Le origini del cristianesimo. Una guida 8843090089, 9788843090082

Conoscere il cristianesimo delle origini è forse il modo migliore per rendersi conto della sua identità più profonda e p

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Le origini del cristianesimo. Una guida
 8843090089, 9788843090082

Table of contents :
Indice......Page 503
Frontespizio......Page 5
Il Libro......Page 2
Prefazione
......Page 13
Introduzione
......Page 15
L’esilio
......Page 17
Il rientro in patria degli esiliati
......Page 19
Neemia e Ezra
......Page 20
Le correnti giudaiche di opposizione
......Page 23
Testi qumranici e testi apocrifi; l’apocalittica......Page 24
L’enochismo
......Page 27
Israele fra il 400 e il 141 a.C.: l'ellenisino in Palestina......Page 34
La cultura ebraica del periodo ellenistico: l’area essenica
......Page 38
Il qumranesimo
......Page 39
L’essenismo
......Page 42
Israele sotto gli Asmonei
......Page 43
I farisei e i sadducei
......Page 46
Israele sotto i procuratori
......Page 48
Gli ebrei dopo la catastrofe
......Page 50
Note metodologiche
......Page 51
Dimensioni religioso-culturali dell’ambiente ellenistico
......Page 56
Gnosi e gnosticismo
......Page 68
Qumran, Gesù e le prime comunità cristiane
......Page 71
Le categorie dell’impurità e del peccato a Qumran e nel Nuovo Testamento
......Page 73
Il Tempio
......Page 80
Breve conclusione
......Page 84
Il contesto politico e socio-culturale alle origini del cristianesimo
......Page 87
Il contesto politico: l’impero romano
......Page 88
Il contesto sociale: la società mediterranea
......Page 93
Gruppi e stratificazioni sociali
......Page 110
L’economia nell’impero romano
......Page 115
Gesù di Nazaret: la vita e le opere
......Page 121
Le fonti documentarie sulla vita di Gesù
......Page 122
Nascita e morte di Gesù: il problema della cronologia
......Page 132
La situazione sociale e religiosa della Palestina nel I secolo
......Page 133
Al centro del messaggio di Gesù: il regno di Dio......Page 141
Rifondare la legge
......Page 146
Qesù e il suo gruppo
......Page 151
La crisi e la croce
......Page 154
L’esperienza visionaria della Pasqua
......Page 162
Il movimento di Gesù tra la Pasqua e la missione di Paolo......Page 165
I primi sviluppi del movimento di Gesù
......Page 167
Giacomo e la comunità di Gerusalemme
......Page 176
Gli ”ellenisti” e la comunità di Antiochia......Page 187
II concilio di Gerusalemme
......Page 193
La vita delle prime comunità dei seguaci di Gesù
......Page 197
Paolo di Tarso, l'imprevisto......Page 201
Una vita movimentata
......Page 202
Scrittore occasionale
......Page 210
L’originalità del pensiero
......Page 217
Nessi e contrasti con la Chiesa primitiva e con il giudaismo
......Page 218
Le componenti ellenistiche
......Page 229
Il giovannismo e il quarto vangelo......Page 251
Il giovannismo oltre il canone
......Page 262
Tre lettere sotto il nome di Giovanni
......Page 266
Il giovannismo nell'Apocalisse......Page 271
Dopo gli apostoli
......Page 277
Le lettere degli anni 60-140
......Page 280
La redazione dei vangeli
......Page 292
Interpretazione delle Scritture, antigiudaismo e identità cristiana......Page 312
Le prime apocalissi cristiane e la loro comprensione del tempo presente
......Page 325
Papia di Ierapoli e la crisi della tradizione......Page 331
Un monolite caduto dal cielo?
......Page 335
«Poiché molti hanno intrapreso a ordinare una narrazione...»
......Page 336
«Molti altri segni, che non sono scritti in questo libro». Diversità e unità a conclusione del vangelo di Giovanni
......Page 338
Diversità nella situazione, unità nel progetto?
......Page 340
«Insegnando loro a osservare tutte quante le cose che vi ho comandate». La traiettoria di Matteo
......Page 341
«Si dovevano compiere tutte le cose scritte di me nella legge di Mosè, nei profeti e nei salmi»
......Page 343
«Secondo le Scritture»
......Page 344
Anche se il vangelo nasce orale
......Page 346
L'occasione delle lettere......Page 347
Quale unità per le comunità paoline?
......Page 349
Solo lettere, eppure...
......Page 350
La formazione del canone: il Frammento di Muratori
......Page 352
Dalla occasionalità alla Scrittura: l’universalità delle lettere apostoliche
......Page 355
Una pluralità limitata
......Page 357
La diversità garantita
......Page 358
Lo spazio di un dialogo
......Page 362
Terra santa
......Page 363
Siria
......Page 366
Strade romane
......Page 368
L’Asia Minore occidentale
......Page 370
Grecia
......Page 379
Note......Page 389
Le origini cristiane e il giudaismo del Secondo Tempio
......Page 459
L’ellenismo, secondo ambito jelle origini cristiane
......Page 461
Qumran, Gesù e le prime comunità cristiane
......Page 462
Il contesto politico e socio-culturale alle origini del cristianesimo
......Page 465
Gesù di Nazaret: la vita e le opere
......Page 466
tra la Pasqua e la missione di Paolo
......Page 470
Paolo di Tarso, 1* imprevisto
......Page 474
Il “giovanilismo”
......Page 479
Il passaggio dal I al il secolo
......Page 485
Unità e diversità nel Nuovo Testamento: fecondità di una dialettica
......Page 488
L’archeologia del cristianesimo primitivo
......Page 490
Indice dei nomi
......Page 493
Gli autori
......Page 501

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Le origini del cristianesimo Una guida A cura di Romano Penna

Conoscere il cristianesimo delle origini è forse il modo migliore per rendersi conto della sua identità più profonda e più vera. Per fare ciò bisogna partire dalla documentazione risalente al suo primo secolo di vita, studiando altresì Cambiente con cui il cristianesimo stesso si è trovato in simbiosi. Curato da uno dei più autorevoli specialisti contemporanei, il volume introduce al mondo del Nuovo Testamento: dalla ricostruzione dell'am­ biente giudaico e greco-romano a Paolo di Tarso; dalla figura storica di Gesù ai vangeli canonici e apocrifi; dalle prime atte­ stazioni archeologiche al problema del vangelo e deìYApocalisse di Giovanni: dall'analisi delPapporto di varie ermeneutiche - giudeo-cristiana, paolina. giovannea - alla delineazione del contesto storico che segna il passaggio dal i al n secolo. Emerge un quadro particolarmente ricco di tonalità, in cui risaltano i personaggi decisivi e le componenti dialettiche di un pensiero religioso eccezionalmente fecondo. Romano Penna è professore emerito di Origini cristiane alla Pontificia Università Lateranense. Per Carocci editore ha pubblicato Le prime comunità cristiane (2°ed. 2017).



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Le origini del cristianesimo Una guida A cura di Romano Penna

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3* edizione, gennaio zoi8 1* edizione ‘ Frecce’, 1 0 14 (1 ristampa) i* edizione 'Frecce* 10 0 4 (7 ristampe) © copyright 10 18 by Carocci editore S.p-A„ Roma Finito di stampare nel gennaio zoi8 da Grafiche V D srl, C ittì di Castello (PG) ISB N 978-88-430-9008-1

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 11 aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.

Indice

i.

Prefazione di Romano Penna

13

Le orìgini cristiane e il giudaismo del Secondo Tempio di Paolo Socchi

15

Introduzione

15

L ’esilio

17

Il rientro in patria degli esiliati

19

Neemia e Ezra

io

Le correnti giudaiche di opposizione

13

Testi qumranici c testi apocrifi; l’apocalittica

14

L ’enochismo

*7

Israele fra il 400 e il 141 a.C.: l ’ellenismo in Palestina

34

La cultura ebraica del periodo ellenistico: l ’area essenica

38

Il qumranesimo

39

L ’essenismo

42­

Israele sotto gli Asmonei

43

I farisei e i sadducei

46

Israele sotto i procuratori

48

Gli ebrei dopo la catastrofe



8

z.

LE ORIGINI DEL CRISTIAN ESIM O

L ’ellenismo, secondo ambito delle orìgini cristiane di Romano Penna

51

Note metodologiche

51

Il conceno di ellenismo / L ’ellenismo in Palestina / Il giudaismo ellenisti­ co / Il vangelo in ambiente ellenistico

Dimensioni religioso-culturali dell’ambiente ellenistico

56

L a religione olimpica e i culti misterici / Il culto dionisiaco / I santuari oracolari / G li dèi guaritori / Il culto del sovrano / Il fato / L a religione dei filosofi

3.

4.

Gnosi e gnosticismo

68

Qumran, Gesù e le prime comunità cristiane di Giovanni Ibba

71

Introduzione

71

Le categorie dell’impurità e del peccato a Qumran e nel Nuovo Testamento

73

Il Tempio

80

Breve conclusione

84

Il contesto politico e socio-culturale alle origini del cristianesimo di D avidÀ lvarez Cineira

87

Il contesto politico : 1’ impero romano

88

Il contesto sociale: la società mediterranea

93

Valori della società mediterranea / La casa e il gruppo familiare / La strut­ tura familiare / L a donna all'interno del gruppo familiare / Il villaggio e la città

Correnti filosofiche ellenistiche

107

Gruppi e stratificazioni sociali

no

L ’economia nell’impero romano

115

Caratteristiche economiche nella Palestina romana

INDICE

5-

9

Gesù di Nazaret: lavica e le opere di D aniel M arguerat

III

Le fonti documentarie sulla vita di Gesù

111

Le fonti / I criteri di autenticità

Nascita e morte di Gesù: il problema della cronologia

m

La situazione sociale e religiosa della Palestina nel i secolo

133

Tensioni sociali in Galilea / La resistenza religiosa nei confronti della roma­ nizzazione / Gesù, discepolo di Giovanni?

A l centro del messaggio di Gesù: il regno di Dio

141

Il regno di D io i già presente / Una pratica terapeutica / Scongiurare la delusione / Un regno all’orizzonte della storia

Rifondare la legge

146

Rispettare o trasgredire la legge / Il principio dell’amore

Gesù e il suo gruppo

151

Scelte di solidarietà sociale / Discepoli e seguaci / Il D io di Gesù

La crisi e la croce

154

Le ragioni della crisi / Una fine presagita? / Il processo, la sentenza, il sup­ plizio

6.

L ’esperienza visionaria della Pasqua

16 1

Il movimento di Gesù tra la Pasqua e la missione di Paolo di Claudio Gianotto

165

Introduzione

165

I primi sviluppi del movimento di Gesù

167

Le apparizioni del risorto e il loro significato / La predicazione itinerante / Le comunità locali di Galilea e la tradizione sapienziale

Giacomo e la comunità di Gerusalemme

176

II primato di Giacomo / La comunità di Gerusalemme

G li ‘‘ellenisti’’ e la comunità di Antiochia

187

Il concilio di Gerusalemme

193

La vita delle prime comunità dei seguaci di Gesù

197

Il nome / Il battesimo e il pasto comune

IO

7.

LE ORIGINI DEL CRISTIAN ESIM O

Paolo di Tarso, l ’imprevisto di Romano Penna

201

Una vita movimentata

20 z

Prima di Damasco / La ‘ conversione’ / L ’apostolo instancabile

Scrittore occasionale

no

L ’originalità del pensiero

117

Nessi e contrasti con la Chiesa primitiva e con il giudaismo

218

Il punto focale / Ermeneutica soteriologica e universalistica della figura di Gesù il Cristo / Cristo e/o Torah / La comunità dei credenti in Cristo / Proiezione verso il futuro

Le componenti ellenistiche

129

Precisazioni metodologiche / Il condizionamento culturale di Tarso / Il concetto greco di ‘ inculturazione* / Paolo e lo stoicismo / Concetti di provenienza varia / Analogie con i culti misterici? / Tradizione e novità / La comunione con il dio cultuale / Conclusione

8.

Il “giovannismo” di Rinaldo Fabris

251

Il giovannismo e il quarto vangelo

2$i

Per chi e a quale scopo è stato scritto il quarto vangelo? / C h i 4 il disce­ polo amato? / Le “fonò’ del quarto vangelo / La “comunità’ giovannea / L ’ambiente religioso c culturale / L ’autore del quarto vangelo conosce e usa i vangeli sinottici?

Il giovannismo oltre il canone

262

U n vangelo ‘ gnostico’ ? / C h i 4 ‘ Giovanni’ di Efeso?

Tre lettere sotto il nome di Giovanni

2 66

U n ’ “omelia* e due lettere / A chi sono rivolte? / Confronto tra le lettere e il quarto vangelo / Giovanni 4 il ‘ presbitero’ ?

Il giovannismo nell 'Apocalisse

271

C h i 4 il ‘ profeta’ Giovanni? / Il rischio del compromesso nelle Chiese dell’Asia / Dal vangelo ali!Apocalisse

9.

Il passaggio dal I al II secolo di Enrico N orelli

277

Dopo gli apostoli

277

INDICE

Le lettere degli anni 60-140

II

180

Le lettere pseudo-paoline / Le lettere “cattoliche’ (tranne 1-3 G v) / La let­ tera di Clemente di Roma ai corinzi / Le lettere di Ignazio di Antiochia

La redazione dei vangeli

19 1

Marco e l'invenzione del vangelo come libro / La forma-vangelo in G io ­ vanni e Marco / U n’altra forma: la raccolta di sentenze di Gesù / Mat­ teo: un vangelo per la Chiesa / Luca: il tempo della diffusione del vangelo come epoca autonoma / Altre storie di Gesù: i vangeli giudeo-cristiani / Altre “memorie* di Gesù: il vangelo degli egiziani c il vangelo di Pietro

Interpretazione delle Scritture, antigiudaismo e identità cristiana

3i i

Le Scritture come allegoria e prefigurazione. L a Lettera di Barnaba / 1cri­ stiani come popolo nuovo. Nuove prassi: la Didaché / Gloria e caduta dei profeti cristiani. VAscensione di Isaia

Le prime apocalissi cristiane e la loro comprensione del tempo presente

315

U n’apocalisse “diversa”: il Pastore di Erma

io.

Conclusione. Papia di Ierapoli e la crisi della tradizione

33i

Unità e diversità nel Nuovo Testamento : fecondità di una dialettica di Yann Redalié

335

Un monolite caduto dal cielo?

335

«Poiché molti hanno intrapreso a ordinare una narrazione...»

336

«M olti altri segni, che non sono scritti in questo libro». Diversità e unità a conclusione del vangelo di Giovanni

338

Diversità nella situazione, unità nel progetto?

340

«Insegnando loro a osservare tutte quante le cose che vi ho comandate». La traiettoria di Matteo

34 1

« S i dovevano compiere tutte le cose scritte di me nella legge di Mosè, nei profeti e nei salmi»

343

«Secondo le Scritture»

344

Anche se il vangelo nasce orale

346

Diversità e unità secondo il vangelo e l’apostolo

347

LE ORIGINI DEL CRISTIAN ESIM O

L ’occasione delle lettere

347

Quale unità per le comunità paoline ?

349

Solo lettere, eppure...

350

La formazione del canone: il Frammento d i M uratori

351

Quattro vangeli

353

Dalla occasionalità alla Scrittura: l’universalità delle lettere apostoliche

355

Una pluralità limitata

3 57

La diversità garantita

358

Lo spazio di un dialogo

361

L ’archeologia del cristianesimo primitivo diJerom e M urpky - 0 'Connor

363

La Terra santa

363

Siria

366

Strade romane

368

L ’Asia Minore occidentale

370

Grecia

379

Roma

383

Note

389

Riferimenti bibliografici

459

Indice dei nomi

493

Gli autori

501

Prefazione

La questione delle orìgini cristiane è sempre attuale e non cessa di appas­ sionare chi abbia anche solo un minimo di curiosità intellettuale. La tratta­ zione può avvenire con esiti diversi, come dimostra una certa bibliografìa anche recente. Questo volume, da parte sua, riprende la precedente edizio­ ne di un decennio fa ma la rielabora e la rinnova, modificando alquanto l’impostazione del materiale, anche con l’apporto di nuovi collaboratori. Alla revisione del primo capitolo sul necessario quadro del giudaismo del Secondo Tempio si aggiunge uno specifico contributo sulla comunità di Qumran. Anche il quadro del coevo ambiente greco-romano è stato so­ stanzialmente rielaborato con la doppia descrizione sia della situazione religiosa, sia di quella politico-sociale. La delineazione della figura storica di Gesù di Nazaret è stata completamente rinnovata. Dopo l ’importante capitolo 6 sul giudeo-cristianesimo, la personalità di Paolo di Tarso è stata integrata con l ’illustrazione delle componenti ellenistiche del suo pensie­ ro. Ritocchi vari sono stati apportati ai successivi capitoli sul giovannismo, sul passaggio dal I al il secolo, sull’unità c diversità nel Nuovo Testamento e sull’archeologia del primo cristianesimo. Resta comunque vera l’osservazione di fondo, secondo cui « se si osser­ vano le cose nel loro evolversi fin dall’origine, se ne potrà avere la visione migliore». La verità di queste parole non dipende soltanto dal fatto che sono di Aristotele, ma ancor più da un costitutivo profondo dell’uomo e delle vicende che ne contrassegnano la storia. Poiché nessuno di noi nasce nell’iperuranio, è giocoforza riconoscere che nessuno vive in un’astrattez­ za ideale né nel chiuso di un recinto tale da escludere forme di simbiosi o di dialettica con l’ambiente circostante. La storia, che è poi il divenire della vita, ci marchia indelebilmente. E l ’anamnesi è necessaria ai fini di una sua appropriazione cosciente, feconda di maturità. A l di là delle microstorie individuali, la stessa cosa vale per i grandi mo-

14

LE ORIGINI DEL CRISTIAN ESIM O

vimcnti ideali che caratterizzano la macrostoria. Il cristianesimo non fa eccezione. Anzi, in prosecuzione omogenea con il giudaismo, e diversa­ mente dal platonismo e dalle grandi religioni asiatiche che danno la pre­ ferenza ai cosiddetti “universali”, esso fa gran conto del particulare, della singolarità degli uomini e degli accadimenti. E, a differenza dell’ Islam, il cristianesimo ritiene che la verità non sia caduta dal cielo già preconfezio­ nata, ma che sia pure il frutto delle esperienze e dei travagli della storia. Non per nulla esso parla di “incarnazione”, significando con ciò che la ve­ rità è anche figlia del suo tempo: cioè, almeno la sua formulazione è legata a uomini, momenti, luoghi, culture. Per esempio, come si potrebbe comprendere la messianicità di Gesù di Nazaret, e ancor più la sua componente divina, se non si conoscesse prima la concretezza della sua dimensione umana, profondamente inserita nel giudaismo dei primi decenni del I secolo? E come potremmo parlare del radicamento del male in noi (e del suo superamento!) se Paolo di Tarso non avesse dovuto difendere le proprie tesi anche a costo di lottare contro incomprensioni e ostilità? Il volume, in definitiva, vuole offrire un’introduzione aggiornata e sin­ tetica alla storicità del cristianesimo considerato nel suo primo apparire, nel momento in cui esso esibì per la prima volta la propria carta di identità. Perciò qui si parla dei suoi tratti caratterizzanti, fomiti da personaggi e am­ bienti, scritti c accadimenti, inizi c sviluppi, archeologia e valori ideali. Gli autori dei vari capitoli danno ampia garanzia di competenza e di capacità nel trasmettere in sintesi i risultati dell’odierna ricerca. Sicché la lettura di queste pagine sarà certamente di grande utilità per chi voglia cimentarsi con lo studio avvincente di una insostituibile matrice della nostra cultura odierna. RO M ANO PENN A

Natale 1013

I

Le origini cristiane e il giudaismo del Secondo Tempio* di Paolo Succhi

Introduzione II cristianesimo nacque con la predicazione della morte e risurrezione di Gesù di Nazaret, presentatosi alla gente come figlio dell’uomo, davanti al sinedrio come messia e riconosciuto tale già dai suoi discepoli. La prima predicazione cristiana fa perno sulla convinzione che Gesù fosse morto e risorto. Per san Paolo, se Gesù non fosse risorto, vana sarebbe la nostra fede. Se la morte di Gesù fa parte della comune storia umana, la sua risur­ rezione ne esce: gli storici non parlano della risurrezione come di un fatto, ma preferiscono parlare di quel fatto che è la fede nella sua risurrezione. Come nella vita di ogni essere umano, anche nel caso di Gesù esistono sia le cose dette, e nel caso suo anche insegnate, sia quelle compiute. Le pri­ me possono essere facilmente studiate e inserite nel fluire della storia del pensiero ebraico del I secolo: la formazione di Gesù, Gesù e i suoi discepo­ li, Gesù e la gente, i discepoli di Gesù e la gente; ma le seconde, se offrono un senso solo alla luce della cultura del I secolo palestinese, tuttavia hanno la caratteristica di offrire un significato non dalla struttura di un discorso, ma dall’atto in se stesso. Gesù prima di affrontare la sua passione predicò sempre, ovviamente, intorno a temi in discussione nel I secolo palestinese, ma il centro e il senso ultimo della sua opera non sono ricavabili dalle sue parole e nemmeno dai suoi insegnamenti. Il senso dell’opera di Gesù, la sua intenzione, va colta, più che in ciò che disse, in ciò che fece. £ fra le azioni di Gesù ha un rilievo eccezionale, anzi unico, la sequenza dei gesti della cosiddetta ultima cena. Il senso di quei gesti è comprensibile solo all’interno della cultura giudaica, ma l ’intenzione di Gesù va oltre i limiti del suo tempo e della sua cultura. Egli approfitta delle benedizioni usuali nel banchetto pasquale per com­ piere due benedizioni in maniera tutta particolare. Riporto solo la seconda

l6

LE ORIGINI DEL CRISTIAN ESIM O

perché più significativa. Si legge in Me 14 ,14 : «Questo è il mio sangue del patto, versato per m olti». Gesù riprende la scena di Es 14 ,4 -10 : Mosè che stringe il patto con Dio sulla base di tutte le parole (i comandamenti) che ha letto prima al popolo. Il patto è sancito per mezzo del sangue dei vitel­ li spruzzato sull’altare, dove era invisibile Jhwh, e sul popolo. Mosè disse: «Ecco il sangue del patto, che Jhwh ha contratto con voi sulla base di tutte queste parole». Gesù ha ripreso lo schema e il valore della scena mosaica, ma con due differenze fondamentali: la prima è che al posto del sangue degli animali c ’è il suo, la seconda è che ha omesso la frase «sulla base di tutte queste parole». In altri termini, il patto di Gesù, a differenza di quello di Mosè, non ha clausole, quindi non ha condizioni. È da notare inoltre che la mancanza della parola “nuovo” dà al patto di Gesù un senso assoluto. La storia dell’uomo Gesù finisce pochi giorni dopo l ’ultima cena, ma la stipula del patto è rivolta a tutte le generazioni future. Non mi pare possi­ bile non collegare il cristianesimo con questa volontà dell’uomo Gesù di creare un rapporto dell’uomo con D io e di Dio con l’uomo che sarebbe valso anche dopo la sua morte. Il patto di Gesù non conteneva clausole, come non conteneva indicazioni precise riguardanti strutture future. Data la coscienza della morte imminente, il patto di Gesù, unico, eterno, non poteva che riguardare il futuro di tutti gli uomini che sarebbero vissuti nei tempi a venire dopo la sua morte. In questo patto nacquero le prime comunità cristiane con le loro diffe­ renze e con i loro fallimenti (vedi la comunione dei beni tentata da Pietro nella comunità di Gerusalemme). Se la novità cristiana, considerata sotto il punto di vista degli elementi fondanti, è assoluta, sul piano della predi­ cazione di Gesù essa è spesso, se non sempre, la presa di posizione di Gesù in mezzo a idee dibattute da tutta una società. I concetti fondamentali per capire le idee dei primi cristiani sono carat­ teristici della cultura c religione ebraiche. Parole come purità e impurità, culto e sacrifìcio, espiazione e purificazione, profeta e messia, risurrezione e salvezza, figlio dell’uomo e fine dei tempi, oggi non hanno senso, se non ci rifacciamo alla nostra tradizione cristiana, la quale le ha tutte derivate dalla cultura e religione ebraiche del tempo di Gesù, sia pure spesso modi­ ficando il valore originario dei singoli termini. A ll’epoca di Gesù l’ebraismo aveva alle sue spalle una lunga storia, che aveva, con l’esilio di Babilonia, subito una svolta umanamente dolorosa, ma ricca di approfondimenti e sviluppi. Non per nulla gli storici danno

l e o r ig in i c r is t ia n e e il g iu d a is m o d e l se c o n d o t e m p io

17

due nomi diversi alla religione ebraica prima c dopo l’esilio. Prima dell’esi­ lio si suole parlare di ebraismo in senso stretto; dopo l ’esilio di giudaismo. La storia che va dall’esilio alla distruzione del tempio di Gerusalemme nel 70 d.C. si definisce come storia del Secondo Tempio, essendo il primo quello di Salomone'. La predicazione di Gesù e la prima diffusione del cri­ stianesimo sono parte integrante della storia giudaica del Secondo Tempio. A differenza della storia anteriore all’esilio, per la quale abbiamo un rac­ conto continuato in fonti ebraiche, quello documentato dai racconti dei libri di Samuele e dei Re, per la storia del Secondo Tempio non abbiamo nes­ sun racconto continuato degli avvenimenti in opere ebraiche che risalgano a un’epoca abbastanza vicina agli avvenimenti. Solo verso la fine del I secolo d.C. nacque una narrazione continuata degli avvenimenti ad opera dello sto­ rico ebreo Giuseppe Flavio, che compose in greco le sue Antichità giudaiche, nelle quali raccontava tutta la storia di Israele a partire, come la Bibbia, dalla creazione del mondo fino all’inizio della rivolta contro Roma nel 66 d.C. La storia del pensiero giudaico del Secondo Tempio ha un’ importanza fondamentale per capire l ’ambiente in cui predicò Gesù, i temi che trattò, le posizioni che prese di fronte ai suoi interlocutori. Tuttavia questa storia delle teologie ebraiche che poi continua in quelle cristiane delle origini non spiega l’origine del cristianesimo, fondata su un avvenimento che, se presen­ ta forme appartenenti solo alla cultura giudaica in particolare del I secolo, tuttavia ha cause che vanno al di là della cosiddetta necessità storica. La storia del rapporto esistente necessariamente fra l’ interpretazione, che di Gesù aveva e comunicava il singolo autore neotestamentario, e la sua propria formazione ebraica avvenuta necessariamente prima del suo incontro con Gesù, non è ancora stata studiata, ma prima o poi diventerà tema fondamentale della ricerca. Questa premessa è stata scritta per evitare l’equivoco che la storia possa spiegare la nascita del cristianesimo. La storia spiega la cultura e la forma­ zione di Gesù, non il valore di ciò che fece.

L ’esilio Durante il VI secolo a.C., il tempo dell’esilio, ci furono in Israele due cul­ ture separate e parallele, quella degli esiliati, che vivevano uniti nella bassa Mesopotamia, dove erano stati deportati senza che le unità sociali venissero

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LE ORIGINI DEL CRISTIAN ESIM O

distrutte c dove riuscirono a mantenere la propria identità nazionale e cul­ turale, e quella degli ebrei rimasti in patria. Dato che gli esiliati rappresen­ tavano la classe colta del paese e che ebbero la possibilità di vivere immersi nella grande cultura babilonese, in Mesopotamia la cultura ebraica ebbe un forte sviluppo ad opera di due gruppi separati dallo spazio e dalla diversa posizione di fronte al governo babilonese. Nel Sud cerano i deportati, fra i quali si distinse l’opera culturale e teologica di Ezechiele e dei sacerdoti del suo gruppo; nella città di Babilonia c’era la corte del re ebreo in esilio, che aveva a sua disposizione alcuni ministri e intellettuali. Il re ebreo1 fungeva da governatore della Giudea per la Babilonia; aveva, perciò, contatti con quanti si trovavano in patria, che erano rimasti suoi sudditi. A l contrario, i rapporti con i deportati, se ci furono, potevano essere solo personali, perché i deportati non erano più cittadini ebrei. Tuttavia, contatti sembra che ci fossero, ma non buoni. Il motivo va cercato nel fatto che le terre, le case e i diritti sacerdotali che una volta appartenevano ai deportati erano ora in mani di altri ebrei, che erano legittimi sudditi della monarchia davidica. I deportati non aspiravano solo a tornare in patria, volevano anche recupe­ rare i beni che erano stati confiscati loro dai babilonesi e distribuiti ad altri’. L ’astronomia mesopotamica fece comprendere agli ebrei la comples­ sità, ma anche l’unità del cosmo e l ’importanza del fatto che aveva leggi precise4. Nacque probabilmente proprio nel circolo di Ezechiele il caratte­ ristico calendario giudaico antico, diverso da quello preesilico e da quello lunisolare che diventerà, poi, il calendario ebraico tuttora in uso. Questo antico calendario, fondato solo sul movimento del sole, era di 360 giorni, ed era, quindi, indipendente dalle fasi lunari. Il numero di 360 accordava i giorni dell’anno con i gradi dell’orizzonte (il sistema numerico mesopotamico era sessagesimale!) e i giorni necessari per completare la rivoluzio­ ne solare erano fuori computo: di fatto ne furono presi in considerazione solo quattro per far cominciare l’anno sempre con un medesimo giorno, il mercoledì, giorno della creazione degli astri e della misura del tempo5. L ’e­ sistenza, comunque, del 365° giorno non è esclusa, anche se doveva restare fuori computo e senza nome: il fatto che Enoc, il patriarca esperto del cielo e delle stelle, avesse avuto, per tradizione, una vita di 365 anni6 lascia pensare che si sapeva bene che l ’anno durava 36$ giorni. Come lo spazio portava in sé i segni della gloria divina, così anche il tempo aveva suoi ritmi che si ripercuotevano nella liturgia dell’anno e nel­ la comprensione globale della storia. La liturgia inseriva l ’uomo nelle me­ raviglie dello spazio e del tempo, che avevano una loro unità nella quale si

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rifletteva l ’unità di Dio e la sua volontà. Fu su questo sfondo culturale che Jhwh cominciò ad essere il Dio unico di tutto l ’universo. Nella seconda metà del v i secolo a.C. uno storico vissuto alla corte in esilio7 mise insieme quella grande storia del suo popolo e del mondo che cominciava da Adamo per continuare fino al $61 a.C., anno nella quale si chiude. Questo storico trovò che l ’anno 36008 dalla creazione del mondo coincideva esattamente con l ’anno del saccheggio di Gerusalemme e del Tempio, cioè della fine dello Stato ebraico indipendente. Per noi l ’anno 587 a.C. reca un numero privo, di per sé, di significato; è un numero come un altro nella serie infinita degli anni; per lo storico di corte era l ’anno che marcava la fine di un periodo e ne apriva uno nuovo in una prospettiva che vedeva il tempo come misura avente un senso derivato dal numero stesso: come la natura recava l ’impronta della meraviglia della creazione, così il tempo recava in sé i segni interpretabili della mano creatrice. 3.600 anni erano un periodo che riceveva il suo valore dall’essere un periodo nella storia del cosmo; un cosmo strutturato secondo numeri9. Nel 538 a.C. Babilonia fu conquistata dai persiani, ma la grande cultura babilonese continuò la sua strada anche sotto il nuovo dominio. I persiani si impadronirono della cultura babilonese poco aggiungendovi, come di­ mostrano alcuni studi10. Comunque, fu agli inizi del dominio persiano che Isaia Secondo, un profeta di corte, fece le sue affermazioni chiare sull’uni­ cità di D io". Jhwh è colui che ha suscitato Ciro, che non era ebreo e non viveva nella terra di Israele, ma Jhwh potè chiamare Ciro suo «unto11» , perché Jhwh è Dio di tutta la terra (z Is 41,1-3). Da quel momento il giu­ daismo fu caratterizzato dalla convinzione che il suo Dio era il Dio di tutti i popoli, il Dio che, padrone dello spazio c del tempo, aveva predetto fin da tempo antico per mezzo dei suoi profeti gli avvenimenti futuri: la storia realizzava un piano divino (1 Is 41,16; 46,10).

Il rientro in patria degli esiliati C i sia stato o no (molto probabilmente no) l’editto di Ciro che autorizzava i deportati ebrei a tornare in patria, di fatto il primo rientro, di cui abbiamo notizia, avvenne solo con Dario I nel 511 a.C. Il ritorno non fu così semplice, né pacifico, come l’espressione “ritorno in patria” lascerebbe pensare. Chi rientrava con autorizzazione persiana pretendeva il recupero dei beni una

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volta confiscati. Da questa situazione nacque una guerra civile, alla fine della quale la dinastia davidica, che doveva appoggiare i restati in patria, perse il trono: lo stato vassallo di Giuda divenne una repubblica retta da una dina­ stia di sommi sacerdoti e da governatori, normalmente ebrei, che succedeva­ no al potere regale dei davididi, l ’ultimo dei quali fu ZorobabelcI,. Anche se la dinastia davidica fu estromessa dal trono, la struttura del­ lo stato di Giuda non cambiò del tutto, perché il re fu sostituito da un governatore normalmente ebreo, ma nominato di volta in volta dalla Per­ sia14. Tuttavia la figura del governatore non ebbe l 'autorevolezza di quel­ la del re, se non altro perché il segno della continuità del potere e della tradizione appartenne di fatto alla dinastia dei sommi sacerdoti (carica istituita adesso) discendenti di Giosuè, che fu il primo sommo sacerdote. La dinastia di Giosuè è detta sadocita: essa mantenne il potere fino agli inizi dell’epoca maccabaica, cioè fino al 170 a.C. circa. Il Tempio divenne il centro spirituale del popolo ebraico in luogo del Palazzo; fu il centro spirituale non solo degli ebrei della Giudea, ma anche di quelli che vive­ vano all’estero sotto altre autorità. Questa sorta di diarchia, che con ter­ minologia moderna potremmo definire del potere sacerdotale e del pote­ re laico, ha caratterizzato la storia di Israele in tutto l ’arco della storia del Secondo Tempio. In epoche diverse si sono avute situazioni storiche che hanno potuto realizzarsi proprio sulla base di questa antica divisione di poteri, che certa­ mente ci fu, anche se non è possibile delimitare oggi gli ambiti delle rispet­ tive autorità, che forse non furono mai nemmeno chiariti. M a è certo che l’ebreo che viveva all’estero, nella cosiddetta diaspora, aveva il suo centro spirituale nel Tempio di Gerusalemme, del quale rispettava le leggi, al qua­ le poteva rivolgersi nel caso di incertezza sulla data della Pasqua e forse anche per altri motivi.

Neemia e Ezra La situazione di compromesso fra le due fazioni - quella dei deportati e quella dei restati in patria - , durò poco. Nella seconda metà del V secolo a.C. il governatore Neemia escluse dai diritti civili i discendenti degli ebrei rimasti in patria1’. Da quel momento si potè dire con il Cronista’4 che gli ebrei erano andati tutti in esilio e che in patria non era rimasto nessuno.

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Anzi, Nccmia cacciò dal Tempio tutti quei sacerdoti e tutti quei leviti che non furono in grado di dimostrare la loro discendenza da antenati che fossero stati in esilio. Non abbiamo nessuna notizia di quello che questi sacerdoti fecero una volta estromessi dal culto, ma il sorgere di un movi­ mento di opposizione intorno al 400 a.C. può essere messo in relazione proprio con questa cacciata. Neemia dette allo Stato ebraico un aspetto che gli resterà proprio per secoli. Era uno Stato aperto a tutti gli ebrei dovunque vivessero e chiuso a tutti coloro che non potevano rientrare nella categoria di ebrei quale era stata determinata da Neemia. Quest’ ideale di Stato è rimasto un fattore caratteristico della storia ebraica fino ai nostri giorni. Gerusalemme e la Palestina sono sempre stati, nell’immaginario ebraico, il centro dell’ebraismo. Anche al tempo di Gesù accanto agli ebrei di Palestina che parlavano ebraico o aramaico c erano floride colonie ebraiche in tutto il mondo civile di allora, che parlavano la lingua del luogo in cui si trovavano, ma che continuavano a riconoscere a Gerusalemme e al suo Tempio un’importanza tutta particolare. Meno durevole fu invece un altro aspetto dell’opera politica di Nee­ mia. Sulla scia del Deuteronomio, Neemia considerò perno dello Stato di Giuda il patto con Dio. Non era più il patto del Sinai o dell’ Horeb, ma un patto che fu materialmente Armato, cioè sottoscritto da tutti i maggiorenti di Israele, i sacerdoti, i leviti, e i capi laici del popolo: la prima Arma fu quella di Neemia. I comandamenti della legge avevano valore in quanto diventavano, come nel Deuteronomio, clausole del patto. La loro infrazio­ ne avrebbe significato la rottura del patto da parte del popolo. Si veda Neh 10,1-30 e in particolare il versetto 30: « S i impegnarono con giuramento a camminare nella legge di Dio, data per mezzo di Mosè, servo di Dio, a osservare e mettere in pratica tutti i comandi di Jhwh, nostro Dio, le sue decisioni e le sue leggi». Questa formula doveva creare qualche difficoltà agli ebrei della diaspora, il cui rapporto con Dio non era mediato dallo Stato ebraico. U n’altra importante iniziativa di Neemia fu la raccolta dei libri del­ la sua tradizione. Si può dire che la prima edizione dei libri biblici risale al suo tempo. Come racconta il Secondo libro dei Maccabei (1,13), «N ei documenti e memorie di Neemia si narrava che egli fondò una bibliote­ ca, in cui raccolse i libri che parlavano dei re, gli scritti dei profeti e di David, nonché le lettere dei re relative alle offerte sacre». Sembra che col nome di «libri dei re» l ’autore voglia indicare l’ insieme Samuele-Re; per

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gli scrìtti dei profeti non ci sono problemi circa l ’oggetto indicato; con «gli scrìtti di D avid» intendeva certamente i salmi. Non è invece assolu­ tamente chiaro che cosa potesse nascondersi sotto la dizione «le lettere dei re relative alle offerte sacre». In quest’opera che possiamo definire di interesse storico si nasconde probabilmente il primo nucleo di opere ca­ noniche. Alla rigidezza dell’azione di Neemia si fa risalire anche l’origine dello scisma samaritano. Per evitare gli influssi di popolazioni non ebraiche su­ gli abitanti della Giudea, impose a Manasse, figlio del sommo sacerdote Eliashib, di ripudiare sua moglie, che era figlia di Sanballat, governatore di Samaria, o di rinunciare alla successione al padre. Manasse fuggì dal suocero e presso di lui vennero anche quanti si sentirono perseguitati dai provvedimenti di Neemia. Nacque così un nucleo ebraico, guidato da un sacerdote di stirpe legittima, che si sviluppò autonomamente da Gerusa­ lemme e che ha mantenuto fino ad oggi la discendenza dei sacerdoti legit­ timi del Tempio di Gerusalemme. Circa un secolo dopo la fuga di Manasse verso Samaria gli ebrei samaritani innalzarono un loro tempio sul monte Garizim, vicino a Sichem. Lo scisma era sanzionato, perché gli ebrei do­ vevano avere un solo tempio. A ll’azione di Neemia viene associata quella di Ezra, la cui datazione è incerta e la cui stessa reale esistenza ogni tanto messa in discussione. Qui mi attengo alla datazione che ritengo più pro­ babile e che è anche la più seguita17. Ezra continuò la politica di Neemia radicalizzandola. Se quest’ultimo aveva ostacolato i matrimoni misti nelle alte cariche dello Stato, Ezra fu radicale ed estese il divieto di nozze miste a tutti gli ebrei, legge che è restata valida attraverso i secoli ed è imposta ancor oggi. Per permettere agli ebrei di vivere anche all’estero secondo la legge ebraica ottenne dal re persiano che la legislazione dello Stato di Giuda fosse in qualche modo riconosciuta e proclamata dal re come legge che riguardava tutti gli ebrei (ovviamente residenti nei confini dell’ impero persiano). La formula era che la legge di Dio era anche legge del re (Ezra 7,6). Questo provvedimento aiutava gli ebrei a mantenere la loro identità nazionale; d ’altra parte il fatto che la legge diventasse legge del re era un concetto destinato a indebolire quello di legge intesa come somma delle clausole del patto di Israele con Dio. Questo era un concetto politico e religioso al tempo stesso che poteva essere vissuto solo là dove l ’autorità politica e quella religiosa in qualche modo coincidessero. Nella diaspora questo era impossibile. La frattura tra sfera del religioso e sfera del politico non poteva non essere avvertita.

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La divisione tra sfera religiosa e sfera politica, che in qualche modo abbiamo visto caratteristica del giudaismo fin dalle sue origini, darà il volto alla situazione politica di Gerusalemme al tempo degli Asmonei e poi sotto i romani, fra la fine del il secolo a.C. e la distruzione del Tem­ pio avvenuta nel 70 d.C. Quando molti ebrei, quelli più legati alla tra­ dizione religiosa, avvertirono la politica della monarchia degli Asmonei come inconciliabile con le loro esigenze religiose, poterono separare la loro vita religiosa dalla sfera politica con un movimento intellettuale che fu assolutamente naturale nell’ideologia ebraica. È una situazione che ac­ comunerà farisei e qumranici, esscni e cristiani: l’obbedienza all’autori­ tà non significa né appartenenza a chi detiene l ’autorità, né adesione alla sua ideologia.

Le correnti giudaiche di opposizione Sia la Bibbia sia opere non canoniche mostrano che il regime sadocita ebbe degli oppositori. Una certa critica al sistema sadocita è presente nei libri di Rut, di Giobbe e di Giona (v-iv secolo a.C.). II libro di R u t critica l ’idea allora dominante che per essere veri ebrei si debba essere discendenti solo di ebrei: anche David aveva una nonna moabita. Il libro di Giobbe critica un’altra idea centrale della società sadocita, che la felicità e la fortuna di­ pendano dalla rettitudine del comportamento. Il libro di Giona racconta con una favola come i pagani possano essere più pronti alla penitenza degli ebrei. . Se i libri menzionati sopra furono tramandati all’ interno della tradi­ zione sadocita, tanto che hanno finito col diventare canonici, altri libri scritti intorno al 400 a.C. o non molto dopo testimoniano il sorgere di una teologia giudaica nettamente diversa da quella sadocita e destinata ad avere influenza, anche nella sua forma più antica, sulla formazione delle prime teologie cristiane. Nella sistemazione dei testi della tradizione sadocita avvenuta al tem­ po di Neemia si ebbe cura di sottolineare che il testo della legge non era un’invenzione umana, ma risaliva a D io: il rivelatore della legge, Mosè, aveva avuto una rivelazione superiore a quella dei profeti, perché aveva parlato con Dio «faccia a faccia» (Num iz,6-8). , Intorno al 400 a.C. sorse in Israele un altro rivelatore, Enoc, che sareb­

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be addirittura dovuto essere un patriarca prediluviano. Secondo un’ idea allora comune, quanto più era antica l’origine di una tradizione, tanto più era valida e rispettabile. Inoltre, se Mosè parlò con Dio sulla terra, Enoc parlò con Dio volando addirittura in cielo. Poiché nella tradizione ebraica ci sono parecchie opere che hanno come rivelatore Enoc c sono caratte­ rizzate da una teologia particolare, non riconducibile in nessun modo al sadocitismo di Gerusalemme, questa corrente è stata definita dai moderni enochismo, secondo il nome del rivelatore.

Testi qumranici1® e testi apocrifi; l’apocalittica A partire dal 400 a.C. disponiamo oggi di una documentazione relativa alla storia del pensiero ebraico, anche se non a quella degli avvenimenti, molto più vasta di quella che possedevamo fino a una cinquantina di anni fa. La nuova documentazione riguarda tutto il periodo che va dal 400 cir­ ca a.C. fino al tempo di Gesù. L ’aumento della documentazione è dovu­ to alla scoperta dei manoscritti di Qumran, tra i quali sono stati trovati frammenti anche ampi di apocrifi, che credevamo composti in epoca più tarda di quella che i frammenti di Qumran permettono di affermare. Que­ sti apocrifi ci hanno fornito una documentazione, in termini quantitativi, ancora più vasta di quella offerta dai manoscritti di Qumran. Con la dizione “apocrifi dell’Antico Testamento” si intende una raccol­ ta di scritti nota alla Chiesa fin dai primissimi tempi, che conteneva opere escluse dal canone sia ebraico sia cristiano. Sono opere scritte sempre da ebrei, le più antiche in aramaico, tutte enochiche, poi anche in ebraico e in greco, che ci erano giunte non nella lingua originale, ma sempre in tradu­ zioni fatte da Chiese antiche, che evidentemente trovavano importante la loro lettura. G li apocrifi dell’Antico Testamento ci sono stati tramandati in lingue molteplici come il siriaco, il greco, il copto nei suoi dialetti, il lati­ no, ilg e ’ez o etiopico antico, il georgiano, l’armeno, il paleoslavo e l ’arabo. Questi testi prima della scoperta dei manoscritti di Qumran erano ritenuti per lo più contemporanei o di poco anteriori al tempo di Gesù e non erano presi in considerazione dagli studiosi salvo troppo rare eccezioni. Ancora nel 1948 Angelo Penna scriveva nelYEnciclopedia cattolica, opera di vasta diffusione, che gli apocrifi «letterariamente non meritano considerazione particolare», perché hanno la mania del meraviglioso e sono inverosimi­

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li a differenza degli scritti canonici; lamenta perfino che «alcuni padri e alcune chiese particolari tributarono un onore indebito a scritti di questo genere»” . La ragione del rifiuto va cercata in parte nei motivi addotti da Ange­ lo Penna e in parte, forse più consistente, nel fatto che furono impiegati a partire almeno dal x v m secolo da studiosi illuministi, atei o ritenuti tali, allo scopo di dimostrare che il cristianesimo era una religione storica come tutte le altre. I motivi teologici che uniscono talora gli apocrifi ai testi neotestamèntari furono interpretati dagli illuministi come segno di uno sviluppo puramente storico dell’Antico Testamento verso il Nuovo. Ciò provocò da parte degli studiosi cristiani una diffidenza verso questi testi, che è stata superata solo dopo la scoperta dei manoscritti di Qumran. La presenza nella biblioteca di Qumran di frammenti in lingua originale di quattro apocrifi10 ha dimostrato l’antichità almeno di questi quattro, mentre la mutata atmosfera culturale vede cadere le remore che furono attive nel loro studio fin verso la metà del secolo passato. Ora gli apocrifi dell’Antico Testamento sono oggetto di numerosi studi e traduzioni ne sono state fatte nell’ultimo cinquantennio in tutte le principali lingue. Le prime scoperte di manoscritti furono fatte in alcune grotte11 adia­ centi al Mar Morto intorno alla metà del secolo passato. Sulle rive nordoc­ cidentali del Mar Morto, alla foce del wadi Qumran, c’era intorno al tem­ po di Gesù un piccolo villaggio, che doveva ospitare una strana comunità di persone che si erano dedicate a Dio vivendo in solitudine, ‘‘separate’’, come dicevano loro, dal resto del giudaismo, secondo una morale diversa da quella stabilita dalla legge di Gerusalemme. Quando i romani attraver­ sarono la loro regione nel corso delle operazioni contro Gerusalemme nel 68 d.C., gli abitanti del villaggio nascosero il loro vastissimo patrimonio librario in grotte praticamente inaccessibili e abbandonarono la zona nella speranza evidentemente di potervi tornare e di recuperare i libri. In realtà non tornarono e i libri sono stati trovati da noi. Poiché le grotte furono chiuse nel 68 d.C. è chiaro che tutti i libri qui ritrovati furono scritti prima di quella data. Questo ha un’importanza no­ tevolissima, perché esclude la possibilità di rimaneggiamenti posteriori. Ci sono frammenti scritti materialmente addirittura nel ili secolo a.C. I libri scoperti nella biblioteca di Qumran possono essere così divisi: libri biblici, a noi già noti, libri apocrifi, ugualmente a noi già noti, ma solo in traduzione, libri prima ignoti, la maggior parte dei quali fu composta dagli abitanti stessi del villaggio.

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L ’ importanza dei testi biblici, per lo più frammentari, consiste nel for­ nirci un testo più antico di oltre mille anni del più antico manoscritto biblico completo che possedevamo11. Questo è importante per la storia del testo biblico. Se il maggior numero di frammenti biblici può essere considerato a monte della tradizione ebraica medievale, il cosiddetto testo masoretico, altri frammenti, sia pure scarsi di numero, mostrano un testo ebraico a monte di quello della traduzione greca. D i conseguenza il testo greco acquista un’ importanza storica che prima non aveva. Non soltanto è un testo che ha valore per i cristiani, in quanto fu quello usato dai padri della Chiesa, ma ha valore per la comprensione stessa del giudaismo del Secondo Tempio.

Di fatto sono stati trovati a Qumran quasi tutti i libri e quasi tutti i versetti del testo biblico1’. Molto interessanti per i problemi che pongono sono anche dei testi che narrano episodi biblici in forma sufficientemente simile per essere identi­ ficata, ma troppo diversa per essere considerata una variante testuale. In questi casi si parla di testi “parabiblici”, ma è solo una parola che nasconde la nostra incapacità di risolvere il problema: variazioni su temi biblici, o testo biblico ancora allo stadio fluido? Per gli apocrifi apparve subito che alcuni erano molto più antichi di quanto si pensasse. La loro teologia andava studiata non sullo sfondo del giudaismo dell’epoca cristiana, ma sullo sfondo del giudaismo sadocita ed ellenistico. Molti apocrifi sono composti in uno stile particolare. Queste opere fu­ rono dette apocalissi (dal greco apokdlypsis, “rivelazione”) per la loro somi­ glianza stilistica con l’apocalisse per eccellenza, quella cristiana di Giovan­ ni. Si è cercato a lungo quale fosse il denominatore comune della teologia delle apocalissi, quasi fossero opere derivanti da un medesimo ambiente religioso e culturale. In realtà le apocalissi sono soltanto opere composte in un determinato stile che è rappresentato dal velare l’oggetto del pensie­ ro per mezzo di simboli di vario genere. Le prime apocalissi possono aver usato questo mezzo per dire «con lingua di carne»14 cose che l ’intelletto umano intuiva, ma non poteva esprimere con concetti chiari; lo stile apo­ calittico fu prediletto dall’enochismo, ma fu proprio anche di altre teolo­ gie, come il sadocita libro di D aniele o la cristiana Apocalisse di Giovanni. Altre apocalissi teologicamente molto rilevanti, come l ’Apocalisse siriaca di Baruc o il Quarto libro diE zra (entrambe posteriori al 70 d.C.), sono anco­ ra in attesa di essere collocate in un quadro coerente del pensiero ebraico.

