Interroghiamo i filosofi. Antologia tematica [Vol. 2]
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Simonetta Pighini Angelo Vannucci

Interroghiamo i Filosofi antologia tematica Cos'è il pensiero? Quale spazio ha l'arte nella vita dell'uomo? L'esistenza dell'uomo: felicità, angoscia, alienazione? I diritti dell'uomo si realizzano nello Stato?

e

RINGRAZIAMENTI Dobbiamo un ringraziamento a chi ci ha suggerito questo lavoro, il Prof. che, insieme a Claude Morali e André Sénik, è autore del manuale La philosophie camme débat entre !es textes, da cui abbiamo tratto lo spunto per la struttura di Interroghiamo i Filosofi.

José Medina

Gli Autori

GUIDA ALLA LETTURA E ALLA UTILIZZAZIONE Ogni capitolo propone una domanda generale su un tema, all'interno della quale si apre una serie di sottodomande che possono, nella loro indipendenza, essere affrontate in modo autonomo, pur avendo una loro consequenzialità logica. Caratteristica dell'antologia è il criterio della doppia pagina, dove, rispetto alla domanda proposta, si trovano risposte contrapposte o argomentazioni diversificate: qualche autore, che mantiene una posizione più articolata o meno definita, è posizionato tra le due pagine. Per una più agevole consultazione, ogni capitolo è contraddistinto da un colore diverso; il numero della domanda, posto nel quadrato colorato dell'indice, è riportato sulla banda colorata della doppia pagina. I testi sono corredati da note esplicative, ben evidenziate, in modo tale da non interferire con i brani e, in pari tempo, da fornire una veloce sintesi dell'argomentazione dell'autore. All'inizio di ogni capitolo è presente un'introduzione, che offre una ricostruzione storica del problema e un percorso di lettura per i testi antologizzati, i cui autori sono evidenziati in grassetto e con un asterisco. Il testo è corredato di una biobibliografia essenziale degli autori citati. Le date poste a fianco dei nomi dei filosofi si riferiscono al periodo di stesura o di pubblicazione del testo riportato.

© 1999 by Canova Editrice - Treviso Stampa Zoppelli - Dosson di Casier (Treviso)

ISBN 88-87061-79-3

4 7 41 73 105

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Indici dei Capitoli Capitolo 1 Capitolo2 Capitolo 3 Capitolo 4 Bio-bibliografia

INDICE CAP. 1

INDICE CAP. 2

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Introduzione, 7

• • • • • •l • • • • • • • •

lo penso, dunque sono: è la prima verità?, 12 A. Agostino - R. Descartes, 12 G.W. Leibniz- F. Nietzsche, 13

La mente è una ''tabula rasa"?, 14 Platone - G.W. Leibniz, 14 Aristotele -J, Locke, 15

C'è qualcosa di innato nella nostra mente?, 16 Platone - N. Chomsky, 16 J.Locke, 17

Il corpo è un ostacolo per la mente?, 18 Platone, 18 F. Nietzsche, 19

La mente è distinta dal corpo?, 20 R. Descartes, 20 R. Rorty, 21 La mente è il cervello?, 22 Eccles, 22 . Young, 23

L'essere pensante è una macchina?, 24 G.W. Leibniz, 24 ].O. La Mettrie, 25 Le macchine possono pensare?, 26 A.M. Turing, 26 J.Searle,27

Possiamo essere certi che esiste un mondo esterno alla nostra mente?, 28 G. Berkeley, 28 - G.E. Moore, 29 Possiamo essere certi dell'esistenza di altre menti?, 30 ]. Locke - T. Nagel, 30 - G. Ryle, 31 C'è un "io" che permane al di là delle nostre rappresentazioni"?, 32 D. Hume, 32 - I. Kant, 33

Dare ordine alla realtà significa crearla?, 34 I. Kant, 34 J.G. Fichte, 35 L'io è ilpadrone dei nostri pensieri?, 36 I. Kant, 36 S. Freud - P. Ricoeur, 37 Si può concepire un pensiero inconscio?, 38 S. Freud,38 J.P. Sartre, 39

4

Introduzione, 41

• • • • • • • • • • • • •

Da cosa si distingue l'arte?, 46 B. Croce, 46 G. Vico, 47

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L'arte accende le nostre passioni o ci purifica da esse?, 48 Platone - H. Marcuse, 48 Aristotele - H. Marcuse, 49 L'arte è solo riproduzione della realtà o apre a una dimensione di verità?, 50 Platone, 50 - M. Heidegger, 51 L'arte è imitazione o creatività?, 52 Aristotele, 52 G.W.F. Hegel, 53 L'arte ci avvicina a Dio?, 54 Plotino, 54 Bonaventura da Bagnoregio - L. Da Vinci, 55 Il bello è oggettivo o è legato alla soggettività del gusto?, 56 I. Kant, 56 - D. Hume, 57 L'arte è l'organo della filosofia?, 58 F.J.W. Schelling, 58 G.W.F. Hegel, 59 L'arte è espressione della propria epoca o coglie una dimensione assoluta ed eterna?, 60 K. Marx-F. Engels - K. Marx, 60 E. Bloch - G. Lukacs, 61 L'arte è intuizione o produzione tecnica?, 62 B. Croce, 62 L. Pareyson, 63 L'arte è espressione dell'inconscio?, 64 A. Schodenhauer, 64 S. Freu - F. Nietzsche, 65 L'arte è per pochi o per tutti?, 66 J.K. Huysmans - O. Wilde - G. D'Annunzio, 66 G. Gentile, 67 Qµal è il legame dell'arte con la società contemporanea?, 68 W. Benjamin, 68 - T.W. Adorno, 69 Qual è il rapporto tra arte e politica?, 70 P. Togliatti - P. Picasso, 70 A Gramsci - E. Vittorini, 71

INDICE CAP. 4

INDICE CAP. 3

Introduzione, 73

Introduzione, 105

tal Possiamo scegliere la nostra vitaf, 78 ··' Platone, 78

Il Si può paragonare la libertà degli antichi alla libertà dei moderni?, 11 O Platone - Aristotele, 110 B. Constant, 111

K. J aspers, 79

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,,,...,.,

La felicità consiste nella ricerca del piacere?, 80 Epicuro, 80 Zenone di Cizio - L.A. Seneca, 81

f~ La vita può renderci felici?, 82 ,.!?Jlll Plotino, 82 A. Schopenhauer, 83

[Il Riflef!ere sulla mo~te aiuta a vivere benef, 84 "· Epicuro - M.T. Cicerone, 84 M.E. de Montaigne, 85

e

Il diritt~ si fonda sulla natura o sulla ·• · · convenztonef, 112 M.T. Cicerone - U. Grozio, 112 D. Hume - F. Engels, 113

