Interroghiamo i filosofi. Antologia tematica [Vol. 5]

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Simonetta Pighini Angelo Vannucci

Interroghiamo i Filosofi antologia tematica Qual è il mondo che conosciamo? C'è una verità raggiungibile dall'uomo? Perché l'uomo è soggetto morale? Desiderio, amore, passione: cosa sono per la nostra vita?

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CANOVA Edizioni di Scuola e Cultura

RINGRAZIAMENTI Dobbiamo un ringraziamento a chi ci ha suggerito questo lavoro, il Prof. è autore del manuale La philosophie camme débat entre !es textes, da cui abbiamo tratto lo spunto per la struttura di Interroghiamo i Filosofi. Gli Autori

José Medina che, insieme a Claude Morali e André Sénik,

GUIDA ALLA LETTURA E ALLA UTILIZZAZIONE Ogni capitolo propone una domanda generale su un tema, all'interno della quale si apre una serie di sottodomande che possono, nella loro indipendenza, essere affrontate in modo autonomo, pur avendo una loro consequenzialità logica. Caratteristica dell'antologia è il criterio della doppia pagina, dove, rispetto alla domanda proposta, si trovano risposte contrapposte o argomentazioni diversificate: qualche autore, che mantiene una posizione più articolata o meno definita, è posizionato tra le due pagine. Per una più agevole consultazione, ogni capitolo è contraddistinto da un colore diverso; il numero della domanda, posto nel quadrato colorato dell'indice, è riportato sulla banda colorata della doppia pagina. I testi sono corredati da note esplicative, ben evidenziate, in modo tale da non interferire con i brani e, in pari tempo, da fornire una veloce sintesi dell'argomentazione dell'autore. All'inizio di ogni capitolo è presente un'introduzione, che offre una ricostruzione storica del problema e un percorso di lettura per i testi antologizzati, i cui autori sono evidenziati in grassetto e con un asterisco. Il testo è corredato di una biobibliografia essenziale degli autori citati. Le date poste a fianco dei nomi dei filosofi si riferiscono al periodo di stesura o di pubblicazione del testo riportato, o alla data di nascita e morte dell'autore stesso.

© Copyright 2002 by Canova Edizioni di Scuola e Cultura 31030 Dosson di Casier - Treviso Te!. e Fax 0422.382383 e-mail: [email protected] www.canovaedizioni.it ISBN 88-7330-014-6 I edizione Aprile 2002

Stampa: Zoppelli Srl - Dosson (Treviso)

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Indici dei Capitoli Capitolo 1

7 41

Capitolo 2

73

Capitolo 3

105

Capitolo 4

137

Bio-bibliografia

INDICE CAP. 2

INDICE CAP. 1

~i:~l!:~x~~-i~{!€~~?/~~~;.(~~v,#~~t~~,~~2)}rl Introduzione, 41

Introduzione, 7 f:'.;·i~J Cosa ci spinge alla conoscenza?, L" 0~ Platone - Aristotele, 12 F. Bacon, R. Descartes, 13

['.~'.J Per prima cosa bisogna ''conoscere la conoscenza"?, J, Locke, 14 Platone - G.W.F. Hegel, 15

Euomo è la misura di tutte le cose?, 16 Protagora, 16 Platone - B. Russell, 17

[j~!;j Il mondo è una mia rappresentazione?, 18 A. Schopenhauer, 18-19 f:~~J Il mondo è una mia versione?, 20 N. Goodman, 20 H. Putnam, 21

F6'] [5{j

Il mondo èfinalizzato all'uomo?, 22 G.W. Leibniz, 22 B. Spinoza, 23

C'è un' "anima" nel mondo?, 24 G. Bruno - F.W.]. Schelling, 24 R. Descartes, 25

[ij]

~~1§l Qual è il senso della domanda "Cos'è la verità?"?, 46 ]. Locke, 46 F. Nietzsche, 47

12

Per conoscere il mondo basta toccarlo?, 26

14

Verità è scoprire ciò che è nascosto?, 48 Eraclito - Parmenide, 48 M. Heidegge~49 ~~';lj La verità va cercata al di fuori del mondo

sensibile?, 50 Platone, 50-51

t~1:§j La verità è raggiungibile?, 52 Aristotele, 52 N. Cusano, 53

!fil1\i,l

La verità è la corrispondenza alle cose?, 54 Tommaso D'Aquino, 54 W.James,55

~~~ Il vero è un attributo delle parole o delle cose?, 5 6 Aristotele - T. Hobbes, 56 Plotino - A. Agostino, 57

~·~;~ Ilfalso è un momento del vero?, 58 B. Spinoza, 58 G.W:F. Hegel, 59

E.B. De Condillac, 26

T. Nagel, 27

I·g] :;;. · J

La magia è un'altra scienza del mondo?, 2 8 C. Lévi-Strauss, 28-29

1c) ! Si può essere scettici fino in fondo?, 3O ·1

Pirrone, 30 A. Agostino - R. Descartes, 31

r 11: La conoscenza ci rende maggiorenni?, 32 1 -··

••

1

12]

L Kant, 32 ].-].Rousseau, 33

Desideriamo autoingannarci?, 34 M.E. De Montaigne, 34 S. Freud, 35

[1 ~ j Dobbiamo sospettare della nostra coscienza?, 36 K. Marx - F. Engels, 36 P. Ricoeur,37

l1· 4 I Si vivrà un gz'orno senza ideolouin? o-· 38 I

I

'-······ '

4

A. Gramsci, 38 L. Althusser, 39

~i~ Da cosa si riconosce la verità?, 60 R. Descartes, 60 L Kant, 61 [~jj Basta la coerenza per essere nel vero?, O. Neurath, 62 M. Schlick, 63 ~~~1 Basta essere certi per essere nel vero?, Voltaire, 64 G.W:F. Hegel, 65

~~~;j La verità è un dovere morale?, 66 I. Kant - G.W:F. Hegel, 66 B. Constant - F. Nietzsche, 67

JtJ§~ La verità èfiglia del tempo?, 68 Platone - A. Agostino, 68 F. Bacon, 69

~:~\Zil La verità è intollerante?, 7O

K. Marx - S. Freud, 70 A. Collins, 71

62

64

INDICE CAP. 3

Perché l'uomo è soggetto morale?

INDICE CAP. 4

.Desiderio, ~more, passione: cosa sono per la nostra vita?

lntl'oduzione, 73

lntl'oduzione, 105

28. Cosa dobbiamo fare?, 78

41i Eamore è sow una forza irrazionale che ci induce

N. Hartmann, 78-79

all'accoppiamento?.. ., 110 T. Lucrezio, 110 Platone, 111

29 Cos'è il bene? Possiamo definirlo?, 80 Aristotele, 80 G. E. Moore, 81

30 Il cuore o la ragione: chi ci indica il bene e il male?, 82 J.-J. Rousseau, 82

42 : ... o è anche un mezzo di elevazione ' dell'anima?, 112 Platone, 112-113

43; Si desidera il bello per un fuggevole appagamento

estetico oper avvicinarsi al mondo spirituale?, 114

I. Kant, 83

31 , Si pu1ò vokre il male per il male?, 84 P atone, 84 A. Agostino, 85

32 , I prz1'ncipi morali sono innati o convenzionali?, 86 P atone, - D. Hume, 86 Epicuro, 87

I vawri morali sono relativi agli individui e alle epoche storiche?, 88 W. Dilthey, 88 E. Troeltsch, 89

S. Kierkegaard, 114 Platone, 115

44i Eamante vuole ''appropriarsi" dell'amato?, 116 Platone, 116

J.-P. Sartre, 117

45

35l La coscienza della colpa è la vera punizione?, 92 ···

36:

L.A. Seneca, 92 F. Nietzsche, 93

La morale è una morale di classe?, 94 F. Engels, 94

F. Nietzsche, 95

37' Agire moralmente vuol dire ricercare l'utile collettivo?, 96

C. Beccaria - J. Bentham, 96 V. Hosle, 97

38 !

