Rappresentare. Questioni di antropologia, cinema e narrativa 8849136838, 9788849136838

Che tipo di attività è il "rappresentare"? Ininterrottamente, rappresentiamo mondi e fantasie, in modi comples

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Rappresentare. Questioni di antropologia, cinema e narrativa
 8849136838, 9788849136838

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LEXIS Biblioteca di scienze umane

Rappresentare Questioni di antropologia, cinema e narrativa a cura di

Adriana Destro

CLUEB

LEXIS

Biblioteca di scienze umane

Rappresentare Questioni di antropologia, cinema e narrativa

a cura dì

Adriana Destro

©2012 by CLUEB Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna

Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall'alt. 68. commi 4 e 5, delta legge 22 aprile 1941 n. 633. Le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi. Cen­ tro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali. Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web w w w.clearedi .org.

Rappresentare. Questioni di antropologia, cinema e narrativa / a cura di Adriana Destro. Bologna : CLUEB. 2012 xiv-167 p. : 21 cm (Lexis. Biblioteca di scienze umane) ISBN 978-88-491-3683-8

In copertina: Olio su tela. “Fiori d’acqua” di Sara Pesce. Progetto grafico di copertina; Oriano Sportelli (www.studionegativo.corn)

CLUEB Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna 40126 Bologna - Via Marsala 31 Tel. 051 220736 - Fax 051 237758 www.clueb.com

INDICE

Introduzione, di Adriana Destro........................................................

VII

Circoscrivere e rappresentare il campo. Luoghi persone e modi di una ricerca in Perù, di Francesca Ferrucci ...............................................

1

Poetiche del represso? La mamma ebrea e il gigantismo del soggetto in Philip Roth e Woody Alien, di Sara Pesce ......................................

23

Il patriarcato secondo Wodetu. Riflessioni etnografiche su un concet­ to sentimentale, di Valentina Peveri ...................................................

35

Rappresentare e testimoniare. Etica del lavoro e della povertà. I Wichf di Misión Nueva Pompeya (Chaco, Argentina), di Zelda Alice Fran­ ceschi ....................................................................................................

71

Abitare con la divinità-dio. Processi di rappresentazione e di costru­ zione di senso, di Francesca Sbardella..............................................

99

Narrare i fenomeni religiosi. Orizzonti espressivi e sociali delle “pro­ fezie”. di Adriana Destro...................................................................

119

Rappresentazioni indigene: profili e tecniche del "salvataggio ” etno­ grafico. Dead Birds di Robert Gardner, di Mauro Bucci ...................

143

Gli autori...........................................................................................

165

Introduzione Adriana Destro

Le rappresentazioni modellano e perfino creano la realtà. Gli atti di tut­ ti i giorni sono, senza eccezione, all’origine del rappresentare, del raf­ figurare. del descrivere. Ogni fatto umano scatena fervide immagina­ zioni e non meno intense immagini e descrizioni. È come dire che gli attori sociali sono indotti a rappresentare sé e gli altri, il passato e il futuro, i successi e le catastrofi in cui sono immer­ si. Hanno bisogno di creare immagini della propria e altrui esistenza, di costruire quadri ordinati di ciò che avviene attorno a loro, che li ri­ guarda o che solo li interroga. Tutti i soggetti sociali rappresentano e so­ no rappresentati secondo specifiche consuetudini e necessità esisten­ ziali. Il rappresentare, attivo e passivo, consapevole, programmato o spon­ taneo è una esigenza assoluta della vita stessa. Le strategie rappresen­ tative, nelle analisi specialistiche, sono qualcosa di diverso, ma altret­ tanto frequente e cruciale. Alla fine di una ricerca si fa sempre strada la necessità di rappresentare, con atti comunicativi più o meno con­ venzionali, ciò che è stato osservato o vissuto, i risultati che sono stati ottenuti o ciò che è rimasto oscuro. Con una certa regolarità, il passaggio dalla fase investigativa a quel­ la espositiva avviene secondo una logica dettata dalle tematiche ana­ lizzate, ma anche dalle regole teorico-metodologiche convenzionali che l’autore ha deciso di seguire. Naturalmente l’ambiente culturale del­ l’autore, il contesto fisico o etico in cui lavora, il suo percorso perso­ nale sono condizioni influenti. Determinano il profilo stesso della rap­ presentazione. L’arte del rappresentare fa ricorso - a livello scientifico, artistico o semplicemente esistenziale - a metafore, figure retoriche e mitologiche, a modelli e classificazioni. E una attività non sempre lineare, imme­

Vili

diata e spontanea. In molti casi, consiste nel visualizzare sensazioni e concezioni che non hanno profili netti e stabili, o che sono effetto di ri­ frazioni incrociate. Anche se si traduce in atti espliciti, in gesti o paro­ le, non si coglie sempre come racconto o come storia esistenziale. Af­ fiora e si svela come causa sollecitante, come origine di scatenamenti emotivi. L’idea che sta alla base dei contributi che si presentano è quella di comunicare i risultati di precisi percorsi d’indagine (storico-antropo­ logica, cinematografica, narrativa) evitando in tutti modi valutazioni o comparazioni. Le situazioni rimangono distinte così come i punti di vi­ sta di chi ha condotto le ricerche. La disparità dei casi e dei linguaggi non è però d’impedimento alla comprensione di un filo tematico. In al­ tre parole, esiste una tacita intesa sui fini tra chi fa campo e chi fa ana­ lisi filmica o letteraria.

In questa prospettiva, appare interessante l’analisi di Francesca Fer­ rucci che parla di lavoro di campo fra migranti peruviane. Il suo sag­ gio mette in risalto vari versanti di esperienze e di progetti di disloca­ zione a lungo termine delle donne peruviane. Contiene un’attenta let­ tura delle connessioni e degli intrecci, entro le vicende migratorie, tra “dinamiche cosiddette transnazionali e quadri familiari”. L'autrice si propone di ri-concettualizzare alcune modalità della ri­ cerca personale, che talora vengono considerate come acquisite o che sono utilizzate in modo quasi automatico. Ferrucci riflette su alcune condizioni esistenziali che si ripercuotono sulla presentazione dei ri­ sultati etnografici. Discute sui modi di tracciare l’ambiente di analisi e sullo sforzo di tradurre ciò che è stato rilevato nei termini propri di una rappresentazione etnografica. Il suo sguardo si sofferma in modo par­ ticolare sulle relazioni dirette e personali tra ricercatrice e soggetti in­ dagati che l’hanno accolta nella cerchia degli amici e dei parenti inti­ mi. Il discorso di Ferrucci tiene in conto di una differenza fra livello analitico e rappresentativo e quello umano ed etico. La relazione fra chi fa la ricerca e chi ne è oggetto non è. di fatto, sempre lineare e tra­ sparente. È per di più asimmetrica, tanto che sul campo si creano “con­ dizioni impari”. Esistono, afferma Fenneci, differenti capacità di capire ciò che si sta facendo, che tipo di convenzioni si stanno istituendo o selezionando. La consapevolezza del valore e del senso delle rileva­ zioni, alla fine, appartiene solo alla ricercatrice con evidenti conse­ guenze a livello di rappresentazione di una “vita condivisa”, insolita e sbilanciata, quale è quella che ogni lavoro di campo impone.

IX

Nel saggio di Sara Pesce s’intrecciano riflessioni sul cinema e sulla narrativa ebraico-americana. La sua indagine si concentra sulle con­ traddizioni insite nel “rapporto tra l'individuo e la sua rappresentazione pubblica" come effetto di costante confronto fra caratteri ebraici e ame­ ricani. L’autrice pone le strategie della auto-rappresentazione di Woody Alien, nel film Oedipus Wrecks (1989) e di Philip Roth, nel romanzo Portnoy’s Complaint, (1969) alla base dell’originalità del fenomeno ebraico americano, che si esprime proprio in ambiti di massima affabulazione di un vasto pubblico. Questo fatto allaccia un romanzo e un film solo apparentemente distanti tra loro. Le due opere sono implicate, in­ fatti, in un lungo processo di negoziazione della celebrità, cui parteci­ pano i loro autori, riverbero di un fenomeno assai più allargato. Il pro­ cesso affonda le radici nella progressiva riconquista, conseguente agli stravolgimenti del movimento dei civil rights che ha coinvolto varie mi­ noranze americane, di una propria matrice culturale. Il saggio di Pesce mette in luce le ambiguità e le tensioni tra occultamento e ostentazione che nascono fra il protagonista (del film o del romanzo) ed il racconto di sé in cui egli è impegnato. Le tensioni hanno esiti differenti nel lin­ guaggio di Alien e di Roth. Sono interessanti soprattutto, afferma l’autrice, perché essi mettono in luce 1'esistenza di direzioni niente affatto esauribili in ciò che a lungo è stata definita la poetica del represso. Nei due autori Liperbolica, vociferante madre ebrea - \ayidishe manie - diventa dispositivo per portare vicende personali e riservate dall’“intimo alla visibilità pubblica". L’onnipresente madre ebrea è dunque un espediente narrativo utilizzato per distillale una politica del discorso, letterario o filmico, riguardante la definizione di sé. E uno specchio deformante e rifrangente della mente del figlio. Diventa epi­ centro delle forze che conducono dalla dimensione familiare a quella pubblica, fortemente orientate verso l’affermazione di sé e capaci di reinventare e riformulare consapevolmente il processo dell*assimila­ zione. È così che la presenza della madre ebrea consente di metaboliz­ zare e trasformare in intrattenimento la vergogna e il disagio che i suoi figli provano nell'auto-esporsi. Il termine patriarcato è stato spesso utilizzato, sostiene Valentina Peveri, per rappresentale una generica subordinazione delle donne. Ri­ mane ancora presente fra le categorie degli stessi specialisti ed è in gra­ do di orientare alcune interpretazioni dell’oppressione femminile. L’au­ trice apre riflessioni e prospettive attorno ad un caso di donne etiopi (Hadiya), mettendo a confronto le immagini del potere femminile che

sono narrazioni di “vicende a uso e consumo di un pubblico occidenta­ le” e quelle provenienti dai protagonisti reali e personalmente incontra­ ti. Peveri non difende un’etnografia sentimentale, non si appoggia sul­ l’introspezione o su forme insolite di narrativa. Insiste invece sulle que­ stioni del dominio e della resistenza a esso, sulle condotte dei soggetti reali e sull’intreccio delle loro strategie. Passando in rassegna un vasto panorama di discussioni e teorizzazioni, l’autrice affronta con decisio­ ne un punto centrale: chi parla di oppressione e “denuncia a gran voce l’esclusione femminile dal mercato del lavoro e dalla partecipazione pubblica” fa di questo discorso uno strumento polemico ma non coglie la realtà delle situazioni storiche. Trascura la capacità femminile di non arrendersi e la decisione delle donne di agire a proprio vantaggio. La mancanza di conoscenza delle condizioni reali dipende dalla diffusione e sonorità dei sistemi normativi che non sono in grado di inquadral e i profili dei soggetti subordinati, delle donne in particolare. E non ne col­ gono il senso. Per questa ragione, spesso, le donne apparirebbero, se­ condo l'autrice, senza potere e la loro mobilità sarebbe spazialmente e simbolicamente limitata dall’autorità patriarcale maschile. Le donne Hadiya, proprio perché attive, sono percepite dagli uomi­ ni in termini ambivalenti: sono custodi dei valori famigliari, ma sono anche compagne da mettere alla prova per conoscere la loro fedeltà e disinteresse. Le donne di fatto si dedicano “poco e male a lenire il sen­ so di vulnerabilità espresso dai maschi”. Dal momento che esse vivo­ no circondate dai parenti del marito, temono invece l’esposizione e controllano l’ambiente in cui muoversi. La coltivazione di enset (alimento e risorsa economica di base) dà un complesso profilo sociale al mondo femminile Hadiya. Il regime pro­ duttivo fa percepire dinamiche disinvolte e intraprendenti delle donne, che non sono da vedere solo come basate su una relazione forte con la fa­ miglia e la domesticità. L’enset non ha a che fare solo con il cibo. La sua produzione influisce su strumenti e patrimoni sociali e incide sulla rap­ presentazione delle soggettività. In questo senso, il lavoro etnografico diventa l’occasione che consente di percepire meglio le mosse e le mi­ sure delle mogli, il cammino matrimoniale scaltramente da loro gestito, le garanzie che le donne cercano nel marito. La ricerca di campo e le raf­ figurazioni che Peveri fa delle donne Hadiya, alla fine, diventano una sfi­ da intellettuale che mette in discussione l'idea che la dominazione ma­ schile “possa determinare il comportamento delle donne”. Ciò che ser­ ve, aggiunge fra l’altro l’autrice, è cambiale concetti e spingere il sape­ re verso territori tradizionalmente esclusi perché “ritenuti insensati”.

XI

Nel lavoro di Zelda Alice Franceschi, occupa una posizione essen­ ziale il confronto tra le testimonianze ascoltate durante il lavoro sul campo (tra il 2004 e il 2011) e un resoconto scritto dell’ispettore José Elias Niklison (di circa cento anni fa). L’autrice si dedica alla storia dei Wichi (Chaco, Argentina). Questa popolazione vive una condizione di tensione e di sfida fra tradizione e modernità. L’etnografìa di Franceschi tiene conto di que­ sta situazione in evoluzione ma soprattutto mette in mostra indici spe­ cifici che gli indigeni rivelano: ricordi delle piantagioni, percezione della povertà, gioia per ciò che è stato ricevuto, fatiche e sofferenza. La complessa storia di queste popolazioni viene osservata attraverso la lente di avvenimenti contingenti (restituzione della tena agli indigeni, scolarizzazione, abbandono di pratiche tradizionali). Il saggio, dando un profilo complessivo dell’investigazione, fa scorrere lo sguardo dal­ le fonti storico-etnografiche alle storie degli individui che hanno se­ gnato le vicende umane e culturali dell’area. Gli indigeni hanno imparato a leggere e a scrivere attraverso “i te­ sti sacri e la loro traduzione in lingua vernacola”, specifica Franceschi, ed hanno manifestato il desiderio di porre per iscritto le proprie me­ morie, le vicende delle famiglie e delle terre. Aspirano a divenire i de­ positari della propria storia e combattere l’oblio. I loro ricordi hanno permesso di “iniziare una riflessione sulle complicate istanze che ven­ gono messe in atto” nel rappresentare stati difficili e dolorosi (sempre evidenti nei corpi, negli oggetti e in altri fattori). Una precisa memoria si è costruita attorno agli ingenios. piantagioni e luoghi di lavoro, in cui erano impiegati gli indigeni e in cui si creavano, a dispetto di fati­ che e di sacrifici, legami di condivisione, di amicizia, di mutuo soc­ corso. Questa memoria ruota attorno all’allegria e all’abbondanza, al senso di unione e dello stare insieme piuttosto che sulle pene, le coer­ cizioni e le condizioni violente subite. Il resoconto di Niklison offre informazioni su molti aspetti di queste traiettorie umane e sociali, sul­ la retribuzione dei lavoratori, sui metodi per trattenerli nei luoghi di la­ voro. I racconti degli informatori si fermano invece su ciò che gli indi­ geni ottenevano sotto forma di doni nella “distribuzione pubblica per sorteggio” che punteggiava la vita dei lavoratori; rivelano “meraviglia e stupore per quanto veniva loro dato”. L’autrice, infine, si sofferma sulle questioni della costruzione di comunità aborigene, sui sentimen­ ti che legano passato e presente. Parla di “tempo interiore” in cui il do­ lore e l’oppressione potrebbero essere accostabili a “spazi riparatori e di crescita comune”.

XII

Francesca Sbardella analizza alcuni processi di costruzione della vita monacale e dei risvolti comportamentali e mentali riguardanti il nesso umano-divino. Rispetto all’umano, il divino non è fisicamente visibile e raggiungibile nel regime giornaliero e negli spazi monacali. Vi si allude tuttavia costantemente negli atti religiosi, scanditi da tem­ pi e regole precise. Su questi sfondi o presupposti, l’autrice descrive 1'esistenza di alcuni monasteri francesi di clausura. L’ambiente della clausura si basa infatti sulla credenza di una presenza della divinità, sulla fiducia in esistenze divine reali, con le quali l’individuo entra in relazione e in sintonia. Intorno a tali esistenze ruotano pertanto molte concezioni e pensieri che tendono a confermare questa credenza e a garantire la continuità dell’esperienza monacale. Anzi, la presenza di­ vina, nei soggetti religiosi “si articola in immagini e entità” che rimarrebbero altrimenti astratte o non percepibili. Nel processo rappresentativo, si rivela centrale l’elaborazione e la concettualizzazione che ruota attorno ad “un’assenza”. Nei casi esa­ minati da Sbardella, emerge una “finzione di dialogo” che si sviluppa attraverso atti devozionali e preghiere regolamentari. Questa finzione diventa abito e paludamento culturale. Crea uno stato psichico specia­ le e una modalità di vita difensiva. L’interlocutore divino, alla fine, è come se fosse presente. Nello spazio claustrale si crea un’area riserva­ ta e ben custodita, in cui esso è percepito come entità viva e concreta. Il luogo chiuso diventa l’ambito in cui possono “realizzarsi relazioni personali e scambi interpersonali” fra dio e uomo. L’analisi di Sbardella è, di fatto, una sperimentazione che lavora sulla soggettività, sulle esigenze ed emotività dei singoli. Dal contatto con la vita reale dei monasteri, tale sperimentazione trae vigore e giu­ stificati supporti per dare spessore alla soggettività stessa, al suo valo­ re diagnostico e propositivo.

All’inizio della sua presentazione Adriana Destro si chiede: come si evidenziano, si visualizzano e dunque si “narrano i fenomeni religio­ si”? L’autrice è convinta che, un po’ paradossalmente, la scrittura ab­ bia un ruolo importante nella ricostruzione dei processi religiosi di ogni ordine e portata. La rappresentazione dei fenomeni religiosi, vissuti o rilevati, sperimentati o riferiti, quasi per necessità, passa spesso attra­ verso la scrittura (che è sempre una forma semplificata e manipolata della trasmissione del reale). Un percorso religioso, in quanto atto primario dell’uomo, è soven­ te raffigurato in quadri o testi stabili e a volte intoccabili. I testi sacri

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sono ben configurati, chiusi. Tale percorso, anche se recuperato solo attraverso o in atti di scrittura, ha al suo centro lo sforzo dell’umano di raggiungere il divino. Malgrado infinte debolezze e incertezze, l’uo­ mo s’interroga e spera fortemente in un contatto col mondo della divi­ nità. Nell’infinito campionario di situazioni in cui prende vita o si avve­ ra lo sforzo umano verso la divinità, Destro sceglie di gettare il pro­ prio sguardo sulla profezia. Benché il fenomeno profetico abbia confi­ ni culturali e simbolici frastagliati, offre un buon terreno per elaborare qualche modello interpretativo. In particolare, l’elaborazione è utile se il modello è agganciato alla realtà dell’uomo, al suo stato d’insuffi­ cienza e dì incompletezza. Su questa convinzione, l’autrice afferma che la rappresentazione dei sentimenti e dei pensieri religiosi, al di là del ca­ so profetico, non è stabile: varia “a causa della natura delle narrazioni, delle memorie" oltre che a causa della mutabilità delfesistenza. Destro appoggia la sua riflessione su uno schema o modello (arti­ colato in stato di crisi, denuncia, intervento-protezione, risanamento) che fa risaltare le radici della profezia e i suoi possibili risultati o esi­ ti. Attraverso la modellizzazione è possibile esprimere tensioni, stati emotivi e stili degli attori umani. E possibile anche riconoscere il bi­ sogno o il disagio umano come fattore scatenante della funzione stori­ ca del profeta Gesù. In tal senso, l’analisi di Destro individua due mo­ menti o due situazioni chiarificatrici della attività profetica gesuana. La prima è l’ingresso di Gesù in Gerusalemme e la seconda è la sua vi­ sita al Tempio, accompagnata dalla cacciata dei mercati e dei cambia­ valute. Gli episodi contengono rappresentazioni di gesti e parole di Ge­ sù, reazioni della folla, dei seguaci. Riportano o esplicitano le opinio­ ni delle autorità religiose giudaiche sul fatto che Gesù osa compiere gesti provocatori e di denuncia. Il tutto ha il sapore di un’ampia rico­ struzione o di un complesso svelamento di un evento profetico, di un processo che mira al risanamento del popolo d’Israele. Sono le narra­ tive evangeliche, i testi consacrati - né sicuramente storici, né omoge­ nei - che costruiscono la profezia, la concepiscono in funzione di pre­ cisi obiettivi e la “pongono" nelle mani di Gesù.

La combinazione di tecniche antropologiche e di analisi cinemato­ grafiche costituisce il punto di avvio del discorso di Mauro Bucci. Le convenzioni che stanno alla base di questa combinazione sono esem­ plificate nello studio di un film etnografico, Dead Birds di Robert Gardner (1986), che si concentra sulla popolazione Dani della Nuova

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Guinea Occidentale. Il film indaga le pratiche di “guerra rituale", in­ tessute nella trama delle ordinarie attività agricole, usanze funebri, dan­ ze tradizionali, uso del cibo. Le immagini del film, che è parte di un’ampia produzione di Gardner, sono accompagnate da un commen­ to che descrive le situazioni sott’occhio dell’antropologo-cineasta e dunque introducono interpretazioni e visioni del cineasta. Nelle intenzioni della spedizione che sta alla base dell’indagine re­ lativa agli indigeni Dani, molto importante era preservare il più possi­ bile “lo status quo della popolazione’’, i suoi costumi originali. Ciò con­ duce Bucci a sostenere che questo film è collocabile sullo sfondo del­ l’etnografia di “salvataggio" di culture incontaminate e in via di estin­ zione. 11 tema del salvataggio è un argomento che ha interessato molti antropologi americani famosi, da B. Malinowski a M. Mead, a J.Clif­ ford, e attorno al quale si sono sedimentati stereotipi, visioni statiche sul “nostro passato". Le visioni cresciute attorno al concetto di “salvataggio" hanno spes­ so alterato la rappresentazione etnografica, essendo il risultato d’ine­ vitabili intromissioni e alterazioni della realtà, introdotte dai ricercato­ ri. In questo senso, vale la pena ricordare che in antitesi con altri auto­ ri Gardner, dice Bucci, ha fatto “la scelta di celare ai nativi il funzio­ namento dei dispositivi di registrazione visiva" quindi il significato stesso del suo lavoro. Avrebbe scelto questa strada allo scopo di salva­ guardare e rispettare lo stile, l’immaginazione, la spontaneità dei Da­ ni. Ciò che mostra Dead Birds non sarebbe dunque il risultato di rico­ struzioni programmate, di atti compiuti “sotto richiesta del cineasta", anche se Gardner a volte interviene sulla registrazione per migliorare il prodotto filmico. Bucci evidenzia l’ambiguità della didascalia finale di Gardner, in cui egli definisce storia vera la sua opera e sostiene di non aver inventato né fatti, né ruoli. L'interesse per una popolazione originale e isolata, porta dunque Gardner a rappresentarla in un tempo statico, sempre uguale a se stes­ so. Egli, alla fine, racconta una realtà che sarebbe legata ad una inve­ rosimile “perenne reiterazione degli stessi riti". Malgrado ciò. ritiene Bucci, i documentari di Gardner possono aprire strade nuove alla raf­ figurazione di vite esotiche e lontane, che sono utopisticamente giudi­ cate e commentate come “intatte". Bologna, luglio 2012

Circoscrivere e rappresentare il campo. Luoghi, persone e modi di una ricerca in Perù Francesca Ferrucci

«It is exceptionally difficult to address questions of method for an­ thropology at large unless one reduces the field to a caricature itself». Così John Comaroff (2005. 36), introducendo alcune brevi note sul­ l’uso dell’etnografia e del metodo qualitativo che ne è la cifra. Espri­ mendo le complicazioni e le complessità insite nel progetto e nella re­ sponsabilità di suggerire un approccio che sia coerente e valido, anche solo in astratto, nell'ambito di una materia tanto diversa. Questioni di tecniche e di rigore, di possibilità e di sfide nella pratica della ricerca antropologica. Questioni di campo dunque; dei procedimenti, della rap­ presentazione dei contenuti empirici e simbolici e del campo. Pur nel­ le varie accezioni e nei significati che ha potuto assumere nel corso della storia e dell’esercizio della disciplina, esso resta infatti l'attività centrale e l’argomento qualificante dell’antropologia. In merito al tema, ed ai problemi metodologici ed espressivi che più o meno direttamente vi si ricollegano, questa è l'occasione di ripensa­ re alla valenza, alle possibilità e alla portata del lavoro che è stato svol­ to nelle circostanze di una recente indagine in Perù. Un’esplorazione delle connessioni tra vicende migratorie, dinamiche cosiddette tran­ snazionali e quadri famigliari volta a rendere in primo luogo la pro­ spettiva di chi resta al paese di partenza. L’obbiettivo era verificare, a livello locale, quali fossero le ricadute della mobilità esterna di uno o più membri sulle strutture e sulle dinamiche, sui codici e sui ruoli del nucleo parentale originario. E individuare poi. sul piano complessivo, quali reti, quali rituali o pratiche di connessione funzionassero tra co­ loro che vanno e coloro che rimangono: quali discorsi e quali culture della migrazione si sviluppassero e si condividessero. La famiglia scru­ tata attraverso la migrazione, pertanto, e la migrazione come la condi­ zione che consentisse di inquadrare e rendere l’esperienza di gruppi

concreti e situati di persone legate tra loro da vincoli più o meno diret­ ti e complessi: per osservare, in definitiva, la relazione tra il movimento fisico ed esistenziale di alcuni da un lato, le dinamiche ordinarie e quel­ le del cambiamento parentale dall’altro. Al centro della ricerca tre famiglie peruviane e dunque le loro espe­ rienze di migrazione. Esperienze dirette o mediate di persone che so­ no singolarmente e collettivamente, in una certa posizione rispetto al­ la situazione sociologica determinata: tutte variamente rapportate alla situazione migratoria cioè e quindi visibili e rappresentabili nei termi­ ni della loro relazione con essa. Ciascun gruppo conta infatti alcuni dei suoi all’estero, partiti negli ultimi vent’anni in periodi diversi e con di­ versi progetti, chi per il Sud America chi per l’Europa, e attualmente stabiliti tra Argentina, Spagna ed Italia1. La migrazione, nei casi in esame, è stata dunque la cifra di alcuni riferimenti e scorci, di alcune proiezioni e possibilità della famiglia, come dei singoli al suo interno. Perché oltre ad essere e proprio per essere incorporata nella cronaca e nella dinamica sociale peruviana (Altamirano, 1992, 1996: Paerregaard, 2010), lo è nella struttura e nella storia degli insiemi parentali che si sono considerati. I parenti si distinguono invero, con ruoli primari e secondari, per tutto il corso migratorio e sulle sue diverse sponde. Per essere inclusi o esclusi nei progetti migratori individuali o collettivi, per facilitarne od ostacolarne le tappe ed i passaggi. Per rendere ope­ ranti o al contrario disattivare le reti di trasmissione e di comunicazio­ ne nel circuito familiare transnazionale. E ancora come base reale ed eventuale nel paese di arrivo e come negoziatori, responsabili e custo­ di di chi e di cosa resta in quello di origine. Tre famiglie, quindi, presso le quali ho vissuto in alcune occasioni, e che ho regolarmente frequentato in altre. Ognuna con un’impronta specifica e con specifiche forme di coordinare le relazioni al loro in­ terno ed esterno. Tra di esse, così come dentro ad esse, territorialmen­ te e biograficamente ci sono una serie di punti di convergenza e di di­ stanza. Perché sono tutte accomunate da una stessa origine e prove­ nienza. da lunghe e reciproche conoscenze e in gran parte anche dalle

1 I tre casi in studio, quando si considerino le modalità ed i tempi delle partenze, le reti e gli arrangiamenti all'interno del gruppo familiare, non sfuggono a modelli mi­ gratori normalmente riconosciuti nel Perù ed alle logiche di massima che li animano: una migrazione dei ceti medi o medio-bassi, d'origine urbana o medio rurale. E anco­ ra. soprattutto, un corso familiare e marcatamente femminile della migrazione che è ap­ punto quello tipico peruviano.

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loro storie di migrazione: dall’analogia di alcuni percorsi e dalla corri­ spondenza di certe destinazioni2. Una dimestichezza ed una pratica, in­ somma, che le associano nella vita e nell’indagine e che, secondo di­ verse modalità e frequenze, coinvolgono chi è rimasto in Perù e chi in­ vece è partito. Ed è appunto da chi è partito che l’indagine si è messa in moto; da tre donne, per la precisione, appartenenti ognuna ad uno dei tre grup­ pi sopra nominati e da tempo ormai in Italia, dove risiedono regolar­ mente e dove io le ho conosciute3. Non le uniche tra i loro parenti ad essere emigrate, né le prime. Senz’altro le meglio disposte a mettermi a parte delle loro cose private e ad introdurmi, seppur da lontano, nel­ le loro personali reti socio-parentali. I miei primi e solidi agganci, in al­ tre parole, con le realtà nelle quali mi sarei introdotta e che avrei os­ servato. Nella varietà delle situazioni e delle visioni etnografiche, quelle che si illustreranno impongono la ri concettualizzazione di alcune proce­ dure ed indicazioni che si danno, spesso e volentieri, per scontate. Si ri­ fletterà dunque sui modi (su certi modi particolari) di costruire l’am­ biente dello studio e sullo sforzo di tradurlo poi e specificarlo nei ter­ mini propri o appropriati dell’antropologia; e si rifletterà inoltre sulle maniere di circoscriverne le esperienze, e di rappresentarle. Esperien­ ze di relazioni, sostanzialmente, che nel mio caso si sono articolate su territori diversi e di diversa entità. Rappresentazioni, quindi, che han­ no tentato di accordare figure e ruoli determinati e ne hanno accompa­

2 La comune origine è rappresentata dal pueblo rurale di Chiclin. nella regione set­ tentrionale de La Libertad. dove molti delle tre famiglie sono nati e cresciuti. I percorsi di cui si dice nel testo si sono inizialmente differenziati con il movimento interno di al­ cuni di loro da quel villaggio alla capitale Lima, attorno alla metà del secolo scorso, per ricomporsi poi nel progetto e nel processo migratorio esterno, internazionale o transnazionale che dir si voglia, di certi altri. 3 Di quelle donne ho seguito fino in Perù le trame familiari, con l'intento di stac­ carmi dalle prime mano a mano che riuscissi ad insinuarmi nelle seconde. Concen­ trandomi. in altre parole, sulla “situazione peruviana" più che su quella che chiamerei italiana, o migratoria, delle mie tre mediatrici. L’analisi si è articolata attraverso tre successivi soggiorni sul campo in Perù per un anno complessivo tra il 2009 ed il 2011. alternati ai momenti della scrittura e della cura costante dei contatti e delle reti tra Ita­ lia e Sud America. Uno degli esiti più apprezzabili del lavoro è sicuramente la sua ric­ chezza etnografica, la quantità e la qualità dei dati e delle esperienze che si sono regi­ strate e raccontate. Un'etnografia che in questa sede è per forza di cose sacrificata, monca dei suoi dettagli, dei suoi nomi e dei suoi volti, del suo spessore.

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gnato l’evoluzione all’interno di una complessa economia sociale, pro­ fessionale e di affetti che, in questa sede, ci si sforzerà di formulare ar­ ticolandone le condizioni, gli sviluppi, gli esiti.

Inquadrare il campo In esame, in primo luogo, sono i terreni dell’etnografia. Gli scenari in cui si muovono attori molteplici, gli ideatori e gli esecutori di versioni mutevoli di una realtà almeno parzialmente condivisa. Il campo di la­ voro. insomma, ed il lavoro di campo dove si incontrano e si accaval­ lano le sorti e le intenzioni di chi studia e - così almeno nel progetto antropologico - di chi è studiato. Le sue definizioni e prassi si sono nel tempo aggiustate a luoghi, funzioni ed oggetti spostati e rinnovati; ri­ spetto ad un mondo di interconnessioni in cui le idee, le cose e le per­ sone si muovono, migrano, «and refuse to stay in place» (Gupta. Fer­ guson, 1997b, 4). Rispetto ai problemi e alle vedute, alle scale e alla mobilità della “contemporaneità"4. Ed hanno incluso una serie di pre­ occupazioni riguardo a certi temi e posture; una serie di inquietudini circa l'etica e la politica; circa la riflessività, la partecipazione e la re­ ciprocità sul terreno della ricerca (Sluka, Robben, 2007). Questo an­ che alla luce di una coscienza e di una epistemologia relativamente vi­ cine che hanno avvalorato i procedimenti dialogici di produzione e di acquisizione della conoscenza dei fenomeni e del sapere dell’antropo­ logia. Le discussioni che hanno incorporato «the reflexive trend in cultu­ ral anthropology» (Robber, Sluka, 2007, 9), hanno fatto della nego­ ziazione costante del ruolo professionale dell’etnografo e della confi­ gurazione particolare dei rapporti e poteri implicati nel contesto del­ l’investigazione, un oggetto di indagine e di rappresentazione in sé. Il ricercatore diventa parte di ciò che studia e protagonista dei suoi testi; le risposte soggettive alla situazione etnografica diventano inerenti al

4 È all’interno di una geografia specializzata composta di singole aree culturali, e dalla loro comparazione, che tradizionalmente derivano gran parte dei sistemi e delle nozioni della disciplina. Certe realtà inedite e certe configurazioni della modernità sem­ brano però avere comportato una rottura, almeno parziale, con l’idea che l’ambito con­ facente al l’osservazione etnografica sia contenuto e che sia inoltre, essenzialmente, il contenitore di un particolare insieme di relazioni e di dinamiche culturali e sociali con eventuali corrispondenze altrove, in analoghi contesti.

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processo della ricerca ed alla sua restituzione. La svolta post-moderna ha fondato la pertinenza scientifica dell’incontro etnografico e la ne­ cessità di riflettere sulla dialettica che ne è costitutiva: sul senso della multi-vocalità dell’operazione e dell’evento etnografici. L’urgenza, inoltre, di rendere tali processi finalmente espliciti nel resoconto an­ tropologico. È grossomodo su queste linee che si tratteranno alcuni aspetti del mio lavoro e del percorso della sua definizione. Un percorso intrapre­ so alla ricerca dei nessi tra fenomeno migratorio e assetti familiari, in un contesto specificato che è quello peruviano, che mi ha riportato a campi geografici e ad ambienti sociali raccolti, descritti e contenuti dal­ le relazioni e dalle pratiche delle persone che li abitano. A siti e a do­ mini parentali distinti che nell’analisi non si sono però composti come unità discrete o separate. Piuttosto, all’interno di questo sistema di luo­ ghi e di agenti, le traiettorie dell’etnografia hanno evidenziano una mol­ teplicità di connessioni e di reti. Proprio tali connessioni e reti, il loro snodo ed il mio coinvolgimento alfinterno di esse, sono diventati, del­ l’analisi, il motivo centrale. La geografia della ricerca, fuori dal contesto italiano da cui l’inda­ gine ha preso le sue mosse, ha combinato luoghi fisicamente, social­ mente e culturalmente assai distanti tra loro, situati nella regione della Costa peruviana. Un distretto periferico nell'area nord di Lima e, ad ol­ tre 600 km a settentrione dalla capitale, il villaggio rurale di Chiclin. Tra di essi si dislocano i gruppi parentali in studio. La scelta degli am­ bienti e l'approccio a chi li ha incarnati sono dipesi, in partenza, dalle mie conoscenze previe in Italia. Il consolidamento dei rapporti e l'estensione delle frequentazioni di cui questo studio si è nutrito sono invece l’esito di un processo di stratificazione di esperienze e di se­ quenze di contatti sul campo dell’investigazione, in Perù, mediante l’accesso continuamente negoziato ai diversi ambiti pubblici e privati delle famiglie e ai loro spazi reali e simbolici. E al di là delle sue coordinate geografiche, il vero terreno della ri­ cerca è consistito proprio di queste trame relazionali variamente este­ se ed articolate, di vincoli parentali ed amicali variamente definibili e dello spazio fondamentale che li contiene. Uno spazio tanto fisico quanto concettuale al quale mi sono appoggiala nella prassi della mia indagine. L'hogar, ad un tempo la casa, la household, il focolare do­ mestico e l’insieme delle persone che vi alloggiano o che vi gravitano attorno. La casa di famiglia, che era dei genitori ormai anziani o de­ funti, poi trasmessa ai figli, o ai figli dei figli, le due generazioni con

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le quali maggiormente mi sono confrontata. La casa che continua ad es­ sere il principale riferimento della rete parentale ed il perno della vita familiare: il luogo dal quale chi è emigrato è partito ed al quale torna con più o meno regolarità, in forma provvisoria o definitiva. Il campo propriamente detto, in breve; la postazione privilegiata in cui e da cui condurre la mia etnografia. La mobilità e le traiettorie delle persone rispetto a quel luogo, le en­ trate e le uscite, le presenze e le assenze, le regole della convivenza e della ospitalità nella casa come i discorsi che in essa e su di essa si pro­ ducono, hanno di fatto costituito il materiale dello studio. Su quel ter­ reno particolare ho assicurato una presenza ed una partecipazione co­ stanti ed ho costruito e risignifìcato la mia esistenza dentro e in accor­ do a quella altrui, scandita dai ritmi e dagli eventi più ordinal i così co­ me dalle occasioni speciali della vita familiare.

