Interroghiamo i filosofi. Antologia tematica [Vol. 4]

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Simonetta Pighini Angelo Vannucci

Interroghiamo i Filosofi antologia tematica Come procede la scienza? La vita: mistero insondabile o oggetto per la scienza? Quali sono i legami tra natura e cultura? Come si colloca l'uomo nel tempo?

(;AN Edizioni di Scuola e Cultura

RINGRAZIAMENTI Dobbiamo un ringraziamento a chi ci ha suggerito questo lavoro, il Prof. José Medina che, insieme a Claude Morali e André Sénik, è autore del manuale La philosophie camme débat entre !es textes, da cui abbiamo tratto lo spunto per la struttura di Interroghiamo i Filosofi. Gli Autori

GUIDA ALLA LETTURA E ALLA UTILIZZAZIONE Ogni capitolo propone una domanda generale su un tema, all'interno della quale si apre una serie di sottodomande che possono, nella loro indipendenza, essere affrontate in modo autonomo, pur avendo una loro consequenzialità logica. Caratteristica dell'antologia è il criterio della doppia pagina, dove, rispetto alla domanda proposta, si trovano risposte contrapposte o argomentazioni diversificate: qualche autore, che mantiene una posizione più articolata o meno definita, è posizionato tra le due pagine. Per una più agevole consultazione, ogni capitolo è contraddistinto da un colore diverso; il numero della domanda, posto nel quadrato colorato dell'indice, è riportato sulla banda colorata della doppia pagina. I testi sono corredati da note esplicative, ben evidenziate, in modo tale da non interferire con i brani e, in pari tempo, da fornire una veloce sintesi dell'argomentazione dell'autore. All'inizio di ogni capitolo è presente un'introduzione, che offre una ricostruzione storica del problema e un percorso di lettura per i testi antologizzati, i cui autori sono evidenziati in grassetto e con un asterisco. Il testo è corredato di una biobibliografia essenziale degli autori citati. Le date poste a fianco dei nomi dei filosofi si riferiscono al periodo di stesura o di pubblicazione del testo riportato, o alla data di nascita e morte dell'autore stesso.

© 2001 by Canova Edizioni di scuola e cultura - Treviso Stampa Zoppelli - Dosson di Casier (Treviso) ISBN 88-7330-003-0

4

Indici dei Capitoli

7

Capitolo 1

41

Capitolo 2

73

Capitolo 3

105

Capitolo 4

137

Bio-bibliografia

INDICE CAP. 1

Introduzione, 7

• • • • • • •

La matematica è il modello ideale per tutte le scienze?, 12 G. Galilei - R. Descartes, 12 - F. Bacon, 13

• •

Introduzione, 41

spiegare l'origine della vita sulla lii Come Terra?, 46 Genesi, 46 Anassimandro - Empedocle - Democrito, 47

La scienza procede per ipotesi?, 14 G. Galilei - I. Newton, 14

Quali ipotesi sull'origine della vita sulla Terra?, 48 A.I. Oparin, 48 - F. Crick, 49

J.H. Poincaré, 15

Per la scienza è necessario un metodo sicuro?, 16 R. Descartes, 16 - P.K. Fe_yerabend, 17

Cos'è la vita? Possiamo ridurla a una successione di processi chimici?, 50 J.B.S. Haldane, 50 - H. Bergson, 51

Le teorie scientifiche devono superare l'esperimento cruciale?, 18 F. Bacon, 18 - P. Duhem, 19 È possibile una scienza universale e necessaria?, 20 I. Kant, 20 - H. Reichenbach, 21 È valida l'induzione?, 22 J.S. Mili, 22 - D. Hume - K. Popper, 23

Una teoria scientifica va verificata o falsificata?, 24 M. Schlick, 24 - K. Popper, 25

Il

INDICE CAP. 2

Ilfenomeno scientifico è una costruzione dello strumento?, 26

Cos'è la vita? Solo una crudele lotta senza scopo?, 52 A. Schopenhauer, 52



G.W.F. Hegel - F. Engels, 57

llJ L'evoluzione è opera di un ingegnere o di un bricoleur?, 58 P. Teilhard De Chardin, 58 - F. J acob, 59

Euomo può disporre liberamente della propria vita?, 60

Il cammino della scienza è un continuo superamento di ostacoli?, 28 La conoscenza scientifica rompe con la visione dell'uomo della strada?, 30

Catechismo della Chiesa cattolica - Plotino -

I. Kant, 60 - Seneca -D. Hume - K. J aspers, 61

111 · Sacralità della vita o qualità della vita?, 62 A. Rigabello, E. Soetje, 62 -

T.S. Kuhn, 32 K. Popper, 33

Lo sviluppo scientifico procede attraverso un'accumulazione di conoscenze?, 34

~ Di fronte all'impotenza della medicina, è lecita . . l'eutanasia?, 64

A.G. Spagnolo, 64 - D. Neri, 65

g

• 4

Il La clonazione è ilfuturo della medicina?, 68 Dichiarazione sull'embrione -

R. Dulbecco, 68

E. Husserl - H. Marcuse, 37

La scienza: Dr. ]ekyll o Mr. Hyde? 3 8 J.B.S. Haldane, 38 B. Russell, 39

È lecita l'interruzione volontaria della gravidanza?, 66 E. Sgreccia, 66 - U. Galimberti, 67

T.S. Kuhn, 34 - B. D'Espagnat, 35

La scienza di oggi si identifica con la tecnica?, 36 G. Preti - P. Davies, 36

62-63

U. Scarpelli - Manifesto di bioetica laica, 63

M. Planck, 30 - G. Bachelard, 31 La scienza procede per rivoluzioni?, 32

Cos'è l'essere vivente? Soltanto una macchina?, 54 R. Descartes - J. Monod, 54 G.W Leibniz, 54-55 - I. Kant, 55

Il Ma,D. dunque, cos'è la vita?, 5 6 Diderot, 56

G. Bachelard - F. Jacob, 26 W.K. Heisenberg - N. Abbagnano, 27

G. Bachelard, 28

C. Darwin - H. Spencer, 53

B

È lecita la ''clonazione terapeutica"?, 70

J. de Dios Vial Correa - E. Sgreccia, 70 P. Flores d' Arcais, 71

INDICE CAP. 3

INDICE CAP. 4

r9i~~~E~~?{~~1:n~~~~n.~n~~~;,;~·~7:>. Per Gaston Bachelard* (1884-1962) l'osservazione scientifica non è mai neutrale, è sempre "polemica", finalizzata, cioè, a confermare o smentire qualcosa. J; esperimento, come ricostruzione del fenomeno è sempre sorretto da un indirizzo teorico. Sulla stessa lz'nea si pone François ]acob* (1920), secondo il quale l'uso della tecnologia, degli strumenti; altro non è se non la materializzazione di teorie, che dunque sempre precedono l'esperimento e dirigono l'osservazione verso una dimensione scientifica, dove si supera zl carattere di accidentalità e casualità dell'osservazione comune. Sull'argomento interviene anche Nicola Abbagnano* (1901-1990) in una prospettiva più specifz'camente filosofz'ca: studiare la natura significa per lo scienziato calarsi nella realtà e in questo suo immergersi nel mondo, di cui fa parte, diventa esso stesso strumento di osservazione, diventa osservante ed osservato, soggetto ed oggetto ad un tempo. Un'altra questione fondamentale è quella relativa al cammino e alla storia della scienza, cioè al suo modo di procedere, questione che può essere fatta rientrare in quella più ampia del metodo. Fra gli epistemologi che in modo più significativo, ed anche più originale, hanno affrontato il problema spicca z1 già citato Gaston Bachelard. Opponendosi alle concezioni cumulative della scienza tipiche del positivismo, Bachelard elabora un'interpretazione storica del sapere scientifico caratterizzata da rotture epistemologiche (coupures, "troncamenti"), vale a dire cambiamenti di indirizzo o vere e proprie rivoluzioni teoriche che riguardano interi sistemi di idee e metodologie (ne sono un esempio la teoria della relatività e la meccanica quantistica che negano i concetti fondamentali e i metodi della fisica moderna). Nella scienza non c'è dunque un progresso lineare che porta a risultati definitivi, ma un procedere discontinuo in cui acquistano importanza anche glz' errori e le correzioni; ma soprattutto zl superamento de{cosz'ddetti "ostacoli epistemologici" che impediscono zl progresso delle scienze. Si tratta di schemi e modelli sclerotizzati nella conoscenza comune e scientifica, a cui bisogna avere il coraggio di dire di no («filosofia del non»): una vera e propria catarsi che la scienza deve operare su stessa, producendo una rottura con il passato. Ma la scienza, per Bachelard, richiede anche una rottura con zl senso comune: di questa rottura un esempio IO

eclatante è la rivoluzione copernicana. Su questo punto discorda Max Planck* (1858-1947), per il quale la vera differenza tra pensiero scientifico e quello comune risiede in una maggiore precisione del primo. Anche per Planck l'immagine scientifica del mondo è in continua evoluzione, ma tra scienziato e uomo della strada c'è lo stesso rapporto che c'è tra l'adulto e il bambino che cresce attraverso le proprie esperienze. Una nuova concezione della storia della scienza è stata formulata da Thomas Kuhn* (1922), con la sua nozione di paradigma scientifico, un modello esplz'cativo costituito da un insieme di teorie scientifiche sulla base delle quali si interpretano i fenomeni. Ogni epoca adotta un paradigma che viene ritenuto capace di spiegazioni attendibili: l'universo antico costituito da sfere concentriche permetteva di spiegare molti fenomeni. Per Kuhn la scienza non procede attraverso un progresso cumulativo, ma segue piuttosto l'alternarsi di due fasi dz'stinte: la fase della "scienza normale", in cui all'interno della comunità scientifica prevale il consenso verso un determinato "paradigma", e la fase della "rottura rivoluzionaria", in cui la progressiva scoperta di anomalle avvenuta sin dalla fase della ricerca normale conduce alla formulazione di nuove teorie e strumenti di ricerca perché i precedenti non sono più in grado di fornire spiegazioni plausibili. Se una nuova teoria dimostra la propria superiorità sulle teorie rivali; essa viene accolta e si verifica una "rivoluzione scientifica", che determina una completa sostituzione del paradigma, una mutazione nei concetti, nei problemi, nelle soluzioni e nei metodi scientifici. Queste trasformazioni rendono discontinuo lo sviluppo scientifico: la teoria vecchia e quella nuova sono "incommensurabili" fra loro ed è impossibile il semplice confronto. Le tesi centrali di Kuhn qui esposte trovano l'opposizione di 'Popper e di Bernard d'Espagnat* (1921). Popper sostiene che non esiste un paradigma in ogni settore della ricerca scientifica. D'Espagnat rileva che non sempre un paradigma è completamente sostituito, come dimostra il fatto che il passaggio dall'elettromagnetismo ondulatorio di Maxwell all'elettromagnetismo quantistico non ha implicato l'abbandono delle equazioni di Maxwell. Anche se si verifica una rivoluzione scientifica, qualcosa della struttura precedente permane nella nuova dimensione della ricerca. Cz' sono due fz'gure importanti nel panorama epistemologico a cavallo tra 1"800 e il '900 che assumono un rilievo filosofico generale nella

impostazione e nell'approccio ai problemi, riproponendo la discussione, che correrà per tutto il '900, sul ruolo delle ipotesi: ]ules Henri Poincaré* (1854-1912) e Pierre Duhem* (18611916). Dal un punto di vista filosofico essi possono dirsi "convenzionalisti", il primo relativamente alla matematica, il secondo rispetto alla fisica: cercano di superare l'oggettivismo che aveva dominato, anche a costo di forzature, l'impianto scientifico positivistico, per un approccio in cui la scelta del soggetto diventa essenziale nel fondamento di una teoria. Ai fini del nostro discorso, Poincaré sostiene che le ipotesi hanno un irrinunciabile valore euristico, ma sono da abbandonare laddove se ne presenti la necessità. Vanno rifiutate le ipotesi che diventano dogmatiche nella testa del ricercatore, mentre possono essere utili quelle "metafisiche". Duhem riprende il discorso di Bacone sul!'esperimento cruciale. Il fisico francese afferma che una teoria fisica non è una vera e propria spiegazione della realtà, ma un insieme di proposizioni matematiche che rappresenta l'interpretazione dei fenomeni osservati nel!'esperienza. Da qui il loro carattere approssimativo e mai definitivo. Non si può lavorare su un'ipotesi isolata, ma lo si deve fare su un insieme di ipotesi; cioè su un'intera teoria fisica: la fisica non è una macchina smontabile nei suoi elementi costitutivi più semplù:i, ma un sistema da considerare nella sua globalz'tà. Ma la posizione più dirompente sul problema del metodo nelle scienze (ma in generale in tutte le forme del sapere), è senza dubbio quella espressa dal!' «anarchismo metodologico» di Paul K. Feyerabend* (1924-1994): nel saggio Contro il metodo (1970) egli sostiene che l'anarchismo è un'eccellente medicina per l'epistemologia e per la filosofia della scienza. Non esiste quindi un metodo scientifz'co cui ci si debba uniformare. Cosa porta Feyerabend ad una concezione cosi' radicale, quando per secoli' si è parlato di regole, di metodo e della loro necessità? La risposta sta nella storia della scienza, che è lì a dimostrare che i più importanti progressi sono stati compiuti~ paradossalmente, violando un metodo codificato. La scienza progredisce attraverso varie vie, nella più grande libertà di ricerca, per cui al posto della rigidità schematica di un metodo, si deve dire che «qualsiasi cosa va bene». In conclusione proponiamo una riflessione sul!' esistenza o meno di scienza pura, indipendente dalla tecnica. La questione riguarda la neutralità dello scienziato, la tecnologia e il suo rapporto col

potere. Qui si dà conto di alcune posizioni relative alla possibile identificazione tra scienza e tecnica. Per il filosofo Giulio Preti* (1911-1972) la scienza è il solo tipo di conoscenza che ci permette di elaborare una compiuta visione del mondo: si può quindi parlare di scienza pura, senza che ci sia una necessaria commistione con qualcosa di manuale o di utilitaristico. Paul Davies* (1946), in una prospettiva di maggior realismo nei confronti del!' epoca contemporanea, dominata dalla tecnologia, afferma che il problema è quello del controllo che specialisti ed istituzioni devono operare sulla tecnologia: questa di per se stessa non è un male, è solo l'uso che se ne fa che può essere costruttivo o deleterio. In questo senso la scienza rimane autonoma e non deve essere subordinata alla tecnica. In una prospettiva "esistenzialistica" e con toni pessimistici, Edmund Husserl* (1859-1938) afferma che l'uomo dell'era tecnologica e industriale ha perso, sull'altare del raggiungimento di un facile benessere, quello che è il vero valore conoscitivo delle scienze: se la scienza, com'è accaduto, è stata sopraffatta dagli' aspetti tecnico-pratici, essa non può più dare risposta aglz' autentici problemi del!' uomo. Per Herbert Marcuse* (1898-1979) la scienza è diventata un fatto tecnologico, conseguenza, questa, del!' aver ridotto la natura ad un oggetto da sfruttare incondizionatamente. La manipolazione della natura, effetto della presunzione di superiorità dell'uomo all'interno della vita universale, è il triste risultato di questa rz'duzz'o ne. In conclusione resta ancora aperta la domanda di cosa sia in realtà la scienza. E dubitiamo che sia possibzle dare una risposta definitiva. Uno spunto di riflessione, sempre attuale, per quanto fohn B.S. Haldane* (1892-1964) e Bertrand Russeli* (18 72-19 70) abbiano discusso la cosa in due saggi ormai remoti (1924), è quello consegnato alla suggestiva metafora di Dedalo e Icaro. Per Haldane, ottimisticamente, Dedalo è il prototipo dello scienziato moderno, inventore di cose meravigliose, che contribuiscono a migliorare la qualità della vita, ma anche pericolose. In questo senso lo scienziato, anche se orgoglioso delle sue scoperte, deve essere in grado di controllarne i possibili effetti negativi. Russell sceglie Icaro, più pessimisticamente, perché dubita che il progresso della scienza possa essere di qualche vantaggio per !'umanità: la scienza avrebbe effetti benefici solo se l'uomo fosse un essere razionale, in tutte le sue manifestazioni e attività, sia relative alla sfera conoscitiva che a quella politica. II

GALILEO GALILEI (1623) La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo), ma non si può intendere se prima non s'impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne' quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto.

La matematica è l'unica chiave di lettura di un universo scritto in termini matematici.

Il Saggiatore, a cura di L. Sosia, Milano, Feltrinelli, 1965, p. 232.

RENÉ DESCARTES (1628) Infatti, poiché il nome Mathesis significa semplicemente la stessa cosa che disciplina, tutte le altre potrebbero esser chiamate Matematiche con pari diritto della stessa Geometria. D'altronde vediamo però che non c'è quasi nessuno, sol che abbia varcato la prima soglia della scuola, che non distingua facilmente, tra le cose che si presentano, ciò che appartiene alla Mathesis e ciò che appartiene ad altre discipline. A chi infine ha considerato ciò con maggior attenzione, è parso che solo tutte le cose in cui si può esaminare un certo ordine o misura, si riferiscono alla Mathesis né ha importanza se tale misura sia da cercarsi nei numeri, nelle figure, negli astri, nei suoni o in qualsiasi altro oggetto; ci deve esser pertanto una certa scienza generale che spieghi tutto ciò che può esser richiesto intorno all'ordine ed alla misura senza riferirla ad una speciale materia, e questa deve essere chiamata Mathesis universale, non con parola adottata, ma con una antica e già accettata dall'uso, giacché contiene in sé tutto ciò per cui le altre scienze sono definite anche parti della Matematica. Di quanto questa superi in utilità e facilità le ~ltre che le sono subordinate è chiaro per il fatto che essa si estende a tutte quelle cose alle quali si estendono quelle ed anche a molte altre; e se contiene qualche difficoltà, le medesime si ritrovano anche in quelle e per di più altre difficoltà ancora si trovano che sono proprie degli oggetti particolari e che essa non conosce. Ora, però, poiché tutti conoscono il suo nome e comprendono, anche senza applicarvisi, di che si occupa, donde viene che molti coltivino faticosamente altre discipline che dipendono da essa e nessuno invece si preoccupi di apprendere questa Mathesis? Certamente mi meraviglierei, se non sapessi che tutti la ritengono facilissima e se non avessi da tempo notato che sempre la mente umana, tralasciando tutto ciò che stima di poter facilmente acquisire, è continuamente in ansia per cose nuove e più grandi. Conscio però della mia pochezza, ho deciso di osservare con costanza, nella ricerca della conoscenza delle cose, un ordine tale che, muovendomi sempre dalle più semplici e più facili non mi spinga mai verso altre fin tanto che non mi sembri che nelle prime non mi resti null'altro da cercare ulteriormente; perciò, per quanto mi è stato possibile, ho coltivato fino ad oggi questa Mathesis universale in modo che penso ormai di poter trattare, senza prematuro zelo, le scienze un po' più elevate. Regole per la guida detl'ingegno, in Opere, a cura di E.Lojacono, val. I, Torino, Utet, 1994, pp. 248-249.

12

La matematica è la scienza dell'ordine e della misura e come tale può spiegare tutto.

Essa supera in estensione, utilità e facilità tutte le altre scienze, che le sono perciò subordinate.

È singolare che la maggior parte degli studiosi si dedichino a scienze particolari e trascurino lo studio della matematica, che è la scienza universale.

FRANCIS BACON (1623)

Molti studiosi preferiscono lo studio generico della matematica, invece di dedicarsi ad un'indagine particolareggiata sulla natura, più utile e vantaggiosa per il genere umano.

È assurda la pretesa dei matematici di far prevalere la loro disciplina sulle altre, mentre essa riveste il ruolo di semplice ausiliaria delle scienze della natura.

Dice giustamente Aristotele che la fisica e la matematica insieme generano la pratica o meccanica. Perciò, avendo ormai già esaurito la trattazione della scienza della natura, sia teoretica che pratica, è tempo che passiamo alla matematica, che è scienza ausiliaria dell'una e dell'altra. Nella filosofia comunemente accolta essa è annessa come terza parte alla fisica e alla metafisica; ma, poiché noi stiamo rivedendo e rimaneggiando le divisioni consuete, se proprio la si dovesse porre tra le scienze effettive e fondamentali, ci sembrerebbe più conveniente alla sua natura e alla chiarezza della distribuzione considerarla come una parte della metafisica. Ora, la quantità, che è l'oggetto della matematica, applicata alla materia, e considerata come dose della natura, è capace di causare molti effetti, nelle trasformazioni naturali, e deve essere perciò annoverata tra le forme essenziali. Gli antichi davano tanta impo1tanza alla figura e ai numeri, che Democrito ha riferito i principi della varietà delle cose alla figura degli atomi; e Pitagora ha dichiarato che la natura delle cose è costituita dai numeri. Del resto, è fuor di dubbio che la quantità è la più astratta tra le forme naturali, come noi le intendiamo, e separabile dalla materia. C'è infatti una tendenza innata nell'animo umano, benché di grave danno alle scienze, che lo spinge a spaziare nelle aperte pianure delle cose generali (per così dire), invece di addentrarsi nelle selve oscure dei particolari; e perciò le matematiche offrono un campo gradevole e piano, dove quella tendenza può liberamente spaziare e sbizzarrirsi in meditazioni. Tutto ciò è vero, ma, poiché a noi sta a cuore non solo la verità e l'ordine, ma anche l'utilità e il vantaggio del genere umano, abbiamo deciso di considerare la matematica, che tanta influenza esercita sulla fisica, sulla metafisica, sulla meccanica, sulla magia, come l'appendice e come la scienza ausiliaria di tutte le altre. A questa osservazione noi siamo indotti anche dalla suscettibilità e dall'orgoglio dei matematici che vorrebbero che la loro scienza quasi dominasse sulla fisica; non so invero come mai è accaduto che la matematica e la logica, che debbono tenere il posto di ancelle della fisica, ptetendano invece di esercitare un predominio su di essa, solo perché vantano la loro esattezza. Ma poi che c'interessa della dignità di questa scienza? A noi interessa la sua sostanza. Della dignità e del progreJ'So delle scienze, in Opere filosofiche, a cura di E. De Mas, Bari, Laterza, 1965, pp. 191-192.

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GALILEO GALILEI (1632) Salviati. [. .. ] Ma quando pure voi vogliate continuare in questo modo di studiare, deponete il nome di filosofi, e chiamatevi o istmici o dottori di memoria; ché non conviene che quelli che non filosofano mai, si usurpino l'onorato titolo di filosofo. Ma è ben ritornare a riva, per non entrare in un pelago infinito, del quale in tutt'oggi non si uscirebbe. Però, signor Simplicio, venite pure con le ragioni e con le dimostrazioni, vostre o di Aristotele, e non con testi e nude autorità, perché i discorsi nostri hanno a essere intorno al mondo sensibile, e non sopra un mondo di carta. Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, a cura di L. Sosio, Torino, Einaudi,

Tutto ciò che non è indotto da/l'esperienza va considerato ipotesi e come tale rifiutato.

1975, p. 140.

ISAAC NEWTON (1687) Finora ho spiegato i fenomeni del cielo e del nostro mare ricorrendo alla forza di gravità, ma non ho stabilito la causa della gravità. Questa forza nasce completamente da una causa che penetra fino al centro del Sole e dei pianeti, senza diminuzione della capacità ed opera non in rapporto alla quantità delle superfici delle particelle su cui agisce (come sogliono fare le cause meccaniche), ma in tappmto alle quantità di materia solida. E la sua azione si estende dovunque per distanze immense, decrescendo sempre in ragione invetsa al quadrato delle distanze. La gravità verso il Sole è composta della gravità verso le singole particelle del Sole e allontanandosi dal Sole decresce sempre in ragione inversa del quadrato delle distanze fino all'orbita di Saturno, come risulta manifesto dalla quiete degli afelii1 dei pianeti e fino agli ultimi afelii delle comete, se pure anch'essi sono in quiete. In vedtà non sono ancora riuscito a dedurre dai fenomeni la ragione di queste proprietà della gravità, e non invento ipotesi. Tutto ciò infatti che non si deduce dai fenomeni deve esser chiamato ipotesi, e per le ipotesi sia quelle metafisiche che quelle fisiche, sia delle qualità occulte, sia meccaniche non c'è posto nella filosofia sperimentale. In tale filosofia infatti le proposizioni sono dedotte dai fenomeni e sono rese generali per induzione: fu così che diventarono note l'impenetrabilità, la mobilità e l'impulso dei corpi, le leggi del moto e la gravità. Ed è sufficiente che la gravità esista di fatto, agisca secondo le leggi da noi esposte e sia in grado di spiegare i movimenti dei corpi celesti e del nostro mare. 1) L'afelio è il punto di massima distanza dal sole nell'orbita descritta da un pianeta. Principi matematici della filosofia naturale, a cura di A. Pala, Torino, Utet, 1977, p. 795.

Galileo Galilei

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Il compito dello scienziato non è quello di formulare ipotesi, siano esse fisiche o metafisiche, ma quello di descrivere le leggi della natura. Anche la legge della gravitazione universale non va intesa come un principio fondamentale, ma come risultato di una ricerca empirica. Quindi della gravità non va ricercata la causa, se la stessa non è deducibile dai fenomeni, ma va soltanto verificata empiricamente la validità della sua formula matematica.

JULES HENRI POINCARÉ (1902) Le ipotesi rivestono un irrinunciabile ruolo euristico all'interno della ricerca scientifica; devono essere però sempre sottoposte a verifica e abbandonate quando necessario.

Quando le ipotesi prendono la forma di pregiudizi inconsapevoli nel ricercatore, allora diventano pericolose.

Le ipotesi indifferenti (metafisiche) sono utili per fissare con immagini concrete le idee, anche se non sono feconde in termini di conoscenza scientifica. Le vere ipotesi scientifiche, che possono essere confermate o smentite dal/'esperienza, sono/e generalizzazioni tese a individuare le relazioni esistenti fra i fenomeni.

Ogni generalizzazione è un'ipotesi; l'ipotesi dunque ha un ruolo necessario che nessuno ha mai contestato. Solo essa deve sempre essere sottoposta a verifica, il più presto e il più spesso possibile. Se essa non supera questa prova, non è necessario dire che la si deve abbandonare senza ripensamenti. Però questa mala voglia non è giustificata; il fisico che ha appena rinunciato ad una delle sue ipotesi dovrebbe essere, al contrario, pieno di gioia, perché ha appena trovato un'occasione insperata di scoperta. La sua ipotesi, immagino, non è stata adottata alla leggera; essa teneva conto di tutti i fattori conosciuti che sembravano poter intervenire nel fenomeno. Se la verificazione non avviene, è perché vi è qualche cosa di inatteso, di straordinario; è perché si è trovato qualche cosa di sconosciuto e di nuovo. L'ipotesi, così rovesciata, è stata dunque sterile? Al contrario, si può dire che ha reso più servizi di una vera ipotesi; non soltanto è stata l'occasione per l'esperienza decisiva, ma, se si fosse fatta questa esperienza per caso, senza avere fatto l'ipotesi, non se ne sarebbe ricavato nulla; non si sarebbe visto nulla di straordinario; si sarebbe catalogato solo un fatto in più senza dedurne la minima conseguenza. Ora, a quale condizione l'uso delle ipotesi è senza pericolo? Il fermo proposito di sottomettersi all'esperienza non basta; vi sono ancora delle ipotesi pericolose; queste, in primo luogo, sono soprattutto quelle che sono tacite ed inconsapevoli. Dato che le facciamo senza saperlo, siamo incapaci di abbandonarle. Questo è dunque un servizio che ci può ancora rendere la fisica matematica. Per la precisione che le è propria, ci obbliga a formulare tutte le ipotesi che faremmo senza di essa, ma senza mai dubitarne. D'altra parte, sottolineiamo che importa non moltiplicare le ipotesi oltre misura e formularle solo una dopo l'altra. Se costruiamo una teoria basata su ipotesi multiple, e, se l'esperienza la condanna, quale delle nostre premesse deve mutare? Sarà impossibile saperlo. E, al contrario, se l'esperienza riesce, si crederà di avere verificato tutte queste ipotesi in una sola volta? Si crederà di avere determinato parecchie incognite con una sola equazione? Bisogna ugualmente avere cura di distinguere fra le diverse specie di ipotesi. Dapprima vi sono quelle completamente naturali e alle quali è molto difficile sottrarsi. È difficile non supporre che l'influenza di corpi molto lontani sia completamente trascurabile, che i piccoli movimenti obbediscano ad una legge lineare, che l'effetto sia una funzione continua della sua causa. Tutte queste ipotesi formano per così dire il fondo comune di tutte le teorie della fisica matematica. Queste sono le ultime che si devono abbandonare. Vi è una seconda categoria di ipotesi che qualificherò come indifferenti. Nella maggior parte delle questioni, l'analista suppone, all'inizio del suo calcolo, tanto che la materia è continua quanto, al contrario, che è formata da atomi. Avesse fatto il contrario, i suoi risultati non sarebbero cambiati, avrebbe avuto più difficoltà ad ottenerli, ecco tutto. Allora, se l'esperienza conferma le sue conclusioni, penserà di avere dimostrato, per esempio, l'esistenza reale degli atomi? [... ] Queste ipotesi indifferenti non sono mai pericolose, purché non se ne disconosca il carattere. Esse possono essere utili, sia come artifici di calcolo, sia per sostenere il nostro intelletto con immagini concrete, per fissare le idee, come si dice. Non vi è dunque nessun motivo per proscriverle. Le ipotesi della terza categoria sono le vere generalizzazioni. Sono loro che l' esperienza deve confermare o invalidare. Una volta verificate o condannate, potranno essere feconde. Ma, per le ragioni esposte, lo saranno solo se non le si moltiplicano. La scienza e l'ipotesi, in Opere epistemologiche, trad. di M.Borchetta, Abano Terme, Piovan, 1989, pp. 166-168.

RENÉ DESCARTES (1628) Il Metodo è necessario per cercare la verità delle cose. I Mortali sono presi da così cieca curiosità che spesso conducono l'ingegno per vie sconosciute e prive di qualsiasi motivo di speranza, soltanto per far prova se non si trovi in esse ciò che cercano: come se qualcuno ardesse di un così stolto desiderio di trovare un tesoro, da andare continuamente vagando per le strade per cercare se per caso non ne trovi uno, perduto da un viandante. Così operano quasi tutti i Chimici, molti Geometri, non pochi Filosofi: in verità non nego che a volte divaghino con tanto successo da trovare qualcosa di vero; non per questo tuttavia concedo che siano più industri, ma soltanto più fortunati. Ed è di gran lunga preferibile non pensare mai a cercare la verità di qualcosa, piuttosto che farlo senza metodo ... Regole per la guida dell'ingegno, cit., p. 243.

Poiché la cultura tradizionale non ha mai seguito criteri certi nella ricerca filosofica e scientifica, è necessario stabilire un metodo che sia valido in ogni campo del sapere e che sappia orientare in modo sicuro la mente del soggetto conoscente.

RENÉ DESCARTES (1637) Da giovane avevo un po' studiato, tra le parti della Filosofia, la Logica e, tra le Scienze Matematiche, l'Algebra e lAnalisi dei Geometri: tre arti o scienze che mi pareva dovessero contribuire in qualche modo al mio progetto. Quando però le esaminai mi avvidi che, quanto alla Logica, i suoi sillogismi e la maggior parte dei suoi precetti, servono più a spiegare agli altri quanto già si conosce o, addi-rittura a parlare senza discernimento delle cose che si ignorano anziché insegnarle. [... ] Quanto poi ali' Analisi degli antichi e all'Algebra dei moderni, oltre a riferirsi esclusivamente a materie astrattissime e che sembrano inutili, la prima è sempre talmente vincolata alla considerazione delle figure da non poter esercitare l'intelletto senza affaticare molto l'immaginazione, e la seconda è talmente assoggettata a certe regole e a certe cifre da divenire un'arte confusa e oscura, che confonde la mente invece di coltivarla. Per tutto questo stimai necessario cercare qualche altro Metodo che, comprendendo i vantaggi di queste tre scienze, fosse esente dai loro difetti. E poiché il gran numero delle leggi fornisce spesso scuse per i vizi, tanto che uno Stato è assai meglio ordinato quando, avendone solo pochissime, vi vengono strettamente osservate, così, in luogo di quel gran numero di precetti che conta la Logica, pensai che mi sarebbero stati sufficienti questi quattro che sto per enumerare, purché decidessi fermamente di non cessare mai, neppure una volta sola, di osservarli. Il primo prescriveva di non accettare mai per vera nessuna cosa che non conoscessi con evidenza esser tale: evitare cioè, accuratamente la Precipitazione e la Prevenzione e non comprendere nei miei giudizi se non ciò che si fosse presentato alla mia mente con tale chiarezza e distinzione da non aver nessun motivo di metterlo in dubbio. Il secondo consisteva nel dividere ciascuna difficoltà che stessi esaminando in tante piccole parti quanto fosse possibile e necessario per giungere alla miglior soluzione di essa. Il terzo nel condurre con ordine i miei pensieri, cominciando dagli oggetti più semplici e più facili da conoscere, per salire a poco a poco, come per gradi, fino alla conoscenza dei più complessi, e supponendo poi un ordine anche tra quelli di cui gli uni non precedono naturalmente gli altri. L'ultimo, infine, era di procedere in ogni caso ad enumerazioni così complete e a rassegne tanto generali da esser certo di non aver omesso assolutamente nulla. Erano state quelle lunghe catene di ragionamenti, tutti semplici e facili di cui di solito si servono i Geometri nelle loro più difficili dimostrazioni, che mi avevan dato motivo a pensare che tutte le cose conoscibili dall'uomo si susseguissero nello stesso modo e che, alla sola condizione di non accettare per vere quelle che non lo sono e di osservare sempre l'ordine necessario per dedurre le une dalle altre, non potessero darsi conoscenze così remote da non poter infine esser raggiunte, né così nascoste che non potessero scoprirsi. Discorso sul metodo, in Opere, cit., pp. 509-511.

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Il metodo seguirà le procedure della ragione come si articolano nella ricerca matematica: si astrarrà il più possibile dalle specificità dei singoli oggetti anche in ambiti non riconducibili direttamente alla matematica. Il metodo si ispirerà all'evidenza e alla semplicità. Il criterio del/'evidenza permetterà, articolandosi attraverso i concetti di chiarezza e distinzione, di evitare gli errori derivanti dalla precipitazione e dai pregiudizi. Altro criterio sarà quello di ridurre a fattori semplici i problemi più complessi e ricomporli in ordine logico.

PAUL K. FEYERABEND (1975) Bisogna rifiutare ogni teoria del metodo che ingabbi in schemi rigidi i parametri che sovrintendono al concreto lavoro scientifico. Il vero progresso scientifico si realizza proprio attraverso la violazione delle norme metodologiche, come attestano numerosi esempi nella storia della scienza.

Nel motto "qualsiasi cosa va bene" si compendia la necessità che la scienza operi con la massima libertà. È la tesi del/'anarchismo metodologico.

L'idea di un metodo che contenga principi fermi, immutabili e assolutamente vincolanti come guida nell'attività scientifica si imbatte in difficoltà considerevoli quando viene messa a confronto con i risultati della ricerca storica. Troviamo infatti che non c'è una singola norma, per quanto plausibile e per quanto saldamente radicata nell'epistemologia, che non sia stata violata in qualche circostanza. Diviene evidente anche che tali violazioni non sono eventi accidentali, [... ] sono necessarie per il progresso scientifico. In effetti, uno fra i caratteri che più colpiscono delle recenti discussioni sulla storia e la filosofia della scienza è la presa d(coscienza del fatto che eventi e sviluppi come l'invenzione dell'atomismo nell'Antichità, la rivoluzione copernicana, l'avvento della teoria atomica moderna, il graduale emergere della teoria ondulatoria della luce si verificarono solo perché alcuni pensatori o decisero di non lasciarsi vincolare da certe norme metodologiche "ovvie" o perché involontariamente le violarono. Questa libertà di azione, lo ripeto, non è solo un fatto della storia della scienza. Esso è sia ragionevole sia assolutamente necessario per la ctescita del sapere. Più specificamente, si può dimostrare quanto segue: data una norma qualsiasi, per quanto "fondamentale" o "necessaria" essa sia per la scienza, ci sono sempre circostanze nelle quali è opportuno non solo ignorare la norma, ma adottare il suo opposto. [ ... ] Lo sviluppo del punto di vista copernicano da Galileo al XX secolo è un esempio perfetto della situazione che mi propongo di descrivere. Il punto di partenza è costituito da una forte convinzione che contrasta con la ragione e l'esperienza contemporanee. La convinzione si diffonde e trova sostegno in altre convinzioni, che sono altrettanto irragionevoli se non più (la legge d'inerzia, il telescopio). La ricerca viene ora deviata in altre direzioni, si costruiscono nuovi tipi di strumenti, i dati dell'osservazione e dell'esperimento vengono connessi a teorie in modi nuovi finché sorge un'ideologia abbastanza ricca da fornire argomentazioni indipendenti per ogni singolo dato e abbastanza mobile per trovare argomentazioni del genere ogni qualvolta esse sembrino richieste. Oggi possiamo dire che Galileo era sulla strada giusta, poiché la sua tenace ricerca di quella che un tempo sembrava una stramba cosmologia ha creato oggi i materiali necessari per difenderla contro tutti coloro che sono disposti ad accettare un'opinione solo se essa viene espressa in un certo modo e che prestano fede ad essa solo se contiene certe frasi magiche, designate come protocolli o rapporti d'osservazione. E questa non è un'eccezione, bensì il caso normale: le teorie diventano chiare e "ragionevoli" solo dopo che parti incoerenti di esse sono state usate per molto tempo. Una tale anticipazione parziale irragionevole, assurda, in violazione di ogni metodo, risulta quindi un presupposto inevitabile della chiarezza e del successo empirico. [. .. ] E la mia tesi è che l'anarchismo aiuta a conseguire il progresso in qualsiasi senso si voglia intendere questa parola. Anche una scienza fondata sui principi della legge e dell'ordine avrà successo solo se saranno consentiti di tanto in tanto modi di procedere anarchici. È chiaro, quindi, che l'idea di un metodo fisso, o di una teoria fissa della razionalità, poggia su una visione troppo ingenua dell'uomo e del suo ambiente sociale. Per coloro che non vogliono ignotare il ricco materiale fornito dalla storia, e che non si propongono di impoverirlo per compiacere ai loro istinti più bassi, alla loro brama di sicurezza intellettuale nella forma della chiarezza, della precisione, dell'"obiettività", della "verità", diventerà chiaro che c'è un solo principio che possa essere difeso in tutte le circostanze e in tutte le fasi dello sviluppo umano. È il principio: qualsiasi cosa può andar bene. Contro il metodo, trad. di L. Sosio, Milano, Feltrinelli, 1979, pp. 21-25.