46. Eamore è l'unione per l'immortalità o l'affermazione della vowntà di vivere?, 120 G.W.F. Hegel, 120 A. Schopenhauer, 121

39 Cosa ci induce al rispetto dell'altro?, 100 E. Lévinas, 100 ].-P. Sartre, 101

40

47

I principi morali trascendono le differenze culturali?, 102 Buddha, 102 Confucio, 103

È possibile l'amore universale?, 122 G.W.F. Hegel, 122 M. Scheler - S. Freud, 123

•48: Meglio perdersi nella passione che aver perduto tutte le passioni?, 124

Eloisa, 124 P. Abelardo, 125

49 · È gi,usto accondiscendere alla passione amorosa · fino a perdersi?, 126 A. Agostino, 126 - Dante Alighieri F. De Sanctis, 127

50 Le passioni sono sempre negative?, 128 M.T. Cicerone, 128

J.-J. Rousseau - F. Nietzsche, 129

La morale è sempre costrittiva?, 98

S. Freud, 98 W. Reich, 99

la persona umana?, 118 I. Kant, 118 D.-A.-F. De Sade, 119

34 ! La morale è obbedire soltanto al dovere?, 90 I. Kant, 90 H. Arendt, 91

La sessualità finalizzata al piacere degrada o esalta

51 , La ragi,one può dominare le passioni?, 13 O R. Descartes - B. Spinoza, 130 D. Hume, 131

52

È concepibile un mondo senza le passioni?, 13 2 I. Kant, 132 G.W.F. Hegel -A. Gramsci, 133

53

È possibile una civiltà non repressiva?, 134 S. Freud, 134 H. Marcuse, 135

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i

INTRODUZIONE In generale la conoscenza consiste nell'essere presente alla coscienza un oggetto, sia questo interiore, come può essere un'idea, sia esteriore, come un oggetto concreto o qualsiasi altro fenomeno del mondo esterno. In generale si è soliti distinguere da una parte la conoscenza volgare (quella del senso comune), dall'altra la conoscenza scientifica (la cui caratteristica principale è la sistematicità e l'applicazione di metodi di misurazione e di verifica) e infine la conoscenza filosofica (che tende a sistemare una serie di conoscenze in una visione generale del cosmo, dove tutto è determinato da un principio superiore, materia o idea o spirito o qualsiasi altro principio). Le nostre conoscenze sul mondo esterno provengono dai sensi; e quello che appare ai sensi sembra essere il mondo quale esso realmente è. Ma la questione non è così semplice: qual è, per esempio, esattamente la relazione tra ciò che penso di vedere e ciò che è realmente davanti a me? Si può mai raggiungere la certezza riguardo al mondo esterno? E se io stessi sognando? Gli oggetti continuano ad esistere indipendentemente dall'osservazione e dal pensiero? Conosciamo il mondo come veramente è? Queste domande si riferiscono al modo attraverso il quale conosciamo ciò che ci circonda e come tali riguardano la teoria della conoscenza, o gnoseologia o anche epistemologia. Il nodo centrale, cosz' come si è sviluppato nella storia della filosofia, è relativo ai rapporti tra soggetto e oggetto, soggetto conoscente e oggetto conoscibile. Sul piano del realismo del senso comune, ad un livello di conoscenza né scientifica né filosofica, si è certi che esista un mondo fisico, di cui si ha conoscenza attraverso i sensi: gli oggetti esistono indipendentemente dalla percezione e appaiono come sono. Tuttavia con un'ulteriore riflessione ci si rende conto che questo realismo "sensoriale" non ci fornisce risposte sicure circa l'affidabilità dei sensi. La prima critica forte a questo stadio iniziale della conoscenza proviene dallo scetticismo: per lo scetticismo non possiamo conoscere nulla con certezza e possiamo sempre dubitare delle nostre credenze sul mondo. Sono innumerevoli gli esempi sul carattere illusorio e dunque sulla non affidabilità dei sensi: il remo nell'acqua appare spezzato, i binari in lontananza sembrano convergere, la luna appare più grande quando è

bassa sul!' orizzonte, etc. Però ci sono conoscenze tratte da osservazioni empiriche di cui ci sembrerebbe non poter dubitare: ad esempio che io sia qui in questo momento seduto a scrivere. Lo scettico potrebbe rispondere con l'argomento del sogno: io sto sognando di essere seduto a scrivere. Anche Descartes utilizza questo argomento nella sua ricerca di un fondamento sicuro; ma mentre il dubbio scettico è demolitore e finisce per negare qualsiasi possibilità di conoscere, quello cartesiano (e ancor prima, anche se in un'ottica diversa, quello agostiniano) sfocia in una indubitabile certezza: quella di esistere almeno come essere pensante, proprio nella misura in cui dubito. La confutazione più forte dello scetticismo e quindi la risposta affermativa alla domanda se ci sia qualcosa di cui si possa essere cert~ è senz'altro il cogito ergo sum di Descartes. La ricerca di una conoscenza certa, oggettiva, universale e assoluta, ha sempre avuto come contraltare posizioni di relativismo gnoseologico. La prima forma di tale relativismo è rinvenibile nell'affermazione di Protagora"' (491/481-411 a.C.) per cui "l'uomo è misura di tutte le cose": non esiste una verità unica perché i modi di giudicare e valutare sono molteplici e svariati; e ognuno di essi è in relazione all'uomo (tot capita, tot veritates). Contro Protagora, Platone 1' (427-347 a.C.) rivendica una conoscenza stabile, il cui oggetto, le idee, è immutabile e trascendente. Per Aristotele-:' (384-322 a.C.), la conoscenza dell'uomo è in grado di andare oltre l'esperienza, attraverso la formazione dei concetti. Egli definisce l'attività dell'intelletto come facoltà di conoscere puramente contemplativa: la conoscenza è fine a se stessa, non ha scopi pratici. I: intelletto è la facoltà "principe" dell'uomo e rappresenta quanto di divino e immortale c'è in lui, al punto che la felicità si ottiene con una vita dedita completamente alla ricerca conoscitiva. Pirrone-:' (365 ca.-275 ca. a.C) è considerato ti fondatore dello scetticismo (da skèpsis, indagine, ricerca), secondo cui la ricerca non giunge mai ad alcuna verità. Per Pirrone non è possibile conoscere la natura delle cose: sia i sensi che la ragione ci ingannano, e di conseguenza l'unico atteggiamento da tenere di fronte alla realtà è l'astensione da ogni opinione (adoxìa), o la rinuncia a par-

7

lare (aphasìa), o la sospensione del giudizio (epochè): se dubito di tutto e nulla posso conoscere mi devo astenere dal giudicare, dall'esprimere, dall' emettere giudizi. È chiaro che da questa concezione gnoseologica discende un ben determinato atteggiamento pratico che conduce all'indifferenza verso tutto e quindi all'impassibilità (apàtheia).

In un altro contesto, anche nel maggior esponente dell'Umanesimo francese, Miche! de Montaigne 1' (1533-1592), c'è un'ispirazione fondamentalmente scettica, che si esprime nella domanda "che cosa so?" che viene posta dinnanzi ad ogni problema di una certa rilevanza. Questo tipo di impianto scettico porta Montazgne a sostenere la relatività della conoscenza, della verità e della morale; il suo dubbio mira a ridimensionare una ragione che si crede universale e a contrapporre alla pretesa oggettività della conoscenza scientifica il valore della soggettività umana: di qui; per esempio, un atteggiamento di tolleranza rispetto alle diverse poshJoni nei vari ambiti della filosofia. Anche Montaigne, in assenza di certezze, predica una sorta di sospensione di giudizio, l'epochè. Allo stesso modo David Hume (1711-1776), con il suo atteggiamento fondamentalmente scettico nega valore oggettivo e universale alla conoscenza razionale e approda all'idea che ogni conoscenza si basa su criteri pratici; soggettivi e attitudini psicologiche, come l'abitudine e la credenza. In epoca contemporanea il concetto di epochè viene ripreso, seppur in un ambito ben diverso e all'interno di una problematica più complessa, da Edmund Husserl (1859-1938), che dette inizio all'indirizzo fenomenologico. Con questo termine s'intende una rifondazione della filosofia come sapere razionale rigoroso, che stia alla base sia delle scienze particolari; sia del sapere tout court, delle azioni, della vita stessa degli uomini. Secondo Husserl si tratta di fondare una teoria fenomenologica della conoscenza, considerata come un'analisi della vita della coscienza, con l' obiettivo di giungere alla logica pura. Dal nostro punto di vista è importante evidenziare che il metodo di questa ricerca fenomenologica è quello di andare alle cose stesse e per questo bisogna seguire "il principio di tutti i principi", vale a dire l'intuizione, fonte legittima di conoscenza. Tuttavia è necessario uscire dall"'atteggiamento naturale", nel quale lo sguardo vede solo ciò che è dato, senza considerare gli atti in cui esso è dato: 8