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L ’enochismo L ’enochismo ci appare come una teologia già pienamente formata con l ’o­ pera Libro dei vigilanti, che dovrebbe risalire a una data da porsi intorno al 400 a.C., ma le origini del movimento potrebbero essere ancora più antiche c da ricercare probabilmente nella cacciata da parte di Neemia di tutti quei sacerdoti che non poterono dimostrare la loro discendenza da antenati che erano stati in esilio. Comunque sorto, l’enochismo durò a lungo e certamente esisteva ancora al tempo di Gesù, se un’opera enochica fu scritta intorno alla metà del I secolo d.C., il Libro dei segreti d i Enoc1'. Cinque opere principali della tradizione enochica furono raccolte in data imprecisabile, ma probabilmente in epoca già cristiana, in un unico libro, che a noi è giunto soltanto in traduzione ge'ez (etiopico classico). È possibile che la raccolta sia stata fatta dalla stessa cultura etiopica. Le cinque opere sono Libro dei vigilanti16 (circa 400 a.C.17), Libro d ell’astro­ nomia (iv secolo a.C.), Libro dei sogni (circa 160 a.C.), Epistola d i Enoc (forma definitiva intorno al so a.C.), Libro delle parabole (circa 30 a.C.18). Oltre alle cinque opere principali, l'Enoc etiopico comprende anche al­ cune piccole aggiunte, comunque antiche. L ’unità della tradizione è ga­ rantita dalla presenza in tutte e cinque le opere del nome del medesimo rivelatore: Enoc. Le differenze teologiche fra un libro c l ’altro sono dovute essenzialmente al lungo arco cronologico in cui l ’enochismo si sviluppò. Differenze esistono già fra il Libro dei vigilanti e il Libro dei sogni. Se la prima opera ha una visione delle cose di tipo cosmico e mistico, a parti­ re dalla seconda la visione delle cose dell’enochismo si fa essenzialmente storica. L ’incontro/scontro col sadocidsmo, la mutuazione da questo di vari elementi c, intorno alla metà del II secolo a.C., la ricerca dell’afferma­ zione sul sadocitismo, portarono ad adattamenti vari, ma alcuni elementi del primo enochismo diventeranno comuni a tutto il giudaismo, mentre altri resteranno vivi solo al suo interno durante tutto l’arco della sua storia, che continuò anche dopo la fine dello Stato giudaico in ambienti cristiani. Nel Libro dei vigilanti appare per la prima volta la credenza che esi­ sta un’anima immortale. La novità enochica non consiste nel fatto che gli altri ebrei non credessero in una forma di sopravvivenza, ma piuttosto nel concepire la sopravvivenza in maniera totalmente diversa. N ell’ Isra­ ele classico l’anima era detta ’ob, tradotto normalmente in italiano con larva”, “ombra”, ed era concepita allo stesso modo che nel mondo greco 0 in quello mesopotamico: era cioè un’entità destinata dopo la morte a

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scendere sotterra, a vivere una vita sciagurata nella tenebra. In ogni caso, il destino della larva era uguale per tutti: non cera differenza tra un destino dei buoni e uno dei malvagi. Dio non giudicava le larve dei morti, che si raccoglievano nello sheòl, lontane per sempre dalla luce del sole e da D io19. Giobbe, per sfuggire alla persecuzione di Dio, pensa di rifugiarsi nel mon­ do dei morti, perché là l ’ira di Jhwh non lo raggiungerà mai (Giob 14,13). È ovvia conseguenza della concezione enochica dell’anima la prima confusa credenza nell’esistenza del paradiso c dell’inferno (iH [LV] zi). Un altro punto fondamentale della teologia enochica fu la convinzione che il male non fosse solo la conseguenza dell’infrazione della legge divina da parte della libera volontà umana, come era antica credenza in Israele e come continuavano a ritenere i sadociti. N ell’Israele sadocita la morte che giunga in buona vecchiezza non è un male e i mali che possono affliggere la vita sono frutto della punizione divina per le colpe dell’individuo o della sua famiglia’0. Il discorso enochico non nega né la libertà di scelta dell’uomo, né la sua responsabilità, ma vede il problema in maniera molto più complessa dei sadociti. Il male deriva sì dalla trasgressione, ma la sua radice prima, la sua origine, va cercata in una trasgressione al di sopra dell’umano. Nel quar­ to giorno della creazione, quando D io creò gli astri che dovevano servire col loro moto a misurare il tempo, gli angeli che dovevano guidare i sette pianeti intorno alla terra li portarono in orbite stabilite da loro, diverse da quelle volute da D io’1. In questo modo il cosmo enochico non è un ordine, quello voluto da Dio, ma un disordine prodotto dalla superbia di ange­ li che non vollero accettare la volontà divina. Fu un peccato di superbia, peccato che investì, con tutte le conseguenze, il cosmo intero: le stelle, non essendo nel posto voluto da Dio, mandavano sulla terra solo influssi catti­ vi. I sadociti ritenevano che il cosmo fosse un ordine, quello stabilito dalla creazione; per gli enochici più antichi il mondo era pieno di male, perché non era come Dio l’aveva voluto. Ben presto, però, l’enochismo abbandonò l’idea del cosmo inteso come disordine e l’astronomia, che nel Libro dei vigilanti era considerata un se­ greto celeste che non doveva essere svelato agli uomini, diventò in seguito, con rare eccezioni, la scienza fondamentale del sapere buono. Così già nel Libro d e ll’astronomia il cosmo è ordine. In seguito resterà sempre conce­ pito come ordine in tutte le correnti giudaiche, magari con forti presenze demoniache, come in Giub 5,11-11; 10,7-10. L ’uomo, che viene al mondo in questa condizione, resta sì responsabile

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delle sue azioni, ma il male gli preesiste e lo condiziona. Il senso della limi­ tatezza, o almeno del condizionamento della libertà umana, fu ereditato dalla più antica teologia cristiana, quella paolina (Rom 7,19). Paolo, co­ munque, spostò il peccato primo da Satana a Adamo, ma la funzione nella storia derivante dall’esistenza di un peccato commesso prima della storia c coinvolgente tutti gli uomini è la stessa, o molto simile, nell’enochismo e in Paolo. È notevole che gli enochici nella loro credenza circa l ’origine del male, da cercarsi in uria situazione anteriore all’uomo storico, non si siano mai appoggiati sul racconto genesiaco del peccato di Adamo. Anzi, nel Libro dei sogni, opera enochica composta intorno al 160 a.C., Adamo è dichiara­ to giusto. Non c’è nessuno spazio nel racconto delle origini per l ’esistenza del giardino dell’Eden. Il primo peccato fu angelico e l’uomo ne fu sempre vittima, fin dal tempo di Adamo. Un altro tratto che caratterizza in maniera costante l ’enochismo a cominciare dal Libro dei vigilanti è l’assenza di un qualsiasi riferimento alla legge di Mosè’\ L ’assenza della legge nell’enochismo resterà un tratto fondamentale del gruppo. L ’cnochismo conosce, ma nell’antico Libro dei vigilanti non ce n’è ancora traccia, un codice di leggi particolare, che era scritto nelle “tavole celesti”. Le tavole celesti erano tavole misteriose, nasco­ ste in qualche parte del cielo, dove stava scritto tutto ciò che riguardava il mondo: le leggi fisiche che lo governavano e la sua storia intera, dalla crea­ zione fino al momento della fine. Queste tavole furono lette solo da pochi eletti, in particolare da Enoc. La più antica menzione delle tavole celesti è in iH (LA) 81,1, ma il veggente vi lesse soltanto la storia degli uomini. Le tavole celesti sono nominate frequentemente nel libro dei G iubilei (circa iso a.C., cfr. infra, p. 4 1). La loro menzione appare ancora nell'Epistola d i Enoc{iH 99,1), dove si parla di legge eterna evidentemente da contrappor­ re a quella mosaica. Dopo l’Epistola d i Enoc non c ’è più traccia delle tavo­ le celesti in nessuna corrente teologica giudaica. D i fatto nell’enochismo l’etica sembra appoggiarsi più su ciò che noi oggi chiameremmo il “senso comune della morale” che su un codice preciso. Nel testo più recente dell’enochismo che possa ancora essere conside­ rato un “apocrifo veterotestamentario”, il Libro dei segreti d i Enoc, fonda­ mento unico dell’etica è l ’amore (iH / B ” 44,4; 50,5-6; 51,7-13; anche verso gli animali: 58,6), che è chiamato «pietà e dolcezza», formalmente sulla base di Prov 31,16 (v. i H 41,13), ma il punto di vista dell’autore di iH è molto diverso. Un’altra virtù fondamentale di i H è la pazienza.

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Poiché nelle opere enochichc la legge di Mosè è assente, non c ’è nem­ meno alcun accenno all’esistenza delle norme di purità. Fanno eccezione il divieto di mangiare il sangue, che è ricordato più volte (iH [LV] 7,5; Giub 7,31; iH [EE] 98,11) e il generico riferimento alle offerte impure di iH (LS) 89,73. Comunque, l’impuro esiste realmente in natura come con­ seguenza del peccato angelico. Il peccato angelico rappresenta l ’origine del male permanente nella storia sia attraverso l ’impurità sia attraverso l ’opera diabolica stessa. Quanto al culto e al tempio, sembra che queste due comuni funzio­ ni di ogni religione fossero estranee alla teologia enochica. G li enochici, pertanto, non ebbero tempio. Una posizione particolare ha il Libro dei sognP*, la cui stesura obbedisce a criteri fortemente influenzati dalla situa­ zione politica. G li enochici intorno al 160 a.C. avevano con ogni proba­ bilità la mira di assumere il controllo della società giudaica. Ma, se questo era il loro scopo, bisognava pure che riconoscessero una qualche funzione al Tempio di Gerusalemme; e in effetti riconobbero una funzione al Tem­ pio, sia pure come rimedio alla mancanza di un culto e di una religiosità superiori. C i si rendeva conto che la struttura religiosa che volesse domi­ nare Israele non avrebbe mai potuto farlo senza il Tempio. Bisognava, da un lato, giustificare la necessità di un tempio nella propria teologia, dal momento che la religiosità enochica non ne aveva mai avuto bisogno, dall’altro, spiegare agli altri ebrei che il tempio storico non era adatto e ce ne voleva uno diverso.

Nella spiritualità delle guerre maccabaiche, quando l’intervento divino nella storia era atteso con impazienza e si cercavano segni adatti a misurare il tempo che ancora mancava al momento dell’intervento, come appare nel contemporaneo libro di D aniele, grandi rivolgimenti erano sperati. Uno di questi avrebbe riguardato, secondo le speranze enochiche, il Tem­ pio di Gerusalemme. La spiegazione della necessità del tempio fu trovata raccontando in ma­ niera un po’ diversa da quella narrata nella Scrittura trasmessa dai sadociti, quella che per noi oggi è la Bibbia, l ’avventura degli ebrei in fuga dall’Egit­ to (iH [LS] 89,18-36 passim). Quando furono in mezzo al deserto, Enoc vide dall’alto del cielo, dove si trovava nella visione, la morte degli egiziani che affogavano nel Mar Rosso; poi vide che «le pecore” passarono oltre quell’acqua ed uscirono in un deserto dove non vi era acqua né erba, e presero ad aprire i loro occhi e a guardare. E io [Enoc] vidi il Signore delle pecore [che] le pasceva e dava loro acqua ed erba». La terra dove si tro­

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vavano gli ebrei dopo il passaggio del Mar Rosso era una sorta di paradiso in terra; non c ’era assolutamente nulla; tuttavia agli ebrei non mancava nulla, perché a tutto provvedeva miracolosamente Dio stesso. Nella visione Enoc vede « il Signore delle pecore che stava innanzi a loro - e il Suo aspetto era maestoso e forte», ma gli ebrei si rivolsero ad Aronne dicendo: «N on possiamo [stare] davanti al nostro Signore né guardarlo». Cosi gli ebrei cominciarono a diventare ciechi: non capivano più che tutto veniva loro da Dio. Ebbero paura di lui. Mosè salì ancora sul monte e ne discese. Il Signore delle pecore si adirò contro di esse di grande ira e quella pecora [M osè] se ne accorse, scese dalla cima della pietra, venne presso le pecore e ne trovò la m aggior parte che era cieca e che avevano sbagliato’ 6 dalla loro strada. (34 ) E, quando lo videro, ebbero paura e tremarono davanti alla sua faccia e vollero tor­ nare al loro ovile. (3$) E quella pecora prese con sé altre pecore ed entrò da quelle pecore che avevano sbagliato [la strada] e, d i poi, prese ad ucciderle e le pecore temettero della sua faccia e quella pecora fece tornare quelle che avevano sbagliato ed esse rientrarono nei loro ovili. (36) E d io vidi, colà, la visione finché quella pecora divenne un uom o e costruì la casa del Signore delle pecore e mise tutte le pecore in quella casa.

Dunque, Mosè sali sul monte per incontrarsi con Dio, ma ne discese senza legge. Gli ebrei erano in contatto diretto con Dio; potevano vederlo c do­ vevano capire che erano guidati e forniti di beni solo da lui. Invece ebbero paura del divino e cercarono qualcosa di meno tremendo. Da qui l’ira di Dio. Mosè compì la vendetta, ma gli ebrei sopravvissuti non tornarono più a vedere Dio. Mosè allora costruì la “casa del Signore”, fuor di metafora il tabernacolo e, con questo, l’enochismo riconosceva per i suoi la necessità di un tempio e per gli altri ebrei la validità del Tempio di Salomone, di cui il tabernacolo costruito da Mosè era tipo. Quanto al Tempio contemporaneo, l’enochismo lo rifiutò chiaramen­ te, dichiarandolo esplicitamente maledetto e destinato alla rovina. Si legge in iH (LS) 91,18-19: E stetti [io Enoc] a osservare fin quando [il fuoco] attinse quella casa vecchia’7 e fecero uscire’* tutte le colonne, e tutte le travi e gli ornamenti di quella casa si avvilupparono con esso [sdì. col fuoco] e la fecero uscire e la gettarono in un posto a destra” della terra. E vidi il Signore delle pecore fin quando fece venire una casa nuova, più grande ed alta di quella precedente, e la pose nel luogo della prima che

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era stata avviluppata e tutte le sue colonne erano nuove, i suoi ornamenti erano nuovi, ed era più grande della prima, della vecchia, che E g li aveva portato via, e tutte le pecore stavano in mezzo ad essa.

Le speranze di predominio degli enochici scomparvero con l’ascesa al so­ glio pontificale di Simone Maccabeo nel 151 a.C. Da quel momento l ’cnochismo tornò a onorare il Signore senza tempio e senza legge. Non molto dopo quegli anni deve essere stata composta l 'Apocalisse delle settimane, un testo a noi giunto come prima parte de\l'Epistola di Enoc che, però, è del secolo seguente. N ed!Apocalisse delle settimane tutto

il tempo del mondo è diviso in periodi, detti settimane, che sono stati pre­ ordinati da Dio. L ’umanità si trova ora nella settima settimana, alla fine della quale la giustizia comincerà ad affermarsi. Sarà l’inizio del giudizio. La giustizia continuerà ad affermarsi durante l’ottava settimana, alla fine della quale sarà costruita la casa per il gran re. Durante la nona settima­ na «sarà manifestato a tutto il mondo il giudizio di giustizia, il mondo sarà ascritto alla distruzione e tutti gli uomini guarderanno alla via della rettitudine» (iH [EE] 91,11-14). Con la decima settimana, poi, comince­ rà il giudizio eterno e il mondo àt)l'éschaton che è immaginato dividersi anche questo in settimane, destinate a sfociare in settimane eterne. Solo in questo momento finale « il peccato non sarà più menzionato per l’eter­ n ità» (iH [EE] 91,17). Si afferma cosi l’idea dell’esistenza di un predeter­ minismo divino a livello puramente storico. Questa periodizzazione della storia riapparirà soprattutto in due apocalissi della fine del I secolo d.C., anche se appartenenti a una diversa area teologica, quella farisaica (Apoca­ lisse siriaca di Baruc e Quarto libro d i Ezra). In quanto al messianismo, esso è documentato nell’enochismo soltanto nella fase più tarda, col Libro delle parabole (circa 30 a.C.), e ha caratte­ re superumano. La figura di Enoc nei libri precedenti non è quella di un messia di salvezza, ma solo di un rivelatore sia pure di misteri di salvezza. Solo nel Libro delle parabole Enoc, uomo nato e non morto (cfr. il testo canonico di Gen $,14), è dichiarato messia (iH [LP] 48,10; $1,4). È un messia che vive in cielo, da dove non scenderà mai sulla terra, dove, però, è già un attivo «bastone dei giusti» (48,4) c dove, alla fine dei tempi, farà il grande giudizio (46,3-6). È notevole che il Libro delle parabole non presenti, diversamente dai libri enochici precedenti, la figura di Enoc fin dall’inizio del libro, ma solo alla fine: solo in iH 71,14, quartultimo versetto del libro, si leggono queste

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parole sulla bocca d ’un angelo: «Tu [Enoc] sci il Figlio dell’ Uomo, nato per la giustizia e la giustizia ha dimorato in te, e la giustizia del Capo dei Giorni [Dio] non ti abbandonerà». Fino a questo versetto rivelatore, il libro aveva sempre parlato di una figura misteriosa, che aveva ricevuto gli appellativi di giusto, di eletto e infine di figlio dell’uomo; al termine della lettura di quest’opera nella mente del lettore resta che la figura dominante è quella chiamata figlio dell’uomo. Del resto la frase rivelatrice citata so­ pra parla del figlio dell’uomo, come se l’aspetto fondamentale della figura misteriosa, creata prima del tempo e destinata a proteggere i giusti durante il tempo della storia e a fare il grande giudizio alla sua fine, fosse questo suo essere il «figlio dell’uom o». L ’identificazione con Enoc sembra in qualche modo secondaria. Poiché questo libro fu composto verso la fine del I secolo a.C.40, è certa­ mente precristiano e il suo contributo alla comprensione di Gesù stesso più che delle orìgini cristiane è evidente, perché Gesù si presentò sempre come figlio dell’uomo. I testi neotestamentari si richiamano esplicitamente, per il titolo di figlio dell’uomo, al libro di D aniele, ma l’esistenza della figura del figlio dell’uomo nell’immaginario ebraico del tempo di Gesù è documenta­ ta solo dal Libro delle parabole. Secondo l ’interpretazione più diffusa degli studiosi del x x secolo il figlio dell’uomo del libro di D aniele era una pura metafora per indicare il popolo di Dio. Oggi si torna a vedere nella figura del figlio dell’uomo del capitolo 7 di D aniele un essere angelico4', magari l’arcangelo Michele, che sarebbe diventato il capo, il re degli ebrei dopo che Dio avesse fatto il grande giudizio. Sotto quest’aspetto il figlio dell’uomo danielico ha le stesse funzioni di re universale del contemporaneo Libro dei sogni: entrambi sono destinati a governare il mondo futuro senza male. In ogni caso il figlio dell’uomo del Libro delle parabole, in quanto ba­ stone dei giusti c destinato a fare il grande giudizio, si distingue nettamen­ te per le funzioni da quello di Daniele: è una grande figura intermedia fra Dio c l ’uomo durante il tempo della storia. L ’esistenza di questo figlio dell’uomo doveva essere credenza diffusa, perché normalmente nessuno domanda a Gesù chi sia, come nessuno domanda che cosa sia un profeta 0 uno scriba. Era una parola che agli ebrei del tempo di Gesù era chiara. È proprio in riferimento alla sua funzione di giudice universale, con l’autori­ tà di condannare e di assolvere, che Gesù può dire: «Affinché sappiate che d figlio dell’uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati, io ti dico: Alzati c cammina” » 4*. Nel Libro delle parabole la salvezza sembra legata esclusivamente al pen-

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omento, che può avvenire anche dopo la morte (iH [LP] 50; 63; 68,5; cfr. anche l’apocalisse di Sofonia, opera non enochica, A pSof i o , i i ) . L ’enochismo produsse ancora un’altra opera prima della caduta del Tempio, l’ Enoc slavo o Libro dei segreti d i Enoc, ma le fortune di Enoc continuarono ancora a lungo, come dimostrano la riscrittura dell’opera avvenuta in ambiente cristiano qualche secolo dopo e la fortuna che l ’apo­ crifo ebbe nel mondo slavo4’.

Israele fra il 4 0 0 e il 14 1 a.C.: lellenisino in Palestina È comune considerare l ’anno 333 a.C., data dell’ inizio della conquista dell’Oriente da parte di Alessandro Magno, come anno d’ inizio dell’el­ lenismo. In realtà l ’ellenismo era già in Oriente, perché gli scambi cultu­ rali procedono anche senza gli eserciti. L ’ellenismo è per definizione la fusione di elementi della civiltà occidentale con quella orientale. Se l ’O ­ riente esportò verso l ’Occidente molti atteggiamenti religiosi, al contrario l ’ellenismo, se guardato da Oriente, fu caratterizzato dall’assorbimento dei valori più caratteristici della civiltà occidentale, come la concezione dell’uomo che si realizza nella sua libertà. In questo senso della libertà ca­ pace di generare autonomia spirituale si radicava la fiducia del greco in tutte le forze umane, intellettuali o politiche che fossero. L ’uomo che ve­ niva dall’Occidente era sempre, in maniera più o meno cosciente, misura di tutte le cose, mentre l ’uomo orientale sapeva che misura delle cose è Dio. Il libro di Giobbe, certamente anteriore al 333, è documento di un uomo che si pone davanti alla tradizione giudicandola alla luce del pro­ prio ragionamento. È per esperienza che Giobbe può negare che esista una retribuzione sulla terra che testimoni la giustizia di Dio, almeno intesa nel senso umano del termine e, in ogni caso, come era intesa allora da molti, compresi gli amici che vengono a consolarlo delle sue sventure. Per quanto la data della conquista dell’Oriente da parte di Alessan­ dro sia considerata l ’inizio di una rivoluzione grandissima, destinata a coinvolgere tutta l’umanità, tuttavia non sembra che gli ebrei che furono invasi dall’esercito di Alessandro si accorgessero del cambiamento pro­ fondo che quell’epoca stava attraversando. In effetti Alessandro lasciò inalterata la struttura dello stato ebraico. Gli ebrei devono aver avuto

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l’impressione che fosse solcanco cambiato il gran re: prima era persiano, ora è greco, ma erede dell’impero precedente. Era ormai abitudine seco­ lare per gli ebrei pensare che D io esercitasse la sua autorità in Israele per mezzo di un gran re straniero. Del resto, Dio era re di tutta la terra e non per nulla anche Ciro, re di Persia, era stato annoverato dalla tradizione ebraica come “unto” di Jhwh. C om ’è noto, l ’ impero unitario di Alessandro Magno non sopravvis­ se alla morte del suo fondatore e si spezzò in molti regni, su ciascuno dei quali si pose un generale di Alessandro. La Giudea toccò all’Egitto, dopo la vittoria di Tolomeo su Demetrio Poliorcete del 3 11 a.C. Sul trono dei faraoni si assise il generale Tolomeo, che fondò una dinastia destinata a durare fino al tempo di Cesare e Ottaviano. In occasione della vittoria di Tolomeo su Demetrio, Tolomeo deportò molti ebrei in Alessandria per punirli di aver parteggiato per Demetrio. Ma in breve tempo la diaspora alessandrina ripetè le fortune della diaspora babilone­ se e ad Alessandria si sviluppò una colonia ebraica e prese vita una for­ ma di giudaismo colto e di lingua greca che ebbe numerosi intellettuali, fra i quali il più famoso sarà il filosofo Filone d'Alessandria, vissuto dal 30 a.C. circa al 45 d.C. Nel zoo a.C. i Tolomei furono sconfitti nella battaglia del Paneio (a nord di Gerusalemme) da Antioco in , re della Siria, lo stesso che fu scon­ fitto dai romani a Magnesia nel 197 a.C. In seguito a questa battaglia la Giudea cambiò orbita di vassallaggio, passando dalla sfera egiziana a quel­ la siriana, ma il mutamento avvenne in maniera lenta e fu costellato da violente contrapposizioni di ebrei contro ebrei. Per un complicato gioco di compromessi, la Giudea si trovò ad appartenere politicamente ai siriani, mentre continuò a pagare le tasse agli egiziani, in quanto questa rendi­ ta doveva essere considerata dote di Cleopatra, figlia di Antioco e andata sposa a Tolomeo v. In questa situazione di dipendenza confusa da due Stati diversi si for­ marono in Giudea partiti favorevoli all’uno o all’altro Stato a seconda degli interessi personali. La lunga dinastia dei sacerdoti sadociti finì nel J 7 3 a.C., quando l’ultimo sadocita legittimo, Onia I I I , fìloegiziano, fu costretto dal fratello Giasone, filosiriano, ad abbandonare il soglio pon­ tificale c a rifugiarsi a Dafne, dove fu assassinato un paio d ’anni dopo, mentre il figlio di Onia III , ovvero Onia IV , si rifugiò in Egitto, dove costrui il tempio di Leontopoli, che si trovò ad essere un tempio irregola­ te, rispetto alla norma deuteronomica che imponeva l’unicità del culto,

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pur essendo officiato da sacerdoti legittimi di stirpe sadocita. Il sommo pontificato fu occupato da Giasone per qualche anno, finché questi fu a sua volta rovesciato, nel 167 a.C., da Menelao, che non era più nemmeno di stirpe sadocita. I ribelli usavano comprare il sommo sacerdozio dal re straniero: questo fatto poteva avvenire perché Israele era abituato da se­ coli a considerare la somma autorità come naturalmente posta fuori dello Stato ebraico. Giasone e Menelao furono capi di un vero e proprio movi­ mento ellenizzante. Gli ellenizzanti erano non solo più aperti verso la cultura greca, ma consideravano la Torah una legislazione sorpassata. Contemporaneamen­ te non mostravano la stessa volontà di chiusura verso il paganesimo dei tradizionalisti. I nomi degli attori di questa tragedia dinastica - Onia, Giasone e Menelao, nome ebraico il primo, greci gli altri due - nascon­ dono una lacerazione profonda che si andava creando nel tessuto della so­ cietà ebraica di allora. C ’era chi voleva adeguarsi agli usi ellenistici e chi voleva restare legato alle tradizioni patrie. I più aperti all’ellenismo erano i filosiriani. Quest’amore per la cultura e la società di tipo ellenistico po­ teva essere un modo per distinguersi e avere una bandiera per cui com­ battere, ma nascondeva un problema concreto: era evidente che le società ellenistiche erano superiori a quella ebraica per strumenti di ogni genere, commerciali, culturali, amministrativi, militari44. La scelta era, o sembrava essere, fra tradizione e ammodernamento; fra essere travolti dalla storia e dal progresso o restare fedeli alla tradizione e a Dio. Menelao risolse il problema della legislazione antiquata, iscrivendo gli ebrei di Gerusalemme nelle liste civili di Antiochia: erano così sottomessi alla legge ellenistica di Siria e non più a quella ebraica. Quanto ai rapporti col paganesimo, è documentata un’offerta ebraica di danaro per le celebra­ zioni di Ercole4’. Comunque, anche la parte tradizionalista non poteva evitare una certa mescolanza con i pagani. I soldati venivano arruolati sen­ za badare alla circoncisione e, in quanto al sabato, fu abolita la norma che impediva in questo giorno anche di combattere (1 Macc 1,41-43). Le due tendenze vennero alle armi nel 167 a.C. e a capo dei fedeli alla tradizione si posero i membri di una famiglia sacerdotale, quella dei Mac­ cabei. Il primo fu Mattatia; poi, morto questo, si succedettero al comando dei tradizionalisti i suoi cinque figli, l ’ultimo dei quali, Simone, portò di fatto Israele all’indipendenza dalla Siria (141 a.C.). Simone, infatti, anzi­ ché farsi nominare sommo sacerdote dai siriani, si fece investire del compi­ to dal popolo ebraico stesso, del quale era diventato capo assoluto, avendo

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assommato in sé le cariche di sommo sacerdote e di “capo del popolo”. Si interruppe cosi l ’antico costume in vigore fin dall’inizio della repubblica per cui lo Stato ebraico era sempre stato governato da due autorità, quella civile e quella sacerdotale. La guerra dei Maccabei contro gli ebrei ellenizzanti e contro i siriani è passata alla storia come guerra di liberazione dallo straniero. In realtà fu una guerra di ebrei contro altri ebrei, dei tradizionalisti contro gli elleniz­ zanti, questi appoggiati anche militarmente dalla Siria, alla quale la terra di Israele apparteneva. Il momento più confuso di questo periodo risale all’incirca alla metà del secolo quando per ben sette anni, dal 159 al 151 a.C., il soglio pon­ tificale risulta vacante. Il fatto si può spiegare in due modi: o nella con­ fusione prodotta dalle guerre non si riuscì a nominare un sommo sacer­ dote, oppure il sommo sacerdote nominato, appartenendo a un gruppo che non seppe mantenere il potere, subì in seguito la damnatio memoriae. Solo documenti esterni potranno risolvere il problema in maniera decisi­ va. La situazione politica interna di Gerusalemme permette entrambe le spiegazioni. In effetti tre opere circa dell’epoca, il libro di Daniele, il Libro dei sogni e il libro dei Giubilei, sembrano cercare, muovendo da sponde opposte, punti di ideologia o teologia comuni, ribadendo però ciò che a ciascuna parte sembrava irrinunciabile. Daniele si esprime in molte parti in stile apocalittico, come gli enochici; accetta l’esistenza di una vita oltre la mor­ te nella forma della risurrezione; specula come il contemporaneo Libro dei sogni sul tempo che ancora manca alla fine della storia sentita come imminente; pensa al mondo che verrà fuori dal giudizio divino c Io vede guidato da una figura celeste, chiamata figlio dell’uomo, che insieme a tut­ ti gli ebrei dominerà il mondo. Abbiamo già visto come il Libro dei sogni condivida con Daniele certe strutture di fondo dell’immaginario, perché anche l ’autore del Libro dei sogni aspettava il giudizio in termini brevi; anche lui era convinto che ci sarebbe stato un personaggio superumano che avrebbe governato il mon­ do che sarebbe emerso dal giudizio, ma vedeva tutti gli uomini alla pari. Daniele difendeva i valori della legge. L ’autore del Libro dei sogni non co­ n sc e nessuna Torah. Seguendo la descrizione degli avvenimenti, ci siamo trovati di fronte a fautori della tradizione e a fautori delle innovazioni ellenistiche. Pos­ siamo pensare con ottime ragioni che sotto le bandiere dei Maccabei si

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schierassero i fautori della tradizione, quelli che la tradizione ha trasmesso col nome di asidei; ma i sadociti c i loro clientes dovevano stare piuttosto dalla parte degli ellenizzanti: sono i sacerdoti che accettarono Giasone e Menelao nel Tempio, e i cui discendenti accetteranno la politica guerriera ed espansionistica dei re ebrei, come Ircano e Alessandro Yanneo. I loro di­ scendenti al tempo di Gesù staranno dalla parte dei romani. C on i dati che possediamo non siamo in grado di stabilire da che parte potessero stare gli enochici. I documenti storici usano nomi che non sappiamo utilizzare in relazione alla documentazione letteraria. Le fonti parlano di un partito degli asidei che combattè con i Maccabei. M a quali opere del II secolo a.C. possono essere attribuite a questi asidei?

L a cultura ebraica del periodo ellenistico: l’area essenica La presenza dell’ellenismo a Gerusalemme è già documentabile nell’opera di Qohélet della seconda metà del ili secolo a.C. I problemi cominciano ad essere affrontati in maniera filosofica, ignota prima agli autori ebrei. L ’ influsso dell’ellenismo va colto soprattutto nella tendenza a portare i problemi alle estreme conseguenze nel campo del pensiero e, in ambito politico, nell'affermarsi di capitani di ventura, padroni di eserciti che po­ tevano combattere per Israele, ma anche mettersi al servizio di sovrani della zona. Durante il il secolo a.C. l ’enochismo subì una crisi profonda dividen­ dosi in vari gruppi a seconda delle posizioni che venivano prese riguardo a vari problemi. Gli enochici vivevano sempre più a contatto con la cul­ tura sadocita e l ’osmosi fra le due fu robusta: se qualche elemento, come l ’immortalità dell’anima, da enochico divenne sadocita e quasi pangiu­ daico, molto più frequente fu il caso opposto di idee sadocite che furono assorbite da gruppi enochici in maniera diversa, cosicché nacquero grup­ pi e sette diversi. Si poteva portare alle estreme conseguenze il concetto di onnipotenza divina e andare verso forme di predeterminismo, come a Qumran; accettare in qualche modo, ma con riserve e limitazioni sempre diverse, la legge mosaica; accettare l ’attesa messianica, ma con immagini del messia molto diverse l ’una dall’altra; rifiutare il Tempio di Gerusalem­ me totalmente o pensare soltanto a modifiche del culto e del sacerdozio;

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forme di halakah diverse nei riguardi del sacrificio, del matri­ monio e delle relazioni con gli stranieri: si poteva essere massimamente nazionalisti come a Qumran, o essere universalisti come i Testamenti dei dodici patriarchi. A ll’insieme delle opere sorte da questa frammentazione dell’enochismo viene dato comunemente il nome di essenismo. L ’attribuzione del nome è fatta sulla base delle informazioni sugli esseni che abbiamo da Fi­ lone di Alessandria e da Giuseppe Flavio. Data la molteplicità dei gruppi emersi dalla crisi dell’enochismo, è evidente che il termine di esseni re­ sta un po’ vago nei confronti dei singoli gruppi. Per questo è forse op­ portuno parlare di area essenica, mantenendo il nome di esseni in senso stretto per quei gruppi che sembrano corrispondere meglio e più abbon­ dantemente alle informazioni di Filone e di Giuseppe Flavio. Penso che sia opportuno non comprendere l ’enochismo nell’area essenica, date le caratteristiche che lo mantengono unico nel quadro delle sette giudaiche. A ll’interno dell’area essenica ha una posizione ben chiara il movimento qumranico. sviluppare

Il qumranesimo Indico con questo nome il gruppo di ebrei di derivazione enochica che co­ minciò ad avere una sua personalità intorno al zoo a.C. c durante la secon­ da metà del 11 secolo a.C. fini addirittura col distaccarsi dagli altri enochici e da tutti gli altri ebrei, per ritirarsi in solitudine sulle rive del Mar Morto, nei pressi dell’odierno tvadi Qumran, dove volle vivere separato in attesa del grande intervento di Dio che scatenasse la battaglia definitiva contro Satana e contro tutti quegli angeli e quegli uomini che lo seguivano. Que­ sto gruppo fu identificato fin dalle prime scoperte dei manoscritti con gli esseni, quali ci sono presentati da due ebrei che scrissero in greco, Filone d Alessandria e Flavio Giuseppe. L ’identificazione è stata mantenuta dalla maggior parte degli studiosi (compreso l ’autore di queste pagine) nono­ stante alcune grosse incongruenze, la maggiore delle quali è il fatto che gli esseni delle fonti indirette vivevano in gruppi sparsi su tutto il territorio di Israele, mentre il gruppo qumranico viveva separato in un punto delle sponde del Mar Morto. Un anno intorno al 100 a.C. fu di capitale importanza nella vita del

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gruppo di Qumran. Infatti le opere giudaiche più antiche di questa data sono tutte presenti nella biblioteca di Qumran; dopo quella data si trova­ no nella biblioteca solo opere ignorate dal resto degli ebrei: sono per lo più le opere caratteristiche del gruppo, quelle che ci forniscono le sue idee più particolari. Il qumranesimo è, pertanto, una sorta di eresia enochica con una teo­ logia che si andò distinguendo sempre più da quella enochica sia perché accolse motivi sadociti sia perché portò alle estreme conseguenze motivi enochici. Il qumranesimo credeva nel predeterminismo assoluto, sia storico sia individuale. Dio creò due angeli, per amare l ’uno e le sue opere e per odia­ re l ’altro e le sue opere. Sono i due angeli detti Principe della luce e Prin­ cipe della tenebra, ciascuno dei quali è a capo di un suo regno (iQ S ìli 10 -11). L ’uomo al momento della nascita viene assegnato da Dio all’uno o all’altro regno con atto ovviamente imperscrutabile. I qumranici accettarono pienamente la legge di Mosè (iQ S v 8): non c ’è traccia nel qumranesimo delle tavole celesti. A Qumran è documentato un tentativo di unificazione delle norme della legge di Mosè: si cercava di eliminarne le contraddizioni. Accanto alla legge documentata nel Penta­ teuco si trova a Qumran anche una legge unificata c scritta in un’opera nota come Rotolo del Tempio. Quale sia il rapporto fra questa legge e quella della Torah mosaica vera e propria non è chiaro. Probabilmente il testo unificato rappresenta un primo stadio del qumranesimo: apparteneva cioè al gruppo che non si era ancora distaccato coscientemente dall’enochismo. Comunque la legge mosaica, pur avendo valore definitivo e assoluto, ha tuttavia bisogno di essere interpretata e completata: la legge nella sua for­ ma scritta presenta i “comandamenti rivelati”, ma in realtà contiene nasco­ sti anche altri comandamenti, che devono essere scoperti. Uno degli scopi della setta era indagare nella scrittura attraverso lo studio e la preghiera assidui per arrivare all’ illuminazione divina che facesse, da un lato, cono­ scere nuovi comandamenti c, dall’altro, concedesse la retta interpretazio­ ne di quelli rivelati. Accettando la legge mosaica, il qumranesimo accettò anche tutta la normativa relativa all’impurità, ma ne esasperò il valore. Nel qumranesimo impurità e male coincidono chiaramente. L ’uomo è peccatore e impu­ ro fin dal concepimento (iQ H X I I [4 ]^ 19-30). Da questa impurità, che è connaturata col suo essere, l ’uomo può liberarsi soltanto aderendo all’in­ segnamento della setta. Non esiste nessun'altra purificazione possibile da

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impurità ontica. La purificazione diventa espiazione47 e l’espiazio­ ne è fatta dallo spirito divino stesso che vive nella setta4'. Il concetto di espiazione, in quanto operata direttamente da Dio senza lo strumento di nessun rito, porta la teologia qumranica verso la creazione di un concetto in qualche modo di giustificazione, che trova un’espressio­ ne potentissima nella mistica dell’inno accluso in calce alla Regola della comunità del ms. iQ S: il miste dice a D io: «T u sei la mia giustizia» (iQ S X 11). In questo caso l ’unione dell’uomo con Dio raggiunge un’intensità tale che Dio, se operasse il giudizio, giudicherebbe se stesso. L ’uomo può diventare giusto solo con la purificazione/espiazione che è prodotta dall’adesione alla setta. A sua volta l’adesione alla setta dipende solo dal misterioso piano di Dio sulla storia. La salvezza è, quindi, per pura grazia (iQ S x i 349). Inoltre, il qumranesimo tende a dare alla fede ( 'ema­ nalo) in Dio dei contenuti ideologici precisi (cfr. pHab v i li 3). Tutti questi motivi trovano qualche eco nelle prime teologie cristiane. In quanto al calendario, i qumranici restarono sempre fedeli al calenda­ rio tradizionale, cioè quello solare, come, del resto, gli enochici. Come gli enochici, i qumranici continuarono a non riconoscere il Tempio di Gerusalemme e, come gli enochici, credevano nell’esistenza dell’anima immortale; anzi, secondo i qumranici l’anima degli aderenti alla setta viveva già nell’eterno, per cui la morte quasi non aveva realtà. Questa idea si può confrontare con certa teologia cristiana delle origini. Si veda Giov 5,14; E f i,y 6 . A differenza dell’enochismo, a Qumran ebbe particolare sviluppo l’attesa messianica. Lo schema più probabile sembra essere questo: verrà un profeta che annuncerà la venuta di due messia, uno laico, discendente di Giacobbe Israele, e uno sacerdote, discendente di Aronne’0. Il messia sacerdotale sarà il sommo sacerdote della setta che sarà in carica al mo­ mento della rivelazione del messia laico. Questi è detto generato da Dio” e. una volta riconosciuto, si metterà a disposizione del sommo sacerdotc>che cosi verrà a sapere di essere l’altro messia. Il discendente di Giuda sarà, per così dire, il braccio secolare del messia sacerdote, cui spetterà il grado più alto. ' questa

Accanto a questi messia, ne esiste a Qumran un terzo, una figura ange­ la , il cui nome è Melchisedek, “re di giustizia”, che avrà compiti altissimi c°me far pentire gli ebrei e raccoglierli in patria, forse compiere il grande 6’udizio, certamente applicarne la sentenza. Quale sia il rapporto fra le uzioni dei due messia menzionati prima e che agiranno in contatto re­

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ciproco e quelle del Melchisedek angelico non è chiaro, anche perché non esistono testi nei quali si parli del messia celeste contemporaneamente agli altri due messia.

L ’essenismo Dalla crisi delTenochismo che si produsse intorno alla metà del il secolo a.C., oltre al qumranesimo sorse anche un movimento che ebbe sviluppo assai vasto su tutto il territorio di Israele e che sembra essere quello che meglio corrisponde alla descrizione degli esseni quale si trova negli scritti di Filone e di Flavio Giuseppe. Le radici delTessenismo sono da ricercare probabilmente nella teologia del libro dei Giubilei, che si presenta chiara­ mente con la volontà di creare una teologia su base enochica, ma che assor­ bisse il maggior numero possibile di clementi sadociti, a cominciare dalla lingua che fu l ’ebraico (e non più l’aramaico) come attestano i numerosi, anche se piccoli, frammenti di Qumran. È l ’opera che conteneva l ’ideolo­ gia che avrebbe dovuto fondare il nuovo Israele, se il progetto enochico si fosse affermato. I G iubileis\ detti anche Piccola Genesi, raccontano senza nessun rive­ latore, quindi con la stessa struttura dei libri sadociti, come Mosè salì sul monte Sinai, per ricevervi le tavole della legge, ma come in realtà l’angelo di Dio gli raccontò anche tutta la storia che precedette quel momento a partire dalla creazione del mondo e gli svelò per sommi capi anche il desti­ no futuro di Israele. Il libro dei G iubilei esalta la figura di Mosè e riconosce esplicitamente la sua legge, ma la subordina a quella delle tavole celesti, che è eterna” . La tradizione sadocita è accettata, ma è sussunta nella teologia enochica. I G iubilei riconoscono anche il Tempio e sembrano attendere come messia un discendente di Giuda che sarà re d’ Israele (31,18-10). L ’essenismo successivo sviluppa il messianismo come il qumranesimo, ma, a differenza del qumranesimo, non conosce il messia angelico. C ’è un messia di Levi e un messia di Giuda, che corrispondono evidentemente a quelli di Aronne e di Israele dei qumranici, e la superiorità di quello sacer­ dotale è nettissima: «C om e il cielo è più alto della terra, così il sacerdozio di Dio è più alto del regno terreno» (TestGiuda 11,4). Il messia di Levi avrà il compito di dare l ’interpretazione definitiva della legge, c quello su­ premo di legare Satana. Questo sacerdote del futuro non ha nulla a che

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vedere col sacerdozio storico di Israele. C i sarà un sacerdozio nuovo: « A l­ lora il Signore farà sorgere un sacerdote nuovo, al quale tutte le parole del Signore saranno rivelate. Egli farà sulla terra un giudizio di verità [cioè: governerà con giustizia] [...] A i suoi giorni i cieli esulteranno[...] La gloria dell’Altissimo sarà pronunciata sopra di lui e lo spirito di santità e di in­ telligenza riposerà su di lui[...] Egli non avrà successori, di generazione in generazione c per sempre [...] Sotto il suo sacerdozio scomparirà il pecca­ to^..] Darà da mangiare dell’albero della vita ai santi[...] Beliar sarà legato da lui» (TestLevi 18,1-iz,passim).

Israele sotto gli Asmonei A partire dal 141 a.C. Israele tornò, salvo brevi periodi, uno Stato indi­ pendente governato dalla famiglia degli Asmonei, discendenti diretti dei Maccabei. La tradizione giudaica più tarda, che fu farisaica, considerava i Maccabei degli eroi nazionali, ma negli Asmonei, a cominciare da Gio­ vanni Ircano, vide soltanto degli oppressori; da qui l ’uso di chiamare la medesima dinastia con due nomi diversi, che rispecchiano il diverso giu­ dizio morale sul loro comportamento. L ’indipendenza ebraica durò fino alla conquista romana avvenuta nel 63 a.C. Il primo discendente di Simone fu Giovanni Ircano (134-104 a.C.); a lui seguirono Aristobulo I (104-103 a.C.), Alessandro Yanneo (103-74 a.C.), Alessandra Salome (76-67 a.C.), Aristobulo 11 (67-63 a.C.). Gli Asmonei furono molto aperti verso la cultura ellenistica e, come 1 sovrani ellenistici, mirarono alla gloria delle armi e alle conquiste. Fu proprio per questo motivo che entrarono in conflitto con quella parte del popolo che era stata favorevole ai loro antenati Maccabei e considerava la guerra necessaria solo fino al momento in cui avesse ottenuto la libertà di comportarsi secondo i costumi patri. Al tempo di Giovanni Ircano nella Giudea erano formati e attivi i due Partiti che domineranno la scena nei vangeli: i sadducei e i farisei. Sotto gli Asmonei lo stato ebraico raggiunse più o meno gli antichi c°nfini del regno davidico della tradizione. Popoli che da tempo erano stati indipendenti da Gerusalemme, come gli Idumei a sud, furono ebraiz­ z i a forza c incorporati nello Stato ebraico. A nord la potenza asmonaica S*unse fino a Samaria, che fu distrutta.

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Il regno di Alessandro Yanneo fu caratterizzato da una lunghissi­ ma guerra civile che vide schierati nei campi opposti farisei e sadducei, questi ultimi appoggiati dal re. Alla morte del re, lo Stato era in pessime condizioni e la regina Salome tenne per sé il controllo dell’esercito e del­ la politica estera, ma rimise a un sinedrio composto per lo più da farisei l ’amministrazione del popolo. Essendo donna, non potè ricoprire la ca­ rica di sommo sacerdote, che fece assumere al figlio maggiore, Ircano il. Alla morte della regina Salome scoppiò un’altra guerra civile fra Ircano li e il fratello Aristobulo il. Ircano, infatti, alla morte della madre aveva assunto anche il titolo di re, ma il fratello non fu d’accordo. Alla battaglia di Gerico Aristobulo ebbe la meglio c Ircano gli cedette tutti i suoi diritti in cambio di una rendita. La cosa sarebbe probabilmente finita così, se non fosse intervenuto un capitalista idumeo, un certo Antipatro, discen­ dente degli ebrei convertiti a forza, il quale si fece paladino della causa di Ircano. Aristobulo rappresentava gli interessi della nobiltà terriera, men­ tre Ircano sembrava più aperto verso soluzioni politiche diverse, in mag­ giore sintonia con le politiche economiche di Roma. In ogni caso, doveva essere più malleabile del fratello. Fu durante queste vicende che Pompeo, che si trovava in Oriente per concludere la guerra contro Mitridate, occupò Gerusalemme appoggian­ do Ircano. D a questo momento la Giudea fu sottomessa al dominio romano, pur godendo di una certa indipendenza. Essa era ancora governata da un sovrano ebreo, che ebbe il titolo di etnarca. Negli anni successivi la terra d ’Israele non conobbe pace. Aristobulo e suo figlio Alessandro guidaro­ no più rivolte contro Ircano e Antipatro, finché un altro discendente di Aristobulo, Antigono, riuscì a far intervenire i parti contro Gerusalemme e contro Roma, a patto di essere posto sul trono. In queste circostanze emerse la figura di un figlio di Antipatro, destinato ad essere menzionato nel vangelo di Matteo in una luce particolarmente crudele: Erode, passato alla storia come Erode il Grande. Erode ebbe dai romani il titolo di re e gli furono assegnate alcune legio­ ni perché potesse liberare la Palestina dai parti. Nel 37 Erode raggiunse il suo scopo e dette inizio a un regno che è stato valutato diversamente dalla tradizione giudaica e da quella ellenistica: un pessimo re per la prima, ot­ timo per la seconda. Egli dispose del suo regno per via testamentaria come se fosse un bene di famiglia e lo divise in tre parti: alla sua morte (4 a.C.) Archelao ebbe la parte più vasta e migliore del regno, la Giudea, la Samaria

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e l’Idumea; a Erode Antipa toccarono la Galilea e la Perca; a Filippo la Transgiordania a nord del fiume Yarmuk. Nel 6 d.C. Archelao fu deposto da Ottaviano, su richiesta dei suoi stessi sudditi, che non erano soddisfatti del suo governo. La Giudea ebbe allora un’amministrazione particolare, che è quella che troviamo rispecchiata nei vangeli, creata per permettere la gestione di una zona che per motivi diversi era difficile da governare. Essa fu annessa alla pro­ vincia romana di Siria e, pertanto, l ’autorità suprema vi era esercitata dal governatore di Siria. In realtà, un altro funzionario imperiale risiedeva a Cesarea, sul mare, con il titolo di praefectus, poi trasformato, sotto l’imperatore Claudio, in quello puramente amministrativo di procurator. Al tempo di Gesù, Pilato amministrava la Giudea col titolo di pra­ efectus. Come tale, era il comandante delle truppe di stanza in Giudea, responsabile della riscossione dei tributi e del mantenimento dell’ordine pubblico. Certamente dipendeva da lui l ’emettere condanne a morte di ribelli a Roma. Non è chiaro se avesse lui solo nello Stato ebraico il potere di emettere sentenze di morte per qualunque motivo. Dato che la pena di morte era praticamente l ’unica esistente accanto alla flagella­ zione, sembra improbabile che dovesse occuparsi di tutti i processi che si facevano in Giudea in cui ci fosse un’accusa che prevedeva la pena di morte54. Gli ebrei poterono mantenere la loro amministrazione e i loro or­ gani statali, il più alto dei quali era il sinedrio. Capo del sinedrio fu il sommo sacerdote, la cui elezione, dal tempo della rivolta maccabaica, spettava al sovrano straniero. Fu infatti Quirino, governatore della Siria alla quale la Giudea apparteneva, a nominare sommo sacerdote Annas, probabilmente perché doveva essere stato uno dei più attivi avversari di Archelao e quindi sicuro fautore del dominio romano. Egli fu sommo sacerdote dal 6 d.C. al 15 d.C.; poi il sommo sacerdozio passò ad altri membri della sua famiglia, fra i quali richiama la nostra attenzione spe­ cialmente il nome di Caifa, suo genero, perché direttamente interessato nel processo di Gesù.

1 romani cercarono di rispettare al massimo le esigenze della Torah. ^ ato che la legge proibiva le immagini, i soldati romani non introduce­ Vano in Gerusalemme i loro vessilli. Così le monete coniate in Giudea n°n portavano l ’effigie dell’ imperatore, ma soltanto il suo nome; va dett0>però, che in Giudea si potevano coniare soltanto monete di bronzo; i tagli più alti dovevano pertanto recare qualche effigie, perché non prove­

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nivano dalla zecca della Giudea (Me 11,15-16). Una qualche contamina­ zione col paganesimo era inevitabile. Gli ebrei furono inoltre esonerati da prestare il culto all’imperatore, come invece era in uso in altre province orientali.

I farisei e i sadducei La scena dei vangeli è dominata da due soli movimenti giudaici del tempo: i farisei e i sadducei. I farisei appaiono per la prima volta nella storia al tempo di Giovanni Ircano. Erano probabilmente i discendenti di quegli asidei che avevano appoggiato con le armi le battaglie dei Maccabei ma che si trovavano a disagio con la politica espansionistica degli Asmonei. Durante un banchetto a cui aveva invitato esponenti della corrente fa­ risaica, Ircano decise di chiarire la sua posizione nei riguardi dei farisei ponendo loro una domanda” molto più precisa di quanto non appaia dal­ la forma apparentemente generica: chiese che gli dicessero chiaramente, dato il suo amore per la giustizia e per l ’azione in conformità dei desideri di Dio, «se essi vedevano che facesse qualcosa di male e se si allontanas­ se dalla retta via» . Ricevette naturalmente il desiderato coro di lodi; uno solo, un certo Eleazaro, che Giuseppe Flavio giudica «uom o di cattiva indole e contento di creare dissensi», espresse un parere diverso. Rimpro­ verò apertamente a Ircano di ricoprire il sommo sacerdozio e lo invitò a contentarsi di governare il popolo. Eleazaro fu condannato a morte e i farisei passarono, se così può dirsi con termine moderno, all’opposizione. Gli Asmonei si appoggiarono, allora, sui sadducei e questa situazione durò fino alla morte di Alessandro Yannco. Per quanto non abbiamo notizie dirette delle dottrine farisaiche delle origini e si deducano quelle del tempo di Gesù dal Nuovo Testamento e dalla M ishnàh, che è ancora più tarda, tuttavia alcune esigenze di fondo della loro dottrina sono sufficientemente certe. i. A l centro della loro teologia stava il valore della legge mosaica sia scritta, sia orale’*. Le norme della legge riguardavano ormai solo l ’indivi­ duo; data la situazione politica, la vecchia concezione del Deuteronomio e di Necmia, secondo la quale la legge era considerata come somma del­ le clausole del patto che legava lo Stato e quindi tutta la società ebraica nel suo insieme a Dio, era superata, z. Credevano nella piena libertà di

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scelta dell’uomo fra bene e male e, quindi, nella sua piena responsabilità. y Credevano nella risurrezione e/o immortalità dell’anima. 4. Vedevano probabilmente già al tempo di Gesù il giudizio dopo la morte come conto sugli atti di osservanza c di trasgressione della legge {PirqeA vot 3,16). 5. A l tempo di Gesù erano favorevoli all’uso anche nel Tempio del calendario lunisolare ellenistico e laico (probabilmente solo dalla seconda metà del 1 secolo a.C.). 6. Non è chiaro, invece, come interpretassero le norme di purità. Alla fine del I secolo d.C. vi era la tendenza a considerarle semplici comandamenti da osservare alla pari di tutti gli altri, senza che l ’ impurità avesse una sua realtà specifica. In ogni caso al tempo di Gesù il problema della realtà dell’impuro era molto sentito. Come si vede, il farisaismo si contrappone nettamente all’enochismo (c ancor più al qumranesimo) su un punto fondamentale: il rapporto fra l ’o­ pera di D io e quella dell’uomo nella creazione della salvezza. L ’intervento di Dio è maggiore nelle opere dell’area essenica che in quelle a tendenza fa­ risaica. Nel farisaismo l ’uomo salva se stesso per mezzo dell’osservanza dei comandamenti, perché gli atti di osservanza cancellano gli atti di trasgres­ sione e la giustizia praticata (tsedaqah, quello che noi chiameremmo “le opere buone”) cancella le ingiustizie commesse (bSukkah 49b57). N ell’enochismo (Libro delle parabole, 30 a.C.) le ingiustizie commesse possono solo essere perdonate per mera bontà divina, purché il peccatore si penta. Dei sadducei sappiamo poco per la scarsezza delle notizie che li riguar­ dano, scarsezza dovuta un po’ al loro aristocratico appartarsi, un po’ al fatto che la loro teologia si andò appiattendo su quella farisaica. Vale comunque la pena di ricordare che : non riconoscevano la validità della legge orale e con molta probabilità limitavano la scrittura alla sola Torah-, non accettavano né 1 esistenza dell’anima immortale e destinata al giudizio, né la risurrezione; circa la liturgia del Tempio avevano una tradizione che discordava in parte da quella che era usata ai tempo di Gesù, la quale doveva corrispondere alla teologia farisaica. Gli indizi esistono, ma sono frammentari*8. Anche nel campo delle origini cristiane la rivoluzione apportata dalla Coperta dei manoscritti del Mar Morto ha fatto sentire le sue conseguen­ te. II quadro tradizionale delle origini cristiane vedeva Gesù predicare a sua religione agli ebrei, i quali avrebbero avuto tutti, più o meno, una medesima teologia, della quale gli esponenti più dotti e più attivi erano ansei. Da Giuseppe Flavio, il già citato storico ebreo che scrisse in greVerso la fine del I secolo d.C., sapevamo che accanto ai farisei c erano anche i sadducei, menzionati abbondantemente anche nel Nuovo Te­

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stamento, e gli esseni. M a la nostra conoscenza diretta delle tre sette era molto disuguale. Degli esseni non avevamo nessuno scritto; dei sadducei notizie sporadiche; al contrario dalla letteratura rabbinica dei primi seco­ li di derivazione essenzialmente farisaica potevamo avere notizie dell’ide­ ologia farisaica. La maggior parte delle notizie riguardanti i farisei ci viene dalla M ishnàh, una raccolta di discussioni e detti rabbinici redatta agli inizi del in secolo dagli eredi più o meno diretti dei farisei del tempo di Gesù. L ’u­ so delle fonti rabbiniche era facilitato agli studiosi del Nuovo Testamento da un’opera di grandi dimensioni e di uso relativamente facile anche per i non specialisti: il Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midraschw. L ’opera presenta in calce al testo del Nuovo Testamento, ver­ setto per versetto, i rimandi puntuali a tutti i testi rabbinici che possano avere una qualche somiglianza con la forma o il contenuto del versetto neotestamentario. La conseguenza della disponibilità di questa documen­ tazione è stata la creazione di commenti che hanno dato del cristianesimo un’immagine necessariamente distorta, come se Gesù e tutti i rappresen­ tanti delle origini cristiane si muovessero sullo sfondo di un giudaismo che coincideva di fatto col farisaismo. L ’ intera l’area essenica, con tutte le sue varianti e sfumature, era assente. Pertanto, tutto ciò che distingueva Gesù dal farisaismo era interpretato come novità cristiana. Oggi, come si vede, la situazione è profondamente cambiata, perché abbiamo un’abbondante documentazione diretta del pensiero dell’area essenica, prima ignota o ignorata. Gesù e i primi cristiani si muovevano in mezzo a idee divergenti che riguardavano, come abbiamo potuto notare, un po’ tutti i campi del pensiero di allora. Probabilmente le stesse diffe­ renze che si riscontrano tra un autore neotestamentario e l ’altro hanno in parte le loro radici nella diversa formazione ereditata dalla specifica forma di ebraismo in cui erano cresciuti ed erano stati educati

Israele sotto i procuratori La Giudea ebbe ancora un re della dinastia di Erode: l’imperatore romano Claudio (41-54 d.C.) concesse il titolo di re ad Agrippa 1, che di Erode era nipote. Sotto il suo breve governo la regione ebbe requie, ma alla sua morte, avvenuta nel 4 4 , Claudio rifiutò di concedere al figlio di Agrippa

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I, Agrippa II, la successione nei domini del padre. Gli concesse, invece, verso l ’anno 50, il titolo di re per governare il piccolo regno della Calcide, nella Celesiria; in seguito ebbe le terre che una volta erano state di Erode Filippo- Comunque, Agrippa lì poteva risiedere a Gerusalemme ed ebbe anche l’autorità di eleggere i sommi sacerdoti. Visse fin verso la line del secolo e fu il mediatore tra ebrei e romani cercando inutilmente di evitare il peggio negli anni che vanno fino al 67, quando scoppiò la grande rivolta contro Roma. A partire dal 44, anno della morte di Agrippa 1, la Giudea fu governata da procuratori romani che Giuseppe Flavio accusa di incapacità c disone­ stà. Non so se i governatori romani della Giudea fossero peggiori di quelli che Roma mandava nelle altre province; certo è che in Giudea l’animosità contro Roma c contro i compatrioti filoromani crebbe di anno in anno soprattutto sotto l ’impulso del partito zelota, sorto probabilmente dopo la deposizione di Archelao (6 d.C.). Il movimento zelota si distingueva dagli altri partiti ebraici del tempo perché era deciso a usare la forza contro Roma. Si distingueva pertanto non solo dagli elementi sadducei general­ mente filoromani, ma anche dai farisei normalmente contrari all’uso della forza. Oltre che in singoli che potevano provenire da tutte le ideologie, gli zeloti trovarono infine appoggio anche in quegli esseni che pensavano che il tempo della fine fosse giunto, quello del grande scontro decisivo tra le forze della luce e delle tenebre. Il movimento zelota trae il suo nome da un episodio del libro dei N um eri (capitolo 15) in cui si narra che il sacerdote Pinehas uccise un ebreo che stava trasgredendo la legge e che questo gesto era stato approvato da Dio stesso. Zelanti della legge si dissero, già a partire dal tempo delle guerre maccabaiche, coloro che erano disposti a uccidere pur di far rispettare la legge. L ’odio accumulato contro i romani esplose nel 67 per una serie di inu­ tili malversazioni c umiliazioni che il procuratore Gessio Floro impose agli ebrei: la goccia che fece traboccare il vaso fu l ’obbligo di tributare un’acco­ glienza trionfale a due coorti romane, dopo che i romani avevano saccheg­ giato un quartiere di Gerusalemme per rappresaglia contro insulti ricevuti da Floro. La rivolta cominciò a dilagare senza un capo preciso. Gli zeloti occuparono le fortezze erodianc che non avevano forti guarnigioni; anche il Tempio fu occupato dai ribelli e fu decretata la fine del sacrificio in favo­ re dell’imperatore. Invano buona parte dei farisei c del sacerdozio, nonché "^grippa 11, cercarono di opporsi: chi si opponeva veniva perseguitato c Ucciso, cosicché la guerra di liberazione nazionale fu anche una guerra ci­



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vile. Un primo intervento del governatore di Siria, Ccstio Gallo, che aveva a disposizione una sola legione, finì in una completa disfatta romana, cosa che incoraggiò ancor più i ribelli a insistere nella loro politica di forza. L ’imperatore Nerone ($4-68 d.C.), data la gravità della situazione, mandò in Giudea un esercito al comando del generale Vespasiano, che si avvicinò rapidamente a Gerusalemme. Ucciso Nerone nel 68, Vespasia­ no temporeggiò per vedere che cosa stava accadendo a Roma, dove in un anno si susseguirono tre imperatori, Galba, Ottone e Vitellio. Alla fine del 69, le truppe di Vespasiano proclamarono imperatore il loro generale, che lasciò l’Oriente per recarsi a Roma, lasciando il comando delle trup­ pe che operavano in Palestina al figlio Tito. Questi, nel 70 d.C., dopo un durissimo assedio conquistò la città combattendo per mesi quartiere per quartiere. Alla fine Gerusalemme fu presa completamente e distrutta. La guerra continuò ancora fino al 74 per eliminare le fortezze periferiche che si rifiutavano di arrendersi. L ’ultima a cadere fu quella di Masada sulle rive del Mar Morto.