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FRANCIS BACON (1620) Tra le istanze prerogative porremo le istanze di croce, per metafora· tratta dalle croci, che si mettono ai bivii delle strade, ad indicare la biforcazione. Ma siamo soliti chiamarle anche instanze decisive e giudiziali e, in alcuni casi, instanze dell'oracolo e del mandato. Questa è la loro funzione: quando, durante la ricerca di una natura, l'intelletto sta incerto e come in equilibrio nel decidere a quale tra due nature, o più di due, debba essere assegnata o attribuita la causa della natma esaminata, per il concorso frequente e ordinario di più nature; le instanze cruciali mostrano che il vincolo di una di queste nature con la natura data è costante e indissolubile, mentre quello delle altre è variabile e separabile. Così la questione è risolta ed è accolta come causa quella prima natura, mentre è respinta e ripudiata l'altra. Tali instanze portano quindi una grandissima luce e hanno quasi una forte autorità; così che il processo dell'interpretazione qualche volta, giunto ad esse, in esse s'arresta. Qualche volta le instanze di croce si rinvengono tra quelle notate in precedenza, ma più spesso sono nuove e devono essere rintracciate e applicate espressamente e a bella posta, e scoperte con grande diligenza e dopo lunga osservazione. [ ... ] Ancora: la natura ricercata sia il peso o gravità. A questo proposito il bivio è questo: o i corpi pesanti e gravi tendono al centro della Terra per la loro stessa natura, cioè secondo il loro schematismo; ovvero sono attratti e rapiti dalla forza stessa della massa terrestre, come per l'aggregazione dei corpi di egual natura e ad essa portati dal consenso. Prendendo per vera la seconda ipotesi, ne segue che, quanto più i gravi si avvicinano alla Terra, tanto maggiore è la forza e l'impeto con cui sono spinti verso di essa; mentre, quanto più se ne allontanano, tanto più debole e lenta diviene quella forza; proprio come accade nell'attrazione magnetica. Inoltre, l'attrazione deve avvenire fino a una certa distanza, sì che se il corpo si fosse allontanato tanto dalla Terra da sottrarsi al suo influsso, rimarrebbe pensile come la Terra stessa, senza precipitare affatto. Tale potrebbe essere su questa cosa l'instanza di croce: si prendano due orologi, uno di quelli che si muovono per contrappesi di piombo, l'altro di quelli che si muovono per compressione di una molla di ferro; si provi se l'uno è più veloce o più lento dell'altro; poi si ponga il primo sulla sommità di qualche tempio altissimo, dopo averlo regolato sull'altro sì che cammini di pari passo, lasciando invece l'altro al di sotto; ciò per notare con diligenza se l' orologio sito in alto si muove più lentamente di prima, a cagione della diminuita forza di gravità. L'esperimento si deve ripetere portando l'orologio nelle profondità di qualche miniera, sita molto sotto la superficie della Terra, per vedere se si muove più velocemente di prima, a cagione della aumentata forza di attrazione. E solo se si troverà che effettivamente il peso dei corpi diminuisce sollevandoli, aumenta abbassandoli verso il centro della Terra, allora sarà accertato che la causa del peso è l'attrazione della massa terrestre. Nuovo organo. Aforismi sull'interpretazione della natura e sul regno dell'uomo, trad. di A. Saloni, Firenze, La Nuova Italia, 1942, pp. 191-198.

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Quando l'intelletto è indeciso fra due ipotesi, si configura come risolutiva l'"instantia crucis", cioè l'esame incrociato che permette di abbracciare una teoria e rifiutarne un'altra.

Giungere ali'elaborazione della dimostrazione decisiva comporta un lungo lavoro di osservazione e di valutazione dei dati empirici raccolti.

PIERRE DUHEM (1908)

La teoria fisica, composta di simboli matematici che assumono significato solo nell'ambito della teoria stessa, deve essere caratterizzata, in primo luogo, da coerenza interna; in secondo luogo, una volta messa a confronto con l'esperienza, deve risultare coerente con quest'ultima. Un esperimento di fisica non può condannare mai un'ipotesi isolata, ma soltanto un insieme di ipotesi, giacché la scienza fisica non è una macchina smontabile e controllabile nei singoli pezzi, ma un sistema da prendere nella sua interezza.

Un fisico contesta una certa legge, mette in dubbio tale punto della teoria; come giustificherà i suoi dubbi? Come dimostrerà l'inesattezza della legge? Dalla proposizione incriminata trarrà la previsione di un fatto dell'esperienza, realizzerà le condizioni nelle quali il fatto deve prodursi; se il fatto annunciato non si produce, la proposizione che l'aveva predetto sarà irrimediabilmente condannata. F.E. Neumann ha supposto che, in un raggio di luce polarizzata, la vibrazione fosse parallela al piano di polarizzazione, ma molti fisici hanno messo in dubbio questa proposizione. Come ha potuto O. Wiener trasformare il dubbio in certezza per condannare la proposizione di Neumann? Egli ne ha dedotto la seguente conseguenza: se si fa interferire un fascio luminoso, riflesso a 45° su una lamina di vetro, con il fascio incidente polarizzato perpendicolarmente al piano di incidenza, si produrranno frange alternativamente chiare e scure, parallele alla superficie riflettente. Egli ha realizzato le condizioni nelle quali le frange avrebbero dovuto prodursi e mostrato che il fenomeno previsto non si manifestava; ne ha concluso che la proposizione di F.E. Neumann era sbagliata, ovvero che in un raggio polarizzato la vibrazione non era parallela al piano di polarizzazione. Una simile dimostrazione sembra altrettanto convincente, irrefutabile quanto la riduzione all'assurdo dei geometri. Del resto è proprio dalla riduzione all'assurdo che tale dimostrazione è copiata, giocando la contraddizione sperimentale un ruolo che la contraddizione logica gioca nell'altra. In realtà siamo ben lontani dal punto in cui il valore dimostrativo del metodo sperimentale sia altrettanto rigoroso, altrettanto assoluto. Le condizioni nelle quali esso funziona sono assai più complicate di quanto non sia supposto in ciò che abbiamo detto e la valutazione dei risultati è assai più delicata e soggetta a garanzie. Un fisico si propone di dimostrare l'inesattezza di una proposizione; per dedurre da tale proposizione la previsione di un fenomeno, per allestire l'esperimento che deve dimostrare se il fenomeno si produce o no, per interpretare i risultati di tale esperienza e constatare che il fenomeno previsto non si è prodotto, non si limita a fare uso della proposizione in discussione. Egli usa ancora tutto un insieme di teorie accettate senza riserve. La previsione del fenomeno, la cui mancata produzione deve troncare il dibattito, non scaturisce dalla proposizione in contestazione presa isolatamente, ma da quella collegata a tutto l'insieme delle teorie. Se il fenomeno previsto non si produce, non è soltanto la proposizione contestata ad essere messa in difetto, ma tutta l'impalcatura teorica che il fisico ha usato. [... ] Riassumendo, il fisico non può mai sottoporre al controllo della esperienza un'ipotesi isolata, ma soltanto tutto un insieme di ipotesi. Quando l'esperienza è in disaccordo con le sue previsioni, essa gli insegna che almeno una delle ipotesi costituenti l'insieme è inaccettabile e deve essere modificata, ma non gli indica quale dovrà essere cambiata. Eccoci ben lontani dal metodo sperimentale come volentieri lo concepisce chi è estraneo al suo funzionamento. Si pensa comunemente che ogni ipotesi di cui la fisica fa uso può essere presa isolatamente e sottoposta al controllo dell'esperienza, poi, quando prove svariate e molteplici ne hanno constatato il valore, può essere collocata in modo definitivo nel sistema della fisica. In realtà non è così. La fisica non è una macchina che si lascia smontare, non si può verificare ogni pezzo isolatamente e attendere, per ripararlo, che la solidità ne sia stata minuziosamente controllata. La scienza fisica è un sistema che bisogna prendere nella sua interezza, è un organismo di cui non si può far funzionare una parte senza che quelle più lontane entrino in gioco le une di più, le altre di meno, ma tutte in qualche misura. La teoria fisica: il suo oggetto e la sua struttura, a cura di D. Ripa di Meana e S. Petruccioli, Bologna, Il Mulino, 1978, pp. 207-211.

IMMANUEL KANT (1787) Se l'elaborazione delle conoscenze che sono di pertinenza della ragione segua o meno il sicuro cammino della scienza, si può giudicare facilmente dalla conclusione. Quando essa, dopo aver fatto numerosi apprestamenti e preparativi, appena giunge in prossimità dello scopo si arena, o deve nuovamente e ripetute volte ricominciare da capo, tentando altre vie; e, parimenti - quando non è possibile realizzare la concordia fra i diversi collaboratori intorno al modo in cui dev'esser condotto il lavoro comune - si può allora esser certi che l'impresa è ben lontana dal cammino sicuro della scienza, procedendo piuttosto incertamente a tastoni. È già un gran merito per la ragione scoprire questo cammino, anche se dovesse costare il rigetto, come inutile, di ciò che faceva parte dello scopo, così com'era stato in un primo tempo irriflessivamente concepito. [. .. ] Non c'è dubbio che ogni nostra conoscenza incomincia con l'esperienza ... [... ] Ma benché ogni nostra conoscenza cominci con l'esperienza, da ciò non segue che essa derivi interamente dall'esperienza. Potrebbe infatti avvenire che la nostra stessa conoscenza empirica sia un composto di ciò che riceviamo mediante le impressioni e di ciò che la nostra facoltà conoscitiva vi aggiunge da sé sola [. .. ]. Certamente l'esperienza ci insegna il modo in cui una cosa è fatta, ma non che essa non può essere fatta diversamente. In primo luogo, dunque, se una proposizione è pensata assieme alla sua necessità, è un giudizio a priori; se per di più deriva esclusivamente da un'altra proposizione che abbia a sua volta valore di proposizione necessaria, la proposizione è assolutamente a priori. In secondo luogo, l'esperienza non conferisce mai ai suoi giudizi una universalità autentica e rigorosa, ma semplicemente una universalità presunta e comparativa (per induzione) sì che si deve propriamente dire: stando a quanto abbiamo finora osservato, non risulta alcuna eccezione a questa regola. Quando dunque un giudizio sia pensato con rigorosa universalità, cioè in modo tale da non tollerare eccezioni di alcun genere, esso non deriva dall'esperienza, ma è valido assolutamente a priori. L'universalità empirica non è dunque altro che un'estensione arbitraria in fatto di validità, da quella che poggia sul maggior numero dei casi a quella che vale in ogni caso, come ad esempio nella proposizione: "Tutti i corpi sono pesanti". Per contro, se un giudizio porta con sé una rigorosa universalità, questa sta a manifestare una fonte particolare di conoscenza, ossia una facoltà di conoscenza a priori. Necessità e rigorosa universalità sono pertanto i segni sicuri della conoscenza a priori e si implicano reciprocamente in modo inscindibile. [. .. ] Orbene, è facile dimostrare che nella conoscenza umana si dànno effettivamente simili giudizi, necessari e universali nel senso più rigoroso, e quindi puri a priori. Se si vuole un esempio ricavato dalle scienze, non si deve far altro che prendere in esame tutte le proposizioni della matematica; se si vogliono invece esempi ricavati dal più comune uso dell'intelletto, può bastare la proposizione che ogni mutamento deve avere una causa; in questa proposizione, anzi, il concetto stesso di una causa contiene così palesemente il concetto di una necessità della connessione con l'effetto e di una rigorosa universalità della legge, che esso andrebbe del tutto perduto se si pretendesse ricavarlo, come fece Hume, dalla ripetuta associazione di ciò che accade con ciò che precede e dalla conseguente abitudine (e perciò da una necessità semplicemente soggettiva) di connettere alcune rappresentazioni. Anche senza far ricorso a esempi del genere per stabilire la effettiva sussistenza di princìpi a priori della nostra conoscenza, si potrebbe semplicemente dimostrare che essi sono indispensabili per la stessa possibilità della nostra esperienza, dandone così una prova a priori. Donde mai, infatti, l'esperienza trarrebbe la sua certezza se le regole secondo cui essa procede fossero in ogni caso empiriche, quindi contingenti? Come potrebbero, in questo caso, fungere da princìpi? Critica della ragion pura. Prefazione e Introduzione, a cura di P. Chiodi, Torino, Utet, 1977, p. 39 epp. 73-76. 20

La ragione deve scoprire il cammino sicuro della scienza.

Le nostre conoscenze cominciano con l'esperienza, ma non sono interamente riconducibili a/l'esperienza.

La scienza deve portare i segni sicuri de/l'universalità e della necessità: solo i giudizi sintetici a priori, in cui la connessione soggetto-predicato non è fondata sull'esperienza ma sulle forme a priori, sono in grado di dare ragione del sapere scientifico.

Nell'asserto "ogni mutamento deve avere una causa" è presente questa rigorosa universalità.

HANS REICHENBACH (1933)

Il kantismo è stato smentito dalla scienza contemporanea, in particolare dalla teoria della relatività.

Il sistema dei principi individuato da Kant, una volta ampliatasi l'esperienza, è entrato in contraddizione con questa.

È quindi impossibile, per la scienza, stabilire asserti validi una volta per tutte, giacché l'esperienza futura potrebbe sempre smentirli.

È certamente esatto che accanto al materiale fornito dalla percezione compare nell'atto conoscitivo una trasformazione, cioè un'elaborazione concettuale nella quale vengono impiegati determinati principi. Ma questi principi sono soggetti a certe limitazioni. Ovverosia, poiché ogni conoscenza mira a inferire dai dati percettivi osservati dati futuri, e ogni trasformazione concettuale è volta a quest'unico scopo, tale trasformazione è soggetta a una regola: sono applicabili solo quei prindpi che conducono a previsioni future corrette. Se l'intelletto opera con un sistema di prindpi che gli è proprio per natura, non è detto fin dall'inizio che l'attenersi a questo sistema di princìpi conduca a previsioni corrette. Senza dubbio i princìpi di cui parla Kant sono relativamente ampi, ed è pertanto possibile, fino a un certo punto, sistemare il contenuto degli enunciati di esperienza presi a uno a uno in maniera tale che i princìpi risultino salvaguardati: così, per esempio, è possibile mantenere il principio di causalità quand'anche non si possano indicare per ogni singolo caso le relazioni causali in questione. Vi sono però dei limiti; in certe circostanze il materiale d'esperienza può assumere un carattere tale da rendere impossibile la conservazione dei princìpi. Sarebbe possibile escludere una collisione del genere solo nel caso che i princìpi fossero vuoti, ossia, nella terminologia di Kant, analitici. Ma proprio perché essi, come Kant giustamente vide, sono sintetici, è necessario fare i conti con la possibilità che il sistema dei principi conoscitivi in questione, ampliandosi l'esperienza, venga a trovarsi in contraddizione con essa. Proprio questo è ciò che è avvenuto nello sviluppo della scienza matematica della natura. I contenuti d'esperienza, così come sono raccolti soprattutto nella teoria della relatività e nella teoria dei quanti, non possono essere conciliati con i principi indicati da Kant. Ciò può essere formulato con maggior precisione dicendo che in verità solo alcuni di quei princìpi debbono cadere mentre altri possono ancora essere mantenuti, che inoltre, entro certi limiti, è possibile scegliere quali principi vanno mantenuti e quali abbandonati; tuttavia resta in ogni caso vero che il complesso di tutti i principi non può più essere conservato. Per questa ragione i presupposti della conoscenza indicati da Kant non sono più i presupposti della odierna conoscenza della natura. Quali conclusioni si debbono trarre da questo fatto per quanto concerne il giudizio sul pensiero kantiano? [... ] Stando così le cose, riteniamo praticabile solo un'altra via, la quale lascia cadere completamente la concezione kantiana di un sistema di presupposti ultimi della conoscenza. Per questa seconda concezione esiste soltanto la questione dei presupposti della conoscenza che si danno di volta in volta. Questi presupposti - fra i quali quindi, allo stato attuale della scienza, sono da annoverare, per esempio, lo spazio riemanniano, la struttura a catena della causalità, il principio dell'energia, il principio dei quanti e così via costituiscono degli enunciati empirici di carattere molto generale; rappresentano affermazioni dotate di contenuto sul mondo, quindi sono a posteriori, proprio perché la nostra esperienza attuale ha caratteristiche specifiche siffatte che è possibile accordare tali principi con essa in modo non contraddittorio. La concezione kantiana dei presupposti necessari della conoscenza è così caduta; i presupposti della conoscenza non sono necessari, ma vengono ottenuti per via empirica e sono soggetti a una continua regolamentazione da parte dell'esperienza. Da Copernico a Einstein, trad. di S. Ciolli Parrini, Bari, Laterza, 1985, pp. 126-129. 21

JOHN STUART MILL (1843) L'induzione [.. .] si può definire sommariamente come una generalizzazione dall'esperienza. Essa consiste nell'inferire, da alcuni singoli casi in cui s'osserva che un fenomeno si verifica, ch'esso si verifica in tutti i casi d'una certa classe, ossia in tutti quelli che rassomigliano ai precedenti in quelle che si considerano le circostanze essenziali.[. .. ] Dobbiamo innanzitutto osservare che c'è un principio implicito nell'asserzione stessa di quello che l'induzione è, un'assunzione riguardo al corso della natura ed all'ordine dell'universo, cioè che nella natura vi sono cose come casi paralleli, che quello che avviene una volta, dato un sufficiente grado di somiglianza di circostanze, avverrà ancora, e non solo ancora, ma ogniqualvolta ricorrano le stesse circostanze. Dico che questa è un'assunzione implicita in ogni caso di induzione, e se consultiamo il corso attuale della natura, troviamo che quest'assunzione è giustificata. L'universo, per quanto ci è noto, è costituito in modo che tutto quello che è vero in un caso, è vero in tutti i casi d'un certo genere. [ ... ] Questo fatto universale, che è la nostra garanzia per tutte le inferenze dal1' esperienza, è stato descritto da filosofi differenti in forme di linguaggio differenti: che il corso della natura è uniforme, che l'universo è governato da leggi generali, e simili. [.. .] Qualunque sia il modo più proprio d'esprimerla, la proposizione che il corso della natura è uniforme è il principio fondamentale, od assioma generale, dell'induzione. Sarebbe tuttavia un grande errore presentare questa grande generalizzazione come una spiegazione del processo induttivo. Al contrario, sostengo che è essa stessa un caso d'induzione, e d'induzione per nulla affatto del genere più ovvio. Lungi dall'essere la prima induzione che facciamo, essa è una delle ultime, o comunque una di quelle che sono le ultime a raggiungere una rigorosa esattezza filosofica. [... ] La verità è che questa grande generalizzazione è fondata essa stessa su generalizzazioni precedenti. Le più oscure leggi della natura furono scoperte per suo mezzo, ma le più ovvie sono state probabilmente intese ed accettate come verità generali prima che di essa mai si fosse sentito parlare. Non avremmo mai pensato ad affermare che tutti i fenomeni avvengono secondo leggi generali, se non fossimo prima giunti, nel caso d'un gran numero di fenomeni, a qualche cognizione delle leggi stesse, cosa che non si poteva fare se non per induzione. In che senso, allora, si può considerare una garanzia per tutte le altre induzioni un principio così lontano dall'essere la nostra prima induzione? Nel solo senso in cui [. .. ] le proposizioni generali che poniamo in testa ai nostri ragionamenti, quando li esponiamo in forma di sillogismi, contribuiscono in qualche modo effettivo alla loro validità. [. .. ] L'induzione "Giovanni, Pietro etc. sono mortali, quindi tutti gli uomini sono mortali" si può esporre come sillogismo prefiggendole come premessa maggiore (che è in ogni caso una condizione necessaria della validità dell'argomentazione) che quello che è vero di Giovanni, Pietro, etc., è vero di tutti gli uomini. Ma come siamo giunti a codesta premessa maggiore? Essa non è per sé evidente, anzi non è vera in tutti i casi di generalizzazione non giustificata. Come, allora, ci si è giunti? Necessariamente o per induzione o per raziocinio. Se per induzione, il processo, come ogni altra argomentazione induttiva, si può porre in forma di sillogismo. È quindi necessario costruire questo sillogismo preliminare. A lungo andare c'è una sola costrnzione possibile. La prova reale che quello che è vero di Giovanni, Pietro, etc., è vero di tutti gli uomini, può essere solo che una supposizione differente sarebbe in contrasto con l'uniformità che sappiamo esistere nel corso della natura. Sùtema di logica raziocinativa e induttiva, trad. di G. Pacchi, Roma, Ubaldini, 1968, pp. 302-305. 22

L'induzione è un'inferenza dal noto a/l'ignoto, che conduce ad una generalizzazione ampia di esperienze.

Riconoscere la validità dell'induzione, significa accettare il principio dell'uniformità della natura. Il principio dell'uniformità della natura assicura che ciò che si è verificato una volta, si verificherà di nuovo in circostanze uguali.

Tuttavia questo stesso principio è un risultato de/l'induzione.

DAVID HUME (1739) Noi supponiamo, senza poterlo dimostrare, che il corso della natura sarà sempre uniforme e che il futuro sarà conforme al passato. Ma /'esperienza, che è sempre esperienza del passato, non può provare nulla riguardo al futuro.

Resta quindi sempre possibile, dal punto di vista logico, che la natura domani cambi il suo corso.

Ne segue, allora, che tutti i ragionamenti che riguardano la causa e l'effetto sono fondati sull'esperienza e che tutti i ragionamenti che derivano dall'esperienza sono fondati sulla supposizione che il corso della natura continuerà ad essere uniformemente lo stesso. Noi concludiamo che cause simili, in circostanze simili, produrranno sempre effetti simili. Può essere ora opportuno considerare che cosa ci induce a formulare una conclusione di J?Ortata così infinita. E evidente che Adamo, con tutta la sua scienza, non sarebbe mai stato in grado di dimostrare che il corso della natura deve continuare ad essere uniformemente lo stesso e che il futuro deve essere conforme al passato. Ciò che è possibile non si può mai dimostrare che è falso; ed è possibile che il corso della natura possa cambiare, dal momento che noi possiamo concepire tale cambiamento. Ma io dico di più ed affermo che Adamo non sarebbe riuscito a provare con argomenti probabili qualsiasi che il futuro deve essere conforme al passato. Tutti gli argomenti probabili sono fondati sulla supposizione che vi sia conformità fra il futuro ed il passato e perciò non possono provare tale supposizione. Questa conformità è una questione di fatto e, se deve essere provata, non ammetterà altra prova che non sia quella tratta dal1' esperienza. Ma la nostra esperienza del passato non può provare nulla per il futuro, se non in base alla supposizione che ci sia una somiglianza fra passato e futuro. Perciò questo è un punto che non ammette affatto prova di sorta e che noi diamo per concesso senza prova alcuna. Noi siamo determinati soltanto dall'abitudine a supporre che il futuro sia conforme al passato. Estratto del Trattato sulla natura umana, in Opere filosofiche, a cura di E. Lecaldano, Bari, Laterza, 1987, p. 112.

KARL POPPER (1934)

Non siamo logicamente giustificati nell'inferire proposizioni universali da proposizioni singolari.

Da un punto di vista logico, è tutt'altro che ovvio che si sia giustificati nell'inferire asserzioni universali da asserzioni singolari, per quanto numerose siano queste ultime; infatti qualsiasi conclusione tratta in questo modo può sempre rivelarsi falsa: per quanto numerosi siano i casi di cigni bianchi che possiamo aver osservato, ciò non giustifica la conclusione che tutti i cigni sono bianchi. La questione, se le inferenze induttive siano giustificate, o in quali condizioni lo siano, è nota come il problema dell'induzione. Il problema dell'induzione può anche essere formulato come il problema del modo per stabilire la verità di asserzioni universali basate sull'esperienza, come le ipotesi e i sistemi di teorie delle scienze empiriche. Molti, infatti, credono che la verità di queste asserzioni universali sia "nota per esperienza"; tuttavia è chiaro, in primo luogo, che il resoconto di un'esperienza - di un'osservazione, o del risultato di un esperimento - può essere soltanto un'asserzione singolare e non un'asserzione universale. Di conseguenza, chi dice che conosciamo la verità di un'asserzione universale per mezzo dell'esperienza, intende di solito che la verità di quest'asserzione universale può essere ridotta in qualche modo alla verità di asserzioni singolari e che la verità di queste asserzioni singolari è nota per esperienza; ciò equivale a dire che l'asserzione universale è basata sull'inferenza induttiva. Dunque, chiedere se ci siano leggi naturali la cui verità è nota sembra soltanto un altro modo per chiedere se le inferenze induttive siano giustificate logicamente. Logica della scoperta slienti/ica, a cura di M. Trinchern, Torino, Einaudi, 1970, pp. 5-6.

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MORITZ SCHLICK (1934) Con una certa legittimità, gli enunciati osservativi possono venir considerati l' origine più remota del nostro sapere; ma si dovrà ritenerli anche la base ultima e sicura? [ ... ] Ma, ora, mi sembra che a questi enunciati, a questi asserti intorno a ciò che è immediatamente percepito (a queste "constatazioni", come potremmo anche chiamarle), inerisca anche una seconda funzione, quella cioè, della conferma delle ipotesi, della verificazione. La scienza fa anticipazioni che vengono messe alla prova mediante l'esperienza. La sua funzione essenziale consiste nello sviluppo di previsioni. Essa dice, per esempio: "se, nel tal momento, si guarda con un telescopio disposto così e così, si potrà osservare un punto luminoso (stella) in coincidenza con una riga nera (mirino)''. Qualorn - supponiamo - seguendo una simile indicazione, si attingesse realmente il risultato previsto, ciò significherebbe che facciamo una constatazione alla quale eravamo preparati, il verificarsi di un giudizio osservativo presunto, atto ad assicurarci una forma particolare di soddisfacimento, a renderci contenti. E si può validamente sostenere che constatazioni o enunciati osservativi hanno assolto il loro compito precipuo quando si sia prodotto in noi questo particolare soddisfacin1ento. [ ... ] Posso comprendere il senso di una "constatazione" solo confrontandola con i fatti, cioè eseguendo quella procedura che è richiesta per la verificazione di tutti gli enunciati sintetici. Ma, mentre per tutti gli altri asserti sintetici la comprensione del senso e l'accertamento della verità sono processi separati e pienamente distinguibili, negli enunciati osservativi, come in quelli analitici, essi vengono a coincidere. Le "constatazioni" e gli enunciati analitici sono cose ben diverse, ma hanno ciò in comune, che in entrambi i casi i processi della comprensione della verificazione sono contemporanei: con uno stesso atto, se ne stabiliscono il senso e la verità. Domandare, a proposito di una constatazione, se non ci si stia sbagliando sulla sua verità, avrebbe tanto poco senso, quanto se tale domanda fosse fatta a proposito di una tautologia. Entrambe hanno validità assoluta. Solo che l'enunciato analitico è vuoto di contenuto, mentre l'enunciato osservativo ci procura la soddisfazione di una conoscenza genuina della realtà.

Il compito essenziale della scienza è quello di fare previsioni, che /'esperienza deve poi confermare.

Le ipotesi, ovverosia le anticipazioni prodotte dalla scienza, vanno verificate attraverso gli enunciati osservativi, che, in · quanto constatazioni di fatti, sono sempre veri.

Sul fondamento della conoscenza, in Tra realismo e neo-positivismo, trad. di E. Pical'di, Bologna, Il Mulino, 1974, p. 152.

MORITZ SCHLICK (1936) Stabilire il significato di un enunciato equivale a stabilire le regole secondo cui l'enunciato va usato, e questo, a sua volta, è lo stesso che stabilire la maniera in cui esso può essere verificato (o falsificato). Il significato di una proposizione è il metodo della sua verificazione. Le regole "grammaticali" consisteranno in parte in comuni definizioni, cioè spiegazioni di parole per mezzo di altre parole, e in parte in quelle che sono chiamate definizioni "ostensive", cioè spiegazioni per mezzo di una procedura che assoçia una parola al suo uso attuale. [... ] E chiaro che per la comprensione di una definizione verbale dobbiamo già conoscere la significazione delle parole usate per definire, e che la sola spiegazione che si può dare senza alcuna conoscenza precedente è la definizione ostensiva. Ne possiamo concludere che non vi è modo di comprendere alcun significato senza riferirci, in ultima istanza, a definizioni ostensive, il che vuol dire, in senso ovvio, riferirci alla "esperienza" o alla "possibilità di verificazione". [... ] Il risultato delle nostre considerazioni è questo: la verificabilità, che è condizione necessaria e sufficiente del significato, è una possibilità di ordine logico; essa è prodotta dalla costruzione dell'enunciato in conformità alle regole con cui sono stati definiti i termini. Il solo caso in cui la verificazione è (logicamente) impossibile è il caso in cui l'abbiamo resa impossibile non stabilendo nessuna regola per la verificazione dell'enunciato. Significato e verificazione, in Tra realismo e neo-positivismo, cit., pp. 189-204.

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Il significato di una proposizione, e quindi anche di una teoria scientifica, dipende dalla sua possibilità di essere verificata.

71 KARL POPPER (1953) Il criterio di verificazione non fornisce un adeguato criterio di demarcazione fra scienza e non scienza.

Il metodo da adottare è quello dei controlli attraverso l'esperienza, vale a dire i tentativi di falsificare o confutare una teoria.

Il problema che allora mi preoccupava non era né "quando una teoria è vera?" né "quando una teoria è accettabile?". Il mio problema era diverso. Desideravo stabilire una distinzione fra scienza e pseudoscienza, pur sapendo bene che la scienza spesso sbaglia e che la pseudoscienza può talora, per caso, trovare la verità. Naturalmente, conoscevo la risposta che si dava il più delle volte al mio problema: la scienza si differenzia dalla pseudoscienza - o dalla "metafisica" - per il suo metodo empirico, che è essenzialmente induttivo, procedendo dall'osservazione o dall'esperimento. Tuttavia questa risposta non mi soddisfaceva. [. .. ] Queste considerazioni mi condussero alle conclusioni che posso ora riformulare nel modo seguente. 1) E facile ottenere delle conferme, o verifiche, per quasi ogni teoria - se quel che cerchiamo sono appunto delle conferme. 2) Le conferme dovrebbero valere solo se sono il risultato di previsioni rischiose; vale a dire, nel caso che, non essendo illuminati dalla teoria in questione, ci saremmo dovuti aspettare un evento incompatibile con essa - un evento che avrebbe confutato la teoria. 3) Ogni teoria scientifica "valida" è una proibizione: essa preclude l'accadimento di certe cose. Quante più cose preclude, tanto migliore essa risulta. 4) Una teoria che non può essere confutata da alcun evento concepibile, non è scientifica. L'inconfutabilità di una teoria non è un pregio, bensì un difetto. 5) Ogni controllo genuino di una teoria è un tentativo di falsificarla, o di confutarla. La conttollabilità coincide con la falsificabilità; vi sono tuttavia dei gradi di controllabilità: alcune teorie sono controllabili, o esposte alla confutazione, più di altre; esse, per così dire, corrono rischi maggiori. 6) I dati di conferma non dovrebbero contare se non quando siano il risultato di un controllo genuino della teoria; e ciò significa che quest'ultimo può essere presentato come un tentativo serio, benché fallito, di falsificare la teoria. In simili casi parlo ora di "dati corroboranti". [ ... ] Si può riassumere tutto questo dicendo che il criterio dello stato scientifico di

una teoria è la sua falsificabilità, confutabilità, o controllabilità. [... ] Ammettiamo di esserci deliberatamente imposti di vivere in questo nostro mondo sconosciuto; di adeguarci ad esso meglio che possiamo; di trarre vantaggio dalle occasioni che possiamo trovarvi; e di spiegarlo, se è possibile, e per quanto possibile, benché non sia necessario assumerlo, con l'aiuto di leggi e teorie con potere di spiegazione. Se è questo il complto che ci siamo

Una teoria è scientifica solo se può essere confutata.

imposti; allora non vi è procedimento più razionale del metodo per prova ed errore - per congetture e confutazioni; che consiste nell'audace formulazione di teorie, nel tentativo di mostrare che tali teorie sono erronee e nella loro provvisoria accettazione, se i nostri sforzi critici non hanno successo. Dal punto di vista qui sviluppato, tutte le leggi, tutte le teorie, restano essenzialmente provvisorie, congetturali, o ipotetiche, anche quando non ci sentiamo più in grado di dubitare di esse. Non possiamo mai sapere in qual modo debba essere modificata una teoria, prima che sia stata confutata. Che il sole sorgerà e tramonterà sempre nel corso di ventiquattro ore è ancora proverbiale come legge "stabilita dall'induzione al di là di ogni ragionevole dubbio". [.. .] Il metodo di prova ed errore, naturalmente, non equivale direttamente all'atteggiamento scientifico e critico, cioè al metodo per congetture e confutazioni. [... ] Lo scienziato, infatti, cerca consapevolmente, e con cura, di scoprire tali errori, al fine di confutare le proprie teorie con argomenti rigorosi e con il ricorso ai più severi controlli sperimentali che la teoria e la sua ingegnosità gli consentono di escogitare. Congetture e confutazioni, a cura di G. Pancaldi, Bologna, Il Mulino, 1972, pp. 61-93.

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GASTON BACHELARD (1934) Già l'osservazione ha bisogno di un corpo di precauzioni che conducono a riflettere prima di guardare, e che riformano, almeno, la prima visione in modo che non è mai la prima osservazione a essere quella buona. L'osservazione scientifica è sempre un'osservazione polemica; essa conferma oppure smentisce una tesi anteriore, uno schema preliminare, un piano di osservazione; essa mostra dimostrando; essa dispone gerarchicamente le apparenze; trascende l'immediato; essa ricostruisce il reale dopo aver ricostruito i propri schemi. Naturalmente, il carattere polemico della conoscenza diventa ancora più netto non appena si passi dal!' osservazione all'esperimento. Occorre allora che il fenomeno sia smistato, filtrato, purificato, colato nello stampo degli strumenti, prodotto sul piano degli strumenti. Ora, gli strumenti non sono che teorie materializzate. Ne vengon fuori fenomeni che portano in ogni parte il marchio teorico. Il nuovo spirito scientifico, a cura di L. Geymonat e P. Redondi, Bari, Laterza, 1978, pp. 12-13.

FRANçOIS JACOB (1970) Forse, ciò che ha trasformato più profondamente lo studio degli esseri viventi è stato l'ampliamento del campo degli oggetti analizzabili, non sempre in conseguenza dell'apparizione di una nuova tecnica, ma spesso come risultato d'un modo diverso di guardare l'organismo, di interrogarlo, di formulare le domande alle quali l'osservazione dovrebbe fornire le risposte. Il più delle volte, infatti, si tratta di un semplice cambiamento di illuminazione, che fa scomparire un ostacolo o fa emergere dall'ombra qualche aspetto della realtà, qualche relazione che, fino a quel momento, erano rimasti invisibili. Non fu uno strumento inedito ciò che permise, alla fine del Settecento, di confrontare la zampa del cavallo e la gamba dell'uomo e di scorgervi alcune analogie di struttura e di funzione. Passando dalla mano di Fernel, che crea la parola "fisiologia", a quella di Harvey, che rende accessibile all'esperimento la circolazione del sangue, il bisturi non cambia né forma né virtù. [ .. .] Se l'opera di Mendel resta ignorata per più di trent'anni, ciò avviene perché né i biologi di professione, né gli allevatori, né gli orticultori sono ancora in grado di adottarne l'atteggiamento concettuale nei confronti dell'eredità. "Chi cerca Dio lo trova", diceva Pascal; ma non si trova mai altro Dio che quello di cui si va in cerca. Anche quando uno strumento accresce improvvisamente il potere di risoluzione dei nostri sensi, esso rappresenta sempre l'applicazione pratica di una serie di concetti astratti. Il microscopio non è altro che l'utilizzazione pratica delle teorie fisiche sulla luce. E non basta "vedere" un oggetto, fino a quel momento invisibile, per trasformarlo in oggetto di analisi. Quando Leeuwenhoek osserva per la prima volta una goccia d'acqua al microscopio, vi scopre un mondo sconosciuto: forme che brulicano, esseri viventi, tutta una fauna imprevedibile che lo strumento, d'improvviso, rende accessibile all'osservazione. Ma il pensiero di allora non sapeva che farsene di quel nuovo universo: non aveva alcuna funzione da assegnare a quegli esseri microscopici, né sapeva trovare una relazione qualsiasi che li collegasse al resto del mondo vivente. [ ... ] Perché un oggetto sia accessibile all'analisi, non basta scorgerlo; bisogna anche che esista una teoria pronta ad accoglierlo. Nello scambio fra teoria ed esperienza, è sempre la prima che inizia il dialogo: è la teoria che determina la forma della domanda, e quindi i limiti della risposta. "Il caso favorisce soltanto le menti già preparate", diceva Pasteur. In altri termini, una determinata osservazione può esser fatta accidentalmente e non per verificare una teoria; ma, se la teoria c'è, la sua esistenza permette di interpretare la scoperta accidentale. Come le altre scienze della natura, la biologia ha perduto oggi molte illusioni. Essa non cerca più la verità, la costruisce. La logica del vivente, trad. di A. e S. Serafini, Torino, Einaudi, 1971, pp. 24-25.