ciò può essere conseguito con una riduzione, una epochè, una messa tra parentesi delle ovvietà naturali, che ci consente di entrare nella vita della coscienza trascendentale e di tutte quelle operazioni mentali che costituiscono la conoscenza. Uno dei temi fondamentali della /z'losofla riguarda la conoscenza del mondo e la sua interpretazione. In epoca moderna vediamo opporsi la concezione meccanicistica della natura a quella finalistica, che era stata prevalente nel medioevo e nel Rinascimento. Per Giordano Bruno 1' (1548-1600), che riprende argomenti platonici e neo-platonici; !'ordine della realtà deriva da un Principio supremo, da cui tutto procede: l'Intelletto universale, l'Anima del mondo e le singole cose, composte di forma e materia. I:Intelletto anima dal di dentro la materia, le dà forma, dà vita a tutte le manifestazioni della natura, divinizzandola. La realtà è unità di spirito e materia, di Dio e natura: siamo qui di fronte ad una delle più organiche teorizzazioni del panteismo. Bruno prevede anche un ritorno al Principio, reso possibile dall'amore per la bellezza e dall'esaltazione di tutte le facoltà umane, !'"eroico furore", che permette di risalire tutti i gradi della realtà fino al ricongiungimento con Dio. L'idea che tutto z'l mondo abbia un'anima è apertamente contestata da René Descartes'" [Cartesio] (1596-1650): l'universo materiale (compresi gli esseri viventi) è spiegabile, per il filosofo, in termini puramente meccanicistici. Dio ha creato la materia e le sue leggi; dandole l'impulso originario: da quel momento il mondo funziona in modo autonomo, senza l'intervento di un'anima. In tal modo Cartesio separa nettamente la dimensione spirituale da quella materiale, facendo di quest'ultima una sostanza completamente autonoma dalla prima. Baruch Spinoza;' (1632-1677) riprende e radicalizza il meccanicismo cartesiano. Egli è sostenitore di un panteismo (Deus sive Natura), in cui l'universo coincide con Dio. Dio è sostanza unica, causa di se stesso e quindi totalmente autosufficiente: è ciò che è in sé ed è concepito per sé. Le cose finite, invece, che dipendono sempre da una causa esterna, non esistono da sé, sono modi dell'unica Sostanza divina e derivano da essa secondo una logica rigorosa, geometrica. Nell'universo così concepito tutto è necessario, non c'è spazio per la libertà o il caso. Gli uomini spesso ricorro-

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no alla volontà di Dio, all'idea di un disegno provvidenziale, laddove non riescono a spiegare le vere cause di quanto accade nel mondo. Ma finalismo e provvidenzialismo sono solo frutto dell'ignoranza degli uomini. Gottfried W. Leibniz-:' (1646-1716) rivaluta invece la prospettiva finalistica, che a suo avviso può trovare una conciliazione con il meccanicismo. La scienza spiega il comportamento dei fenomeni attraverso le cause efficienti, ma ciò non toglie che Dio attraverso le cause meccaniche abbia voluto dispiegare un suo disegno. In epoca moderna il problema della conoscenza si pone anche in relazione alle sue finalità: la filosofia di Francis Bacon* (1561-1626), ad esempio, è contraddistz'nta da un progetto di carattere pratico, quello cioè di imporre il dominio dell'uomo sulla natura. Bacon sostiene che la conoscenza, indagando l'ordine naturale delle cose, ha lo scopo di comandare alla natura, assoggettarla per soddisfare le esigenze dell'uomo. In altri termini: "sapere è potere". Bacon abbandona la prospettiva di quelle filosofie, come l'aristotelismo, in cui la conoscenza era fine a se stessa e quindi non feconda. I: uomo deve intervenire sulla realtà, trasformarla per migliorare le sue condizioni di vita. fohn Locke;' (1632-1704) pone, per primo, la necessità, in via preliminare, di prendere in esame le capacità, i limiti e le possibilità della nostra conoscenza: sapere questo significa affrontare con maggior sicurezza i problemi non solo in ambito gnoseologico, ma anche relatz'vamente alla sfera dell'etica, della politica, della religione. In epoca illuministica una delle teorie gnoseologiche più diffuse è quella del sensismo, il cui esponente maggiore è Etienne Bonnot di Condillac;' (1714-1780). Egli porta alle estreme conseguenze l'empirismo di Locke, attribuendo alla sola sensazione la fonte della conoscenza, là dove Locke ne aveva ammesse due, la sensazione e la riflessione. Le idee sono sensazioni che hanno subito una trasformazione: non c'è soluzione di continuità tra la sensazione e la riflessione e la mediazione tra questi due momenti è data dal linguaggio, una convenzione per comunz'care bisogni ed emozioni. Condillac esplicita la sua concezione rigorosamente sensistica istituendo un paragone tra l'uomo e una statua, organizzata internamente come l'uomo, vale a dire fornita dei cinque sensi: i sensz; mano a mano, si aprono alla realtà

esterna; in tal modo la statua può acquisire l' intera vita psichica di un uomo e questo ne dimostra la derivazione dalle sensazioni. Se si apre alla statua il senso del!' odorato, questa si forma le idee degli odori; e dunque prova gradevolezza o sgradevolezza: dal paragone tra gli odori si forma poi il giudizio, il pensiero, l'immaginazione. E così via per gli altri sensz; capaci di produrre nuove sensazioni e nuove idee. Senza il tatto, tuttavia, la statua non potrà provare la realtà del mondo esterno: solo il tatto, infatti; permette di percepire lo spazio e il movimento: per questo Condillac dice che il tatto è il senso "più profondo e filosofico". Con il tatto essa percepisce se stessa, il proprio corpo, l'azione degli oggetti sul proprio corpo, fino a giungere alla coscienza di sé. Se tutto ciò è possibile per una statua, lo sarà anche per l'uomo. Degna di nota è la posizione antilluminista di ]ean-]acques Rousseau;' (1713-1778) sulla conoscenza come fattore di progresso e di emancipazione. Lungi dal!' affermare che le scienze e le arti migliorino gli uomini e producano civiltà, egli mette in luce piuttosto i danni; soprattutto morali; causati da queste: le arti e le scienze nascono infatti dai vizi del!' uomo e li alimentano, diventando elementi di corruzione. Con il kantismo e con l'idealismo possiamo rinvenire un modo del tutto nuovo di porre zl problema soggetto-oggetto. Come abbiamo accennato, la questione fondamentale è il passaggio dalla semplice percezione delle cose alla coscienza filosofica, perché la coscienza comune si limita a considerare ciò che vediamo come la vera realtà. Nella misura in cui la filosofia cerca i fondamenti del sapere, !'idealismo è l'esatto opposto del realismo del senso comune. Il passo decisivo è stato però compiuto da Immanuel Kant* (1724-1804), che supera le precedenti posizioni filosofiche per cui l'oggettività era qualcosa di dato, e pone l'oggettività nella sintesi tra soggetto e oggetto: il mondo esterno è organizzato dalle forme a priori del soggetto, attraverso un processo di sussunzione del molteplice dell'esperienza. In tal modo l'oggettività della conoscenza è data dalle caratteristiche del soggetto che sono universali e necessarie. Per Kant la realtà in sé delle cose, il noumeno, rimane inconoscibile, anche se pensabile. Kant dunque riconosce dei limiti ben precisi alle nostre possibilità conoscitive: d'altra parte egli 9

