddam Hussein in Iraq, nessuna jihad venne mai dichiarata esplicitamente contro di esso. Durante la prima guerra del Golfo, poi, la divisione tra quanti invocavano la necessità di proclamare la guerra santa contro il regime di Saddam e quanti invece contro l’«aggressore americano», fu lacerante e significativa. Tra i primi si collocarono l’Arabia Saudita, l’Egitto, il Kuwait, e tra i secondi vari ulema sunniti e sciiti iracheni, personalità in esilio come il tunisino Gannouchi, il partito islamico pakistano. Ho moltiplicato questi esempi perchè mi pare che tali vicende testimonino della necessità di usare prudenza nell’applicazione di categorie religiose e millenaristico-fondamentaliste ai conflitti che investono diretta29. Sono quei fondamentalismi studiati approfonditamente in Italia da Enzo Pace e Renzo Guolo, e in generale da Gilles Kepel, Olivier Carré, Bruno Etienne e molti altri. Ma resta essenziale per la comprensione del fenomeno la lettura diretta degli scritti dei promotori delle correnti radicali, da Hassan al Banna a Said Qutb, per l’Egitto, a Sayyd Mawdudi per il Pakistan.

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mente o indirettamente i mondi islamici, che continuano a essere divisi tra l’opzione di abbracciare la modernità occidentale e l’attesa per il recupero di glorie perdute, in opposizione ai processi conformizzanti o “americanizzanti” della globalizzazione. Non è quindi illusoria a mio avviso la considerazione di Partner, secondo il quale gli esempi della Turchia e del Pakistan, in particolare, mostrano che non c’è nessuna connessione «fatale» tra islamismo ed estremismo e ancor meno tra islamismo e terrorismo. In determinate circostanze sociali e politiche, l’islamismo può condurre al terrorismo; in altri contesti, si è mostrato capace di vivere in pace in un sistema costituzionale, al pari di altri movimenti dalle forti convinzioni ideali.30

4. L’abbraccio tra Chiesa e pace nel Novecento Scrive Karol Wojtyła, nel suo primo messaggio da papa per la Giornata mondiale della pace del primo gennaio 1979: Gli affari degli uomini devono essere trattati con umanità e non mediante la violenza. Le tensioni, le liti ed i conflitti devono essere regolati mediante negoziati ragionevoli e non mediante la forza; [...] il ricorso alle armi non può essere considerato come lo strumento appropriato per risolvere i conflitti: i diritti umani imprescrittibili devono essere salvaguardati in ogni circostanza; non è permesso uccidere per imporre una soluzione.31

Sono affermazioni che si iscrivono nell’ampio capitolo del magistero dei papi del Novecento sulla pace. Una vera e propria teologia che disegna, nel XX secolo della sua esistenza, un ripudio pressoché totale della guerra da parte del vertice della Chiesa cattolica. In passato essa aveva stabilito i principi che rendevano legittima una guerra. Ma nei pontificati novecenteschi cresce progressivamente il rifiuto della guerra, mentre si affina una coscienza di pace che mette in ombra, fin quasi a cancellarla, la tradizionale dottrina sulla “guerra giusta”. Si tratta di una parabola che è ormai nota, grazie agli studi di Daniele Menozzi e Renato Moro, ai volumi collettanei curati da Franzinelli e Bottoni32 e molti altri, che hanno fatto seguito a quelli di An30. Partner, Il Dio degli eserciti, cit. p. 299. 31. Il testo è nell’apposita sezione del sito www.vatican.va. 32. Cfr. Chiesa e guerra. Dalla benedizione delle armi alla pacem in terris, a cura di M. Franzinelli, R. Bottoni, Bologna 2005.

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drea Riccardi, Giuseppe Alberigo, Alberto Melloni. In Francia, tra gli altri, George Minois e Joseph Joblin hanno prodotto ricostruzioni complessive del rapporto tra Chiesa, pace e guerra.33 È un itinerario che provo a tratteggiare, riguardo soprattutto al magistero dei papi, senza poter dettagliare gli ostacoli e i ripensamenti che hanno accompagnato questo processo. Per i papi le guerre mondiali, che vedono i cattolici e i cristiani in generale in guerra gli uni contro gli altri, sono una tragedia lacerante. In patria le gerarchie e i fedeli pregano insistentemente per la vittoria del proprio paese, e incoraggiano il popolo a partecipare attivamente alla lotta. Durante la Grande guerra Benedetto XV nella famosa nota dell’agosto 1917 definisce il conflitto una «inutile strage». Viene criticato e tacciato di disfattismo. I governi laici, come in Italia, chiedono il sostegno delle Chiese locali alla mobilitazione e queste aderiscono volentieri, si “nazionalizzano”, chiamano alle armi e implorano da Dio la vittoria, mentre il papa chiede la pace. Come scrive Andrea Riccardi «la guerra mondiale è un terreno invivibile per la Chiesa di Roma».34 Nella Santa Sede ci si convince che se la guerra è un male per il mondo, lo è in maniera tutta particolare per la Chiesa stessa. Lo scontro mondiale contiene i germi della disintegrazione della Chiesa cattolica, un’internazionale dal respiro universale. Benedetto XV inaugura una stagione in cui i pontefici conieranno espressioni di ripudio dell’evento bellico destinate a notorietà e presa sull’opinione pubblica. Per Benedetto XV la guerra è «immane flagello»,35 «suicidio dell’Europa civile»,36 «gigantesca carneficina».37 Secondo Pio XI «tutto si può accomodare senza la guerra»38 33. Cfr. tra gli altri G. Minois, L’Église et la guerre. De la Bible à l’ère athomique, Paris 1994; J. Joblin, L’Église et la guerre, Paris 1988; Pacem in Terris. Tra azione diplomatica e guerra globale, a cura di A. Giovagnoli, Milano 2003; A. Riccardi, La pace possibile. Il cristianesimo, la guerra e la violenza nel Novecento, in Democrazia e cultura religiosa, a cura di Id., C. Brezzi, C.F. Casula, A. Giovagnoli, Bologna 2003; D. Menozzi, Chiesa, pace e guerra nel Novecento. Verso una delegittimazione religiosa dei conflitti, Bologna 2008. 34. A. Riccardi, Intransigenza e modernità. La Chiesa cattolica verso il terzo millennio, Roma-Bari 1996, p. 12. 35. Esortazione ai popoli belligeranti e loro capi, n. 2, 28 luglio 1915. 36. Ibidem. 37. Ad beatissimi Apostolorum Principis, enciclica di Benedetto XV, 2. 38. Discorso alle infermiere cattoliche, 27 agosto 1935, in Discorsi di Pio XI, III, 1934-1939, Città del Vaticano 1961. Si tratta di parole pronunciate “a braccio”, e riferite alla guerra d’Etiopia, ritenuta da Pio XI «guerra di conquista» e dunque «guerra ingiusta». Su tali espressioni di papa cfr. le riflessioni di C.F. Casula a partire dalle note contenute nei diari di monsignor Tardini.

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e per Pio XII, alla vigilia del primo settembre 1939, «tutto è possibile con la pace, tutto è perduto con la guerra».39 Di Giovanni XXIII è l’auspicio «che si affratellino tutti i popoli della terra e fiorisca in essi e sempre regni la desideratissima pace».40 Paolo VI afferma con solennità alle Nazioni Unite nel 1965 «Mai più la guerra!»,41 mentre Giovanni Paolo II – e non è che una delle tante espressioni da lui adottate – definirà la guerra del Golfo «avventura senza ritorno».42 Un’indagine andrebbe dedicata alle iniziative diplomatiche intraprese dalla Santa Sede per ristabilire o consolidare la pace dove essa è minacciata o perduta. Nell’estate 1917 il nunzio a Monaco Pacelli concorda con il Cancelliere imperiale Bethmann-Hollweg un accordo in quattro punti. Il primo agosto esso prende la forma di una nota di pace rivolta a tutti i belligeranti, rigettata dagli Alleati perché ritenuta troppo favorevole agli Imperi centrali.43 In quegli anni difficili Benedetto XV colloca la Santa Sede in una posizione di imparzialità e neutralità perché nessuno dubiti che il pontefice sia super partes. Del resto, nella guerra sono coinvolti due terzi dei cattolici del tempo, 124 milioni dalla parte dell’Intesa e 64 dalla parte degli Imperi. Come schierarsi per gli uni o per gli altri senza compromettere l’unità stessa della Chiesa? La dottrina della neutralità non sarà abbandonata dai successori ma rielaborata e approfondita. Sarà sancita dai Patti lateranensi, nel febbraio 1929.44 Quanto alla seconda guerra mondiale, Pietro Pastorelli osserva che la Santa Sede mantiene una «neutralità benevola verso le democrazie occidentali e una neutralità critica nei riguardi degli Stati totalitari».45 La storia delle iniziative di Pio XII per raggiungere un cessate il fuoco durante la seconda guerra mondiale è nota. Aveva tentato di convincere il governo italiano e il duce a non entrare in guerra, come ha documentato Italo Gar39. Cit. da Riccardi, Intransigenza e modernità, p. 13. 40. Giovanni XXIII, Pacem in terris, 91. 41. Cfr. Tutti i Documenti del Concilio, Roma-Milano 19902, p. 548. 42. Cfr. Giovanni Paolo II per la pace nel Golfo, Città del Vaticano 1991. 43. Su tutto questo cfr. Benedetto XV e la pace, a cura di G. Rumi, Brescia 1990; Benedetto XV, i cattolici e la prima guerra mondiale, a cura di G. Rossini, Roma 1963; A. Monticone, Il pontificato di Benedetto XV, Storia della Chiesa, XXII/1, Cinisello Balsamo 1988, pp. 155-200. 44. Art. 24, I co., Trattato Lateranense. 45. P. Pastorelli, Pio XII e la politica internazionale, in Pio XII, a cura di A. Riccardi, Roma-Bari 1984, p. 128.

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zia.46 In seguito avrebbe maturato quella che Xavier de Montclos ha definito «ossessione della pace».47 L’ottenimento di un’interruzione delle ostilità rappresentò in ogni momento per Pacelli e i suoi collaboratori l’obiettivo prioritario: si tentò di convocare una conferenza internazionale, una sorta di nuova Monaco; si agì su Mussolini perché frenasse Hitler sull’annessione di Danzica; nel 1940, dopo la resa della Francia, il segretario di Stato Maglione chiese a Germania, Inghilterra e Italia quale accoglienza avrebbe suscitato un’iniziativa della Santa Sede per negoziare una cessazione del conflitto. Sono alcuni esempi; di certo l’imparzialità richiedeva riserbo. Il Vaticano evitava atti o dichiarazioni che avrebbero potuto indispettire l’uno o l’altro dei belligeranti. «Si può dire – scrive Andrea Riccardi – che i silenzi siano una scelta esplicita della Santa Sede».48 Un interessante documento, tratto dal diario di mons. Roncalli, mette in luce come la questione del «silenzio» fosse presente nelle preoccupazioni di Pio XII. «Egli mi chiese – nota Roncalli riguardo a un’udienza del 10 ottobre 1941 – se il suo silenzio circa il contegno del nazismo non fosse giudicato male».49 E a don Pirro Scavizzi il papa dice: «Una protesta solenne mi varrebbe forse l’elogio del mondo civile, ma non servirebbe ad altro che a rendere ancora più implacabile la persecuzione degli infelici ebrei».50 Ma non voglio qui riassumere una questione tanto discussa. Certo che il dilemma, nella seconda guerra mondiale, tra protestare e denunciare, oppure il tacere per poter operare con maggiore libertà, investì tutti gli operatori umanitari, a partire dal Comitato internazionale della Croce Rossa. Un precedente fece riflettere gli esperti del soccorso. Il 17 dicembre 1942 i governi di 11 paesi, tra cui Usa, Gran Bretagna e Urss, diffusero una dichiarazione pubblica sulle persecuzioni hitleriane: «Le autorità tedesche – vi si legge – stanno mettendo in pratica la minaccia a più riprese ribadita da Hitler di sterminare gli ebrei d’Europa».51 Il testo proseguiva con l’indicazione dei dettagli delle deportazioni, ma l’atto – oltre a suscitare un’ondata di emozione in parte dell’opinione pubblica – non diede frutti. Agli uomini della Croce 46. Cfr. I. Garzia, Pio XII e l’Italia nella seconda guerra mondiale, Brescia 1988. 47. X. de Montclos, Les chrétiens face au nazisme et au stalinisme, Paris 1983, p. 33. 48. A. Riccardi, Le politiche della Chiesa, Cinisello Balsamo 1997, p. 40. 49. Ibidem. 50. Ibidem. 51. Cit. da G. Riegner, Ne jamais désespérer. Soixante années au service du peuple juif et des droits de l’homme, Paris 1998, p. 83.

