Il cinema o l'uomo immaginario. Saggio di antropologia sociologica 9788860308177, 8860308178

Morin riflette qui sul rapporto del cinema con il reale e l'immaginario, e ne evidenzia le relazioni con i processi

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Il cinema o l'uomo immaginario. Saggio di antropologia sociologica
 9788860308177, 8860308178

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Dal catalogo Vittorio Gallese, Michele Guerra

Lo schermo empatico Cinema e neuroscienze Horst Bredekamp

immagini che ci guardano Teoria ddl'atto iconico

Georges Didi-I luberman

Immagini malgrado tutto

Edgar Morin

Il cinema o l’uomo immaginario Saggio di antropologia sociologica

Ogni sforzo è stato compiuto nel tentativo di rintracciare i detentori dei diritti di traduzione. Ceditore si dichiara sin dora disponibile a riconoscere gli eventuali aventi diritto.

www.raffsellocorhnadt

Titolo originale Le cinema ou l'homme imaginaire Esuli d'anthropologie sociologique © 1956 by Les Éditions de Minuit, Paris

Traduzione Gennaro Esposito Copertina Studio CReE

ISBN 978-J8-6030-817-7 © 2016 Raffaello Cortina Editore Milano, via Rossini 4 Prima ed rione: 2016

Stampato da Press Grafica SRL, Gravellona Tote (VB> per conto di Raffaello (Sortimi Editore

Ristampe

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INDICE

Introduzione. Comprendere il cinema, comprendere la complessità (Chiara Simonigh) Prefazione ( 1982) (Francesco Case/li}

IX XX1I1

Prefazione alla nuova edizione

3

Prefazione alla prima edizione

13

1. Il cinema, l’aeroplano

15

2. Il fascino delTimmagine

n

3. Metamorfosi del cinematografo in cinema

55

4. L’anima del cinema

89

5. La presenza oggettiva

117

6. il complesso di sogno e di realtà

149

7. Nascita di una ragione. Fioritura diun linguaggio

169

8. La realtà semi-immaginaria dell’uomo

197

Orientamento bibliografico

213

Bibliografia

215

Indice dei nomi

235 VII

INTRODUZIONE COMPRENDERE 1LCINEMA, COMPRENDERE LA COMPLESSITÀ Chiara Simonigh

Lo sguardo e il *'meta-punto^di-vista” L’immagine mentale prodotta dalle percezioni sensoriali e dalle sintesi cerebrali può essere considerata come medium primario de là conoscenza attraverso il quale l’uomo si forma una rappre­ sentazione e dunque un'interpretazione del reale. Perciò, “il ci­ nema, come ogni figurazione (pittura, disegno), è un’immagine di immagine [...]. Proprio perché rappresentazione di rappresenta­ zione viva, il cinema ci chiama a riflettere sulFimmaginario della realtà e sulla realtà dell’immaginario*.1 È questo paradigma ad animare la ricerca di Edgar Morin nell’opera II cinema o l'uomo immaginario, apparsa in Francia nel 1956 da Les Editions de Minuit, pubblicata in Italia da Silva nel 1962, da Feltrinelli nel 1982 e il cui titolo contiene implicitamen­ te il suo complementare - “il cinema o l’uomo reale* -, evocando così l’apparente paradosso del cinema e dell’estetica tutta: com­ prendere il reale mediante Fimmaginario. 11 cinema, figlio delia storia delle immagini e progenitore delle immagini tecnologiche a venire, se osservato nel corso del tempo da questa prospettiva, rinnova la questione originaria di ogni spe­ culazione circa l’essenza al contempo, appunto, reale e immagi naria dell’uomo, del sto conoscere, pensare, sentire, vivere, agire e, naturalmente, anche del suo concepire, creare, osservare, com prendere immagini e, attraverso queste, il mondo. Non è dunque un caso, notiamo en passant, che Edgar Morin si sia sempre defi nito “cinefago”, e non semplicemente cinefilo, quasi a indicare la 1. Cfr., infra, p. 7, IX

INTRODUZIONE

funzione vitale assunta dal cinema nell’alimentare il suo pensiero e la sua sensibilità. L’ampiezza di questa prospettiva sul ciiema, a dispetto del sottotitolo del libro Saggio di antropologia sociologica, esula tan­ to da indagini sul consumo di film e sui scoi effetti, quanto da analisi condotte sull’industria culturale a partire da nozioni come massa, classe, etnia ecc. e perciò sottrae sin da subito la ricerca di Edgar Morin a categorie, tendenze, correnti specifiche o ipcrspecialistichc? Anzi, tale ampiezza di visuale offre una sorta di punto di vista sul punto di vista dato dal cinema, il quale coinci­ de, certo, con lo sguardo posato dal regista sul mondo e condivi­ so con lo spettatore, ma consiste anche in uno sguardo tecnolo­ gico, medito e rivelatorio, per dinamismo e per quantità e qualità delle prospettive presenrate, giustapposte, confrontate. Si tratta dunque di un punto di vista sul punto di vista proprio e altrui, che riguarda l’uomo e la sua relazione con I mondo, osservata a tutto campo, secondo un’impostazione interdisciplinare, transdi sciplinare e autoriflessiva che Edgar Morin svilupperà in senso epistemologico più tardi nei sei volumi del suo Metodo. definen­ dola come “meta-punto di vista"*. È stato in primis (’impiego di tale prospettiva ad aver permesso al testo qui presentato di tra­ scendere i confini disciplinari e di dialogare con diversi contesti

del sapere e anche della storia, facendosi quindi riconoscere Gi­ rne apporto essenziale alla conoscenza intesa in senso lato, ossia facendosi identificare come un classico letto, riletto, studiato, ci­ tato, apprezzato e a volte anche frainteso, come accade, specie al principio, appunto ai classici.' Il meta-punto-di'Vista assunto in questo libro si rivela in effet­ ti nel tempo proficuo, se si considera che Ttomo vive sempre più

del rapporto fra reale e immaginario, poiché via via maggiormen 2. Non a caso questa riflessione di Edgar Morin è annoverata fra le teorie ontolo­ giche del cinema da Francesco Casetti. Cfr. F. Casetti, Teorie del cinema 194^19)0, Bompiini. Milano 1993. 3. Cfr. quanto scrivono, a proposito de II cinema o l’uomo immaginano, J. Aumont, A. Bergala, M. Mane. M Vernct (19941, Estetica del cinema, Lindau, Torino 1995. |t. 165; "L’importanza e Foriginalità di questo saggio sono state gravemente sot rostimute nei due decenni successivi". specialmente, aggiungiamo, in seguito all alicolo dd 1962. pubblicato sulla rivista Les Temps Moderr.es. con cui Pierre Bourd.eu e Jean Claude Passeron propongono di “bandire dall’universo scientifico” l’operi di Edgar Morin to spirito del tempo (1962), tr. ir. Meltemi Roma 2(X)2,

X

INTRODUZIONE

te egli è divenuto il produttore e al contempo il prodotto delle immagini, dalJ’awcnto della riproducibilità tecnica fotografica e cinematografica sino alla progressiva convergenza mediatica e telematica verso una cultura visiva planetaria. A distanza di di­ versi anni dalla prina pubblicazione di questo libro, sono stati coniati, per definire forme diverse del visivo e dell’audiovisivo, neologismi antitetici quali, per esempio, * realtà virtuale”, “docufiction”, “reality show” ecc., che paiono in qualche modo costi tuire altrettante dimostrazioni della tes. di Edgar .Morin sul reale e Fimmaginario. Una tesi, questa, che può inclinare anche il let­ tore odierno a osservare dalla prospettiva del meta-punto-di-vista storico e culturale fenomeni normalmente considerati ibridi, contraddittori, contingenti e persino inediti, per intenderli, inve­ ce, come esiti di un processo storico e come manifestazioni della trans-storica, ontologica, “realtà semi-immaginaria dell’uomo” -un’espressione di ispirazione eraclitea, quest’ultima, che dà il titolo a un capitolo del volume e che fa intendere come Fimma­ ginario non possa essere inteso quale semplice evasione dal reale ofuga in una dimensione irreale. Ed è ancora grazie all’acquisizione del meta-punto-d.-vista se il cinema, lungi dall’essere considerato un mero pretesio per validare teorie e idee precostituite, è al contrario stato snidiate da Edgar Morin in modo alquanto temerario, se si tiene presen­ te che nei decenni precedenti alla prima pubblicazione di que­ sto libro proprio il cinema era stato definito da Georges Duha­ mel “divertimento per iloti” e ancora molto dopo esso era stato condannato- dall’élite intellettuale come un epifenomeno della massificazione tardc-moderna per aver introdotto nella cultu­ ra semplificazione, uvgiadu, mistificazione e alienazione c aver concorso a trasformare il “mondo vero in favola” mediante l’e­ straniazione delle sue immagini o l’inganno del suo spettacolo e dei suoi simulacri. L interesse di Edgar Morin si è anzi concen­ trato sul fenomeno cinematografico proprio in quanto esso ha rimesso in questione quel sapere che lo ha messo in questione, ponendone in crisi le strutture e i fondamenti e aprendo nuove vie della conoscenza e del pensiero che, per Morin appunto, ac­ quisiranno decenni dopo, specie nei volumi del Metodo, le defi­ nizioni di complessità. XI

INTRODUZIONE

Uomo immaginario, uomo complesso

Intorno alla metà del Novecento, quando il dibattito sul cinema e sui media è fortemente influenzato dal pensiero critico di Ador­ no e Horkheimer sull’industria culturale, Edgar Morin, che pur allora frequenta la letteratura della Scuola di Francoforte, con­ cepisce l'uomo immaginario come antagonista e complementare rispetto al sapiens, al faber. all’œconomicus ecc. In questo moco, egli pone uno dei fondamenti della nozione di homo complexes che svilupperà più (ardi nei volumi del Metodo e che contemp c rà» anzi, la dimensione immaginativa, creativa, estetica e poetica, insita anche nel cinema e nella cultura dei media, come potenzial­ mente emancipatrice e rigeneratrice nei confronti dei mali di ci viltà e delle degradazioni delEumano prodotti dalla razionalizza­ zione o dalla “ragione strumentale”. In questa ricerca sul cinema, il rappvilo lia leale e immaginario già rimanda specularmente a quello fra dimensioni opposte e complementari dell'uomo, che saranno studiate, specie nel Metodo. attraverso le loro interré,*zioni complesse:45da un lato, homo sapient, faber, œconomicus. politìcus ecc.; dall’altro iato, homo ludens, artifex, poeticus. imaginarius ecc. Alla prima uscita di questo libro, il concetto di uo­ mo immaginario? tuttavia, è stato accolto in maniera assai poco posit.va, nonostante possa essere considerato Toriginc prima di quel paradigma di homocomplexus riconosciuto in seguito come uno dei contributi più rilevanti offerti da Edgar Morin alla co­ noscenza, La nozione di homo imaginarius. tanto negli studi sul cinema quanto in quelli di antropologia, infatti, era collegata al­ le attitudini arcaiche dell’umano e perciò reputata incompatibile con un fenomeno, quale il cinema, considerato invece all’epoca espressione della modernità uccidetitale die si picsumcva fosse 4. ‘Complesso* deriva da cumplexut. ossia ciò che è composto di più parti tra loro recìprocamente connesse (complector. comprendo, abbraccio, concepisco; da cum: insieme, c piccia, intreccici 5. Nella prefazione del 1977 a //cinema ol'tiomo immaginano, coeva alla pubbli cazion: del Metodo 1, la nozione di uomo immaginario è in qualche modo assimilata a quella di Zwwo demens, mentre, nel Metodo 5 del 20()1, con I evolversi della rimes­ sione «ullW/Z» multiplex dell'uomo, le due nozioni saranno nettamente distinte, grazie alla riflessione sviluppati sullTry/w c sull^affctiività come interfaccia”, co­ sicché la carenza evocata dalla denominazione homo demens verrà riferita alla dii ficoltà dcU’autocontrollo dclfiiomo sia sul pensiero logico, razionale ed empirico (homosapienti, sia su quello andogico, simbolico e mitologico (uomo immaginano), XII

INTRODUZIONE

compimento evoluivo ed esclusivo delTAowo sapiens nelle sue diverse manifestazioni. Se si considera, invece, al di là della parcellizzazione dei saperi e degli iper-specialismi, il contesto culturale più ampio a cui risale questo libro, si può ricordare come molteplici studi, dagl, orien­ tamenti disciplinari più diversi e non rivolli al cinema c ai media - e tra questi, per esempio, quelli di Sartre. Merleau-Ponty, Lévi Strauss, Mauss, Lévy-Bruhl, Leenhardt, Herbert Mead, Freud, Ferenezi, Rank, Jung, Lacan. Piaget, Kris ccc. -, abbiano concorso a porre in discussione le concezioni tradizionali sorte a proposito dell’immaginario e della sua relazione con il reale e l’irreale, l’au­ tenticità e l’inautenticità, l’apparenza e l’illusione, il vero e il fal­ so, il razionale e l’irrazionale ecc., rintracciando così sue inattese coerenze con la percezione, la memoria, la sensibilità, l’affettività, la coscienza c anche la conoscenza. Ancora ima volta, l’assunzione di un meta-punto-di-vista inter­ disciplinare e transdisciplinare su tali acquisizioni ha fatto sì che Edgar Morin potesse cogliere l'immaginario come complementa­ re al reale, per studiarne la funzione epidemica fondamentale che consiste nel mediare con l’alterità, ossia nel porre in relazione il presente e l’assente, il qui e l’altrove, l’io e l’altro, il probabile e il possibile, l’esistente e l’inesLstente.

Un nuovo dialogo trmuî»j, tow/ur dnéma, pp. 112-113; M. Dard In Rouge et Noir, cit, p 117; Th. Varier, ibidem, p. 78; P. Valéry, in Cahiers de l'tDHEC, 1, Paris 1944; M. Henry, "Defense du cinéma américain’, in Rouge et Noir, cit., p. 146; J. Tedesco, "Cinéma Expression”, in Les Cahiers du Mois, 16-17. p. 25. 17

IL CINEMA O I.TOMO IMMAGINARIO

to all’affettività e alla magia. “C’è nell’universo filmico una sora di meraviglioso atmosferico quasi congenito*, dice Étienne Souriait1011 12 Élie Faure descrive il cinema come “una musica che ci rag­ giunge tramite l'occhio” 11 Per Moussinac e Henri Wallon, il ci­ nema porta al mondo un sentimento, una fede, il “ritorno verso affinità ancestrali della sensibilità”?2 Qui comincia il mistero. Contrariamente alla maggior parte delle invenzioni che diventano macchine e vanno a trovar posto nei capannoni, il cinematografo sfugge a questa sorte prosaica. Il cinema è forse realtà, ma è anche qualcos’altro, che produce emo­ zioni e sogni. È quanto ci assicurano tutte le testimonianze: esse sono il cinema stesso, che non è niente senza i suoi spettatori. Il cinema per unanime constatazione non è la realtà. Se la sua irrealtà è illusione, è evidente che tale illusione è pur sempre la sua realtà. Ma contemporaneamente noi sappiamo che l’obiettivo è privo di sogge:tività e che nessun fantasma viene a turbare lo sguardo che esso fissa sulla superficie del reale. Il cinema nasce oltre la realtà. Come? Perché? Potremo sa­ perlo solo seguendo il processo genetico di tale metamorfosi. Ma abbiamo il presentimento che già il cinematografo Lumière con­ tenesse in potenza e allo stato di energia latente ciò che doveva tra­ sformarlo in “enorme saltimbanco”, secondo l’espressione di G. Cohen-Seat. Seè vero che nel cinema sono presenti il meraviglio­ so e ranima, questo meraviglioso e quest’anima erano già presen­ ti nei cromosomi del cinematografo. Ci si può limitare a opporre la scienza aH’immaginazione, logicamente e cronologicamente? “Fu dapprima una scienza, nient altro che una scienza. E stata ne­ cessaria la grandiosa immaginazione dell’uomo. ♦. Fermiamoci. Nient’altro che una scienza? Nel 1829. Joseph Plateau fissa il sole estivo per venticinque secondi. Egli ne rimarrà cieco, ma, al tempo stesso, è nato un giocattolo, un semplice giocattolo, il fenachitoscopio. Un eccentrico frequentatore di corse scommette sul galoppo di un cavallo, ed ecco le esperienze di Muybridge all'io10. É. SouriflU, “Filmologie et esthétique comparto*, in Rrt-we Internationale de Filmologie, 10. p. 149. 11. É. Faure»in “Encyclopedicfrançaise . 16,19,64. 12. Cfr. L. Moussinac. in Noiusance du Cinéma, e H. Wallon, “Oc quelques pro blêmes psyco-physioJogiqiics". in Revue Internationale de Filmologie, 1, I, p. 16. 1L E. Faure. Fonction du cinéma, p. 38,

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IL CINEMA, L’AEROPLANO

pod nomo di Sacramento, Un geniale dilettante, che diventerà più laidi una potenza industriale, mette a punto, fra altre trovate, il chinetografo. Già la sua leggenda ha daio origine alla patetica pro­ genitrice della moderna fantascienza, L'Èva futura di Villiers de l’lsle Adam. “I fanatici, i maniaci, i pionieri disinteressati capaci come Bernard Palissy di dar fuoco ai loro mobili per qualche se­ condo di tremolanti immagini, non sono né degli industriali, né degli scienziati, ma aoniini posseduti dalla loro immaginazione”, dice André Dazili?4 Ma Tuonio posseduto dall’immaginazione non è l’inventore stesso, prima di essere consacrato grande scienziato? Una scienza e soltanto una scienza? Non è essa sempre» alla sua sorgente inventiva, figlia del sogno? Le grandi invenzioni sono nate dal mondo delle manie, degli hobby. Esse scaturiscono non già dalla grande impresa organizza­ ta, ma dal laboratorio dell’illuminato solitario o dallo studio del bricoleur. (Inutile aggiungere che la grande industria si ùiipad le­ nisce rapidamente dell’invenzione.) Se ora generalizziamo il di­ scorso a livello delle nazioni, non può essere stato il suo ritardo sul piano della concentrazione e della razionalizzazione industriale a fare della Francia un paese di inventori? È certo che» se il cinema è un’invenzione internazionale, è que­ sta Francia “piccolo-inventrice”, artigianale, dagli estri casalinghi, die produsse il maghici nuinciu delle invenzioni a carattere cine­ matografico ( 129 brevetti nel 1896 comro 50 dcll’Inghiltcrra)t La nascita del cinematografo ci porta facilmente ai problemi di una sociologia comparativa dell’invenzione,14 15 ma ci basta qui sottoli­ neare un punto: inventori» bricoleurs. sognatori, appartengono alla stessa famiglia e navigano nelle stesse acque da cui nasce il genio. La tecnica e il sogno sono parenti naturali. Non si può situare il cinematografo, in nessun momento della sua genesi c del suo sviluppo, soltanto nel campo del sogno o soltanto in quello del­ la scienza. 14. A. Bazin, “Le mythe du cinéma tarai", in Critique. 61, pp. 552 557. 15. In particolare il mistero della coincidenza cosmopolita delle grandi invenzio­ ni. Un’invenzione non nasce mai sola. La si vede scaturire simultaneamente, in diver se parti del globo come se questi inventori non fossero che i medium di uno stesso gpitU XHtenni icu. Edi.wi negli Siali Uuili. William Fiioc-Gicxiic in Liglallci in. il dottor Anschutz c Sklfdinovsky in Germania, altri ricettatori in Russia, ?)emcny, Grinioin Sanson in Francia, lavorano contemporaneamente iiU’apparecchio che Lu­ mière per primo riuscirà i mettere a punto. 19

IL CINEMA O L’UOMO IMMAGINARIO

Durante tutto il XIX secolo saltimbanchi e scienziati si rilanciano l'invenzione in divenire e ogni “passaggio” è coni rassegnato da u.i perfezionamento. Il fenachitoscopio di Plateau diventa zootropo (Homer, 1834), lanterna magica animata che proietta su schermo (von Uchatus, 1853), disegno animato (prassinoscopio di Reynaud, 1887; teatro ottico, 1889). Parallelamente il giocattolo, associato a quell’ahro gioco per adulti che è la fotografia, è ridiventato, pas­ sando per la stravagante fantasia del miliardario Lelan Stanford, strumento di ricerca (pistola fotografica di Jansen 18/6; cronofoto­ grafo ci Marey, 1882). Anzi i saltimbanchi si trasformano in scien­ ziati e gli scienziati in saltimbanchi: il professore di scienze naturali Reynaud si ritrova direttore di teatro ottico e Lumière di baraccori da fiera. Di che si tratta? Di un giocattolo per il childrens corner? Di una carabina per scienziati con cui cacciare i movimenti della farfalla? Di disegni animati per il museo delle cere? Di un comple­ mentovisivo per il fonografo? Di una macchina a moneta? Di uno strumento o di uno scherzo? Se s cerca di risalire alle origini, l’incertezza si accresce: scienza ottica? ombre magiche? “L'invenzione del cinema risulta da una lunga serie di lavori scientifici e dal gusto che fu sempre tipico delTucmo per gli spettacoli di luci e ombre ”, dice Marcel Lapierre?61 lavori scientifici, ricorda Martin Quigley risalgono sino all’a­ rabo Alhazan che studiò Tocchio umano, a Archimede che usò si­ stematicamente lenti e specchi, a Aristotele che fondò una teoria dell'ottica.16 1718 Tale pellegrinaggio ci conduce non solo alle fonti delle scienze fisiche, ma anche, attraverso la fantasmagoria, a quelle della religione, della magia, dell’arte. I predecessori dei fratelli Lumière sono i presentatori di lanterne magiche, fra i quali i più illustri re­ stano Robertson ( 1763-1837)e padre Kircher ( 1601-1682) che so­ no a loro volta gli credi delia magia arcaica: cinquemila anni prima, sulle pareti della caverna di Giava, il Wayang animava i suoi giochi di ombre. Il culto greco dei misteri, praticato all'origine nelle ca­ verne, si accompagnava a rappresentazioni di ombre, se si accetta l’ipotesi di Jean Przylinsky che rende conto al tempo stesso dell’o­ rigine del mito platonico descritto nel libro VII della Repubblica* 16. V. Lapierrc, Anthologie da cinema, p. 13. 17. V. Quigley Jr., Magic Shadows. 18. Comunicazione al Congrès international J’csthctiquc. Paris 1937.

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IL CINEMA, I/AEROPMNO

Da dove viene allora il cinema? *La sua nascita... porta con SC tutti i caratteri dclfenigma c chiunque si interroghi su di essa smarrisce il cammino e desiste?19 A ben vedere l'enigma non è nei fatti, ma nelTincertezza di una corrente in continuo movimento dal gioco alla ricerca, dallo spettacolo al laboratorio, dalla scom­ posizione alla riproduzione del movimento, in quell'intreccio gor­ diano di scienza c sogno, di illusione e realtà in cui si prepara la nuova invenzione. Il cinematografo taglia questo nodo gordiano? Esso nasce nel 1895, assolutamente fedele alle cose reali mediante la riprodLzione chimica e la proiezione meccanica, vera dimostrazione di ottica ra­ zionale, e sembra voler per sempre dissipare la magia del Wayang, i fantasmi di padre Kircher e i giochi di Reynaud. Così lo si accoglie nelle università e lo si saluta accademicamente. Ma questa macchi na non è forse la più assurda che possa esistere, dal momento che serve a proiettare immagini per il solo piacere di vedere immagini?

19. A. Valentin, “Introduction à h magic blanche et noire”, in Lart a'ncmaftr grcphiqae, IV. Paris 1927. pi 109.

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2 IL FASCINO DELL’IMMAGINE

L originalità del cinematografo è relativa Già Edison aveva anima­ to la fotografia, già Reynaud aveva proiettato su uno schermo im­ magini animate. Ma è la relatività stessa del cinematografo-cioè il fatto che fotografia animata . Ibidem. 6. J. Epstein. Bonjour anewd, p. 10. 7. H. Agel, Le cinéma a î-il une âme?, pp. 64 65 8. A. Valentin. “Introduction à h magic blanche et noire*, dt.

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IL CINEMA O CUOMO IMMAGINARIO

che la qualità “leggendaria”, “surrealizzante”, “soprannaturale” sia immediatamente emersa dall'immagine più obiettiva che sia dato concepire? Breton ammirava che nel fantastico non vi fosse che il reale. Ro­ vesciamo la proposizione e ammiriamo il fantastico che si irradia dal semplice riflesso dellecose reali. Rendiamola, infine, dialettica: reale c fantastico, nella fotografia, si rinviano l’uno all’altro iden­ tificandosi in una reciproca coincidenza. È come se, davanti all'immagine fotografica, la vista empirica si combinasse con una visione onirica, analoga a quella che Rimbaud chiamava “veggenza”, non estranea a ciò che i veggenti chiamano vedere (e forse neppure a quella pienezza che i voyeurs realizzano con lo sguardo): una seconda vista, come si dice, massimamente rivelatrice di bellezze e segreti ignoti alla prima. E cerco non è sta­ to un caso che i tecnici abbiano provato il bisogno di inventare, là dove vedere sembrerebbe sufficiente, il verbo “visionare”. Così, secondo l’espressione di Moussinac. l’immagine cinema tografica mantiene “il contatto con il reale e trasfigura il reale fi­ no alla magia”? Di nuovo ritorna, ma questa volta applicato alla più fedele delle immagini, il termine di magia circondato da una schiera di parole va­ ghe - meraviglioso, irrealeecc. - che svaniscono e si dissolvono non appena si tenti di afferrarle. Non che esse non vogliano dire niente; esse non possono dire niente. Esprimono il desiderio impotente di esprimere l’inesprimibile. Sono le parole d’ordine dell’indicibile. Tali parole, dobbiamo trattarle come sospette per l’ostinazione con cui continuano a ripetere il loro niente. Ma al tempo stesso questa ostinazione è il segno di una sorta di fiuto cicco, come quegli an mali che grattano la terra sempre nel medesimo posto o abbaiano quando la luna si leva. Checosa hanno fiutato? Che cosa hanno rico­ nosciuto? Magia? Fotogenia? Qual è questo genio della fotografia?