Figure e pratiche del campo «As a metaphor we work by, “the field" thus reveals many of the un­ spoken assumptions of anthropology» (Gupta, Ferguson, 1997b, 8). 11 terreno della ricerca dunque, e chi lo impersona, come chiave di let­ tura dei problemi teorici e pratici dell*antropologia. Qui se ne esami­ neranno alcuni, implicati nei modi e nelle prospettiva della prassi et­ nografica in genere, e della mia specialmente. Sono il mio campo e la mia impresa, lo si è detto, ad essere in questione; è quindi riguardo al­ la qualità di quella personale esperienza e della sua riuscita che pro­ cederanno le considerazioni ed i raffronti. E difficile fare pronostici quando si intraprende un’indagine, quando sulle prime si avvicinano gli ambienti dell'antropologia. Quando ad esempio, nonostante l’in­ tenzione di localizzare la ricerca, ci si trova ad organizzarla tra più si­ ti e a comprendervi più traiettorie. Un problema complesso, quello della prospettiva multisituata che la natura in certo senso dislocata del mio argomento potrebbe suggerire. Una prospettiva che avevo valuta­ to a grandi linee come possibile taglio di un progetto che avrebbe ap­ punto preso la sua forma tra l’Italia ed il Perù. Utile in principio, quan­ do si programmava il lavoro, ma effettivamente meno pratica e più problematica mano a mano che lo studio procedeva, per la sua inca­ pacità di rendere veramente giustizia all’ambiente ed all’oggetto del­ la ricerca. Che invita, inoltre, a qualche parallelo con una serie di in­ dicazioni disciplinari.

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Avvicinare le teorie e le pratiche del campo ci permette dunque di esplorarne le possibilità e le limitazioni. Ed è, questo, un confronto ine­ vitabile. Perché, ancora con parole altrui, «we remain committed to fieldwork», in ogni caso e ad ogni modo, «as our primary method» (Sluka, Robben, 2007, 23). Il lavoro di campo come tecnica di inve­ stigazione. quindi, ma anche come esperienza costitutiva della disci­ plina e delle conoscenze antropologiche. E come al campo ed al me­ stiere che ci si svolge, si resta legati anche ad una serie di interrogati­ vi che vi si riferiscono in maniera più o meno diretta. Interrogativi che per quello che qui interessa concernono appunto «not the “what" of anthropology but the “where"» (Gupta, Ferguson. 1997b, 2). Che ri­ guardano, in altri termini, gli scenari dell’antropologia: una stima dei suoi luoghi, della idoneità e della adeguatezza di alcuni rispetto ad al­ tri. E che interessano poi, in certa misura, il movimento di chi studia e di ciò che studia come rigore e coesione nella prassi e nella rappresen­ tazione di quegli scenari (Hannerz. 2003). Anni addietro, attualizzando le esigenze ed il terreno disciplinari ed anticipando una serie di riflessioni a riguardo, George E. Marcus so­ steneva che l’etnografia di certe forme della contemporaneità può e de­ ve accordare il proprio metodo rispetto a quell'oggetto di studio che non si lasci rappresentare focalizzandosi semplicemente su di un sin­ golo sito di investigazione ( 1995)5. Raccomandava la presenza dell’et­ nografo nei luoghi empirici e nei percorsi reali o simbolici che a vario titolo li legano. Si trattava di una logica e di un progetto espliciti di as­ sociazione tra quei luoghi che definirebbero, di fatto, l'argomento pro­ prio dell'etnografia. Del movimento e della combinazione data quasi per scontata tra la mobilità dell'oggetto analitico e quella del suo in­ vestigatore. su più linee e secondo direzioni multiple. L’atto di segui­ re i movimenti altrui, in definitiva, come una tra le procedure più ov­ vie di adattamento dell'antropologia agli avvenimenti più attuali, qua­ li ad esempio, con attinenza al mio caso, i moderni processi migratori

5 «Multi-sited research», così nella sua celebre lezione sul tema, «is designed around chains, paths, conjunctions, or juxtapositions of locations in which the ethno­ grapher establishes some form of literal, physical presence» ( 1995. 105). Marcus ha in­ dirizzato il problema della determinazione dell'oggetto e dei modi delle etnografie det­ te appunto multi-situate come scelta tra o come combinazione di alcune tecniche al­ ternative e complementari, di alcune strategie di costruzione e descrizione dei movi­ menti tra i diversi ambiti di pertinenza dei fenomeni culturali che si intendono osser­ vare. attraverso l'inseguimento delle persone, delle cose, delle idee.

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e transnazionali. Perché proprio in relazione a «the study of human groups in motion» gli antropologi sembrerebbero non sentirsi più a lo­ ro agio con l’idea del locale come «an adequate form of ethnographic space» (Faltzon, 2009b, 5).

Forme adeguate di rappresentazione Non è proprio in accordo a queste suggestioni che si è sviluppato il mio discorso; si è usata piuttosto una certa cautela rispetto alla sedu­ zione che le soluzioni multisituate possono esercitare per la loro co­ modità e per la facilità dell’assenso attorno ad esse. Diverse e giuste, d’altronde, le critiche a tali soluzioni. Tra le varie, quella di essenzializzare e deproblematizzare le località (Gallo, 2009), da cui il rischio che le etnografie che si ispirano a tali proposte si risolvano nel viaggio e nella circolazione continua tra luoghi variamente connessi, invece che nel soggiorno e nell’esplorazione sul posto, e del posto. Quasi a dire: più nell’esperienza di chi fa ricerca che in quella altrui verso la quale la ricerca si dovrebbe appunto orientare. Mi sono comunque domandata se l'avere lavorato tra siti geografi­ camente distanti e su esperienze socio-parentali variamente distribuite facesse rientrare la mia ricerca nella rubrica di cui sopra. Non si nega­ no alcune corrispondenze tra l’immaginario che si è descritto e le mo­ dalità della mia indagine con le tre famiglie sulle cui articolazioni lo­ cali e translocali si è mano a mano sviluppata la trattazione. Le traiet­ torie della mia etnografia hanno descritto infatti processi variamente collocati all'interno di uno spazio che non si è ridotto ad una dimen­ sione unica perché ne ha accolte molteplici. Uno spazio che si è co­ struito come sistema di luoghi e di persone attraverso una molteplicità di connessioni e di pratiche che hanno in sostanza rappresentato l'am­ bito e la materia della partecipazione e dell’osservazione. Ma la “multisituazionalità”, nell’economia di questo studio, appartiene ad un di­ verso ordine di cose. Al piano degli affetti e delle prassi, ad esempio, che si è definito in progressione; che dalle più ampie dimensioni geo­ grafiche del fenomeno migratorio in questione si è ridotto e situato so­ prattutto rispetto a quelle domestiche. Al domestico, dunque, che come cornice analitica e dominio relazionale si è rivelato l'ambito più con­ geniale alla ricerca. Perché, alla luce del'evento migratorio, attraverso le esperienze mediate o ambite della mobilità, è diventato il sito di rap­ presentazioni multivocali della parentela, dei suoi significati, delle sue

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capacità, delle sue pratiche. Uno spazio chiave in un sistema di per­ corsi variabili il quale, al di là della singolarità dei siti e delle dimen­ sioni particolari di questa indagine, ne ha contenuto in gran parte i ter­ mini e le declinazioni. E i cui perimetri, i cui contenuti e le cui acce­ zioni sono stati di volta in volta negoziati dai miei interlocutori e da me. Prescindendo quindi dalle visioni più classiche e da quelle forme socioculturali che per alcuni aspetti ne rivelano l'insufficienza, come tra gli altri insegnano Akhil Gupta e James Ferguson, «one can, of cour­ se, use a “local" site to study a “non local" phenomenon» ( 1997b, 15). È quindi possibile e conveniente situare, per rappresentarli, fatti socia­ li che siano almeno per certi aspetti dislocati; esperienze culturali geo­ graficamente sparse. Senza eludere i metodi tradizionali dell*antropo­ logia. Senza evadere dal campo, insomma, e da una certa concezione di esso quale spazio riconoscibile, fisicamente e socialmente, e trac­ ciatole. Praticandolo semmai in una maniera meno convenzionale e più soggettiva, ad esempio posizionandosi su più fronti ma sforzandosi co­ munque di centrare, rispetto a qualcuno di essi, le informazioni e le forme di conoscenza che si producono nei diversi ambienti della ricer­ ca. Non si è mai insinuata l’idea della natura delocalizzata dell'ogget­ to e dei soggetti della mia indagine. Proprio i diversi interlocutori e le loro operazioni negli ambiti che gli sono assegnati, nei quali si muo­ vono o che con più o meno agilità attraversano, hanno indicato l’utili­ tà e l’inevitabilità di assicurare l’investigazione a contesti precisi. Han­ no indicato che alla località, e dalla località, non si sfugge. Per mappare le reti relazionali che si dispiegano tra più paesi, per seguire la mobili­ tà delle persone e delle cose tra le varie sponde, si è dovuto insomma ubicarle rispetto a dei luoghi precisi. Multisituata, alla luce di ciò. è in definitiva la trama dei contatti co­ sì come si è costruita durante le fasi dell'analisi. Una trama che si è cercato di rappresentare perché risaltasse la connessione tra persona e famiglia, prima che quella tra le persone e i luoghi. Perché, in altre pa­ role. i rapporti che si configurano all’interno dei luoghi considerati ap­ parissero più significativi di quelli che tra di essi si sviluppano. La multisituazionalità insomma, nella mia personale vicenda, è sinonimo del­ lo sforzo personale di mantenere una prospettiva che desse ragione di quel circuito tra gli spazi che in fin dei conti ha incluso anche me, ma che non si disperdesse.

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Relazioni etnografiche e conoscenza La qualità delle relazioni sociali e culturali all*interno dei tre gruppi in studio ha creato condizioni di ricerca e possibilità di partecipazione inedite. Mentre diventavo più consapevole ed informata di quei vinco­ li e di quelle vite familiari, mi rendevo conto di come tale situazione im­ plicasse dei ripensamenti di natura etica, insieme ad una serie di in­ quietudini metodologiche ed epistemologiche (che saranno l’argo­ mento di questa seconda parte dell’articolo). I dilemmi di fronte ai qua­ li mi sono ritrovata sono derivati dalla natura del tema che si è fre­ quentato - mi riferisco alle rappresentazioni familiari della migrazio­ ne, ed alla famiglia appunto - e dalla mia gestione di quegli argomen­ ti. Ancora questioni di ambiente o di ambienti etnografici, dunque, e del sapere antropologico. Per prima cosa, è giusto chiedersi se valga un campo che si è costruito appunto come campo di relazioni, rispetto al quale posizionarsi costantemente e costantemente negoziale la propria presenza. Inoltre, è corretto chiedersi se possa considerarsi scientifica un’indagine che è maturata nell’interiorità di spazi privati e limitati, sulla base delle conversazioni e dei discorsi che in quegli spazi si sono prodotti. Si può difendere la legittimità di certe operazioni nella misura in cui se ne esplicitano le modalità; nella misura in cui si spiegano l’ac­ cesso agli spazi dell’investigazione ed alle persone che li incarnano; i termini e le evoluzioni del legame con esse; la natura delle informa­ zioni ricevute ed il rapporto tra queste e l'uso che se ne fa. Come già spiegato, avevo conoscenza di alcune persone, tre donne peruviane in­ serite in Italia e che dall’Italia mi hanno messo in relazione con i fa­ miliari rimasti in patria. Il mio ingresso alle case ed alle famiglie è sta­ to quindi agevolato dalla mediazione e dalle raccomandazioni di chi ne era parte, seppur dall’altra parte del mondo; dalle consegne che mi erano state affidate; dalle conoscenze e dalle informazioni di cui ero portatrice. In seguito si è trattato di nuovi accessi e di una serie di re­ ciproci posizionamenti sul terreno dell'indagine. Ho dovuto negoziare con e tra le persone della ricerca la mia esistenza e la mia partecipa­ zione. Ho appreso a muovermi attraverso una serie di spazi concreti e discorsivi e di confini reali e simbolici. Attraverso quelli che, nelle case che sono state il crocevia dei pas­ saggi degli individui e delle cose e la fabbrica dei miei dati, distinguono ad esempio gli ambiti di riferimento dei generi e delle generazioni, e ne suggeriscono la grafica e le gerarchie. O quelli che separano si-

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gnificativamente gli ambienti privati da quelli pubblici. Dalle stanze in cui si ricevono gli ospiti e si parla del più e del meno, dunque, sono stata promossa a quelle in cui si accomodano le persone de confianza e si trattano altri argomenti. Confianza che è confidenza e dimesti­ chezza, e che evoca pure la fiducia che si crea nella condivisione e nel­ l’esperienza della familiarità. Un processo di avvicinamento e di con­ fronto, di mutuo riconoscimento ed aggiustamento che come si dirà ha risposto al sistema dell’empatia e delle simpatie (che si è creato relati­ vamente presto) ed ai criteri, alle tattiche ed alle finalità tanto mie quan­ to altrui.

Tal vez. tu sabes mas que yob L’idea che sembra maturata nella relazione e nella frequentazione con le persone sul campo è che a volte io sapessi, delle famiglie in que­ stione, qualcosa in più di chi legittimamente vi apparteneva. Vale dun­ que la pena introdurre qualche considerazione sulle condizioni e sui posizionamenti miei ed altrui sul terreno dell’inchiesta. Sul carattere plurale della mia etnografia e dei dati sui quali se ne è costruito il sa­ pere. Se infatti «it is impossible to understand what a house is divorced from the people and the relations within it» (Carsten, 2004, 56), è bene domandarsi cosa succeda quando quelle relazioni domestiche e familiari all’interno della casa sono prodotte o evidenziate tra diversi attori e in diversi luoghi. Ancora e soprattutto, bisogna capire che ac­ cade quando chi vi fa la ricerca diventa parte di quegli ambienti come una voce tra quelle a cui si bada, che orientano i discorsi della paren­ tela ed informano le rappresentazioni che se ne elaborano. Ulteriori questioni e derive del campo dunque. Ripenso alla continuità della partecipazione, alla frequenza degli inviti e delle riunioni con le famiglie che si sono imposte praticamen­ te dal principio e presto sono divenute consuetudine: a certe premure; all’intimità che si è creata, specialmente in alcune circostanze e con al­ cune persone. Una volta ganada la mia entrada, insomma, una volta

6 «Forse tu ne sai più di me»; così, riguardo a certe vicende della famiglia dei suoi cugini, una delle “mie” famiglie per intenderci, si è espresso un giorno uno dei diver­ si personaggi rientrati, più marginalmente, nel raggio della mia ricerca. Questo fram­ mento. come gli altri che seguiranno, appartiene ad una delle tante conversazioni che. brevi o lunghe che siano state, si sono sviluppate e sono state annotate sul campo.

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guadagnatomi l’ingresso a quegli ambiti, ho preso parte alla comuni­ cazione ordinaria e a quella chiamiamola extra-ordinaria: alle narra­ zioni ed ai commenti, alle dicerie ed alle rivelazioni: inclusa in una sorta di familiarità o domesticità, per così dire, a livelli che non avrei immaginato. Partecipe della privatezza, in una certa misura, delle co­ se che succedono e che si trattano tra parenti. Coinvolta dunque e sor­ presa perché inserita e rappresentata in varie circostanze a livelli del tutto inattesi. Il percorso progressivo di acquisizione e di sistema­ zione della mia “figura" da parte dei miei interlocutori si può legge­ re nei termini in cui essi si sono via via pronunciati nei miei riguardi: nei “nomi" che mi hanno dato: nei modi diversi in cui hanno chiama­ to ed interpretato la relazione con me durante le varie tappe dell’in­ contro. Mi tia me ha dicho que te cuidej dapprima mi si devono attenzio­ ni perché sono un’amica della zia che dall’Italia s’è raccomandata e mi ha raccomandato. Poco a poco, per ragioni analoghe, mi si affida­ no i primi commenti sui fatti propri e su quelli altrui. Te cuentoporque eres amiga de mi tia ...78910 . E poi sempre di più. perché eres buena gente 12 11 y me has caido muy bieti? e perché mi si dà credito, si fa affidamento su di me, te cuento cosas tan personales por la confianza...™ Se al­ l’inizio, insomma, è come una amiga de Italia che vengo presentata, più avanti si prosegue secondo ragioni diverse, mi si acquisisce secon­ do altre logiche, ella praticamente es parte de la familia. Aunque no tie­ ne el apellido o la san gre, ya es prdctimente parte de lafamilia". Lo­ giche esplicitate agli altri ed a me, perché siano ben chiare, perché io ne prenda atto: tu ya no eres amiga para mi, sino hermana ... Està es tu casa, ya sabes no?'2

7 «Mia zia mi ha detto che mi prenda cura di te». Il riferimento è alla zia emigrata in Italia da Lima nei primi anni Novanta del secolo appena trascorso. Una delle prime mediatrici della mia esperienza di ricerca, dunque. Lei. come del resto le altre due don­ ne cui si accenna nel testo, alla mia partenza si era raccomandata con i suoi familiari in Perii, perché mi ricevessero e mi appoggiassero. 8 «Ti racconto perché sei amica di mia zia». 9 «sei una persona a posto e mi stai simpatica».

10 «ti racconto cose tanto personali per la confidenza». 11 «lei è praticamente parte della famiglia. Anche se non ne ha il cognome o il san­ gue. è praticamente parte della famiglia ormai».

12 «tu non sei più un'amica per me. ma una sorella... Questa è casa tua. ormai lo sai no?».

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Con il tempo, insomma, il mio campo si è fatto più complesso, co­ me del resto l’insieme delle operazioni che vi si praticavano e condi­ videvano. Non era più, ma forse non lo era mai stato, un semplice en­ trare a ed uscire da certe situazioni. 1 problemi delle persone e la mia postura rispetto ad esse; le mie aspettative nei loro confronti e le loro nei miei; la prossimità con chi osservavo e mi osservava, le relazioni e le dinamiche socio-familiari delle quali entravo a conoscenza e a far parte, tutti questi aspetti hanno reso il campo più denso. D’accordo con Ghassan Hage, credo che un’etnografia densa (la thick ethnography, per intenderci) non sia tanto una questione di scelta quanto una fun­ zione del grado di immersione dell’etnografo nelle reti sociali e rela­ zionali che lo costringono appunto ad essere un etnografo denso, o a non esserlo affatto (2005). Non è stata tanto la mia etnografia quanto la mia relazione col campo a farsi più spessa e più stretta, per quelle for­ ze che vincolano al campo e a quanti lo interpretano, e che rendono complicato sottrarvisi. Mi riferisco ad esempio ai legami d’affetto ed al­ le corrispondenze che informano in gran parte i vincoli tra le persone in studio e che hanno informato, in alcuni dei casi, anche le loro rela­ zioni con me.

Gradi e possibilità di amicizia

Sono stata innanzitutto il tramite degli encargosl\ la mediatrice della comunicazione e dello scambio transnazionale dei beni, delle notizie e dei favori tra i parenti o gli affini da una parte e dall’altre del sistema migratorio. Si è poi visto come da amiga di quelle componenti della fa­ miglia che vivono fuori sono divenuta amiga de la fami Ha e addirittura, in alcune occasioni, io stessa fami Ha. Messa a conoscenza di molti det­ tagli. coinvolta in varie questioni, resa complice. Interpellata come con­ sigliera e addirittura scelta come madrina e sponsor di alcuni, e dei pro-

13 Quella dell’e/icar^o. di dar un encarpo è una prassi socioculturale piuttosto con­ sueta specialmente nei paesi dell’America Latina. Si tratta di affidare ad un parente, ad un amico o ad un compaesano che viaggi al paese d’origine una consegna per i propri familiari, o per altri. Tra i diversi rituali di connessione, tra le forme culturali di ri­ messa e di compensazione che rinforzerebbero i legami a distanza e li riattualizzerebbero dalla distanza, questa pratica che ha radici antiche nei circuiti e nelle esperienze della migrazione interna e che nell’attualità della migrazione transnazionale si sta. per certi aspetti, globalizzando (Altamirano. 2006).

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getti di alcuni. Un vincolo, un compromise) chiamiamolo politico ed af­ fettivo che come quello del sangue prescrive e costringe, che implica tra le parti una qualche forma di reciprocità, tra il supporto materiale e mo­ rale, il riconoscimento e la stima. Tu corno madrina allora tienes que orientarla. Ella corno tu ahijada sabe que puede contar contigoì4. E quindi opportuno che i discorsi sull’amicizia, che le dichiarazioni di ami­ cizia e le rappresentazioni che ne sono state fatte sul terreno dell’incon­ tro si assumano come oggetto di una riflessione senza sottintesi. E necessano interrogarsi sulla natura della relazione tra me e le persone che ho frequentato, che hanno partecipato alla ricerca. «In effetti», su di un piano etnografico, «che cos’è l'amicizia?», si domanda Alessandro Monsutti preso in ragionamenti simili (in De Lauri, Achilli, 2008,29). Se si riflette sul sistema delle appartenenze, su certe atmosfere so­ cio-culturali e su certe terminologie, si riconoscono alcuni dei criteri che in parte informano i rapporti nei contesti in osservazione. Criteri e rapporti che non sono affatto scontati. Ho infatti assistito ed ho preso personalmente parte alle dinamiche peculiari di insiemi familiari le cui inclusioni ed esclusioni, le cui selezioni al di là delle differenti indivi­ dualità e delle distanze migratorie rispondono in alcuni casi alle logi­ che chiamiamole del sangue e in altre a quelle sociali ed affettive del­ la pseudo-parentela o della parentela politica, con il corollario di aspet­ tative e di oneri che vi sono implicati14 15. All’interno di quelli che si so­ no rivelati dei sistemi complessi di solidarietà (al plurale) e di recipro­ cità (sempre al plurale), i modi della assistenza e della condivisione aspettate e consolidate a livello familiare e comunitario, ad esempio, si combinano a determinate pretese, all’attesa di un riscontro, di un tor­ naconto personale. Le reti e le alleanze che ne derivano costituiscono patrimoni e risorse fondamentali, sono possibilità di azione che si pos­ sono mobilitare a proprio favore. Così per la famiglia come anche per i legami che uniscono chi e con chi non ne fa propriamente parte.

14 «Tu come madrina ora la devi consigliare e guidare. Lei come tua figlioccia sa che può contare su di te». 15 La parentela originata per vincoli di sangue e per matrimoni è la regola che di nonna vale alla base dei discorsi familiari affrontati nello studio, ma che non funzio­ na tuttavia come argomento scontato. Funziona invece la selezione, sul piano locale co­ me su quello esteso della migrazione, in base alla promozione o alla negligenza dei le­ gami biologici e alla generazione di parentele fittizie, in base ad interpretazioni singo­ lari e comuni. Funzionano insomma logiche diverse, figure e significati altri rispetto a quelli della paternità, della generazione e del contratto.

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Dal sentimento che matura nella consuetudine e nella partecipazio­ ne, ai favori che si scambiano, si distinguono dunque diverse forme di intraprendere un’amicizia e di istituzionalizzarla; assicurandola ad esempio attraverso le formule della parentela fittizia che si esplica a vari livelli, secondo le denominazioni che la rappresentano (madrina, nel mio caso, e ahijada ovvero figlioccia) e nelle corrispondenze che esse comportano. Ogni posizione parentale o para-parentale catalizza un certo numero di aspettative e determina una sorta di obbligatorietà della propria quota di coinvolgimento nella rete. Le mie risposte a que­ sto sistema mi hanno dato una collocazione all'interno di schemi rela­ zionali preesistenti, permettendo tanto a me come agli altri di usare ta­ li relazioni per fini determinati. E alia luce di queste considerazioni che occorre rivedere ciò che la mia singolare postura sul campo ha com­ portato, in senso metodologico e nella pratica del mio ruolo nell’inve­ stigazione, rispetto alla ricerca nel suo complesso ed alle persone che la incarnano. Questioni di metodo che come si diceva sono, ad un tempo, que­ stioni di etica. Perché al di là delle procedure più consuete dell’osser­ vazione partecipante sono convinta, d’accordo con Monsutti, che le re­ gole del metodo siano di fatto regole di comportamento, con implica­ zioni morali evidenti (2008). Io, per quel che mi riguarda, ho fatto del­ la prossimità, della dimestichezza e della confidenza con la gente che ho incontrato uno strumento metodologico, una modalità di penetra­ zione e di evidenziazione dei casi e delle storie altrui. Ma è difficile valutare se l’utilizzo delle rivelazioni e delle conversazioni degli altri, un materiale unico e di speciale valore, è sempre conveniente ai fini dell'indagine. E difficile valutarlo soprattutto sul piano morale. La re­ lazione tra me e le persone della mia ricerca, che mi chiamano amica e che mi hanno ospitato nella cerchia degli intimi, funziona a livello analitico e rappresentativo ma diventa inevitabilmente ambigua su quel­ lo umano, appunto, ed etico. Perché non è trasparente, o non lo è del tutto, e perché è in una certa misura asimmetrica. In altre parole, si so­ no create condizioni impari, una condivisione inedita e sbilanciata nel­ la quale risaltano, da una parte (cioè dalla mia), un intento più accen­ tuato ed una maggiore e più meditata consapevolezza della relazione, con cui si sono prese le misure e si sono falle le valutazioni. «Il falli­ mento o il successo di una relazione tra persone dipendono da molte co­ se», scrive Antonio De Lauri riflettendo appunto sulle possibilità del­ l’incontro e sulle derive del fare etnografico, «non ultima la capacità di comprendere i termini e le regole della relazione stessa» (in De Lauri,

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Achilli, 2008, 21). È dunque doveroso interrogarsi su questa com­ prensione.

^Qué tal tu chainba, Francesca?'6 Posso affermare con una certa convinzione che all’interno dei tre grup­ pi parentali in studio non è stato capito fino in fondo quello che facevo. Saranno state forse la familiarità e la consuetudine di cui si è detto a rendere incerta la mia posizione rispetto ai miei interlocutori i quali, pur inizialmente avvertiti di quelli che sarebbero stati il mio interesse e la mia finalità nei loro riguardi, sembrano col tempo averne perso la per­ cezione. Chi forse ha intuito, chi è sembrato capire prestando magari più attenzione a ciò che io dicevo circa gli obiettivi del mio lavoro, non pare avere realmente preso sul serio le proprie intuizioni. jElla nos observa! Ella observa nuestros comportamientos. ;Hay que tener cuidado....m. Ma il fatto che io osservassi per raffigurare in qualche modo la loro esistenza è sempre stato un pensiero che faceva sorridere. L’opi­ nione era che io fossi impegnata quando loro non mi vedevano, o nelle rare volte in cui ci si è riuniti in colloqui più privati e strutturati; in cui ho registrato, ;ya lo grabaste a mi padre? Ya acabaste con tu chamba?'*\ in cui ho fatto domande puntuali e dirette alle quali si riteneva di dovere rispondere bene, ^qué tal te file con mi hermano, te ha respondido bien? Te ha dicho lo que necesitabas?16 19. Le ragioni della mia pre­ 18 17 senza, insomma, se mai chiare ad un principio, devono essersi fatte me­ no evidenti nel corso del tempo. Di certo è sfuggita l’dea che fossero lo­ ro, le persone che mi ospitavano, il campo della mia ricerca, anche e specialmente al di fuori dei momenti, come dire, più formali. Viene in mente Annamaria Ri vera, il suo concetto della «empatia come attitudine metodologica ed euristica»; la capacità o l’occasione di

16 Le persone della ricerca mi chiedevano sovente, durante le mie visite alle fami­ glie. come mi andasse con il lavoro (chainba è trabajo. il lavoro appunto, nella jerga ovvero il gergo del Perù), come ad escludersi da esso, a non percepirsi parte integran­ te di esso.

17 «Lei ci osserva! Lei osserva i nostri comportamenti. Bisogna stare attenti!». 18 «lo hai già registrato mio padre? Hai già finito col tuo lavoro?».

19 «come è andata con mio fratello, ti ha risposto bene? Ti ha detto quello di cui ave­ vi bisogno?».

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calarsi in un ambito che sarebbe «una postura, oltre che un’esplicita indicazione di metodo» (in De Lauri, Achili, 2008, 49). Una postura che ha funzionato ed un metodo che è valso, almeno nelle circostanze della mia inchiesta. Che hanno fatto unica ed approfondita la mia espe­ rienza di ricerca, ma che allo stesso tempo, rendendo meno visibile e meno ovvio il mio mestiere, lo hanno reso via via più problematico e delicato da spiegare. Da qui le preoccupazioni etiche di cui si dirà, ed una sorta di senso di colpa2021 .

Justo queria conversar contigo...

... pa’que me facilites un ciertoproyecto, pa'que me apoyes... Ymira Francesca, te lo estoy pidiendo a ti. no quiero que nadie mas de la familia se meta2'. Affermando la non neutralità dell’esperienza della ricerca all’inter­ no di spazi di negoziazione «caratterizzati dalle interrelazioni di spe­ cifiche intenzionalità» (De Lauri, 2008, 10), conviene considerare co­ me in quegli spazi, in sostanza, si evidenzino determinate connessioni e modalità relazionali; come vi si sottolineino e rappresentino certe tra­ me e certe altre si lascino a lato, o si minimizzino. Per scelta di chi? Pia­ cerebbe pensare di essere tanto abili, o tanto fortunati, da poter con­ durre ed orientare i discorsi a propria esclusiva discrezione: da riusci­ re a determinale le regole, i percorsi, e persino le deviazioni della re­ lazione con le persone che informano il nostro studio. Ma «spesso il processo si inverte», come osserva Luigi Achilli «e l’etnografo rico­ nosce di essere ‘inventato sul campo’» (in De Lauri, Achilli, 2008, 186). Si sa, insomma, che si gioca tra diverse coscienze, tra diverse per­ cezioni ed implicazioni; tra le singolari convenienze e volontà che si in­ contrano, appunto, sul campo. Esiste la possibilità alternamente per­ cepita di avvalersi del legame con l’altro; di servirsi, in poche parole, 20 Alessandro Monsutti lavora ad una figura, quella del bacio di Giuda e dunque del tradimento, per esprimere certe inquietudini, certe idiosincrasie implicite nel progetto etnografico (2008). Una figura indovinata, se non altro per quanto riguarda me e le personali questioni sospese, ancora una volta, tra la metodologia e la morale. 21 «Volevo proprio parlare con te... perché mi agevoli un certo progetto, perché mi aiuti ... E guarda Francesca, lo sto chiedendo a te. non voglio che nessun altro della famiglia si metta in mezzo».

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gli uni degli altri. Se da una parte infatti posso affermare di avere in­ stradato e in una certa misura pilotato il legame ed il dialogo con le persone della ricerca cercando di trame, proprio per la ricerca, dei be­ nefici. è anche vero che dall’altra, in compenso e ad un tempo, ho prov­ veduto al tornaconto altrui, andando incontro a precise esigenze. Ho rappresentato, per intendersi, una sorta di capitale sociale per quelle persone (Monsutti, 2008). Così è stato almeno in certe circostanze. So­ no servita in primo luogo alla connessione tra i differenti luoghi della famiglia e tra quanti li occupano, cosa che mi è parsa in larga misura informare il senso del loro legame con me. Lo spazio ed i termini dei loro vincoli, delle loro proiezioni e delle loro pratiche familiari, cioè, sembrano essere stati all’occorrenza ridisegnati proprio nel rapporto con me. in base alla convenienza ed alla mia idoneità rispetto a certi piani. In base alla mia inclusione in ambiti prima definibili solo o so­ prattutto nei termini della loro parentela o delle affinità più consuete. Sono stata avvicinata perché intercedessi in certe situazioni, perché facilitassi certe iniziative, perché facessi dei favori. Io, di preferenza; io prima di altri al corrente di certi disegni. Ho fornito opportunità e ri­ sorse fruibili, ma ho generato pure aspettative che non sempre ho po­ tuto soddisfare. L’esperienza sul terreno consiste insomma di relazio­ ni complesse, variamente interpretate da una parte e dall’altra, varia­ mente servibili e funzionali; delle attitudini e degli sforzi personali, quelli del ricercatore e quelli dei suoi interlocutori; di un combinarsi di intenti. E per questo, lo si è visto, consiste anche di trascinamenti e sci­ volamenti più o meno prevedibili che hanno grande influenza sulle for­ me del narrare etnografico, e sulle varie rappresentazioni. Ma al di là della dialettica nei cui termini si sono prodotte le rela­ zioni costitutive della ricerca; al di là dell’idea partecipata e della pro­ duzione collaborativa e plurale dell'esperienza e dei saperi del campo, è bene ricordare ed è sano ricordarsi che gli individui coinvolti nel­ l’inchiesta dall’etnografo di norma hanno, fuori da quel campo, poca voce; perché appartengono più ad esso, sostanzialmente, che non al re­ soconto ed alla rappresentazione che se ne fanno poi ma che continua­ no a riguardarli. Quasi fossero, prendendo in prestito parole altrui, «what happened to ethnographers before they stalled writing» (De la Cruz, 2001. 2). Durante i mesi di lavoro, come s’è detto, ho trascorso molto tempo con quelle persone, sul campo; con l'avvicendarsi degli eventi familiari e delle occasioni di riunione ho sviluppato con loro una relazione stretta e composita che direi professionale da un lato (il “mio") e sociale dall’altro (il “nostro"). Ciò, ancora una volta, si è com-

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piuto grazie a valutazioni accorte, al reciproco scrutarsi e ad una serie di patti più o meno silenziosi sul terreno dell’incontro: attraverso una serie di intese con i miei interlocutori. Ma parlando di intese, a scanso di equivoci, occorre forse problematizzare il tema del consenso tra le parti. Un consenso che non è stato dato né negato perché, di fatto, non è mai veramente stato chiesto. Perché con quegli interlocutori è man­ cato un accordo esplicitamente negoziato sulle procedure reali del di­ scorso e del rapporto: sulla collezione dei dati e sui termini del loro uso. Perché è tra i colleghi e non con i soggetti del mio studio che, al­ la fine dei conti, ho soprattutto ragionato e discusso. Autorizzando così, in una certa misura, una difformità di volontà, o meglio la siste­ matica ignoranza ed inesperienza della volontà altrui. Ed è appunto questo scarto, tra le questioni più critiche della ricerca, l’oggetto delle riflessioni più urgenti alla fine di tutto il percorso.