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Rossa la via della protesta appariva infeconda: era soccorrere il loro modo di protestare.52 La nascita del mondo bipolare e il tramonto del predominio europeo consegnò alla Santa Sede una nuova priorità: contrastare il comunismo. Gli spazi aperti, prima in Asia e poi in Africa, dalla fine del colonialismo rischiavano di essere occupati da regimi satelliti di Mosca, la cui ostilità alla Chiesa cattolica era radicale. Gli accordi di Ginevra del 1954 che “consegnano” il Vietnam del Nord a Ho Chi Minh sono per il segretario di Propaganda Fide Sigismondi «uno sproposito».53 Nello stesso 1954 si apre la guerra di Algeria. In seno alla Curia, il cardinale Tisserant difende l’Algeria francese. Mons. Lefebvre si fa voce degli ambienti cattolici francesi integristi, favorevoli alla guerra a oltranza contro gli indipendentisti.54 Pio XII, trasferendo monsignor Duval da Costantina ad Algeri, colloca nel cuore della Chiesa algerina una personalità che non intende fornire alcun sostegno religioso alla guerra, e si pronuncia con fermezza contro la tortura e i mezzi violenti impiegati dalle forze francesi.55 L’anziano Pio XII è stretto tra esigenze contraddittorie: al rifiuto della guerra e all’appoggio agli aneliti di indipendenza dei popoli fanno da contrappunto il timore verso l’Urss e l’avanzata comunista, nonché il desiderio che l’Europa continui a fornire un contributo positivo sullo scenario del mondo, senza ritirarsi completamente. Tra le contraddizioni, il magistero pacelliano chiarifica progressivamente il diritto all’indipendenza dei paesi coloniali.56 È chiaro per il papa che la civiltà cristiana non si identifica con il colonialismo. Soprattutto, Pio XII tiene fermo un punto: la lotta al comunismo non deve motivare il ricorso alla guerra o alla violenza. Nel 1949 confida all’ambasciatore francese presso la Santa Sede: «Gli sventurati che sono chiusi in quei paesi divenuti una prigione reclamano tutti una guerra per uscirne. Ma no! Soprattutto no alla guerra! Sarebbe apocalittica. Inoltre non concluderebbe niente».57 Per il cardinal Ruffini, invece, 52. Cfr. S. Picciaredda, Diplomazia umanitaria. La Croce Rossa nella Seconda guerra mondiale, Bologna 2003. 53. Cit. da A. Riccardi, Il potere del papa. Da Pio XII a Giovanni Paolo II, Roma-Bari 1993, p. 128. 54. Cfr. ibidem, pp. 130-131. 55. Sulla figura del cardinale Duval cfr. il mio Duval d’Algeria. Una Chiesa tra Europa e mondo arabo, 1946-1988, Roma 1994. 56. Sul tema si veda, tra gli altri, Les églises chrétiennes et la décolonisation, sotto la direzione di M. Merle, Paris 1967. 57. Colloquio di Pio XII con D’Ormesson, 5 aprile 1949, cit. da Riccardi, Il potere del papa, cit. p. 99.

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e per il cardinale Ottaviani, «il conflitto tra Oriente e Occidente è inevitabile: solo la forza delle armi potrà dominare l’assalto comunista».58 La Pacem in terris di Giovanni XXIII, dell’aprile 1963, segna l’abbandono della dottrina della “guerra giusta”. L’enciclica suscita sconcerto in alcuni ambienti curiali e trova, invece, una straordinaria accoglienza nella comunità ecclesiale e fuori di essa. Con essa la Chiesa riflette su come si possa costruire la pace autentica, e intima a se stessa e a ogni uomo di buona volontà di lavorare per essa. «Abbiamo il dovere – scrive Roncalli – di spendere tutte le nostre energie per il rafforzamento di questo bene. Ma la pace rimane solo il suono di parole, se non è fondata su quell’ordine che il presente documento ha tracciato con fiduciosa speranza» (§ 89). Fino a quel momento la teologia aveva riflettuto più volentieri sulla guerra che sulla pace. Come nota Carlo Felice Casula, nei principali dizionari di teologia cattolica è presente la voce “guerra”, e non la voce “pace”. Ma la costituzione conciliare Gaudium et Spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, promulgata nel dicembre 1965, condanna definitivamente la guerra: «Dobbiamo con ogni impegno sforzarci per preparare quel tempo, nel quale, mediante l’accordo delle nazioni, si potrà interdire del tutto qualsiasi ricorso alla guerra» (§ 82). La Chiesa cattolica ha definitivamente desolidarizzato con la guerra, e dopo la svolta conciliare guarda con simpatia alle istituzioni umane che devono promuovere pace, giustizia e sviluppo, e collabora con esse. Tale novità è sancita dalla visita di Paolo VI all’Onu, il 4 ottobre 1965, dove dichiara: «L’umanità deve porre fine alla guerra, o la guerra porrà fine all’umanità».59 Quindi chiede ai capi delle nazioni un giuramento, in nome del sangue di milioni di uomini e di innumerevoli e inaudite sofferenze: «Mai più la guerra, Mai più la guerra!».60 5. Da Lepanto ad Assisi È con queste premesse che Giovanni Paolo II concepisce l’idea di convocare ad Assisi i rappresentanti delle grandi religioni mondiali, per un incontro di preghiera per la pace. Il 27 ottobre 1986, quando il crollo del comunismo e la fine della guerra fredda sono difficilmente preventivabili, 124 leader re58. Cit. da A. Riccardi, Chiesa di Pio XII o Chiese italiane?, in Le Chiese di Pio XII, a cura di Id., Roma-Bari 1986, p. 30. 59. Tutti i documenti del Concilio, cit. p. 546. 60. Ibidem, p. 548.

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ligiosi raccolgono l’invito di Wojtyła e danno vita a una manifestazione inedita. Ognuno prega per la pace a suo modo e secondo la propria tradizione. «Gli uni accanto agli altri – come disse il papa – e non più gli uni contro gli altri». Una cerimonia interreligiosa chiude l’evento, offrendo un’immagine che si imprimerà nella memoria collettiva. Gli intenti sono molteplici. Fare in modo che i mondi religiosi, senza annullare le differenze, si conoscano, si frequentino, si stimino. Non più competizione, o guerra, ma nemmeno indifferenza. In secondo luogo, l’evento porta a riscoprire e valorizzare il messaggio di pace che è nel cuore di tutte le tradizioni religiose, e necessita di essere disincrostato da secoli di incomprensioni e scontri. Si tratta poi di togliere legittimità a quanti intendono coinvolgere le comunità religiose nei conflitti, o giustificare la violenza con motivazioni “alte”. Uno dei messaggi ricorrenti dei vari incontri di “preghiera per la pace” sarà il ribadire la santità della pace e contestare ogni santità o bontà della guerra. Infine, ma si potrebbe continuare, lo «spirito di Assisi», come è stato definito questo percorso di avvicinamento, è utile a “vaccinare” i leader religiosi dalle tentazioni belliciste, fino a farne dei promotori di dialogo e pacificazione. I casi della Costa d’Avorio e delle Filippine sono tra i più eclatanti in tal senso. Questa dinamica, ancora poco studiata, è cresciuta con gli anni in una sequela di incontri simili a quello di Assisi, organizzati annualmente in varie città dalla Comunità di Sant’Egidio, che si è incaricata di raccogliere l’eredità di quel 27 ottobre 1986, convinta delle sue potenzialità di pacificazione. Alberto Melloni ne ha scritto nel 2007;61 le riflessioni più pregnanti restano quelle di Piero Rossano, mentre Andrea Pacini e la Fondazione Agnelli hanno dedicato al dialogo interreligioso nello spirito di Assisi due volumi nel 2009 e 2011. Quella Giornata mondiale di preghiera per la pace si colloca storicamente sul crinale di cambiamenti epocali, la cui portata e i cui effetti stiamo valutando ancora oggi. Le vicende del mondo contemporaneo hanno subìto da allora un’accelerazione incredibile, con esiti imprevedibili come la fine dell’impero sovietico, lo sfaldamento dello stesso Terzo Mondo e l’avanzata del processo di globalizzazione. Lo stesso quadro internaziona-

61. A. Melloni, Da Nostra Aetate ad Assisi 86. Cornici e fatti di una recezione creativa del Concilio Vaticano II, in «Convivium Assisiense», 9 (2007). L’autore rileva l’opportunità di una riflessione storica sulla giornata di preghiera di Assisi, che ritiene tanto necessaria quanto delicata, per le implicazioni di carattere teologico che comporta.

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le, dopo l’11 settembre 2001, mostra come il rapporto tra le religioni sia un elemento di vitale importanza geopolitica. Alberto Melloni ha notato come questa iniziativa di Assisi rappresenti «una svolta dell’atteggiamento del cattolicesimo contemporaneo verso le religioni»62 e, allo stesso tempo, una svolta nella visione che le religioni non cristiane hanno del cristianesimo. Le radici dell’evento di Assisi vanno ricercate nella dichiarazione conciliare Nostra Aetate, che indica alla Chiesa e al mondo l’importanza di relazioni di amicizia e collaborazione tra i cristiani e le grandi religioni mondiali, in particolare ebraismo e Islam. Nei decenni successivi le migrazioni e la maggiore permeabilità delle frontiere hanno accresciuto la coabitazione tra genti di religioni differenti, e con essa anche la domanda di dialogo. Assisi 1986 è il frutto maturo di questa stagione. Diceva Giovanni Paolo II nel suo discorso conclusivo sulla piazza di San Francesco: «Abbiamo riempito i nostri occhi di visioni di pace: esse sprigionano energie per un nuovo linguaggio di pace, per nuovi gesti di pace, gesti che spezzeranno le catene fatali delle divisioni ereditate dalla storia o generate dalle moderne ideologie. La pace attende i suoi artefici». Le religioni, dopo il 1989, hanno subito una spinta prepotente a legittimare e benedire conflitti, mobilitare popoli, giustificare l’odio. Si sono trovate davanti a un bivio, tra la manipolazione dei sentimenti religiosi per dividere e opporre e, d’altra parte, l’antica e nuova tensione universalistica e unitiva per cui l’uomo, creatura di Dio, è fratello del proprio simile. In tutte le tradizioni religiose è presente in radice il valore della pace. Dalle migrazioni alla distruzione dell’ecosistema, dagli scenari di crisi alla risposta da fornire al terrorismo, dall’invecchiamento della popolazione all’impoverimento di vaste zone del pianeta, fino al più generale problema di ricreare tessuti di convivenza pacifica in società plurali, i credenti possono molto: questa è la scommessa dello spirito di Assisi, eredità proposta a tutte le tradizioni religiose, nella convinzione, rafforzata dalla conoscenza storica, che nessuno scontro di civiltà sia davvero inevitabile.