L'osservazione scientifica non è una mera osservazione: è un"'osservazione polemica", finalizzata, cioè, a confermare o smentire qualcosa. L'esperimento è una ricostruzione del fenomeno attraverso gli strumenti, il cui uso non è neutrale, ma è sempre diretto da un indirizzo teorico.

La crescente profondità osservativa rispetto agli oggetti che analizziamo non sempre è dovuta ad una nuova tecnica, ma più spesso ad un approccio diverso verso quegli stessi oggetti. Lo strumento, che potenzia la nostra capacità osservativa, altro non è che lapplicazione pratica, la materializzazione, di concetti teorici astratti. È solo la teoria che permette all'osservazione di perdere il suo carattere di accidentalità e casualità, per essere inserita in una interpretazione dei fenomeni che solo la scienza, abbandonata ogni pretesa "metafisica" di verità, può costruire e determinare.

WERNER K. HEISENBERG (1955) La scienza non si rapporta più alla natura come puro e semplice oggetto di osservazione, ma si riconosce come parte dell'interazione tra uomo e natura. Di conseguenza il metodo e gli strumenti, usati dal soggetto, non sono più separabili da/l'oggetto.

Se si può parlare di un'immagine della natura propria della scienza esatta del nostro tempo, non si tratta quindi più propriamente di una immagine della natura, ma di una immagine del nostro rapporto con la natura. L'antica suddivisione del mondo in un accadimento obiettivo nello spazio e nel tempo da una parte, e l'anima, in cui tale accadimento si rispecchierebbe, dall'altra, la distinzione cartesiana, cioè, tra la res cogitans e la res extensa, non può più servire come punto di partenza della scienza moderna. Obiettivo di questa scienza è piuttosto la rete delle relazioni tra uomo e natura, la rete delle connessioni per cui noi, come esseri viventi dotati di corpo, dipendiamo dalla natura come sue parti, e nello stesso tempo, come uomini, la rendiamo oggetto del nostro pensiero e della nostra azione. La scienza non sta più come spettatrice davanti alla natura, ma riconosce se stessa come parte di quel mutuo interscambio tra uomo e natura. Il metodo scientifico che procede isolando, spiegando ed ordinando i fenomeni diviene consapevole dei limiti che gli derivano dal fatto che il suo intervento modifica e trasforma il suo oggetto, dal fatto cioè che il metodo non può più separarsi dall'oggetto. I:immagine scientifica dell'universo cessa quindi di essere una vera e propria immagine della natura. Natura e fisica moderna, trad. di E. Casari, Milano, Garzanti, 1957, p. 25.

NICOLA AB BAGNANO (1947) La scienza è per sua stessa natura sperimentale e l'osservazione è il calarsi dell'uomo nel mondo, di cui fa parte.

Ma per fare questa operazione l'uomo deve farsi esso stesso strumento di osservazione, diventando sistema osservante sul sistema osservato. Da qui il principio d'indeterminazione, che dipende dal/'autoinserzione dell'uomo nel mondo come parte di esso.

Si può a questo punto indicare il fondamento della natura sperimentale della scienza e delle conseguenze che alla scienza derivano dalla sua natura sperimentale. Non c'è scienza senza osservazione. L'indirizzo critico della scienza contemporanea esclude la legittimità di qualsiasi affermazione che non formuli il risultato di un'osservazione, non già solamente eseguibile, ma effettivamente eseguita. Ora l'osservazione è l'atto dell'inserzione dell'uomo nel mondo, il suo radicarsi nel mondo e realizzarsi come parte di esso. Per osservare una realtà fisica qualsiasi, l'uomo deve egli stesso far parte della realtà fisica e diventare strumento di osservazione. Ma penetrando in quest'atto nella realtà fisica come parte di essa, egli altera la realtà stessa. Di qui si origina la relazione d'indeterminazione, caratteristica della fisica odierna. È evidente, come osserva Planck, che se l'uomo fosse uno "spirito ideale" che potesse conoscere il mondo senza inserirsi in esso e diventare parte di esso, l'indeterminazione non ci sarebbe, e il mondo apparirebbe come una totalità necessaria. Ma è altrettanto evidente che l'ipotesi di Planck è fittizia. Il mondo è la totalità di cui l'uomo fa parte, e se l'uomo non ne facesse parte non sarebbe mondo e non sussisterebbe il problema di conoscerlo. Se il mondo è la totalità di cui l'uomo fa parte, l'uomo non ha altro modo di conoscerlo se non come parte di esso e quindi sottoposto egli stesso alle condizioni che l'osservazione mette in luce. Ma questa situazione implica l' azione dell'uomo come sistema osservante sul sistema osservato e quindi il principio d'indeterminazione. Tale principio mostra quindi che la scienza è venuta completamente in chiaro dell'atteggiamento che è alla sua radice: l'autoinserzione dell'uomo nel mondo come parte del mondo. Fondamenti logici della scienza, Torino, De Silva, 1947, p. 156:

GASTON BACHELARD (1938) Quando si cercano le condizioni psicologiche del progresso scientifico, si giunge presto alla convinzione che il problema della conoscenza scientifica bisogna porlo in termini di ostacoli. E non si tratta di considerare ostacoli esterni come la complessità e la fugacità dei fenomeni, né di incriminare la debolezza dei sensi e dello spirito umano: lentezze e disfunzioni appaiono, per una sorta di necessità funzionale, all'interno stesso dell'atto conoscitivo. È qui che mostreremo cause di stagnazione e persino di regressione, è qui che scopriremo quelle cause d'inerzia che chiameremo ostacoli epistemologici. La conoscenza del reale è una luce che proietta sempre da qualche parte delle ombre. Essa non è mai immediata e piena. Le rivelazioni del reale sono sempre ricorrenti. Il reale non è mai "ciò che si potrebbe credere" ma ciò che si sarebbe dovuto pensare. Il pensiero empirico è chiaro a cose fatte, quando l'apparato delle ragioni è stato messo a punto. Ritornando su un passato di errori, si trova la verità in un autentico pentimento intellettuale. Infatti, si conosce contro una conoscenza anteriore, distruggendo conoscenze mal fatte, superando ciò che, all'interno dello stesso spirito, fa ostacolo alla spiritualizzazione. L'idea di partire da zero per fondare e accrescere il proprio patrimonio culturale è propria delle culture di semplice giustapposizione, nelle quali un fatto conosciuto è immediatamente una ricchezza. Ma di fronte al mistero del reale, l'anima non può farsi, per decreto, ingenua. È allora impossibile annullare con un sol colpo le conoscenze abituali. Di fronte al reale, ciò che si crede di sapere chiaramente offusca ciò che si dovrebbe sapere. Quando si presenta alla cultura scientifica, lo spirito non è mai giovane. È anzi molto vecchio, perché ha l'età dei suoi pregiudizi. Accedere alla scienza vuol dire, spiritualmente, ringiovanire, vuol dire accettare una brusca mutazione che deve contraddire un passato. La scienza, per il suo bisogno di compiutezza e per motivi di principio, si oppone assolutamente all'opinione. Se le capita di legittimare, su un punto particolare, l'opinione, ciò avviene per ragioni diverse da quelle che fondano l'opinione; di modo che l'opinione ha, di diritto, sempre torto. L'opinione pensa male; essa non pensa; traduce bisogni in conoscenze. Designando gli oggetti secondo la loro utilità, si impedisce di conoscerli. Non si può fondare niente sull'opinione: bisogna anzitutto distruggerla. È il primo ostacolo da superare. Non basterebbe, ad esempio, rettificarla su punti particolari, mantenendo, come una sorta di morale provvisoria, una conoscenza volgare provvisoria. Lo spirito scientifico ci proibisce di avere opinioni su questioni che non comprendiamo, su questioni che non sappiamo formulare chiaramente. Prima di tutto, bisogna saper porre problemi. E, checché se ne dica, nella vita scientifica i problemi non si pongono da se stessi. È per l'appunto questo senso del problema che dà il tratto distintivo del vero spirito scientifico. Per uno spirito scientifico, ogni conoscenza è una risposta a una domanda. Se non c'è stata domanda, non può esserci conoscenza scientifica. Niente va da sé. Niente è dato. Tutto è costruito. Anche una conoscenza acquisita con uno sforzo scientifico può tramontare. La domanda astratta e genuina si logora; la risposta concreta resta. Da quel momento, l'attività spirituale cambia direzione e si blocca. Un ostacolo epistemologico si incrosta sulla conoscenza non problematizzata. Abitudini intellettuali che furono utili e sane possono, alla lunga, ostacolare la ricerca. [. .. ] Mediante l'uso, le idee si valorizzano indebitamente. Un valore in sé si oppone alla circolazione dei valori. È questo un fattore d'inerzia per lo spirito. Talvolta una idea dominante polarizza uno spirito nella sua totalità. Un epistemologo irriverente diceva, una ventina d'anni fa, che i grandi uomini sono utili alla scienza nella prima metà della loro vita, nocivi nella seconda metà. L'istinto formativo è cosl persistente in certi uomini di pensiero che 11011 ci si deve allarmare di questa boutade.

La scienza non procede secondo uno sviluppo lineare, ma attraversa una serie di "rotture epistemologiche" che si configurano come correzioni degli errori precedenti.

È necessario, per il cammino della conoscenza, superare/a resistenza dei cosiddetti "ostacoli epistemologici". Questi ostacoli non riguardano tanto la natura dell'oggetto da conoscere, quanto l'attività del soggetto conoscente, cioè le abitudini intellettuali stratificate e sclerotizzate, l'inerzia e i dogmi ideologici. Il primo ostacolo da superare è l'opinione, antitetica alla scienza, che considera gli oggetti in base alla loro utilità, impedendo di conoscerli.

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La cultura scientifica deve prevedere una sorta di "catarsi intellettuale e affettiva", con la quale liberarsi dalle conoscenze precedenti per sostituirle con idee completamente nuove.

Ma alla fine l'istinto formativo finisce per cedere all'istinto conservativo. Viene un momento in cui lo spirito ama più ciò che conferma il sapere che ciò che lo contraddice, più le risposte che le domande. Allora l'istinto conservativo domina e la crescita spirituale si ferma. La nozione di ostacolo epistemologico può essere studiata nello sviluppo storico del pensiero scientifico e nella pratica dell'educazione. Nell'uno e nell'altro caso, questo studio non è agevole. La storia, nel suo principio, è in effetti ostile a ogni giudizio normativo. Eppure, bisogna collocarsi all'interno di un punto di vista normativo, se si vuole giudicare l'efficacia di un pensiero. Tutto ciò che si trova nella storia del pensiero scientifico è ben lungi dal servire effettivamente all'evoluzione di questo pensiero. Certe conoscenze anche giuste bloccano troppo presto ricerche utili. L'epistemologo deve perciò selezionare i documenti raccolti dallo storico. Deve giudicarli dal punto di vista della ragione, anzi dal punto di vista della ragione evoluta, perché soltanto a partire dal presente possiamo pienamente giudicare gli errori del passato spirituale. D'altronde, anche nelle scienze sperimentali, è sempre l'interpretazione razionale a porre i fatti al loro giusto posto. È sull'asse esperienza-ragione e nella direzione della razionalizzazione che si trovano nello stesso tempo il rischio e il successo. Soltanto la ragione dinamizza la ricerca, giacché essa sola suggerisce al di là dell'esperienza con: une (immediata e ingannevole) l'esperienza scientifica (indiretta e feconda). E dunque lo sforzo di razionalità e di costruzione a dovere attrarre l'attenzione dell'epistemologo. Si può vedere qui ciò che distingue il mestiere dell'epistemologo da quello dello storico delle scienze. Lo storico delle scienze deve considerare i fatti come se fossero idee, inserendoli in un sistema di pensieri. Un fatto male interpretato da un'epoca resta un fatto per lo storico. Secondo l'ottica dell'epistemologo è un ostacolo, è un contro-pensiero. [ ... ] Nell'educazione, la nozione di ostacolo pedagogico è ugualmente misconosciuta. Sono stato spesso colpito dal fatto che i professori di scienza, se è possibile ancora più degli altri, non comprendono il fatto che non si comprenda. Poco numerosi sono coloro che hanno approfondito la psicologia dell'errore, dell'ignoranza e dell'irriflessione. [ ... ] I professori di scienza immaginano che lo spirito cominci come una lezione, che si possa sempre rifare una cultura svogliata ripetendo una classe e che si possa fare comprendere una dimostrazione ripetendola punto per punto. Non hanno riflettuto sul fatto che l'adolescente arriva alle lezioni di fisica con conoscenze empiriche già costituite: perciò non si tratta tanto di acquisire una cultura sperimentale quanto di cambiare cultura sperimentale e di abbattere ostacoli già accumulati nella vita quotidiana. Un solo esempio: l'equilibrio dei corpi galleggianti è l'oggetto di una intuizione familiare che è un tessuto di errori. In un modo più o meno chiaro, si attribuisce un'attività al corpo che galleggia, o meglio al corpo che nuota. Se si cerca di affondare con la mano un pezzo di legno che si trovi in acqua, si vede che resiste. Non si attribuisce facilmente la resistenza all'acqua. È perciò abbastanza difficile fare comprendere il principio di Archimede nella sua stupenda semplicità matematica, se anzitutto non si è criticato e disorganizzato il complesso impuro delle prime intuizioni. In particolare, senza questa psicanalisi degli errori iniziali, non si farà mai comprendere che il corpo che emerge e il corpo completamente immerso obbediscono alla stessa legge. Cosicché ogni cultura scientifica deve incominciare con una catarsi intellettuale e affettiva. Resta, inoltre, il compito più difficile: mettere la cultura scientifica in uno stato di mobilitazione permanente, sostituire il sapere chiuso e statico con una conoscenza aperta e dinamica, dialettizzare tutte le variabili sperimentali, dare infine alla ragione delle ragioni di evoluzione. La formazione dello spirito scientifico, in Epistemologia, trad. di F. Lo Piparo, Bari, Laterza, 1975, pp. 162-165.

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MAX PLANCI< (1945) Da questo modo di pensare di tutti i giorni, il ragionamento scientifico differisce non nella sostanza, ma solamente nel grado di sottigliezza e precisione, più o meno come le prestazioni di un microscopio differiscono da quelle dell'occhio nudo. La verità di questa affermazione, e la necessità che sia così, risulta evidente dal fatto stesso che vi è una sola specie di logica, e quindi anche la logica scientifica non può dedurre da date ipotesi nulla più della logica ordinaria del senso comune. Pertanto, otterremo una comprensione intuitivamente chiara dei risultati che la scienza ottiene con il suo faticoso lavoro, se prendiamo come punto di partenza le esperienze note e familiari della vita di ogni giorno. Se passiamo in rassegna il nostro sviluppo individuale, personale, e se consideriamo il punto raggiunto nel corso degli anni sul nostro modo di vedere il mondo, possiamo dire che noi tentiamo di utilizzare i fatti dell'esperienza come fondamento per un quadro unificato, comprensivo e praticamente utile del mondo in cui viviamo; che concepiamo il mondo esterno come pieno di oggetti che agiscono sui nostri vari organi sensori, producendo così le differenti impressioni dei sensi. Tuttavia, poiché questa immagine pratica del mondo, che ciascun essere umano porta dentro di sé, non è una nozione diretta, ma un'idea elaborata gradualmente sulla base dei fatti dell'esperienza, essa non possiede un carattere definitivo. Essa cambia e si modifica al sopraggiungere di ogni nuovo dato dell'esperienza, dall'infanzia alla maturità, dapprima rapidamente, e poi sempre più lentamente. Lo stesso principio si applica all'immagine scientifica del mondo. L'immagine scientifica del mondo, il cosiddetto mondo fenomenologico, non è dunque definitiva e costante, ma un processo di continuo cambiamento e miglioramento. Differisce dall'immagine pratica del mondo della vita quotidiana non in specie, ma nella sua struttura più fine. Sta all'immagine del mondo della vita di tutti i giorni come l'immagine del mondo di un essere umano adulto sta a quella di un bambino. Quindi il modo migliore di partire per comprendere esattamente l'immagine scientifica del mondo è di studiare l'immagine più primitiva, l'ingenua immagine del mondo del fanciullo. Autobiografia scientifica e ultimi saggi, Torino, Einaudi, 1956, pp. 112-113.

Il pensiero scientifico non si distingue nella sostanza dal pensiero comune, né/a logica scientifica è diversa da quella ordinaria. Ciò che li caratterizza è soltanto una maggiore precisione. La scienza produce i suoi risultati allo stesso modo che il soggetto umano, fin dalla nascita, elabora gradualmente, attraverso le proprie esperienze, un'immagine pratica del mondo. L'immagine scientifica del mondo, mai definitiva, ma sempre in evoluzione, differisce dall'immagine pratica del mondo nello stesso modo in cui l'immagine del mondo di un adulto differisce da quella di un bambino.

101 GASTON BACHELARD (1953) C'è una netta rottura tra conoscenza comune e conoscenza scientifica: quando esse percepiscono lo stesso fatto, questo non ha lo stesso valore epistemologico. La conoscenza comune ha le sue radici nell'empirismo, la conoscenza scientifica nel razionalismo. La conoscenza scientifica non si limita a prendere atto dei fatti veri, come fa invece quella comune, ma li organizza nella sintesi delle leggi veridiche. Essa domina per via razionale il dato sensibile, togliendogli il suo aspetto contingente, ed acquistando così una "sorprendente potenza di previsione".

Fra la conoscenza comune e la conoscenza scientifica la rottura ci pare cosl netta che questi due tipi di conoscenza non potrebbero avere la stessa filosofia. L'empirismo è la filosofia che conviene alla conoscenza comune. L'empirismo trova là la sua radice, le sue prove, il suo sviluppo. Al contrario, la conoscenza scientifica è solidale col razionalismo e, lo si voglia o no, il razionalismo conosce un'attività dialettica che ingiunge una estensione costante dei metodi. Quindi, quando la conoscenza comune e la conoscenza scientifica registfano lo stesso fatto, questo stesso fatto non ha certamente lo stesso valore epistemologico nelle due conoscenze. Che !'"odore" di elettricità sia un disinfettante e che lozono sia un possente ossidante che disinfetta, non c'è fra queste due conoscenze un cambiamento di valore di conoscenza? Di un fatto vero, la chimica teorica ha fatto una conoscenza veridica. Da sola questa coppia del vero e del veridico fissa l'azione polare della conoscenza. Questa coppia permette di riunire i due grandi valori epistemologici che spiegano la fecondità della scienza contemporanea. La scienza contemporanea è fatta dalla ricerca dei fatti veri e dalla sintesi delle leggi veridiche. Le leggi veridiche della scienza hanno una fecondità di verità, prolungano le verità di fatto con verità di diritto. Il razionalismo attraverso le sue sintesi del vero apre una prospettiva di scoperte. Il materialismo razionalista, dopo aver accumulato i fatti veri e organizzato le verità sparse, ha acquisito una sorprendente potenza di previsione. La messa in ordine delle sostanze cancella progressivamente la contingenza del loro essere, o, detto altrimenti, questa messa in ordine suscita delle scoperte che colmano le lacune che facevano credere alla contingenza dell'essere materiale. Malgrado le sue ricchezze accresciute, le sue ricchezze straripanti, la chimica si ordina in un vasto campo di razionalità. E mostrarci, al di là del razionalismo dell'identità, la razionalità del molteplice non è che la più piccola lezione della chimica contemporanea. Il materialismo razionale, a cura di L.Semerari, Bari, Dedalo, 1975, pp. 273-74.

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THOMAS SAMUEL KUHN (1962) La scienza normale, l'attività nella quale la maggior parte degli scienziati spendono inevitabilmente quasi tutto il loro tempo, è affermata sulla base della assunzione che la comunità scientifica sa che cosa è il mondo. Gran parte del successo dell'impresa deriva dalla volontà della comunità di difendere quella assunzione, se necessario ad un prezzo considerevole. La scienza normale, ad esempio, sopprime spesso novità fondamentali, perché esse sovvertono necessariamente i suoi impegni basilari. Tuttavia, fin tanto che questi mantengono un elemento di arbitrarietà, la natura stessa della ricerca normale ci assicura che la novità non rimarrà soppressa per molto tempo. Talvolta un problema normale, cioè un problema che dovrebbe essere risolvibile per mezzo di regole e procedimenti noti, resiste al reiterato assalto dei più abili membri del gruppo entro la cui competenza viene a cadere. In altre circostanze, uno strumento dell'apparato di ricerca, progettato e costruito per gli scopi della ricerca normale, non riesce a funzionare nella maniera aspettata, rivelando una anomalia che, nonostante i ripetuti sforzi, non può venire ridotta a conformarsi all'aspettativa professionale. In questi ed in altri modi ancora, la scienza normale va a finire ripetutamente fuori strada. E quando ciò accade - quando cioè la professione non può più trascurare anomalie che sovvertono l'esistente tradizione della pratica scientifica - allora cominciano quelle indagini straordinarie che finiscono col condurre la professione ad abbracciare un nuovo insieme di impegni, i quali verranno a costituire la nuova base della pratica scientifica. Gli episodi straordinari nel corso dei quali avviene questa sostituzione degli impegni vincolanti i membri della professione, sono indicati in questo saggio col nome di rivoluzioni scientifiche. In rapporto all'attività legata alla tradizione della scienza normale, essi sono gli elementi complementari che scuotono la tradizione. Gli esempi più evidenti di rivoluzioni scientifiche sono quei famosi episodi dello sviluppo scientifico che già in passato sono stati spesso indicati come rivoluzioni. [. .. ] Questi episodi mostrano in che cosa consistano tutte le rivoluzioni scientifiche più chiaramente di molti altri episodi, almeno per quanto riguarda la storia delle scienze fisiche. Ogni rivoluzione scientifica ha reso necessario l'abbandono da parte della comunità di una teoria scientifica un tempo onorata, in favore di un'altra incompatibile con essa; ha prodotto, di conseguenza, un cambiamento dei problemi da proporre all'indagine scientifica e dei criteri secondo i quali la professione stabiliva che cosa si sarebbe dovuto considerate come un problema ammissibile o come una soluzione legittima di esso. Ogni rivoluzione scientifica ha trasformato la immaginazione scientifica in un modo che dovremo descrivere in ultima istanza come· una trasformazione del mondo entro il quale veniva fatto il lavoro scientifico. Simili cambiamenti, assieme alle controversie che quasi sempre li accompagnano, sono le caratteristiche che definiscono le rivoluzioni scientifiche. Queste caratteristiche emergono con particolare chiarezza, dallo studio per esempio della rivoluzione newtoniana o della rivoluzione chimica. È petò una tesi fondamentale di questo saggio che tali caratteristiche possono venire rintracciate anche nello studio di molti altri episodi che non furono rivoluzionari in maniera cosi evidente. Nell'ambito del più ristretto gruppo della specializzazione che era interessata ad esse, le equazioni di Maxwell apparvero non meno rivoluzionarie di quelle di Einstein, e perciò incontrarono resistenze. La struttura delle rivoluzioni scientifiche, trad. di A. Carugo, Torino, Einaudi, 1978, pp. 23-25.

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lo "scienziato normale" cerca di coartare la realtà in uno schema, in un "paradigma", non considerando tutto ciò che non rientra in questo schema. Per questo motivo una rivoluzione scientifica non può nascere all'interno della scienza normale.

Ogni rivoluzione scientifica ha necessariamente implicato l'abbandono di una teoria fino a quel momento prevalente, come dimostrano gli esempi di Copernico e Newton, le grandi trasformazioni della chimica, Maxwelled Einstein. È plausibile che

trasformazioni radicali di tale portata incontrino resistenze ed opposizioni, le quali non riescono comunque ad arrestare il cammino della scienza.

111 KARL POPPER (1974) La storia della scienza non è caratterizzata da una serie di teorie dominanti, così come non esiste un "paradigma" in ogni campo scientifico.

Kuhn e coloro che accettano la tesi del relativismo identificano la razionalità della scienza con l'assunzione di un quadro comune, con certi fondamenti e un proprio linguaggio. Ritengono impossibile una discussione critica e un confronto fra quadri differenti.

In realtà la discussione veramente critica, anche se difficile, è quella che avviene fra quadri diversi: ed è la più fruttuosa, è quella che ha stimolato le più grandi rivoluzioni intellettuali, spingendo verso ciò che è l'autentico scopo della conoscenza scientifica, ossia avvicinarsi sempre di più alla verità.

Sebbene trovi molto importante la scopetta di Kuhn di ciò che chiama scienza "normale'', non sono d'accordo che la storia della scienza comprovi la sua dottrina che "normalmente" abbiamo una teoria dominante - un "paradigma" - in ogni campo scientifico, e che la storia di una scienza consista di una successione di teorie dominanti con periodi intermedi rivoluzionari di "scienza straordinaria": i periodi che Kuhn descrive come se la comunicazione tra scienziati si fosse interrotta per l'assenza di una teoria dominante. [... ] Credo che la scienza sia essenzialmente critica; che consista di congetture ardite, controllate dalla critica, e che possa essere quindi descritta come rivoluzionaria. Ma ho sempre sottolineato il bisogno di un po' di dogmatismo: lo scienziato dogmatico ha un importante ruolo da svolgere. Se ci arrendiamo troppo facilmente alla critica non troveremo mai dove sta il reale potere delle nostre teorie. Ma questo tipo di dogmatismo non è quello che vuole Kuhn. Egli crede al prevalere di un dogma dominante per periodi lunghi e non crede che il metodo della scienza sia, normalmente, quello delle congetture ardite e della critica. [... ] Kuhn suggerisce che la razionalità della scienza presuppone l'accettazione di un quadro comune. Suggerisce che la razionalità dipenda da qualcosa di simile a un linguaggio comune e a un insieme comune di assunzioni. Suggerisce che la discussione razionale e la critica razionale siano possibili solo se abbiamo convenuto sui fondamenti. Questa è una tesi largamente accettata e anzi di moda: la tesi del relativismo. [... ] Considero sbagliata questa tesi. Ammetto, ovviamente, che a volte è più facile discutere "rompicapo" entro un quadro comune accettato ed essere trasportati dalla marea di una nuova moda dominante in un nuovo quadro, che discute i fondamenti - cioè proprio l'intelaiatura dei nostri assunti. Ma la tesi relativistica che il quadro concettuale non può essere criticamente discusso è una tesi che può essere criticamente discussa e che non resiste alla critica. Ho battezzato questa tesi il mito del quadro e l'ho discussa in varie occasioni. La considero un errore logico e filosofico. [... ] Il punto centrale è che una discussione critica e un confronto dei vari quadri è sempre possibile. È solo un dogma, un dogma pericoloso quello secondo cui i diversi quadri concettuali sono come lingue reciprocamente intraducibili. [... ] Il mito del quadro è, nel nostro tempo, il baluardo centrale dell'irrazionalismo. La mia controtesi è che esso semplicemente esagera una difficoltà facendola divenire un'impossibilità. Si deve ammettere la difficoltà di discussione tra gente educata in diversi quadri. Ma niente è più fruttuoso di una tale discussione, dell'urto di culture diverse che ha stimolato alcune delle più grandi rivoluzioni intellettuali. Ammetto che una rivoluzione intellettuale spesso possa sembrare una conversione religiosa. Una nuova intuizione può colpirci come un colpo di fulmine. Ma questo non significa che non possiamo valutare, criticamente e razionalmente, le nostre opinioni precedenti alla luce delle nuove [. .. ]. Così nella scienza, diversamente che nella teologia, è sempre possibile un confronto critico delle teorie rivali, dei quadri rivali. E negare questa possibilità è un errore. Nella scienza (e solo nella scienza) possiamo dire di aver fatto un autentico progresso: sappiamo più di quanto sapevamo prima. [... ] In realtà, come spiegai altrove, la "conoscenza scientifica" può essere considerata come senza soggetto. Può essere considerata come un sistema di teorie su cui noi lavoriamo come lavorano i muratori su una cattedrale. Lo scopo è di trovare teorie che, alla luce della discussione critica, si avvicinino il più possibile alla verità. Così lo scopo è l'aumento di contenuto di verità delle nostre teorie. In AA.VV., Critica e crescita della conoscenza, a cura di G. Giorello, Milano, Feltrinelli, 1980, pp. 122-128.

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THOMAS SAMUEL KUHN (1962) Vi sono ragioni intri1~seche perché l'assimilazione di un nuovo genere di fenomeni o di una nuova teoria scientifica debba richiedere l'abbandono di un vecchio paradigma? Si noti innanzitutto che se simili ragioni esistono, esse non derivano dalla struttura logica della conoscenza scientifica. In linea di principio, un fenomeno nuovo può manifestarsi senza avere conseguenze distruttive su nessuna parte della pratica scientifica corrente. Sebbene la scoperta della vita sulla luna avrebbe oggi conseguenze distruttive per alcuni paradigmi esistenti (questi ci dicono, riguardo alla luna, cose che sembrano incompatibili con l'esistenza della vita lassù), la scoperta della vita in qualche parte meno nota della galassia non avrebbe conseguenze di analoga portata. Per la stessa ragione, una nuova teoria non deve necessariamente venire in conflitto con quelle che l'hanno preceduta. Essa può avere a che fare esclusivamente con fenomeni che non erano noti in precedenza, come la teoria quantistica ha a che fare (ma non esclusivamente; e ciò è significativo) con fenomeni subatomici sconosciuti prima del XX secolo. O ancora, la nuova teoria può semplicemente trovarsi a un livello superiore rispetto alle teorie conosciute in precedenza, a un livello che le permette di collegare un intero gruppo di teorie del livello inferiore senza mutarne sostanzialmente nessuna. Oggi, la teoria della conservazione dell'energia fornisce un collegamento di questo genere tra la dinamica, la chimica, l'elettricità, l'ottica, la teoria del calore, e cosl via. Possono essere immaginati anche altri tipi di rapporti compatibili tra teorie vecchie e nuove. Di ognuno di essi potrebbero essere trovati degli esempi nel processo storico attraverso cui la scienza si è sviluppata. Se ciò fosse possibile, lo sviluppo scientifico avrebbe una natura genuinamente cumulativa. I fenomeni di tipo nuovo non farebbero che rivelare un ordine nei settori della natura che non erano ancora stati esplorati ed etichettati. Nello sviluppo della scienza, una nuova conoscenza verrebbe a sostituire l'ignoranza piuttosto che una conoscenza già presente, ma di tipo diverso e incompatibile. Naturalmente la scienza (o qualche altro complesso di attività magari meno efficace) potrebbe essersi sviluppata secondo questo schema, e cioè in modo completamente cumulativo. Molti hanno creduto che ciò corrisponda alla realtà e moltissime persone sembrano ancora convinte che l'accumulazione è quanto meno l'ideale che lo sviluppo storico avrebbe presentato se esso non fosse stato così spesso distorto dall'idiosincrasia umana. [... ]. Tuttavia, nonostante la straordinaria plausibilità di un simile modello ideale, vi sono ragioni sempre più forti per dubitare che esso possa corrispondere al concetto di scienza. Dopo il periodo preparadigmatico, l'assimilazione di tutte le nuove teorie e di quasi tutti i fenomeni di nuovo genere ha richiesto di fatto la distruzione di un paradigma esistente e di conseguenza ha provocato un conflitto tra scuole scientifiche awerse. L'acquisizione cumulativa di novità inaspettate risulta essere una eccezione alla regola dello sviluppo scientifico che non si verifica quasi mai. Allora, negli studiosi che prendono sul serio i fatti storici nasce il sospetto che la scienza non tende verso il modello costruito in base alla nostra immagine della sua natura cumulativa. Forse si tratta di un fenomeno del tutto diverso. Se però siamo giunti a questa conclusione osservando i fatti che si oppongono a tale immagine, allora una seconda occhiata rivolta al campo che abbiamo esaminato può convincerci che l'acquisizione cumulativa di novità è non solo rara di fatto, ma anche teoricamente improbabile. La ricerca normale, che è cumulativa, deve il proprio successo alla abilità degli scienziati nello scegliere regolarmente problemi che possono venire risolti con tecniche concettuali e strumentali strettamente connesse con quelle che già esistono. La struttura delle rivoluzioni scientifiche, cit., pp. 122-124.

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Se l'affermarsi di una nuova teoria scientifica comporta l'abbandono di un vecchio paradigma, la causa non risiede nella struttura logica della conoscenza scientifica. Per questo stesso motivo non necessariamente ci deve essere conflitto tra teorie vecchie e nuove.

Tuttavia la storia del progresso scientifico dimostra che le nuove teorie hanno di fatto richiesto la distruzione del paradigma precedente, provocando un conflitto tra scuole scientifiche avverse. Solo la ricerca "normale" è cumulativa e si verifica quando gli scienziati si occupano di problemi che possono essere risolti con strutture concettuali riconducibili al paradigma vigente.

121 BERNARD D'ESPAGNAT (1982) Non sempre un paradigma precedente viene completamente sostituito da quello di più recente scoperta. Alcuni risultati raggiunti dalla scienza valgono quindi eternamente.

Dire che la scienza è cumulativa non significa sostenere che essa si limiti ad una mera addizione di conoscenze. Ed è sbagliato sottovalutare il ruolo che la "scienza normale" svolge all'interno de/cammino scientifico, ossia quello di mettere alla prova un paradigma fino al suo limite.

La teoria dei paradigmi non deve creare false illusioni: i paesi in via di sviluppo non possono servirsi dei loro paradigmi per competere con lo sviluppo tecnicoscientifico de/l'Occidente.

Storico delle idee, Kuhn parte dalla constatazione che il regime secondo cui la scienza si evolve non è costante. In periodi talvolta lunghi, la scienza (Kuhn parla allora di "scienza normale") limita le sue ambizioni allo studio delle implicazioni di un sistema di idee date rivelatosi interessante e fecondo. Ma di tanto in tanto sopraggiunge una vasta messa in discussione, ed il sistema di idee fino ad allora ritenuto buono cede il posto ad un altro considerato migliore. Tali awenimenti sono chiamati da Kuhn "rivoluzioni scientifiche" e, schematicamente, si può dire che Kuhn chiama "paradigmi" i sistemi di idee che mettono in campo. L'esempio più celebre di tali cambiamenti di paradigma è, facilmente si indovina, il passaggio dal geocentrismo all'eliocentrismo. Ma Kuhn ricorda ugualmente a questo titolo il passaggio dall'ottica corpuscolare di Newton all'ottica ondulatoria di Young e di Fresnel come il passaggio da quest'ultima all'ottica quantistica, lo stadio attuale della disciplina, che caratterizza l'idea di fotone. [ ... ] Se, d'altra parte, i paradigmi durano solo temporaneamente, dipende dal fatto che sono fondati su modelli, a loro volta basati su concetti e che nessun modello è perfetto perché nessun concetto è veramente adatto alla realtà in sé. Ma un punto essenziale, che Kuhn non ha visto ed i suoi epigoni ancor meno, è che al momento di una rivoluzione scientifica, più ancora che al momento di una rivoluzione politica, permane qualche cosa delle idee antiche. È esatto almeno quando si tratta di scienze avanzate. In fisica, per esempio, restano, è importante ed anche capitale, le equazioni. Comprendiamo male come Kuhn, che conosce la fisica, abbia potuto suggerire che il passaggio dall'elettromagnetismo ondulatorio di Maxwell all'elettromagnetismo quantistico sia stato un vero rimpiazzo, implicante l'abbandono totale del primo di questi "paradigmi": perché, in verità, cosa potremmo fare senza le equazioni di Maxwell? Nessun fisico, anche "quantistico", andrà a dire che sono sorpassate. Così Kuhn sbaglia, a mio avviso, quando afferma che la scienza non è cumulativa. Lo è, ma in un modo, è vero, molto più sottile di quello consistente nella semplice addizione, nel corso del tempo, delle conoscenze. Allo stesso modo Kuhn ha torto, sempre a mio awiso, a caratterizzare ad un certo livello la "scienza normale" in un modo peggiorativo. Certamente essa è proprio, in effetti, un tentativo ostinato per render conto dei fenomeni sulla base del paradigma allora acquisito. Ma questa attività, lontano dall'esser vana, è necessaria. Essa sola di fatto permette di mettere alla prova il paradigma fino ai suoi limiti: e, d'altra parte, i suoi risultati, quando si concretizzano in equazioni, restano veri "eternamente". Per tutte queste ragioni gli scienziati possono, io credo, rassicurarsi: la scienza non è un semplice fatto sociale relativo ad un'epoca e ad una cultura dati. In cambio i non-scienziati non devono nutrire speranze sconsiderate sulla concezione paradigmatica. Qualche tempo fa una personalità del terzo mondo, dispiacendosi (a buon diritto) che sul piano scientifico-tecnico il suo paese fosse "a rimorchio" dell'Occidente, esprimeva alla radio questa speranza. Secondo lui i paesi in via di sviluppo potrebbero grazie ai loro propri particolari paradigmi costruire sostituti alla scienza cosiddetta occidentale da cui potrebbero derivare tecniche rivaleggianti con quelle che noi pratichiamo. Bisogna, credo, dissipare tali vane speranze: se una società qualsiasi si propone di produrre strumenti che permettano di realizzare, diciamo, la televisione, essa dovrà, a simiglianza di quella giapponese, passare per lo studio delle equazioni di Maxwell ... o inventare altri metodi anch'essi basati su conoscenze di fisica ancor più recenti e complesse. Né la filosofia indiana, né la negritudine, né l'islam, tutti valori tuttavia essenziali, possono, in ciò, servire da sostituti. Un atomo di saggezza, trad. di F. Lepore, Firenze, Hopefulmonster, 1987, pp. 135-138.