A trio ’ di conclusione

La mia etnografia si è composta delle mie osservazioni ma specialmente delle conversazioni, delle discussioni e delle indiscrezioni al­ trui: delle informazioni più o meno esplicitamente trasmesse da parte di chi un tempo è stato o è tuttora variamente coinvolto nei discorsi e nelle esperienze della migrazione che si è cercato di rappresentare. Ol­ tre al posizionamento sul terreno dell’indagine, è dunque sulle parole che ho lavorato, sui discorsi pronunciati su di sé, sui propri parenti, sui parenti degli altri22. È insomma ascoltando le persone che ho imparato più cose e che mi sono venute più idee. Accettando la sfida di metter­ mi in ascolto e cogliere le sfumature delle relazioni e delle pratiche. Ho cercato di stare dove si producevano quei discorsi, lasciando che gli argomenti fluissero spontaneamente in certe occasioni, inducendoli co­ me volevo in altre. Un esercizio di ascolto, dicevo, ma anche di memoria e di conser­ vazione. Ho infatti preso nota di tutto, di quello che si diceva a me e di quello che in mia presenza si diceva ad altri. In varie maniere: segnan­ domi sul momento brani di conversazione più o meno lunghi o appun22 Perché, come s’è detto, le tre famiglie in studio sono vincolate l'una all'altra da una certa pratica e da una certa consuetudine. Al di fuori dei membri di ciascuna, spes­ so sono state le persone esterne per quanto non estranee a completarne certe descrizioni e a definirne i profili, a rendermi noti i fatti altrui.

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tando termini chiave che di lì a poco, nella fase più privata della tra­ scrizione sui miei diari, mi aiutassero a ricostruirne l’interezza. Regi­ stravo su dei taccuini, su foglietti di carta e sui post-it che tenevo sem­ pre nella borsa o in tasca; ma pure, all’occorrenza, nella cartella dei messaggi o in quella delle note del mio telefonino. Senza interrompe­ re. senza che le persone (almeno credo) ne fossero avvertite. Un meto­ do che ho largamente preferito alle conversazioni più strutturate, pra­ ticate in rare occasioni e con esiti discutibili. Perché mi sembravano sovraccaricale la comunicazione svuotandola ad un tempo di poten­ ziali contenuti; perché la facevano più metallica e meno schietta. In conclusione, sono il materiale che ho scelto di trattare e le mo­ dalità della sua raccolta e rappresentazione ad avere determinato, in una certa misura, la forza e la debolezza del mio lavoro. Proprio l’uso quasi esclusivo delle note di campo a scapito dell’intervista, l’anno­ tazione informale e discreta - forse dovrei dire furtiva - delle dichia­ razioni altrui, hanno quindi fatto sfuggire (più agli altri che a me) il senso di “quale”, di “come” e di “quando” fosse il mio lavoro. I mo­ di della costruzione della relazione etnografica, la mia particolare po­ stura sul campo di lavoro e la mia strategia di ricerca, in conclusione, hanno descritto su quel campo equilibri assai complessi. Hanno ge­ nerato imbarazzi ed ambiguità. Hanno creato confusione nella rap­ presentazione delle parti, rispetto ai livelli di implicazione interperso­ nale, in merito alla credibilità ed alle responsabilità che vi sono in gio­ co. Questioni urgenti, come si diceva, ma che purtroppo, fino ad ora, restano irrisolte.

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Poetiche del represso? La mamma ebrea e il gigantismo del soggetto in Philip Roth e Woody Alien Sara Pesce

In certa narrativa e in certo cinema ebraico-americani successivi agli anni Sessanta, che si caratterizzano per una fondamentale negoziazio­ ne tra l’autoritratto di un uomo middle-class fragile e funambolico (per l’instabilità dei suoi comportamenti per la posizione disagevole in cui egli dà mostra di sé) e un pubblico allargato, l’apparizione della mam­ ma ebrea è veicolo di una poetica di auto-esposizione al contempo iper­ bolica e precaria che molto ci dice del rapporto tra pubblico e privato e tra mainstream e alterità nell’America della seconda metà del secolo scorso. Userò il romanzo di Philip Roth, Il lamento di Portnoy (Portno­ y's Complaint, 1969) e l’episodio diretto da Woody Allen, Oedipus Wrecks (parte di un trittico di racconti che compongono il film New York Stories, 1989 - gli altri due registi sono Martin Scorsese e Francis Ford Coppola) per comprendere come la yidishe marne siti un espediente nar­ rativo rivelatore delle tensioni e modificazioni dell’espressione di sé in un periodo cruciale della cultura ebraico-americana, successivo al mo­ vimento dei civil rights e alla conseguente riconquista da parte di mol­ te minoranze nazionali di una specifica matrice etnica come parte di una mutata affermazione identitaria (Glazer, Moynihan, 1992). Non mi occuperò qui delle coordinate sociali e culturali del feno­ meno ebraico-americano, quanto delle contraddizioni interne ad un mu­ tato rapporto tra l’individuo e la sua rappresentazione pubblica. Vorrei mettere in luce, infatti, come le ambiguità e le tensioni tra i motivi im­ pellenti del soggetto e il racconto di sé diano esiti non lineari sul pia­ no delle strategie narrative, esiti degni di nota soprattutto perché rive­ lano 1’esistenza di direzioni niente affatto esauribili in ciò che a lungo è stato definito la poetica del represso.11 1 Nel caso specifico di Roth e Alien mi riferisco al fatto che Portnoy's Complaint

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Sia nel romanzo sia nel cinema di questa epoca la costruzione di una identità ebraico-americana da fatto collettivo, comunitario, muta in pul­ sione soggettiva e al represso subentra l’iperbolica esposizione di sé, dominata da una forte ambivalenza tra immissione nel mainstream e la vergogna o il disagio che ne consegue. Nonostante l’oggetto di mag­ giore interesse per quanto riguarda la “super-esposizione" del protago­ nista sia qui il cinema, è il precedente letterario che ne costituisce le ne­ cessarie premesse - intendendo con ciò sia il romanzo ebraico-ameri­ cano a partire dagli anni Sessanta, sia la saggistica, da Lionel Trilling ad Alfred Kazin, fino all’opera provocatoria di Leslie Fiedler, capace di re­ cuperare il rimosso della letteratura nazionale, ma anche la letteratura psicoanalitica e la sua volgarizzazione successiva agli anni Quaranta. Attraverso i personaggi autobiografici di Alex Portnoy e Sheldon Mill, Roth e Alien creano uno scontro fra il sé ebraico pubblico e pri­ vato. L'intreccio tra auto-censura e messa in mostra di sé dei perso­ naggi è esasperato e allo stesso tempo risolto dallo stereotipo della mamma ebrea middle-class che reca forti reminiscenze del mondo yid­ dish esteuropeo ottocentesco. Tale stereotipo serve, nei nostri due esem­ pi, da loquace e rumoroso veicolo della negoziazione della propria im­ magine da parte di un soggetto autobiografico - perciò ibrido tra per­ sonaggio e autore - che si presenta come ebreo e come artista. Tale ne­ goziazione è giocata sul registro intimo, sulla sfera domestica e sul pa­ radigma psicoanalitico. Sia Portnoy sia Oedipus si presentano in forma di lamentazione ri­ volta a uno psicanalista. Sebbene sia poco visibile e poco udibile, il te­ rapeuta è sempre presente e costituisce il pretesto narrativo che con­ sente alla narrativa stessa di svilupparsi. Significativamente, il setting terapeutico è oggetto di rappresentazione sia nel film sia nel romanzo: Alex si rivolge al professor Spielvogel in prima persona e Sheldon ap­ pare due volte durante una seduta psicanalitica. In quanto ascoltatori confidenziali, questi terapeuti sono parte della cospirazione dei prota­ gonisti contro le proprie madri. Altrettanto accade al lettore e allo spet­ tatore. che vengono allineati alle emozioni e al vissuto del protagoni­ sta, ai suoi timori, alle sue pulsioni di auto-occultamento. Oedipus si apre con una seduta di psicoterapia. Sheldon non si ri­ volge mai apertamente al pubblico in direzione della macchina da pre-

è stato accostato a Annie Hall (Io e Annie, Allen. 1977) come esempi di “umorismo del represso” (Girus. 1993).

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sa. ma la sessione psicanalitica si struttura in modo da replicare il pat­ to narrativo fra chi racconta e chi ascolta che è alla base di ogni testo. Gli spettatori hanno così l’impressione di essere chiamati in causa in modo analogo allo psicanalista: come ascoltatori confidenziali diven­ tano destinatari molto singolari della comunicazione. Come il dottore, essi hanno pieno accesso al flusso di coscienza del protagonista, ma non partecipano attivamente alle sue azioni. Iscrivendo il terapeuta nel­ la narrazione, quindi, il ruolo dell’audience assume un significato di tutto rilievo. Ancor prima che un referente psicanalitico, il medico è perciò una figura del discorso. Metafora dell’audience, egli rileva perciò quanta autorità è data a coloro ai quali è rivolto il racconto di Sheldon e di Alex. Il pubblico americano (lettore o spettatore che sia) è tanto im­ portante da essere incluso nel testo attraverso strategie meta-comunicative. Questo pubblico diviene arbitro e giudice implicito delle azio­ ni del personaggio ed è necessario ingraziarselo, sedurlo o talvolta sol­ lecitarlo, in ogni caso strapparne la complicità. Portnoy e Oedipus hanno posizioni differenti nei confronti del pub­ blico. Alien lo intrattiene. Roth lo provoca dopo averlo conquistato. La distanza temporale fra i due lavori spiega in parte questa diversità. Por­ tnoy esce nel 1969 mentre Oedipus nel 1989. La presentazione che Alien offre del suo personaggio riflette un at­ teggiamento nei confronti dell’immagine pubblica degli ebrei in Ame­ rica meno acre della esasperata auto-denuncia di Roth. La giocosità di Alien è quella di un autore che esorcizza l'angoscia di esporsi e tratta motivi ancestrali ebraici in un quadro universalizzante, secondo le re­ gole e le coordinate della comunicazione di massa. Quando gira que­ sta commedia, Alien ha raggiunto la massima popolarità, sancita da una brillante carriera di attore, scrittore e regista. Quando Portnoy vie­ ne alle stampe, invece, Roth scrive solo da circa un decennio. Il suo rapporto con il pubblico è controverso. L’autore si aspetta di scatenale polemiche nella comunità ebraica e sa di stupire i “gentili”. Il suo sti­ le reca visibili tracce di questa preoccupazione. Nella sua sonorità de­ tonante si annida sia il desiderio sia la paura di provocare.2 I due narratori autobiografici di Roth e di Alien ammettono la pro­ pria ebraicità, disarmano un gruppo estraneo e potenzialmente ostile,

2 Per un'analisi della problematica relazione di Roth con il lettore vedi Cooper. 1996. 1-23.

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trasformano i nemici in amici ottenendo la loro approvazione. Ma è so­ prattutto la strategia umoristica di Alien che induce il pubblico a sim­ patizzare con lo “schlemiel” fino al punto che l’audience si ritrova a condividere le fantasie matricide di Sheldon. In questa seduzione, la madre ebrea ha un ruolo cardine, produce ef­ fetti umoristici molto efficaci per distogliere l’attenzione dall’insicu­ rezza del protagonista e aprire un varco alla costituzione di una sua im­ magine pubblica positiva. Questa madre invadente, aggressiva, super­ protettiva e capace di provocare senso di colpa nel figlio diventa l’og­ getto del ridicolo. 11 meccanismo umoristico scaturisce da un ricco in­ sieme di stereotipi che, si noti, i tratti universali della madre pos­ sessiva di classe media (Goldman, 1998), con un forte spostamento ri­ spetto alla yidishe manie dell’esteuropeo ottocentesco (Herweg. 1996). Il ritratto di questa madre non configura un carattere a tutto tondo, ma funziona come marchio di stile e meccanismo di auto-giustificazione narcisistica dell’autore. Lo scopo della storia non è quello di dipinge­ re una madre ebrea, ma di usarla per fare scaturire una nuova immagi­ ne del figlio. Alien impiega questo stereotipo facendone un espediente retorico. In Oedipus Wrecks, quando Sheldon è a cena dalla madre insieme alla fidanzata Lisa (Mia Farrow), le “materne cure” della Signora Millstein innescano un meccanismo comico giocato sull'intercalare tra la sua conversazione con Lisa e una serie di frasi imperative del genere “man­ gia, su!” o “finisci il tuo piatto” rivolte all’indirizzo del figlio. Questo ritratto non fa che riconfermare un cliché di ottusa insistenza che mi­ naccia di svilire la mascolinità adulta del figlio, la sua capacità di se­ durre una donna, soprattutto non ebrea. La descrizione della signora Portnoy è invece più drammatica. Roth usa questa figura per esprimere una critica amara alla famiglia d’origi­ ne e insiste sulla ricerca di una radice familiare nelle ossessioni di Alex, sul dominio di una madre aggressiva superprotettiva, finanche minac­ ciosa:

Then there are the nights I will not eat. [... ]I would refuse to eat, and my mother would find herself unable to submit to such willfulness and such idiocy. [...]! just don’t want to eat. I answer. So my mother sits down in a chair beside me with a long bread knife in her hand. Il is made of stainless steel, and has little sawlike teeth. Which do I want to be, weak or strong, a man or a mouse?" (Roth. 1969. 15-16). Alex ricama sugli effetti traumatici di questo trattamento.

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Doctor, why, why oh why oh why oh why does a mother pull a knife on her own son? I am six. seven years old. how do I know she really wouldn't use it? What am I supposed to do. try bluffing her out, at sev­ en? I have no complicated sense of strategy, for Christ’s sake [... ] Why a knife why the threat of murder, why is such total and annihilating vic­ tory necessary - when only the day before she set down her iron and the ironing board and applauded as I stormed around the kitchen re­ hearsing my role as Christopher Columbus in the third-grade produc­ tion ofZzmJ/ft>.'(Roth, 1969. 16-17). Nell'intreccio di motivi autobiografici e artistici, la caratteristica di maggior interesse della madre ebrea è la sua ubiquità. Alla signora Por­ tnoy vengono attribuiti alcuni poteri, in qualche modo sovrannaturali. All’inizio del romanzo, Alex descrive la propria infantile meraviglia al cospetto della sua potenza pervasiva: She was so deeply imbedded in my consciousness that for the first year of school I seem to have believed that each of my teachers was my mother in disguise. As soon as the last bell had sounded. I would rush off for home, wondering as I ran if I could possibly make it to our apart­ ment before she had succeded in transforming herself. Invariably she was already in the kitchen by the time I arrived, and setting out my milk and cookies. Instead of causing me to give up my delusions, however, the feat merely intensified my respect for her powers (Roth. 1969, 3).

La signora Portnoy è capace di incarnarsi e lievitare. Nelle fantasie edipiche di Alex, capita di vederla volare:

Flying in from school to the bedroom window, or making herself emerge, limb by limb, out of an invisible state into her apron. (Roth, 1969.4). I poteri sovrannaturali delle madri hanno a che vedere col controllo sulla buona condotta dei figli. I didn’t pretend to understand all the implication of her ubiquity, but that it had to do with finding out the kind of little boy I was when I thought she wasn’t around - that was indisputable (Roth. 1969.4).

Questa onnipresenza viene tradotta in termini squisitamente cine­ matografici da Alien che, letteralmente, ingigantisce l’immagine della signora Miller proiettandola in cielo. Scomparsa in un teatro in seguito ad una malriuscita dimostrazione di magia, l'anziana signora ricompa­ re sui cieli di Manhattan come proiezione gigantesca e vociferante, rac­

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contando di sé e soprattutto di Sheldon, con somma vergogna del figlio, che, sopraffatto da una folla di gente curiosa e di giornalisti che gli dan­ no la caccia per le strade di New York, si fa sempre più schivo e non trova vie di fuga nemmeno nella vastità metropolitana. Tutto questo richiama i fondamenti comunicativi e psicologici del­ l’immagine cinematografica: l’ingrandimento attraverso l’obiettivo e la proiezione sullo schermo. La signora Millstein diventa un’amplifi­ cazione paradossale dello strumento espressivo di Alien e impersona il cinema. È grazie a questo suo stato che conquista il consenso genera­ le. Con i suoi nuovi “poteri’’, sollecita la comunità civile. Dal suo van­ taggioso punto di vista, la signora Millstein si mostra alla popolazione di New York e fa indiscrete rivelazioni private, con effetto umoristico eccezionale. La gente per le strade è incantata, la apprezza: tanto più che ascolta ciò che ama sentire, vicende di famiglia, fatti quotidiani di altre vite, che può investire dei propri fardelli personali. È la popolarità del cinema come intrattenimento. Il successo che la signora Millstein ottiene quale gigantografia celeste replica il traguar­ do artistico di Alien. Al contempo, questo stato di grazia è diametral­ mente opposto alla timidezza di Sheldon. L’anziana signora ha raggiunto la posizione che il figlio sogna e che è troppo spaventato o inetto per ot­ tenere. Il sogno del successo, e con esso il consenso universale, una po­ sizione sociale donde essere amati e approvati, è un obbiettivo ben ra­ dicato in chi cerca di affermarsi nel mondo dello spettacolo. D’altro canto, il fatto che le madri rappresentate siano così visibili e udibili rivela una fondamentale ansia, una paura ancestrale di diven­ tare oggetto di giudizio, di essere esposti, sotto osservazione. La noto­ rietà mostra il suo lato beffardo e annichilente. Sheldon desidera che la madre non parli a voce troppo forte. Nel caso di Susie Portnoy l’invadenza sonora raggiunge una sfumatura per­ versa. Riferendosi a un ragazzo di quindici anni che viveva nello stes­ so stabile dei Portnoy e che “si è impiccato al tubo della doccia del ba­ gno”, Alex cita le chiacchiere di altre madri ebree del quartiere:

‘You couldn’t look for a boy more in love with his mother more than Roland!’ I swear to you this is not bullshit or a screen memory, these are the very words these women use. The great dark operatic themes of hu­ man suffering and passion come rolling out of those mouths like the prices of Oxydol and Del Monte canned corn! My mother, let me re­ mind you. when I returned this past summer forni adventure in Europe, greets me over the phone with the following salutation: ‘Well how's

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my lover?’ Her lover she called me, while her husband is listening on the other extension! And it never occurs to her, if I am her lover, who is he. the schmegeggy she lives with? No. you don't have to go digging where these people are concerned - they wear the old unconscious on their sleeves'. (Roth. 1969, 97). Il romanzo attinge a un’idea degradante di consumismo. Qui l’og­ getto del degrado sono i nobili profondi contenuti della psiche umana. L’implicazione non è semplicemente che il discorso di queste madri sia superficiale e leggero. L’inconscio è declassato a oggetto di consu­ mo. I motori della psiche sono trattati in modo banale, come merce, esplicitati sonoramente come in uno spot pubblicitario. La madre ebrea, infatti, non è qui l’oggetto della rappresentazione. Il vero oggetto sono i modi della auto-rappresentazione. Ella minaccia il discorso psicanalitico sulle repressioni dell’inconscio banalizzando e svendendo sentimenti e motivi nascosti. Ciò che essa fa non è tutta­ via tanto diverso dal meccanismo che il suo figliolo, narratore, ha in­ nescato nella propria comunicazione scritta - o filmica. II romanzo, o il film, non sono dopotutto, paiodie del racconto psicoanalitico? Di fat­ to, essi ne sono la semplificazione, e la popolarizzazione. La rivela­ zione del contenuto latente della coscienza di Alex non è così diffe­ rente dal modo in cui Susie Portnoy “porta il vecchio inconscio in pal­ mo di mano”. Alex stesso afferma con forza che nella sua vita non c’è niente di ciò che viene chiamato “contenuto latente”. Il suo subconscio prende for­ ma negli eventi reali: Dreams? If only they had been! Bui I don't need dreams [...] With me it all happens in broad daylight! The disproportionate and the melo­ dramatic. this is my daily bread! The coincidences of dreams, the sym­ bols, the terrifyingly laughable situations, the oddly ominous banalities, the accidents and humiliations, the bizarrely appropriate strokes that other people experience with their eyes shut. I get with mine open! |...] Doctor, maybe other patients dream - with me. every thing happens. I have a life without latent content. The dream thing happens (Roth, 1969, 275). Non solo Alex sostiene di non conoscere separazione fra subconscio e azione, ma la sua stessa narrazione cresce e si sviluppa grazie a un principio di transfert dai contenuti della psiche al piano letterario, con­ venzionalmente in assenza di censura. Con Alien quella qualità oniri­ ca, che Alex riconosce come distintiva della esperienza ebraica, divie­

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ne realtà. È così che l’inevitabile dominio esercitato dalla signora Mill­ stein si sposta dal piano simbolico a quello letterale. In sostanza, mentre le dimensioni gigantesche e celesti e l'attratti­ va sul pubblico fanno della signora Millstein una metafora del cinema, il discorso della signora Portnoy, insieme a quello delle altre madri del vicinato, porta l’attenzione sul discorso letterario e la sua relazione con la psicanalisi. Mettere in scena la madre ebrea, in ultima analisi, per­ mette di riflettere sul potere del discorso. Eloquenza, canale della co­ municazione, negoziazione della propria immagine pubblica. Alex Portnoy esprime apertamente la questione del make-up ebrai­ co dell’eloquenza e pervasività di queste madri.

“What are they, after all, these Jewish women who raised us up as chil­ dren? In Calabria you see their suffering conterparts sitting like stones in the churches, swallowing all the hideous Catholic bullshit: in Cal­ cutta they beg in the streets, or if they are lucky, are off somewhere in a dusty field hitched up to a plow [...] Only in America, Rabbi Gold­ en, do these peasants, our mothers, get their hair dyed platinum at the age of sixty [...J and with opinions on every subject under the sun. Il isn't their fault they were given a gift like speech" (Roth, 1969, 98).

Alex lamenta che queste donne abbiano accesso ad ogni “soggetto sot­ to il sole". È il loro stile, segnale di ebraicità. che diventa l'obbiettivo del rigetto: mostrare emozioni e drammatizzare l'ordinario in netta con­ trapposizione collo standard americano. Ciò rappresenta una delle prin­ cipali ragioni di vergogna e di ribellione dei tìgli. Di contro, questi fi­ gli mostrano di essere affascinati dalle schikses (donne non ebree), le cui madri sono miti e dolci e proteggono la privacy dalla esposizione pubblica:

I know where the schikses live from the kind of curtains their mothers hang in the windows (Roth, 1969, 143). Le schikses sono simboli di stili retorici e regimi estetici distanti:

Their fathers are men with white hair and deep voices who never use double negatives, and their mothers the ladies with the kindly smiles and the wonderful manners who say things like. T do believe. Mary, that we sold thirty-live cakes al the Bake Sale’. ’Don't be to late, dear', they sing out sweetly to their little tulips (Roth, 1969. 145). La caratteristica del parlare non ebraico è la separatezza, la riserva­ tezza e la dolcezza. La mamma ebrea, invece, parla di cose intime: di­

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vulga ciò che si dovrebbe nascondere. Non concepisce vergogna e non sembra rendersi conto di espon e continuamente il protagonista. In Oe­ dipus, la madre mostra alla fidanzata delle foto del figlio da bambino, con commenti sul suo “sederino”, e non perde occasione per far sape­ re a una persona appena conosciuta che Sheldon ha cambiato il suo co­ gnome in Mill. In Portnoy, dove l’interferenza di Susy con l’immagi­ ne di Alex è indiretta, analizzata più che drammatizzata, la sua inva­ denza è molto più potente nella sfera privata. Dà la caccia ad Alex nel bagno. Non gli permette di mangiare fuori casa. Controlla ogni sua fun­ zione corporea e fa leva sul suo senso di colpa. La mamma ebrea opera quindi come un chiasmo. Esaspera ciò che è meno apparente nell’operazione di Allen e Roth e permette di far pas­ sare ciò che sta loro più a cuore. Susie Portnoy e Sadie Millstein sono la minaccia a un’immagine pubblica “established”. Alex e Sheldon hanno già raggiunto una posi­ zione sociale, nel lavoro. Alex è Assistant Commissioner of Human Opportunity per la città di New York e Sheldon è socio di un importante studio legale. Le madri li trascinano invece nella sfera privata, li rele­ gano a un regime familiare che equivale a una regressione, alla man­ canza di sofisticazione. Esse contaminano la sfera pubblica con ciò che è intimo e recondito, confondendo ciò che i loro figli si sforzano tena­ cemente di tenere distinto. Sono strumenti di auto-accusa. Romanzo e film contengono una sostanziale contraddizione fra protezione della privacy ed esibizione di motivi interiori attraverso la confessione. Confessare, lamenta Alex, è inevitabile per un uomo ebreo. È una “sindrome” ebraica e per di più indotta dalle donne. Parlando dell’amante del padre, Alex la­ menta:

Why did you bring a schikse, of all things, into our home? [...] because you could no longer live your own life without making Jewish confes­ sion? Without confronting your wife with your crime, so she might ac­ cuse, castigate, humiliate, punish, and thus bleed you forever of for­ bidden lusts? Yes. a regular Jewish desperado, my father. I recognize the syndrome perfectly. Come, someone, anyone, find me out and con­ demn me (Roth. 1969, 84-85).

Alex si vergogna di svelare la propria condotta privata, specialmente le trasgressioni sessuali, ai suoi colleghi di rango più alto. Fa tutti gli sforzi possibili per occultare le sue amanti, per non farle conoscere pubblicamente.

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D’altra parte, i racconti di Alex e di Sheldon sono autentici atti di esibizionismo. Le loro confessioni non fanno che rivelare i segreti in­ dicibili della loro vita personale. Come afferma Stephen J. Whitfield, “fra gli impulsi più burleschi di Portnoy c’è la magnificazione della sua vergogna nei titoli dei giornali, c’è il vedere come apparirebbero i suoi crimini se fossero validati dai media” (Whitfield, 1982, 205). Per dare un esempio: ‘MODEL SLITS THROAT IN AMPHITHEATRE: Medea Interrupted by Suicide .. .and they’ll publish the note they find ...’. Alexander Portnoy is responsible. He forced me to sleep with a wore and then wouldn’t make me an honest women. Mary Jane Reed (Whitfield. 1982. 249).

In Portnoy i titoli dei giornali stigmatizzano l’ansia di esporsi, la vergogna, mentre nel lavoro di Alien è la magnificazione cinemato­ grafica che traduce la paura di diventare oggetto del ridicolo. Immagi­ ne e parola scritta costituiscono il terreno in cui affiora la tensione tra esibizionismo narcisistico e timoroso auto-occultamento. In questi due autori il timore della vocalizzazione o magnificazione mediatica rive­ la una relazione problematica tra il desiderio di produrre un discorso specificamente ebraico, pur carico di senso di tradimento, e una rispo­ sta pubblica. Al fondo di questa tensione tra terrore e fascino che Al­ ien e Roth dominano mentre mostrano se stessi sta il potere di media­ zione del romanzo, negli anni Sessanta, e del cinema un ventennio più tardi. In un caso e nell'altro si tratta di fasi in cui il controverso rapporto tra un intellettuale ebreo e il suo pubblico si trova in bilico tra la mo­ derata apertura del secondo e un maggiore potere di negoziazione del primo. Queste narrazioni si prendono gioco del concetto psicanalitico di terapia attraverso il racconto. L'elemento terapeutico va visto non già nel metabolismo di una figura genitoriale (e quindi di una storia cul­ turale), ma proprio nella appropriazione di strumenti linguistici e ar­ tistici: scrivere e filmare costituiscono un luogo possibile in cui av­ viene uno spostamento dall’indicibile, intimo, ancestrale, al vocaliz­ zato (e ridicolizzato), al visibile, pubblico. La madre si fa dispositivo impiegato per portare ciò che è intimo a livello di visibilità pubblica. La sua scomoda presenza reca le incontrovertibili tracce dell’urgenza di tale sforzo. La madre è il pretesto che rende plausibile i rischi di una narrativa confessionale. Il suo raggio d’influenza si espande dalla diegesi alla politica testuale. La madre è lo specchio deformante e lo scudo rifran­

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gente della mente del figlio. È lo strumento ultimo che rende tollerabile una narrativa ebraica autobiografica, poiché

l’ebreo [...] è pur sempre fatalmente consapevole dello sguardo degli altri, della necessità inevitabile che, prima o poi, ogni suo discorso ven­ ga sottoposto a revisioni e controlli incrociati, tanto più minuziosi quanto più provenienti dall’intemo (Fink, 1999, X-XI).

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Il patriarcato secondo Wodetu. Riflessioni etnografiche su un concetto sentimentale Valentina Peveri

Pensieri estravaganti

A qualunque conclusione dovessero giungere, ammetterebbero il mio punto di partenza: lo studio dei caratteri e delle profonde modificazio­ ni dell’organismo sotto l’influsso dell’ambiente e delle circostanze. Mi troverei di fronte a veri giudici, a uomini che in buona fede ricercano il vero, scevri di puerilità o di falso pudore, che non si sentirebbero in dovere di apparire disgustati davanti a pezzi anatomici nudi e viventi. Lo studio sincero purifica tutto, come il fuoco (Émile Zola, 2001, Pre­ fazione). Dopo decenni di intensa rielaborazione dell'antropologia, di continue ri definizioni del suo statuto, dei suoi oggetti e della (ormai compro­ messa?) legittimità a tradurre sistemi non occidentali attraverso mezzi inventati e controllati dall’occidente: dopo aver smascherato con ac­ cese polemiche le collusioni della disciplina coi poteri coloniali e, una volta tramontati gli imperi in Africa e altrove, la sua complicità nei pro­ cessi di ricolonizzazione intellettuale, non è scontato volersi confron­ tare sul tema della rappresentazione senza chiamare in causa l’ondata critica postmoderna che, a partire da angolazioni letterarie, ha espres­ so profondi tormenti interiori rispetto alle poetiche e politiche dell’et­ nografia, investendo con verve dissacratoria di volta in volta i concet­ ti di trasparenza, dialogicità. lettura testuale e, appunto, rappresenta­ zione (Clifford, Marcus, 2001 ). Pur nella consapevolezza di quanto per­ sistente sia stato il predominio della prospettiva riflessiva, in questo saggio intendo comunque prendere le distanze da prassi critiche che mirano, con virtuosismi stilistici talvolta noiosi, a mostrare il grado di

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finzione di ogni testo prodotto sull’alterità, e quindi a dissolvere i con­ cetti vecchi senza lasciarne intravedere di nuovi che li possano util­ mente rimpiazzare. Il tentativo, al contrario, è proprio quello di recu­ perare in parte quella fiducia nel valore della disciplina che è stata ti­ pica dell’antropologia classica. Le peregrinazioni puramente retoriche, lontane dai contesti politi­ ci fisicamente sperimentati e da dinamiche di potere in atto, saranno temperate da un lavoro etnografico - ahimè, ancora vecchio stampo e tradizionale - di cui propongo alcuni risultati parziali, nella convin­ zione che “(l)a riflessione critica di secondo livello, invece di essere una diramazione di poco conto, è un’industria sostanzialmente in cre­ scita. Molto più facile da fare del lavoro sul campo, può essere pro­ dotta con dei soggiorni in biblioteca. Non richiede di assumere far­ maci antimalarici, di percorrere a piedi strade impolverate e di tro­ varsi direttamente di fronte ai dilemmi e alle invidie degli africani in carne e ossa” (Falk Moore. 2004, 91). Metterò dunque l’accento sul rapporto, talvolta di pacifica convivenza, più spesso di scollamento, tra i modelli accademici e le situazioni osservate direttamente dagli et­ nografi. L’obiettivo è di mostrare l’utilità del metodo etnografico (denomi­ nato fra colleghi, con un pizzico di orgoglio per la rusticità del termi­ ne, lavoro di campo) quando si tratta di ripensare la cassetta degli stru­ menti concettuali che il ricercatore ha allestito in anni di studio e che in seguito, con una certa dose di scontatezza e passività, tende a ripro­ durre come chiavi di lettura del reale. In particolare mi concentrerò su un termine, patriarcato, che nelle parole di giornalisti, medici, attivi­ sti per i diritti umani e addirittura antropologi viene direttamente o in­ direttamente utilizzato come sinonimo volgare per indicare una gene­ rica subordinazione delle donne. Illustrerò come tale concetto continui a soggiornare, in termini più di intuizione prelogica che di dato razio­ nale, fra le categorie degli analisti e a orientare certe letture dell’op­ pressione femminile (Camino, 2011, 58). A tale modalità di rappre­ sentazione. radicata nel senso comune e in certa accademia, verrà af­ fiancata la percezione che di se stessi forniscono alcuni soggetti agen­ ti in una zona centro-meridionale dell’Etiopia dove ho condotto una ri­ cerca etnografica fra 2004 e 2009, per un totale di dodici mesi, oscil­ lando teoricamente fra i contenitori “antropologia politica” e “studi di genere”, e avendo intrattenuto un rapporto intenso e privilegiato con quindici donne di una comunità di villaggio. Metteremo a confronto le immagini del potere femminile (a) quando attribuite dall’esterno, frut-

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to di testi che le interpretano e narrano ad uso e consumo di un pubblico occidentale e (b) come rilevate dai protagonisti della storia, reali e per­ sonalmente incontrati, cioè da un punto di vista indigeno. Come già anticipato, questa operazione non ha nulla a che fare con le vocazioni riflessive e autobiografiche di una parte significativa dell’antropologia contemporanea, né con un tipo di etnografìa sentimentale che si fonde, spesso confondendosi, con la letteratura, l’introspezione e la medita­ zione (Rosaldo, 2001). Il problema è di tipo tecnico e scientifico prima ancora che stilisti­ co. Una volta che è stato là, fra le persone in carne e ossa (pezzi ana­ tomici nudi e viventi), l’etnografo torna a casa e si confronta con il problema della traduzione di vita, vera e traboccante, sulla pagina bianca: deve interrogarsi su cosa significa rappresentare, mediare fra l’esigenza di verità (o verosimiglianza) e le versioni caotiche raccol­ te sul campo, ricreare situazioni logiche secondo sistemi che, mentre facilitano la traduzione da una cultura all’altra, al tempo stesso addo­ mesticano e quindi in parte tradiscono le cosmovisioni indigene. Nel­ le pagine che seguono vorrei dimostrare quanto sia urgente da un pun­ to di vista etico abbandonare il nostro bisogno di ricreare situazioni di perfetta logica, costruite attraverso uno strumentario concettuale già rodato, quando ci troviamo di fronte a immagini e concezioni che sfug­ gono alle chiavi di lettura a cui siamo affezionati. Il fatto che i pezzi raccolti sul campo non combacino perfettamente, i problemi e le cro­ nache di errori documentati con dolore in etnografia, ci mettono in guardia dall'applicare i modelli a disposizione in forma fissa. Il lavo­ ro etnografico conduce a scenari cinici, a narrazioni di donne che sfi­ dano un certo numero di idee comuni negli scritti femministi e rias­ sumibili come segue: che esista una essenziale e universale categoria donna: che tale categoria, attraverso i tempi e i luoghi, sia sempre in qualche modo segnata dalla subordinazione: che ad essa corrisponda per antitesi un’altra categoria in funzione oppressiva, altrettanto fissa, chiamata uomo. Se è vero che i movimenti femministi in Occidente hanno nel corso del tempo ampiamente decostruito tali stereotipi di genere ( Demaria, 2003, 25-66), perché ciò che si mette in scena per ar­ rivare a definire le donne di altri luoghi e altre culture è sempre la ver­ sione meno sofisticata di tali teorie? Cercheremo quindi di mantenere uno sguardo critico su come vie­ ne assemblato il concetto di patriarcato oscillando fra parti teoriche e parti vitali. Gli antidoti all’astrazione presente in certi testi classici sul genere sono di due tipi: la frequentazione di letteratura eterodossa e, ap­

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punto, il lavoro etnografico. Segnalo in particolare due autori che han­ no causato una inesorabile rivoluzione copernicana nel mio sguardo sugli ambienti e i poteri femminili: la sociologa nigeriana Oyeronke Oyewumi (1997) e raffresco di James C. Scott (2006) sulle questioni del dominio, le arti della resistenza, l’elusiva condotta politica dei grup­ pi subordinati (il testo si apre con un eloquente proverbio etiope: Quan­ do passa il gran signore, il saggio villico fa un profondo inchino e si­ lenziosamente scoreggia). Per quanto riguarda il potenziale dissacra­ torio della pratica etnografica, che al filtro dei testi non può mai sacri­ ficare la questione dei casi raccolti, basti qui ricordare un tempo in cui l’antropologia culturale amava presentarsi come scienza dubitativa per eccellenza e metodo di avvio alla disillusione e al decentramento: “L’umanesimo etnografico è in un certo senso la via difficile del­ l’umanesimo moderno, quella che assume come punto di partenza l’umanamente piu lontano e che, mediante rincontro sul terreno con umanità viventi, si espone deliberatamente all’oltraggio delle memorie culturali piu care: chi non sopporta quest'oltraggio e non è capace di convertirlo in esame di coscienza, non è adatto alla ricerca etnografi­ ca, e miglior prova di sé potrà eventualmente dare nell’ambito dell’umanesimo filologico e classicistico, che è pur sempre, malgrado tut­ to, un dialogo in famiglia” (De Martino, 1977, 393). Questa capacità appresa a spaesarsi, a sentirsi fuori posto anche e soprattutto nei luoghi fisici e letterari in cui si è nati e si vive, è il filo rosso che seguirò per sostituire alcuni paradigmi classici con pensieri, se non paradigmi, estravaganti: per dare la misura della fragilità di al­ cuni concetti se messi a confronto con la robustezza delle cosmologie indigene, portatrici di un ethos differente. Analizzerò la frizione fra di­ versi sistemi morali: da un lato l’emozionalità del concetto di patriar­ cato, a forte partecipazione collettiva, dall’altra l’analisi politicamente neutrale di donne che non possiedono vocabolari femministi e che for­ niscono risposte anti-eroiche, minimali e concrete alla questione del potere e della subordinazione. Questa tensione verso una descrizione il più possibile sincera, che rappresenta “tranches de vie” nei suoi aspet­ ti più realisti, a volte spiacevoli, porta il marchio di una certa poetica naturalista del secondo Ottocento, quando gli artisti-scienziati rivendi­ cavano l’osservazione distaccata come unico metodo che, attraverso i dati raccolti sul campo, produceva resoconti spassionati sui mondi dei “vinti”. Senza risolvere l'altalena, cavalcata dalla nostra disciplina, tra di­ stacco scientifico ed empatia umana, ci opporremo ai coinvolgimenti

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sentimentali suscitati dai dibattiti internazionali sulla condizione delle donne - sempre in qualche modo sofferenti o patologizzate - per ri­ portare il punto di vista dei personaggi, le vicende umili della vita quo­ tidiana. Respingeremo le tentazioni della fantasia e del sentimento e mostreremo quanto i soggetti dipendano dal contesto, sia naturale che sociale. Nella casa di Émile Zola a Mèdan, vari autori avevano matu­ rato il rifiuto del romanticismo sentimentale ed eroico. In una nota su L'Assomoir (1877), lo scrittore descriveva il suo lavoro come pieno di verità - obiettivo troppo ambizioso per i nostri scopi - e che portava ad­ dosso “l'odore del popolo": questa sì, una qualità che nobilita l'etno­ grafia e richiama il valore deH’essmv fisicamente stati contro le deri­ ve postmoderne attente ai flussi (di merci, forme di comunicazione e rappresentazioni) e alle transizioni macroscopiche. Qui mi dedicherò solo parzialmente alla descrizione delle grandi correnti, privilegiando invece le reazioni o contro-interpretazioni che imbrigliano tali dinami­ che globali a livello locale. Dunque faremo un leggero bagno di teoria per poi tornare a sporcarci le mani di realtà sanguigne e corporee.