ritiene che compito principale della filosofia sia proprio quello di indagare su questi limiti e su queste possibilità. I filosofi post-kantiani sono giunti ad a/fermare l'insostenibilità filosofica della cosa in sé, nel senso che non è possibile pensare una cosa senza anche conoscerla e l'idealismo ne ha tratto le estreme conseguenze. Nell'ambito dell'idealismo ricordiamo Friedrich Wilhelm Joseph Schelling'~ (1775-1854) per il quale esiste un legame tra natura e spirito, tra mondo ed io. La natura è lo spirito visibile e lo spirito la natura invisibile ed entrambi formano una totalità, un organismo universale. Egli si fa portatore di una concezione della natura dinamica, organica e finalistica e l'Assoluto, conciliazione di tutte le opposi'tz'vità, si coglie con un atto di intuizione. Per Georg Wilhelm Friedrich Hegel'" (1770-1831) invece l'Assoluto non si coglie con un mero atto intuitivo, ma attraverso la comprensione filosofica. Infatti l'Assoluto non è immediatamente dato, ma ad esso si deve giungere attraverso un cammino della coscienza che egli descrive nella Fenomenologia dello spirito. Ma questo cammino non è un "conoscere la conoscenza" prima di porla in atto, come pretendeva Kant, perché l' indagine del conoscere non può essere separata dalla conoscenza stessa. Arthur Schopenhauer'' (1788-1860), prende le mosse da Kant nel sostenere che "il mondo è una mia rappresentazione": la rappresentazione è il rapporto tra soggetto e oggetto, anteriore anche allo spazio e al tempo, i quali si danno nella rappresentazione stessa. Il mondo però non si esaurisce nella mera rappresentazione. Al di sotto del fenomeno, pura apparenza, sta la volontà. La via d'accesso alla volontà è, per il soggetto conoscente, il corpo, che oltre ad essere un fenomeno come gli altri~ è anche qualcosa di immediatamente conosciuto. Attraverso il corpo ci percepiamo come volontà. La volontà è un'unica forza irrazionale, che si oggettiva nei vari gradi della realtà, dalla natura inorganica fino alla ragione umana. Nell'ambito della teoria della conoscenza ha svolto un ruolo importante l'ermeneutica contemporanea, ad opera principalmente di Hans Georg Gadamer (1900), secondo il quale l'ermeneutica non un è semplice metodo esegetico, una tecnica di interpretazione dei testi; usata da certe discipline, come la teologia, la filologia, la giurisprudenza, ma una riflessione fi'loso/ica: il suo compito è IO

quello di chiarire la struttura della comprensione, intesa come un sapere che stabilisce i connotati della vita dell'uomo e del suo trovarsi nel mondo e nella storia. E poiché l'uomo ha a che fare essenzialmente col linguaggio, può comprendere ed interpretare il "mondo" solo perché lo esprime attraverso il linguaggio: è per questo che comprensione e linguaggio denotano la struttura dell'essere del!' uomo e della sua collocazione spaziotemporale. Nell'ambito della filosofi'a ermeneutica, Paul Ricoeur'' (1913) interpreta Nietzsche, Marx e Freud come i tre "maestri del sospetto", che ci hanno invitato a diffidare della coscienza e della sua evidenza. Il vero e il falso, il bene e il male per Nietzsche, le dinamiche sociali e sovrastrutturali per Marx e la dimensione conscia della vita per Freud, non risiedono nello strato superfi·ci'ale: bisogna "sospettare" una dimensione più profonda che ne offra la chiave interpretativa. Rispettivamente, la volontà di potenza, la struttura economica e l'inconscio ce ne svelano l'arcano. In effetti; una parte della filosofi'a moderna e contemporanea ha pensato che l'io abbia di sé una falsa coscienza e che bisogna superare la convinzione che è vero solo ciò che è evidente, chiaro e distinto, come aveva insegnato Descartes. Il livello di comprensione più profondo della realtà sta per Karl Marx'' (1818-1883) nel fatto che la coscienza non è la causa dei processi storico-sociatz; ma, al contrario, ne è l'effetto. Il nostro modo di pensare cambia, più o meno rapidamente, al cambiare della struttura economica: le idee, la cultura e la coscienza sono il riflesso delle forze produttive e dei rapporti di produzione. Il "sospetto" si riferisce in Friedrich Nietzsche'' (1844-1900) al fatto che le manifestazioni coscienti del!' io sono il prodotto dell'azione di istinti' inconsci e che quindi esso è privo di una realtà autonoma. Infine per Sigmund Freud-:' (1856-1939) la vita inconscia non può essere analz'zzata, pena la sua incomprensibilità, con gli strumenti logici e razionali'. Per questo egli ha elaborato il metodo psicanalitico, il solo in grado di far emergere quelle problematiche del!' inconscio, causa di nevrosi nella vita cosciente. Nel dibattito che caratterizza l'epistemologia contemporanea, è da sottolineare la contrapposizione fra il realismo e il relativismo degli schemi o dei sistemi concettuali; o relativismo concettuale. Partendo dal fatto che gli uomini organizzano

le loro credenze, rappresentazioni, giudizi di valore in schemi unitari; il relativismo ammette una pluralità di schemi concettuali: alternativi tra loro, ma ugualmente validi. Secondo Nelson Goodman 1' (1906) ci troviamo nell'impossibilità di stabilire come è il mondo se non in riferimento a uno schema concettuale, unico strumento per averne delle rappresentazioni. Noi non riproduciamo il mondo, ma ce lo rappresentiamo, cioè lo "costruiamo", ne produciamo molteplici versioni. Ciò non significa che ci troviamo difronte ad una pluralità di mondi; ma piuttosto che non dobbiamo dare valore normativo a nozioni come mondo, verità, sostanza, realtà. Ancora più radicale nei confronti dell'idea di una realtà esistente indipendentemente dagli schemi concettuali, tesi chiamata del "realismo metafisico" o "esternismo", è Hilary Putnam 1' (1926). Egli nega che gli oggetti esistano, ontologicamente, in modo indipendente dalla nostra mente, come se fosse possibile una sola vera definizione del mondo. La sua posizione, che potremmo chiamare "internista", è che non esiste una realtà esterna ai nostri schemi concettuali e che la verità consiste nella "accettazione razionale idealizzata". Con quest'ultima espressione Putnam vuol significare che si può parlare di verità quando c'è una ideale completezza nella corrispondenza della realtà ai nostri schemi concettuali. Lo stesso Thomas Nagel 1' (1937) ritiene illusoria una visione assoluta, che abbia la pretesa di essere valida per ogni soggetto e indipendente dai punti di vista. «La realtà non è solo la realtà oggettiva», sostiene Nagel, sottolineando la necessità di tener conto del carattere soggettivo degli stati di coscienza, anche se la filosofia tende ad una oggettività sempre più ampia. Gli stati di coscienza oltre che nell'uomo sono presenti anche negli altri esseri, che hanno forme di coscienza completamente diverse dalle nostre (Nagel porta l'esempio del pipistrello). È dunque impossibile analizzare in termini oggettivi le esperienze in quanto sono intrinsecamente connesse a una prospettiva soggettiva. Sempre riguardo al relativismo, Bertrand RusselP (1872-1970) si contrappone alla teoria de "l'uomo misura di tutte le cose": a suo avviso questa è una posizione errata, perché toglie valore alla riflessione filosofica, incatenandola all'Io. La contemplazione filosofica, invece, deve oltrepassare il soggetto, per allargare la conoscenza al non-

Io, deve giungere all'imparzialità del puro desiderio di verità. Sul terreno delle problematiche ideologiche e sul destino dell'ideologia le posizioni sono differenziate e anche opposte, come nel caso di Gramsci e Althusser. Antonio Gramsci* (18911937), interpreta il materialismo storico in modo storicistico, delineando anche per questa concezione del mondo e della vita un superamento, una volta risolte le contraddizioni con la edificazione di una società che ne sarebbe priva: allora anche la funzione delle ideologie verrebbe a cadere. Una posizione del genere, in ambito marxista, è quella espressa, per esempio, da Mao Tse Tung (18931976). il quale sostiene che il marxismo, in quanto filosofia che diviene, muta e si trasforma, secondo le affermazioni dello stesso Marx, è esso stesso suscettibile di superamento. Invece per Louis Althusser 1' (1918-1990) il compito della filosofia è quello di distinguere fra scientificità e ideologia, che tuttavia non è destinata a scomparire neppure nella società comunista, dal momento che essa è un elemento strutturale di qualsivoglia tipo di società: è un sistema di rappresentazioni e ha una funzione prevalentemente pratica, distinguendosi in ciò dalla scienza che ha una funzione teoretica. Per concludere facciamo riferimento alle "altre" visioni del mondo, su cui sono fondamentali gli studi di Claude Lèvi-Strauss 1' (1908-1991). Per Levi-Strauss il "pensiero selvaggio" delle comunità primitive risponde ad un'esigenza di classificazione e di organizzazione del mondo e perciò stabilisce una rete di connessioni fra gli oggetti in base alla concretezza della percezione sensibile. Anch'esso com.e il sapere scientifico costituisce una interpretazione globale della realtà, e, seppure abbia principi e scopi diversi: non per questo gli è inferiore.