62. Id., Le cinque perle di Giovanni Paolo II: i gesti di Wojtyła che hanno cambiato la storia, Milano 2011, p. 51.

andrea lollini La sovrapposizione storia e diritto: l’esperienza della Commissione sudafricana verità e riconciliazione

1. Introduzione Le profonde trasformazioni su scala globale impresse dalla fine della guerra fredda si sono riverberate su molteplici aspetti politici, sociali e culturali. Con riferimento al tema che qui si tratta, la fine del sistema bipolare è stata all’origine di una delle più importanti ondate di transizioni costituzionali che hanno prodotto nuove costituzioni nate dalle ceneri di regimi illiberali responsabili di violazioni su larga scala dei diritti fondamentali.1 In questo quadro, in aree geopolitiche differenti (America Latina, Africa, Europa, Asia), a partire dalla fine del secolo scorso, molteplici paesi hanno intrapreso difficili processi di transizione alla democrazia. Il costituzionalismo che ne è derivato ha dovuto affrontare il problema della giustizia per i crimini commessi da oligarchie militari o apparti dello Stato criminale. Tali transizioni costituzionali, che in molteplici casi hanno seguito modalità negoziate2 tra nuovi soggetti politici e i protagonisti di regimi pregressi hanno dovuto attuare il nodo della giustizia di transizione schiacciato tra due forze opposte: la necessità di preservare la riuscita del 1. G. de Vergottini, Le transizioni costituzionali, Bologna 1998; L. Mezzetti, Le democrazie incerte. Transizioni costituzionali e consolidamento della democrazia in Europa orientale, Africa, America Latina, Asia, Torino, 2000. 2. Per un’analisi generale del fenomeno delle transizioni democratiche di matrice negoziale si veda L. Mezzetti, Teoria e prassi delle transizioni costituzionali e del consolidamento democratico, Padova 2003; G. Rolla, Luci ed ombre dell’esperienza delle transizioni pactdas, in «Diritto pubblico comparato ed europeo», 3 (2001), pp. 1084-1096; e Peaceful Transition to Constitutional Democracy, in «Cardozo Law Review», 19 (1998), pp. 19531984.

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processo di trasferimento del potere politico dai vecchi apparati autoritari a nuovi attori politici “democratici” (che implicava una sostanziale rinuncia a esercitare l’azione penale nei confronti di coloro che hanno commesso crimini politici nel vecchio ordine costituzionale), e l’opposta necessità, da un lato, di soddisfare le tensioni di matrice retributiva delle vittime e dall’altro, di non rinunciare a delegittimare i vecchi oppressori attraverso lo strumento del diritto (in chiave giudiziaria).3 La fine del XX secolo e l’inizio del XXI sono stati quindi caratterizzati da un fenomeno specifico: il moltiplicarsi di occasioni in cui storia, memoria collettiva, diritto e processo penale si sono intersecati e sovrapporsi in maniera sovente problematica.4 Fin processi francesi a carico di Paul Touvier, Klaus Barbie e Maurice Papon,5 in cui la categoria giuridica dell’imprescrittibilità dei crimini contro l’umanità fu utilizzata per la prima volta, il problema della difesa giudiziaria della “verità storica” e della “memoria collettiva del passato” si sono trovati inevitabilmente in difficile relazione con i principi del diritto e le garanzie processuale.6 Tale fenomeno è stato amplificato dalla continua riapertura giudiziaria, specialmente in 3. Sul punto, A. Demandt, Macht und Recht. Grosse Prozesse in der Geschichte, München 1990; nonché l’importante ricerca di O. Kirkhheimer, Political Justice. The Use of Legal Procedure for Political Ends, Princeton 1961; S. Kattago, Ambiguous Memory. The Nazi Past and German National Identity, London 2001. Si veda inoltre D. Zolo, La giustizia dei vincitori. Da Norimberga a Bagdad, Roma-Bari 2006. 4. Cfr. Contemporary History on Trial. Europe since 1989 and the Role of the Expert Historian, a cura di H. Jones, K. Östberg, N. Randeraad, Manchester 2007. 5. In Europa l’idea di imprescrittibilità è infatti apparsa durante una seconda fase delle transizioni post-fasciste e post-naziste. È sufficiente notare che l’escamotage giuridico della nozione di imprescrittibilità, creato per lasciare aperta la porta a una remise en question judiciaire del passato, è stata al centro di un aspro dibattito giuridico e politico a partire dagli anni Sessanta. Sul processo a Paul Touvier si vedano F. Bédarida, Touvier le dossier de l’accusation, Paris 1996; L. Greilsamer, D. Schneidermann, Un certain Monsieur Paul, Paris 1994. Sul processo Klaus Barbie, per verificare in che misura esso abbia coinvolto l’opinione pubblica francese, si vedano J. Vergès, Je défends Barbie, Paris 1988 e A. Finkielkraut, La mémoire vaine. Du crime contre l’humanité, Paris, 1989. Sul processo a Papon si rinvia allo speciale pubblicato dal quotidiano «Le Monde» nel marzo 1998 dal titolo Condamné libre, e a J.J. Gandini, Le procès Papon. Histoire d’une ignominie au service de l’Etat, Paris 1999. Sul processo Priebke cfr. R. Bentivegna, Operazione via Rasella. Verità e menzogna: i protagonisti del racconto, Roma 1996. 6. Basti qui ricordare le riflessioni di C. Ginzburg, Il giudice e lo storico. Considerazioni a margine del processo Sofri, Torino 1991; Id., Rapporti di forza. Storia Retorica, Prova, Milano 2000 (in particolare il primo capitolo).

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Europa, di pagine riguardanti crimini commessi durante la seconda guerra mondiale.7 Il controverso rapporto tra metodologia di ricerca storica e di ricostruzione giudiziaria dei fatti è stato quindi ricorsivamente sollecitato evidenziando, ancora oggi, una serie di nodi problematici che hanno alimentato importanti dibattiti tra giuristi e storici. A titolo d’esempio possiamo ricordare che se la sentenza cristallizza indelebilmente una ricostruzione dei fatti (salvo le ipotesi di revisione del processo strettamente disciplinate dalla legge), la storia ha invece natura dinamica e, in quanto scienza è suscettibile intrinsecamente di reinterpretazioni. Pertanto la continua remise en question juridique del passato storico e della memoria collettiva, così come l’insistente appello all’autorità del giudice e della sentenza per difendere visioni consolidate e condivise del passato, hanno trasformato le aule giudiziarie in spazi di discussione storica e mnemonica del passato. Una serie di fattori hanno accompagnato e favorito lo sviluppo di questo fenomeno: 1) la repressione giudiziaria del negazionismo (ora divenuto fattispecie criminale in molti codici penali nazionali);8 7. Tra una bibliografia molto vasta si veda, con riferimento all’esperienza italiana, G. Vassalli, La collaborazione col tedesco invasore nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, in G. Vassalli, G. Sabatini, Il collaborazionismo e l’amnistia politica nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, Roma 1947, pp. 42 ss.; G. Neppi Modona, Giustizia penale e guerra di liberazione, Milano 1984; A. Orlandini, G. Venturini, I giudici e la resistenza. Dal fallimento dell’epurazione ai processi contro i partigiani: il caso di Siena, Milano 1983; H. Woller, I conti con il fascismo. L’epurazione in Italia 1943-1948, Bologna 1997; M. Franzinelli, L’amnistia Togliatti. 22 giugno 1946. Colpo di spugna sui crimini fascisti, Milano 2006. 8. Sul punto si rinvia a E. Fronza, Profili penalistici del negazionismo, in «Rivista italiana di diritto e procedura penale», 42/3 (1999), pp. 1034-1074, in cui si analizzano: la revisione costituzionale austriaca del 26 febbraio 1992, che apre la strada alla punibilità della negazione, giustificazione, minimizzazione del genocidio e degli altri crimini contro l’umanità; l’art. 607 del codice penale spagnolo, che prevede la punibilità per la diffusione di idee che neghino o giustifichino gli atti di genocidio; l’omologo art. 240 del codice penale portoghese; la loi n. 90-602 del 13 luglio 1990 (Loi Gayssot) in Francia; l’art. 130 del StGB tedesco ed la nuova formulazione dell’art. 261 bis del codice penale svizzero. L’UE, da parte sua, ha poi espressamente sollecitato, attraverso l’adozione di un’azione comune, gli Stati membri a punire penalmente le tesi storiche negazioniste (L’action Commune du 15 Juillet 1996, adoptée par le Conseil sur la base de l’art. K3 du Traité de l’Union Européenne contre le racisme et la xénophobie, in «Journal Officiel des Communautés Européennes», 24 luglio 1996). Si rinvia a V. Igounet, Histoire du négationnisme en France, Paris 2000; D. Daeninckx, V. Staraselski, Au nom de la loi, Paris 1998. G. Bensoussan,

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2) il contestuale esplodere dell’ondata di transizioni politiche che hanno condotto molti paesi, dopo la caduta del Muro di Berlino, ad abbattere regimi autoritari e illiberali responsabili di crimini politici su larga scala. In tutti questi casi, il problema della giustizia per i crimini del passato (la c.d. Transitional Justice) è divenuto terreno di scontro durante i processi costituenti che hanno seguito l’abbattimento dei suddetti regimi.9 La prima e più importante biforcazione che si è creta in queste circostanze è stata la battaglia circa la scelta dello strumento più efficace di dealing with the past. È noto che il dibattito sulla scelta di sistemi di retributive o restorative justice ha radici proprio in questo contesto, portando all’attenzione internazionale i sistemi alternativi di giustizia penale (le Commissioni per la verità e la riconciliazione);10 3) il consolidarsi della giustizia penale internazionale. Nata durante le crisi della guerra balcanica e del genocidio rwandese, ha visto la creazione di due Tribunali internazionali ad hoc e la successiva istituzione della Corte penale internazionale. In queste giurisdizioni, la determinazione inequivocabile attraverso il diritto e la sentenza del giudice di ampi scenari storici è stata affiancata alla primaria e più ortodossa finalità del processo penale: limitarsi al solo accertamento delle responsabilità penali individuali.