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GIULIO PRETI (1968) Contro una cosa devo qui, subito, chiaramente e decisamente protestare: contro l'identificazione della scienza con la tecnica - contro questa colpevole, ignobile, castrazione della scienza e del suo altissimo significato teoretico. La scienza è conoscenza: forse nell'unico senso possibile di questa parola. La scienza è visione, o costruzione, del mondo[ ... ]. Che essa sia suscettibile di molte e importanti applicazioni tecniche, che sia un importantissimo, e l'unico sicuro, strumento di instaurazione del regnum hominz's, è un fatto indiscutibile; ma ciò non autorizza a ridurne il significato a quello banausico della tecnica. [ .. .] Dal punto di vista del realismo del senso comune basterebbe osservare che se la scienza "serve", e serve in maniera cosl sistematica e sicura, è perché è vera: il suo successo pratico è, in fondo, la verificazione fattuale, sperimentale, delle sue ipotesi. Da un punto di vista più elaborato, possiamo dire che in essa è fondamentale la nozione di "verità", di cui un momento è costituito dalla verificazione sperimentale: una tale verificazione è tale solo entro un complesso apparato teorico, di simboli e concetti astratti. Retorica e logica. Le due culture, Torino, Einaudi, 1974, p. 17.

PAUL DAVIES (2000) Penso che, spesso, si tenda ad equiparare scienza e tecnologia. [... ] Il mio fine è sempre stato capire come funziona il mondo e qual è il suo significato. E credo sia questo un uso molto nobile della scienza. Ma esiste anche la scienza come fondamento della tecnologia. Come ho già avuto modo di spiegare, non credo che possiamo fare a meno della tecnologia. La tecnologia non è intrinsecamente buona o cattiva, è buona o cattiva a seconda dell'uso che ne vien fatto. Molti cercano di giustificare il fatto di fare scienza in base ai suoi risultati tecnologici. Secondo me la scienza è veramente un'impresa più profonda. Essa è per sua natura fondamentalmente culturale. È da porre accanto alle arti, ed è qualcosa che vale la pena di fare per se stessa. Ma ovviamente la scienza è costosa, deve pagare un prezzo per il proprio sviluppo e lo fa attraverso i suoi prodotti tecnologici. Ma è nell'era della tecnologia e non in quella della scienza come tale che si nascondono i pericoli. La scienza è semplicemente un nobile cammino verso la conoscenza. Invece, la scienza, in quanto strumento di creazione della tecnologia, è pericolosa: per questo dobbiamo non già arrestarci, ma essere consapevoli dei suoi pericoli e creare le istituzioni e la regolamentazione adatta per esser sicuri che essa non sfugga mai al controllo. Credo sia finita ormai da molto tempo l'epoca in cui gli scienziati potevano permettersi di dire semplicemente che era colpa dei politici. Una volta fatta una scoperta scientifica è inevitabile che prima o poi qualcuno voglia sfruttarla. Il problema è che non possiamo sapere in anticipo quale filone della ricerca probabilmente si dimostrerà pericoloso e quale invece benefico. Ora io non credo che possiamo tornare sui nostri passi. Coloro che vedono nella scienza puramente qualcosa di funesto e che vorrebbero in qualche modo tornare all'epoca medioevale, alla società pre-tecnologica, sono in grave errore, sono fuori strada. Ormai è troppo tardi, non possiamo fare a meno della scienza, dipendiamo dalla scienza e dalla tecnologia in talmente tanti modi per la nostra esistenza che siamo costretti ad accettarla, nel bene e nel male. Io credo sia giunto il momento quindi per gli scienziati stessi di comportarsi come poliziotti rispetto alle proprie scoperte. Non disponiamo ancora di istituzioni che svolgano questo compito, anche se se ne intravede l'inizio, ad esempio nell'area della biotecnologia, nel modo in cui gli scienziati si autodisciplinano al fine di non creare mostri che verrebbero poi abbandonati, finendo al di là di ogni controllo e minacciando le nostre vite. Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche.

A questo punto, indipendente-

mente dal fotto che l'osservazione dell'eclisse solare abbia o non abbia successo, mi l'itengo soddisfatto, e non dubito pili cleJla v.aliditù di tutto il siste-

ma: fo fondatezza de11a cosa è fin troppo evidente. ALBERT EINSTEIN, in Lei/era n Mù:hclc Besro, 1924.

Non è possibile identificare la scienza con la tecnica. Il fatto che essa, come accade, possa trovare applicazioni pratiche, non comporta affatto che debba venir ridotta ad un'arte esclusivamente manuale o, peggio ancora, a qualcosa di utilitaristico. Il possibile uso pratico della scienza dipende proprio dal suo carattere di verità.

Non si può valutare la scienza in base ai suoi risultati tecnologici. Essa è qualcosa di nobile e di "alto", se conserva la sua autonomia. Se si fa strumento di creazione delta tecnologia, può invece diventare pericolosa. Tuttavia oggi non possiamo fare a meno della scienza e delta tecnologia, anzi ne siamo diventati dipendenti: non potendo tornare indietro, l'umanità deve affidarsi agli scienziati e a eventuali istituzioni che sappiano attuare un controllo rigido suite scoperte scientifiche e suite loro possibili applicazioni.

131 EDMUND HUSSERL (1954 POSTU.MA) L'uomo dell'era industria/e si è /asciato abbagliare dall'idea di un · benessere facilmente raggiungibile, perdendo di vista /'autentico valore conoscitivo delle scienze.

La scienza, ridotta a mera scienza di fatti, non ha più nulla da dirci rispetto ai problemi del/'esistenza umana.

Adottiamo come punto di partenza il rivolgimento, avvenuto allo scadere del secolo scorso, nella valutazione generale delle scienze. Esso non investe la loro scientificità bensl ciò che esse, le scienze in generale, hanno significato e possono significare per 1' esistenza umana. L'esclusività con cui, nella seconda metà del XIX secolo, la visione del mondo complessiva dell'uomo moderno accettò di venir determinata dalle scienze positive e con cui si lasciò abbagliare dalla "prosperity" che ne derivava, significò un allontanamento da quei problemi che sono decisivi per un'umanità autentica. Le mere scienze di fatti creano meri uomini di fatto. Il rivolgimento dell'atteggiamento generale del pubblico fu inevitabile, specialmente dopo la guerra, e sappiamo che nella più recente generazione esso si è trasformato in uno stato d'animo ostile. Nella miseria della nostra vita - si sente dire - questa scienza non ha niente da dirci. Essa esclude di principio proprio quei problemi che sono i più scottanti per l'uomo, il quale, nei nostri tempi tormentati, si sente in balla del destino; i problemi del senso o del non-senso dell'esistenza umana nel suo complesso. Questi problemi, nella loro generalità e nella loro necessità, non esigono forse, per tutti gli uomini, anche considerazioni generali e una soluzione razionalmente fondata? In definitiva essi concernono l'uomo nel suo comportamento di fronte al mondo circostante umano ed extra-umano, l'uomo che deve liberamente scegliere, l'uomo che è libero di plasmare razionalmente se stesso e il mondo che lo circonda. Che cos'ha da dire questa scienza sulla ragione e sulla non-ragione, che cos'ha da dire su noi uomini in quanto soggetti di questa libertà? Ovviamente, la mera scienza di fatti non ha nulla da dirci a questo proposito: essa astrae appunto da qualsiasi soggetto. La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, trad. di E. Filippini, Milano, Il Saggiatore, 1961, pp. 35-36.

HERBERT MARCUSE (1964) La scienza ha "soppresso" la materialità della natura, nel senso che l'ha ridotta ad un semplice oggetto di quantificazione e di manipolazione.

L'aspetto tecnicopratico ha finito per prenderei/ sopravvento riducendo la scienza a un puro fatto tecnologico.

Una più stretta relazione sembra prevalere tra il pensiero scientifico e la sua applicazione, tra l'universo del discorso scientifico e quello del discorso e del comportamento ordinari - relazione che appare sussumere entrambi sotto la medesima logica e razionalità del dominio. In uno sviluppo paradossale gli sforzi scientifici intesi ad affermare la rigida oggettività della natura hanno condotto a sopprimere in misura crescente la materialità della natura: «L'idea di una natura infinita esistente come tale, questa idea alla quale dobbiamo rinunciare, è il mito della scienza moderna. La scienza è partita distruggendo il mito del medioevo. Ed ora la scienza è costretta, dalla sua interna coerenza, a riconoscere di aver semplicemente creato µn mito al posto di un altro 1». Il processo che comincia con l'eliminazione delle sostanze indipendenti e delle cause finali perviene infine alla concezione dell'oggettività. Ma questa è una concezione altamente specifica, in cui loggetto si costituisce in una relazione affatto pratica con il soggetto. «E che cosa è la materia? Nella fisica atomica, la materia è definita dalle sue possibili reazioni agli esperimenti umani, e dalle leggi matematiche - cioè intellettuali - alle quali obbedisce. Noi definiamo la materia come un oggetto di possibili manipolazioni umane2 ». Ma se cosl stan le cose, allora la scienza è diventata in sé un fatto tecnologico. 1) C.F. Von Weizsacker, The History o/ Nature, Chicago, University of Chicago Press, 1949, p. 71. 2) C.F. Von Weizsacker, op. cit., p. 142.

Uuomo a una dimensione. Uideologia della società industriale avanzata, trad. di L. Gallino e T. Giani Gallino, Torino, Einaudi, 1967, pp. 168-169.

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JOHN B. S. HALDANE (1924) A me sembra che l'interesse sentimentale attribuito a Prometeo abbia ingiustamente distratto la nostra attenzione dalla figura molto più interessante di Dedalo. E con infinito sollievo che lo studioso di mitologia greca trova in mezzo a un mucchio di eroi armati di teste di gorgone o protetti da battesimi stigi, il primo uomo moderno. Avendo cominciato come scultore realista, era naturale che passasse alla costruzione di un'immagine di Afrodite i cui arti erano resi mobili dal mercurio. Dopo quest'esperienza egli diresse il suo interesse verso problemi biologici, e si può affermare senza timore di smentita che i posteri non hanno mai uguagliato l'unica impresa coronata da successo di cui ha lasciato testimonianza nel campo della genetica sperimentale. Se l'alloggiamento e l'alimentazione del Minotamo fossero stati meno costosi, è probabile che Dedalo avrebbe anticipato Mendel. Ma Minosse ritenne che un labirinto e un approvvigionamento annuale di cinquanta giovani e cinquanta vergini fossero eccessivi come contributo alla ricerca, e per sfuggire al suo crudele economicismo Dedalo fu costretto a inventare l'arte del volo. Minosse lo inseguì fino in Sicilia, e lì fu trucidato. A parte la preziosa invenzione della colla, di Dedalo si sa poco di più. Ma è molto significativo che, sebbene fosse responsabile della morte del figlio di Zeus - Minosse-, non venisse né colpito da un fulmine, né incatenato a una roccia, né inseguito dalle Furie. E i numerosi visitatori dell'Ade non lo ritrovarono né nell'Elisio né nel Tartaro. È difficile immaginarlo in mezzo alla moltitudine di ombre che stringevano d'assedio il traghetto di Caronte come pecore davanti a un burrone. Fu il primo che dimostrò che lo scienziato non si preoccupa degli dei. [... ] Ma se sfuggì alla vendetta degli dei, fu tuttavia esposto al biasimo universale ed eterno di un'umanità che trova disgustose le invenzioni biologiche, con un'eccezione molto significativa. Socrate era orgoglioso di rivendicarlo come proprio antenato. [... ] Penso che il numero dei Darwin crescerà man mano che ci si renderà conto che, più di tutti gli altri campi, la scienza non solo concede più spazi alla ragione, ma che con la scienza si può cambiare il mondo anche più che con la politica, la filosofia o la letteratura. Sono persone a cui interessa anzitutto la verità in quanto tale ma che non possono ignorare quello che succederà quando lanceranno i loro denti di drago al mondo. Non sto dicendo che i biologi cerchino normalmente di rappresentarsi nel dettaglio le future applicazioni della scienza che coltivano. I problemi essenziali del1' esistenza per loro possono essere il rapporto tra gli echinodermi e i brachiopodi, e come vivere del proprio stipendio. [... ] Naturalmente non ha senso avanzare profezie troppo precise su come la conoscenza scientifica rivoluzionerà la vita umana nei dettagli, ma credo che continuerà a farlo. [... ] Per riassumere, la scienza è ancora in uno stadio iniziale, ed è poco quello che si può prevedere sul futuro tranne che ciò che non è stato sarà: che nessuna credenza, nessun valore, nessuna istituzione sono al sicuro. Lungi dall'essere un fenomeno isolato, l'ultima guerra è soltanto un esempio delle conseguenze distruttive che ci si possono sempre aspettare dal progresso della scienza. Il futuro non sarà la via del piacere: presenterà i suoi problemi. Alcuni saranno i problemi secolari del passato, giganteschi fiori del male che sbocceranno fino alla distruzione. Altri saranno completamente nuovi. Impossibile dire se l'uopio sopravviverà all'incremento del suo potere. Ma il problema non è nuovo. E il vecchio paradosso della libertà rimesso in scena con l'uomo come attore e la Terra per palcoscenico. [... ] Lo scienziato del futuro assomiglierà sempre più alla figura solitaria di Dedalo man mano che si renderà conto della sua missione spaventosa e se ne sentirà orgoglioso. Dedalo o la scienza del futuro. Icaro o il futuro della scienza, trad. di V. Camporesi, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, pp. 21-39.

Scegliere Dedalo significa affermare l'orgoglio e l'ottimismo dello scienziato sulla possibilità che la scienza contribuisca a migliorare il mondo.

Il progresso scientifico ha aumentato enormemente il potere dell'uomo sulle cose, ha rivoluzionato la sua vita e continuerà a farlo. Questo processo non è però esente da rischi.

L'importante è che lo scienziato sia consapevole del rischio delle sue scoperte, anche se allo stesso tempo deve esserne orgoglioso.

BERTRAND RUSSELL (1924) Scegliendo Icaro, lo scienziato mostra tutti i suoi timori e i suoi dubbi sul fatto che il progresso della scienza sia in ogni caso positivo per l'umanità.

La scienza avrebbe effetti benefici se l'uomo fosse un essere razionale, e non una "miscela di passioni ed istinti".

Solo se gli uomini si comportassero razionalmente, nell'ambito scientifico come in quello politico, il potere che la scienza ha fornito all'uomo sulla natura potrebbe essere controllato e potrebbe aprire prospettive reali di benessere.

Il Dedalo di Haldane presenta un quadro attraente del futuro che ci potrebbe attendere se utilizzassimo le scoperte scientifiche per promuovere la felicità umana. Mi piacerebbe sottoscrivere le sue previsioni, ma purtroppo una lunga esperienza dell'operato degli statisti e dei governi mi ha reso scettico. Mi trovo dunque costretto a temere che la scienza venga usata per promuovere il potere dei gruppi dominanti piuttosto che per rende1·e felici gli uomini. Icaro, che imparò a volare da suo padre Dedalo, fu rovinato dalla sua avventatezza. Temo che il medesimo destino attenda i popoli ai quali i moderni uomini di scienza hanno insegnato a volare. [. .. ] I cambiamenti che sono stati introdotti sono stati in parte positivi, in parte negativi; il problema se, alla fine, la scienza si dimostrerà una benedizione o una maledizione per l'umanità è, secondo me, una questione ancora aperta. [. .. ] Prima di tutto, un'osservazione generale. La scienza ha aumentato il controllo dell'uomo sulla natura, cosa da cui si potrebbe ragionevolmente dedurre che abbia anche accresciuto la felicità e il benessere. Questo accadrebbe se gli uomini fossero esseri razionali, ma in realtà non sono che una miscela di passioni e istinti. Una specie animale in un ambiente stabile, se non si estingue, giunge all'equilibrio tra le proprie passioni e le condizioni di vita. Se queste condizioni vengono improvvisamente alterate, l'equilibrio viene sconvolto. I lupi allo stato di natura hanno difficoltà a procurarsi il cibo e hanno quindi bisogno dello stimolo di un appetito insistente. Come conseguenza di questo i loro discendenti, i cani domestici, tendono a mangiare eccessivamente se li si lascia a se stessi. Quando si ha bisogno di una certa quantità di un elemento e si riduce la difficoltà di ottenerlo, l'istinto indurrà normalmente gli animali a comportamenti che nelle nuove circostanze sono eccessivi. L'improvviso mutamento prodotto dalla scienza ha sconvolto l'equilibrio tra i nostri istinti e le circostanze in cui viviamo, ma in direzioni cui non si è prestato sufficiente attenzione. Una alimentazione sovrabbondante non costituisce un problema serio, ma un eccesso di disponibilità alla lotta sì. L'istinto che spinge l'uomo alla ricerca del potere e della competizione, come la fame sproporzionata del cane, dovrà essere limitato artificialmente se si vuole che l'industrialismo abbia successo. [... ] Gli uomini a volte parlano come se il progresso della scienza dovesse essere per forza un bene per l'umanità. Si tratta, temo, di una delle comode illusioni ottocentesche che la nostra epoca più scettica deve rifiutare. La scienza permette a chi detiene il potere di realizzare i propri obiettivi più compiutamente di quanto altrimenti non potrebbe fare. Se gli obiettivi dei dominanti sono buoni, ne risulta un beneficio, se sono cattivi, una perdita. Nell'epoca presente si ha l'impressione che gli obiettivi dei detentori del potere siano solitamente cattivi, nel senso che implicano una diminuzione, nel mondo intero, delle cose che gli uomini sono concordi nel giudicare positive. Oggi come oggi, dunque, la scienza arreca danno aumentando il potere dei governanti. La scienza non è un sostituto della virtù. Il cuore è altrettanto necessario della testa per vivere un'esistenza positiva. Se gli uomini si comportassero razionalmente, cioè se agissero nel modo che con maggior probabilità produce i risultati che consciamente desiderano, l'intelligenza da sola trasformerebbe il mondo in una specie di paradiso. [. ..] Con "cuore" intendo, per il momento, la somma totale degli impulsi benevoli. Là dove questi esistono, la scienza li rende più efficaci. Ma se sono assenti la scienza serve solo a rendere gli uomini più astutamente diabolici. Dedalo o la scienza del futuro. Icaro o il futuro della scienza, cit., pp. 43-64.

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INTRODUZIONE Il termine vita (in greco bios, in latino vita), e il concetto cui esso rimanda, ha una molteplicità di significati in relazione agli ambz'ti in cui viene usato e alle diverse angolature rispetto alle quali il problema della vita, della sua origine e del suo sviluppo viene affrontato. In generale con il termine vita si designano ifenomeni che caratterizzano gli esseri che si riproducono, crescono e si muovono autonomamente. Nella riflessione filosofica; al di là delle specificazioni più articolate, si possono individuare due Jpiegazioni opposte sulla vita: la teoria meccanica, secondo la quale zfenomeni viventi sono rz'ducibili a leggi fisico-chimiche e la coscienza stessa è una proprietà della materia; e la teoria dinamica, che considera la vita come un principio metafisico dotato di una forza originaria e spontanea, irriducibile alle leggi meccaniche. Per i primi filosofi greci la vita è una determinazione di tutta la realtà naturale e la materia, in quanto dinamica, reca in sé il principio del divenire (ilozoismo o animismo); più tardi la vz'ta è vista come l'attività spontanea che si identifica con il principio di autoproduzione, che nell'uomo coincide con lo spirito, in quanto soffio vitale o anima. In tal senso si esprime Platone (427-347 a.C.) che concepz'sce la vita come anima, perché dotata della capacità di muoversi da sé. È ad Aristotele (384-322 a. C.), comunque, che si deve la prima chiara dz'stinzione fra viventi e non viventi; attraverso la definizione della vita come movimento non comunicato e immanente. Nella sfera religiosa, con il crz'stianesimo, la vita spirituale assume un valore determinante in opposizione a quella terrena: l'anima, come principio vitale, partecipa del!' eternità. La prima e la più ovvia domanda sulla vita è quella che riguarda la sua origine sulla terra. Il Genesi* indica la certezza creazionista che sta alla base della concezione ebraico-cristiana, secondo la quale il passaggio dal nulla alt' essere avviene attraverso un volontario atto divino. Nel pensiero greco antico (in cui è assente il concetto di creazione) il problema si colloca all'interno della più ampia questione cosmologica: i primi filosofi che hanno ricercato il principio del mondo hanno posto interrogativi anche sulla vita, talvolta con intuizioni davvero sorprendenti. Già Talete, nell'indicare l'acqua come l'arché, ne aveva fatto un principio animato, vivente, da cui scaturiva tutta la molteplicità del reale. Sulle sue orme Anassimandro* (610/609-5471546 a.C.) ipotizza una sorta di processo evolutivo, secondo il quale gli essen' viventi nascono dal fango marino e l'uomo si sviluppa nel mare dai pesci. Anassimandro sostiene tuttavia che il primo principio non può essere un elemento

determinato e avere le stesse caratteristiche delle cose che da esso derivano; deve essere pensato come illimitato, indeterminato, come iipeiron (a, senza + péras, limz'te), una mescolanza da cui si generano tutte le cose e a cui tutte ritornano: nascere significa separarsene, morire dissolversi in esso e ritornare all'unità originaria. Per Empedocle* (484/ 481- 424/421 a.C.) non si può parlare di nascita e morte in senso assoluto: si tratta invece del!' unirsi e del dividersi di quattro elementi originari; indistruttibili; immutabili; dette radici (l'aria, l'acqua, la terra e il fuoco), la cui mescolanza dà origine a tutte le cose, sotto la spinta di due forze cosmiche opposte, di attrazione e repulsione, Amore e Odio. I.:attribuzione di una funzione dinamica a due forze separate dagli elementi/a st' che Empedocle superi l'ilozoismo proprio dei primi filosofi. Lo scontro fra l'Odio e l'Amore produce un ritmo perenne di processi ciclici, secondo cui la fase di dominio assoluto dell'Amore, in cui gli elementi sono uniti (Sfera) e la fase in cui predomina l'Odio, con una frammentazione generale, sono intervallate da due fasi intermedie in cui i due prindpi sono in equilibrio ed è possibile la vita. La vita ha una storia del tutto casuale: dopo l'irruzione dell'Odio nello Sfera, vagano membra sparse e disgregate, che cominciano gradualmente a ricongiungersi dando origine a forme di ogni tipo. Gli esseri viventi che ora conosciamo sono il risultato di una sorta di selezione naturale dovuta all'adattamento all'ambiente. Per l'atomista Democrito* (460 ca.-370 ca. a.C.) il mondo è il risultato del moto e del!' urto di corpuscoli materiali indivisibili (àtoma) immersi in uno spazio vuoto. Viene escluso ogni antropomorfismo, ogni "fine", tutto deve essere spiegato materialisticamente, anche la comparsa della vita e della coscienza. I.:anima stessa, principio di intelligenza, è corporea, vive e si alt'menta attraverso lo scambio con gli atomi ignei del!' aria, tramite la respirazione. La morte è la fuga degli atomi ignei che si disperdono nel!'aria. Nel!' età del Rinascimento, anche grazie ad un rinnovato interesse per gli autori classici; rifiorisce la concezione animistica, con filosofi come Pico della Mirandola, Telesio, Bruno e Campanella, mentre a partire dal XVII secolo si afferma piuttosto la concezione meccanica della vita. Il meccanicismo ammette come unici principi della realtà la materia e il movimento, escludendo qualsiasi/orma difinalismo: tutta la realtà è vista come una concatenazione di cause ed effetti e i fenomeni natural~ compresa la vita, sono prodotti dal movimento dei corpi nello spazio. René Descartes* [Cartesio] (1596-1650) e Thomas Hobbes (1588-1679) negano l'identificazione della vita con l'anima: ritengono che la materia corporea, a certi

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livelli di organizzazione, sia in grado di muoversi e svilupparsi da sola. Cartesio giunge a considerare gli animali, in cui esclude la presenza del pensiero, come automi semoventi, complicati ma riconducibili a meccanismi automatici. Nel!' età dell'Illuminismo il meccanicismo diventa il modello di spiegazione non solo della realtà naturale, ma anche di tutti i fenomeni psichici; in particolare con ]ulien Offroy de La Mettrie (1709-1751) e la sua teoria dell"'uomo-macchina". J;ipotesi meccanicistica, abbinata ai progressi negli studi della chimica, è al centro del pensiero di un biologo e filosofo contemporaneo ]acques Monod* (1910-1976). Per Monod gli esseri viventi sono macchine chimiche, che crescono in modo autonomo attraverso processi di reazioni. Il meccanicismo non è però condiviso da tutti i filosofi. Già Gottfried W. Leibniz* (1646-1716) si era contrapposto al meccanicismo cartesiano, sostenendo che i corpi possiedono una forza attiva, un'energia non riconducibile al movimento meccanico: in Leibniz la vita si identifi'ca con l'attività psichica e l'aspetto corporeo è un fenomeno della realtà spirituale. Lo stesso Immanuel Kant* (1724-1804) introduce nella Critica del Giudizio il giudizio teleologico fondato sul principio di finalità con la quale soltanto possono essere interpretati gli organismi viventi; non spiegabili attraverso il semplice principio di causalità efficiente e le leggi del meccanismo naturale. Kant infatti sostiene che non c'è ragione umana che possa sperare di comprendere secondo cause meccaniche la produzione di un solo filo d'erba. Contro la riduzione del vivente ai fenomeni meccanici, si ergono a partire dalla seconda metà del XVIII secolo le teorie vitalistiche, per le quali la vita è un elemento che non si può analizzare o quanti/z'care e va spiegato sulla base di una "forza vitale", che agisce come causa finale presente in ogni organismo. Il vitalismo in generale entra in crisi all'inizio dell'800, perché la scienza biologica lascia intravedere la possibilità di arrivare a composti organici partendo da sostanze inorganiche. Sono i progressi della biologia, il principio della conservazione del!' energia e la teoria darwiniana a mettere in discussione le teorie dei vitalisti;· questi, dal canto loro, reagiscono asserendo l'esistenza nel!'organismo di una "finalità primaria" non riducibile al!' ambiente e alla realtà esterna. Questo principio assume nomi diversi: "forza dominante" per il biologo ].Reinke (18941931), "forza vitale" per il biologo Claude Bernard (1813-1878), "entelechia" per il filosofo e biologo H. Driesch (1876-1941), "slancio vitale" per Henri Bergson* (1859-1941). Più specificatamente Bergson ricerca il principio generatore della materia nello slancio vitale, ma la materia inerte è la manifestazione del!' esaurimento di questa "forza", quando ha perso la sua energia

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creatrice. Quando invece lo slancio vitale mantiene la sua creatività, dà origine a realtà più complesse: il mondo vivente, la cui cifra specifica è l'istinto, e il mondo dello spirito, caratterizzato dall'intelligenza. Nel Settecento si erano intanto gettate le basi per l'affermazione della teoria evoluzionistica. Fra i protagonisti dell'acceso dibattito che si svolge fra creazionisti (che fanno riferimento alla Bibbia per l'origine della vita e la cronologia della Terra) e sostenitori del!' origine naturale della vita, troviamo scienziati che hanno inciso in modo decisivo sulla nascita della biologia moderna. È il caso del grande naturalista svedese Carl van Linné [Linneo] (1707-1778), cui dobbiamo il sistema classificatorio ancora oggi adottato, che aderisce al creazionismo e al fi'ssismo, asserendo l'immobilità delle specie e della struttura del mondo creato da Dio. Contrario al rigido schematismo classificatorio di Linneo, è invece G.L.L. Buffon (1707-1788) che contrappone una concezione dinamica e continuista della natura, sostenendo che l'universo è nato da una trasformazione e che i viventi sono modificati dal!' ambiente. Egli esclude qualsiasi ricorso a fattori metafisici, cercando di spiegare la vita in termini chimici; attraverso la teoria delle "molecole organiche", molecole indistruttibili e invariabili che hanno la tendenza a organizzarsi. Nella disputa intorno alla generazione si schiera a favore della generazione spontanea contro le tesi della preesistenza dei germi e della panspermia. Per secoli, infatti, la maggior parte degli studiosi dei sistemi viventi ha accolto la tesi della generatio aequivoca, la generazione spontanea, sostenendo la possibilità che i sistemi biologici, almeno i più semplici, si originino dalla materia priva di vita, da particolari sostanze inorganiche o da sostanze organiche in decomposizione. Questa teoria è prevalente nell'antichità classica, sostenuta, per fare qualche esempio, da Aristotele, Epicuro e Virgilio (che nelle Georgiche aveva descritto un metodo per ottenere api dal cadavere in putrefazione di un vitello), e permane per tutto il Medioevo e il Rinascimento. Viene messa in crisi dalla scienza moderna e dall'introduzione del metodo sperimentale, ma continua a trovare sostenitori fino a tutto il '700: il medico fi'ammingo ].B. van Helmont (1577-1644) afferma di aver ottenuto, in vt'a sperimentale, topi da stracci sudici e grano; il naturalista inglese]. T. Needham (17131781), dopo la scoperta di quelli che oggi noi chiamiamo protozoi, sostiene che gli organismi microscopici derivano dalla spontanea aggregazione di particelle che provengono da sostanze organiche messe in infusione. Il superamento della generatio aequivoca viene preparato da Francesco Redi (16261698), da Antonio Vallisneri (1661-1730) e da Lazzaro Spallanzani (1729-1799), ma la sua confuta-

zione definitiva si deve al chimico e biologo francese Louis Pasteur (1822-1859), che con esperimenti sul brodo di carne dimostra come i microrganismi non si sviluppino spontaneamente dal brodo, ma penetrino al suo interno dal!' ambiente circostante. Oggi la teoria della generazione spontanea sopravvive soltanto in relazione al problema delle origini della vita sulla terra. In tal senso l'abiogenesi, vale a dire la genesi delle forme viventi a partire da sistemi privi di vita, abiologici; sulla base di leggi fisico-chimiche, rimane una delle ipotesi più accreditate per spiegare l'origine della vita. Soprattutto Charles Darwin* (1809-1882) ha posto la questione con estrema chiarezza. Se gli animali e le piante derivano da esseri viventi più semplici; attraverso un lungo processo di adattamento e di selezione naturale, è inevitabile porsi il problema del passaggio dalla non vita alle sue forme organizzate più semplici. Dopo Darwin la contrapposizione fra creazionisti e non creazionisti è ancora più netta. Il creazionismo classico (Dio come creatore) viene rivisto in un quadro evoluzionistico da Bergson e più recentemente da Teilhard De Chardin* (18811955). Egli, pur all'interno di un principio evoluzionistico che coinvolge anche la realtà spirituale, si oppone al determinismo e al materialismo: la materia possiede come elemento organizzativo la "coscienza", perciò l'evoluzione è un processo finalistico che va dalla pre-vita alla vita ("biosfera") per tendere alla "noosfera", il mondo dell'uomo e il suo pensiero. E allora la vita è come un ingegnere che abilmente costruisce le sue forme, cosi' come fa l'uomo quando crea ed inventa. All'immagine dell'ingegnere si contrappone quella, suggestiva, del bricoleur di François ]acob* (1920). Per il biologo francese (che insieme a Jacques Monod, nel 1961 scopre che nel momento della riproduzione, le strutture delle macromolecole di DNA si trascrivono in quelle di un altro acido, il RNA) l'evoluzione sembra proprio l'opera di un bricoleur, che lavora con quello che trova a disposizione: le stranezze della natura ne sono una conferma. La seconda prospettiva è quella che ritiene che la vita abbia avuto un'origine naturale, passando dalla natura inorganica a quella organica. «Il problema dell'origine della vita non può essere risolto isolandolo dal processo di sviluppo della materia, che precedette quest'origine. La vita non è separata dal mondo inorganico da un abisso insormontabile: essa nacque come una qualità nuova nel corso dello sviluppo del mondo inorganico»: cast' recita Aleksandr I. Oparin* (1894-1980) al "Simposio sull'origine della vita" (Mosca, 1957). È questo il senso della rice.rca del biologo russo, il primo ad elaborare la teoria biochimica sull'origine della vita, alle cui stesse conclusioni arrivò fohn B. S. Haldane* (1892-1964). La teoria di Oparin è una

nuova ripresa della generazione spontanea, del tutto diversa da quelle tradizionali: un tipo di generazione che non è un atto di creazione o un rapido processo di aggregazione, ma un lungo percorso in un altrettanto lungo lasso temporale, risultato di una serie di eventi susseguentisi; uno presupponendo l'altro ed essendo la condizione del successivo: una lunga evoluzione chimica ha preceduto quella biologica. Nel "brodo primordiale", composto di acqua, idrogeno, metano e ammoniaca, si sono prodotti composti organici che hanno formato a loro volta molecole capaci di riprodursi e quindi unità viventi primitive, costituite dai coacervati (agglomerati proteici). Da qui un processo evolutivo, con la relativa selezione naturale. I.: abiogenesi (cast' si chiama la genesi della vita da sistemi che ne sono privi; cioè abiologici) è lo stesso risultato cui è pervenuto, per vie diverse e partendo da differenti presupposti; il biologo e genetista inglese Haldane. Egli analizza anche varie ipotesi teoriche circa l'origine della vita, e, pur abbracciando quella chimica, si sofferma sull'ipotesi della 11 panspermia"1 secondo cui semi vitali proverrebbero dall'universo. Di particolare interesse è la tesi della "panspermia guidata", il cui massimo esponente è Francis Crick* (1916), premio Nobel per la medicina per i suoi studi sul DNA. Questa teoria "esobiologica" si caratterizza per l'ipotesi del!' arrivo della vita, su una sorta di astronave, da un altro pianeta. Queste ipotesi; in ogni caso, devono essere inserite nel quadro più generale della teoria di Darwin sulla spiegazione biologica della trasformazione della specie che, insieme alla filosofia di Herbert Spencer* (1820-1903), elabora il "principio dell'evoluzione". Secondo Darwin la lotta per la vita, che gli individui di ciascuna specie affrontano, conduce ad una selezione naturale, secondo la quale sopravvivono solo gli individui più adatti; quelli più forti e più resistenti: solo questi si riproducono e trasmettono alle generazioni successive le proprie caratteristiche. In questo modo si spiega· anche l'origine della specie umana escludendo l'intervento creatore di Dio. Anche per Spencer la vita è effetto di evoluzione e risultato di un continuo adattamento delle condizioni interne a quelle esterne. Ma al di là di queste spiegazioni; o tentativi di spiegazione, il senso comune si pone spesso la domanda in modo più diretto: cos'è, alla fin fine, la vita? Ancora una volta la risposta non può essere semplice, ma può diventare più articolata sotto il profilo non scientifico, ma filosofico. Denis Diderot* (1713-1784), all'interno di un rifiuto del modello meccanicistico che non riesce a spiegare la complessità della vita, non riducibile ad un'aggregazione di particelle, propone una visione più "esistenzialistica". Pur essendo noi uomini un insieme di molecole viventi, seppure sparse nella natura, reste43

remo sempre vivi per l'eternità e potremo ricongiungerci, in tal modo, con le persone che ci sono care. Il carattere conflittuale della vita, che pervade tutta la natura, nei suoi diversi gradi, caratterizza la filosofia di Arthur Schopenhauer* (1788-1860). La volontà, che rivela la natura del mondo intero, è una forza cieca ed inconscia, arbitraria, priva di qualsiasi finalità, impulso vitale irrazionale: da qui la visione pessi~ mz'stica dell'uomo e della storia. In un'altra prospettiva si collocano le riflessioni di Georg W.R Hegel* (1770-1831) e Friedrich Engels* (1820-1895). Per Hegel la vita è finita come estrinsecazione nel singolo individuo e infinita come unità dei viventi, come unificazione del finito e dell'infinito, cioè come natura: nell'ultimo senso è relazione e opposizione con il finito. Per Engels la morte è un· momento essenziale della vita, una negazione contenuta, hegelianamente nella vita stessa. La morte è dissoluzione del!' organismo che lascia dietro di sé solo composti chimici; senza nessuna speranza di immortalità. Parlando della vita (e della morte) non possiamo non so/fermarci sui numerosi problemi che dal punto di vista morale essa pone all'uomo. Interrogativi etici riguardo alla libera disponibilità della propria vita sono sorti fin dal!'antichità; basta pensare alle riflessioni sul suicidio. Lo stoico Lucio Anneo Seneca* (4 ca. a.C.-65 d.C.) sostiene la liceità del suicidio come affermazione della libertà sulla necessità. In altra epoca l'empirista David Hume* (1711-1776) afferma la totale libertà di disporre della propria vita. Per l'esistenzialista Kart ]aspers* (1883-1969) il suicidio trova la sua giustificazione nella possibilità di sottrarsi ad un dominio dispotico e rappresenta anche l'affermazione dell'indipendenza e dell'autosufficienza dell'uomo. Sul versante opposto, nella tarda antichità il suicidio era stato già condannato da Plotino* (204-270) in quanto separazione violenta del!' anima dal corpo; solo per il saggio in casi estremi può essere lecito togliersi la vita. Gli autori cristiani hanno sempre espresso una netta condanna del suicidio, poiché la vita, dono di Dio, non appartiene all'individuo. Kant non lo ammette in quanto contraddice i principi della sua etica. I: evoluzione delle conoscenze teoriche e delle possibilità tecnologiche nel campo biologico e medico ha fatto sì che l'uomo potesse intervenire non più soltanto sulla natura, ma anche sulla propria natura, sollevando problemi senza precedenti nella storia del!' umanità. Ed è per questo che di recente è sorta la bioetica, disciplina che si propone "lo studio sistematico della condotta umana nel!'ambito delle scienze della vita e della cura della salute, quando tale condotta è esaminata alla luce di valori e principi etici" (dall'Encyclopedia of Bioethics). Storicamente il termine bioetica deriva dall'americano bioethics, introdotto come neologismo dal!' on-