La parabola dell'oppressione Fare la cronaca del patriarcato significa inseguire un concetto equivo­ co e di una ampiezza semantica disorientante, le cui origini vengono fatte risalire al Neolitico (Lerner, 1986: Meillassoux, 1992). Nel corso dei secoli fotografa le donne come prima forma di proprietà privata, ri­ produttrici di uomini, schiave (in Mesopotamia), velate (presso gli As­ siri), controllate sessualmente e quindi subordinate. Questa parabola dell’oppressione copre un periodo di 2500 anni, troppo dilatato nello spazio e nel tempo per poter essere passato al vaglio antropologico1. Se­ condo le definizioni correnti, patriarcato è ogni sistema organizzativo in cui la schiacciante maggioranza delle posizioni di superiorità all’in­ terno di una gerarchia sono occupate dai maschi. La regola è che le donne derivino il proprio status dal lignaggio o dal marito e che. con­ seguentemente, vengano costruite come soggetti prepolitici. La socie­ tà patriarcale è, secondo chi ne sostiene la storicità, una formazione so­ ciale precapitalistica dove seclusione femminile, eredità in linea paler-1 1 Non è mia intenzione fornire una rassegna completa dei dibattiti teorici intorno al concetto di patriarcato, già ampiamente disponibile in letteratura (Barrett. 1980; Beechey. 1979: Delphy. 1977; Mies, 1986; Young. 1981).

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na e residenza patrilocale avrebbero assicurato resistenza dei sistemi agricoli in Europa, Asia e Nord Africa. Questa primigenia forma cor­ porativa del nucleo famigliale contrasta con la più debole coesione del­ l’unità coniugale nei Caraibi, in parte dell’America latina e nell'Afri­ ca subsahariana, dove il significato dei legami lignatici più che coniu­ gali è il principio organizzativo fondamentale (Boserup. 1982). Vedre­ mo in seguito la rilevanza di questa debolezza della coppia mogliemarito all’interno della società Hadiya, per il momento basti notale co­ me tali sottigliezze culturali sfuggano alle grandi sintesi sulla genesi e le forme di patriarcato. Nell’introduzione al testo ad oggi più completo sul tema. Theorizing Patriarchy ( 1990), Sylvia Walby sostiene che non si possa fare a me­ no di utilizzare una terminologia patriarcale ogni qual volta si analizzi la diseguaglianza di genere. Prima ancora di pronunciale il concetto cardine, una sequela di qualificazioni vanno a caratterizzare le vite del­ le donne: svantaggio (disadvantaged), restrizione (restricting), subor­ dinazione (subordination) e oppressione (oppression). Il quadro toglie il fiato, inglobando le possibili critiche e sbriciolandone la portata con toni apocalittici - salvo poi riconoscere, di sfuggita, che tale arma­ mentario politico è specialmente applicabile alle società occidentali contemporanee e in particolare alla Gran Bretagna: “Critics of the con­ cept have argued that it necessarily invokes an essentialist. ahistoric analysis which is insensitive to the range of experiences of women of different cultures, classes and ethnicities (e.g. Barrett. 1980; Rowbotham, 1981). I shall argue that these criticisms are misplaced, relevant only to a few of the cruder early accounts. On the contrary, the concept and theory of patriarchy is essential to capture the depth, pervasiveness and interconnectedness of different aspects of women’s subordination, and can be developed in such a way as to take into account of the dif­ ferent forms of gender inequality over time, class, and ethnic group” (Walby, 1990, 2). La letteratura vecchia e nuova procede solitamente ad analizzare le distinzioni fra tipi patriarcali di organizzazione, dalle forme più dolci e invisibili del neopatriarcato - moderno, liberale e superilluminato nella forma, ma non meno misogino nei contenuti (Casalini, 2011 ) - al­ l'estremo del patriarcato islamico/fondamentalisla con le tipiche nar­ rative di stampo orientalista sul nesso fra velo e segregazione. Secon­ do le visioni occidentali il termine è indistintamente utile a sintetizza­ re sfruttamento economico, diseguaglianza di genere, violenza ma­ schile. Anche le ricerche dell’epoca d’oro del femminismo (la cosid­

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detta gender sensitive research)2 danno ugualmente per scontata la de­ terminatezza della dominazione patriarcale. Spesso dimentichiamo quanto sia necessario tracciare una precisa genealogia delle idee che contribuiamo a diffondere. 11 significato del patriarcato ha trovato una prima articolazione in Nord America e Gran Bretagna. I movimenti delle donne si sono differenziati, dedicandosi ad aggredire tale con­ cetto da prospettive complementari: fondamentalmente analisi sulla no­ zione di famiglia, sul velo e sul binarismo pubblico/privato. Se i fem­ minismi occidentali si distinguono in un certo numero di tradizioni po­ litiche (liberale, radicale, socialista, poststrutturalista, postmoderna), tutti condividono però una visione della donna come ostacolata dalle re­ strizioni patriarcali (Walby, 1990, 3-7). Il patriarcato viene letto come struttura di dominazione che istituisce la famiglia come origine delToppressione, luogo chiave per la colonizzazione dei corpi delle don­ ne (Tabet, 2004). I più svariati femminismi lavorano per sradicare do­ minazione ed elitismo in ogni relazione umana, con lo scopo ultimo dell’autodeterminazione e del crollo della società come la conosciamo oggi, nella profonda convinzione che la rivoluzione totale sia possibi­ le e auspicabile. In queste rassegne non è chiaro quale sia esattamente la posizione delle donne nere in relazione al modello proposto. Alcune studiose pre­ sumono implicitamente che il femminismo borghese nato in Occiden­ te offra un modello superiore per le donne del mondo non occidentale, cadendo così in un certo imperialismo culturale nel loro incontro con V Africa (Abu-Lughod, 2007: Amadiume, 1987: Amdt, 2000: Cornwall, 2005: Oyewumi, 1997). Il discorso patriarcale occidentale viene dis­

2 Le Nazioni Unite dichiararono il 1975 Anno Internazionale delle Donne. Una con­ ferenza mondiale fu tenuta in Messico, durante la quale l'intervallo 1975-1985 venne inaugurato come Decade delle Donne. Seguì una nuova conferenza a Copenhagen nel 1980 e quindi a Nairobi nel 1985. Alcune voci fuori dal coro forniscono una versione poco esaltante di queste politiche femministe di respiro governativo: “The importance of the Women’s Decade has to do with the way it unequivocally put women as a victi­ mized category on the world's agenda. Womanhood has been pathologized. at a global level, and the concerns of the feminist international have underlined this globalization of what was once a local Western preoccupation. Germaine Greer, the Australian femi­ nist. was right when she declared in 1975: The decision to have a women's year was sim­ ply a belated recognition of the fashionableness of feminism in the West, whose life­ styles dominate the UN self-image.... International Women's Year is a single extension of Madison Avenue feminism: the agricultural laborers of Asia and Africa might as well lay down their hoes and light up a Virginia Slim" (Oyewumi. 1997. 177).

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seminato come passe-partout efficace per comprendere la questione delle donne. Il linguaggio del femminismo, cooptato al servizio delle strategie progressiste, si nutre involontariamente di tale immaginario (Feldman, 2001, 1102). Nelle principali politiche di sviluppo prevale l’ipotesi che il cambiamento sia un processo lineare che vede le donne come soggetti che rispondono passivamente e le cui azioni non sono co­ stitutive dei mondi che abitano. Gli attivisti illuminati, secondo cui l’op­ posizione deve innescarsi a partire dalle indigene, non dagli stranieri per quanto benintenzionati, restano inchiodati all’idea che le donne riu­ sciranno a cambiare quando saranno meno economicamente dipendenti dagli uomini e quindi meno disposte a soddisfare i propri mariti. Il pre­ supposto è che abbiano poco da guadagnare e molto da perdere se di­ ventano totalmente dipendenti. La soluzione più frequentemente sug­ gerita è di migliorale le loro opportunità in termini di scolarizzazione e impiego, facendo in modo che aumenti l’accesso al potere politico­ economico. In questo modo, auspicabilmente dal punto di vista degli operatori umanitari, il matrimonio e la gravidanza smetteranno di es­ sere la fonte primaria di sicurezza femminile (Sargent. 1991). Tali lo­ giche emergenziali agiscono per promuovere i diritti degli oppressi sen­ za che questi prendano attivamente parte alla definizione dei loro inte­ ressi (Howard, 1995: 2izek. 2005). Le teorie meno compromesse con la prospettiva sviluppista utiliz­ zano l’espressione patriarchal bargains (Kandiyoti. 1988) e indagano come il patriarcato sia negoziato secondo un approccio, appunto, di patteggiamento, con donne che strategizzano all'interno di concrete co­ strizioni nel tentativo di massimizzare le proprie chances vitali. Queste analisi negano l’esistenza di un’esperienza condivisa fra le donne. Le più recenti evoluzioni attaccano la nozione normativa di patriarcato, sostenendo che si tratterebbe di un insieme di variabili contingenti e contraddittorie (Butler, 1996: Haraway, 1988: Mohanty, 2006). Tali ap­ procci argomentano a favore di una teoria del linguaggio, della sog­ gettività e del potere che si chieda perché le donne tollerino relazioni sociali che subordinano i loro interessi a quelli degli uomini, sollevan­ do il problema del consenso: perché i dominati dovrebbero adeguarsi alla loro stessa dominazione anche senza l’uso della violenza? Cer­ cherò di formulare una risposta a tale quesito nelle pagine conclusive di questo saggio, per il momento proseguiamo a esplorale altre teorie, concepite al di fuori degli studi femministi e decisamente incendiarie, che hanno sfidato in anni vicini e lontani l’inerzia epistemologica di cui stiamo discutendo.

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Il testo sulla inevitabilità del patriarcato del sociobiologo Steven Goldberg (1973) venne prima respinto per 69 volte da 55 case editrici, quindi accolto con clamore e scandalo dai movimenti femministi. Se­ condo il nostro autore, non esiste luogo nel quale le posizioni di auto­ rità e status elevato non siano ricoperte nella stragrande maggioranza dai maschi. Non è mai esistita una società nella quale le donne abbia­ no governato3. Ciò sarebbe il risultato di differenze fisiologiche, che rendono la tendenza alla dominazione/aggressione più accentuata nei maschi, ma soprattutto di motivazioni e rinforzi sociali. E improbabi­ le che tale situazione venga rivoluzionata. E tuttavia tale posizione non può essere semplicisticamente liquidata come una giustificazione deifi inferiorità femminile. Lo nota un’antropoioga della gloriosa scuola britannica, di quella generazione di studiose che amavano le regole non perché andassero obbedite ma perché potevano flessibilmente essere usate a proprio vantaggio4: “Nevertheless, I dare say Dr Goldberg has had his spectacles broken by bands of angry Amazons [...]. All revo­ lutionaries like to think they are returning to a pristine state before the Fall. For sex revolutionaries this is matriarchy as Engels described it af­ ter misreading Morgan and others. Dr Goldberg [...] raises the ne­ glected question why it should be less disagreeable to be bossed by your brother than your husband" (Mair, 1977. 12). Goldberg rafforzò questa prospettiva sulle differenze biologiche in un’opera più recente. Why men rule (1993). L’autore definì gli studi di

3 Negli stessi anni Evans-Pritchard svolgeva medesime ciniche considerazioni da una prospettiva antropologica: *'E vero senza dubbio che in ogni società le bambine e le adolescenti si adattano, o sono costrette ad adattarsi dalle persone più anziane, al­ l’immagine di ciò che una donna deve essere in quella particolare società: ma preten­ dere come fanno molti - per esempio Margaret Mead e Simone de Beauvoir, quest’ul­ tima nel suo notevole libro Le deuxième sexe ( 1949) - che le differenze sociali e di tem­ peramento tra i sessi siano semplicemente il prodotto del condizionamento culturale, è una reificazione che non spiega un bel nulla: di certo non spiega un carattere della vita sociale così universale come il ruolo direttivo assuntovi dagli uomini” (1973.47). 4 Madre fondatrice di tale approccio morbido e di basso profilo alle questioni di ge­ nere - fu un pioniere negli studi su donne, cibo e potere rifiutando sempre ogni iden­ tificazione femminista — è l’anlropologa Audrey Richards. Lo squisito aplomb con cui affrontava temi spinosi e ingiustizie personali è racchiuso in parole leggere come una piuma: **As long ago as 1930.1 was sent to study a matrilineal society because it was thought particularly appropriate for a woman anthropologist to study women. When I got there, you will not be surprised to hear I found as many men as women” (cit. in Gladstone. 1986.352).

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genere la “vacca sacra" dell’accademia e si propose di mostrare quan­ to i femminismi, in nome di una ideologia cieca e sorda, avessero con­ tribuito a diffondere una percezione alquanto ottimistica del numero di variazioni a cui il comportamento umano e le istituzioni sociali posso­ no concretamente essere soggetti. All’utopia contrappose la cruda con­ statazione che ogni società debba almeno in parte conformarsi alla re­ altà psico-fisiologica. E aggiunse che credere che i maschi non do­ vrebbero avere una più accentuata tendenza alla dominazione è né più né meno che sperale nell’impossibile. Questa idea della predominan­ za maschile, non brutale, ma sempre accompagnata dall’istinto e dovere di protezione verso le femmine, mandò le femministe su tutte le furie. Goldberg continuò impassibile ad argomentare tesi poco confortevoli; a sostenere testardamente che il maschio mostra una tendenza più for­ te a esibire qualsivoglia comportamento sia necessario per ottenere una dominio gerarchico, e che ciò è il risultato di differenze fisiologiche: i maschi producono più testosterone; gli estrogeni, al contrario, rende­ rebbero le femmine passive/sottomesse. Genere e sesso, dunque, non sono indefinitamente malleabili. La sua teoria - che sostiene una cor­ relazione fra il comportamento e la dimensione ormonale, e ineludibi­ li differenze cognitive - continua a essere citata almeno fino al 2007. Drastica la conclusione: se il patriarcato è basato sulla biologia, allora è inevitabile5. Pur senza giungere a un confronto così netto fra forze della natura e forze della cultura, Alice Schlegel sosteneva qualcosa di simile nel te­ sto Male dominance andfemale autonomy (1972). Le donne sono spé­ cialiste nella manipolazione degli affetti, nella circonvenzione di ma­ riti e figli maschi. L’osservazione etnografica testimonia casi frequen­ ti di anziani patriarchi che impercettibilmente perdono terreno a favo­ re delle mogli. Anche se queste tattiche di potere individuali contri­ buiscono solo in minima parte ad alterare i termini strutturalmente sfa­ vorevoli dello script patriarcale, le donne diventano esperte nell’arte di ottimizzare le opportunità personali. Tale prospettiva, spesso liquidata come “conservatorismo femminile", verrà qui intesa, al contrario, co­ me intelligente condotta politica che i dominati muovono non in faccia, ma dietro le spalle del dominante. L’infrapolitica dei senza potere fun­ ziona per mezzo di forme segrete di insubordinazione, germogliale in 5 Per un approfondimento di più ’’scurrile pro vocazione" (nelle parole dei curato­ ri all*edizione italiana) si consulti il testo di Richard Wrangham e Dale Peterson (2005) sulla bestialità dei maschi, a cavallo fra primatologia e femminismo evolutivo.

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ambienti fuori mano - boschi, radure, fiere, mercati - e poi dissimula­ te di fronte al potente: “Facendo gli scemi, i subordinati fanno un uso creativo degli stereotipi creati per denigrarli. Se hanno la fama di stu­ pidi e un rifiuto diretto potrebbe essere pericoloso, possono travestire il rifiuto da ignoranza. L’uso sistematico dell’ignoranza da parte delle classi rurali per depistare le élite e lo Stato ha indotto Eric Hobsbawm a dichiarare: Il rifiuto di capire è una forma di lotta di classe" (Scott, 2006, 176). Chi denuncia a gran voce l’esclusione femminile dal mercato del lavoro e dalla partecipazione pubblica, facendone il cavallo di batta­ glia di nuove crociate liberatrici, solitamente non tiene in considera­ zione che la capacità di azione femminile si nasconde sotto discorsi normativi che ci restituiscono solo una caricatura dei subordinati, in questo caso delle donne senza potere la cui mobilità sarebbe spazial­ mente limitata alla casa e al cortile e che, in quanto mogli o figlie, sa­ rebbero escluse dall’autorità patriarcale maschile. Quando la letteratu­ ra le ha incorporate, le loro voci hanno subito caratterizzazioni goffe e spesso incorrette (Feldman. 2001, 1100). Se ‘Tesperienza delle donne là dove esse sono costituisce il punto di partenza fondamentale del­ l’analisi femminista" (Terragni, 1998, 132), se come giovani studiose di questioni di genere siamo chiamate a mettere in discussione il con­ cetto di obiettività e di distacco presupposti nei paradigmi tradiziona­ li. allora dobbiamo portare questa filosofia di ricerca sino in fondo, sen­ za temerne gli esiti. Ciò significa pone attenzione al racconto e al con­ testo di vita. Le posizioni degli individui subordinati generano illumi­ nanti questioni critiche (Spivak, 1988: Demaria, 2003, 132): in che mo­ do le donne indigene immaginano se stesse? Cosa è, in termini di autorappresentazione, la femminilità? In che rapporto queste immagini prodotte dall’intemo entrano in relazione con i giudizi moraleggianti prodotti in Occidente, dove volentieri si coprono di oblio le parti sco­ mode della storia degli altri? Da dove traggono il loro senso di identi­ tà? Dovremo dunque concludere che agiscono non per scelta ma per ignoranza? In questa escursione teorica ho voluto suggerire come “patriarca­ to" sia paradossalmente un termine descrittivo (denota la posizione cir­ coscritta delle donne all'interno dell'organizzazione domeslicti e, concentricamente, nelle arene pubbliche) incapace tuttavia di fornire de­ scrizioni scevre da un certo sentimentalismo d’annata. Anziché fun­ zionare come modello interpretativo, il concetto seduce, oppone le par­ ti e mobilita i sentimenti più che il senso logico degli studiosi che lo uti­

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lizzano, sacrificando la vitalità dei mondi femminili al gioco intellet­ tuale6. Tolto di mezzo il costrutto analitico del patriarcato, cosa acca­ de ai materiali raccolti sul campo? Continuano a funzionare, ma resti­ tuiscono verità poco confortanti, perché in contraddizione con le tra­ dizioni di pensiero a cui più siamo affezionati, e capaci di far saltare i paradigmi di genere messi a punto sui libri, durante le lotte per l’emancipazione, e imbevuti di un’emozione che non tutte le generazioni di studiose (e di donne) condividono. Nei prossimi paragrafi faremo l’esperimento di esporci a voci opache, a culture invisibili e non auto­ rizzate dalla nostra tradizione. Ci trasferiamo, il tempo di qualche pa­ gina, in una comunità di villaggio dell’Etiopia rurale.

La padrona del vapore Dopo varie peripezie personali e burocratiche, durante il soggiorno di campo del 2005 il cerchio della ricerca si è chiuso su un’area del di­ stretto di Lemu, in zona Hadiya, parte della South Nations Nationali­ ties and Peoples’ Region (SNNPR). Lamsella è un aggregato di abita­ zioni l’una addossata alle altre, ciascuna attorniata da vaste piantagio­ ni di enset (ensete ventricosum). Gli Hadiya, appartenenti al gruppo linguistico cuscitico orientale, adottarono l’agricoltura a fine Ottocen­ to. una volta conquistati dall’imperatore Menelik II. pur continuando ad avere molti aspetti culturali in comune con gli altri gruppi pastoralisti. La loro struttura sociale è basata su clans (sulla), suddivisi in lignaggi (monilo) e sotto-lignaggi o case (mine). L’enset gioca un ruolo fonda­ mentale nella vita economica e famigliare. Alcune qualità tipiche del­ la pianta, specialmente lunga durata e resilienza, su un piano umano diventano metafore dello spirito di sacrificio, intraprendenza, sotterra­ nea resistenza a urti e rischi delle donne Hadiya. I procedimenti di cu­ ra e meticolosa lavorazione sono di esclusivo dominio femminile. Nel­ le famiglie ricche le donne sono diventate organizzatrici di forza lavoro, mentre quelle povere prestano servizio nelle piantagioni. La rac­ colta è affidata a piccoli gruppi, formati da donne che intrattengono rapporti di amicizia o stretta parentela perlopiù lungo una linea fem­ 6 E neppure dei più sofisticati, se pensiamo alla versione grezza che queste logiche progressiste assumono dopo essere state filtrate e divulgate dalle improvvisate, ma non per questo meno pericolose, paladine della dignità femminile - Giuliana Sgrena. Lilli Gruber. Daniela Santanchè. solo per citare le pasionarias più nostrane e vocianti.

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minile. Ecco un primo aspetto rilevante in termini di costruzione di ge­ nere: le pratiche legate all’enset sono eseguite solo raramente in modo individuale. Prevedono cooperazione e facilitano il rafforzamento di reti femminili capaci di garantire un supporto fidato e reciproco. Si trat­ ta di aggregazioni informali nate su base lavorativa che possono di­ ventare veicoli potenziali di indipendenza sociale e autosufficienza eco­ nomica. Anche le dinamiche matrimoniali inducono a tracciare il profilo di una femminilità più disinvolta che passiva, più mobile di quanto i teo­ remi dell’oppressione presumono. Si parte solitamente dall’ipotesi che le donne intrattengano una relazione essenziale con la famiglia e la do­ mesticità, laddove sarebbe invece utile guardate a come le famiglie so­ no realmente costituite dai loro membri e le risorse che essi condivi­ dono. Non si tratta solo di cibo, ma soprattutto di beni sociali in termini di soggettività e identità. In questo senso il campo etnografico è una sfi­ da intellettuale che mette in discussione le condizioni per cui la domi­ nazione maschile determinerebbe il comportamento delle donne. Le problematiche legate allo studio dell’esperienza si intrecciano con il fondamentale problema della rappresentazione, che per le donne di cul­ ture altre significa essere catturate dai modi in cui i femminismi occi­ dentali interpretano le cosiddette relazioni patriarcali. I sistemi maschili di dominazione vengono resi idealtipici. In queste distorsioni semanti­ che. Africa subsahariana e Oriente diventano campioni di esotismo, al punto da essere identificati come patriarchal belt (Caldwell, 1978). La comunità qui in esame ricade perfettamente, da un punto di vi­ sta teorico, nel modello patriarcale descritto poco sopra. Nelle forme classiche il contesto patrilocale/patrilineare è predominante e prevede il cosiddetto matrimonio per acquisto attraverso il sistema della dote o della ricchezza della sposa (Arioti. 2006, 209-218). Le ragazze sono cedute in giovane età e migrano verso case rette dal padre del marito. In zona Hadiya l’esogamia è la scelta preferenziale a livello di clan. I matrimoni all’interno di lignaggi di un medesimo clan sono ritenuti in­ cestuosi e pericolosi per la salute dei nascituri. La sposa si trasferisce nella residenza dello sposo secondo un sistema virilocale. Con il con­ solidamento della cristianità, poligamia e levirato, un tempo frequen­ ti, vennero quasi completamente abbandonali. I bambini ereditano l’identità sociale del proprio padre. Se i percorsi maschili sono in qualche modo tracciabili, più sfuma­ ti risultano quelli femminili, perché le neospose perdono in un certo senso la propria età cronologica ed entrano nel lignaggio dell’uomo

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come neonate e straniere. Sono individui espropriati che possono sta­ bilire il proprio posto nella linea paterna solo producendo figli maschi. Le questioni economiche, la gestione di risorse materiali spesso scar­ se, diventano un’arma di contesa in ambito domestico, di rivendica­ zione aggressiva di spazi e ruoli. La donna gravita attorno alle ricchezze maschili in una posizione solo apparentemente sfavorevole: se è vero che la proprietà è nominalmente dell’uomo, la sposa può tuttavia inse­ rirsi nel gioco della spartizione a patto di aver partorito figli maschi in grado di ereditare dai padri. Reclamano in quanto mogli e madri, spin­ gendosi talvolta a usare il divorzio come strategia per ottenere pezzi di terra quanti sono i figli avuti dai diversi mariti (Peveri. 2010). L’affermazione che i figli servano per essere curati quando si è vec­ chi nasconde il nodo cruciale della corsa alla proprietà attuata dalle donne per mezzo di una figliolanza legittima; e gli uomini se ne la­ gnano tristemente: “avere figli da diverse mogli non è una buona cosa". Indaffarata a rivendicare i diritti dei figli, quindi suoi. Bakkalech in­ trecciava procedimenti penali e consuetudinari a danno del secondo marito; le amiche non avevano dubbi: “macché, non vuole ricomincia­ re la relazione col marito, vuole solo la proprietà!’’, e assestarono un colpo mortale al romanticismo dell’etnografa. La diretta interessata fu perentoria sulla centralità dei figli e l’evanescenza dei legami coniu­ gali: “non voglio un nuovo marito perché le mestruazioni sono finite: se mi sposassi sarebbe solo per stare insieme, lui baderebbe solo ai fi­ gli avuti in precedenza e non mi aiuterebbe coi miei". Tale abilità a navigare acque pericolose, divenendo imprenditrici di se stesse, ha spinto Pankhurst (1992) a definire la mobilità delle don­ ne Amhara (Etiopia settentrionale) nei termini di carriera. Pronte a sfruttale la flessibilità consentita dalle norme matrimoniali, esse per­ cepiscono il matrimonio, nella maggior parte dei casi, in termini eco­ nomici (“se c’è un problema col marito, lo risolviamo presto perché abbiamo molte cose", ripeteva una donna benestante di Lamsella); le emozioni non sono prese in con siderazione dal momento che è nor­ male per gli individui coinvolti non conoscersi prima delle cerimonia. In alcuni contesti etnografici (Feldman, 2001) tale intraprendenza dà luogo a forme di produzione del reddito e di risparmio sul salario che incidono profondamente sulla vita quotidiana, a dimostrazione che le relazioni di genere si articolano incessantemente con le economie, gli Stati, i mercati. La responsabilità degli uomini nel supportare le mogli, seppur normativa, di fatto è relativamente bassa. Solitamente è la don­ na a essere responsabile per se stessa e per i propri figli. Pur senza svol­

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gere lavori remunerati, e in mancanza di controllo sugli introiti ma­ schili, esse sanno come esaltare la propria autonomia: impediscono ai mariti di appropriarsi dei loro prodotti: si dedicano ad attività di mer­ cato e commercio; preparano e vendono cibo su circuiti locali. Le rotture fra coniugi hanno genesi meno sentimentali di quanto sa­ remmo portati a credere istintivamente. Il divorzio è ordinaria ammi­ nistrazione, l’instabilità matrimoniale elevatissima. La gelosia assume contorni di grande realismo, come spiega la giovane Gennet: “se Tegabu sposasse un’altra donna sarei gelosa e ucciderei l’altra. Non vor­ rei vivere con lei e userei il veleno per i topi. Senza Tegabu non avrei i soldi per vivere, così la prima azione sarebbe contro la seconda mo­ glie. Se lui è vivo mi può aiutare”. Sempre in cerca di garanzie, si adat­ tano a “rimanere attaccate” ai mondi maschili finché e nella misura in cui possono spremerli, lottando con altri soggetti per assicurarsi alcu­ ne delle risorse in gioco. Sono percepite, soprattutto dagli uomini, in termini contraddittori: custodi della casa e dei valori famigliari, ma an­ che elementi sospetti da mettere alla prova per testarne fedeltà e disin­ teresse. Le donne si dedicano poco e male a lenire il senso di vulnera­ bilità espresso dai maschi. L'adulterio è comune. Dal momento che vi­ vono circondate dai parenti del marito, temono l'esposizione e scelgo­ no tempi e luoghi adatti: incontri sul mercato, oppure fuoriuscite du­ rante la notte, quando c'è buio. Di solito lo fanno segretamente nelle piantagioni di enset. La loro testimonianza diretta entra in forte dissonanza con alcune ra­ dicate rappresentazioni femministe del potere e dell’autonomia delle donne africane. I miti di genere di cui prolifera la letteratura occiden­ tale (Cornwall, 2005, 13) vanno messi in tensione con specifiche for­ me di resistenza femminile, attuate non per fronteggiare l’oppressione ma per avvantaggiarsi di quella che è localmente percepita come una certa debolezza maschile. Il mio primo obiettivo polemico, accompa­ gnata dall’autorevolezza di voci sia accademiche che contadine al ri­ guardo, è il falso mito della coniugalità. Numerose studiose, non solo africane, hanno illustrato quanto varie siano le identificazioni e le affi­ liazioni femminili, ben oltre l’asse moglie-marito che è eventualmen­ te portante nella sola famiglia nucleare di fattura euro-americana (Lamphere, 2005; Ogundipe-Leslie, 1994; Oyewumi, 2000; Sudarkasa, 1986). Presso numerose società africane le relazioni con gli uomini so­ no per le donne piuttosto periferiche in termini di autopercezione, espe­ rienza quotidiana e desiderio. La distorsione in senso coitale e coniu­ gale quando si stila una classifica delle priorità femminili è importata

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dall’esterno tramite il prisma dello sviluppo, mentre le indigene, dal canto loro, dimostrano di preferire decisamente la consanguineità alla coniugalità. Il caso nigeriano è sicuramente il più esplorato. Secondo Oyewumi (1997, 50) il cuore pulsante delle dinamiche famigliari Igbó è rappresentato dalla madre coi suoi figli; concentrarsi eccessivamen­ te sulla patrilinearità come descritta dai manuali antropologici condu­ ce a fraintendere il ruolo a tutti gli effetti vitale della famiglia di origi­ ne della donna, che rimane negli anni la fonte primaria di supporto ma­ teriale e spirituale. Nella società Oyo-Yoruba il matrimonio è essen­ zialmente una relazione fra lignaggi, un affare di famiglia. Il pagamento della ricchezza della sposa conferisce all’uomo accesso sessuale alla donna e diritti di paternità, ma non diritti sulla persona o sul lavoro di lei. La ragione principale per legarsi in matrimonio è dunque la pro­ creazione, mentre altri bisogni (compagnia, sentimento, progettualità in quanto coppia) possono essere presenti ma sempre in funzione secon­ daria7. I frequenti assetti poligamici, spesso incoraggiati dalle mogli più anziane, non sono concepiti come contrari agli interessi delle don­ ne. E non si può affermare che etnografie meno datate smentiscano quanto già rilevato a grandi linee in passato: “Men as husbands or lo­ vers are largerly absent in much of women’s everyday lives and inte­ ractions in Ado: and, as many of my women acquaintances and friends assured me, men are often the least of their problems. The phrase ‘fa­ cing my children and my work’ is one I heard used often when women talked about their intimate relationships with their husbands, years in­ to a marriage. The feeling was less that these men were actively misu­ sing or otherwise oppressing them, than they were vaguely useless, and not really giving them much of anything - be it love or money” (Corn­ wall. 2007. 160-161). Le donne Hadiya condividono i punti fondamentali di questa visio­ ne pratica dei rapporti fra sessi: i figli come scopo supremo e motivo di obbligazioni di ciascun partner verso l’altro; una nozione esile di pa­

7 Quando la ricercatrice fece notare a un'anziana donna che la poligamia era con­ siderata in Occidente lesiva della dignità femminile, ottenne questa risposta: “You le­ arned people (alluding to my Western credentials), there you go again! The other day you were all advocating the merits of having joint finances with one’s oko [marito]. We­ re you bom together? (I.e.. Are conjugal partners consanguinai relations?) So long as an obinrin [moglie] fulfills her need for children and he fulfills his obligations, what else? Oko is not salt that you have to have in your food on a daily basis. What is the desire to lock oneself in a suffocating embrace?” (Oyewumi. 1997. 55).