Il Qµali diritti bisogna sacrificare per lo Statof, 114 · ~

Il pensiero della morte è paralizzante per la ,.&~ nostra vitaf, 86

T. Hobbes, 116

J. Locke, 117

S. Freud, 86 - M. Heidegger, 87



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B

Perché il suicidio non è una soluzione per le sofferenze della vitaf, 88 Tommaso d'Aquino - I. Kant, 88 A. Schopenhauer, 89

g

Si possono conciliare Stato e libertà individuale?, 118 J.J. Rousseau, 118 - M. Bakunin, 119 J.S. Mili, 118-119 ·

L'uomo si affanna nel mondo per sfuggire a se stesso?, 90 B. Pascal, 90 - M. Heidegger, 91

~

Scoprirci liberi ci rasserena o ci angosciar, 92 I. Kant, 92 S. Kierkegaard, 93

R

C'è più pietà o malvagità nell'uomo?, 94 D. Hume -J.J. Rousseau, 94 T. Hobbes - A. Schopenhauer, 95

~

Nella sua precarietà, l'esistenza è destinata al ~,.wi "naUJ1.t.gtO, ,.t;M • "" K. J aspers, 96 N. Abbagnano, 97

Il Il nostro essere ha il suo fondamento negli altrif, 98 G.W.F. Hegel, 98 J.P. Sartre, 99

Il Euomo si realizza o si aliena nel lavoro?, 100 G.W.F. Hegel, 100 K. Marx, 101

l1 felicità?, Il prezzo del progresso è la rinuncia alla 102

~

S. Freud, 102 M. Horkheimer - T.W. Adorno, 103

Per la convivenza umana è necessario un potere

~ assoluto?, 116

~-

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T. Hobbes - B. Spinoza - J.J. Rousseau, 114 T. Hobbes - B. Spinoza -J.J. Rousseau, 115

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E

La libertà deve precedere il potere?, 120 Dichiarazione dei diritti - B. Constant, 120 N. Bobbio, 121

Qual è l'uomo dei ''Diritti dell'uomo"?, 122 K. Marx, 122 H. Arendt, 123 La maggioranza ha sempre ragione?, 124 H. Kelsen, 124 A. De Tocqueville, 125

Possiamo giungere all'estinzione deUo Statof, 126 M. Bakunin - N. Bobbio, 126 N. Lenin, 127 La giustizia e l'equità sono a fondamento dello Statof, 128 J. Rawls, 128 R. Nozick, 129 La sfera privata deve essere un limite per lo

Statof, 130 G. Gentile, 130 J.S. Mili, 131

·

Il Lo Stato l~berale ha una dimensione eticaf, 132 C. Schmitt - G.W.F. Hegel, 132 B. Croce, 133

Il La ragione dello Stato deve sempre prevalere?, 134 A. Moro, 134-135

G.W.F. Hegel, 134 - M. Stirner, 135

INTRODUZIONE In un'accezione più ristretta il termine pensiero indica l'attività discorsiva e mediata della ragione, distinta da quella dei sensi e della volontà, e a questo significato molto spesso si riferisce il discorso filosofico; d'altra parte il termine viene usato anche in senso più ampio, come ciò che comprende qualsiasi attività mentale, anche intuitiva o emozionale. Un'ulteriore distinzione riguarda il pensiero come fatto psichico (come attività) e il pensiero come prodotto (come ciò che si pensa). Infine, in filosofia, il concetto di pensiero è stato spesso esteso oltre i confini della singola attività mentale individuale, per assumere il significato di un'entità universale, identificantesi o con Dio, o con l'essere o con la natura o comunque con un pensiero superindividuale e impersonale. Un posto di rilievo nella storia della filosofia hanno le concezioni che vedono il pensiero contrapposto alla percezione sensibile e che rimandano al dualismo corpo-anima, reso esplicito nella filosofia moderna da Cartesio. Nella Grecia del V e IV secolo a.C, troviamo già definiti i termini del problema riguardante il rapporto tra lo spirito e la materia, con il sorgere di due fondamentali teorie contrapposte: il materialismo (che ritt'ene tutta la realtà riconducibile alla materia) e l'idealismo (che ritiene l'idea il principio della realtà). Alle origini della filosofia, Eraclito e Parmenide considerano il pensiero razionale distinto dai sensi e il solo capace di far accedere l'uomo alla verità, una concezione fatta propria anche da Socrate e da Platone. In Democrito (460-370 a.C.) troviamo la prima concezione materialistica, per cui l'anima, al pari di tutto l'universo, è composta soltanto da atomi. Quindi anche la parte spirituale dell'uomo è il prodotto della materia e il pensiero è una funzùme del corpo, una delle sue facoltà. Opposto al materialismo, l'idealismo ha in Platone* (427-347 a.C.) il massimo interprete nell'antichità. Nella sua filosofia troviamo la più antica formulazione dell'innatismo, una teoria della conoscenza che si riproporrà in tutta la storia del pensiero filosofico; dal cristianesimo (Agostino, Bonaventura) all'età moderna (Descartes) fino ai con tempora-

nei (Chomsky). Secondo questa teoria nell'uomo sono presenti fin dalla nascita, prima di qualsiasi esperienza, idee, principi o strutture che rendono possibile la conoscenza. È nota la dottrina platonica della reminiscenza, a cui fa riferimento lo stesso Chomsky nel panorama filosofico contemporaneo: l'anima è già in possesso, fin dalla nascita, delle idee, che riaffiorano attraverso il "ricordare" dovuto allo stimolo del!' esperienza. Platone pone anche l'accento sul carattere discorsivo e relazionale del pensiero (dia-noia), che considera un parlare, un dialogare dell'anima con se stessa. Aristotele* (384-322 a.C.) rifiuta la dottrina delle idee di Platone e si oppone all'innatismo, accordando una maggiore importanza alt' esperienza. La differente concezione della conoscenza in Aristotele e Platone è legata anche ad una diversa rappresentazione dell'anima. Mentre per Platone questa è prigioniera del corpo, per Aristotele forma invece con il corpo un'unità inscindibile, un sinolo di/orma (anima) e materia (corpo). Poiché per Aristotele la forma permette l'attualizzazione delle potenzialità della materia, l'anima, in quanto forma, rende attuale la vita di un corpo solo potenzialmente vivo. Essa ha tre funzioni (vegetativa, sensitiva, intellettiva), la terza delle quali è esclusiva dell'uomo ed è la facoltà razionale, cioè la facoltà di conoscere attraverso concett~ elaborati a partire dalla conoscenza sensibile. Aristotele respinge quindi la dottrina platonica di un'anima che contempla le idee già esistenti in sé, ma ritiene piuttosto che esse siano il frutto di un processo astrattivo mediato dalla sensibilità. Di per sé l'intelletto umano non ha alcuna conoscenza, è soltanto potenziale, nel senso che può formare e quindi contemplare le idee. I:intelletto per Aristotele è passivo e attivo: passivo nel senso che non ha in sé nessuna conoscenza (è una tabula rasa), e recepisce i dati dal mondo esterno, attivo in quanto elabora le idee attraverso processi di astrazione. Anche la conoscenza è quindi un passaggio dalla potenza all'atto. Aristotele concepisce l'attività contemplativa del pensiero, svincolata dagli aspetti pratici; come la più alta. Quindi Dio, in quanto perfezione, non 7