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cologo Van R. Potter nel 19 71 con l'opera Bioethics. Bridge to the future; successivamente, il termine è circolato dal 1978 con la pubblicazione dell'Encyclopedia of Bioethics. Si tratta di una disciplina del tutto nuova, se vogliamo di una scienza, che ha esteso i confini della biologia, cooptando nel proprio ambito tutto un sistema di valori. Ma poz'ché le problematiche che la bioetica affronta (eutanasia, aborto, clonazione, manipolazione genetica, etc) implicano riferimenti, oltre che alla biologia e ali' etica, alla filosofia, all'antropologia, alla medicina, alla religione, al diritto, alla politica ... si può parlare di una scienza "trasversale" e pluridisciplinare. Se nel mondo anglosassone, in virtù del pragmatismo che lo ha sempre caratterizzato, le problematiche legate alla bioetica sono oggetto di un dibattito più libero e "spregiudicato", in Italia e nei paesi a forte tradizione cattolica, il dibattito ha spesso la forma della contrapposizione tra coloro che si ispirano a una concezione sacrale della vita e tra i sostenitori della "qualità della vita". La prima si/onda sul presupposto che la vita sia sacra nella sua interezza (compreso corpo, organi e funzioni vitali) in quanto depositaria della volontà di Dio. Non è dunque consentito all'uomo nessun intervento tecnico che alteri il naturale finalismo del corpo e dei suoi organi: in questo senso sono da respingere pratiche come l'aborto, l'eutanasia, la fecondazione artificiale. Ci si riferz'sce a prindpi assoluti e si attribuisce alla bioetz'ca il compito di individuare una "barriera etica" all'avanzamento tecnicoscientifico, per cui «non tutto ciò che è tecnicamente possibile è per ciò stesso lecito». I: etica della qualità della vita ritiene invece che le norme etiche debbano soddisfare i bisogni umani e presuppone un pluralismo etico laico non condizionato da limiti che non siano quelli di un controllo sui rz'sultati e le applicazioni della ricerca scientifica. Le due posizioni sono ben chiarite nel saggio di Elena Soetje* (vivente). Armando Rigobello* (1924), di formazione cattolica, condanna quella che definisce la "concezione utilitaristica della vita", che porta i laici a considerare la vita una proprietà di cui l'uomo può disporre a suo piaci~ mento. Uberto Scarpelli* (1924-1993) parte da premesse completamente laiche (etsi Deus non daretur) per sostenere la non assolutezza del!'etica, che in sé non è né vera né falsa, ma è frutto di una scelta individuale. Il dibattito è condizionato da una stratificazione culturale molto profonda anche tra gli stessi scienziati: questo rende più difficile, ma in pari tempo anche più articolato, il confronto tra le diverse posizioni. Basti pensare al Manifesto di bioetica laica~' (redatto nel 1996) e alla risposta degli scienziati cattolici con una sorta di contromantfesto. Non è solo dunque la Chiesa cattolica che si contrappone, come emerge anche dal Catechismo~ alla visione laica della vita, ma gli stessi scienziati di formazione cattolica. Da

notare, però, che la Chiesa, e il Papa in prima persona, se ha ribadito la propria condanna alla clonazione del!' embrione, anche a fini terapeutici; ha rivisto la sua posizione in merito ai trapianti di organi. Tuttavia anche in ambito cattolico le posizioni sulle questioni sollevate in campo della bioetica in generale, e sul!'eutanasia in particolare, non sono omogenee, basti pensare a quella del teologo svizzero Hans Kiing (192 8) che si schiera esplicitamente a favore del!' eutanasia passiva, lasciando aperti interrogativi sulla liceità di quella attiva. I temi del!'eutanasia, del!'aborto e della clonazione sono tra i più difficili da affrontare, sia dal punto di vista religioso che da quello laico. Nel caso del!' eutanasia, emergono oggi posizioni che mettono in discussione la concezione "ippocratt~ ca" della medicina riguardo ai rapporti medicopaziente. Storicamente, è stato Thomas More (14781535) a suggerire l'uso sistematico e razionale del!' eutanasia, anche se il termine, nel senso di buona, felice e liberatrice morte sembra essere stato coniato nel 1605 da Francis Bacon1' (1561-1626), ma solo alla fine dell'800 il termine assume una valenza socio-giuridica. Si parla di eutanasia passiva per indicare l'omissione o la sospensione di cure rivelatesi inefficaci e l'interruzione di trattamenti rianimativi in cui le possibilità di sopravvivenza sono solo dilazionabili;- l'eutanasia attiva determina la cessazione di ogni attività vitale attraverso la somministrazione di farmaci idonei e la sospensione degli apporti nutritivi. Si va sempre più a/fermando, e ciò è oggetto di ampie controversie e posizioni opposte, il concetto di "suicidio assistito", quando, esaurito ogni possibile intervento terapeutico, si tratta difornire al paziente, se in grado di capire e se lo richiede espressamente, assistenza diretta o indiretta al fine di sopprimere la coscienza e con essa la disperazione e il dolore. Per Antonio G. Spagnolo* (1956) l'eutanasia è un falso modo per eliminare il problema della sofferenza: si tratta casomai di prevenirne la richiesta, attraverso mezzi farmacologici ed evitando l'accanimento terapeutico, per garantire la dignità della persona fino alla morte. Per Spagnolo il "diritto a morire" è insostenibile sotto il profilo filosofico e giuridico, poiché contrasta col concetto di sacralità della vita, che è anche un bene sociale. Sul versante laico Demetrio Neri* (1947) sostiene che il prolungare ad ogni costo la vita del paziente, come prescriveva la deontologia del Giuramento ippocratico~ è una questione superata: un tempo era un imperatz'vo morale cercare di allungare la vita del paziente, poiché essa poteva ancora riservare ampie potenzialità; oggi i progressi della medicina consentono piuttosto di procrastinare la morte, con interventi spesso lesivi della dignità umana. Se l'approccio alla morte è diverso da persona a persona, compito morale, medico e sociale è quello di garantire a

tutti di scegliere di poter morire in modo conforme ai principi cui ognuno ha improntato la propria esistenza: da questo punto di vista anche il "suicidio assistito" è lecito. La discussione sull'aborto ha una storia più lunga. La posizione della Chiesa cattolica è ben espressa da Elio Sgreccia* (1928): l'interruzione volontaria della gravidanza è comunque un omicidio, non sussistendo, dal punto di vista biologico, nessuna differenza tra il momento del concepimento e quello della nascita. C'è un'unità inscindibile tra anima e corpo, perché la persona non ha corpo, è corpo. Umberto Galimberti* (1942) è convinto che non si possa appiattire il concetto di uomo ad una pura e semplice esistenza biologica: la vita deve essere vissuta degnamente in tutti i sensi e di fronte alle condizioni inumane di tanti bambini, l'etica laica deve intervenire e dare risposte concrete. Di recentissima attualità è la questione della clonazione e della manipolazione genetica. Rispetto alla clonazione molto ruota intorno alla concezione che si ha del!' embrione: scienziati di chiara fama, come il Premio Nobel per la medicina Rita Levi Montalcinz; sostengono che l'embrione non è persona fino al quattordicesimo giorno (vedi la Dichiarazione sull'embrione* del 1990). La Chiesa, per bocca di due scienziati e teologi; ]uan De Dios Via/ Correa* (1925) ed Elio Sgreccia, contesta nettamente la distinzione relativa al 14 ° giorno: l' embrione è soggetto umano e come tale ha diritto alla vita, fin dal momento del concepimento. L'intervento di clonazione terapeutica diventa in tal modo insostenibile, anche per debellare gravi malattie: è lecito tuttavt'a, a fini terapeutici, l'intervento su cellule staminali adulte; non è invece lecita la produzione e la distruzione di embrioni umani per prelevare cellule. In base alla Dichiarazione sull'embrione, Paolo Flores D'Arcais* (1944) nega che t'l preembrione (così viene chiamato l'embrione prima del 14° giorno), in una prospettiva laica, possa definirsi persona. Egli concentra la sua argomentazione sul fatto che la clonazione terapeutica deve trovare una collocazione giuridica e legislativa in un'ottica del tutto laica: etsi Deus non daretur, riprendendo l'espressione usata da Uberto Scarpelli. Renato Dulbecco* (1914) pensa che ci voglia prudenza nella ricerca, ma che non si deve bloccarla, mentre il biologo inglese Ian Wilmut, il "padre" della pecora Dolly, ritiene addirittura «immorale non usare embrioni», per la guarigione di certe malattie (come il morbo di Alzheimer, quello di Parkinson, il diabete, solo per fare qualche esempio). Il vero problema è come gli scienziati possano controllare ed orientare le scoperte che man mano vanno facendo, tenendo presente che negli ultimi anni c'è stata un'accelerazione e un impetuoso progresso nella ricerca, specialmente in ambito genetico.

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GENESI Creazione della materia primordiale. - In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era una massa senza forma e vuota; le tenebre ricoprivano l'abisso, e sulle acque aleggiava lo Spirito di Dio. Organizzazione del creato: primo giorno. - Iddio disse: "Sia la luce": e la luce fu. Vide Iddio che la luce era buona e separò la luce dalle tenebre; e chiamò la luce "giorno", e le tenebre "notte". Cosl fu sera, poi fu mattina: primo giorno. Secondo giorno. - Dio disse ancora: "Vi sia fra le acque un firmamento, il · quale separi le acque superiori dalle acque inferiori". E così fu. E Iddio fece il firmamento, separò le acque che sono sotto il firmamento, da quelle che sono al di sopra; e chiamò il firmamento "cielo". Di nuovo fu sera, poi fu mattina: secondo giorno. Terzo giorno. - Poi Iddio disse: "Si radunino tutte le acque, che sono sotto il cielo, in un sol luogo e apparisca l'Asciutto". E cosl fu. E chiamò l'Asciutto Terra e la raccolta delle acque chiamò Mari. E Iddio vide che ciò era buono. Ornamento della terra e del cielo. - Dio disse ancora: "Produca la terra erbe, piante, che facciano semi e alberi fruttiferi che diano frutti secondo la loro specie e che abbiano in sé la propria semenza sopra la terra". E così fu. Quindi la terra produsse erbe, piante, che fanno seme secondo la loro spede, alberi che danno frutti secondo la loro spede e che hanno in sé la propria semenza. E Iddio vide che ciò era buono. Di nuovo fu sera, poi fu mattina: terzo giorno. Quarto giorno. - Poi Iddio disse: "Siano dei luminari nel firmamento del cielo per separare il giorno dalla notte, e siano come segni per distinguere le stagioni, i giorni e gli anni, e servano come luminari nel firmamento del cielo per dare la luce sopra la terra". E così fu. E Iddio fece i due grandi luminari: il luminare maggiore per presiedere al giorno e il luminare minore per presiedere alla notte, e le stelle. E Iddio li pose nel firmamento del cielo per dar luce sopra la terra, e presiedere al giorno e alla notte e per separare la luce dalle tenebre. E Iddio vide che ciò era buono. Di nuovo fu sera, poi fu mattina: quarto giorno. Quinto giorno. - Poi disse Iddio: "Brulichino le acque di una moltitudine di esseri viventi, e volino gli uccelli al di sopra della terra in faccia al firmamento del cielo". Così Iddio creò i grandi animali acquatici e tutti gli esseri viventi che si muovono e di cui brulicano le acque, secondo la loro spede, e tutti i volatili secondo la loro specie. Ed egli vide che ciò era buono. E Iddio li benedl, dicendo: "Prolificate, moltiplicatevi e riempite le acque dei mari: e si moltiplichino pure gli uccelli sopra la terra". Di nuovo fu sera, poi fu mattina: quinto giorno. Sesto giorno. - Creazione degli animali. Poi Iddio disse: "Produca la terra animali viventi secondo la loro specie: animali domestici, rettili, bestie selvagge della terra, secondo la loro spede". E cosl fu. Cosl Iddio fece le bestie selvagge della terra, secondo la loro specie, gli animali domestici, secondo la loro specie e tutti i rettili della terra, secondo la loro spede. Ed egli vide che ciò era buono. Creazione dell'uomo. - Poi Iddio disse: "Facciamo l'uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: domini sopra i pesci del mare e su gli uccelli del cielo, su gli animali domestici, su tutte le fiere della terra e sopra tutti i rettili che strisciano sopra la sua superficie". Iddio creò l'uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò; tali creò l'uomo e la donna. In La Sacra Bibbia, Genesi, 1,10-27, presentazione di G. Albedone, Roma, Edizioni Paoline, 1965, pp. 12-13.

L'Antico Testamento introduce nel pensiero occidentale l'idea della creazione dal nulla.

La nozione di un Dio che crea immediatamente tutte le cose in assoluta libertà, non presupponendo un caos o una materia primordiale da plasmare e neppure un processo emanativo, si oppone alla concezione classica greca e neoplatonica.

ANASSIMANDRO (610/609 - 547/546 a.C.) Tutte le cose si generano dal/'apeiron e in esso ritornano. Non è un atto creativo che dà vita a/l'universo, ma un processo evolutivo che ha inizio con la separazione dei contrari.

Egli [Anassimandro] affermò che l'infinito aveva la causa completa della nascita e della distruzione del tutto: di lì, egli dice, si sono separati i cieli e in generale tutti i mondi che sono infiniti. [.. .] Dice che quel che dall'eterno produce caldo e freddo si separò alla nascita di questo mondo e che da esso una sfera di fuoco si distese intorno all'aria che avvolgeva la terra, come corteccia intorno all'albero: spaccatasi poi questa sfera e separatasi in taluni cerchi, si formarono il sole, la luna e gli astri. Dice pure che da principio l'uomo fu generato da animali di altra specie perché, mentre gli altri viventi si nutrono subito da sé, solo l'uomo ha bisogno per molto tempo delle cure della nutrice: ora se all'inizio fosse stato tale [com'è adesso] non avrebbe potuto sopravvivere. In I presocratici. Testimonianze e frammenti, trad. di R. Laurenti, Bari, Laterza, 1986, pp. 98-99.

EMPEDOCLE (484/481 - 424/421 a.C.) Nella storia ciclica del mondo, anche la nascita del genere umano dipende interamente dal caso.

Da essa spuntarono molte tempie senza collo e prive di spalle erravan braccia nude e occhi solitari vagavano senza fronti... Molti esseri nacquero con due volti e con due petti stirpi bovine con volti umani, e altri, al contrario, sorgono viceversa stirpi umane con volti bovini, mescolate da un lato, forme maschili e dall'altro forme femminili provviste di ombrosi organi sessuali. Frammenti (B 57, 61), in P. Casini, La Natura, Milano, Isedi, 1974, p. 32.

DEMOCRITO (460 ca. - 370 ca. a.C.) La vita si sviluppa spontaneamente dalla terra umida per l'azione del calore solare.

Nella primitiva comunione, dunque, di tutte le cose, dicono che il cielo e la terra avevano un solo aspetto, essendo mescolata la loro materia; in seguito, poi, separandosi i corpi l'uno dall'altro, il mondo andò assumendo tutto questo ordinamento che si vede in esso; la parte fangosa e torbida, con mescolanza di elementi umidi, si depositò tutta in un luogo per il suo peso; e, roteando e volgendosi continuamente su se stessa, con l'elemento liquido formò il mare, con le parti più solide formò la terra, fangosa e del tutto molle. E questa dapprima, sotto l'ardore del fuoco solare, prese consistenza; poscia, producendosi delle fermentazioni nella sua superficie per calore, in molti luoghi si andarono rigonfiando certe parti umide, e si produssero intorno ad esse delle putredini, avvolte da sottili membrane: ciò che negli stagni e in quei luoghi che sono paludosi si può osservare anche ora, allorché, raffreddatasi la località, l'aria diventi infocata all'improvviso, invece di mutar di temperatura a poco a poco. E poiché quelle parti umide producevano embrioni per l'azione del calore, nel modo che si è detto, questi di notte ricevevano alimento dalla nebbia che calava giù dall'atmosfera, di giorno poi si consolidavano per il calore del sole; infine, via via che questi feti cosf rinchiusi avevano compiuto la loro crescita e le membrane erano disseccate e si laceravano, venivano alla luce le svariatissime specie di animali; e quelli di essi che possedevano più calore si sollevarono nelle regioni dell' aria, diventando volatili, quelli che avevano una costituzione terrosa furono noverati nell'ordine dei rettili e degli altri animali terrestri, e quelli che avevano sortito una natura particolarmente umida, accorsero nell'elemento conforme alla loro natura e furono denominati acquatici. La terra poi, divenuta sempre più dura per l'azione del calore solare e dei venti, alla fine non fu più in grado di produrre nessuno degli animali maggiori, ma le singole specie dei viventi cominciarono a propagarsi per mutua unione degli esseri stessi. In Diodoro Siculo, Riassunto della cosmologia democritea, in P. Casini, La Natura, cit., pp. 54-55.

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ALEKSANDR IVANOVIC OPARIN (1941) Gli organismi più semplici, gli esseri viventi primitivi, sorsero quindi in seguito a un lungo sviluppo di sistemi colloidali che si erano a un certo momento separati dalle soluzioni acquose di sostanze organiche. Questa nuova forma di esistenza della materia si poté formare solamente secondo leggi biologiche che sorsero durante il processo dell'origine della vita. Inutilmente si tenterebbe di spiegare, con laiuto di processi fisici e chimici elementari, la comparsa di caratteristiche biologiche quali, ad esempio, la struttura delle proteine, l'asimmetria del protoplasma, la velocità e la coordinazione straordinaria delle reazioni biochimiche, la capacità dell'automoltiplicazione, ecc. Tutte queste proprietà, che distinguono cosl nettamente la materia vivente dalla non vivente, sono sorte in conseguenza di fenomeni che noi oggi non osserviamo più nella natura inorganica, e soprattutto in virtù della selezione naturale delle formazioni colloidali in accrescimento e in continua trasformazione. Parlando degli enzimi si è dimostrato che questi complessi, perfettamente "idonei alla loro funzione", poterono formarsi solamente mediante la selezione naturale, che distruggeva tutte le combinazioni mal riuscite e permetteva l'ulteriore sviluppo di quei soli sistemi che esercitavano le loro funzioni catalitiche nel modo più rapido e adatto. La stessa selezione naturale portò anche alla formazione di un determinato ritmo della costruzione delle proteine e a un coordinamento delle varie reazioni, che assicurò lasimmetria del protoplasma e le altre caratteristiche che gli sono proprie. Certamente queste proprietà possono essere osservate allo stato primotdiale anche in formazioni non viventi, come nei coacervati ottenuti artificialmente o formatisi naturalmente. Come abbiamo visto, qui si riscontra una certa asimmetria molto instabile, una struttura molto elementare, nonché la presenza di certi catalizzatori inorganici. Ma, per effetto della selezione naturale, tutte queste proprietà raggiunsero un tale grado di perfezione, da autorizzarci a parlare di una nuova forma di esistenza della materia, di un "salto" qualitativo nello sviluppo di essa. Questo "salto" è da noi sentito come tale, perché tutte le tappe intermedie, che nel processo evolutivo univano il vivente con il non vivente, sono già da tempo scomparse dalla Terra. Attualmente, ovunque esistano condizioni esterne favorevoli allo sviluppo della vita, troviamo una grande quantità di esseri viventi già conformati e altamente organizzati. Se ota, in tali condizioni, nascesse del materiale organico, il suo sviluppo non potrebbe avere lunga durata, in quanto verrebbe immediatamente distrutto dai microrganismi che popolano la terra, l'acqua e l'aria. Per questa ragione non abbiamo attualmente la possibilità di osservare nelle condizioni naturali l'evoluzione delle sostanze organiche da noi descritta, cioè il processo dell'origine della vita. Noi conosciamo solamente l'inizio di questo processo, sotto forma di sostanze organiche concentrate nei coacervati, e la sua fine, sotto forma dei piu semplici esseri viventi esistenti. Ma, con lo studio intensivo di queste formazioni, possiamo gettare un ponte sull'abisso che attualmente separa queste due forme di esistenza della materia. L:origine della vita sulla Terra, trad. di G. Segre, Torino, Bodnghieri, 1956, pp. 192-193.

L'origine della vita coincide con il formarsi di cellule primordiali ottenute attraverso sostanze colloidali come le proteine.

I coacervati (ossia le proteine) diventano sempre più complessi fino ad assumere i meccanismi tipici delle cellule.

Questo processo che va dalla materia non vivente a quella vivente non può più essere osservato oggi, poiché tutte le tappe intermedie sono scomparse. Del processo noi conosciamo solo l'inizio (i coacervati) e la fine (gli esseri viventi).

FRANCIS CRICK (1981) Fondamentalmente si possono distinguere due teorie su/l'origine della vita sulla terra: secondo la prima, la vita si è originata all'interno della terra stessa; per la seconda essa proviene da un'altra regione dell'universo.

La vita potrebbe essere stata trasportata da un altro pianeta per mezzo di un'astronave, secondo un progetto di colonizzazione interplanetaria. È l'ipotesi della "Panspermìa guidata".

Questa teoria che evoca immagini fantascientifiche si fonda in realtà su un insieme di dati sperimentali che la rendono confermabile o confutabile.

Gli argomenti presentati finora confermano la tesi che la Panspermzà Guidata non è implausibile. Abbiamo quindi due teorie, radicalmente diverse, sull'origine della vita sulla Terra. La prima, la teoria ortodossa, afferma che la vita, come noi la conosciamo oggi, ha avuto inizio sulla Terra, per conto proprio, senza o con poco aiuto dall'esterno del sistema solare. La seconda, la Panspermzà Guidata, postula che le radici della nostra forma di vita risalgono a un'altra regione dell'universo, quasi certamente a un altro pianeta dove aveva raggiunto una forma molto avanzata prima che qualcosa si muovesse qui da noi, e che, quindi, la vita sulla Terra è stata seminata mediante microrganismi inviati con un'astronave da una civiltà avanzata. Le due teorie potrebbero difficilmente essere più diverse, ma è importante chiedersi: ci interessa davvero la diffetenza? Dato che l'univetso, nella sua forma attuale, ha un'origine nel tempo (il big bang) e dato che ogni forma di vita era impossibile all'inizio, la vita deve avere avuto inizio, in qualche posto, in un momento molto posteriore al big bang. Si può quindi affermare che la Panspermzà Guidata non fa altro che spostare altrove il problema. Questo è in parte vero, ma, per quanto ne sappiamo, il tipo di regione in cui la vita è iniziata è di importanza vitale. Alla fine potremmo scoprire che la vita praticamente non poteva originarsi sulla Terra, mentre su un pianeta più favorevole poteva nascere più facilmente ed evolversi più rapidamente. Forse l~ Luna un po' bizzarra ha rappresentato più un ostacolo che un vantaggio. E quindi affrettato affermare che le condizioni sulla Terra erano buone quanto altrove nella Galassia, anche se non abbiamo validi motivi per credere che l'inizio della vita altrove sia stato molto più probabile che qui sulla Terra. Il fatto che la vita abbia avuto origine qui o altrove è fondamentalmente un fatto storico e non abbiamo il diritto, a questo punto, di metterlo da parte come irrilevante. Le due teorie sono totalmente differenti. Possiamo decidere quale ha le maggiori probabilità di essere quella corretta? In particolare, possiamo mettere insieme abbastanza dati sperimentali per confermare o confutare la Panspermzà Guidata? Un possibile insieme di dati sperimentali è da ricercare negli organismi che esistono al giorno d'oggi. Malgrado la grande varietà di molecole e di reazioni chimiche prodotte dall'evoluzione, ci sono alcune caratteristiche che sono comuni a tutti gli esseri viventi. Nel mettere insieme con cura sempre più dati sperimentali sugli organismi viventi oggi, riusciamo a costruire l'albero genealogico di certe molecole, per esempio, delle molecole dell'RNA di trasferimento, sperando di dedurre la natura degli antenati più antichi di queste molecole. Le ricerche sono ancora in corso, ma una caratteristica è cosi invariante da attirare immediatamente l'attenzione: il codice genetico. Con l'eccezione dei mitocondri, il codice è lo stesso per tutti gli esseri viventi finora studiati; e anche per i mitocondri le differenze sono relativamente piccole. Un simile risultato non sarebbe sorprendente se ci fossero delle ovvie ragioni strutturali per i dettagli del codice, per esempio se certi aminoacidi dovessero necessariamente essere associati a certi codoni, perché, per esempio, le loro forme si adattano bene l'una all'altra. Sono stati fatti tentativi coraggiosi per spiegare come questo si verifica, ma sono tutti poco convincenti. E per lo meno plausibile ritenere che i dettagli del codice siano in gran parte casuali. Anche se alcuni codoni originari non sono stati dettati dal caso ma posseggono una certa logica chimica, anche se alcune caratteristiche generali del codice sono spiegate in qualche modo, è tuttavia molto improbabile, almeno per ora, che tutti i dettagli del codice siano decisi da pure ragioni chimiche. Il codice genetico fa supporre che la vita, a un certo stadio di sviluppo, sia passata attraverso almeno una strettoia: una piccola popolazione capace di incrociarsi, dalla quale tutta la vita si è poi sviluppata. I:origine della vita, trad. di B. Vitale, Milano, Garzanti, 1983, pp. 131-132.

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JOHN B. S. HALDANE (1947) Che cosa è la vita? lo non mi accingo a rispondere a questa domanda. Infatti dubito che sia mai possibile darvi una esauriente risposta, perché si sa cosa si sente ad esser vivi, proprio come si sa che cosa sia il diventare rossi, il sentir dolore o l'affaticarsi; ma non si possono descrivere queste sensazioni in termini precisi. [. . .] Possiamo tentar di adoperare espressioni del tipo "l'influenza dello spirito sulla materia", ma la cosa è di poca utilità, per parecchie ragioni. Una prima ragione è che, quando si fosse sicuri che l'uomo o anche i cani hanno lo spirito, ci vorrebbe una fede veramente salda per trovare lo spirito in un'ostrica o in una patata. [ .. .] Similmente vano è cercar di definire la vita in termini di "forza vitale". [ .. .] Ma se a questo modo di dire può essere attribuito qualche significato, cosa di cui dubito, è pur vero che è possibile scoprire la forza vitale in un animale o in una pianta solo attraverso i suoi effetti sulla materia, di modo che è necessario definire la vita in termini di materia. Nella vita ordinaria si riconoscono le cose viventi dalla loro forma e dai loro caratteri strutturali. [ .. .] Nel caso dei mammiferi e degli uccelli, si è certi della loro morte quando divengono freddi. Questa prova non è valida per una rana o per una lumaca; queste si considerano morte quando restano immobili se toccate. Ma nel caso di una pianta, la sola prova evidente della vita è se essa cresce, e questo richiede dei mesi per essere scoperto. [ .. .] Le prove suddette mettono l'accento più sull'aspetto fisico che su quello chimico del problema. Io penso però che non vi sia dubbio nell'affermare la possibilità di approfondire la conoscenza del problema della vita affrontandolo più dal suo aspetto chimico che da quello fisico. Ciò non vuol dire che la vita debba essere completamente spiegata in termini di chimica. Significa invece che essa è meglio rappresentata dai fenomeni chimici che dai fisici. [. .. ] Ciò che è comune ad ogni essere vivente, sono i processi chimici. E questi sono straordinariamente simili nei diversi organismi. Si può dire che la vita è, essenzialmente, un dispiegamento di eventi chimici, e che esiste inoltre una struttura formale caratteristica in quasi tutti gli esseri viventi, cosl come esistono movimenti caratteristici in molti animali, e sentimenti e finalità in alcuni di essi. La struttura chimica dei diversi esseri viventi è molto diversa. Un albero è fatto in gran parte di legno, sostanza che non trova alcun riscontro in alcuno dei costituenti dell'uomo, sebbene sia alquanto simile ad una sostanza chiamata glicogeno, che è contenuta in gran parte dei nostri organi. Ma i processi chimici che avvengono nelle foglie, nella scorza, e nelle radici del1' albero, particolarmente nelle radici, sono simili in modo sorprendente a quelli che avvengono negli organi umani. Le radici sono avide di ossigeno come l'uomo, e si può vedere se una radice è viva, come si può vedere se un cane è vivo, misurando la quantità di ossigeno che consuma al minuto. [ ... ] Tutta la vita è caratterizzata da una serie di processi chimici fondamentalmente simili, ma adattati in molteplici forme. Cosl gli animali consumano i materiali nutritizi che le piante producono. Ma, sia nelle piante che negli animali, la costruzione e la demolizione proseguono durante tutta la vita. Il bilancio finale è differente. [ ... ] Quando abbiamo detto che la vita è una successione ordinata di processi chimici, abbiamo detto qualcosa di vero e di importante. Importante praticamente, perché stiamo finalmente imparando come controllare alcuni di questi processi, e i primi risultati di questa conoscenza sono invenzioni pratiche come l'uso dei sulfamidici, della penicillina e della streptomicina. Ma il supporre che si possa descrivere completamente la vita su queste linee, è tentare di costringerla entro uno schema meccanico, cosa questa, per me, impossibile. D'altra parte, dire che la vita non è fatta di processi chimici è, a mio avviso, così futile e falso, come negare che la poesia è fatta di parole. Che cosa è la vita?, a cura di P. Colcos e L. Benedetti, Milano, Universale Economica, 1951, pp. 58-62.

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È impossibile dare una risposta esauriente alla domanda su che cosa sia la vita, anche se ognuno sa cosa si sente ad essere vivi (ma non lo sa descrivere)

È vano cercare di definire la vita in termini di "spirito" o di "forza vitale": queste rimandano sempre e comunque alla materia, attraverso le cui manifestazioni fisiche soltanto, possiamo sapere se una cosa è morta o viva.

Però la vita è meglio rappresentata dai processi chimici che accomunano tutti gli esseri viventi piuttosto che dai fenomeni fisici. È impossibile costringere la vita entro uno schema meccanico, ma è impossibile anche negare che la vita sia fatta di processi chimici: è come dire che la poesia non è fatta di parole.

HENRI BERGSON (1907) Un flusso di vita unitario attraversa la materia, anche se alla nostra intelligenza questa appare divisa in individui, divisi a loro volta in molecole ecc.

Ma se sapremo guardare la realtà con gli occhi dello spirito, scopriremo al di là di una frastagliata molteplicità /'opera unica dello slancio vitale, che imprime la sua libera creatività ad una materia inerte e necessitata.

In realtà, la vita è un movimento, la materialità è il movimento inverso, e ciascuno di questi due movimenti è semplice, giacché la materia che forma un mondo è un flusso indiviso, e indivisa è pure la vita che la attraversa, ritagliandovi esseri viventi. La seconda di queste due correnti si oppone alla prima, ma questa ottiene egualmente qualche cosa da essa, e ne risulta un modus vivendi, che è appunto l'organizzazione. Questa prende, per i nostri sensi e per la nostra intelligenza, la forma di parti interamente esteriori le une alle altre, nel tempo come nello spazio. Non solo non scorgiamo l'unità dello slancio che, attraversando le generazioni, congiunge gli individui agli individui, le specie alle specie, e fa di tutti gli esseri viventi una sola immensa onda corrente sulla materia, ma ogni individuo ci appare esso stesso come un aggregato: un aggregato di molecole e un aggregato di fatti. La ragione di ciò va cercata nella struttura della nostra intelligenza, la quale è fatta per agire dall'esterno sulla materia, e che a ciò riesce solo col praticare, nel flusso della realtà, delle sezioni istantanee, ciascuna delle quali diviene, nella sua fissità, indefinitamente scomponibile. I.:intelligenza - non scorgendo in un organismo che parti esteriori le une alle altre - non può optare che tra due sistemi di spiegazione: o considerare l'organizzazione infinitamente complessa - e, quindi, infinitamente sapiente - come un'unione fortuita di parti, o attribuirla all'azione inesplicabile di una forza esteriore che ne avrebbe unito insieme i singoli elementi. Ma tale complessità è, al pari di tale inesplicabilità, opera dell'intelletto. Sforziamoci di guardare la realtà non più con gli occhi della sola intelligenza - che coglie solo il già fatto e che osserva ogni cosa dall'esterno - ma con lo spirito, ossia con quella facoltà di vedere che è immanente alla facoltà di agire e che scaturisce, in certo modo, dal ritorcersi della volontà su se stessa, e tutto si rimetterà in movimento, tutto si risolverà in movimento. Là dove l'intelligenza - esercitando la sua attività sull'immagine, considerata come immobile, dell'azione in movimento -,-- ci mostrava una molteplicità infinita di parti e un ordinamento infinitamente sapiente, noi scopriremo un processo semplice, un'azione che si fa attraverso un'azione della stessa specie che si disfà: alcunché di simile alla via che l'ultimo razzo del fuoco d'artificio riesce ad aprirsi tra i frammenti che ricadono dai razzi spenti. Da questo punto di vista si chiariranno e si completeranno le considerazioni generali intorno all'evoluzione della vita, già da noi presentate; e si potrà più nettamente determinare ciò che c'è di essenziale e ciò che c'è d'accidentale in tale evoluzione. Lo slancio di vita di cui parliamo consiste, in sostanza, in un'esigenza di creazione. Esso non può creare in modo assoluto, perché incontra davanti a sé la materia, cioè il movimento opposto al proprio; ma esso si impadronisce di questa materia, che è pura necessità, e tende a introdurre in essa la maggior somma possibile d'indeterminazione e di libertà. Uevoluzione creatrice, a cura di E. Paci, Torino, Utet, 1979, pp. 185-187.

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ARTHUR SCHOPENHAUER (1819) Nella natura vediamo dunque dappertutto lotta, conflitto e alternativa di vittoria; la qual cosa ci servirà in seguito a costatare più chiaramente il dissenso della volontà con se stessa. Ogni grado di oggettivazione della volontà contende all'altro la materia, lo spazio e il tempo. La materia deve nella sua permanenza cambiare perpetuamente di forma, poiché i fenomeni meccanici, fisici, chimici e organici, diretti dalla causalità e facentisi ressa impetuosa per giungere a manifestarsi, se la contendono avidamente, per poter manifestare ciascuno la sua idea. Questa lotta si può costatare in tutta la scala della natura: ed anzi, la natura stessa non è che una lotta: (nam si non inesset in rebus contentio, unum omnia essent, ut ait Empedocles. Arist. Metaph. B., 5): ora questa lotta non è che la manifestazione del dissenso essenziale della volontà con se stessa. Questo conflitto universale si rivela in modo più eloquente nel mondo degli animali, che si nutre del mondo vegetale ed in cui ogni individuo è nutrimento e preda dell'altro; in altri termini: ogni animale deve cedere la materia in cui si dvelava la sua idea, affinché un altro possa giungere a sua volta ad una sua propria rappresentazione; infatti un essere vivente non può mantenersi in vita se non a spese di un altro: la volontà di vivere si nutre della sua propria sostanza e fa di sé in diverse forme il suo nutrimento. Infine la specie umana, che giunse a soggiogare tutte le altre, considera la natura come una creazione istituita per suo uso e consumo; e nondimeno anch'essa, ci manifesta con spaventosa evidenza la medesima lotta, il medesimo dissenso della volontà; donde il detto: homo homini lupus. Intanto possiamo riconoscere l'identico conflitto, l'identica dominazione, nei gradi infedori di oggettività della volontà. Parecchi insetti (specialmente gli icneumoni) depongono le loro uova nella pelle, e persino nel corpo delle larve di altri insetti, la cui lenta distruzione sarà la prima opera del germe che ne verrà fuori. Il giovane polipo a tentacoli che cresce dal vecchio a guisa di ramo, e più tardi se ne separa, lotta già con quello, mentre ancora vi aderisce, per la preda che si fa innanzi; l'uno strappandola dalla bocca dell'altro. L'esempio più sorprendente del genere ci è dato dalla formica-mastino (bulldog-ant) che si trova in Australia; se la si taglia in due, si impegna subito una lotta fra la testa e la coda: la prima affena con le sue mandibole la seconda, e questa si difende bravamente col suo pungiglione: la lotta di solito dura una mezz'ora, fino a che i due litiganti non muoiono o non vengono separati da altre formiche. Il fatto si rinnova ogni volta. [. .. ] Se dunque [. .. ] le specie del regno degli organismi, e nel mondo inorganico le forze generali della natura, esistono le une accanto alle altre e persino si danno reciproco aiuto, d'altro lato il conflitto interno della volontà oggettivantesi in tutte queste idee, si manifesta nella implacabile guerra di sterminio che si fanno a vicenda gli individui di quelle specie, nella lotta perpetua e reciproca dei fenomeni di quelle forze. Il teatro e l'oggetto di questa lotta è la materia, di cui gli avversari cercano di strapparsi a viva forza il possesso. Il mondo come volontà e rappresentazione, trnd. di N. Palanga, Milano, Mursia, 1969, pp. 185200.

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La volontà non opera in base a scopi intelligenti, ma è una forza cieca che agisce di per se stessa: è pura e infinita energia irrazionale.

Essa garantisce l'unità della natura, e allo stesso tempo produce un conflitto perenne fra gli esseri viventi, che possono mantenersi in vita soltanto a spese degli altri.

Questa lotta si manifesta nelle forze della natura, nel regno vegetale e animale, e infine fra gli uomini.

181 CHARLES DARWIN (1842) Non è un quadro idilliaco quello che si presenta nella natura: essa è pervasa di lotta e crudeltà.

Smettiamo di stupirci, per quanto si possa deplorarlo, che un gruppo di animali sia stato creato direttamente per deporre le sue uova nei visceri o nelle carni di altri, che alcuni organismi traggono piacere dalla crudeltà - che gli animali siano trascinati da falsi istinti - che ogni anno vi sia uno spreco incalcolabile di uova e di polline. Possiamo vedere che il bene più alto che si possa immaginare, la creazione degli animali superiori, è derivato direttamente da morte, carestia, rapine e guerra segreta della natura. L'origine delle specie. Abbozzo del 1842, trad. di M. Di Castro, Roma, Newton Compton, 1992, p. 71.