Négationnisme: le génocide continué, in «Revue d’histoire de la Shoah, le Monde Juif», 3/166 (1999), pp. 2-120; M. Troper, Droit et négationnisme, in «Les Annales», 54/6 (1999), pp. 1239-1256. 9. In una letteratura ormai assai vasta ci limitiamo qui a rinviare a Transitional Justice: How Emerging Democracies Reckon with Former Regimes, a cura di N.J. Kritz, 3 voll., Washington 1995; R. Siegel, Transitional Justice: A Decade of Debate and Experience, in «Human Rights Quarterly», 20 (1998), pp. 433 ss.; L. Huyse, Justice after Transition: On the Choices Successor Elites Make in Dealing with the Past, in International Criminal Law and procedure, a cura di J. Dugard, C. Van Wyngaert, Dartmouth 1999, pp. 51-78; L. Huyse, E. Van Dael, Justice après des graves violations de droits de l’homme. Le choix entre l’amnistie, la commission de la vérité et les poursuites pénales, 2 voll., Leuven 2001; J. Elster, Closing the Books. Transitional Justice in Historical Perspective, Cambridge 2004. 10. Sulla nozione di restorative justice si veda, in generale, Restorative Justice. Theoretical Foundation, a cura di E.G.M. Weitekamp, H.J. Kerner, Portland 2002; L. Walgrave, Restorative Justice and the Law, Portland 2002; A. Lollini, La “giustizia di transizione”: il principio del duty to prosecute come una nuova variabile di eterodeterminazione dei processi costituenti?, in Guerre e minoranze. Diritti delle minoranze, conflitti interetnici e giustizia internazionale nella transizione alla democrazia nell’Europa Centro-Orientale, a cura di G. Gozzi, F. Martelli, Bologna 2004, pp. 323-362.

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2. La Commissione sudafricana per la verità e la riconciliazione La sovrapposizione o l’intersecarsi tra metodologia di ricerca storica e ricostruzione giudiziaria dei fatti è quindi un fenomeno di grande portata, che ha caratterizzato i decenni successivi alla fine della guerra fredda. In questo quadro, l’intersecarsi tra “storia e diritto” è stata particolarmente significativa nell’esperienza della Commissione sudafricana verità e riconciliazione (Truth and Reconciliation Commission, Trc). La Commissione, istituita per far luce sui crimini dell’era segregazionista, è stata un organismo creato per aggirare l’impossibilità politica di dar luogo a processi penali ordinari per i crimini dell’apartheid durante la transizione costituzionale che ha condotto il Sudafrica alla democrazia dal 1990 al 1996. Nell’esperienza sudafricana, in controtendenza con quanto stava contestualmente avvenendo in Europa e a livello internazionale, la storia non doveva essere provata in senso giudiziario ma pubblicamente raccontata direttamente dai protagonisti delle vicende. Per produrre tutto questo, il Sudafrica post-apartheid ha rinunciato, non senza sollevare critiche e perplessità, alla repressione penale dei crimini del passato.11 La Trc, dopo l’approvazione del suo statuto nel 1995, iniziò ufficialmente i suoi lavori nel gennaio del 1996. Il lavoro di inchiesta della Trc si concluse nell’ottobre del 1998 con la pubblicazione dei primi cinque volumi del rapporto finale, in cui sono riportati i risultati delle indagini, delle deposizioni delle vittime e in particolare le “confessioni” e le “rivelazioni” di coloro che avevano commesso i crimini per cui era competente, ratione temporis e ratione materiae, la Commissione. Nel 2003 seguì poi la pubblicazione di altri due importanti volumi del rapporto: il primo interamente consacrato al lavoro dell’Amnesty Committee, il secondo, intitolato Victim findings riassume i risultati del lavoro d’indagine della Commissione sulla base di quanto rivelato dalle vittime. La Trc è stata suddivisa in tre sottocommissioni: con competenze differenti: il Committee on Human Rights Violations, l’Amnesty Committee ed il Reparation and Rehabilitation Committee. Il primo è stato competente a ricevere le submissions delle vittime; davanti al secondo si è svolta la “liturgia” della disclosure pubblica che preludeva, una volta verificate le altre precondizioni, alla concessione dell’amnistia. A esso era quindi imposto l’obbligo, terminata la fase del11. Ci permettiamo di rinviare a A. Lollini, Constitutionalism and Transitional Justice in South Africa, New York-Oxford 2011.

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la confessione e dell’eventuale risposta del richiedente l’amnistia alle domande delle vittime e dei commissari, di verificare se il caso rientrava nelle sue competenze. In altre parole l’Amnesty Committee doveva accertare se i crimini oggetto della disclosure rientravano in quelli previsti dallo statuto della Trc, se erano stati effettivamente commessi con finalità politiche, ovvero nel quadro della lotta tra chi sosteneva e chi si opponeva al regime segregazionista, e infine se tali crimini erano stati commessi nell’arco della competenza temporale della Trc (1960 e il 1998). L’Amnesty Committee ha potuto rigettare la richiesta di amnistia ogni qual volta la disclosure fosse risultata insufficiente o lacunosa (sulla base di ciò che è stato dichiarato dalle vittime e dei dati contenuti nel National Data Base e nelle inchieste delle Investigation Units), o se il crimine non rientrava nella competenza generale della Commissione. Tutti coloro che, avendo commesso crimini durante il regime segregazionista, hanno deciso di accettare la singolare procedura della Trc, avevano a disposizione un termine perentorio stabilito nello statuto entro il quale presentare la richiesta scritta alla Commissione, contenente la descrizione dei fatti oggetto della violazione e la domanda di amnistia. Tuttavia è necessario chiarire che per coloro che non hanno accettato la procedura della Trc o per coloro i cui crimini non rientravano nella competenza della Commissione – per esempio erano stati commessi al di fuori del contesto della guerra per abbattere il regime di apartheid – si profila in futuro il rischio di essere sottoposti a processi penali ordinari. Occorre sottolineare come la “liturgia della confessione” pubblica, sia stata realmente concepita come una sorta di spazio espiativo pubblico. Le udienze della Trc sono state infatti quotidianamente seguite da media nazionali ed internazionali che hanno provveduto, tramite apposite trasmissioni, a diffondere in Sudafrica e in altri paesi le registrazioni delle udienze. Per completare la panoramica riguardante il funzionamento della procedura della Trc, bisogna brevemente analizzare quali sono in realtà quegli atti che, commessi con finalità politiche tra il 1960 ed il 1998, possono essere amnistiati a seguito di una confessione resa davanti all’Amnesty Committee. Lo statuto della Trc prevedeva i seguenti crimini: torture and abduction, killing e severe ill treatment. Il parlamento sudafricano, al momento della stesura del testo dello statuto della Trc, ha quindi scelto di identificare le gross violations of human rights di cui si sarebbe dovuta occupare la Commissione attraverso categorie neutre rispetto per esempio a fattispecie come murder o kidnapping utilizzati comunemente nel

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diritto penale interno. Tale scelta è stata dettata dalla volontà di mantenere separate, anche a livello terminologico, le fattispecie di competenza della Commissione da quelle di diritto interno. La decisione è scaturita dalla necessità di differenziare la Trc, anche simbolicamente attraverso l’utilizzo di figure criminose differenti, da un tribunale penale ordinario. Queste fattispecie criminose, per essere amnistiate a seguito di confessione pubblica, dovevano però essere state commesse con finalità politiche, ovvero nel quadro della lotta tra lo Stato segregazionista e i movimenti di liberazione nazionale. 3. Storia, diritto e giustizia nell’esperienza della Commissione sudafricana per la verità e la riconciliazione I processi di ricostruzione storico-mnemonica di esperienze traumatiche del passato sono stati intrappolati, negli ultimi decenni, tra due forze opposte: “l’ipertrofia della storia” e “l’ipertrofia del diritto”.12 Da un lato vi è l’accumulo di studi, analisi e dibattiti storiografici; dall’altro si è fatto sempre più ricorso alle sentenze dei giudici per statuire sui medesimi fatti oggetto dei dibattiti storiografici, quasi che gli acquis storici non fossero da soli sufficienti a proteggere una memoria condivisa stabile del passato. Ora, la speciale procedura della Trc, che tante critiche ha sollevato fin dalla sua creazione, ha tentato di spezzare questa dicotomia e al contempo di sedare, fin dal momento genetico del nuovo Sudafrica post-segregazionista, eventuali conflitti mnemonici. L’idea di fare appello al testis contra se di coloro che si sono resi responsabili dei crimini nell’era dell’apartheid soddisfa, almeno negli intenti di coloro che hanno progettato il sistema della Trc, questa esigenza. In questo quadro, se la percezione collettiva di determinati fatti come la criminalità di Stato o quella politica costruita solamente sugli elementi derivanti dall’indagine storiografica può costituire un limite, un dibattito sulla memoria così sovente traslato in sede processuale rappresenta un’anomalia. Con riferimento al fenomeno in cui al diritto e al processo penale vengono assegnate funzioni supplementari rispetto al mero accertamento di fatti individuali circoscritti, emblematiche sono le conclusioni a cui taluni 12. Sul punto Y. Yerushalmi, Riflessioni sull’oblio, in Usi dell’oblio, Parma 1990, pp. 9 ss. Si vedano inoltre gli articoli consacrati al tema del rapporto tra giustizia e diritto di M.O. Baruch, P.-Y. Gaudard, F. Hartog, Y. Thomas in «Le débat», 19 (1998), pp. 5-51.

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giuristi arrivano nel momento in cui separano il concetto di “verità processuale” da quello di “verità storica”.13 In questa prospettiva, molti hanno denunciato il fatto che le finalità, le modalità e gli strumenti di accertamento probatorio del processo penale producano ricostruzioni fattuali di tipo diverso da quelle storiche. Queste considerazioni sono ulteriormente rilevanti se si pensa alla tipologia di processo penale che sarebbe stata utilizzata in Sudafrica se non si fosse scelto di istituire la Commissione, ovvero il modello processuale di tipo accusatorio.14 La sentenza, attraverso cui si determinano le responsabilità penali personali, semplifica, per sua natura, una realtà complessa. Una decisione passata in giudicato, assunta sulla base dell’opzione dualista vero o falso, pertinente o non pertinente, colpevole o innocente rispetto ad una precisa fattispecie criminale, fissa una ricostruzione limitata degli eventi sulla scorta di elementi di prova circostanziati. La sentenza possiede intrinsecamente un potere rassicurativo su cui costruire stabilmente opinioni, percezioni ed interpretazioni intorno a fatti e fenomeni. Tuttavia, come già notato, la forza della res judicata interrompe definitivamente discussioni e dibattiti attribuendo indelebilmente colpe e responsabilità a cui seguono conseguenze penali.15 La procedura attuata dalla Trc sudafricana, istituita con l’obiettivo di decodificare le dinamiche storiche dell’apartheid attraverso la ricostruzione delle responsabilità dei crimini commessi durante il regime segregazionista, rappresenta un’esperienza innovativa che si colloca sia al di fuori sia delle logiche strettamente giudiziarie, sia di quelle puramente storiografiche. Nel Sudafrica post-apartheid, essendo stato politicamente rigettato l’utilizzo di strumenti retributivi, il dibattito sul passato è stato avviato in una prospettiva di ricomposizione e confronto diretto dei “punti di vista” e non in una prospettiva di conflitto probatorio. L’obiettivo principale era quello di non consegnare l’accertamento della “verità” a un atto autoritativo di un soggetto terzo: il giudice. La Commissione sudafricana, creata in applicazione del principio della Costituzione post-apartheid di sospensione 13. Cfr. L. Ferrajoli, Diritto e ragione, Bari 1989, pp. 18-66. 14. Sul punto si veda M.J. Damanska, The Face of Justice and State Authority, New Haven 1986; Id., Evidence Law Adrift, New Haven-London 1997. 15. Cfr. Y. Thomas, La vérité, le temps, le juge et l’historien, in «Le débat», 19/102 (1998), pp. 17 ss.