può che identificarsi con il pensiero nella sua universalità (è pensiero di pensiero). Nell'età ellenistica, il materialismo viene ripreso da Epicuro, mentre gli stoici esprimono una posizione diversa sia dal materialismo che dall' idealismo, giungendo ad una concezione monista. Già Platone aveva messo in luce il carattere discorsivo del pensiero: questo viene ripreso nella filosofia cristiana da Agostino* (354-430), che afferma che pensare è un parlare nel proprio cuore. I.:atteggiamento di autoascultazione conduce alla scoperta dell'interiorità dell'uomo come sede della verità: con la riflessione interiore l' uomo contempla la propria anima e vi riconosce la presenza di Dio. La coscienza di sé, della propria esistenza, è la più certa: lo scetticismo degli accademici si combatte affermando che chi dubita della verità è certo di dubitare, quindi di vivere e di pensare. Il dubbio conduce dunque alla prima verità, che scaturisce dall'interiorità dell'anima, in modo completamente indipendente dai dati della sensibilità. Nella Scolastica, anche Tommaso D'Aquino (1225-1274) conferma l'idea che insieme con il pensiero si ha la percezione del proprio essere. Nell'epoca moderna, questo atteggiamento è fatto proprio da René Descartes* [Cartesio] (15961650), che fa del "cogito" il principio della sua filosofia: Cartesio individua nella pratica dello scetticismo un metodo per giungere a verità assolutamente certe; egli constata, attraverso il dubbio metodico e iperbolico, di poter dubitare di tutto, tranne che della propria esistenza. Dal principio che il soggetto, con il penst'ero, può intuire autonomamente la propria esistenza, si conclude che il pensiero è l'essenza del soggetto: di qui il famoso dualismo fra il corpo, la sostanza estesa, soggetta alle leggi meccaniche della fisica, e la mente, la sostanza pensante, che non ha bisogno del corpo per esistere. Il dualismo cartesiano sarà destinato a influenzare profondamente la filosofia successiva, mentre il problema del rapporto mente-corpo è ancora oggi uno dei più dibattuti. Cartesio aveva ammesso la presenza di idee innate nella nostra anima,- l'innatismo viene 8

affermato anche dai platonici di Cambridge, che si richiamano al platonismo fiorentino del Quattrocento e che sono il bersaglio polemico del Saggio sull'intelligenzarumana di fohn Locke* (1632-1704). I platonici di Cambridge (i cui più importanti esponenti sono Cudworth, Glanvitl e More), ritengono che nella mente umana siano presenti essenze intelligibil~ verità universal~ tra cui i principi fondamentali della religione e della morale. Locke nega che gli uomini possiedano un simile patrimonio di conoscenze indipendenti dall'esperienza, riprendendo la nozione di intelletto come "tabula rasa", su cui l'esperienza scrive tutti i contenuti del pensiero. Per esperienza Locke però non intende soltanto l'esperienza esterna, che deriva dai sensi, ma anche quel!'esperienza interiore, che la filosofia moderna aveva già posto in evidenza, e che egli definisce riflessione. Una forma di innatismo, diverso da quello di Cartesio e dei platonici di Cambridge, è professato invece da Gottfried W. Leibniz* (1646-1716): contro Locke, e richiamandosi espressamente a Platone, Leibniz sostiene la presenza nell'anima di conoscenze innate in forma virtuale, che attraverso l'attività della mente, stimolata dall' esperienza, si faranno coscienti. I:argomento definitivo di Locke contro l'innatismo era stata la contestazione dell'asserto cartesiano che "l'anima pensa sempre", cui egli aveva contrapposto l'idea che il pensiero esiste solo quando è oggetto di coscienza. In risposta a Locke, Leibniz elabora un'interessante anticipazione del concetto di inconscio: pur riprendendo la convinzione cartesiana di un pensiero permanente nell'uomo, egli respinge la coincidenza fra i contenuti di coscienza e le idee chiare e distinte, ammettendo anche un pensiero oscuro, inconsapevole, le piccole percezioni. Rispetto al meccanicismo e al materialismo, Leibniz nega come Cartesio la derivabilità del pensiero dalla materia, ma si oppone all'accezione cartesiana dell'animale-macchina, attribuendo anche all'animale un'anima sensibile. Partendo dal meccanicismo cartesiano, invece, ]ulien Offroy de La Mettrie* (1709-1751) approda alla concezione dell'uomo come macchina, rifiuta il dualismo fra pensiero ed estensione e considera il pensiero una proprietà della materia.

La materia, per La Mettrie, è attiva e ha in sé il principio della vita: può quindi produrre tutti i fenomeni psichici, compresi i sentimenti. George Berkeley* (1685-1753) e David Hume* (1711-177 6) traggono dall'empirismo conseguenze radicali. Cartesio aveva distinto l'idea dalla cosa (la presenza nella mia mente di rappresentazioni di oggetti esterni non implica necessariamente l'esistenza di questi oggetti) ed aveva introdotto Dio come garante della veridicità delle idee sulla realtà esterna. Berkeley giunge a sostenere che la realtà delle cose rt'siede solo nella capacità della mente di percepirle, riducendo la realtà esterna a semplice percezione interiore, senza la quale non si può parlare di esistenza empirica. È Dio, quale mente onnicomprensiva e onnipresente che percepisce tutte le cose, a produrre nella nostra mente le idee attraverso le quali conosciamo il mondo. Il tema dell'Io, che Cartesio aveva trattato per la prima volta in modo esplicito ponendo l'Io come coscienza e soggettività, è oggetto di analisi critica da parte di Hume. Egli dissolve la nozione di lo come soggetto-sostanza a cui tutto il sentire, il pensare, l'agire viene riferito, riducendolo a un fascio di percezioni, nelle quali non è dato individuare l'immutabilità e l'identità erroneamente ad esso attribuite. La gnoseologia di lmmanuel Kant* (17241804), pur non essendo definibile in termini di innatismo, riprende alcuni aspetti della dottrina leibniziana nel sostenere la non derivazione empirica delle forme a priori della conoscenza. La ragione, a fondamento dell'universalità e della necessità della conoscenza, non è considerata da Kant come una facoltà di pensiero guidata dall' esperienza e ancorata ad essa, ma come l'attività che prescrive le regole e le condizioni di unificazione dell'esperienza stessa: da qui l'enunciazione della rivoluzione copernicana, vale a dire l'affermazione che nel processo conoscitivo non è il soggetto a conformarsi all'oggetto, ma è viceversa l'oggetto a regolarsi sul soggetto. Rispetto al problema dell'Io, Kant distingue fra la coscienza empirica di sé, percepita attraverso il senso interno, e l'autocoscienza che produce «la