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trimonio coniugale: il privilegio accordato ai legami di sangue su quel­ li di affinità. Araggash racconta che sono i suoi fratelli e sorelle a com­ prare vestiti per lei, non il marito che pensa a vendere tutti i suoi cereali al mercato per dare soldi ai figli: “se vado al mercato, si accerta che non rubi i suoi cereali per dar da mangiare a mio figlio [avuto da un prece­ dente marito e residente presso la famiglia di origine della donna] che vive in città. Mi segue, mi controlla, ha sempre paura che prenda qual­ cosa per i miei figli. Anche se sono malata, non paga per la clinica o l’ospedale. I miei fratelli e sorelle mi aiutano e pagano". Prendiamo il caso di Wodetu, la levatrice più anziana di Lamsella, perché deposita­ ria dei segreti di molte madri e qui scelta come portavoce delle narra­ zioni di tutte per il disincanto e la spietatezza con cui mescolava con­ siderazioni su sessualità e piacere, la natura di uomini e donne, le de­ bolezze croniche dell’altro sesso. Ripeteva che la prima necessità per moglie e marito è quella di rispettarsi, vale a dire rispettare ciascuno la propria famiglia. Più che di rispetto in senso formale o morale si trat­ ta, come vedremo a breve, di preservare l’entità coniugale nonostante i partner continuino a partecipare agli interessi economici della fami­ glia natale. Per le donne, incorporate come elementi esterni al lignag­ gio del marito, significa escogitare trucchi per ingannare gli uomini o dedicarsi ad attività che le svincolano da un’idea troppo soffocante di domesticità e obbedienza. La separatezza delle risorse/attività delle spose e la contrattazione all’interno del rapporto sono elementi naturali. Il modello della famiglia guidata dall’uomo è un artefatto occidentale, spesso generatosi in epo­ ca di colonizzazione e modellato sugli ideali cristiani di monogamia, ob­ bedienza e devozione domestica (Cornwall, 2005, 5-6: Mudimbe, 2007, 77-102). Il fatto che ciascuna delle parti debba soddisfare pressanti ob­ bligazioni verso la propria famiglia di origine non incoraggia una no­ zione di casa come entità corporativa: “le donne cercano di salvare co­ se e cibo per la propria famiglia di origine. Sono sempre in casa da so­ le. rubano di nascosto dal marito". Troppo spesso si dimentica quanto scarso valore abbia la coniugalità. a livello ideologico e in pratica, in nu­ merosi contesti africani e quanto questa sfilacciatura consenta alle don­ ne una certa indipendenza sia sulla piazza del mercato che col proprio marito, in cucina e a letto. Non a caso uno degli aspetti più ricorrenti è la negoziazione di servizi sessuali e lavorativi fra marito e moglie. La posizione centrale della donna è mappata a livello spaziale al­ l’interno dell’abitazione. Sui taccuini di campo, a intervalli regolari, ho disegnato la distribuzione di soggetti e oggetti durante lunghi mo­

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menti di conversazione in famiglia, accompagnati da caffè e piccola deliziosa cucina. Immaginiamo un ambiente a pianta circolare con una sezione di circonferenza che sia interdetta (e fisicamente isolata da pa­ raventi di paglia) sia agli ospiti che agli uomini di casa; lì le donne im­ magazzinano le scorte e assemblano gli ingredienti. Al centro della par­ te a tutti calpestabile troviamo il focolare verso cui la padrona di casa sta costantemente rivolta o attorno a cui ruota per ravvivare le fiamme o distribuire cibo e bevande. Le altre presenze si dispongono a semi­ cerchio, per gradi di confidenza, intorno a lei: appena dietro la sua schiena le figlie, quindi le vicine di casa sospinte contro la parete. Di fronte a questo pubblico femminile compatto, all’altro lato della stan­ za, si scorgono l’antropoioga, la sua interprete e le eventuali presenze maschili. Osservai la stessa coreografia ripetersi di casa in casa, e pre­ si nota di cosa mi suggeriva in termini di potere: mentre l’uomo a pa­ role riafferma le regole e provoca i presenti pontificando sulla subor­ dinazione della donna, le dislocazioni ambientali dicono una verità al­ ternativa. La donna siede sullo sgabello di legno come sul trono di una regina, sopraelevata e di fronte a tutti, perno di preparazione e distri­ buzione delle libagioni. I bambini, i vecchi, gli uomini le si stendono davanti, in attesa di ordini e servizi. La dipendenza dalla femmina di­ spensatrice trova piena realizzazione visiva. Forse non è un caso che si sia soliti ripetere: ‘*la mamma dei bambini è la caffettiera, le stanno sempre intorno e dà loro da mangiare”.

Patriarchi dipendenti e donne ladre Nel profilo della donna ideale tratteggiato dalle mie interlocutrici do­ mina costantemente il discrimine fra essere fuori ed essere dentro la casa. Una brava donna lavora molto e parla poco. Quando parla dice

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cose sensate. Va occasionalmente in visita, ma spostandosi con uno scopo: la malattia, la morte, il matrimonio, il parto di qualche vicina. Porta in dono del buon cibo da lei stessa preparato. Deve essere di­ sponibile intorno a casa per il marito, i figli, gli eventuali ospiti; pren­ dersi cura del giardino. Al contrario, una donna orgogliosa non accet­ ta l’idea degli altri, non si adatta alla situazione. E insofferente, ha viaggiato molto da un posto all’altro per lavoro o per far perdere le tracce dei propri errori, per esempio figli partoriti durante avventure adolescenziali. Viaggia per rifarsi una vita o alla ricerca di mariti che non conoscano i segreti del passato, o di uomini con cui semplicemente passare la notte. Una donna sbagliata parla molto e veloce­ mente. Non ha vergogna, fa tutto quello che vuole, può addirittura in­ sultare la gente per strada. Si muove senza motivo, magali per sedere ore ed ore a casa di un'amica a sussurrare pettegolezzi. Tutte le don­ ne Hadiya con cui ho temporaneamente vissuto sono concordi, al di là dei due modelli proposti, nel ritenere che molte di loro - puntualmente sempre le altre, le vicine, le nemiche - mentono ai mariti, e inventa­ no ragioni fantasiose allo scopo di “fare cattive cose". Nessuna segue il modello alla lettera: vedove, sposate e risposate, per nulla intimidi­ te, taglienti nei giudizi; raro trovarle nei paraggi di casa senza con­ cordare in anticipo l’appuntamento; conoscono luoghi vicini e lonta­ ni, percorrono chilometri a piedi o in autobus per raggiungere merca­ ti o piantagioni di enset. Quando indicano in astratto le qualità defi­ nendo una donna qoora (saggia) oppure qawwa (non saggia), quali si­ gnificati dovremmo attribuire a tale saggezza? Io credo che la tradu­ zione più corretta e rispettosa della versione locale sia nei termini del­ la furbizia e dell’adattamento in senso strategico. Le donne, più degli uomini, sorvegliano i confini, sono consapevoli dei rischi che com­ porta travalicarli, e hanno sviluppato nel tempo una cultura della fron­ tiera. Le storie qui raccontate, secondo la saggezza di Wodetu e di al­ tre spose creative, indicano che la moralità cui esse si conformano è “dentro”, nella testa di ciascuno. La condotta è una responsabilità in­ dividuale e non una fonte di controllo maschile o di isolamento fìsico e sociale. Un solo informatore, lontano dalla vita di villaggio ma con­ sapevole di quanta libertà si generi all’ombra degli stereotipi, ebbe il coraggio di insinuale resistenza di una disinvoltura sollolraccia: “le donne Amhara dopo il matrimonio si radono i capelli, indossano ve­ stiti larghi e camminano sempre davanti ai loro mariti: ogni marcato­ re sessuale viene accuratamente eliminato. Le donne Hadiya compio­ no errori perché sono più libere”.

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Oltre alla geografia domestica esistono esempi meno evanescenti di questi errori fruttuosi e deliberati, cioè di performance di natura frau­ dolenta attuati dalle donne Hadiya per creare brecce nel potere ma­ schile. Se in certi casi vince l’impassibilità, in altri a prevalere è la tec­ nica dell’inganno. Chiudiamo dunque questa esplorazione di furfante­ rie analizzando quali sono gli spazi eletti per tali atti di bracconaggio. Due ipotesi: la prima è che le donne che usano mezzi femminili rag­ giungono i propri scopi più spesso degli uomini che usano mezzi ma­ schili: la seconda, che le donne Hadiya, come molte figure femminili di altri luoghi e tempi8, hanno buone ragioni per non aspirare a posi­ zioni di superiorità e status prestigiosi. Consideriamo due azioni che ruotano intorno al cibo: l’uno metaforico (il sesso, cibo degli uomini), l’altro letterale (i sistemi di rotazione per accumulare il burro, cibo del­ le donne). Il sesso è un campo di battaglia. Le donne se ne avvantaggiano in gravidanza, con avidità e per fornire al feto buoni materiali da co­ struzione. La procreazione è l’occasione per impegnarsi in un’attivi­ tà vantaggiosa, in vista del benessere del figlio: “se fanno sesso du­ rante la gravidanza il bambino diventerà più forte e grasso. Per chi non fa sesso è un problema, il bambino sarà piccolo e debole. Lo sper­ ma dà al bambino forza e calore, lo rende pieno di energia. Se per esempio l’uomo lascia la moglie dopo che è rimasta incinta o a due/tre mesi dal parto, il bambino nascerà molto magro e debole. Va molto bene fare sesso fino al giorno del parto”. Tuttavia, trascorso questo periodo di grazia, inizia il tempo dell’astinenza che la neomadre protrae sino allo svezzamento. Una donna che sta allattando e

8 Mi riferisco in particolare al bel libro di Valeria Andò, relativo alla Grecia anti­ ca. incentrato sulle sfumature fra potere formale politico dei maschi, da un lato, e sa­ peri femminili dell’esperienza daH’altro. La distinzione fra intelligenza declinata co­ me logos nel caso degli uomini e metis nel caso delle donne offre alla nostra discus­ sione un ottimo terreno vegetativo. Metis indica l’accorta prudenza che consiste nel sapersi adattare a ogni situazione attraverso la mutevolezza. Si realizza nella capacità di cambiar forma, nell’essere, all'occorrenza, doppi, ordendo trappole sotto apparen­ ze rassicuranti: “La tela del ragno, di cui anche la letteratura scientifica ha segnalato le tecniche predatorie, mi pare che rappresenti proprio il possibile esito distruttivo del­ l’arte del tessere, techne che si esercita grazie alla metis, all'intelligenza pratica che comporta sì abilità, ma che può essere orientata o verso la conservazione o verso la di­ struzione [...]. Sicché la tessitura, arte della dea metis, può essere in vista della cura e della riproduzione della vita, come nell’artigianato. ma può diventare strumento di morte, come con chiarezza mostra la strategia del ragno” (2008. 44).

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che non sia soddisfatta del comportamento del marito, perché non le offre abbastanza cibo o protezione, può rifiutare in modo ripetuto di fare sesso: “sviluppa il sentimento di non voler dormire con lui, co­ me una forma di protesta”. I rifiuti femminili sanno essere perentori e costringono gli uomini, alla ricerca del piacere, ad atti di elemosi­ na. Wodetu riassume come segue: “mio marito, quando dormiamo in­ sieme, vuole ancora fare sesso. Io lo fermo dicendo: basta, adesso siamo vecchi. Ma loro, giovani o vecchi, che siano stanchi o incapa­ ci di camminare, vogliono sempre fare sesso. Le donne sono diverse, non esprimono il loro sentimento ma la loro voglia è maggiore. Per cultura sono gli uomini che chiedono l’elemosina' ’. Non solo le don­ ne traggono vantaggio da alcuni eventi fisiologici, per esempio la vul­ nerabilità post partum. dilatando da un mese fino a un anno il perio­ do di isolamento della puerpera; esse possono avvalorare la perce­ zione maschile di una sporcizia della donna durante il periodo me­ struale per ritardare un riavvicinamento; a volte mentono, simulando di perdere sangue. Sollevano pretesti domestici o motivi futili per li­ tigare, inscenando lamentele che scoraggino l’approccio. Conoscen­ do la voracità maschile, su quella intervengono per ottenere e scam­ biare favori. Nonostante siano costrette ad affermare a parole che ri­ fuggono il sesso come attività stancante e di scarso interesse, dal mo­ mento che la donna ideale, socialmente approvata, dovrebbe mante­ nere un basso profilo e mostrare senso della vergogna, le voci fuori dal coro sono numerose. Le anziane accusano le spose inesperte, an­ cora in soggezione rispetto agli ordini impartiti dai mariti e alle nor­ me culturali, di mentire quando affermano di essere frenate dalla cir­ concisione. Le donne sentono grandemente, per natura più degli uo­ mini. e fingono di essere pudiche per dominare un desiderio altri­ menti vasto e ingovernabile:

Hanno paura a causa della cultura in cui vivono: non hanno il coraggio di esprimere il desiderio di sesso. Ma se non esistessero sanzioni so­ ciali. per natura le donne avrebbero un desiderio ancora più grande de­ gli uomini. Gli uomini chiedono sempre il sesso, in grande quantità; ma le donne, se non ci fossero impedimenti culturali, avrebbero sensazio­ ni più forti in termini di qualità. La donna non deve esprimere le cose che sente, non può agire liberamente. Si deve comportare come se il sesso non le piacesse. Le altre donne forse mentono quando dicono che non sentono niente. Io per esempio se prendo del buon cibo ho anche un buon sentimento del sesso. Le donne sono più interessate al sesso degli uomini, ma

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odiano mostrarlo. Il loro sentimento deve rimanere segreto. Quando noi donne siamo interessate al sesso, gli uomini non ci possono con­ trollare.

Leggendo fra le righe di queste confidenze femminili si intuisce per­ ché la donna possa “disturbare'’ il marito (cioè esprimere liberamente il proprio desiderio sessuale) solo in modo nascosto: non per mancan­ za effettiva di libertà, ma come delicatezza nei confronti della parte che si sente forte, come performance di sottomissione volta a non compro­ mettere i ruoli e lasciare al maschio la sensazione di aver preso l’ini­ ziativa: “se chiedesse di fare sesso qualcuno potrebbe dire che lei sta fa­ cendo il lavoro del maschio. Lei insomma sta rubando la parte che spet­ ta all’uomo'’9. È ancora Wodetu, quando narra i tentativi di ricomposi­ zione del marito dopo un litigio, a sintetizzare il gioco di ruolo appena descritto - dove chi è formalmente dipendente di fatto esercita un po­ tere dolce e inflessibile sul patriarca, godendo di attenzioni che riman­ gono invisibili agli occhi dei più:

W: Io cerco di scappargli: dormo sul pavimento e se lui si arrabbia e non è d’accordo con quello che sto facendo... cercherà addirittura di raggiungermi sul pavimento e di dormire lì con me. Allora dice: tu non mi eviterai, questa è la mia casa, non mi puoi rifiutare. Così è costret­ to a scendere sul mio materasso e dormirà con me. V: E tu gli fai posto. W: La morte a casa tua è un segreto. V: Cosa significa? W: Vuol dire che in casa tua puoi fare qualsiasi cosa; e quando sarai morto nessuno conoscerà il segreto. Il marito cerca di raggiungere la donna sul pavimento, di dormirle accanto. Si sforza per portare la pa­ ce fra loro compiendo questo sacrificio. Mentre sta facendo questo, nessuno può vederlo. La casa mantiene il segreto. E la morte, allo stes­ so modo, rimane un segreto, nessuno sa in quale momento morirai. 9 “Talora è stato sostenuto che i rapporti ufficiali di potere non sono tanto la com­ ponente simbolica e pubblica di una dominazione generale quanto una strategia salvafaccia che nasconde una diminuzione di potere. Susan Rogers applica tale logica alle relazioni di genere nelle comunità contadine in generale e in particolare a quelle del­ la regione francese della Lorena. La tradizione culturale, così come la legge, attribui­ sce autorità e prestigio alla componente maschile, che detiene teoricamente tutte le po­ sizioni formali, ma in realtà è il potere femminile a essere ‘più efficiente’, pur essen­ do al tempo stesso coperto e informale. Gli uomini, sostiene la Rogers, accettano tale situazione finché non viene messa in discussione pubblicamente la loro autorità e fin­ ché viene loro riconosciuto il ‘merito’ di mandare avanti le cose’’ (Scott. 2006. 77).

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Nel sesso come nel consumo di cibo, le dissidenze vanno ben al di là di un episodico rubacchiare. Le donne si appropriano di alcune ri­ sorse, che gli uomini non sembrano disposti a cedere, in modo orga­ nizzato. Siamo al secondo esempio di politica vincente, cioè a quel si­ stema rotatorio chiamato wijjo (“il processo di dare e ricevere") e che può applicarsi al latte (ado} o al burro (buro 'o). Indica l’ammontare di latte o burro che viene raccolto a rotazione fra famiglie. Ne esistono di due tipi: quello “piccolo" (hoff'wijjo), con un gruppo formato da sei fi­ no a dieci donne: e quello “grande" (iddira wijjo), che comprende da dodici a trenta donne. Le ragioni ufficiali per praticarlo vanno dalle oc­ casioni speciali (cerimonie e giorni di festa), alla necessità di avere scorte di buiTO consistenti in caso si presentino ospiti inattesi. A turno tutto il burro disponibile in ciascuna casa viene consegnato a una don­ na. In questo modo si supera il problema delle modeste quantità do­ mestiche: grazie a wijjo ogni donna può fruire, temporaneamente, di grandi quantità tutte insieme e usarlo a sua discrezione per cucinare. Le donne coinvolte stabiliscono il tempo di rotazione e la quantità di so­ stanza da scambiare: in questo modo per un certo numero di giorni la stessa donna verrà foraggiata dalle altre. Se una donna fa da sola, in una settimana non avrà abbastanza latte per mescolarlo e ottenere una quantità sufficiente di burro e formaggio, rischiando l’inacidi mento nell'attesa: con wijjo si raggiunge lo scopo in appena tre giorni. In questa transizione di mano in mano, di contenitore in contenito­ re, qualcosa va sempre perso - e sono in poche a mostrarne stupore. Per accordo tacito o abitudine, di certo non per errore, si verificano atti che qualche donna, forse in mala fede, definisce malvagi: “non tengono wijjo per loro famiglia, ma lo vendono al mercato. Ecco perché i ma­ riti non si fidano delle loro donne, hanno sempre paura. Non discuto­ no insieme e vivono in un clima di sospetto". La donna inganna il ma­ rito con facilità: tiene il burro in cucina, in un punto preciso che l’uo­ mo non conosce. Metà lo usa per cucinare, il restante lo vende al mer­ cato e sfrutta il denaro per scopi personali. Ciascuna ha la propria tec­ nica: c’è chi si mette a centellinare il burro nei piatti consumati in fa­ miglia, c'è chi inventa resistenza di una cerimonia in un villaggio vi­ cino e reclama l’intero panetto allo scopo di dare lustro al nome della famiglia donatrice (e intanto lo tiene da pal le). Le verità di questi tra­ fugamenti sono labili, visto che lo schema di narrazione prevalente è del tipo “io no. ma le altre", con una sequela di azioni riprovevoli: lo rubano, lo vendono, lo nascondono. Una carica di forte sovversione è comunque innegabile: “i mariti molto spesso vogliono dominare le don­

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ne. allora, se le cose non sono disponibili, se le prendono da sole: ve­ stiti, scarpe, quello che serve". E non si tratta, secondo una versione mite e buonista della femminilità, di atti indotti dal bisogno, da man­ canza di sostentamento da parte del marito, o di gesti a unico vantag­ gio dei figli. Non dimentichiamoci della stanza circolare, tagliata dai paraventi: dietro quelle leggere barriere visive, eppure abbastanza ro­ buste da costituire un confine fra generi, si consuma con inesorabilità (e una punta di divertimento) lo sfregio, briciola dopo briciola, del ma­ schio dominante. Oggetto-simbolo di queste manovre è una scatola, che gli uomini non possono toccare, dove ciascuna donna conserva beni e segreti per­ sonali1011 . L’espressione comune è “mettere nel vaso grande". In passa­ to facevano un buco in cucina, all’angolo estremo e più buio del para­ vento, e mettevano i loro segreti in un vaso (jalo) che è di solito im­ piegato per la preparazione di bevande o per il deposito di cereali: og­ gi si usano moderni forzieri di legno o di plastica. Più raramente ri­ pongono tesori e bugie nei vasi appesi alle pareti della cucina. Alle chiavi del presente corrispondono tecniche più laboriose del passato: “prima che arrivassero le tecnologie le donne preparavano un buco do­ ve mettevano il grande vaso e tutti i loro segreti dentro. Poi coprivano con erba o jibba", e sopra la grande pietra per macinare. Oggi le don­ ne povere, che non possono permettersi le scatole, fanno lo stesso. I mariti non conosceranno mai il segreto. Solo lei lo conosce". Dentro troviamo mucchietti di burro, caffè, formaggio e altri alimenti che la donna accumula intaccando giorno per giorno la quantità destinata al consumo collettivo. Nessuno può aprirla e prendere le cose che ci so­ no dentro: “l’uomo non può toccarla, sarebbe una grande vergogna nel­ la cultura Hadiya". Anche gli uomini hanno casse e scatole, ma di na­ tura pubblica e meno fantasiosa, in cui ripongono i vestiti, ma in co­ mune con quelli della donna, a volte i soldi. Sul soppalco in cima ai let­ ti sistemano coltelli, altri utensili di metallo e strumenti di lavoro avvolti in vestiti e coperte, legati strettamente e fuori dalla portata dei bambi­ ni più piccoli. Non potendo quotidianamente maneggiare cibo, con­ 10 È stato emozionante ritrovare l’uso di scatole anche presso le donne Oyo-Yoru­ ba: “For many obìnrin [mogli], the greatest form of accumulation was to acquire a lar­ ge aso (wardrobe of cloth) for their own personal use and later for their anafemale off­ spring. There were particular styles of expensive woven cloth that a properly situated ìyà [madre] had to have in her ìtélè àpóti(bottom box)’’ (Oyewumi. 1997. 56). 11 Sottile ma fìtto materasso ricavato dalle fibre di enset.

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servarlo in luoghi segreti sarebbe, di nuovo, una grande vergogna. La stessa tabuizzazione avvolge i processi dell’enset: le donne lavorano foglie e fibre, vanno al mercato, vendono i prodotti ricavati e tengono i soldi per se stesse. Gli uomini lo mangiano in casa, cucinato da ma­ ni femminili, ma non possono a loro volta toccarlo. Le donne costrui­ scono relazioni tramite wijjo e wesa (gruppi di lavoro dell’enset) che hanno una durata temporale dilatata; gli uomini lavorano insieme gior­ nalmente, in occasione dei raccolti, per dissodare o seminare (gejd), e tuttavia dipendono per i pasti collettivi dalle donne visto che non san­ no cucinare. Si contano inoltre forme miste (iddir o ekub) che preve­ dono una raccolta di fondi da versale mensilmente ma su base fami­ gliare, non individuale. Non esistono dunque scambi protratti solo ma­ schili. A livello simbolico non può lasciare indifferenti il fatto che gli uomini si muovano in superficie, pianamente e sotto gli occhi di tutti, non sottoterra come le donne-talpe. Gli uomini non fanno buchi. L’espressione laobei 'sa issetamo riassume complessivamente le tec­ niche di inganno e la condotta elusiva delle donne: “lei fa le cose in modo tale che lui non ne sia al corrente”. Questa ragnatela di azioni, si­ tuate tra acquiescenza e rivolta, trova coronamento in un rituale finale di tipo irridente, quasi carnevalesco. Dopo aver sgraffignato a destra e a manca - soldi raccolti dal pubblico astante per aver ballato in occa­ sione di parti e matrimoni, cereali del marito trafugati un pugno alla volta e venduti al mercato, la cresta fatta su wijjo - le donne si riuni­ scono all’insaputa dei mariti nella casa di una di loro, cucinano e con­ sumano il pasto all’intemo del gruppo di rotazione. Le contadine de­ scrivono questa convivialità fuori dagli schemi coniugali, allestita da donne per donne, come uno dei maggiori piaceri del trickster contadi­ no: se le donne di città si divertono andando alla ricerca di amanti, in campagna si gode nel mangiare il cibo sottratto al potente. Gli uomini non sanno, oppure, più plausibilmente, sanno ma tacciono. Solo pochi informatori difendono debolmente l’idea di una figura femminile in­ corrotta e senza egoismi, votata alla cura degli altri: insistono che i sol­ di guadagnati in proprio o le eccedenze di burro saranno comunque usati a beneficio della casa. Il giovane capovillaggio non esitava a pro­ pinare visioni edulcorate: “noi uomini siamo molto contenti di questo sistema di scambi e rotazioni femminili, perché lutto quello che ne gua­ dagnano è anche per i mariti e i bambini. Sai, tutto dipende dal dialo­ go in famiglia. La donna deve dire all’uomo cosa ha intenzione di fa­ re”. Colpisce il candore della versione maschile di questi sistemi di re­ ciprocità. del resto ben segnalata in un proverbio che tutti, uomini e

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donne, anziani e meno anziani, ripetono per darsi conforto: wend libela set leba, letteralmente “l’uomo mangia, la donna ruba”. Qualcuno in­ tende: per sfamare suo marito la donna diventa ladra, cioè ruba da lui ma solo per comprare materiali necessari alla casa. Secondo Wondimu. marito della figlia di Wodetu, il detto indica una femmina bricco­ na: “la donna serve il cibo all’uomo ma lui non sa da dove viene, se l’ha rubato o se l’ha comprato”. Interessante anche scoprire il motivo per cui questi traffici e microcrediti al femminile non sfocino in vio­ lenze domestiche o punizioni. Gli uomini devono saper sopportale: “nella nostra zona le donne mantengono i segreti, e non li diranno mai agli uomini. Loro ne saranno sempre all’oscuro. Non le puniscono per­ ché non potrebbero sopravvivere senza di loro”. La certezza dell’im­ punità riposa sulla consapevolezza di entrambi i sessi di quanto gli uo­ mini si sentano dipendenti dalle donne. La svolta empirica inferta a queste pagine dalla riflessione etno­ grafica ci ha messo di fronte a un universo femminile permeato dalla dimensione strategica: tattiche, opportuni adattamenti, mascherature e dissimulazioni colorano uniformemente le azioni fuori e dentro la fa­ miglia cosiddetta patriarcale, dall’evitamento del sesso, alle preda­ zioni sessuali e culinarie, fino alla corsa alla proprietà. Lo studio del­ le dinamiche che coinvolgono potere e contesti femminili nella socie­ tà Hadiya permette, sulla base di dati etnografici e non ideologici, di fondare una critica verso quelle politiche di genere che diffondono una precisa rappresentazione della condizione della donna in società non occidentali. Le performance delle donne di Lamsella indeboli­ scono profondamente, fino a sovvertirne i presupposti, la possibilità di parlale ancora di donne invisibili, mute oppure oppresse. Wodetu e le altre destituiscono le logiche progressiste dell’emancipazione, fonda­ te sulla conoscenza superficiale di ciò su cui si vorrebbe intervenire, e riaffermano agli occhi di chi le interroga la piena dignità culturale di società diverse dalla nostra, segno e forza della varietas dell’espe­ rienza umana.

// potere del l’obbedienza

Il quadro etnografico delineato suggerisce alcune ipotesi: a) all’aumentare della dominazione corrisponde un aumento proporzionale del­ la sfida silenziosa e programmata per boicottare il sistema; b) l’infrapolitica femminile è per metodi e obiettivi molto simile al banditismo

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su scala ridotta: c) in luoghi diversi, e al servizio di obiettivi determi­ nati dalla storia personale e collettiva degli individui che li perseguo­ no, le strategie di opposizione comprendono tecniche disparate - vi so­ no donne che scendono in strada e combattono per l’uguaglianza (di di­ ritti, reddito e opportunità), oppure donne che stanno a casa e cercano di legare gli uomini ancora più strettamente a se stesse. Senza giudicare della bontà di riuscita dell'una o dell’altra strategia, non si comprende da un punto di vista scientifico perché la prima venga generalmente fatta coincidere con modernità ed educazione e la seconda sia liquida­ ta come familismo tipico dei movimenti antifemministi. Le donne qui descritte non possiedono vocabolari né femministi né anti-femministi. Tuttavia esprimono posizioni simili a quelle, tanto denigrate, di un au­ tore già citato: non traggono dalla genialità maschile le loro più pro­ fonde fonti di forza, al contrario sono gli uomini a dipendere dalle don­ ne: poche donne sono state rovinate dagli uomini, la sopportazione femminile ha lunga vita: molti uomini sono invece distrutti da donne che non hanno capito, o non si sono date la pena di capire, la fragilità maschile (Goldberg, 1973). Questo saggio si propone un superamento delle teorie di genere an­ che più aggiornate, secondo cui le donne agiscono all’interno di quel modello che Kandiyoti (1988) chiama patriarchal bargain. Non solo sostengo che tali negoziazioni fra generi, lungi dall'essere fuori dalla storia, o entità immutabili, subiscono trasformazioni storiche: l’idea è piuttosto quella di interpretare alcune pratiche e posizioni femminili come strategiche anziché reazionarie. Facciamo nostri i dubbi espres­ si da Evans-Pritchard ( 1973) di fronte a un nascente e arrabbiato fem­ minismo su scala mondiale: se alle donne è sempre stata negata l'op­ portunità di prendere il comando, perché hanno permesso che questa opportunità fosse loro negata, dato che è difficile che si sia trattato, in ogni caso e in ogni tempo, di una semplice questione di brutalità? Il tema del consenso è spinoso e centrale, soprattutto quando analizzia­ mo vite di donne che mostrano di percepire come dannoso per i loro migliori interessi il disimpegno dalla sessualità, dalla riproduzione e dalla domesticità, dal momento che abdicare al ruolo di mogli e di ma­ dri indebolirebbe la pressione sociale che possono esercitare sugli uo­ mini per fare in modo che si assumano la responsabilità delle conse­ guenze riproduttive dell’attività sessuale. Molte attuano consapevol­ mente strategie personali per incentivare stabilità e intimità all'interno del matrimonio. Se da un punto di vista teorico questa posizione corre il rischio di suscitale le ire degli studiosi, non solo di stampo femmi­

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nista. e di essere etichettata come retorica conservatrice e profamilista. non si possono negare le evidenze riscontrate sul campo. Dunque ac­ cettiamo l’ipotesi che questa saggezza femminile derivi dalla rasse­ gnazione alla dominazione maschile o ci spingiamo oltre, affermando che più probabilmente si tratta della consapevolezza della donna che è lei a contare davvero? Al di là delle ipotesi più suggestive, e prestando attenzione ai materiali di campo, Wodetu sembra indicare che nessuno, uomo o donna che sia, può trascendere il proprio destino - lo si inten­ da come natura oppure come habitus culturale sedimentato e appreso - almeno finché non l’ha pienamente accettato, il che significa cono­ scere in dettaglio le gioie, i disastri e i poteri che si porta appresso. Cia­ scuno contribuisce per quel che può contribuire data la dotazione di base: una vita di continue reazioni dettate dall’urgenza morale, senza nessun inizio costruttivo, definita dalla rabbia di voler o poter essere al­ tro da sé è un'opzione che le donne Hadiya rigettano senza rimpianti. A noi giudicare se si tratta di immaturità politica ed emotiva oppure di una comprensione stoica che la vita offre a maschi e femmine fardelli e ricompense mutualmente esclusivi. E singolare che la saggezza popolare tattica venga elogiata quando applicata a operai, lavoratori, studenti in rivolta, e ridotta ai termini di oppressione e passività quando a esserne protagonisti sono i gruppi femminili. Prendiamo il teorico dell’antropologia anarchica e antiac­ cademica, David Graeber. Nei suoi incitamenti riprende in più punti la teoria della ritirata impegnata: “La documentazione storica conferma l'ipotesi che le forme più fortunate di resistenza popolare abbiano as­ sunto proprio questa forma. Non hanno sfidato il potere a testa bassa (così di solito ci si fa ammazzare, oppure si diventa una variante, for­ se anche peggiore, del potere che al principio si voleva sfidare), ma hanno utilizzato alcune strategie per sfuggire alla stretta del potere, co­ me la fuga, la diserzione, la fondazione di nuove comunità" (2006,6263). L’autore fornisce numerosi esempi di oasi libertarie poco cono­ sciute, di mascherature della resistenza in vista della sicurezza e del ri­ sultato - occupazioni tacite, evasioni, bracconaggi e piccoli furti: “I coltivatori Merina descritti poche pagine fa avevano compreso ciò che rimane oscuro agli aspiranti rivoluzionari: che ci sono momenti in cui forse la cosa più stupida che uno possa fare è quella di innalzare una bandiera rossa o nera e lanciare proclami di sfida. A volte la cosa più intelligente è limitarsi a fingere che niente sia cambiato, concedere ai funzionari che rappresentano lo Stato di conservare la loro dignità, di quando in quando passare addirittura dai loro uffici per riempire qual­

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che modulo, e per il resto ignorarli" (2006. 65). Questa inerzia intelli­ gente come momento creativo e quasi artistico della strategia, indiret­ ta e non convenzionale, non può non richiamare alla mente le azioni e immaginazioni delle donne di Lamsella12. 11 problema, dunque, non è riuscire a esplorare le relazioni patriar­ cali come processi mediati di negoziazione, né compiere il passo suc­ cessivo di scardinare la visione di due forze contrapposte - l’universa­ le, unitario e schiacciante potere maschile contro la subordinazione femminile. Andare oltre significa avere la forza di reimmaginarsi le re­ lazioni da una nuova prospettiva di complicità bio-culturale fra sessi. Quali sono i vantaggi di lasciare intatta la nozione normativa di pa­ triarcato, con il sempre correlato obiettivo dell’auto-determinazione? Le donne hanno davvero bisogno di essere liberate? Da chi o da cosa, esattamente? Le donne Hadiya godono della piacevolezza delle sfere separate, un’idea espressa in letteratura attraverso la metafora degli uc­ cellini in gabbia o come binarismo la casa/il mondo13. Socialità, poli­ tica ed economia sono solo parzialmente aree di interesse femminile.

12 Un archetipo ancora più suggestivo di come evitare la guerra aperta può essere ritrovato nell'antica arte della guerra di Sun Tzu (2009). scritta pensando a quei rivo­ luzionari che combattevano contro eserciti regolari, superiori in numero e forze, quin­ di come manuale di guerriglia e di lotta del debole contro il forte. Ecco un esempio recente di elogio del femminismo delia differenza: “E stato con il separatismo che le donne hanno potuto sottrarre i loro corpi (e le loro menti) al falso pubblico egemonizzato dal discorso maschile. In certo qual modo, così facendo, le donne si sono personalmente riappropriate di quelle parti del femminile già incluse nei pubblico - il lavoro, la politica, ad esempio - per decostruire quel pubblico e rico­ struire un pubblico nuovo, creato dai corpi-pensieri femminili liberati dalla subordi­ nazione al maschile. In questo doppio movimento consiste la novità inaugurata dalle pratiche femministe degli anni settanta. Rendendosi invisibili ai maschi, le donne crea­ vano una nuova visibilità, questa volta costruita secondo le proprie regole. E il sepa­ ratismo che ha reso possibile la rottura del velo, del burka politico che aveva fin lì te­ nute avvinte, in una sorta di abbraccio strettissimo, le figlie/sorelle ai padri/fratelli (ad esempio: l'antifascista Pasolini), protagonisti della costruzione dell'Italia come cor­ po-nazione giacobino e del demos politicamente imperniati sulla griglia patriarcale" (Bonacchi. 2005. 123). Faccio notare: (a) Pasolini è stato definito poche righe prima nel ragionamento dell'autrice come antifemminista: (b) la martellante ridondanza del termine “pubblico" - evidentemente un'ossessione tipica dell'occidente, con donne che lottano per avere libero accesso al lavoro e alla politica: (c) una retorica tronfia che in qualche riga colleziona i migliori cavalli di battaglia di tutti i femminismi: ege­ monia. liberazione, subordinazione, velo, burqa e il termine che tutto sintetizza: pa­ triarcato.