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della logica strettamente giudiziaria per i crimini del passato,16 ha quindi costituito uno spazio ufficiale, pubblico e collettivo di messa in relazione di opposte percezioni dei fatti del passato per bocca dei protagonisti stessi. Molteplici sono state le ragioni di natura politica che hanno condotto all’istituzione di questo organo. In via generale, è sufficiente ricordare come il patto costituente post-apartheid siglato dai vari attori politici della transizione, tra cui vi erano anche le forze che avevano istituzionalizzato la segregazione razziale, prevedeva anche l’accordo sullo strumento per determinare una verità condivisa del passato a valenza costituente.17 Il discorso storico-menmonico prodotto dalla Trc è stato quindi direttamente incorporato nel processo costituente il cui risultato finale è stata l’adozione della Costituzione post-apartheid. Per tale ragione gli strumenti cognitivi della Commissione erano volti a determinare una visione del passato in cui si producesse una convergenza tra opposti vissuti individuali denunciati dalle vittime e/o confessati dagli autori dei crimini. Se la finalità generale della Trc era quella di contribuire alla costituzione dell’unità del corpo politico frammentato dalla segregazione razziale, lo strumento principale non poteva che essere quello di offrire uno spazio di narrazione pubblica dei fatti del passato per bocca dei protagonisti di quelle vicende, e non uno spazio di riproduzione del conflitto sotto forma di processo penale. L’idea alla base della creazione della Trc, violentemente criticata da più parti, faceva affidamento sul fatto che soltanto dal confronto diretto tra “vittime e carnefici” sarebbe scaturita una nuova e più accettabile forma di verità, diversa da quella determinata d’autorità da un giudice. A una verità frutto del conflitto probatorio che si produce nel processo penale, bisognava sostituire un’idea di verità sul passato composta dalla somma dei punti di vista individuali dei protagonisti. La logica della Trc era quella di ottenere, una volta neutralizzate le conseguenze meramente penali degli atti, narrazioni tendenzialmente “genuine” dei fatti e non attestazioni frutto di posizioni processuali strategiche per evitare le condanne. La ricostruzione del passato non doveva scaturire da un “gioco conflittuale”, ma dalla ricomposizione dell’insieme dei frammenti di verità individuale rivelati dai protagonisti delle vicende. Il superamento del conflitto segregazionista 16. Sul punto ci permettiamo di rinviare per approfondimenti a A. Lollini, Costituzionalismo e giustizia di transizione. Il ruolo costituente della Commissione sudafricana verità e riconciliazione, Bologna 2005, pp. 161 ss. 17. Cfr. ibidem.

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imponeva il superamento di ricostruzioni polarizzate e manipolatorie dei fatti oggetto dei crimini del passato. A distanza di anni dalla fine dei lavori dell’Amnesty Committee, molte sono le critiche che si possono muovere alla Trc e ai risultati che essa ha ottenuto. In questa sede non è possibile procedere a una loro analisi e discussione esaustiva. Ciò che si vuole sottolineare è tuttavia un elemento diverso e più circoscritto. L’esperienza sudafricana ha comunque incontestabilmente costituito il tentativo di esplorare una via diversa e innovativa di discorso pubblico sulla memoria e la storia di eventi traumatici del passato rispetto all’approccio giuridico-autoritativo che con frequenza crescente ha colonizzato spazi, in Europa ed a livello internazionale, più propriamente assegnati alla ricerca storica.

Indice dei nomi

ʿAbd al-ʿAzīz ibn Sa’ud, 285 Abergil Eden, 272 Acton (vedi Dalberg-Acton) Adams John Quincy, 77 Adams Michael C.C., 97n Adas Michael, 19n Akçam Taner, 282n, 283n al Banna Hassan, 288n Alberigo Giuseppe, 290 Aleksiun Natalia, 148n Alesina Alberto, 13n, 14n al-Hajj Messali, 284 Allende Salvador, 182 Alphandéry Paul, 277 e n Altman Alex, 261n Al’tšuler Mordechai, 139n, 141n, 147n, 152n Álvarez Juan, 86n Amedeo di Savoia, re di Spagna, 87 Andersen Walter K., 285n Anderson Fred, 71n Andrássy Gyula, 40n Andréadès André, 116, 117n Andriulli Giuseppe A., 37n Angell Norman, 39, 118, 221, 222 Anna Timothy E., 79n Annino Antonio, 79n, 91n Antonelli Sara, 101n Appaiah Parvathi, 286n Arad Icchak, 139n Arendt Hannah, 114, 115n Armitage David, 75n Armstrong Charles K, 188n Ascensio Hervé, 215n

Ashton Nigel J., 188n Ashworth John, 97 e n Asselin Pierre, 188n Auchter Jessica, 59n Audoin-Rouzeau Stéphane, 127n Axel Lawson Leonard, 77n Ayub Khan Mohammad, 284 Babur Badishah, 286 Bailyn Bernard, 105n Bakunin Michail A., 117 Ball Nicole, 233n Bankier David, 142n Baravelli Andrea, 264n Barber John, 134n, 252n Barbie Klaus, 298 e n Barnes James, 32n Barraclough Geoffrey, 185 e n, 265 e n Bartov Omer, 116 e n, 135 e n Baruch Marc Olivier, 303n Barzini Luigi, 37n Battaglia Gino, 285n Battistelli Fabrizio, 232, 233 e n, 235 e n Baud Michel, 263n Baugh Daniel, 53n Bauman Zygmunt, 271 e n Bay Austin, 256n Baylen Joseph O., 122n Bayly Christopher A., 90n Beck Ludwig, 43 Becker Annette, 127n, 281n Bédarida François, 298n Beinek Justyna, 136n

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Le guerre in un mondo globale

Bell David A., 8 e n, 53n, 71n Bell Emily, 261n Bellamy Chris, 64n Belleval René,de 30n Belliti Daniela, 209n Bello Andrés, 76 Bender Thomas, 96n Benedetto XV, papa, 290 e n, 291 Benigno Francesco, 45n Bennett Robert, 9n, 58n Bensoussan Georges, 299n Bentinck William, 76 Bentivegna Rosario, 298n Benvenuti Paolo, 209n Berlin Ira, 97n Bernays Edward, 266 e n, 274 e n Bessel Richard, 19 e n Best Antony, 165n Best Felix, 86n Best Geoffrey, 119n Bethell Leslie, 83n Bethmann-Hollweg Theodor von, 291 Bettanin Fabio, 180n Bettati Mario, 204n Bevan Robert, 136n Bey Rachid, 282, 283 Bhatt Chetan, 286n Bialer Uri, 243n Bianchi Bruna, 17, 111 e n, 113n, 117n, 165n Bicheno Hugh, 64n Biedenkopf Kurt H., 52n Bientinesi Fabrizio, 42n Biscotti C., 280n Biskupski Mieczyslaw B.B., 122n, 123n Bismarck Otto von, 34 Black Jeremy, 75n, 89n Blackburn Robin, 100n, 102n Blackett Richard J., 96n, 102n Blair Tony, 193 Blight David, 95 e n Bloch Ivan, 39, 221 Bloch Jan de, 118 Bloxham Donald, 143n Bobbio Norberto, 55 en Boccardo Ernesto C., 36n

Bottoni Riccardo, 289n Bodnar John, 95n Boemeke Manfred F., 221n Boisson de Chazournes Laurence, 205n Bolívar Simon, 76, 80, 82, 86 Bollati Ambrogio, 27n Bonaparte Giuseppe, 74 Bonazzi Tiziano, 8, 93, 95n, 98n, 102 e n, 105n Bonelli Franco, 243n Bonner Robert, 106n Bonsels Waldemar, 34n Boorstin Daniel J., 95n Bordoni Giovanni, 37n Borkheim Sigismund, 220n Boskovska Nada, 184n Bossard Eugène, 30n Boster Dea H., 97n Botti Alfonso, 7n Bottoni Riccardo, 289n Bourgois Siméon, 29n Boutillier de Saint-André Marin-JacquesNarcisse, 30n Boutros-Ghali Boutros, 207n Box Pelham H., 83n Bozarslan Hamit, 281n Braddick Michael J., 75n Bradley Mark Philip, 183n Brands Horst W., 247n Bravo Anna, 7n Brežnev Leonid I., 176, 180, 182, 188 Brezzi Camillo, 290n Briand Aristide, 196, 197 Brierly James L., 197n Briggs Asa, 269n, 272 e n Bright Charles, 8 e n, 12 e n, 99 e n Brion Davis David, 97n Brizzi Giovanni, 62 Brockett Linus Pierpont, 32n Brodie Bernard, 242n Brodie Fawn, 242n Brogi Alessandro, 187n Broner Adam, 145 e n, 150 e n Brooman Josh, 44n Brower Daniel R., 54n Brown Mathew, 78n

Indice dei nomi Brown Michael E., 88n, 91n Brownlie Ian, 195n Broz Josip (vedi Tito) Brzezinski Zbigniew, 155n Buchner Wilhelm, 34n Budnitskii, Oleg, 136n Buel James W., 35n Bullón de Mendoza Alfonso, 84n Bunbury Henry E., 31n Burbank Jane, 75n, 76n, 89n Burke Peter, 269n, 272 e n Burr Robert N., 83n Bush George W., 48, 56, 198, 199n, 258 Bushnell David, 84n Buxton Dorothy, 128 Byrne Malcolm, 176n Bystrova Irina, 252n Calhoun John, 106 Callahan Gene, 244n Canal Jordi, 78n, 89n Canevari Emilio, 27n Cantù Francesca, 269n Cappelletti Franco A., 203n Cardini Franco, 62 Cardona Gabriel, 85n Carey Henry, 100 Carli Maddalena, 143n Carlo III di Borbone, re di Spagna, 71, 72, 74, 81, 88 Carlo IV di Borbone, re di Spagna, 73, 74 Carlo V d’Asburgo, imperatore, 75 Carlo Luigi d’Asburgo-Lorena (vedi Charles d’Autriche) Carré Olivier, 288n Carzou Jean-Marie, 281n Casey Ralph D., 267n Cassese Antonio, 215n Castellaneta Marina, 193n Casula Carlo Felice, 290n, 294 Cattaruzza Marina, 135n Cayuela Fernández José Gregorio, 85n Ceci Lucia, 278n Centeno Miguel Angel, 83n, 90n Cerutti Furio, 209n Cesarani David, 138n