CHARLES DARWIN (1864) Ma è dalla lotta per /'esistenza e dalla selezione naturale che, differenziandosi i caratteri ed estinguendosi le forme meno perfette, emergono le forme più alte e più belle.

È interessante contemplare una zona lussureggiante, ricoperta di molte piante di vari tipi, con uccelli che cantano nei cespugli, con insetti vari che ronzano all'intorno, e con vermi striscianti nel terreno umido, e pensare che tutte queste forme, così accuratamente costruite, cosi diverse l'una dall'altra, ed in modo cosi complesso dipendenti l'una dall'altra, sono state determinate da leggi che agiscono intorno a noi. Queste leggi, prese nel loro significato più ampio, costituiscono la legge dell'accrescimento per riproduzione, l'eredità quasi implicita nella riproduzione, la variabilità per l'azione diretta ed indiretta delle condizioni vitali, dell'uso e del disuso, il ritmo dell'accrescimento talmente elevato che porta ad una lotta per l'esistenza e, di conseguenza, alla selezione naturale, la quale comporta la differenziazione dei caratteri e l'estinzione delle forme meno perfette. In tal modo, dalla guerra della natura, dalla carestia e dalla morte, deriva direttamente il risultato più alto che si possa concepire, cioè la produzione degli animali superiori. C'è qualcosa di grandioso in questa concezione della vita, con le sue forze diverse, originariamente dal Creatore impresse in poche forme o in una sola forma, e nella circostanza che, nello stesso momento in cui il nostro pianeta ha continuato a girare secondo la legge immutabile della gravità, si siano evolute, e continuino ad evolversi, da un inizio cosi semplice, forme innumerevoli, bellissime e meravigliose. L'origine delle specie, in Con Dio e contro Dio, a cma di M.F. Sciacca, Settimo Milanese, Marzorati, 1990, p. 188,

L'evoluzione è un processo unitario che attraversa ogni forma di esistenza: con essa si passa da una omogeneità indefinita e incoerente a una omogeneità definita e coerente.

Mentre un tutto va evolvendosi, si evolvono contemporaneamente anche le parti di cui esso è composto. Il progresso è dato dalla maggiore integrazione delle parti rispetto al tutto.

HERBERT SPENCER (1862) L'evoluzione, sotto il suo primo aspetto, è un cambiamento che ha per punto di partenza una forma meno coerente e che procede verso una forma più coerente [. .. ] Quest'è il processo universale per cui passano le esistenze sensibili, individuali e sociali, durante il periodo ascendente della loro storia. [. ..] Durante l'evoluzione del sistema solare, d'un pianeta, d'un organismo, d'una nazione c'è sempre un'aggregazione progressiva dell'intera massa. [. .. ] Ne vediamo un esempio nella formazione dei pianeti e dei satelliti operatasi durante la concentrazione della nebulosa da cui si formò il sistema solare, o nell'accrescimento dell'organismo intero; o anche nell'apparizione di centri industriali speciali e di speciali masse di popolazione che ha luogo col progresso di ogni società. [... ] Dalle forme più semplici alle più complesse il grado di sviluppo è indicato dal grado di aggregazione delle parti che costituiscono una sorta di assemblea cooperativa. D progresso che si osserva da quegli esseri che continuano a vivere anche quando sono tagliati in pezzi, a quelli che non possono perdere una parte impottante senza morire, né una parte qualunque anche piccolissima senza soffrire, è un progresso in cui ad ogni passo si incontrano degli esseri che, più integrati in rispetto alla loro consolidazione, sono anche più integrati in quanto si compongono di organi che vivono per gli altri e degli altri. I primi principii, a cura di M. Sacchi e G. Cattaneo, Piacenza, "L'arte bodoniana", 1920, pp. 258-259.

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GOTTFRIED W. LEIBNIZ (1714) Cosl ogni corpo organico di essere vivente è una specie di macchina divina, o di automa naturale, che supera infinitamente tutti gli automi artificiali. Infatti, una macchina, fatta dall'arte dell'uomo, non è una macchina in ogni sua parte: per esempio il dente di una ruota di ottone ha parti o frammenti che non son più qualcosa di artificiale e nulla che abbia carattere di macchina in rap-

RENÉ DESCARTES (1630-1633) Suppongo che il corpo altro non sia se non una statua o macchina di terra che Dio forma espressamente per renderla il più possibile a noi somigliante: dimodoché, non solo le dà esteriormente il colorito e la forma di tutte le nostre membra, ma colloca nel suo interno tutte le parti richieste perché possa camminare, mangiare, respirare, imitare, infine, tutte quelle nostre funzioni che si può immaginare procedano dalla materia e dipendano soltanto dalla disposizione degli organi. Vediamo orologi, fontane artificiali, mulini e altre macchine siffatte che, pur essendo opera di uomini, hanno tuttavia la forza di muoversi da sé in più modi; e in questa macchina, che suppongo fatta dalle mani di Dio, non potrei - mi pare - suppone tanta varietà di movimenti e tanto artifizio da impedirvi di pensare che possano essergliene attribuiti anche di più.

L'essere vivente è una macchina creata da Dio, simile alle macchine che costruisce l'uomo.

I.:uomo, a cura di G. Cantelli, Torino, Boringhieri, 1960, p. 301.

JACOUES MONOD (1970) 1) Gli esseri viventi sono macchine chimiche. Per la loro crescita e moltiplicazione sono necessarie migliaia di reazioni chimiche grazie alle quali sono elaborati i costituenti essenziali delle cellule. A questo complesso di reazioni si dà il nome di "metabolismo". Il metabolismo è organizzato secondo un grande numero di "vie", divergenti, convergenti o cicliche, ciascuna delle quali comprende una sequenza di reazioni. Il preciso orientamento e l'elevato rendimento di quest'enorme e microscopica attività chimica sono assicurati da una classe particolare di proteine, gli enzimi, i quali agiscono in veste di catalizzatori specifici. 2) Come una macchina, ogni organismo, ~nche il più semplice, rappresenta un'unità funzionale coerente e integrata. E ovvio che la coerenza funzionale di una macchina chimica tanto complessa, e per di più autonoma, esige l'intervento di un sistema cibernetico che controlli in più punti la sua attività. Si è ancora lungi, soprattutto per gli organismi, dall'aver chiarito l'intera struttura di tali sistemi. Oggi se ne conoscono numerosissimi elementi e, in tutti questi casi, si può constatare che gli agenti essenziali sono proteine "regolatrici" la cui funzione consiste in pratica nel rivelare segnali chimici. 3) L'organismo è una macchina che si costruisce da sé. Non è l'intervento di forze esterne a imporgli la sua struttura macroscopica ma questa si costituisce in modo autonomo grazie a interazioni costruttive interne. Quantunque le nostre conoscenze sulla meccanica dello sviluppo siano ancora estremamente scarse, si può tuttavia affermare fin d'ora che le interazioni costruttive sono d'ordine microscopico e molecolare, e che le molecole in gioco sono essenzialmente, se non esclusivamente, proteine. Di conseguenza sono proteine quelle che incanalano l'attività della macchina chimica, ne assicurano il funzionamento coerente, la costruiscono. Il caso e la necessità. Saggio sulla filosofia naturale della biologia contemporanea, trad. di A. Busi, Milano, Mondadori, 1970, pp. 53-54.

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L'essere vivente è una macchina chimica che si costruisce da sé.

191 porto all'uso cui la macchina era destinata. Ma le macchine della Natura, cioè i corpi viventi, sono sempre macchine anche nelle loro minime parti, pur dividendo all'infinito. In ciò consiste la differenza fra Natura ed Arte, cioè fra l'arte divina e la nostra. Monadologia, trad. di G. Preti, Milano, Bruno Mondadori, 1995, p. 61.

La differenza fra la macchina della Natura e la macchina dell'uomo sta nel fatto che anche le più piccole parti della prima sono macchine.

IMMANUEL KANT (1790) L'essere vivente si produce da sé come specie e come individuo. In esso ogni parte esiste per mezzo delle altre e per le altre. Il vivente è un essere organizzato che si organizza da sé; non ha soltanto la forza motrice, ha soprattutto la forza formatrice.

In primo luogo, un albero ne produce un altro secondo una legge naturale conosciuta. Ma l'albero prodotto è della stessa specie; e cosl l'albero si produce da sé relativamente alla specie, nella quale, da un lato come effetto, dall'altro come causa, prodotto incessantemente da se stesso, e quindi producendo sovente se stesso, si conserva costantemente, in quanto specie. In secondo luogo, un albero si produce da sé come individuo. Questa specie di effetto noi veramente la chiamiamo semplicemente crescita; ma questa crescita bisogna intenderla nel senso che è interamente diversa da ogni altro accrescimento secondo leggi meccaniche, e, sebbene sotto un altro nome, va considerata come una produzione. Questa pianta elabora la materia che si appropria in modo da darle la qualità che ad essa è specificamente propria e che il meccanismo della natura ad essa esterna non può fornire; e si sviluppa, cosl mediante una materia che, relativamente alla composizione, è un suo proprio prodotto. Perché se, per ciò che riguarda le parti costitutive che trae dalla natura esterna, questa materia deve esser considerata come un'eduzione, si trova però, circa la scelta e nuova composizione della materia rozza, tanta originalità in questa specie di esseri naturali, nella facoltà di scegliere e di comporre, che ogni arte ne resta infinitamente lontana, quando cerca di ricostituire quei prodotti del regno vegetale con gli elementi ottenuti dal1' analisi di essi, o con la materia che la natura fornisce per nutrirli. In terzo luogo, una parte di questa creatura si produce da sé in modo che la conservazione della parte e la conservazione del tutto dipendono l'una dall'altra. [. .. ] Cosl le foglie sono, è vero, produzioni dell'albero, ma a loro volta lo conservano; perché si distruggerebbe lalbero spogliandolo ripetutamente delle sue foglie, e la sua crescita dipende dal loro effetto sul tronco. [. .. ] In un simile prodotto della natura ogni parte è pensata come esistente solo per mezzo delle altre, e per le altre e il tutto, vale a dire come uno strumento (organo); il che però non basta; dev'essere pensata come un organo che produce le altre parti (ed è reciprocamente prodotto da esse), mentre nessuno strumento dell'arte può essere cosl, ma solo quello della natura che fornisce tutta la materia agli strumenti (anche a quelli dell'arte); solo allora e solo per questo un tale prodotto, in quanto essere organizzato e che si organizza da sé, può esser chiamato un fine della natura. In un orologio, una parte è lo strumento che serve al movimento delle altre; ma una ruota non è la causa efficiente della produzione delle altre; una parte esiste bensl in vista delle altre, ma non per mezzo di esse. Perciò la causa produttrice dell'orologio e della sua forma non è contenuta nella natura (di questa materia), ma sta fuori di esso, in un essere che può agire secondo le idee di un tutto possibile mediante la sua causalità. Se quindi nell'orologio una ruota non produce l'altra, ancor meno un orologio produrrà un altro orologio, impiegando altra materia (organizzandola); perciò non rimpiazzerà da sé le parti mancanti, o riparerà, mediante le altre, ai difetti della costruzione primitiva di certe parti, o si correggerà spontaneamente quando si trova in disordine: tutte cose che invece ci possiamo aspettare dalla natura organizzata. Un essere organizzato non è dunque una semplice macchina, che non ha altro che la forza motrice: possiede una forza formatrice, tale che la comunica alle materie che non l'hanno (le organizza): una forza formatrice, che si propaga, e che non può essere spiegata con la sola facoltà del movimento (il meccanismo). Critica del Giudizio, trad. di A. Gargiulo, Bari, Laterza, 1989, pp. 239-243.

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DENIS DIDEROT (1759) Ditemi, avete mai pensato seriamente a ciò che è vivere? Concepite che un essere possa mai passare dallo stato di non vivente allo stato di vivente? Un corpo cresce o diminuisce, si muove o si riposa, ma se non vive in virtù di se stesso credete che un cambiamento, quale che esso sia, possa dargli la vita? Vivere non equivale a muoversi, è un'altra cosa. Un corpo in movimento colpisce un corpo in riposo e questo si muove. Ma fermate, accelerate un corpo non vivente, aggiungeteci, levatene, organizzatelo, cioè disponetene le parti come voi l'immaginerete. Se sono morte, non vivranno né in una posizione né nell'altra. Supporre che mettendo accanto ad una particella morta, una, due o tre particelle morte se ne formerà un sistema di corpo vivente, è avanzare, mi sembra, un'assurdità molto forte. Come! La particella a collocata a sinistra della particella b non aveva coscienza della propria esistenza, né sentiva niente, era inerte e morta: una volta che quella posizionata a sinistra viene messa a destra, e quella a destra viene messa a sinistra, il tutto vive, si conosce, si sente? Ciò non è possibile. Che ruolo hanno qui la destra o la sinistra? c'è una parte e un'altra parte nello spazio? Se ciò fosse, il sentimento e la vita ne dipenderebbero. Ciò che ha queste qualità le ha sempre avute e le avrà sempre. Il sentimento e la vita sono eterni. Ciò che vive ha sempre vissuto e vivrà senza fine. La sola differenza che io conosca tra la vita e la morte, è che ora voi vivete come un tutto unico, e che fra vent'anni, dissolta, sparsa in molecole, voi vivrete in ognuna di esse. [ ... ] Il resto della serata è trascorsa col prendermi in giro su tale paradosso. Mi si offrivano delle belle pere che vivevano, dell'uva che pensava, ed io dicevo: quelli che si sono amati durante la loro vita e che si fanno seppellire l'uno accanto all'altro non sono forse cosl folli come si pensa. Forse le loro ceneri si comprimono, si mischiano e si uniscono. Cosa ne so io? Forse non hanno perso ogni sentimento, ogni memoria del loro primo stato? Forse hanno una rimanenza di calore e di vita di cui esse godono alla loro maniera in fondo all'urna fredda che le rinchiude. O mia Sophie, mi resterebbe dunque una speranza di toccarvi, di sentirvi, di amarvi, di cercarvi, di unirmi, di confondermi con voi, quando non ci saremo più! Se ci fosse nei nostri principi una legge di affinità, se ci fosse permesso di comporre un essere comune, se io dovessi nel corso dei secoli rifare un tutto con voi, se le molecole dissolte del vostro amante venissero ad agitarsi, a muoversi e a ricercare le vostre sparse nella natura! Lasciatemi questa chimera; mi è dolce; mi assicurerebbe l'eternità in voi e con voi. Lettera a Sophie Votland, 15 ottobre 1759, trad. a cura degli autori.

la vita non può essere data da un cambiamento meccanico, non può dipendere dalla diversa posizione delle particelle.

Ciò che è vivo lo sarà per sempre e noi, come insieme di molecole viventi, saremo sempre vivi, anche se sparsi nella natura.

Ci piace almeno illuderci che sia così, perché questo ci permetterebbe di restare uniti a chi amiamo, per l'eternità.

20 GEORG W.F. HEGEL (1800) La vita è un'unità e una pluralità al tempo stesso: è un'infinità di individui e di forme e un tutto unico organizzato.

Presupposta, fissata la vita indivisa, possiamo considerare i viventi come estrinsecazioni e presentazioni della vita, di cui viene posta al contempo la molteplicità proprio perché si tratta di estrinsecazioni, ed è anzi posta come molteplicità infinita che la riflessione poi fissa come punti stabili, sussistenti, saldi, insomma come individui. Oppure, presupposto un vivente (noi stessi che consideriamo), la vita posta oltre la nostra vita limitata è vita infinita, infinitamente molteplice, infinitamente opposta, con infinite relazioni; come pluralità è un'infinita pluralità di organismi, di individui; come unità è un unico tutto organizzato, separato e unificato, la natura. Questa è un porre della vita, poiché la riflessione ha portato nella vita i suoi concetti di relazione e di separazione, di singolo, di sussistente per sé, e di universale, di connesso; il primo è un limitato, il secondo un illimitato, e con il porli ha trasformato la vita in natura. Ora, poiché la vita come infinità dei viventi, e in questo modo come natura, è un infinitamente finito, un illimitatamente limitato, essendovi in essa quest'unificazione del finito e dell'infinito e la loro separazione, e poiché la natura non è essa stessa vita ma vita trattata e fissata dalla riflessione, sia pure nel modo più

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BARUCH SPINOZA (1675) PROPOSIZIONE XXIII. La Mente umana non può essere assolutamente distrutta insieme al Corpo, ma di essa rimane qualcosa che è eterno. Dimostrazione.

In Dio è dato necessariamente il concetto ossia l'idea che esprime l'essenza del Corpo umano e che perciò necessariamente è qualcosa che appa'.rtiene all'essenza della Mente umana. Ma noi non attribuiamo alla Mente umana alcuna durata che possa essere definita dal tempo, se non in quanto essa esprime l'esistenza attuale del Corpo che si esplica mediante la durata, e può essere definita dal tempo, cioè noi non le attribuiamo alcuna durata se non finché dura il Corpo. Tuttavia, poiché ciò che è concepito con una certa eterna necessità mediante l'essenza stessa di Dio è pure qualcosa, questo qualcosa che appartiene all'essenza della Mente, sarà necessariamente eterno.

Noi percepiamo e sperimentiamo la nostra eternità. Sentiamo che l'esistenza della nostra mente non può essere definita dal tempo e che essa è in relazione con il tempo solo in quanto implica l'esistenza attuale del corpo.

Scolio. Come abbiamo detto, quest'idea che esprime l'essenza del Corpo sotto specie di eternità, è un certo modo di pensare che appartiene all'essenza della Mente e che è necessariamente eterno. Non può tuttavia accadere che noi ricordiamo di essere esistiti prima del Corpo, poiché nel Corpo non vi può essere alcuna traccia di tale esistenza, e l'eternità non può essere definita mediante il tempo, né può avere con esso alcuna relazione. Nondimeno sentiamo e sperimentiamo che siamo eterni. Infatti la Mente sente le cose che concepisce, con l'atto del comprendere, non meno di quelle che ha nella memoria: Gli occhi della Mente, infatti, con cui essa vede e osserva le cose, sono le dimostrazioni stesse. Quindi benché non ricordiamo di essere esistiti prima del Corpo, tuttavia sentiamo che la nostra Mente, in quanto implica l'essenza del Corpo sotto specie di eternità, è eterna, e che questa sua esistenza non può essere definita dal tempo, ossia non può esser spiegata con la durata. Si può quindi dire che la nostra Mente dura e che la sua esistenza può essere definita da un certo tempo solo in quanto essa implica l'esistenza attuale del Corpo, e solo in questo senso essa ha la potenza di determinare con il tempo lesistenza delle cose e di concepirla in base alla durata. Etica, parte quinta, trad. di R Cantoni e M. Brunelli, Torino, Utet, 1972, pp. 363-364.

S0REN KI ERKEGAARD (1844) Tuttavia il presente non è il concetto del tempo, se non come infinitamente privo di contenuto, il che significa proprio lo svanire infinito. Se non si bada a ciò, per quanto si sia svelti nel farlo svanire, si è pure posto il presente, e dopo averlo posto si lascia eh' esso si trovi nelle determinazioni del passato e del futuro. L'eternità, invece, è il presente. Se si pensa leternità, essa è il presente come la successione tolta (mentre il tempo era la successione che passa). Per la rappresentazione ciò è un andare avanti che pure non si muove dal posto; perché l'eternità, per la rappresentazione, è il presente infinitamente pieno di còntenuto. Nell'eternità dunque, non si ritrova allora distinzione del passato e del futuro, perché il presente è posto come la successione tolta. Il tempo, così, è la successione infinita; la vita che è nel tempo ed è soltanto del tempo, non ha nessun presente. Il concetto dell'angoscia, trad. di C. Fabro, Firenze, Sansoni, 1965, p. 107. 124

Il vero presente è leternità, in cui è stata tolta ogni successione.

48 ERNST BLOCH (1954) Il futuro è /'elemento imprescindibile per qualsiasi tipo di aspirazione umana, è cioè quello che si spera e non quello che si teme.

Nelle società in decadenza, come quella borghese e occidentale in genere, si apre l'abisso del nichilismo e l'assenza di prospettive che è loro propria viene estesa a tutta l'umanità.

La speranza in un cambiamento di questo mondo, e non la proiezione dei nostri sogni in una dimensione puramente interiore o in un mondo di là da venire, è l'unica arma per combattere il nichilismo. Il sogno e la speranza sono le uniche prospettive soteriologiche contro la paura del nulla.

Nelle sue aspirazioni ogni uomo vive in primo luogo nel futuro, il passato viene solo in seguito e un vero presente non c'è ancora proprio quasi per niente. Il futuro contiene quel che si teme o quel che si spera; dunque secondo le intenzioni umane, qualora non le si frustri, contiene solo quel che si spera. La funzione e il contenuto della speranza vengono esperiti incessantemente e quando la società era in espansione venivano incessantemente attivati e diffusi. Unicamente quando una società invecchiata è in decadenza, come oggi quella occidentale, una certa intenzione parziale e transitoria va solo verso il basso. Allora in quelli che non riescono a tirarsi fuori dalla decadenza la paura si antepone alla speranza e anzi la combatte. Allora la paura si presenta come maschera soggettivistica, il nichilismo come maschera obiettivistica del fenomeno di crisi: un fenomeno sopportato ma non capito, deplorato ma non cambiato. La svolta è comunque impossibile su terreno borghese, per non dire poi nell'abisso, che vi si è formato e che è abitato, anche ammesso che la si volesse, il che proprio non è. Anzi l'interesse borghese vorrebbe conglobare nel proprio fiasco ogni interesse diverso, contrapposto; e così, per indebolire la nuova vita, fa sembrare fondamentale, ontologica, la propria agonia. L'assenza di prospettive dell'esistenza borghese viene dilatata ad assenza di prospettive della situazione umana in generale, dell'essere puro e semplice. Alla lunga, certo, invano: la vuotaggine borghese è effimera quanto la classe che sola ancora vi si esprime, e inconsistente quanto la parvenza di essere della sua cattiva immediatezza, una parvenza alla quale è votata (legata a doppio filo). E poi, in senso temporale quanto materiale, la mancanza di speranz~ è la cosa più insopportabile, assolutamente intollerabile per i bisogni umani. E per questo che perfino l'inganno, per funzionare, deve lavorare suscitando speranza con lusinghe e corruzione. È proprio per questo che da tutti i pulpiti si continua a predicare la speranza, ma accuratamente rinchiusa nella pura interiorità o legata consolatoriamente all'aldilà. È per questo che financo le ultime miserie della filosofia occidentale non sono più in grado di ammannire la loro filosofia della miseria senza prestare su pegno un oltrepassamento, un superamento. Cioè non ne sono più in grado se non sostenendo che l'uomo è sì essenzialmente determinato a partire dal futuro, significando però, con un atteggiamento tra cinico e disinteressato, ipostatizzato dalla propria condizione di classe che il futuro sarebbe l'insegna del "night-club del No Future" e la destinazione dell'uomo il nulla. Ma lasciamo che i morti seppelliscano i loro motti; anche nel ritardo in cui la notte troppo prolungata lo frena, il giorno incipiente porge l'orecchio ad altro che all'afoso imputridire del suono funereo e al suo vuoto nichilismo. Finché l'uomo è nell' ambascia la sua esistenza pubblica e privata è percorsa da sogni ad occhi aperti; sogni di una vita migliore di quella che finora gli è toccata. Nel non autentico, e quanto più poi nell'autentico, ogni intenzione umana è riportata a questo fondamento. E anche lì dove esso può ingannare, come tanto spesso è accaduto finora, perché ora è pieno di banchi di sabbia, ora è pieno di chimere, può essere contemporaneamente denunciato, ed eventualmente chiarito, solo con la tendenza obiettiva e dell'intenzione soggettiva. Corruptio optimi pessima: la speranza che imbroglia è uno dei maggiori malfattori e anche debilitatoti del genere umano, quella concretamente autentica il suo più serio benefattore. Dunque soggettivamente la speranza consapevole e concreta è la forza decisiva contro la paura e oggettivamente conduce nel modo più efficace all'eliminazione delle cause della paura. Il principio speranza, Vol. I, trad. di E. De Angelis, Milano, Garzanti, 1994, pp. 6-8. 125

HENRI BERGSON (1907) La caratteristica essenziale del meccanicismo è, infatti, di considerare il passato e l'avvenire come calcolabili in funzione del presente e di pretendere che tutto è dato. Secondo tale ipotesi, un'intelligenza sovrumana, capace di effettuare il calcolo, abbraccerebbe d'un solo sguardo passato, presente e avvenire. Perciò gli scienziati che hanno creduto all'universale validità e alla perfetta oggettività delle spiegazioni meccaniche hanno formulato, consapevolmente o no, un'ipotesi consimile. Già il Laplace la formulava con la massima precisione: "Un'intelligenza che, in un istante dato, conoscesse tutte le forze da cui la natura è animata e la situazione rispettiva degli esseri che la compongono, e che fosse tanto vasta da sottoporre tali dati all'analisi, abbraccerebbe in una sola formula i movimenti dei più grandi corpi dell'universo e quelli del minimo atomo: nulla per essa sarebbe incerto, e l'avvenire, come il passato, sarebbe presente al suo sguardo". E il Dubois-Reymond: "Possiamo immaginare la conoscenza della natura pervenuta a un punto in cui il processo universale del mondo sia rappresentato da una sola formula matematica, da un unico immenso sistema di equazioni differenziali simultanee, da cui si possan dedurre, per qualsiasi momento, la posizione, la direzione e la velocità di ogni atomo del mondo". Anche l'Huxley ha espresso, in forma più concreta, la stessa idea: "Se il principio fondamentale dell'evoluzione è vero, - se è vero, cioè che il mondo intero, animato e inanimato, è il prodotto dell'azione reciproca, svolgentesi secondo leggi definite, delle forze possedute dalle molecole di cui era costituita la nebulosa primitiva dell'universo, - dev'esser altrettanto certo che il mondo attuale era virtualmente contenuto nel vapore cosmico originario, e che un'intelligenza adeguata, che avesse conosciuto le proprietà delle molecole di quel vapore, avrebbe potuto predire, ad esempio, le condizioni della fauna della Gran Bretagna nel 1868 con la stessa sicurezza con cui sappiamo ciò che accadrà del vapore della respirazione in una fredda giornata invernale". In una dottrina consimile si parla ancora del tempo, si pronuncia la parola, ma non si pensa punto alla cosa: il tempo vi è considerato, infatti, come privo di qualsiasi efficacia e, perciò stesso, come irreale. Il meccanicismo radicale implica una metafisica per cui la totalità del reale è già data, in blocco, nell'eternità, e per cui la durata apparente delle cose esprime solo l'infermità di un pensiero che non può conoscere tutte le cose simultaneamente. Ma per la nostra coscienza, - ossia, per quel che nella nostra esperienza c'è di più certo, - la durata è tutt'altra cosa: è una corrente che non si può risalire. Essa è il fondo del nostro essere e la sostanza delle cose con le quali siamo in relazione. Invano si fa brillare davanti ai nostri occhi la prospettiva di una matematica universale: non possiamo sacrificare la esperienza alle esigenze di un sistema. Per questo respingiamo il meccanicismo radicale. I:evoluzione creatrice, trad. di P. Serini, Milano, Mondadori, 1949, pp. 92-94.

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La prospettiva meccanicistica si fonda su una visione della realtà come già data, in blocco, nel/'eternità.

Il tempo è perciò considerato qualcosa di irreale, una dimensione apparente di un pensiero limitato, incapace di conoscere tutte le cose simultaneamente.

49 JACOUES MONOD (1970) Per Laplace un incidente mortale è qualcosa di iscritto da sempre nell'ordine necessario dell'universo.

Per chi ammette il caso l'incidente è provocato dalla concomitanza di due serie di avvenimenti del tutto indipendenti fra loro.

Il principio di indeterminazione, pur non completamente accettato da grandi scienziati come Einstein, è tuttavia accolto oggi dalla maggioranza dei fisici.

Il caso e l'imprevedibile fanno parte della natura.

Supponiamo che il dott. Dupont sia chiamato d'urgenza presso un ammalato che visita per la prima volta, mentre lo stagnino Dubois sta effettuando la riparazione urgente del tetto di un edificio vicino. Quando il dott. Dupont passa, allo stagnino sfugge inavvertitamente il martello e la traiettoria (deterministica) di quest'ultimo intercetta quella del medico che muore con il cranio fracassato. Noi diremmo che egli ha avuto una cattiva sorte: quale altro termine usare per un simile avvenimento, imprevedibile per la sua stessa natura? Il caso va considerato qui come essenziale, inerente all'indipendenza totale delle due serie di avvenimenti, la cui concomitanza provoca l'incidente. Ora, esiste un'indipendenza totale anche tra gli avvenimenti che possono provocare, o permettere, un errore nella replicazione del messaggio genetico e le conseguenze funzionali di tale errore. Queste dipendono dalla struttura, dall'effettiva funzione della proteina modificata, dalle interazioni che essa assicura, dalle reazioni che catalizza. Tutte cose che non hanno nulla a che vedere con l'avvenimento mutazionale stesso né con le sue "cause" immediate o lontane, qualunque ne sia d'altronde la natura, determinista o no. Esiste infine, in scala microscopica, una fonte di indeterminazione ancora più radicale, innestata sulla struttura quantistica della materia stessa. Una mutazione rappresenta in sé un avvenimento microscopico, quantistico, al quale di conseguenza si applica il principio di indeterminazione: avvenimento, quindi, essenzialmente imprevedibile per la sua stessa natura. Come è noto, il principio di indeterminazione non è mai stato completamente accettato da alcuni tra i più grandi fisici moderni, a cominciare da Einstein il quale diceva di non poter ammettere che "Dio giochi ai dadi". Certe scuole hanno voluto scorgervi solo un concetto puramente operativo e non essenziale. Tutti gli sforzi compiuti per sostituire alla teoria quantistica una struttura più "fine", da cui sarebbe scomparsa l'indeterminazione, si sono conclusi con un insuccesso e oggi pochissimi fisici sembrano disposti a credere che tale principio potrà mai essere cancellato dalla loro disciplina. Comunque sia, si deve sottolineare che, se anche il principio di indeterminazione dovesse un giorno essere abbandonato, tra il determinismo, sia pure totale, di una mutazione di sequenza nel DNA e quello degli effetti funzionali di quest'ultima a livello delle interazioni della proteina, si potrebbe ancora scorgere soltanto una "coincidenza assoluta" nel senso definito prima nella parabola dello stagnino e del dottore. L'avvenimento resterebbe quindi nell'ambito del caso "essenziale". A meno, naturalmente, di non voler tornare all'universo di Laplace dal quale il caso veniva escluso per definizione e nel quale il dottore doveva da sempre morire sotto il martello dello stagnino. Il caso e la necessità, trad. di A. Busi, Milano, Mondadori, 1975, pp. 114-116.

Marce/ Proust, al centro fra un gruppo di amici (pag. 128).

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MARCEL PROUST (1927 postumo) Volgendo nell'animo i tristi pensieri di cui or ora parlavo, ero entrato nel cortile del palazzo Guermantes e, assorto com'ero in essi, non m'ero accorto d'un'automobile che stava avanzando; al grido dell'autista ebbi appena tempo di scansarmi bruscamente, e indietreggiai tanto da inciampare mio malgrado contro i ciottoli mal livellati dietro i quali si trovava una rimessa. Ora, nel momento in cui, per recuperare l'equilibrio, posai il piede su un ciottolo un po' meno rialzato del precedente, tutto il mio scoraggiamento svanl di fronte alla medesima felicità che, in momenti diversi della mia vita, m' avevan procurata la veduta d'alberi che avevo creduto di riconoscere in una passeggiata in carrozza nei dintorni di Balbec, la vista dei campanili di Martinville, il sapore d'una madeleine inzuppata in un infuso, e tante altre sensazioni di cui ho parlato [. .. ]. Come nel momento in cui stavo assaporando la madeleine, ogni apprensione per l'avvenire, ogni dubbio intellettuale si dissipò. [. .. ] Ma, questa volta, mi ripromettevo fermamente di non rassegnarmi a ignorarne il perché: come avevo fatto invece il giorno in cui avevo assaporato una madeleine inzuppata in un infuso. La mia felicità di ora, infatti, era pur la medesima da me provata in quell'occasione, e di cui avevo allora rinunciato a ricercare le cause profonde. [. .. ] Se riuscivo a ritrovare quel che avevo sentito posando cosl i miei piedi, di nuovo la visione abbagliante e indistinta mi sfiorava, come per dirmi: «Coglimi al volo, se ne sei capace, e studiati di sciogliere l'enigma di felicità che ti propongo». E quasi subito la ravvisai: era Venezia, di cui nulla mi avevano mai detto i miei sforzi per descriverla e le pretese «istantanee» della mia memoria, e che la sensazione, da me provata un giorno su due lastre diseguali del battistero di San Marco, mi aveva restituita, insieme a tutte le altre sensazioni connesse a lei in quel giorno, e rimaste in attesa, al loro posto, nella schiera dei giorni dimenticati, donde d'improvviso il caso le aveva tratte imperiosamente. Allo stesso modo, il sapore della madeleine mi aveva ricordato Combray. Ma, perché mai le immagini di Combray e di Venezia m'avevano dato, nell'un momento e nell'altro, una gioia simile a una certezza e sufficiente, senza altre prove, a rendermi indifferente la morte? Mentre me lo domandavo, ormai risoluto a trovare la risposta, entrai nel palazzo Guermantes [. .. ]. Ma, giunto al primo piano, un maggiordomo mi pregò d'entrare un momento in un salottino-biblioteca attiguo al buffè [... ]. Ora, in quello stesso momento, un secondo avvertimento venne a rafforzare quello datomi dalle pietre diseguali, e a esortarmi a perseverare nel mio proposito. Un domestico, nei suoi infruttuosi sforzi per non far rumore, aveva urtato un cucchiaio contro un piatto. Fui invaso dallo stesso genere di felicità che m'avevan data i ciottoli diseguali. Erano, anche questa volta, sensazioni di grande calura, ma affatto differenti, miste a un odor di fumo temperato da un fresco odore d'alberi; e io m'accorsi che quanto mi sembrava ora cosi gradevole era il medesimo filare d'alberi che avevo giudicato noioso da osservare e da descrivere, e davanti al quale, in atto di sturar la bottiglia di birra che avevo con me in treno, avevo per un istante creduto di ritrovarmi in una specie d' allucinazione, tanto il rumore identico del cucchiaio contro il piatto m'aveva dato, prima che avessi avuto il tempo di riavermi, l'illusione del rumore della martellata d'un ferroviere su una ruota del vagone per aggiustar non so che cosa, mentre ci trovavamo fermi davanti a quel boschetto. [..,] Un maggiordomo avvenne d'asciugarmi la bocca col tovagliolo ch'egli m'aveva dato; e di colpo, [... ], una nuova visione d'azzurro balenò davanti ai miei occhi, un azzurro, questa volta, puro e salino, che si gonfiava in mammelle bluastre. Fu un'impressione così forte da farmi sembrare attuale l' attimo che stavo rivivendo: e, pili stordito del giorno in cui m'ero domandato se davvero sarei stato ricevuto dalla principessa di Guermantes o se piuttosto non sarebbe sprofondata ogni cosa, credetti che il domestico avesse in quel momento aperta la finestra sulla spiaggia, e che tutto m'invitasse a scendervi e a passeggiare lungo il molo durante l'alta marea; il tovagliolo da me preso per asciugarmi la bocca aveva precisamente la stessa inamidata rigidezza dell'asciugamano col quale avevo tanto stentato ad asciugarmi, dinanzi alla finestra, il giorno del mio arrivo a Balbec; e adesso, davanti alla biblioteca del palazzo Guermantes, esso dispiegava, spartite nelle sue pieghe e piegoline, le piume d'un oceano verde e turchino come la coda d'un pavone. E io non gioivo soltanto di quei colori, ma di tutto un momento della mia vita che li suscitava, che era stato certamente un'aspirazione a loro; momento di cui qualche senso di stanchezza o di tristezza m'aveva forse impedito di gioire a Balbec 128

e che ora, spoglio di quanto c'è d'imperfetto nella percezione esteriore, puro e disincarnato, mi colmava di allegrezza. [. .. ] Mi sforzavo di veder chiaro, il piu presto possibile, nella natura dei piaceri identici che per tre volte in pochi minuti avevo provati, e di trarne poi l'opportuno insegnamento. Sull'enorme divario tra l'impressione reale che abbiamo avuta di una cosa e l'impressione fittizia che ce ne formiamo, allorché tentiamo volutamente di rappresentarcela, non mi soffermai: ricordando molto bene con quale relativa indifferenza Swann aveva potuto parlare dei giorni in cui era amato, perché sotto questa frase egli scorgeva qualcosa di diverso da essi, e il subitaneo dolore che gli aveva causato invece la piccola frase di Vinteuil restituendogli quei giorni stessi, quali li aveva allora vissuti, comprendevo chiaramente che ciò che la sensazione del lastricato ineguale, la ruvidezza del tovagliolo, il sapore della madeleine avevano risvegliato in me non aveva nessun rapporto con quanto cercavo spesso di ricordare di Venezia, di Balbec, di Combray, col solo ausilio d'una memoria uniforme - e capivo come la vita possa essere giudicata mediocre, anche se in certi momenti sia apparsa così bella, perché la si giudica (e deprezza) in base a tutt'altra cosa che lei stessa, a immagini che di lei nulla conservano. Piuttosto, notavo in via accessoria che la differenza fra ognuna delle impressioni reali, era dovuta probabilmente a questo: che la menoma parola da noi detta in un certo momento della nostra vita, il più futile gesto da noi compiuto, era circonfuso, portava su di sé il riverbero di cose che logicamente non avendo attinenza con lui, ne sono state separate dall'intelligenza che di esse non sapeva che farsi ai fini del ragionamento, ma in mezzo alle quali - qui roseo riflesso del crepuscolo sul muro fiorito d'un ristorante campestre, sensazione di fame, desiderio delle donne, piacere del lusso; là volute azzurre d'un mare mattutino avviluppante frasi musicali che ne emergono in parte come le spalle delle ondine - il gesto, l'atto più semplice resta chiuso come in mille giare sigillate, ciascuna delle quali sia riempita di cose d'un colore, d'un odore, d'una temperatura assolutamente differenti; senza dire che tali giare, disposte lungo la cresta dei nostri anni durante i quali non abbiamo smesso di mutare, sia pur soltanto nei nostri sogni o pensieri, son situate ad altezze molto diverse e ci danno la sensazione di atmosfere singolarmente variate. È vero che quei cambiamenti li abbiamo compiuti in modo insensibile; ma tra il ricordo che torna a noi d'improvviso e il nostro stato presente, così come tra due ricordi di anni, di luoghi, di ore differenti, la distanza è tale da bastare da sola, indipendentemente da ogni specifica originalità, a renderli incomparabili gli uni con gli altri. Sì, se il ricordo, grazie all'oblio, non ha potuto contrarre nessun legame, gettare nessun ponte tra sé e il momento presente: se è rimasto nel suo proprio luogo, alla sua propria data, se ha conservato le distanze, il suo isolamento nella profondità d'una valle o sulla vetta d'una montagna, esso ci fa di colpo respirare un'aria nuova, nuova proprio perché è un'aria che s'è già respirata in passato, - quell'aria piu pura che invano i poeti hanno tentato di far regnare in Paradiso, e che non potrebbe darci questa sensazione profonda di rinnovellamento se non fosse già stata respirata, perché i veri paradisi sono i paradisi che abbiamo perduti. [... ] Sorvolavo rapidamente su tutto ciò, più imperiosamente sollecitato come ero a cercare la causa di quella felicità, del carattere di certezza con cui essa si imponeva: ricerca in passato sempre procrastinata. Ora, tale causa mi pareva di indovinarla, comparando tra loro le diverse impressioni di felicità, le quali avevano in comune questo: che io le provavo a un tempo nel momento presente e in un momento lontano, si da far interferire il passato sul presente, da rendermi titubante nello stabilire in quale dei due mi trovassi. Invero, l'essere che in me delibava allora tale impressione la delibava in ciò che essa aveva di comune in un giorno trascorso e nel momento presente, in ciò che aveva di extratemporale: un essere che compariva solo quando, per una di tali identità tra il presente e il passato, gli era possibile trovarsi nell'unico elemento in cui gli è dato vivere, e gioire dell'essenza delle cose: ossia, fuori del tempo. Alla ricerca del tempo perduto. Il tempo ritrovato, trad. di G. Caproni, Torino, Einaudi, 1991, pp. 196-201.