G li ebrei dopo la catastrofe I romani combatterono contro gli ebrei in quanto popolo ribelle, ma non li perseguitarono sul piano religioso. In altri termini, la religione ebraica restò religio licita, come era prima del 70. Anzi, i romani non si oppose­ ro nemmeno a che un maestro fariseo, Yohanan ben Zakkai, costituisse a Yamnia, sul mare, un’accademia ebraica, la quale fu la base della sopravvi­ venza di Israele, come popolo e come religione. C on Yohanan il farisaismo si avviò a trasformarsi in giudaismo tout court, perché gli altri gruppi anda­ rono dispersi, ad eccezione ovviamente di quello cristiano, che stava, però, diventando una religione nuova. Fu a Yamnia che si chiuse definitivamente il canone ebraico della Scrit­ tura e fu a Yamnia che il farisaismo portò alle estreme conseguenze il giu­ daismo di Ezra, fondato sulla legge indipendentemente dallo Stato e dal tempio. La giustizia del comportamento umano, cioè del comportamento secondo la Torah, sostituisce il sacrificio e si afferma come valore al di là dello Stato. Sono questi i principi che hanno sorretto gli ebrei fino ad oggi, permettendo loro di restare un popolo, anche senza terra, e di continuare le funzioni del sacrificio, anche senza il tempio.

z L ’ellenismo, secondo ambito delle origini cristiane di Romano Penna

Note metodologiche Anche se il cristianesimo, con Gesù di Nazaret e i suoi primi discepoli, nacque e cominciò a svilupparsi in ambito giudaico-palestinese, nel senso sia geografico sia culturale del termine1, tuttavia non tardò a incontrarsi con i grandi orizzonti del mondo ellenistico, da cui pure doveva rimanere ampiamente segnato1. Tuttavia il fenomeno “ellenismo” è complesso e sfaccettato ed è difficil­ mente riconducibile a un denominatore comune. Su questo versante non agisce, come invece nel giudaismo, un dato tanto compendioso quanto nor­ mativo e quindi unificante come è il principio monoteistico con la connes­ sa coscienza di una elezione, per non dire della Torah e dell’unico Tempio. Lo stesso politeismo è un fattore quanto mai ambiguo, se ci si sovviene per esempio che YInno a Zeus di Cleante lascia trasparire una concezione del di­ vino a tendenza unitaria9(per non dire poi della straordinaria religiosità di Epitteto4) in un ambiente in cui, a partire da Talete, si riteneva che «tutto è pieno di d è i» 9. Inoltre, il contrassegno del mondo ellenistico non è dato soltanto dalle componenti religiose della società, ma anche e ancor più da quelle culturali; certo, questa distinzione riflette più la nostra odierna men­ talità cartesiana che non quella dell’uomo antico, il quale (a parte la rara professione di ateismo)4 non scorgeva fratture tra fede e ragione, a motivo del riconoscimento di una radicale syngéneia esistente fra il divino e l’uma°o in tutte le sue espressioni. Già i Dialoghi di Platone stabilivano un nesso guanto mai stretto tra il divino e il bene, il bello, il vero, il giusto, essendo rutto in questo mondo semplice ombra di un mondo superiore7. Tuttavia, Proprio la filosofia, l ’arte (specie quella statuaria) e le scienze naturali, per tacere dei giochi panellenici, non trovano riscontro in ambito giudaico; e sono esse, come e forse ancor più della religione in senso cultuale, che con­

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tribuiscono a disegnare i tratti specifici di una “spiritualità” ellenistica, che a ragione, sintetizzando, si può sommariamente definire umanistica.

Il concetto di ellenismo Il concetto fu coniato nel x i x secolo da Johann Gustav Droysen8nel senso di commistione della civiltà greca con quelle orientali, conseguente all’e­ popea di Alessandro Magno (morto a Babilonia nel 313 a.C.) ed estendentesi fino alla occupazione romana dell’ Egitto tolemaico (nel 30 a.C.). Ge­ neralmente, il periodo posteriore al 31 a.C. viene etichettato come civiltà romana o età imperiale. Però, in senso lato, almeno i primi secoli dell’im­ pero vengono anche definiti con la cifra “ellenismo”, come già si esprimeva lo stesso Droysen’ . Del resto, persino un filosofo ebreo come Filone Ales­ sandrino elogiava Augusto per aver «accresciuto l’Ellade di molte altre Elladi» {Leg. a d C. 14 7)10. Il distacco dell’ellenismo rispetto al periodo classico precedente ha due note distintive. L ’una è l ’oggettivo superamento del particolarismo cultu­ rale c politico delle antiche città-stato. Dopo Alessandro si afferma un co­ smopolitismo che sottrae l’individuo alle anguste dimensioni della suapolis e lo proietta verso vasti orizzonti geografici c culturali". Ne sono segno alami fattori importanti: i grandi regni (Tolomei in Egitto, Seleucidi in Siria, Attalidi a Pergamo, Antigonidi in Macedonia) confluiti poi nell’unica signoria di Roma; la fondazione e la variopinta vitalità di nuove città (tra cui spiccano Alessandria in Egitto c Antiochia in Siria), centri di irresistibile richiamo; una generale fioritura delle arti, delle lettere, delle scienze, della filosofia, da cui la stessa civiltà romana rimarrà indelebilmente contrassegnata11. D i questo universalismo è anche segno inconfondibile la nuova lingua comune, quella greca arricchita e modificata da vari apporti locali {koinédialektos), meno raf­ finata dell’antico attico ma divenuta vincolo linguistico della nuova società. In secondo luogo, e di conseguenza, prese corpo un inedito atteggia­ mento individualistico, favorito dal venir meno della passione politica ed espresso per esempio nel realismo veristico dell’arte statuaria” . Soprattut­ to, affiorò nella coscienza umana un nuovo bisogno di sicurezze morali e religiose, che era il segno di un’esperienza di smarrimento di fronte alle di­ mensioni macroscopiche della nuova realtà politica e culturale. Tale senso di incertezza portò alla costruzione di nuovi sistemi filosofici e alla ricerca di nuove vie religiose di salvezza (cfr. infra).

^ e l l e n is m o , s e c o n d o a m b it o d e l l e o r ig in i c r is t ia n e

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Si tratta dunque di un ambiente in grande fermento, di cui il cristiane­ simo, oltre che contribuire a delinearlo col suo stesso apparire, approfitterà nel senso migliore del termine, trovando in esso una sorta di praeparatio evangelica, che da una parte gli fornirà diversi elementi costitutivi e dall’al­ tra gli permetterà di diffondersi a raggio universale.

L’ellenismo in Palestina

Un malinteso storiografico del passato riguarda una ipotetica, permanente opposizione tra giudaismo ed ellenismo. Questa falsa contrapposizione di culture, se mai è esistita, cessò o almeno si ridimensionò notevolmente in seguito alle imprese di Alessandro, tanto che è ormai acquisita la catego­ ria di “giudaismo ellenistico’’ a designare una naturale ricezione di lingua, concetti e mentalità greche da parte del giudaismo soprattutto alessandrino (cfr. infra). Ma, in più, vari studi degli ultimi decenni hanno messo in luce i molteplici aspetti di ellenizzazione verificabili anche nella madrepatria palestinese'4. Qui, anche se l ’aristocrazia sacerdotale di Gerusalemme, de­ siderosa di ellenizzare la città e la vita giudaica in armonia con il re seleucide Antioco IV Epifane, fu costretta a rinunciarvi per la sollevazione armata dei Maccabei nella prima metà del II secolo a.C., tuttavia in seguito sia la mo­ narchia asmonea sia la dinastia degli Erodi fecero propri parecchi aspetti di ellenizzazione, dalla lingua all’arte (domestica c funeraria) e al personale sti­ le di vita. Benché il fenomeno caratterizzasse soprattutto le classi sociali più elevate1’, esso non mancò di infiltrarsi anche tra il popolino, come dimostra­ no certi nomi greci di persona (cfr. Andrea e Filippo tra i dodici apostoli) o il semplice costume di «giacere a tavola » (cosi Gesù in Me 1,15; 14,3.18). Lo stesso tipo di predicazione itinerante praticato da Gesù di Nazaret è stato posto in parallelo con la prassi dei filosofi cinici ambulanti, compresa la loro yita di rinuncia (su cui cfr. anche Epitteto, Diatr. 111,11,46-48), anche se 1 ipotesi non ha potuto e non può imporsi del tutto.

Hgiudaismo ellenistico Uscendo dalla terra d ’ Israele il cristianesimo non trovò davanti a sé soltant0 il mondo pagano, ma continuò per un certo tempo a camminare sui bi­ nari del giudaismo della diaspora occidentale'6, che fu un fenomeno consi­ stente e vivace almeno fino agli inizi del II secolo (in seguito ebbe grande

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vitalità quello rabbinico della diaspora orientale mesopotamica). Nel i secolo, secondo calcoli attendibili, su una popolazione totale dell’impero romano di 50-60 milioni di abitanti, gli ebrei erano il 7-10 per cento, cioè 4-6 milioni (di cui appena 500-700.000 residenti in Palestina). Giuseppe Flavio scrive con un certo orgoglio: «N on è facile trovare un solo luogo nel mondo, che non ospiti questo popolo e dove esso non abbia autorità» (Ant. 14,115: cfr. Bell. 1,398). Solo in Egitto, a detta di Filone Alessandrino {In Fi. 43), ammontavano a un milione. Ma già nel il secolo a.C., stando a iMac 15,15-24, essi erano presenti in Siria, Cipro, Anatolia (Cappadocia, Panfilia, Caria, Lidia, Pergamo), Grecia, Cirene, e nelle isole egee di Creta, Deio, Rodi, Coo, Samo. Anzi, una delle sinagoghe più antiche è attesta­ ta proprio a Deio e risale a dopo l’ 88 a.C. (cfr. C I I 715-731). Siamo poi informati che ad Efeso verso il 13 a.C. Erode il Grande ottiene da Marco Vipsanio Agrippa un autorevole intervento in favore dei diritti degli ebrei delle città ioniche dell’Asia Minore (cfr. Giuseppe Flavio,^»/. 12,115-127; 16,17-61). Inoltre, dopo il 63 a.C. la presenza ebraica si impianta anche in Italia, specie a Roma, Pozzuoli e Ostia. Tutte queste comunità intrattene­ vano un vincolo concreto con la città-madre Gerusalemme mediante il pa­ gamento di una tassa annuale di “mezzo siclo* (due dracme attiche). È poi naturale che la convivenza con l’ambiente pagano comportasse tipologie diverse di rapporto, consistente comunque in una più o meno accentuata ellenizzazione'7. Questo giudaismo, che aveva in Alessandria d’ Egitto il suo nucleo più dinamico, si caratterizzò per un’ampia produzione letteraria, che, ol­ tre all’impresa della versione greca di tutto l’Antico Testamento ebraico (denominata l x x ) , fu contrassegnata da un forte contributo di pensie­ ro a opera di molti autori'8. Oltre al libro canonico della Sapienza e agli apocrifi sEsd, s^ M a c, Preghiera d i Manasse, 2Enoch, ricordiamo autori e opere maggiori: Aristobulo, la Lettera d i Aristea, gli Oracoli Sibillin i, le Sentenze dello Pseudo-Focilide, il romanzo di Giuseppe e Aseneth; tra tutti però spiccano il filosofo-mistico Filone Alessandrino, contempora­ neo di Gesù, e lo storico Giuseppe Flavio, operante a Roma sotto i Fla­ vi. D i questi ultimi, il primo instaurò un dialogo effettivo con le filosofie del platonismo e dello stoicismo nella lettura delle Sacre scritture, che ci attesta la prassi di una marcata interpretazione allegorica. In più egli of­ fre dei paralleli illuminanti per l ’interpretazione di importanti concetti neotestamentari” , come quello giovanneo di lògos ed espressioni varie sia di Paolo (come la dynamis divina o il rapporto tra uomo psichico e pneu-

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(tiatico) sia della lettera agli ebrei (come il trattamento di Melkisedeq o la funzione sacerdotale levitica). Il secondo, oltre a informarci ampiamente sulla guerra giudaica degli anni 66-70, è l ’unica fonte a offrirci la storia della dinastia degli Erodi, ma ci dà anche una interessante notizia sullo stesso Gesù10.

Il vangelo in ambiente ellenistico Quando i primi predicatori cristiani (innanzitutto quelli della cerchia di Stefano e poi specialmente Paolo di Tarso) lasciarono la terra di Palestina per addentrarsi nel tipico ambiente di cultura greca (prima a nord: An­ tiochia di Siria; poi sempre più verso ovest: la Ionia, la Grecia, fino all’ I­ talia; per non dire dell’Egitto), dovettero inevitabilmente incontrare e confrontarsi con le idealità e anche le strutture religiose e culturali locali E fu un confronto in parte necessariamente polemico (sulla falsariga del già esistente giudaismo ellenistico), come ci attesta per esempio l’antica formulazione di iTs 1,9: « V i siete convertiti a D io dagli idoli per servire il Dio vivo e vero» (cfr. anche iC o r 8,4-5). Tuttavia, anche se non vie­ ne mai confessato apertamente (cff. però la dichiarazione ecumenica di Fil 4,8), una grande porzione del cristianesimo primitivo11 dimostrò un flessibile atteggiamento di disponibilità, che trova ima documentazione eloquente già nel discorso di Paolo all’A reopago di Atene (secondo Luca in At 17,21-31)“ . L ’accusa di ellenizzazione del cristianesimo, risalente ad A d o lf von Harnack (che peraltro considerava il fenomeno a partire solo dalla metà del 11 secolo)13, rischia di settorializzare il cristianesimo rinchiudendolo nclla sua matrice culturale giudaica e impedendone Io sviluppo a d extra, compresa la condivisionc di altre categorie culturali. È «più nel giusto chi vede nell ellenizzazione del messaggio cristiano non la sua deformazione dovuta all’influsso della cultura greca, bensì il risultato di un processo di adattamento, processo inevitabile e naturale, ancorché molto laborioso e sofferto»14. Del resto, il Maestro Galileo aveva pur sentenziato che non bisogna rattoppare con un panno grezzo un vestito liso o versare vino nuovo in otri vecchi (cfr. Me 2,21-22), e aveva persino preconizzato il passaggio della Vlgna del Signore ad «altri coltivatori» (Mt 21,41). Inoltre, la proclama­ tone dell’annuncio cristiano in ambito ellenistico richiedeva prio ri una

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qualche inculturazione della Parola, cioè un suo almeno parziale adatta­ mento alle categorie di comprensione proprie dei nuovi ascoltatori, stante il fatto che, in buona retorica, l’uditorio è una delle tre componenti neces­ sarie per chi parla o scrive1’. È cosi, per esempio, che, a parte il concetto giovanneo di lògos, Paolo parla di comunione cultuale (sacramentale) con Cristo nella celebrazione eucaristica; questo concetto non appartiene alla tradizione giudaica, che non conosce l’idea di una unione diretta con Dio nel sacrifìcio cultuale, bensì a quella greca, concernente soprattutto Dioniso16. Analogamente, si potrebbe fare un raffronto tra il tema paolino dell’unione battesimale con il Cristo morto e risuscitato e la prassi ellenistica dei vari culti misterici17. La stessa cosa vale anche a proposito di varie esortazioni etiche in rapporto allo sfondo filosofico dell’ambiente, soprattutto in riferimento allo stoici­ smo, sia nei contenuti che nelle forme letterarie18. Questa varia esemplificazione lascia intravedere come sia assoluta­ mente importante la conoscenza dell’ambiente greco-romano attorno al cambiamento di èra: non solo per puntualizzare la distanza dei due interlocutori, ma anche per scoprire che in realtà il vangelo si fa cultu­ ra, non in antitesi ma in osmosi con il suo nuovo “milieu” vitale, così come il Verbo si è fatto carne (cfr. G v 1,14). Certamente oggi non si possono più sostenere seriamente le posizioni sincretistiche della co­ siddetta “Scuola religionista” d ’ inizio x x secolo19. Tuttavia, il raffronto del Nuovo Testamento con il versante ellenistico è imprescindibile e di fatto viene condotto su basi scientifiche di grande valore, come dimo­ stra la serie postbellica degli studi afferenti al Corpus Hellenisticum N ovi Testamenti

Dimensioni religioso-culturali dell’ambiente ellenistico In età ellenistica continua a sopravvivere l ’antica religione omerica della polis greca, che ora si estende a vasto raggio in tutto il Medio Oriente. Ciò avviene mediante la cosiddetta interpretatio graeca, un processo di identificazione degli dèi olimpici con quelli dei vari paesi entrati a far parte della nuova orbita religioso-culturale: così Zeus con Ammon in Egitto (cfr. anche i templi di Zeus a Baalbek, a Gerasa ecc.); lo stesso si

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jica di Afrodite con Astarte; cosi il post-olimpico Dioniso si identifica di volta in volta con Osiride in Egitto, con Sabazio in Asia Minore, con Adone presso i Fenici. La situazione comunque è assai complessa3'. Da una parte prendono piede nuovi culti, e dall’altra si fa sempre più strada una critica radicale ai tradizionali sistemi religiosi. Suddividiamo questa situazione in sette punti: la religione olimpica e i culti misterici; il culto dionisiaco; i santuari oracolari; gli dèi guaritori; il culto del sovrano; il fato; la religione dei filosofi.

La religione olimpica e i culti misterici L’aspetto forse più caratteristico della religiosità ellenistica è offerto dal fenomeno dei culti misterici, che sono materia di una complessa tipo­ logia31. Essi si sviluppano accanto e persino al posto della tradizionale religione civica imperniata sul culto dei classici dodici dèi olimpici (con i corrispettivi nomi latini), impassibili e troppo lontani dalla vita dei singoli33. Questa religione continua a caratterizzare il culto pubblico delle città. I misteri sono celebrazioni esoteriche (derivate da miti rispettivi), con­ cernenti divinità e aree geografiche diverse: da quelli già prc-ellenistici di Persefone-Core in Eieusi a quelli di Cibele-Attis in Frigia, di Iside e Osiri­ de in Egitto, di Adone in Siria e Fenicia, di Mitra proveniente dalla Persia. Mentre i primi però sono legati al santuario locale (cosi anche il culto dei grandi dèi” a Samotracia), gli altri conoscono una diffusione “missiona­ ria” che li impianta in tutto il bacino del Mediterraneo34. Tutti questi culti, in più della religione tradizionale, offrono agli iniziati la certezza di una protezione speciale della divinità sull’individuo, a dimensione sia terrestre che ultraterrena (in Apuleio, Metam. 11,6 Iside dice a Lucio: Vives in mea tutela glorìosus)33. Cosi già si legge in Sofocle: «Tre volte beati sono quei to rtali che hanno visto queste consacrazioni e cosi giungono nell’Ade; solo per costoro c ’è vita laggiù, per gli altri ci sarà ogni sorta di malanno» (fr. 837); c ancora su un’iscrizione tombale di epoca imperiale si legge di Un miste che ha imparato «che la morte non è un male, ma qualcosa di buono» ( i g 11/111(1) 3661). A differenza degli dèi olimpici, le divinità dei misteri conoscono un destino di sofferenza e di morte. Proprio la loro «passione» {pdthe: cfr. Erodoto, Storie 1,17 1 a proposito di Osiride; Luciano, D e dea syria 6) li

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avvicina di più ai mortali, i quali anzi vedono in essi il proprio paradigma. « L e teletdi (cerimonie iniziatiche) sono la trascrizione a livello rituale [...] delle sofferenze (pathémata) divine la cui rievocazione, mentre offre un ammaestramento agli uomini e un modello di comportamento ispirato alla eusébeia, li “consola” e placa con la prospettiva di una buona soluzione nelle loro analoghe, travagliate vicende esistenziali Nella prassi cultua­ le si realizza pertanto un incontro, una comunicabilità di esperienza fra uomo e divinità sulla base di quelle sofferenze che, peculiari del destino umano, sono state tuttavia appannaggio del dio stesso in una fase critica, peraltro felicemente superata»’6. Occorre comunque precisare che quella esperienza di sventura non ha alcuno spessore storico, ma ricalca soltan­ to il ciclo annuale della vegetazione che muore e rinasce, come riconosce esplicitamente da parte pagana nel I V secolo d.C. il filosofo Sallustio S. Saturnino: «Queste cose non avvennero mai, ma sono sempre» (De diis et mundo 4,9). I culti ebbero una fortuna enorme ed esercitarono una potente forza di attrazione. £ , mentre non conosciamo nell’antichità esempi di conver­ sione alla religione tradizionale, abbiamo invece il caso, sia pur roman­ zesco, della “conversione” di Lucio al culto di Iside nel libro X I delle M e­ tamorfosi di Apuleio di Madaura (età di Marco Aurelio)’7. Diversamente dal perìodo classico, in cui l’uomo era tenuto soltanto a osservare esatta­ mente tutto il debito rituale, abbiamo qui l’esempio di un individuo che è anche in cerca di una guida c di una speciale illuminazione (cfr. ivi 11,15: «T u offri ai miseri in travaglio il dolce affetto di una madre»). Probabil­ mente la spiritualità dei misteri affonda le sue radici nel mito orfico della colpa antecedente, consistente nella “discesa” dell’anima nel corpo (cfr. Platone, Tim. 4 ia ; Fedro 148C), da cui una soteriologia di (re)divinizza­ zione’

Il culto dionisiaco

Proprio Dioniso ebbe la maggior importanza fuori della Grecia classica: «S e un dio greco fosse stato chiamato a conquistare tutto il mondo, un tale dio sarebbe stato certamente D ioniso»” . E ciò è attestato dai nume­ rosi gruppi privati (thiasi, club religiosi) sorti nel suo nome da Alessan­ dria a Roma, i quali sopravvissero almeno fino al II secolo d.C.+°. Il dio «dalle mille gioie» (polygethés: Esiodo, Teog. 941) non poteva che essere

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jl più favorito tra gli dèi: simbolo di energia vitale e spirituale non con­ dizionata dalla ragione, egli era l ’ispiratore della poesia e della musica, anim atore della festosità. Anche le donne avevano nel suo culto (come già nel suo mito) una grande parte, all’opposto della leggenda apollinea, dove tale elemento è secondario41. Già Euripide nelle Baccanti gli ricono­ sceva i titoli di «signore», «g u id a», «salvatore», «uguale per il ricco e per il povero», « il dio dal fremito profondo», « il dio dell’estro», «più d ’o gn i altro terribile, e con gli uomini il più m ite». A l rituale del suo cul­ to, celebrato in trance estatica, appartengono il sacrificio per laceramento (dìasparagmós) della vittima viva o ancora palpitante (un toro? un capret­ to? un cerbiatto?) e l’immediata consumazione della carne e del sangue {omofagia), con cui si stabiliva una comunione col dio41. E già Timoteo (poeta ditirambico di Mileto, vissuto fra il v e il IV secolo a.C.) definiva il vino come «sangue di Bacco» {faim a Bakchiow. Fr. 7 ) , anche se poi lo scettico Marco Tullio Cicerone penserà che si tratti solo di un’ immagine e che non sia ragionevole ritenere un dio la sostanza materiale che dà nu­ trimento (cff. N at. deor. 3,41).

I santuari oracolari In età ellenistica continuano con successo la loro funzione vari santuari oracolari, tra cui emerge sopra tutti il centro interpolitico di Delfi, sacro ad Apollo, nell’Acaia (ma cff. anche Dodona, Colofone e Didyma in Asia). Qui è praticata una mantica, che non è quella omerica di tipo tec­ nico (secondo cui alcuni “specialisti” leggono i segni della volontà divina nel volo degli uccelli, in prodigi vari, nei sogni, nei visceri degli animali squartati), ma è di tipo estatico o di ispirazione. D i “oracoli” non cul­ tuali parla a più riprese Erodoto (cfr. Storie 7,6; 8,10.77; 9»4i *43)4’* Ecco come si esprime Platone sulla dignità dell’attività oracolare: « I più gran­ di doni ci provengono proprio da quello stato di delirio {m ania), datoci Per dono divino. Perché appunto la profetessa di Delfi, le sacerdotesse di Dodona, proprio in quello stato di esaltazione, hanno ottenuto per k Grecia tanti benefici, sia agli individui che alle comunità; ma quando erano in sé fecero poco o nulla. Tralascio di parlare ancora della Sibilla e di quanti altri profetizzano per ispirazione divina, i quali con le loro auticipazioni hanno spesso e a moltissimi indicato una giusta strada per d futuro» {Fedro 14 4 a-b). È soprattutto a Delfi che si svolge l’attività

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più prestigiosa in tal senso; là c’è Yómphalos, l ’ombelico del mondo. Il santuario programma il comportamento delle città e dei singoli indi­ vidui mediante l ’invasamcnto divino di un corpo femminile, la Pythia (sacerdotessa di Apollo Pitico, cioè uccisore del pitone primordiale), i cui pronunciamenti informi hanno nei sacerdoti-esegeti i loro interpreti autorizzati; è «una specializzazione e insieme un preciso controllo della più importante delle tecniche del sovrannaturale, la divinazione», che di questi santuari fa degli autentici «centri di manipolazione del potere»44. Infatti il dio non è sempre chiaro nei suoi pronunciamenti: egli, come diceva Eraclito, «non dice e non nasconde, ma indica/significa/suggcrisce» (fr. n o : oùte légei oùte kryptei alla semalnei). A Roma, almeno in età repubblicana, tale funzione era esercitata dal collegio degli àuguri-, la sua importanza, e nel contempo la svolta decisiva nella responsabilità di questa precisa sfera del sacro, emerge all’evidenza quando Ottaviano nel Z7 a.C. fa assegnare a sé il titolo di augustus, affermando così con chia­ rezza di essere ormai l’unico ed esclusivo depositario di ogni auspicio, a scanso di sorprese poco gradite4’. Forse è anche per questo che attorno agli inizi dell’era cristiana l’eser­ cizio degli oracoli e il ricorso alle loro prestazioni è in ribasso: al punto che il più famoso sacerdote di Delfi a noi noto, Plutarco di Cheronea (50-115 d.C.), si sentirà in dovere di scrivere un’opera intitolata De defectu oraculorum per spiegare il fenomeno (la ragione, secondo lui, starebbe nel fatto che la popolazione ora non è più così numerosa come una vol­ ta!). C i sono comunque almeno due motivi che contraddistinguono il loro perdurante e prestigioso influsso religioso e culturale. Innanzitutto, la divinazione oracolare diede occasione, a partire specialmente dal I se­ colo a.C., a un interessante sviluppo della pneumatologia; in questo con­ testo, infatti, il concetto greco di pneuma, “spirito”, si smaterializza sem­ pre più, associandosi invece a quelli di dono, potenza, ispirazione divina (cfr. Pseudo-Platone, D e virtute 379C; Anonimo, D el sublime 13,1; e più tardi Giamblico, D e mysteriis 3,11-11), trovando così alcuni contatti con l ’ idea biblico-cristiana di “Spirito di D io”, anche se prevalentemente nel senso carismatico del termine. In secondo luogo, è assolutamente degna di nota l’eredità sapienziale dell’oracolo di Delfi, con i suoi nobilissimi ideali etici, che restano di tutto spicco nell’antichità pagana. Infatti le fa­ mose esortazioni incise sul tempio di Apollo sono anche precetti morali, dalla validità intramontabile: «Evita l ’eccesso» (medèn dgan: «N ulla di eccessivo»), e «Conosci te stesso» (gnothi sautón). Quest’ultimo in

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ebbe una lunga e meritata fortuna anche al di fuori del mon­ do p ag an o , sia nel giudaismo ellenistico che nella tradizione cristiana4*, più di ogni altra massima, esso rappresenta al meglio l ’ideale greco, che riconosce nell’uomo il mistero maggiore della natura e nel contempo il cam p o del più impegnativo esercizio di esplorazione e di educazione (cfr. Menandro, Fr. 944: «Poiché sei un uomo, cerca di esserlo e ricor­ datene sem pre»)47. Questo tipo di alta spiritualità era appunto possibile in connessione con il dio Apollo, che Plutarco definisce «amante della sapienza, il quale ha creato nell’animo una brama che conduce alla ve­ r it à » (D e E apud Delphos 384F), «immortale e di natura eterna, [...] senza età e sempre giovane» (ivi 388F, 389B). p articolare

Gli dèi guaritori Un ruolo importante nella vita quotidiana dell’uomo greco e romano era svolto dai santuari d i guarigione, dedicati sia ad Asclepio (specie a Epidauro e Pergamo; il dio si insediò anche a Roma sull’ Isola Tiberina già dal 190 a.C.), sia a Serapide (dio di origine tolemaica, con santuari ad Alessandria e Memfì, ma anche in tutto il Medio Oriente, compresa Gerusalemme, fino in Grecia e in Italia)4'. I due dèi arrivarono poi a identificarsi, almeno sotto il comune titolo di “salvatore” (sotér). Se­ condo una credenza assai diffusa, essi guarivano non solo i corpi (cfr. i molti ex voto nel santuario di Epidauro), ma liberavano anche l ’anima dalle oppressioni del male. Si tratta di divinità dalla natura sommamen­ te filantropica, le quali, prescindendo da ogni promessa di vita futura, fanno di questo mondo e di questa vita terrena il campo invalicabile ma ardentemente desiderato della loro azione benefica. Forse nessuno più di Elio Aristide, nel il secolo d.C., ha espresso la tipica religiosità con­ nessa con il dio guaritore; instaurando con Asclepio un rapporto spe­ cialissimo, che va dalla richiesta di un soccorso continuo fino all’esalta­ zione mistica: «Rientra infatti nella mia esperienza avere la sensazione come di toccarlo, e percepire distintamente il suo arrivo, e rimanere in uno stato intermedio tra il sonno e la veglia, e voler fissare lo sguardo su di lui, c trepidare per un suo prematuro commiato, e tendere le orecchie ad ascoltare [...], e versare lacrime di gioia, e sentire leggero il peso della n>ente» {Discorsi sacri 1,3 1). « L a fede nell’aiuto divino non esclude d ricorso alla medicina umana; ma i rimedi che i medici riescono ad

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escogitare si rivelano quasi sempre inadeguati, e tutte le volte che le limitate cognizioni umane entrano in conflitto con l ’ infinita sapienza divina, Aristide non esita a riconoscere che Asclepio è “il vero medico* e a riaffermare la propria certezza di non avere altro medico all’infuori di lu i» 4’ . Queste divinità si imposero non per la nobiltà dei loro precetti etici, ma per la semplice sicurezza che essi offrivano ai loro fedeli quanto al benessere del corpo e della mente. Ricorrere a essi non implicava alcuna adesione a un particolare messaggio salvifico, se non soltanto la fiducia nel loro potere taumaturgico. In sostanza, siamo qui di fronte a una delle forme del tipico individualismo di età ellenistico-imperiale’0.

Il culto del sovrano Il culto dei sovrani ellenistici e poi dell’imperatore romano rappresenta un fenomeno esclusivamente ellenistico e imperiale. Iniziato con Ales­ sandro Magno in Babilonia (cfr. Plutarco, Aless. 74,1-3), il fenomeno contrassegnò profondamente la spiritualità dell’uomo ellenistico” . Se da un lato era segno di un indubbio decadimento della religione tra­ dizionale” , dall’altro esso rappresentava anche la sacralizzazione del potere politico, divenuto autocrate e sempre più alieno dalle antiche forme democratiche. Il titolo di “dio* fu conferito sia agli Antigonidi di Macedonia che ai Seleucidi di Siria come ai Tolomei d ’Egitto. Dopo la conquista romana del Mediterraneo orientale, il fenomeno si trasfe­ rì gradualmente all 'im perator di Roma già a partire da Giulio Cesare, che nel 48 a.C. a Efeso venne salutato come «d io manifesto e comune salvatore dell’umana esistenza» ( s i g 760). Si instaurò così un culto vero e proprio, che nei confronti del sorgente cristianesimo esercitò un doppio, contrastante effetto. Da una parte, questo ne derivò un intero settore del proprio linguaggio, riguardante soprattutto una serie di ti­ toli cristologici (figlio di Dio, signore, re, salvatore; cfr. anche i termini connessi di vangelo, epifania, adorazione, parusia)” , favorendo un si­ gnificativo processo di inculturazione. D all’altra, ne scaturì alla lunga un inevitabile scontro ideale, che da parte dell’ impero romano giunse fino a una sistematica persecuzione e da parte della chiesa all’immola­ zione di non pochi martiri. Il cristiano, infatti, a differenza dell’uomo ellenistico pagano, non poteva accettare che un altro uomo all’infuori

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di Cristo venisse salutato come « il Signore di tutto il m ondo» (cosi perone in s i g 814,31) e addirittura Dom inus ac Deus noster (cosi D o ­ m izian o in Svetonio, Dom. 13). Il suddito di Roma invece giunge a rico­ noscere che ormai Giove si è liberato dall’ incombenza di occuparsi dei destini dell’uomo, «dopo che ha posto te, perché tu faccia le sue veci nei confronti di tutto il genere umano» (Plinio il Giovane, Panegirico di Traiano 80,4).

Il fato Nuova e potente divinità suprema nel periodo ellenistico diventa Tyche (il caso, la fortuna, il fato). Già Euripide si era posto il dilemma: «Se c’è la Tyche, che bisogno degli dèi? e se il potere è degli dèi, la Tyche non è più nulla» (Fr. 109); ma nel in secolo a.C., con un concetto analogo, il poeta Fileta sentenzia in un epigramma: «Possente impera sull’uomo Necessità (anàgke), che non teme neppure gli Immortali» (Fr. 6). Più tardi, Plinio il Vecchio afferma che questa divinità dalle incerte decisioni «è l’unica invocata e celebrata in tutto il mondo, in tutti i luoghi, in ogni ora e con le voci di tutti gli uom ini» (Nat. hist. 1,12 ). Nel fenomeno si può scorgere una sorta di illuminismo ante litteram, che erige l ’umana ragione al posto degli dèi olimpici. «L e certezze di un tempo erano sva­ nite ed anche se ai rituali di culto si continuava ad assolvere con zelo, in un ottica per cui la tradizione andava salvata, in pratica moltissimi erano ormai gli agnostici ed addirittura gli atei»54. A livello di storiografìa, è soprattutto in Polibio che appare l ’importanza del concetto con l ’idea della razionalità della storia (intesa come propedeutica al comportamen­ to politico), sicché studiando il passato si dovrebbe imparare ad agire efficacemente nel presente: facendo della storia la maestra della vita (cfr. anche Cicerone, D e orat. 2,9,36), si tendeva a premunire l ’uomo contro 1 ambiguità della Fortuna, cercando di dominarne l ’imprevedibilità, e nello stesso tempo si tradiva l’inevitabile declino di fiducia in un nuovo c ^solutore intervento degli dèi. A livello più popolare, ma comunque generalizzato, teneva banco l ’astrologia. Secondo una diffusa concezione, i corpi celesti esercitano arcani ‘^flussi sul destino umano, sicché una “sim-patia” universale lega il cielo a terra in un unico contesto, che non lascia spazio all’imprevisto (cfr. o 1-Astronomica di Manilio, sotto Augusto e Tiberio). Si tratta di «una

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LE ORIGINI DEL CRISTIANESIM O

certezza che induce al fatalismo, al distacco da ogni forma di culto: la pre­ ghiera, la speranza sono negate a chi crede che il volere degli dèi abbia già predisposto dalla nascita il destino di ciascuno: e che sia immutabile»” . In effetti, il fato è letteralmente in-esorabile (cfr. V irgilio,Eneide 6,376: « A b ­ bandona la speranza di piegare i decreti degli dèi con le preghiere»). Per converso, si sviluppa enormemente la pratica della magia, con l’ inevitabile ricorso a tecniche precise, come riti particolari, filtri, scongiuri, incantesi­ mi, evocazioni, formule ecc.’4.

La religione dei filosofi Ciò che più contribuì a purificare il politeismo greco-romano e a nobili­ tare enormemente gli ideali morali in età ellenistico-imperiale fu la filo­ sofia’7. Lo riconoscerà apertamente un intellettuale cristiano come Cle­ mente Alessandrino: «E ra dunque necessaria la filosofia ai Greci perché giungessero alla giustizia, prima che venisse il Signore [...]. La filosofia apre la via che Cristo porta a termine» (Strom. 1,5,6). Attorno al cambiamento di era, il termine “filosofia” non significa soltanto esercizio dell’intelligen­ za in forme speculative, ma implica ancor più un’idea di vita semplice, austera, sapiente e felice. Essa corrisponde più o meno al compendioso concetto cristiano di “vangelo”. Dopo che Epicuro aveva programmati­ camente enunciato il principio secondo cui « è vuoto il discorso di quel filosofo che non riesca a guarire alcuna passione dell’uomo» (H. Usener, Epicurea fr. zzi), anche Seneca proclama: «Per il fatto stesso che l’uomo serve la filosofia è libero» (Epist. 8,7), poiché mediante essa «non solo si viene purificati ma trasfigurati» (ivi 6,1). Ormai, più che l ’Accademia platonica e il Peripato aristotelico, ten­ gono banco le scuole del cinismo (specie con Diogene di Sinope), dell’e­ picureismo (nella sua interpretazione più seria e non in quella volgare) e soprattutto dello stoicismo (con Zenone, Crisippo, Cleante, Seneca, Musonio, Epitteto, Marco Aurelio); ma lo stesso vale analogamente per il ncopitagorismo di Apollonio di Tiana, e il medio-platonismo di Plu­ tarco. L a filosofia del tempo ellenistico diventa prevalentemente etica, per cui è saggio colui che pratica un vero “esercizio” {dskesis) su di sé’g. Più che non gli dèi, è ormai l ’uomo che occupa il centro dell’attenzione. Del resto, mentre la religione classica era fondamentalmente culto e rito, tale da non richiedere una professione di fede o un credo, spettava ai

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fìlosoH e non ai sacerdoti di riflettere sugli dèi e sul perché dell’esistenza umana. E lo scopo inteso dalla filosofìa è quello di procurare all’uomo la felicità, la quale però non è mai disgiunta dalla critica degli agi, dei pia­ ceri e della superstizione, come afferma Crisippo: « L a felicità dei saggi non ha nulla da invidiare alla felicità di Zeus» (von Arnim, fr. 54). Ed è a questo proposito che a giusto titolo si può parlare di «conversione» nell’ambito dello stesso paganesimo” . Era rimasta celebre nell’antichità la conversione del giovane ateniese Polcmone (diventato poi quarto Scolarca dell’Accademia dal 314 al 17 0 a.C.), riferitaci da Diogene Laerzio: «Dalla giovinezza intemperante e dissipata [...], un giorno, d ’accordo con suoi giovani amici, ubriaco e con la testa incoronata, piombò nella scuola di Senocrate. Senza scomporsi, Senocrate continuò il suo discorso come prima: l ’argomento era la moderazione (sofrosjne). Il giovinetto ascoltò e pian piano si lasciò conquistare [...]. Dal tempo in cui comin­ ciò a dedicarsi alla filosofìa acquistò una tale forza di carattere che si comportò sempre allo stesso modo, con composta fermezza [...]. Soleva dire che bisogna esercitarsi nei fatti concreti della vita e non nelle spe­ culazioni dialettiche, per evitare di essere come uno che abbia imparato a memoria un manuale di armonia musicale e non sappia esercitarla, e quindi per evitare di riscuotere ammirazione per l ’abilità dialettica e di essere incoerenti con se stessi nel disporre della propria vita» (Vite dei filosofi 4,16.17.18; trad. M . Gigante). Al 1 secolo d.C. appartiene invece Dione di Prusa, che presenta in se stesso un altro caso di conversione, questa volta al cinismo, da un prece­ dente atteggiamento di aperta irrisione dei filosofi e della loro vita (cfr. Discorsi 13,11 ss.). Ed è a questo livello, quello cioè della filosofia, che si può senza iperbole parlare di santi pagani; infatti, i nomi di Pitagora, Platone, Diogene, Epitteto, hanno in vario modo influito sulla stessa spiritualità cristiana, dall’età patristica in poi; e non a torto Tertulliano parlerà di Se­ neca saepenoster (D eanim a zo.i). « C h i ascoltava Musonio Rufo o Epittet0 a Roma era il più vicino equivalente di chi nei secoli successivi avrebbe ascoltato una predica cristiana»40. Ed Epitteto giunge a formulare questa ^astica definizione: «Signori, l ’aula dove il filosofo insegna è un ospeda­ le/iatreion» (Diatr. 3,13,30). Una tale equiparazione del filosofo al medico (che si ritrova in M e 1,17) è esplicita anche in Dione di Prusa: «C om e *1 bravo medico va dove ci sono molti infermi per offrire loro aiuto, cosi 1 Uomo saggio si reca dove maggiori sono gli stolti per riprendere e colpire k loro insensatezza» (Orat. 8,5); il paragone è riferito a proposito di D io­

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gene il Cinico il quale, recatosi ai giochi istmici, si meravigliava per il fatto che, se si fosse presentato come dentista o come medico degli occhi o della milza o della gotta o del raffreddore, tutti sarebbero accorsi a lui: «M a quando diceva che chi lo seguiva avrebbe smesso l’ ignoranza, la malvagità e l ’intemperanza, nessuno gli si avvicinava né chiedeva di essere guarito da lui, [...] come se fosse peggio per l ’uomo soffrire di milza gonfiata e di dente cariato che non di un’anima stolta, incolta, vile, sfrontata, amante dei piaceri, priva di libertà, irascibile, scortese, ingannevole e totalmente corrotta» (ivi 8,8)Sl. La critica alla religione tradizionale era già cominciata nel v secolo a.C. con i duri attacchi della Sofìstica, che aveva ingenerato una disposizio­ ne di scetticismo verso le credenze religiose di più comune dominio. Lo stesso Aristotele aveva esaltato la ragione umana come qualcosa di divino, per cui la semplice «vita conforme a ragione sarà divina in confronto a quella umana» [Etìc. Nicom. 10,7). Sarà soprattutto la Stoa a raccogliere una simile eredità tendenzialmente anticultualista. Lo stoicismo, infatti, tutt’altro che ateo, opera un forte richiamo all’interiorità e quindi al su­ peramento dell’estcriorismo religioso. Così leggiamo in Seneca: « È stolto implorare la saggezza, quando puoi ottenerla da te. Non occorre sollevare le mani al cielo [...]: Dio è vicino a te, è con te, è in te» (Epist. 41,1). Persino un poeta satirico come Persio, contemporaneo di san Paolo e dai chiari influssi stoici, si fa portavoce di queste posizioni: « C o n quale compenso credi mai di comprare gli orecchi degli dèi ? [...] O anime striscianti sulla terra c ignoranti del ciclo, a che serve introdurre nei templi i nostri co­ stumi e stabilire ciò che piace agli dèi in base alla nostra scellerata colpa? [...] E voi pronunciatevi, pontefici: che fa l’oro nei riti? [...] Un’armonia interiore di leggi umane e divine, e i segreti puri del cuore e un sentimento ben cotto in generosa onestà: questo io possa portare nei templi» (Sat. 1,19.61-63.69-75 )él. Sono testi che inconsciamente riecheggiano la polemica già antica dei profeti d ’ Israele verso le liturgie del tempio gerosolimitano; e su questa linea, più o meno esplicitamente, si collocano non solo Gesù ma anche la Chiesa post-pasquale. Anche il cristianesimo è nato come movimento religioso non cultuale, e comunque profondamente diverso dai culti tra­ dizionali, non solo pagani ma anche giudaici. Certamente nessun cristia' no avrebbe trovato molto da ridire a come Epitteto meditava di potersi rivolgere al Dio dopo la morte: «H o forse trasgredito in qualcosa i tuoi ordini? [...] T i ho forse accusato qualche volta? H o forse criticato il tuo

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governo? Sono stato malato quando lo hai voluto: anche gli altri, ma io volentieri. H o subito la povertà, ma con gioia. Non ho avuto poteri, p e rch é tu non hai voluto; né mai ho desiderato cariche. Forse che per questo mi hai visto più triste? Forse che non mi sono sempre accostato a ce con volto raggiante, pronto a ogni tuo comando, a ogni tuo cenno? Ora vuoi che io mi allontani dalla festa: me ne vado, e ti ringrazio pro­ fondamente, perché mi hai giudicato degno di prendere parte alla festa con te, di vedere le tue opere e di comprendere il tuo governo» {Diatr. 3 .5 .8 - i o ) « ‘ Testi di questo genere ci mettono di fronte a una religiosità di altissi­ mo livello. Una sua tipica espressione è data dal tema dell’assimilazione a Dio, che percorre tutta la filosofia greca, almeno a partire da Platone (cfr. soprattutto Teet. 176 a-b: «Ecco dunque quale sforzo si impone: fuggire dal basso, di qui, verso l ’alto. E fuggire è assimilarsi a Dio nella misura del possibile; e assimilarsi a D io è divenire giusti e santi e insieme sapienti»). Questo supremo ideale, dalle evidenti connotazioni mistiche, caratterizza in forme diverse tutte le scuole filosofiche dell’ellenismo. Così i Cinici, con Diogene, affermano che si diventa simili agli dèi cercando di aver bi­ sogno nella vita di pochissime cose, poiché è proprio degli dèi non aver bisogno di nulla (cfr. Diog. Laerzio 6,105). Persino Epicuro esalta la vita del saggio come quella di «un dio fra gli uomini, poiché in nulla è simile ad un essere mortale l’uomo che vive fra beni immortali» {Epist. Menec. in Diog. Laerzio 10,135). Ma è soprattutto la Stoa a insistere su questa te­ matica, la quale è arricchita dal principio della presenza di un lògos divino in tutte le cose, tale da ridurre il tutto ad armoniosa unità (cfr. Seneca, benefici 4,7,1: «C h e altro è la natura se non D io?»). Così Epitteto vcde il fine più alto dell’individuo umano nel «divenire un dio da uomo che si era» {Diatr. 1,19,17); e Marco Aurelio, considerando il cosmo se­ condo la pura tradizione stoica come ingens anim ai (cfr. Ricordi 4,13: «Per me, o Natura, è sacro tutto quello che recano con sé le tue stagioni: da te tutto viene, in te tutto è, a te tutto ritorna»), ritiene «possibilissi­ mo diventare un uomo divino [...]; vive infatti con gli dèi chi mostra loro di essere felice della sorte assegnatagli» (ivi 7,67; 5,17). Ecco perciò pren­ dere corpo la tipica formula del sequere naturam, che richiama l ’uomo a Una coerente fedeltà al proprio distintivo più specifico, che è la ragione, e suo fine morale più nobile, che è la virtù («N ulla è male di ciò che avv‘ene secondo natura»: Marco Aurelio, ivi 1,17 ); e, come si esprime Mus°nio Rufo, « l ’uomo vive secondo natura non quando vive nel piacere,

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bensì nella virtù [...] poiché l ’uomo, solo tra gli esseri terreni, è immagine di D io » (Diatr,: 17)!

Gnosi e gnosticismo Alla nascita del cristianesimo si accompagna la formazione di un nuovo movimento, a esso in qualche modo collegato ma in realtà alternativo. Vi dedichiamo qui solo pochi cenni, non appartenendo il fenomeno all’am­ bito ellenistico puro e semplice. In effetti, si tratta di un movimento reli­ gioso-culturale6’ dalle ascendenze e dalle ramificazioni molto diversificate. Certamente esso, oltre a interessare in almeno altrettanta misura il giudai­ smo (cfr., per esempio, il concetto di Demiurgo malvagio, identificato con il Dio dell’Antico Testamento), interessa ampiamente il cristianesimo, già a partire dai testi neotestamentari, e il problema è da tempo oggetto di un’ampia bibliografia64. Centrale diventa ora la gnósis. M a se il termine è greco, il concetto rappresenta ormai un superamento di tutta la tradizione classica ed elle­ nistica, poiché la “conoscenza” viene ora assolutizzata come unico mezzo di salvezza, consistente nella presa di coscienza della propria vera identi­ tà, della propria realtà più profonda, del Sé ontologico che la costituisce e la fonda. «Sembrerebbe di assistere a una semplice ripresa del detto delfico “conosci te stesso” [...]. Il cambiamento invece non potrebbe es­ sere più radicale»6’. Infatti, lo gnosticismo è una reazione compiutasi all’ insegna del pessimismo cosmologico e antropologico contro la visio­ ne sostanzialmente serena e ottimistica del mondo e dell’uomo, propria dell’ellenismo. Suo caposaldo fondamentale è il concetto di una degra­ dazione ontologica del divino. Sicché al plérom a della perfezione divi­ na si oppone dualisticamente «questo m ondo» materiale, inteso come regno della tenebra e dell’errore, «pienezza del male» (Corpus Hermeticum 6,4). L ’uomo vive in esso come un ubriaco, un addormentato, uno smarrito entro un labirinto o un prigioniero; e ciò in seguito a una cadu­ ta primordiale, non dell’uomo ma degli Eoni intermedi che lo condizio­ nano. In una situazione del genere, è determinante sapere: « C h i erava­ mo e che cosa siamo diventati, dove eravamo c dove siamo stati gettati» dove corriamo e da che cosa siamo liberati, che cos’è la generazione e che cosa la rigenerazione» {Excerpta ex Iheodoto 78,1, di Clemente Alessan-

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dóno)66- L ’uomo infatti ha in sé una scintilla divina, che lo lega ontolo­ gicamente al plérom a superiore. Ma poiché questo mondo gliene impe­ disce il riconoscimento, è necessario il soccorso di un Rivelatore, che gli riproponga la sua vera identità e lo stimoli all’ascesa, cioè al ricongiun­ gimento col mondo celeste: «Alzati, e ricorda, poiché tu sei colui che ha udito, e segui la tua radice!» (Apokryfon d i Giovanni: n h c il, 31,14$). Siamo ormai di fronte a una soteriologia, che prescinde dai comuni culti religiosi, ma che rinuncia anche all’impiego sobrio c lineare della ragione umana, per avventurarsi invece in speculazioni sbrigliate, dove la cosa più chiara è l’esoterismo della loro destinazione. Non conta più neanche ciò che Gesù ha fatto o patito, ma ciò che egli ha detto, poiché è nelle sue parole che l’uomo trova la verità su di sé. Proprio il concetto esasperato di rivelazione rappresenta il superamento di ogni razionale ri­ cerca filosofica. £ se questa idea, da una parte, vincola al fenomeno anche il cristianesimo, dall’altra lo distanzia per i propri contenuti anticosmici e antistorici.