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Ceva Lucio, 228 e n Chambers John W., 221n Chang Iris, 165n Charles d’Autriche, 29n Charon Jean-Marie, 262 e n, 273 e n Charpentier Ferdinand, 30n Chasteen John C., 75n Chen Yi, 162 Chen Yinru, 169 Chiang Kai-Shek, 159 e n, 160, 161, 163, 166, 167, 169 Chickering Roger, 128n, 221n, 226n, 227n Chiusi Fabio, 261n Chungen Jiang, 169 Churchill Winston, 119 Cichopek Anna, 141n Clapham Andrew, 209n Clark Ian, 174n Clarke Frances M., 97n Clausewitz Carl von, 27 e n, 28, 29, 31 e n, 44, 66, 67 e n Clemente José Carlos, 84n Clodfelter Mark, 58n, 254n7 Coakley Robert W., 50n Cobb Richard, 75n Cohen Judith R., 151n Collell Maria-Rosa, 265n Collier Simon, 83n Collotti Enzo, 62n Colomb Philip H., 32n, 34n Colombo Alessandro, 7n, 22 e n, 23n Condorelli Luigi, 205n Conforti Benedetto, 203n, 207n Cook Robert Jr., 94n Cooper Frederick, 76n, 88n Cooper John, 143n Coopersmith Jonathan, 256n Copley Anthony R.H., 285n Coquio Catherine, 137n Corke Sarah-Jan, 179n Cortazar Roberto, 90n Costas Trascasas Milena, 203n Costigliola Frank, 189n Costolo Dick, 261 Coutau-Bégarie Hervé, 263n Crangle John V., 122n

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Le guerre in un mondo globale

Crawford James, 197n Creel George, 274 Creveld Martin van, 65n, 91n Cricco Massimiliano, 189n Crowe Jonathan, 209n Cryer Robert, 215n Cuenca Toribio José Manuel, 78n Cuervo Marquez Luis, 76n Cummings Charles L., 31n Curami Andrea, 228 e n Czerny Boris, 146n Daddis Gregory A., 254n Dadrian Vahakn N., 281n Dael Ellen Van, 300n Daeninckx Didier, 299n Daigle Caig H., 171n Dalberg-Acton John, 101 Dal Lago Enrico, 100n d’Almeida Fabrice, 266n Daly John P., 105n Damanska Mirjan J., 304n Damle Shridar D., 285n Dando Malcolm, 52n Darwin John, 89n, 91n Daudet Leon, 42 e n, 43, 45, 47 David Charles-Philippe, 268n David Eric, 209n David-Fox Michael, 136n De Benedictis Angela, 138n Decaux Emmanuel, 215n De Cesaris Valerio, 7n De Felice Franco, 177n De Francesco Antonino, 88n, 91n De Gasperi Alcide, 189 De Giorgi Laura, 113n, 165n Degli Esposti Fabio, 8, 217, 223n De Grazia Victoria, 181 e n Deighton Anne, 178n Deist Wilhelm, 52 e n, 53, 228n Del Negro Piero, 62 Del Pero Mario, 7n, 172n, 182n Demaria Cristina, 134n Demandt Alexander, 298n Deng Xiaoping, 162 Detti Tommaso, 7, 270n

de Ven Hans J. van, 158n, 166n de Vergottini Giuseppe, 297n Diamond Jared, 244 e n Diaz Porfirio, 85 Diem (vedi Dinh Diem) Di Febo Giuliana, 269n Di Jorio Irene, 261, 274n, 275n Dinh Diem N., 188 Dinstein Yoram, 198n, 212n Dirlik Arif, 161n Disselhoff Julius, 33n Dittmar Linda, 253n Dobroszycki Lucjan, 146n d’Orazi Flavoni Francesco, 285n d’Ormesson Wladimir, 293n D’Orsi Angelo, 268n Doswald-Beck Louise, 216n Douhet Giulio, 43 Downes Alexander B., 112n Doyle Don, 101 e n Dragunskij David A., 144 e n Ducommun Elie, 38n Duffy Helen, 194n Dugard John, 300n Dunant Henri, 209 Dunér Bertil, 83n Dunnigan James F., 256n Dupront Alphonse, 277 e n Dupuy R. Ernest, 53n Duval Leon Étienne, 293 e n Eastman Lloyd E., 160n Eckhardt William, 277n Eco Umberto, 272n Edelen William, 280 Efrati Shimon, 151 Eichmann Adolf, 50 Eisenhower Dwight, 94-96 Eisenstein Elizabeth L., 269n Elliott John H., 71n Ellis Frank, 138n Elpons Paul von, 34n Elst Koenraad, 286n Elster Jon, 300n el Turabi Hassan, 278 Emin Ahmet, 121n

Indice dei nomi Engel Jeffrey A., 187n Engels Friedrich, 102 e n, 220 e n Epelboin Annie, 137n Érenburg Il’ja, 139 e n Erickson John, 133, 134n Esdaile Charles, 78n Espadas Burgos Manuel, 87n Esposito John L., 284n Esteves González Edgar, 86n Etienne Bruno, 288n Evans Gareth, 202n, 204, 205n, 207n Evans Malcolm D., 202n, 215n Eyal Yonathan, 101n Falkenhausen Ludwig F. von, 34n Fasce Ferdinando, 274n Fauconnet Paul, 152n Faust Drew G., 97n Fazal Tanisha M., 59n Feinstein Yuval, 12, 13n Feldman Gerald D., 224 e n, 226 e n Fellows Erwin W., 266n Ferdinando IV di Borbone, re di Napoli, 73, 74, 76 Ferdinando VII di Borbone, re di Spagna, 74 Fermi Enrico, 242 Féré Octave, 30n Ferguson Niall, 58 e n, 81n Ferlanti Federica, 161n Ferrara Antonio, 19n Ferrajoli Luigi, 304n Ferratini Tosi Francesca, 228n Ferrer Ada, 83n Ferrero Guglielmo, 37n Finder Gabriel N., 151n Finer Samuel E., 51n Fink Carole, 130n, 171n Finkielkraut Alain, 298n Fiocco Gianluca, 9, 241 Fiorentino Daniele, 101 e n Fischer Fritz, 225 e n, 226n Fischer-Tiné Harald, 184n Fisher John R., 72n Fitchett William H., 31n Fleche Andre, 101 e n Fleury Béatrice, 137n

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Flichy Patrice, 270n Flores Marcello, 7n, 19 e n, 135n, 281n Flórez Malagón Alberto Guillermo, 80n Focarelli Carlo, 202n, 203n, 205n Foch Ferdinand, 226 Foley James, 261 Foner Eric, 108n Fontana Josep, 87n Ford Lacy K., 106n Foreman Amanda, 102n Formigoni Guido, 22, 171, 189n Forni Enrico M., 102 n Förster Stig, 128n, 221n, 223n, 226n, 227n Fortescue John W., 32n Fox-Genovese Elizabeth, 106n Francesco d’Assisi, 280 Francis Charles L., 35n Franzinelli Mimmo, 289n, 299n Fraser Ronald, 78n Frattolillo Oliviero, 165n Freedman Des, 262n, 273n Freehling William, 97 e n Frère Marie-Soleil, 269n Fried Alfred H., 40n Fronza Emanuela, 299n Fua Albert, 40n Fukuyama Francis, 246 e n Fuller John F.C., 227, 242n Fuller Margaret, 101 e n Fürst Juliane, 142n Gaddis John L., 21 e n, 173 e n, 175n, 178, 179n, 188 e n Gaeta Paola, 209n, 215n Gallagher Gary W., 107n Galli Carlo, 59, 60n, 102 e n Galli della Loggia Ernesto, 280n Gallino Luciano, 47n Gandhi Mohandas Karamchand, 286 Gandía Enrique de, 80n Gandini Jean-Jacques, 298n Gannon Charles E., 251n Gannouchi Rached, 288 Garavini Giuliano, 184n Gargiulo Pietro, 195n, 199n, 202n Garner James W., 127 e n

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Le guerre in un mondo globale

Garraway Charles, 215 e n Garzia Italo, 291, 292 e n Gatling Richard, 107 Gaudard Pierre-Yves, 303n Gaulle Charles de, 177, 227 Gavin Victor, 182n Gechman Efim S., 148 Geinitz C., 128n Gel’fand Vladimir N., 138n Gellner Ernest, 12n Genovese Eugene D., 106n Gentile Emilio, 173n Georgakakis Didier, 268n Georgi Ernst, 34n Géré François, 266n Gerz Jochen, 151n Geyer Michael, 8 e n, 12 e n, 19n, 99 e n Gholi Majd M., 124n Gibbs Samuel, 261n Gienow-Hecht Jessica, 186n Gilbert Mark, 171n Ginzburg Carlo, 275n, 298n Giovagnoli Agostino, 290n Giovanni XXIII, papa, 291 e n, 292, 294 Giovanni Paolo II, papa, 289, 291, 294, 295, 296 Gitelman Zvi, 141n Gladstone William E., 101, 103 Glantz David, 133,134 e n Gleditsch Nils P., 59n, 155n, 156n Gluski Kari, 9n, 58n Goda Norman J.W., 148n Godechot Jacques, 75n Goedde Petra, 171n Gofman, 139 Golbert Rebecca L., 152n Goldman Emma, 117 e n Goldstein Joshua S., 58n, 88n, 91n Gómez Juan Vicente, 86, 87 Gonzáles Calleja Eduardo, 89n Gonzalez-Quijano Yves, 269n González-Ruibal Alfredo, 135n Gorbačëv, Michail S., 176 Gordon Pilip H., 175n Gosh Partha S., 286n Gozzi Gustavo, 300n

Granovskij Abram, 148 Grassi Gaetano, 228n Gray Colin, 55, 195n, 202n Green Leslie C., 209n Grego Emilio., 275 e n Gregory Anne, 264n Greilsamer Laurent, 298n Greiner Bernd, 227n Greppi Edoardo, 8, 193, 202n, 209n, 210n, 215n Grinberg, Marat, 137n Groener Wilhelm, 43 Gross Jan T., 140n, 150n Grossman Vasilij, 139n Grüner Frank, 141n Guardino Peter F., 80n Guasconi Maria Eleonora, 189n Guelzo Allen C., 108n Guerra François-Xavier, 78n, 80n, 85n, 91n Guirao Fernando, 182n Gumz Jonathan E., 121n Guolo Renzo, 288n Guoxiang Meng, 156n Gutenberg Johannse, 272 Gutierrez Ardila Daniel, 85n Hacker Barton C., 243n Haldane Richard B., 120 Hale John R., 243n Hallgarten George W.F., 243n Hallion Richard P., 256n Halvorson-Quevedo Raundi, 55n Hammerman Gay, 53n Hammermann Gabiele, 229n Hamnett Brian, 78n Hanhimäki Jussi M., 176n Hardach Gerd, 223n Harper John L., 171n, 176 e n Harrison Hope M., 177n Harrison Mark, 134n, 228, 229 e n, 252n Hartcut Guy, 253n Hartog François, 303n Hartz Louis, 95n Hashmi Sohail H., 284n Haslam Jonathan, 174n

Indice dei nomi Haupt Georges, 221n Hayes Grace P., 53n Headlam Morley James, 130 Headrick Daniel R., 244n, 255n Hecker Marc, 271 n Helfferich Karl, 40n Hellbeck Jochen, 136n, 139n Helman Osvaldo Manuel, 90n Henckaerts Jean-Marie, 216n Herbert Ulrich, 229n Herzen Alexander, 117 Heuser Beatrice, 27n Higham John, 96n Hitler Adolf, 227, 292 Hobhouse Emily, 122 e n Hobsbawm Eric J., 8, 155n, 248 Hobson John A., 111 e n, 113 e n, 114 e n, 118 e n Hochgeschwender Michael, 186n Ho Chi Minh, 257, 293 Hocquellet Richard, 78n Hodges Andrew, 267n Hogan Michael J., 251n Hoheisel Horst, 151n Holloway David, 175n, 232n, 233n, 252n Holmes Richard, 64n Holquist Peter, 136n Hong Zijian (Hong James T.), 169 Hoover Herbert, 118, 119, 122, 126, 127 Hopkins Michael F., 178n Horne John, 224n Hounshell D.A., 244n Hovland Carl, 267 Howard Michael E., 27n, 111n Hugill Peter J., 255 e n, 256 e n Huntington Samuel P., 22 e n, 56n, 280 e n Hussein Saddam, 256, 258, 288 Hutcheson William, 38n Huyse Luc, 300n Igounet Valérie, 299n Ikenberry G. John, 174n Immerman Richard H., 171n Impagliazzo Marco, 277, 281 e n Ingrao Christian, 127n Innis Harold A., 243n