II

PLATONE (427- 347 a.C.) Qui forse uno potrebbe dirmi: "Ma silenzioso e quieto, o Socrate, non sarai capace di vivere dopo uscito di Atene?". Ecco la cosa più difficile di tutte a persuaderne alcuni di voi. Perché se io vi dico che questo significa disobbedire al dio, e che perciò non è possibile io viva quieto, voi non mi credete e dite che io parlo per ironia; se poi vi dico che proprio questo è per l'uomo il bene maggiore, ragionare ogni giorno della virtù e degli altri argomenti sui quali m'avete udito disputare e far ricerche su me stesso e su gli altri, e che una vita che non faccia di cotali ricerche non è degna d'esser vissuta: s'io vi dico questo, mi credete anche meno. Eppure la cosa è così com'io vi dico, o cittadini; ma persuadervene non è facile. E d'altra parte io non mi sono assuefatto a giudicare me stesso meritevole di nessun male.

Una vita che non si dedichi alla ricerca non è degna di essere vissuta.

Apologia, 37 d-38 e, trad. di M. Valgimigli, in Opere complete, vol. 1, Bari, Laterza, 1971, pp. 62-64.

ARISTOTELE (384 - 322 a.C.) Se dunque tra le azioni conformi alle virtù quelle politiche e quelle di guerra eccellono in bellezza e per grandezza, ma sono disagiate e mirano a un altro fine e non sono scelte per se stesse, se invece l'attività dell'intelletto, essendo contemplativa, sembra eccellere per dignità e non mirare a nessun altro fine all'infuori di se stessa e ad avere un proprio piacere perfetto (che accresce l'attività) ed essere autosufficiente, agevole, ininterrotta per quanto è possibile all'uomo e sembra che in tale attività si trovino tutte le qualità che si attribuiscono all'uomo beato: allora questa sarà la felicità perfetta dell'uomo, se avrà la durata intera della vita. Infatti in ciò che riguarda la felicità non può esservi nulla di incompiuto. Ma una tale vita sarà superiore alla natura dell'uomo; infatti non in quanto uomo egli vivrà in tal maniera, bensì in quanto in lui v'è qualcosa di divino; e di quanto esso eccelle sulla struttura composta dell'uomo, di tanto eccelle anche la sua attività su quella conforme alle altre virtù. Se dunque in confronto alla natura dell'uomo l'intelletto è qualcosa di divino, anche la vita conforme a esso sarà divina in confronto alla vita umana. Non bisogna però seguire quelli che consigliano che, essendo uomini, si attenda a cose umane ed, essendo mortali, a cose mortali, bensì, per quanto è possibile, bisogna farsi immortali e far di tutto per vivere secondo la parte più elevata di quelle che sono in noi; se pur infatti essa è piccola per estensione, tuttavia eccelle di molto su tutte le altre per potenza e valore. E se essa è la parte dominante e migliore, sembrerebbe che ciascuno di noi consista proprio in essa; sarebbe quindi assurdo se l'uomo scegliesse non la vita a lui propria, bensì quella propria di altri. E ciò che prima s'è detto s'accorda con ciò che ora diciamo: cioè quello che a ciascuno è proprio per natura è la cosa per lui migliore e più piacevole. E per l'uomo ciò è la vita conforme all'intelletto, se pur in ciò consiste soprattutto l'uomo. E questo modo di vita sarà dunque anche il più felice. Etica Nicomachea, X, 7, 1177b-1178a, trad. di A. Plebe, in Opere, vol. 7, Bari, Laterza, 1990, pp. 264-265.

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l'attività dell'intelletto è puramente contemplativa e non ha altri scopi all'infuori di se stessa.

l'intelletto è la parte più elevata dell'uomo, rappresenta quanto di divino e d'immortale c'è in lui.

la vita dedicata alla conoscenza è la vita più felice.

1 FRANCIS BACON (1605) Fra le motivazioni che spingono gli uomini alla ricerca del sapere bisogna dare spazio alla più fruttuosa, quella che tende all'utilità e al beneficio dell'uomo.

Ma l'errore fra tutti più grande è quello di equivocare o mal riporre l'ultimo ed estremo fine del conoscere: ché gli uomini sono stati mossi al desiderio di sapere e conoscere, ora da una curiosità naturale e da una inclinazione alla ricerca, ora dal desiderio di svagarsi l'animo con varietà e piacere, ora dalla ricerca di lustro e fama, ed ora dal desiderio di primeggiare per spirito e capacità di controbattere; ma di rado dalla sincera aspirazione a dare una fedele espressione al dono della ragione, per l'uso e beneficio degli uomini. [ ... ] Ma come cielo e terra cospirano entrambi e contribuiscono all'utilità e beneficio dell'uomo, così bisogna mirare ad estrarre e scartare da entrambe le filosofie le speculazioni vane e tutto ciò che è vuoto e inconsistente conservando e accrescendo ciò che è solido e fruttuoso onde la conoscenza non sia, come una cortigiana, tutta rivolta al piacere e alla vanità, o come una schiava tutta intesa a adoperarsi a vantaggio del padrone, ma come una sposa, destinata alla procreazione, alla fecondità e alla felicità. La dignità e il progresso del sapere divino ed umano, in Scrittifilomfici, a cura di P. Rossi, Torino, UTET, 1975, pp. 166-167.

RENÉ DESCARTES (1637) La conoscenza non deve essere puramente speculativa, ma avere un' utilizzazione pratica e permetterci di divenire padroni della natura.

È un dovere morale di colui che è venuto in possesso di certe conoscenze, il diffonder/e e impiegarle per il bene dell'umanità.

Ma, non appena venni in possesso di alcune nozioni generali di fisica, e, cominciando a sperimentarle in diverse difficoltà particolari, mi accorsi fin dove potevano condurre, e quanto differissero i loro princìpi da quelli di cui s'è fatto uso sino ad oggi, io reputai di non poterle tener nascoste senza peccare grandemente contro la legge che ci obbliga di procurare, per quanto è in noi, il bene di tutti gli uomini. Esse, infatti, mi han fatto vedere ch'è possibile pervenire a conoscenze utilissime alla vita; e che, invece di quella filosofia meramente speculativa che s'insegna nelle scuole, se ne può trovare una pratica, per la quale, conoscendo la potenza e gli effetti del fuoco, dell' acqua, dell'aria, degli astri, dei cieli e di tutti gli altri corpi a noi circostanti, con la stessa precisione con cui conosciamo le diverse tecniche dei nostri artigiani, noi potremmo impiegarli similmente a tutti gli usi a cui sono adatti, e renderci così quasi padroni e possessori della natura. Il che non solo è desiderabile per l'invenzione d'una infinità di congegni che ci farebbero godere senza fatica dei frutti della terra e di tante altre comodità, ma anche, principalmente, per la conservazione della salute, fo quale è, senza dubbio, il primo bene e fondamento di tutti gli altri beni in questa vita. Discorso sul metodo, trad. di A. Carlini, Bari, Laterza, 1975, p. 44.