Qumran, Gesù e le prime comunità cristiane di G io v an n i Ib b a

In tro d u z io n e

capitolo prende in esame un ambito importante della storia del Tempio: la biblioteca di Qumran. Uso tale espressione per in­ dicare le undici grotte, scoperte a partire dal 1947, contenenti centinaia di manoscritti con opere di vario tipo che mostrano tutta la letteratura giudaica - ad esclusione di quella ellenistica - composta almeno fino alla metà del I secolo a.C., anche se poi riprodotta in manoscritti posteriori da­ tabili fino al 1 secolo d.C., ossia nel momento della distruzione del Tempio di Gerusalemme. Nel CAP. 1 Sacchi considera la predicazione di Gesù e la prima diffu­ sione del cristianesimo parte integrante della storia giudaica del Secondo Tempio, vale a dire la storia che va dall’esilio alla distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 70 d.C. Pertanto «parole come purità e impurità, culto e sacrificio, espiazione e purificazione, profeta c messia, risurrezione e salvezza, figlio dell’uomo e fine dei tempi, oggi non hanno senso, se non ci rifacciamo alla nostra tradizione cristiana, la quale le ha tutte derivate dalla cultura c religione ebraiche del tempo di Gesù, sia pure spesso modi­ ficando il valore originario dei singoli termini». Come si può capire, se è Vero che la biblioteca di Qumran contiene tutto il sapere giudaico, è allora fidente che essa rappresenta una miniera ricchissima d ’informazioni sule categorie giudaiche utilizzate nella predicazione di Gesù e nelle origini fistiane. Questa letteratura è molto più vicina, sia cronologicamente sia e°logicamentc, a Gesù e alla primitiva comunità cristiana di quanto non 0 sia la letteratura rabbinica. Q uesto

Secondo

^er capire meglio l’apporto che questi scritti possono dare alla com­ prensione delle idee sviluppate anche in modo originale da Gesù c dalle ^r'me comunità cristiane, è bene ricordare brevemente la tipologia delle

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opere scoperte nelle grotte. Anzitutto a Qumran sono stati trovati libri biblici, naturalmente escludendo quelli che appartengono al Nuovo Te­ stamento. L ’ ipotesi che nella grotta 7 ci fosse un frammento del vangelo di Marco, e altro ancora, è del tutto insostenibile1. Oltre a quelli biblici sono stati rinvenuti moltissimi testi - la maggior parte - denominati “parabiblici” dagli studiosi poiché contengono argo­ menti e personaggi presenti in quello che chiamiamo Antico Testamen­ to. Fra essi c ’è per esempio la Pìccola Genesi, indicata più comunemente come libro dei Giubilei. C i sono inoltre altri scritti a carattere esegetico che contengono interpretazioni di brani biblici. Generalmente una pri­ ma tipologia di questi scritti esegetici viene indicata con la parola che li caratterizza:pesber (plurale:pesharim), “interpretazione”. Fra i più noti ci sono il Pesber Abacuc (iQpHab) e il Pesber Isaia?* (4QpIsaM/4Q iéi-i6s). A Qumran sono stati rinvenuti anche targumim, una seconda tipologia di scritti esegetici che consiste in traduzioni e parafrasi di testi biblici. Per esempio il targum del Levitico (4Q tgLev/4Q is6) e il targum di Giobbe (n Q tgG b /n Q io). Una terza categoria di testi esegetici è rappresenta­ ta, infine, da altri tipi di composizione, generalmente indicati come midrashim tematici o pesharim tematici. Questi sono di estremo interesse, in quanto si tratta di raccolte tematiche di brani biblici seguite da esegesi. Fra essi alcuni, che si presentano sotto la forma di una compilazione di tesò presi da più opere, come VEsodo e il Deuteronomio, hanno sviluppi cosi originali (ma anche omissioni) che li rendono diffìcilmente classificabili. Oggi gli studiosi guardano a quest’ultimo tipo di testi come possibili co­ pie di testi biblici in un determinato momento di formazione, come un anello mancante nella storia della trasmissione testuale di opere bibliche (per esempio 4QReworked Pentateuch). Nelle grotte, poi, sono state rinvenute opere contenenti oroscopi c ca­ lendari, testi poetici c liturgici, testi sapienziali, racconti c testi storici - nel senso di interpretazione teologica della storia d ’Israele - , testi apocalittici ed escatologici, come per esempio le opere della letteratura cnochica, ad esclusione del Libro delle parabole d i Enoc. Ancora, testi di varia natura» come quelli attinenti alla magia e alla divinazione, documenti, un testo contenente una lista di tesori (il Rotolo d i rame), lettere, esercizi calligrafi' ci, e molti frammenti con opere non classificabili. Fra le opere trovate, i*1' fine, ci sono le Regole, scritti che riguardano regolamenti per gruppi giu' daici particolari e di cui generalmente si attribuisce la paternità agli esser1* di cui parlava, nel I secolo d.C., Flavio Giuseppe. Fra queste si ricordano 1*

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fregola della comunità e il Documento d i Damasco. Tutto questo materiale co n sen te di avere a disposizione documenti spesso inediti che permettono di far luce sia sul giudaismo del Secondo Tempio, e in particolare su quello che o p e r ò a partire da li secolo a.C., sia su Gesù e sulle primissime comu­ nità d ei suoi seguaci. Naturalmente, quando si parla di Qumran si possono intendere anche opere che non sono state scritte dalla comunità, o dalle comunità, vissute presso il sito o indicate come essene. L ’ importante però è tenere presente che se a Qumran sono state conservate tutte queste opere ciò deriva dal fatto che esse erano ritenute degne di essere lette e commentate, anche se scritte precedentemente alla formazione del gruppo che le ha raccolte. Nei paragrafi che seguono sono stati sviluppati due temi, fra altri possibili, che si sono ritenuti significativi per lo scopo del volume. Tuttavia, andranno considerati come poco più che una sorta di appunto poiché in realtà ri­ chiederebbero molto più spazio.

Le categorie dell’ impurità e del peccato a Qumran e nel Nuovo Testamento Credo che il messaggio di Gesù debba essere collocato nell’ambito della questione molto sentita del peccato, ossia di ciò che produce nell’uomo una sorta di oscuramento che lo rende incapace di agire secondo quello per cui è fatto. In sostanza, non solo di essere inabile a vivere la giustizia e di essere in pace, ma di opporvisi. Fra le preoccupazioni più forti del pen­ siero del giudaismo del Secondo Tempio pare evidente, anche solo da una lettura veloce dei testi qumranici, che ci fossero proprio quelle del peccato e del male. In effetti nei testi di Qumran la questione del peccato è discussa più volte. Va ricordato che il male non deve essere inteso in un’accezione astratta, *ndicante semplicemente una realtà presente di fatto nel corso della vita uomini, di fronte alla quale non si può far nulla se non accettarla st°icamente, ma come una realtà operante e avente una sua volontà e forza cui bisogna opporre resistenza. Tale realtà è spesso associata al principe e a tenebra, Belial (Beliar in z C or 6,151), e ai suoi angeli. Per spiegare ^ 8 'io l ’idea del peccato conviene cominciare con un tentativo di analisi a categoria dell’impuro poiché quest'ultima rappresenta un elemento

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importante sia nei manoscritti qumranici sia in quelli neotestamentari ed è spesso messa in relazione con la prima. Rispetto al Nuovo Testamento oggi si tenderebbe a considerare la categoria dell’ impuro superata dall’in­ segnamento di Gesù, soprattutto a partire da un tipo di interpretazione di Marco 7, ma, considerando anche molti studi’, la questione va ripresa. Si tratta di un caposaldo del pensiero giudaico del Secondo Tempio, che presenta notevoli elementi di discussione. I fondamenti del concetto d ’ impurità si trovano in particolare nel libro del Levitico (11 ss.), testo citatissimo sia in modo diretto che indiretto nei manoscritti qumranici4, ma sono declinati anche in molti altri testi biblici e non. Una cosa evidente, a partire dal Levitico, è che l ’uomo può trovarsi in una condizione non idonea per poter stare nel sacro: ci sono elementi in particolare che lo possono indebolire, al punto da fargli rischiare la vita se, una volta entrato in contatto con essi, prova ad accedere al sacro. Tali impurità sono soprattutto di ordine fisiologico: le malattie, in particolare quelle che si mostrano con segni cutanei evidenti come la lebbra (Lv 13) 0 quelle trasmesse sessualmente (Lv 15,1-1$); il sangue in quanto tale; il ciclo mestruale (Lv 15,19-30); la puerpera (Lv 11,1-8); lo sperma (Lv 15,16I7);il cadavere dell’uomo o l’animale morto; certi animali, in particolare 1 carnivori, per esempio gli uccelli rapaci (Lv 11,13-19; cfr. anche Lv 11,1-11) o altri come il maiale, i serpenti e i pesci senza squame. G li animali impu­ ri non vanno mangiati (Lv 11,46-47). Ma questa impurità, definibile per comodità “impurità rituale” perché spiegata soprattutto ai sacerdoti che devono officiare, è allargabile all’intero popolo, in quanto anch’esso dovrà fare attenzione a questa forza. La puerpera avrà una regolamentazione ac­ curata (Lv 1 1 ,1 ss.; cfr. G iubilei 3,9-14), come anche chi dovrà seppellire un morto. In ogni caso, l ’ impurità “rituale” non è da considerarsi “peccato” o, ancora di più, causa di esso, come sembra vogliano dire i farisei di fronte a Gesù riguardo alla questione delle mani che devono essere lavate prima del pasto (cfr. Me 7,1-13; Mt 15,1-9; Le 11,38). N ell’Antico Testamento,Isaia 6,7 sembra indicare con l ’impurità il peccato, ma è un caso abbastanza isolato, e per di più verte su qualcosa di profondo, legato a ciò che esprime la parola ‘awon>. Anche nei manoscritti di Qumran sono presenti opere in cui l’impurità viene fatta coincidere con il peccato. Ma quest’ultimo può essere definito come “impurità morale”, che è cosa diversa da quella rituale, con un’altra causa che non è derivabile dall’aver infranto le leggi di Levitico n. Ma si tratta sempre d ’impurità, per cui se il peccato è definibile come qualcosa

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d’impuro> allora è evidente che anch’esso ha bisogno di essere purificat0 (cfr. Is 6,7). A differenza del sangue, dello sperma e del cadavere, esso non si contamina per contatto. Ciò che invece produce è un indurimento del cuore, un’ incapacità maggiore di mettere in pratica i precetti divini, l ’uomo si trova come immobilizzato dal peso dei suoi peccati, i quali lo rendono impuro. In un manoscritto della grotta 11 ( 11Q 5/11 QSalmi1 x x iV 7.13)6, già noto nella versione siriaca come salmo ih , si legge la richiesta da parte del fedele di essere purificato da Dio, affinché non venga oppresso dai peccati: «Purificami, Jhwh, dalla piaga del male [affinché] non si ag­ giunga a me. Secca le sue radici in me, e non permettere che fioriscano le sue [fronjde in m e». Il testo mostra indiscutibilmente la credenza in una forza interna all’uomo capace di prendere tutto lo spazio della volontà e della coscienza; ci vuole una purificazione da parte di Dio perché questa impurità interiore venga estirpata, seguendo l’allegorìa della pianta che cresce e che prende posto dentro di noi. Ma non solo: tale impurità inte­ riore produce il peccato, inteso qui come effetto esterno di questo male. Il peccato lascia una traccia nell’uomo, lo contamina. Nel Documento d i Damasco (in 17-19) si legge che i figli di Noè «si era­ no contaminati col peccato umano e con vie d’impurità » . Ma Dio «espiò per i loro errori e perdonò i loro peccati. E costruì per essi una dimora sicura in Israele», ossia costituì per loro la comunità (cfr. x x 10-13). Ora, qui è interessante che l’impurità del peccato venga “espiata” e “perdonata”. Nel giudaismo sembra svilupparsi inoltre un’idea molto importante, per la quale l ’acqua era divenuta uno strumento di purificazione dalla traccia del peccato. Nella Regola della comunità, opera redatta dopo il Documento di Damasco, si legge (ili 8-9) che il corpo del fedele sarà purificato quando verrà asperso di acqua lustrale e santificato con l ’acqua della contrizione. Ma la purificazione con l’acqua, secondo quanto ricorda la Regola della comunità, non basta per colui che ha il cuore indurito c che non aderisce aUe norme del gruppo. C i vuole anche la contrizione. Si legge (in 4-5) che. se non si pentirà della sua condotta morale, egli non sarà annoverato nclla fonte dei perfetti; non potrà essere purificato dai riti espiatori, non Sara reso puro dall’acqua lustrale e non sarà reso santo dall’acqua dei mari ne ^a quella dei fiumi; infine, non diventerà puro nemmeno con tutte le cque di abluzione. L ’ uomo dal cuore indurito non potrà mai essere puri ucato dall’acqua. La Regola della comunità infatti spiega che i malvagi non P°ssono entrare nell’acqua in quanto per loro non può avvenire la purifiCaz‘°ne. L ’unica possibilità di usufruire dell’acqua per purificarsi è che ci

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sia una vera conversione del cuore (v 13-14)7. In una prospettiva simile si può comprendere il motivo per il quale il Battista, di cui tutti e quattro j vangeli canonici non possono fare a meno di parlare, predichi un battesi. mo di conversione, connesso al sincero intento di cambiamento interiore (cfr. Me i,4S; M t 3,is.; Le 3,3S.; Gv L19S.). Ma l ’acqua è capace di purificare non solo tali macchie generate nell’uomo dal peccato, ma anche di lavare ciò che produce la ribellione a Dio? In Ezechiele (36,15-16; cfr. Zc 13,1; iQ S i v 11-13) si legge che Dio così ha proclamato: « v i aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre sozzure c da tutti i vostri idoli». Dio, me­ diante il profeta, continua affermando che così infatti « v i darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne». Marco fa dire al Battista che il bat­ tesimo che porterà il salvatore non sarà fatto con acqua, ma con lo spirito santo (1,8: enpneum ati agio). Questo battesimo che Giovanni preannun­ cia dovrebbe avere una funzione simile a quella descritta da Ezechiele e dalla Regola della Comunità (iv 11-13). La purificazione operata da Dio in Ezechiele e nella Regola della comunità occorre per cambiare il cuore dell’uomo, affinché possa finalmente aderire pienamente e senza più in­ terferenze a lui. In Midrash escatologicob (4Q 177) ff. 11, col ii, righe 9-108, si parla della purificazione che dovrà avvenire un giorno nel cuore degli uomini appar­ tenenti alla comunità. Il manoscritto, lacunoso, parla di spirito nel con­ testo di tale purificazione. In ogni caso, se si guarda la sostituzione tra acqua e spirito operata dal Giovanni di Marco si vede indiscutibilmente la separazione tra ciò che è la fonte della vita, Dio, lo spirito, e l’acqua, che è cosa creata. Lo spirito, cioè Dio, è l ’unico che può trasformare l’uo­ mo nel suo profondo, ed è ciò che caratterizza il messaggio centrale del vangelo: Gesù è la «buona notizia», il vangelo (Me i ,i )’ , rispetto all’at­ tesa di un cambiamento radicale nell’uomo. Perché questa definitiva pu­ rificazione e innovazione possa avvenire, è necessaria la confessione dei peccati, la purificazione dalle loro tracce presenti nella persona che 1» rendono sostanzialmente impura, e dunque incapace di essere nella giu­ sta disposizione d ’animo per accogliere il successivo intervento, stavolta non per mano del battezzatore, ma per mano di chi è «più forte» di lui e che viene «d opo» di lui (Me 1,7). Il « d o p o » 10 indica consequenziali^ tra l ’azione di Giovanni mediante l ’acqua (Me 1,4) e quella dello spiri*0 mediante Gesù (Me 1,8).

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jsjella Regola della comunità si legge che un giorno (iv 11-13) lc iniquidell’uomo verranno lavate dallo spirito santo, così come farebbe l ’ac­ qua lustrale. Ciò sembra significare che la comunità attendeva un batte­ mmo definitivo, stavolta per opera diretta di Dio, e che invece quello che praticava poteva anche non esserlo. Nel testo si legge: «D io purificherà tutte le opere dell’uomo per mezzo della sua verità e purificherà per sé la struttura dell’uomo, distruggendo ogni spirito malvagio dall’intimo della sua carne e purificando l ’uomo per mezzo dello spirito di santità da tut­ te le opere malvagie. Egli aspergerà sopra di lui lo spirito di Verità come acqua lustrale, per purificarlo da tutti gli abomini della Menzogna, nei quali si è contaminato per lo spirito di im purità»". Dunque per la Regola della comunità la purificazione per l ’entrata nel patto non è definitiva: ri­ mangono ancora delle cose, perfino nel fedele e membro della comunità, che continuano a contaminarlo, che lo rendono incapace di vedere e di praticare pienamente la verità. Tali cause d ’impurità interiore sono indi­ cate dal testo come «struttura dell’uom o», «spirito malvagio», «opere malvagie», «abomini della Menzogna» (cioè il diavolo, Belial), «spiri­ to d’impurità», che probabilmente coincide con quello descritto qual­ che rigo prima, cioè uno dei due spiriti, presenti nell’essere umano, che spinge l’uomo a commettere il male. Forse Giovanni intende esprimere un’idea simile, ossia che lo spirito santo, cioè Dio in persona, pratiche­ rà la purificazione definitiva e risolutrice nell’uomo una volta per tutte. Colui che è più forte di lui, che opera con (o nello) spirito, compirà un battesimo di questo genere. Anche negli In n i viene detto qualcosa del genere, anche se in modo piu generale. L ’autore vuole, dopo aver chiesto al Signore di impedirgli di Peccare e di non lasciarlo desistere davanti agli spiriti diabolici, ringraziare Dio per aver diffuso il suo spirito santo su di lui (iv 16). Più significativo e c°nnesso con questa argomentazione è quello che si legge più avanti (v ili l9' i0 )>dove l ’autore afferma che «io so che nessuno è giusto tranne te. Ho cimato il tuo volto con lo spirito che tu mi hai dato per riempire la tua 8razia col tuo servo per [sempre], per purificarmi col tuo spirito santo, per V icinarm i alla tua volontà secondo la grandezza della tua pietà». Anche questo brano è evidente la connessione tra purificazione e spirito santo, ^ altrettanto chiaro che l’uomo viene giustificato solo mediante Fin­ ch VCnto ^ 'retto d* Dio, cioè col suo spirito santo. È quindi anche evidente e «egli Inni l’iniquità insita nell’uomo (nessuno è giusto) è vista come cnia impura, che solo D io può togliere, mediante la sua azione salvifi­

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ca che è espressa con “spirito santo” Pertanto, si può pensare che per Mar­ co la purificazione di Giovanni serviva per predisporre l ’uomo all’altro battesimo; nel battesimo di Giovanni si rendeva possibile l ’azione dello spirito a tutti coloro che si facevano purificare da lui. Gesù manifesterà chiaramente questa cosa e, nel contempo, dopo essere stato sospinto dallo stesso spirito nel deserto, comincerà la sua predicazione e “purificazione” dell’uomo fatta “con” lo spirito. Si può notare una sorta di parallelismo tra l ’elencazione fatta da Gesù (Me 7,11-13; cfr. Rm 1,19-31; cfr. anche Rm 1,14) di ciò che il cuore pro­ duce, e che contamina la persona, e quella che si trova nelle Regola della comunità (iv 9-n)11. Va detto che lo scritto fa derivare queste iniquità dal diavolo, chiamato «spirito della perversità». Nel manoscritto qumranico si legge che il diavolo provoca nell’uomo empietà, orgoglio, falsità e lassi­ smo, crudeltà, impazienza, grande stoltezza e zelo arrogante, impudicizie, impurità, blasfemia, cecità e sordità1’. Tuttavia, va rilevato che nella Regola della comunità si spiega come l’uomo abbia nel suo cuore lo spirito della ribellione a Dio (ili 18-19) e come su di esso faccia leva il diavolo. Gesù parla anche lui di qualcosa che spinge l ’uomo a cose cattive, indicate come furti, omicidi, adulteri, avidità ecc. (cfr. Me 7 ,11). Questo nucleo situato nel cuore dell’uomo, da cui provengono i peccati, è per Gesù fonte d’ im­ purità. Non si tratta però di un’impurità come quella che definiamo ritua­ le, ma di una che contamina l ’uomo a partire dal suo interno. Per Gesù è l ’impurità più pericolosa e più da temere. In sostanza, a nostro avviso, nei vangeli e in particolare in Marco, un primo insieme di impurità che si evincono e che vanno separate da quelle morali, che all’epoca di Gesù erano sentite e tenute in conto, sono le im­ purità elencate nei testi biblici e poi riprese abbondantemente dalle regole qumraniche, in particolare quelle che si trovano nel libro del Levitico, a partire dal capitolo 11. Gesù compie guarigioni, a differenza di quanto pos­ siamo vedere nei manoscritti di Qumran dove non si parla mai di una cosa del genere, e queste guarigioni avvengono su persone che hanno un’im­ purità compresa nell’insieme di quelle elencate sopra, come per esempio il lebbroso (Me 1,40-44; cfr. M t 8,1-4; Le 5,11-6), la donna emorroissa (Me 5,15-34; cfr. M t 9,18-16; Le 8,40-56), la bambina morta (Me 5,11-14? 5,35-43; cfr. M t 9,18-16; Le 8,40-56). Un altro ordine d ’impurità è quello dato dalla presenza nel corpo di una persona dello «spirito impuro», 0 «demone impuro» (cfr. Me 1,11-17 ; Le 4,33). È probabile che tale spi' rito, denominato appunto da Marco «im puro», abbia a che vedere con

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j’jmpurità per la sua origine, che viene fatta derivare dal corpo dei giganti enerati con l’unione impura tra gli angeli e le donne (G iubilei io; i Enoc 0 9; cfr. Gen 6,4; cfr. 1 Enoc i5,4-i2)'+. Questi spiriti impuri sono chiama­ ti nel manoscritto 4 Q Cantici del Saggio*'* «spiriti bastardi», dove con «bastardi» s’intende ciò che deriva dai giganti. Inoltre questi spiriti sono Immondi anche perché sembra che debbano risiedere solo in luoghi e in esseri viventi impuri (cfr. Me 5,1-20: l’episodio dell’indemoniato che abi­ ta presso i sepolcri, luogo impuro, e il corpo dei porci, animali impuri)'6. Gesù compie gli esorcismi senza dover toccare l ’indemoniato, come inve­ ce fa quasi sempre con gli ammalati. La presenza di questi spiriti denota la credenza di una realtà preterumana impura, che però si combina (o si manifesta) con l ’impurità di cui sopra. Altra impurità diversa da quelle fisiologiche e da quella dello spirito impuro è ciò che Giovanni il Battista purifica con l ’acqua del Giordano (cfr. Me 1,4; M t 3,5; Le 3,3; Gv 1,28). È la conseguenza dell’impurità di cui parlava Gesù nel capitolo 7 di Marco (cfr. M t 15,1-20; Le 11,37-52), ossia la traccia dei peccati che rende l ’uomo contaminato c impossibilitato ad accogliere la grazia di Dio. Il battesimo, preceduto dalla confessione dei peccati (Me 1,5; Mt 3,6), serve a preparare un’altra purificazione, quella che Gesù, mediante lo spirito sceso su di lui al Giordano (Me 1,10; M t 3,16; Le 3,22; Gv 1,32), praticherà direttamente nel cuore dell’uomo (il battesi­ mo con lo «spirito», cfr. Me 1,8; M t 4,11; Le 3,16), rendendolo cosi libe­ ro di aderire pienamente alla nuova vita. Per Gesù, pertanto, le impurità non vanno respinte, ma distinte per pericolosità. Leggendo il capitolo 7 di Marco, si ha l’idea che dunque Gesù voglia interpretare correttamente la Scrittura, ponendo attenzione non alle opinioni degli uomini (cfr. Me 7.13), ma alla volontà di D io che è coincidente con la realtà (cfr. Me 7,13). Ai farisei vuol far comprendere che non ci si può fare grossi problemi su Un impurità che non viene nemmeno descritta dalla Torah e, addirittu­ ra, metterla sullo stesso piano di un peccato o di ciò che il peccato lascia nell uomo. Se si deve parlare d ’impuro, dell’impuro che davvero contami­ na 1 uomo in modo grave, si dovrà parlare allora di quello che produce il CUore dell’uomo, in quanto da esso provengono le malvagità peggiori, ed Csse davvero lasciano una traccia in lui. ^ D « to in altri termini, per Gesù i farisei, con questa estrema attenzione j e n°tm e (umane), finiscono per far credere alla gente che esista coinci- - tra impurità morale (peccato) e impurità rituale, cosa che, per quan1111 risulta, nei manoscritti di Qumran non avviene. Pertanto, alla luce

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di quanto è emerso dai manoscritti qumranici presi in esame e da quello che si riesce a capire dai vangeli sinottici, Gesù (Me 7,1-13; cfìr. M t 15,1-9; Le 11,38) sembra dunque polemizzare con chi non distingue più le impu­ rità, rendendo non solo le rituali morali, ma addirittura inventandosene delle nuove, come quella derivante dal non essersi bagnati le mani prima di mangiare.

Il Tempio Quale fosse il giudizio o l’idea di Gesù e di Giovanni il Battista riguardo al Tempio di Gerusalemme è oggi ancora oggetto di discussione. Un aiuto alla ricerca sulla questione può essere dato dal contenuto di alcune opere trovate a Qumran. In esse, come è noto, la posizione rispetto al Tempio di Gerusalemme è piuttosto ostile, ma non tanto riguardo alla funzione del Tempio, quanto nei confronti dei sacerdoti che vi operano e che lo hanno reso impraticabile. Infatti l ’accusa più grave che forse si può trovare in que­ sti manoscritti è quella che si legge nel PeskerAbacuc (iQpHab x i l 7-9; cfr. Documento d i Damasco v i 11-10): il Tempio di Gerusalemme è stato reso impuro. Ciò equivale a dire che esso non solo non è utilizzabile, ma che bisogna tenersene a debita distanza. Nel Documento d i Damasco (iv 15-18) si legge che tre sono le reti di Belial di cui aveva parlato Levi (cfr. Testa­ mento d i L evi I X 9): fornicazione, ricchezza, contaminazione del tempio. Nella stessa opera la ricchezza viene poi coniugata al Tempio in un brano di grande interesse anche per altri motivi, quasi tutti collegabili con temi neotestamentari (vi 11 ss.): T u tti quelli che sono introdotti nel patto non entreranno nel tempio per incen­ diare invano il suo altare. Essi saranno quelli che chiudono la porta, com e disse D io : “ C h i fra voi chiuderà la m ia porta affinché n on incendiate il m io altare inva­ no? (M al 1,10)*. A m eno che essi abbiano cura di agire secondo l ’esatta interpreta­ zione della legge per l’epoca dell’em pietà: separarsi dai figli della fossa; astenersi dalla ricchezza em pia che contamina, con la promessa o col voto, e dalla ricchezza del tem pio17.

Come si legge, il Tempio è divenuto un luogo in cui si sacrifica invano sull’altare, dove è stata accumulata ricchezza empia. È impuro e colmo di ricchezza iniqua. Non so se si può dire che il Tempio è impuro perché ha

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accumulato ricchezze, ma le due parole, “tempio” c “ricchezza”, e poi l’e­ sp ressione «ricchezza empia che contamina», sembrerebbero spingere a interpretare cosi. L ’accusa si riferisce a qualcosa di molto concreto, come sem bra emergere anche in Marco (11,15-19; cfr. M t 21,11-13.17; Le 19,45­ 48; Gv 1,14-16) nell’episodio dei venditori cacciati dal Tempio da parte di Gesù, con citazione di Isaia 56,7 per spiegare il motivo della sua col­ lera (il Tempio dev’essere casa di preghiera per tutte le nazioni). Sembra p er questo motivo che allora la comunità a cui si riferisce il Documento di Damasco, e poi quella della Regola della comunità (cfr. i x 4-6), svilup­ p in o una sorta di tempio senza muri: il tempio è la comunità stessa, la quale, assieme agli angeli del cielo, prega Dio, esattamente come sarebbe dovuto accadere nel Tempio, anche se stavolta non c ’è più traccia di sacri­ fici v io le n ti. Si viene cosi a sviluppare una vera e propria liturgia celeste, di cui ab­ biamo traccia in una straordinaria opera contenuta in alcuni manoscritti trovati nelle grotte di Qumran'8 e a Masada1’ : Canti d e ll’olocausto del sa­ bato. Il gran numero di copie di questo testo testimonia la seria attenzio­ ne al suo contenuto da parte dei fedeli che hanno vissuto in quelle zone. La copia più antica è materialmente databile alla metà del 1 sec. a.C. e la più recente, quella trovata a Masada, alla metà del I sec. d.C. Il testo è composto da tredici canti (shirim ), da recitare ciascuno in un sabato, ognuno dei quali ha una formula fissa, a parte il settimo. I protagonisti di questi canti sono gli angeli: sono loro che li recitano. Si parla di sacerdo­ zio angelico e si menziona anche, fra questi angeli sacerdote, Melchisedek“ . Chi ha scritto questi canti attribuisce agli angeli dunque funzioni sacerdotali che devono essere espletate periodicamente secondo un calen­ dario liturgico. Tali angeli sacerdote compiono una grande liturgia, che è congiunta con quella dei sacerdoti uomini, come si evince nel canto per il Secondo sabato. Nel settimo canto, invece, c’è un’elaborata esortazione alla lode, a cui seguono le Iodi che vengono fatte dalle parti costitutive del tempio cceste- Tali parti sono vive, come vivo è il tempio. Per cui si evidenzia un tempio vivo che è paragonabile a un organismo, le cui membra sono gli angeli e gli uomini della comunità. Tempio vivo c non più di pietra. Forsi può intravedere in quest’idea l’immagine del Tempio di Gerusalem1116 COlne la espone Gesù quando aiferma che di esso non rimarrà pietra jj Plctra (cfr. M t 14 ,1-1; Me 13,1-1; Le 11,5-6; G v 1,19), significando però SUo c°rpo che verrà distrutto c poi ricostruito in tre giorni (Gv 1,11). Il

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suo corpo è il tempio; ma è anche la comunità, divenuta tale mediante la donazione del suo corpo e del suo sangue durante l’ultima cena (cfr. Me 14 ,11-15 ; M t 16 ,16 -19 ; Le n .15 -10 ; 1 C or 11,13-15). Dirà Paolo (1 Cor 11,11) : «C om e infatti il corpo (sòma) è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo (toà sómatos), pur essendo molte (polla ónta), sono un corpo solo (èn estìn sòma), così anche il C risto». Per Paolo l ’e­ lemento unificatore e che produce tale corpo è il battesimo mediante un solo spirito (1 C or 11,13). N ell’episodio del battesimo di Gesù (cfr. Me 1,11) viene evidenziato come egli battezzerà con spirito e non con acqua. Si è visto che Gesù potrà svolgere il suo ministero a partire dalla discesa dello spirito su di lui. Il ruolo della comunità nel culto è davvero quello di costituire un tempio celeste. In 1 Pt 1,4-5 si legge: «Avvicinandovi a lui [Gesù], pietra viva, rifiutata dagli uomini ma scelta e preziosa davanti a Dio, quali pietre vive siete costruiti anche voi come edifìcio spirituale, per un sacerdozio santo e per offrire sacrifìci spirituali e graditi a Dio, mediante Gesù Cristo». Ogni componente ha la sua funzione, la quale ha senso solo se legata a quella dell’altro. Questa idea si vede bene nel culto del tempio celeste con la descrizione dei diversi abiti degli officianti. Nel tredicesimo canto (ma­ noscritto 4Q405, frammento 13, colonna il, righe 7-10), in cui si tratta del sommo sacerdozio angelico e di chi collabora con esso, viene descritto il vestito di colori e di luce di ognuno: N ella loro meravigliosa postazione ci sono spiriti con veste variopinta, simile all’o­ pera [prodotta da] tessitore, [fatta] di incisioni; di decorazioni d i madreperla. N e l mezzo della gloriosa apparizione scarlatta [i] colori della luce dello spirito del santo dei santi si fissano nella loro santa posizione d i fronte al [r]e. Sono spiriti di [puri] colori nel mezzo dell’apparizione di bianco soffuso. Immagine dello spirito glorioso è com e il prodotto di opere d ’oro di O fìr, che diffonde [lu]ce.

Questa descrizione parla di entità angeliche, indicate come «spiriti con veste variopinta», poste nel tempio celeste ognuna collocata in un suo sacro e preciso spazio («meravigliosa postazione»). Insieme formano un’immagine meravigliosa, simile a un tessuto ricamato riccamente (1* comunità, che è dunque bellissima). La funzione di ciascun angelo è au­ tonoma e insieme indispensabile a tutto il tempio celeste. Ognuno di essi è una parte dell’unico tempio e dell’unica liturgia: c ’è un angelo («spi­ rito del santo dei santi») che ha funzione di sommo sacerdote, il quale

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irradia una luce che si fìssa, in ciascuno degli angeli a lui sottoposti nel servizio del tempio celeste, in un colore particolare, pur mantenendo an­ che una parte della totalità cromatica racchiusa nel bianco, il quale con­ tinua a irradiarsi, con meno forza, da questi angeli. La visione viene detta scarlatta, forse perché il colore dominante è il rosso, ma si parla anche di luce in senso generale. Inoltre si dice che il colore prevalente dello spirito del santo dei santi, che dovrebbe essere quello del sommo sacerdote, è d’oro puro («oro di O fir» : cfr. Gb 21,24). Seguendo questa dinamica, si può dire che la luce viene da Dio, e viene riflessa dall’angelo che sta nel santuario («santo dei santi») con colore oro: essa poi si riflette sugli altri spiriti, e ognuno risplende con colore diverso, a seconda della fun­ zione che ha. La luce, dunque, nel contesto del tempio celeste, è la manifestazione dell’amore di Dio, che tutto vivifica e ordina. Gli angeli riflettono la luce in tutto il suo spettro, così da mostrare l ’ordine esatto della liturgia c del­ le funzioni sacerdotali, viste come indispensabili alla salvezza dell’uomo. La Regola della comunità, pur non parlando del Tempio di Gerusalemme, esprime bene la funzione del tempio celeste, cioè della perfetta comunità, nella direzione dell’espiazione dei peccati senza la carne degli olocausti e senza il grasso dei sacrifici. Sarà (ix 4) « l ’offerta delle labbra» ad essere efficace per l’espiazione. Interpretando la profezia di Natan (2 Sam 7,11) il Midrash escatologico* (4Q 174)11 afferma che dovrà essere costruito un «tempio dell’uomo» (m qd! ’dm), espressione che probabilmente indica un gruppo particolare di persone: si tratta sempre di un tempio non di pietre, ma di uomini11. Tuttavia, a Qumran è presente anche l’idea che un giorno la comuni­ tà sarebbe tornata a Gerusalemme, dove avrebbe ritrovato il Tempio, sta­ volta nuovo. L ’opera che mostra questa aspettativa è stata titolata Nuova Gerusalemme e si trova in sette manoscritti pergamenacei, rispettivamen­ te rinvenuti nelle grotte 1, 2, 4, 5 e 1 1 . 1 manoscritti che hanno conservat0 i resti dell’opera sono: iQ 32i}; 2Q 2414; 4Q55415; 4Q5$4alS; 4Q55517; 5Q.5- 11Q 1819. La datazione paleografica dei manoscritti va dunque dalla prima metà del I secolo a.C. alla prima metà del I d.C. Anche per ^uest opera vale quanto si è detto per i Canti dell'olocausto del sabato, ° Ssia, visti i vari testimoni, che essa doveva essere molto conosciuta. Pro­ bam ente l’inizio dell’opera è presente nel manoscritto 4Q554, dove si trova la descrizione delle mura e delle porte della città, dell’entrata di un ls°la to c delle scale; del recinto del tempio di questa nuova Gcrusalem-

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me e, infine, di materiale che potrebbe essere inserito nella credenza di una battaglia escatologica contro i popoli nemici d ’ Israele, similmente a quanto si legge nel Rotolo della guerra (1Q M /1Q 33: riferimento ai Kittim, ai popoli di Edom, Moab c di Ammon)J°. L i Nuova Gerusalemme ha alcuni tratti comuni con il Rotolo d el Tempio ( i i Q T ,,)>soprattutto nella preoccupazione di descrivere accuratamente il Tempio e il culto, anche se però con delle differenze. La Nuova Gerusalemme non è il solo testo scoperto a Qumran che parli o che alluda a una Gerusalemme nuova o a un nuovo tempio. C i sono, oltre ai testi biblici di Ezechiele, Isaia, Zaccaria e Tobia, anche il Rotolo del Tem­ pio e il manoscritto 4Q365a’\ Questi ultimi due contengono espressioni che riguardano una monumentale nuova Gcrusalemme-Tempio. Ancora, altri riferimenti sono: Is 49,16: Es 15,8-9 (utensili tabernacolo); 1 C r 18,19 (Tempio di Salomone); G iubilei 1,17.16-19; 15,11. La ricostruzione del Tempio di Salomone, secondo quanto si legge nella Nuova Gerusalemme, avrà anche caratteristiche simili a quelle descritte in Is 54,11-13; Zac 1,5-8 e Tobia 13,17-18, che descrivono brevemente lo splendore della Gerusalem­ me futura. Anche nel manoscritto 4Q Parole d i M ichele (4 0 5 19 )” si parla di una Gerusalemme futura. Rispetto ai Canti d ell’olocausto del sabato, la Nuova Gerusalemme mostra invece un evidente desiderio di rinnovare il Tempio di Gerusalemme, ma non nel senso che in esso non verranno fatti più sacrifici cruenti. Il nuovo Tempio sarà più grande, ma avrà sempre la stessa funzione di quello storico. Il testo, che contiene un argomento esca­ tologico, mostra in sostanza una nuova Gerusalemme con un nuovo tem­ pio per accogliere, attraverso le dodici porte nelle mura della città, tutte le tribù d ’ Israele disperse. Rispetto a quest’opera, può essere che i sacerdoti abbiano ravvisato in Gesù uno di quelli che speravano nella distruzione di Gerusalemme e del suo Tempio, della sua ricostruzione faraonica, cosi come viene descritta la città futura nell’opera (cfr. G v 1,19 -10 ; Mt 14 ,1-1! Me 13,1-1; Le 11,5-6). '

Breve conclusione I due temi affrontati dovrebbero aver dato un’idea di come la biblioteca di Qumran può aiutare lo studio dei testi neotestamentari c consente & penetrare meglio nelle problematiche che avvertivano i primi seguaci ed esercita un ruolo dominante sugli altri membri della famiglia, raf­ forzando i ruoli di genere. La letteratura greca sulYoikos in quanto gestio­ ne della “casa” concepì quest'ultima come una struttura di persone con allegamenti diversificati con il paterfam ilias. Cosi Aristotele designa tre *‘Pi di coppie relazionali: marito e moglie, genitori e figli, padrone e servi ctr-Polit. 1 3 [ii53b 4-11]). Questo genere di letteratura raccomanda come

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articolare i rapporti in modo che, oltre ad essere un benefìcio economico per tutta la famiglia, essi siano privi di tensioni c si riesca a ottimizzare le qualità di ogni “subalterno”. Il paterfam ilìas assume il ruolo di un saggio gestore della propria casa. Come parte dell’economia domestica, le aree di competenza tra i sessi sono determinate in base alla loro natura. Così Tuo. mo assume la responsabilità delle attività agricole e della guerra (il pub­ blico dominio), mentre la donna ha caratteristiche innate che la rendono più qualificata al ruolo di casalinga e madre, e il cui campo di azione è la casa (cfr. Senofonte, Oecon. 7,10-43). Tuttavia, si chiede che l ’istruzione sia condivisa tra i figli (7,11) e s’incoraggia ad aumentare e preservare in modo comune la ricchezza della famiglia (7,1$). Nel confronto con gli schiavi, si consiglia al padrone di accordare loro un adeguato trattamento sul lavoro, cercando di stimolarne la motivazio­ ne e di fornire loro il sostentamento necessario. Se il servo commette un misfatto, la pena deve essere proporzionata al reato. I testi conservati si soffermano in modo marginale sul rapporto tra padre e bambini, e si li­ mitano a incoraggiare il rispetto per i propri genitori c la loro cura nella vecchiaia (cff. Senofonte, Oecon. 7,i9)1+. L ’ ideale romano della famiglia è una struttura giuridica che si propone come una piramide nella cui parte superiore vi è il paterfam ilias, che detie­ ne la patria potestas nell’amministrazione della casa: sulla moglie, sui figli riconosciuti secondo la legge'* e anche sui nipoti in linea maschile (agnates), senza dimenticare i liberti e gli schiavi. Tutti insieme costituiscono la sua famiglia ed egli, come un autocrate, ha assoluta libertà di azione in tre aree, dove opera come entità giuridica indipendente (sui iuris) e come rappresentante dei suoi subordinati (alieni iuris): 1. l ’economia: facoltà di acquisire, utilizzare e smaltire i beni della famiglia; 1. la competenza giu* ridica: diritto sulla vita e la morte dei membri sottoposti alla sua autorità; e 3. il culto. D ’altra parte, deve anche assoggettarsi agli obblighi familiari, tra cui l’accumulo degli immobili e dei beni sociali (prestigio), la cura c il mantenimento dei figli, la protezione giuridica e sociale di tutti i membri della famiglia e dei propri clienti. Nella società romana, il focolare dell ’éli' te è stato al centro della vita pubblica. Invece della dicotomia greca tra pubblico e privato, a Roma ci fu un passaggio graduale dal completamente pubblico al completamente privato.

Nel giudaismo, al tempo del Nuovo Testamento, le grandi famiglie " con i figli sposati, i loro coniugi e figli, servi e cameriere (cfr. Mt 11,33-46; Le 15,11-31) - erano un’eccezione. Come regola generale, la fan*1'

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era composta da genitori e figli, e fondata sul rispetto della posizione dominante del padre. Tuttavia, l’insicurezza economica dei contadini, dovllCa allo sviluppo commerciale e alla concentrazione della proprietà nelle jnani dell’élite, indebolì l ’autorità del patriarca, che non era più in grado di garantire la sopravvivenza dei suoi e di coinvolgere i figli nel mestiere fam ilia r c * I contadini cominciarono a emigrare e ciò portò alla successiva p arziale disgregazione della famiglia. La posizione delle donne in generale si era deteriorata, anche se come casalinghe madri erano ancora onorate e am ate dai propri figli. Il valore di questi ultimi permaneva, vista l’impor­ tanza della discendenza: l’abbandono o la vendita dei figli erano severa­ m ente vietati. Da parte sua, Gesù sfidò esplicitamente l’istituzione del gruppo fami­ liare, rompendo con la propria famiglia in quanto struttura sociale, e ciò rappresentava uno spostamento del luogo più importante per la configu­ razione dell’identità e una sua ricollocazione in una situazione periferica. Con il suo ideale di una comunità basata sull’amore e sul perdono, egli ha criticato la struttura della famiglia patriarcale. Di conseguenza, non aveva buona reputazione nella propria famiglia o nel suo villaggio, anche per­ ché aveva sfidato i valori fondamentali della comunità locale rappresentata dalla sinagoga. Questi valori non erano astratti, ma appartenevano al ruo­ lo della tradizione, dell’autorità degli anziani e dell’onore della comunità lia

(Me 3,1-6).

La donna all’interno del gruppo familiare La letteratura presenta la distribuzione sociale dei ruoli tra uomini e don­ ne nell’antichità classica come naturale e stabilita dagli dèi. Ove possibile, S1procurava di tenere in casa e lontane dal mondo esterno, in particolare, k donne giovani, perché erano le depositarie dell’onore maschile. TuttaVla> k pratica non corrispondeva all’ideale dell’isolamento della donna in Casa; cta decisivo il suo stato sociale, perché poteva esserle richiesto di contr>buire a sostenere la famiglia con un lavoro fuori casa. La separazione operata tra la vita pubblica della polis, da un lato, e la Casa, dall’altro, fornisce un quadro strutturale che può servire per distin®Uere i luoghi propri degli uomini e delle donne nelle società antiche. a distinzione delle responsabilità e dei ruoli delle donne e degli uo­ mini* a casa c nella vita pubblica, era orientata c organizzata, all’inizio,

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in senso specificamente sessuale. Chiaramente si manifesta l ’asimmetria dei sessi e il dominio degli uomini. Nel settore dell’amministrazione domestica sembra, tuttavia, che la ripartizione delle responsabilità e dei ruoli tra uomini e donne abbia invece espresso una distribuzione com­ plementare tra i due sessi. I testi illustrano la contrapposizione spaziale tra uomini e donne, e le conseguenze politiche di questa distribuzione (cfr. Filone Al., Spec. Leg. 3,169). Centrale nella distinzione delle sfere per sesso era l ’esclusione generale delle donne, indipendentemente dal loro stato sociale, dalla direzione politica e dall’amministrazione della città. M a il fatto che le donne siano state escluse in linea di principio dalle cariche politiche e dai consigli rettori della polis non vuol dire che non abbiano influenzato la politica. È nelle famiglie dominanti della società romana che si è meglio manifestata questa influenza: madri e mogli di imperatori romani e di alti funzionari che dirigevano l ’aristo­ crazia si sono occupate di politica, perché, come consulenti di mariti 0 figli, hanno esercitato un’influenza su di essi, sono apparse al loro fianco in pubblico, hanno partecipato alle discussioni e probabilmente anche alle congiure politiche. Tuttavia, restano sempre una forza nelle retrovie della politica di prima linea. Più che nella vita politica, le donne ricche dell’élite avevano un’intensa attività sociale e religiosa, e la loro partecipazione alle celebrazioni cultuali era sia passiva sia attiva: come sacerdotesse nelle città greche (il loro ruolo nella religione romana era più marginale), in occasione di eventi ufficiali (teatro) e nell’esercizio di funzioni di patronato (benefattrici) in quanto avevano beni propri. Erano anche ammesse agli incontri dei collegia e nei banchetti di famiglia. Ma la loro presenza pubblica rimaneva limitata ri­ spetto a quella degli uomini o era sconsigliata, perché esposte al sospetto di venire considerate disponibili dal punto di vista sessuale, soprattutto nei banchetti. Accanto alle donne dell’élite, cerano donne benestanti che ammini­ stravano autonomamente i loro beni c la ricchezza patrimoniale (proprie­ tarie di terreni e d ’imprese). Circa le occupazioni dello strato inferiore della popolazione femminile siamo meno informati: alcune commerciano avevano una piccola azienda artigianale, altre erano impegnate in lavori io locande o taverne, altre ancora erano ostetriche, infermiere, ballerine c mu' siciste. Tuttavia, la maggior parte delle donne povere nelle zone rurali ap' partenenti allo strato inferiore, oltre a occuparsi dei lavori di casa, doveva partecipare al lavoro agricolo, sia sul terreno di famiglia sia come bracciaO'

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Nel settore dei servizi e dell’artigianato sembrano predominare |e a ttiv ità tradizionali delle donne: nel piccolo commercio - al mercato, nel forno, nel servizio domestico, nella produzione tessile e nei servizi per­ d a l i (ancelle). Pertanto, un’applicazione rigida della separazione dei ses­ si 0 il confinamento delle donne a casa era impossibile per ragioni econo­ m iche. Inoltre, nella famiglia palestinese che costituiva il gruppo di lavoro, tutti lavoravano insieme dentro casa, nel cortile e nei campi, in modo che non vi era alcuna distinzione tra pubblico e privato, né separazione dello spazio in funzione dei ruoli di uomini c donne. cj o s e rv e .

Studi femministi del Nuovo Testamento hanno tentato di ricostruire con particolare attenzione la storia delle donne nel cristianesimo primitivo, mettendo in evidenza la loro presenza tra i seguaci di Gesù e il loro impor­ tante ruolo nella diffusione del cristianesimo nel mondo greco-romano. Nel movimento di Gesù le donne hanno avuto esperienze carismatiche; quelle che lo seguivano appartenevano, come gli uomini, agli strati più bassi del­ la società, e il loro comportamento in pubblico probabilmente le esponeva al rischio di essere considerate donne di malaffare o poco raccomandabili (cfr. Me 2,15). La loro partecipazione a banchetti e, soprattutto, la frequen­ tazione di un gruppo di uomini con i quali si mostravano continuamente in pubblico, poteva farle passare per donne “pubbliche”. Il loro comporta­ mento, pertanto, si discosta dai parametri culturali delle zone rurali della Galilea, trasgredendo l’ istituzione sociale fondamentale della casa e della famiglia. D ’altra parte, nelle comunità cristiane urbane le donne hanno svolto un ruolo importante. Una percentuale significativa di queste donne e ebrea o ha un rapporto stretto con le sinagoghe della diaspora. Il loro in­ gresso nel cristianesimo può essere dovuto al successo della missione verso gli ebrei della diaspora e alla conversione delle loro famiglie. Inoltre, alcune donne presiedono le comunità domestiche (Lidia, Priscilla, Ninfa, forse Cloe). Quanto alla loro estrazione sociale, è possibile che alcune donne ap­ partenenti all’élite locale fossero sostenitrici delle comunità cristiane, ma la Maggior parte delle credenti in Cristo proveniva dallo strato inferiore. La Samma di posizioni sociali variava dalle donne che vivevano sole e gestivano Una piccola attività o una casa, fino alle schiave. Il gruppo più bisognoso, se­ ralmente, era formato dalle vedove. Le donne aderivano alla maggior parte ei doni carismatici della comunità dei credenti in Cristo, sia per lo svilupP° di funzioni missionarie, sia per l’esercizio di talune responsabilità nelle c°munità locali o nella partecipazione attiva alle riunioni della ekklesia. Le

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comunità domestiche legate alla casa offrivano alle donne la possibilità di una partecipazione attiva.

Il villaggio e la città Benché all’ inizio il movimento di Gesù in Palestina avesse un carattere prevalentemente rurale, esso divenne un fenomeno urbano con l ’integrar­ si nel mondo sociale dell’antica città greco-romana. Così, il Nuovo Testa­ mento (ad eccezione degli A tti e delle lettere paoline) offre uno spaccato di vita rurale e contadina in Siria e in Palestina e, talvolta, in Asia Minore. Questo non sorprende, considerando che l’attività di Gesù e dei suoi se­ guaci ha avuto luogo in piccoli paesi e villaggi della Palestina, così come avveniva per il 90 per cento della popolazione dell’impero. Solo una pic­ cola parte viveva in città o in altri insediamenti rurali (fattorie). Anche se il concetto di villaggio è difficile da definire, si possono citare alcune delle sue caratteristiche: dimensioni, numero di abitanti, dipendenza da corporazioni o istituzioni superiori (di solito una città) e statuto giuridi­ co inferiore, differenziazione limitata tra i suoi abitanti e preponderanza della produzione agricola con una proiezione locale. La struttura sociale di un villaggio antico poteva essere complessa, a seconda delle regioni. In Palestina gli affari interni erano regolati dai capi delle famiglie, che co­ stituivano un consiglio di anziani. Tuttavia, un ruolo importante nella quotidiana gestione locale sarà svolto degli scribi, non solo perché erano un’élite locale istruita sui temi della tradizione e della Bibbia, ma a causa della loro conoscenza della legge c perché sapevano scrivere. Da parte loro, le autorità romane o, nel loro caso, i re clienti, non intervenivano di solito nelle controversie locali sulla proprietà della terra, le querelle personali 0 l ’organizzazione della vita economica. Il Nuovo Testamento presuppone stretti contatti tra città e villaggi. La vita urbana ha adottato elementi della vita rurale e, a loro volta, i beni di consumo e la cultura urbana sono penetrati nelle regioni rurali; vi è una simbiosi tra città e campagna. Questa modernizzazione porta a un incre­ mento delle tensioni sociali, in quanto l ’ordine sociale c l’economia pro­ vocavano squilibri: le città venivano privilegiate c differenziate in termini giuridici e culturali, ma le fondamenta economiche della società erano an­ cora rappresentate dai villaggi e dall’agricoltura. Complessa è anche la definizione di città. Molto influente è stata quell*

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r0posta da M ax Weber, che ha assimilato la città al mercato, distinguen­ do tra “città di produttori” c “città di consumatori” c altri tipi misti'*. Le ricerch e attuali'7 sulla città sono più caute nel definire il concetto ed evi­ d en zia n o le peculiarità locali; si lavora con i parametri più flessibili di vari orientamenti disciplinari: parametro situazionale; parametro politico: la città appare nell’antichità come una costruzione politica, generalmente descrive spazi che coinvolgono strutture di potere, che comportano funzionari, amministrazione, tasse ecc.; r) parametro sociale: la città è una struttura sociale particolare, in cui i rapporti umani stanno subendo cambiamenti significativi; i legami sociali sono stabiliti più in là del gruppo di appartenenza familiare, etnico, reli­ gioso e di lavoro; d) parametro economico: la città è un luogo di “mercato” che non produ­ ce prodotti agricoli o alimentari, ma è rifornita attraverso una circostante zona rurale o rete commerciale e a sua volta genera beni culturali. Altri parametri sono gli edifìci civili (agorà, templi, edifici amministra­ tivi, teatro, gymnasium), i parametri giuridici'8, tecnologici, educativi c sanitari, religiosi e di urbanitas. Una città è, dunque, un’entità territoriale costituita da un centro urba­ nizzato (civitas) e un territorìum a esso associato dove vige Io stesso sistema giuridico. L ’impero romano si presenta come un vasto insieme di città, circa 1.00 0 al momento della sua massima espansione. Roma difendeva il principio di autonomia locale, che richiedeva anche un personale am­ ministrativo minore. Tale principio, tuttavia, non era applicato quando insorgevano conflitti che richiedevano l ’intervento diretto del governo centrale. La vita sociale urbana girava attorno al mercato, l’agorà o il forum, luoS^i d’incontro per tutti i tipi di contatti. Altri luoghi d’ interazione sociale erano i santuari e i templi, ‘A gymnasium con le sue ricche offerte per l ’attlvità fisica e l’educazione musicale, i bagni pubblici ecc. Inoltre, le asso­ ciazioni volontarie, alcune con propri luoghi di incontro, offrivano una rete di integrazione sociale al di là della famiglia, compensando a volte le Perdite causate dalla povertà, dalla schiavitù o dall’ immigrazione. Queste ass°ciazioni erano reti sociali i cui membri si riunivano su base volontaria Per svolgere attività in vista di scopi comuni. Grosso modo esse potevano ^SSere distinte in aggregazioni religiose, etniche e professionali. Le attività e associazioni includevano banchetti e celebrazioni cultuali. La scelta

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tra la vasta gamma di associazioni riflette le preferenze individuali, la devo, zione alle divinità protettrici di una professione o l’origine etnica dei suoi membri. Particolarmente importanti erano i collegia dei culti misterici per venerare Dioniso, o Iside, o quelli per il culto imperiale. Da parte loro, le associazioni professionali stabilivano servizi concordati, prezzi convenuti e relazioni commerciali. Popolari erano i collegia funerari, che assicuravano una degna sepoltura ai membri, oltre a facilitare una vita sociale attraverso feste cultuali e banchetti. Di norma, le associazioni necessitavano dell’ap­ provazione da parte dello Stato o della città. Tra queste offerte sociali, il cristianesimo ha svolto un ruolo importante dalla fine del I secolo d.C. La composizione delle associazioni era diversificata. Alcuni collegia in­ cludevano esclusivamente esponenti delle classi superiori; altri erano aggre­ gazioni di schiavi, altri ancora erano misti. Alcuni erano composti esclusi­ vamente da uomini; in altri le donne svolgevano un ruolo importante nel culto e in certi casi li avevano addirittura fondati. In linea di principio, tutti i membri erano uguali e ciascuno aveva la possibilità di scalare posizioni all’interno dell’associazione. In pratica, tuttavia, queste possibilità erano limitate, in quanto molte posizioni di responsabilità comportavano un con­ tributo finanziario. Forse le comunità cristiane paoline erano considerate dai loro concitta­ dini e dalle autorità civili come associazioni religiose. Benché non si possa affermare che queste comunità fossero modellate sulle associazioni civili né che si siano ispirate all’organizzazione della sinagoga, tuttavia esse sono state influenzate dal contesto associativo descritto, che è il contesto sociale in cui sono emerse le comunità domestiche. L ’impatto dell’urbanizzazione romana condusse alla “romanizzazione, con la concessione della cittadinanza romana alla classe dirigente e la diffu­ sione dei culti imperiali e dello stile di vita romano (humanitas). Agli oc­ chi dei romani, essa era l’unico modo per superare l’eterogeneità dei popoli conquistati, nonché di neutralizzare e superare l’odio delle classi dirigenti dei popoli conquistati verso i vincitori. L ’urbanizzazione romana compor* tava una certa “ellenizzazione”, in quanto la lingua greca era la lingua franca e amministrativa dell’impero in Oriente1’. Questo non significa che tuta potessero parlare greco. Si deve presupporre una differenziazione nel livello di padronanza del greco tra la città e la campagna e, all’interno della città, tra i dirigenti e le classi popolari. Il movimento culturale ellenistico, che aveva avuto inizio in Oriente con Alessandro Magno, è particolarmente patente negli ambiti dell’educazione, dell’arte, della letteratura, della filosofia e nd'

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forme cultuali religiose. D i fronte all’impossibilità di analizzare tutti gli culturali dell’ellenismo, ci concentreremo sulle correnti filosofiche.