rappresentazione io penso», cioè la coscienza puramente logica che l'io ha di sé come soggetto del pensiero. J.:lo penso, unità soltanto formale, è la condizione suprema della conoscenza, e, in quanto rappresentazione una e identica in ogni coscienza, è la garanzia della congiunzione nella coscienza delle molteplici rappresentazioni. J.:lo kantiano non è però infinito né dotato di potere creativo: suo limite è la cosa in sé, che rimane comunque trascendente. Nell'idealismo fichtiano, questo lo diventa assoluto e creatore, non solo principio della conoscenza, ma anche della stessa realtà. ]ohann G. Fichte* (1762-1814) si propone di superare il dualismo kantiano fra fenomeno e cosa in sé, ponendo a fondamento di tutta la realtà l'attività libera e spontanea dell'Io. La tesi del carattere infinito dell'Io è condivisa anche da Schelling e da Hegel il quale, contro la teoria kantiana dell'incapacità costitutiva dell'intelletto di conoscere la cosa in sé, sostiene la fondamentale intelligibilità di tutta la realtà. Al contrario, la filosofia di Friedrich Nietzsche* (1844-1900), anticipando temi che saranno ripresi dalla psicanalisi, approda ad una vera e propria destrutturazione del soggetto. La metafisica e la psicologia tradizionali hanno postulato un lo, come anima o ragione, che presiede e controlla la vita psichica; nel Cosi parlò Zarathustra, Nietzsche invita a guardare oltre ciò che viene chiamato spirito, per scorgerne le radici nella fisicità, nelle pulsioni che risiedono nel corpo e che i "dispregiatori del corpo" hanno sempre misconosciuto. Ma ancora, in altre opere, Nietzsche contesta l'affermazione dell' "io penso" come certezza immediata, giacché niente ci dà diritto di parlare di un lo, e soprattutto di un lo come causa dei pensieri. Ma ad aver definitivamente messo in discussione l'unità psichica dell'Io, è la psicanalisi di Freud che, secondo l'interpretazione di Paul Ricoeur* (1913), ha inferto il colpo di grazia al narcisismo dell'uomo, svelando che egli non è padrone dei propri pensieri. Il concetto di inconscio, già anticipato da Leibniz, ripreso nel Romanticismo e sviluppato da Schopenhauer come volontà di vivere, acquista con Sigmund 9

Freud* (1856-1939) contenuti e significati molto più determinati: l'inconscio diventa la sede delle energie legate alle pulsioni sessuali represse, nonché delle stesse forze psichiche che le reprimono. Per Freud i nostri processi psichici cosct'enti sono solo atti isolati e frazioni della vita psichica totale: l'Es, depositario delle nostre pulsion~ lo stesso Super-io, che incarna la coscienza morale e i diviet~ sono incons~ così come molti dei processi psichici dell' lo, come dimostrano le resistenze nel corso dei trattamenti psicanalitici. Segni dell'attività inconscia sono gli atti mancati; i sogni; i sintomi dei nevrotici: attraverso l'interpretazione psicanalitica è possibile ricondurli a manifestazioni di pulsioni e desideri inconsc~ di cui rappresentano forme di soddisfazione sostitutiva. Nell'affrontare il problema della malafede fean-Paul Sartre* (1905-1980) mette in luce l'inconsistenza della soluzione psicanalitica. La critica fondamentale, di derivazione lockeana, riguarda il fatto che qualsiasi sapere, qualsiasi stato mentale può esistere solo in quanto se ne ha coscienza. La filosofia del Novecento non ha smesso di confrontarsi con i problemi e gli autori che hanno posto gli interrogativi fondamentali: il rapporto mente-corpo, la dimostrabilità del!' esistenza di un mondo fuori di noi e di altre menti. George Edward Moore* (1873-1958), in opposizione al neo-idealismo di Francis H.Bradley (1846-1924), difende il realismo filosofico, asserendo l'esistenza degli oggetti percepibili indipendentemente dalla loro relazione con il soggetto perct'piente e la non riducibilità del/' essere ali'essere percepito. Nel confutare la dottrina berkeleyana dell'esse est percipi, Moore mostra che essa è fondata sulla pretesa identità dei due termini "essere" e "essere percepito": ma con semplici esempi si chiarisce che l'oggetto della nostra sensazione è distinto dalla sensazione stessa, presente nella nostra coscienza. Moore in seguito rivaluta anche la dottrina del "senso comune", sostenendo che non abbiamo bisogno di dimostrare l'esistenza degli oggetti esterni, perché un atto intuitivo, una conoscenza immediata ci danno la certezza del mondo esterno. Il solipsismo, come atteggiamento filosofico che IO

ritiene invalicabile la coscienza dell'individuo, rimane un nodo fondamentale e di difficile soluzione, come pone in luce lo stesso Thomas Nagel* (1937). Su questo terreno si confronta anche uno dei maggiori esponenti della filosofia analitica, Gilbert Ryle* (1900-1976), che si propone, attraverso l'analisi logica del linguaggio ordinario, di scoprire gli errori categoriali da cui derivano le molte espressioni prive di senso della metafisica. Una critica particolare egli rivolge al dualismo cartesiano, ribattezzato come «dogma dello spettro nella macchina»: Cartesio e numerosi altri filosofi, distinguendo la mente dal corpo, commettono lo stesso errore del bambino, che, dopo aver assistito alla parata dei battaglioni; batterie, squadroni di un reggimento, rimanesse in attesa di vedere anche il reggimento, come se fosse un altro pezzo da aggiungere agli altri. Essi hanno introdotto una sostanza invisibile nell'uomo, l'anima o lo spirito, come se fosse qualcosa di distinto o di aggiunto rispetto ai "comportamenti" visibil~ dei quali lo spirito è invece soltanto il nome riassuntivo, come lo è il reggimento rispetto ai suoi elementi. Il fraintendimento consiste dunque nel ritenere la mente qualcosa di diverso e di più ampio rispetto alle sue espressioni: si può invece essere certi del!' esistenza dt' altre menti in quanto queste si identificano con le "modalità del fare" degli altr~ di cui siamo testimoni. Il pensiero contemporaneo ha abbandonato l'innatismo tradizionale, ma nell'ambito delle scienze umane e della linguistica permangono gli interrogativi sulla presenza di strutture cognitive nel patrimonio genetico della specie umana. In particolare H linguista Noam Chomsky* (1928), con uno specifico richiamo al Menone di Platone, e in polemica con le spiegazioni dei comportamentisti; ritiene che la capacità linguistica sia basata su un meccanismo innato. La domanda sul rapporto mente-corpo si pone in modo nuovo a partire dall'Ottocento, quando le conoscenze neuroscientifiche cominciano a fare decisi progress~ mettendo anche in luce l'enorme difficoltà e complessità dello studio di un "oggetto" come il cervello. Il problema si presenta sotto la forma del rapporto tra l'attività mentale e l'at-