Genio della fotografia Era la fotografia che aveva fatto nascere nel 839 il termine foto­ genia.1' Esso è ancora oggi impiegato. Noi ci scopriamo, davanti 9. L. Moussinac, Lagc ingrat lu cinema. 10. G. Sadoul. L'invention du cinema. p. 27.

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IL FASCINO DELL’IMMAGINE

alle nostre fotografie, “fotogenici” o no, secondo una misteriosa maggioi azione u peggioratone. La fotografia ci lusinga o ci tradi­ sce; essa ci dà o ci nega un certo non so che. Certo, la fotogenia del cinematografo non può ridursi a quella della fotografia. Ma è nell’immagine fotografica che risiede la lo­ re comune origine. Per chiarire il problema giova quindi partire da questa origine. Benché immobile F immagine fotografica non è morta. Ne è pro­ va il fatto che noi amiamo le fotografie, le guardiamo. Tuttavia es­ se non sono animate Tale considerazione falsamente ingenua ci illumina. Al cinematografo noi potremmo credere che la presen­ za dei personaggi proviene dalla vita - il movimento - che è loro data. Nella fotografia è evidentemente la presenza a dare la vita. La prima e singolare quanta della fotografia è la presenza della persona o della cosa tuttavia assente. Perché tale presenza sia assicurata non è affatto necessaria la soggettività mediatrice di un artista. Il genio della fotografia è in primo luogo chimico. La più obiettiva, la più meccanica delle fotografie, quella delle cabine per fototessere, può trasmetterci un’emozione, una tenerezza come se» secondo le paro­ le di Sartre, l’originale si fosse incarnato nell’immagine, E del resto l’invito canonico del fotografo - “Sorrida! ” - implica una comuni­ cazione soggettiva da persona a persona per il tramite della pellicola portatrice del messaggio dclPanima. La più banale delle fotogra­ fie cela o suscita una certa presenza. Noi lo sappiamo, lo sentiamo, dal momento che portiamo le fotografie con noi, le conserviamo, le mostriamo (omettendo significativamente di indicare che si trat­ ta di un’immagine: “questa è mia madre, mia moglie, questi sono i miei figli”) non soltanto per soddisfare l’altrui curiosità, ma p*r l’e­ vidente piacere di contemplarle noi stessi ancora una volta, riscal­ darci alla loro presenza, sentirle vicino a noi, con noi, in noi. pic­ cole presenze da tasca o da tavolo, care a noi o alla nostra famiglia. I padri e le madri defunti, il fratello ucciso in guerra guarda­ ne dalla loro cornice, vegliano e proteggono la casa contadina co­ me lari. In ogni famiglia le fotografie prendono il posto di quelle statuette o oggetti attorno ai quali si manteneva vivo il culto dei morti. Esse assolvono la stessa funzione, sia pur attenuata per­ ché lo stesso culto dei morti si è attenuato, delle tavolette cinesi, punti di incontro dove i cari estinti sono sempre disponibili alle richieste dei vivi. 27

IL CINEMA O L’UOMO IMMAGINARIO

Forse che la diffusione della fotografìa non ha in parte riani­ mato le forme arcaiche della devozione familiare? O piuttosto le necessità del culto familiare non hanno trovato nella fotografia Tesatta rappresentazione di ciò che amuleti e oggetti attuavano in maniera imperfettamente simbolica: la presenza dell’assenza?11 La fotografia, in questo senso, può essere esattamente chiamata ricordo, e tale identificazione va lontano. Il ricordo può esso stesso essere chiamato vita ritrovata, presenza perpetua. Feto-ricordo, i due termini sono strettamente connessi, meglio, intercambiabili. Ascoltiamo un dialogo di comari: “Che bel ricor­ do, che bel ricordo sarà per voi". La fotografia funge da ricordo e tale funzione può avere un ruolo determinante come nel turismo moderno che viene preparato e attuato quale spedizione destinata a fornire in primo luogo un bottino di ricordi, fotografie e cartoli­ ne. Possiamo interrogarci sullo scopo più profondo di questi viag­ gi di vacanza, che ci porano ad ammirare monumenti e paesaggi che ci guarderemmo bene dal visitare nel luogo in cui viviamo. Lo stesso parigino che ignora il Louvre, che non ha mai varcato la por­ ta di una chiesa e non devierà mai dalla sua strada per contempla­ re Parigi dall’alto del Sacro Cuore, non trahscerà una cappella di Firenze, percorrerà passo passo i musei, si sfinirà arrampicandosi sui campanili o per raggiungere i giardini pensili di Ravello. Cero, vuol vedere e non soliamo scattare fotografie. Ma ciò che si cerca, ciò che si vede è un universo che, al riparo del tempo o almeno ca­ pace di sopportare vittoriosamente la sua erosione, è già esso stesso ricordo. Montagne eterne, isole della felicità ove si rifugiano mi­ liardari, divi, “grandi scrittori" e, ben inteso, soprattutto luoghi e monumenti “storici", regno di statue e colonnati, campi elisi ddlc civiltà defunte... Cioè regno della morte, ma ove la morte è trasfi­ gurata nelle rovine, ove una sorta di eternità vibra nell’aria, quella del ricordo trasmesso di epoca in epoca. È per questo che le guide e i baedekers disprezzano l’industria e il lavoro di un paese per non presentare che la sua mummia imbalsamata circondata da un’im­ mobile natura. Ciò che si chiama estero, straniero, appare finalmen­ te in un’estraneità estrema, una presenza fantomatica accresciuta 11.Sono raggelati, irrigiditi, grot teschi i morti fotografati che noi Ignoriamo, pro e prozie sconosciuti... Ma quelli che noi amiamo sono teneri c affettuosi; noi li mostritmo agli altri, che tìngoro di partecipare a questi rianimazione mistica della presenza perché essi praticano lo stesso cubo c gli stessi riti. zìi

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II. FASCINO DELL'IMMAGINE

dalla bizzarria dei costumi e dalla lingua sconosciuta (ancora un’ab­ bondante raccolta disuuvenirs). E come pei i primitivi lo straniero è uno spirito in potenza e l’estero un avamposto del soggiorno degli spiriti, così il turista va come in un mondo popolato di spiriti, con k macchina fotografica nell’astuccio di cuoio, talismano portato a tracolla. E allora, per certi fanatici, il turismo è una vagabonda cavalcata interrotta da molteplici “scatti”. Non si guardano i mo­ numenti. li si fotografa. Si fotografa se stessi ai piedi dei giganti di piena. La fotografia diventa Fatto turistico per eccellenza, come se l’emozione cercata valesse solo per il ricordo futuro; l’immagine sulla pellicola ricca di una potenza di ricordo al quadrato. Ogni pellicola è come una pila che si carica di presenze: volti amati, oggetti ammirati, avvenimenti “belli”, “straordinari ”, “in­ tensi”. Così il fotografo professionista o dilettante sbuca fuori in tutti quei momenti in cui la vita esce dal suo letto di indifferenza: viaggi, feste, cerimonie, battesimi, nozze Solo il lutto - interessan­ te tabù che ben presto comprenderemo - resta inviolato. Le passioni d’amore caricano la fotografia di una presenza quasi mistica. Lo scambio di fotografie fa parte del rituale degli innamo­ rati che hanno unito i loro corpi o. in mancanza di questo, le loro anime. La fotografia avuta in dono diventa oggetto di adorazione e di possessione. La propria viene offerta contemporaneamente al culto e all‘appropriazione. Lo scambio delle immagini compie magicamente lo scambio delle individualità, ove ognuno diventa a un tempo idolo e schiavo altrui, il che è l’amore. Presa di possesso, abbandono di se stesso. Tali termini sono qui retorici. Sono tuttavia rivelatori se si considera il caso limite in cui la fotografia, integrandosi alle pratiche dell’occultismo» diventa, alla lettera, presenza reale, oggetto di possessione e fascinazione. Fin quasi dalla sua nascita, dal 1861, la fotografia è entrata nel mondo dell’occultismo, questo digest cioè di credenze e di prati­ che che comprende tanto lo spiritismo, la veggenza, la chiroman zia, la medicina dei guaritori che le diverse religioni o filosofie esoteriche. Guaritori, maghi e veggenti che fino ad allora si contentavano di agire su figurine o rappresentazioni mentali utilizzano ormai la fo­ tografia. Si agisce e si guarisce sulla fotografia» si localizza un barn bino o uno sposo scomparso sulla fotografia, si getta un sortilegio o una fattura, si operano sulla fotografia i malefizi della fascina* 29

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zione, e questi sono ancora e sempre più frequentemente praticati forse a causa stessa della fotografìa. In altre parole la fotografia è, nel senso stretto del termine» presenza reale della persona rappre­ sentati ove è possibile leggere la sua anima, a sua malattia, il suo destino. Meglio, è possibile intervenire grazie a essa e su di essa Se si può possedere tramile la fotografia, è evidente che es­ sa può possedervi: le espressioni “prendere in fotografia” "essere preso in fotografia” non tradiscono forse una confusa credenza in questo potere? Il timore di una possessione malvagia, evidente ancora qualche anno fa in Cina e in numerose culture arcaiche, è senza dubbio in noi inconscio. Esso ci viene forse non meno inconsciamente scon­ giurato dalla formula rcscitutiva "guarda l’uccellino”. La psicosi dello spionaggio fa emergere alla superficie questo timore; i tabù fotografici oltrepassano assai rapidamente i fini di sicurezza che li avevano determinati; in una certa città straniera si può vedere tutto» ma non si possono scattare fotografie. Un odio sospettoso circonda il fotografo, anche se questi non ha "preso” che un mu ro. Egli gli ha sottratto una sostanza vitale e segreta, si è impadro­ nito d un potere. D'altro canto, non è tanto il loro viso quanto la loro espressio­ ne che cercano di nascondere gli incolti o gli accusaci che rifiutano di farsi fotografare. Théophile Parhé cita questo caso, già cinema­ tografico, di testimoni di un crimine a scopo di rapina, che dopo aver accusato un loro conoscente si turbarono poco dopo davanti all’obiettivo dell’operatore di attualità del "Pathé-Journal”.1’ La fotografia può anche essere dotata di un genio visionario, aperto sull’invisibile. Ciò che si chiama "fotogenia” non è che l’embrio­ ne di una chiaroveggenza mitica che fissa suda pellicola non solo gli ectoplasmi materializzati delle sedute spiritiche,1' ma anche gli spettri invisibili all'occhio umano. Da quando nel 1861 il fotogra­ fo Mumlcr di Filadelfia inventò la "fotografia spiritica*,’4 in altre 12. Ili. Pathc. Le cinema, pp. 119 120. 13. Cfr. C. Lmcelin, Méthode de dédoublement personnel, in particolare- le fo:o riportate alla line del volume: fantasma della signora Léontine» doppio della fini­ rà mogie del dottor Volpi, fanusma della signora Lambert, bolla mentale del La nostra percezione fotografica corporalizza immediatamente le ombre: dalle ombre scaturisce un’impressione di realtà. Que­ sto fatto singolare sarebbe stato possibile se non vi tosse già sta­ la nello spirilo umano una fondamentale tendenza a dare corpo alle ombre, tendenza da cui ha avuto origine la credenza in quel­ le ombre senza dubbio immateriali e bensì corporee che sono gli spettri e i fantasmi? L'arte della fotografia - si intenda con tale Termine non soltan to quella degli “artisti” del genere ma anche l’arte popolare delle domeniche, delle vacanze e dei giorni di festa - rivela mediante la sua stessa estetica il valore affettivo connesso all'owArw. Certo, fin quadra:ura, l’angolo di presa, la composizione ecc. sono anch’essi elementi chiave delLarte cella fotografia. Ma quale foto o carto­ lina è soprattutto chiamata “bella”? Che cosa cercano i dilettanti al mare o in montagna? L’eterno (per noi, viziati) contro-luce, le vive opposizioni di ombre sullo sfondo chiaro, o al contrario cor­ pi e visi abbacinati dal sole, senza ombra, lutte le ricette e astuzie - le vulgata della fotografia - tendono a esagerare l’ombra, dark risalto, o al contrario escluderla, volatilizzar a e far apparire ur. non meno strano universo senza ombra. E comunque il doppio ciò che noi avvertiamo, sia nell’universo in cui si lasciano parlare le ombre, sia nell’universo che non conosce ombre. In altre paro le Forte, la cui funzione è dì arricchire ancora la potenza affetti25. A. Michotte van den Bcrck, *Le caractère de ’réalité' des projections cinema tographiques", in Revue internattwwte de Rilffwlogje. I. 3-4. ottobre 1948, p. 254.

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va dell’immagine (o di arricchire la potenza affettiva del reale per mezzo delfini magine), ci mostra che una delle qualità emozionan­ ti della fotografìa è legata a una qualità Utente del doppio * Un alone fantastico circonda Parte della fotografia. Esso accentua il fantastico latente, implicito nelloggettività stessa dell’immagine. /\ ciré il vero, noi abbiamo davanti alla fotografia l’impressione di contemplare un anclogon, un eidolon al quale manca soltanto il movimento. Di fatto si tratta di un misto di riflesso e di gioco d'ombre, cui noi diamo corpo e anima inoculandovi il virus della presenza. Ma non affrontiamo ancora il problema direttamente. L’importante è situare ciò che noi abbiamo esaminato all’inizio del capitolo: la fotografia copre tutto il campo antropologico che parte dal ricordo per pervenire alfantasma, poiché essa attua Ïunione del­ le qualità, a un tempo affini e differenti, dell'immagine mentale, del riflesso, dell'ombra. Da ciò, in primo luogo, la sua mirabile capacità di concretizzare il ricordo: meglio, di identificarsi con esso come ci dicono queste fotografie di famiglia e queste cartoline di viaggi ellitticamente, ma giustamente, chiamate souvenirs. La fotografia imbalsama il tem­ po, dice André Bazin relTunico vero e profondo studio dedicato all’ Ontologia dell'immàgine fotografica. Per di più, la fotografia può eventualmente pretendere d. es­ sere ‘più vera della natura", più ricca della vita stessa (fotografie turistiche, volti e cose fotogenici, fotografie artistiche). Centro di piccoli rituali intimi o familiari, essa si lascia avviluppare, inte­ grare nella zona affettivo magica delle feticizzazioni quotidiane, degli amuleti, dei portafortuna. È oggetto di culto sull’altare in­ teriore del sogno e del desiderio... Fa corona al sentimento. Essa entia infine nel regno propriamente detto del doppio, quandi se ne appropriano le pratiche occultistiche, n cui la magia arcaica è trasmessa, consolidata nella sua integralità, in una scienza segre­ ta, permanente e assai ramificata. La fotografia funge allora esat­ tamente da sostituto, punto di raccordo o campo di influenza del doppio. Essa permette a un tempo le pratiche benigne e i peggiori malefici. Essa è incantata. Al limite, tutto potrebbe avvenire come 26. La fotografia si cesiauidalla sua nascita rame atte, ma tale arte mirava a pren­ dere n prestilo le ricette della pittura accademica: cioè a comporre un quadro. Solo spontaneamente, al di fuori degli “artisti* riconosciut, si sviluppa un'arte della fo­ tografìa che si fonda innanzitutto sull'opposizione di Lice e ombra.

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IL CINEMA O CUOMO IMMAGINAR )

nei Mystères du Métro di Jacques Prévert c Ribemont-Dessaignc, in cui la fotografia pompa i vivi per fame dei fantasmi. Essa non conosce frontiere tra la vita e la morte. Extralucida, essa è aperta sull’invisibile. Straordinaria coincidenza antropologica: tecnica di un mondo tecnico, riproduzione fisico-chimica delle cose, prodotto di una particolare civiltà, la fotografìa somiglia al prodotto mentale più spontaneo e più universale: essa contiene i geni delFimmagine (im­ magine mentale) e del mito (doppio) o, se si vuole, essa e immagi­ ne e mito allo stato nascente. Ma il suo campo principale di irradiazione, nelle nostre culture moderne, è quella zona intermedia magico-affettiva ove regna ciò che è chiamato anima. Le due parole canoniche della fotografia sono parole d’anima. ’‘Sorridete...” mettete la vostra anima alla finestra del vostro viso, dolce, tenera, impa pabile, tremante, che un niente spaventa... “Guarda l'uccellino!”... Strana formula che è forse più di un semplice trucco per attirare l’attenzione dei bam­ bini: un ingenuo esorcismo, una restituzione magica che risponde al timore atrofizzato di una possessione. L’identificazione affettiva delFuccello e dell’anima è universa­ le. L’anima fugge dal morto sotto forma di uccello in cene cul.ure africane e la grande anima che è lo Spirito Santo si incarna in ucceJo. Il “guarda l’uccellino” che volerà via dalla macchina si rivolge dunque all’anima: essa vi sarà presa ma sarà liberata e vo­ lerà via leggera. Tutte queste virtù, la fotografia le trasmette al cinematografo con il termine generico di fotogenìa. Siamo ora in grado di avan­ zare una prima definizione. La fotogenia è quella qualità comples­ sa e unica di ombra, di riflesso e di doppio che permette alle potenze affettive proprie deliimmagine mentale di fissarsi sull1 immagine, frutto della riproduzione fotografica. Altra definizione proposta: la fotogenia è dò che risulta a) dal trasferimento sull*immagine fo­ tografica delle qualità proprie deliimmagine mentale, b) dalla pre­ senza delle qualità di ombra e di riflesso nella natura stessa dello sdoppiamento fotografico. La fotogenia, che dispone a guardare la fotografia piuttosto che a utilizzarla, non ha forse avuto un ruolo nel movimento che ha orientato il cinematografo verso lo spettacolo?

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IL LASCINO DELL’IMMAGINE

Gen/ e genio del cinematografo Il cinematografo è erede della fotogenia e al tempo stesso la tra­ sforma. La proiezione offre un'immagine che può ingrandirsi al­ le dimensioni di una sala, laddove la fotografìa ha potuto ridursi a formato tascabile. La fotografia non può dissociare l’immagine dalla sua base materiale di carta o cartone. L’immagine proiettata sullo schermo è smaterializzata, impalpabile, fugace. La fotografia d indirizza.» prima di tutto, all’utilizzazione c al consumo privato. 11 cinematografo si indirizza, prima di tutto, allo spettacolo collet­ tivo. Così la maggior parte delle feticizzazioni nate dall'utilizzazio­ ne e dal consumo privato fotografico si atrofizza e scompare. Così, per esempio, non esiste l’equivalente cinematografico della foto­ grafia che si porta con sé, o che si incornicia nella propria casa. La pellicola a 8 millimetri consente certo l'utilizzazione affettiva del film-ricordo, mille volte piu emozionante della loto-ricordo. Ma la sua immagine non presenta né quella localizzazione fissa c per­ manente, né quella materializzazione che permettono la cristalliz­ zazione affettiva su un oggetto, e cioè, precisamente, il feticismo. Così i feticismi cinematografici sono costretti a passare per il tra­ mite della fotografia (fotografie di divi) c della scrittura (autografi). Tuttavia certi fenomeni di magia fotografica trovano la loro ap­ plicatone cinematografica. L’immagine cinematografica non può essere utilizzata per la fascinazione, ma ciò che nel cinematografo è materiale e individualizzato può suscitare il timore della fascina­ zione: non già lo spettacolo, ma la macchina da presa e da proie­ zione. I nomadi iraniani protestano davanti alla macchina da presa “perché mi hanno fotografato” e il termine tradisce l’equivalenza affettiva dei poteri cinematografici e fotografici. I cinesi delle città, ancora vent'anni fa, remevano di vedersi carpire la propria anima. I primitivi o gli ingenui considerano coloro che proiettano i film “grandi maghi". È gridando u Al fuoco h stregoneria" che i conta­ dini di Niznj Novgorod incendiarono la baracca per le proiezioni Lumière nel 1898. Presso le vecchie civiltà e le popolazioni primi­ tive dei cinque continenti la diffusione del cinematografo apparve etfettivamente come un fenomeno di magia. /Mcuni anni più tardi, in un’intervista concessa a Film, il colon­ nello Marchand e il generale Galliéni si compiacevano di conside­ rare la funzione “pacificatrice" del cinema nelle colonie “che dà 43

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immediatamente ai suoi possessori la fama di stregoni”. Al ban­ chetto della Camera Sindacale della Cinematografia, il 25 marzo 1914, Demaria ricordò il "salutare terrore” provocato dai film proiettati Tanno precedente nel palazzo del sultano del Marocco. Infine, se il cinematografo non è stato seriamente utilizzato dallo spiritismo, esso si è nondimeno trasformato in cinema utilizzando il trucco della fotografia spiritica. Tut:e le potenze affettive e magiche latenti sono dunque pre­ senti nella cinematografia come nella fotografia. Ma l'immagine fotografica si è adattata alle caratteristiche individuali. Al contra­ rio dell’appassionato di fotografia, l’appassionato di film non può considerarsi proprietario delTimmagine. Il cinematografo si pwrifica dunque, rispetto alla fotografia, di numerose fissazioni origi­ nate dall’appropriazione privata. La proiezione e l’animazione accentuano congiuntamente le qualità di ombra e di riflesso contenute nell’immagine fotografica, Se l’immagine sullo schermo è diventata impalpabile, immateriale, essa ha contemporaneamente acquistato un’accresciuta corporei­ tà (grazie al movimento, come vedremo). Il fenomeno, già foto­ grafico, di corporalizzazione delle ombre aumenta in proporzio­ ne. Michette, nclTarticolo già citato, ha richiamato l’attenzione su questo paradosso: “Sullo schermo vengono proiettate soltanto macchie di luce, dal momento che le parli oscure devono essere considerate, dal punto di vista fisico, come una specie di negativo corrispondente alle regioni dell’oggetto che non eccitano la retina. Ora ciò è esattamente il contrario di quanto si produce nel campo percettivo (dello spettatore)”. La visione cinematografica si forma dal movimento delle ombie sullo schermo. Il suo diventare sostanza è dunque direttamente connesso alla densità o piuttosto alla a-densi:à del non essere, del grande vuoto negativo dell’ombra. Se si aggiunge che l’oscurità, favorevole alla proiezione, favorisce anche la magia dell’ombra c un certo rilassamento paiaonirico, occorre constatare che il cine­ matografo è, assai più della fotografia, contrassegnato dalla qua­ lità ddl’ombra. Lo è stato almeno fino all’apparizione del colore, e dopo di esso esita ancora fra la via delTomSra e quella del puro riflesso. Forse, anzi sicuramente, la qualità del riflesso la spunterà infine su quella dell’ombra. Ma, nonostante l’arricchimento che l’introduzione del colore comporta, la resistenza del bianco e ne­ 44

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re è significativa. Del resto, cinema a colori e cinema in bianco e nero sono al tempo stesso reciprocamente isotopi e isomeri. Ve­ nuto conto delle sue possibilità cromatiche, il cinematografo si è situato sulla linea degli spettacoli d'ombre dal Wayang giavanese a Robertson (1763-1837). Comprendiamo ora meglio la parente­ la sopra indicata: di caverna in caverna dalle caverne di Giava, quelle dei misteri ellenici, quella mitica di Platone, sino alle sale oscure, si ritrovano animate e affascinami le ombre fondamentali dell universo dei doppi. Si comprende come, già prima del 1914, sia apparsa e abbia assunto il nome eloquente di fotografia una tecnica particolare dell’ombra. Come l’arte della fotografia inanimata, quella deJa fo­ tografia animata impiega, accentua, esagera luci e ombre, ma que­ sta volta con mezzi, artifici e una sistematicità accresciuti/’ L’ope­ ratore filtra, canalizza o diffonde ombre e luci, al fine di caricare al massimo l’immagine di potenza affettiva: “l’orrore non può essere così orribile, ne la bellezza così incantatrice, visti realmente, quanto Terrore o l’incantamento suggeriti dall’ombra”." O, al contrario, l’operatore potrà, eliminando ogni traccia d’ombra, far irradiare l’anima e la spiritualità dei visi. A un estremo, l’ombra potrà anche sostituirsi agli attori e avere nei film una funzione primaria;27 29 all'al­ 28 tro, sorgerà Timmagine di un universo che ha perduto le sue om­ bre e che, per ciò stesso, possiede a sua volta la virtù qualitativa del doppio. Il colore, senza cambiare la natura estetica dell'immagine, la orienta in un senso differente: la qualità del riflesso domina. Il cirema guadagna in incantamento, ma perde in fascino. Infine l’animazione fa emergere fenomeni nascosti o sconosciu­ ti nella fotografia. La visione cinematografica di se stessi e assai pili ricca ed emozionante delFautocontemplazione fotografica. Epstein diceva: “non è forse degno di attenzione il fatto che sul­ lo schermo nessuno si rassomiglia? Che sullo schermo niente si rassomiglia?**. La stessa osservazione c già stata fatta per l’ascolto radiofonico delle nostre voci, sempre strane, cioè quasi estranee. 27. Cfr. L. Pa,gc.*L’opérateur", in D. Marion (a cura di). Le cinéma par ceux qui le font, 28. B. Balazs, theory o) ihe Film, p. 110. 29. Cfr. The Bad and the beautiful (Il bruto e la beila, di Vìncente Minnelli. 1952 ) che fa rivivere il periodo arraico dei film dell orrore, in particolare la trovata che consiste nel sostituire toialrrenre l’ombra all'attore

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In realtà, siamo presi dal sentimento profondo, contraddittorie, della nastra somiglianza e della nostra dissomiglianza. Ci sembria­ mo contemporaneamente esterni e identici a noi stessi, io e non io, cioè in fin dei conti ego alter, *O in meglio o in peggio il cine­ matografo, nella registrazione e nella riproduzione di un sogget­ to, sempre lo trasforma, lo ricrea in una seconda personalità, il cui aspetto può turbare la coscienza al punto da condurla a chiedersi: Chi sono? Don è la mia vera identità?"50 Il doppio sentimento d’alterità e d’identità è a volte chiara­ mente percepibile, come ncll’atteggiamento del nomade irania­ no che si vede per la prima volta sullo schermo. Egli si alza, salu­ ta esclamando: “Guardatemi tutti, eccomi qua". Nello spazio ci un secondo, dal saluto all'esclamazione “eccomi", egli ha potuto meravigliarsi del suo doppio estraneo, ammirarlo e quindi assi­ milarselo fieramente. Tale sentimento, possiamo già indovinarlo nella sorpresa e nelle esclamazioni con cui accogliamo la nostra immagine sullo schermo. Il primo segno dello sdoppiamento è infatti quello di reagire, fosse anche impercettibilmente, dinanzi a noi stessi, Più spesso noi ridiamo e il riso indica più della sorpre­ sa. E la reazione polivalente dell’emozione. Esso può significare successivamente o contemporaneamente la meraviglia infantile. 1 disagio, la vergogna camuffata, il sentimento improvviso del no­ stro proprio ridicolo. Orgoglio e vergogna, vergogna di questo orgoglio, ironia per la nostra candida meraviglia, c*è nel nostro riso auto-cincmatografico un insieme di meraviglia, ammirazio­ ne, disagio, estraneità... Talvolta la vergogna c il disagio dominato questo insieme. Epstein ci fa ancora notare che lo schermo ci rivela “la volgarità di un aucggiaineiitu, la goffaggine di un gesto, la vergogna del­ lo sguardo"?1 Noi reagiamo sovente come se (obicttivo potesse strapparci la nostra maschera sociale e rivelare ai nostri occhi e agli altrui la nostra anima non confessata. Non ne è forse una prova il fatto che appena chiamati davanti a un apparecchio fotografico o da presa noi “posiamo", cioè ci mettiamo una maschera, la nostra maschera più ipocrita: il sorriso o la dignità?30 31 30. J. Epscdn, L'inteihgcNcc fune machine, p. 12. 31. Ibidem, p. 107. Sarebbe ca citare l'intera pagina ùititoliua “I.a macchina per confess*re le anime".