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Correnti filosofiche ellenistiche L’unità politica e culturale nel mondo mediterraneo rese possibili crescen­ ti contatti reciproci tra le varie ideologie filosofiche e la propagazione delle idee religiose, determinando in tal modo un periodo di creatività cultu­ rale e cambiamenti nel campo della religione e della filosofia. Dobbiamo considerare che la religione per gli antichi era un elemento inseparabile dalla cultura; piuttosto rappresentava una serie completa di idee e pratiche che permeavano ogni aspetto della vita e del pensiero. Queste tradizioni intellettuali e usanze religiose ellenistiche costituivano le forze che han­ no prodotto e spinto i primi esperimenti di pensiero e di pratiche, che in seguito divennero noti collettivamente come “cristianesimo”, e forniranno il crogiolo in cui i primi cristianesimi andranno a definire la propria iden­ tità. Dal momento che il tema della religione (e delle religioni misteriche) è oggetto di un altro capitolo di questo volume, qui presentiamo solo le correnti filosofiche del tempo. Di fronte alla filosofia classica, che presuppone una comunità ordinata come polis, il periodo greco-romano ha subito un cambiamento di condi­ zioni politiche, sociali e culturali essenziali, ma anche un mix di culture, affascinante e al contempo provocatorio, tra Oriente e Occidente, che ha comportato un’incertezza palpabile, il disorientamento e la crisi del ruolo dell’uomo in un mondo sempre più confuso e complesso. Pertanto, cam­ biano le questioni fondamentali delle diverse correnti filosofiche greco-ro­ mane (stoa, cinismo, epicureismo, platonismo, pitagorismo, aristotelismo, Scetticismo): contro il puro piacere della contemplazione disinteressata dell esistenza in quanto tale e delle sue molteplici concrezioni, la filosofia diventa la ricerca e la pratica del miglior modo possibile di vita (eudaimon‘a) per l ’individuo nell’ambito della libertà cosmopolita. Così la filosofia ^ Periodo greco-romano affronterà questioni teoriche e pratiche tipiche e *e religioni, svolgendo una funzione religiosa e pastorale, al fine di su­ perare l ’estraniazione dal mondo della vita reale o la disaffezione politica, questo sbocco etico all’eudaimonia subito dagli studi logici, metafisici e O m ologici non dovrebbe essere considerato come un impoverimento

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improduttivo rispetto alla filosofìa classica, ma percepito nella sua imprcj. sionante produttività creativa e di erudizione. Nei periodi ellenistico e romano, le più influenti scuole filosofiche sono state lo stoicismo, l ’epicureismo c lo scetticismo (o pirronismo), che han­ no condiviso diverse prospettive fondamentali. i. Fondate nel corso di un periodo della storia del Mediterraneo in cui gli individui c le società erano spesso soggetti a forze esterne sulle quali non avevano alcun controllo, le tre scuole filosofiche s’incentreranno sulla vita interiore della mente, su cui i soggetti possono esercitare il controllo, z. Inoltre, mentre le scuole classiche solitamente avevano tre preoccupa­ zioni diverse, ma correlate - fisica, logica ed etica - , queste tre principali filosofie ellenistiche ponevano una particolare enfasi sull’etica orientata a vivere una vita virtuosa. 3. Le tre scuole potrebbero accettare la definizione di “filosofia” come at­ tività che consente una vita felice tramite argomenti e discussioni. 4. Infine, le tre scuole hanno fatto largo uso di un modello medico: il filo­ sofo agiva come un medico compassionevole col compito di diagnosticare la sofferenza umana vissuta dalle persone e di fornire un’adeguata terapia filosofica, che permettesse loro di riprendersi e condurre una vita felice. Per i filosofi ellenistici, dunque, la filosofìa è un modo di vita piuttosto che una disciplina teorica. Una delle filosofie più influenti dell’epoca è lo stoicismo. La fisica stoi­ ca si caratterizza per la concezione di Dio c dell’universo materiale come essenzialmente identici, essendo il fìsico e il divino i diversi aspetti di una stessa realtà. Proprio come l’anima pervade il corpo umano ed è dotata di ragione (la facoltà che consente agli esseri umani di pensare, progettare e parlare), cosi Dio è identificato con il divino (“ragione” o “Mente”), che permea il cosmo e si trova anche negli dèi e negli esseri umani L ’uomo con iin’anima razionale e un corpo fisico è un microcosmo dell’universo» che a sua volta è una struttura razionalmente organizzata. Gli esseri umani sono governati dal fato o provvidenza e non sono in grado di controllare gli eventi esterni, ma possono soltanto accettarli. Dal punto di vista stoico, vivere secondo la ragione significa vivere in armonia con l’ordine divino dell’universo. Gli scoici sostenevano che tutte le passioni o emozioni, tt* le quali spiccano il piacere, l’ansia, il desiderio c la paura, sono dannose e quindi dovrebbero essere sradicate. Il bene più grande è quello di conduf' re una vita felice c può essere raggiunto attraverso la virtù, che è il viver* volontariamente in accordo con la ragione, cioè vivere secondo la natura»

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e{Ché la natura è il criterio del razionale e tutto ciò che è contrario alla

datura deve essere considerato irrazionale. Le passioni o emozioni sono sempre considerate negative, quindi l’ideale è Yapdtheia (liberazione dalle DaSsio n i o emozioni). Gli individui sono responsabili, tuttavia, delle pro­ prie a z io n i, che possono essere controllate dalla propria disciplina. Da parte sua, Epicuro ritiene che lo scopo principale della filosofia sia quello di consentire alle persone di raggiungere la felicità individuale in questa vita: una felicità che deve essere intesa in modo fisiologico, come godimento del piacere e assenza di dolore e, di conseguenza, concentrata nella filosofia morale. È impossibile vivere una vita felice senza vivere bene, con saggezza e giustizia, ed è impossibile vivere bene, con saggezza c giu­ stizia, senza vivere felicemente. La giustizia si basa su un contratto sociale implicito che impedisce che una persona sia colpita e ferita da un’altra. Tuttavia, è più corretto definire il bene più grande degli epicurei come Tassenza di dolore nel corpo e di angoscia nell’anima”. Se è vero che il piacere è l’inizio e la fine di una vita felice, si deve fare una distinzione tra i piaceri, optando per quelli che comportano il minimo dolore. Cer­ care più piacere di quel che si ha già vuol dire rovinare il piacere che si ha con il dolore del desiderio insoddisfatto. Pertanto, la tranquillità dell’ani­ ma si ottiene evitando ogni sofferenza fìsica e l’ansia causata dalla paura della futura possibile sofferenza. La condizione ideale di vita è l 'atarassia (“imperturbabilità”) e il modo migliore per raggiungerla è attraverso la fi­ losofìa, convivendo con gli amici lontano dalla politica. Per Epicuro, le emozioni sono complessi tipi di sentimenti che si fondano su due tipi di percezione: il piacere e il dolore. Secondo gli epicurei, gli dèi godono di una vita di felicità eterna, liberi dalle passioni e lontani dal mondo, e in tal modo forniscono un modello ideale per le comunità epicuree. Per questo motivo, Epicuro ritiene inutili la preghiera e il sacrificio. L ’epicureismo fu caratterizzato dal suo zelo missionario e dalla vita in comunità dei suoi Inembri, tratti che caratterizzano anche il cristianesimo. Un’altra corrente filosofica è costituita dallo scetticismo ellenistico, che 111due caratteristiche distintive. La prima è la sua convinzione radicale che S p e n d e r e i’ assenso e rassegnarsi all’ignoranza non è una risorsa avvilente tlla. al contrario, una conquista intellettuale fortemente auspicabile. La se£°nda caratteristica è la raccolta sistematica di argomenti contro la possi*1Ca della conoscenza. Lo scetticismo è una capacità o attitudine mentale c^e °Pponc le apparenze a qualsiasi tipo di giudizio, con la conseguenza c* a causa della forza uguale e contraria degli oggetti e dei motivi cosi

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opposti, arriva prima alla sospensione del giudizio e quindi dopo a uno stato di tranquillità. Per gli scettici, convinzioni o impegni costituiscono una malattia che impedisce alle persone di vivere una vita felice e tranquil. la. Un lemma fondamentale dello scetticismo potrebbe essere: “per ogni argomento c’è un argomento uguale e contrario”. Molte altre tradizioni filosofiche hanno plasmato il mondo culturale ellenistico c romano. Tra esse spiccano il neoplatonismo, che ha contri­ buito molto alla formulazione teorica del cristianesimo; e il cinismo che, piuttosto che una scuola strettamente filosofica, si presenta come una con­ dotta di vita marginale in stile critico, che qualcuno ha applicato anche allo stile di vita ribelle di Gesù. Concludiamo, tuttavia, affermando che nel Nuovo Testamento non vi è alcun argomento e confronto esplicito con qualsiasi scuola filosofica, né ci sono tracce di una diretta influenza, nonostante alcune analogie e alcuni riferimenti strutturali e di contenuto. Il dialogo e l’interazione saranno svolti, invece, dagli apologeti cristiani, che attribuivano il perseguimento della eudaimonia in ogni sforzo uma­ no, in ultima analisi, a una provvidenza divina. Con loro, il cristianesimo riuscirà a coniugare con successo la ricerca di sicurezza e di guida, in un mondo politicamente e culturalmente complicato, col desiderio di sicu­ rezza, di pace e di tranquillità, e il desiderio di “calma” nell’anima e l’im­ perturbabilità con la fede cristiana nel creatore, redentore e salvatore del mondo. Inoltre, la fede cristiana condivide con le diverse scuole filosofiche il rispetto e il “culto” della verità, pur respingendo la pseudo-conoscenza sofista o la saggezza vuota, ed è orientata, per quanto possibile, a spiegare la certezza della sua esistenza concreta seguendo i parametri del lògos. Ep­ pure i dilemmi filosofici non sono stati la preoccupazione principale nella vita quotidiana dei cristiani del i secolo, i quali provengono soprattutto dagli strati sociali più bassi, mentre l’istruzione c la formazione ellenistica raggiungevano in particolar modo gli strati sociali alti, che come vedremo ora comprendevano una piccola parte della popolazione.

Gruppi e stratificazioni sociali Nell’antichità i nobili godevano della massima stima, e a loro venivano anche associati la ricchezza, gli onori e la posizione sociale, così come la sa' Iute e la bellezza. Anche Paolo riflette questo punto di vista, quando cita *

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e i nobili come esempi di una più alta considerazione sociale, men\xC p o n e i membri della comunità di Corinto tra i sottovalutati (cfr. i Cor 1 2,6 ss-)- Ma andiamo a guardare un po’ più da vicino le distinzioni sociali. L’analisi della stratificazione presuppone una disparità sociale, con i membri di una società che occupano diverse posizioni in base a determi­ nati fattori I principali indicatori per stabilire la posizione sociale di una persona erano la libera nascita e il diritto di cittadinanza, la partecipazio­ ne al potere politico e la ricchezza materiale. Questi elementi conferivano onore e dignità. Cosi, l’aristocrazia è sempre associata nella visione socio­ politica alla classe dirigente, che detiene il potere, il prestigio e i privilegi, uniti alla proprietà di terreni e beni. Al contrario, se un individuo non possiede quei tratti o alcuni di essi, viene considerato come non-élite o massa. Tuttavia, questa struttura di base delle società antiche non crea dif­ ferenze evidenti all’interno dello stesso gruppo. Per questo motivo, si sono proposti modelli di analisi per stabilire la posizione sociale sulla base di diverse variabili. I modelli più importanti, ma non unici, sono il modello del livello di gruppo (strati superiori e strati inferiori) proposto da Géza Alfóldy10, e quello dei “gruppi di livello superiore (élite) e gruppi di livello inferiore (non-élite o massa)” proposto dai fratelli Stegemann. Entrambi i modelli sono dicotomici e piramidali. Alfòldy stabilisce i tre ordines con la casa imperiale al vertice della piramide e le classi inferiori divise tra città e cam­ pagna, schiavi e liberi. L ’inconsistenza di status, che si verifica soprattutto nellafam ilia caesaris e tra i liberti ricchi, è risolta con la costruzione di una piramide all’interno della piramide. I quattro criteri principali per l’insetimento di una persona negli strati superiori o inferiori sono la ricchezza, il potere, il prestigio c l’appartenenza a un ordo (uno dei tre ceri: senatori, cavalieri, decurioni). Secondo il modello euristico di Stegemann11, al grup­ po di livello superiore appartengono: a) i membri degli ordines romani (e le loro famiglie), i membri delle case regnanti e le famiglie sacerdotali e laic^e che hanno nelle loro mani il potere degli Stati vassalli e delle province; ^) * ricchi senza cariche politiche direttive, indipendentemente dal sesso o statUs giuridico. Questi due gruppi formeranno il vertice della piramide, sparato dal gruppo specifico successivo, sia pure ancora nella parte su­ pcriore: c) le persone che formavano l’entourage (“retainers”), un gruppo m°lto eterogeneo composto da uomini liberi, schiavi e liberti dipendenti 111Posizioni direttive di rilievo, nelle gestioni amministrative, culturali e Militari per conto di quei gruppi di livello superiore. Potere, privilegio e 0 ren ti

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prestigio sono i criteri decisivi per i due gruppi dello strato supcriore. Vj. vevano tutti quanti prevalentemente in città e solo sporadicamente nelle campagne. D a parte loro, i gruppi dello strato inferiore sono divisi secon­ do il livello socio-geografico in gruppi urbani e gruppi rurali sulla base dei rispettivi luoghi di vita e di lavoro, e anche secondo criteri economici, culturali e di altra natura, tra i quali il godimento della ricchezza relativa (reddito) e di privilegi, e il possesso di uno status prestigioso. Così, la base della piramide sociale consisterebbe in: a) i relativamente poveri, coloro che vivono al di sopra della soglia di povertà, ossia hanno un alloggio ade­ guato, cibo e vestiario sufficiente, e b) i disperatamente poveri, coloro che vivono al limite o al di sotto della povertà, e sono privi dei beni neces­ sari alla propria sussistenza (cibo, alloggio, vestiario). Si dovrebbe tener conto delle differenze tra aree urbane e rurali. I gruppi di classe inferiore sperimentavano una rottura attraverso il limite del minimo vitale, dove la ricchezza relativa, la povertà relativa e la povertà assoluta sono i criteri di distinzione. Questo modello di società è caratterizzato dalla poca o nulla mobilità sociale. I romani erano l ’élite delle città d’ Italia e dellepoleis della Greciae dell’Asia Minore occidentale. Anche l’aristocrazia municipale - con tutte le sue differenze locali - gode della ricchezza attraverso la proprietà della terra, che era un prerequisito per la sua posizione (ordo decurionum) c le sue cariche (cursus honorum). Come magistrati urbani c sacerdoti, come patroni e benefattori che finanziavano edifici pubblici, banchetti, fonda­ zioni alimentari, giochi ecc., acquisivano un prestigio (dignitas) così gran­ de da poter ascendere aHi ordo successivo, quando ottenevano il resto dei requisiti (cittadinanza, integrità, nascita in libertà, ricchezza ecc.). L ’im­ pero dipendeva dall’euergetismus dell’élite tanto quanto dal sistema clien­ telare, che si basava su una relazione reciproca, ma asimmetrica, di lealtà tra il patrono e il cliente, a causa dell’assenza di una rete sociale pubblicaL ’importanza economica e sociale di questo sistema viene chiaramente di' mostrata nella tutela volontaria che i ricchi patroni esercitano verso i lof0 clienti bisognosi di sostegno. Dopo l’annessione della Giudea e della Samaria nell’anno 6 d.C., i pre' fetti romani vendevano o in parte affittavano gli ex possedimenti reali *j privati. In Galilea si protraggono fino al 40 d.C. le antiche strutture & proprietà e di governo della dinastia erodiana, la più grande proprietari* terriera della regione. Ricchi proprietari terrieri compaiono nelle parabd6 di Gesù, ma non hanno una posizione dominante. Il padrone della vignJ '

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c[1e ha il suo amministratore, probabilmente uno schiavo, e può far tavo­ l e Per un gran numcro di braccianti, è un uomo ricco (cfr. M t 2.0,1jé; Le 11,16 -11; 16,1-8). Lo stesso vale per il padre del figliol prodigo, che possiede schiavi, bestiame e campi, e può assumere lavoratori a giornata e nonostante abbia condiviso parte del suo patrimonio col suo figlio più giovane, ha continuato a vivere in prosperità (cfr. Le 15,11-31). Gesù parla anche dei signori, dei funzionari locali (cfr. Le 7,2; G v 4,49) che possie­ dono un certo numero di servi e terreni (cfr. M t 14,45-50; Me 13,33-36). Tutti sembrano appartenere ai gruppi inferiori della classe alta e ai gruppi superiori delle classi basse. Il padrone di un servo che svolge lavori agricoli c faccende domestiche (cfr. Le 17,7-10) è da inserire nel gruppo dei piccoli agricoltori nelle classi basse. Alla stessa classe sociale dovrebbe apparte­ nere ramministratorc libero di un uomo ricco, il cui senso di vergogna è così grande rispetto alla sua scala sociale, che condona ai debitori (clienti) del suo datore di lavoro parte del debito, temendo di essere degradato so­ cialmente al livello di bracciante, alla soglia di sussistenza imbarazzante (accattonaggio) (cfr. Le 16,1-4). Una menzione speciale richiede il gruppo sociale degli schiavi, lo strato più basso della scala sociale, che aleggiava come un fantasma su gran parte dei braccianti e mendicanti.

L’origine della schiavitù è da ricercarsi nella pratica del bottino di guer­ ra, nella pirateria c nel rapimento e nella deportazione di uomini liberi. Inoltre i bambini nati da madre schiava diventano schiavi, poiché eredi­ tano lo stato della madre. I liberi cittadini romani delle classi inferiori, se non erano collegati socialmente a una famiglia benestante o a un rapporto di patronato, potevano scendere al di sotto del livello di sussistenza per le difficoltà economiche e i debiti incorsi, c non erano esclusi in rari casi 1abbandono dei neonati, la vendita dei figli e persino della propria persona-1 sentieri della discesa sociale finivano nella schiavitù, ed era poi molto difficile la riconquista della libertà. Se una persona in base allo iusgentium (prigioniero di guerra, schiavo di nascita) o allo ius civile (schiavitù per Vendita di sé, sequestro di persona, o per punizione) diventava schiava, Poteva essere liberata secondo il diritto dei cittadini (“cittadinanza"), lati­ n° ( liberazione pretoriana”) o romano (manumissio vindicta , manumissio Censu>manumissio testamento). Come cittadino romano, il liberto gode di tutti * diritti e doveri dei cittadini, ma rimane escluso dagli incarichi di &0verno statale e locale. I ^ parte l’eccezione costituita dagli schiavi e liberti della casa impcriaC’ c^e grazie al loro lavoro qualificato e professionale neU’amministra-

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zionc imperiale esercitavano più influenza ed erano più ricchi di alcuni senatori, di solito gli schiavi si trovavano in fondo alla piramide sociale Tuttavia tra gli schiavi c’erano differenze notevoli. Quelli al servizio di ricche famiglie romane, sia nelle aree urbane che nelle zone rurali, ave­ vano, con il consenso dei loro padroni, l ’opportunità di formare una famiglia e poter gestire un peculio con cui acquistare la libertà. Potevano inoltre aderire alle associazioni professionali o religiose, che potevano aiutarli a riacquistare la libertà o pagarne la sepoltura. La loro liberazio. ne (manumissio), tuttavia, dipendeva esclusivamente dal padrone, il cui diritto era tale che gli schiavi e le schiave giovani erano usati come og­ getti sessuali. Le attività professionali dei servi erano varie. Molti svilup­ pavano nella città professioni che presupponevano una certa formazione o particolari abilità: consulenti legali, amministratori, medici, educatori, artisti, scribi, filosofi, artigiani ecc. Nelle zone rurali, i servi erano im­ pegnati in lavori agricoli. Non c ’è dubbio che la schiavitù era uno dei pilastri su cui si fondava la prosperità economica dei grandi proprietari terrieri. D ’altra parte, il trattamento riservato agli schiavi è molto di­ verso a seconda dei loro padroni. A causa di maltrattamenti frequenti e crudeli non erano insolite le insurrezioni e le fughe di schiavi, cosicché fu istituita una sorta di legislazione protettiva per entrambi: sia per gli schiavi, al fine di evitare le rivolte che minacciavano la stabilità sociale locale ed economica del padrone, sia per i loro signori, in modo che i servi venissero giustiziati se il loro padrone fosse stato assassinato ed essi non lo avessero difeso. Anche gli ebrei conoscevano la schiavitù, ma con leggi molto più in­ dulgenti per i loro servi (cfr. Es 11,16 -17 ; D t 5,14; 11,10-14). La schiavitù per debiti non era stata abolita, ma lo schiavo ebreo doveva essere libera­ to al settimo anno e gli si doveva assegnare un capitale per iniziare la sua nuova vita (cfr. De 15,11-18). Tale normativa, tuttavia, non si applicava agl* schiavi stranieri non ebrei (cfr. Lv 15,44-46). L ’ istituzione della schiavitù era una realtà nell’epoca di Gesù, che accetta la gerarchia dei padroni c de­ gli schiavi come un assioma (cfr. M t 10 ,14 ; Le 17,7-10; G v 14,16), e tra le sue parabole molte presuppongono la schiavitù (cfr. M t 14,45-51; Le 11,41-4 ®’ 16,1-8). In termini analoghi si esprimono Paolo e le epistole pastorali. A* servi viene comandata l’obbedienza e la sottomissione ai loro padroni, a*1' che se “pagani” (cfr. E f 6,5-8; 1 Tim 6,1; T it 1,9). A causa dell’uguaglianz* di tutti di fronte a Dio (cfr. C ol 3,11), viene richiesto ai padroni un atteg' giamento giusto nei confronti degli schiavi (cfr. E f 6,9; C ol 4,1). La l° r°

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liberazione, però, non è imposta né da Gesù né dai suoi discepoli. Noto . il caso di Onesimo, schiavo fuggitivo, che Paolo inviò di nuovo al suo pa'd ro n e Filemone con la richiesta di non punirlo, ma di riceverlo come nel Signore. A Roma, come in Grecia, lo schiavo non era una persona, ma una p ro p rie tà , e la società romana dipendeva fortemente dagli schiavi per il p ro p r io sviluppo economico. Come abbiamo visto, l’economia è uno degli aspetti che determinano il contesto socio-culturale: la politica im­ periale comprensiva dei beni delle province, dei beni limitati, della casa c0mc simbolo di ricchezza, il paterfam ilias come proprietario e ammi­ n istrato re dei beni di famiglia, l’ impatto economico dell’urbanizzazio­ ne sui villaggi, la ricchezza come fattore determinante di stratificazione sociale... Per questo motivo, dedicheremo ora particolare attenzione alla sfera economica. fratello

L’economia nell’ impero romano L’antropologia economica e gli studi delle società contadine hanno forni­ to importanti conoscenze sulla natura delle economie nelle società prein­ dustriali. Tre principali fattori definiscono l ’economia nel mondo mediterraneo11: la società agraria, quella aristocratica e quella contadina, i- Società agraria. L ’economia è basata sulla proprietà della terra e sulla produzione agricola. A livello tecnologico è un’economia rurale avanzata grazie all’uso dell’aratro, che permette la coltivazione di grandi appezza­ menti di terreno e, insieme alla diversificazione del lavoro e al migliora­ mento della commercializzazione, facilita la produzione di surplus agric°li per soddisfare le esigenze nutrizionali delle città. Inoltre, la maggior parte della forza produttiva è investita nell’agricoltura e nel settore della trasformazionc dei suoi prodotti. D ’altro canto, il possesso del terreno coltlvabile determina la ricchezza e il potere. 2" Società aristocratica. In genere, la classe dirigente (2-5 per cento della P°polazione) possiede la maggior parte della terra arabile, esercita l ’autQrità su un gran numero di contadini e trae un profitto notevole dal SUrplus della produzione agricola per mantenere un certo stile di vita, Spesso sfarzoso, e i culti centralizzati nella città. Il profitto le permette di r*UCrire il considerevole numero dei “collaboratori” che servono, diretta­

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mente o indirettamente, le esigenze dell’élite, ossia i famuli e gli scrifc,j artigiani e mercanti senza terra, molti dei quali vivono in città. Cos\ proliferano le comunità urbane (io per cento della popolazione). Qjj aristocratici, intesi come proprietari non in loco, vivono in città mentre le loro terre vengono lavorate da servi, schiavi o braccianti, o sono date in aifitto a elevati redditi (cfr. la parabola di M e i z , i - 8 ) . Oltre a control, lare l’economia e i mezzi di produzione, la classe supcriore detiene il potere politico e religioso, e il monopolio virtuale sull’alfabetizzazione attraverso il controllo degli scribi. 3. Società agraria contadina. I contadini, il 90 per cento della popola­ zione, abitano nei piccoli paesi o villaggi e coltivano la terra, ma non beneficiano del surplus di produzione. La loro terra (se sono proprieta­ ri o locatari) e il loro lavoro costituiscono il sostentamento di tutta la famiglia e ciò che la tiene insieme. In questa situazione di sussistenza, un pessimo raccolto per l ’agricoltore vorrebbe dire chiedere un prestito ai proprietari terrieri con interessi altissimi, e garantirlo impegnando il prossimo raccolto o il proprio terreno. Se non riesce a rimborsare il prestito, il creditore requisisce la terra; cosi era frequente che gli agricol­ tori fossero costretti ad abbandonare le loro terre e diventare fittavoli, braccianti senza terra o mendicanti. Se un contadino perdeva la terra e non aveva altri mezzi alternativi di produzione (artigianato), poteva vedersi costretto a emigrare e quindi a perdere i propri legami familiari. Questa dinamica portava alla concentrazione del terreno agricolo nelle mani delle élite (“latifondi”). Dal punto di vista dei contadini, la vita è una sfida continua nel coniu­ gare le esigenze dei potenti sulla produzione agricola con i bisogni di sus­ sistenza della famiglia. Il miglioramento della tecnologia e delle pratiche agricole fornisce un piccolo utile, che però finisce nelle mani della classe dirigente attraverso il prelievo di redditi e le tasse, che per gli agricoltori sono un peso schiacciante. Questa società contadina è segnata, quindi, da una biforcazione radicale, in quanto un piccolo gruppo di aristocratici s> confronta con la grande massa degli agricoltori e, di conseguenza, sono frequenti le proteste contadine. # Il mondo greco-romano multiculturale è composto da questo tipo di società agricole appena descritte. Con la sua espansione dal in secolo a.C-> Roma diventerà una potenza economica intemazionale, orientata verso 1* massimizzazione del profitto controllato da una piccola classe dirigenti Beni materiali, così come le migliaia di schiavi provenienti dai terrirofl

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conquistari, confluiscono nell’ Urbe. Cosi, le province servono allo sfruttam^nto imperiale, facilitato dal supporto di un’economia monetaria, grazie alla maggiore ricchezza delle province, cresce il numero di città che, collegate da una vasta rete di comunicazioni, diventano punti nevral­ gici dell’impero con scopi militari ed economici. Tuttavia, non vi è alcuna politica economica imperiale in senso moderno. Piuttosto, ogni rapporto e c o n o m ic o specifico si sviluppa principalmente a seguito della politica di potenza, da un lato, e della necessità di soddisfare le esigenze elementari della popolazione, dall’altro. Quindi, c ’era una certa libertà di azione con grandi differenze regionali, gestite dai diversi governanti in vari modi. Essi sono riusciti a raggiungere incarichi provinciali grazie alle loro ricchezze, e talvolta anche indebitandosi. Non sorprende, quindi, che tentassero di recuperare l’ investimento e ottenere più soldi nelle loro nuove posizioni utilizzando la pressione fiscale abusiva sulla popolazione locale (cfr. Svctonio, Tib. 31,1). Durante il principato erano applicati due tipi di prelievo fiscale nelle province: le imposte dirette e quelle indirette. Le imposte dirette erano suddivise in tributum soli, che tassava terreni e immobili, e tributum capitis 0 imposta personale, la cui raccolta era stipulata secondo i censimenti (cfr. Le 1,1-3), che stabilivano la ricchezza e la popolazione soggette a imposta. Inoltre, c ’era una vasta gamma di imposte indirette sui consumi, le impor­ tazioni, le esportazioni e il transito di merci. La loro raccolta era affittata ai publicani. Questa era la situazione che subì la Giudea quando passò sotto la diretta amministrazione romana1’.

Caratteristiche economiche nella Palestina romana ì» ** bonom ia della Palestina, nonostante le peculiarità regionali, con­ divide gli clementi sopra elencati e si orienta verso un’economia di A rcato interno e di sfruttamento, al fine di pagare le tasse. Inoltre, la Crescente urbanizzazione e le infrastrutture di comunicazione favoriSc°no il coinvolgimento dei proprietari terrieri ebraici nello sviluppo Cc°nomico del Mediterraneo, facendo acquisire importanza all’econo*cCo >1*a monetaria e di mercato. Anche se la nostra conoscenza della realtà n°m ica palestinese del I secolo d.C. è aumentata, affronteremo ora j lversi temi sui quali ancora si discute: la natura agraria dell’economia, ^ Portan za relativa del commercio, la distribuzione o la proprietà

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della terra e le condizioni socio-economiche dei contadini, tra cuj l ’ impatto delle imposte. In primo luogo, l ’economia palestinese è un’economia agricola basa­ ta principalmente sulla produzione alimentare attraverso l ’agricoltura di sussistenza. Tuttavia, si osserva la presenza di diverse forme parallele di produzione. Da una parte cerano i grandi latifondi di proprietà delle èlite politiche e sociali (la famiglia reale, gli aristocratici, i leader religiosi e alcuni sacerdoti). Questi terreni erano amministrati (cfr. Le 16,1-8) o colti­ vati sia da servi c braccianti sia da mezzadri, che aravano la terra a proprio vantaggio in cambio di un affitto. I loro proprietari, però, erano abituati a vivere in città. Inoltre, troviamo piccole c medie aziende agricole familiari (piccoli proprietari), che coltivavano la terra per il sostentamento delle loro famiglie con la produzione di prodotti basici. C ’è anche una varietà di contadini senza terra che lavoravano come braccianti o erano impegnati anche in altre attività come il banditismo. Agricoltura e allevamento erano i settori economici che impiegavano la maggior parte della popolazione. I vangeli fanno menzione di artigiani (falegnami) e di pescatori, quesd ultimi nella zona del Mare di Galilea. La distribuzione della produzione e della ricchezza era disuguale. I con­ tadini, attraverso le tasse, gli affitti e le decime, sostenevano una struttura socio-economica caratterizzata dalla distribuzione asimmetrica della ric­ chezza a favore dell’élite, che propiziava l’afflusso della ricchezza verso i centri urbani, soprattutto a Gerusalemme (e il Tempio), per scopi diversi dalla soddisfazione delle esigenze degli agricoltori. Questi non ricevevano nessun bene materiale in cambio del flusso delle merci. Una particolarità della Palestina era il Tempio, che oltre ad essere un luogo di culto era un luogo essenziale dell’economia regionale: tesoreria nazionale, deteneva grandi appezzamenti di terreni coltivabili ed era la più grande impresa fornitrice di posti di lavoro. In un’economia primitiva come questa, il rap­ porto della città con la campagna era soprattutto parassitario e negativo. Questo modello di “città consumatrice”, che sfrutta e si avvale delle risorse rurali attraverso le tasse e le entrate, è diventato la visione dominante nelle ricerche, benché sia suscettibile di revisione. Il dibattito teorico sulla natu­ ra dell’antica economia ci porta alla prossima domanda. In secondo luogo, sebbene l’economia palestinese fosse incentrai» sull’agricoltura, anche il commercio era importante. Le merci circolavanoLa società agricola sviluppava mercati per la commercializzazione di p f°' dotti dell’artigianato locale, come le ceramiche e gli utensili, c prodotO

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agricoli c marittimi. Parte della difficoltà nel valutare l’estensione e il graJella potenzialità commerciale su scala locale o “intemazionale” risie­ de nella mancanza di informazioni di tipo qualitativo c quantitativo che 0(frono le fonti. Tuttavia, si può distinguere tra il commercio interno e il commercio internazionale, e quest’ultimo è il più dibattuto. Dopo aver esaminato i dati relativi a importazioni ed esportazioni (cfr. Giuseppe Fla­ vio, Bell. iud. 591; Vita 74-76), Shimon Applebaum conclude che, anche se ci sono indizi di scambi limitati, l’attività economica in Palestina era “pre­ valentemente interna”14. Molti dei prodotti raccolti dai proprietari terrieri sarebbero stati venduti alle popolazioni non contadine della città a livel­ lo locale. I progetti di costruzione (porti, strade ecc.) intrapresi da Erode possono gettare le basi per la crescita del commercio internazionale verso, da, e attraverso la Palestina nel I secolo d.C. Tuttavia, della limitazione del commercio internazionale si dovrebbe ritenere responsabile il tipo di economia orientata all’autoconsumo della produzione agricola, sia in Pa­ lestina che in altre parti dell’impero. Inoltre, la situazione economica dei contadini non era favorevole alla regolare acquisizione di beni importati, che erano riservati soprattutto alle élite. Sotto questo aspetto, la Palestina non era diversa da altre province dell’ impero romano. Una terza questione riguarda l ’evoluzione del concetto di proprietà della terra. Molti studiosi sostengono che si riscontrava la tendenza a una maggiore concentrazione della terra nelle mani di pochi grandi proprieta­ ri terrieri a spese dei contadini. Attraverso il sistema ereditario, le piccole aziende venivano frammentate, costringendo il proprietario ad affittare al­ tri terreni o a lavorare in più come bracciante nelle grandi tenute. Inoltre, d piccolo contadino non possedeva sufficienti risorse per far fronte a un cattivo raccolto senza indebitare i propri possedimenti. Questa tendenza a frammentare le grandi proprietà potrebbe aver costretto i piccoli agri­ coltori a scendere fino al livello di mezzadri o braccianti. Mentre i fittavoli Sl svolgevano ai signori per affittare la loro terra per il proprio guadagno (cfr. Mt 11,33-41; Me 11,11 e Le 10,91), i braccianti erano assunti come ma­ nodopera necessaria, soprattutto durante la vendemmia c per la cura del cstiame (cfr. M t 10,1-15; Gv i;io-ié). D i solito, questi operai provenivano a famiglie rurali povere e la loro situazione economica e sociale era incer­ ta>in quanto i loro redditi dipendevano dalla necessità di un lavoro c di Un Salario. Gli schiavi e i servi, nel frattempo, lavoravano sia nei campi sia ln casa del padrone. Una conseguenza di questa pratica nel possesso della terra era l ’aumento dei contadini senza terra e, quindi, di braccianti e ban-

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diti. Ancora una volta, questa concentrazione della proprietà della terra in Palestina era un riflesso di ciò che stava accadendo nel resto dell’impero. Il tema dei contadini senza terra ci conduce a un quarto punto, vale a dire le condizioni socio-economiche dei contadini della Palestina. L j maggior parte degli studiosi riconosce che la situazione economica degl} agricoltori era precaria a causa di un’agricoltura di sussistenza, delle molte spese (tasse, canoni di locazione e sementi) e della minaccia di catastrofi naturali e carestie. Secondo le stime di Sanders, l ’agricoltore spendeva il 28-33 Per cento del proprio raccolto per far fronte a tasse, affitti e altre spe­ se1*. Ma non tutti i piccoli agricoltori potevano produrre quel surplus per pagare le tasse, e questo nelle zone rurali della Giudea costituirà un costan­ te pericolo di disordini, che porterà ai tentavi di bruciare o manomettere gli archivi dei debiti (cfr. M t 18,24-30). Il mondo economico descritto nei vangeli presenta una struttura re­ lativamente semplice: un mondo rurale di poveri contadini, pastori e pe­ scatori. I ricchi appaiono soltanto tangenzialmente (cfr. la parabola del giovane ricco: M t 19,16-22). A l di fuori dei vangeli rimane l ’attività edilizia promossa dagli crodiani. Tuttavia, il libro degli A tti degli apostoli descrive le condizioni economiche urbane, e menziona i beni di lusso e anche i loro produttori (cfr. Lidia o gli argentieri di Efeso: A t 16,14; 19,14-15)Dopo aver descritto le condizioni dei contadini, £ importante far nota­ re che la Palestina, quanto a capacità di sussistenza, non ha fatto eccezione rispetto alle altre province dell’impero.

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di Nazaret:

la vita e le opere di DanielMarguerat

Il cristianesimo è nato con Gesù o dopo Gesù? La vita di Gesù di Nazaret appartiene al giudaismo antico o al cristianesimo nascente ? È dalla rispo­ sta a queste due domande che dipende la nostra comprensione del nazare­ no nel quadro storico delle origini cristiane. Come dobbiamo considerare Gesù? Come il fondatore del cristianesimo o come un ebreo, sul cui ricor­ do si è costruita in seguito l’identità di una nuova religione1? È evidente che il movimento cristiano non è nato all’improvviso, né a partire da un gesto di Gesù. Il percorso che lo ha condotto a emergere dal giudaismo “settario’’, fino ad acquisire una forma istituzionale autonoma, non trovò compimento prima del il secolo. Dobbiamo tenere in conto due fatti, apparentemente contraddittori. D a una parte, non possiamo parlare di “cristianesimo” prima dello sviluppo di una predicazione articolata sulla persona di Gesù - a cominciare dall’annuncio della sua risurrezione. La Pasqua, in questo senso, rappresenta un vero e proprio spartiacque, tra­ sformando il nazareno da soggetto di una predicazione (cioè propagatore attivo di un messaggio) a oggetto di una predicazione (cioè sostanza stessa del messaggio). È a questo punto che possiamo collocare, al più presto, la nascita del cristianesimo. D ’altra parte, però, la fede cristiana vive del ri­ ferimento obbligato e permanente all’uomo di Nazaret: sarebbe del tutto •rragionevolc negare quest’origine, da cui dipende la legittimazione stessa del cristianesimo. Ecco allora il paradosso: la vicenda di Gesù appartiene di diritto alla st°ria ebraica, ma costituisce al tempo stesso il presupposto ineludibile per una storia del cristianesimo. Figura cardine della cristianità, Gesù di Na?aret sfugge a qualunque tentativo di ricostruzione storica che pretenda di Attrarlo al giudaismo, annettendolo a un sistema religioso che su di lui si c fondato. Per lo storico, la posta in gioco è altissima: perché non si tratta Sertlplicementc di rendere conto del carattere ebraico di Gesù, ma anche di

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spiegarne, in qualche modo, la profonda originalità, da cui il movimento dei suoi primi seguaci trarrà ispirazione. In queste pagine tenteremo di ricostruire la vita del Gesù storico. Ciò significa che ci baseremo innanzitutto su fonti documentarie “verificate* vale a dire spogliate, per quanto possibile, di qualunque tendenza impu­ tabile alla soggettività dei testimoni (alla loro fede o al loro atteggiamen­ to ostile). Questo tipo d ’indagine - di cui il tedesco Hermann Samuel Reimarus è generalmente considerato l’iniziatore - si propone il com­ pito di esaminare criticamente tutta la documentazione antica su Gesù, con l’obiettivo di trarne gli elementi utili a una sua ricostituzione in sede storica1. L ’analisi’ comincerà quindi con un esame delle fonti più antiche di cui siamo a conoscenza, per fissare in seguito gli estremi cronologici della vi­ cenda biografica di Gesù. Dopo una rapida discussione sulla situazione sociale e religiosa della Galilea nel I secolo, affronteremo il problema del messaggio religioso di Gesù, concentrando lo sguardo su due aspetti con­ creti della sua azione: il tentativo di “rifondare’’ la legge e la costituzione del suo gruppo di seguaci. Cercheremo infine di comprendere i motivi che portarono alla condanna a morte di Gesù, concludendo con alcune osser­ vazioni sulle esperienze visionarie legate alla Pasqua.

Le fonti documentarie sulla vita di Gesù Due importanti questioni metodologiche s’impongono da subito. In primo luogo: la documentazione di cui disponiamo i davvero così ampia c affidabile da permetterci di ricostruire la biografia di Gesù? In secon­ do luogo: come possiamo procedere per valutare l’attendibilità storica delle fonti? Le prossime pagine serviranno a fare chiarezza su entrambi i punti.

Le fonti Le più antiche fonti documentarie su Gesù di Nazaret provengono da tre ambiti differenti: romano, giudaico e protocristiano (includendo sotto quest'ultima etichetta sia il Nuovo Testamento che la letteratura extraca' nonica)4.

Gg SÙ D I N A Z A R ET : LA V ITA E LE O PERE

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foriti romane il q u a d ro che si ottiene da questa prima categoria di fonti è piuttosto delu^nte: la figura di Gesù non sembra aver destato alcun interesse presso gli scorici romani5. La loro attenzione, in maniera prevedibile, si è concentrata joprattutto sui grandi eventi della storia politica e militare dell’impero, e possiamo presumere, in questo senso, che la vicenda di un agitatore re­ ligioso vissuto nella remota e periferica Palestina non sia apparsa ai loro occh i come particolarmente degna di nota. La fede dei primi cristiani, ad ogni m o d o , è segnalata qua e là come esistente, più che altro per i disordini sociali collegati alla sua diffusione. Al principio del il secolo, attorno al 116-117, Tacito rievoca nei suoi Annali (xv,44) il celebre episodio dell’incendio di Roma. Il suo atteggia­ mento verso i cristiani è ambivalente. Da un lato, egli sembra condividere il generale disprezzo nei loro confronti: la gente riteneva che i cristiani fossero mossi da «odio contro il genere umano» (odium generis Immani) (xv,44,4). D all’altro, lo storico non manca di biasimare il modo in cui Nerone cercò di sottrarsi all’accusa di aver lui stesso fomentato l’incendio, consegnando alla vendetta popolare «quelli che per le loro nefandezze erano detestati da tutti, e che le folle chiamavano cristiani. Il loro nome veniva da Cristo, che sotto il regno di Tiberio fu condannato al supplizio per ordine del procuratore Ponzio Pilato» (xv,44,i-3). È interessante, in questo passaggio, la menzione del supplicium inflitto a Gesù (Christus) da Pilato6.

Attorno al in , in una lettera indirizzata a Traiano, Plinio il Giovane allude alla venerazione dei cristiani di Bitinia, i quali «cantano inni a Cri­ sto come a un dio» (Epist. x .y é j) . Il nome di Cristo apparirà di nuovo, dieci anni dopo, sotto la penna di Svetonio, tra i motivi che avrebbero spinto l’imperatore Claudio a emanare un provvedimento di espulsione dei giudei dall’ Urbe : « I giudei che tumultuavano continuamente per isti­ gazione di Cresto (Chrestus), egli [Claudio] li scacciò da Rom a» (Vita di Claudio 15,4). Chrestos, molto probabilmente, è una variante ortografica f er Christus. Svetonio ne parla come di un agitatore ebreo. L ’indicazione c Preziosa, e ci permette di intuire l’esistenza, prima del 49, di un incipien­ te conflitto tra giudei e giudeo-cristiani a Roma. Piu esplicita è la testimonianza del retore Luciano di Samosata, che nel pU° ironico pam phlet sulla morte di Peregrino (databile al 169-170) fa rieriniento a «quel grand’uomo che è stato impalato7 in Palestina per aver

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inaugurato un nuovo culto» (Peregrino n). Luciano descrive inoltre Ge^ come un «so fista», del quale i cristiani seguono ancora «le leggi» (ivi, Ben magro bilancio, dunque. Tuttavia, per quanto frammentarie, qUc stc indicazioni situano il personaggio Gesù nella storia, collegandolo aj nomi di Tiberio e Pilato, evocandone l’esecuzione capitale, e trattando la sua morte come un affare rilevante per la giurisdizione di Roma. Altra cosa notevole: nessun autore romano, significativamente, esprime dubbi sull’esistenza storica di Gesù. Fonti giudaiche A ll’interno della M ishnàh, il corpus normativo che raccoglie l ’insegna­ mento dei saggi di Israele per i primi due secoli dell’era cristiana, non tro­ viamo alcuna menzione esplicita di Gesù. Le fonti successive, come il Tal­ m ud di Gerusalemme e il Talmud di Babilonia, presentano d ’altro canto alcune osservazioni polemiche nei confronti del nazareno, con l ’obiettivo primario di pome in dubbio la nascita verginale8. Un passaggio del trattato Sanhedrin ( Talmud babilonese) merita speciale attenzione. In esso si parla di un certo Yeshu, che « fu appeso la sera della vigilia di Pasqua. Un araldo, per quaranta giorni, aveva proclamato: “Costui verrà lapidato, perché ha praticato la magia, ha sobillato Israele e l ’ha traviato. Chiunque conosca qualcosa a sua discolpa, si presenti e produca la sua testimonianza!’’. Ma nulla fu indicato a sua discolpa, perciò lo appesero alla sera della vigilia di Pasqua» (b. Sanh. 43a)9. Notiamo qui un’accusa di magia, che attribui­ sce a Gesù un’attività di tipo taumaturgico (pur contestandone l’origine divina): possiamo inoltre rilevare come la decisione della sua condanna a morte venga assegnata interamente a Israele. Nel complesso, il silenzio dei rabbini su Gesù si spiega con la preco­ ce insorgenza di polemiche, molto spesso avvelenate, tra ebrei e cristiani. Il giudaismo, di per sé, non aveva interesse a esprimersi direttamente su Gesù, in quanto figura centrale di un sistema religioso rivale; e la pressione dei cristiani, d ’altra parte, non poteva che rafforzare un atteggiamento di sostanziale auto-censura. È piuttosto sorprendente, invece, scoprire due menzioni diverse del na* zareno, che non hanno nulla di polemico, negli scritti dello storico cbre° Giuseppe Flavio. Entrambe si trovano all’interno delle Antichità g iu d # ' che, opera pubblicata attorno al 93-94. La prima è abbastanza sbrigativi' si parla unicamente di Giacomo, «fratello di Gesù chiamato il Cristoy

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. a ioo). Non c’è bisogno, in questo caso, di supporre un rimaneggiamen successivo. L ’espressione «chiamato il C risto» è di per sé neutra, e un f0pista cristiano non avrebbe mai emendato il testo in questi termini (ma otremmo sempre pensare a un falsario particolarmente abile). Per quanto jjguarda la seconda menzione, quella del cosiddetto Testimonium Flavia fittrn, la presenza di una glossa scribalc è invece difficilmente contestabile. Eusebio di Cesarea, nel IV secolo10, si riferiva a questo passaggio attribuen­ dolo integralmente a Giuseppe, ma occorrerà attendere l’età moderna percj^ qualcuno cominci a contestarne l’autenticità. L ’ipotesi più probabile, ad ogni modo, non è quella di un falso, ma di un’interpolazione effettuata ju un brano presente nel testo originario". Siamo di fronte a una chiara te­ stimonianza dell’interesse che un personaggio come Gesù poteva destare agli occhi di uno storico di origine ebraica: Visse in questo tem po G esù, uom o sapiente, sepure lo si deve definire uomo. O però infatti azioni straordinarie e fu maestro di uom ini che accolgono con diletto la ve­ rità, e cosi ha tratto a sé m olti G iudei e anche m olti G r e c i Egli era il Cristo. A n ch e quando per denuncia di quelli che tra noi sono i capi Pilato lo fece crocifìggere, quanti da prim a lo avevano amato non smisero di amarlo. E g li apparve loro il terzo giorno di nuovo in vita, secondo che i profeti avevano predetto di lui e mille altre meraviglie. A n co ra oggi sussiste il genere di quelli che da lui hanno assunto il nome di Cristiani

{Antichitàgiudaiche

In corsivo sono stati riprodotti i passaggi in cui l ’ipotesi dell’alterazione risulta più verosimile: una volta privato di queste aggiunte, il testo corri­ sponde, pressoché alla lettera, alla versione trasmessa dal vescovo arabo Agapio di Ierapoli nella sua Storia cristiana universale (x secolo)1’. L ’im­ portanza del brano è ovviamente enorme. Esso conferma, con maggior precisione rispetto agli storici romani, molti elementi essenziali per la bio­ grafia di Gesù: il legame con Pilato, la morte in croce, l’attività taumatur­ g ia e d ’insegnamento, la formazione di un gruppo di seguaci, ma anche il ruolo problematico giocato da alcuni notabili giudei («quelli che tra noi s°no i capi») nella condanna a morte. ^'H°vo Testamento

^ 1 corpus degli scritti neotestamentari la prima testimonianza su Gesù ,ri ordine cronologico proviene dalle lettere di Paolo, composte tra gli lnni So e 58 del I secolo. Tuttavia, se escludiamo i numerosi accenni alla

12.6

LE O R IG IN I D E L C R IS T IA N E S I\(0

morte e alla risurrezione, la corrispondenza dell’apostolo contiene ben poco sulla vicenda terrena del nazareno. Tra le sparse indicazioni che Sj ricavano troviamo un riferimento all’ebraicità di Gesù (Gal 4,4; Rm 9,^ e alla sua appartenenza alla stirpe di Davide (Rm 1,3), oltre a una fugace allusione al fatto che egli sarebbe stato «consegnato» di notte (1 Cor 11,13), e che i giudei avrebbero avuto una qualche responsabilità nella sua morte (1 Ts 1,1$). In quattro occasioni diverse, Paolo ricorda anche una «parola del Signore», ma la formulazione che egli offre, in ciascu­ no di questi casi, non corrisponde letteralmente a nessun detto riportato dai vangeli (cfr. 1 C or 7,10; 9,14; 1 Ts 4,16-17; Rm i4 ,i4 )'\ L ’apostolo, inoltre, sembra conoscere piccole collezioni di detti di Gesù, alle qua­ li rimanda senza avvertire il bisogno di citarne espressamente l ’origine. Possiamo comunque riconoscere, in Paolo, la struttura fondamentale del messaggio etico di Gesù, fondato sul principio dell’amore (cfr. Gal 3,14, che corrisponde a Me 11,19 -31). Nelle lettere troviamo pure l’ idea di una sostanziale coerenza tra la vita e la morte di Gesù ( 1 C or 8,9; Gal 1,3; Rm 3,14-1$). Globalmente, però, il contributo documentario appare modesto. La chiarezza con cui Paolo parla di Gesù implica che le sue comunità avevano accesso a tradizioni specifiche sul nazareno, ma l’apostolo, probabilmente, non riteneva necessario riferirsi a esse in maniera esplicita. La seconda fonte neotestamentaria, sempre in ordine cronologico, è costituita da una vera e propria raccolta di parole di Gesù, che gli studiosi hanno ribattezzatofonte dei detti Q. È opinione comune tra gli esegeti che questo documento, oggi perduto, sia alla base degli attuali vangeli di Mat­ teo e di Luca. La sua composizione viene fatta risalire ad ambienti palesti­ nesi, attorno al 50-60. Il testo avrebbe raccolto una serie di detti sapienziali di Gesù, incentrati sul tema portante del regno di D io: buona parte del celebre discorso sulla montagna (Mt 5-7; cfr. Le 6,10-49), per esempio» proverrebbe da qui1*. Un terzo gruppo di fonti è rappresentato dai più antichi testi evangelici» i cosiddetti vangeli sinottici. Il vangelo di Marco (redatto verosimilmente attorno al 65) integra per la prima volta l ’insegnamento di Gesù con un resoconto dettagliato della sua vita. L ’autore si basa su fonti precedenti» e compone il suo testo mettendo insieme racconci di miracoli, parabole e detti che gli provengono dalla tradizione, e che forse conosceva già u1 una prima forma scritta. L ’evangelista potè sicuramente contare, inoltre» su un ciclo narrativo degli eventi della passione, fissato a partire dagli ann*

g £s ^

DI N A Z A R ET: LA V ITA E LE O PERE

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40 negli ambienti di Gerusalemme, per commemorare la morte di Gesù: questo ciclo andrà a comporre i capitoli 14-15 del suo vangelo. Accanto

aU’opera di Marco, troviamo poi i vangeli di Matteo c di Luca, che inte­ grano il testo del loro predecessore con i materiali della fonte Q. La loro composizione può essere datata tra il 70 e l’ 8s.