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JOHN LOCKE (1690) Le ricerche nelle quali s'impegna l'intelligenza per trovare la verità sono una specie di uccellazione o caccia, nella quale lo stesso inseguimento della preda costituisce gran parte del piacere. Ogni passo che la mente muove sulla strada della conoscenza è una scoperta, non solamente nuova, ma anche la più perfetta, almeno per il presente. Poiché l'intelligenza, come l'occhio, non giudicando gli oggetti se non per ciò che ne vede, non può non trovar piacere nelle scoperte che fa, sentendosi meno turbata per ciò che le è sfuggito, perché ignora che cosa sia. Perciò, chiunque abbia formato il proposito di non vivere d'elemosina, e, non volendo riposare negligentemente su brandelli di opinioni tolte in prestito, metta all'opera i propri pensieri per trovare e seguire la verità, troverà la stessa soddisfazione del cacciatore (quali che siano gli oggetti che è destinato a incontrare). [.. .] Se fosse il caso qui di annoiarti con la storia di questo Saggio, potrei dirti che cinque o sei amici miei, essendosi riuniti in casa mia, ed essendo venuti a discorrere intorno ad un argomento ben diverso da quello che io tratto in quest'opera, ben presto si trovarono ad un punto morto per le difficoltà che sorsero da ogni parte. Dopo esserci affaticati per qualche tempo, senza aver fatto un passo avanti nella soluzione dei dubbi che ci imbarazzavano, mi venne fatto di pensare che eravamo su una strada sbagliata; e che, prima di impegnarci in ricerche di quel genere, era necessario esaminare le nostre stesse capacità, e vedere quali oggetti siano alla portata della nostra intelligenza, e quali invece siano superiori alla nostra comprensione. Sottoposi questo pensiero alla compagnia, e tutti senz'altro mi approvarono. [... ] Essendo l'Intelligenza che innalza l'uomo su tutti gli altri esseri sensibili, e gli dà tutta la superiorità e l'impero ch'egli ha sopra loro, essa è senza dubbio un argomento che, per la stessa nobiltà sua, merita bene che noi ci applichiamo a indagarlo. L'intelligenza, come l'occhio, ci fa vedere e percepire tutte le altre cose, ma non si accorge di se stessa. E si richiedono molta arte e molte cure per metterla ad una certa distanza, e farla suo proprio oggetto. Ma, per quanto difficile sia trovare il modo di avviarsi in questa ricerca, e quale che sia lo schermo che tanto fortemente nasconde noi a noi stessi, sono tuttavia certo che la luce che questa indagine può diffondere nelle nostre menti, e tutta la conoscenza della nostra intelligenza che per suo mezzo potremo acquistare, non solo ci daranno molta gioia, ma ci saranno anche di grande utilità per guidare i nostri pensieri nella ricerca di altre cose. [. .. ] Basterà, per l'intento che io perseguo in queste pagine, esaminare le facoltà di conoscere dell'uomo, in quanto esse operano nei riguardi dei diversi oggetti che si presentano alla sua mente. E credo che non avrò affatto perduto il mio tempo nel meditare su questa materia, se, usando questo metodo storico e semplice, posso far vedere in quali modi la nostra intelligenza venga ad acquisire le nozioni che ha delle cose, e se potrò stabilire i criteri della certezza della nostra conoscenza, e i fondamenti delle convinzioni che vediamo regnare fra gli uomini: convinzioni così differenti, così varie, così direttamente contraddittorie, e che tuttavia, nell'una o nell'altra parte del mondo, vengono sostenute con tanta sicurezza e fiducia, che chiunque voglia considerare le opinioni del genere umano, esaminare il contrasto che c'è fra di esse, e al tempo medesimo osservare la passione e la devozione con cui sono accolte, la risolutezza e il fervore con cui sono sostenute, avrà motivo forse di sospettare una di queste due cose, o che non ci sia assolutamente ciò che si chiama la verità, o che gli uomini non abbiano mezzi sufficienti per arrivare ad una conoscenza certa di essa. Saggio sull'intelligenza umana. Epistola al lettore e Introduzione, trad. di C. Pellizzi, Bari, Laterza, 1988, pp. 6-7 e 21-22.

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La ricerca conoscitiva è sempre accompagnata da piacere e soddisfazione.

Ma prima di impegnarsi in qualsiasi campo del sapere, l'intelligenza deve fare di se stessa l'oggetto della sua ricerca. In altre parole deve individuare le proprie capacità e i propri limiti.

La necessità di indagare sulla conoscenza è imposta anche dalla constatazione che le convinzioni tra gli uomini sono molte e in contrasto tra loro, e tuttavia vengono difese con accanimento come se fossero la sola verità.

PLATONE (427-347 a.C.) La saggezza è la conoscenza di se stessi. È la scienza di se stessa e delle altre scienze.

Ma è una scienza difficile da concepire, così come è difficile immaginare una vista che sia vista di se stessa.

[Crizia] Perché quasi quasi io, per conto mio, sostengo che la saggezza è conoscere se stessi e sono d'accordo con chi ha consacrato questa iscrizione sul tempio di Delfi. [. .. ] Ecco che in questo modo il dio invia un saluto a chi entra ben diverso da quello degli uomini, come fu, se non mi sbaglio, l'intenzione di chi offrì l'iscrizione; e dice a quelli che sempre entrano niente altro che: Sii saggio. Così dice, Naturalmente da profeta che è, lo dice in modo piuttosto enigmatico, perché "conosci te stesso" e "sii saggio" sono sì la medesima cosa come l'iscrizione stessa esprime ed io credo. [. .. ] [Socrate] - Di' dunque, come la pensi di questa saggezza? - Penso dunque, che sola fra tutte le altre scienze, essa è scienza di se stessa e delle altre scienze. - Quindi, sarebbe anche scienza dell'ignoranza visto che è scienza delle scienze. - Naturalmente! - Dunque il saggio, lui solo conoscerà se stesso e sarà capace di esaminare cosa si trovi a sapere e cosa no; e sarà capace di esaminare negli altri, allo stesso modo, cosa ciascuno sappia e creda di sapere, se veramente sappia e cosa creda di sapere senza invece sapere. Lui solo e nessun altro. Esser saggi e conoscere se stessi consistono dunque nel saper che cosa si sappia e cosa non si sappia. È questa la tua idea? - Sì. [. .. ] - Vedi da quali strane premesse incominciamo, amico mio! Perché se tu le esamini in altri casi, troverai che sono impossibili, te lo dico io. - Come mai e dove? - Ecco. Immagina se ti pare possibile, una vista che non veda quel che pur vedono le altre viste, ma che sia vista solo di se stessa, delle altre viste e delle non-viste. Ti pare che esista una vista simile? - No per Giove. - Ma vediamo: un udito che non oda alcuna voce ma oda solo se stesso, gli altri uditi e i non-uditi? - Neppure questo. [ ... ] - Ma ti pare che esista un desiderio, che non sia desiderio di alcun piacere, ma solo desiderio di se stesso e degli altri desideri? - No, certo. - Oppure una volontà che non voglia alcun bene, ma voglia solo se stessa e le altre volontà? - No, del tutto. [. .. ] - E un'opinione che sia opinione di sé e delle altre opinioni, ma che nulla opini di ciò su cui le altre opinioni opinano? - Per nulla. - Però pare che noi sosteniamo che esista una scienza di tal genere, la quale non sia scienza di alcun oggetto di sapere, ma sia scienza di sé e delle altre scienze. Non è veramente una stranezza se davvero esiste? Carmide, 164d-168a, trad. di P. Pucci in Opere complete, voi. 4, Bari, Laterza, 1988, pp.129-133.

La filosofia critica ritiene che prima di iniziare qualsiasi percorso conoscitivo dobbiamo indagare sullo strumento con cui conosciamo: se esso non fosse adeguato qualsiasi altra ricerca sugli oggetti (Dio, l'essenza delle cose) sarebbe fatica sprecata. Ma credere di poter conoscere la conoscenza prima di metterla in atto è come pretendere di imparare a nuotare prima di entrare in acqua.

GEORG W.F. HEGEL (1817) Uno dei punti di vista capitali della filosofia critica è, che prima di procedere a conoscer Dio, l'essenza delle cose, ecc., bisogni indagare la facoltà del conoscere per vedere se sia capace di adempiere quel compito: si dovrebbe apprendere a conoscere l'istrumento, prima d'intraprendere il lavoro che per mezzo di esso deve essere portato a termine: ché se l'istrumento fosse insufficiente, ogni altra fatica sarebbe perduta. - Questo pensiero è parso così plausibile che ha destato la maggiore ammirazione e consenso e ha ricondotto il conoscere, dal suo interesse per gli oggetti e del suo occuparsi di questi, a sé stesso, al formale. Se tuttavia non si vuole illudersi con parole, è facile vedere che altri strumenti possono bene indagarsi e giudicarsi in altro modo che non sia il lavoro stesso cui sono destinati; ma l'indagine del conoscere non può accadere altrimenti che conoscendo: dacché indagare questo cosiddetto istrumento non è altro che conoscerlo. Voler conoscere dunque prima che si conosca è assurdo, non meno del saggio proposito di quel tale Scolastico1, d'imparare a nuotare prima di arrischiarsi nell'acqua. 1) "Scholasticus" è il "novizio" di certe Facetiae, attribuite al filosofo pitagorico Hierocle, che si usavano fra i testi dei primo insegnamento di greco nelle scuole di Germania.

Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, trad. di B. Croce, Bari, Laterza, 1978, pp.16-17.