IL FASCINO DELL'IMMAGINE

Quegli atteggiamenti pomposi che assumiamo nelle caiiinghe di caitapcsia dei baracconi da fiera, quelle pose trionfali dei mo­ nelli di Teheran, il piede su un compagno a terra, illustrano il no­ stro desiderio di rivelarci nelfimmagire con Fampollosoattcgg.amento suggerito dalla nostra vanità La posa tenta anche di mascherare la paura e l’intimidazione che nascono dall’apparec­ chio fotografico. Essa tradisce la difficoltà, la quasi impossibilità d: essere naturali davanti a uno sguardo trasparente. (Abbiamo già citato il caso in cui due testimoni a carico ebbero improvvisamen­ te paura di ripetere le loro accuse davanti alloperatore del Patbé Journal.} Racconta Caffary che i nomadi iraniani, durante la proie­ zione del film che li rappresenta, si aggiustano gli abiti e assumono una posa dignitosa. Non è forse la posa che essi non hanno potuto assumere quando si girava? Non cercano contemporaneamente di compensare una goffaggine o una scompostezza, di camuffare la loro anima? Non hanno, infine, un po' avvertito la presenza in­ quietante del doppio che rende vergognosi? Personalmente, ascoltandomi alla radio o vedendomi sullo schermo, ho provato un breve ma assai forte senso di vergognosa confusione, come se mi fosse apparso bruscamente il mio piccolo Mister Hyde. È probabile che in tali casi si risvegli una sorta di autofantomaticità, parente delFallucinazione autoscopica. Certo, la differenza è essenziale: il doppio dell'allucinazione, sebbene alfe­ stremo limite dei fenòmeni percettivi normali, è visto da un sog­ getto in situazione nevrotica. Per contro, Fautospettatore si vede in una situazione psicologica normale. Così il doppio non può mo­ strare cinematograficamente la sua estraneità, il suo fantastico, la sua fatalità. Assai raramente provoca orrore e qualche volta soltan­ to pena, come, fra i casi che cita Epstein, quello di Mary Pickford che “incredula, delusa, scandalizzata [...] pianse quando si vide per la prima volta sullo schermo”?2 Non vi è dunque equivalen­ za fra esperienza auto-cinematografica e visione autoscopica, ma la prima può presentare le caratteristiche nascenti della seconda. Effettivamente, è un doppio allo state» nascente che si rivela ai nostri occhi sullo schermo; per questo, più di quello delFalkcinazione, esso è vicino al doppio che il bambino scopre nello specchio o il primitivo nel riflesso, estraneo e familiare, affabile e pro.etto-32 32. J. Epstein. Cinéma au diable, p. 187.

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re, già leggermente maggiorato ma non ancora trascendente... È queste il motivo che fa sì che le nostre normali reazioni siano più ricche di piacere e di meraviglia che di disagio e vergogna, nell’ambiro del complesso affettivo in cui si mescolano alla sorpresa e al turbamento realistico della scoperta di se stessi la sorpresa e il tur­ bamento irrealistico della scoperta del doppio. E per questo che la gente, filmata per strada dagli operatori di Lumière, accorse ale sale di proiezione. Un altro tipo di esperienza auto-cinematografica è quella del divo. 11 divo ha due vite: quella dei suoi film, e la sua vita reale. Di fatto la prima tende a dettare legge e a impossessarsi dell’altra. Nella loro vita quotidiana - ritorneremo su questo punto - i divi sono come condannati a .mitare la loro vita cinematografica, vo­ tata all’amore, ai drammi, alle feste, al gioco c all’avventura?’ An­ che i contratti fanno loro obbligo di imitare il proprio personaggio cinematografico come se fosse autentico. Le “star” si sentono al­ lora ridotte a spettri che ingannano la noia nei party e nei divert. menti, mentre la loro sostanza umana è succhiata dall’obiettivo; di qui lo spleen, gli estri, le angosce hollywoodiane. “Tu non sei che un’ombra, e è il fantasma a far sorridere con il suo amore le labbra di carne”, mormora Adams, l’eroe del romanzo di Rene Clair.M I .’irea ritorna sovente nella (7/7/d del cinema di Ramón Gómez de la Sema: “e i cocktail ingannatori (...) sono versati tutti i giorni a profusione (...) per eccitare tutti questi attori di cinema che fi­ niscono per credersi degli spettri, e disperarsi”. Una star dice: “Fi­ gura dello schermo (...) Quando mi sento chiamare così, ho l’im­ pressione che mi si adori come un’ombra senz’anima”. E ancoia “l’aldilà ti preoccupa?” domanda Edma Blake a Elsa. “Niente af­ fatto... Sono esseri intermedi fra l’ombra e la realtà, come noi.”” Mirabile risposta che r.vela improvvisamente la natura profon­ da del cinematografo come la natura profonda dell’aldilà: ricordo, mediazione fra ombra e realtà... che rivela akresì come la maggiorazione del doppio possa svalorizzare la nostra vita reale. NclVapologo di Sileno a Mida, nel discorso di Creso, nel mito della ca­ verna siamo noi che diventiamo fantasmi rispetto ai fantasmi che 33. Cfr. L Rostcn. Hollywood, the Movie Colony, the Movie Makers 34. R. Clair. Adami, pp. 51 52. 35. R Gómez de la Sema, Cmcvillc, pp. 61,115, 117.

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hanno cessato di essere mortali. Ugualmente, di fronte Adoppio cinematografico caricato di una maggioiuziuue affet rivo-magica, lo spettatore i n carne e ossa sente forse di andare a “vedere la stampa positiva di un mondo di cui egli potrebbe da sempre ritrovarsi a essere l’interminabile negativo*1. In questo senso, secondo la mi­ rabile formula di Paul Valéry, il cinematografo “critica la vita*?* Solo un po’ di fantasticheria, d’immaginazione, di anticipazio­ ne. è talvolta sufficiente perché l'emozionante immagine cinema­ tografica sia improvvisa mente esaltata fino alle dimensioni mitiche dell’universo dei doppi e della morte. Consideriamo il cinema fu­ turo immaginato dalla fantascienza: vi vediamo profilarsi il mito ultimo del cinematografo che è al tempo stesso il suo mito primo, il cinema totale che catapulta nell’avvenire insondabile ciò che è contenuto in germe nel nocciolo stesso dell'immagine, rivelando­ ne le latenti possibilità. Le prime fantasie scientifiche cominciano con il conferire alle immagini proiettate tutte le qualità sensibili. Aldous Huxley de­ scrive in II mondo nuovo il film che canta, parla, il film sintetico, a colori, stereoscopico, odoroso. Tutti i sensi dello spettatore sono sollecitati dai feelies Questa timida anticipazione sopravanza soltanto di una o due tappe il cinemascope. Più interessanti sono le fantasie che si sba razzano francamente della sala e proiettano il film nel “grande schermo che ci offre il ciclo, la notte. Si cerca un inventore che metta a punto questa idea”.' Dopo René Clair, Dovzenko profe­ tizzava nel 1931 un cinema senza schermo, nel quale lo spettatore assisterebbe al film come se si trovasse al centro dell’azione cine­ matografica.*' Nell'attesa, Barjavel suggerisce le immagini dei titoli di testa di un Sinbad il marinaio. Gli spettatori sono sdraiati nelle poltrone. Sopra di loro, onde si formane e svaniscono. Nelle onde una sfera si gonfia, si apre, sboccia in fiere di loto. “Nel cuore del finre sta accovacciato Tuccello-roch. L'uccello si alza, disp ega le sue immense ali. fa tre volte il giro della >ala, Un uomo minuscolo è accovacciato su una delle sue zampe, più grande di una quercia 56. ‘Questa facoltà critica la vita... io non ho pii desiderio di vivere, perché non c più die mjiiu£)ìì4il-"; P. Viléry, in Cahiers de Citimi., 1, Paris 1944. 57. IL Clair, in Crapoudlot, numero speciale sul cinema, marzo 1927. 58. Citato in J. Auriol, “Formes cl manières”, in Revue du Cinéma, nuova se rie. Ul. 18.

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millenaria.'*'9 Meglio ancora, Barjavcl descrive il telecinema futu­ ro: “leonde porteranno le immagini per untolo spazio. Gli appa­ recchi ricevitori le concretizzeranno a volontà”. E Henry Poulail­ ler “domani l’immagine sarà davanti a noi intessuta con i fili di raggi luminosi, senza schermo, allucinante... /\ questo stadio delTonirismo lantascientifico, il mondo del ci­ nema è già diventato precisamente il mondo cogli spiriti o dei fan­ tasmi quale esso si manifesta in un gran numero di mitologie arcai che: mondo aereo ove navigano spinti onnipresenti. Lo schermo è dissolto nello spazio. I fantasmi sono dappertutto. Ma se l’immagi nazione si spinge ancora oltre, o piuttosto se ritrova la sua fonte, i fantasmi ridiscendono suiti Terra. Essi sono in mezzo a noi, spettri corporei, identici a noi stessi. E nel suo arcaismo allo stato puro, nella sua presenza allucinante in seno al mondo reale che il cinema totale sdoppia infine il nostro universo. L’evoludone del cinema sarà compiuta “quando essa porrà presentarci dei personaggi a tutto ton­ do, colorati e forse odoranti, quando questi personaggi si libereran­ no dello schermo e dell’oscurità delle sale per andare a passeggiare sulle pubbliche piazze e negli appartamenti"41 come gli uomini e le donne dell’isola di Morel,42 come i leoni proiettati cinematografico-psichicamente nell’asilo troppo perfezionato di Ray Bradbury/' Quest'immaginazione non è sregolata. Ne è prova il fatto che essa si modella sull'archetipo mitico che il genio di Villiers de l’Isle Adam aveva saputo raffigurarsi partendo dalle invenzioni di Edison, prima ancora della nascita del cinematografo. In L’Èva futura il “mago di Mcnloe Park" crea una ccpia perfetta - a eccezione della stupidità che è prerogativa inimitabile dell'uomo - della superba e sciocca Alicia Clary. Questo doppio radioso, Hadaly, è della stessa essen­ za della Faustina dì Bioy Casares. A settant anni di distanza, i sogni che hanno preceduto il cinema e il sogno delia fine cinematografi­ ca dell'uomo si raggiungono nel mondo dei doppi. Questo mondo ritrova il suo fascino originale ed esalta anzi la sua qualità magica essenziale, di mondo dell'immortalità, cioè di mondo dei morti. 59. R. Barjavcl, Cinéma total, p. 59. •IO. Citato in R. Mandioti. CróAffiM, reflet du Monde, p 195. •41. R. Barjavd, Cinéma total, p. 9. 42. A. Bioy Casares, L'invenzione di Morel, romanzo, tr. it. Bompiani. Milaao 1974, 43. *l>a Brousse”, in R. Bradbury, L'homme illustre. novelle.

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II. FASCINO DELL'IMMAGINE

Come diceva un ragazzino a Max Jacob, “si fa il cinema con i morti. Si prendono i morti, si fanno camminare c qucsiu è il cinema’*.441 morti si incarnano naturalmente nel cinema totale di Barjavel. **I fantasmi di grandi uomini apriranno i cortei comme­ morativi. L’immagine della Bastiglia risorgerà ogni quattordici lu­ glio nel cuore di Parigi... Sui campi di battaglia, impalpabili cava­ lieri alla Bayard trascineranno gli esitanti verso eroiche morti/4' Ma non siamo ancora al termine del viaggio. Ecco che questo mondo sdoppiato cerca di assorbire il mondo leale. Nella nuova invenzione di Citta del cinema gli spiriti degli spettatori sarebbero succhiati dal cono assorbente della macchina da proiezione reale/ I corpi addormentali resteranno nella sala, sotto la sorveglianza degL agenti dell’autorità. Come la fotografia occultista “pompa” il vi­ ve, così il cinema totale pomperà il nostro doppio per fargli vivere un sogno collettivo organizzato. L’invenzione di Morel è ancora più grandiosa. È pei sopprimete la mul te, die il geniale Morel ha inte­ ramente “succhiato” i vivi nella sua isola, ormai votata all’eternità.41 II cinema totale che inghiotte finalmente gli uomini nella sua sostan­ zaimpalpabile e concreta, irreale e reale, verso avventure tragiche, ludiche ed eterne, confonde nello stesso atto morte e immortalità. L’invenzione di Morel ci propone il mito cinematografico finale: 1’assorbimen to dell’uomo nell’universo sdoppiato, affinché, infine, qu’cn lui-même l'éternité* lo salvi. Così essa ci rivela die, se il mito latente del cinematografo è l'immortalità, il cinematogra­ fo totale è esso stesso una variante dell’immortalità immaginaria. Non è forse in questa fonte comune, l’immagine, il riflesso, l’om­ bra, il primo e l’ultimo rifugio contro la morte?

Iduccellino L’immagine... 11 cinematografo di Lumière ha in sé tutte k pos­ sibilità che da sempre gli uomini hanno attribuito alfimmaglne. 44. Riferito da L. Guilkux, in Absent de Parrs t pp. 182-183. 45. R. Barjavcl. Cinéma total, p. 62. 46. R. Gômez de lu Sena, Ctnéville, p. 126. 47. “11 mio abuso consiste nell avervi fotografato senza autorizzazione. ?oiché debbo dirvi ebe non si liana di uim foiosiafut umnc le allie: si traita della uà» ulti­ ma invenzione; noi saremo rivi su questa fotografia, per sempre... Noi vivremo per l'eternità": A. Bioy Casares LÌmenzione di Moni. Ritroviamo ancora una volta il tema magico della fotografi;! che “pompa" ì vivi.

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IL CINEMA O LWM( ) IMMAGINANO

C'è» non foss’altro nel senplice riflesso della natura, qualcosa di più clic la natura. Il cinematografo maggiora il reale, lo trasfigu­ ra senza trasformarlo per la sua virtù meccanica che alcuni hanno chiamato fotogenia, cosi come si era potuto parlare di virtù dormitiva per l’oppio. Tale virtù fotogenica ricopre l’intero campo che va daH’immagine al doppio, dalle emozioni soggettive alle alie­ nazioni magiche. Effettivamente il cinematografo Lumiere, per quanto limitato, è già microcosmo del cinema totale, che è in un certo senso la lisuilezione ii negl ale dcU’univciso dei doppi. Esso anima ombre portatrici del prestigio dell’immortalità e del terrore della morte. Ma, di fatto, tale prestigio e tale potere sono allo stato nascente, larvale, atrofizzato, inconscio. Sono i fenomeni estremi della visione auto-cinematografica, dell'occultismo fotografico o ci nematografico, della mitologia del cinema totale, che permettono ai gettar luce sulla complessità indifferenziata dei fenomeni normali. Reciprocamente i fenomeni normali, cioè la curiosità u il piacete delle proiezioni cinematografiche destinate precisamente a questo piacere e a questa curiosità, ci consentono di indovinarne la po­ tenzialità magica. Il doppio è in potenza, e invisibile sullo scher­ mo, è allo stato di virus per usare l’espressione di Malraux. Basta lo sguardo ingenuo del primitivo o un po’ di abbandono da pane nostra per rivelarlo. La fotografia era già il san Giovanni Bauista chimico di un cine­ matografo che liberò l’immagine dalle sue catene, la purificò dalle feticizzazioni in cui si irrigidisce ogni incontro fra il godimento e l’approvazione privata, gli ponò il movimento della vita. Il cine­ matografo è davvero Timmagine allo stadio elementare e antro­ pologico di ombra-riflesso. Esso risuscita nel XX secolo il doppio originario. È una meraviglia antropologica, cht consiste nel suo ade­ guamento a proiettare come spettacolo un immagine percepita come riflesso esatto della vita sociale. Si comprende allora perché tutte le tradizionali correnti di in­ venzione si siano rivolte a lui, ci si rende conto del perché non sia stato necessario cambiare apparecchio per consentire i prodigiosi sviluppi futuri. Il cinematografo è stato una macchina necessaria e sufficiente per fissare una ricerca errante, per operare quindi la sua propria trasformazione in cinema. Tale trasformazione età insita in esso. Il cine-occhio, il cinespecchio di Lumière, non doveva essere che una tendenza, così 52

IL FASCINO DELL’IMMAGINE

come il cine-occhio di Vertov. // cinematografo non doveva essere che un momento dì passaggio, unico e breve, in cui si equilibrava­ no la fedeltà realista del riflesso e la virulenza delle facoltà umane di proiezione. Altro doveva nascere. E quest "altro era precisamen­ te contenuto in questa forza proiettata nelPimmagine e capace di portarla fino alla magia delFimmortalità. Il più sorprendente com­ plesso magico-affettivo, racchiuso nelfimmaginc, doveva cercare di liberarsi, di aprirsi la strada verso Timmaginario... Effettiva mente il cinematografo si metamorfosò, secondo uno sconvolgente processo, semi-affettivo e semi-magico. Accadde una cosa singola­ re: “la strana esaltazione della facoltà propria delle immagini im­ provvisò a sua volta spettacoli che erano sepolti nell’invisibile**.44 L’uccellino, sempre invano annuncialo dal fotografo, sarebbe fi­ nalmente uscito.

•18. G. Cohen Scat, Essai tur 1rs principes d'une philosophie du cinéma, p. 24.

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METAMORFOSI DEL CINEMATOGRAFO IN CINEMA

Aile origini del cinematografo non vi erano state soltanto le ricer­ che sui movimenti dei bipedi, dei quadrupedi e degli uccelli, ma anche il fascino dell'immagine, delTombra c del riflesso. Tale fa­ scino fa da padrone nell’utilizzazione di un apparecchio destinato essenzialmente allo spettacolo. La corrente di invenzioni, vagan­ te per tutto il XIX secolo, ha ormai trovato un letto e vi si insedia. L’apparecchio e il sistema di proiezione si stabilizzano. Fin dall'esposizione del 1900, il cinematografo apparentemente disponeva dei mezzi tecnici necessari per allargare l’immagine alle dimensioni dello schermo gigante e anche circolare (cinecosmorama d Grimoin-Sanson e cincniatorama di Baron), dotarla del suono (film parlati di Baron del 1898, fonorama, fono-cine-teatro, cinefonognfia ecc.), fornirla del colore - in breve, per offrire un riflesso più fedele e più completo delle cose.’ Ma esso trascurerà per alcuni decenni questi prevedibili sviluppi, per operare invece una trasfor­ mazione inattesa, inaudita. Questa evoluzione - che chiameremo presto rivoluzione - concerne non già la macchina da prest, ma, come dice Arlaud, la maniera di servirsene/ Ontogenesi Straordinaria metamorfosi... che passa tuttavia quasi inavvertita. Poiché - fra gli altri motivi - coloro che hanno attuato il passaggio 1. Ritorneremo in seguirò sul problema delle possibilità economiche e tecniche del cinematografo sonoro, a colon e su grande schermo, che si offrivano nel TAXI. 2. *C*è più differenza fra la macchina di Lumiere c la maniera di servirsene, di quanta non ne esista fra tune le invenzioni precedetti e la scatola degli illustri fra tclfi": R.M. Arlaud, CMm^bouffe, p. 28

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IL CINEMA O LWMO IMMAGINARIO

dal cinematografo al cinema non erano stimati professionisti, pen­ satori laureali o artisti eminenti, ma dilettami autodidatti, fallir, venditori di fumo, saltimbanchi... Per quindici anni, fabbricando film, essi hanno fabbricato il cinema, senza curarsi d’arte se non come giustificazione pomposa a uso degli sciocchi. La rivoluzione che questi anonimi compiono, isolatamente c simultaneamente, a colpi di piccole astuzie, di idee ingenue, di malizie acchiappa-mer li. è frutto di una spinta oscura, semi-incosciente e per ciò stesso profonda e necessaria. È infatti impossibile attribuire la paternità del cinema a un no­ me, a un uomo, a un paese: in Inghilterra, in Francia, in Italia, ne­ gli Stari Uniti, in Danimarca, in Svezia, in Germania, in Russia, ovunque si producano film, scaturiscono pressappoco le stesse scoperte. Prima di Griffith e anche prima di Porter, Mcliès e i ci­ neasti ;nglcsi di Brighton, come ha dimostrato Sadoul, inventano le tecniche primarie. Queste sono a loro volta reinventate in mol­ teplici riprese. Il montaggio fu il risultato di venticinque anni di invenzioni e reinvenzioni, di audacie e del caso, per trovare infine il suo maestro in Ejzenstejn... Provocata da dilettanti, la metamorfosi si compì dopo la guer­ ra 1914-1918 con l’espressionismo e il Kammerspiel tedesco e nel 1925, anno della Corazzata Potemkin, con l’esplodere del cinema sovietico. Ma una volta passato dalle mani dell'illusionista Méliès, dei fo­ tografi di Brighton e del régisseur alla Zecca, nel recinto riservato agli artisti, si impadronirono del cinema le avanguardie dell’este­ tica, che fino ad allora lo avevano ignorato. Retrospettivamente, così come si ricercano gli antenati e una genealogia al nobile di fresca nomina, si battezzarono arte le al­ chimie dello studio di Montreuil; Canudo chiamo quest’arte h settima, e furono dimenticati gli angusti natali, cioè la natura stes­ sa del cinema. Certo, un’arte è nata: ma anche molto più di un’arte. Per rico­ noscere quest’arte bisogna esaminare ciò che precede, annuncia e attua la sua nascita: per comprendere il cinema bisogna seguire il passaggio del cinematografo al cinema senza pregiudicare l’es­ senza intima o ultima del fenomeno totale, dell’o/z/ogewer/ che si compie.

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METAMC >HOSI DEL CINEMATOGRAFO IN CINEMA

Come avviene la nascita del cinema? Un nome permcttedi cri­ stallizzare l'intera mutazione: Méliès, grande Omero naïf. Di qua­ le mutazione si tratta? È il passaggio dalla fotografia animala pre­ si. dal vero alle scene spettacolari? Si crede di poter riassumere il contributo di Méliès - e Méliès stesso l’ha creduto - dicendo che egli lanciò il film“sulla strada teatrale spettacolare*. Ma perla sua stessa natura e fin dal momento della sua apparizione, il cinemato­ grafo era essenzialmente spettacolo: egli presentava le sue immagi­ ni a un pubblico, per un pubblico, e conteneva quindi quella tea­ tralità che doveva in seguito sviluppare con la messa in scena. Del resto, i primi film del chinetoscopio presentavano già incontri di boxe, spettacoli di music-hall, scenette comiche. Il cinematografo stesso, sin dal suo primo giorno, mostrava l’/nw^J/ore innaffiato. La “spettacolarità” scenica appare dunque contemporaneamente al cinematografo. È vero che, inventando la regia cinematografica, Méliès ha fatto procedere ancora più profondamente il film sulla “strada teatra­ le spettacolare”. Tuttavia è non già nella teatralità, ma attraverso di essa che bisogna ricercare la fonte, l’essenza della grande mu­ tazione. I trucchi e il fantastico sono i due aspetti della rivoluzione che Méliès opera. Rivoluzione nell’ambito dello spettacolo, ma che lo trasforma. Del resto gli storici lo sanno, si meravigliano del ’gran­ de Méliès”, ule cui formulettc magiche rappresentarono in real­ tà i germi della sintassi, del linguaggio, dei mezzi espressivi del cinema”.’ Ma pur meravigliandosene ncn sembrano riflettere sul fatto che. invece di accrescere la fedeltà balistica della sua imma­ gine, allargandola (schermo gigante o c rcolare) e dotandola del stono e del colore come era stato annuncialo all’esposizione del 1900, il cinematografo abbia scelto, dal 1896, la via della fantasma goria. Effettivamente il fantastico scaturì immediatamente dalla più realistica delle macchine e l’irrealtà di Méliès si dispiega con la stessa flagranza della realtà dei fratelli Lumière. Al realismo assoluto (Lumière) risponde l'irrcalismo assoluto (Méliès). Ammirevole sintesi che Hegel avrebbe amato e da cui doveva nascere e svilupparsi il cinema, fusione del cinematografo Lumière e degli incantesimi di Méliès. Î. G. Sadoul, il. p. 164.