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L’assenza da tali ribalte ha come contropartita il conforto personale, spirituale ed etico offerto dalla comunità e dai mariti. Quando le don­ ne danno prova di credere ai valori morali e identificano se stesse co­ me agenti di protezione e valorizzazione di una tradizione o di un grup­ po, significa che lavorano inconsciamente a favore delle forze della do­ minazione? Non dovremmo forse tenere in considerazione le ragioni pratiche per cui si conformano alle regole? Esistono documentazioni et­ nografiche (Feldman, 2001, 1113) a proposito di donne lavoratrici che aspirano a un futuro migliore, inteso però - qualcuno ne sarà deluso come il tempo in cui potranno scegliere di non lavorare e forse addi­ rittura di portare il velo e avere le energie per coltivale le tradizioni. Esistono donne che desiderano che i mariti e le famiglie si occupino completamente della loro sussistenza, perché sanno che contempora­ neamente potranno continuare ad allenare la fantasia in usi situaziona­ li del velo, delle scorte di cibo, delle reti amicali e parentali per au­ mentare la propria mobilità. Tutte, in un modo o nell’altro, tendono a trasformare la fedeltà ai valori e alla tradizione in fonti di potere e di controllo sugli uomini. Se per alcune l’esclusione dalla vita pubblica è una disgrazia, per altre diventa un obiettivo ricercato e apprezzato. Quando si afferma che le donne sono complici degli uomini nell'assi­ curare relazioni sociali di segno patriarcale, si dimentica la domanda lo­ gicamente conseguente: è segno di passività o espressione di un desi­ derio? Con potere dell’obbedienza intendo dunque sottolineare che la di­ pendenza comprende atteggiamenti di subordinazione (spesso rituali di inscenamento della subordinazione) ma anche ricompense prezio­ se: la protezione da parte di chi è investito di tale responsabilità, col suo carico di diritti e di doveri, la marginalità come spazio fruttuoso di risorse, il privilegio di situarsi a una certa distanza dal potere ufficiale (leggi performance sceniche credibili e arroganti di autorità) e dalla sua pericolosità. Le voci di soggetti Hadiya a noi contemporanei in­ sinuano la possibilità che il ruolo centrale delle donne sia quello di dare il ritmo alle cose con prudenza, circospezione e pragmatismo. Goldberg (1973) ci ricorda che una delle regolarità più scioccanti quan­ do si analizzano dati da diverse culture è la frequenza con cui le don­ ne, in numerosissime società, guardano alla preoccupazione maschile di dominio e occupazioni fuori dal domestico con la stessa tenera con­ discendenza di una moglie neozelandese quando considera l’ossessio­ ne del marito per il rugby: con la certezza, cioè, che gli uomini aspira­ no ai surrogati e non alle fonti del potere.

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Per analizzare con sincerità i nodi del potere serve molta concre­ tezza: le donne e gli uomini resistono, arrivano a compromessi, si adat­ tano, e confliggono in merito a risorse, diritti e responsabilità. Le ana­ lisi etnografiche dissolvono alcune delle divisioni artificiali che fanno la loro comparsa in discussioni puramente teoriche. Alcune definizio­ ni sono necessarie, meglio strette e calibrate sui casi piuttosto che am­ pie, per scalzare le nozioni generiche e non qualificate, per cogliere persistenze e trasformazioni, ma nella consapevolezza, forse malinco­ nica ma realistica, che le regole di normalità sono quantitativamente più presenti e resistenti della vulnerabilità al cambiamento e delle ano­ malie. Nonostante il mondo reale dell’esperienza quotidiana sfidi ogni causalità precedentemente accettata, le fasi di normalità (e quindi di vigore della norma) sono più frequenti delle fasi di crisi. Quando una società perde l’abilità di trasmettere valori ai propri membri cade nel­ l'incertezza. Le donne Hadiya indicano col loro agire che si tratta di va­ lori basati sull’intelligenza infusa di esperienza, non di proclami ideo­ logici supportati da fantasie utopiche. Le astuzie di Wodetu e delle al­ tre rappresentano una via alternativa a ciò che chiamiamo “emancipa­ zione”, non il lato oscuro e premodemo della femminilità; mostrano le inconsistenze del termine “liberazione”, che fa un appello alquanto si­ nistro alla salvezza personale e adombra l’opportunità di un nuovo compito civilizzatore - liberale le donne dai loro oppressori. Accogliere e cercare di tradurre il punto di vista dell’altro, appro­ fondendo gli aspetti locali delle culture, non significa né tradire i padri e le madri del passato, né fare dell’esotismo. Senza cadere nel relativi­ smo culturale assoluto, l’antropologo per mestiere cerca di pensare l'impossibile: esce temporaneamente dalla propria cultura ed entra in contatto con una episteme radicalmente contrapposta alle norme occi­ dentali. Con grande rispetto delle genealogie di autori che lo hanno preceduto e lo circondano, avanza a piccoli passi come una spia in ter­ ritorio stranierio - in questo caso dalle cucine, dietro le spalle dei po­ tenti, in quei “boschetti dei sussurri” (Scott, 2006, 10) raramente per­ corsi dall’effervescenza politica - nel progetto di rendere disponibile un corpus di conoscenze che possa far vacillare l’ostinata famigliarità di alcuni concetti e spingere il sapere verso territori tradizionalmente esclusi perché ritenuti insensati. Dovesse costargli il dissidio interiore con la propria formazione culturale.

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Rappresentare e testimoniare. Etica del lavoro e della povertà. I Wichf di Misión Nueva Pompey a (Chaco, Argentina) Zelda Alice Franceschi

Nel 1917 viene pubblicato Investigation sobre los Indios Matacos trabajadores di José Elias Niklison; si tratta di un resoconto sulle condi­ zioni lavorative delle popolazioni matake; un breve libretto in cui l’ispettore Niklison descrive con precisione le condizioni in cui lavo­ ravano le popolazioni matake nelle piantagioni di canna da zucchero di Ledesma e La Esperanza nella provincia di Jujuy in Argentina1. In que­ sto saggio si analizzerà lo scritto di Niklison in relazione alle testimo­ nianze ascoltate sul campo nella località di Misión Nueva Pompeya nel Chaco argentino; esse ricordano proprio quelle esperienze nelle pian­ tagioni di cui l’ispettore si fece portavoce. In particolare si rifletterà sulla nozione di lavoro e di povertà, sul concetto di persona, sul mo­ mento di transizione1 2 in cui il resoconto di Niklison fu redatto, transi­ zione che non ha abbandonato le popolazioni in oggetto; ci si soffer­ merà sul valore delle testimonianze ascoltate rispetto all'azione della memoria, della resilienza al trauma e alla percezione del dolore e del­ la sofferenza. Alcune riflessioni emerse dalla lettura del saggio di Niklison e dal lavoro di campo intrapreso in questi anni (2004-2012), hanno portato

1 Sono molteplici gli scritti della fine dell'ottocento, inizio Novecento che tratta­ no della condizione lavorativa degli indigeni o che ne accennano. Si pensi allo scritto del militare N. Iriburu ( 1873). a quelli dei francescani J. Remedi (1870) e R. Gobelli ( 1913) e a quello di J.B. Massé ( 1904). il più completo e specifico sul tema del lavo­ ro. dell'etica e la giustizia. 2 Le popolazioni indigene wichi. tradizionalmente società acquisitive, dall'evan­ gelizzazione del Chaco e da quando hanno iniziato progressivamente ad inserirsi nel­ la società nazionale argentina vivono in costante transizione e tensione tra tradizione e modernità.

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a ripensare al tema della rappresentazione: esso riporta alla luce que­ stioni che investono da vicino il significato del lavoro dell’antropolo­ go, l'etica del suo impegno, le finalità delle sue ricerche, la capacità di dare forma coerente a ciò che osserva, ascolta, o non comprende sul campo, a quanto annota sui suoi taccuini ma che, soprattutto, in­ corpora nella propria personale esperienza di campo. Nel nostro lavo­ ro come antropologi proviamo a dare forma ad una serie di rappre­ sentazioni, tentiamo di situarle nello spazio e nel tempo, le ripensia­ mo alla luce di quanto è stato già scritto; siamo persuasi, soprattutto, di poterle analizzare secondo le concezioni emiche elaborate da colo­ ro che abbiamo di fronte. L’impresa è complessa e chiama in causa istanze diverse che riguardano nell’insieme una disciplina che lavora su due assi complementari ma sovente dissonanti: la presunta scienti­ ficità dei dati che vengono proposti alla comunità di studiosi e la loro sicura imperfezione. Le rappresentazioni etnografiche sono provviso­ rie proposte di riflessione che tengono conto di molteplici fattori e che passano attraverso le emozioni di coloro che abbiamo di fronte. Così oggi le testimonianze di alcuni wichf rispetto ai loro ricordi nelle pian­ tagioni, alla percezione della loro condizione di povertà, alla gioia nel ricordare i nuovi oggetti ricevuti, al dolore per le fatiche del lavoro e alla sofferenza per tutti coloro che morirono negli spostamenti per rag­ giungere gli ingenios, devono essere pensati e ripensati alla luce degli avvenimenti contingenti, la restituzione della terra alla fine degli an­ ni Novanta, la sempre maggiore scolarizzazione e l’apparente abban­ dono delle pratiche tradizionali. In questo ultimo secolo uomini, don­ ne e giovani adolescenti wichi hanno appreso una convivenza doloro­ sa ma ricca di sfide con l'universo dell'occidente. Sono certamente riusciti a mantenere quell’“optimum di diversità” la cui perdita tanto dilaniava Claude Lévi-Strauss (2001,9), ma hanno altresì imparato a gestire modelli di convivenza e di appropriazione. Un apprendimento ed una appropriazione, quella dei wichf. che è avvenuta a livelli di­ versi e che ha comportato un ripensamento di alcuni habitus propri e tradizionalmente appresi e un rimodellamento di quei nuovi disposi­ tivi che si sono trovati a gestire. Dal tempo della fondazione della mis­ sione (1900), dell’azione dei frati francescani di Propaganda Fide (1900-1949), del lavoro agli ingenios ( 1900-1930)\ degli scontri con

3 Le popolazioni aborigene chaquene costituirono il grosso della mano d'opera sta­ gionale dal 1880 fino al 1930. quando iniziarono ad essere sostituiti da contadini pro-

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le popolazioni criollas locali (anni Sessanta e Settanta del XX secolo), sono entrati in gioco una serie di fattori che hanno provocato un ri­ pensamento rispetto alla rappresentazione di sé stessi come gruppo e come persone. La scolarizzazione, il contatto con tutti gli altri - bian­ chi, criollos, antropologi, operatori sociali - la presa di coscienza del­ le proprie competenze e dei propri diritti, così come di ciò che non possiedono e che forse mai potranno avere, diviene una nuova ed ine­ dita chiave di lettura per interpretare le rappresentazioni di un passa­ to recente. Esse, sia che siano espresse in forma di ricordo, sia che af­ fiorino come prassi quotidiana, di gestione dello spazio (Dasso, Fran­ ceschi. 2012). di organizzazione del lavoro, di disposizione ad un cer­ to tipo di credo, fanno emergere i wichi come agenti attivi, consape­ voli e critici nonostante le situazioni di forte precarietà a cui devono continuamente far fronte.

// campo: i Wichi di Mìsión Nueva Rompeva

I Wichi, che la letteratura etnografica per molto tempo ha denominato mataco, sono popolazioni che tradizionalmente si dedicavano alla cac­ cia, alla pesca e alla raccolta: erano seminomadi e si organizzavano in bande. Appartengono alla famiglia linguistica Mataco Maka a cui si integrano i Chorote, i Nivaklé e i Makà\ abitano oggi le province del Chaco, di Salta e di Formosa in Argentina. Misión Nueva Pompeya è una antica missione francescana che fu fondata nel 1900 dal frate Bemabé Tambolleo. Fu fondata dalla con­ gregazione di Propaganda Fide, sopra la riva destra del Rio Bermejito. ad una decina di chilometri dall’abbandonato Fortin Urquiza. Ebbe gravi difficoltà a svilupparsi già dalla sua fondazione, soprattutto per il fatto che il Rio Bermejito era secco in inverno e rimanevano solo lagune d’acqua poco adatte al consumo. Nel 1901. circa 500 aborigeni vive­ vano all’intemo della missione, ma ben presto molti altri si unirono in­ torno ai Padri francescani. La presenza di laboratori, ferramenta, offi-

venienli dalla Puna; il motivo di questo cambiamento sembra essere radicato nello svi­ luppo dell’industria del cotone che necessitava anch’essa di abbondante forza-lavoro. Nel 1924 il governo del Chaco proibì che gli indigeni «appartenenti al territorio» uscis­ sero dallo stesso per andare a lavorare nelle provincie di Salta o Jujuy. In questo mo­ do le industrie del cotone chaquene avevano assicurata mano d’opera a basso costo. Conti, de Lagos & Lagos. 1998.

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cine, di una sartoria, i progressi nella coltivazione della terra e nell’al­ levamento del bestiame, tutto questo contribuì a formare una nuova professionalità degli indigeni della missione. Nella testimonianza di una anziana donna wichi risulta evidente quanto, per la maggior parte degli abitanti della antica missione, que­ sta epoca fu fondamentale come momento di apprendimento e forma­ zione. T.J. fornisce una lunga testimonianza in wichi che il nipote F.T. gen­ tilmente traduce in spagnolo: Ella hablaba que su padre era prirnero, que en la primera llegada de los Franciscanos su padre siempre trabajaba con los franciscanos; él corno cocinero siempre trabajaba con los Franciscanos. Cuando los Francis­ canos van hacfa Salta llevaron a Angelito. se lo llevaron a Salta a conocer, estudiar. le ensenaban a escribir, hablar en castellano; està èpo­ ca es fundamental para hablar castellano. Capacitaban para carpinteros, no sólo él, pero otro jovenes. David Chuteley, Francisco Supaz y también una jovencita. Rosa Supaz. se capacito corno auxiliar [...]. No só­ lo carpinteros, hacfan zapatos, collares. peines; segùn lo que dicen. fabricaban con los cueros de vacas y los peines se hacfan con distintos dibujos por ejemplo de pescado. peine tsunìs [...]. Ellos se capacitaron co­ rno representantes. delegados. coordinadores. lach'utfwas (coordinadores de los franciscanos). Este representante formaban grupos, corno una ladrilleria o sea, después todos estaban en la ladrilleria, empezaron haciendo la misión [...]. No solo habla de ese trabajo, se hacfan circos, trabajo que no se pagaba con piata, con mercaderia, tolhok (Diario di campo. Misión Nueva Pompeya. T.J. y F.T.. 2010).

La testimonianza di T.J. è molto dettagliata e. soprattutto nella pri­ ma parte del suo racconto, emerge l’importanza del lavoro, la volontà di volersi formare apprendendo. I missionari, nella rappresentazione di T.J., erano coloro che fornivano gli strumenti: sementi, aratri, animali. Secondo la anziana donna wichi il lavoro fornisce il senso della propria esistenza nella misura in cui “comprende tutto”, attitudine al fare e al sa­ per fare, capacità di potere decidere, informale, trasformare, aiutale gli altri. È interessante osservare quanto la testimonianza di T.J. rispetto al­ l’importanza e al valore del lavoro concordi con quella di altre persone incontrate sul campo per le quali la capacità di lavorare e il saperlo fa­ re diventano “evento” della propria esistenza (Franceschi, 2012).

trabajar abarca todo. actitud, poder, decidir. informar, ayudar, trans­ formar (Diario di campo, Misión Nueva Pompeya, T.J. y F.T.. 2010).

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Nella rappresentazione del lavoro offerto dai padri Francescani che propongono i wichf, sembrano entrare nozioni come la volontà, “la buona volontà” (Palmer, 2005) quel principio che regola la vita socia­ le wichf e che fa dell’individuo una persona. Los Wichf correlacionan la voluntad con la luz. Es un fenomeno lumi­ noso (isi) cuyo brillo explica, corno hemos visto, la claridad de los suenos y la vision mistica del chamàn. Asimismo. la buena voluntad apor­ ta lucidez a la oscuridad intelectual. al igual que la luna llena ilumina la tierra de noche y permite que el sujeto se oriente. Por ejemplo, su poder esclarecedor influye en la toma de decisiones. permitiéndole al su­ jeto ’ir en busca del buen camino (yahinchoye lenayij ta is) (Palmer, 2005.201-202).

Vivere e affrontare resistenza con buona volontà significa cercare di mantenere in equilibrio VhesekE esso è un fattore di coesione so­ ciale. è quell’ente metafisico che garantisce l’integrità del corpo con­ servando la morale tanto per il soggetto singolo che per la collettività (Palmer, 2005, 225). La ricerca del cammino, della luce, la capacità di orientarsi e sapersi orientare, come vedremo, ha implicazioni profon­ de con la capacità di sapere e potere lavorare. Queste comunità wichf dedite alla caccia, alla pesca e alla raccolta, quando i missionari fran­ cescani si installarono nella missione già stavano abbandonando il se­ mi-nomadismo; non avevano lasciato le loro attività tradizionali di sus­ sistenza ma è certo che l’azione missionaria da un lato e lo sviluppo delle grandi piantagioni di canna da zucchero dall’altro, incisero in ma­ niera profonda nella organizzazione della propria vita in termini di sta­ gionalità, nell’appropriazione e nell’adattamento continuo a nuovi ha­ bitus. Dello stesso periodo storico e sullo stesso luogo, abbiamo la te­ stimonianza di Raffaele Gobelli che nel 1913 pubblica Breve estudio Etnografico sobre la tribù Mataca nel quale testimonia le difficoltà in­ contrate nell’organizzazione del lavoro della Missione; emerge, in tut­ to il testo di Gobelli, la refrattarietà all’apprendimento, la noncurante pigrizia dei wichf neh'affrontare il lavoro che veniva loro proposto: 4 Non è facile tradurre la parola hesek: possiamo utilizzare anima ma ancora me­ glio “volontà”: essi sono concetti che. ogniqualvolta incontriamo nella letteratura an­ tropologica sui wichf. vengono tradotti con il termine di “anima”: l’anima per i Wichf è allora quell'entità invisibile ma. come altri fenomeni metafisici dell'universo wichf. non completamente impercettibile, solamente complessa da vedere ad occhio nudo, essa rappresenta la primaria ed imprescindibile fonte attraverso cui prende forma la “buona volontà".

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Desde que me hice cargo de la Misión mi principal preocupación ha sido la istrucción moral, civil y religiosa de los indios, en particular de los ninos, porque de éstos, mas que de los viejos, se puede esperar al­ go (Gobelli. 1995, 129). De mi parte, después de haber vivido entre ellos tres anos, después de haber estudiado su caracter. inclinación. usos y costumbres. puedo afir­ mar que està tribù, generalmente hablando, es las mas degradada y mas refractaria a la civilización. Sin ambargo puede ser que mi juicio sea equivocado. Las facultades mentales de los matacos son. por re­ gia general. sumamente limitadas (Gobelli. 1995. 129).

L’opera di evangelizzazione dei missionari, così come ci viene nar­ rata da Gobelli, era complessa ma soprattutto molto frustrante. I Wichi, secondo il frate, erano refrattari all’evangelizzazione, all’apprendi­ mento e non disponevano delle capacità mentali per lavorare. L’attivi­ tà dei missionari, così come viene ricordata dai wichi, ha lasciato un se­ gno profondo; essi ricordano ogni singolo missionario, il lavoro di ognuno, l’attitudine ad insegnare ma anche ad apprendere la loro lin­ gua. Tale memoria, così come ogni singolo ricordo, rimane vivo nelle parole e riemerge nei gesti quotidiani.

Ciascun missionario è una personalità che potenzialmente lascia trac­ ce nel processo di evangelizzazione di un villaggio o di una intera po­ polazione. Il suo operato, quale che sia, se quello che tende alla tabu­ la rasa o quello che si lascia indigenizzare, è destinato a dare un deter­ minato ‘imprinting’ alla conversione, all’evangelizzazione che ha, in tutti i sensi, effetti duraturi sui destini della comunità, che non riguar­ dano solo gli esiti della conversione, ma la ri-costruzione dell’identità e dell’intero assetto socio-politico. [...] Ogni missionario ha un gros­ so ‘potere’ nelle mani proprio come soggetto mediatore che agisce ne­ gli interstizi della comunicazione interculturale [...] (Cuturi, 2004,31). Per questo Cuturi parla di accomodamento/adattamento, ricezione/ rigetto per descrivere le dinamiche dell’azione missionaria. Esse si con­ figurano come complesse e stratificate, perché i livelli in cui dovevano operare erano molteplici e perché spesso dovevano mimetizzarsi in ter­ mini personali ed identitari, comprendere sincretismi e mancate incor­ porazioni. Complesse e ambigue perché, soprattutto la South Ameri­ can Missionary,5 e nella fattispecie William B. Grubb entrò in contat5 The SAMS fu fondata a Brighton nel 1844 come la “Patagonian Mission’’. Il no­ me “Patagonian Mission” rimase per vent'anni; quando questo fu adottato, il Capita-

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to con i fratelli Leach, capitalisti inglesi e padroni dal 1883 dell’ùz ge­ mo La Esperanza. Fu proprio Grubb che, nel 1910, propose ai Leach un’opera di evangelizzazione dei seimila indigeni che lavoravano nelVingenios. Il controllo in questo senso voleva essere capillare e totale, ingenios e missioni lavorarono in stretto contatto tanto che l’azione del­ la chiesa anglicana fu fortemente appoggiata dall’azione dei proprietari inglesi i quali fornirono alla South American Missionary i terreni per fondare Misión Chaquena. La storia di Misión Nueva Pompeya narrata dai suoi primi abitanti indigeni sembra confermarci quanto la presenza francescana da un la­ to ed in seguito l’arrivo della ‘hermana’ Guillermina Hagen, rappre­ sentino per la comunità wichi i due momenti in cui essi si sentirono più protetti e in cui ebbero la possibilità di imparare a lavorare. La rap­ presentazione di alcune persone le cui famiglie parteciparono alla sua fondazione, è costellata da testimonianze in cui si alternano momenti di protezione, apprendimento e benestare economico, a periodi di ab­ bandono, paura, violenza e povertà. Fondata nel 1900, i Francescani rimasero nella missione fino al 1949; questi sono anni ricordati come economicamente produttivi, in cui i wichi si sentivano socialmente protetti. Nel 1943 un Informe del Commissario Provinciale delle Missioni scriveva,

la Misión Nueva Pompeya. por su posición tan lejana en una region tan internada del Chaco, con las caractensticas tan adversas y desalentadoras (sequia. aridez y el avance fatai de la subvegetación bos­ cosa) no tiene expectativas de adelantos, y serà necesario cambiarla o abandonaria (in Beck, 1994, 135). Fu proprio ciò che avvenne pochi anni dopo: nel 1949 la missione venne abbandonata. Durante il periodo che va dal 1950 fino al 1969 a detta di T.J., “se fracasó todo”, tutto andò in malora. In questi anni la popolazione criolla distrusse l'intero operato dei francescani e la po­ polazione wichi fu continuamente sottoposta ad oltraggi, soprusi e mi­ nacce sempre da parte dei criollos. no Allen Gardiner, come pure la prima compagnia dei missionari morirono per malat­ tie e per fame nelle terre del fuoco. Dal 1844 al 1850 furono fatti parecchi sforzi sen­ za risultati per stabilire missioni in Sud America. La missione amazzonica cominciò nel 1872. ma produsse risultati così scarsi che si dovette abbandonare. In seguito si ebbe la missione paraguayana del Chaco. Nei dieci anni seguenti tuttavia. 1890/1899. Mr. W.B. Gmbb successe a Mr. Henriksen come capo della missione del Chaco. Egli en­ trò nel paese e gettò le fondamenta della missione che ancora oggi esiste.

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Después se retire [el padre Angel], los Wichi querfan mudarse en etra parte. T. dice que cuando vino Angel no les cuidó y cuando se fue llevó lodo (campana grande). Vinieron camionetas y se llevaron todas las cosas de la Misión. La Misión se quedó vaefa. La familia de T. se quedó viviendo acà. Decfan que cuando dejó las Haves no la entregaron mas a los Wichf. La gente no podfa hacer nada, R. [un criollo que habfa tornado el poder] era corno el dueno: sacaron y llevaron el techo de la Misión. La familia se quedó viviendo pero no se podfa hacer nada. R. haefa lo que querfa. R. era corrcntino no mas (Misión Nueva Pompeya. T.J. e F.T., 2010). Nel 1969 arrivò la “hermana"Guillermina, una suora della “Congregación del Nino Jesus" che visse con la popolazione della Missio­ ne fino al 1974. Fino ad allora, la principale attività economica era la produzione di bestiame criollo che veniva venduto nella città di Ca­ stelli e che veniva prodotto soprattutto da criollos locali: gli indigeni vi­ vevano parte dell’anno della raccolta, della caccia, di ciò che coltiva­ vano (zucche e mais) e di quanto guadagnavano nelle piantagioni di cotone. Guillermina quando arrivò riorganizzò la comunità; seguì il la­ voro della popolazione aborigena, li aiutò a formare una cooperativa di lavoro (“cooperativa de consumo") che li rese indipendenti dall’impe­ gno nelle piantagioni ma che alterò in maniera profonda le relazioni politiche e le attività economiche vigenti (Inigo Carrera, 1996, 22). Erano anni politicamente “caldi", il progetto di Guillermina era ani­ mato da propositi cristiani; il gruppo religioso che arrivò a Misión Nue­ va Pompeya nel 1969 rispondeva ad una nuova forma missionale il cui strumento principale era l’educazione nella liberazione a cui si deve aggiungere però una forte componente politica di peronismo6. Nei ri­ cordi dei wichi il periodo fu tra i più felici, vi era prosperità economi­ ca7 ma soprattutto una profonda armonia e serenità emotiva “Ella era 6 Gli avvenimenti di questo periodo devono essere letti in un contesto più ampio che è quello dell’auge della teologia della Liberazione che. come corrente religiosa viva e innovatrice, mise in crisi profonda molti ordini religiosi e. in generale, l'intera Chiesa Cattolica Latino-americana. La Teologia della Liberazione era la corrente teologica emergente in America Latina dopo il Concilio Vaticano II e la Conferenza di Medellin (Colombia. 1968). Il punto di partenza era la riflessione su come essere cristiani in un continente oppresso, come riuscire a rendere la fede non uno strumento di alienazio­ ne ma di liberazione e che tipo di impegno reale esigesse la vita religiosa.

7 Guillermina Hagen diede l'avvio ad un programma di "Desarollo Comunitario" (Sviluppo Comunitario) che aveva l'appoggio del vescovo di Sàenz Pena. Così leg­ giamo nella puntuale rassegna di Nicolas Inigo Carrero nel 1996: “Un grupo de em-

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corno una madre con todos nosotros" (Misión Nueva Pompey a C.E.. 2005). Quando Guillermina se ne andò seguirono anni tremendi (19751980): fu il secondo periodo di oppressione da parte della popolazio­ ne criolla; i Wichi non vennero perseguitati come nel periodo prece­ dente, ma furono maltrattati politicamente e socialmente. Nel 1979, ar­ rivarono i Fratelli Maristas di Marce lino Champagnat (ancora presen­ ti a Misión Nueva Pompeya); in questo periodo e per tutti gli anni Ot­ tanta si assiste ad una sorta di “riscoperta dell'aborigeno". E l’inizio del cosiddetto periodo “democratico" (1983 e seguenti): terminarono le persecuzioni e fu il principio di un momento storico-sociale che cul­ minò con la ridistribuzione della terra nel 1996. Nelle testimonianze di molti wichi del luogo troviamo un’unica da­ ta “storica", l’anno 1969: essa corrisponde all’arrivo di Guillermina. Questa donna ha segnato le vite dei Wichi operando una cesura netta tra ciò che è accaduto prima e dopo la sua dipartita: Guillermina, se­ condo quando ci hanno raccontato diede una possibilità concreta ai Wichi di riscattarsi: con lei la popolazione lavorava, gli uomini semina­ vano e coltivavano la terra, le donne producevano artigianato: vennero costruite case, con Guillermina i Wichi impararono a firmare, si ave­ vano quaderni, matite e gomme, c’era una vera e propria scuola. Guil­ lermina “ci amava", “ci difese" dai criollos: agli occhi dei Wichi rap­ presentò l'incarnazione più concreta e veritiera della Nuova Parola. Il fatto che essa si fosse impegnata a lavorare insieme ai Wichi e avesse puntato tutto sul lavoro per la sua opera di ricostruzione della Missio­ ne, è molto significativo. Il lavoro, la possibilità di lavorare e soprattutto il fatto di essere posti nelle condizioni di poterlo fare, rappresenta per

pleados de la Dirección Provincial de Aborigen y voluntaries del obispado de San Ro­ que encabezado por la inonja. comenzaron una acción de transformacción en las relaciones económicas y politicas en Misión Nueva Pompeya. E1 proyecto inclina ademàs de la formación de una cooperativa de consumo, el establecimiento de un obraje que permitiera que los indigenas trabajaran lodo el ano sin que ir a la cosecha [...]. L’in­ stallazione di un negozio della cooperativa permetteva di comprare i beni necessari a prezzi più bassi e a vendere i prodotti della caccia e della raccolta a prezzi più alti; la instalación de cercos (parcelas cultivadas comiin por indigenas) protegidos de la intromisión del ganado permit (a oblener otros medios de vida. tanto del producto de los cultivos conio de salaries que se pagaban a los trabajadores)”. Cfr. 1996. 20-23. Que­ sto progetto alterò in modo profondo le dinamiche ecomiche. sociali e politiche tra la popolazione aborigena, criolla e lo stato nazionale e anche all’interno del villaggio stesso. Tra il 1973 e il 1974 venne smantellata la cooperativa e Guillermina fu allon­ tanata dalla missione.

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i Wichi una modalità per affermare, direbbe de Martino, la loro “pre­ senza nel mondo”8*lo . La testimonianza storica che hanno fornito i Wichi. dalla fondazio­ ne della missione francescana, è filtrata puntualmente dalla possibilità di avere lavoro. Ma cosa facevano prima dell’arrivo dei missionari i wichi? Non lavoravano? Certo che sì. e molto duramente. Tutta la loro esistenza era scandita dal lavoro: mariscar (chuwath/chuwalhche) è il termine inclusivo che viene utilizzato per indicare l’insieme delle atti­ vità che occupava uomini e donne nel corso dell’anno. E interessante allora cercare di riflettere sulle modalità che, dall’inizio del secolo, hanno plasmato e rimodellato il loro senso del lavoro. Secondo Gastón Gordillo, che ha indagato la situazione della popolazione Toba negli ingenios,

people see ‘foraging’ and ‘work’ as mutually exclusive practices. Thus, for many Toba marisca is characterized by conditions of mere subsis­ tence and the inability to access the money and commodities provided by wage labor (Gordillo, 2002a, 14). Per Gordillo l’attività di sussistenza e il lavoro salariato sono per­ cepite dai Toba come pratiche che si escludono a vicenda: se infatti la marisca aveva come obiettivo la mera sussistenza, il lavoro salariato presupponeva l’entrata in gioco di elementi quali il denaro e l'accesso a beni di diversa natura. Secondo Conti, de Lagos e Lagos, le campa­ gne militari del 1884 e poi del 1911 privarono le popolazioni indigene della loro tradizionale modalità di sussistenza: los rios donde pescaban fueron surcados y vigilados por cristianos, los campos de caza cada dia mas reducidos [...]. Sólo vendiendo su fuerza de trabajo podrfa obtener un nuevo medio de ganarse la vida. Por eso la proletarización del indigena chaqueno no fue mera casualidad sino producto de la mano de obra estacional en las nacientes agroindustrias (Conti, de Lagos e Lagos. 1998, 10-11).

Le parole dei wichi che abbiamo ascoltato però fanno emergere al­ tre varianti che sono interessanti per cercare di rendere meno dicoto­ 8 Penso al concetto di crisi della presenza che De Martino ha sviluppato in manie­ ra mirabile, ’’esserci nella storia significa dare orizzonte formale al patire, oggettivarlo in una forma particolare di coerenza culturale, sceglierlo in una distinta potenza dell’operare, trascenderlo in un valore particolare: ciò definisce insieme la presenza co­ me ethos fondamentale dell’uomo e la perdita della presenza come rischio radicale a cui l'uomo e soltanto l’uomo è esposto” ( 1958. 15).

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miche e definitive queste interpretazioni. Perché agli occhi dei Wichf di Misión Nueva Pompeya il periodo con la Guillermina viene ricordato come uno dei più pieni, dei più sereni della loro esistenza? Guillermi­ na, indipendentemente dalla ideologia politico-sociale che sottostava alla sua vocazione, sembrava aver compreso la attitudine wichf al la­ voro; aveva spronato la popolazione a dare il meglio e a mostrarsi ca­ paci di poter lavorare con dignità. La stessa dignità che li aveva ac­ compagnati fino ad allora nelle loro quotidiane e faticose lotte per la so­ pravvivenza in un monte difficile e pericoloso9. In questo senso l’etica del lavoro che era stata proposta, in apparenza non differiva dalla con­ cezione propria che i wichf avevano del lavoro e più in generale dalV ethos che li caratterizzava. In apparenza non differiva, ma nella so­ stanza produsse una serie di bisogni e necessità che prima i Wichf non possedevano; tutti bisogni legati ad una idea di ricchezza e di pover­ tà, a cui si sovrapposero e stratificarono sempre più frequentemente un passato mitico, un presente pieno di difficoltà, una presunta pover­ tà, una supposta dipendenza, una agognata abbondanza, un nostalgico “antes". Ciò che è interessante comprendere ed approfondire riguarda il pen­ sare alla transizionalità in cui questi gruppi si trovavano quando erano chiamati ad imparare a lavorare secondo modalità che non avevano mai sperimentato, sia con i missionari sia negli ingenios. Transizionalità, attitudine al lavoro e leadership sono intimamente connessi. Nei pe­ riodi in cui i leader locali wichf (nyat) erano più deboli o non avevano le capacità per indirizzare e guidale i wichf al lavoro (momento del ca­ cique Mulato a inizio del secolo XX e periodo del padre francescano Angel che non si occupò del benessere della missione), essi compresero che l’occupazione a\V ingenios risultava conveniente. Nonostante le lunghe migrazioni, le sofferenze del lavoro, la durezza delle condizio­ ni lavorative, «la zafra» ha rappresentato un momento importante per «saziale» la carenza economica dovuta alla stagionalità e per colmare il vuoto politico dovuto a leaders troppo deboli, incapaci di guidarli al lavoro. E in questi periodi, complicati sia dal punto di vista economico che politico sociale, i wichf non hanno mai abbandonato la loro attività di9 9 II monte del Chaco è una pianura semi-arida dove il clima varia secondo la epo­ ca. È un luogo con cui i Wichi hanno un rapporto profondo e dintenso. Sia le risorse idriche, che la flora e la fauna sono tutte mappate. conosciute e riconosciute. Nei con­ fronti del monte si ha timore e rispetto.

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«marisca» perché puntualmente ritornavano durante «el tiempo lindo del monte» in cui poter raccogliere i frutti e cacciare. Hanno saputo «aggiustare» e «rimodellare» la loro stagionalità fa­ cendola corrispondere ai periodi di abbondanza e scarsità in un gioco abile, doloroso certamente, e che ha inciso profondamente sulla loro percezione della povertà, della abbondanza e della ricchezza. Può essere d’aiuto in questo senso capire come la memoria sele­ ziona, vaglia e ricongiunga, quali siano gli elementi che rientrano nel­ la nostalgia per un passato prossimo ma finito. Questa operazione di cernita e riadattamento gioca un ruolo importante nel processo di “rap­ presentazione”. Infine colpisce sempre quella capacità di adattarsi, di essere impermeabili, di apprendere senza incorporare, di rendere pro­ pri valori e habitus senza assorbirli: una sorta di immunità che i wichi hanno saputo conservare soprattutto se guardati oggi e longitudinal­ mente, nel tempo e nello spazio.