Una quarta fonte è costituita dal vangelo di Giovanni, la cui redazione finale non può essere collocata anteriormente al 90. Questo testo si pre­ senta come una straordinaria rilettura teologica della vicenda di Gesù. A differenza dei sinottici, però, esso ci trasmette una quantità piuttosto esi­ gua di informazioni storicamente affidabili. letteratura cristiana extracanonica Sotto questa denominazione ricade un numero enorme di testi, la cui stesura si distribuisce tra il 11 e il v i secolo. Ciò che li accomuna è il semplice fatto di non aver trovato posto fra gli scritti che la Chiesa de­ ciderà di inserire nel suo canone di testi normativi (il Nuovo Testamen­ to). Questi documenti, chiamati anche “apocrifi", ci sono giunti integral­ mente o in forma frammentaria: si tratta di vangeli, di atti di apostoli, di apocalissi o di testi di natura catechetica'4. Tra gli scritti frammentari ri­ cordiamo in particolare il Papiro d i Ossirinco 840, che riporta l ’episodio di una visita di Gesù e dei suoi discepoli al Tempio, il Papiro d i Ossirinco 1224, che contiene alcuni detti di Gesù e il racconto di una controversia, c il Papiro Egerton 2, che trasmette altri episodi di controversie e una breve storia incentrata sulla guarigione di un lebbroso. Nel novero dei testi frammentari possiamo includere anche il vangelo dei nazareni, il vangelo degli ebioniti e il vangelo degli ebrei, che ci sono noti per via ■ ndiretta, attraverso le citazioni presenti in autori di età patristica. Tutti Questi testi riflettono in maniera molto evidente l’ inasprirsi del conflitto tra Chiesa e Sinagoga che fece seguito alle vicende della seconda rivolta giudaica del 135. Decisamente più importanti sono il vangelo di Pietro, databile alla pri011 metà del 11 secolo, e il vangelo di Tommaso, redatto attorno al 170. Del Pnmo possediamo un lungo frammento, con un racconto della crocifisSl° ne e risurrezione di Gesù. Il secondo testo, sopravvissuto interamente ln Copto (e solo parzialmente in greco), raccoglie invece una sequenza di Parole di Gesù, interpretate in senso spiritualizzante. A questi due testi si affianca il protovangelo di Giacomo (seconda metà del II secolo), primo

12.8

LE O R IG IN I D E L C R IS T IA N E S I)^

eclatante esempio di fiction teologica, con il racconto leggendario dell’io fanzia di Maria e di Gesù. D i queste tre opere, il vangelo di Tommaso £ senz’altro la più utile da un punto di vista storico. Moiri dei detti che vj compaiono sono il frutto di riformulazioni tardive, ma alcuni di essi pre. sentano notevoli punti di contatto con la tradizione sinottica. Due esem­ pi: « C h i è vicino a me è vicino al fuoco, e chi è lontano da me è lontano dal regno» (vangelo di Tommaso 8z; cfr. Le 12,49); «U n profeta non £ accetto nel suo villaggio; un medico non cura quelli che lo conoscono» (vangelo di Tommaso 31; cfr. Le 4,24)17. Non possiamo escludere, ad ogni modo, che il testo di Tommaso ci abbia trasmesso qualche parola autentica di Gesù, ignorata o riformulata dagli stessi sinottici. Bilancio Da questa rapida carrellata possiamo trarre almeno tre conclusioni. In pri­ mo luogo, per quanto riguarda il Gesù storico, possediamo un ventaglio sorprendentemente ampio di informazioni. Questa ricchezza si deve sia alla varietà delle fonti (lettere di Paolo, testi evangelici, scritti giudaici), sia alla loro prossimità cronologica con Gesù (appena una ventina d’anni separano la più antica lettera di Paolo dalla morte del nazareno). Nessun personaggio dell’antichità può contare su una documentazione altrettan­ to ricca, da un punto di vista qualitativo e quantitativo. Ma l’entusiasmo deve accompagnarsi a una certa cautela: se prescindiamo dal Testimonium Flavianum e dai riferimenti accidentali della storiografia romana, la parte preponderante delle nostre fonti deriva infatti da ambienti protocristia­ ni. Questo espone i testi al ragionevole sospetto di un rimaneggiamento apologetico, senza considerare che nessuna delle nostre fonti può essere definita come un documento “di prima mano” : non abbiamo testi diretta­ mente attribuibili a testimoni oculari di Gesù. In ogni caso, e questa è la seconda osservazione, sarebbe scorretto pen* sare che il cristianesimo delle origini ci abbia trasmesso soltanto ricordi arbitrari o tendenziosi di Gesù. I primi cristiani, al contrario, erano assolu­ tamente convinti del fatto che il loro Signore non potesse essere (ricono­ sciuto come tale senza un’adeguata conoscenza della sua vicenda terrenaPiù precisamente, dato che l’interesse primario nei confronti della stona di Gesù non risiedeva nel suo aspetto “fattuale”, quanto piuttosto nel suo carattere fondativo, il rapporto che i primi cristiani mantennero con eS*f fu sostanzialmente di tipo dialettico: la preoccupazione storiografica si33

GESÙ

p i N AZAR ET: LA V ITA E LE OPERE

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fiancò sempre a una certa libertà ermeneutica, soprattutto nel momento in ui si trattò di adattare il messaggio di Gesù alla situazione concreta delle varie comunità. Nel caso dei vangeli, rinteresse per la storia di Gesù non aveva nulla di archeologico: gli evangelisti si limitarono a registrare quei fàtti e quelle parole che potevano disporre di un significato immediato per . joro destinatari. Lo studioso moderno, nella sua ricerca del “Gesù della storia”, deve tenere conto di questo fatto, ed è chiamato a sottoporre le proprie fonti a un accurato esame critico e documentario, i cui scopi non c0incidono con la prospettiva teologica ed edificante che orientò la com­ posizione di quei testi. Giungiamo così a una terza osservazione, che deriva dall’analisi del qua­ dro narrativo predisposto dagli evangelisti: lo studio dei vangeli ha dimo­ strato ampiamente come questo derivi, molto spesso, dall’attività creatrice dei loro autori'8. La memoria dei vangeli si è esercitata soprattutto sulle parole di Gesù, molto più che sulle circostanze concrete in cui vennero pronunciate. L ’ impossibilità di determinare con esattezza dove e quando si sarebbero svolti i singoli episodi della vita di Gesù ha una conseguenza importante: non possiamo in alcun modo pretendere, oggi, di ricostruire un quadro biografico completo per Gesù. Questo significa che la maggior parte delle parole e delle azioni che i vangeli attribuiscono al nazareno non può essere collocata in una cornice spazio-temporale ben definita. Nondi­ meno, alcuni eventi centrali della biografia di Gesù sono sicuri: il suo bat­ tesimo, che le fonti collocano alle soglie dell’attività pubblica; lo sviluppo della predicazione in Galilea'8; le frequenti pratiche di guarigione; il cre­ scente conflitto con le autorità religiose di Israele, culminato nell’ultimo periodo a Gerusalemme; il supplizio della croce, imposto dai romani su lst>gazione giudaica. A l di là di questi dati, una localizzazione precisa dei materiali della tradizione di Gesù, da un punto di vista cronologico e geo­ filic o , rimane alquanto difficile. Tutto questo rende ancora più urgente a necessità di verificare l ’attendibilità storica delle fonti: ma in che modo P°ssiamo farlo?

criteri di autenticità * ricerca storica su Gesù ha elaborato, e progressivamente affinato, nn ampia serie di criteri di “autenticità”, che sono in grado di aiutarci ^11;a disamina delle diverse testimonianze. M a è evidente che parlare

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di criteri di autenticità non avrebbe alcun senso senza un chiarimen. to preliminare su ciò che possiamo definire, in termini epistemologi^ come “autentico”. Sappiamo che Gesù non ci ha lasciato nulla di scrittoin assenza di documenti autografi, pertanto, è assolutamente necessario interrogarsi sul grado di certezza cui si può pervenire in sede storica. Com e possiamo valutare, per esempio, l’autenticità di materiali che ci sono giunti quasi interamente in lingua greca, ma che pretendono di trasmettere gli insegnamenti di un uomo che parlava aramaico? Io questo caso, l ’autenticità dovrà essere considerata da un punto di vista semantico, più che da un punto di vista strettamente verbale. Ciò che i testi ci trasmettono non è la voce di Gesù, ma una voce di Gesù, me­ diata da testimoni e ricomposta sempre in forma letteraria. “Autentico” in questo senso, non è ciò che siamo in grado di ricostruire del dettato originario di Gesù, ma ciò che più si avvicina alla sostanza e alle inten­ zioni delle sue parole e dei suoi gesti10. Gli studiosi, nel loro sforzo di risalire agli strati più antichi della tra­ dizione su Gesù, si avvalgono generalmente di quattro criteri principali, cui se ne aggiungono due secondari. Nessuno di essi può essere applicato in maniera autonoma: è solo il loro impiego congiunto a garantire della possibile autenticità di un dato tradizionale11. i. Il primo criterio è quello àc\Y attestazione molteplice delle fonti-, si considerano come autentici tutti quei detti o quei fatti che troviamo attribuiti a Gesù in almeno due fonti diverse, purché indipendenti tra loro; per esempio, possiamo considerare autentico un episodio attestato in maniera indipendente dalle lettere di Paolo e dal vangelo di Marco, o dai vangeli di Matteo e Giovanni, o dal vangelo di Luca e da quello di Tommaso. z. Il secondo criterio è quello AeYYimbarazzo (da parte della Chiesa pri­ mitiva)-. seguendo questo criterio, si considerano autentiche le parole o le azioni di Gesù che sono state trasmesse dalle fonti nonostante l’ imbarazzo e le difficoltà che avrebbero potuto creare. Il battesimo di Gesù (Mt 3,13' 17), per esempio, colloca il nazareno in una posizione subordinata rispetto al Battista, e possiamo supporre che il suo ricordo abbia creato un certo disagio tra i primi cristiani, specialmente nelle situazioni di conflitto e O' valità con i gruppi battisti; ma possiamo citare tra i dati “imbarazzano anche quello relativo all’attesa, da parte di Gesù, di un arrivo imminente del regno (Me 9,1) che non trovò realizzazione mentre i suoi primi disce' poli erano ancora in vita.

GESÙ DI N A ZA R ET: L A V IT A E LE OPERE

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U terzo criterio si riferisce all’originalità o alla dissom iglianza, per ^uj si considera autentico ogni dato tradizionale che non si presenti c0me una semplice rielaborazione di motivi preesistenti nel giudaismo a l l ’epoca, oppure come effetto di una rilettura cristiana posteriore11. Applicando il criterio alla lettera, si potrebbero scartare come inautentjci i tanti richiami di Gesù all’autorità delle Scritture (prassi comune aj movimento farisaico e ad altri gruppi giudaici dell’epoca), come pure j diversi insegnamenti relativi all’organizzazione interna delle comunità (che potrebbero dipendere, infatti, dalle esigenze avvertite dai grup­ pi cristiani successivi). Tutt 'altro discorso si può fare per il graffiarne enunciato di Gesù: «Lascia che i morti seppelliscano i loro m orti» (Le 9,60); dato che il detto risulta praticamente privo di paralleli nel mondo antico (nonostante una certa prossimità con alcune posizioni espresse dai filosofi cinici), questo gioca indubbiamente a favore della sua autenticità. 4. L ’ultimo criterio si riferisce alla plausibilità storica, ma la sua applica­ zione corretta non può essere ottenuta senza un’adeguata interazione coi precedenti. Bisogna considerare, da un lato, ciò che risulta plausibile nel contesto giudaico palestinese del I secolo (plausibilità “a monte’’) e dall’al­ tro ciò che è in grado di spiegare gli sviluppi di una determinata tradi­ zione nel periodo post-pasquale (plausibilità “a valle”). Nel primo caso, si conserverà come autentica la posizione critica di Gesù nei confronti delle leggi di purità (Me 7): il dibattito su questo tema, all’epoca, era ancora apertissimo. Nel secondo caso, l’attività di Gesù come guaritore non potrà che essere confermata dalla diffusione di una prassi analoga negli ambienti ‘lei primo cristianesimo. A questi quattro criteri principali, come si è detto, se ne aggiungono due secondari: 5- Il criterio d i coerenza parte dal presupposto per cui Gesù non può ®yer agito in maniera completamente assurda o contraddittoria: dob>amo sforzarci di rintracciare una logica il più possibile coerente dietr° alle sue parole c alle sue azioni, cosi come all’ interno dei suoi di­ versi. ^ Il criterio d i spiegazione necessaria, infine, parte dalla constatazione per la condanna a morte di Gesù non può essere avvenuta per caso: dobllm° presumere che qualche elemento della predicazione di Gesù o del Su° modo di agire abbia scatenato una grave situazione di conflitto con le 1Ut°rità politiche e religi ose del tempo.

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Nascita e morte di Gesù: il problema della cronologia È diffìcile determinare con esattezza la data di nascita di Gesù. Le nostre uniche informazioni, al riguardo, provengono dai vangeli canonici, i quali ci offrono, tuttavia, due punti di riferimento assolutamente incomponibili da un punto di vista cronologico: da una parte abbiamo il regno di Erode (Mt i,i), e dall’altra la notizia di un censimento indetto da Quirino, gover­ natore della Siria (Le 1,1-z). Ma Erode il Grande morì nel 4 a.C., mentre Quirino, in qualità di legatus Augusti prò praetore, non potè procedere a un censimento della Giudea prima del 6 d.C., anno della deposizione di Archelao1’. È possibile che Luca abbia confuso due periodi molto vicini tra loro, contrassegnati entrambi da uno stato di forte agitazione messianica, dovuta appunto alla scomparsa di Erode e alla rimozione di Archelao. Un altro punto di riferimento cronologico è offerto ancora da Luca, che colloca la vocazione profetica di Giovanni Battista nel «quindicesimo anno del regno di Tiberio» (Le 3,1). Gesù, stando all’evangelista, avrebbe avuto «circa 30 anni quando cominciò (a predicare) » (Le 3,13), e l ’inizio della sua attività pubblica risalirebbe a dopo il suo incontro col Battista. Questo dato non può essere accettato senza riserve14, ma ci permette di stabilire che la nascita di Gesù avvenne prim a dell’inizio dell’era cristiana. Il fatto che la tradizione abbia sempre collegato la nascita di Gesù con il ricordo di Erode il Grande ci porta a privilegiare gli ultimi anni di regno di quest’ultimo, immaginando cosi una data compresa tra il 7 e il 4 a.C. (una maggiore precisione non è possibile). I calcoli effettuati nel v i secolo da Dionigi il Piccolo, che facevano coincidere la nascita di Gesù con l’anno L non possono che essere considerati come erronei1’. Il luogo di nascita che i vangeli attribuiscono a Gesù è Betlemme, 1» «città di Davide» (Le 1,11). È possibile che questa localizzazione sia stata ispirata dal ricordo di un oracolo del profeta Michea, che aveva indicato proprio in Betlemme il futuro luogo di nascita del messia figlio di Davide (cff. M i 5,1, citato in M t 1,5). Se così fosse, il figlio di Giuseppe sarebbe nato a Nazaret, dove la tradizione colloca la sua infanzia. Ma non è affari0 certo che la scelta di Betlemme debba essere interpretata come un puf0 espediente teologico; lo storico Eusebio di Cesarea, nel IV secolo, parla dj alcuni familiari (nipoti) di Gesù che furono obbligati a presentarsi davan0 all’imperatore Domiziano con l ’accusa di appartenere alla «stirpe di Da'

GESù

DI N A ZA R ET: LA V ITA E LE OPERE

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viJe>>lé* L ’affiliazione della famiglia di Gesù alla discendenza davidica po­ trebbe quindi riflettere un dato autentico, che la tradizione (in particolare ^latteo) avrebbe interpretato teologicamente a partire da M i 5,1. Se i vangeli concordano nel collocare il supplizio di Gesù a Gerusa­ lemme, in un periodo attorno alla Pasqua, la loro testimonianza sul gior­ no della morte non risulta unanime. Marco (15,41) parla di un venerdì ^ cui si sarebbe celebrata la Pasqua, solennità che la tradizione fissava al giorno 15 del mese ebraico di Nisan. Giovanni (19,14) opta invece per il pomeriggio del 14 Nisan, perciò alla vigilia della Pasqua. La cronologia di Giovanni appare più verosimile: è difficile pensare che la condanna a morte di Gesù, ma soprattutto la sua esecuzione, abbiano avuto luogo in un giorno di festa solenne. Su queste basi, i calcoli astronomici ci permet­ tono di considerare almeno due date come possibili: sappiamo infatti che il 14 Nisan cadde di venerdì il 7 aprile dell’anno 30 e il 3 aprile dell’anno 33. Considerando che l’inizio della vita pubblica di Gesù avvenne attorno ai trent’anni (Le 3,13), c aggiungendo al computo i due o tre anni di predi­ cazione17, la data del 7 aprile del 30 si rivela più plausibile.

La situazione sociale e religiosa della Palestina nel I secolo L’occupazione romana della Palestina risale all’intervento militare di Pompeo (63 a.C.)18. A partire da questa data, la storia della Palestina ap­ pare legata a doppio filo, direttamente o indirettamente, con le vicende di Roma. Pompeo mise fine al dominio della dinastia ebraica degli Asmonei, la cui rivolta, capitanata da Giuda Maccabeo (166-160 a.C.), aveva con­ dotto all’espulsione del re seleucidc Antioco IV Epifane. Per assicurarsi un pieno controllo sul territorio, Roma affidò il governo dell intera Palestina a Erode il Grande, che era riuscito a ottenere a suo ‘ernpo le giuste entrature presso la corte romana durante il conflitto tra arco Antonio e Ottaviano. Pur dotato di piena autonomia nella gestio­ ne interna del regno, Erode doveva totale fedeltà alle autorità romane. Nel a-C. ottenne il titolo di “re di Giudea”, a condizione di assoggettare ^ilarm ente 1’ area, cosa che gli riuscì tre anni dopo, nel 37, con la presa di a ^rusalemme e la deposizione di Antigono. Il suo regno durerà fino al 4 ' un tempo non breve, contrassegnato da una relativa prosperità e da

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progetti architettonici di un certo rilievo (il porto di Cesarea, il Tempio tutti maschi, tutti originari della Galilea, i cui nomi variano un po’ ne^e fonti, ma includono sempre Pietro e Andrea (una coppia di fratelli), G i*c° mo e Giovanni (un’altra coppia di fratelli), e Giuda71. Nel secondo cerch1®

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gli altri discepoli, assieme alle donne che seguivano Gesù: Maria Ji Giovanna moglie di Cuza (indicato dalle fonti come amminijtratore di Erode), Susanna, Salome (cfr. Le 8,1-3; Me 15,40-41), Nel cerchio lù esterno, infine, rientrano i simpatizzanti e gli ammiratori, da Giuseppe j; y V r i m a t e a a Nicodemo, fino alle sorelle Marta c Maria di Befania. [r0 v i a m o

Quest'ampio spettro di persone è all’opposto di ciò che potremmo defi­ nire come una “setta”. A differenza del maestro di giustizia, fondatore della comunità di Qumran, Gesù non dà vita a un circolo ristretto di seguaci, e non sceglie neppure di ritirarsi nel deserto per preservare la purezza del pro­ prio gruppo. La composizione dei dodici conferma questa scelta di costituire un gruppo aperto: vi troviamo l'esattore delle tasse, lo zelota, personaggi con nomi greci e con nomi ebraici (cfr. Me 3,16-19). Tutti, o quasi tutti, provengo­ no da quel “popolo della terra” che si trova relegato ai confini della legge. Que­ sta composizione fondamentalmente anti-elitaria è tanto più sorprendente se pensiamo che il numero dodici, scelto come chiaro rimando alle dodici tribù d’Israele, presta il fianco all’idea di una ricostituzione simbolica dell’intero popolo di Dio (Le 11,30): il cerchio dei dodici prefigura l’Israele escatologico, la famiglia di Dio. Per radunare questi individui nel suo regno, il Dio di Gesù non procede in maniera selettiva, attraverso una serie di graduatorie: si limita ad accogliere quanti si riconoscono nell’esigenza del suo perdono. La strategia di Gesù si presenta cosi come un rovesciamento di quella dei farisei, di un Giovanni Battista o dei vari profeti della restaurazione di Israele. Questi ultimi procedono per esclusione, per selezione, con l’obiet­ tivo di costituire il “puro” Israele. Gesù, al contrario, adotta un atteggia­ mento di integrazione. Non fonda una setta di nazareni, un resto di Isra­ ele- o una sinagoga separata dalle altre, che si appresti magari a diventare la Chiesa”. La sua ambizione suprema è quella di procedere a una riforma delle fede ebraica che rompa con tutti gli estremismi che alimentavano la speranza in un regno terreno di Dio. Il gruppo dei dodici simboleggia e P°tta a compimento una salvezza da cui nessuno è escluso a priori. Ad eccezione di un paio di incursioni nei territori limitrofi, che le fonti evangeliche metteranno scrupolosamente in evidenza7’, Gesù non lascia rila>la terra di Israele. Il suo messaggio e la sua azione si rivolgono esclusi­ vamente al popolo di Abramo. Sconfinare da questo spazio limitato sarà compito che si porranno i primi cristiani, e il motore di questa svolta si troverà nelle missioni propagate dai credenti di Antiochia. Questo, però, J't’n significa che la teologia del Dio universale, che i seguaci di Gesù sviuPpcranno in seguito74, non trovi le sue premesse ideali nel Dio di Gesù.

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LE ORIGINI DEL C R IS T IA N E S lj^

Il Dio di Gesù Qual è l’immagine di D io che scaturisce dal messaggio di Gesù? È innan zitutto quella di un Dio che ama in maniera incondizionata, e la cui bontà non privilegia nessuno a scapito di un altro. D i più: quello di Gesù è un D io la cui benevolenza precede qualunque iniziativa da parte delTuomo. £ proprio qui che risiede il punto di scontro con i farisei: mentre la teologi farisaica fa della conversione il presupposto necessario per la reintegrazio. ne del peccatore, Gesù vi antepone l’idea di una grazia divina che agiscc senza porre condizioni75. Diverse parabole mettono in scena questa priorità dell’azione di Dio rispetto alla reazione del fedele: pensiamo alle parabole del banchetto nu­ ziale (Mt iz.i-io ; Le 14,16-14), del servitore spietato (Mt 18,13-35) e del fico sterile (Le 13,6-9), o a quelle del tesoro nel campo e della perla (Mt 13,44-46). Questi racconti dimostrano come per Gesù sia la grazia a mani­ festarsi per prima, invitando all’azione. Il Dio di Gesù è un Dio dall’amo­ re incondizionato: è questa convinzione a guidare Gesù nella sua pratica della commensalità aperta, nel suo invito a chiamare Dio con il nome fa­ miliare aramaico di abba, cioè “papà” (Me 14,36), o nella sua esortazione all’amore illimitato verso il prossimo (Mt 5,43-48).

La crisi e la croce Dopo due o tre anni di attività in Galilea, Gesù decide di salire a Gerusa­ lemme. Avvicinandosi al termine di quest’ultimo periodo della sua vita, lo storico si imbatte in difficoltà sempre maggiori. La ricostruzione dei fat£1 si fa insidiosa, e i racconti si presentano spesso sovraccarichi di interpreta­ zioni dettate dalla fede.

Le ragioni della crisi La ricostruzione degli eventi che portarono alla morte di Gesù è costellata ài punti oscuri, in particolare per quanto riguarda l ’individuazione delle ver* ragioni della condanna e il ruolo giocato in questo frangente dagli ebrei. Un punto sul quale tutte le fonti concordano - siano esse giudaiche romane o cristiane - è che la pena venne inflitta dai romani (con scntef>zJ emessa da Pilato), mentre l ’iniziativa dell’arresto si dovette a un interv*n

5e S ù

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delle autorità giudaiche. Non c ’è alcun dubbio su questa ripartizione jelle responsabilità: se l ’esecuzione di Gesù va imputata agli occupanti, ja denuncia fu comunque di matrice ebraica7*. M a come si arrivò a tutto ueSco? Possiamo immaginare che il sinedrio, la corte suprema degli ebrei, ji sia riunito in maniera ufficiale? C ’è stato un processo in piena regola? £ d sinedrio aveva forse la competenza per una condanna di questo tipo? Quali accuse vennero mosse contro Gesù? L’idea di un processo eseguito di fronte al sinedrio, con la conseguen­ te condanna a morte di Gesù per la sua (auto)proclamazione messianica (Me 14,53-65), è in realtà il frutto di una ricostruzione cristiana. I primi cristiani si trovarono costretti a ricomporre una scena alla quale nessuno dei discepoli aveva potuto assistere ! Era una scena che trovava il suo vertice retorico nel dialogo tra Gesù e il sommo sacerdote Caifa: Di nuovo il sommo sacerdote lo interrogò: «Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedet­ to?». «Io lo sono - rispose Gesù - e vedrete il Figlio dell’uomo, seduto alla destra della Potenza, venire sulle nubi del cielo». Allora il sommo sacerdote, straccian­ dosi le vesti, esclamò: «Che bisogno abbiamo di altri testimoni? Avete inteso tut­ ti la bestemmia!» (M e 14 ,6 1-6 4 ).

Come avrebbe potuto l ’accusa suonare in questo modo? Per i primi cri­ stiani, era evidente che la controversia tra Chiesa e Sinagoga si giocasse tutta attorno alla messianicità di Gesù. M a dichiararsi messia, nel giudai­ smo del 1 secolo, non comportava affatto la pena capitale. La fede ebraica dimostrava al riguardo un’enorme tolleranza. Diversi falsi messia compar­ vero prima e dopo Gesù, ma a nessuno di essi venne mai mossa un’accusa d>blasfemia77. D ’altra parte, è anche piuttosto improbabile che Gesù si sia dichiarato come “il messia”. Il nazareno rifiutò sempre di farsi ingabbiare 111 un titolo: possiamo immaginare che negli ultimi istanti di vita abbia deciso di contravvenire a questa sua ferma determinazione? Avrebbe forse P°tuto accettare, in quella circostanza, un titolo rifiutato con forza in pre­ s e n z a ? La sua dichiarazione al sommo sacerdote corrisponde in tutto e Df*r 1 ^ r tutto a una confessione di fede cristiana78. Hrifiuto di Gesù, pertanto, non derivò dal fatto che si presentasse come j^cssia, ma da accuse molto più sostanziali, e soprattutto più vitali per la j ®,Ca interna del giudaismo. Furono queste accuse a determinare la conanna unanime del sinedrio. Sappiamo che Anano venne deposto dalla caa ni sommo sacerdote per aver condannato a morte Giacomo, il fratello

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del Signore, senza il pieno consenso del Consiglio: questo accadeva nel 61 Caifa, invece, rimase in carica per diciannove anni, dal 18 al 36, proprio in virtù della sua notevole abilità diplomatica: non possiamo imputargli un errore strategico di questo tenore. Le uniche accuse che il sinedrio avrebbe potuto far convergere su Gesù riguardavano da un lato il suo atteggiamento nei confronti del Tempio, e dall’altro le sue posizioni sulla legge. £ possiamo notare come siano prò. prio queste due accuse a riaffiorare nel processo ai danni di Stefano, il p^. mo martire cristiano, di cui gli A tti forniranno un racconto della morte chiaramente ispirato agli eventi della passione di Gesù (cfr. A t 6,13)751. Prim o capo d ’accusa: il Tempio Fu il celebre gesto di Gesù nel Tempio, quando rovesciò i tavoli dei cam­ biavalute e dei venditori di animali, a innescare la reazione negativa dei sommi sacerdoti e degli scribi, conducendoli alla decisione di eliminarlo (Me 11,15-18). Attaccare il Tempio, simbolo della presenza di Dio e garan­ zia stessa della Sua presenza in Israele, equivaleva a un crimine irreparabile. Il Tempio era un emblema di unità nazionale, sul quale gli animi si scal­ davano molto facilmente. Attentare alla sua integrità significava attenta­ re all’ identità di Israele. D i questo abbiamo almeno una prova indiretta. Giuseppe Flavio, la cui testimonianza si rivela sempre preziosa per la no­ stra comprensione del contesto palestinese del I secolo, riporta nella sua Guerra giudaica il caso di Gesù ben Anania. Costui, quattro anni prima dello scoppio del conflitto con i romani (66-70), si sarebbe recato a Ge­ rusalemme per profetizzare il tracollo della città e del santuario. I magi­ strati giudei lo avrebbero allora consegnato al governatore romano, perché lo punisse: la somiglianza col trattamento riservato a Gesù è evidente. In questo caso, però, il governatore in carica Albino avrebbe giudicato il pr0' feta come un semplice pazzo, e lo avrebbe fatto rilasciare. M a Gesù non fu giudicato tale... segno che il suo operato doveva essere percepito come un» minaccia concreta. La notizia di Giuseppe ci permette anche di capire che se qualcuno bestemmiava contro il Tempio poteva essere consegnato a^e autorità romane per motivi politici; da parte ebraica, invece, la legge prC' vedeva che il falso profeta dovesse essere messo a morte (D t 18,10). Tutf° spinge a ritenere che il sinedrio, alla fine, abbia valutato il caso di G esU proprio sotto quest'ultima luce: «Alcuni si misero a sputargli addosso^ coprirgli il volto e a percuoterlo, e gli dicevano: “Indovina!” » (Me i 4 >b’ '

GESù

p i N A ZA R ET: LA V ITA E LE OPERE

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Secondo capo d ’accusa: la legge

Quest’accusa, stranamente, non compare nel racconto del processo, e $embra sostituita dall’imputazione di messianicità. Eppure, l’autorità che £ esù si arrogava nei confronti dei precetti non poteva essere del tutto ignorata. Al massimo, la si poteva tollerare: ma era chiaro a tutti che la sva­ lu tazione degli aspetti rituali della legge aveva condotto Gesù a frequenta­ te m i che rompevano i tabù e che rappresentavano un’autentica minaccia per la stabilità dell’ordine sociale. Qualche scaramuccia con gli scribi sulla questione del sabato, anche se il comune consenso stava dalla loro parte, non poteva comunque risultare decisiva; il disaccordo tra i maestri su pro­ blematiche legali, come abbiamo visto, era all’ordine del giorno. Ma Gesù aveva infranto le regole stesse del gioco. Con il suo « È stato detto... M a io vi dico...» aveva sfidato l’autorità di Mosè, oltrepassando ogni limite di tollerabilità. Radicalizzando il primato dell’amore, e scavalcando i limiti della legge in nome del regno, Gesù rischiava di far esplodere tutto il de­ licato sistema di precetti che si reggeva sul dibattito interno tra i maestri. Non si può barattare impunemente il sapere accumulato nei secoli da inte­ re generazioni di rabbi con la testimonianza, per quanto imperiosa e scon­ volgente, dell’amore. Questo era un colpo al cuore dell’identità ebraica80. La decisione di togliere di mezzo il profeta di Nazaret si appoggiò per­ tanto su elementi altri rispetto alla sua pretesa messianicità: mettendo in discussione il Tempio c la legge, Gesù stava attaccando, per così dire, i due luoghi sacri della fede ebraica. La possibilità di un successo popolare per la sua predicazione dovette apparire intollerabile all’élite sadducea. Se lo scan­ dalo dei mercanti scacciati dal Tempio avvenne davvero al principio dei set­ te giorni trascorsi a Gerusalemme, l’incidente non poteva che innescare la m'ccia e condurre al parossismo la tensione con le autorità. Ma se la condan­ na era così prevedibile, che cosa dobbiamo pensare di Gesù? Era forse con­ sapevole di quanto gli sarebbe successo ? E ne parlò mai ai suoi discepoli ?

^ na fine presagita? ^ P°che parole: Gesù presagì la sua morte ? Il lettore che abbia una qual­ e familiarità con il testo dei vangeli conosce bene il peso di certe dichiaari°ni messe in bocca al maestro: « E cominciò a insegnare loro ch’era ^ecessario che il Figlio dell’uomo soffrisse molto e fosse riprovato dagli 2lani, dai capi dei sacerdoti c dagli scribi, per poi essere ucciso e, dopo tre

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giorni, risorgere» (Me 8,31; cff. anche 9,31; 10,33-34). Dichiarazioni com queste, purtroppo, dipendono in maniera fin troppo evidente dalla fetù ria ecclesiastica 11,1,2 e 111,5,2). Per quanto riguarda, invece, il momcnt° ’

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j u£ passi collocano l’investitura di Giacomo dopo l ’ascensione (Clemen[C alessandrino, fr. 1; Storia ecclesiastica 111,5,1); un passo la colloca nel erio d o tra la risurrezione e l’ascensione (Clemente Alessandrino, fr. 2, j oVe però non si parla di una vera e propria investitura, ma piuttosto della trasmissione della gnosi); altri passi non specificano il momento (Storia (CClesiastica 11,1,2, dove però il contesto sembra far pensare a dopo il mar­ tirio di Stefano; 111,23,1; v ii,19,1). La varietà dei modi in cui l ’investitura di Giacomo alla guida della Chiesa di Gerusalemme è descritta in questi passi fa pensare a rimaneggiamenti della tradizione, operati da Eusebio o dalle sue fonti, nel tentativo di contrastare i gruppi gnostici che si richia­ m avano a Giacomo in funzione antiapostolica e/o i gruppi che stanno sullo sfondo delle Pseudoclementine. Se si ritiene verosimile che questo at­ teggiamento polemico abbia potuto determinare l’ introduzione della me­ diazione apostolica nelle tradizioni relative all’investitura di Giacomo” , allora ne consegue che Eusebio e le sue fonti non dovevano conoscere alcuna tradizione secondo la quale il risorto avrebbe autorizzato alla sua successione altri che Giacomo. Il dibattito sulla “vera”fam iglia d i Gesù

Da queste testimonianze appare chiaro che, dei familiari di Gesù, almeno Giacomo partecipò in qualche modo alla sua vita pubblica, aggregandosi alla cerchia più stretta dei suoi seguaci; lo segui a Gerusalemme nella setti­ mana cruciale della passione e, dopo la sua morte, fu destinatario di un’ap­ parizione. Alla luce di queste informazioni, la notizia di Luca, che vede Maria, la madre di Gesù e i suoi fratelli, uniti ai dodici a Gerusalemme dopo l’ascensione e con loro partecipi dell’effusione dello spirito a Pentec°ste non appare più così sorprendente. È difficile valutare nel dettaglio 1attendibilità di queste informazioni, cosi diverse dal quadro che emerge dai vangeli e, in parte, anche dagli A tti. Si può, comunque, supporre che, n°nostante le tensioni che normalmente si vengono a creare tra chi, come p esù, aveva scelto uno stile di vita radicale, che precisamente prevedeva a rottura dei normali legami familiari e il sovvertimento dei rapporti so­ dali abituali in funzione di una causa cui dedicarsi incondizionatamente, c famiglia di provenienza, alcuni dei familiari di Gesù avessero quanto Illeno mantenuto i contatti con lui e la cerchia più stretta dei suoi seguaci, Senza tuttavia aggregatisi in modo indifferenziato, ma piuttosto mantcneudo una fortc coscienza della peculiarità del proprio rapporto di san­

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gue con il capo carismatico. In questo modo, e tenendo conto dellenor^ importanza che rivestono i legami di sangue all’interno delle società dcj mondo antico, si capisce come, alla sua morte, abbiano potuto avanzare la pretesa di rappresentare i veri credi e continuatori della sua causa. Ma Gia. corno non fu l ’unico dei familiari di Gesù a esercitare un ruolo di gui(ja nella primitiva comunità di Gerusalemme. Secondo la testimonianza Eusebio, che riporta una notizia di Egesippo (Storia ecclesiastica dopo la sua morte, avvenuta nel 61, sarebbe stato eletto vescovo di Geru­ salemme un cugino di Gesù, di nome Simeone; Giuda, un altro fratello di Gesù, è autore dell’epistola che, sotto il suo nome, è entrata a far parte del Nuovo Testamento; sempre secondo Egesippo, citato da Eusebio (Sto­ ria ecclesiastica 111,19-10,6), ancora sotto Domiziano (81-96) dei nipoti di Giuda erano alla guida di chiese in quanto parenti di Gesù. Questa specie di “califfato”36, come è stato chiamato da alcuni, che si era istituito nella comunità di Gerusalemme, evidentemente, non fu da tutti accettato di buon grado c diede origine a diverse contestazioni. Un episodio raccontato da Marco (Me 3,10-11.31-35), in cui i familia­

ri di Gesù cercano di riportarlo alla ragione, illustra bene questa tensio­ ne. L ’evangelista costruisce il suo racconto, includendo al suo interno un dibattito con gli scribi sull’origine del potere taumaturgico di Gesù (Me 3,11-17 ), che si conclude con una parola severa di condanna per quanti bestemmiano contro lo spirito santo (Me 3,18-19). I familiari di Gesù sono introdotti al versetto 1 1 come convinti che egli sia in preda alla follia. Nel contesto culturale in cui operava Gesù, la follia era assimilata alla posses­ sione diabolica. In questo modo, i familiari di Gesù, così come gli scribi che l’accusano di essere posseduto da Beelzebul, cadono sotto la maledi­ zione pronunciata ai versetti 19-30: per loro non c ’è perdono, perché han­ no bestemmiato contro lo spirito santo. La reazione di Gesù (31-35)1 c^e arriva a negare qualsiasi valore ai legami di sangue e ai vincoli di parentela come criterio di appartenenza alla sua “vera” famiglia, in nome di un crite­ rio superiore, quello del fare la volontà di Dio, illustra bene i termini della questione. Dietro a questo racconto, letterariamente cosi ben costruito, s* cela una competizione molto aspra tra due gruppi, in cerca di legittimano' ne della loro autorità all’interno del movimento di Gesù: da un lato, i su01 compagni più stretti, che lo hanno seguito nel suo radicalismo itinerante, condividendone il destino di emarginazione; dall’altro, i suoi famili*0, che pur non essendo stati al suo seguito durante il suo ministero pubbli6® (Me 3,31 sottolinea che i parenti di Gesù stanno “fuori”), pretendono

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eS£rcitarc un’autorità all’interno del suo movimento dopo che lui è mor-

eredi di Gesù sono i primi, non i secondi’8. Un altro esempio di questa competizione si può trovare nel dibattito julla discendenza davidica di Gesù. Diverse tradizioni segnalano o pre­ s u p p o n i? 0 1 1 0 la discendenza davidica di Gesù: la menzione della “stirpe di pavid” in un’antica confessione di fede, riportata da Paolo in Rm 1,3-4; je “genealogie” di Gesù di M t 1,1-17 c Le 3,13-38; la localizzazione a Bet­ lemme, città di David, della nascita di Gesù (Mt 1,1-18; Le 1-1; G v 7,41); le acclamazioni di Gesù come “figlio di David” (Me 10,47-48; M t 9,17; 15,11; 10,30-31; 11,9-15; Le 18,38-39). È verosimile pensare che tali tradizio­ ni si siano formate e affermate in ambienti vicini a Giacomo e ai familiari di Gesù. Infatti, l’esistenza di un legame di discendenza tra l’antico re di Israele e Gesù, oltre che legittimare la pretesa messianica di quest’ultimo, rafforzava anche l ’autorità di Giacomo che, in virtù dei legami di parentela con Gesù, poteva rivendicare anche per se stesso il prestigio derivante da un antenato cosi illustre. Ora, un aneddoto riportato dai sinottici dimo­ stra come anche la discendenza davidica di Gesù fosse da alcuni messa in discussione (Me 11,35-37; M t 11,4 1-4 6 ; Le 10,41-44): è Gesù stesso, infat­ ti, che, facendo riferimento a Sai 110,1, contesta che il messia possa essere figlio di David. p I veri

La comunità di Gerusalemme Sulla situazione della comunità di Gerusalemme retta da Giacomo sappia­ ne piuttosto poco. La rappresentazione lucana della vita di tale comunità che leggiamo nelle “sintesi” o “sommari” dei primi capitoli degli A tti (la fe­ deltà alla predicazione degli apostoli; l’intensa vita comunitaria; la comu­ nanza dei beni; la pietà profonda, che si realizza nell’assidua frequentazio­ ne del Tempio) è, in buona parte, una ricostruzione idealizzata c per certi versi anacronistica, in quanto sembra riflettere le esperienze dell’autore, c^e scrive qualche decennio più tardi c mostra di avere familiarità piuttost° c°n la situazione delle comunità di tipo paolino. Alcuni tratti, tutta* Vla>possono essere ricostruiti con una certa verosimiglianza, soprattutto 5I' 53)‘ Nella prospettiva degli ellenisti, la legge mosaica non perde jl suo valore; piuttosto, tende a essere radicalizzata nelle sue esigenze eti­ che, sulla scia dell’insegnamento e dell’autorità di Gesù (cfr. Me 1,15-18; 7 1 - Z 3 ) 46. Per una formulazione più compiuta, in questa stessa prospettiva, del discorso critico sulla legge come istanza di salvezza bisognerà aspetta­ re Paolo. È facile capire perché questa nuova interpretazione della morte redentrice di Gesù, con le critiche alle due principali istituzioni giudaiche, il Tempio e la legge, che essa comportava, potesse essere considerata bla­ sfema e suscitare reazioni anche violente negli ambienti giudaici. Tensio­ ni e contrasti non meno violenti, tuttavia, essa dovette provocare anche all’interno del movimento di Gesù, soprattutto nel gruppo di Giacomo, che, invece, rimaneva saldamente legato alla fedeltà alla legge e al culto del Tempio, considerati come istanze salvifiche pienamente efficaci. Dal pun­ to di vista di Giacomo e dei suoi, se si riconosceva una funzione salvifica al personaggio di Gesù, questa non poteva che essere complementare, e non sostitutiva, di quella del Tempio e della legge. Luca presenta l’episodio della lapidazione di Stefano, cui fa presenzia­ re, in atteggiamento di approvazione, Saulo (At 8,1), come un sintomo di una tensione più grande, nel contesto della città di Gerusalemme, tra alcuni membri del movimento di Gesù, gli ellenisti, e le autorità giudai­ che; tensione che sfocia, sempre secondo la rappresentazione lucana, in una vera e propria persecuzione (diogmós), con la conseguente fuga dalla città e dispersione del gruppo degli ellenisti47. Nella prospettiva degli A tti degli apostoli, questo episodio rappresenta una svolta capitale: l’annuncio del vangelo di Gesù lascia Gerusalemme per diffondersi fuori della terra di Israele, prima ai samaritani (At 8,5-40: attività dell’apostolo Filippo) e Poi anche alle genti (tà éthné, cfr. At io: Pietro nella casa del centurione Cornelio, attraverso una visione e l ’intervento dello spirito, legittima il battesimo ai pagani). Dietro alla trama del racconto lucano, ovviamente piegato alle esigenze di un preciso progetto teologico, lo storico può, co­ munque, registrare alcuni dati importanti. Il gruppo originario dei prediCacori c missionari itineranti, rappresentato in particolare dal gruppo dei dodici, progressivamente esaurisce la propria attività. I grandi protagonisti della prima ora, però, non scompariranno dalla scena; a poco a poco di­ t t e r a n n o personaggi leggendari ed entreranno a far parte del mito fon­ datore delle origini. Ma lo slancio missionario non si esaurisce; subentrano ellenisti, con la loro particolare sensibilità e le loro idee nuove: l’an­

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nuncio del vangelo si diffonde anche fuori dalla terra di Israele e si rivolge anche ai non ebrei. La missione degli ellenisti raggiunge rapidamente le città della diasp0. ra. Sappiamo dal racconto di Luca che una base importante di questa mis. sionc si costituì ad Antiochia (At 11,19-16). Capoluogo della provincia di Siria e Cilicia, la città era un importante centro economico e commerciale oltre che amministrativo e militare, dell’impero romano. La sua popo. lazione, piuttosto numerosa (si trattava della terza città dell’impero per dimensioni, dopo Roma e Alessandria), comprendeva, oltre ai locali, una folta comunità giudaica. Per la prima volta il movimento di Gesù veniva a contatto con una città cosmopolita, dove gli ebrei rappresentavano una minoranza. Diversamente da quanto poteva accadere in una città come Gerusalemme, i rapporti degli ebrei con le altre componenti etniche della città dovevano essere molto fìtti; sappiamo infatti che, intorno alle nu­ merose sinagoghe, si muoveva una folta schiera di simpatizzanti, che, pur senza aderire in modo pieno al giudaismo e alle sue osservanze, tuttavia ne era attratta per la sua concezione monoteistica della divinità, per i suoi ideali etici, per la rinomata efficacia di certe sue pratiche religiose48. Che, in un contesto come questo, l’annuncio degli ellenisti si potesse rivolgere anche ai pagani (At 11,19-20) non stupisce48. Certo, il semplice concor­ so di circostanze esteriori favorevoli non basterebbe a spiegare ima svolta cosi importante nello sviluppo dell’annuncio missionario del vangelo; ma la nuova interpretazione in senso salvifico della morte di Gesù, elaborata dagli ellenisti, forniva a questa svolta il fondamento e la legittimazione necessari. Il tema della salvezza delle nazioni aveva un suo spazio, all’inter­ no della tradizione giudaica, precisamente nel contesto degli eventi degli ultimi tempi (cfr., per esempio, il motivo del pellegrinaggio escatologico delle genti al monte Sion, caro alla tradizione profetica: Is 1,1-5; 56,6-8; 60,11-14). Su questo sfondo, l’efficacia salvifica della morte di Gesù, intesa come evento unico c irripetibile, che opera la remissione dei peccati, non poteva, nella prospettiva degli ellenisti, essere ristretta all’ambito del popolo ebraico; nella morte redentrice di Gesù si era realizzata la riconci­ liazione escatologica di tutti gli uomini con Dio. Una figura importante della comunità di Antiochia fu Barnaba, un personaggio che Luca aveva già introdotto parlando della primitiva co­ munità di Gerusalemme (At 4,36-37). Fu lui a portare Paolo ad Antiochi* (At 11,15), dandogli modo di condividere la nuova avventura dell’annun­ cio ai pagani, intrapresa da quella comunità. La nuova situazione venuta51

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creare in seguito alla missione degli ellenisti comportò anche nuovi pro­ blemi* Non mancarono i motivi di attrito con altri gruppi all’interno del movimento di Gesù, soprattutto con il gruppo di Giacomo, con il quale la tensione era già acuta a motivo delle diverse interpretazioni del ruolo sal­ vifico d i Gesù in rapporto a quello della legge e del Tempio. La prassi della comunità antiochena era quella di accogliere, attraverso il battesimo, nel gru p p o dei seguaci di Gesù i pagani senza imporre loro di diventare prima giudei, in pratica senza richiedere loro di farsi circoncidere. L ’accoglien­ za di pagani incirconcisi tra i seguaci di Gesù, che fino a quel momento erano praticamente tutti ebrei e continuavano, in forme e gradi diversi, m algrad o le tensioni e i conflitti, a riconoscersi nella tradizione religiosa del giudaismo, doveva porre non pochi problemi di convivenza, poiché l ’ebreo osservante, per ragioni di purità rituale, era tenuto ad adottare par­ ticolari accorgimenti di tipo limitativo nella sua vita di relazione con i non ebrei. A ll’interno della comunità di Antiochia, questi problemi furono risolti alla buona, senza che fosse necessario ricorrere a direttive ufficiali e a formali prese di posizione. Con il tempo, però, il conflitto si acuì e per ri­ solvere le difficoltà fu necessaria una formale discussione del problema tra rappresentanti della comunità di Antiochia e quelli della comunità madre di Gerusalemme.