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Iriye Akira, 182n, 185n, 248n Irwin Ryan M., 184n Jaffrelot Christophe, 286n Jaramillo Mario, 75n Jaurès Jean, 220 Jebb Gladwyn, 208 Jervis Robert, 59n, 172n Jessberger Florian, 215n Jie Yan, 156n Joblin Joseph, 290 e n Johnson Lyndon B., 188 Johnson Niall P.A.S., 18n Jomini Antoine-Henry, 28 Jones Harriet, 298n Jones Susan, 9n, 58n Jones Howard, 102n Jourdan Jean-Baptiste, 28 Juarez Benito, 77 Jünger Ernst, 43 e n, 44 Kagan Avrom Ja., 146 Kahane David, 145 e n Kaldor Mary, 21 e n, 22, 55 e n, 179 e n Kalinovsky Artemy L., 171n Kalyvas Statis N., 13n, 21n, 91n Kamiński Łukasz, 140n Kandiah Michael D., 178n Kattago Siobhan, 298n Keegan John, 58 e n, 97n, 112n Kellogg Frank B., 196, 197 Kelly Philip, 82n Kennan George, 179 e n, 229 Kennedy David, 194n, 195n Kennedy John F., 94, 188, 232 Kennedy Paul, 57n, 245n Kepel Gilles, 279 e n, 288n Kern Stephen, 248n Kerner Hans-Jürgen, 300n Keynes John M., 253, 254 Khadduri Majid, 284n Khanin Vladimir, 153n Kipling Arthur W., 32n Kipnis Itzik, 133 e n Kirby William C., 160n Kirchheimer Otto, 298n

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Kirschner Robert, 151n Kishan Thussu Daya, 262n Kissinger Henry, 182, 195n Knight Alfred E., 40n Kolb Robert W., 209n Kolčinskaja Sarra, 147n König Robert, 33n Kosicki Piotr H., 136n, 185n Kostyrčenko Gennadij V., 141n Kovner Abba, 138 Kovriguina Assia, 137n Krakovskij Šmuel’, 139n Krause Keith, 233n Krishna Advani Lal, 286n, 287 Kritz Neil J., 300n Kropotkin Pëtr A., 117 Kuete Allan J., 72n Kunz Josef L., 128n Kürschner Joseph, 34n Labanca Nicola, 8 e n, 21n, 25, 45n, 52n, 57n, 61n, 221n, 262n, 265n Lacina Bethany, 59n, 155n, 156n Lamberti Zanardi Pierluigi, 198n Lang Berel, 138n Lansing Robert, 125, 126 e n Larres Klaus, 178n Larsen Stein U., 160n Lary Diana, 158n, 166n Lasswell Harold, 265 e n, 266, 267 e n, 274 Lauricella Giuseppe, 270n Lavi Shai, 138n Lefebvre Marcel F., 293 Leffler Melvyn P., 171n, 172n, 187n Leger Sivard Ruth, 277n Legnani Massimo, 228 e n Lehmann Eric, 43n Lehrer Erica, 143n Leighton Richard M., 50n Leitenberg Milton, 19, 21 e n, 155n, 233n Leitz Christian, 54n Lejeune Christophe, 270n Lemkin Raphael, 147n Le Moyne de La Borderie Arthur, 30n Lenin (Vladimir Il′ič Ul′janov), 220 e n

Lepre Aurelio, 22n Le Queux William, 32n Leslie Stuart W., 251n Levene Marc, 116 e n, 129n, 130n Levis Sullam Simon, 135n Levy Jack S., 59n Lewy Guenter, 281n Ley Robert, 228 Liddell Hart Basil, 226 Lin Biao, 162, 164 Lincoln Abraham, 99, 105, 107, 108 Li Xiaofang, 169 Lloyd George David, 225 Lollini Andrea, 297, 300n, 301n, 305n López Alves Fernando, 84n Losada Juan Carlos, 85n Ludendorff Erich, 43 e n, 44, 45, 47, 227 Luigi XIV di Borbone, re di Francia, 71, 74 Lundestad Geir, 155n, 181 e n Luraghi Raimondo, 97 e n Lutz Ralph H., 267n Lynn John A., 253n Lyon David, 271 e n Macaulay Neill, 84n MacKinnon Stephen R., 158n, 166n Maeck Julie, 273n Maglione Luigi, 292 Mahnken Thomas G., 252n, 253n Mahood Linda, 124n Maier Charles S., 174 e n, 185n Malanima Paolo, 241n Mandelbaum Michael, 249n Manley Rebecca, 142n Mann Michael, 116n Manning Bradley (Chelsea), 271 Mao Zedong, 20, 161, 162 Marcuse Herbert, 232 Margueritte Paul, 34n Mariano Marco, 77n Marrack John R., 118n Marshall George, 180 Marshall Logan, 40n Marshall Monty G., 14n, 16n Martelli Fabio, 300n

Indice dei nomi Marthoz Jean-Paul, 269 e n Martin Alexander M., 136n Martin Garret J., 177n Martin Jean-Clément, 75n Marx Karl, 102 e n, 117, 220 e n Mascilli Migliorini Luigi, 88n Mason Timothy W., 227, 228n Massard Émile, 31n Massarenti Armando, 285n Massimiliano d’Asburgo, re del Messico, 103 Mastny Vojtech, 176n, 180n Mathien Michel, 274n Maurice John F., 34n Mauss Marcel, 152n Mawdsley Evan, 134 e n Mawdudi Sayyd, 288n May Ernest R., 175n Mayer Arno J., 8n Mazzini Giuseppe, 101 Mazzoleni Gianpietro, 264n McClellan Stevens Charles, 38n McCormack Timothy L.H., 125n McDevitt Theresa, 97n McEnaney Laura, 253n McFarlane Anthony, 72n McKeown Adam, 19n McNamara Robert S., 254, 255n McNeill William H., 8 e n, 50, 51n, 88n, 244 e n McPhail Helen, 122n McWhirter Cameron, 129n Mead Earle E., 45n Mead Walter Russell, 77n Meed Vladka, 147 Melloni Alberto, 26n, 290, 295 e n, 296 e n Meng Michael, 136 e n, 143n, 148n Menozzi Daniele, 289, 290n Mercier Arnaud, 262 e n, 273 e n Merle Marcel, 293n Merk Frederick, 77n Metz Steven, 48n Mezzetti Luca, 297n Micel’ Michail, 141n, 153n Michaud Gene, 253n Michoels Solomon M., 144 e n

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Miconi Andrea, 243n Międzyrzecki F.P. (vedi Meed Vladka) Milch Baruch, 149 e n Milward Alan S., 227 e n Min Brian, 9 e n, 10, 11n, 12 e n Minié Claude-Étienne, 106 Minniti Fortunato, 228 e n Minois George, 290 e n Minor Elizabeth, 16n Miranda Sebastián Francisco de, 76 Miskovic Nastasa, 184n Mistry Kaeten, 186 e n Mitter Rana, 156n, 166n Mobley Joe A., 97n Mobutu Sese Seko, 278 Modi Narendra, 287 Molina Alfonso Hernán, 250n Monroe James, 77, 80 Monsagrati Giuseppe, 101n Montclos Xavier de, 292 e n Monticone Alberto, 291n Moore Aaron W., 156n Moorehead Caroline, 209n Morelli Anne, 268n Moreno Fraginals Manuel, 85n Morley James H., 130 Moro Renato, 269n, 289 Morozzo della Rocca Roberto, 7n Morris Ian, 58 e n Mortara Giorgio, 123n, 127n Moses A. Dirk, 143n Moshenska Gabriel, 135n Mosse George, 129n Moya Jose C., 19n Mowrer Edgar Ansel, 49 en Mueller Juergen, 18n Mueller J.E., 59n, 249n Müller Rolf Dieter, 226 Mussolini Benito, 292 Münzenberg Willi, 266 Murat Gioacchino, 74 Murphy Gretchen, 77n Murray Williamson, 247n, 256n Napoleone I Bonaparte, imperatore dei francesi, 28, 32, 33, 74, 77

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Le guerre in un mondo globale

Napoleone III Bonaparte, imperatore dei francesi, 32, 76, 83, 103, 220 Napolitano Matteo Luigi, 189n Nasser Gamal Abdel, 284 Nath Giselle, 122n Nef John U., 241 e n Nehru Jawaharlal, 287 Nekrasov Viktor, 153 e n Neppi Modona G., 299n Nitti Francesco Saverio, 224 Nivet Philippe, 122n Nixon Richard, 232 Njølstad Olav, 155n, 176n Nurick Lester, 119n Nussbaum Martha C., 287n Nye Joseph S., 52n Obama Barack, 60 Offer Avner, 120n Oksenkrug R.M., 143n O’Loughlin Ben, 266n Olsen Biørnar, 143n Onuf Nicholas, 99 e n Onuf Peter, 99 e n Orlando Vittorio Emanuele, 224 Oshry Ephraim, 146 e n Osler Hampson F., 253n Orlandini Alessandro, 299n Osterhammel Jürgen, 248n Oszlak Oscar, 83n Ottaviani Alfredo, 294 Overy Richard, 45n, 228n Östberg Kjell, 298n Pace Enzo, 288n Pacelli Eugenio (vedi Pio XII) Pacini Andrea, 295 Páez José Antonio, 86 Page Walter, 120 Page Fortna Virginia, 59n Paggi Leonardo, 9 e n, 248n Paine Sarah C.M., 158n Palmer Gregory, 254n Pamment James, 264n Panayi Panikos, 129n Pani Bano Erika, 85n

Paolo VI, papa, 291, 294 Papanicolopulu Irini, 205n Papon Maurice, 298 e n Paret Peter, 8 e n, 27n, 243n Parker Geoffrey, 244 e n Partner Peter, 279n, 284 e n, 289 e n Pasikowski Władysław, 150n Pastorelli Pietro, 291 e n Pat Jacob, 150n Patiño Villa Carlos Alberto, 83n, 86n Patterson David, 145n Patton David F., 177n Paura Vilma, 87n Pavone Claudio, 185n Péladan Joséphin, 31n Pellet Alain, 215n Pelletiere Stephen C., 48n Peltel Feigele (vedi Meed Vladka) Peng Dehuai, 162 Pérez Vejo Tomás, 78n, 90n Pérouse de Montclos Marc-Antoine, 16n Peterson Horace C., 119n, 120n Pettersson Therése, 57n Pétursdóttir Þóra, 143n Pezet Ernest, 268n Pianciola Niccolò, 19n Picciaredda Stefano, 293n Pick Daniel, 248n Picone Paolo, 204n Pieri Piero, 61, 62n Pinker Steven, 58 e n Pinto Carmine, 8, 71, 72n, 77n, 81n-84n, 88n, 91n Pinzani Carlo, 171n, 181n Pio XI, papa, 278 e n , 290 e n Pio XII, papa, 291 292, 293 e n Pirenne Henri, 121, 122n Pirisi Pirino Giovanni Filippo, 36n Pizarroso Quintero Alejandro, 269n Pleshakov Constantine, 174n Poetker Joel S., 77n Polanyi Karl, 11, 12n, 249 e n Poli Ludovica, 197n, 202n Poljanskij I.V., 153n Pons Silvio, 174n, 180n, 185n, 248n Porat Dina, 138n