Sulla memoria Le popolazioni wichi tradizionalmente erano agrafe. Hanno imparato a leggere e a scrivere attraverso i testi sacri e la loro traduzione in lin­ gua vernacola che sono stati tradotti principalmente dalla Sociedad Bi­ blica Unida (Dasso. 1999). In questi ultimi anni di ricerca sul campo (2004-2012) è emerso quanto i Wichi di Misión Nueva Pompeya vogliano gestire la loro me­ moria storica (Franceschi. Dasso, 2010) e stiano ugualmente tentando di elaborare modalità per porre su carta i propri ricordi, le memorie di famiglia e tutto quanto, nella loro rappresentazione, riguarda il loro universo culturale.

P. scrive. Scrive prima in wichi e poi traduce in castellano. Dalle sue pa­ role emerge un desiderio di fare, di andare avanti. Scrive i racconti dei suoi nonni e degli anziani che va ad intervistare. Quando ascolta non scrive perché ogni parola rimane nella sua mente. P. reitera più volte lo sforzo che deve compiere per tradurre dal wichi al castellano. Non è chiaro perché voglia tradurre ma quello che emerge dalle sue parole è il timore che qualche cosa di importante vada perduto [...]. Quello che lui fa dovrebbe servire alle generazioni future. Dalle sue parole emer­ ge anche 1*importanza che la scuola che frequenta, il CIFMA. sta dan­ do alla nozione di “cultura” aborigena. A scuola gli stanno insegnan­ do che cosa è la cultura: lingua, usi. costumi, religione, la cultura ma-

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teriale. Gli studenti vengono preparati per sapere e spiegare gli ele­ menti fondamentali della cultura aborigena. Ci parla di due cose im­ portanti: libertà e rispetto. Rispetto è tiwahlhathi mayek. Libertà per P. è uguale a rispetto. P. sottolinea l'importanza del lavoro, trabajo è tochemet: a questo proposito ci dice, "eoeina es trabajo. lodo es trabajo. pintar la casa es trabajo, trabajo practice es trabajo”. (Diario di campo, Misión Nueva Pompeya. 15 giugno 2010). Il lavoro che sta portando avanti P. è interessante, riprende quello in­ trapreso da Laureano Segovia, un anziano wichi della provincia di Sal­ ta che già da tempo scrive e pubblica le sue memorie (Segovia, 1998: 2005) o quello di Juan Olivares di San Mateo del Mar (Messico) che Flavia Cuturi ha sapientemente raccolto (Cuturi, 2006). È il timore del­ l’oblio, la volontà di divenire i depositari della propria memoria se­ condo modalità proprie e non imposte dall’esterno, è la consapevolez­ za della transizione che porta molti giovani ed anziani a intraprendere questo lavoro complesso e delicato di scrittura e traduzione, certamente pieno di ambiguità, sia per noi antropologi che per coloro che in esso ci stanno cimentando. Per questo quando l’antropologo lavora sulle memorie deve tenere in considerazione una serie di fattori molto delicati. La memoria ha rappresentato uno degli strumenti fondamentali per accedere, in modo diretto e plausibile, a complessi sistemi culturali; ha fornito un signifi­ cato scientifico, ma anche etico e politico, ad una serie di interventi nella acquisizione, preservazione e presentazione alla comunità scien­ tifica di dati preziosi di culture in pericolo di estinzione. Ma. se un tem­ po questo compito era prerogativa dell’antropologo, oggi 'gli addetti’ a tale missione sono divenuti coloro che abbiamo considerato “in via di estinzione” e che, non ancora estinti, si preservano il diritto di par­ lare, di scrivere, di riflettere. La memoria in questo senso è stato ed è un dispositivo essenziale per l’antropologo: quando si dovevano raccogliere testimonianze su culture e popoli in “pericolo” la memoria ha rappresentato “lo stru­ mento” del quale non si poteva dubitare e che raramente si è messo in discussione. Nel momento in cui sono cominciati gli studi su oralità/ scrittura e le riflessioni sul ruolo svolto dai sistemi grafici nell’orga­ nizzazione sociale e nelle strategie cognitive di apprendimento, allora si è cominciato a riflettere su quanto la memoria andasse studiata con­ testualmente. Per Jack Goody le conoscenza e le modalità di appren­ dimento sono influenzate dalla presenza o meno del sistema della scrit­ tura; in società orali immagazzinare (termine vicino alle neuroscienze

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cognitive utilizzato sovente da Jack Goody e le cui radici affonda­ no negli antesignani studi di Henry Bergson proprio sulla memoria) informazioni significa spesso “imparare e ricordare a memoria"; “l’informazione è immagazzinata nella memoria e nella mente [...]’’ (Goody, 2002, 36). Negli studi di Goody appare evidente lo scarto epi­ stemologico esistente tra ricordo e memoria10 e la necessità dell’oblio. Il ricordo diviene in tale prospettiva un atto che intrattiene un rappor­ to privilegiato con tutto ciò che si lega ai “dubbi personali", alle “in­ venzioni individuali" (Goody, 2002, 55) e alle scelte del singolo, men­ tre la memoria sembra essere quel patrimonio legato alla “tradizione", alla “consegna" ai posteri di uno specifico sapere condiviso che divie­ ne veritiero. L’oblio infine è quella precisa operazione che acconsente tale passaggio, che fa sì che non ci siano ingorghi “culturali" permet­ tendo che tutti gli elementi discordanti (dovuti al ricordo) si eliminino o vengano incorporati come se esistessero da sempre (Franceschi, 2007). Memoria, ricordo e oblio. In questi anni di lavoro di campo i Wichi di Misión Nueva Pompeya hanno ricordato eventi dolorosi, spesso trau­ matici; ci hanno messo nelle condizioni per iniziare una riflessione sul­ le complicate istanze che vengono messe in atto quando si tratta di ri­ cordare un evento che provoca timore (nowaye), vergogna (ojwun), coraggio/forza (kahnaiah), dolore (àytaj). Non solo il linguaggio viene chiamato in causa ma anche 1'“universo del non linguistico" (Violi, 1997, 70) tutta l’esperienza che il linguaggio fa rinvenire ma i cui de­ positi vengono ad essere altri; il corpo, gli oggetti, i corpi degli altri, gli altri, gli oggetti degli altri. Così, se per alcuni eventi dolorosi è emer­ sa una volontà precisa di porre per iscritto quanto hanno testimoniato rispetto ai periodi di oppressione da parte dei criollos. per la memoria negli ingenios non sono state la violenza, la coercizione o la brutalità ad essere ricordate, quanto piuttosto l’abbondanza, l’allegria, il senso del gruppo che durante i mesi deWingenios si consolidava, rinvigoren­ do rapporti già esistenti e aprendone di nuovi.

10 Interessanti a questo proposito anche le considerazioni di Aleida Assrnann che. evidenziando le puntualizzazioni di Friedrich G. Jiinger. distingue i termini Gedcichtnis (memoria) ed Erinnerung (ricordo) ove il primo indicherebbe il “dato innestico** ovvero la conoscenza, mentre il secondo Fesperienza soggettiva. (Cfr. Assrnann. 2002.29.)

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Gli ingenios

Già dal XIX secolo, dopo la espulsione dei gesuiti in Argentina (1768) si iniziarono a ripensare le condizioni lavorative delle popolazioni indi­ gene (Levaggi, 2006, 13-14). Dopo, ed in ragione della “conquista del desierto”11, Julio Argentino Roca insieme al Governatore di Tucumàn e agli industriali del tempo decisero di occuparsi delle condizioni lavora­ tive degli indigeni; l’intenzione era quella di pensare alla preparazione di una legge sul lavoro. Fu affidato questo compito a Juan Bialet Massé nel gennaio del 1904: egli avrebbe dovuto elaborare un resoconto sulle condizioni lavorative della popolazione in generale e in tutta la Re­ pubblica argentina. In tre mesi egli portò a termine il compito affidato­ gli e nel 1904 venne pubblicato l'Informe sabre el estado de las closes obreras en el interior de la Republican dove si consegnavano le riforme proposte alla luce dei fatti storici contingenti e con la volontà di incor­ porarle nel primo progetto legislativo. In tale resoconto Bialet Massé anticipa alcune considerazioni che saranno proprie di Niklison: Me fijo en primer termino en el indio, porque es el elemento màs eficiente del progreso e importante en el Chaco: sin él no hay ingenio azucarero. ni algodonal ni mani, ni nada importante. Es el cosechero irreemplazable del algodón; nadie le supera en el hacha. ni en la cosecha del mani. Si los proprietaries del Chaco miraran este asunto con el11

11 La regione del Chaco argentino fu l’ultimo avamposto ad essere incorporato al­ la “vita nazionale” e questo avvenne con la ' Campana Victorica”. nel 1884 che culminò nel 1911 con quella di Enrique Rostagno. L’avanzamento delle frontiere e la creazio­ ne di colonie, conformò il popolamento di questa regione, che era considerata dallo sta­ to argentino come un residuo di quel "primitivismo originario”, di cui le popolazioni autoctone rappresentavano l’incarnazione più riuscita. La campagna militare portata avanti durante la presidenza di Julio Argentino Roca e comandata dal ministro della guerra generale Benjamin Victorica. ebbe l’obiettivo centrale di sottomettere con le buone o con le cattive le tribù che abitavano il Chaco ed obbligarle ad accettare le leg­ gi della Nazione. Il piano contemplava l’avanzamento della frontiera fino al Rio Bermejo. lasciando ad un secondo momento l’occupazione del Chaco Centrale (Formosa), fino alla frontiera internazionale del Rio Pilcomayo”. L'occupazione del Chaco offre alcune importanti differenzazioni rispetto all’occupazione della Patagonia. Nel Chaco gli interessi si orientavano verso lo sfruttamento delle risorse di legname, verso le col­ tivazioni di cotone, verso la produzione di zucchero derivato dalla canna (spostandosi verso il Chaco occidentale). L’aborigeno diveniva necessario allora proprio come ma­ no d'opera. Furono tre gli aspetti che caratterizzarono questo complesso processo di occupazione/sfruttamento/sottomissione: "Calda de la población: Degradation del medio ambiente: Arrinconamiento”.

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mas crudo de los egofsmos, pero ilustrado, serian humanitarios por egoismo, y cuidarfan a los indios siquiera corno a animales insustituibles para labrar sus fortunas; pero es seguro que no lo haràn si la ley no lo impone y con mano fuerte (Massé, 1986, 50). Nel messaggio del 1904 al Congresso, il presidente Julio Argenti­ no Roca annunciò l’avvio immediato del progetto ispirato a “necesidades evidentes y en las formulas adoptadas por las naciones que mejor han legislado sobre el asunto. Su espiritu mas generai es mejorar las condiciones de la clase obrera y de la industriai, ofreciéndoles medios de conciliación permanente sobre bases de equidad y justicia (...)” (Levaggi, 2006,52). Il progetto consisteva in 465 articoli riuniti sotto quat­ tordici titoli che tenevano in conto delle condizioni di lavoro, del con­ tratto, dei possibili incidenti sul luogo di lavoro, della sua durata e del­ le diverse tipologie di lavoratori: donne, uomini, bambini, stranieri ed indigeni. Il congresso non prese in considerazione questo resoconto; esso fu rifiutato dalla Federation Obrera Argentina, dalla Union Ge­ neral de Trabajadores e dalla Union Industriai: era sicuramente trop­ po ambizioso per il periodo e a tratti molto polemico. Negli anni che se­ guirono però alcuni capitoli prosperano e furono sanzionati come leg­ gi indipendenti: il libro con il tempo divenne un classico della lettera­ tura sul lavoro (Levaggi, 2006, 52-54). Nel 1907 il deputato Julio A. Roca propose la creazione di un De­ partamento National del Trabajo capace di illustrare la situazione dei lavoratori sia dal punto di vista teorico che pratico. Questo esteso e cor­ poso progetto conteneva una parte in cui si tentava di definire “la per­ sona civil del indio” (Beck, 1994, 97); nonostante le opposizioni, il progetto venne approvato e il presidente José Figueroa Alcorta fondò tale suddivisione. Nel 1912 dopo lunghe e complicate trattazioni ven­ ne sancita la Legge 8.999, Organica del Departamento National de Trabajo, dipendente dal Ministerio del Interior e che costituì tre divi­ sioni principali, Legislazione, Statistica, Ispezione e Vigilanza. Da que­ sto momento si costituì un servizio di ispezione e vigilanza diretta e permanente negli stabilimenti commerciali ed industriali per accertar­ si che venissero rispettate le leggi relative al lavoro (Beck, 1994, 99). Sarà proprio il Departamento National del Trabajo il luogo in cui ver­ ranno redatti resoconti come quello di José Niklison12.

12 Nato a Santa Fe nel 1875. Funzionario nazionale, ispettore del Departamento Nacional del Trabajo ( 1914-1920). Nel 1917 fu inviato con la carica di “Ispettore” da

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Quello di Niklison è un documento molto peculiare in cui detta­ gliatamente vengono descritte le condizioni di lavoro nell’industria dello zucchero. Niklison si documentò sulle fonti del periodo consul­ tando autori come Samuel Lafone Quevedo, Giovanni Pelleschi, José Cardus, Alejandro Maria Corrado, Lorenzo Hervàs y Roberto Lehman Nitsche. Lesse gli scritti dei vari missionari, francescani per la mag­ gior parte, che avevano avuto diretta esperienza con le popolazioni in oggetto. In linea generale questo documento risulta avere una visione del lavoro indigeno piuttosto difforme dalle contemporanee descri­ zioni, che riproponevano stereotipi duri da dissolvere in un’epoca in cui padroni e polizia avevano come obiettivo quello di uno sfrutta­ mento indiscriminato della popolazione indigena. L’“indios mataco zafrero” si trasferiva o a San Pedro Ledesma o a La Esperanza13 con tutta la famiglia e fu per questo che Niklison riuscì ad osservare il gruppo familiare nel suo complesso. Sia Gobelli che Giovanni Pelle­ schi ci forniscono testimonianze interessanti da cui Niklison prende spunto:

Casi todas las indiadas son arreadas attualmente à los ingenios azucareros en la forma de que ya he hablado en mis anteriores folletos; de suerte que, desde Marzo hasta Noviembre. sólo quedan en el Chaco los ancianos, los enfermos y algunos que ya estàn persuadidos de que, con estas idas y venidas, nada ganan, ni mejoran su siluación. Los que viven habitualmente arrimados a las casas de los pobladores, siempre seràn salvajes, porque ninguno de ellos se preocupa de is­ truir los y catequizarlos. [...] Buenos Aires a Jujuy per vigilare e verificare il compimento di un contratto firmato nel 1914. tra gli ingenios e i lavoratori di origine mataca. Il resoconto venne pubblicato nel Boletin 35. diciembre de 1917. del Departamento Naeional del Trabajo. Vennero pubblicate sue dichirazioni sulla rivista El Mundo del giornale La Nación de Buenos Aires.

13 Nel 1876 i fratelli Sixto e Querubm Ovejero comprarono i macchinari in In­ ghilterra e fondarono Vingenio Ledesma (Jujuy). Nel 1911 Enrique Wollman e Carlos Delcasse due finanzieri francesi comprarono tutte le azioni delfi/ige/no e fondarono la ’‘Nueva Compania Azucarera Ledesma". Fino al 1927 egli rimase a capo della com­ pagni. Nel 1884 a San Pedro venne messo in funzionamento l’ingenio La Esperanza dei fratelli Leach, nel 1892 Alvarado e Muller fondano Vingenio La Mendieta. Nella Provincia di salta fino alla fine del secolo scorso esistette l’ingenio San Isidro.Nel Cha­ co esistevano tre fabbriche di zucchero. Vingenio Boggio fondato nel 1882 a Resistencia; Las Palmas fondato nel 1884 nel Departamento Soialinde e Svea e nel 1900 Vingenio Lutecia. Nella provincia di Formosa troviamo gli ingenios Bouvier e For­ mosa e l’ingenio della missione San Francisco de Laishi. Beck. 1994. 158-159.

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Hay algo mas; muchos pobladores. no solo impiden de que los indios se reduzcan en las misiones religiosas. sino que con enganos y prome­ sas. que nunca cumplen. los alejan de éstas para aprovechar sus servicios en las cosas arriba indicadas (Gobelli, 1995, 133).

Presso il Forte Corriti vi è una numerosa indiada Mattacca, divisa in tre tolderie. Cotesti indiani son mansi e i cacicchi ricevono razione dal Governo; gli altri poi si procacciano la vita al solito. Son cotesti In­ diani, che durante la raccolta e la elaborazione della canna da zucche­ ro vanno salariati agli Establecimientos o haciendas di zucchero nel Departamento d’Oran nella Valle del San Francizco. fornendo una van­ taggiosa mano d'opera [...]. A questi stabilimenti vanno molti gl’indiani. Un magiordomo cri­ stiano va alle tolderie, distanti 80 e 100 leghe, tratta con i cacicchi il salario, che suole essere di 6 boliviani, cioè 24 franchi al mese, e il vitto, che suole essere una miseria. Il salario vien loro dato in roba e in commestibili a prezzi quasi sempre esageratissimi. Gli indiani se ne tornano scontenti e col proposito di non ritornarci, ma l’anno do­ po tutto è dimenticato o il bisogno li stringe, e rinnocano (Pelleschi, 1881, 88). Dopo una breve descrizione della popolazione indigena, della lin­ gua, delle origini, delle caratteristiche (fisiche, morali e condizioni in­ tellettuali). delle donne. Niklison si dedica alla esposizione della loro condizione lavorativa. Le due parti del testo appaiono complementari; l’ispettore sembra essere spinto dal desiderio di comprendere l’ama­ rezza, le ingiuste persecuzioni, le crudeli violenze a cui gli indigeni mataco erano sottoposti.

Esa amargura se acentùa y rebasa cuando se oyen ahi. sobre el mismo lugar de las inicuas persecuciones, la narración de los episodios de ra­ pina y de crueldad. lejanos y recientes. que corren de parcialidad en parcialidad. de tribù en tribù y de toldo en toldo. sacudiendo los rudos corazones indfgenas en estremecimientos de horror, de venganza y de impotencia y velando sus suaves ojos de indicibles tristeza (Niklison, 1917. 13). Nelle prime pagine già sappiamo che il vero nome della “nación Mataca", quello con cui esse si auto-denominano è “Uicquii”; essi sono divenuti, al contatto con i dominatori “excelentes trabajadores" (Niklison, 1917, 19) ma l’atteggiamento più comune nei loro confron­ ti era il “menosprecio", il disprezzo (Niklison. 1917,42). È molto chia­ ro quanto Niklison abbia un profondo senso etico della giustizia;

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Conversamos mucho; me contaron con calabra impregnadas de sinceridad y de esperanza, sus quejas. sus satisfacciones, sus anhelos. Tuve la evidencia de la dolorosa vida del desierto y de la triste y amarga vida de los eslablecimientos industriales. Supe la duración de la jornada y la retribución del trabajo; el valor y la calidad de los articulos de primera necesidad. y la forma en que, segùn ellos, se cumplfa el centrato de las empresas con el gobierno federal (Niklison. 1917.46).

Etica e giustizia sono accompagnate da un impegno costante di de­ nuncia nei confronti di un Stato assente che mai si è voluto prendere ca­ rico delle popolazioni indigene, Hace dos anos he vivido con la costante preocupación del descuido. del inexplicable abandono en que la sociedad y los gobiernos han mantenido hasta ahora a la población autòctona de aquel vasto territorio, población fisica, moral e intelectualmente bien costituida para recibir y asimilar los beneficios de la civilización en sus màs utiles y nobles formas (Niklison. 1917, 50-51 ).

La storia delle popolazioni indigene argentine dà e darà ragione a Niklison: gli indigeni non hanno mai rappresentato una preoccupazio­ ne politica rilevante; V invisibilità era una delle loro caratteristiche più evidenti, mentre il fatto che vivevano in luoghi così isolati portarono a definire il Chaco come un deserto impenetrabile. Quando il resoconto di Niklison entra nel vivo del racconto possiamo facilmente rinvenire in esso i ricordi, le memorie, le testimonianze dei nostri interlocutori wichi. Tutto iniziava con un reclutamento e con un conseguente viaggio, lungo, interminabile, senza fine.

La marcha en dirección a los ingenios es larga y penosa. Algunas columnas demoran dos o tres meses en llegar a las estaciones ferrocarriles de la frontera de Salta. - Embarcación o Pichinal - donde general­ mente se les embarca en vagones de carga de Central Norte, para conducirlos en pocas horas hasta los mismos lugares en que han que trabajar [...]. el viaje que corno lo he dicho es de varias semanas, se realiza a pie, lo mas rapidamente posible para disminuir asf el costo del racionamiento. [...] Durante el trayecto son muchos los que sucumben bajo el cansancio de las extenuantcs ctapas y la acción de las cnfcrmedades que persuiguen a esas miserables columnas de obreros que màs parecen de mendigos (Niklison, 1917,65).

I lunghi ed estenuanti viaggi sono una parte importante di molte te­ stimonianze. Sono i viaggi agli ingenios certamente, ma quelli che ci

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vengono raccontati sono anche i viaggi che molti wichi facevano dalla provincia del Chaco a quella di Salta in cui molti morivano, ma in cui tanti si incontravano, si conoscevano o si riunivano. Emerge sovente dai racconti che abbiamo ascoltato, quanto questi lunghi trasferimenti com­ portassero fatiche, sacrifìci e perdite, ma al contempo rappresentassero occasioni di incontri e ritrovi in cui si riusciva a condividere e in cui na­ scevano amicizie, ancora vive tra quelle famiglie che si erano conosciute proprio durante quelle trasferte. Così è capitato ad A.P. la cui amicizia con la famiglia Matorras e Calermo rimane viva e rappresenta a tutt’oggi un legame stabile di solidarietà, condivisione, mutuo soccorso. [...] Fue educada conio una criolla, la madre cuando el papà falleció vi­ no de donde vivfa su làmilia wichi. Desde Salta vino a Pompeya y en el camino se reuniron con los Matorras que estaban en Fortin Belgrano (Diario di campo. 28 luglio 2005, Misión Nueva Pompeya). A.. T.. D.. tutti ricordano i loro viaggi; viaggi dalla provincia del Cha­ co a Salta, viaggio agli ingenios, viaggi alle piantagioni di cotone; viag­ gi in cui si sono riuniti e cui molti sono morti (Diario di campo. Misión Nueva Pompeya. 25 luglio 2005).

C. Bruch, 1906. «El ingenio da Esperanza», in Pepe. Oldani. Suarez. Harrison. 2010.

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Una volta giunti agli ingenios gli indigeni potevano riposarsi tre giorni prima di cominciare il lavoro alle piantagioni, Las plantaciones de cana de azùcar se dividen en "lotes" de mas o menos hectàreas de extension, a cargo de un administrador, quien tiene a sus órdenes cierto nùmero de “capateces de indios” que son los encargados de distribuir las tareas y de vigilar y dirigir a éstos en los trabajos que estan encomendados. [...J En los ingenios los indios viven lo mismo que en el desierto: sus casas de Ledesma y de San Pedro son exactamente iguales a las que se levantan en el corazón del chaco. Las ‘chinas’ clavan un circulo unas cuantas varillas flexibles, luego las arquean. juntan y atan en la extremidad, y preparado el armazón, que afecta la fonna de un homo, cuyo punto centrai y culminante no alcanza a dos metros de altura desde el nivel del suelo, lo cubren apresuradamente de paja o de hojas (Niklison. 1917. 69).

Yo no era de acqui, el lugar. yo soy [...] el lugar de donde éramos es Al­ toverde. la provincia es Salta. El lugar de nosotros. Ir a San Martin eran ocho dias caminando. era tranquilito. Con el burrito, cargabamos el burrito [...] con palitos, pero a pata. [...] Era la misma distancia que Castelli, ocho dias, era mas lindo que Castelli; era mas lindo ir a Sal­ ta, mas lindo que Castelli porque hay muchas casas, se juntaban por todos lados. Se hacfa una caja en forma de homo, era el rancho boia. Ca­ da persona que tenia companero tenia que tener su rancho boia. Los ninos entraban a dormir. Està duraba lodo el tiempo [...] se hacfa en el mismo ingemo y cuando terminaba se dejaba. Asi no mas. [...] Yo era chica. (Misión Nueva Pompeya, A.P., 23 giugno 2011 ). A.P. ci racconta la sua esperienza all’ingenio di San Martin. Si sposta­ vano tutti insieme, tutta la famiglia. Preparavano rami con “fajita co­ lorada” i cui rami si piantavano nel suolo e si attaccavano all’estremi­ tà così si riparavano. Si copriva con una chala di cana, foglia di canna e tutti vivevano in questo rancho boia a forma di forno che era alto po­ co più di una persona. Lei era rapidissima con la canna, cortando, pe­ lando. armando una pila di grande altezza e poi continuava aiutando gli altri (Diario di campo, Misión Nueva Pompeya. A.P., 23 giugno 2011).

Mentre A.P., una anziana donna wichf, racconta, sorride e ride di gusto: ci prova a spiegare nel dettaglio: emerge la sua abilità nel co­ struire i ranchos boia, la sua esperienza, la bravura, la tecnica precisa ed attenta. Capiamo dal racconto di A.P. quanto essa abbia incorpora­ to una serie di competenze specifiche. 11 lavoro negli ingenios era ge­ rarchicamente segmentato a seconda della provenienza etnica e del ge­ nere: le donne avevano compiti e ruoli ben precisi.

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Insuperables resultan los indios en las labores de la zafra. Cortan, descogollan y pelan la cana con pasmosa facilidad; y el acarreo desde las plantaciones al callejón que de cien en cien metros divide a éstas, demuestran una fortaleza realmente superior (Niklison. 1917. 72).

En el centrato del 28 de febrero de 1914. supscripto por el mencionado jefe del 7 de caballeria de linea y los representantes de los ingenios La Esperanza y Ledesma, tiende a asegurarse el buen trato. la recom­ pensa, el ahorro de los indigenas en el trabajo, por una parte, y la concurrencia regular de èstos a las labores de las empresas. por otra. [...] se divide y clasifica el personal obrero en seis categories que comprenden a los caciques, a los indios mayores. a las mujeres y a los ni­ nes de las tribus; se marca la jornada de ocho horas de trabajo y la recompensa segun dichas categorias (Niklison, 1917. 76). Riusciamo così ad intravvedere i gesti, le singole azioni che com­ piva A.P.: sono chiare, palpabili, tangibili. È fiera della sua descrizio­ ne e anche un po’ stupefatta della mia ignoranza; ai suoi occhi chi ave­ va vissuto veramente, chi aveva davvero sofferto e chi si era veramen­ te divertito nella condivisione, non poteva non saper fare i ranchos bo­ ia. Così la sua descrizione possiede i dettagli di chi sa e conosce, ma ha anche l’impazienza di chi immagina di parlare a qualcuno che non può non sapere, non comprendere, non saper fare. Questa vecchia wichi ci vuole trasmettere inoltre quanto il viaggio all’ingenio San Martin costituisse un momento di incontro tra gruppi che provenivano da diversi luoghi. Nella sua testimonianza, come in altre che abbiamo ascoltato di anziani wichi, emerge solo ciò che di bello e degno di essere ricordato vale la pena raccontare. Il resoconto di Niklison, nel capitolo decimo e undicesimo entra nel dettaglio sul salario e sulla retribuzione; questo ultimo punto affronta­ to da Niklison è forse quello su cui, date le testimonianze che abbiamo ascoltato e quanto abbiamo visto sul campo, vale la pena una ulteriore riflessione.

Una vez en posesión de sus vales, el indio se dirige a la tienda, y por medio del lenguaraz. cuando no puede hacerlo personalmente, pide la mercaderia que mas le agrada y que él elige libremente hasta comple­ tar la suma anotada en el vale. He podido comprobar que dicha mer­ caderia se vende a los indigenas a los precios especificados en los contratos, asi corno también la baratura de los articulos y la generosidad del ingenio que no hace cuestión de centavos, y entregó frecuentemente en mi presencia, varios objetos pedidos por los indigenas sin que los va­ les presentados alcanzaran para elio (Niklison. 1917, 93).

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Sia Niklison che i nostri testimoni dedicano attenzioni e dettagli a quello che veniva chiamato «arreglo grande», una sorta di liquidazio­ ne dei debiti che V ingenio aveva con ogni singolo lavoratore. Avveni­ va nel mese di dicembre ed era uno dei meccanismi pensati per tratte­ nere la mano d’opera fino alla fine della raccolta. Los indios se dirigian à la oficina liquidadora de jornales acompanados del lenguaraz. quien presentaba las tablas de jornales y solicitaba las mercancias que el zafrero requeria. Los empleados pagaban segùn su criterio, pudiendo anotar cualquier cifra sin que los interesados se percataran las deferencias (Conti, de Lagos & Lagos. 1998. 15).

Il contratto che gli indigeni stipulavano per il lavoro alle piantagio­ ni era per loro indecifrabile. Secondo quanto lo storico Beck ci segna­ la dal 1915-17 vennero fatte diverse “ispezioni oculari che rendiconta­ rono nel dettaglio circa il compimento del contratto. Tra queste ispe­ zioni vale la pena menzionare quella del Signor E. de Ciris della Di­ rection General del Territorio all’ingenio Ledesma, quella dell’ispet­ tore del Departamento National del Trabajo Rafael A. de Zavalia nell’ingenio La Esperanza e quella appunto del nostro Niklison in en­ trambi gli ingenios. Tutte concordarono nel segnalare che il contratto, così come era stato stipulato, non aveva dato i risultati sperati (Beck, 1994. 177). Agli indigeni ciò che interessava era la “mercadena”. gli oggetti, quei beni che solo agli ingenios potevano avere, possedere, toc­ care. condividere, scambiare, godere, provare. T.N. un anziano di Nueva Población, un villaggio a pochi chilome­ tri da Misión Nueva Pompeya, ci racconta: Mis abuelos iban al ingenio, iban con el burrito. Cruzaban el Bermijito y el Teuco, nadando se cruzaba y el burrito también. Esa éopca era 1915-1912. era la època de gente que iba por alla. Habia un hombre co­ rno capataz que buscaba gente, lleva mercadena. La gente no toma ma­ te, no lo conoc fa. Con el capataz se conoce el mate. Dice que es muy lindo, se corta la cana. Después viene corno un trencito y les lleva a la fabrica y le pagaban bién. No sabian corno le pagaban por dia, le daban un montón de ropa. Toda ropa para cada mujer. Todo; no falla na­ da, olla, panuelo y después a fin del més se sumaba el efectivo. A los varones machetes: ellos elegi'an: piata y mercadena. La gente dice que era muy lindo, habia todas las cosas para mujeres. Siete meses dicen que era. Alguno combraba el caballo. No faltaba nada. Cuando uno to­ ma no tiene que salir (Diario di campo, Nueva Población. 27 settem­ bre 2011).

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Tutto il racconto di T.N. è incentrato sulla quantità e qualità di og­ getti che si ricevevano all’/zigomo. Non mancava nulla; donne e uomi­ ni erano contenti. La gente diceva che era molto bello, venivano di­ stribuite tutte “le cose per le donne”, i fazzoletti, le pentole, gli stru­ menti per la cucina, si beveva il mate che proprio lì, agli ingenios, si im­ parò a conoscere; gli uomini a volte si compravano il cavallo, oppure sceglievano tra gli oggetti un machete. Traspare, dal racconto di T.N., che l’ingenio certamente era anche molto altro, che il lavoro era duro, tremendo, estenuante; è molto chiaro però nella sua rappresentazione, dal ricordo trasmesso dai sui nonni, quanto non fosse sulla durezza del lavoro, sulle condizioni insopportabili rispetto alla salute e alla fatica, che ruotava l’esperienza aWingenio. La sua testimonianza rimane di meraviglia e di stupore per quanto veniva loro dato. Sono proprio que­ sti sentimenti che all’inizio disorientano perché sono memoria viva mentre sembra che il dolore e la crudeltà della violenza rimangano ai margini senza voler prendere il sopravvento. Il campo riserva sempre sorprese; rimane sempre lo spazio dove tro­ vare possibili risposte. Quello stesso giorno, a Nueva Población, ab­ biamo assistito ad un “sorteo”; era presente nel villaggio un gruppo di giovani ragazzi di Cordoba in visita. Li avevamo già notati perché men­ tre chiacchieravamo con T.N. erano passati a distribuire farina, acqua, zucchero e mate alle varie famiglie. Alla fine della giornata, prima di ritornare verso casa e in attesa di un passaggio a Misión Nueva Pom­ peya, abbiamo, nostro malgrado, assistito ad una distribuzione pubbli­ ca di doni per sorteggio. Una sorta di tombola del villaggio in cui ve­ nivano ripartiti sacchetti chiusi al cui interno c’erano vestiti, scarpe e piccoli oggetti; pettini, braccialetti, borsette. Ricordo tutti questi sacchi neri in fila. Tutti della stessa dimensione e tutti allineati nel giardino della scuola; su ognuno dei sacchetti un numero. Wichi e criollos ave­ vano ritirato per tempo il loro numero e quando venivano chiamati si avvicinavano per prendere in fretta ciò che a loro spettava. Alla fine di questo rituale lungo, snervante ma soprattutto laconicamente surreale, erano rimasti sacchi senza numero; a poco a poco le persone hanno co­ minciato ad avvicinarsi, prima lentamente, con ordine e riserbo e poi, a poco a poco, di corsa. In un momento tutto si è trasformato in un as­ salto scomposto e disordinato. Annoio sul mio quaderno di campo:

Sorteo: Cristina dice che le ricordano le narrazioni dei wichi agli in­ genios. Dobbiamo riflettere con attenzione al valore dei beni. Esiste una agency'? Nella appropriazione di questi oggetti esiste una modali­ tà di rimodellamento?

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Perché vengono ricordati i fatti felici degli ingenios? Manca casualità nel ricordare? Ai wichi brillavano gli occhi. Per me è stata una rappresentazione mol­ to violenta. Perché hanno una attitudine tale nei confronti dei beni? Cosa fanno con questi beni? Li condividono? Cristina mi racconta che mentre anche lei assisteva al sorteo le si è av­ vicinata una vecchietta che le ha detto “nadie comparte’'. A Cristina tutto questo fa ricordare il mito del “arbor. Rifletto sulla omogeneità sociale, sul valore degli oggetti e sul denaro; sull’idea di una società che resta omogenea di fronte a concreti fattori di cambiamento. Rifletto suH'flgczic v in una società omogenea. (Diario di campo, Nue­ va Población, 27 settembre 2011).

Tomai a casa con un senso di malessere. Per Nueva Población gio­ vani ragazzine wichf giravano vestite da sci. con scaipe con i tacchi e borsette di pelle. Si provavano ciò che avevano trovato nei loro sacchi neri. I loro occhi brillavano ancora.