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La metamorfosi Lo stesso anno, nel 1898, a Parigi e a Brighton, Méliès con la Qverne maudite, Rêve d'artiste, Les quatre têtes embarrassantes e Dédoublement cabalistique, e G,A, Smith con The Corsican Bro­ thers e The Phantom introducono il fantasma e il doppio nel film mediante la sovrimpressione e le doppie o multiple esposizioni. Questo trucco, che Méliès situa al quarto posto tra le tecniche usate nel suo testo capitale del 1907, Les vues cinématographiques, è immediatamente imitato, e i doppi pullulano sugli schermi: dop­ pi di morti (fantasmi ) e di vivi, doppi alla seconda potenza quando si tratta di un fantasma gemello, come nei Corsican Brothers. Gli spettri nascono in sovrapposizione di immagini con una contur­ bante spontaneità, come per situare senza equivoci il cinematogra fo fra gli spettacoli d ombra di padre Kircher e di Robertson. Un anno dopo la sua nascita, il cinematografo si situa nella direzione di quella * macchinetta” che si compiace di scheletri e fantasmi e di “far vedere nelPoscurità. >u una parete bianca, spettri spaventosi, cosicché coloro che non ne conoscono il segreto credono che ciò avvenga per arte magica**45Poiché l’ombra, cgni ombra, richiama immediatamente il fantastico e il surreale, La brusca apparizione del fantomatico fa sbocciare la magia racchiusa nel “fascino del?immagine’*. Il fantasma non è una semplice efflorescenza. Esso ha una fun­ zione genetica e strutturale. E sintomatico che là ove ha luogo la nascita del cinema, a Brighton e a Parigi, il doppio sia immediata mente evocato e mobilitato e fornisca il punto di partenza di una delle tecniche chiave del cinema: la sovrimpressione? Abbiamo dato immediato rilievo alla sovrimpressione fantoma­ tica e allo sdoppiamento perché hanno per noi i tratti familiari di una “magia" già altrove ricordata, ma anche perché presentano i caratteri propri del nuovo mondo del cinema: sono trucchi, ef­ fetti in un primo momento fantastici, ma che diverranno in seguito tecniche dell'espressione realista. Essi si integrano in un amalgama in cui Méliès combina le sue ricette originali con quelle del teatro 4. Richclct. Dictionnaire philosophique, citato in G. Sadoul, I, p. 201. 5. In seguito, negli anni 1914 1924, le ombre, gli aloni, le luci, diciamo la mug a latente ccl doppio, ebbero aneli essi una funzione genetica e strutturale apportando al cinema quell'insieme di tecniche die vengono chiamate fotografia.

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Robert I Ioudin edela lanterna magica. Essi partecipano a questo inserimento sistematico del trucco nel mondo cinematografico» fanno parte di quel fascio di illusioni che. dopo il riflusso del fan­ tastico. costituirà la retorica elementare ed essenziale di ogni film. Infatti tutti i trucchi da prestigiatore di Méliès si radicano in tecniche chiave dcW-Mt cinematografica, compresi, anzi soprattut­ to, il documentario e il cinegiornale. La sovrimpressione, il pri­ mo piano, la dissolvenza semplice e incrociata sono per così dire i prodotti di decantazione delle immaginazioni della Star F lm? Gli storici - anche anglosassoni - seno coscienti delFimpor tanza genetica di Méliès. Ma questi stessi storici sono come que­ gli spettatori fra lo sbalordito e lo scaltro, che vanno a informarsi dietro le quinte. “Trucchi, sono trucchi, ecco i trucchi.” Si rivol­ gono a loro volta al pubblico e annunciano solennemente “queste formulctte magiche costituiscono in realtà i germi della sintassi, del linguaggio, dei mezzi di espressione che permisero al cinema di tradurre la realtà cella vita*» Essi sanno che questi trucchi hanno mutato l'anima del cinema, ma essi ignorano l'anima di questi “trucchi”. La frase di Sadoul che abbiamo di nuovo citata nasconde, nello stesso momento in cui lo pone, il vero problema. Come hanno potuto dei semplici trucchi, delle féeries incredibili, assolvere a un compito motore, genetico e strutturale? Perché, in che cosa essi hanno rivoluziona­ to il cinematografo? Come è potuto avvenire che il padre di un linguaggio e di un’arte nuovi sia stato rient’altro che un presti­ giatore con un piccione nella manica? Perché il cinema passa per il tramite di queste “formulctte magiche” per poter “tradurre la realtà della vita”? Occorre anzitutto esaminare la comune natura dei diversi truc­ chi di Méliès: sono quelli del teatro fantastico e della lanterna magica; benché arricchiti di innovazioni, essi mirano, tutti, agli 6. La funzione del fantastico. ncU’evduzionc del cinema, non termina conia rovi­ na della Star Film di Mcliès Con Il gabinetto del dotior Caligari, Il carretto fartas ma, Il braciere ardente, si assiste a un rilancio del cinema che si arricchisce di sostanza, tecniche (fotografia) e atmosfera. Si attua un incessanic dialettica che fa passare il filn dal documentario realistico al fantastico, e che poi reintegra i processi fantastici come mezzi di espressione che consentono al cinema di tradurre la realtà della vi ta”. Con Méliès tale dialettica è al suo primo stadio, se effettivamente, dopo Melics, il fantastico restringe il suo campo c la sua funzione, esso conosce tuttavia improvvi­ se espansioni dopo le quali rinnova incessantemente l'arte realistica delle immagini.

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effetti precisamente magici e fantastici per riacquistare gli attri­ buti propri di quegli spettacoli anteriori al cinema c di cui il ci­ nema si è nutrito. Magici e fantastici» questi trucchi e questi spettacoli sono delà stessa famiglia della stregoneria e delloccultismo. La prestidigi­ tazione» come la stregoneria» sa compiere apparizioni» sparizioni e metamorfosi. Ma lo stregone è creduto stregone, mentre il pre­ stigiatore è ritenuto un contraffattore. I giochi di prestigio come i trucchi di Méliès sono residui decadenti e dì fiera in cui il fanta­ stico non viene più preso alla lettera. Il fantastico costituisce tut­ tavia la linfa di questi spettacoli. E, benché estetizzata e svalutata, è la visione magica del mondo che si perpetua attraverso di essi Di questa visione magica del mondo noi non possiamo ancora definire i caratteri essenziali, perché sarà il cinema a chiarirli, come essi chiariranno il cinema. Precisiamo, intanto, che noi ci riferiamo alla magia non come a un’essenza, ma come a un certo stadio o a certi siati dello spirito umano. Per descriverla ci riferiamo alla visio­ ne del mondo arcaico, perché in quel mondo l’alienazione è mani­ festa, feticizzata. E accordiamo anche una preminenza alla visione arcaica della wor/e» perché nessuna scoria empirica, nessun resi­ duo d realtà, ci impedisce di considerare la sua natura fantastica. Ne^ precedente capitolo, lo studio delfimnagine riflessa ci con­ duceva a uno dei due poli della magia: il doppio. Esso si fermava al momento in cui Fimmagine resta specchio ledete e non si è anco­ ra trasformata sotto il flusso del desiderio, del timore o del sogno. Ora. F universo della magia non è soltanto popolato di ombre e di fantasmi; esso è, per essenza, aperto a tutte le metamorfosi. Tut­ to ciò che è fantastico è riconducibile in ultima analisi al doppio e alla metamorfosi/ Ncila visione del mondo arcaico tutte le metamorfosi sono pos­ sibili ed effettive nelFambito di un’immensa parentela fluida ove sono immerse le cose che vivono o si muovono, non ancora chiuse nella prigione dell’obiettività e delFidentità. La metamorfosi trion­ fa sulla morte e diventa rinascita. La morte-rinascita è la seconda immortalità, parallela e congiunta alla sopravvivenza del doppio. Î doppi si muovono in linerìa nell’universo delle metamorfosi e questo è animato dagli spiriti, cioè dai doppi. 7. E Morin. Lbommeet la mort, pp. 99-123.

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Le metamorfosi sono restate vive e attive nel favoloso mondo infantile, nelle fiabe e nei laccoliti fanlasiici della prima età c, dal* tro canto, nella prest.digitazione che, benché ridotta a spettacolo da fiera, è esattamente l’arte magica, non soltanto della traskzione dal visibile all’invisibile e viceversa (apparizioni, sparizioni), ma anche e soprattutto celle trasmutazioni e trasformazioni. Ora, se torniamo £ Méliès, cioè al passaggio dal cinematografo al cinema, non soltanto troviamo la prestidigitazione (trucco) come base dei suoifilm e la féerie come risultalo, ma scopriamo che il pri­ mo trucco, che è lo stesso atto operativo che avvia la trasformazione del cinematografo in cinema, è una metamorfosi. Alla fine del 1896 (in ottobre, suppone Sadoul), cioè appena un arno dopo la prima rappresentazione cinematografica, Méliès, co­ me un qualsiasi operatore di Lumière, fi ma la piazza dell’opera. La pellicola si blocca a un tratto, ma in capo a un minute si ri­ mette in marcia. Nel frattempo la scena era mutata; l’omnibus Madeleine-Bastille trainato da cavalli aveva lasciato il posto a un carro funebre. Alt ri pedoni traversavano il campo dell’obiettivo. Proiettando la pellicola Méliès vide improvvisamente un omnibus trasformato in carro funebre, uomini mutati in donne. 14 II trucco delle metamorfosi era trovato/* Nel 1897. anno in cui “prende coscienza della sua missione”, come si dice nel linguaggio finalistico e ingenuo caro ai biografi? Méliès sfrutta il procedimento. Le prime trasformazioni incon­ trano un grande successo (Le manoir du diable, Le diable au cou­ vent, Cendrillon, Faust et Marguerite. Le carrefour de /'Opéra, Ma­ gie diabolique). E, poiché “da trucco nasce trucco”, Méliès cerca, trova nuovi procedimenti e allora soltanto incomincia a utilizzare il macchinario e la prestidigitazione del teatro Robert Houdin e della lanterna magica. Sempre mirando a risultati fantastici, inven­ terà la dissolvenza incrociata e la carrellata. Nessun dubbio: il fantastico e la féerie la visione magica dell’universo, i procedimerti tecnici del cinema si confondono allo sta­ to nascente nel genio di Méliès. Più precisamente ancora, h me­ tamorfosi fu non soltanto il trucco cronologicamente primo, ma primario. 8. G. Méliès. Les t&ei cmèmatographif/ucs. 9, G. Sadoul, Ilisiotre d* l'art du cinema, p. M.

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IL CINEMA O L’UOMO IMMAGINARIO

Dieci anni dopo, dopo tanti e tanti trucchi Méliès sottolineava ancora la funzione fon clan iemale della mtiamodosi, distinguen­ do i fiim in due categorie, quella dui soggetti composti o scene di genere, e quella delle scene dette a trasformazione. Ma non è già nella prima che egli ha innovato ed è divenuto illustre. Già Edi­ son aveva pensato di fare del cinema una sorta di specchio del­ la scena del music-hall. Méliès ha saltato a pie’ pari attraverso lo specchio di Edison e dei fratelli Lumière ed è ricaduto nell’universo di Lewis Carroll. La grande rivoluzione non fu soltanto l’ap­ parizione del doppio nello specchio magico dello schermo, ma anche il superamento dedo specchio. Se originariamente, essen­ zialmente, il cinematografo Lumière è sdoppiamento, il cinema di Méliès è originariamente, essenzialmente, metamorfosi. Ma con un solo sguardo si può cogliere la continuità profonda all’interno di questa profonda differenza. Come nella visione magica vie continuità e unità sincretica dal doppio alla metamorfosi, così a duplicità dell’immagine cinematografica già implicava o lasciava prevedere il mondo fantastico della metamorfosi. Donde il pas­ saggio, quasi immediato, dall’uno all’altra. MIn ogni macchina da presa c’è una bacchetta magica, e l’occhio del mago *Merlino si è mutato in obiettivo.H‘°O, piuttosto, l’occhio del mago Merli­ no si mutò in obiettivo, quando l’obiettivo dei mago Méliès si fu mutato in Merlino.

L’aItra metamorfosi. Il tempo

I trucchi, il meraviglioso, il fantastico, la metamorfosi, altrettanti aspetti della stessa realtà mélièsiana che trasforma il cinematogra­ fo in cinema. Ma dopo Méliès. il campo del fantastico e del mera­ viglioso si restringe: i trucchi perdono le loto virtù mistificatrici. E soprattutto la metamorfosi, pur essendo l'effettivo motore del passaggio, non ne fu il mezzo indispensabile. Questa rivoluzione che Méliès mirabilmente simbolizza non fu opera del solo Méliès e non si limita al solo Méliès. Similmente alle rispettive storie politiche, il fenomeno evolu­ tivo (inglese) e il fenomeno rivoluzionario (francese) si contrapIO. A. Canee. “Le temps de l'image est venu", in L,ir/ cinématographique, III. p.97.

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pongono. Nel primo caso, piccoli mutamenti qualitativi senza soluriune di cuiiiiiiuiià ueH’aliru, una radicale trasfigurazione. Ma nei due casi, come ha dimostrato Sadoul, vengono emergendo le stesse tecniche. Ancora una volta constatiamo che queste scoperte sono simul­ tanee. spontanee, cioè necessarie. Consultiamo ugualmente che, a rigore, la storia del cinema avrebbe potuto prescindere da Méliès, ma che la magia delle metamorfosi, pur non essendo necessaria, si £ rivelata comunque sufficiente per creare il cinema. Da un la­ to Méliès, da prestigiatore, mette il cinematografo in un cappello per farne uscire fuori il cinema. Ma dalfaltro, a Brighton, trovate fantastiche si innestano empiricamente sul film e lo metamorfo­ sano dalPintcmo, lentamente, insensibilmente. Il cinematografo produce se stesso non soltanto sotto fazione della magia della me­ tamorfosi. ma anche subendo esso stesso una metamorfosi interna, profonda. Nostro compito è quello di chiarire reciprocamente il fenomeno evolutivo e il fenomeno rivoluzionario. Le tecniche del cinema: differenziazione di piani secondo la distanza della macchina da presa dalfoggetto, movimenti di mac­ china. utilizzazione di scenari, effetti speciali di luce, dissolvenze, dissolvenze incrociate, sovrimpressioni ecc. si ricongiungono o piuttosto si congiungono e acquistano il loro senso nella tecnica suprema: il wotfMgg/c. Non ci proponiamo di passare in rassegna o di esaminare qui, amo’ di catalogo, queste tècniche, o fòrmu­ le, assai ben descritte altrove.11 Avremo del resto l’occasione di fermarci successivamente su ognuna di esse. L'importante è fare emergere i loro caratteri rivoluzionari e strut turali. Il film cessa di essere una fotografia animata per frazionarsi in un’infinità di fotografie animate eterogenee, o inquadrature, pia­ ni. Ma, al tempo stesso, diventa un sistema di fotografie animate che ha acquisito caratteri spaziali e temporali nuovi. 11 tempo del cinematografo era esattamente il tempo cronologi­ co reale. 11 cinema, per contro, espurga e frammenta la cronologia; esso accorda e raccorda i frammenti temporali secondo un ritmo particolare che è non quello dell’azione, ma quello delle immagini dell’azione. Il montaggio unisce c ordina in una continuità la suc­ cessione discontinua ed eterogenea delle inquadrature. E questo 11. Cfr. la nostra bibliografia, sezione IV A,

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ritmo che, partendo da serie temporali minutamente frazionate, ricostituirà un tempo nuovo, fluido. Questo tempo fluido è sottoposto a strane compressioni e dila­ tazioni. È dotato di più marce ed eventualmente della marcia in­ dietro. I film dilatano, rallentano i movimenti intensi che illumi­ nano repentinamente la vita reale come il lampo. *Ciò che accade in dieci secondi, potete mantenerlo sullo schermo per centoventi secondi ’, diceva Epstein. Sguardi di amanti,catastrofi, collisioni, esplosioni e altri istanti supremi tendono a immobilizzare la du­ rata. All’opposto, i momenti vuoti, gli episodi secondari si com­ primono sino a volatilizzarsi. Certi effetti speciali di accelerazione rappresentano, anche letteralmente, il dissolversi del tempo: fog.i di calendario che volano via, lancette di orologio che girano a tut­ ta velocità. Del resto una tecnica fondamentale, la dissolvenza, ha la funzione di dissolvere una grande quantità di tempo sottinten­ dendolo, come 1 puntini di sospensione, piccole perle di tempo che si sgranano, o piuttosto nere stelle nane che comprimono in se la densità di una nebulosa. Compressione e dilatazione sono principi ed effetti generali del cinema che intervengono persino nella velocità delle riprese. 11 tempo è letteralmente truccato in ciò che viene chiamato effetto d’accelerazione o di ralenti. Tali effetti non sono destinati unica­ mente a rendere visibile e scientificamente analizzabile ciò che leccesso o l’insufficienza di velocità naturale rendeva invisibile. Come la sovrimpressione o la dissolvenza, essi si situano fra i truechi a effetto fantastico o comico e al tempo stesso fra le tecniche elementari che reggono l’universo del cinema. Riflettono, al livello della registrazione dell'immagine, la grande metamorfosi del tem­ po attraverso la sua compressione e dilatazione. Tale metamorfosi del tempo comporta una metamorfosi dell’u­ niverso stesso che passa generalmente inavvertita, ma che l’ac­ celerato o il rallentato, nella loro esagerazione ottica, rendono percepibile. Con il ricorso all’accelerazione, ’a vita dei fiori è sha­ kespeariana, diceva Cendrars?2 Infatti, come mirabilmente ci dice una pagina di Epstein, *Tac celerazionc del tempo vivifica e spiritualizza [...] così i cristalli $i mettono a vegetare [.. J le piante si animalizzano, scelgono la lo-12 12. H. Cendrars, liAtte du anima, p. 10.

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ro luce e il loro sostegno, esprimono con dei gesti la loro vitalità Il rallentamento del tempo mortifica e materializza (...] per esempio l’apparenza umana si trova, in buona parte, privata della sua spiritualità. Nello sguardo il pensierosi spugne [...]. Nei gesti, le goffaggini - segno della volontà e riscatto della libertà - scom­ paiono, assorbite dalfinfallibile grazia dell’istinto animale. Tutto l'uomo non è altro che un essere dai muscoli levigati, nuotante in un ambiente denso ove spesse correnti portano e carezzano que­ sto chiaro discendente dei fondi marini, delle acque madri. I...J Ulteriormente rallentata, ogni sostanza viva torna alla sua visco­ sità fondamentale, lascia salire alla superficie la sua originaria na­ tura colloidale... “Qualche cosa la cui essenza ci resta completamente inaccessibile, ora angelo e ora animale, ora pianta c ora minerale, secondo le condizioni di spazio e di tempo nelle quali si produce.”0 Così l’accelerato e il rallentato, esagerando la fluidità fonda­ mentale del tempo cinematografico, suscitano un universo esso stesso fluido ove tutto subisce la metamorfosi. Perché non poter sapporre una parentela fra questa metamor­ fosi e la metamorfosi fantastica di Méliès? Il tempo del cinema non è soltanto comprimibile e dilatabi­ le. Esso è reversibile. J passaggio dal presente al passato avviene senza ostacoli, sovente per il tramite della dissolvenza, che serve a comprimere il tempo, il quale non più w passa”, ma è passato. Così come ci trasci na in avanti, la lunga dissolvenza buia o la dissolven­ za incrociata che precedono la venuta del ricordo ci trascinano nel tempo a marcia indietro. La dissolvenza, certo, “crea nello spetta­ tore la sensazione che gli vengono mostrati non più degli oggetti reali ma delle immagini mentali”?4 Effettivamente più essa Jura più dà al processo della memoria un carattere visionario, analo­ go in questo ai mezzi simbolici usuali di introduzione al ricordo: sfocamento dell’immagine, turbini, vortici- Ma nel momento stes­ so in cui indica la sua natura mentale, la dissolvenza corporalizza la visione sino a farla pervenire all’oggetdvità e all'attualità della temporalità presente. Sfocato c dissolvenza si situano alla cerniera mentale del presente e del passato: subito dopo il passato dissenta 5.J. Epstein. L'iH/eHtgtwcr d une machine, pp. 56 sgg. 4. B. Bafózs, Tàaory o/ór Frfw, p. 145.

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solido, attuale. La loro funzione è dunque, in questi casi, quella di oliare il passaggio per facilitare una marcia indietro del tempo, die le menti occidentali accettano solo con precauzione. 1 film giap­ ponesi, per contro, evocano sovente il passato senza transizioni; presente e passato sono giustapposti, senza cesure; essi sono del­ la stessa essenza. I rromi nel tempo {flush-back e cut back), con o senza dissolven­ ze, ci indicano il carattere normale, evidente nel cinema, dell’in serzione del passato nella temporalità presente e, salvo rare ecce­ zioni in cui il ricordo è mantenuto sfocato,” i ricordi sono messi al presente. Passato c presente hanno lo stesso tempo. Questo tempo, che mette al presente il passato, mette congiun­ tamente il presente al passato: se al cinema passato e presente si confondono, ciò accade tinche perche, come abbiamo già visto, la presenza dell’immagine Fa già implicitamente il carattere emozio­ nante del passato. Il tempo del film è non tar.to il presente quanto un passato-presente. L’arte del montaggio e limina precisamente nelle azioni paralle­ le, il flash-back e il cut back, cioè il cocktail dei passati e dei presenti nella stessa temporalità. Del resto, dopo Thomas Garner, numerosi sono i film costruiti a partire dalla fine, su un momento di medi­ tazione in cui tutto il passalo risorge, e che sfruttano l’attitudine del cinema a giocare sui molteplici tasti della durata (Alba tragiai, Il diavolo in corpo ecc.).14 È senza dubbio proprio della qualità dell’immagine cinema­ tografica attualizzare il passato - recuperarlo, come dice E. Soariau - meglio di quanto nessun’altra arte abbia saputo fare.15 17 L’i­ 16 dea che il passato non si dissolve ma si rifugia da qualche parte è in germe - come abbiami visto - in ogni ricordo. La magia gli dà corpo. Questo passato che fugge e che resta è il mondo dei dop­ 15. Sì è voluto talvolta rappresentare ì ricordi integrai-nenie sfocaci, specialmente nei hln dell'avanguardia francese che. senza dubbio tropi** cartesiana, voleva uro strare la differenza qualitativa clic separa il presente reale dall*irreale passato. Ma Te voluzicme del film mostra che il passato poteva c doveva essere mostrato esattamente come il presente. Lo sfocato non fu conservato residualmente che come transizione. 16. Seguendo lesempio del cinema, il teatro ha temuto a sua volta di risuscitare integralmente il passato (Iut tcouinciufa di Arras di A. Salacrou), che lino a oggi non vi$uali;zava se non per il tramili del racconto di Tcramcnc o delle visioni spettrali. 17. É. Souriait, ‘Ixs grands caractères de l'univers filmique", in Univers Film i/tie, p. 17.

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pi: dei morti. Fra la qualità soggettiva deU'immagine-ricordo e la qualità alienata della sopì avvivenza degli spettri si insinua un mi­ to che si dispiega nel moderno romanzo di fantascienza, e che è la ricerca del tempo perduto. Lo scrittore psicologo cerca il tem­ po perduto nel profondo della sua anima, alla sorgente mentale del ricordo. Lo scrittore di avventure lo cerca nell'ctere e con una macchina fot ografica. Numerosi racconti di fantascienza hanno per tema il risalire ci­ nematograficamente nel tempo, fino al raggiungimento di un fram­ mento incorruttibile del passato. Elie Faure sviluppa una visione­ analoga, quando immagina che gli abitanti di una lontana stella, contemporanei alla crocefissione di Cristo, ci spediscano con un proiettile il film che ce ne può rendere testimoni attuali. Questa cattura del passato che fugge è della stessa natura dell’immortalità realizzata dall'invenzione di Morel.1111 tempo del cinema, al suo estremo limite, sfocia dunque congiuntamente nella magia del doppio e in quella delle metamorfosi. 11 desiderio di percorrere il tempo a ritroso fece sentire il suo richiamo, già al tempo delle prime proiezioni Lumière, nel modo più singolare. Il braccio dell’operatore spontaneamente, incon­ sciamente, si trovò mosso, non appena terminata la proiezione, da questo sorprendente desiderio: proiettare il film alla rovescia. Già Emile Reynaud, al museo Grévin, si era divertito a rovesciare il movimento del prassinoscopio. Già nel 1895, Louis Lumière crea il primo film retroattivo, Ut charcuterie mécanique. dove il maiale esce dalla macchina che assorbe le salsicce. Mesguish ci riferisce come, nel corsodi una trionfale tournée negli Stati Uniti, davanti a una folla stupefatta, fu colto improvvi­ samente dalTispirazione suprema, il44vedrete quel che vedrete! ”, il parossismo dell'esaltazione cinematografica: proiettare i film alla rovescia. Il trucco fu poi ininterrottamente imitato. Come il mito della ricerca cinematografica del tempo perduto, esso esalta ed esagera ciò che è nell’essenza stessa del cinema: la circolazione18 18. Cfr. T.L. Sherrcd, “E for Effort”, in The Astounding Science Fiction Ambologe. É. Faurc, “De la cincphstiquc", in Fonction du cinéma, p. 21. Cfr. lo staso mi tu, in forma popolare, in Les aoenrurters du etcì VoMgCS extraordinaires divi petit parisien dans la stratosphere, la Lune et les planètes, di KM. de Ntzerolic, in cui Terne scopre sul pianeta Giove il 'cercatore di immagini" della storia passata della Terra: presa della Bastiglia ecc. I fascicoli 40 c 41, 1936).