tività delle cellule cerebrali: in altre parole ci si chiede se esiste un io, una mente distinta dal cervello o se questa coincide con le cellule della corteccia cerebrale. Nell'ambito della riflessione scienti/tea e filosofica sono sostanzialmente due le risposte a questa domanda: quella interazionista, i cui più importanti esponenti sono il filosofo Kart Popper·(1902-1994) e t"l neurobiologo premio Nobel fohn Eccles'~ (1903), e quella materialista e monista. Popper e Eccles, hanno scritto insieme un libro (L'Io e il suo cervello) in cui sostengono che c'è una dimensione interiore, ciò che noi chiamiamo anima, che non potrà mai essere spiegata in maniera naturalista e che è ontologicamente irriducibile alle entità fisiche. Popper argomenta questa convinzione attraverso la teoria dei tre Mondi: c'è un mondo fisico (Mondo 1) distinto dal mondo degli stati mentali (Mondo 2) e dal mondo dei prodotti della mente umana (Mondo 3). Le teorie scientifiche (che fanno parte del Mondo 3), pur essendo un prodotto del pensiero umano, hanno una loro autonomùz e possono dare origine a conseguenze non prevz"ste. Eccles si è occupato della parte scientifica della teoria e, riconducendosi in un certo senso al dualismo cartesiano e alla soluzione della ghiandola pineale, sostiene l' esistenza di una comunicazione fra il cervello e la mente attraverso alcune microstrutture della corteccia frontale sinistra. La tesi materialista e riduzionista, condivz"sa da molti scienziati e filosofi, vuole appunto "ridurre" la mente ai processi cerebrali. Questa concezione implica però una visione deterministica dell'uomo, per cui risultano praticamente annullate la libertà e la responsabilità morale. Contro Eccles, fohn Young* (1907) sostiene una tesi vicina al riduzionismo: pur ammettendo che l'uomo ha coscienza di sé, considera però la coscienza "un aspetto del funzionamento del cervello" e non un'entità separata da esso. Anche per Richard Rorty* (1931) il pensiero non è un'entità separata; opponendosi direttamente a Cartesio, eglt' nega l'esistenza della "mente", nel senso che essa non è altro che un insieme di processi fisiologici ed è quindi riconducibile alla materia. Se gli studi di fisiologia fossero più avanzati non ci sarebbe bisogno della psicologia: qualsiasi processo men-

tale potrebbe essere correlato a stati nervosi immediatamente ùlenti/icabilt". Importante nella nostra epoca è il dibattito legato allo sviluppo dell' intellt"genza artificiale, che verte soprattutto intorno all'interrogativo se le macchine possano pensare. Alan Mathison Turing* (1912-1954), uno dei padri fondatori dell'intelligenza artifi"ciale, ritiene di poter rispondere a questa domanda, formulando il cosiddetto "test di Turing", in base al quale il computer deve dimostrare di poter ingannare un essere umano facendogli credere di essere una persona. I sostenitori della tesi "dura" dell'intelligenza artificiale vedono nel superamento del test da parte del computer non solo il costituirsi di una capacità di pensare, ma anche il sorgere di una mente vera e propria. Si oppone a queste tesi il filosofo americano fohn Searle* (1932), che rifiuta l'identità fra cervello e calcolatore. A questo scopo egli ha elaborato, in contrapposizione al "test di Turing", il "gioco della stanza cinese", mediante il quale fa emergere la differenza fra competenza sintattica e competenza semantica. La macchina, che esegue un programma, ha la competenza sintattica, ma non potrà mai avere quella semantica, che è esclusiva della mente umana.

AURELIO AGOSTINO (386) - Ragione. Tu che vuoi conoscerti, sai di essere? -

Agostino. Lo so. R. Donde lo sai? A. Non lo so. R. Ti senti un essere semplice o composto? -A. Non lo so. - R. Sai di muoverti? - A. Non lo so. - R. Sai che pensi? -A. Lo so.

Posso non sapere nient'altro, ma so di pensare.

Soliloquia, I, II, cap. I, in Grande Antologia Filosofica, voi. III, Settimo Milanese, Marzorati, 1989, p. 288.

RENÉ DESCARTES (1641) ... io mi sforzerò, [ .. .], allontanandomi da tutto ciò in cui potrò immaginare

il menomo dubbio, proprio come farei se conoscessi che ciò fosse assolutamente falso; e continuerò sempre in questo cammino, fino a che abbia incontrato qualche cosa di certo, o almeno, se altro non m'è possibile, fino a che abbia appreso con tutta certezza che non v'è nulla al mondo che sia certo. Archimede, per togliere il Globo terrestre dal suo posto e trasportarlo in un altro luogo, non domandava altro che un punto che fosse fisso ed assicurat©. Così io avrò diritto di concepire alte speranze, se sono abbastanza felice da trovare solamente una cosa che sia certa e indubitabile. Io suppongo, dunque, che tutte le cose che vedo son false; mi pongo bene in mente che nulla è mai stato di tutto ciò che la mia memoria, riempita di menzogne, mi rappresenta; penso di non aver senso alcuno; credo che il corpo, la figura, l'estensione, il movimento ed il luogo non sieno che finzioni del mio spirito. Che cosa, dunque, potrà essere reputato vero? Forse niente altro, se non che non v'è nulla al mondo di certo. Ma che ne so io se non v'è qualche altra cosa differente da quelle che testé ho giudicato incerte, della quale non si possa avere il menomo dubbio? Non v'è forse qualche Dio, o qualche altra potenza, che mi mette nello spirito questi pensieri? Ciò non è punto necessario, perché forse io son capace di produrli da me stesso. Io dunque, almeno, non sono forse qualche cosa? Ma io ho già negato di avere alcun senso ed alcun corpo. Io esito tuttavia, perché che cosa ne segue di là? Sono iò talmente dipendente dal corpo e dai sensi, da non poter esistere senza di essi? Ma mi sono convinto che non vi era proprio niente nel mondo, che non vi era né cielo, né terra, né spiriti, né corpi; non mi sono, dunque, io, in pari tempo, persuaso che non esistevo punto? No, certo;. io ~sistevo senza dubbio, se mi sono convinto di qualcosa, o solamente se ho pensato qualcosa. Ma vi è un non so quale ingannatore potentissimo e astutissimo, che impiega tutta la sua industria nell'ingannarmi sempre. Non v'è dunque dubbio che io esisto, s'egli m'inganna; e m'inganni fin che vorrà, egli non saprebbe mai fare che io non sia nulla fino a che penserò di essere qualche cosa. Di modo che, dopo avervi ben pensato, ed avere accuratamente esaminato tutto, bisogna infine concludere e tener fermo che questa proposizione: Io sono, io esisto, è necessariamente vera tutte le volte che la pronuncio o che la concepisco nel mio spirito. Meditazioni metafisiche, trad. di A. Tilgher, in Discorso sul metodo. Meditazioni metafisiche, seconda meditazione, vol. I, Bari, Laterza, 1975, pp. 77-78. 12

Bisogna cercare, come Archimede, un punto fisso. Posso convincermi che non vi è niente nel mondo: né cielo, né terra, né spiriti, né corpi; ma non posso convincermi che non esisto.