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FRIEDRICH NIETZSCHE (1874) Osserva il gregge che ti pascola innanzi: esso non sa cosa sia ieri, cosa oggi, salta intorno, mangia, riposa, digerisce, torna a saltare, e così dall'alba al tramonto e di giorno in giorno, legato brevemente con il suo piacere e dolore, attaccato cioè al piuolo dell'istante, e perciò né triste né tediato. Il veder ciò fa male all'uomo, poiché al confronto dell'animale egli si vanta della sua umanità e tuttavia guarda con invidia alla felicità di quello - giacché questo soltanto egli vuole, vivere come l'animale né tediato né fra dolori, e lo vuole però invano, perché non lo vuole come l'animale. L'uomo chiese una volta all'animale: perché non mi parli della tua felicità e soltanto mi guardi? L'animale dal canto suo voleva rispondere e dire: ciò deriva dal fatto che dimentico subito quel che volevo dire - ma subito dimenticò anche questa risposta e tacque; sicché l'uomo se ne meravigliò. Ma egli si meravigliò anche di se stesso, per il fatto di non poter imparare a dimenticare e di essere continuamente legato al passato: per q_uanto lontano, per quanto rapidamente egli corra, corre con lui la catena. E un miracolo: l'istante, eccolo presente, eccolo già sparito, prima un niente, dopo un niente, torna tuttavia ancora come spettro, turbando la pace di un istante posteriore. Continuamente un foglio si stacca dal rotolo dcl tempo, cade, vola via - e rivola improvvisamente indietro, in grembo all'uomo. Allora l'uomo dice «mi ricordo» e invidia l'animale che subito dimentica e che vede veramente morire, sprofondare nella nebbia e nella notte, spegnersi per sempre ogni istante. Quindi l'animale vive in modo non storico, poiché si risolve come un numero nel presente, senza che ne resti una strana frazione; non è in grado di fingere, non nasconde nulla e appare in ogni momento in tutto e per tutto come ciò che è, quindi non può essere nient'altro che sincero. L'uomo invece resiste sotto il grande e sempre più grande carico del passato: questo lo schiaccia a terra e lo piega da parte; questo appesantisce il suo passo come un invisibile e oscuro fardello, che egli può ben far mostra di rinnegare, e che nei rapporti coi suoi simili rinnega fin troppo volentieri, per suscitare la loro invidia.[. .. ] [. .. ] sia nella massima sia nella minima felicità, è sempre una cosa sola quella per cui la felicità diventa felicità: il poter dimenticare o, con espressione più dotta, la capacità di sentire, mentre essa dura, in modo non storico. Chi non sa mettersi a sedere sulla soglia dell'attimo dimenticando tutte le cose passate, chi non è capace di star ritto su un punto senza vertigini e paura come una dea della vittoria, non saprà mai che cosa sia la felicità, e ancor peggio, non farà mai alcunché che renda felici gli altri. [. .. ] Per ogni agire ci vuole oblio: come per la vita di ogni essere organico ci vuole non soltanto luce, ma anche oscurità. Un uomo che volesse sentire sempre e solo storicamente, sarebbe simile a colui che venisse costretto ad astenersi dal sonno, o all'animale che dovesse vivere solo ruminando e sempre per ripetuta ruminazione. Dunque, è possibile vivere quasi senza ricordo, anzi vivere felicemente, come mostra l'animale; ma è assolutamente impossibile vivere in generale senza oblio. Ovvero, per spiegarmi su questo tema ancor più semplicemente: c'è un grado di insonnia, di ruminazione, di

senso storico, in cui l'essere vivente riceve danno e alla fine perisce, si tratti poi di un uomo, di un popolo o di una civiltà. Sul!'utilità e il danno della storia per la vita, trad. di S. Giametta, Milano, Adelphi, 1988, pp. 6-8.

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L'animale vive felice perché dimentica, mentre il carico del passato schiaccia l'uomo.

Chi non sa dimenticare, non saprà mai cos'è la felicità.

Il dimenticare è necessario per agire: troppi ricordi paralizzano. È possibile vivere senza ricordare, ma è de/tutto impossibile anche semplicemente vivere senza . dimenticare. L'eccessivo storicismo è dannoso per la vita.

51 La riappropriazione critica del passato è necessaria non solo da un punto di vista teorico, ma anche praticopolitico: vivere il presente con maggior consapevolezza significa essere in grado di esercitarvi la nostra azione.

La struttura è il passato reale che continua a sussistere come condizione del presente e del futuro.

Comprendere il passato significa individuare lo sviluppo della realtà nella sua contraddittorietà, e quindi commettere meno errori, come ad esempio scambiare fatti organici, di struttura, con quelli contingenti e transeunti.

ANTONIO GRAMSCI (1929-1935} Critica del passato. Come (e perché) il presente sia una critica del passato, oltre che un suo «superamento». Ma il passato è perciò da gettar via? È da gettar via ciò che il presente ha criticato «intrinsecamente» e quella parte di noi stessi che a ciò corrisponde. Cosa significa ciò? Che noi dobbiamo aver coscienza esatta di questa critica reale e darle un'espressione non solo teorica, ma politica. Cioè dobbiamo essere più aderenti al presente che noi stessi abbiamo contribuito a creare, avendo coscienza del passato e del suo continuarsi (e rivivere). Passato e presente, Torino, Einaudi, 1974, p.4.

Come occorre intendere l'espressione «condizioni materiali» e l' «insieme» di questa condizioni? Come il «passato», la «tradizione», concretamente intesi, obbiettivamente constatabili e «misurabili» con metodi di accertamento «universalmente» soggettivi, cioè appunto «oggettivi». Il presente operoso non può non continuare, sviluppandolo, il passato, non può non innestarsi nella «tradizione». Ma come riconoscere la «vera» tradizione, il «vero» passato ecc.? Cioè la storia reale, effettiva e non la velleità di fare una nuova storia che cerca nel passato una sua giustificazione tendenziosa, di «superstruttura»? È passato reale la struttura appunto, perché essa è la testimonianza, il «documento» incontrovertibile di ciò che è stato fatto e continua a sussistere come condizione del presente e dell'avvenire. Si potrà osservare che nell'esame della «struttura» i singoli critici possono sbagliare affermando vitale ciò che è morto, o non è germe di nuova vita da sviluppare, ma il metodo stesso non può essere confutato perentoriamente. Che esista possibilità di errore è ammissibile senz'altro, ma sarà errore dei singoli critici (uomini politici, statisti) non errore di metodo. Ogni gruppo sociale ha una «tradizione», un «passato» e pone questo come il solo e totale passato. Quel gruppo che comprendendo e giustificando tutti questi «passati», saprà identificare la linea di sviluppo reale, perciò contraddittoria, ma nella contraddizione passibile di superamento, commetterà «meno errori», identificherà più elementi «positivi» su cui far leva per creare nuova storia. Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Torino, Einaudi, 1974, p. 222.

FRIEDRICH NIETZSCHE (1882) Il peso più grande. Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: «Questa vita, come tu ora la vivi e l'hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione - e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L'eterna clessidra dell'esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere!». Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse vissuto una volta un attimo immenso, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: «Tu sei un dio e mai intesi cosa più divina»? Se quel pensiero ti prendesse in suo potere, a te, quale sei ora, farebbe subire una metamorfosi, e forse ti stritolerebbe; la domanda per qualsiasi cosa: «Vuoi tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte?» graverebbe sul tuo agire come il peso più grande! Oppure, quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non desiderare più alcun' altra cosa che questa ultima eterna sanzione, questo suggello? La gaia scienza, trad. di F. Masini, Milano, Adelphi, 1989, pp. 201-202.

Come potrebbe reagire un uomo alla prospettiva dell'eterno ritorno? Sarebbe per lui un pensiero insostenibile da cui si sentirebbe stritolato? Oppure penserebbe ad un attimo della sua vita vissuto in un modo talmente intenso da fargli desiderare di riviverlo eternamente?

FRI EDRICH NIETZSCHE (1883-1885) Un sentiero, che saliva ostile tra il pietrame, maligno, solitario, abbandonato anche da erbacce ed arbusti, un sentiero di montagna scricchiolava sotto l'assalto del mio piede. Muto camminando su uno schernevole crepitio di ciottoli, calpestando la pietra che lo faceva scivolare: così il mio piede si faceva strada verso l'alto. Verso l'alto: - a dispetto dello spirito, che lo attirava verso il basso, verso l'abisso, a dispetto dello spirito di gravità, il mio demonio e nemico mortale. Verso l'alto: - sebbene fosse seduto su di me, mezzo nano, mezzo talpa; storpio e storpiante; piombo nel mio orecchio, stillando pensieri - gocce-di-piombo nel mio cervello. «0 Zarathustra», sussurrava schernevole sillaba per sillaba «pietra filosofale! Scagliasti te stesso in alto, ma ogni pietra scagliata deve - ricadere! Condannato a te stesso e all' autolapidazione: o Zarathustra scagliasti, sì, lontano la pietra - ma essa, ricadrà su di te!» Qui il nano tacque; e ciò durò a lungo. Ma il suo tacere mi opprimeva; ed essere in due in questo mondo, è in verità essere più soli che da soli! Salivo, salivo, sognavo, pensavo, - ma tutto mi opprimeva; somigliavo a un malato che la sua tremenda tortura rende affranto e che un sogno ancor più tremendo ridesta mentre sta per addormentarsi. Ma c'è qualcosa in me che io chiamo coraggio: e questo finora mi ammazzò sempre ogni scoraggiamento. Questo coraggio alla fine mi ordinò di fermarmi e dire: «Nano! Tu o io!»[ ... ] «Guarda questa porta, nano!» continuai io «Ha due facce. È il punto di convergenza di due strade: nessuno le percorse mai sino in fondo. Questa lunga via fino alla porta: dura un'eternità. E quella lunga via al di là della porta - è un'altra eternità. Si contraddicono questi due cammini; cozzano con la testa uno contro l'altro: - e qui, a questa po1ta maestra, è il punto dove convergono. Il nome della porta maestra è scritto lassù in alto: «Attimo». Ma chi ne percorresse uno dei due - sempre avanti, sempre più lontano: credi, nano, che questi cammini si contraddicano in eterno?» [. .. ] Guarda, continuai, questo attimo! Da questa porta maestra detta Attimo si diparte all'indietro una via lunga ed eterna: dietro di noi si stende un'eternità. Quelle che fra le cose possono camminare non devono per forza aver percorso una volta questa via? Non deve ogni cosa che può accadere essere già accaduta, compiuta, passata oltre? Cost'parlò Zarathustra, trad. di A.M. Catpi, Roma, Newton Compton, 1984, pp. 124-126. 132

Il tempo è un peso che ci schiaccia, che annulla anche le più alte delle nostre opere.

Solo l'idea de/l'eterno ritorno può eludere questo peso.

52 MILAN KUNDERA (1984) Noi viviamo in un mondo fondato sull'inesistenza del ritorno, in cui tutto è perdonato perché ormai irreversibilmente passato. Nella prospettiva dell'eterno ritorno le cose non hanno l'attenuante della fugacità e noi siamo gravati da una responsabilità incredibilmente schiacciante in ogni attimo della nostra vita. L'eterno ritorno è il fardello più pesante, al cospetto del quale la nostra vita ci appare estremamente leggera. Ma davvero dovremmo preferire la leggerezza alla pesantezza? La leggerezza non priva di significato la nostra vita 7

I.:idea dell'eterno ritorno è misteriosa e con essa Nietzsche ha messo molti filosofi nell'imbarazzo: pensare che un giorno ogni cosa si ripeterà così come l'abbiamo già vissuta, e che anche questa ripetizione debba ripetersi all'infinito! Che significato ha questo folle mito? Il mito dell'eterno ritorno afferma, per negazione, che la vita che scompare una volta per sempre, che non ritorna, è simile a un'ombra, è priva di peso, è morta già in precedenza, e che, sia stata essa terribile, bella o splendida, quel terrore, quello splendore, quella bellezza non significano nulla. Non occorre tenerne conto, come di una guerta fra due Stati africani del quattordicesimo secolo che non ha cambiato nulla sulla faccia della terra, benché trecentomila negri vi abbiano trovato la morte fra torture indicibili. E anche in questa guerra fra due Stati africani del quattordicesimo secolo, cambierà qualcosa se si ripeterà innumerevoli volte nell'eterno ritorno? Sì, qualcosa cambierà: essa diventerà un blocco che svetta e perdura, e la sua stupidità non avrà rimedio. Se la Rivoluzione francese dovesse ripetersi all'infinito, la storiografia francese sarebbe meno orgogliosa di Robespierre. Dal momento, però, che parla di qualcosa che non ritorna, gli anni di sangue si sono trasformati in semplici parole, in teorie, in discussioni, sono diventati più leggeri delle piume, non incutono paura. C'è un'enorme differenza tra un Robespierre che si è presentato una volta sola nella storia e un Robespierre che torna eternamente a tagliare la testa ai francesi. Diciamo quindi che l'idea dell'eterno ritorno indica una prospettiva dalla quale le cose appaiono in maniera diversa da come noi le conosciamo: appaiono prive della circostanza attenuante della loro fugacità. Questa circostanza attenuante ci impedisce infatti di pronunciare un qualsiasi verdetto. Si può condannare ciò che è effimero? La luce rossastra del tramonto illumina ogni cosa con il fascino della nostalgia: anche la ghigliottina. Or non è molto, mi sono sorpreso a provare una sensazione incredibile: stavo sfogliando un libro su Hitler e mi sono commosso alla vista di alcune sue fotografie: mi ricordavano la mia infanzia; io l'ho vissuta durante la guerra; parecchi miei familiari hanno trovato la morte nei campi di concentramento hitleriani; ma che cos'era la loro morte davanti a una fotografia di Hitler che mi ricordava un periodo scomparso della mia vita, un periodo che non sarebbe più tornato? Questa riconciliazione con Hitler tradisce la profonda perversione morale che appartiene ad un mondo fondato essenzialmente sull'inesistenza del ritorno, perché in un mondo simile tutto è già perdonato e quindi tutto è cinicamente permesso. Se ogni secondo della nostra vita si ripete un numero infinito di volte, siamo inchiodati all'eternità come Gesù Cristo alla croce. È un'idea terribile. Nel mondo dell'eterno ritorno, su ogni oggetto grava il peso di una insostenibile responsabilità. Ecco perché Nietzsche chiamava l'idea dell'eterno ritorno il fardello più pesante. Se l'eterno ritorno è il fardello più pesante, allora le nostre vite su questo sfondo possono apparire in tutta la loro meravigliosa leggerezza. Ma davvero la pesantezza è terribile e la leggerezza meravigliosa? Il fardello più pesante ci opprime, ci piega, ci schiaccia al suolo. Ma nella poesia d'amore di tutti i tempi la donna desidera essere gravata dal fardello del corpo dell'uomo. Il fardello più pesante è quindi allo stesso tempo l'immagine del più intenso compimento vitale. Quanto più il fardello è pesante, tanto più la nostra vita è vicina alla terra, tanto più è reale e autentica. Al contrario, l'assenza assoluta di un fardello fa sì che l'uomo diventi più leggero dell'aria, prenda il volo verso l'alto, si allontani dalla terra, dall'essere terreno, diventi solo a metà reale e i suoi movimenti siano tanto liberi quanto privi di significato. Che cosa dobbiamo scegliere, allora? La pesantezza o la leggerezza? !.:insostenibile leggerezza dell'essere, trad. di A. Barbato, Milano, Adelphi, 1985, pp. 11-14.

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MARTIN HEIDEGGER (1927) La tesi fondamentale dell'interpretazione ordinaria del tempo, cioè l' «infinità» del tempo, rivela nel modo più lampante il velamento e il livellamento del tempo-mondano e quindi della temporalità in generale che contraddistinguono questa interpretazione. Il tempo si presenta, innanzi tutto, come una successione ininterrotta di «ora». Ogni «ora» è già anche un «or ora» o un «fra poco». Se la comprensione del tempo fa leva primariamente o esclusivamente su questa successione, non potrà mai incontrare né una fine né un principio. Ogni «ora» ultimo, in guanto «ora», è sempre già un «tosto-non-più» ed è perciò tempo nel senso dell' «ora-non-più» del passato. Ogni «ora» primo è sempre un testé-non-ancora e quindi tempo nel senso dell' «ora-non-ancora», cioè dell' «avvenire». Il tempo è quindi infinito da «entrambe le parti». Questa concezione del tempo si muove nell'orizzonte fantastico di una successione in sé esistente di «ora» semplicemente-presenti [. .. ]. Se «si pensa» la «fine» della successione degli «ora» nell'orizzonte del1'esser- presente e del non esser-presente, tale fine non può mai essere trovata. Dal fatto che questo pensare la fine del tempo deve ancor sempre pensare tempo, si deduce che il tempo è infinito. Ma dove si fonda il livellamento del tempo-mondano e il coprimento della temporalità? Nell'essere stesso dell'Esserci che noi abbiamo già interpretato in sede preparatoria come Cura. Gettato e deietto, l'Esserci è innanzi tutto e per lo più perduto in ciò di cui si prende cura. Ma questa perdizione è la fuga in cui l'Esserci si nasconde davanti alla sua esistenza autentica, cioè in cospetto della decisione anticipatrice. Questa fuga dominata dalla cura è una fuga dinanzi alla morte, cioè un rifiuto di vedere la fine dell'essere -nel-mondo. Questo «rifiuto di...» è come tale un modo di essere, estaticamente ad-veniente per la fine. Questa temporalità inautentica dell'Esserci deiettivo-quotidiano, in guanto determinata dal rifiuto della finitudine, è votata al disconoscimento dell' ad-venire autentico e della temporalità in generale. E poiché la comprensione volgare dell'Esserci è guidata dal Si, diviene possibile il consolidamento della «rappresentazione» dell' «infinità» del tempo pubblico presupponente l'oblio di sé. Il Si non muore mai perché non può morire; la morte, infatti, è sempre mia, e può esser compresa esistentivamente nella sua autenticità soltanto nella decisione anticipatrice. Il Si, che non muore mai e che disconosce l'essere-per-la-fine, dà un'interpretazione caratteristica della fuga davanti alla morte. Egli «ha sempre ancora tempo», fino alla fine. Si tratta di un aver-tempo nel senso di poter perdere tempo: «Ora, innanzi tutto questo, poi questo, poi solo più questo, e poi...». Ogni comprensione della finitudine del tempo è venuta meno; anzi il prendersi cura vuol cogliere guanto più può del tempo che sopravviene e «passa oltre». Il tempo è a portata di tutti come qualcosa che ognuno prende e può prendere. La successione livellata degli «ora» è del tutto coperta guanto al suo scaturire dalla temporalità dei singoli Esserci nel loro essere-assieme quotidiano. Che influenza può mai avere sul corso del «tempo» il fatto che un uomo semplicemente-presente «nel tempo» non esista più? Il tempo continua a scorrere tale e quale «scorreva» prima che l'uomo venisse al mondo. Non si conosce che il tempo pubblico, il quale, livellato, appartiene a ognuno e quindi a nessuno. Essere e tempo, traci. di P. Chiodi, Milano, Longanesi, 1976, pp. 506-508.

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Nell'interpretazione comune il tempo è considerato come una successione ininterrotta e interminabile di momenti, che non può avere fine.

Ma l'idea dell'infinità del tempo è solo il frutto della fuga dell'uomo davanti alla morte e serve a nascondere il tempo finito che è assegnato a ciascun individuo.

Il senso comune tranquillizza /'individuo riguardo al suo futuro e lo esonera dal confrontarsi col proprio destino di essere finito.

53 EMANUELE SEVERINO (1978) Il destino dell'Occidente è segnato dal/'originaria persuasione della metafisica greca che gli enti vivano nel tempo, che cioè escano dal niente e tornino nel niente. L'idea che l'ente oscilli fra l'essere e il niente fonda il progetto di dominio tecnologico sulla natura.

Infatti la manipolazione degli enti, la loro distruzione e ricostruzione non fanno che realizzare ciò che per il pensiero greco è evidente, che cioè gli enti escono e tornano nel niente.

Quando la casa, distrutta, diviene un passato (o quando è ancora un futuro), non è. [ ... ] Quando la casa non è più, qualcosa di essa non è rimasto. Rimangono i ruderi, i ricordi, ma qualcosa non è rimasto, «non è più». Per il pensiero greco e per l'intera civiltà occidentale dire che qualcosa «non è rimasto» e «non è più» significa dire che esso è divenuto un niente. [ .. .] Se agli abitatori dell'Occidente si domanda se l'ente (per esempio una casa, un uomo, una stella, un albero, l'amore, la pace, la guerra) sia niente, essi rispondono che certamente no, l'ente non è un niente. E tuttavia da più di duemila anni essi continuano a dire dell'ente: «quando l'ente non è» e cioè continuano a pensare che l'ente è niente e continuano a vivere l'ente come un niente. [. .. ] «Prima che» significa «prima che l'ente sia», e si può dire «prima che l'ente sia», quando l'ente non è (ancora), ossia quando è niente; e «dopo che» significa «dopo che l'ente è», e si può dire «dopo che l'ente è», quando l'ente non è più, ossia quando, daccapo, è un niente. La persuasione che il tempo sia, richiede la persuasione che l'ente sia niente. Infatti solo se esiste un «quando l'ente non è», ossia un «quando l'ente è niente», e dunque solo se l'ente è niente, il tempo può esistere. La nientità dell'ente è il nichilismo e il nichilismo è l'alienazione essenziale. La civiltà occidentale cresce all'interno della persuasione che l'ente sia nel tempo e cioè che l'ente sia niente. Tutto questo, agli abitatori dell'Occidente sembra una falsa sottigliezza dell'intelletto. Essi obiettano: «Quando l'ente, divenendo un passato, è divenuto un niente, esso è un niente. Quando è niente, è niente. E dunque non è vero che, ponendo un tempo in cui l'ente non è, si pensa che l'ente è niente». Quando l'ente è niente, è niente, essi dicono. Ma l'alienazione essenziale consiste appunto nella persuasione che esista un «quando» esso - cioè l'ente! - è niente. Essi stabiliscono l'identità tra il niente e il «quando» (cioè il tempo in cui) l'ente è un niente, ma questa apparente identità tra il niente e il niente nasconde l'identità tra l'ente e il niente, l'identità che si costituisce, appunto, accettando il tempo cioè il «quando l'ente è niente». [... ] Per gli abitatori del tempo, il tempo è l' «evidenza originaria». È «evidente» che gli enti del mondo sono ciò di cui si deve dire «quando esso è», «quando esso non è», ossia «quando esso non è un niente», «quando esso è un niente». L'ente è ciò che esce e ritorna nel niente. Quando non ne era ancora uscito era un niente; quando vi ritorna è daccapo un niente. Ma solo perché l'ente è nel tempo - cioè solo perché l'ente è pensato e vissuto come un niente - può sorgere il progetto di guidare l'oscillazione dell'ente tra l'essere e il niente. Solo sul fondamento del tempo è possibile il dominio dell'ente. E, nell'apertura del tempo, la nascita del progetto di dominio e di sfruttamento dell'ente non solo è possibile, ma è inevitabile. L'abitare il tempo è l'essenza stessa di questo progetto. [... ] Da che il tempo è il senso dell'ente, l'essenza dell'ente è il suo poter essere distrutto e costruito, creato e annientato. Da che l'ente è disponibilità all'essere e al niente, l'ente e quindi anche l'uomo è destinato alla manipolazione, alla violazione, allo sfruttamento per opera degli dèi, dei padroni e delle tecniche. Gli abitatori del tempo, Roma, Armando, 1996, pp. 27-33.

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ABBAGNANO NICOLA (19011990), filosofo esistenzialista italiano. Opere principali: La struttura del!' esistenza (1939), Introduzione all'esistenzialismo (1942), Esistenzialismo positivo (1948), Possibilità e libertà (1956), Fra il tutto e il nulla (1973), Fondamenti logici delta scienza (1974), La saggezza delta vita (1985), La saggezza della filosofia (1987). Importante è stato il suo contributo in campo storiografico con la Storia della filosofia (1946) e col Dizionario di filosofia (1960). Pag. 27. AGOSTINO AURELIO (santo) (354430), teologo e filosofo, massimo esponente della Patristica. Opere principali: Contra academicos, De beata vita, De ordine, Soliloquia (386-387), il De im-

mortalitate animae e il De libero arbitrio (entrambe del 387), il De genesi contra manicheos, il De magistro, il De vera religione (3 90), il De doctrina christiana, le Confessioni (397-401), il De trinitate (399-419) e il De civitate Dei (413-426). Pag. 111 - 112. ANASSIMANDRO (610/609-547 /546 a.C.), filosofo e scienziato greco, esponente, insieme a Talete e ad Anassimene, della scuola naturalistica ionica. Della sua opera, Delta Natura, ci rimane un solo frammento. Le fonti principali per la ricostruzione del suo pensiero sono Aristotele, Simplicio e Aezio. Pag. 47. ARISTOTELE (384-322 a.C.), filosofo greco. Le sue opere si possono distinguere nei seguenti gruppi: dialoghi di tipo platonico, tra cui i principali sono sulle Idee, sulla Filosofia e il Protrett1~ co; opere biologiche: le Ricerche sugli animali, le Parti degli animali, la Riproduzione degli animali, la Locomozione e il Movimento degli animali; opere di carattere logico-linguistico, di cui una parte è raccolta nell'Organon: Interpre-

tazione, Categorie, Analitici Primi e Secondi, Topici, la Retorica e la Poetica; opere etico-politiche: l'Etica eudemia, l'Etica nicomachea, la Politica e una raccolta di costituzioni di un centinaio di città greche, di cui ci resta solo la Costituzione di Atene; opere filosofiche: la Metafisica, che come termine non compare mai negli scritti di Aristotele, comprendente una serie di analisi filosofiche autonome; opere fisiche: Fisica, il Cielo e la Meteorologia

(scritti, pare, prima della morte di Platone); opere psicologiche: la più impol'tante è lo scritto sull'Anima. Pag. 84 -110. ATLAN HENRI (1931), scienziato francese, docente di biofisica alla Facoltà di medicina di Parigi. Ope1·e principali: I:organizzazione biologica e la teoria dell'informazione (1972), Tra

il cristallo e il fumo. Saggio sul!' organizzazione del vivente (1979), Responsabilità: il principio e le pratiche (1993). Pag. 103. BACHELARD GASTON (18841962), filosofo ed epistemologo francese. Opere principali: Il valore induttivo della relatività (1929), I:intuizione

del!' istante e Il pluralismo coerente della chimica moderna (entmmbe del 1932), Il nuovo spirito scientifico (1934), La formazione dello spirito scientifico (1938), La filosofia del non (1940), Il razionalismo applicato (1949), I:attività razionalista della fisica contemporanea (1951), Il materialismo razionale (1953). Per gli studi sull'immaginario: La psicoanalisi del fuoco (1938), I: acqua e i sogni (1943), La terra e le forze (1947), La poetica dello spazio (1957), La poetica della reverie e La fiamma di una candela (entrambe del 1961). Pag. 26 - 28 · 31. BACON FRANCIS (1561-1626), filosofo inglese. Opere principali: Saggi (1597), Temporis partus masculus (1602, una critica alla filosofia antica e medievale), Dignità e progresso del sapere (1605), Cogitata et visa (1607), De sapientia veterum (1609), De dignitate et argumentis scientiarum (1623); nel 1620 pubblicò il Novum organon, la seconda parte di un'opera più generale, la Instauratio magna scientiarum, e, come terza parte, nel 1624 la Historia

naturalis et experimentalis ad condendam philosophiam sive phenomena universi; nel 1627 fu pubblicata l'utopia politica della Nuova Atlantide. Pag. 13 18. 65. BERGSON HENRI (1859-1941), filosofo francese, di orientamento antipositivistico e intuizionista. Opere principali: Saggio sui dati immediati della coscienza (1889), Materia e memoria (1896), Introduzione alla metafisica (1903), Evoluzione creatrice (1907), Durata e simultaneità (1922), e Le due

fonti della morale e della religione (1932). Pag. 51 • 113 - 126. BLOCH ERNST (1885-1977), filosofo tedesco. Durante la prima guerra mondiale aded al marxismo. Tra i molti scritti si ricordano: Lo spirito dell'utopia (1918), Tommaso Miintzer come teologo della rivoluzione (1921) e Tracce (1930); al suo ritorno a Lipsia scrisse Soggetto-oggetto. Spiegazioni su Hegel (1949) e Il principio speranza (1954-1959); seguirono poi Problemi

filosofici fondamentali. Per un'ontologia del non-essere-ancora (1961), Ateismo nel cristianesimo (1968) e Experimentum mundi. Domanda, categorie del produrre, prassi (1975). Pag. 125. BOBBIO NORBERTO (1909), filosofo italiano, teorico del positivismo giuridico, scrive anche saggi storici e politici. Opere principali: Teoria della scienza giuridica (1950), Studi sulla teoria generale del diritto (1955), Politica e cultura (1955), Giusnaturalismo e positivismo giuridico (1960), Da Hobbes a Marx (1965), Empirismo e scienze sociali in Italia (1973), Quale socialismo? (1976), Dalla struttura alla funzione. Nuovi saggi di teoria del diritto (1978),

Il problema della guerra e le vie della pace (1978), Il futuro della democrazia (1984), Z.:età dei diritti (1990), Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione (1994) Eguaglianza e libertà (1995) e la raccolta di saggi Né con Marx né contro Marx (1997). Pag. 100. BONCINELLI EDOARDO (vivente), fisico e scienziato italiano, è capo del Laboratorio di Biologia Molecolare dello Sviluppo presso il Dipartimento di Ricerca Biologica e tecnologica dell'Istituto scientifico H. San Raffaele; docente di Biologia e Genetica presso l'Università Vita-Salute e direttore del CNR di Milano di Farmacologia Molecolare e Cellulare. Opere principali: A caccia di geni (1996), I nostri geni (1998), Il cervello, la mente e l'anima (1999), Le forme della vita (2000). Pag. 95. BOURG DOMINIQUE (vivente). Fra i suoi scritti: Diritti dell'uomo ed ecologia, in "Esprit", ottobre 1992. Pag. 99. CAPRA FRITJOF (vivente) fisico americano, ha dedicato la sua attività scientifica al campo delle alte energie.