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in tutti i sensi e a differenti velocità in un tempo ‘‘ridotto al rango di una dimensione analoga a quella dello spazio"/* ove presentee passato si sono identificali. Tempo equivoco: qualche variazione di velocità o di movimen­ to, ed eccolo trasformare l’universo secondo la magia della meta­ morfosi e spingersi sino a rovesciare il corso del mondo riportan­ do le salsicce al loro stato di maiale. Tempo magico, in un senso. Ma. nelPaltro senso, tempo psicologico, cioè soggettivo, affettivo, tempo le cui dimensioni-passato, presente e futuro-si ritrovane indifferenziate, in osmosi, come nello spirito umano per il quale sono simultaneamente presenti e confusi il passalo ricordo, il fu­ turo immaginario e il momento vissuto... Questa durata bergsoniana, questo vissuto indefinibile, li definisce il cinema. Metamorfosi nello spazia

Contemporaneamente alla metamorfosi del tempo, il cinema ope­ rò la metamorfosi dello spazio mettendo la macchina da presa in movimento e dotandola di ubiquità. La macchina da presa esce dalla sua immobilità con la panoramica e la carrellata. Quest'ul­ tima, inventata contemporaneamente da Promio a Venezia, da Méliès ne Lhomme à la tele de caoutchouc, dai cineasti di Brighton, viene rinnovala da Pastrone nel 1915 in Cabiria. La macchina per­ de la sua rigidità, acquista progressivamente in scioltezza, fino a pervenire all’estrema agii tà acrobatica de Luitinta risata di Mu*nau (1925). Contemporaneamente a questi movimenti continui, la macchina da presa si lancia in balzi discontinui. o cambi di in­ quadrature, sia sullo stesso oggetto, sia di oggetto in oggetto (cam­ po lungo, campo medio, piano americano, primo piano, campo contre campo ecc.). Essa passa ormai dappertutto, si arrampica e si nasconde là dove nessun occhio umano aveva mai potuto arrampicarsi e na scendersi. Balza dalla cabina del camion sulla strada che svolta, dalla strada alla roccia che sovrasta a strapiombo la strada, vola via, ripiomba rasoterra, si fa passare sopra una locomotiva. Può piazzarsi in ogni angolo di uno stesso luogo, in un qualsiasi punto dello spazio. Fende anche l’oceano infinito della notte interstelh19. J. Epsîcin. Inintelligence /une machine, p. 44.

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re come nelle prime e indimenticabili immagini di Superman, Gli studi cinematografici sono disposti in modo da permettere l’ubi­ quità: come quelle visitate dal “diavolo zoppo * e, meglio ancora, le case sono sventrate, prive di tetto. Questa ubiquità spaziale che completa l’ubiquità temporale (circolazione in un tempo reversibile) è, secondo Agel, “ciò che vi è di più affascinante nel cinema”.20 Sempre più costante ed evi­ dente, comunque. È compito della macchina da presa trasgredi­ re l’unità di luogo, si è potuto dire. Il film, in fase di inquadratura cerne in fase di montaggio complessivo, è un sistema di ubiquità integrale che consente di trasportare lo spettatore in un qualsiasi punto del tempo e delio spazio. Facciamo notare che né lo spettatore così trasportato, né lo schermo si muovono: sono gli oggetti che appaiono effettivamen­ te mobili, a seconda che la macchina avanzi, indietreggi, salti Essi appaiono e scompaiono, si dilatano e si restringono» passano dalla microscopia alla macroscopia e così l’effetto ottico dell’ubiquità è li metamorfosi degli oggetti. Lo schermo è letteralmente un faz­ zoletto da prestigiatore, un crogiuolo ove tutto si trasforma, com­ pare e scompare. Afferriamo immediatamente la strana e tuttavia indubitabile parentela che può esistere fri. questi effetti elementari del cinema, sconosciuti al cinematografo l umière, e i trucchi, apparizioni, sparizioni, sostituzioni, ingrandimenti di G.A. Smith e soprattutto di Méliès. Ciò che distingue il film fantastico da quel­ lo realista è che nel primo noi percepiamo la metamorfosi, nel se­ condo la subiamo senxa percepirla. .Ma tasta talvolta uno sguardo ingenuo per essere, al contrario» colpiti dal movimento apparente (cioè reale sullo schermo) delle cose. “Mostrate”, dice M. Sellers, u un ’inquadratura panoramica orizzontale di una casa a un uomo incolto: vi dirà che ha visto l’edificio fuggire. Mostrategli una pa­ noramica verticale e vi dirà che l’editìcio si conficca nel suolo/21 La parentela fra la metamorfosi manifesta (film fantastico! e la metamorfosi latente (film realista) diventa filiazione se si pensa al­ la dissolvenza incrociata. La dissolvenza incrociata comprime lo spazio, così come la dissolvenza normale comprime il tempo. Essa 20. H. Agri, Le cinema a-tit une âme?, p. 7. 21. J. Maddison, uLc cüûnui et l'information mentale des peuples primitifs”, in Revac Internationale Je Filmologie, I, M, pp. 305310.

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è in qualche modo l’antivirgola del linguaggio cinematografico: la virgola indica nella lingua scritta una certa rottura nella continui.à della frase; la dissolvenza incrociata invece ha lo scopo di stabilire un'urgente continuità in un'inevitabile rottura. “Una dissolvenza incrociata tra due inquadrature produce sempre e inevitabilmente la sensazione di un legame essenziale fra loro.**22*25 26 Tale continuità, la dissolvenza incrociata l'assicura mediante la metamorfosi. sotto ai nostri occhi, di oggetti, esseri viventi, paesaggi. La dissolvenza incrociata è del resto un trucco di metamorfosi di Méliès il qua­ le si trasformò in scheletro mediante una dissolvenza incrociata nelTŒfl/magique prolifique. E a volte conserva ancora il profumo della sua vecchia magia: "Un lento incrociarsi di paesaggi... pro­ duce un effetto di sogno, di magia"?1 La trasformazione dello spazio a opera del cinema, come quella del tempo, finisce dunque per sfociare nell'universo magico del­ le metamorfosi. Universo fluido Certo, fatta eccezione per il genere fantastico, la trasformazione non distrugge, come vedremo, il realismo e l’obiettività dell’uriverso. Ma l'universo realista del cinema non e più l'antico universo del cinematografo. Come dice Epstein, è ura “nuova natura, un altro mondo’?4 Il tempo ha acquistato la circolabilità dello spazio e lo spazio i poteri trasformatori del tempo. La doppia trasforma­ zione del tempo e dello spazio cinematografici ha prodotto una sorta di dimensione simbiotica unica, ove il tempo si incorpora nello spazio, e Io spazio nel tempo, ove “lo spazio si muove, cam­ bia, gira, si dissolve e si cristallizza nuovamente"?1 ove il “tempo diventa una dimensione dello spazio"?0 e questa doppia trasfer mazicne perviene, come ha giustamente detto Francastel, a uno “spazio-tempo". Spazio-tempo: è questa la dimensione totale e unica di un uri verso fluido che Jean Epstein ha definito in una pagina in cui noi 22. B. Balazs, Theory of the Film. p. 148. 147. 24.1 Epstein, bonfour attènta. p. 34. 25. E- Panofsky citato da Baiman in Psychologie focale du cinema (inedito). 26. É. Faune. “De fa cincplaaiquc", in Fowc/kw du enema. p. 41.

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chiediamo al lettore di voler leggere cinema invece di cinemato­ grafo. ‘ Per la sua costruzione, in modo innato c ineluttabile» il cinematografo rappresenta l’universo come una continuità per­ petuamente e ovunque mobile» assai più fluida e più agile della continuità direttamente sensibile... la vita va e viene attraverso la sostanza» scompare, riappare vegetale dove la si credeva minera­ le, animale dove la si credeva vegetale e umana: niente separa la materia e Io spirito... un’identità profonda circola fra l’origine e la fine, fra la causa e FcHetto, il cinematografo detiene il potere di universali trasmutazioni.”2728 Dalla prima metamorfosi a piazza dell’Opéra al montaggio della Corazzata Potemkin, tutte le basi del cinema che sembrano solide e fissate per sempre sono state trascinate via dal disgelo per fasciare il posto a un oceano liquido.

Oggetti inanimati, avete dunque un "anima

In questo oceano, abbiamo detto, gli oggetti sorgono, saltano, scompaiono, si ritraggono, si assottigliano... Tali fenomeni sono inavvertiti (nel sensoesatto del termine) sebbene visibili, ma ben­ ché inavvertiti fanno sentire i loro effetti... Quali effetti? Sappiamo e sentiamo che a teatro gli oggetti e la scenografia, spesso raffigurati simbolicamente, sono accessori, al punto di po­ terne fare a meno. A cinema, invece, la scenografia non sembra affatto tale; anche (e soprattutto) quando è stara ricostruita negli studi, essa è cosa, oggetto, natura. Queste cose, questi oggetti, questa natura acquistano non sol­ tanto un corpo che negli studi fa loro difetto, ma un*uanima’, una “vita”» cioè La presenza soggettiva. Certo, nella vita reale gli zoo di vetro, i ninnoli, i fazzoletti, i mobili carichi di ricordi sono già piccole presenze in sordina c quelli che noi ammiriamo sono pae­ saggi impregnati d’anima. Il cinema va oltre: si impadronisce di cose quotidianamente ridicolizzate, usate come utensili, logorate dalFabitudine e le richiama a nuova vita Mle cose erano reali, di­ veltano presenti”.2* 27. J. Epstein, IdmteUi&nct dune machine, pp. 162 164. 28. G. CohenSe.it, Era» sur les principes d 'une philosophie du cinema, p. 122.

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Già il cinematografo Lumière impregnava di una certa qual ani­ ma tutto ciò che sta al limite della materialità» della visibilità e della palpabilità, alia frontiera di una natura fluida, spumosa, nebulosa, gassosa o acquosa. Sadoul nota che gli spettatori degli anni 18951896 continuano a meravigliarsi del “fumo, la spuma di birra, le foglie tremolanti al vento” così come del64movimento delle onde”. Lumière capi e sfruttò la misteriosa attrazione delle sostanze fluide e particolarmente del fumo (L'entrée du tram, Les forgerons, Idincendie, il fumo del sigaro della Far/rc rf'éatr/e, i brûleurs d'herbes, o anche la nube di polvere di un mero che crolla). Tale attrazione» possiamo forse ricondurla alle credenze magiche laten­ ti connesse al vento e al fumo» ove si incarnano, misura della loro disincarnazione, al limite visibile della loro invisibilité, gli spiriti aerei, i fantomatici doppi. Certo, il cinematografo Lumière non ri­ suscitava Lamica magia, ma rianimava, senza portarla alla coscien­ za, una sensibilità animista o vitalista nei confronti di tutto ciò che è animato dalle “potenze dinamogene” di cui parla Bachelard, cioè tutto ciò che è a un tempo fluido e in movimento. Il cinema estende a tutti gli oggetti questa fluidità particolare Mette in movimento questi immobili. Li dilata e li contrae. In­ fonde loro quelle potenze dinamogene che secernono l’impres sione di vita. Se non li deforma, li cosparge di luci c ombre, che risvegliano o ravvivano la presenza. Infine il close up (primo pia no), questo modo di “interrogare” gli oggetti (Souriau), ottiene in risposta alla sua macroscopia fascinazione un prorompere d soggettività: la carne marcia della Corazzata Potemkin, come i bicchiere di latte di un celebre film di Hitchcock, ci grida im provvidamente in faccia. “I primi piani sono lirici: è il cuore, non l’occhio, che li penetra.”29 Così le cose, gli oggetti, la natura, sotto 1 influenza congiun ta del ritmo, del tempo, della fluidità, del movimento della mac china da presa, degli inquadramenti, dei giochi di luce e ombra, acquistano una qualità nuova. Il termine “presenza soggettiva” è insufficiente. Si può dire “atmosfera”. Si può dire soprattutto “animt”. Balazs dice ancora del dose up che esso “svela l'anima delle cose”. Epstein, Pudovkin rutti coloro che hanno parlato del cinema hanno espresso lo stesso sentimento. Ma ciò non si 29. B. Balazs. Theory of the fttrn. p. 56.

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metamorfosi del cinematografo in cinema

limita al primo piano: è il cinema nel suo complesso che» come dice Rene Clair, dà un’anima al cabaret» alla camera, a una bat­ taglia, a un muro**?0 Quest’anima va intesa in senso metaforico poiché essa riguar­ da lo stato d'animo dello spettatore. La vita degli oggetti non è evidentemente reale, è soggettiva. Ma una forza alienante tende a prolungare ed esteriorizzare il fenomeno d'anima in fenomeno animistico. Gli oggetti si situano fra due vite, due livelli della stes­ sa vita, la vita esteriore animistica e la vita intcriore soggettiva. 11 termine anima ha infatti due significati: uno magico (alienato), se­ condo il quale l'anima è trasferita sull’oggetto contemplalo, c uno soggettivo, secondo il quale essa è sentita come emozione interio­ re. Il cinema è capace di impregnare le cose di sentimento diffu­ so e a un tempo suscitarvi una vita particolare. Così lo scenario si mescola alPazione, come nota Barsacq. Mallet-Stevens va oltre: ‘Tarchiteuura recita”. È la stessa idea espressa da L. Landry: “Il cinema afferma la sua superiorità su tutte le altre arti, ogniqualvol­ ta l'ambiente deve essere considerato come un attore o addirittura come un protagonista”. Béla Balazs parla di drammatizzazione dei fenomeni naturali: “un nuovo personaggio si aggiunge alle drumalis personae delLopera filmica: la natura stessa”?1 Gli oggetti si mettono a vivere, a recitare, a parlare, ad a^ire. Balazs cita questa scena di un film americano muto: una fidanza­ ta si strappa improvvisamente dal suo futuro sposo, percorre una lunga sala ove sono disposti i regali nuziali. Gli oggetti le sorrido­ no, la chiamano, le tendono le braccia. Lei rallenta, si ferma, e fi­ nalmente ritorna sui suoi passi. Oggetti eroi, oggetti complici, oggetti comici, oggetti pateti­ ci: ‘’un’atrenzionc particolare deve essere accordata alla funzione chegli oggetti svolgono nel film", dice Pudovkin?2 Già nel primo “film d’arte”, Otello, “le parti principali sembrano appartenere al fazzoletto e ai pugnali di Jago e di Otello” (Max Nordau). “Sullo schermo non ce più la natura morta: sono contemporaneamente la 50, R. Clair. Réflexion fuite, p. 79. 31. Cfr. le dichiarazioni di A. Barsacq in Le cinema par ceux qui te font. de.. p. 192; R. Mallet-Stevens, “Leenema, les arts, l'architecture", in Let Cahiers du Mois, 16-1?; L. Landry. “Formation de la sensibilité*. in L ait cinématographique. Il, p. 49; B. Balazs. Theory of the Film, pp. 24 25. 32. V. Pudovkin. Film Technique and Film Acting^. 30.

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pistola, la mano e la cravatta dell’assassino a commettere il crim ne* (Bilinsky)/’ L’avanguardia degli anni 1924 1925 ebbe una ta­ le coscienza di questa vita delle cose (in parte sotto l’influenza dei pittori), che si videro in cuellcpoca film di oggetti, balletti mec­ canici, In seguito numerosi sono gli oggetti pervenuti al rango di “divi* come la palla di vetro di Citizen Kaneo il falco del Mistero delfalco, Questa animazione degli oggetti ci rinvia così all’univer­ so della visione arcaica come allo sguardo del bambino, Epstein, come del resto anche L. Landry, aveva perspicacemente notato che 10 spettacolo delle cose riconduce lo spettatore “al vecchio ordine animistico e mistico*.M La virtù animatrice del primo piano può esercitarsi non soltan­ to sull oggetto totale, ma su una delle sue parti. Al limite estremo» una goccia di latte (La linea generale) è dotata di una potenza di rifiuto r dì adesione, di una vita sovrana. Un fenomeno curioso si opera su certe parti del corpo umano: il dose tip rivela diverse piccole anime locali, parenti di quelle “ani­ me pupilline* e “anime pollicine* che aveva studiato E. Monseur nelle religioni e magie arcaiche?5 Epstein l’aveva quasi indovinalo: “non sembra più una favola che vi sia un’anima particolare dell’oc­ chio, della mano, della lingua come le vedevano i vitalisti”?6 Il na­ so, Tocchio, la bocca sono dotati di autonomia, o meglio d’anim:i “Sapevate cosa era un piede prima di averle visto in una scarpa, sotto un tavolo, sullo schermo?*’* Epstein ha anche riconosciuto 11 vecchio fantasma funesto, celato dietro lo sguardo (finestra tra­ dizionale del doppio): “Nei pozzi della pupilla, uno spirito elabo­ ra i suoi oracoli. Questo immenso sguardo le si vorrebbe toccare, se non fosse carico di forze forse pericolose*?8 Per i primitivi, come pei i bambini, i fenomeni soggettivi so­ no alienati nelle cose che diventano portatrici d’anima. Il senti­ mento dello spettatore di cinema tende verso questo animismo. Étienne Souriau ha trovato la parola giusta: “L’animismo univer-33 38 37 36 35 34 33. B. Bilìnslcy,44Le costume". in lAwt cinématographique, VL 34. J, Epstein, C/Wffw du dtùble, p. 178. 35. E. Monscur, “Lame pupillinc, l'âme poucct", in Revue d'hiitoire des religmw, gennaio Febbraio 1905, pp. 1 23, c maggio-giugno 1905,pp. 361-376. 36. J. Epstein, L'intelligence d'une machine, p. 13. 37. F. Léger, “À propos du enema", in Plani. 1 » gennaio 1931, pp. 80 84. 38. J. Epstein, L'intelligence d'une machine.

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sale è un latto filmico che non ha equivalenti a teatro”?’ Aggiun­ giamo: che non ha equivalente in alcuna arte contemporanea: "il cinema c il più grande apostolo dell'animismo”/" Tutto assume effettivamente un'anima, “la scorza d’arancia, il colpo di vento, la goffaggine”?1 Oggetti inanimati, avete dunque un’anima nell'u­ niverso fluido del cinema. È evidentemente il disegno animato che compie, spiega, esal­ ta l'animismo implicito nel cinema al pento che tale animismo si volge m antropomorfismo, li cortile ci parla e ci canta, i fiori sgam­ bettano sulle loro zampine, gli utensili aprono gli occhi, si stirano ed entrano nella danza. 11 disegno animato non fa che esagerare il fenomeno normale: “l film rivela la fisionomia antropomorfica di ogni oggetto”/2 Tut­ to è immerso in antropomorfismo latente, e tale termine designa bene la tendenza profonda del cinema nei confronti degli animali, delle piante e anche degli oggetti: a stadi e strati diversi, lo schermo è a un tempo imbevuto d'anima e popolato di anime. Gli oggetti irradiano una sorprendente presenza, una sorta di mana che è si­ multaneamente o alternativamente ricchezza soggettiva, potenza emotiva, vita autonoma, anima particolare. llpaeMggio del volto

AlFantropomortìsmoche tende a caricare le cose di presenza uma­ na, si aggiunge più oscuramente, più debolmente, il cosmomorfismo, cioè una tendenza a caricare l’uomo di presenza cosmica. Così, per esempio, due corpi di amanti allacciati si metamorfosano in onde che si frangono sulla roccia e non si ritrovano che nell'in­ quadratura successiva, placati. 11 cinema utilizza queste rappresen­ tazioni cosmomorfiche in casi estremi, come precisamente quello dcU’accoppiamento. Più spesso si fa strada un cosmomorhsmo attenuato, in cui il vo to umano è specchio del mondo che lo cir­ conda. I russi hanno utilizzato moltissimo i poteri cosmografici del volto. “Volete mostrare una grande civiltà, un grande progresso 39. É. Souriau, ^Filmologie et esthétique comparées", in Rri’wc Internazionale de etimologie, in, IO. aprile gnigno 1952, p. 120. 40. B Bilinsky, *Le costume*. eie., p. 56. 41. G. Cohen-Scat, Erwr sur Ics principes d'ime philosophie du cinema, p. I(X). 42. B. Baliizs. Theory of'he Film, p. 92.

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tecnico?” diceva Balazs, “mostratelo nell’uomo che lavora: mo­ strate 1 suo volto e i suoi occhi ed essi vi diranno ciò che questa civiltà significa, ciò che vale.”43 In un modo ancora diverso, il viso è lo specchio non più dell’universo che lo circonda, ma detrazione che si svolge off, cioè fuori campo. Agel dice assai propriamente: “Se si (ratta di una fisionomia, la macchina da presa è a un tem­ po microscopio e specchio magico”.44 Il viso è diventato medium: esprime le tempeste marine, la terra, la città, la fabbrica, la rivolu­ zione, la guerra. Il viso è paesaggio. A dire il vero, solo più tardi potremo valutare in tutta la sua portata il cosmomorfismc implicito nel cinema, quando esamine­ remo non più soltanto il film, universo impregnato d’anima, ma anche lo spettatore, anima impregnata d’universo. Fin d’ora tuttavia possiamo percepire, senza risalire al nodo stesso del problema, come nel film antropomorfismo e cosmo» mortìsmo non siano due funzioni separate ma due momenti o due poli di uno stesso insieme, L’universo fluido del cinema sup­ pone dei transfert reciproci incessanti fra l’uomo microcosmo e il macrocosmo. Sostituire alternativamente l’oggetto alla personae uno dei processi maggiormente utilizzati dal cinema; il film traci suoi effetti più efficaci precisamente da tali transfert:44L’immagi­ ne di una porta in primo piano che si muove lentamente suscita un’emozione maggiore della proiezione di un personaggio che la fa muovere”.*1 Viceversa, un viso torvo può suscitare un'emozio­ ne maggiore di una porta che si chiude. Gli autori hanno sempre la scelta, per esprimere la stessa cosa, fra una persona e una cosa, e la esprimono passando dall’una all’altra. Commovente - a mio ricordo la cosa più commovente-è la goccia di latte in cui trema, attraverso il dramma che lacera e unisce un kolchoz, l’avvenire stesso della rivoluzione. I primi piani passano alternativamente dalla scrematrice ai visi dei contadini ansiosi o attenti, diffiden ti o sornioni, da questi visi a quello della ko.choziana che aziona la macchina. Vi è un transfert, circolazione dai visi alla macchina, dalla macchina ai visi, finché finalmente una goccia si forma, tre­ mante, goccia d’anima, sostanza nascente dalla speranza, carica di tutte le promesse di un mondo ancora in fasce. o

*13. ibidem, p. 168. 44.1L Agel, Le cinema a-t-rluneàme?, p. 6. 45. E Léger, in Les Cahiers du Mois, 16-17, p. 107.

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METAMORFOSI PEL CINEMATOGRAFO IN CINEMA

La grande corrente che trasporta ogni film suscita l’intercam­ biabilità degli uomini e delle cose, dei visi e degli oggetti Senza sosta il volto della terra si esprime in quello dell’aratore, c nello stesso modo l’anima del contadino appare nella visione del grano agitato dal vento. Così il mare si esprime nel viso del marinaio e il viso del marinaio in quello dell'oceano. Poiché il volto, sullo schermo, diventa paesaggio e il paesaggio diventa volto, cioè anima, I paesaggi sono stati c’animo e gli stati d’animo paesaggi. Sovente il tempo che fa, l’ambiente, la scena sono a immagine dei sentimenti che animano i personaggi: vediamo allora alternarsi inquadratu­ re di natura e inquadrature umane, come se una simbiosi affettiva legasse necessariamente Yanthropos c il kosmos, Uomini cosmoriorfici e oggetti antropomorfici sono funzione gli uni degli altri, gli uni diventano simboli degli altri, secondo la reciprocità del mi­ crocosmo e del macrocosmo. Su una lastra di ghiaccio alla deri­ va. Lillian Gish, l’abbandonata, è trasportata dal fiume in disgelo (Agonia sui ghiacci. Griffith, 1920); “il dramma umano si mescola s:rettamente al dramma degli elementi la cui forza cieca assume forma di personaggio della tragedia cinematografica”.46 Così l’e­ roina diventa cosa alla deriva. Il disgelo diventa attore. In questo incrociarsi di persone e cose, bruscamente il dramma si concentra su un oggetto, la goccia di latte, la pistola “scura come le tentazioni della notte [cioè cosmomorfizzata]... taciturna come la passione, brutale, rozza, pesante, iredda, diffidente, minacciosa [cioè antropomorfizzata]”. Queste incessanti conversioni dall’a­ nima delle cose alle cose dell’anima corrispondono d’altra parte ala natura profonda del film a soggetto Jn cui i processi soggettivi immaginari si concretizzano in cose - avvenimenti, oggetti - che gj spettatori riconvertono a loro volta in soggettività. ...La metamorfosi dell’omnibus in carro funebre, un giorno dell’autunno 1896, fu l’avvio delle metamorfosi fondamentali. I trucchi di Méliès sono le “chiavi del nuovo mondo”, secondo l’espressione di M. Bouman. I caratteri di questo universo nuo­ vo sono» oltre alla metamorfosi (e al suo negativo, l'ubiquità), la fluidità di uno spazio-tempo circolabile e reversibile, gli incessanti transfert fra l’uomo microcosmo e il macrocosmo e, infine, l’antro* pomorfismo e il cosmomorfismo. 46. J. Manuel, "D.W. Griffith", in Revue du Cinéma, 2, novembre 1946, p. 51.