Un genio potentissimo potrebbe ingannarmi su tutto, ma non sulla mia esistenza. La proposizione "lo sono, io esisto" è necessariamente vera tutte le volte che la penso.

GOTIFRIED W. LEIBNIZ (1692) Il principio di Cartesio è senz'altro fra le verità prime, ma è pari ad altre verità. La prima verità di ragione èil principio di non contraddizione. Le verità prime di fatto sono riconducibili a due, inseparabili: cc/o penso11 e ccvarie cose sono pensate dame11.

Il cogito cartesiano è un postulato logico-metafisico, non una certezza immediata.

Sull'art. 7 - Cartesio ha opportunamente osservato che il «penso, pertanto sono», è tra le verità prime. Ma era giusto non trascurare altre verità pari a quella. Si può pertanto dire in generale cosl: le verità sono o di fatto o di ragione. La prima verità di ragione è >

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afondamento·dèl/o·Stato? JOHN RAWLS (1971) L'idea guida è [... ] quella che i priftcipi di giustizia per la struttura fondamentale della società sono oggetto dell'accordo originario. Questi sono i principi che persone libere e razionali, preoccupate di perseguire i propri interessi, accetterebbero in una posizione iniziale di eguaglianza per definire i termini fondamentali della loro associazione. Questi principi devono regolare tutti gli accordi successivi; essi specificano i tipi di cooperazione sociale che possono essere messi in atto e le forme di governo che possono essere istituite. Chiamerò giustizia come equità questo modo di considerare i principi di giustizia. Dobbiamo perciò immaginare che coloro che si impegnano nella cooperazione sociale scelgono insieme con un solo atto collettivo i principi che devono assegnare i diritti e i doveri fondamentali e determinare la divisione dei benefici sociali. Gli individui devono decidere in anticipo in che modo dirimere le loro pretese conflittuali e devono altresì decidere quale sarà lo statuto che fonda la loro società. Così come ciascuno deve decidere, con una riflessione razionale, che cosa costituisce un bene per lui, vale a dire quell'insieme di fini che è razionale ricercare, allo stesso modo un gruppo di persone deve decidere una volta per tutte ciò che essi considereranno giusto o ingiusto. La scelta che individui razionali farebbero in questa ipotetica situazione di uguale libertà, assumendo per ora che questo problema di scelta ha una soluzione, determina i principi di giustizia. Dal punto di vista della giustizia come equità la posizione originaria di eguaglianza corrisponde allo stato di natura della teoria tradizionale del contratto sociale. [.. .] Poiché ognuno gode di un'identica condizione, e nessuno è in grado di proporre dei principi che favoriscano la sua particolare situazione, i principi di giustizia sono il risultato di un accordo o contrattazione equa. Infatti, date le circostanze della posizione originaria, e cioè la simmetria delle relazioni di ciascuno con gli altri, questa situazione iniziale è equa tra gli individui intesi come persone morali, vale a dire come esseri razionali che hanno fini propri e sono dotati [. .. ] di un senso di giustizia. Si potrebbe quindi dire che la posizione originaria è il corretto status quo iniziale, e perciò che gli accordi fondamentali stipulati in essa sono equi . Questo spiega l' appropriatezza del termine «giustizia come equità»: esso porta con sé l'idea che i principi di giustizia sono concordati in una condizione iniziale equa. [ .. .] Di primo acchito sembra molto improbabile che persone che si considerano come eguali, reciprocamente legittimate a far valere le proprie pretese, si accordino su un principio che può ridurre le aspettative di alcuni semplicemente per ottenere una maggior quantità di benefici per altri. Poiché ognuno desidera proteggere i propri interessi [.. .] nessuno ha delle ragioni per subire una duratura perdita personale allo scopo di aumentare il livello generale di utilità. [. .. ] Affermo invece che le persone nella situazione iniziale sceglierebbero due principi piuttosto differenti: il primo richiede l'eguaglianza nell'assegnazione dei diritti e dei doveri fondamentali, il secondo sostiene che le ineguaglianze economiche e sociali, come quelle di ricchezza e potere, sono giuste soltanto se producono benefici compensativi per ciascuno, e in particolare per i membri meno avvantaggiati della società. [. .. ] Il fatto che alcuni abbiano meno affinché altri prosperino può essere utile, ma non è giusto. Invece i maggiori benefici ottenuti da pochi non costituiscono un'ingiustizia, a condizione che anche la situazione delle persone meno fortunate migliori in questo modo. Una teoria della giustizia, a cura di S. Maffettone, Fdtrinelli, Milano, 1982.

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Il contrattualismo è caratterizzato dall'idea che laccordo originario si basa su principi di fondo, di cui la giustizia è quello essenziale.

I principi di giustizia sono il risultato di una contrattazione equa, perché decisi originariamente in una condizione di eguaglianza.

Alla base della convivenza civile sta il criterio dell'accordo, che stabilisce in primo luogo l'uguaglianza dei diritti e dei doveri.

Ma perché non risulti sacrificata la libertà individuale, sono ammesse anche le differenze economiche e sociali, purché però, producano dei benefici anche per i ceti più deboli della società.

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ROBERT NOZICK (1974) L'eguaglianza di opportunità è stata considerata da molti lobbiettivo minimo dell'idea di eguaglianza, ma per raggiunger/o si intaccherebbe il diritto di proprietà. È illegittima ogni politica statale volta ad operare una "sostruzione", ossia una redistribuzione delle ricchezze, allo scopo di realizzare una maggiore giustizia sociale.

L'unica soluzione è quella di convincere le persone a destinare una parte delle loro sostanze al raggiungimento di questo obiettivo. Da qui nasce la teoria dello Stato minimo, che sia capace di garantire la sicurezza dei singoli, senza intervenire nella sfera privata.