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Oltre che per le numerose pubblicazioni di carattere tecnico, è noto per i suoi studi sulle implicazioni filosofiche della scienza moderna. L'opera più conosciuta è Il Tao della fisica (1975). Pag. 121. CRICK FRANCIS (1916), fisico e biologo inglese. Dopo essersi laureato in fisica all'University College di Londra, i suoi interessi si orientarono verso la biologia e nel 1949 si dedicò alla studio della struttura delle proteine e degli acidi nucleici. Nel 1953 propose, con J.D. Watson (1928), la struttura a doppia elica per l'acido desossiribonucleico (DNA) che chiariva il meccanismo di duplicazione del materiale ereditario. Per questa scoperta gli fu assegnato nel 1962, insieme a Watson e a M.H. Wilkins (1916), il Premio Nobel per la medicina. Attualmente lavora al Salk Insitute di San Diego (USA). Opere principali: L:origine della vita (1981). Pag. 49. DARWIN CHARLES (1809-1882), biologo e naturalista inglese. Opere principali: Viaggio di un naturalista intorno al mondo (1839, riedito nel 1860), L:origine delle specie (1859), La

variazione degli animali e delle piante allo stato addomesticato (1868), La discendenza dell'uomo (1871), I: espressione delle emozioni nell'uomo e negli animali (1872). Nel 1887 suo figlio, Francis, pubblicò La vita e la corrispondenza di Charles Darwin, contenente l'epistolario, la biografia e una breve autobiografia. Pag. 53. DAVIES PAUL (1946), fisico e filosofo inglese, attualmente insegna Filosofia naturale all'Università di Adelaide, in Australia. Opere principali:· I.:universo che fugge (1979), Universi possibili (1981), Dio e la nuova fisica (1983), Sull'orlo dell'infinito (1985), Super/orza (1986), Il cosmo intelligente (1989). La mente di Dio (1991), e Gli ultimi tre minuti (1994); poi About time e Are we alone?, sulla ricerca della vita extraterrestre. Pag. 36. DE DIOS VIAL CORREA JUAN (1925), teologo e scienziato cileno, è presidente della Pontificia Accademia pro Vita. Pag. 70. DEMOCRITO (460 ca. a.C.-370 ca. a.C.), filosofo atomista greco. A lui so-

no state attribuite numerose opere: scritti di fisica (Grande cosmologia,

Piccola cosmologia, Sulla natura del mondo, Sulla natura dell'uomo, Sull'intelletto, Sulle sensazioni), scritti di logica ed epistemologia (Regole, Consigli. Perì Ideon). Pag. 47. DESCARTES RENÉ (1596-1650), filosofo e matematico francese, è considerato il padre del razionalismo filosofico. Opere principali: Regulae ad directionem ingenii (1628), Discorso sul metodo (1637), Mondo o Trattato sulla luce (1633), Meditationes (1641), Principia philosophiae (1644), Lettere sulla morale (1643-1649), Delle passioni dell'anima (1649). Pag. 12 - 16 • 54 - 79. DICHIARAZIONE SULL'EMBRIONE (1990), a cura di Carlo Flamigni (Professore di Ginecologia all'Università di Bologna) ed Emanuele Lauricella, presentata al congresso di "Politéia", nel marzo 1990. Pag. 68. DIDEROT DENIS (1713-1784), filosofo e scrittore francese, con D' Alambert organizzatore, redattore e autore dell'Encyclopédie, alla quale lavorerà fino al 1772. Opere principali: Pensieri filosofici (1746), Lettera sui ciechi (1749). In qualità di critico letterario partecipò alla "Corrispondenza letteraria" di Grimm con i famosi Saggi e tenne una corrispondenza scientifica e filosofica con l'amica Sophie Volland. Da segnalare ancora I gioielli indiscreti (romanzo del 1747), Lettera sui sordomuti (1751), Pensieri sull'interpretazione della natura (1753), Il figlio naturale (1757), Il padre di famiglia (1758), il romanzo La monaca (1760), Il sogno di d'Alembert (1769) e altri romanzi. Pag. 56. DUHEM PIERRE (1861-1916), fisico, epistemologo e storico della scienza francese. Opere principali: Le origini della statica (1905-6), Studi su Leonardo da Vinci (1906-13), La teoria fisica: il suo oggetto, la sua struttura (1906), Il ·

sistema del mondo. Storia delle dottrine cosmologiche da Platone a Copernico (1913-59, 10 voli.). Pag. 19. DULBECCO RENATO (1914), medico e biologo italiano, premio Nobel per la medicina nel 1975, dopo aver lavorato a lungo negli USA e a Londra, attualmente lavora al CNR di Segrate

al Progetto Genoma: era stata sua, nel 1986, la proposta di costruire la mappa del genoma umano. Opere principali: Trattato di microbiologia comprese

immunologia e genetica molecolare (1967, in collabomzione con altri scienziati), Virologia (1980), Ingegneri della vita (1988), Il progetto della vita e Scienza vita avventura (entrambe del 1989), I geni e il nostro futuro (1995). Ha contribuito inoltre al manuale di oncologia (1987) e ha curato Le fron-

tiere della genetica: il progetto genoma (1998). Pag. 68. EINSTEIN ALBERT (1879-1955), fisico tedesco, premio Nobel nel 1922 per gli studi nel campo della fisica matematica. Nel 1933, con l'ascesa al potere del nazismo, emigrò negli USA. Opere principali: Sul!' elettrodinamica dei corpi in movimento, in cui espone la teoria della relatività "ristretta" (1905), I fondamenti della teoria della relatività generale, che contiene la teoria della relatività "generale" (1916),

Relatività: esposizione divulgativa (1917), Il significato della relatività: quattro lezioni tenute a Princeton e Geometria ed esperienza (entrambe del 1921), l'articolo Generalizzazione della teoria relativistica della gravitazione (1945), Autobiografia scientifica (1949). Fra le riflessioni filosofiche vanno ricordate: Come io vedo il mondo (1934), Pensieri degli anni difficili (1950), Idee e opinioni (1954). Cosciente che le sue scoperte avrebbero potuto avere drammatiche applicazioni militari, scrisse in tal senso, nel 1939, una lettera al presidente degli USA Roosvelt. Pag. 120. EMPEDOCLE (484/481-424/421 a.C.), filosofo greco, nato ad Agrigento. Come Parmenide espose in versi il suo pensiero. Possediamo circa 400 versi di un poema Sulla natura e 120 versi di un altro poema, Le purificazioni o Carme lustrale, ispirato al misticismo e all'orfismo. Pag. 47. ENGELS FRIEDRICH (1820-1895). Filosofo e uomo politico tedesco. Avviato dal padre alla carriera commerciale in Inghilterra, entrò in contatto col movimento operaio inglese. Già in precedenza si era avvicinato ai "giovani hegeliani", ma decisivo fu, nel 1844, l'incontro a Parigi con i socialisti francesi e con Karl Marx*. Dal loro lungo

sodalizio nacquero opere impattanti come La sacra famiglia, L:ideologia tedesca, le Tesi su Feuerbach (tutte del 1845) e il Manifesto del partito comunista (1848). Oltre a quelle scritte in collaborazione con Marx, le sue opere più importanti sono La condizione della classe operaia in Inghilterra (18441845), la Questione delle abitazioni (1872), Antidiihring (1878), Dialettica della natura (1883, pubblicata postuma nel 1925), di cui nel 1882 fu pubblicata una riduzione dal titolo I:evo-

luzione del socialismo dall'utopia alla scienza, L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato (1884), Ludwig Feuerbach e il punto d'approdo della filosofia classica tedesca (1888). Inoltre completò il secondo (1885) e il terzo (1894) volume del Capitale di Marx. Pag. 57 - 90. ESPAGNAT BERNARD D' (1921), fisico e filosofo francese; direttore del laboratorio di "Fisica teorica e particelle elementari" all'Università di Parigi XI, ha insegnato Filosofia delle Scienze alla Sorbona. Opere principali: Conceptions de la physique contemporaine (1965), Conceptual Foundations of Quantum Mechanics (1976), Alla ricerca del reale (1979), Un atomo di saggezza (1982), Penser la science ou les enjeux du savoir (1990), Le réel

voilé. Analyse des concepts quantiques (1994). Pag. 35. FERRY LUC (1951), filosofo, insegna all'università di Caen. Per l'editore Grasset dirige la collana Le collège de philosophie. Oltre a vari saggi in collaborazione con Alain Renaut ha pubblicato Philosophie politique (1984-85)

e Homo Aestheticus. L:invenzione del gusto nell'età della democrazia (edito in Italia nel 1991) e Il nuovo ordine ecologico (1992). Pag. 99. FEYERABEND PAUL K. (1924-1994), filosofo della scienza austriaco. Opere principali: Problemi dell'empirismo (1965-1969), Contro il metodo (1970), La scienza in una società libera (1978), Addio alla ragione (1982); molti articoli sono raccolti nei due volumi dei Philosophical Papers (1981). Pag. 17. FLORES D'ARCAIS PAOLO (1944), filosofo italiano. Ricercatore di filosofia presso l'Università di Roma "La Sapienza", è fondatore ed editore della

rivista "MicrnMega", Opere principali: Esistenza e libertà (1990), Oltre il

Pci. Per un partito libertario e riformista (1990), La rivoluzione permanente. Il futuro della sinistra e la critica del comunismo (1990), Etica senza fede (1992), Il disincanto tradito (1994). Collabora ai quotidiani "La Repubblica", "El Pais" e "Frankfurter Rundschau''. Pag. 71. FREUD SIGMUND (1856-1939), filosofo austriaco fondatore della psicoanalisi. Opere principali: Studi sull'isteria (1895), scritto insieme allo psichiatra Josef Breuer (1842-1925), Le origini della psicoanalisi (1887), I: interpretazione dei sogni (1900). Psicopatologia della vita quotidiana (1901), Tre saggi sulla teoria sessuale e Il motto di

spirito e il suo significato per l'inconscio (entrambe del 1905), Totem e tabù (1912-13), Metapsicologia (1915-17), Al di là del principio di piacere (1920), Psicologia delle masse e analisi dell'Io (1921), L:Io e l'Es (1923), Casi clinici (1924), La mia vita e la psicoanalisi e Autobiografia (entrambe del 1925), Introduzione alla psicoanalisi e I:avvenire di un'illusione (entrambe del 1927), Il disagio della civiltà (1929), Analisi terminabile e analisi interminabile (1937). Pag. 92. GALILEI GALILEO (1564-1642), scienziato e filosofo italiano. Opere principali: De motu (1590), Le opera-

:doni del compasso geometrico militare (1606), Sidereus Nuncius (1610), Discorso intorno alle cose che stanno in su l'acqua (1612), Il Saggiatore (1623), Dialogo sui massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano (1632), Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attinenti alla meccanica ed i movimenti locali (pubblicato, dopo la condanna del 1633, a Leida, in Olanda, nel 1638). Pag. 12 - 14. GALIMBERTI UMBERTO (1942), filosofo italiano. Ha scritto molte opere, tra le quali vanno ricordate: Heidegger,

Jaspers e il tramonto dell'occidente (1975), Linguaggio e civiltà (1977), Psichiatria e fenomenologia (1979), Il corpo (1983), La terra senza il male. ]ung dall'inconscio al simbolo (1984), Gli equivoci dell'anima (1987), L:immaginario sessuale (1988), Paesaggi dell'anima (1996), Psiche e teche. L:uomo nel-

l'età della tecnica (1999), E ora? La dimensione umana e le sfide della scienza (in collaborazione con altri, 2000). Di particolare interesse è l'articolo: Legge di Stato e Stato etico (in "La Repubblica", 3 febbraio 1997). Pag. 67. GRAMSCI ANTONIO (1891-1937), filosofo e uomo politico italiano. Durante la detenzione nel carcere fascista (1926-1937) scrisse i Quaderni del carcere, comprendenti sei volumi: Il mate-

rialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura, Il Risorgimento, Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno, Letteratura e vita nazionale, Passato e presente (pubblicati tra il 1948 e il 1951); nel 1947 furono pubblicate le Lettere dal carcere. Nel 1975 è stata pubblicata l'edizione critica dei Quaderni, a cura di Valentino Gerratana. Pag. 131. HALDANE JOHN BURDON SANDERSON (1892-1964), genetista, divulgatore e attivista politico inglese. Con le sue analisi matematiche nel campo della genetica contribul all'avvicinamento tra la genetica classica e le teorie evoluzionistiche. Oltre alla sua attività scientifica, profuse attività politica come redattore del Daily Worker, organo del Partito comunista britannico. Opere principali: Dedalo o la scienza del futuro (1924), I:origine della vita (1929), in cui riprende la teoria della "abiogenesi", vale a dire l'origine della vita da sistemi abiologici, già formulata da Oparin" e dal biochin1ico statunitense Stanley Lloyd Miller (1930); Che cos'è la vita? (1946), Biochimica della genetica (1954). Pag. 38 • 50. HAWKING STEPHEN (1942), fisico teorico e matematico inglese. Opere principali: Dal Bzg bang ai buchi neri (1988), Buchi neri e universi neonati (1993), The Nature of Spice and Time (1996). Pag. 116 - 117. HEGEL GEORG WILHELM FRIEDRICH (1770-1831), massimo rappresentante dell'idealismo tedesco. Dopo la sua morte gli allievi cura1·ono un'edizione completa delle sue opere, pubblicando i vari corsi di lezioni di Berlino: Lezioni sulla storia della filosofia,

Lezioni sulla filosofia della storia, Lezioni sulla filosofia della religione, Lezioni di estetica. Opere principali:

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Scritti teologici giovanili (1793-1800), Differenza tra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling (1801), Scienza della logica (1812-1816), Fenomenologia dello spirito (1807), Propedeutica filosofica (1808-1816, postuma), Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1817), Lineamenti di filosofia del diritto (1821) Pag. 57 82 - 87. HEIDEGGER MARTIN (1889-1976), filosofo tedesco, tra i più grandi del Novecento. Fra le sue numerose opere sono da ricordare: Essere e tempo (1927), La dottrina platonica della verità (1942), Del!' essenza della verità (1943), Introduzione alla metafisica (1935), Sentieri interrotti (1950), Kant

e il problema della metafisica e Che cos'è metafisica? (1929), Lettera sull'umanismo (1947), Saggi e discorsi (1954), Nietzsche (1961) e la raccolLa Segnavia (1967). Pag. 134. HEISENBERG WERNER (19011976), fisico tedesco, premio Nobel per la fisica nel 1932. Opere principa-

li: Sul contenuto evidente della cinematica e meccanica quantistica (1927), I princz'pi fisici della teoria dei quanti (1930), Mutamenti nei fondamenti delle scienze della natura (1935), Natura e fisica moderna (1957), Fisica e filosofia (1959), Platone e la struttura della materia (1967), La tradizione della scienza (1973). Pag. 27. HUIZINGA JOHAN (1872-1945), storico e filosofo olandese. Opere principali: L'autunno del medioevo (1919), Erasmus (1924), La crisi della civiltà (1935), Homo ludens (1938). Le

immagini della storia: scritti 1905-1941 (1941). Pag. 88. HUME DAVID (1711-1776), filosofo empirista scozzese. Opere principali:

Estratto del trattato sulla natura umana (1739), Trattato sulla natura umana (1740), Ricerche sull'intelletto umano e Ricerche sui princt'pi della morale (entrambe del 1751), Saggi morali e politici (1741), Dialoghi sulla religione naturale (usciti postumi), Saggio sul suicidio (pubblicato postumo nel 1783). Pag. 23 - 61. HUSSERL EDMUND (1859-1938), filosofo tedesco, iniziatore del movimento fenomenologico. Opere princi-

pali: Filosofia dell'aritmetica (1891), Ricerche logiche (1900-1901), il saggio Filosofia come scienza rigorosa (1913),

Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica (1913, I voi.; 1952, voli. II e III, postumi), Lezioni sulla coscienza interna del tempo (1928, pubblicate a cura di Martin Heidegger"), Logica formale e trascendentale (1929), Meditazioni cartesiane (1931, pubblicate nel 1950). Dal 1934 inizia a lavorare a La crisi delle scienze

europee e la fenomenologia trascendentale (in parte pubblicata nel 1936, in parte nel 1950). A partire dal 1950 la gran mole di inediti incominciano ad essere pubblicati dagli "Archivi Husserl". Pag. 37. IPPOCRATE (460 ca.-377 ca. a.C.), medico greco, il più importante esponente della scuola di Cos. Gli è stato attribuito il Corpo ippocratico, una raccolta di circa 60 scritti, ma probabilmente egli ne scrisse solo una piccola parte. Per entrare nella scuola medica ippocratica era necessario osservare un codice deontologico, contenuto nel famoso Giuramento. Pag. 64.

]ACOB FRANçOIS (1920), medico, biologo filosofo francese; per le sue ricerche sui batteri e sui virus, e per gli studi sulle cellule ha ricevuto il premio Nobel nel 1965 per la medicina e la filosofia insieme con Jacques Monod". r; opera più significativa è La logica del vivente. Storia dell'ereditarietà (1970). Una raccolta delle sue posizioni in campo epistemologico si trova in /} epi-

stemologia francese contemporanea (1977). Pag. 26 • 59. JASPERS KARL (1883-1969), filosofo e psichiatra tedesco. Opere principali: Psicopatologia generale (1913), Psicologia delle visioni del mondo (1919), La

situazione spirituale del nostro tempo (1931), Filosofia (1932, in 3 volumi), Ragione ed esistenza (1935), Filosofia dell'esistenza (1938), Dell'origine e della fine della storia (1949). Pag. 61. JONAS HANS (1903-1993), filosofo tedesco di origine ebraica, naturalizzato statunitense. Dopo essersi rifugiato in Inghilterra con l'avvento del nazismo, emig1·ò nel 1935 in Palestina; ha insegnato i11 Israele, Canada e Stati Uniti. Opere principali: Gnosi e spirito tardo antico (1934), Dalla mitologia al-

la filosofia mistica (1954), La religione gnostica (1958), Il fenomeno della vita: verso una biologia filosofica (1966), Saggi filosofici. Dalla fede antica all' uomo tecnologico (1974), Il principio responsabilità. Un'etica per la civiltà tecnologica (1979), Tecnica, medicina ed etica. Sulla prassi del principio responsabilità (1985), Il concetto di Dio dopo Auschwitz (1987), Materia, spirito e creazione. Esito cosmologico e ipotesi cosmogonica (1988). Pag. 102. KANT IMMANUEL (1724-1804), filosofo tedesco, massimo esponente della filosofia dell'età dell'illuminismo in Europa. Le sue opere più importanti sono: Storia universale della natura e

teoria del cielo, o ricerca intorno alla costituzione e al!'origine meccanica del!'intero sistema del mondo secondo i prindpi di Newton (1755), Uunico argomento possibile per una dimostrazione dell'esistenza di Dio (1763), Sogni di un visionario spiegati con i sogni della metafisica (1766), Dissertatio de mundi sensibilis atque intelligibili.r forma et principiis (1770), Risposta alla doman~ da: che cos'è l'illuminismo? (1784); ci sono poi le tre grandi opere: Critica della ragion pura (1781e1787), Critica della ragion pratica (1788), Critica del giudizio (1790); alle prime due "critiche" Kant affianca i Prolegomeni ad ogni futura metafisica che vorrà presentarsi come scienza (1783) e la Fondazione della metafisica dei costumi (1785). Degne di particolare interesse sono La religione entro i limiti della semplice ragione (1794) e Per la pace perpetua (1795). Pag. 20 - 55 - 60 - 116 - 117 • 118 - 119. KIERKEGAARD S0REN (18131855), filosofo danese. Opere principali: Aut-Aut, Il diario del seduttore, Timore e tremore (tutti e tre del 1843 ), Il concetto dell'angoscia (1844), Briciole di filo.rafia (anch'essa del 1844) e

Postilla conclusiva non scientifica alte Briciole di filosofia (1846). Pag. 124. KUHN THOMAS SAMUEL (1922), storico e filosofo della scienza statunitense. Opere principali: La rivoluzione copernicana (1957), La conservazione

del!' energia come esempio di scoperta simultanea (1959), La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962, con un Poscritto del 1969), La tensione essenziale (1977, una raccolta di saggi), La teoria

del corpo nero e la discontinuità quantica (1978). Pag. 32 • 34.

(1971); inoltre: Antropologia strutturale due (1973), La via delle maschere (1975). Pag. 91 · 93.

KUNDERA MILAN (1929), scrittore praghese, vive oggi a Parigi. Opere principali: L'insostenibile leggerezza dell'essere (1984), Lo scherzo, La vita è

altrove, Il valzer degli adii, Il libro del riso e del!' oblio, la raccolta di racconti Amori ridicoli (1963), L'immortalità (1990), La lentezza (1995). Pag. 133. LAPLACE PIERRE SIMON de (1749-1827), astronomo, fisico e matematico francese. Opere pdncipali:

Esposizione del sistema del mondo (1796), Trattato di meccanica celeste (1799-1815), Teoria analitica delle probabilità (1812), Saggio filosofico delle probabilità (1814). Pag. 79. LEIBNIZ GOTTFRIED WILHELM (1646-1716), filosofo e scienziato tedesco. Opere principali: De arte combinatoria (1666), Scritti di logica (1684), Discorso di metafisica (1686), Nuovo sistema della natura (1695), Nuovi saggi sull'intelletto umano (1693-1704), Saggi di teodicea (1710), la Monadologia e i Princz'pi della natura e della grazia fondati sulla ragione (entrambe del 1714). Pag. 54 · 119. LEOPARDI GIACOMO (17981837), scrittore e poeta italiano. Opere principali: Storia del!' astronomia (1813 ), Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (1815), lo Zibaldone (1817-1832), i Canti (1831, prima edizione; 1835, seconda edizione; La ginestra, composta dopo l'edizione del 1835, appare nella riedizione postuma del 1843), le Operette morali (a partire dal 1827). Pag. 81 · 123. LÉVI-STRAUSS CLAUDE (19081991), antropologo nato in Belgio da genitori francesi. Opere principali: La sociologia francese (1945), La vita fami-

liare e sociale degli indiani Nambikwara (1948), Le strutture elementari della parentela (1949), Razza e storia (1952), Tristi tropici (1955), Antropologia strutturale (1958), Elogio dell'antropologia (1960), Colloqui (1961), Il totemismo oggi e Il pensiero selvaggio (entrambe del 1962), i quattro volumi raccolti sotto il titolo di Mitologica: Il crudo e il cotto (1964), Dal miele alle ceneri (1966), L'origine delle buone maniere a tavola (1968) e I: uomo nudo

LUCREZIO CARO TITO (98 ca. - 55 ca. a. C.), poeta latino. Della sua vita sappiamo molto poco: secondo quanto tramanda S.Gerolamo sarebbe impazzito a causa di un filtro amoroso e morto suicida. L'opera fondamentale è il De rerum natura, il poema filosofico in cui si dimostra seguace della filosofia di Epicuro. Pag. 78. MANIFESTO DI BIOETICA LAICA (1996), a cura di Carlo Flamigni (Professore di Ginecologia all'Università di Bologna), Armando Massarenti (Giornalista de "Il Sole-24 ore"), Maurizio Mori (Direttore della rivista "Bioetica"), Angelo Petroni (Professore di Filosofia della Scienza all'Università della Calabria e direttore della rivista "Biblioteca della libertà"). Pag. 63. MARCO AURELIO (121-180), filosofo stoico, imperatore romano dal 161, col nome di Marco Aurelio Antonino. Compose in greco una raccolta di riflessioni e massime filosofiche Tà eis heaut6n (A se stesso o Colloqui con se stesso) suddivisa in 12 libri. L'opera è in genere appellata in italiano con I ricordi. Pag. 122. MARCUSE HERBERT (1898-1979), filosofo tedesco, esponente della scuola di Francoforte. Opere principali:

I:ontologia di Hegel e la fondazione di una teoria della storicità (1932), Studi sull'autorità e la famiglia (1936), in collaborazione con Theodor Adorno,

Ragione e rivoluzione. Hegel e la nascita della teoria sociale (1941), Eros e civiltà. Un'indagine filosofica su Freud (1955), I:uomo a una dimensione. Studi sull'ideologia della società industriale avanzata (1964), La fine dell'utopia (1967), Saggio sulla liberazione (1969).

fondamentali di critica del!' economia politica (1857-1858), Per la critica del!' economia politica (1859) e Il Capitale (il primo libro uscl nel 1867, mentre il secondo e il terzo uscirono postumi); in collaborazione con Engels scrisse

La sacra famiglia, L'ideologia tedesca (entrambe del 1845) e il Manifesto del partito comunista (1848). Fra le opere storico-politiche vanno ricordate Critica al programma di Gotha (1857), Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 e Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte (entrambe del 1852). Pag. 90. MILL JOHN STUART (1806-1873), filosofo ed economista inglese, fu I'erede, attraverso l'insegnamento del padre J ames Mili, dell'utilitarismo benthamiano. Tra le opere più significative: Lo spirito dell'età (1831), Siste-

ma di logica raziocinativa e induttiva (1843), Princt'pi di economia politica (1848), il famoso saggio Sulla libertà (1859), Considerazioni sul governo rappresentativo (1861), Utilitarismo (1863). Pag. 22. MONOD JACQUES (1910-1976), biologo e filosofo francese; nel 1965 ricevette il Nobel per le ricerche sul DNA, insieme a François Jacob*. La sua opera più significativa è Il caso e la

necessità. Saggio sulla filosofia naturale della biologia contemporanea (1970). Le sue posizioni epistemologiche sono esposte in I: epistemologia francese contemporanea (1977). Pag. 54 · 127. NERI DEMETRIO (1947), filosofo italiano, insegna Storia della Filosofia all'Università di Messina, è membro del comitato scientifico del periodico "Bioetica. Rivista interdisciplinare". Opere principali: La libertà del!' uomo (1980), Teoria della scienza e forma della politica in Thomas Hobbes (1984),

Eutanasia, valorl scelte morali, dignità della persona (1995). Pag. 65.

Pag. 37. MARX KARL (1818-1883 ), filosofo, economista e uomo politico tedesco. Vastissima fu la sua produzione nei vari campi filosofico, economico e politico: Critica alla filosofia hegeliana del diritto pubblico (1843), Sulla questione ebraica (1844), Manoscritti economicofilosofici del 1844 (pubblicati nel 1932), Tesi su Feuerbach (1845), Miseria della filosofia (1847), Lineamenti

NEWTON ISAAC (1642-1727), scienziato inglese. Opere principali:

Nuova teoria della luce e dei colori (1672), Princz'pi matematici di filosofia naturale (1687, prima edizione), alla quale aggiunge, nel 1713, lo Scholium generale; l'Ottica (1704). Pag. 14 · 118. NIETZSCHE FRIEDRICH (18441900), filosofo tedesco. Innumerevoli le sue opere: La nascita della tragedia 141

dallo spirito della musica (1872), Considerazioni inattuali (1873-1876, quattro saggi , fra i quali particolare importanza riveste Sul!' utilità e il danno della

storia per la vita), Umano, troppo umano (1878-1879), Aurora (1881), La gaia scienza (1882), Cosz' parlò Zarathustra (1883-1885), Al di là del bene e del male (1886), Genealogia della morale (1887), Il crepuscolo degli idoli (1889); e poi J;Anticristo, Ecce homo (entrambe del 1888), e la controversa Volontà di potenza, iniziata nel 1895, arbitrariamente sistemata, se non manipolata dalla sorella, e pubblicata nel 1906. Pag. 130 - 132. OPARIN ALEKSANDR IVANOVIC (1894-1980), biologo russo, il primo a formulare la teoria biochimica sull'origine della vita sulla Terra. Dal 1946 ha diretto l'Istituto di biochimica cieli' Accademia delle Scienze dell'URSS. Opere principali: L'origine della vita (1924), L'origine della vita sulla Terra (1936 e 1941), dove le idee dell'opuscolo del 1924, seppur rivedute, non presentano sostanziali novità, se non quelle di una trattazione più ampia e un inquadramento culturale più adeguato; La vita: la sua natura, origine e sviluppo (1960), Origine ed evoluzione della vita (1966). Ha inoltre curato un celebre Congresso internazionale a Mosca nel 1957 sull'origine della vita sulla Terra. Pag. 48. PASSMORE JOHN (1914) Professore di Filosofia alla Australian National University. Opere principali: A hun-

dred years of philosophy, The perfectibt~ lity o/ man (entrambe del 1972), La nostra responsabilità per la natura (1974), Gli obiettivi della filosofia di Hume (pubblicato in Italia nel 2000). Pag. 97. PICO DELLA MIRANDOLA GIOVANNI (1463-1494), filosofo italiano. Opere principali: la lettera De genere dicendi philosophorum (1485), Conclu-

siones philosophiae, cabalisticae et theologicae (1486), Apologia e Discorso sulla dignità dell'uomo (entrambe del 1487), Heptaplus (1488), De ente et uno (1489). Negli ultimi anni della sua vita portò a termine le Disputationes adversus astrologiam divinatricem, in 12 libri. Pag. 80. PLANCK MAX (1858-1947), fisico 142

tedesco, premio Nobel per la fisica nel 1918, dette inizio alla fisica quantistica. Opere principali: La conoscenza del mondo fisico (1933), Autobiografia scientifica e ultimi saggi (postuma, 1948). Pag. 30. PLATONE (428/427 a.C.-348/347 a.C.), filosofo greco. I dialoghi di Platone vengono divisi normalmente in tre gruppi, cosi composti: Dialoghi giovanili o "socratici" (dal 399 al 387 ca.): Apologia, Critone, Eutifrone, La-

chete, Ione, Ippia maggiore, Carmide, Protagora, Gorgia, per citare i più importanti, Dialoghi del periodo centrale (tra il 387 e il 367): Menane, Cratilo, Pedone, la Repubblica, il Fedro, Dialoghi dell'ultimo periodo: il Parmenide,

Teeteto, Sofista, Politico, Filebo, Timeo, Crizia, le Leggi. Vi è infine una raccolta di Lettere, molte delle quali sono apocrife; molto importante per il rapporto di Platone con la politica è la

Lettera VII. Pag. 114. PLOTINO (204-270), filosofo neoplatonico greco. L'opera principale è costituita dalle Enneadi (54 trattati in 6 grnppi di 9), un itinerario del filosofo che si innalza dal mondo sensibile fino all'Uno. Pag. 60 - 115. POINCARÉ JULES-HENRI (18541912), scienziato ed epistemologo francese. Opere principali: La scienza e l'ipotesi (1902), Il valore della scienza (1905), Scienza e metodo (1909). Pag. 15. POPPER KARL RAIMUND (19021994), filosofo ed epistemologo austriaco. Opere pdncipali: La logica della scoperta scientifica (1934), Che cos'è la dialettica (1940), La società aperta e i suoi nemici (1945), Miseria dello storicismo (1944-45), Tre punti di

vista a proposito della conoscenza umana (1956), Congetture e confutazioni (1963), Rivoluzione o riforme? (1970) e Conoscenza oggettiva. Un punto di vista evoluzionistico (1972). Pag. 23 •

logica. Le due culture (1968); postumi sono i Saggi filosofici (1976). Pag. 36. PROUST MARCEL (1871-1922), scrittore francese. Opere principali: I piaceri e i giorni (1896), f ean Santeuil (1896-1904, ma pubblicato postumo). Ma è fondamentale Alla ricerca del tempo perduto, ciclo di sette romanzi, ai quali lavorò dal 1906 fino alla morte: La strada di Swann , All'ombra del-

le fanciulle in fiore, i Guermantes, Sodoma e Gomorra, La prigioniera, La fuggitiva, apparsa col titolo Alberatine scomparsa, Il tempo ritrovato. Pag. 128. REICHENBACH HANS (18911953), filosofo neopositivista tedesco, animatore della Società per la filosofia scientifica (Circolo di Berlino), insieme a Rudolf Carnap fondò e diresse la rivista "Erkenntnis" (conoscenza). Opere principali: Filosofia della dottrina dello spazio e del tempo (1928), Da Copernico ad Einstein (1933 ), Teoria della probabilità (1935), Esperienza e predizione (1938), Fondamenti filosofici della meccanica quantistica (1944),

La nascita della filosofia scientifica (1951). Pag. 21. RIGOBELLO ARMANDO (1924), filosofo italiano, attualmente docente di Filosofia morale presso l'Università di Roma. Opere principali: Il contributo filosofico di E. Mounier (1955), J;itine-

rario speculativo dell'umanesimo contemporaneo e Introduzione ad una logica del personalismo (entrambe del 1958), I limiti del trascendentale in Kant (1963), Legge morale e mondo della vita (1968), Il personalismo (1975), J;impegno ontologico (1977), Il messaggio di Socrate (1982), Kant. Che cosa posso sperare (1983), Autenticità nella differenza (1989), Persona ecomunità di persone (nel volume con altri A partire da Kant, 1989), Responsabilità e cultura (nel volume con altri Etica e società contemporanea, 1992). Pag. 62.

25. 33. PRETI GIULIO (1911-1972), filosofo italiano. Opere principali: Fenomenologia del valore (1941), Idealismo e positivismo (1943), Praxis ed empirismo e

Alle origini del!' etica contemporanea (entrambe del 1957), Lezioni di filosofia della scienza (1965-1966), Retorica e

ROUSSEAU JEAN-JACQUES (17121778), filosofo illuminista ginevrino. Opere pdncipali: Discorsi sulle scienze e le arti (1750), Discorso sull'origine ed

i fondamenti della disuguaglianza fra gli uomini (1755), il Contratto sociale e l'Emilio (entrambe del 1762), le Lettere scritte dalla montagna (1764), il Pro-

getto di costituzione per la Corsica (1765), le Considerazioni sul governo della Polonia (1771) e, nello stesso anno, un'autobiografia, le Confessioni. Pag. 85 - 86. RUSSELL BERTRAND (1872-1970), logico e filosofo inglese. Opere principali: Esposizione critica della filosofia di Leibniz (1900), Principia mathematica (1910-1913), scritti in collaborazione con Alfred N. Whitehead, I problemi della filosofia (1912), La nostra co-

noscenza del mondo esterno come campo per l'applicazione di un metodo scientifico in filosofia (1914, frutto della collaborazione con Ludwig Wittgenstein), Analisi della mente (1921), Icaro o il futuro della scienza (1924), Analisi della materia (1927), Lineamenti di filosofia (1927), Saggi scettici (1928), Ricerca sul significato e la verità (1940), Negli ultimi anni si occupò di temi etico-politici: Storia della filo-

sofia occidentale e della sua connessione con le circostanze politiche e sociali (1945), La conoscenza umana: suo scopo e suoi limiti (1948), Saggi impopolari (1950), Lettera ai potenti della terra (1957), Il mio sviluppo filosofico (1959). Pag. 39. SCARPELLI UBERTO (1924-1993), filosofo italiano, professore di Filosofia del Diritto in varie università italiane: Perugia, Pavia, Torino e Milano; autore di saggi fondamentali sulla bioetica, fra cui spicca Bioetica: alla ricerca dei principi (1987), Bioetica laica (1993). Pag. 63. SCHLICK MORlTZ (1882-1936), filosofo tedesco, fondatore del Circolo di Vienna. Opere principali: /'essenza

della verità nella logica moderna (1910), Il significato filosofico della teoria della relatività (1915), Spazio e tempo nella fisica presente (1917), Dottrina generale della conoscenza (1918), Il significato della fisica moderna è criticistico o empiristico? (1924), La causalità nella fisica contemporanea (1931), Sul fondamento della conoscenza (1934), Sono convenzioni le leggi di natura? (1935), Significato e verificazione (1936), Teoria dei quanti e conoscibilità della natura (postuma, 1937), Saggi raccolti 1926-1936 (postumi, 1938). Ci sono anche scritti di etica, fra i quali si ricordano: Questioni di etica (1930), e gli scritti postumi Filo-

sofia della natura (1948) e Natura e cultura (1952). Pag. 24. SCHOPENHAUER ARTHUR (17881860), filosofo tedesco. Opere principali: Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente (1813), Sulla vista e i colori (1816), Il mondo come volontà e rappresentazione (1818), Sulla volontà della natura (1836), Sulla libertà del volere umano (1839), Sul fondamento della morale (1840), Parerga e paralipomena (una raccolta di saggi filosofici, letterari, giuridici del 1851). Pag. 52. SCHWEITZER ALBERT(1875-1965), teologo, musicologo e medico missionario tedesco, premio Nobel per la pace nel 1953. Opere principali: J. S. Bach, il musicista poeta (1905), Storia della ricerca sulla vita di Gesù (1906), Filosofia della civiltà e Decadenza e ricostruzione della civiltà (entrambe del 1923), Civilization and Ethics (1929), La mistica dell'apostolo Paolo (1930), La mia vita e il mio pensiero (1931). Pag.100. SENECA LUCIO ANNEO (4 ca.a.C.65 d.C.), il primo rappresentante del neostoicismo romano. Oltre a numerose tragedie, scrisse opere filosofiche, quali il De ira (prima dell'esilio, nel '61), il De brevitate vitae (al ritorno dall'esilio, nel '49), il De vita beata, il De tranquillitate animi, il De otio, le Natura/es quaestiones e le Epistulae mora/es, a Lucilio. Pag. 61 · 85 - 122. SEPULVEDA JUAN GINÉS de (1490-1573), filosofo e storico spagnolo. Opere principali: De fato et libero arbitrio (1526), le traduzioni e il commento di Aristotele, la Metafisica (1527) e la Politica (1548), Trattato so-

pra la giusta causa delta guerra contro gli indi (1544). Come storiografo ufficiale di Cado V scrisse il De rebus gestis Caroli V e il De rebus gestis Philippi II. Pag. 84. SERRES MICHEL (1930), epistemologo francese. Opere principali: Il si-

stema di Leibniz e i suoi modelli matematici (1968), i cinque volumi di Hermes (1969-1980), Lucrezio e l'origine della fisica (1977), Roma. Il libro delle fondazioni (1983), I cinque sensi (1985), Statue. Il secondo libro delle fondazioni (1987), Il contratto naturale

(1990), Il terzo istruito (1991, tradotto in italiano con Il mantello di Arlecchi-

no), Le origini della geometria. Il terzo libro delle fondazioni (1993). Pag. 98. SEVERINO EMANUELE (1929), filosofo italiano, allievo di G. Bontadini e docente di filosofia teoretica all'Università di Venezia. Opere principali: La struttura originaria (1958), Studi di filosofia della prassi (1962), Essenza del nichilismo (1972), Gli abitatori del tempo (1978), Techne (1979), Destino della necessità (1980), Il parricidio mancato (1985), La tendenza fondamentale del nostro tempo (1988), la Filosofia futura (1989), Taut6ts e Pensieri sul cristianesimo (entrambe del 1995), La follia dell'Angelo e Cosa arcana e stupenda. UOccidente e Leopardi (entrambe del 1997), Il destino della tecnt~ ca (1998). Pag. 135. SGRECCIA ELIO (1928), teologo e scienziato italiano, vice presidente della Pontificia Accademia pro Vita, docente di Bioetica all'Università del Sacro Cuore. Tra le molte opere sono da segnalare: Manuale di bioetica (1986), Il dono della vita (1987). Pag. 66 · 70. SINGER PETER (1946), filosofo e bioeticista australiano. Opere principali: Democrazia e disobbedienza (1973), Liberazione animale (1975), Diritti animall obblighi umani (1976), Morale pratica (1979), Il circolo che si espande: sociobiologia ed etica (1981),

Il movimento di liberazione animale (1985), How are we to live? (1993 ). Ha curato inoltre il Manuale di etica (1991). Pag. 101. SOETJE ELENA (vivente), affronta i problemi bioetici da un punto di vista giuridico e filosofico. Opere principali: Ricoeur fra narrazione e storia (1992), La responsabilità della vita. Introduzione alla bioetica (1997). Pag. 62. SOFOCLE (496-406 a.C.), tragediografo greco: La tradizione gli attribuisce 123 testi, escluse 7 tragedie considerate spurie. Ci restano, oltre a 400 versi del dramma satiresco I segugi, sette tragedie. Due di queste sono sicuramente databili: Antigone (442441), Filottete (409); per l'Aiace, l'Edi-

po re, l'Elettra, Le Trachinie, l'Edipo a Colono, le date sono congetturali. Pag. 80.

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SPAGNOLO ANTONIO G. (1956), medico e scienziato italiano, è docente presso l'Istituto di bioetica dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, titolare dell'insegnamento di bioetica nel Corso di laurea in Medicina e Chirurgia al Policlinico "A.Gemelli". È autore di oltre 150 pubblicazioni sui temi della bioetica e dell'etica medica, in particolare nel campo del[' AIDS, della sperimentazione clinica e dell'etica clinica. Pag. 64.

Bonnafé) e Il ritorno del!' eugenetica (1998). Pag. 94. WOLF URSULA (vivente). Docente di Filosofia alla Frei Universitat Berlin. Di particolare interesse e il suo scritto: I problemi ecologici sono problemi morali? (1993). Pag. 96.

SPENCER HERBERT (1820-1903), filosofo positivista inglese. Opere principali: Statica sociale (1850), I Prindpi della psicologia (1855), Princt'pi primi (1862), Princìpi di biologia (18641867), Princz'pi di psicologia (18701872), Princz'pi di sociologia (18761896), Princz'pi di etica (1879-1892), Educazione (1861), La classificazione delle scienze (1864), Individuo e Stato (1884). Pag. 52. SPINOZA BARUCH (1632-1677), filosofo olandese, di famiglia ebraica. Opere principali: Principi della filosofia di Cartesio (1656-1663), Tractatus theologico-politicus (1670), De intellectus emendatione (iniziato nel 1661, ma pubblicato postumo), Tractatus politicus (1676), e il suo capolavoro, l'Ethica more geometrico demonstrata (16601675). Pag. 124. TEILHARD DE CHARDIN PIERRE (1881-1955), scienziato, teologo e filosofo francese, gesuita e sacerdote nel 1911. Opere principali (pubblicate tutte postume): Il fenomeno umano (1938-1950, pubblicato nel 1955), La comparsa dell'uomo (1956), La visione del passato e L'ambiente divino (entrambe del 1957), L'avvenire dell'uomo (1959), L'energia umana (1962), L'attivazione dell'energia umana (1963). Pag. 58. TORK PATRICK (vivente), filosofo ed epistemologo francese. Opere principali: L'Homme, cet inconnu? Alexis

Carrel Jean-Marie Le Pen et les chambres à gaz (1992, scritto con Lucien Bonnafé), Dictonnaire du darwinisme et de l'évolution (1996, insieme ad altri studiosi), Darwin et le darwinisme e Pour Darwin (entrambe del 1977). Per "Le Monde diplomatique" ha scritto, tra gli altri articoli, Abroger l'internement psychiatrique (1990, con Lucine

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* Le pagine in neretto si riferiscono a brani degli Autori citati.