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Fluidità, metamorfosi, micro-macrocosmo, antropo-cosmo mortiselo sono i fondamenti stessi della visione cinematografica Ora se vi si aggiungono le qualità proprie del doppio, definite e ri velate nel corso del capitole precedente, noi troviamo nella loro in tegrità e nella loro essenza nascente i caratteri fondamentali di ogni visione magica del mondo.

La visione magica In effetti, se si considera la magia allo stato puro, quella della mor te, notiamo che la sopravvivenza del doppio non è che una delle due forme di immortalità, di cui la seconda c quella che, imme­ diatamente o in seguito, fa rinascere il morto, in un nuovo essere vivente, bambino o animale. La sopravvivenza del doppio e la morte-rinascita si trovano, a tutte le stratificazioni di credenze, sempre simbioticamente as­ sociate, secondo combinazioni variabili ove predomina ora l’une ora l’aliro dei due tipi di immortalità. Più spesso il doppio-fanta sma persiste per un tempo determinato intorno ai vivi, per andare quindi a raggiungere il soggiorno degli antenati, donde proven gono i nuovi nati. Come la sopravvivenza del doppio, la morte-rinascita è un elemento universale della coscienza arcaica. Essa e, come abbia mo mostrato altrove, un universale della coscienza onirica, un universale della coscienza poetica, un universale della coscienza infantile. La morte-rinascita è presente nel cuore stesso della visione del­ la vita: che è un perpetuo movimento ove la morte feconda la vita ove l’uomo feconda la sua azione sulla natura mediante la morte (sacrificio) c accede alle differenti tappe della sua esistenza attra­ verso quelle vere e proprie morti-rinascite che vengono chiamate iniziazioni. Infine, il meccanismo stesso delle perpetue metamorfo­ si che reggono l’universo èquello della morte rinascita. In questo senso la morte-rinascita è an aspetto particolare, o interno, delk legge universale delle metamorfosi. Le metamorfosi implicano, e qui ci colleghiamo a L. LévyBruhl, un universo fluido uve le cose non sono fissate nella loro identità, ma partecipano di una grande unità cosmica in movi mento. Questa fluidità spiega e rende conto della reciprocità fra 78

METAMORFOSI DEL CINE.MATtX;RAH> IN CINEMA

Fuomo microcosmo e il macrocosmo. L’analogia dell’uomo e del cosmo è la magica piattaforma girevole in cui si articolano la flui­ dità dell’universo e l’antropo-cosmomorfismo. È stato osservato da tempo come animali, piante c co*e sem­ brino animati da sentimenti umani sia ai primitivi sia ai bambini. Al limite li si crede abitati da spiriti, soro spiriti essi stessi; in altre parole i doppi (i morti) si trovano situati nel cuore stesso dell'u­ niverso fluido, A un certo stadio evolutivo, l’universo non è altro che un’innumerevole folla di spiriti annidati in ogni cosa. È ciò che si chiama animismo. L'animismo ha come radice profonda un processo fondamentale attraverso il quale l'uomo sente e riconosce la natura proiettandosi in essa: 1'antropomorfismo, Reciprocamente d’uomo primitivo è abitato dalla natura. Non è la presenza di un “io* che egli sente in sé. Il suo uio”, il doppio, è f Jori di lui. AlPintcmo brulica il mondo. Cosi il melanesiano, co­ me osserva Maurice Leenhardt in Do Kamo, vede la linfa scorrere nelle vene del suo braccio. Il linguaggio arcaico, i comportamenti, le maschere, gli ornamenti, i fenomeni di possessione ci mostrano che gli uomini, pur sapendosi tali, si sentono abitati, posseduti ora da un animale, ora da una pianta, comunque da forze cosmiche. Allo stesso modo i bambini che mimano gli animali, l’uragano, il vento, l’aeroplano w/o, senza cessare di sapere di essere bambini, animale, aeroplano, vento. 11 cosmomorfismo, attraverso il quale l’umanità si sente natura, risponde all’antropomorfismo, arraver­ so il quale la natura è sentita in forme urtane. Il mondo è all’inter­ no dell’uomo e Tuono è ovunque nel mondo. Leenhardt aveva giustamente insistito sull’importanza del cosmomortìsmo, ma lo distingueva cronologicamente c logicamente dalTantropomorfismo. A nostro giudizio questi due termini non possono essere dissociati: saremo così costretti, purtroppo molto spesso, a utilizzare il termine antropo-cosmomortìsmo. L’anima­ le totem, il pappagallo dei bororos per esempio, c una fissazione cosmomorfica dell’uomo. Questi, simulatore in buona fede (con­ tinua del resto ad agire praticamente come uomo, ma non si li­ mita a recitare, vive la sua identificazione in uccello), si crede, si sente pappagallo, lo mima nelle sue feste. Contemporaneamente il pappagallo totem è antropomorfizzato: è l’antenato, è uomo. È dunque in rapporto a questo antropo-cosmomorfismo, per il qua­ le l’uomo si sente analogo al mondo e contemporaneamente sente 79

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il mondo sotto dimensioni umane, che noi dobbiamo concepire l’universo magico. Il to:emismo non è che uno stadio di cristallizzazione di un pro­ cesso assai più generale. Infatti, le analogie micro-macrocosmichc derivano naturalmente daTantropo-cosmomorfismo: l’uomo co smomcrfizzato è un universo in miniatura, specchio e riassunto del mondo: il mondo antropomorfizzato brulica d’umanità. Nel seno dell’immensa parentela fluida sono immerse tutte le cose diventa te vive, colloidali. Tutte le metamorfosi - cioè le morti-rinascite sono possibili e reali, dal microcosmo al macrocosmo e all’interno del macrocosmo stesso... Così ci appare la magia: visione della vita e visione della morte, comuni alla parte infantile della visione del mondo dei primitivi c alla parte fanciullesca della visione del mondo dei moderni, e altre­ sì alle nevrosi c alle regressioni psicologiche come il sogno. Dopo Freud, si è spesso paragonata la visione del bambino, quella del primitivo e quella del nevrotico. Senza entrare nella discussione sorta intorno alla fondatezza di tale paragone, diciamo che non c nostra intenzione identificare il primitivo, il nevrotico, il bambino, ma riconoscere in ciò che è loro analogo un sistema comune che chiamiamo precisamente magico. Tale sistema comune è determi nato dal doppio, le metamorfosi e l'ubiquità, la fluidità universale, Ìanalogia reciproca del microcosmo e del macrocosmo, l'anfropo cosmontorfismo. Che sono esattamente i caratteri costitutivi dell'universo del ci­ nema. Dziga Vertov, definendo il cine-occhio, ha, a suo modo, rico nosciuto la doppia e irriducibile polarità del cinema: il fascino dell’immagine e la metamorfosi delFuniverso: la fotogenia e il mon­ taggio.

Dall’immagine aliimmaginario Correlativamente alla sua metamorfosi spazio-temporale, il cine matografo entra nell’universo della finzione [fiction]. Questa evidenza ha tuttavia bisogno di essere corretta. Abbia mo già detto che i primi film di Edison, prima ancora di quelli di Lumière, rappresentavano scene di fantasia, scenette comiche, spettacoli da music-hall. Inoltre l’era del cinematografo è anche 80

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quella del music-hall e del teatro filmato, non meno che dei documcnti presi dal vivo. E, infine, è presumibile che, senza trasformar­ si in cinema, il cinematografo sarebbe forse stato utilizzato per dif­ fondere quelle opere di immaginazione che sono le opere teatrali. Reciprocamente, il cine-occhio di Vertov e tutte le grandi cor­ renti documentarie, da Flaherty a Grierson c Joris Ivens, ci mo­ strano che le strutture del cinema non sono necessariamente legate alla finzione. Anzi, è forse proprio nei documentari che il cinema utilizza al massimo i suoi doni e manifesta le sue più profonde vir­ tù “magiche”. Fatte queste riserve, la finzione restala corrente dominante del cinema. Essa si dispiega con il cinema e il cinema si dispiega con la finzione. Le scoperte di Méliès sono, F abbiamo visto, inseparabili dal film fantastico. Quelle della scuola di Brighton si producono nelFambito delle scene di fantasia o anche fantastiche. Si può dire che da Edison un impulso incoercibile spinga la nuova invenzio­ ne verso la finzione. Nel 1896-1897, Fanno stesso del battesimo, il comico. Famore, Faggressionc, la storia romanzata si introcucono ca ogni parte nel film. L’immagine del cinematografo è letteral­ mente immersa, trascinata in un flusso d’immaginario in continuo prodursi. Il cinema è diventato sinonimo di finzione. Questa è la stupefacente evidenza. Le correnti e i contenuti di questa finzio­ ne sono di cosi grande importanza che noi dedicheremo un altro s:udio ai grandi alisei delFimmaginario. Ancora a questo proposito, è significativo che il fantastico sia stato la prima, decisiva e grande ondata di immaginario arraver­ so la quale si è compiuto il passaggio da' cinematografo al cinema (Méliès e G.A. Smith). Il fantastico conoscerà certo un riflusso e si ridurrà a un genere. Ma tale riflusso abbandona sulla rivale tec­ niche del cinema e il deposito delFimmaginario: la finzione. Entriamo nel regno delFimmaginario quando le aspirazioni, i desideri e i loro nega ivi, i timori e i terrori trascinano e modella­ no l’immagine per ordinare, secondo la loro logica, i sogni, i miti, le religioni, le credenze, le letterature, precisamente tutte le ela­ borazioni fantastiche. Miti e credenze, sogni e finzioni sono le fioriture della visione magica del mondo. Essi mettono in azione l’antropomorfismo e il doppio. L’immagirario è la pratica magica spontanea dello spi­ rito che sogna. 81

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Cosi vediamo anche qui come il cinematografo oggettivo e il ci­ nema di finzione si oppongano e si allaccino. L’immagine è il pre­ ciso riflesso della realtà, la sua oggettività è in contraddizione con la stravaganza immaginaria. Ma, al tempo stesso. già tale riflesso è un ‘"doppio*. L’immagine è già imbevuta di potenze soggettive, che la spostano, la deformano, la proiettano nella fantasia e nel sogno. L’immaginario strega l'immagine perché questa è già strega in potenza. Esso prolifera sull'immagine come il suo cancro na­ turale. Esso cristallizza e dispiega i bisogni umani, ma sempre in immagini. L’immaginario è il punto di coincidenza dell’immagine e dell’immaginazione. Così, è secondo la stessa continuità che il mondo dei doppi fio­ risce in quello delle metamorfosi, che l’immagine si esalta nell'im­ maginario, che il cinema dispiega i suoi poteri nelle tecniche e nel­ la finzione del cinema.

Sogno ? film

L’immagine oggettiva si va dunque apparentando a quella del so­ gno - museo immaginario del nostro pensiero alla sua infanzia: la magia. Mentre i rapporti tra le strutture della magia e quelle del cine ma sono stati sentiti solo intuitivamente o allusivamente o esteti­ camente o frammentariamente (a causa peraltro della mancanza di una concezione antropologica della magia), la parentela fra l’uni­ verso del cinema e quello del sogno è stata invece frequentemen­ te avvertita e analizzata. Ricordiamo le citazioni del nostro primo capitolo: “il cinema è sogno... è un sogno artificiale... Non c for­ se un sogno anche il cinema... vado al cinema così come mi ad­ dormento../. Si ritorna continuamente alla formula utilizzata da ll’ja Ehrenburg c Hortense Powdermaker: “fabbrica del sogno’. Manvcll parla di “popular dream market”. Rosten dice assai bene che ucoloro che fanno film sono pagati per sognare i loro sogni e sfruttano le loro fantasticherie”. E tutti noi, frequentatori abitua i del cinema, abbiamo osciramente identificato sogno e film. “Insomma è come una rappresentazione cinematografica...” è una frase che gli psicologi e gli psicoanalisti conoscono assai be­ ne, quando vengono loro riferite le visioni del sogno o del dor­ miveglia. “Era come qualche cosa che si vece al cinema.” “Non 82

METAXK.KKXM DEL CINEMAHXiKAFO IN CINEMA

tacevo niente, stavo a guardare come in un film.” Il dottor S. Le bevici nota che è un lapsus frequente nelle sedute di analisi: nu­ merosi soggetti dicono film, volendo dire sogno”/7 Gli stessi cli­ nici si trovano a dover rilevare analogie protonde fra l’universo del film e l’universo onirico. 11 dottor Heuyer dichiara che il de­ lirio da fantasticheria si apparenta alla visione cinematografica.** Il dottor Desoille nota che nel sogno, allo stato di veglia, esistono celle sceneggiature* Fin dai primi sogni allo stato di veglia diretti secondo il metodo di Desoille, questi nota la comparsa di meta­ morfosi, di specchi, cioè degli stessi elementi magici presenti alla nascita del cinema. Lebovici ha chiarito e definito queste paren­ tele già ampiamente notate da ogni parte. " e che Jean Epstein co­ si riassumeva: “I processi impiegati dal discorso del sogno e che gli permettono la sua profonda sincerità trovano le loro analogie nello stile cinematografico* M II dinamismo del film, come quello del sogno, scompiglia i quadri del tempi e dello spazio, L’ingran dimento o la dilatazione degli oggetti sullo schermo corrispondo­ no agli effetti macroscopici e microscopici del sogno. Nel sogno enei film gli oggetti appaiono e scompaiono, la parte rappresenta il tutto (sineddoche). Anche il tempo si dilata, si contrae, s. rove­ scia. La suspense. gli inseguimenti agitati e interminabili, situazioni tipiche del cinema, hanno un carattere di incubo, ben ulne ana­ logie oniriche potranno essere rilevate; nel sogno, come nd film, le immagini esprimono un messaggio latente che è quello dei de­ sideri e dei timori. Il film ritrova dunque "‘l’immagine sognata, indebolita, rimpic­ ciolita, ingrandita, ravvicinata, deformata, ossessiva, del mondo segreto in cui noi ci ritiriamo nella veglia come nel sogno, di que47. Cfr. B. Leroy, JLri rôÔMH du derni -sommeil. ni; C. Musatti, “Le cinema cl la psychanalyse”, in Revue Inìemaiionale-dc Etimologie. Il, 6, p. 190; S. Lcbovid, HPsychanalysc te cinéma”, ìbidem, II, 5, p. 53. 48. Conferenza all institut de Filmologie. 1952. •19. R. Dewillc, "Le rese éveillé et la lilmologie". in Reime Internationale de Fil­ mologie, 2, pp. 197 sgg. 50, S. Lebovici, * Psychanalyse et cinéma", cit E*cl resto un interessante taffron toè suggerito da certe moderne ricerche psicoanaatichc. Psicoanalisti come B,D Lcsvtn in particolare hanno osservato presso i loro pazienti che “‘ogni sogno sembra essere una proiezione su uno schermo", l’ale fenomeno è stato descritto introdu tendo il nuovo concetto dìdfrnrw screen (cornutiicariane verbale di J.P Valabrcgal. 51. J. Epstein, liintelligence d'une machine, p. 142.

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sta vita più grande dcdla vita in cui dormono i delitti e gli eroismi che noi non cunipiiemu mai. in cui anneganti le nu$uc delusioni e germinano i nostri desideri più folli”?2 Il cinema introduce l’universo del sogno in seno all’universa cinematografico dello stato di veglia. Il cinematografo è negate dal cinema nel senso classico del termine, cioè abolito, o piuttosto nel senso hegeliano, cioè superato ma conservato? E in che mi­ sura? Limitarsi alfonirismo del cinema significa ignorare queste problema, il cui ulteriore diiariineniu deve ntccssaiianicncc farci apparire» se esiste, la “specificità” del cinema.

Musica (preludio) Significa altresì ignorare tutta l’ampiezza dell’irrealtà che si dispie­ ga nel cinema. I nostri sogni, come se un ultimo pudore realisticc glielo impedisse, non sono accompagnati dalla musica. La musica al contrario regna nell’universo del cinema. Ancorché sembri intenzionata a farsi dimenticare?5 la musica da film è senza dubbio l’eleinento più inverosimile del cinema... Che cosa di più irreale ci questi ritmi e di queste melodie, sem pre presenti, in città come in campagna» sul mare come sulla ter­ raferma, in privato come in pubblico? E tuttavia la musica si c imposta al film, menile cuiitcmpoiancamente il cinema emergeva dal cinematografo: essa è uno dei mo­ menti di tale trasformazione. Senza attendere la colonna sonora sotto la pressione di una misteriosa urgenza, pianoforti e orche­ stre accompagnarono i film muti. Forse per dissimilare il ronzic dell’apparecchio da proiezione, come vuole una leggenda tenace? (Un fatto contingente spiega sempre ciò la cui logica ci sfugge? Perché no, del resto? L'Importante è che la musica abbia superate e di gran lunga questo ruolo di protezione. Ben presto appaiono gli “incisi’*, brani buoni a tutto, scritti per accompagnare il film mu52. J. Poisson, “Cinema cl psychanalyse", in Le\ Cabrerà du Moù, 16-17. p. 176 5). Cfr. in proposito le considerazioni di É. Souriait. “Les grands caractères d< l’univers filmique", in Uw’tvn fihtique, pp. 22 24: “Non si può dimenticare, sena rischiare gravi possibilità di errore che lo spettatore che reagisce in una certa manie ra airimraagine è uno spettatore sortoposio contemporaneamente alLazionc di utu cena mugica... Dispiace dover leggere spesso studi di filmologia inficiati e viziati di questa omissione, c quindi inutilizzabili... come un quaderno di esperienze che tra scuri sistematicamente le osservazioni barometriche’.

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to, le partiture originali?4 i Leitmotiv riferiti agli eroi?’ Nel 1919 Giuseppe Becce poneva radunare in una “kinoteca mille pezzi classificati s-econdo l’atmosfera e le situazioni, splendida materia per una sociologia delle categorie deH'affettività musicale. Prima ancora dell’avvento del film sonoro, la musica dunque appare co­ me un elemento chiave, come un bisogno del cinema. Si poteva forse pensare che la musica fosse solo un sostituto delle voci e dei rumori che mancavano al film muto. Ma il film so­ noro, benché parli e sia tornito di rumori, continua ad avere biso­ gno della musica. Esso vive nella musica, è immerso nella musica. Senza parlare dei film-operetta, da Le Chemin du Paradis fino a Le belle della notte, o di ciò che Maurice Jaubert chiama la musica “reale” del film (jazz in un locale notturno, organo in una chiesa). Il cinema non si accontenta di questa musica esterna, pur utiliz­ zandola abbondantemente. Gli occorre anzitutto una musica in­ tegrata, mescolata al film, sua propria, che sia il suo bagno nutri­ tivo. Il cinema è mus cale come l’opera, benché lo spettatore non se nc renda affatto conto. I film senza musica sono rarissimi. E nc fanno a meno solo per sostituirvi una sinfonia di rumori come in Jetons les filets. Nessun film senza musica e, su 90 minuti di proiezione, la musica dura in media dai 20 ai 45 minuti. Che cosa fa la musica nel film? Non è ancora il momento di ri­ spondere a questa domanda. Diciamo soltanto ciò che essa è: una presenza affettiva. Le partiture intercambiabili per film muti so­ no veri e propri cataloghi di stati d’animo. Scene allegre, tristi c sentimentali nc costituiscono le grandi categorie. È interessante notare che tali brani musicali hanno un carattere antropo-cosmomorfico latente: esprimono un sr?ntimento interno descrivendo insieme uno spettacolo naturale; in altre parole la scena c imbe­ vuta d’emozione e l’emozione è proiettata sulla scena: “Integuimento drammatico - Disperazione - Amoroso cantabile — Visioni d'orrore - Passeggiata campestre". Titoli rivelatori del complesso 54. Quella di SaintSacns per L’aswsinat du due de Guise. 55, Cfr. G. Van Parys, “Le musicien*. in cinemi par ceux qui le font, par ricalare alle pp. Zb5 264. Cfr. anche H. Shothart. “La musique d'écran*, in La tech­ nique du film. pp. 138-142. Shothart racconta come fece della musica per Mutiny on tbe fìounty {Gli ammutinati del Bounty di Frank Llujd) una partitura sinfonica: “Lo stesso tema accompagna ogni apparizione del Bounty come un Leitmotiv di Wagner*.

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descri ttivo-affett ivo (micro-macrocosmico) che sorregge la musica per film. Uno dei brani più usati, Bufera. accompagna con egua­ le efficacia ‘'l’incendio nella foresta, il disordinato palpitare di un cuore ferito, la catastrofe ferroviaria’* e rivela così l’equivalenza antropo-cosmomorfica di tormento e tormenta, della tempesta in una testa e della tempesta nel mare, della bufera atmosferica c della bufera delle passioni. Esiste dunque una complementarità antropo cosmomortìca fra la musica (almeno la musica descrittiva) e il cinema, l’ale comple­ mentarità non è forse anche parentela?*6 Elie Faure dice del film: “è una musica che ci raggiunge per il tramite dell’occhio”. Infatti è tipico del cinema l’aver introdotto, ai posto della semplice fotografia animata, la fluidità, la continuità - una continuità fluida fondata sulla discontinuità delle inquadra­ ture così come la continuità musicale è fondata sulla discontinui­ tà delle note, una fluidità concreta costruita mediante i mezzi più astratti - una temporalità che viene accelerata e rallentata e torna indietro, una tematica, dei Leitmotiv (flash-back) ecc. Una sorta di analogia sembra presiedere alla fraternizzazione del cinema e della musica. Tale fraternizzazione va talvolta fino al mutuo confondersi e alla reciprocità. Cohen-Séat segnala certi ca­ si d’equivalenza nei quali “il significato letterale dell'inimagine si trova a essere estremamente tenue... La sensazione diviene mu­ sicale a tal punto che, quando la musica accompagna realmente Timmaginc. questa trae realmente dalla musica il meglio della sua espressione o piuttosto della sua suggestione”.17 Fra le più stra­ zianti visioni (la parola è venuta da sola) del cinema che ci torna­ no alla memoria, sono da annoverarsi quelle in cui un ritornello evoca un’immagine passata, senza che questa sia reintrodotta di un flashback o una sovrimpressione. Il motivo di JW irons à Su resnes risuscita l’immagine del crimine commesso dal legionario (in La Bandera). La vialetera suscita il ricordo doloroso e radioso dell'amore quando Chariot, uscito di prigione, rivede improvvi­ samene la piccola cicca (in Lwcf della città). La visione è diventa­ ta musica e questa musica è diventata visione, essa sostituisce Li 56. Cfr. ni proposito L. Landry. Ml orniaiion de fa sensibilité", in Les Cahiers du Mois. 16-17, pp. 40 sgg. 57. G. Cohen-Séat, Essai wrìef principes d'une philosophie du cinéma, p. 130.

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sovrimpressione o il flash back perche con il suo solo fascino ri­ suscita in noi rimmagine-ricordo... Nd corso di questa alchimia la quintessenza della musica si identifica con la quintessenza del ricordo - il suo carattere amico e irrimediabile, la sua timida pro­ messa di eternità - la sua magia. Nel corso di recenti proiezioni di film muti privi di mus ca ci è sempre parso, una volta superata la sgradevole fase di adattamen­ to, di percepire per cenestesi una sorta ci musica interna, d orche­ stra interiore. Come se il cinema esprimesse la musica racchiusa, sottintesa, delle cose. Come se al cinema ogni cosa cantasse. Come se compito della musica fosse sottolineare questo canto, per farlo affiorare sensibile all'udito... Torneremo ancora, e necessariamente, sulla musica per film, che illumina il cinema come dall’interno... Notiamo per il momen­ to che il cinema si stacca dal cinematografo, compie la sua prima evoluzione per dispiegarsi - bagnato di musica - in piena irrealtà.

Irrealtà, magia, soggettività Oltre alla musica, che ne è soltanto un aspetto, è proprio l’irrealtà che il cinema trae seco, ed è proprio in :ale irrealtà che esso con­ traddice il cinematografo. Ma. come abbiamo visto, il cinemato­ grafo portava già in sé i geni di tale irrealtà. Il cinema diede slan­ cio a ciò che era latente nell’immagine cinematografica primaria; il cinema fu questo sgancio, di colpo Pineale si espanse nel reale. Irreale: è la qualifica negativa, vuota. Bisogna svelare le strut­ ture di questa irrealtà, la sua logica, il suo sistema. Allora appare in filigrana sotto il e nema, come già setto il cinematografo, ma questa volta totale, in tutta la sua ampiezza, la visione del mon­ do magico. No... Noi non ci siamo lasciati trascinare fuori dal nostro di­ scorso. La determinazione del sistema magico ci consente di sfug­ gire alla virtù dormieva di un termine ormai buono a tutti gli usi. Essa ci permette di vedere che il passaggio dal cinematografo al cinema non si è prodotto per caso. Automaticamente, certo, ma ancora una volta logicamente. L’uincanto della materia volgare” di cui parlava Apollinaire era cominciato segretamente nell'invi­ sibile, sotto l’immagine oggettiva. Méliès liberò la crisalide. Il film fu domato, posseduto, digerito, trasfigurato. 87

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La magia c il nostro quadro di riferimento o piuttosto, e meglio il nostro modello tipo, il nostro pattern. Poiché, Labbiamo spesse detto ma bisogna ancora una volta ripeterlo, non identifichiamo affatto il cinema con la magia: mettiamo in rilievo le analogie, le corrispondenze. Si passa infatti dallo spettatore all’immagine, dall'immagine interiore al fantastico esteriore. L'universo del cinema è connes so geneticamente, strutturalmente con la magia, pur senza essere magia, è connesso all'affettività c pertanto non è più la soggettivi tà... Musica... Sogno... Finzione... Universo fluido... Reciprocità m icro-macrocosmica... Altrettanti termini tutti atti a designare il fenomeno, nessuno a qualificarlo totalmente. È un vero flusso affettivo-magico che ha spinto e animato la macchina da presa in lutti i sensi, ha aperto mmense brecce da inquadratura a inquadratura nell'immagine oggettiva. Esso sgor­ ga e trabocca, scaturisce e zampilla, trascina e mescola la quali là soggettiva del ricordo e la qualità magica del doppio, la durata bergsoniana e la metamorfosi, l’animismo e io stato d'animo, la musica c gli oggetti reali. .Mosso da quale bisogno? Per riconoscere in profondità tale bisogno, bisogna penetrare in profondità nelle strutture soggettive della magia. Ma, a dire il vero, noi cominciamo già a orientarci: per opposta a esso che possa sembrare, la magia ci appare sempre come Tal tro polo del sentimento soggettivo, il polo alienato, esteriorizzato solidificato, riconoscibile. . Sentimento, musica, sogno, magia: c presente in tutto ciò qualche cosa di unico, ma a stadi di differen ziazione diversi. Non abbiamo forse visto che :ra i trucchi più fan tastici di Méliès e le strutture più elementari, quasi soggettive, dei cinema vi era sempre un rapporto?