II concilio di Gerusalemme Negli A tti degli apostoli, il racconto della missione degli ellenisti c della fondazione della Chiesa di Antiochia è seguito dal racconto di nuove mi­ sure repressive opposte ai seguaci di Gesù della comunità di Gerusalem­ me; questa volta, tali misure coinvolgono non più il gruppo degli ellenisti, bensì quello degli “apostoli” e in particolare Giacomo di Zebedeo e Pietro, che affiancavano Giacomo, fratello del Signore, nella guida della comun‘ta. Nel 4 1 Erode Agrippa I, re di Giudea e Samaria, fa mettere a morte Giacomo di Zebedeo (At i i , i - i ) e poi arrestare Pietro. Benché non siano esplicitate le motivazioni di questi due atti, è chiaro che essi indicano un acuirsi della tensione e del conflitto tra il gruppo dei seguaci di Gesù e altri gruppi giudaici a Gerusalemme. Pietro riesce a sfuggire alla detenzione c lascia la città per recarsi in una località non meglio definita (At 12,17); Comparirà, insieme a Giacomo, fratello del Signore, proprio in occasione

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del cosiddetto concilio di Gerusalemme, per discutere con i delegati anti0. cheni lo spinoso problema della circoncisione dei convertiti provenienti dalla gentilità. Una proposta verosimile di ricostruzione degli avvenimenti presuppone che A t 15 si riferisca a due fatti distinti: Tesarne del quesito relativo alla circoncisione dei convertiti di origine gentile, sottoposto dagli inviati di Antiochia, da un lato, e la formulazione del cosiddetto decreto apostolico con le sue quattro clausole, dall’altro'0. Come si è detto, la controversia nacque ad Antiochia nella seconda metà degli anni quaranta. Lo spunto fu fornito dalla richiesta, avanza­ ta da alcuni, provenienti dalla Giudea, di sottoporre alla circoncisione i convertiti di origine gentile (At 15,1). La prassi missionaria della comunità antiochena era stata, fino ad allora, quella di accogliere i convertiti dalla gentilità senza imporre la circoncisione, e quindi Paolo e Barnaba, respon­ sabili della missione, si rifiutarono di dar corso alla richiesta. Siccome non si riuscì a dirimerc la controversia localmente, si decise di inviare una de­ legazione, con rappresentanti delle due parti, a Gerusalemme, per sotto­ porre il caso ai responsabili della Chiesa madre. Qui si giunse a un accordo di compromesso, che prevedeva, da un lato, il riconoscimento, da parte del gruppo dirigente della comunità di Gerusalemme, della legittimità della missione paolina alle genti senza T imposizione della circoncisione e, dall’altro, il riconoscimento, da parte di Paolo e di Barnaba, della legitti­ mità della missione pettina ai giudei con il mantenimento delle osservanze (cfr. Gal 1,9). Non si trattava, dunque, di una rigida ripartizione dei settori di intervento, nel senso che Paolo e Barnaba avrebbero avuto l’esclusiva della missione ai pagani e Giacomo, Pietro e Giovanni di quella ai giudei, ma piuttosto del riconoscimento dell’esistenza di due tipi di missione, con caratteristiche c modalità diverse’1. Per suggellare l ’accordo e in segno di rispetto, Paolo e Barnaba promisero di provvedere ai poveri della Chiesa madre con una raccolta di denaro nelle loro comunità (Gal 1,10). Il compromesso non tardò a rivelare la sua fragilità, perché le due parti ne avevano inteso in modo diverso le implicazioni. Paolo interpretò 1 ac­ cordo come un’approvazione senza riserve al suo “vangelo”, che egli r*te' neva di avere spiegato con chiarezza ai suoi interlocutori (Gal 1 , 1 ) , c c^e prevedeva non soltanto l’esonero dalla circoncisione per i convertiti dalla gentilità, ma la libertà dai vincoli della legge mosaica per tutti i credenti u1 Gesù, sia di origine gentile sia di origine giudaica. Giacomo e i suoi, invece» intesero le cose in modo ben diverso. Il problema sul quale si era discusso e deliberato a Gerusalemme era preciso e limitato: si trattava di stabilir6 se

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fosse necessario o no imporre la circoncisione ai convertiti di origine gen­ tile. Il problema dei rapporti tra i seguaci di Gesù delle due provenienze n0n era all’ordine del giorno c il consenso dato da Giacomo alla posizione jj paolo e Barnaba era strettamente circoscritto al tema in questione. La facilità con cui Giacomo e i suoi aderirono alle richieste di Paolo è facil­ mente comprensibile se la si colloca sullo sfondo dei dibattiti interni al giudaismo del tempo sul problema analogo dei proseliti, a proposito dei quali, per esempio, tra i rabbi si discuteva se essi dovessero necessariamen­ te essere sottoposti anche alla circoncisione oppure se fosse sufficiente, nel loro caso, il bagno purificatore51. Ma, per Giacomo e la comunità di Gerusalemme, diversamente che per Paolo, l ’obbligo, per ogni giudeo che avesse aderito alla fede in Gesù Cristo, di continuare a osservare i precetti della legge mosaica non era assolutamente messo in dubbio. Quello su cui si poteva discutere e trovare un compromesso erano le condizioni di in­ gresso dei convertiti dalla gentilità, non la fedeltà alle osservanze da parte dei giudei, che rimanevano tali anche dopo la conversione. Il cosiddetto incidente di Antiochia (Gal 1,11-21) illustra bene il malinteso che ci dovet­ te essere sull’interpretazione dell’accordo di Gerusalemme. Pietro, in un primo momento, aderì all’interpretazione di Paolo e, conseguentemente, non aveva difficoltà a dividere la mensa con i convertiti non circoncisi; ma quando giunsero da Gerusalemme i rappresentanti di Giacomo, fece marcia indietro e si allineò sulle posizioni di questi ultimi, trascinando con sé anche Barnaba. Paolo protestò inutilmente e proseguì da solo per il suo cammino. Il problema di fondo era venuto alla luce e le divergenze tra la posizione di Paolo e quella di Giacomo si rivelarono ben più profonde di quanto illusoriamente aveva lasciato pensare l ’accordo di Gerusalemme. Non si trattava più di una disputa sul modo di intendere la missione alle genti, ma di due diverse concezioni del modo di aderire al movimento di Gesù. Intanto, anche la Chiesa di Gerusalemme andava estendendo sempre di Plu la sua zona di influenza c aveva anch’essa incominciato, probabilmente c°n Pietro, una missione tra i non ebrei. In questo momento il problema P'u scottante non era più quello affrontato qualche tempo prima con Pa° 1° a Gerusalemme sulle condizioni di ingresso da imporre ai convertiti dalla gentilità, bensì quello dei rapporti tra cristiani di origine giudaica e cristiani di origine gentile nelle comunità miste. Per quanto riguarda il Primo problema, ci si attenne all’accordo stipulato con Paolo: la circonClsione non era necessaria per i convertiti dalla gentilità; per quanto ri­

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guarda il secondo, invece, si decise di richiedere ai convertiti dalla gentili^ l ’osservanza di alcune norme minime di purità, ricalcate su quelle impose nell’ Israele antico agli stranieri residenti igerym), che consentissero la con­ vivenza dei cristiani delle due provenienze nelle comunità miste. È questo il cosiddetto decreto apostolico, inviato ai cristiani di origine gentile dellc Chiese di Antiochia, Siria e Cilicia, da Giacomo e dalla Chiesa di Gerusa­ lemme, il quale comprende, come è noto, quattro richieste di astensione: dagli idolotiti (eidolotbytón; cfr. Lv 17,3-7), dal sangue (halmatos; cfr. Lv 17.10- 11), dal soffocato (pniktón; cfr. Lv 17,13-16), dallapom eia (cfr. Lv 18,6­ 13), che hanno tutte un parallelo in analoghe norme, vincolanti anche per igerym , elencate in Lv 17-18” . Le testimonianze dell’applicazione del decreto apostolico nell’ambito della missione del gruppo di Giacomo e Pietro ai pagani ci vengono so­ prattutto dalle Pseudoclementine (Homiltae 7,4,1; 7,8,1-1; 8,19,1; Recognitiones iv,3é,4)54. Le concezioni e le idee proprie di Giacomo e della co­ munità di Gerusalemme che emergono da questa ricostruzione dei fatti c dalle fonti che la documentano presentano alcuni tratti peculiari. 11 po­ polo dei credenti in Gesù Cristo presenta due componenti: una giudaica, che continua nell’osservanza dei precetti della legge mosaica, e una gentile, che invece ne è in parte esonerata. Ambedue le componenti mantengo­ no la loro identità, pur nella comunione della fede in Gesù Cristo e della convivenza fraterna. Il modello potrebbe essere ricercato nella concezione della salvezza escatologica dei popoli (non ebrei) attraverso la mediazio­ ne di Israele cosi come è espressa nei profeti (cfr. Is 1,1-5; 15,6-10; 56,6-8; 60.11- 14). Se la pratica della legge, ancorché in misura diversa, è un obbligo per ambedue le componenti, questo significa che a essa è riconosciuto un valore ai fini del conseguimento della salvezza. L ’opera salvifica di Gesù, quindi, non si sostituisce alla legge, ma è complementare a essa. Come si può facilmente constatare, questa concezione dell’appartenenza al grup* po dei seguaci di Gesù è molto diversa da quella di Paolo; anzi, per cero aspetti polemicamente vi si contrappone. E la contrapposizione a Paolo sarà più tardi una delle caratteristiche di molti gruppi di seguaci di Gesù provenienti dal giudaismo. Nel libro degli A tti, la figura di Giacomo è menzionata per l’ultim3 volta al capitolo zi, in occasione della terza visita di Paolo a GerusaleiU' me. Lo scopo di questa visita era quello di consegnare personalmente U denaro raccolto per i poveri di quella comunità (cfr. 1 C or 16,1-3; R111 16.30-31). Luca, tuttavia, non fa menzione della colletta di Paolo nel su®

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racconto, salvo in A t 14 ,17 (dove è Paolo stesso che parla), e questo ha indotto alcuni a pensare che il denaro fosse stato rifiutato dalla comunità di Gerusalemme” . Il sospetto e l ’ostilità nei confronti di Paolo avevano prodotto una ferita troppo profonda, difficile da rimarginare. A nulla val­ sero gli sforzi di Paolo, la sua disponibilità a unirsi a quattro altri uomi­ ni che avevano fatto un voto, probabilmente di nazireato temporaneo, a sottoporsi a tutti i riti di purificazione e a sostenere i costi per sé e per gli altri. Le voci che circolavano su di lui lo accusavano di istigare i giudei ad abbandonare la legge é a non far più circoncidere i bambini: un’ulteriore riprova che i contrasti non vertevano tanto, come forse all’ inizio, sul pro­ blema della missione alle genti e sui requisiti per l’ingresso da richiedere a questi ultimi, ma su quello della necessità per i seguaci di Gesù di origine giudaica di restare fedeli alle osservanze, che Giacomo e la comunità di Gerusalemme ritenevano un presupposto irrinunciabile. Quando Paolo venne arrestato nel Tempio e poi preso in consegna dall’autorità romana, nessuno della comunità di Gerusalemme mosse un dito in suo favore e venne abbandonato al suo destino.

La vita delle prime comunità dei seguaci di Gesù Il n o m e

Il movimento di Gesù, come si è visto, fu fin dall’inizio un movimento plurale, nel senso che era formato da gruppi diversi per origine, sensibilità, cultura, idee, teologia e, soprattutto, perché elaborò della persona del capo carismatico, Gesù, e della causa da lui promossa interpretazioni alquanto differenziate. Queste caratteristiche, tuttavia, non inficiano la sostanziale unità del movimento stesso, che, nonostante le molteplici variazioni, tro­ vava nel collegamento con Gesù, comunque fosse inteso, un forte vincolo unitario. Gli A tti degli apostoli usano, per indicare il movimento di Gesù, Molteplici denominazioni, che rimandano a circostanze e situazioni di­ fese c riflettono sia il punto di vista interno degli adepti del movimento Sla quello di osservatori esterni: fratelli (At 1,15); credenti (At 1,4 4 ): disce­ poli (At 6,1) ; seguaci della via (At 9,1)1 santi (At 9,13); cristiani (At 11,16); nazorei (At 14,5). In assenza di una terminologia unitaria nelle fonti, gli studiosi, generalmente, applicano, senza troppe distinzioni, l ’etichetta di Astiano” anche a queste primissime fasi del movimento di Gesù. Ora il

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termine “cristiano”, probabilmente assegnato ai seguaci di Gesù dall'ester­ no, dalle autorità romane, che vi avevano identificato un gruppo partico­ lare, il quale si richiamava a un capofila’6, nell’accezione comune risulta ambiguo, perché rimanda a una religione ben definita, il cristianesimo che, nel periodo qui preso in considerazione, non si era ancora formata, in quanto il movimento di Gesù, in queste prime fasi, si muoveva anco­ ra, e in modo del tutto consapevole, all’ interno del giudaismo, nel qualc si riconosceva pienamente’7. Alcuni studiosi, particolarmente attenti alle implicazioni ermeneutiche della terminologia usata dalla storiografìa, hanno fatto proposte alternative: Carsten Colpe ha suggerito di usare la denominazione di “nazarei” (Nazaràer), che è tratta da Girolamo (Com­ mento a Isaia 40,9-10; Commento a Ezechiele 6,13), ma, al tempo stesso, richiama il termine di nazorei di A t 14,5’'; un’analoga proposta ha avanza­ to, più recentemente, Francois Blanchetière (Nazaréens)” . Qui si è usata la locuzione “movimento di Gesù”, che sembra bene adattarsi al fenomeno che vuole descrivere, ma ha il limite di appartenere esclusivamente al lin­ guaggio tecnico di una scienza moderna, la sociologia, senza avere riscon­ tri nelle fonti antiche. In attesa di un più ampio consenso tra gli studiosi, il problema resta aperto.

Il battesimo e il pasto comune Già si è fatto qualche accenno all’organizzazione interna delle diverse co­ munità che si richiamavano a Gesù e ai primi sviluppi della loro riflessione teologica; qui cercheremo di illustrare più diffusamente alcuni aspetti del­ la loro vita religiosa. Come più volte è stato detto, dal punto di vista delle credenze e delle pratiche religiose i seguaci di Gesù si riconoscevano pie­ namente nelle diverse forme che, nel particolare contesto storico-culturale in cui essi vivevano, aveva assunto il giudaismo, anche se, per diversi motivi e, in certi casi, proprio richiamandosi all’insegnamento di Gesù, poteva­ no adottare un atteggiamento di critica o dissidenza nei confronti di esse* Da questo punto di vista, quindi, i seguaci di Gesù non si distinguevano dagli altri ebrei. Tuttavia, essi introdussero, fin dall’inizio, alcune pratiche particolari, che contribuirono a costruire e a segnare in modo profondo U loro identità religiosa. La prima pratica è quella del battesimo. Il rito dell’immersione in acqu* a scopi purificatori era diffusa nel giudaismo. La conosciamo tra i settafl

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jj Qumran (per esempio 1 Q 3,5-9; 5.13); la praticavano Giovanni Battista c panno (Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche 18,117; 11); faceva pro­ babilmente parte dei riti di ammissione dei proseliti (Mishnàh Pesahim. g 7; Mishnàh Eduyot 5,1; Talmud babilonese Yebamot 47ab)So. Gesù stesso sj sottopose al battesimo di Giovanni (Me 1,9-11; M t 3,13-17; Le 3,21-12) e, seco n d o il quarto vangelo, battezzò egli stesso (Gv 3,22). I seguaci di Gesù riprendono questo rito, che mantiene un carattere purificatorio, come nel caso d el battesimo di Giovanni (Me 1,4: promessa di remissione dei pecca­ ti), ma acquisisce anche un nuovo significato di rito di iniziazione al nuo­ vo gruPP°> Si battezza nel nome di Gesù (At 1,38; 8,16; 10,48), quindi nella forza e nel potere del glorificato, come conferma il gesto dell’imposizione delle mani in segno del conferimento dello spirito; ma questo riferimento al n o m e di Gesù diventa anche un forte marcatore di identità, in quando sanziona l ’ingresso e l ’appartenenza del nuovo adepto al gruppo del capo carismatico. La seconda pratica è quella del pasto comune. I primi seguaci di Gesù non disponevano di luoghi pubblici di riunione, ma si ritrovavano nelle abitazioni private di qualche membro. Era questo il luogo di aggregazio­ ne più importante, in cui si esprimeva la dimensione sociale e religiosa del gruppo. L ’espressione “spezzare il pane”, che ricorre frequentemente nelle fonti (At 2,42; 20,7.11; cfr. Me 6,41; 8,5-6), da un lato sottolinea un gesto fondamentale, comune a tutti i pasti, dall’altro ricorda un’usanza ebraica, quella di pronunciare, all’inizio del pasto, una benedizione, che accompagnava il gesto dello spezzare il pane. A i pasti in comune, che nel contesto del mondo antico svolgevano un’importante funzione di affer­ mazione della propria identità religiosa, si aggiunge la celebrazione della memoria dell’ultima cena consumata insieme con Gesù, prima che fosse ucciso, in cui doveva trovare espressione l ’impaziente attesa escatologica del suo ritorno, come suggerisce l ’espressione aramaica maranatha (“Si­ gnore nostro, vieni”: 1 C or 11,26; Ap 22,20; D idaché 10,6). Anche in que­ st° contesto, ci si ricollega allo schema del pasto rituale giudaico, con la Preghiera iniziale di santificazione sul calice e sul pane e la preghiera finale azione di grazie (da cui “eucaristia”) sul calice. Come si può vedere, il Movimento di Gesù non ha istituito pratiche cultuali radicalmente nuove, 1111 piuttosto ha ripreso consuetudini religiose ebraiche legate ai pasti. Nei S c o n ti dell’ultima cena dei sinottici e di Paolo (Me 14,22-25; Mt 26,26*9; Le 22,15-20; 1 C or 11,23-26) si introduce, in modo più o meno esplicito, *11' interpretazione in senso salvifico della morte di Gesù. Questo sviluppo

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è ricollegabile alla riflessione teologica elaborata negli ambienti degli cllc. nisti. L ’introduzione del riferimento alla morte redentrice di Gesù aprc una nuova prospettiva di sviluppo alla celebrazione della cena del Signore che sarà recepita soprattutto dalle comunità paoline, ma che restò assente in altre correnti del movimento di Gesù, come testimonia, per esempio un testo molto antico come quello di D idaché 9-10*'. Molto presto dovette anche affermarsi la celebrazione del giorno del Signore (cfr. Ap 1,10: greco kyrìaké hèméra, latino dies dominica, da cui l ’italiano “domenica”), fissato nel giorno successivo al sabato, in commemorazione della risurrezione di Gesù (Mt 28,1; Me 16,9; Le 24,1; G v 20,1; A t 20,7: « il primo giorno della settimana»).

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paolo di Tarso, l’imprevisto di Romano Penna

Stando al giudizio di Lutero, «n on venne mai al mondo nulla di tan­ to audace quanto la predicazione di P ao lo »1. L ’enfasi pur evidente in questa dichiarazione non può comunque nascondere il dato storico, secondo cui egli fii davvero Venfant terrible delle origini cristiane1, quasi un rompiscatole, tanto che da persecutore della Chiesa prim i­ tiva egli ne divenne poi un perseguitato (cfr. i C or 4 ,11; Gal 5,11) o almeno fu da alcuni suoi settori fortemente osteggiato (cfr. infra). È come se i primi aderenti al movimento di Gesù, tutti anch’essi di ma­ trice giudaica, non se l ’aspettassero, come se egli li avesse disturbati. Certo è che la sua figura ha generato i giudizi più contrastanti. Se da una parte è vero che la Riforma luterana e protestante avvenne nel suo nome, cosi da vedere in lui l ’espressione più pura della fede cri­ stiana’, dall’altra un intero comparto del cristianesimo antico, molto legato alla originaria matrice giudaica, lo giudicava senza mezzi ter­ mini: «apostata dalla legge”4; come tale è tuttora ritenuto dai settori anche più illuminati del giudaismo contemporaneo’, quantunque non manchino tentativi di ricondurre a casa l ’eretico6. Su tutti sovrasta il giudizio spietato di Nietzsche, che bolla spregiativamente Paolo come « l’eterno ebreo par excellence», il quale «con l ’ improntitudine del rabbino [...] fece del Vangelo la più spregevole di tutte le irrealizzabili promesse» ecc.7. Non sorprende quindi che qualcuno ne abbia fatto il fondatore del cristianesimo8, pur invitando giustamente alla prudenza chi vuole studiarne il pensiero, poiché paradossalmente « è più facile piegare la dottrina di Paolo a chi non lo conosce affatto che non a chi 1° conosce solo a m età»’. Qui di seguito cercheremo di tratteggiare i lineamenti essenziali di Un personaggio tanto atipico, distinguendo tra biografìa, produzione ePistolarc, e pensiero.

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Una vita movimentata Come di molti personaggi dell’antichità, non conosciamo l’anno esatto della nascita di Paolo, c tanto meno quello della morte. Però tutta una serie di dati sicuri e di vari indizi ci permette di fissarne con buona approssima­ zione sia gli estremi sia le tappe intermedie.

Prima di Damasco Quando scrive il biglietto a Filemone, probabilmente nell’anno 54 (o, secondo una cronologia più bassa, verso il 61), egli si dichiara “vecchio’’, in greco presbytes (Fm 9); c quando Luca negli A tti degli apostoli narra della lapidazione di Stefano all’ inizio degli anni trenta, annota anche la presenza di Saulo, che viene qualificato come “giovane”, in greco neatiias (At 7,58). Le due denominazioni sono evidentemente generiche, ma, secondo i computi antichi sull’età dell’uomo, la prima dovrebbe indicare grosso modo un individuo attorno alla sessantina e la seconda uno attorno alla trentina10. Ne deduciamo che egli dovette nascere negli ultimi anni dell’era precristiana ed essere quindi di pochi anni più gio­ vane di Gesù. Nato a Tarso in Cilicia (cfr. A t 22,3)" come ebreo della diaspora di lingua greca e con un nome latino (cambiato per assonanza da Saulo in Paolo), per di più insignito della cittadinanza romana (cfr. A t 22,25-28), egli appare collocato sulla frontiera di tre culture diverse e forse anche per questo disponibile a feconde aperture universalistiche, come si rivelerà in seguito11. Forse derivandolo dal padre, egli apprese anche un lavoro manuale consistente nel mestiere di skenopoiós, letteral­ mente “fabbricatore di tende” (cfr. A t 18,3), probabilmente lavoratore della lana ruvida di capra per farne stuoie o tende, forse per uso militare ma soprattutto privato (cfr. A t a o ^ ^ s ) 15. Del resto, nell’antichità Tarso era famosa per la lavorazione tessile specialmente del lino (cfr. Dione di Prusa, Discorsi 34,21), tanto che alcuni papiri testimoniano l’aggettivo tarsikdrios per indicare un tessitore di lino'4. Verso i dodici-tredici anni, l ’età in cui il ragazzo ebreo diventa barm itzvà (“figlio del precetto”), Pa' olo lasciò Tarso e si trasferì a Gerusalemme per essere educato ai piedi di rabbi Gamaliele il Vecchio1’ secondo le più rigide norme del fariseismo (cfr. Gal 1,14; Fil 3,5-6; At 22,3; 23,6; 26,5), imbevendosi di un grande zelo per la Torah mosaica'6.

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£ sulle basi di una forte ortodossia religiosa, là acquisita, che egli in* travide nel nuovo movimento che si richiamava a Gesù di Nazaret un grande rischio per l’identità giudaica. Oltre al rifiuto della critica di Ste­ rn o al Tempio di Gerusalemme (cfr. A t 6,14; 7,47-50), egli non poteva ammettere un messia crocifisso, che si doveva ritenere soltanto scandalo e maledizione (cfr. 1 C or 1,13; Gal 3,13); se poi questi era ormai positi­ vamente collegato con gli ignoranti della Legge (gli ‘amtné ha- ’aretz) e persino con i peccatori così che per essere giusti davanti a Dio bisogna­ va credere in Gesù, allora la Torah finiva per non essere più né sufficien­ te né tanto meno necessaria. Ciò spiega il fatto che egli abbia fieramente «perseguitato la chiesa di D io », come per tre volte ammetterà nelle sue lettere (1 C or 15,9; Gal 1,13; Fil 3,6). Peraltro è difficile immaginarsi con­ cretamente in che cosa consistesse questa persecuzione. Per esempio, ciò che scrive Luca in Atri 9,1-1 («Saulo, sempre fremente minaccia e strage contro i discepoli del Signore, si presentò al sommo sacerdote e gli chiese lettere per le sinagoghe di Damasco al fine di essere autorizzato a condur­ re in catene a Gerusalemme uomini e donne seguaci della V ia» ) fa dif­ ficoltà a combaciare con i dati storici. Infatti, sotto i procuratori romani il sinedrio non aveva giurisdizione fuori della terra d’ Israele17 né Paolo poteva godere di un mandato ufficiale senza essere membro del sinedrio stesso. Si ipotizza perciò che egli sia stato semplicemente inviato a Dama­ sco da una sinagoga di giudei “ellenisti’’ di Gerusalemme, forse con una lettera di raccomandazione da parte del sommo sacerdote, per mettere in guardia le sinagoghe locali contro il pericolo della nuova eresia ed esor­ tarle a prendere misure severe'8.

La “conversione” Certo è che proprio sulla strada di Damasco, all’inizio degli anni tren­ ta, forse nel 31, si verificò il momento decisivo della vita di Paolo'9. Là avvennc una svolta, anzi un capovolgimento di valori. Allora egli, ina­ sPettatamente, cominciò a considerare “danno” e “spazzatura” tutto ciò che prima costituiva per lui la ragion d ’essere della sua esistenza (cfr. Fil ?>7-8). Che cos’era successo? Abbiamo a questo proposito due tipi di fonti. II primo tipo, il più popolare, sono i racconti dovuti alla penna di Luca, che per ben tre volte narra lcvento (cfr. A t 9,1-19; 21,3-11; 16,4zj). indugiando su alcuni dettagli pittoreschi, come la luce dal cielo, la

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caduta a terra10, una voce che chiama, la nuova condizione di cecità, c Ia sua guarigione come di squame tolte dagli occhi, il digiuno. È difficyc che ci sia Paolo in persona all’origine di queste narrazioni, sia perché egli non ne parla mai in questi termini, sia perché in Gal 1,13 rimanda i suoi lettori a qualcosa di sentito dire. Perciò è ben possibile che Luca abbia utilizzato un racconto nato probabilmente nella comunità di Damasco (cfr. il colorito locale dato dalla presenza di Anania e dai nomi sia della via sia del proprietario della casa in cui Paolo soggiorna: A t 9,11), la quale compose in un primo tempo un racconto di conversione che metteva in rilievo la straordinaria trasformazione avvenuta nell’ex persecutore e che divenne poi anche il racconto della vocazione di un nuovo evange­ lizzatore11. Il secondo tipo di fonti è quello più “autentico”, in quanto consiste nella testimonianza del diretto interessato, e sono le lettere di Paolo stesso. Più volte infatti egli fa riferimento a quella straordinaria esperienza, e si tratta sempre di accenni molto brevi, non descrittivi, che puntano soltanto al senso di ciò che allora avvenne (cfr. Rom 1,5: «mediante Cristo Gesù ri­ cevemmo la grazia dell’apostolato»; 1 C or 9,1: «non ho io visto Gesù, il Signore nostro?»; 1 C or 15,8: «ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto»; 1 C or 4,6: «D io che disse “ Rifulga la luce dalle tenebre” rifùlse nei nostri cuori per far risplendere la conoscenza della gloria divina che brilla sul volto di C risto»; Fil 3,7: «ciò che per me era un guadagno lo stimai una perdita a motivo di Cristo»); il testo più diffuso si legge in Gal 1,15-16: «Quando a Dio, che mi mise a parte fin dal seno di mia ma­ dre e mi chiamò con la sua grazia, piacque di rivelare il Figlio suo in me, perché lo annunziassi fra le genti, immediatamente non consultai carne 0 sangue né salii a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, ma mi recai in Arabia e poi tornai a Damasco». Come si vede, in tuta questi passi egli non indulge a dettagli narrativi, ma interpreta sempre quel momento non tanto come un fatto di conversione, poiché non ne impie' ga mai il lessico specifico (i verbi metanoein-epistréfein e derivati), quanto come fondamento del suo apostolato, come incarico di evangelizzazione, e quindi come un evento di missione (con un lessico di visione/apparizione, rivelazione, illuminazione). C i si può chiedere come spiegarsi il cambiamento verificatosi in Pa' olo sulla strada di Damasco. Nel clima romantico dell’Ottocento si prc' feriva ricorrere allo schema dell’uomo tormentato, che finalmente trova una via d ’uscita alle proprie angosce adottando una soluzione estrema-

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p£f fare questo si interpretava in senso autobiografico ciò che si legge •n p.om 7,7-15, dove Paolo parla alla prima persona singolare: «Io non faccio quello che voglio, ma quello che detesto [...]. Acconsento nel mio jncimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che ,nuove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra» (15 .11.13). M a l ’esegesi odierna di questa pagina paolina è molto più guardinga e dubbiosa, sia perché il teSto è scritto al presente (quindi letteralmente dovrebbe riferirsi non al passato anteriore alla conversione), sia perché il passo appartiene non a un contesto autobiografico bensì a una riflessione di principio sul valore della legge (sicché l’io può benissimo spiegarsi con la figura retorica del­ la enallage così da includere un’esperienza universale), sia perché in un altro passo sicuramente autobiografico Paolo dice al contrario di essere stato «irreprensibile quanto alla Legge» (Fil 3,6: qui emerge addirit­ tura la fierezza di un’ identità giudaica vissuta in pienezza come «un guadagno»)11. Ma le cose sono più complesse. Le testimonianze personali di Paolo sull’evento di Damasco sono costantemente incentrate sulla precisa figura di Gesù Cristo. Egli non parla d ’altro, al punto da confessare persino di essere stato «ghermito da Cristo G esù» (Fil 3,11). Si trattò dunque essen­ zialmente di un incontro di “persone”, mentre invece i concetti, le “idee”, pur implicite, giocarono un ruolo secondario. Egli vide la gloria di Dio brillare sul volto di Cristo (cfr. z C or 4,6). Da questo punto di vista, l ’espe­ rienza di Paolo si deve spiegare anche in riferimento a certe categorie della mistica giudaica della merkavàh, cioè del “carro”, che affonda le sue radici nella visione del capitolo 1 di Ezechiele1’. Là il profeta dice di aver visto un carro trainato da quattro esseri viventi «e su questa specie di trono, in aho, una figura dalle sembianze umane [...]. Tale mi apparve l’aspetto dcl1® gloria del Signore» (1,16.18): qui, cioè, si osa associare la gloria celeste di Dio a un essere umano, sia pur indeterminato, e ciò spiega le riserve del rabbinismo su questa pagina14. In ogni caso, non si può trascurare la dimensione psicologica dell’e­ sperienza di Paolo, spesso trattata in termini di allucinazione (benché di n°rma agli storici e ai teologi manchino gli studi in materia di psicolo8la>cosi come gli psicologi sono perlopiù digiuni di tecniche storiografichc e di teologia). Uno studio di pochi anni fa15 cerca di fare chiarezza materia, sia distinguendo tra allucinazione e illusione, che non vanno 'dentificate, sia precisando onestamente che la non-oggettività del fc-

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nomcno (visione, udito, odorato, tatto ecc.) riguarda solo l ’osservatore esterno ma non il soggetto che ne fa esperienza, c sia badando anche ai condizionamenti socio-culturali del soggetto interessato. Quanto a Pa. olo, va preso atto che le sue dichiarazioni sull’evento, come già detto sono rare e molto sobrie; in più, bisogna constatare che egli non adduce mai di fronte ai propri interlocutori 1 esperienza da lui vissuta per fonda­ re su di essa la propria autorità, né per garantire una qualche tesi teolo­ gica, né per rafforzare una qualche presa di posizione disciplinare; anzi, semmai, succede esattamente il contrario1*. Occorre perciò guardarsi dal giudicare l ’evento della strada di Damasco con le categorie della psico­ patologia. L ’unico dato sicuro sul piano della fattualità storica, detto in termini junghiani, è che esso ha avuto una funzione prospettica tale da determinare il resto della vita di Paolo, e da farlo in modo del tutto positivo e fecondo17: là egli ha fatto esperienza di un incontro e ha ma­ turato una convinzione che ha ribaltato la sua esistenza, sia resettando l ’ intero suo patrimonio ideale sia riorientando le sue energie verso un nuovo scopo. In definitiva, però, l ’esperienza sulla strada di Damasco non sarebbe stata possibile se Paolo non avesse prima fatto esperienza, sia pure in termini polemici, della fede della comunità cristiana: è là che egli ha conosciuto per la prima volta Gesù di Nazaret, confessato Cristo e Signore e luogo della remissione dei peccati; ed è come dire che senza il contatto con le Chiese della Giudea (menzionate in i Ts 1,14 ; Gal i,iz ) egli non avrebbe fatto il passo ulteriore18.

L ’apostolo instancabile In effetti, Paolo è passato alla storia più per quanto fece da cristiano, anzi da apostolo, che non da fariseo19. Tradizionalmente si suddivide la sua atti­ vità apostolica sulla base dei tre viaggi missionari, più il quarto dell’andata a Roma come prigioniero, tutti raccontati da Luca negli Atti?0. A proposito di questi viaggi, però, bisogna distinguere il primo dagli altri due. Del pn' mo, infatti (cfr. A t 13-14), Paolo non ha la diretta responsabilità, spettante al cipriota Barnaba; insieme essi partirono da Antiochia sull’Oronte e, dopo essere salpati dal porto di Seleucia sulla costa siriana, attraversarono l ’isola di Cipro da Salamina a Pafo; di qui giunsero alle coste meridionali dell’Anatolia e toccarono le città di Attalia, Perge di Panfilia, Antiochia di Pisidia, Iconio, Listra e Derbe, da cui ritornarono al punto di partenza. I11

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seguito a un importante incontro avvenuto a Gerusalemme con gli apo­ stoli e gli anziani di quella Chiesa per decidere di non imporre ai pagani in vertiti l’osservanza della legge mosaica (se non quattro astensioni elen­ cate in A t 15,29: «astenersi dalle carni offerte agli idoli, dal sangue, dagli animaji soffocati, e dalla pom eia»). Paolo si separa da Barnaba e sceglie Sila per iniziare il secondo viaggio missionario, il primo da lui condotto (cfr. A t 15,36-18,12). Oltrepassa per terra la Siria e la Cilicia, rivede le città di Derbe e Listra, dove accoglie con sé Timoteo (figlio di una ebrea e di un pagano, e lo fa circoncidere), attraversa la Frigia, la Galazia, evita il territo­ rio dell’Asia e la sua capitale Efeso, raggiunge la Misia con la città di Troade, di dove salpa per la Macedonia in Europa. Sbarcato a Neapoli, arriva a Filippi (dove per aver liberato una schiava viene gettato in prigione) e poi a Tessalonica; di là per alcune difficoltà procurate dai giudei deve ripartire e, passando per Berea, giunge ad Atene, dove predica prima nell’agorà e poi nell’Areopago. Di qui passa a Corinto, dove si ferma un anno e mezzo, conoscendo i coniugi Aquila e Priscilla. Il momento cronologicamente più sicuro della sua biografìa si colloca all’inizio degli anni cinquanta proprio durante questo primo soggiorno a Corinto e riguarda l’anno della sua comparsa come accusato davanti al governatore romano della provincia senatoriale di Acaia, il proconso­ le Gallione (fratello di Seneca), di cui si legge in At 18,12. U n’iscrizione trovata a Delfi menziona appunto il proconsole che è in carica durante la ventiseiesima acclamazione dell’imperatore Claudio, databile al periodo che va da gennaio-febbraio del 52 all’agosto dello stesso anno’1. Dato che il proconsolato durava un anno (da aprile ad aprile), l ’unico problema sta nel sapere se Paolo comparve davanti a Gallione quando questi era all’ini­ zio o al termine del suo mandato (cioè, rispettivamente nel 52-53 o già nel 51-52). Poiché Paolo soggiornò a Corinto un anno e mezzo (cfr. A t 18,11), e tenendo conto degli avvenimenti precedenti, si può ben ipotizzare che quest’arco di tempo vada dalla fine dell’anno 50 agli inizi dell’anno 52. Da Corinto, poi, passando per Cenere, il porto orientale della città, si dirige vcrso la Palestina per mare toccando appena Efeso per salpare di qui in direzione di Cesarea Marittima, di dove sale a Gersalemme e tornare ad Antiochia sull’Orante. Il terzo viaggio missionario (cfr. A t 18,23-21,16) parte come sempre da Antiochia e punta dritto a Efeso, capitale della provincia d ’Asia, dove Pa° 1 ° soggiorna per due anni svolgendo un ministero che ha delle feconde ricadute sulla regione. Sobillata la popolazione dagli argentieri della città,

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che vedevano diminuire le loro entrate per la riduzione del culto di temide (l'Artemysion di Efeso era una delle sette meraviglie del mondo) Paolo dovette fuggire verso nord: riattraversa la Macedonia e scende di nuovo in Grecia, probabilmente a Corinto, dove rimane tre mesi. Di torna sui suoi passi: ripassa per la Macedonia, per nave raggiunge Troadc, e poi Asso di fronte a Lesbo, tocca appena le isole di Mitilene, Chio, Samo, e giunge a Mileto (dove tiene un importante discorso agli anziani della Chiesa di Efeso); di qui riparte costeggiando le isole di Cos e di Rodi, tocca Pàtara, e fa vela verso Tiro, di dove raggiunge Cesarea Marittima per salire ancora una volta a Gerusalemme. Qui si pone un ulteriore problema cronologico, che riguarda la data­ zione del suo arresto avvenuto appunto a Gerusalemme, da cui dipende la questione del suo invio a Roma come prigioniero e indirettamente l’an­ no della morte. L ’arresto fu dovuto a un malinteso, per cui alcuni giudei avevano scambiato per pagani altri giudei di origine greca introdotti da Paolo nell’area templare riservata soltanto agli israeliti: un fatto che era punito con la morte, la quale nel caso di Paolo fu evitata per l ’intervento del tribuno romano di guardia all’area del Tempio (cfr. A t 11,17-36). Ciò si verificò mentre in Giudea era procuratore imperiale Antonio Felice, e l’in­ vio a Roma sotto custodia militare avvenne sotto il successivo procuratore Porcio Festo. Il fatto decisivo consiste nella possibilità di determinare l’an­ no in cui si compì il cambio tra i due procuratori, il quale varia a seconda della durata che si assegna alla magistratura di ciascuno dei due: per Felice due anni (52-/53-54/55) oppure sette-otto anni (31/33-59/60), c per Festo, che terminò il mandato nel 61, rispettivamente sette-otto anni (54/55-61) oppure solo due-tre anni (59/60-61). Il testo di A t 14 ,17 parla della conclusione di una dietia, cioè un bien­ nio: «Trascorsi due anni, Felice ebbe come successore Porcio Festo». Ebbene, questo “ biennio” dovrebbe essere interpretato al meglio non se­ condo il calcolo tradizionale che lo mette in rapporto alla durata della pri­ gionia di Paolo (poiché non spiega come mai egli si sia deciso ad appellarsi a Cesare - cff. A t 15,11 - solo dopo due lunghi anni di carcere), ma come biennio della durata della magistratura di Felice. La datazione più alta per la fine della procura di Felice (cioè il 55) dovrebbe essere la più probabile: essa è suggerita, oltre che dalle notizie antiche di un arrivo di Paolo a Roma già nel secondo anno di Nerone (cioè nel 56)51, anche dal fatto che la rimo­ zione di Felice da procuratore è più consona con la destituzione a Roma di suo fratello Pallante da ministro delle finanze, avvenuta agli inizi del prin*

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pipato di Nerone” . Il viaggio verso Roma, partendo da Cesarea Marittima, [0Cca Mira di Licia, Cnido, poi Creta, Malta, Siracusa, Reggio di Calabria, e Pozzuoli; i cristiani di Roma gli andarono incontro in parte fino al Foro ji Appio (circa 70 km a sud della capitale) e in parte alle Tre Taverne (circa 40 km). Il racconto di Luca termina sulla menzione di due anni passati a poma sotto una blanda custodia militare, senza accennare né a una senten­ za di Cesare (= Nerone) né tanto meno alla morte dell’accusato. I com­ mentatori però ritengono che Luca non abbia voluto narrare il martirio di Paolo per non offuscare l ’unica morte che per lui conta: quella di Gesù, con cui lo scrittore ha concluso il suo primo libro (cioè il vangelo); sicché egli intenderebbe comunque alludere alla fine della vita terrena dell’apo­ stolo. La morte di Paolo perciò è databile nell’arco del decennio che va dal 58 al 68, sulla base delle fonti antiche34. Tutto fa ritenere che Luca finisca il suo racconto, tacendo ma supponendo la morte di Paolo al termine del biennio passato a Roma, e la data più verosimile è l’anno 58. La datazione più bassa, invece, pur essendo tradizionale, è fondata sol­ tanto su una serie di ipotesi. Si suppone, cioè, che il processo abbia avu­ to una risoluzione favorevole e che la morte sia eventualmente connessa con l’incendio di Roma nel luglio del 64. In suo favore hanno sempre giocato due fattori: un viaggio missionario di Paolo in Spagna, e poi un ritorno di Paolo in Oriente, specificamente a Creta, a Efeso e a Nicopoli in Epiro (apparentemente presupposto dall’attribuzione a Paolo delle tre lettere cosiddette pastorali: le due a Timoteo e quella a Tito). Sem­ pre per ipotesi, sarebbe poi seguito un nuovo arresto (ma dove?) e una seconda prigionia a Roma (da cui avrebbe scritto le tre lettere suddette) con un secondo processo che gli sarebbe risultato sfavorevole. Tuttavia, una serie di motivi non permette di contare su questi due fattori. Innan­ zitutto, il viaggio in Spagna è del tutto improbabile, sia perché esso non è mai narrato33, sia perché Eusebio nella sua Storta ecclesiastica non conosce affatto questa tradizione’6. In secondo luogo, motivi letterari, tematici, e di inquadramento storico, inducono a ritenere che le tre lettere suddette siano pseudepigrafiche, cioè scritte posteriormente in nome di Paolo da gualche discepolo della seconda o terza generazione (tra il 70 e il 120)37. La descrizione del suo martirio in forma di decapitazione alle Acque Salv*e (oggi Tre Fontane) appartiene a una tradizione tardiva (Atti d i Pietro e Paolo 80: non anteriori ai secoli iv-v). Invece la sua sepoltura sulla via Ostiense (sotto l’attuale Basilica di San Paolo Fuori le Mura) è già attc­ s t a verso l’anno zoo’8.

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Scrittore occasionale Paolo non era nato con la vocazione dello scrittore. Non vi era predisposto già nel senso materiale di saper impugnare un calamo (visto che i suoi scar­ si interventi di questo genere, stando a Gal 6,11, dovevano essere incerti e poco eleganti), ma neanche quanto all’orgoglio e al piacere di saper sten­ dere un qualsivoglia testo magari per dettatura a uno scrivano, come di solito avveniva (visto che in 2 C or 11,6, per quanto si debba qui tener conto di un atto di modestia, egli si professa inesperto nella parola). Un terzo modo di scrivere una lettera consisteva nell’afEdare a un segretario o ama­ nuense di fiducia il pensiero da svolgere, lasciando a lui la stesura effettiva del testo; ma prima della sua “conversione” Paolo non aveva comunque nessun motivo per redigere un qualsiasi testo scritto’9. Infatti, l ’educazio­ ne farisaica che aveva ricevuto a Gerusalemme ai piedi di Gamaliele, come dimostrerà per lungo tempo la tradizione delle scuole rabbiniche (almeno fino al 200 d.C.), consisteva essenzialmente nel saper leggere i testi classici delle Scritture di Israele e nell’arte di spiegarli a viva voce, ma non nello scriverne commenti. E invece egli passò alla storia, oltre che come infaticabile apostolo, an­ che o almeno altrettanto come autore di un certo numero di lettere, diven­ tate giustamente famose. Anzi, dal I secolo in cui egli visse, se prescindia­ mo da alcuni brevi e interessantissimi testi epistolari su papiro originale di provenienza popolare, di fatto sono giunte fino a noi soltanto le lettere di Seneca in latino e quelle di Paolo in greco; c forse non è senza significato che poi nel IV secolo sia stato composto un epistolario fittizio per docu­ mentare ima supposta corrispondenza tra i due. In più, come riconosce oggi qualche studioso ebreo, i suoi sono anche gli unici scritti di un fariseo vissuto nel 1 secolo dell’era volgare!40 Bisogna però precisare che i suoi scritti sono produzioni della fase cristiana della sua vita, ed è come dire che senza l ’evento della strada di Damasco Paolo probabilmente non avrebbe mai impugnato la penna o dettato un qualunque testo. Non che l ’essere cristiano sia per natura col­ legato a un’attività scrittoria. È stata piuttosto l ’occasione a fare di lui uno scrittore. Con ogni probabilità egli non si sarebbe mai impegnato su questo fronte, se non gli si fosse ripetutamente presentata la necessità di intervenire nelle situazioni delle varie Chiese, a seconda delle questioni di vita che di volta in esse prendevano corpo4'. È stato scrittore per necessità, mosso da un forte senso di responsabilità pastorale. E per fortuna, dicia-

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nio noi, poiché altrimenti non avremmo conosciuto 0 suo pensiero, la sua autentica c personalissima ermeneutica del vangelo, visto che quanto ne sappiamo dai soli A tti lucani é assolutamente poca cosa e soprattutto non sempre corrisponde in pieno a come egli si esprime in prima persona nelle sue lettere. In aggiunta occorre anche riconoscere (Paolo è l ’uomo di vari prima­ ti) che i suoi sono i primi scritti in assoluto nella storia del cristianesimo: la letteratura cristiana documentata comincia appunto con lui! D ’altron­ de, è sintomatico che tale letteratura inizi proprio con il preciso genere letterario epistolare e non, poniamo, con il genere del trattato speculati­ vo o del dialogo filosofico o del dramma teatrale o della poesia magari di consumo e neppure con un’ impresa storiografica, che pur sarebbe stata utilissima (questa seguirà, sia con i vari vangeli sia con gli A tti degli apo­ stoli, ma fra i dieci e i cinquantanni dopo di lui). La letteratura cristiana invece incomincia per così dire in m ediai res, dandoci atto dell’esistenza e della vitalità del nuovo fenomeno concernente l ’esistenza di varie co­ munità di battezzati, sparse in diversi centri urbani del bacino orientale del Mediterraneo. Le lettere odierne, comprese le e-mail (del tutto diverso è il sistema estremamente stringato dei telegrammi, degli SMS e di Twitter), seguo­ no uno schema che non corrisponde alle lettere antiche. Quelle, invece di recare la firma del mittente in fondo al testo epistolare, lo esponevano fin da principio addirittura come prima parola. Solo al secondo posto veniva il nome del destinatario, a cui seguiva poi subito una formula di saluto, ripresa con variazioni alla fine dello scritto. Sono molti i casi di lettere o di interi epistolari che ci sono giunti dall’antichità: quelle di Platone e di Seneca equivalenti a veri e propri saggi su argomenti vari, lettere di Cicerone a familiari e ad amici, lettere amministrative di Plinio il Giova­ ne all’ imperatore Traiano, e poi tutta una serie di lettere private popolari, non di autore, per esempio di un salariato alla moglie, di un figlio pentito alla madre, di un contadino a funzionari locali, di un soldato al padre, e ancora lettere di raccomandazione, di consiglio, di supplica ecc.4*. Tra le lettere antiche giunte fino a noi ci sono anche quelle di Paolo di Tarso. A parte alcune probabilmente perdute (forse un paio: cfr. i C or 5>9; c ì C or z,4?), sono tredici quelle che portano il suo nome. Gli studi odierni, tuttavia, sono orientati a sostenere che con ogni probabilità solo sette di queste lettere vanno fatte risalire direttamente a lui; in probabi­ le ordine cronologico, esse sono la prima ai tessalonicesi, le due lettere ai

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corinzi, la lettera ai fìlippesi e quelle a Filemone, ai galati e ai romani. Le altre sei (la seconda ai tessalonicesi, quelle ai colossesi e agli efesini, le due lettere a Timoteo e quella a Tito), per ragioni letterarie, teologiche c stori­ che, dovrebbero essere attribuite a discepoli posteriori, secondo il diffuso fenomeno della pseudepigrafia4’. Lo scorporo dell’epistolario paolino in queste due parti è dovuto non al desiderio di stabilire l ’autenticità delle prime, ma alla constatazione che le seconde non collimano né con lo stile dell’apostolo (per esempio, si notano un diverso periodare e la mancanza di termini e concetti tipici, mentre si trova l ’aggiunta di altri) né con il suo pensiero tipico (per esempio, z Ts rimanda a un futuro lontano la parusia del Signore, mentre i Ts la supponeva vicina; nelle lettere pastorali si affer­ ma una distinzione di ministeri ecclesiali tra episcopi-presbiteri-diaconi, che è assente nelle altre lettere) né con le sue vicende biografiche (per esempio, E f non contiene nessun riferimento alla Chiesa di Efeso, dove Paolo aveva soggiornato ben due anni). La constatazione dell’esistenza di un gruppo di lettere non risalenti a Paolo dà consistenza all’ipotesi di una “scuola” paolina, o almeno di una tradizione che si richiama all’apostolo, il quale perciò non risulta ima voce isolata all’interno delle origini cristia­ ne44; ed è come dire che, come il giudeo-cristianesimo iniziale ebbe una prosecuzione nelle generazioni successive, cosi l ’eredità di Paolo fu raccol­ ta da scrittori diversi, pur adattandola a nuove situazioni ecclesiali. Dal punto di vista materiale, la media della lunghezza delle lettere paoline supera ampiamente quella di tutte le altre lettere antiche. Secondo un computo attendibile4’, si può confrontare il caso di Paolo con altri due gruppi caratteristici di lettere pervenuteci dall’antichità. Il gruppo mag­ giore è quello delle lettere private popolari (con testo originale su papiro), che ammonta addirittura a circa 14.000 esemplari: ebbene, esse vanno da un minimo di 18 parole a un massimo di 109, sicché in media ne contengo­ no 87. Quanto invece alle lettere degli scrittori professionali, esse variano: quelle di Cicerone hanno un minimo di zz parole e un massimo di z.530, con una media di Z95; quelle di Seneca vanno da un minimo di 149 a un massimo di 4.134, con una media di 995. Le lettere di Paolo invece con­ tengono un minimo di 335 parole (a Filemone) e un massimo di 7.094 (ai romani), con una media di z.49$. Già su questa base dobbiamo essere cauti nell’accogliere una celebre distinzione dello studioso tedesco di inizio x x secolo, A d olf Deissmann, che distingueva tra “lettera” ed "epistola”. La prima, di stile non lettera­ rio, sarebbe di natura intima e personale, un pezzo di vita, espressione del

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solo rapporto esistente tra mittente e destinatario, quindi valida soltan­ to per il loro particolare mondo interpersonale, ma estranea all’interes­ se del grande pubblico. La seconda invece sarebbe una forma d ’arte, un prodotto convenzionale appositamente costruito, c il suo contenuto ter­ rebbe conto del grande pubblico a cui si rivolge: «Se la lettera è un segre­ to, l ’epistola è una merce da mercato, chiunque può e deve leggerla»46. Ebbene, Deissmann riteneva che quelle del nostro apostolo non fossero epistole ma lettere. M a Paolo non può essere confinato nell’ambito del privato. È vero che nelle sue lettere si riflette esattamente il suo genuino carattere im­ pulsivo, generoso, forte c tenero insieme. Egli cioè non nasconde affat­ to la propria umanità dietro un atto magari ritenuto ufficiale. Niente di burocratico nei suoi scritti epistolari. Tutt'altro. In più, le sue lettere sono anche uno specchio sia della vita concreta delle singole comunità destinatarie, con i loro sfaccettati problemi interni (di cui 1 C or è forse l’esempio più interessante), sia di contrasti che potevano configurarsi tra Paolo e le sue Chiese (cfr. soprattutto 2 C or 10-13). Egli però sa di scrive­ re con un’autorità che è solo sua e che gli deriva non solo da Cristo stesso ma anche e soprattutto dalla sua responsabilità di riconosciuto fondatore e guida delle Chiese stesse. Le sue lettere esprimono comunque l ’auto­ rità apostolica del mittente, sostituendone in qualche modo la presenza viva47. Persino nella lettera a Filemone, brevissima e apparentemente pri­ vata, egli esprime questa coscienza, anche se poi adotta toni bassi: «Pur avendo in Cristo la libertà di comandarti ciò che è opportuno, preferisco pregarti in nome dell’amore» (8-9). La sua «sollecitudine per tutte le Chiese» (2 C or 11,28) gli conferisce un’autorevolezza d ’ intervento tale che spinse molto presto le successive generazioni cristiane a raccogliere tutte le sue lettere superstiti in un corpus unico, anche se non è facile determinare dove c quando ciò sia avvenuto4*. Una questione a parte, di tipo formale, è costituita dal problema del­ la lingua e del linguaggio impiegati da Paolo. La linguistica moderna, almeno da Ferdinand de Saussure in poi4’ , distingue chiaramente tra significante e significato. Il primo è dato dalle parole impiegate, proprie di una lingua parlata, mentre il secondo consiste nella portata semantica di quelle parole, che dà forma a un linguaggio in quanto fa parte di una cultura. Ebbene, applicando la distinzione al caso di Paolo, le due cose non corrispondono ai nostri parametri attuali del X X I secolo (ma dove­ vano creare delle difficoltà già alle generazioni successive). Certo i due

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livelli non vanno disgiunti dalla sua personale form a mentis, che anzi li spiega entrambi. Come ebbe a scrivere uno dei maggiori grecisti e critici letterari del se­ colo scorso, Eduard Norden, nelle lettere di Paolo «la lingua scritta non è altro che il surrogato della parola parlata, [...] ed egli le scriveva [le lettere] in un’epoca in cui l’arte della parola era tutto, e la saggezza senza di quella era nulla»50. Si capisce bene quindi ciò che lo stesso apostolo dichiara in una sua lettera: «Quando sono venuto tra voi, non mi sono presentato ad annunziarvi il mistero di Dio con sublimità di parola o di sapienza [...]. La mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di D io » (i C or i , 1.4-5). Ma ciò che egli dice del suo modo di parlare vale altrettanto per il suo modo di scrivere, non essendoci differenza fra i due momenti. Ciò colpisce ancor di più, se si tiene conto che a livello lettera­ rio nel I secolo predominava la tendenza al purismo linguistico, chiamato atticismo. La sua lingua greca invece ha caratteristiche diverse. Da una par­ te, essa impiega termini d ’impronta ebraica, che hanno un corrispettivo solo nel greco della Bibbia dei Settanta (come: carne, legge, gloria, nome, unto). D all’altra, ricorre a parole tipicamente greche, che non hanno un esatto corrispettivo nel semitico (come: corpo, coscienza, franchezza, parusia) oppure stanno a cavallo fra i due mondi (come agape, ecclesia, vangelo, Spirito, peccato, fede). Paolo conia addirittura dei neologismi, prevalentemente formati in base alla preposizione “con” (cosi è di confor­ mati, concrocifìssi, consepolti, coimitatori). In più, riporta alcune parole che per un greco erano “ barbare”, cioè di origine ebraica o aramaica (quali abbà, maranathà,pascha, satanàs). Se volessimo confrontare Paolo anche solo con il filosofo suo contem­ poraneo Filone Alessandrino, anche lui ebreo della diaspora greca c versa­ to nelle Scritture di Israele, noteremmo un elevato dislivello a favore del secondo, sia quanto a ricchezza di vocabolario, sia quanto a eleganza nella costruzione della sintassi, sia quanto a densità culturale consistente in de­ biti vari c sostanziosi nei confronti della tradizione filosofica greca, pla­ tonica e stoica. M a Filone non ha scritto lettere; le sue sono opere, come si dice, scritte a tavolino. Nelle lettere di Paolo, invece, c’è una passione che deriva non solo dal suo temperamento esuberante, ma anche dall’im­ mediatezza a volte bruciante del rapporto vivo con i suoi interlocutori, e ancor più dall’incisività del segno lasciato nella sua vita da Gesù Cristo. In

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ogni caso, alcuni brani epistolari ottengono un efficace risultato letterario, come Rom 8,31-39 (un inno all’amore proprio di Dio) e 1 C or 13,1-13 (un inno all’amore cristiano in generale). Egli non cura tanto la forma quanto il contenuto,.cosicché si compren­ de l ’esortazione fattagli da Seneca secondo il citato carteggio apocrifo: «Vorrei che tu curassi bene le cose che dici, perché alla loro sublimità non manchi la coltivazione del d ire»’*. A volte si ha persino l ’impressione che la materia che Paolo ha da comunicare ne ecceda talmente la possibilità di crasmissione verbale da creare nella sua mente una sorta di intasamento concettuale e quindi una tale densità da risultare di difficile comprensio­ ne. Lo riconosceva già a cavallo tra il 1 e il secolo l’autore della cosiddetta seconda lettera di Pietro: « Il nostro carissimo fratello Paolo vi ha scritto secondo la sapienza che gli è stata data; cosi egli fa in tutte le lettere in cui tratta queste cose. In esse ci sono alcune cose difficili da comprendere e gli ignoranti c gli instabili le travisano» (z Pt 3,15-16). Più recentemente e in maniera felice un paolinista del secolo passato ebbe a scrivere a proposito dell’apostolo: «N on la chiarezza è il suo cari­ sma, bensì la novità e la densità [...]. Egli è sempre “per strada” [...]. Il suo compito è di aprire nuove vie dappertutto, lasciando ad altri le vie nor­ mali; naturalmente egli risolve non pochi problemi, ma al contempo ne suscita altrettanti»’*. Ecco perché aveva ragione Wrede, studioso delle ori­ gini cristiane di inizio xx secolo, a sostenere che capisce meglio Paolo chi non lo conosce affatto di chi lo conosce solo a metà. Ma una cosa è sicura: chi ha la pazienza di leggerlo e si sforza di capirlo, magari con caparbietà e soprattutto con disponibilità interiore, ne resta ampiamente ripagato: infatti, come già ebbe ad ammettere Lutero nel xvi secolo, è come se si aprissero per lui le porte del paradiso” . Lo stile letterario di Paolo i altrettanto speciale. Secondo un celebre e azzeccato aforisma, lo stile è l’uomo: ciascuno, cioè, riflette la propria personalità, oltre che nel modo di atteggiarsi, anche nel modo di parlare e di scrivere. Ebbene, l’immediatezza della scrittura di Paolo rispecchia esat­ tamente la sua vitalità scevra da affettazioni e ricercatezze. La concitazione del pensiero si riflette bene nello scritto. Un indizio ne sono gli anacoluti, per cui alcune frasi restano in sospeso, non vengono finite, anche se ciò an­ drebbe verificato sull’originale, visto che le traduzioni normalmente le ri­ finiscono per conto loro (nella sola lettera ai romani, cfr. 1,17-10 ; 5,11; 8,3; 9,11-13). Un altro indizio è l ’uso dell’antitesi, chiaro segno di un pensiero effervescente, incline a contrapporre concetti e figure per colpire mag­

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giormente i lettori, come si vede nei casi di Adamo-Cristo (Rom 5,14-2.,) carne-Spirito (Gal 5,16-25), fede-operc (Rom 3,21-4,25), sapienza-stoltezza (1 C or 2,18-25), debolezza-potenza (2 C or 12,7-10), uomo vecchio-uomo nuovo (Rom 6,6; 2 C or 5,17). L ’antitesi poi, non scevra di iperbole c anche di ironia, viene pure giocata come semplice ma efficace figura letteraria per descrivere con toni autobiografici le difficoltà della vita apostolica; lo si vede in alcuni passi celebri, quali 1 C or 4,10.12-13 (« N o i stolti a causa di Cristo, voi sapienti in Cristo; noi deboli, voi forti; voi onorati, noi disprczzati [...]. Insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo; calunniati, confortiamo; siamo diventati come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti, fino a oggi») e anche 2 C or 6,4-10. Una questione a parte riguarda la discussa dipendenza di Paolo dal­ le regole della retorica antica intesa come arte del parlare bene, ars bene dicendi. A Tarso, senza escludere Gerusalemme, egli deve aver imparato almeno i rudimenti del ben parlare. Ed è fuor di dubbio che egli, coltivan­ do la elocutio, utilizzi a più riprese molte delle cosiddette figure retoriche, dalla litote (Rom 1,16: «N on ho vergogna del vangelo») alla paronomasia (1 C or 5,3a: «Assente col corpo ma presente con lo spirito»), dalla pre­ terizione (1 Ts 4,9: «Riguardo all’amore fraterno, non avete bisogno che ve ne scriva») all’enallage (Rom 7,9-10: «Io un tempo vivevo senza legge, ma, sopraggiunto il comandamento, il peccato ha ripreso vita e io sono m orto» ecc.), dalla ripetizione (Fil 2,i7b-i8: «sono contento e mi ralle­ gro con tutti voi; allo stesso modo, anche voi siate contenti e rallegratevi con m e») all’iperbole (1 C or 8,13: «Se un cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò mai più carne»), dal sorite (Rom 5,2-5: « C i vantiamo anche nelle tribolazioni, ben sapendo che la tribolazione conduce alla fermez­ za, la fermezza alla maturità, e la maturità alla speranza; la speranza poi non delude») all’ironia (Gal 5,15: «S e vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri»), dall’enti­ mema (2 C or 5,i4b: «U no è morto per tutti c quindi tutti sono morti»» sottintendendo che la morte di Cristo abbia un’efficacia salvifica) alTisocolia (1 C or 13,4-7: « L 'agape è paziente, è benigna l 'agape-, non è invidiosa l’agape, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità; tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta»). Persino il riferimento ai giochi agonistici (in 1 C or 9,24-27: «N on sapete che nelle corse allo stadio tutti corrono, m* uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo-

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j- ] Io dunque corro, ma non come chi è senza meta; faccio il pugilato, ma n0n come chi batte l ’aria, anzi tratto duramente il mio corpo e lo trascino jn schiavitù perché non succeda che dopo avere predicato agli altri, venga jo stesso squalificato») è un piccolo indizio di conoscenza e apertura verso il mondo greco. Più discutibile è l ’eventualità che egli abbia elaborato il suo discorso seguendo le norme della disposino retorica. Questa era abituale nei discorsi orali pronunciati fondamentalmente in tre occasioni: nelle assemblee deli­ berative, in quelle giudiziarie e in quelle celebrative, che davano origine ai tria genera già codificati da Aristotele. In questi casi il discorso era struttu­ rato di norma in quattro parti: l 'exordium (che introduceva l ’argomento eventualmente mediante una narratio o esposizione del caso), lapropositio (enunciazione programmatica del tema), la argumentatio (dimostrazione dell’assunto, eventualmente con una refutatio delle tesi contrarie) e la pe­ rorafio (che riprendeva l ’argomento portandolo alla conclusione). Tutto il problema sta nel sapere se anche una composizione epistolare dovesse sot­ tostare a questa disposizione. Pur non potendolo escludere per principio, dato che per esempio il testo di Rom 1,16-17 gioca abbastanza chiaramente il ruolo di una propositio, non risulta che i teorici della retorica abbiano mai applicato le loro regole all’epistolografia. Come ben si esprime uno studio specifico, « i due generi possono essere stati fidanzati, ma coniugati non lo furono m ai»,+. Per studiare le lettere di Paolo perciò non bisogna applicare loro la gri­ glia angusta e soffocante del cosiddetto rhetorical criticism, come alcuni Hanno fatto, imponendo alle lettere paoline la camicia di forza della reto­ rica antica, ma occorre attenersi piuttosto allo studio della effettiva e origi­ nale argomentazione svolta in proprio dall’apostolo” . È la sua retorica let­ teraria che va individuata, cioè il suo modo proprio di persuadere i lettori su determinate questioni concernenti sia la loro vita sia l ’esposizione della sua personale ermeneutica del vangelo.