L'eguaglianza di opportunità è sembrata a molti scrittori la meta minima dell'egualitarismo, meta discutibile, se mai, solo per essere troppo debole. [... ] Ci sono due modi per tentare di ottenere questa eguaglianza: peggiorando direttamente le condizioni di chi è favorito da maggiori opportunità, oppure migliorando le condizioni di chi è meno favorito. Quest'ultimo modo richiede l'uso di risorse, e quindi implica anch'esso un peggioramento delle condizioni di qualcuno: coloro ai quali vengono tolte le proprietà per migliorare le condizioni di altri. Ma la proprietà cui questa gente ha diritto non può esserle tolta, neppure per dare agli altri l'eguaglianza di opportunità. In mancanza di bacchette magiche, l'unico mezzo che resta per giungere all'eguaglianza di opportunità è di convincere ogni persona a decidere di destinare una parte delle sue proprietà per questo conseguimento. Spesso nelle discussioni sull'eguaglianza di opportunità si usa il modello di una gara di corsa a premi. Una gara in cui qualcuno partisse più vicino al traguardo degli altri sarebbe sleale, come lo sarebbe una gara in cui qualcuno fosse obbligato a portare un peso gravoso, o a correre con sassolini nelle scarpette. Ma la vita non è una gara a cui partecipiamo tutti per vincere un premio che qualcuno ha stabilito; non c'è affatto una corsa unificata con una persona che giudica la velocità. Ci sono, invece, persone differenti che danno separatamente ad altre persone cose differenti. A chi dà [. .. ] di solito non importano i meriti o gli svantaggi sopportati, importa soltanto ciò che effettivamente ottiene. [... ] L'obiezione maggiore al discorso che tutti hanno diritto a varie cose come l'eguaglianza di opportunità, la vita, e cosl via, e all'esecuzione di questo diritto, è che questi «diritti» esigono una sostruzione di cose, di materiali e di azioni; inoltre altra gente può avere diritti o titoli su ciò. Nessuno ha diritto a qualcosa la cui attuazione richieda certi usi di cose e attività sulle quali altra gente ha diritto e titolo. I diritti e i titoli degli altri su cose particolari (quella matita, il loro corpo, e cosl via) e il modo in cui decidono di esercitare questi diritti e questi titoli, fissano l'ambiente esterno di ogni specifico individuo e i mezzi che saranno a sua disposizione. Se la sua meta richiede l'uso di mezzi sui quali altri hanno dei diritti, deve assicurarsi la loro cooperazione volontaria. Persino per esercitare il diritto di stabilire come deve essere usato qualche cosa che possiede, possono essergli necessari altri mezzi sui quali deve acquisire diritto, per esempio, il cibo che lo tiene in vita; deve c.:umbinare, c.:on la cooperazione degli altri, un insieme fattibile. Ci sono diritti particolari su cose particolari possedute da persone particolari, e diritti particolari di giungere ad accordi con altri, se voi e loro potete acquisire i mezzi per giungere a un accordo. (Nessuno è obbligato a procurarvi un telefono in modo che possiate giungere a un accordo con un altro.) Non esistono diritti in contrasto con questa sostituzione di diritti particolari. Poiché nessun diritto, dai contorni ben definiti, a conseguire una meta eviterà l'incompatibilità con questa sostruzione, diritti simili non esistono. I diritti particolari sulle cose riempiono di diritti lo spazio, e non lasciano più posto ai diritti generali di essere in certe condizioni materiali. La teoria opposta porrebbe nella sua sostruzione solo questi «diritti», generali e universalmente posseduti, di giungere a una meta o di essere in certe condizioni materiali, e cosl determinerebbe tutto il resto; per quel che ne so io non è stato fatto nessun serio tentativo di enunciare questa teoria «opposta». Anarchia, stato e utopia, trad. di E. Bona e G. Bona, Firenze, Le Monnier, 1981, pp. 250-253. 129

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GIOVANNI GENTILE (1943) In realtà ogni volta che si ricorre a questa distinzione del privato dal pubblico, il motivo della tentata distinzione è il desiderio di praticamente limitare l'azione dello Stato per rivendicare e garantire all'individuo una sfera d'interessi che sfugga alla competenza dello Stato. E questo dei limiti dello Stato è stato uno degli argomenti classici dell'individualismo, in cui tende sempre a cadere la dottrina liberale. I cattolici se ne sono fatti in ogni paese un cavallo di battaglia per sottrarre allo Stato, almeno parzialmente, leducazione della gioventù, chiedendo ad esso il consenso ad una scuola privata parallela e indipendente dalla pubblica. Ma in tali richieste sfugge per solito che nella stessa richiesta è implicita la negazione della premessa e la conseguente affermazione della pubblicità d' ogni scuola, ancorché detta privata; e, in generale, laffermazione della presenza dello Stato oltre il limite che egli riconosca alla propria attività. Giacché non è possibile ammettere la legittimità di una scuola privata, senza definire questa scuola e regolarla: in pratica, senza assoggettarla al controllo statale. E il carattere privato si ridurrà al potere d'iniziativa nella fondazione della scuola, al finanziamento o ad altri particolari che non possono peraltro non essere conosciuti e quindi autorizzati dallo Stato, e non rientrare perciò in qualche guisa nell'azione sovrana di esso. Del resto, la tendenza a limitare l'azione dello Stato, che altro è se non una forma di opporre una volontà tendenzialmente statale alla volontà positiva dello Stato? Che altro, se non l'affermazione d'un proprio o nuovo Stato che vien ad essere la negazione dello Stato esistente, e quindi una sorta di azione rivoluzionaria? È ovvio che chi sia interamente sodisfatto dell'azione statale, non cercherà di essere autorizzato a far da sé, di qua dai limiti dell'azione statale. È owio pertanto che praticamente la richiesta importa sempre una insodisfazione, e quindi una critica dello Stato. Che sarà legittima; ma non significherà mai una astratta convenienza di limitare l'azione dello Stato, ma la concreta tendenza a uno Stato, che sia o possa essere veramente il nostro Stato, e però la negazione virtuale dello Stato attuale e vigente, che non fa propriamente per noi. Negazione che, a sua volta, non avrebbe senso se non fosse implicitamente I' affermazione, almeno virtuale, di uno Stato, che è il nostro, e vale per noi come il solo Stato effettivo che ci sia, il cui valore esclude la possibilità di qualsiasi altro Stato divergente e put legittimo anch'esso. Niente privato, dunque; e niente limiti all'azione statale. Dottrina che ha due aspetti; e non si può considerare da un solo di essi senza essere sfigurata e alterata nella sua essenza. Questa dottrina pare che faccia inghiottire dallo Stato l'individuo; e che nell'autorità faccia assorbire senza residuo la libertà che ad ogni autorità dovrebbe contrapporsi come suo limite. Il regime conforme a tale dottrina si dice totalitario e autoritario e si contrappone alla democrazia, come sistema della libertà. Ma si può anche dire l'opposto: che cioè in questo Stato che, in concreto, è la stessa volontà dell'individuo in quanto universale e assoluta, l'individuo inghiotta lo Stato; e che lautorità (la legittima autorità) non potendo essere espressa d'altronde che dalla attualità del volere individuale, si risolve essa senza residuo nella libertà. Ed ecco che I' autoritarismo si rovescia sulla sua base e sembra si converta nel suo opposto. Ed ecco che la vera assoluta democrazia non è quella che vuole limitato lo Stato, ma quella che non pone limiti allo Stato che si svolge nell'intimità dell'individuo e gli conferisce la forza del diritto nella sua assoluta universalità. Genesi e struttura della società, Firenze, Sansoni, 1946, pp. 119-121. 130

L'argomento classico dell'individualismo liberale è quello della limitazione della sfera d'azione dello Stato: la battaglia sulla scuola privata ne è una prova. In realtà limitare lo Stato significa affermare un nuovo Stato e negare quello esistente: e questa è un'rrazione rivoluzionaria,,. E se anche le critiche allo Stato possono essere legittime, tuttavia non devono andare nel senso di una limitazione dello Stato stesso. Si può pensare che un tale Stato assorba completamente l'individuo: in realtà è vero il contrario. Le esigenze e la libertà dell'individuo sono del tutto soddisfatte dallo Stato, che è in concreto la stessa volontà dell'individuo, in quanto universale e assoluta.