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4 L’ANIMA DEL CINEMA

La magia non ha essenza: verità sterile, se si tratta soltanto di os­ servare chela magia è illusione. Occorre però ricercare i processi, che danno corpo a tale illusione. Abbiamo già intravisto alcuni di essi, quali l'antropomorfismo e il cosmomorfismo, che proiettano l’umano nel mondo esterno e il mondo esterno dentro l’uomo. Li proiezione-idcfUificazione

L’antropomorfismo e il cosmomorfismo, se risaliamo alla loro fon­ te. ci svelano progressivamente la loro natura energetica primaria: proiezione e identificazione. La proiezione è un processo universale e multiforme. 1 nostri bisogni, le nostre aspirazioni e ossessioni, i nostri desideri e i no­ stri timori non solo si proiettano nel vuoto sotto forma di sogni e immaginazioni, bensì su ogni cosa e su ogni essere. Le relazioni contraddittorie di un medesimo avvenimento, sia esso la catastro­ fe di Le Mans o un incidente stradale, la battaglia della Somme o ura scenata familiare, rivelano deformazioni spesso più inconsce che intenzionali. La critica storica o psicologica della testimcnianza ci insegna che le nostre percezioni, anche le più dementar qua­ li quella della statura di un uomo» vengono filtrate e manipolate dalle nostre proiezioni.1 I. Cfr. in proposito J.N. Cru, Du témoignages K. Pages, “Psychologie dite ’projective’ et a perception d'autrui”, in Bulletin éc psychologie. Vi. 7, 1953. pp. 40-419.

it CINEMA O L’UOMO IMMAGINANO

Tuttavia, per quanto diversi ne siano le forme e gli oggetti, il processo di proiezione piò assumere rispetto di automortìsmo, di antropomorfismo o di sdoppiamento. Alle stadio automortìco (Punico, del resto, che abbia sinora in­ teressato gli studiosi del cinema), “attribuiamo a colui che stiamo giudicando il carattere e le tendenze che ci sono propri ’*' - per i puri, tutto è puro, per gli impuri, tutto impuro. A un altro stadio appare l’antropomorfismo, allorché attribuia­ mo alle cose materiali e hrIì esseri viventi "tratti c tendenze” di natura propriamente umana. A un terzo stadio, puramente imma­ ginarie, perveniamo allo sdoppiamento, cioè alla proiezione dd nostro essere individuale in una visione allucinatoria in cui ci ap­ pare il nostro spettro corporale. Antropomorfismo e sdoppiamen to sono in qualche modo i momenti in cui la proiezione diviene alienazione: sono i momenti magici. Ma già nella proiezione automorfica, come ha notaio Fulchignoni, è in geme lo sdoppiamento. Nell'identificazione, il soggetto assorbe il mondo in se stesso in vece di proiettarsi nel mordo. L'identificazior.e “incorpora nell'io il mondo circostante*' e lo integra affettivamente.’ L'identificazio­ ne con l’altro può risolversi in “possessione” del soggetto a causa della presenza estranea di un animale, di uno stregone, di un dio. L’identificazione con il mondo può ampliarsi in cosmomorfismo, allorché l'uomo si sente e si crede microcosmo. Quest’ultimo esem pio, in cui lantropomorfismo e il cosmomorfismo divengono complemertari, ci rivela come proiezione e identificazione rimandino dall'una all'altra in un unico insieme. Già la più banale “proiezio­ ne” sull'altro - il semplice “mi metto al posto suo" - è un'identifi­ cazione del proprio io con l’altro, che facilita e richiama a sua volta l'identificazione con me dell’altro: questi è divenuto assimilabile. Noe basta quindi isolare la proiezione da an lato, l’identifica­ zione dell’altro, e infine i reciproci transfert; occorre considerare anche j/ complesso dì proiezione-identificazione, che implica que­ sti transfert. 11 complesso di proiczione-idcntificazionc-transfert presiede «1 tutti i fenomeni psicologici cosiddetti soggettivi, quelli, cioè, che 2. E Fulchignoni, "Examen t un test filmique . in Kmrc Ittumnitonalc de Viiotologìe, il, 6, p. 172. 3. P.G. Cressey. *The motion p aure experience as modified by social background and personality’', in American Journal of Sociology, agosto 19)8. p. 520.

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L'ANIMA DELCJNÜMA

tradiscono o deformano la realtà oggettiva delle cose o se ne pon­ gono deliberatamente al di fuori (stati d’animo, fantasticherie)» E presiede anche, nella sua forma antropo-cosmomorfica, al complesso dei fenomeni magici: il doppio, l’analogia, h meta* mortasi. In altri termini, lo stato soggettivo e la cosa magica sono due momenti della proiezione-identificazione. II primo è il momento nascente, sfumato, vaporoso,u ineffabile” - mentre il secondo rap­ presenta il momento delTidentitìcaziorc nel suo significato lette­ rale. sostanzializzata, in cui la proiezione alienata, smarrita, fissata, fericizzata si fa cosa: si crede davvero ai doppi, agli spiriti, agli dèi. ai malefici, alla fascinazione, alla possessione, alla metamorfosi. Il sogno ci mostra che non vi è soluzione di continuità tra sog­ gettività e magia, essendo esso soggettivo o magico secondo l’alter­ nanza del giorno e della notte. Sino al risveglio, queste proiezioni d immagini ci sembreranno reali; sino al momento del sonno, ri­ deremo della loro soggettività. Il sogno ci indica come i processi più intimi possano alienarsi sino alla reificazione, c come tali alie­ nazioni possano reintegrare la soggettività. L’essenza del sogno è k soggettività; il suo essere è la magia. Esso è proiezione-identifi cazione allo stato puro. I nostri sogni - i nostri stati soggettivi - si distaccano da noi e tanno corpo con il mondo, ed è magia. Non riescono ad aggrap parvisi, ovvero una frattura li separa dal mondo, ed è soggettivi­ tà: l’universo magico è la visione soggettiva che si crede reale e oggettiva. Reciprocamente, la visione soggettiva è la visione ma­ gica allo stato nascente, latente, o atrofizzato. Solo l’alienazione e la reificazione dei processi psichici differenziano la magia dalla vita interiore, Luna provoca Paîtra, questa prolunga la prima. La magia è la concretizzazione della soggettività; la soggettività è la linfa della magia. Storicamente, la magia è il primo stadio, la visione cronologica­ mente prima del bambino o delPumaniti nella sua infanzia - e, in certa misura, del cinema: tutto inizia, sempre, con l’alienazione... L’evoluzione, dell’individuo come delia razza, tende a 44dema gicizzare” l’universo e a interiorizzare la magia. Certo, nella vita pubblica e nelle singole vite private sussistono enormi residui ma­ gici. agglutinati attorno ai tabù del sesso, della morte, del pote­ re sociale. Certo, le regressioni psicologiche (nevrosi individuali 91

IL CINEMA O L’UOMO immaginario

e collettive) risuscitano incessantemente Tanica magia. Tuttavia, sostanzialmente, il doppiosi smaterializza, si attenua,sfuma, rien­ tra nel corpo, si localizza nel cuore o nel cervello: diviene l'anima. Gli oggetti animistici divengono oggetti carichi d'anima. La ma­ gia non è più credenza presa alla lettera, è diventata sentimento; la coscienza razionale e oggettiva respinge la magia dentro la sua tana. Al tempo stesso, la vita * interiore” c affettiva si ipertrofizza. Cosi la magia corrisponde non solo alla visione pre-oggettiva del mondo, ma anche a uno stadio prosoggettivo delTuomo. Scio­ gliendosi, la magia libera interi torrenti di affettività, un'inonda­ zione soggettiva. Allo stadio magico succede .o stadio dell'anima, la fioritura affettiva. L’antropo-cosmomorfismo, che non riesce piu a trovare presa nel reale, vola nell'immaginario.

La partecipazione affettiva

Tra magia c soggettività si stende una nebulosa indefinita, che tra­ scende l’uomo, senza tuttavia staccarsene e le cui manifestazioni noi riconosciamo o indichiamo con i moti dell’anima, del cuore, del sentimento. Questo “magma”, che non è magia, né la sogget­ tività propriamente detta, ha dell’un a e dell'altra cosa. E il regno delle proiezioni-identificazioni o partecipazioni affettive. Per noi il termine partecipazione coincide esattamente, sul piano mentale e affettivo, con la nozione di proiezione-identificazione; li useremo dunque indifferentemente. La vita soggettiva, l'anima interiore da una parte, l’alienazione, l’anima animista dall’altra polarizzano le partecipazioni affettive, le quali però possono comprendere diversamente le une e le altre. Abbiamo detto che la magia non si riassorbe interamente nell’a­ nima e che questa stessa c un residuo semi fluido, semi-reificato della magia. Dopo lo stadio magico, viene Io stadio de l’anima. Sussistono frammenti interi di magia, che lo stadio delTanima non dissolve, ma integra in maniera complessa. D’altra parte l’intensità della vita, seggettiva o affettiva, risuscita l’antica magia o, meglio, nc suscita una nuova. Un violento sussulto di energia, e le solfatare ridiventano vulcani ed eruttano materia. Ha oen visto Sartre che l’emozione si converte da sola in magia. Ogni esaltazione, ogni li­ rismo, ogni slancio prendono, nel loro scaturire, un colore antro92

L’ANIMA DEL CINEMA

po-cosmomorfico. Come ci dimostra la poesia» il lirismo prende muralmente a prestito le vie e il linguaggio della magia. La sog­ gettività estrema bruscamente finisce ir. magia estrema. Alio stes­ so modo il culmine della visione soggettiva è F allucinazione - sua oggettivazione. La zona delle partecipazioni affettive è quella delle proiezioniidentificazioni, miste, incerte, ambivalenti, ed è la stessa del sincre­ tismo magico-soggeitivo. Si è visto che, là dove la magia è manife­ sta, la soggettività è latente e, là dove la soggettività è manifesta, la magia è latente. In questa zona, né magia né soggettività sono completamente manifeste e latenti. Così anche la nostra vita di sentimenti, di desideri, di timori, di amicizie, d’amore sviluppa tutta la gamma dei fenomeni di proie­ zione-identificazione, dagli stati d’animo ineffabili fino ai fetici­ smi magici. Basta considerare l’amore, proiezione-identificazione suprema; ci si identifica con l’essere amato, con le sue gioie» con i suoi dolori, provando i suoi sentimenti; ri si proietta in lui, cioè lo si identifica con noi. amandolo in sovrappiù di tutto Famore che si porta a noi stessi. Le sue fotografie, i suoi ninnoli, i suoi fazzo­ letti. la sua casa, tutto è penetrato della sua presenza. Gli oggetti inanimati sono impregnati della sua anima e ci forzano ad amarli. La partecipazione affettiva dagli esseri si estende anche alle cose c ricostituisce feticismi, venerazioni, celti. Un ambivalenza dia lettica lega i fenomeni del cuore con i feticismi: l’amore ne è Fesempio quotidiano. La partecipazione affettiva si carica, dunque, di un residuo di magia (non ancora del tutto interiorizzata), di una magia che ri­ nasce (provocata dall'esaltazione affettiva), di una profondità d'a­ nima e di vira soggettiva. Si potrebbe paragonarla a un ambiente colloidale, dove mille concrezioni magiche si trovassero in sospen­ sione... E qui bisogni ricorrere ancora alla nozione di complesso. Possiamo ora chiarire reciprocamente magia, soggettività, par­ tecipazione affettiva. Possiamo portare qualche barlume in cuesta enorme zona d’ombra - dove dominano le ragioni che la ragione non conosce, dove le scienze dell’uomo preferiscono ancora di­ sprezzare per ignoranza che ignorare con dispetto. Possiamo ora aggiungere a questa raggiunta comprensione una nuova comprensione della metamorfosi del cinematografo in cine­ ma. La magia manifesta, quella di Méliès di G. A. Smith e dei loro 93

IL CINEMA O LWMO IMMAGINARIO

imitatori, ci appariva non solamente come un momento ingenuo di infanzia, ma anche come lo scaturire primo e naturale delle po­ tenze affettive in seno all'immagine oggettiva. D’altra parte si può ora togliere la maschera alla magia del ci­ nema, riconoscervi le ombre proiettate, i geroglifici della parteci­ pazione affettiva. Meglio: le strutture magiche di questo universo ce ne fanno riconoscere, senza equivoco, le strutture soggettive. Esse ci indicano che tutti i fenomeni del cinema tendono a con­ ferire le strutture della soggettività alfimmagine oggettiva e che tutti chiamano in causa le partecipazioni affettive. Occorre ap­ punto valutare l’ampiezza di questi fenomeni e analizzare i mec­ canismi d’eccitazione. La partecipazione cinematografica

Per quanto sommaria e lunga allo stesso tempo, l'analisi che ab­ biamo fatto era necessaria per evitare certe puerilità troppo cor­ renti. I processi di proiezione-identificazione, che sono al centro del cinema, sono evidentemente al centro della vita. Conviene co­ sì risparmiarsi la gioia “alla Monsieur Jourdain” di scoprirli sullo schermo. I commentatori ingenui, e persino uno spirito penetrante come Balazs, credono che l'identificazione o h proiezione (esami­ nare sempre separatamente dal resto) siano mue con il film. Come, indubitabilmente, ciascuno crede di inventare Famore. La proiezione-identificazione (partecipazione affettiva) interio­ re gioca senza discontinuità nella nostra vita quotidiana, privata e sociale. Già Gorkij aveva mirabilmente evocato "la realtà semi immaginaria dell’uomo”. A dar retta a G.H. Mead, a Cooley, a Stern, si confonderebbe persino la partecipazione immaginaria e la partecipazione sociale, lo spettacolo e la vita. Il role taking e la personation presiedono ai rapporti tra persona e persona. La no stra personalità è preconfezionata, ready made: ce ne rivestiamo come di un abito e ci infiliamo in un abito come in un ruolo. Noi sosteniamo una parte nella vita, non soltanto per gli altri, ma anche (e soprattutto) per noi stessi. Il modo di vestirsi (il travestimento), il viso fa maschera), i propositi (le convenzioni), il sentimento del la nostta importanza (la commedia) alimentano nella vita normale questo spettacolo, rivolto a sé e agli altri: sono le nostre proiezioni identificazioni immaginane.

L'ANIMA DEL CINEMA

A seconda di come identifichiamo le immagini dello schermo con la vita reale, le nostre proiezioni-icentificazioni, proprie del­ la vita reale, entrano in azione. Effettivamente, le ritroveremo, in una cena misura, sullo schermo, il che dissipa, solo in apparenza, 1 originalità della proiezione-identificazione cinematografica, ma in realtà la rivela. Infatti, perché ritrovarle? Sullo schermo non c’è che un gioco di ombre e di luci; solo un processo di proiezione può identificare delle- ombre con cose cd esseri reali, e attribuire loro questa realtà, che, se ci si riflette sopra, manca loro in modo così evidente, ma non certo al momento della visione. Un primo ed elementare processo di proiezione-identificazione conferisce, dunque, alle immagini cinematografiche realtà sufficiente, perché possano entrare in gioco proiezioni-identificazioni ordinarie. In altre parole, un meccanismo di proiezione-identificazione è all’o­ rdine stessa della percezione cinematografica. E, in altre carole ancora, la partecipazione soggettiva, al cinematografo, impronta il cammino della ricostituzione oggettiva. Ma non siamo ancora sufficientemente armati per affrontare questo problema di fondo/ Aggiriamolo per intanto, limitandoci a constatare che l’impressio­ ne di vita e di realtà propria delle immagini cinematografiche è in­ separabile da un primo slancio di partecipazione. Evidentemente, cuanto più gli spettatori del cinematografo Lumière credettero itila realtà del trenodie piombava su di loro, tanto più ne provarono spavento e nella misura in cui guardaro­ no “scene di sorprendente realismo" si sentirono insieme attori e spettatori. Ein dalla seduta del 28 dicembre 1895 11. de Parville rileva, con una semplicità definitiva, il fenomeno della proiezio­ ne-identificazione: “ Viene da chiedersi se si è semplici spettatori o attori di queste scene di sorprendente realismo” Questa incertezza, per piccola che fosse, fu vissuta fin dalle pri­ me sedute: alcuni fuggirono urlando, perché un veicolo veniva lo­ ro incontro; alcune signore svennero. Ma tutti si ripresero subito; il cinematografo era apparso in una civiltà nella quale la coscien­ za dell’irrealtà dell’immagine era talmente radicata, che la visione proiettata» per realistica che fosse, non poteva essere considerata come praticamente reale. A differenza dei primitivi che avrebbe­ ro aderito totalmente alla realtà o piuttosto alla surrealtà pratica 4. Qr. capitoli 5 c 6.

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della visione (doppi), il mondo evoluto non poteva vedete, nella più perfetta delle immagini, die uif immagine. Ebsu "sentì** sola­ mente u Firn pressione” della realtà. Così, nel senso pratico del termine realtà, “la realtà” delle proie­ zioni cinematografiche resta svalutata, e il fatto che il cinema non sia che uno spettacolo riflette questa svalutaz one. La qualità dello spettacolo, e in senso più lato la qualità estetica nel suo significa­ to letterale, che è “il sentito’* (oppure V affettivamente vissuto, in opposizione al praticamente vissuto). evita e svirilizza tutte le con­ seguenze pratiche della partecipazione: per il pubblico non c’è ri­ schio né impegno. In ogni spettacolo, anche quando c’è un rischio reale per gli attori, il pubblico è per principio fuori pericolo, fuori tiro. Esso è fuori della portata del treno che arriva sullo schermo, che arriva presentemente, ma in un presente esso stesso fuori del a portata dello spettatore. Per quanto atterrito, resta tranquillo. Lo spettatore di cinematografo non solo è praticamenre fuori dell’a­ zione, ma sa che l’azione, benché reale, si trova attualmente fuori della vita pratica... La realtà attenuata dell’immagine è meglio di nessuna realtà, dal momento che il cinematografo offre “il mondo a portata di mano\ come diceva Méliès. Capitali straniere, continenti sconosciuti ed esotici, riti e costumi bizzarri suscitano, magari al ribasso, le par­ tecipazioni cosmiche, che sarebbe più piacevole vivere in pratica, viaggiando, ma che appunto in pratica non sono realizzabili. An­ che se svalutata nella pratica, la realtà attenuata deU’immagine ha più valore, in un certo senso, di una realtà pericolosa - tempesta in mare, incidente d’auto - perché permette di gustare, con mode­ razione certo, ma senza pericolo, le ebbrezze del rischio. Ma c’è di più, e l’abbiamo visto. L’immagine cinematografica, cui manca la forza probatoria della realtà pratica, detiene un po­ tere affettivo capace di giustificare uno spettacolo. Alla sua realtà pratica svalutata corrisponde una realtà affettiva eventualmente ac­ cresciuta e che abbiamo chiamato il fascino dell'immagine, Le par­ tecipazioni cosmiche a basso costo e la maggiorazione affettiva dell’immagine, mescolate, legate, risultarono abbastanza potenti da fissare in spettacolo, fin dall’inizio, la nuova invenzione. Il cine­ matografo non è dunque solo spettacolo, ma è spettacolo. Il cinematografo dispone del fascino dell'immagine, cioè rin­ nova o esalta la visione delle cose banali e quotidiane. La qua96

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lità implicita del doppio, i poteri dell ombra, una certa sensibi­ lità all’apparenza fantomatica delle case uniscono i loro prestigi millenari all'interno della maggiorazione fotogenica e richiamano le proiezioni-identificazioni immaginarie spesso meglio della vita pratica. L’entusiasmo provocato dal fumo, dai vapori, dal vento e le gioie ingenue nel riconoscere i luoghi familiari (già palesi nella gioia data dalla cartolina o dalla fotografia) svelano chiaramen­ te le partecipazioni che il cinematografo Lumière suscita Dopo Port de la Ciotat, nota Sadoul,“alcuni spettatori evocavano le loro escursioni e dicevano ai loro figli: ‘vedrai confò bello!”’. Fin dalle prime proiezioni. Lumière distingue i piaceri dell’identificazione c il bisogno di riconoscere le cose; egli consiglia ai suoi operatori di filmare la gente per le strade e anche di fingere di girare “per attirarla alla rappresentazione”. Possiamo citare, come prova dell’intensità dei fenomeni ci­ nematografici di proiezione-identificazione, l’esperimento di Kulesov, che non si rifa a particolari tecniche cinematografiche. Kulesov dispose il medesimo primo piano "statico e completa­ mente inespressivo’ di Mozuchin, in successione davanti a un piatto di minestra, a .ina donna morta, a una bambina che ride; gli spettatori, " trasportati dal gioco dell’artista”, lo videro esprimere successivamente la fame, il dolore, la dolce commozione pater­ na? Certo, non c’è che una distinzione di grado tra questi effetti proiettivi e quelli della vita quotidiana e del teatro: siamo abituali a leggere l’odio e l’amore nei visi vuoti che ci circondano. Ma altri fenomeni ci confermano che l’effetto Kulesov è particolarmente vivace sullo scherma Così possiamo già mettere all’attivo del cinematografo i falsi ri­ conoscimenti, dove l’identificazione giunge fino all’errore di iden tità, come quando il re d’Inghilterra si riconobbe nelle attualità, fabbricate negli studi, della sua incoronazione. Il cinematografo ha determinato uno spettacolo perché susci­ tava la partecipazione e, divenuto spettacolo istituzionalizzato, l’ha suscitata ancora di più. La potenza della partecipazione ha 5. Pudovkin descrive L’sperienza in MLe monuge et le son*, in Le ma&srn do ipecidcie, pp. 10-11: “Gli spettatori... sottolineando i sentimenti di profonda ma linronia, ispirati dalla minestra dimenticala. erano colpiti e commossi dal profondo doiore con cui consideravi la morie e ammiravano il sorriso lieve c felice con cui sorvegliava i giochi della bambina*

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IL CINEMA O LTOMÜ IMMAGINALO

sfondato e ha rivoluzionato il cinematografo, proiettandolo neUo stesso tempo verso Pimmagirtariu. Si è detto che in ogni spettacolo lo spettatore resta fuori dall’a­ zione» privato di partecipazioni pratiche che, se non sono total­ mente annientate, sono psr lo meno atrofizzate e incanalate verso simboli di consenso (applausi) o di disapprovazione (fischi) e in ogni modo sono impôt en:i a modificare il corso interno della rap­ presentazione. Lo spettatore non passa mai all’azione, tutt’al più passa a gesti o a segni? L'assenza o l’atrofia della partecipazione motoria, o praticalo attiva (uno di questi aggettivi è valido più degli altri, secondo il caso particolare) è strettamente legata alla partecipazione psichi­ ca e affettiva. La partecipazione dello spettatore, non potendo esprimersi in azione, diventa interiore, sofferta. La cinestesi dello spettacolo si riversa nella cenestesi dello spettatore, cioè nella sta soggettività, e trascina le proiezioni identificazioni. L’assenza di partecipazione pratica determina dunque un’intensa partecipa­ zione affettiva: veri e propri transfert si determinano tra l’animo dello spettatore e lo spettacolo dello schermo. Parallelamente, la passività dello spettatore, la sua impoten­ za Io pongono in una situazione regressiva. Lo spettacolo illustra una legge antropologica generale: diventiamo tutti sentimentali, sensibili, lacrimosi, quando siamo privati de. nostri mezzi d’azio­ ne; l’ss disarmata singhiozza sulle sue vittime o sul suo canarino, il soldataccio in prigione diventa poeta. L’esempio del chirurgo che sviene davanti al film di un'operazione rivela molto bene il sentimentalismo che l’impotenza suscita d’improvviso. Appunto perché si trova fuori della vita pratica, privato dei suoi poteri, il medico prova allora l’orrore della carne messa a nudo e torturata, esattamente come farebbe un profano davanti d un "operazione reale. In sittazione regressiva, reso infantile come sotto l’effetto di una nevrosi artificiale, lo spettatore vede un mondo affidato a forze che gli sfuggono. È per questo che, nello spettacolo, tutto passa facilmente dall’affettivo al magico, come del resto, nella passività limite- il sonno - si esagerano le proiezioni-identificazioni che si chiamano, allora, sogni. 6. Qualche buona nozione dello spettacolo si trova in G. Anaya. “Teoria del espcctaculo drumatico". in Arbt.r. 77, Madrid 1952.