L’originalità del pensiero Come ebbe a scrivere il celebre Albert Schweitzer, «Paolo ha assicurato Per sempre nel cristianesimo il diritto di pensare [...]. Egli non è un rivo­ luzionario. Parte dalla fede della comunità, ma non ammette di doversi fermare dove quella finisce [...]. Egli fonda per sempre la fiducia che la

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fede non ha nulla da temere dal pensiero [...]. Paolo è il santo protettore del pensiero nel cristianesimo»’4. Forse senza saperlo, con queste parole Schweitzcr di fatto riformulava, applicandolo a Paolo, ciò che già aveva affermato sant'Agostino in termini più generali: «Se la fede non viene pensata, è come se non ci fosse»’7.

Nessi e contrasti con la Chiesa primitiva e con il giudaismo La teologia di Paolo non è certo spuntata come un fungo all’intemo del cristianesimo delle origini, né è rimasta confinata in uno splendido isola­ mento. Da una parte, infatti, i debiti di Paolo nei confronti della Chie­ sa primitiva sono innegabili, come si vede da vari, elementi quali: la sua personale preoccupazione di mantenere opportuni legami con coloro che avevano aderito a Cristo prima di lui (cfr. Gal 2,1.9: «per non trovarmi nel rischio di correre invano [...]. Diedero a me la loro destra in segno di comunione»), qualche citazione esplicita del credo comune (cfr. 1 Cor 15,3-5: «V i ho trasmesso ciò che anch’ io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture c che fu sepolto e che risuscitò il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e poi ai dodici») e l’utilizzo di testi che la critica letteraria riconduce con tutta probabilità ad ambiti giudeo-cristiani preesistenti (cfr. la confessione cristologica di Rom i,3b-4a: «N ato dal seme di Davide secondo la carne, costituito figlio di Dio potente secondo lo Spirito di santità dalla risurrezione dei mor­ ti» ; e l ’ampia composizione innica in Fil 2,6-11). Semmai bisognerebbe precisare quale sia stata la Chiesa che maggiormente gli trasmise la formu­ lazione degli elementi fondamentali della fede cristiana, se Gerusalemme o Antiochia’8. C ’è poi da calcolare il ruolo che a Gerusalemme dovrebbe aver svolto nei suoi confronti il gruppo dei sette cristiani di provenienza giudeo-ellenista, rappresentati da Stefano e dalla sua predicazione (alme­ no secondo il racconto di Luca in A t 6-7, visto che Paolo nelle sue lettere non ne parla mai), la cui critica al Tempio e alla legge mosaica potrebbe avere rappresentato per lui un punto di partenza, sia prima per la perse­ cuzione sia poi per il ripensamento del messaggio cristiano. D ’altra parte» Paolo ebbe già in vita tutta una serie di collaboratori che condivisero il sU° pensiero prima che la sua sorte apostolica (uomini come Barnaba, Tim o'

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£o, Tito, Epafra, Epafrodito, Tichico, Clemente, Aquila; e donne come

Lidia» Priscilla, Febe, Maria, Giunia, Trifena, Trifosa, Pèrsidc, Giulia), e p0i originò una successiva tradizione teologica attestata sia dalle cosiddet­ te lettere deutcropaoline (le sei individuate sopra) sia da alcuni autori po­ steriori (come Ignazio di Antiochia, Giustino, Ireneo di Lione). In più, bisogna riconoscere che egli non rinnegò affatto la sua matrice giudaica. Certo non si professa mai “cristiano”, anche perché il termine è probabilmente posteriore (nonostante A t n,z6). E non solo si dichiara «circonciso l ’ottavo giórno, della stirpe d ’Israele, della tribù di Beniami­ no, ebreo da Ebrei» (Fil 3,5), «stirpe di Abram o» (z C or 11,11), ma giun­ ge persino ad augurarsi di essere «anatema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne» (Rom 9,3), ai quali riconosce tutta una serie di peculiarità distintive: «Essi sono Israeliti e possiedono l ’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi, e da essi proviene il Cristo secondo la carne» (Rom 9,4-5). Paolo condivide le stesse Scritture (Rom 1,1), la stessa fede monoteistica dello Shemà (cfr. 1 Cor 8,6), la stessa attesa del futuro «gior­ no del Signore» (1 C or 5,5; 1 Ts 5,1 ecc.), la stessa concezione di fondo su Israele come popolo scelto e amato da Dio, che lo ha chiamato «senza pentirsene» (Rom 11,19). Egli perciò avrebbe sicuramente continuato a definirsi un “giudeo”, anche se un giudeo “in Cristo”. Resta il fatto che Paolo fu a sua volta incompreso e fortemente con­ trastato. Ciò si verificò già da parte degli ebrei di fede giudaica, da cui fu ripetutamente flagellato («Cinque volte dai giudei ricevetti i quaranta colpi meno uno»: 1 C or 11,14 ; cfr. anche 1 Ts 14-16) e in vari luoghi fu variamente oggetto di violenza (cfr. At 9,13, a Damasco; 19, a Gerusalem­ me; 15,50, ad Antiochia di Pisidia; 17,5, aTessalonica; 13, aBerea; 18,11-17, a Corinto; 11,17, tentativo di lapidazione a Gerusalemme). Ma l’opposizio­ ne fu messa in atto sorprendentemente anche da quegli ebrei che per aver aderito a Gesù Cristo condividevano la stessa fede cristiana, sostenendo Però un’altra ermeneutica del vangelo. Egli li chiama ironicamente «su­ Per-apostoli» (cfr. 1 C or 11,4-5.11-16) o «falsi fratelli, che si sono intro­ messi a spiare la libertà che abbiamo in Cristo» (Gal 1,4-5; cfr- Gal 1,11-15; 4,z9; 5,11; Fil 3,1-3; Rom 16,17-18). Questi fatti suscitano un interrogativo ’nevitabile: come mai Paolo fu cosi osteggiato? Qui si pone il complesso problema storico e teologico del cosiddetto “giudeo-cristianesimo”, cioè quel settore del primo cristianesimo di provenienza giudaica (di cui fu esponentc Giacomo, “fratello del Signore”, autore o referente della lettera

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omonima), che accettò la fede in Gesù Cristo ma la combinò con una pCr. durante osservanza della Torab o di parte di essa5’ . Con ciò tocchiamo il punto centrale dell’originalità del pensiero pao­ lino: un argomento che ha molte sfaccettature e che va trattato ripartitamente.

Il punto focale Una questione importante consiste nel sapere se la teologia di Paolo abbia un centro e quale esso sia60. Mentre la tesi luterana classica sostiene la cen­ tralità della giustificazione per fede (così Bultmann, Kàsemann, Hiibner), altri all’ interno dello stesso protestantesimo puntano piuttosto sulla deci­ sività dell’unione mistica con Cristo (Wrede, Schwcitzer, Sanders); altri ancora sottolineano il valore della teologia della croce (Wilckens, Becker) o la dimensione apocalittica della rivelazione di D io in Cristo (Beker) o la costante tensione verso orizzonti universalistici (Stendahl, Watson, Dunn) o infine evidenziano Cristo stesso come il fattore oggettivo e sca­ tenante di tutta la teologia del Paolo cristiano (Cerfaux, Schnackenburg). Quest'ultima scelta merita la nostra attenzione, poiché per Paolo è ap­ punto la scoperta della figura di Cristo e della sua valenza soteriologica a costituire la causa, l ’origine, la fonte del suo sfaccettato discorso sulla fede, sulla giustificazione, sulla partecipazione mistica, sull’evento crocerisurrezione e sulla destinazione universale del vangelo. Non che tutti questi vari capitoli sarebbero rimasti lettera morta senza l ’adesione a Cristo. Per esempio, di fede in D io Paolo avrebbe certamente continuato a parlare anche come semplice giudeo, viste le celebrazioni che della fede ( ’emunàh) si fanno in vari scritti rabbinici6*; cosi pure della rive­ lazione di D io nella storia umana, specialmente di Israele, come si esprime qualche testo rabbinico sia pure stabilendo una netta differenza con i pa' gani61; inoltre, benché il messianismo del tempo fosse un fenomeno molto complesso6’, Paolo avrebbe comunque continuato a sperare nella venuta del messia come liberatore d ’Israele, se non dell’umanità intera64, anche se in base alla sua formazione farisaica avrebbe piuttosto attribuito alla Torah il peso maggiore come criterio di individuazione del vero giudeo6’. M a di tutti questi concetti egli ha operato un vero e proprio reset, una riconfigurazione, tale da rielaborarli c fonderli in una sintesi nuova, sicché ciascuno di essi alla fine è caratterizzato da una semantica diversa da quella

PAOLO d i ta r so , l ’ im pr ev ist o

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ofiginalc. Ebbene, la causa responsabile dell’innovazione non è altro che |a percezione della portata dirompente di Gesù Cristo, il quale, nient’altro c|ie per la sua identità messianica diversamente concepita in rapporto alle premesse giudaiche, ridefinisce sia la fede in Dio sia l’idea di storia della divezza ecc. Si intuisce quindi che la novità del pensiero di Paolo va asso­ lutamente associata con la determinante esperienza da lui fatta sulla strada di Damasco6*, a cui si aggiungerà poi anche il fatto di un certo qual svi­ luppo del pensiero*7, condizionato di volta in volta dalle diverse situazioni delle Chiese destinatarie delle sue lettere.

Ermeneutica soteriologica e universalistica della figura di Gesù il Cristo Chi è dunque Gesù Cristo secondo Paolo? La posizione di chi vorrebbe vedere nell’apostolo il vero fondatore del cristianesimo come religione di redenzione, in quanto avrebbe appunto trasformato Gesù in un redento­ re, cozza inevitabilmente contro due fatti inoppugnabili: il fatto che già prima di lui Gesù veniva confessato come «m orto per i nostri peccati» (i Cor 15,3: citazione di una confessione di fede anteriore all’apostolo) e il fatto che egli non definisce mai Gesù né come redentore*8né come salva­ tore*’, mentre la formulazione astratta e d ’impronta cultuale circa la mor­ te «per i peccati» acquista in lui un accento personalistico con la dizione «per tutti, per voi, per noi, per me, per gli empi» (cfr. rispettivamente 1 Cor s,i4s; 1 C or 11,14 ; 1 Ts 5,10; Gal 1,10 ; Rom 5,6). L ’apostolo condivide con il cristianesimo primitivo, a lui anteriore, la fede scandalosa di definire messia (Christòs) e persino Signore (.Kyrìos)7° non un sovrano potente e glorioso, ma un condannato all’ ignominia della croce, la cui gloria in termini paradossali si ritiene che gli provenga soltan­ to dal fatto di avere dato la vita per gli altri e di essere stato, proprio «per questo motivo» (così nell’inno prc-paolino di Fil 1,9), inopinatamente •■ 'suscitato dai morti da Dio stesso. Dunque, almeno in gran parte, i pricristiani ritengono che Gesù sia «m orto per i nostri peccati» (1 C or •5-i)71 e che con la risurrezione dai morti sia stato «costituito figlio di Dio Potente» (Rom i,4a). Inoltre, alcune forme di missione (giudeo-cristiana, jdl interno di Israele) devono essere esistite anche prima di Paolo, benché "oitate e soprattutto esenti da conclamate sottolineature polemiche nei c°nfronti della matrice giudaica71. Perciò l’ebreo Paolo condivide con altri

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ebrei (poiché tali furono tutti i primi discepoli di Gesù) una fede che ri. guarda pure un altro ebreo, certamente atipico, ma estremamente umano culturalmente appartenente a una non brillante regione palestinese del tempo. Di suo, in più, Paolo ritiene che questo Gesù (Cristo e Signore) sia l’ì. niziatore di una nuova stagione della storia e di una nuova identità antro­ pologica dalle ricadute universalistiche, eventualmente paragonabile non a un re come Davide o a un profeta come Isaia, ma neppure a un grande legislatore come Mosè, bensì soltanto a chi è anteriore a tutti costoro e per di più non appartenente al popolo storico d ’Israele, cioè ad Adamo proge­ nitore dell’intera umanità (cff. i Cor 15,11-21.45-47; Rom 5,11-n ). Sicché, con il Cristo ha luogo nell’uomo credente una «nuova creazione» (1 Cor 5,17; Gal 6,15). Certamente Paolo non ha un’idea gnostica di Gesù, quasi fosse un rivelatore angelico che non avesse nulla da spartire con questo mondo caduco e con i chiaroscuri della storia; al contrario, egli sa bene che Gesù è discendente di Abramo (cfr. Gal 3,16), poiché è precisamente il po­ polo israelitico ad avere prodotto « il Cristo secondo la carne» (Rom 9,4). Ma gli orizzonti di questo giudeo anomalo che è Paolo vanno molto al di là di Israele: a lui interessa l ’uomo come tale, a prescindere da qualun­ que distinzione o, peggio, contrapposizione culturale e religiosa. Lo con­ fessa ai romani: «Io sono in debito tanto verso i greci quanto verso i bar­ bari, tanto verso i sapienti quanto verso gli ignoranti» (1,14); e scrivendo ai corinzi ammette: « M i sono fatto giudeo con i giudei, per guadagnare i giudei; con coloro che sono sotto la legge sono diventato come uno che è sotto la legge, [...] con coloro che non hanno legge sono diventato come uno che è senza legge [...]. Tutto io faccio per il vangelo, per diventarne partecipe con loro» (1 C or 9,10-23). Anzi, se ha una preferenza, essa è per i gentili, cioè per coloro che erano tradizionalmente tagliati fuori dalla tipica coscienza di Israele circa la propria elezione distintiva: «Ecco che cosa dico a voi gentili: come apostolo dei gentili, io faccio onore al mio ministero, nella speranza di suscitare la gelosia di quelli del mio sangue e di salvarne alcuni» (Rom 11,13-14). In quest'ultima frase sarebbe fuori luogo leggere anche solo un’ombra di antigiudaismo, poiché subito dopo Paolo definisce «sante le primizie e la radice», su cui sono fondati i gentili convertiti alla fede cristiana, e «buon o» l’ulivo su cui «contro natura» è innestato l’ulivo «selvatico» degli stessi gentili credenti (Rom i l 1 ^ 24)7». In queste dichiarazioni non si può affatto intravedere la fregola un proselitismo a tutti i costi, magari fine a se stesso; ma c ’è sicuramente

PAOLO di tarso , l ’ imprevisto

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di chi «vive per Cristo» (Fil 1,11), poiché è stato «ghermi­ re,» da lui (Fil 3,11), è «tenuto in pugno d a l suo amore» ( 1 C or $,14), e si sen tirebbe un traditore se non lo annunciasse ai quattro venti (cfr. 1 Cor 9,16-17: FU i»i 8). Né si può parlare di fanatismo, che semmai contraddi­ stinse la fase pre-cristiana della sua vita; come cristiano, invece, egli esorta a «non farsi un’idea troppo alta di sé», a «non rendere a nessuno male per male», a «vivere in pace con tutti» (Rom iz,16-18), a «sperimentare ogni cosa e tenere ciò che è buono» (1 Ts 5,11), in una parola a pensare in g ra n d e : «Tutto ciò che è vero, tutto ciò che è nobile, tutto ciò che è giusto, tutto ciò che è onesto, tutto ciò che è amorevole, tutto ciò che vi fa onore, se c e qualcosa di valore e se c’è qualcosa di lodevole, questo sia oggetto dei vostri pensieri» (Fil 4,8). l’e n tu s ia s m o

Ma ecco ripresentarsi la domanda: che cosa significava Gesù Cristo per Paolo? In breve, e a livello di superficie, potremmo dire che rappresentava il superamento della disuguaglianza tra giudei e gentili: non nel senso della eliminazione della peculiarità di Israele, ma nel senso di una equiparazio­ ne dei secondi con i primi. Tutta l’attività missionaria di Paolo, che con ogni verosimiglianza non avrebbe avuto luogo senza la sua adesione alla fede cristiana74, consistette proprio in questo: nell’eliminare la distanza che separava i gentili dai giudei, ritenuti comunque il popolo dell’alleanza con Dio, al fine di includervi anche gli “altri”, i “diversi”, i “lontani”7’. Ma il principio ispiratore del suo impegno non era più soltanto il desiderio di procurare a Israele dei “proseliti” provenienti dai gentili, accolti sulla base dell’osservanza della medesima Torah divina74: era invece la persona viva di Gesù Cristo, in quanto ritenuto mediatore non più della rivelazione di una nuova legge imposta all’uomo, bensì di una grazia, cioè di un favore divino, che includeva i gentili prima ancora e, anzi, a prescindere da ogni criterio legalistico o morale. Il giudeo Paolo poteva pur ritenere la legge uiosaica come una grazia concessa da Dio a Israele (cfr. D t 4,7-8.37-40; Bar 3,17-4,4) o comunque come qualcosa di conseguente rispetto al favo­ re fondamentale della liberazione dall’Egitto, su cui peraltro si basava la kgittimità della legge stessa77; ma il cristiano Paolo ritiene ormai che con 1 offerta totale della vita fatta da Cristo e con la sua risurrezione, la grazia el* Dio non solo non passa più attraverso comandamenti e precetti, ma SuPera anche di gran lunga l’idea di liberazione (nazionale e politica) con­ nessa con l’antico esodo; anzi, se questa costituiva il fondamento della Torab, ormai con la morte e risurrezione di Cristo il fondamento è cambiato, e dunque la sua sostituzione regge anche qualcosa di sostitutivo della leg-

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gc. Secondo lui, pertanto, l’uomo può ormai essere ritenuto “giusto” (ci0£ santo) agli occhi di Dio, non più in base a ciò che l’uomo stesso possa fare di moralmente giusto in conformità ai dettami della legge (le “opere”), n,4 in base alla semplice accettazione per fede di quell’evento di morte e risur. rezione in quanto valido per tutti gli uomini e per ogni singolo individuo E se la legge mosaica non è più il criterio distintivo della rivelazione di Dio e dell’identità religiosa dell’uomo, allora l’accesso a Dio (al Dio d ’Israele!) non è più riservato ai giudei ma è aperto anche a tutti i gentili. Così quella di Paolo diventa una battaglia in favore dell’inclusivismo.

Cristo e/o Torah In definitiva, il vangelo e la missionarietà di Paolo si spiegano solo in base a precise premesse sia cristologiche sia anche giudaiche. Le premesse cri­ stologiche sono le più decisive: esse consistono non tanto nel dovere di ottemperare a un comando missionario del Gesù terreno, visto che nelle sue lettere Paolo non cita mai una qualunque parola del Gesù terreno circa la necessità della missione, ma piuttosto nel fatto di essersi reso conto della portata dirompente della fede nel Cristo crocifisso c risorto, che d ’un bal­ zo supera ogni steccato e accomuna tutti gli uomini su un piede di parità. Le premesse giudaiche sono di vario genere: benché il giudaismo del tem­ po non attesti la prassi di una qualche propaganda missionaria ufficiale7', tuttavia è innegabile che esso praticava in forme diverse il suo dovere di essere «un popolo di sacerdoti e una nazione santa [...] in mezzo a tutti i popoli» (Es 19,5-6), non solo con la testimonianza di un’etica rigorosa, ma anche con la preghiera per i gentili, con la sua vita liturgica e con un’espli­ cita apologetica verbale79. La stessa fondamentale questione concernente i gentili e la loro sorte non si spiega, se non in base a una prospettiva giu­ daica. Ebbene, Paolo si muove seguendo due linee ideali nei confronti di Israele: in consonanza con esso, egli continua a concepire lo status proprio di questo popolo e la decisività della sua funzione storico-salvifica, oltre al fatto di esprimersi con i canoni della sua cultura, sia per quanto riguarda la polemica anti-idolatrica propria del giudaismo del tempo e in specie della diaspora egiziano-alessandrina (cfr. Rom 1,18-31; 1 Ts 1,9), sia per quan­ to riguarda lo stesso fondamentale concetto di “giustizia”, cioè di ciò che fonda lo status di accettazione dell’uomo da parte di Dio, benché il Paol° cristiano opponga la fede alle opere80; in dissonanza con esso, egli si impc'

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na in un progetto di superamento della separatezza dai gentili, che Israele .nVece gelosamente nutriva per salvaguardare la propria identità nazionale c religiosa81. Dunque, Paolo coltiva due atteggiamenti apparentemente inconcilia­ bili, che costituiscono il paradosso fondamentale del suo pensiero. Da un jato, continua a considerarsi personalmente parte di Israele, sopportando anche varie opposizioni provenienti da quella parte e mantenendo ferma la tipica fede giudaica nella salvezza escatologica di quel popolo81. D all’al­ tro, egli ritiene che sia ormai Cristo e non più la Torah a configurare la nuova comunità degli eletti di Dio. In questo egli si distingue da altri set­ tori del cristianesimo primitivo, la cui parte maggiore, soprattutto a Geru­ salemme, riteneva che Cristo e la Torah fossero mutuamente compatibili, come Giacomo apertamente gli obietta (cfr. A t 21,20); egli invece consi­ derò i due poli sostanzialmente in antitesi e perciò inconciliabili. Anche per lui non ci sarebbe stata nessuna tensione, se gli ultimi tempi si fossero definitivamente imposti con la domenica di Pasqua: nell’ inaugurazione At\Yéschaton la Torah avrebbe normalmente terminato il suo ruolo, sic­ ché la funzione della Torah e del messia sarebbero stati complementari. Ma l’annuncio cristiano proclamava un messia apparso prima della mani­ festazione escatologica del regno di Dio, proponendo cosi nel perdurare della storia una giustificazione e quindi una salvezza dell’uomo dipenden­ ti essenzialmente dall’accettazione di quel Cristo e dall’appartenenza alla comunità che lo confessava messia e Signore8’. Paolo da queste premesse tirò le conseguenze più logiche o almeno le più nette, sicché per lui or­ mai vale il principio secondo cui «Cristo è il termine della legge» (Rom ,0>4 )> e perciò: «Se qualcuno è in Cristo, Il c ’è una nuova creazione: le cose antiche sono passate, poiché, ecco, ne sono sorte di nuove» (2 C or 5>i7). E così, pur considerandosi un giudeo in Cristo, egli fini per alienarsi le simpatie della maggior parte del suo proprio popolo, sia di quello che non aveva accettato l ’identificazione di Gesù con il Cristo, sia però anche di quello che una tale identificazione aveva accolto e proclamava. Il fatto che, nonostante tutto, egli non sia venuto meno alle proprie convinzioni, non solo denota la forza dell’impatto che la figura di Gesù Cristo esercitò sul suo animo (cfr. Gal 1,8: «Se anche noi stessi oppure un angelo dal cielo Vl Enunciasse un vangelo diverso da quello che vi abbiamo annunciato, Sla anatema»), ma rappresentò la conferma che era iniziata una nuova er­ meneutica dell’annuncio cristiano, che resiste a ogni addomesticamento evozionale o peggio moralistico.

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La comunità dei credenti in Cristo L ’originalità della posizione di Paolo in materia di cristologia e di sotc. riologia, e conseguentemente la riconsiderazionc del rapporto con la fede del popolo di Israele, comportò una riconfigurazione anche di come in­ tendere la comunità dei nuovi credenti. Costoro non vengono mai chia­ mati da Paolo né discepoli né cristiani, ma soltanto “fratelli” ( i n volte nelle sue lettere autentiche) e semmai “santi” (15 volte): due appellativi che mettono in rilievo rispettivamente la dimensione familiare della nuo­ va comunità (quanto ai suoi rapporti interni) e quella sacrale della sua di­ stinzione dal mondo (quanto ai suoi rapporti con l ’esterno)84. Quest'ulti­ ma designazione, per la verità, implica pure a monte una dimensione che non è solo di sociologia religiosa ma ancor più di ontologia personale. Proprio il concetto di santità, infatti, contraddistingue ormai il cristiano rispetto a ogni altra concezione di tipo morale. Ed è sempre sorprendente notare che, scrivendo ai corinzi e nonostante questi ultimi, secondo i no­ stri canoni, non fossero davvero degli “stinchi di santi” (cfr. le loro divi­ sioni, la pratica della prostituzione, le irregolarità matrimoniali, i conflitti tra coscienze forti e deboli, le tensioni fra carismi), li denomina comun­ que “santi per chiamata” (1 C or 1,2; 6,11) o semplicemente “santi” (2 Cor 1,1). Il motivo è che i battezzati non si danno da soli la propria santità, co­ struendola con i propri sforzi morali, ma sono dei “santificati” (1 C or 1,2) per grazia di D io: essi, cioè, per usare il linguaggio dell’apostolo, sono dei giustificati, dei perdonati, dei redenti, dei liberati, dei riconciliati, per un puro dono divino, il quale, proprio in quanto dono, non dipende da con­ dizionamenti morali di sorta (cfr. Rom 3,21-31). È solo su questa base che si comprendono le esortazioni anche insistenti alla santità (cfr. 1 Cor 6,9io; Fil 2,14-15; 1 Ts 4,3-8) o comunque le sollecitazioni a una vita moral­ mente pura: esse tendono a impegnare i destinatari non a “farsi santi”, ma a mantenere un livello di irreprensibilità morale che sia consono c omo­ geneo a quella dimensione di santità già presente in loro per pura grazia di Dio. D i qui si comprende pure l ’originale definizione della comunità cri­ stiana come «tempio di D io » (1 C or 3,iés; 2 C or 6,16; cfr. Rom 8,9)* Tra gli autori delle origini cristiane, Paolo è il solo a utilizzare questa immagine, di cui peraltro si hanno degli echi molto parziali in altri te­ sti8’, specialmente nei manoscritti di Qumran86. Superando ogni idc* pagana di religiosità legata a uno spazio fisico-architettonico, esente da

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forze negative e dunque privilegiato per l ’ incontro con il divino, la me­ tafora riconosce alla Chiesa come gruppo umano di credenti le mede­

sime caratteristiche di purità che procurano un’immediata unione con pio. L ’ immagine s’ inserisce in quella più ampia, di origine israelitica e quindi meno originale, di popolo di Dio, come si può dedurre chiara­ mente dalla loro associazione in questo passo: «N o i infatti siamo tem­ pio del Dio vivente, come ha detto D io: Abiterò in mezzo a loro e vi camminerò ed essi saranno il mio popolo» (2 C or 6,16 con citazione di Lv 16 ,11)87. Ancor più originale è la definizione, soltanto paolina, della Chiesa come «corpo di C risto» (cfr. 1 C or 12,18): essa si intende al meglio non come associazione di persone che unite insieme formano un corpo sociale appartenente a Cristo-capo, ma come allargamento “mi­ stico” del corpo individuale di Cristo stesso, sicché il corpo di Cristo preesiste alla Chiesa, la quale non lo forma ma vi viene semplicemente inserita, incorporata88.

Proiezione verso il futuro Un’ultima questione riguarda l’attesa della imminente fine del mondo (con la parusia di Cristo). È pur vero che essa unisce tutte le lettere au­ tentiche di Paolo, dalla prima (cfr. 1 Ts 4,15: «N oi i viventi, i superstiti per la venuta del Signore») fino all’ultima (cfr. Rom 13,11: «O ra la no­ stra salvezza è più vicina di quando venimmo alla fede»). D ’altra parte, al contrario dell’escatologia giudaica, che era ed è esclusivamente orien­ tata verso il futuro, quella cristiana sostiene sorprendentemente il para­ dosso che Yéschaton è già cominciato: non che questa nuova coscienza si sia affermata con Paolo, poiché probabilmente era chiara già in Gesù di Nazaret (cfr. Me 1,15: « Il tempo è compiuto») e doveva pure appartenere ai capisaldi della fede della Chiesa post-pasquale (cfr. A t 2,17: « E avverrà che negli ultimi giorni, dice il Signore, verserò il mio Spirito su ogni car­ ne», con riferimento all'avvenuta Pentecoste). Ma, anche se non è lecit0 dubitare che i testi riferentisi a questi due momenti storici pre-paolini Cl riportino la sostanza delle cose, essi tuttavia sono di redazione tardiva, irtam ente già caricati di una fede cristiana massicciamente espressa in Un periodo successivo89. Nelle lettere paoline invece abbiamo la possibi­ lità di cogliere questa fede nei termini più antichi e autentici, quasi in statu nascendi, come si constata soprattutto in due passi diversi: in Gal 4,4

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(«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il Figlio suo, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare quelli che erano sotto la legge ») e in i C or 10,11 (dove, ricamando a contrappunto sulla vita morale dei cri­ stiani in rapporto alle esperienze negative degli ebrei nel deserto dell’eso­ do, l ’apostolo scrive: «Queste cose accadevano loro in maniera esempla­ re e furono scritte come ammonimento per noi, per i quali è sopraggiunta la fin e dei tem pi»). Alcuni studiosi fanno giustamente notare la differenza tra la filoso­ fia greca e san Paolo, consistente nel fatto che, mentre l’una s’interessa all’immortalità dell’anima, l ’altro in realtà ha a cuore piuttosto l ’im­ mortalità del corpo90; in più bisogna precisare che l ’idea di una tensione della storia verso un suo compimento metastorico è semmai di matrice biblica, non certo greca. Ma se in campo cristiano c ’è stato un allenta­ mento nell’attesa della fine, esso si constata al meglio nel passaggio tra le lettere autentiche di Paolo e quelle della tradizione paolina successiva. Così in 2 Ts 2,2 si legge una esplicita messa in guardia a «non lasciarsi turbare [...] quasi che il giorno del Signore sia imminente», mentre in C o l-E f l ’ interesse prevalente riguarda l ’attuale signoria di Cristo a li­ vello tanto cosmico quanto ecclesiale, c nelle tardive lettere pastorali è addirittura l ’ordinamento ecclesiastico interno a diventare centro emer­ gente di attenzione. Uno spostamento di questo genere all’interno delle sole lettere auten­ tiche dell’apostolo non mi pare si possa documentare con sufficiente sicu­ rezza. È invece chiaro che in Paolo i due momenti dell’“essere con Cristo”, sia subito dopo la morte (cfr. Fil 1,21) sia alla fine dei tempi (cfr. 1 Ts 4,17)» coesistono senza che ne sia percepito alcun contrasto. Evidentemente egli non è preoccupato di offrire una presentazione sistematica del suo pen­ siero. L ’unico fattore risolutivo è offerto dal riferimento a Cristo, cioè dal fatto che l’esistenza del cristiano ha solo in lui la sua ragion d’essere, e di questa Paolo è sicuro che non verrà meno, poiché «né la morte né la vita [...] potranno separarci dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù Signore no­ stro » (Rom 8,38-39), e «se viviamo, viviamo per il Signore; c se moriamo, moriamo per il Signore», Rom 14,8). La posizione di Paolo, inoltre, andrebbe giudicata all’interno del plU vasto movimento di pensiero che connotò l ’escatologia cristiana tra i l 1 c il II secolo. La tesi di uno slittamento di prospettiva e cioè di una sem' pre più acuta ellenizzazione (secondo le vecchie teorie di Loisy e di v° n Hamack) si scontra con la testimonianza opposta di molti testi. Infat0,

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può constatare che l ’interesse per l ’escatologia futuristica e persino per il linguaggio apocalittico, almeno in alcuni settori della Chiesa, è ancor più alto dopo Paolo. Lo provano con sufficiente chiarezza l'Apocalisse di Giovanni, le lettere di Pietro e di Giuda, e le successive apocalissi apocrife cristiane (di Paolo, di Pietro, per non dire del Pastore di Erma); persino la post-paolina lettera di Giacomo sa che «la parusia del Signore è ormai vicina» (Gc $,8). Il fenomeno è parallelo alla ripresa dell’apocalittica in campo giudaico tra I e il secolo (come testimoniano gli apocrifi 4Esdra, ìBtiruc, Apocalisse d i Abramo). Quindi il giudizio su di un cambiamento d’interesse dovrebbe essere comunque molto più circospetto di quanto spesso avviene»1. si

Le componenti ellenistiche Nella storia della ricerca sui rapporti tra Paolo e la grecità è rimasto celebre ciò che ebbe a scrivere ironicamente Albert Schweitzer nel 1930 a proposi­ to della inutilità di ricorrere all’ellenismo per spiegare il pensiero dell’apo­ stolo; questo infatti sarebbe comprensibile soltanto in base all’escatologia giudaica: «C oloro che si affaticano a spiegarlo in base all’ellenismo sono simili a chi vuole trasportare da lontano l ’acqua in annaffiatoi bucati per irrigare un giardino posto accanto a un ruscello». Fuor di metafora egli riteneva che, benché sia indiscutibile la possibilità che Paolo insieme alla lingua greca abbia assunto idee elleniche, tuttavia « la maggior parte di ciò che finora è stato addotto dalla letteratura greca per spiegare il mondo concettuale di Paolo, non ha gettato su di esso la luce che ci si aspetta­ va»91. Schweitzer scriveva queste parole specificamente a proposito della cistica paolina, che appunto secondo lui troverebbe la sua sostanza sol­ tanto nel concetto di una escatologia già realizzata mediante la partecipa­ zione del cristiano al Cristo risorto. Le sue parole sono tanto più singolari ln quanto egli proveniva dalla stagione della religionsgeschichtliche Schule, che appunto aveva ripetutamente tentato di spiegare il meglio delle origini cristiane e in specie del paolinismo col ricorrere soprattutto alla grecità e al suo enorme patrimonio culturale e religioso, approdando a derive sinCretistiche” . Ma da allora a oggi la ricerca ha fatto grandi progressi, a livello sia di Una maggiore conoscenza delle fonti sia dell’applicazione a esse di una

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metodologia adeguata, c di conseguenza di una maggior cautela nel trarre conclusioni in materia. Infatti ormai varie pubblicazioni si sono interessa­ te a una specifica comparazione tra Paolo e il mondo greco-romano, prò. ducendo interessanti documentazioni a livello sia generale94 sia particola­ re99. Una pubblicazione recente enumera addirittura 136 testi paolini che implicherebbero altrettanti parallelismi con fonti pagane, anche se a volte le coincidenze risultano un po’ stiracchiate96.

Precisazioni metodologiche Qui di seguito si prendono in considerazione solo le lettere paoline la cui autenticità non è messa in discussione. Escludo però dall’indagine un paio di tematiche che, benché abbiano un sicuro corrispettivo nell’am­ biente ellenistico del tempo e siano perciò degne di una specifica com­ parazione, appartengono piuttosto alla periferia del pensiero paolino, in quanto riguardano rispettivamente l’aspetto linguistico-letterario degli scritti e quello socio-religioso delle comunità paoline. Il primo di questi settori esamina gli aspetti formali del discorso paolino, e cioè il tipo di lingua greca impiegato dall’apostolo97 e soprattutto l ’eventuale assunzio­ ne di elementi propri della retorica classica98 (con presumibile particolare riferimento al genere della diatriba)99. L ’altro settore si occupa del con­ fronto delle Chiese paoline con le associazioni religiose o con le scuole filosofiche del tempo100, per quanto il fenomeno è appunto constatabile nelle lettere101. Procederò non per esame di specifici testi paolini101, ma per compa­ razione di temi e concetti dell’apostolo che presentano evidenti paral­ lelismi con analoghi temi e concetti propri della grecità. Infatti, senza ignorare che il mondo culturale della prima età imperiale include neces­ sariamente anche la latinità, in quanto dipendente appunto dalla cultura greca10’, se teniamo conto di quanto un filosofo ebreo come Filone Ales­ sandrino scrive di Ottaviano Augusto, che ha «accresciuto l ’Eliade di molte altre E lladi»104, è con la grecità che è possibile il riferimento comparativistico. Lascio però da parte una serie di vocaboli importanti, con i relativi con­ cetti, che, essendo privi di un corrispondente termine ebraico, si spiegano soltanto in base al lessico greco10’. Prendo invece in considerazione alcun* elementi contenutistici del pensiero paolino, in quanto offrono sufficient*

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spunti di indagine in rapporto ai due settori della filosofia e della religione. Certo, può ben essere che gli elementi della dottrina paolina siano comun­ que mediati dal giudaismo e dalle sue molteplici sfaccettature (compresa quella del giudaismo ellenistico)104. Un esempio tipico è il tema della co­ noscenza naturale di D io in Rom 1,19-10: esso è certamente riconducibile a un caposaldo della filosofia greca (che va almeno da Platone a Dione di Prusa), ma giunge a Paolo mediato da una riflessione propria del giudai­ smo ellenistico (cfr. Sap 13 e Filone Al.)107. , Nonostante Paolo equipari polemicamente la sophia (“sapienza”) dei greci con la m òri (“stoltezza”) (cfr. 1 C or 1,11-14 ), ciò avviene solo a propo­ sito dell’annuncio della croce di Cristo e del suo significato'08.

Il condizionamento culturale di Tarso Già per la sua nascita a Tarso in Cilicia, e quindi a differenza di Gesù che era legato al piccolo villaggio galilaico di Nazaret'09, Paolo doveva essere dotato di una struttura mentale tendenzialmente aperta al patri­ monio ideale della grecità. L ’importanza culturale di Tarso, infatti, go­ deva di una notevole fama, come attesta il geografo Strabone (circa 63 a.C.-n d.C.): «Tanta passione hanno quegli uomini [di Tarso] per la filosofia c per ogni altra formazione enciclopedica, da superare Atene, Alessandria e qualsiasi altro luogo in cui sorgano scuole e diatribe di filosofi. M a differisce da esse perché tutti gli studenti sono del posto e i forestieri non vengono facilmente. Tuttavia gli indigeni non restano in patria, ma espatriano per perfezionarsi e poi si stabiliscono volentieri all’estero, mentre solo pochi tornano in p atria» "0. L ’affermazione circa •1 fatto che gli stranieri non vi si recavano facilmente va corretta con la notizia che abbiamo sul celebre filosofo itinerante Apollonio di Tiana (circa 10-95 d.C.), che a Tarso si recò da ragazzo per la propria forma­ ton e intellettuale'". Lo stesso Strabone ci tramanda un nutrito elenc° di filosofi tarsioti, soprattutto stoici"1, uno dei quali fu addirittura Precettore di Ottaviano Augusto. La sua importanza, non da ultimo, è Segnalata poi dal fatto che, come già ricordato, nel 51-51 a.C. Cicerone Vl Aggiornò per un anno in qualità di proconsole della C ilicia"5, e che Antonio vi si recò dopo la vittoria di Filippi in Macedonia nel 4 1 a.C. c 1 anno successivo proprio là lo raggiunse Cleopatra"4. Altre notizie Sulla dimensione culturale della città ci vengono dal filosofo eclettico,

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di poco posteriore a Paolo stesso, Dione di Prusa o Dione Crisostomo (circa 45-115 d.C.), che vi soggiornò un paio di volte tenendovi due si­ gnificativi discorsi11’.

Il concetto greco di “inculturazione” L ’apostolo ha largamente praticato il principio dell’adattabilità o condi­ scendenza culturale, che oggi chiameremmo inculturazione (cfr. 1 Cor 9,19-13)“*, che appartiene al concetto di sygkatdbasis (“accondiscenden­ za, adattamento”, in latino condescensio), proprio della tradizione greca"7. Pur precisando che tale prassi non va identificata con il carattere del kólax (“adulatore”), condannato da molti scrittori greci, essa dev’essere attuata con misura, come si legge in Epitteto: « C h i scende di frequente a contatto con gli altri [...] dovrà necessariamente o uguagliarsi a loro (exomoiothénai) o trasportare loro al proprio livello (m etatheinai epi tà autou). Infatti, se si pone un carbone mezzo spento vicino a uno che brucia, o quello spegnerà questo o questo infiammerà quello [...]. Poiché dunque il rischio è alto, bisognerà essere molto circospetti nell’accondiscendere (eulabós dei sygkathiesthai) a simili relazioni»"8. Essa era ap­ plicata, oltre che in retorica, soprattutto a chi da una classe sociale alta si chinava verso chi stava più in basso. Una sua specificazione riguarda la condiscendenza divina, come si legge in Filone Alessandrino a pro­ posito del sogno di Giacobbe su una scala con gli angeli che salivano e scendevano (cfr. Gen 18,11-13): «Salgono e scendono le parole divine: quando salgono portano l ’anima con sé [...], quando scendono lo fanno per accondiscendere (sygkatabainontes) con amore e misericordia verso il nostro gene^e»",. Sull’adattamento di Paolo secondo 1 C or 9,19-13 cosi scriverà Clemente Alessandrino: «C o lu i che accondiscende a que­ sto adattamento per la salvezza del prossimo (solo ed esclusivamente per la salvezza di coloro per i quali si adatta) non adopera nessuna fin­ zione [...] non subisce alcuna costrizione. Solo per il bene del prossimo farà certe cose, che non avrebbe mai fatto a priori, se non per amor loro: questo come esempio per quanti sono in grado di succedergli nel compito di educatore, amico degli uomini e amico di D io; questo pcf mostrare la verità delle sue parole, per rendere attivo l ’amore verso *1 Signore»'10. ’ Non c’è dunque da meravigliarsi se l’apostolo praticò una synkatdba*1*

PAOLO di tarso , l ’ imprevisto

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anche a livello culturale con l’assunzione di determinati concetti del mon-

j 0 greco, a cui appartenevano i suoi destinatari. Lo possiamo constatare in rapporto sia allo stoicismo, sia a temi di varia natura, sia probabilmente anche all’ambito propriamente religioso.

Paolo e lo stoicismo Sono più di uno i segni di qualche eco della filosofia stoica nelle lettere di

Paolo'11.1 princìpi di questa scuola, infatti, per loro natura non sono lon­ tani da alcuni elementi propri del cristianesimo, se appena teniamo con­ to di quanto ne scrive Seneca: «Nessuna scuola è più benevola e gentile, nessuna più amante degli uomini e più attenta al bene comune, cosicché suo oggetto dichiarato è di essere di utilità e aiuto e di considerare non sol­ tanto l’ interesse individuale ma l ’interesse di ciascuno e di tutti» (Clem. 1,5,1-3). Certo va detto chiaramente che Paolo non è affatto un rappresen­ tante dello stoicismo, e una piccola ma significativa spia della differenza si vede nel suo uso pressoché inesistente del concetto di arete (“virtù”), che egli impiega una volta sola (in Fil 4,8), in un testo peraltro formulato in termini assiomatici, mentre lo stoicismo già con Zenone di Cizio la esalta addirittura come «sommo bene»111. Vediamo più in dettaglio, senza presumere la completezza115, alcuni punti che di fatto costituiscono un terreno comune tra le due parti. In primo luogo richiamo quei testi in cui l’apostolo definisce la comu­ nità cristiana e soprattutto gli stessi singoli cristiani come tempio-abita­ zione di Dio (cfr. 1 C or 6,19). È vero che l ’immagine del tempio applicata alla comunità intera (cfr. 1 C or 3,i6.i7b) non è stoica, trovandosi invece a Qumran (cfr. iQ S v i li 5; x i 8s), ma propriamente stoica invece è l’idea di una presenza o inabitazione di dio o del divino in ogni singolo uomo, come si legge chiaramente in Seneca'14, Epitteto11’ e Marco Aurelio'1*. Ovviamente la differenza sta nella concezione di questo ospite interno, che per gli stoici è il lògos razionale mentre per Paolo è lo Spirito Santo (cfr. anche 1 C or i,zz; Gal 4,6). M a l ’affermazione di una presenza divina neH individuo è del tutto analoga. Un tipico ideale stoico è Yautdrcheia, cioè la facoltà di disporre auton°oiamente di se stessi senza dipendere dalle circostanze esteriori. Paolo condivide questo ideale c lo dice con chiarezza in 1 Ts 4 ,11 («N on avere isogno di nessuno») c in Fil 4 ,11-11 (« H o imparato a bastare a me stesso

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(autdrcbes einai) in ogni occasione: ho imparato a essere povero e ho Un. parato a essere ricco; sono iniziato a tutto, in ogni maniera; alla sazietà e alla fame, all’abbondanza e all’indigenza»). Analogamente Epitteto dice di sé: «Sono senza casa, senza città, senza beni, senza schiavi; il mio gia. ciglio è la terra; non ho moglie, non figli, non una casetta, ma la terra sol­ tanto e il cielo e un unico mantello. Eppure, che cosa mi manca?» (Diatr. 3,11,47). Il medesimo concetto paolino viene espresso da Marco Aurelio quando afferma esplicitamente di avere imparato ad «aver bisogno di po­ che cose e a fare da solo» (Rie. i,s)U7. Affine a questa tematica è il concetto di hypomone, “pazienza, sop­ portazione” (Rom 5,3.4; 8,15; 15 ,4 .5 ;1 C or 1,6; 6,4; 11 ,11; 1 Ts 1,3), acuì Seneca dedicò un intero trattato, il D e constantia sapientis (“la fcrmezza/inalterabilità del saggio”). Qui il filosofo si esprime con i bellissimi accenti di un ascetismo che avrà notevoli influssi anche sulla successiva spiritualità cristiana. V i leggiamo che il sapiente è come uno scoglio, contro cui si infrangono le onde più minacciose senza alcun suo danno (cfr. J,5)'18: «E gli sopporta ogni cosa, come sopporta il rigore dell’inver­ no, le intemperie, la febbre, la malattia c tutte le altre circostanze dovute alla sorte [...]. Egli appartiene alla categoria degli atleti, i quali con lun­ go e costante esercizio sono riusciti ad acquistare la forza di sopportare e di fiaccare ogni assalto nemico» (9,1.5); tutto ciò è possibile nella misura in cui il saggio «fondato sulla ragione (ratione innixus) passa attraverso le vicende umane con animo divin o» (8,3); di qui l ’esortazione conclu­ siva: «D ifendi il posto che la natura ti ha assegnato. Tu chiedi qual è questo posto? Quello di uom o!» (i9 ,4)119. Ciò che distingue l ’apostolo sono le motivazioni, che non risiedono nella sola ragione, ma si fondano sui dati della fede, dell’assimilazione a Cristo e dell’ inabitazione dello Spirito. In Rom 1,14-31 Paolo enumera una serie di vizi ritenuti conseguenza dell’idolatria come misconoscimento della vera identità di D io da parte degli uomini. Per tre volte (w. 14 .16 .18 ) egli afferma in termini ripetitivi che «D io li consegnò» a una serie di passioni disonorevoli, che vanno dall’omosessualità alla mancanza d i misericordia. In questo modo D i° esercita un giudizio su un’ampia varietà di peccatori. Ma la cosa interes­ sante è che questo giudizio, tutt'altro che essere rimandato al futuro esca' tologico (così poi in Rom 1,1-11), si compie nel fatto stesso del comporta' mento immorale e depravato proprio dei viziosi, secondo il principio d* una giustizia immanente. Ebbene, traspare qui un concetto tipicament6

pao lo

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stoico, che è quello secondo cui, cosi come la virtù è premio a se stessa, allo stesso modo il vizio è castigo a se stesso, esattamente come leggiamo in Se­ c c a i « L a massima punizione dei delitti sta in essi stessi» (Epist. 87,14 ) 1’0. Questa enunciazione stoica si fonda su delle premesse di fondo, poiché « l’etica greca deduce la moralità unicamente dallaphysis dell’uomo [...] e fa astrazione da qualsiasi potenza superiore che regoli il suo agire dal di fuori [...]. Uno Zeus che con un suo decalogo crei la moralità sarebbe stato inconcepibile per gli Elleni»1’1. L ’uomo greco, infatti, fonda la mo­ ralità nient'altro che nella legge di natura e nel lògos inerente all’uomo. Il fatto che Paolo in Rom 1,14-31 non faccia nessun riferimento a un giudizio divino metastorico, oltre a porre una questione sulle dipendenze redazio­ nali della lettera, è segno che, almeno in quella sezione, egli dipende da un background culturale extra-giudaico. Anche ciò che Paolo dice della comunità cristiana come sòma (“cor­ po”) (Rom 11,4-5; 1 C or 11,17 ) ha delle chiare equivalenze nella filo­ sofia stoica. La definizione non appartiene certamente alla tradizione giudaica, perché nell’ottica di Israele non si può assolutamente parlare di un «corpo del Cristo/messia» e tanto meno di un «corpo di Adonai/ J h w h » 1’ 1. Perciò l’ interrogativo fondamentale è se eventualmente esi­ sta a livello comparativistico un sintagma analogo a quello. È necessario evitare quei casi in cui il concetto di corpo viene utilizzato soltanto in forma generica o assoluta (per esempio Crisippo definisce «un corpo solo», hèn sòma, un’assemblea, un esercito c un coro)'” . Piuttosto, pos­ sono entrare in conto solo quei casi in cui il termine “corpo” è costruito in modo tale da reggere un genitivo di specificazione; ma i tipi di corpo sono tanti, e lo stoicismo ne enumera più d ’uno1’4. Perciò bisogna ulte­ riormente escludere sia il riferimento al solo corpo morto di un persona, visto che Paolo intende comunque un’entità vivente, sia il suo uso come semplice perifrasi per indicare una qualche persona viva individuale1” , Sla anche la sua associazione a un termine astratto1’*. Occorre invece te­ n e in conto le designazioni di un insieme, possibilmente di una collettlvità in quanto dipendente da una persona precisa o comunque relazio­ n a a essa. Per quanto è dato sapere, una costruzione di questo genere Csiste per esprimere una doppia semantica; a livello cosmico per indicare 1universo e a livello politico per indicare la società civica. La prima, at­ testata in testi orfici di non facile datazione, descrive il cosmo come un Corpo immenso identificato con Zeus (cfr. Fram m enti orfici 168,11.24; ^ Tutte queste cose [fuoco, acqua, terra, aria, notte e giorno] giacciono

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nel grande corpo di Zeus, [...] corpo raggiante, incrollabile, immenso») oppure ne indica le varie parti come «m em bra» di un dio (cff. In n i or­ fic i 11,3: qui, dopo aver definito il dio Pan come «totalità del mondo», si definiscono il cielo, il mare, la terra, il fuoco, come «membra dello stesso Pan»; nell’/«»