51 JOHN STUART MILL (1859) Troppe attribuzioni aduno Stato sviliscono un popolo egli tolgono lo spirito vitale.

Una classe burocratica troppo forte impedisce qualsiasi reale cambiamento.

In Francia e in America il popolo è libero e capace di autorganizzarsi.

Il governo deve aiutare l'iniziativa privata e non deve sostituirsi a/l'attività dei singoli né trasformare il popolo in mezzo per realizzare i propri fini.

L'ultima e più forte ragione per restringere l'intervento dello Stato, è il grave danno che deriva dall'accrescersi la sua potenza senza necessità. Ogni attribuzione che s'aggiunga alle tante che ha ora, aumenta la fatale influenza che esso già esercita sui timori e sulle speranze dei governati, e trasforma sempre più la parte attiva ed ambiziosa di essi in persone dipendenti dal Governo o dal partito che mira ad andarvi. Se i mezzi di comunicazione, le strade ferrate, le banche, le compagnie d'assicurazione, le grandi società anonime, le università e gli stabilimenti di beneficenza fossero tanti rami del servizio governativo; se le rappresentanze municipali e i consigli locali con tutte le loro attribuzioni, si riducessero ad altrettante suddivisioni del potere centrale: se gli impiegati di queste diverse istituzioni venissero nominati e pagati dal Governo, e non si aspettassero che dal Governo il loro avanzamento, la libertà della stampa e la più popolare costituzione politica non basterebbero ad impedire, all'Inghilterra o a qualsiasi altro paese, d'essere liberi di nome, ma servi di fatto. [. ..] Se tutti gli affari di un popolo, i quali esigono una organizzazione concertata e vedute larghe e comprensive, cadessero nelle mani dello Stato, e se tutti gli uomini più capaci entrassero nei pubblici impieghi, ogni coltura di spirito ed ogni cognizione, meno che nelle materie puramente speculative, si concentrerebbe in una numerosa burocrazia, dalla quale il resto della comunità s'attenderebbe tutto. Le masse ne riceverebbero la direzione e l'impulso, gli uomini intelligenti ed attivi gli avanzamenti e la fortuna personale. L'essere ammesso nella fila di questa burocrazia, e dopo ammesso l'elevarvisi, diverrebbe l'unico oggetto d'ambizione. In uno Stato retto a questo modo, non solo il pubblico sarebbe incapace di sorvegliare e giudicare lazione degli ufficiali governativi; ma inoltre, se gli avvenimenti in un Governo dispotico, o lo sviluppo naturale delle istituzioni popolari in uno Stato libero, facessero sentire il bisogno di qualche riforma, nessuna se ne potrebbe attuare che fosse contraria agli interessi della burocrazia. [. .. ] Ben diverso spettacolo presentano invece quei popoli che sono abituati a fare da sé i propri affari. In Francia, [. .. ], trovansi in tutte le insurrezioni popolari moltissime persone capaci di prender le armi e di improvvisare un discreto piano d'azione. Gli americani sono per gli affari civili quello che i Francesi per gli affari militari. Sopprimete il loro Governo, e una società qualsiasi di Americani potrà organizzarne uno al momento, e condurre i pubblici negozi con sufficiente intelligenza, ordine e fermezza. Così deve essere un popolo libero. [. ..] Un Governo non può aver mai abbastanza di quella specie d'attività, che non impedisce, ma aiuta e stimola l'iniziativa privata e gli sforzi individuali. Il male comincia quando il Governo, in cambio d'incoraggiare l'azione degli individui e dei corpi collettivi, sostituisce la sua propria alla loro attività: quando invece d'istruirli, di consigliarli o, all'occorrenza, di denunciarli davanti ai tribunali, li lascia in disparte, ne inceppa la libertà, o fa per essi i loro affari. La virtù dello Stato, a lungo andare, è la virtù degli individui che lo compongono, e lo Stato che pospone lo sviluppo intellettuale degli individui alla vana apparenza di una maggiore regolarità nella pratica minuta degli affari, lo Stato che rimpicciolisce il popolo per farne un docile strumento dei suoi progetti, anche se generosi, finirà ben presto per accorgersi, che grandi cose non si possono fare con piccoli uomini, e che il meccanismo, alla cui perfezione ha tutto sacrificato, non gli servirà più a nulla, per mancanza di quello spirito vitale che avrà voluto deliberatamente distruggere col proposito di agevolarne i movimenti. Saggio sulla libertà, cit. pp. 57-61. 131

lo Stato liberale ha ~na. cJi'rnensione etica? CARL SCHMITI (1927) Certamente il liberalismo non ha negato lo Stato in modo radicale, d'altra parte esso non ha elaborato nessuna teoria positiva dello Stato, nessuna riforma peculiare dello Stato, ma ha solo cercato di vincolare il «politico» dal punto di vista dell' «etico», e di subordinarlo all' «economico». Esso ha fondato una dottrina della divisione e dell'equilibrio dei «poteri», cioè un sistema di vincoli e di controlli sullo Stato che non può essere indicata come teoria dello Stato o come principio politico costruttivo. Perciò resta valida la constatazione stupefacente e per molti sicuramente inquietante che tutte le teorie politiche in senso proprio presuppongono l'uomo come «cattivo», che cioè lo considerano come un essere estremamente problematico, anzi «pericoloso» e dinamico. [ .. .] Il pensiero liberale sorvola o ignora, in modo sistematico, lo Stato e la politica e si muove entro una polarità tipica e sempre rinnovantesi di due sfere eterogenee, quelle cioè di etica ed economia, spirito e commercio, cultura e proprietà. La sfiducia critica nei confronti dello Stato e della politica si spiega facilmente in base ai principi di un sistema per il quale il singolo deve rimanere terminus a quo e terminus ad quem. In casi determinati l'unità politica deve prevedere il sacrificio della vita: questa pretesa non può in alcun modo essere fondata e sostenuta per l'individualismo del pensiero liberale. Un individualismo che dà il potere di disposizione sulla vita fisica dell'individuo ad un altro che non sia l'individuo stesso, sarebbe senza senso allo stesso modo di una libertà liberale nella quale fosse un altro, diverso dal titolare stesso della libertà, a decidere sul contenuto e sulla misura di quest'ultima. Per il singolo in quanto tale non vi è nessun nemico col quale si debba combattere per la vita e per la morte, se egli personalmente non lo vuole: costringerlo alla lotta contro il suo volere è in ogni caso, dal punto di vista dell'individuo privato, mancanza di libertà e violenza. Tutto il pathos liberale si ribella alla violenza e alla mancanza di libertà. Ogni pregiudizio, ogni minaccia alla libertà individuale, in via di principio illimitata, alla proprietà privata e alla libera concorrenza significa