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L’ANIMA DEL CINEMA

Spettacolo, il cinematografo Lumière suscita la proiezioneidentificazione. Inoltre presenta già una situazione spettacolare particolarmente pura per il fatto che stabilisce la più grande se­ gregazione fisica possibile fra spettatore e spettacolo: a teatro, per esempio, la presenza dello spettatore si ?uò ripercuotere sulla re­ citazione dell’attore, partecipa all’unicità di un avvenimento alea­ torio: l’attore può dimenticare la sua parte o trovarsi a disagio. L’“atmosfera” e il cerimoniale non possono dissociarsi dal carat­ tere attuale, vissuto, che la rappresentazione teatrale assurte. Al cinematografo, l’assenza tìsica degli attori come delle cose rende impossibile ogni incidente fisico; nessun cerimoniale, cioè nessuna cooperazione pratica dello spettatore allo spettacolo. Costruendosi da solo, costruendo soprattutto le sue sale, i cine­ ma ha amplificato ceni caratteri para-on rici favorevoli alle proie­ zioni-identificazioni. L’oscurità era un elemento non necessario (lo si vede nelle proiezioni pubblicitarie degli intervalli) ma tonico per la parte­ cipazione. L’oscurità iu organizzata isolando lo spettatore, “im­ pacchettandolo di nero”, come dice Epstein, dissolvendo le resi­ stenze diurne e accentuando tutte le fascinazioni dell’ombra. Si è parlalo di stato ipnot co, ma chiamiamolo piuttosto simil-ipnotico, perché, infine, lo spettatore non dome. Ma, se non dorme, si dedica alla sua poltrona un’attenzione di cui non beneficiano gii altri spettacoli, che evitano una comoditi che impigrisca (teatro), o addirittura la dispreizano (stadio): lo spettatore potrà stare se­ mi-sdraiato, nella posa propizia al “rilassamento* e favorevole al­ la fantasticheria. Eccolo, dunque, isolato, ma al centro di una folla, di un gran­ de amalgama di anima comune, di una partecipazione collettiva che amplifica la sua partecipazione individuale. Essere nello stes­ so tempo isolato e in gruppo: due condizioni contraddittorie e complementari, favorevoli alla suggestione. La televisione a do­ micilio non beneficia di questa enorme cassa di risonanza: essa si offre alla luce, fra oggetti pratici, a individui il cui numero arriva difficilmente a formare gruppo (è per questo che negli Stati Uniti ci si invita ai tele-parties}. Lo spettatore delle “sale oscure” è, invece, soggetto passivo al­ lo stato puro. Egli non può nulla, non ha nulla da dare, neppure il sue applauso. Paziente, patisce. Soggiogalo, subisce. Tutto awie99

IL CINEMA O I. UOMO IMMAGINARIO

ne metto lontano, fuori della sua portata. Contemporaneamen:e e improvvisamente, tuttoawiene in lui, nella sua cenestesi psichi­ ca, se così si può dire. Quando i prestigi dell ombra e del doppio si fondono sullo schermo bianco in una sala notturna, per lo spet­ tatore, affondato nel suo alveolo, monade chiusa a tutto fuorché allo schermo, avviluppato nella doppia placenta di una comunità anonima e dell’oscurità, quando i canali dell’azione sono bloccali, si aprono allora le chiuse del mito, del sogno, della magia.

Immaginario, estetica e partecipazione

L’irruzione delfimmaginario nel film avrebbe cagionato, in ogni modo, un accrescersi delle partecipazioni affettive, anche se ncn ci fosse stata la metamorfosi da cinematografo a cinema. Il fini di fiction è una pila radioattiva di proiezioni-identifica­ zioni. Esso è il prodotto, oggettivato in situazioni, awenimenti, personaggi, attori e reificato in un’opera d’are, delle “fantastiche­ rie" e della "soggettività” dei suoi autori. Proiezione di proiezioni, cristallizzazione di identificazioni, si presenta con lutti i caratteri alienati e concretizzati della magia. Ma questa opera è estetica, cioè destinata a uno spettatore che resta cosciente dell*assenza di realtà pratica di ciò che è rappresenta­ to: la cristallizzazione magica si riconverte dunque, pei lo spetta­ tore, in soggettività e sedimenti, cioè in parecipazioni affettive.

Reificazione (artista) ---------Autore

I opera di fiction (immaginario)

Spettatore «-----Un vero circuito energetico permette di reificare ad alta dose delle partecipazioni per ritrasmetterle al pubblico. Così in seno all'universo estetico, per e attraverso le opere immaginaiie, si ope­ ra un va e vieni di ricostruzione magica per mezzo del sentimento e un va e vieni di distruzione magica per mezzo del sentimento. Ve100

L'ANIMA DEL CINEMA

diamo così come l’opera di fiction risusciti la magia ma al tempo stesso la trasformi, e come tutto ciò che abbiamo detto sulla ma* già del cinematografo si inserisca nel quadro della legge generale dell'estetica. L'immaginario estetico, come ogni immaginario, è il regno dei bisogni, delle aspirazioni dell’uomo, incarnati, posti in situazioni determinare e fatti propri nel quadro di una finzione. Esso si nutre alle sorgenti più prefonde e più intense della partecipazione affet­ tiva c proprio di là trae nutrimento pei le partecipazioni affettive più intense e più profonde. Negli anni 1896-1914, il fascinodell’immagine, le partecipazio­ ni cosmiche, le condizioni spettacolari della proiezione, il cilagare dell’immaginario si attirano reciprocamente, per suscitare ed esal­ tare la grande metamorfosi che darà al cinematografo le strutture stesse della partecipazione affettiva. L'immagine cinematografica si era riempita di partecipazio­ ni affettive, fino a scoppiare: ed è letteralmente scoppiata. Que­ sta enorme esplosione molecolare ha dato vita al cinema. Alfestrema immobilità dello spettatore si aggiungerà ormai l’estrema mobilità dell’immagine, per costituirei! cinema, spettacolo tra gli spettacoli.

I processi di accelerazione e di intensificazione

Le tecniche del cinema sono delle provocazioni, delle accelcrazion e delle intensificazioni della proiezione-identificazione. Il cinematografo restituiva il movimento originale alle cose. Il cinema apporta altri movimenti: mobilità della macchina da pre­ ss, ritmo dell’azione c del montaggio, accelerazione del tempo, dinamismo musicale. Questi movimenti, ritmi, tempi si accele­ rano, si congiungono, si sovrappongono. Ogni film, anche il più banale, c una cattedrale del movimento. Le potenze di partecipa­ zione, già destate e sollecitate dalla situazione spettacolare, sono stimolate dai mille dispiegamenti del movimento. Da allora, tut­ te le macchinazioni della cinestesi si precipitano sulla cenestesi. La mobilitano. Quasi tutti i mezzi del cinema possono ricondursi a una mo­ dalità di movimento, e quasi tutte le tecniche del movimento ten­ dono a\Y intensità. 101

IL CINEMA O L'UOMO IMMAGINALO

La macchina da presa invero, qualunque siano i movimenti suoi pivpi o quelli delle inquadrature successive, può permettersi di non perdere mai di vista, di inquadrare sempre e mettere al pri­ mo posto l’elemento emotivo. Essa può sempre mettere a fuoco in funzione della più alta intensità. D'altra parte le sue circonvo­ luzioni. le sue prese multiple (angoli differenti di ripresa) attorno al soggetto, effettuano ur vero e proprio viluppo affettivo. Unitamente alle tecniche cinestesiche e da esse determinate, sono Mate messe in campo tecniche di intensificazione attraverso la dilatazione temporale (rallentamento) o spaziale (primo piano). Lo schiacciamento della durata sul bacio (divina Meternità dell'i-

Tecniebe per suscitare la partecipazione affettiva Eccitazione affettiva determinata dalla fotografia animata (cinematografo Lumière)

Eccitazione affettiva determinata dalle tecniche del cinema

r Immagine Ombra — allesso - doppio < Mondo a portata di inano Movimento reale i Immaginario

f Mobilità della macchina da presa Successione di piani Perseguimento ddlelcmento emotivo Accelerazione Ritmi, tempi Musica Assimilazione di un ambiente, di una situazione che afferra Coinvolgimenti (movimento e posizione della macchina da presa) Rallentamento e rottura del tempo Fascinazione macroscopica (primo piano) Illuminazione j 1954). La musica occidentale domina nel film giapponese Knihumi ( Lettera d'amore, 1953). Segno sia di una sconcertante corrispondenza tra la musica romantica e il cinema attuale, sia della prevalente diffusione della civiltà romantica d’a­ nima propria deirOccidcnte borghese. I filistei si chiedono se il cinema abbia un’anima. Ma non ha che questo? Nc trabocca; ne va pazzo nella misura in cui l’estetica del sentimento diventa l’estetica del sentimento vtgo, nella misura in cui l’anima cessa di essere esaltazione ed effusione per diventare il giardino chiuso dei compiacimenti interiori. Amore, passione, 21. Cfr. in proposito la geniale teoria di S.M. Ejzcnstejn, V. Pudovkin e G. .Aleksandrov sulla musica del film tonoro, che “salvaguardi” la comunicazione micromacrocosmica: “Thè sound of film', in Close up, Loncon, ottobre 1928. Que­ sti principi vengono esposti anche in “Le montage et le soi*, cil.. di Pudovkin, in Film Technique and Film Acting dello stesso c in S.M. Ejzcnstejn, The Film Senne, pp. 69-112. 22. L opposizione tra epicoc romantico va considerata rei suo significato brech tiano c anche in quello con cui J. Planiol oppone il “mondo dell eterno ritorno" a quello dell*“apprendista stregone*, in L'univers du roman jxdtcier, tesi dattiloscritta, École des Sciences Politiques, Pari» 1964.

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L’ANIMA OLI. CINEMA

emozione, cuore: il cinema, come il nostro mondo, ne c tutto im­ pregnato in modo vischioso e lacrimoso. Quanta anima! Quanta anima! Si comprende la reazione contro la proiezione-identifica­ zione grossolana, l’anima gocciolante lacrime, manifestatasi nel teatro con Bertolt Brecht, nel cinema, sotto diverse forme, con Ejzenstejn, Wyler, Welles, Bresson ecc.

Tecnica dei soddisfacimento affettivo Così pieno e traboccante d’anima e, più in generale, così struttu­ rato e determinato dalla partecipazione affettiva, il cinema rispon­ de a dei bisogni.., E noi sentiamo g à di che tipo di bisogni, quelli di ogni immagi­ nario, di ogni fantasticheria, di ogni magia, di ogni estetica: quelli che la vita pratica non può soddisfare. Bisogno di sfuggire a se stessi, e cioè di perdersi nel mondo esterno, di dimenticare il proprio limite, di meglio partecipare al mondo... E cioè, in fin dei conti, di sfuggire a se stessi per ritro­ varsi. Bisogno di ritrovarsi, di essere maggiormente se stessi, di ele­ varsi all’immagine ci questo doppio che l’immaginario riflette in mille vite meravigliose, E cioè, bisogno di ritrovarsi per sfuggire a se stessi. Sfuggire a se stessi per ritrovarci, ritrovarsi per sfuggire di nuovo, ritrovarsi altrove che in noi stessi, sfuggire dentro no stessi. La “specificità del cinema, se così si può dire, è di offrire in potenza la gamma infinita di queste fughe e di questi ritrovamen­ ti: il mondo a portata di mano, tutte le fusioni cosmiche... e in più l’esaltazione nello spettatore del suo proprio doppio, incarnato negli croi dell’amore e delTawentura. Il cinema si è aperto a tutte le partecipazioni: si è adeguato a tutti ì bisogni soggettivi. Per questo è k tecnica ideale del soddi­ sfacimento affettivo secondo la formula di Anzieu e lo è diventato effettivamente a tutt i livelli di civiltà, in tutte le società. La trasformazione di una tecnica del reale in tecnica del soddi­ sfacimento affettivo non merita forse di essere studiata? Sviluppando la magia latente delLimmagine il cinematografo si è riempito di partecipazioni fino a trasformarsi in cinema. Il punto di partenza fu lo sdoppiamento fotografico, animato e proiettato sullo schermo, che provocò immediatamente un processo gene­ tico d’eccitazione a catena. Il fascino dell’immagine e l’immagine 113

IL CINEMA (> L'UOMO IMMAGINARIO

del mondo a portata di mano hanno determinato uno spettaco­ lo, lo spettacolo ha provocato un prodigioso dispiegamento im­ maginario, immagine spettacolo e immaginario hanno provocato la formazione di nuove strutture all’interno del film: il cinema è il prodotto di questo processo. Il cinematografo suscitava la parte­ cipazione. Il cinema la eccita c le proiezioni-identificazioni si ani plificano, si esaltano nell’iniropo-cosmomorfismo. Nel corso di questi processi rivoluzionari, magia, soggettività, affettività, estetica furono e restano chiamate in causa... E qui l’analisi si fa difficile. Queste nozioni non sono esse stesse rei­ ficate, semi magiche nel loro significato e nella loro utilizzazio­ ne?... Bisogna assolutamente comprendere che magia, affettivi­ tà, estetica non sono essenze, ma momenti, modi del processo di partecipazione. TAVOLA 1

Dalla partecipazione alla magia Partecipazione

Zona delle partecipazioni affettive

f Proiezione-Identificazione

An tropo - Cosmomorfismo

Zona mista

Zona magica

. Sdoppiamento - Metamorfosi

Abbiamo visto che la magia struttura il nuovo universo affettivo del cinema, che l’affettività determina il nuovo universo magico. Che l’estetica trasmuta magia in affettività e affettività in magia. Il cinema è nello stesso tempo magico ed estetico, è nello stes­ so tempo estetico e affettivo. Ciascuno di questi termini riman­ da all’altro. Metamorfosi meccanica dello spettacolo d’ombra e di luce, il cinema appare nel corso di un processo millenario di interiorizzazione della vecchia magia delle origini. La sua nascita avviene in una nuova vampata magica, ma come le ultime scosse di un vulcanismo in via d’estinzione. Occorre considerare questi 114

Effetti cinematografici (fotogenia)

Qualità affettiva delFimmagine Fenomeni atrofizzati di sdoppiamento

Autoriconoscimento (timori, vanità, piacere) Piacere del riconoscimento Maggiorazione dei fenomeni familiari Falsi riconoscimenti Effetto Kulesov

Vicini TAVOLAI! Effetti delle

partedpizioni affettive

Proiezioneidentificazioni su individui

Proiezioniidentificazione polimorfe

r Individui privilegiati f ( Lontani

Individui t diversi

Cose, oggetti Avvenimenti < Azioni Paesaggi t ecc.

Transfert antropocosmomortìci

u Cattivi

Micromacrocosmici

IL CINEMA O L'UOMO IMMAGINARIO

fenomeni magici soprattutto cowe i geroglifici di un linguaggio af fedivo. La magia è il linguaggio dcU’eniuziorie c, come vedici no, dell'estetica. Si possono dunque definire i concetti di magia e di affettività solo mettendoli in rapporto tra di loro. Il concetto di estetica si inserisce in questa sfaccettata reciprocità. L’estetica è la grande festa onirica della partecipazione, allostadio in cui la civil tà ha conservato il proprio fervore per l'immaginario, ma ha perso la lede nella sua realtà oggettiva. Paul Valéry; con un ammirevole senso delle parole, diceva: “La mia anima vive sullo schermo onnipossente c movimentato: essa partecipa alle passioni dei^wMmz che vi appaiono", Anima. Par tecipazione. Fantasma. Tre parole chiave, che fondono la magia e l’affettività nell'atto antropologico: la partecipazione. I processi di partecipazione - nei loro caratteri propri della nostra civiltà spiegano questa straordinaria genesi. Ciò che vi è di più sogget rivo - il sentimento - si è infiltrato in ciò che vi è di più oggettivo un'immagine fotografica, una macchina. Ma che cosa è diventata l’oggettività?

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LA PRESENZA OGGETTIVA

La vita soggettiva struttura il cinema e lo manda alla deriva affi­ dandolo ai grandi alisei delFimmaginario. Che cosa è diventata lungo la strada VoggeUività di un’imma­ gine che faceva dire a H. de Parvillc* “è stata di una verità straor dinaria”? Ma non bisogna piuttosto porre una domanda preliminare: qual è questa oggettività e su che cosa si basa? Perché, il 28 dicembre 1895, non si notò che il cinematogra­ fo era privo di suono, di colori, di rilievo ecc.? Perché una realtà globale e oggettiva fu immediatamente presente su uno schermo spazzato soltanto eia un fascio di ventiquattro lanci di “polvere negli occhi ” al secondo? Di quale ultimo principio di realtà firnpalpabile polvere luminosa è stata depositaria, per trasformarsi di nuovo in ^verità straordinaria”, in “stupende scene di realismo”? Quale primo principio di riconversione oggettiva abbiamo messo in azione noi stessi, spettatori? L’oggettività cinematografica

La prima base di realtà sono le forme, dette reali benché non siano che apparenti, e che, appunto perché fedeli alle apparenze, dan­ no l’impressione di realtà. Sono le forme stesse che impressiona­ no (’immagine fotografica e che questa restituisce allo sguardo. Per questo motivo la fotografia, per quanto piatta e immobile possa essere, porta g à di per sé un’impressione di realtà oggettiva. L’immagine del cinematografo è l’immagine fotografica stessa. “Film" è diventato il termine comune per designare la pellicola fotografica c quella cinematografica. Se la fotografia, per essere co­ 117

IL CINEMA O L’lJOMi > IMMAGINARIO

sì formalmente oggettiva, è meno reale del cinematografo - senzs con ciò essere più irreale (al contrario, come vedremo) - ciò è do voto al fatto che quest'ultimo aumenta la propria realtà mediante il movimento e la proiezione sullo schermo. La proiezione del movimento restituisce agli esseri e alle cose la loro mobilità tìsica e biologica. Ma nello stesso tempo essa ap­ porta molto di più. La fotografia era fissata in un istante eterno. // movimento in­ trodusse la dimensione del tempo: il film ha uno svolgimento, una durata. Nello stesso tempo le cose in movimento realizzano lo spazio che esse percorrono e attraversano, e soprattutto si realizzano nello spazio. Come Michette ha dimostrato nel suo articolo di fonda mentale importanza, il movimento restituisce alle forme animate sullo schermo l’autonomia e la corporeità che esse avevano perso (o quasi) nell’immagine fotografica. “L’opposizione tra il movi mento della figura e l’immobilità dello schermo agisce... come fat­ tore di segregazione e libera l’oggetto dal piano in cui era integra to. Si fa in qualche modo sostanza.♦. Diventa una cosa corporea." L’immagine che si muove si svincola dallo schermo: il movimento determina la sua realtà corporea. La proiezione cinematografica libera l’immagine dalla lastra e dalla carta fotografica come dalla scatola di Edison, proietta i corpi svincolati da ogni aderenza se non quelle impalpabili dei raggi luminosi che attraversano la sala, e accentua con ciò le segregazioni e le sostan?ializzazioni suscita te dal movimento. Ma la proiezione non fa che completare Pope ra del movimento. Il movimento è la potenza decisiva di realtà; in esso, per mezzo di esso, tempo e spazio sono reali.1 2 La coincidenza della recdtà del movimento e deU’tfp/M/WZrf del le forme determina la sensazione della vita concreta e la pereezio ne della realtà oggettiva. Le forme conferiscono la propria strut­ tura oggettiva al movimento e il movimento dà corpo alle forme. Uniti, essi determinano immediatamente una verità oggettiva molto più viva di quanto non farebbero non solo le torme prive di 1. A. Michette van den Bcrck, “Le caractère de réalité des projections cinéniaio graphiques*. in Rame Internatiofwle de 34, pp. 257 258. 2. Nd caso in cui il movimento non possa manifestarsi nello spazio, gli effetti so no annullati o atrofizzati: così quelle corse viste di fronte (soprattutto al teleobictti voi in cui i cavalli sembrano contemporaneamente agitati ammucchiati e immobili proprio perche il movimento non si sposta sullo schermo.

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LA PRESENZA (XXJETIIVA

movimento, ma anche il movimento che accompagna forme ap­ prossimative o stilizzate (disegni animati). Questa verità oggettiva risveglia alcune partecipazioni affetti ve collegate alla vita reale: simpatie, timori ecc. (ciò che Michotte chiama “emozioni realmente provate*1), c queste partecipazioni consolidano, aumentano a loro volta la verità oggettiva. Le cose hanno corpo, dunque esistono, dunque hanno veramente corpo. Da qui le prime emozioni alParrivo del treno o del cavallo al galoppo. Veniva con ciò realizzata la prova dell'immediata stupe­ fazione di realtà provocala dal cinematografo. Verità oggettiva, impressione di realtà: precisiamo. Ciò significa che i processi della percezione pratica o oggettiva entrano in gioco nella percezione delle immagini cinematografiche. La percezione pratica considera le cose fisse e costanti nella loro ma­ terialità corporea, e cioè irrevocabilmente identiche a se stesse. Le cose oggettive obbediscono, non alle immagini della retina in cui appaiono, spariscono, si ingrandiscono, si rimpiccioliscono, non alle ubiquità e alle metamorfosi, ma alla loro essenza e al loro carattere permanente, alla propria identità^ e con ciò ci siamo lasciati sfuggi­ re la parola fondamentale dell’universo(civilizzato) dall’uo­ mo (parola fondamentale pure dell’universo poliziesco in cui l’uo­ mo munito di carta d’identità diventa oggetto) Questa permanente identità delle cose a se stesse rappresenta, nello stesso tempo, la lo­ ro oggettività e la loro razionalità, in seno a un universo esso stesso razionale, perché w//o, identico a se stesso e costante nelle sue leggi. 11 processo fondamentale della percezione oggettiva è quello della legge della costanza che riconduce le forme apparenti, sem­ pre variabili a seconda della distanza o della posizione dell’osservarore, a una specie di misura media che non c altro che la loro scala e la loro forma razionale. La Gestalt ci ha fatto riconosce­ re che la dimensione, la forma, rorientamento, la posizione degli oggetti nel campo visivo tendono a rimanere costanti anche se ci avviciniamo a essi o ce ne allontaniamo, malgrado i movimenti incessanti degli occhi, della testa, i cambiamenti di posizione del corpo. “Un uomo visto a dieci metri conserva ai nostri occhi la sua altezza reale, e Paltczza apparente — di 15 ccntimcti i chea secondo la scienza - è inconscia.”5. P. Qtiercy, Les hallucinations, p. 25.

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IL CINEMA O L'UOMO IMMAGINARIO

La costanza agisce immediatamente e immancabilmente sulle forme apparenti del mondo reale. Sono quelle che il cinematografo riproduce. Per questo esse vengono immediatamente riconvertite in percezione oggettiva. Per questo stesso motivo esse impongono una percezione oggettiva. Effettivamente, fin dalla sua apparizione, il cinematografo ri­ sponde subito alle esigenza essenziali della percezione pratica e b legge della costanza entra in gioco automaticamente. Prima ancora del cinematografo, H. de Parville aveva ingran­ dito i pochi centimetri della minuscola immagine del kinetoscopio di Edison a questa visione "standard*’, questa media psichici che si chiama visione reale: “ Diurno, il barbiere e i suoi clienti. È come esserci. È traboccante di verità. Manca poco che non si en­ tri per farsi radere”. Lo stesso H. de Parville - e lutti gli spettatori con lui - rimpicciolivano qualche tempo dopo alla stessa media oggettiva gli enormi volti che apparivano in primo piano {Entrée du train en gare de la Ciotti). Esiste una differenza da microscopia a tnacroscopia per lo spettatore deHïiltima fila e quello della prima? “Le figure sullo schermo sembrano avere le dimensioni della realtà... anche quan­ do le si vede dal fondo del à sala/’4 Eppure una scatola di fiammi­ feri tenuta con il braccio teso davanti a un occhio, mentre l’altro è chiuso, copre completamente lo schermo per lo spettatore che sta in fondo alla sala mentre, per coloro che si trovano nelle prime file, copre solo un frammento di schermo appena visibile. Così, e benché peraltro la grandezza - apparente o reale - dell'imma­ gine possa avere la sua importanza, la costanza oggettiva resiste alla distanza dello spettatore dallo schermo, nonché alle dimen­ sioni dello schermo. La fotografia è molto meno adatta a ristab.lire la costanza; de ve evitare le acromegalie o le apparenti mostruosità suscitate dal ravvicinamento eccessivo di una mano, di un piede (inquadratura dall'alto), di una testa (inquadratura dal basso). I movimenti di un membro verso l'obiettivo cinematografico, come le riprese dallai to e quelle da terra su persone in movimento, non infastidiscono né dispiacciono: le deformazioni non sono affano percepite o lo 4. R.C, Oldfidd, "La |xrr BIBLIOGRAFICO

La nostra bibliografia non può inoltre venire classificata logica­ mente secondo Poi dine dei capitoli della nostra opera, Quest'ordi­ ne non corrisponde alla classificazione, implicita o esplicita, secon do cui vengono abitualmente suddivisi i problemi. Perciò siamo ricorsi 3 un compromesso. Le sezioni di questa bibliografia corri­ spondono in modo ibrido, da un lato, al piano dell'opera c, dall’al­ tro, alle classificazioni abituali. La classificazione che segue deve quindi essere vista come quel­ la che presunta, ai nostri occhi, il minimo di inconvenienti. Con tutto ciò, non abbiamo potuto evitare una certa arbitrarie­ tà nella ripartizione delle opere citate, dal momento che gli stessi titoli possono sovente venire citati in più categorie, pur senza cor­ rispondere esattamente ad alcuna di esse.

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