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PROTAGORA [DA PLATONE] (491/481 - 411 a.C.) Io affermo, sì, che la verità è proprio come ho scritto; che ciascuno di noi è misura delle cose che sono e che non sono: ma c'è una differenza infinita fra uomo e uomo per ciò appunto che le cose appariscono e sono all'uno in un modo, all'altro in un altro. E sono cosl lontano dal negare che esistano sapienza e uomo sapiente, che anzi chiamo sapiente colui il quale, trasmutando quello di noi cui certe cose appariscono e sono cattive, riesca a far sì che codeste medesime cose appariscano e siano buone. E tu non combattere il mio ragionamento inseguendolo ancora nelle parole; ma vedi piuttosto di intendere così, sempre più chiaramente, che cosa voglio dire. Ricorda quel che già prima dicemmo, che a chi è malato i cibi sembrano e sono amari, a chi sta bene, al contrario, sono e sembrano gradevoli. Se non che non è lecito inferire da ciò che di questi due l'uno è più sapiente dell'altro, - ché non è possibile, - e nemmeno si deve dire che l'ammalato, perché ha tale opinione, è ignorante, ed è sapiente il sano perché ha opinione contraria; bensì bisogna mutare uno stato nell'altro, perché lo stato di sanità è migliore. E così, anche nell'educazione, bisogna tramutar l'uomo da un abito peggiore a un abito migliore. Ora, per codesti mutamenti, il sofista adopra discorsi come il medico farmachi: ma nessuno mai indusse chicchessia che avesse opinioni false ad avere opinioni vere; né di fatti è possibile che uno pensi cose che per lui non esistono, o cose estranee a quelle di cui abbia in quel momento una data impressione, ché queste soltanto per lui sono vere ogni volta. Ebbene, colui che per uno stato d'animo inferiore ha opinioni conformi alla natura di codesto suo animo, può esser indotto, credo, da un animo superiore ad avere opinioni diverse che siano conformi a codesto animo superiore; che sono appunto quelle fantasie che taluni per ignoranza dicono vere, e io dico semplicemente migliori le une delle altre, ma più vere nessuna. E i sapienti, amico Socrate, io sono ben lontano dal chiamarli ranocchi; che anzi rispetto ai corpi li chiamo medici, rispetto alle piante agricoltori. E dico che questi agricoltori introducono nelle piante, se qualcuna ne ammala, invece di sensazioni cattive, sensazioni buone e salutari, non solo vere; e i sapienti e buoni rètori fanno sl che alle città apparisca giusto il bene anzi che il male. Infatti ciò che per una data città apparisce giusto e bello, codesto anche è, per quella città, e giusto e bello, finché così ella reputi e sancisca: ma è l'uomo sapiente che per ogni singola cosa la quale ai cittadini sia male sostituisce altre cose che sono e appariscono bene. Per la stessa ragione anche il sofista che è capace di educare in tal modo i suoi alunni è uomo sapiente e meritevole di esser pagato da costoro con molto danaro. E così alcuni sono più sapienti di altri, e nessuno ha opinioni errate; e tu devi rassegnarti, voglia o non voglia, a essere misura delle cose: in questo che s'è detto si fonda appunto la salvezza della mia dottrina 1• I) Il brano è parte della "apologia di Protagora", in cui Socrate, immedesimandosi in Protagora, riporta le argomentazioni del sofista.

Teeteto, 166d-167d, trad. di M. Valgimigli, in Opere complete, vol. 2, Bari, Laterza, 1984, pp. 114-115.

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Non ci sono opinioni false ed opinioni vere. Gli uomini sono infinitamente diversi fra loro, ed ognuno ha un punto di vista sulle cose.

Possono esserci opinioni migliori di altre, ma non per questo più vere.

Non ci sono un giusto e un bello assoluti: ciascun uomo e ciascuna comunità stabiliscono i propri valori.

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PLATONE (427 - 347 a.C.) SOCR. È possibile allora che, se Protagora diceva il vero ed è questa la verità, che quali a ciascuno sembrano le cose, tali anche sono, alcuni di noi siano assennati, altri dissennati? ERM. No certo. SOCR. Anche questo, io credo, ammetterai sicuramente, che se v'è assennatezza e dissennatezza, non è affatto possibile che Protagora dica il vero; perché nessun uomo in verità potrà essere mai più assennato di un altro, se per ciascuno ciò solo ch'egli crede vero, è vero. ERM. È così.

Cratilo, 386c-d, trad. di L. Minio-Paluello, in Opere complete, voi. 2, cit., p. 11.

BERTRAND RUSSELL (1957) L'idea che l'uomo sia la misura di tutte le cose è errata e toglie valore alla riflessione filosofica. Incatenare la conoscenza all'Io significa temere il confronto con /'esterno.

La libertà e l'imparzialità raggiunta nella contemplazione filosofica (e che si manifesta in essa come puro desiderio di verità) avrà il suo prolungamento nell'azione pratica. Una mente non prigioniera della propria soggettività sarà anche più in grado di agire secondo un interesse universale, nel segno della giustizia e dell'imparzialità.

Vi è una diffusa tendenza fra i filosofi ad affermare che l'Uomo è la misura di tutte le cose, che la verità è fatta dall'uomo, che spazio e tempo e il mondo degli universali sono proprietà della mente, e che, ammesso che vi sia qualcosa non creato dalla mente, è inconoscibile e di nessuna importanza per noi. Questa opinione, se le discussioni condotte fin qui sono corrette, è errata; e per di più, ha l'effetto di spogliare la contemplazione filosofica di tutto ciò che le dà valore, perché la incatena all'Io. Ciò che essa chiama conoscenza non è l'unione con il non-Io, ma un insieme di pregiudizi, abitudini e desideri che stendono un velo impenetrabile fra noi e il mondo al di là. L'uomo che si compiace di una tale teoria della conoscenza è simile all'uomo che non esce mai dalla cerchia familiare per paura di scoprire che la sua parola non è legge. La vera contemplazione filosofica, invece, trova la propria soddisfazione in ogni allargamento del non-Io, in tutto ciò che ingrandisce gli oggetti contemplati e per conseguenza il soggetto che li contempla. Nella contemplazione tutto ciò che è personale o privato, tutto ciò che dipende dall'abitudine, dall'interesse personale o dal desiderio, snatura l'oggetto, e quindi indebolisce l'unione cercata dall'intelletto. Creando così una barriera fra soggetto e oggetto, tali cose personali e private diventano una prigione per l'intelletto. L'intelletto libero vuole vedere come potrebbe vedere Dio, senza un hic e un nunc, senza speranze né timori, senza le pastoie delle credenze convenzionali e dei pregiudizi tramandati, calmo, spassionato, col solo ed esclusivo desiderio di conoscenza - una conoscenza tanto impersonale, tanto puramente contemplativa quale è possibile ad un uomo di raggiungere. Quindi, anche, l'intelletto libero attribuirà maggior valore alla conoscenza astratta e universale, in cui non entrano gli accidenti della storia privata, che non alla conoscenza data dai sensi, e dipendente, come una tale conoscenza dev'essere, da un punto di vista personale ed esclusivo e da un corpo i cui organi sensoriali snaturano tanto quanto rivelano. La mente che si è abituata alla libertà e imparzialità della contemplazione filosofica conserverà qualcosa di questa libertà e imparzialità nel mondo dell'azione e del sentimento. Vedrà i propri scopi e desideri come parti del tutto, e li perseguirà senza accanimento, vedendoli come frammenti inifinitesimali in un mondo di cui tutto il resto non è toccato dall'azione di nessun uomo. L'imparzialità che nella contemplazione si manifesta come puro desiderio di verità, è quella stessa qualità della mente che nell'azione si manifesta come giustizia, e nel sentimento come quell'amore universale che si rivolge a tutti e non solo a coloro che si giudicano utili o ammirevoli. Così la contemplazione ingrandisce non soltanto gli oggetti dei nostri pensieri, ma anche gli oggetti delle nostre azioni e dei nostri affetti: fa di noi altrettanti cittadini dell'universo, e non solo di un'unica città cinta di mura e in guerra con tutto il resto del mondo. In quest'essere cittadino dell'universo consiste la vera libertà dell'uomo, e la sua liberazione dalla schiavitù delle meschine speranze e timori. I problemi della filosofia, trad. di E. Spagnai, Milano, Feltrinelli, 1983, pp. 188-190.