Indice dei nomi Porch Douglas, 45n Portillo Valdés José M., 79n Portinaro Pier Paolo, 47n Posen Barry, 247 Potter C.W., 18n Pouillard Véronique, 274n Poulat Émile, 279 e n Priebke Erich, 298n Procacci Giovanna, 113n, 114n, 224n Prost Antoine, 17n Proulx Serge, 267n Prusin Alexander V., 136 e n Quagliariello Gaetano, 177n Quigley Paul, 106n Qutb Said, 288n Ragionieri Ernesto, 243n Rainio-Niemi Johanna, 183n Rajak Svetozar, 180n Rajchman Marthe 49 e n Randeraad Nico, 298n Ranzato Gabriele, 13n Rapoport Nathan, 151n Rapport Michael, 53n Rathenau Walther, 223 Ratti Ambrogio Damiano Achille (vedi Pio XI) Reagan Ronald W., 176, 252 Rebecca Earle, 84n Redlich Shimon, 144n Reid Brian H., 106n Reinares Fernando, 89n Reiss Rodolphe A., 127 e n Renaudot Théophraste, 274 Reppy Judith, 233n Reyes Carlos José, 75n Rhétoré Jacques, 281, 282 Rhodes Richard, 251n Ricardo David, 100 Riccardi Andrea, 281 e n, 289, 290 e n, 291n, 292 e n, 293n, 294n Richardson Heather C., 108n Rid Thomas, 271n Riegner Gerhart M., 292n Ringelblum Emanuel, 145 e n

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Risso Linda, 267n Roberts Adam, 22 e n, 23 e n Robertson James I. Jr., 97n Rochat Giorgio, 62 Rodríguez Jaime E., 78n Rogers Paul, 52n Ro’i Yaacov, 142n, 152n Roland Alex, 244n, 245n, 246, 252n, 254n, 257 e n Rolla Giancarlo, 297n Rolland Romain, 39 Romero Federico, 171n, 174n, 181 e n, 185n Roncalli, Giuseppe Angelo (vedi Giovanni XXIII) Ronchey Alberto, 279n Ronzitti Natalino, 195n, 203n, 209n Roosevelt Franklin D., 250 Roosevelt Theodore, 40n Rosefielde Steven, 233n Rosenberg Emily S., 186 e n, 248n Rosenberg Jonathan, 175n Rosenfeld Gavriel D., 136n Rosensaft Menachem Z., 135n Rossano Piero 295 Rosselli John, 76n Rossini Giuseppe, 291n Rothfels Hans, 52 Rousseau Charles, 209n Rousso Henry, 127n Roustan Fortuné, 30n Ruffini Ernesto, 293 Rugemer Edward B., 100n Rugui Guo, 156n Rújula López P., 73n, 78n, 84n Rumi Giorgio, 291n Rummel Rudolph J., 156n Rusconi Gian Enrico, 27n Russell William H., 32n, 33n Russett Bruce M., 57n, 253n Sabatini Giuseppe, 299n Sahnoun Mohamed, 204 Sakudō Jun, 252n Salomoni Antonella, 133, 138n Salsano Alfredo, 12n Salvadori Massimo L., 47n

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Le guerre in un mondo globale

Salvatici Silvia, 7n Samarani Guido, 8, 113n, 155, 165n Sambanis Nicholas, 13n Sandri Renato, 62n San Martin José de, 76, 80 Sands Philippe, 202n Saouter Catherine, 268n Sarkees Meredith R., 9n, 10n, 59n Sater William F., 83n Saunders Frances S., 186n Sauvy Alfred, 184 Savarkar Damodar Vinayak, 285, 286n Sayigh Yezid, 188n Scales Robert H. Jr., 256n Scarcia Amoretti Biancamaria, 284n Scarry Elaine, 253n Scavizzi Pirro, 292 Scerbo Alberto, 203n Scharrer Adam, 44n Schlieffen Alfred G. von, 223 Schneidermann Daniel, 298n Schneider Hartmut, 55n Schnur Roman, 75n Schoen Brian, 99 e n Schoultz Lars, 182n, 189n Scott James B., 126 Scovazzi Tullio, 205n Scuccimarra Luca, 45n Sechi Giovanni, 35n Seeckt Hans von, 227 Serchio Juan E., 90n Seestern, 31n Sen Amartya, 285n Senjavskaja Elena S., 134n Sessi Frediano, 62n Settia Aldo, 62 Seward John, 103 Shalev-Gerz Esther, 151n Shallcross Bozena, 142n Shannon Claude E., 267 Shaw Malcolm N., 198n Sheina Robert L., 86n Sherry Michael S., 252n Shiba Takao, 252n Shibusawa Naoko, 172n Shiina Motoo, 52n

Shlaim Avi, 188n Shneiderman Sh. L., 150n Shrayer Maxim D., 137n Shu Guang Zhang, 181n Siegel Richard L., 300n Sigismondi Pietro, 293 Silber Nina, 97n Šindel’ Aleksandr D., 140n Sinderen Adrian Van, 49 e n Singer Joel D., 9 e n, 58n, 91n Sinha Samrat, 16n Slim Hugo, 112n Small Melvin, 9 e n, 58n, 91n Smith Adam, 218, 219 e n Smith Bruce L., 267n Smith Angela K., 122n Smith Merritt R., 244n Smith Tony, 187n Snow Nancy, 273 e n Snyder Timothy, 136 e n Sombart Werner, 241 e n, 242 Sonderling Stefan, 263n Sotkin Sanya, 272 Soutou Georges-Henri, 171n, 177n, 226 e n Spagnolo Carlo, 177n Speer Albert, 228 Speier Hans, 45n Spence James M., 86n Spencer Herbert, 219 e n, 222 Spenser Daniela, 189n Spolaore Enrico, 13n, 14n Staerck Gillian, 178n Stalin (Iosif Vissarionovič Džugašvili), 174, 180, 229 Staraselski Valère, 299n Starling Ernest H., 120 e n Stein Barbara H., 72n Stein Stanley J., 72n Steinberg Dmitri, 233n Steinberg Gerald, 234n Štejnberg M.G., 139 Stephanson Anders, 173 e n Šterngarc Zejlik D., 139 Stinnes Hugo, 226 Stojanevic V., 123n Stole Inger L., 274n

Indice dei nomi Stone Edwin M., 35n Stone Norman, 171n Strachan Hew, 64n, 227n Sturdy Colls Caroline, 135n Suny Ronald G., 134n Suri Jeremy, 183 e n Sutherland Donald M.G., 75n Suttner Bertha von, 38n, 39 Szaynok Bożena, 140n Tardini Domenico, 290n Taylor Philip M., 263 e n, 272n Tendrich Frank L., 97n Teresa di Lisieux, 280 Ternavasio Marcela, 79n Ternon Yves, 281n Terzich Slavensko, 123n Thatcher Margareth, 279 Thomas Georg R., 227 Thomas Yan, 303n, 304n Thomson James, 38n Thompson Bradfor F., 35n Thompson William R., 52n, 55, 59n Thussu Daya K., 273n Tibi Bassam, 284n Tilly Charles, 51n, 88n Timothy E. Anna, 83n Tisserant Eugene, 293 Tito Josip Broz, 180, 183 Tobia Simona, 186n Todorov Tzvetan, 279 e n Toffler Alvin, 52n, 55, 245 e n Toffler Heidi, 52n, 55, 245 e n Togliatti Palmiro, 189 Tokarska-Bakir Joanna, 141n Tokushi Kasahara, 165n Tolstoj Lev N., 39, 64 Tooze Adam, 19n Torri Michelguglielmo, 285n Tosi Luciano, 7n Touvier Paul, 298 e n Trachtenberg Marc, 175 e n Traverso Enzo, 135n Troper Michel, 300n Tsui Brian, 161n Turing Alan, 267n Turner Gorham Ch., 40n

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Tutino John, 78n Tuwim Julian, 151 e n Tyrrell Ian, 96n Ümit Üngor U., 282n Underwood Jeffery S., 250n Valentino Benjamin A., 19 e n, 20, 21 VanDeMark Brian, 255n Varon Elizabeth R., 104n Varsori Antonio, 182n Vassalli Giuliano, 215n, 299n Vattimo Gianni, 47n Venturini Gabriella, 203n, 210n, Venturini Giorgio, 299n Vergès Jacques, 298n Vil’chovyj P.Ja., 153n Villani Ugo, 202n Villares Ramón, 87n Vincent Charles P., 120n Voldman Danièle, 127n Volo Dorothy D., 97n Wacziarg Romain, 13n, 14n Wakeman Frederick Jr., 157 e n Waldmann Peter, 89n Walgrave Lode, 300n Wallensteen Peter, 57n Waller Gregory A., 253n Wallerstein Immanuel, 89n Walpole Spencer, 31n Walter Jacques, 137n Wayman Frank W., 10n, 59n Webster Frank, 262n Weill Alexandre, 30n Weinberg Gerhard L., 44n, 50, 52n, 53 134 e n Weiner Amir, 135n Weitz Eric D., 116n Weitekamp Elmar G.M., 300n Wellesley Arthur, duca di Wellington, 76 Wells Herbert G., 40 e n Werle Gerhard, 215n Westad Odd Arne, 171n, 177n, 179n, 183 e n, 249n Weston-Scheuber Kylie, 209n White Matthew, 58n

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Le guerre in un mondo globale

Wiebe Robert, 103 e n, 104n Wiener Norbert, 267 Wilentz Sean, 104n Wilkin Bernard, 272n Williams David, 97n Wilson Charles R., 94n Wilson Woodrow, 95, 266 Wimmer Andreas, 9 e n, 10, 11n, 12 e n, 13n Winkler Heinrich A., 225n Winter Jay, 17n, 53n Woller Hans, 299n Wood Bernard, 52n Woods Michael, 98, 99n Worth Richard, 97n Wojtyła, Karol Józef (vedi Giovanni Paolo II) Wright Quincy, 242, 245, 246 Wright Sewall May, 40n Wróbel Piotr, 115n, 131n Wyngaert Christine Van, 300n

Xifra Jordi, 265n Xu Yan, 156n Yacoub Joseph, 281n Yaqub Salim, 188n Yerushalmi Yosef H., 303n Young James E., 151n Zadra Camillo, 262n Zamagni Vera, 228n Zampa Giorgio, 43n Żaryn Jan, 140n Zeiler Thomas W., 182n Zhu De, 162 Zifcak Spencer, 202n Zimmerman Joshua D., 141n Zolo Danilo, 298n Zorzi Giustiniani F., 202n Žubok Vladislav, 174n, 176 e n, 184n Zuckerman Larry, 122n Zylberberg Michael, 148 e n

Finito di stampare nel mese di gennaio 2017 dalla Grafica Editrice Romana S.r.l. - Roma