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ARTHUR SCHOPENHAUER (1819) "Il mondo è una mia rappresentazione": ecco una verità valida per ogni essere vivente e pensante, benché soltanto l'uomo possa venirne a coscienza astratta. e riflessa. E quando l'uomo sia giunto di fatto a tale coscienza, lo spirito filosofico è entrato in lui. Allora, egli sa con chiara certezza di non conoscere né il sole né la terra, ma soltanto un occhio che vede un sole, e una mano che sente il contatto d'una terra; egli sa che il mondo circostante non esiste se non come rappresentazione, cioè sempre e soltanto in relazione con un altro essere, con il percipiente, con lui medesimo. Se c'è una verità che si può affermare a priori, è proprio questa; essa infatti esprime la forma di ogni esperienza possibile ed immaginabile: la quale forma è più universale di tutte le altre, e cioè del tempo, dello spazio e della causalità, perché tutte queste implicano già la prima. E mentre ciascuna di tali forme, riconosciute da noi come altrettante particolari determinazioni del principio di ragione, ha valore soltanto per una singola classe di rappresentazioni, la distinzione in oggetto e soggetto è invece la forma comune a tutte le classi, la sola con cui si possa concepire una rappresentazione di qualsiasi specie, astratta o intuitiva, pura o empirica. Nessuna verità è dunque più certa, più assoluta, più lampante di questa: tutto ciò che esiste per la conoscenza, e cioè il mondo intero, non è altro che l'oggetto in rapporto al soggetto, la percezione per lo spirito percipiente; in una parola: rappresentazione. Questa legge vale naturalmente sia per il presente, sia per tutto il passato e per tutto l'avvenire; per ciò che è per noi lontano come per il vicino; infatti essa vale anche per il tempo e per lo spazio, in cui soltanto ogni cosa può essere percepita. Tutto quanto il mondo include o può includere è inevitabilmente dipendente dal soggetto, e non esiste che per il soggetto. Il mondo è rappresentazione. [ .. .] Ciò che tutto conosce, senza esser conosciuto da alcuno, è il soggetto. Il soggetto è dunque il sostegno del mondo, la condizione universale, sempre sottintesa, di ogni fenomeno, di ogni oggetto: infatti tutto ciò che esiste, non esiste che in funzione del soggetto. E ognuno sente come tale soggetto se stesso; unicamente però in quanto conosce, non in quanto egli stesso è oggetto di conoscenza. Il nostro stesso corpo è già un oggetto, e perciò noi, sotto un tal punto di vista, lo chiamiamo rappresentazione. Il nostro corpo infatti è un oggetto fra oggetti, sottoposto alle leggi degli oggetti: soltanto, è un oggetto immediato. Al pari di ogni altro oggetto di intuizione, il corpo è sottoposto alle leggi formali del pensiero, lo spazio e il tempo, donde sorge la pluralità. Ma il soggetto, il conoscente non conosciuto, non obbedisce a tali forme, ma al contrario ne è sempre sottinteso, in modo tale che non gli si può applicare né la pluralità, né l'opposta categoria dell'unità. Ma noi non possiamo mai conoscerlo e, dovunque vi sia conoscenza, l'elemento conoscente è sempre il soggetto. Il mondo come rappresentazione, cioè sotto l'unico punto di vista da cui ora lo consideriamo, ha due metà essenziali, necessarie ed inseparabili. La prima è l'oggetto, le cui forme sono lo spazio, il tempo, mediante i quali, come si è detto, si ha la pluralità. La seconda metà, il soggetto, sfugge però alla legge del tempo e dello spazio, poiché esiste intera e indivisa in ogni essere capace di rappresentazione; quindi anche uno solo di questi esseri, insieme con l'oggetto, basta a costituire il mondo come rappresentazione con la stessa completezza di milioni d'esseri esistenti; lo svanire invece di quest'unico soggetto porterebbe con sé lo svanire del mondo come rappresentazione. Il mondo come volontà e rappresentazione, trad. N. Palanga, Milano, Mursia, 1985, pp. 39-41.

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L'uomo che ha acquisito una coscienza filosofica sa che il mondo è una sua rappresentazione.

Il mondo esiste soltanto come rappresentazione, cioè in relazione ad un soggetto conoscente. Non sappiamo nulla degli oggetti in sé, perché li conosciamo soltanto attraverso la nostra percezione. L'oggetto in rapporto al soggetto si determina secondo le forme dello spazio, del tempo e della causalità.

Il soggetto è il conoscente non conosciuto, sfugge alla legge del tempo e dello spazio ed è la condizione universale di ogni fenomeno. Ognuno sente se stesso come soggetto. Anche il corpo è una rappresentazione, è un oggetto fra gli oggetti, sottoposto alle stesse leggi, ma è un oggetto immediato.

ARTHUR SCHOPENHAUER (1819) Non ci accontentiamo di sapere che il mondo è una rappresentazione, vogliamo indagare oltre, capire se il mondo sia qualcosa di più.

La risposta la troviamo nel soggetto conoscente che ha la sua radice nel mondo, perché la sua conoscenza è condizionata dal corpo. Il corpo ci si presenta in due modi diversi: è sì un oggetto fra gli oggetti, ma è anche volontà.

Conoscere il corpo come volontà ci fornisce la chiave per svelare l'intima essenza dell'intera natura: la volontà è la forza che si manifesta in tutto il mondo, in quello inorganico, in quello vivente e nell'uomo stesso.

La rappresentazione è il fenomeno, la volontà è la cosa in sé.

Non ci basta di sapere che abbiamo delle rappresentazioni, che queste rappresentazioni sono di tale o tal altra specie, e che si connettono tra loro secondo le leggi espresse in generale dal principio di ragione. Noi vogliamo conoscere il significato di queste rappresentazioni: ci domandiamo se questo mondo non sia altro che rappresentazione (nel qual caso dovrebbe passarci davanti come un vano sogno, come un aereo fantasma, indegno di ogni nostra considerazione); oppure al contrario, se non sia ancora qualcos'altro, qualche cosa di più, e che cosa sia questo qualcosa di più. [... ] Vediamo dunque fin d'ora che se si parte dal di fuori non sarà mai possibile arrivare all'essenza delle cose. [. .. ] Pure, questa è la via seguita da tutti i filosofi che vennero prima di me. In realtà sarebbe impossibile trovare il significato di questo mondo che ci sta dinanzi come rappresentazione, oppure comprendere il suo passaggio da semplice rappresentazione del soggetto conoscente a qualcosa d'altro e di più, se il filosofo stesso non fosse qualcosa di più che un puro soggetto conoscente (una testa d'angelo alata, senza corpo). Ma il filosofo ha la sua radice nel mondo: ci si trova come individuo, e cioè la sua conoscenza, condizione e fulcro del mondo come rappresentazione, è necessariamente condizionata dal corpo, le cui affezioni porgono all'intelletto il suo punto di partenza per l'intuizione del mondo medesimo. [. .. ] Al soggetto conoscente che deve la sua individuazione all'identità con il proprio corpo, questo corpo è dato in due maniere affatto diverse: da un lato come rappresentazione intuitiva dell'intelletto, come oggetto fra oggetti, sottostante alle loro leggi; ma insieme, dall'altro lato, è dato come qualcosa di immediatamente conosciuto da ciascuno, e che viene designato col nome di volontà. Ogni atto reale della sua volontà è sempre infallibilmente anche un movimento del suo corpo; il soggetto non può voler effettivamente un atto, senza insieme costatare che questo atto appare come movimento del suo corpo. [ ... ] Se ora, dopo tutte queste spiegazioni, il lettore si è fatta una conoscenza di quello che ciascuno sa direttamente in concreto come sentimento; che cioè l'intima essenza del proprio fenomeno non è altro che la sua volontà, la quale costituisce l'oggetto immediato della sua propria coscienza; [. .. ] questa gli servirà come chiave per la conoscenza dell'essenza intima della natura intera. [ .. .]E non soltanto nei fenomeni simili al proprio, negli uomini e negli animali, riconoscerà come essenza intima questa medesima volontà; ma un po' più di riflessione lo porterà a riconoscere che tutta l'universalità dei fenomeni, pur così diversi nelle loro manifestazioni, ha una sola e identica essenza: quella che da lui è conosciuta più direttamente, più intimamente e meglio di ogni altra: quella che nella sua più fulgida manifestazione prende il nome di volontà. Volontà vedrà egli nella forza che fa crescere e vegetare la pianta; in quella che dà forma al cristallo; in quella che dirige l'ago calamitato al nord; nella commozione che prova al contatto di due materiali eterogenei; nella forza che si manifesta nelle affinità elettive della materia in forma di repulsione e attrazione, di combinazione e decomposizione; e persino nella gravità, che agisce con tanta potenza in ogni materia e attira la pietra a terra come la terra al cielo. [ ... ] Fenomeno è rappresentazione, e nulla più; e ogni rappresentazione, ogni oggetto di qualsiasi specie, è fenomeno. Cosa in sé è soltanto la volontà, che a tal titolo non è affatto rappresentazione. [... ] La volontà è la sostanza intima, il nocciolo di ogni cosa particolare e del tutto; è quella che appare nella forza naturale cieca, e quella che si manifesta nella condotta ragionata dell'uomo; l'enorme differenza che separa i due casi non concerne se non il grado della manifestazione; l'essenza di ciò che si manifesta ne rimane assolutamente intatta. Il mondo come volontà e rappresentazione, cit., pp. 39-42, 136-139, 147-151.

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