Epilogo Due fra gli studi più recenti sulla memoria degli ingenios nel Chaco si soffermano in maniera attenta e precisa sul tema della violenza, del terrore, della paura e della morte seguendo le testimonianze di alcuni indigeni Toba (Gordillo 2002b). Nel secondo scritto di Gordillo, The Dialectic of Estrangement: Memory and the Production of Places of Wealth and Poverty in the Argentinean Chaco, in cui sempre è presen­ te il tema della memoria e del trauma, appaiono però a più riprese al­ cune questioni su cui vale la pena riflettere per provare a concludere un discorso sicuramente complesso e delicato. Nelle prime pagine Gor­ dillo sottolinea quanto la divisione e suddivisione gerarchica del lavo­ ro crei nell'ingenios una comune identità non solo e non tanto come Wichf o Toba, quanto come comunità aborigena rispetto a tutti gli al­ tri lavoratori (Gordillo, 2002a, 7). Anche nella testimonianza di A.P. era emerso quanto l’ingenio per lei abbia rappresentato un luogo di in­ contro in cui gli indigeni si trovavano, si riunivano per condividere il tempo del lavoro ma anche per conoscersi e riconoscersi. E forse pro­ prio da questo punto che può essere interessante partire per pensare al­ le modalità di rappresentazione rispetto a sé stessi come gruppo, come persone, come aborigeni, come altri.

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Il “sorteo” a cui abbiamo assistito ricordava, come aveva ben sot­ tolineato Cristina Dasso sul campo, in tutto e per tutto il momento dell’“arreglo grande”: la fine del lavoro nelle piantagioni, a novembre o dicembre, in cui gli indigeni venivano liquidati secondo quando era stato stipulato nel contratto. Vestiti, cavalli, armi da fuoco, utensili do­ mestici, una sorta di “gigantesco potlatch” (Gordillo 2002a, 8) in cui gli indigeni potevano scegliere cosa portarsi a casa. Gli occhi delle ragaz­ ze brillavano, quelli delle anziane donne anche: che cosa se ne faceva­ no di quelle scarpe, di quegli utensili, di quelle borsette? Avendo di fronte una società omogenea come quella wichi è im­ portante declinare la nostra riflessione su alcuni punti che forse po­ tranno dare spunti per ulteriori ricerche. Gli oggetti, come bene hanno messo in evidenza molti antropologi con temporanei, vanno qui inter­ pretati e pensati come beni, “commodities” che possiedono una loro vita sociale, una “biografia” direbbe Arjun Appadurai (1986), che en­ tra in collisione, contatto o si mescola con quella delle persone che que­ sto oggetto toccano, possiedono, incorporano o scompongono. Ogget­ ti sensibili dunque che vengono maneggiati con attenzione o noncu­ ranza ma che muovono ricordi o spostano memorie. Oggetti che crea­ no bisogni e che forse iniziano a plasmare una certa di idea di ricchez­ za e di povertà. Povertà come mancanza di oggetti, di beni di prestigio, di istruzione. In tutto questo però gioca un ruolo fondamentale la no­ stalgia. La nostalgia per un “antes” che mai più sarà in cui si cacciava, si pescava e si raccoglieva, in cui si stava bene, c’era il monte e in cui tutti possedevano le conoscenze necessarie alla vita della caccia e del­ la raccolta. La nostalgia come dispositivo di auto-conservazione in cui si coltiva un atteggiamento di apprezzamento per il proprio passato, in cui si mette da una parte ciò che provoca vergogna e in cui si normalizza il proprio essere indigeni. La nostalgia come forma di resilienza per una continua e incessante transizione. Una nostalgia non regressi­ va ma critica in cui il recupero del passato è funzionale ad una riela­ borazione per il presente e per il futuro. Così, attraverso questa rifles­ sione sulla rappresentazione dell’ingenio da parte dei wichi. possiamo riflettere sul valore e sul significato proprio della nostalgia. Sembre­ rebbe che essa permetta loro di selezionare e valorizzare gli aspetti po­ sitivi del passato: tale sentire assume un forte valore euristico perché stimola una comparazione tra passato e presente e incoraggia a trova­ re nel passato potenzialità e modelli da sviluppare nel futuro. Un sen­ timento “prospettivo” che configura un ponte tra passato, presente e futuro e nuove cerniere tra memoria individuale e collettiva: una ri­

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composizione che è tesa alla ricostruzione di un tempo interiore in cui dolore, oppressione, violenza siano accostati a spazi riparatori e di cre­ scita comune.

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Abitare con la divinità-dio. Processi di rappresentazione e di costruzione di senso Francesca Sbardella

Studiare le credenze magico-religiose porta a confrontarsi con pre­ sunte entità extra-umane, considerate esistenti ma non visibili. In am­ bito cristiano la figura della divinità-dio è un elemento essenziale della devozione: nella quotidianità esso rappresenta un importante ca­ nale di accesso al mondo cosiddetto sacrale e, allo stesso tempo, è un interlocutore diretto. Protagonista della pratica religiosa, la orien­ ta e la determina. Ad essa sono indirizzate preghiere, implorazioni, ri­ chieste. Fa parte di quella società ultramondana che, insieme ai santi, i credenti ben conoscono e che utilizzano individuando ruoli, compe­ tenze e specificità. L’attore sociale tenta di costruire, a livello di par­ tecipazione emotiva e/o mentale, una forma di comunicazione in ab­ sentia, in cui l’atro interlocutore è assente. Un'assenza, tuttavia, non è una non-presenza (momentanea o accidentale), ma è proprio una non-esistenza fisica. La finzione di dialogo, realizzata dai vivi come difesa culturale, permette di associare al tempo sociale un tempo psi­ chico, personale e intimo, uno spazio simbolico in cui il credente co­ struisce la propria emotività e produce relazioni di senso. Il fatto stes­ so che queste entità siano percepite come reali, protagoniste di rela­ zioni e scambi interpersonali, porta con sé problemi di carattere me­ todologico e interpretativo, per il credente stesso ma anche per lo stu­ dioso che tali situazioni si trova ad analizzare. L’esperienza etnogra­ fica evidenzia come, per entrambi, seppur da punti di vista diversi, si pongano questioni di rappresentatività. Fin da subito risulta centrale il concetto di assenza, un concetto che si declina in rappresentazione dell’extra-umano e che non può essere studiato se non come campo se­ mantico. È la percezione dell’assenza - e non quella della presenza che produce una serie di azioni, che concretamente costruisce un ap­ parato comportamentale.

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Coordinando gli elementi dell’ambiente sociale e dando loro coe­ renza, il processo rappresentativo oggettiva in immagini entità che ri­ marrebbe altrimenti astratte e difficilmente percepibili. L'oggettiva­ zione può avvenire attraverso concretizzazione su supporto oggettuale concreto (come statua, dipinto e altro), ma anche attraverso immagine mentale. In questo articolo si intende prendere in con siderazione l’ela­ borazione e la messa in atto della figura della divinità-dio, così come si costruisce in ambito claustrale cattolico. Luogo privilegiato di pre­ ghiera, la clausura si rivela essere una situazione di indagine partico­ larmente utile: non solo ci permette di riflettere su un caso limite del­ la dinamica rappresentazionale, affrontando quella legate all’extraumano, ma ci fa anche entrare direttamente in un ambiente in cui tale dinamica è prodotta e vissuta quotidianamente, in modo reiterato e vin­ colante. Ambiente dove la rappresentazione simbolica diviene concre­ tamente vita. Nello specifico ci si confronterà con la clausura carmeli­ tana1, presentando il cosiddetto processo di ascesi mistica all’interno della quotidianità delle religiose, per cercare di capire in cosa effetti­ vamente esso consista e secondo quali strategie rappresentative (cor­ porali e comunitarie) venga messo in atto. Il termine ‘rappresentazio­ ne’ vuole essere indagato sia come contenuto della operazione ripro­ duttiva stessa, che come processo, atto mediante il quale percezioni e idee vengono organizzate e visualizzate nella coscienza.

Costruzione dì un 'assenza La vita claustrale si basa sulla credenza nella divinità-dio, intorno alla quale ruotano tutte le attività quotidiane, sia quelle liturgico-devozionali che quelle pratico-organizzative. Si tratta di una credenza vissuta, che modella la vita quotidiana e che incide fortemente sulle diverse at­ tività, regolate e modulate in base ad essa. La giornata claustrale è organizzata sulla base della Liturgia delle Ore, cioè il complesso di salmi, inni, preghiere e letture che ecclesia­ stici, monaci e religiosi (di ambo i sessi) hanno l'obbligo di recitare

1 Questo articolo nasce come ripresa e approfondimento, in ottica metodologica, di alcune delle tematiche sulla vita claustrale delineate in E Sbardella (2006 e 2010). L’analisi proposta poggia su diverse esperienze di vita in ambito claustrale italo-francese compiute tra il 2006 e il 2011. Per garantire anonimato e discrezione alle religio­ se con cui ho vissuto ho deciso di non rivelare il nome dei conventi.

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durante la giornata, distribuiti secondo le ore canoniche (lodi, terza, nona, vespri, compièta). Intorno a questo nucleo centrale, ci sono altri momenti, sia di tipo religioso-devozionale (messa, recitazione dell’angelus e orazione) che lavorativi e ricreativi. Tutte le attività strettamente religiose, nelle diverse forme, si svolgono in presenza comuni­ taria nel coro2 della chiesa. La giornata è intensa e fortemente strutturata, senza effettiva possibilità di scelta occupazionale e di movimen­ to individuale: il tempo è scandito da intervalli regolari che si susse­ guono l’uno all’altro senza interruzioni o momenti di pausa. Se ana­ lizziamo la struttura di una giornata carmelitana ordinaria è evidente il tempo dedicato alla preghiera e al rapporto, nelle sue diverse forme, con il presunto divino: sveglia (h 5.45). angelus e orazione (h 6.25), lodi (h 7.30). colazione (h 8.00). lettura spirituale silenziosa in cella (h 8.20), ora terza (h 9.15), lavoro (h. 9.30), messa e ora sesta (h 11.45), angelus e pranzo (h 12.40), ricreazione (h 13.45), ora nona (h 14.15), tempo libero in silenzio (h 14.40). lavoro (h 15.30). orazione (h 16.55). vespri (h 18.00), angelus e cena (h 18.40), ricreazione (h 19.30), com­ pièta. ufficio delle letture (h 20.15). ritiro in cella, silenzio (h 21.45), dormire (22.30). In occasione di ricorrenze religiose il tempo dedica­ to alla preghiera e al silenzio sono dilatati, a discapito del lavoro e dei momenti di ricreazione. Ciascun convento può variare alcuni orari e/o gli intervalli di tempo fra una attività e l'altra, ma la struttura di base resta sostanzialmente la medesima. La giornata è dedicata quasi interamente ad attività strettamente liturgico-devozionali. È un tempo in cui si è obbligati a fare i conti con la presunta presenza soprannaturale e a porsi la questione della sua per­ cezione e rappresentazione. Per orazione si intende, nello specifico, un’ora di riflessione spirituale individuale e di elevazione interiore ver­ so la divinità-dio, da realizzarsi in assoluto silenzio, ma fingendo una forma dialogante. Si può assumere la posizione del corpo che si prefe­ risce (di solito in ginocchio, ma anche a sedere). La lettura spirituale, consistente in lettura mentale di brani tratti da testi religiosi, è l'unico momento di preghiera individuale, dentro la cella. Anche in questo ca­ so, sebbene la lettura non sia orientata verso la divinità-dio, quest’ulti­ ma è comunque oggetto della lettura stessa. La ricreazione è un breve incontro giornaliero, comunitario e informale, in cui le religiose si riu­

2 Nei conventi di clausura il coro, parte della chiesa cristiana situata nella zona ter­ minale della navata centrale, è riservato alle sole religiose.

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niscono fra loro per parlare, per scambiarsi impressioni, per leggere le lettere che ricevono, per commentare ciò che accade. I pasti, che si svolgono in un’ampia stanza refettorio, si consumano senza parlare e, come vedremo, accompagnati da una sequenza di atti e gesti rivolti an­ cora una vita alla divinità-dio. A ciò si aggiunge la lettura ad alta voce. da parte di una monaca, di testi e giornali di interesse liturgico-religioso oppure l’ascolto di musica sacra o inni devozionali. Le ore di la­ voro sono di norma svolte singolarmente, sempre in assenza di emis­ sione verbale, e sono organizzate ai fini della gestione della comunità e dell’abitazione stessa. Da notale, tuttavia, che anche il lavoro è in­ terpretato dalle religiose come preghiera, da intendersi - secondo la definizione di Alfonso Maria Di Nola (1993, X) - in senso ampio co­ me forma rituale per mezzo della quale il singolo individuo o la col­ lettività si pongono in rapporto con le forze extraumane, con finalità di richiesta, di glorificazione, di dialogo. Lo stesso lavoro manuale, anche quello legato alla manutenzione giornaliera del monastero (pulire, la­ vare, stirare, cucinare) è percepito dalle carmelitane come preghiera, nel senso di azione dedicata alla divinità-dio. In questa prospettiva, il fare bene il proprio lavoro, con minuzia e cura, significa riconoscenza e apprezzamento per i beni della vita, anche quelli di uso quotidiano. [...] nous travailions pour le Seigneur. C’est quelque chose à quoi je pense souvent. et je me dis: «Je travaille pour Jésus, je na vais pas lui donner un travail fait n’importe comment». Meme si c’est une soeur qui me le demande, en fait c’est quelque chose qui m'est demandé par Jésus. L’exemple d’hier vous le mentre bien. Si une soeur me demande un sendee, je n'ai pas à le lui refuser, car ce serail le refuser à Jésus. Au fond, dans l’Évangile, c’est dii clairement: «Ce que vous allez faire au plus petit d’entre les miens, c’est à Moi que vous allez le faire» (suor RA 20 aprile 20 11)3.

Dalla presentazione di questo breve quadro di vita comunitaria ri­ sulta un percorso giornaliero denso, dove le modalità di preghiera, af­ fiancate l’una all’altra, si integrano fra loro e costituiscono un quadro 3 «[...] lavoriamo per il Signore. E una cosa alla quale penso spesso e mi dico: “La­ voro per Gesù, non gli posso dare un lavoro fatto senza cura". Anche se si tratta di qualcosa che mi viene chiesto da una sorella, di fatto è qualcosa che mi viene chiesto da Gesù. L’esempio di ieri glielo dimostra. Se una sorella mi chiede un piacere, non glielo posso rifiutare, perché significherebbe rifiutarlo a Gesù. In fondo, il Vangelo lo dice chiaramente: “Quello che farete al più piccolo dei miei fratelli, lo farete a me"» (traduzione dell’autrice).

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di riferimento comunitario basato su diverse forme di silenzio. Va su­ bito precisato che nel corso dell’intera giornata non si può parlare, non ci si può rivolgere l'un l'altra e tutte le attività, come si è detto com­ presi i pasti e il lavoro, avvengono in assenza di voce. Non è consen­ tito altro scambio verbale che la recitazione di preghiere e l'intona­ zione di canti all’interno dei momenti della Liturgia delle Ore. Si può parlare liberamente solo durante le due brevi ricreazioni. Per quantificaie in termini di tempo effettivo, vediamo alcune cifre. La giorna­ ta in clausura è di 16 ore e 45 minuti (dalle 5.45 alle 22.30) per un to­ tale di 987 minuti. Nell'arco dell'intera giornata ci sono 75 minuti di possibilità di verbalizzazione sonora libera, cioè il 7.6 per cento del tempo vissuto da svegli. L’accento dell’analisi, tuttavia, non deve es­ sere posto solamente sulla durata del tempo di silenzio ma anche, di controparte, sul quando è possibile parlare. La situazione claustrale impone tempi precisi di parola e forme di parola. Alla limitazione tem­ porale si aggiunge l’imposizione del periodo di libertà. Non solo non si può parlare che per 75 minuti al giorno, ma si può parlare solo in de­ terminati momenti, senza possibilità di scelta personale. La voce è quindi annullata e la paiola è orientata di autorità verso tempi presta­ biliti. Queste osservazioni portano inevitabilmente a considerare il concetto di obbligatorietà. A livello psicologico, infatti, pesa sia la du­ rata dell’astensione che il dovere di rispettare tale comportamento, percepito come dovere morale. Non rispettarlo, infatti, implica la con­ dizione di ‘peccato’, che deve essere confessato in quanto atto di tra­ sgressione rispetto ad una norma religiosa condivisa. Essere in grado di controllare l’emissione di suono vocale - e di conseguenza la parola - è un percorso personale lungo e faticoso che rientra nell'apprendi­ stato spirituale della novizia e con cui ci si continua a confrontare per tutta la vita. Sulla base di una modalità di postura e di movimento giocati su compostezza e limitazione, la religiosa mette in atto gesti e atti di ri­ verenza, rivolti sia alla divinità-dio in cui crede - considerata come pre­ senza -, sia a immagini e a statue che la rappresentano: fare il segno della croce, spesso accompagnato dal prendere l’acqua benedetta, in­ chinarsi, genuflettersi, dirigere lo sguardo. Sono atti agiti tutti i giorni con le medesime modalità e caratterizzano le diverse situazioni di vita monastica, sia quelle religioso-devozionali strutturate, che quelle lega­ te alla quotidianità, come per esempio spostamenti da luogo a luogo all’interno del monastero. Sono proprio questi atti a creare la rappre­ sentazione della divinità-dio e a fornirle consistenza reale.

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Facciamo alcuni esempi concreti che possano chiarire4. Ogni volta che, nel corso della giornata, si entra nell’anti-coro della chiesa, per poi accedere al coro dove si va a pregare, ci si inchina - atto dell’in­ clinare, curvare il corpo in avanti in segno di ossequio - davanti al­ l'immagine di santa Teresa d'Avila, si sfiora con la mano l'acqua be­ nedetta e si fa il segno della croce; in alcune occasioni, legate a preci­ si appuntamenti liturgico-devozionali, l’entrata nel coro è fatta in pro­ cessione, disponendosi in due colonne parallele. Quando si passa dal coro al refettorio - in molti edifici conventuali si trovano rispettiva­ mente al primo piano e al piano terra - per andare a pranzo o a cena, si procede in processione, in doppia colonna: durante il percorso, quan­ do si passa davanti alla statua della Madonna, si alza lo sguardo verso di lei: quando si entra nel refettorio, la religiosa incolonnata a sinistra sfiora con la mano l’acqua benedetta, si gira verso la sua vicina di de­ stra, fa il gesto di passare anche a lei l’acqua, fanno il segno della cro­ ce e poi procedono insieme davanti al crocifisso appeso al muro e si in­ chinano. cercando di mantenere i movimenti all’unisono; prima di co­ minciare a mangiare si fa di nuovo il segno della croce: durante i mo­ menti di preghiera nel coro si resta seduti o in piedi, a seconda delle fa­ si della preghiera, in posizione bene eretta; quando si è seduti le gam­ be non vanno mai accavallate, i piedi restano vicini e paralleli, il bre­ viario o il libro che si utilizza va tenuto in un certo modo; durante l’ora­ zione ci si mette in ginocchio e seduti su un basso sedile di legno, vuo­ to al suo interno (lungo circa 40 centimetri e alto 20). Gli atti di preghiera sono costruiti, strutturati, spesso difficili e fati­ cosi da attuare. Soffermiamoci, per esempio, sulle ultime due posture. Quando si prega da seduti il libro va tenuto appoggiato sopra le mani, poste funa sull’altra: le mani sfiorano le gambe e si cerca di mantene­ re una minima distanza fra le mani e le gambe. Per assumere la posi­ zione dell’orazione ci si mette in ginocchio, si prende il piccolo sedi­ le. lo si posiziona al di sopra delle gambe - queste restano all’interno delle gambe del sedile stesso - e poi ci si siede sopra. Anche in questo caso, per cercare di chiarire la problematica, ricorro all’esperienza per­ sonale. Per tutto il soggiorno claustrale ho fatto fatica - aspetto certa­ mente dovuto anche al fatto che non sono una sportiva impegnata e as­ sidua - a tenere il libro sospeso sulle gambe, a restare sempre in posi­ 4 Si tratta solo di alcuni esempi, per certi aspetti neppure fra i più significativi. La giornata claustrale, infatti, è piena di gesti, di atti e di posture simili a quelli qui pro­ posti. La selezione operata in questa sede è puramente indicativa.

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zione eretta, a non cambiare continuamente postura. Durante i cicli di preghiera avevo sempre male alle braccia, desideravo cambiare posi­ zione e talvolta, nello spostarmi o nell'appoggiarmi per sbaglio al brac­ ciolo facevo rumore: d’altro canto, arrivavo alla fine dell’ora di ora­ zione, quando riuscivo ad arrivarci, con le gambe addormentate e do­ lenti. mi alzavo in modo scomposto e facevo sempre rumore con il pic­ colo sedile. La messa in atto di questi atti e posture, quindi, richiede l’acquisizione di precise tecniche, la determinazione mentale a voler­ le mettere in azione con modalità silenziosa, il controllo sul proprio corpo e, se non vogliamo parlare di allenamento, sicuramente l’abitu­ dine. Il ritmo della clausura è dato dal ripetersi di atti e posture speri­ mentati. giorno dopo giorno, fissati all’interno del quadro del silenzio. Compiuti con esattezza, senza errori, diventano parte della quotidiani­ tà e si acquisiscono con il tempo. È evidente il processo di incorpora­ zione sotteso a queste pratiche, che finiscono per far parte del movi­ mento stesso. Per acquisire il senso di queste quotidianità è opportuno ricordare quanto siano diffuse ed essenziali in ogni sistema culturale. Warmer ci insegna che ciascuno di noi tende ad inglobare per appren­ dimento gli oggetti e gli strumenti di cui si serve e che questi «s’iscri­ vono nelle nostre condotte sensorio-motrici» (Warnier, 2005, 16). L’og­ getto viene incorporato attraverso l'acquisizione e la memorizzazione di precise condotte di movimento. Sono serie di gesti che. grazie alla ripetizione, si compiono con facilità e rapidità, producendo esito posi­ tivo. L’individuo fa corpo con l’oggetto, che diviene parte dell’azione. Nel caso delle religiose abbiamo a che fare con gesti devozionali, solo di rado accompagnati da oggetti (come nel caso del piccolo sedile o del libro). L’aspetto che merita di essere messo in evidenza è che, co­ me per gli oggetti, anche questi gesti religiosi vengono incorporati. Tal­ volta questi piccoli gesti sono talmente fusi nelle tecniche del corpo delle religiose - peraltro essenziali e ridotte al minimo - che non si percepiscono nella loro singolarità e si fa fatica a distinguerli. Più che atti e gesti di tipo devozionale, essi diventano condotte di movimento, a tal punto integrate nello stare nel convento, nel muoversi, nel cam­ minare che tendono a scomparire ad uno sguardo esterno. Scompaio­ no quando si guarda l’armonia di movimento delle religiose, ricompa­ iono con tutta la loro forza di pratica di devozione da apprendere quan­ do ci si confronta direttamente e quando si devono mettere in atto per­ sonalmente. Per questo le prime volte che ho cercato di mettermi in posizione per l'orazione ho fatto rumore con il sedile, non trovavo il

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punto giusto dove posizionarlo, mi sbilanciavo di continuo ed ero sof­ ferente. E, allo stesso modo, entrando nel refettorio, non riuscivo - per quanto banale possa sembrare - ad eseguire con disinvoltura e rapidi­ tà la gestualità richiesta: prendere l’acqua santa, passarla alla religiosa alla mia destra, fare il segno della croce, fare quattro passi in accordo con lei e inchinarmi davanti al crocefisso. Non avevo ritmo, non anda­ vo a tempo con le altre, sembrava che stessi recitando in modo sgraziato una parte imparata male. In alcune circostanze, ciò che l’attore sociale sviluppa è una forma di incorporazione non semplicemente deH’oggetto-strumento, ma «del­ la ‘dinamica’ che egli ha ‘interiorizzato’ sullo strumento stesso» (Lai. 2004, 21). Penso sia questo il nodo della questione. Le religiose incor­ porano delle dinamiche di movimento, delle sequenze di azione. Cia­ scuno di questi gesti è caricato dalle religiose di significazione e trat­ tato in quanto singolo e unico. Se al momento dell’azione sono inglo­ bati nella dinamica di movimento e a tratti sembrano non essere più distinguibili in quanto devozionali, nelle parole dette dalle monache ne viene messo in risalto la connotazione intimistica e cultuale. Per col­ locare meglio il caso in esame, si possono ricordare esempi comuni di incorporazione. L’uso di strumenti (tastiera del computer, cellulare, co­ mandi della plancia di un’auto) segue ovunque regole simili. Su que­ ste dinamiche si innestano flussi e influenze di ogni genere e si co­ struiscono tutte le situazioni estreme o intermedie che vanno dal loca­ le al globale. Nel vissuto delle religiose la parola fra religiose, finalizzata al pia­ no informativo quotidiano, sembrerebbe quasi del tutto assente. A par­ te i due brevi momenti ricreativi, infatti, non è possibile attuare quel dialogo di comunicazione informativa necessario all’organizzazione e allo svolgimento stesso dei diversi momenti di vita quotidiana: dal sa­ luto alla parola di richiesta, di scusa, di affetto, di lamentela, a quella detta in risposta ad un comportamento, a quella tesa ad accordarsi in vi­ sta di una azione comune. Scompaiono tutte quelle numerosissime pa­ role che si pronunciano per abitudine, per consuetudine o per automa­ tismo. Per un estraneo risulta estremamente difficile soffocare anche solo la parola di saluto - il buon giorno, l’arrivederci, la buona notte quando ci si incontra nel corridoio, quando ci si riunisce all ’alba per co­ minciare a pregare oppure quando si va in cella la sera. Bisogna preci­ sare. tuttavia, che questo livello comunicativo di base non è del tutto as­ sente. Passa di nuovo attraverso il corpo, in particolare attraverso lo sguardo e il viso. Per la comunicazione del quotidiano le religiose uti­

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lizzano il movimento degli occhi e delle labbra, il sorriso, cenni di assenso quasi impercettibili. In effetti, all’interno di un quadro di con­ trollo e di limitazione del movimento, com’è quello della clausura, que­ sti minimi segnali hanno visibilità e capacità di significazione poten­ ziate. Data la loro peculiarità e il grado di sofisticazione, sono eviden­ temente importanti per l’analisi di mille altri gesti dello stesso ordine, ma meno soppesati, curati e percepiti come preziosi, sintomi di uno stile o di un progetto di vita. Si tratta di un interessante caso di sosti­ tuzione di un linguaggio per un altro, considerati più adeguato alla co­ struzione del rapporto con la divinità-dio. Non solo ciascuno di noi - come ci ricordano le teorie della pro­ grammazione neurolinguistica (PNL) (Bandler, Grinder, 1980, 26) pensa facendo ricorso di preferenza ad uno dei sistemi rappresentativi (visivo, sensoriale o verbale), ma struttura anche, in base ad essi, il pro­ cesso comunicativo, privilegiano l’uno o l’altro nelle diversi situazio­ ni. La comunicazione relazionale delle religiose - quella che, abbiamo visto, permette di trasmettere i saluti e/o informazioni organizzative di base - si gioca tutta sul piano rappresentazionale visivo. In questo sen­ so, durante i miei soggiorni in clausura ho dovuto compiere un per­ corso di apprendimento mentale e gestuale della loro forma di vita, cer­ cando di decodificare i segni e riprodurli. Si tratta in effetti di un siste­ ma di senso accettato e riconosciuto dal gruppo, che tuttavia richiede tempi di apprendimento estremamente dilatati. In questi termini, po­ trei dire che la mia esperienza sul campo è fallita. Non sono riuscita a possedere, se non a tratti per intuito e imitazione, il sistema discorsivo delle religiose, restando per la maggior parte del tempo senza voce. Senza voce per due motivi principali: perché non sono riuscita né a uti­ lizzare con successo i loro codici comunicativi né. d’altro canto, a sfrut­ tarli per il dialogo con la presunta divinità-dio. Le azioni quotidiane e tutti i singoli gesti, dall'inginocchiarsi per pregare al mangiare, sono pensate in funzione dell’entità extra-umana. La percezione dell'assenza della divinità-dio diviene, attraverso l'in­ cisività dell’attività concreta percezione di presenza. Il lavoro manua­ le, la fatica quotidiana, le attività di preghiera e anche quelle di so­ stentamento, tutte messe in atto secondo modalità ritenute funzionali al rispetto e all’adorazione della divinità-dio, finiscono per rendere cre­ dibile la presenza stessa.

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Contenuto informativo a aspetti linguìstici

La difficoltà del rapportarsi a qualcuno che non c'è e che non parla sembra essere mediata dall’ausilio concreto delle immagini. Le religiose hanno un rapporto molto intenso e. allo stesso tempo conflittua­ le, con le immagini: da una parte quelle che potremmo definire laiche - legate alla quotidianità o alla vita esteriore -, seppur di tipo storico­ artistico o familiare, sono proibite, dall’altra quelle di ispirazione reli­ giosa, rappresentanti divinità, santi e beati, sono accumulate. Non so­ lo sono esposte negli spazi comunitari e nelle celle personali, ma sono anche conservate e riprodotte a computer, vengono donate e scambia­ te come gesto di amicizia fra le religiose e con l'esterno, utilizzate con­ cretamente come segnalibri. I testi di preghiera conservati in chiesa so­ no pieni di immagini, sotto forma di ‘santini’, riproduzioni su carton­ cino e fogli colorati. Non potendo le religiose portare con sé dentro la clausura oggetti personali di alcun tipo, se non quelli per la cura del proprio corpo, le immagini diventano oggetti affettivi significativi. An­ che la memoria identitaria delle religiose, da intendersi come necessi­ tà di conservare il proprio passato e una coerenza individuale all’inter­ no di una continuità passa molte volte attraverso esse. Sono legate a momenti di vita, a regali familiari, a percorsi riflessivi. L’immagine re­ ligiosa agisce su due direttive: da una parte permette di mantenere dei contatti con il proprio passato, dall’altra aiuta a costruire il sé religio­ so, rafforzandolo e/o giustificandolo; è oggetto devozionale e allo stes­ so tempo oggetto d'uso. I processi della memoria non sono esclusivamente mentali, ma ven­ gono attivati e mediati proprio da oggetti concreti, oggetti «semanticamente densi» (Seremetakis, 1994). Ad essi si attribuiscono significati particolari e che, nonostante la persona non sia presente, si possono vedere, toccare, custodire. In questa prospettiva, dunque, gli stati emo­ zionali e immaginativi interiori fanno spesso riferimento alla sfera ma­ teriale, agli oggetti che permettono e veicolano la memoria, come quel­ la legata al lutto e al soprannaturale. Essi forniscono un supporto visi­ bile per attivare il contatto, per permettere il legame, seppur illusorio, con il mondo extra-umano (Parkes, 1972: Worden, 1991). Come sottolinea Jean Ségury ( 1971, 328). l'unità monastica è con­ dizionata, nelle sue realizzazioni concrete, dal «processo utopico» ver­ so il quale, implicitamente o esplicitamente, tende e al quale cerca quotidianamente di dar forma. La quotidianità delle suore di clausura è un tentativo - a tratti disperato - di reificare il dialogo mistico che

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esse instaurano con la presunta divinità-dio, facendola diventare pre­ senza reale e concreta, parte integrante della giornata. Risulta utile servirsi di un banale esempio tratto dalle nostre vite. Se aspetto qual­ cuno a cena e ipotizzo che il mio ospite, avendo accettato l’invito, pos­ sa arrivare da un momento all’altro, è chiaro che mi darò da fare a pre­ parare cibi e bevande da offrire. La possibilità di venuta del mio ospi­ te - in questo caso chiaramente molto alta - condiziona, con i prepa­ rativi, parte della mia giornata. Seppur non presente, egli modifica il mio comportamento. Le religiose attivano, anche attraverso le imma­ gini, strategie di comportamento simili, rappresentandosi le entità in cui credono come persona reale, attesa da un momento all’altro nel dialogo mistico5. La rappresentazione e la traduzione in immagine supporta la finzione. Tutte le attività delle religiose, le azioni, i comportamenti e gli og­ getti che abbiamo incontrato si delineano come sistema, coeso e strut­ turato, un insieme di situazioni che sono costruite e si spiegano attra­ verso l’assenza. Questa deve quindi essere interpretata come agente performativo e costruttivo, allo stesso tempo matrice dell’esperienza mistica delle religiose e attore sociale che lo studioso deve tener pre­ sente in quanto tale. Seppur finzione, esso riveste un ruolo attivo e so­ cialmente modellante. Il silenzio della presunta divinità è percepito come un silenzio co­ municante. Non risponde, non parla, non dice effettivamente nulla a parole, ma c’è. È importante tener presente che, in senso mistico, «il si­ lenzio, detto della creatura è l’abbandono dell’attività discorsiva per la pura contemplazione; detto di Dio designa il sentimento, provato dal­ l'orante. che Dio non corrisponda alla preghiera dell'uomo» (Pozzi, Leopardi, 1988, 745). De toute manière. Dieu ne nous parie pas avec des mots. Les mots soni une chose qui appartieni à l'humain. On dii que Dieu parie dans un si­ lence éternel, mais c’est un silence qui est une parole (suor CM, 19 aprile 2006)6.

5 Le religiose, quando parlano della presenza della presunta divinità, ricorrono spesso alla parabola del padrone che torna dalle nozze e dei servi che lo aspettano an­ cora svegli (Luca 12.35). 6 «In ogni modo. Dio non ci parla attraverso delle parole. Le parole sono una cosa che appartiene al fumano. Si dice che Dio parli in un silenzio eterno, ma è un silenzio che è parola» (traduzione dell’autrice).

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Viene costruita una silenziosità attiva, che denota comunque una presenza, di compagnia, di aiuto, di supporto. A volte è una silenziosi­ tà difficile da gestire, in quanto presuppone comunque il riconosci­ mento simbolico di una presenza, che a tratti sfugge ed è di difficile concettualizzazione e rappresentazione.

C’est plutót la sensation d'absence qui domine au long d'une année. [...] il peut nous arriver de sentir la présence du Seigneur, mais bien souvent on ne sent pas sa présence. Un ètre humain. on le sent, mais avec le Seigneur c’est la présence dans 1’absence. Ce n’est pas le sen­ timent qui va nous dire qu’il est là, c’est noire foi (suor AG, 16 aprile 2006 )7. Lo scarto fra piano reale e piano simbolico si insinua proprio nel silenzio, la pratica più rappresentativa della vita claustrale, ma an­ che quella più estrema e più problematica. È in essa che si tenta di realizzare rincontro e il dialogo con il soprannaturale, ‘altro’ per eccel­ lenza. Le condizioni di silenzio sono un processo di comunicazione pa­ rallela rispetto a quello linguistico: intendono trasmettere un messag­ gio. un sentimento, una proposta o suggerire un sottinteso, una sfuma­ tura ironica. Come dice Jean-Louis Chrétien, sono sempre «silences éloquents» ( 1988, 82). Producono una situazione relazionale di scam­ bio fra individui, che si rapportano l’un l’altro, si confrontano ed en­ trano in dialogo reciproco, seppur senza parole. Bisogna riconoscere una intenzionalità specifica, messa in atto da un soggetto culturale che opera una scelta. Sulla base del modello dell’evento linguistico di Ro­ man Jakobson (1966, 185), potremmo dire che si tratta di una scelta di codice, seppur di tipo non linguistico. Nello specifico della clausura, la comunicazione è orientata esclusivamente verso la divinità, considera­ ta a tutti gli effetti come una persona presente, in grado di ascoltare e, a suo modo, di fornire risposte. All’interno di un quadro di silenzio, vengono utilizzate modalità dialogiche giocate sull’esclusività della parola di preghiera (detta ad alta voce), sulla riflessione religioso-inti­ mistica, sulla manualità lavorativa e anche sullo sguardo. La religiosa agisce su se stessa e cerca di seguire un percorso di elevazione perso-

7 «È piuttosto la sensazione di assenza che predomina durante l’anno. [...] ci può

capitare di sentire la presenza del Signore, ma spesso non la si sente. Un essere uma­ no. lo si sente, ma. con il Signore, è la presenza nell’assenza. Non sarà il sentimento a dirci che lui c’è. sarà la nostra fede» (traduzione dell'autrice).

Ill

naie, di perfezionamento riflessivo e di autocontrollo. Il ripiegamento sul sé è considerato e vissuto, nella realtà, come ricerca di migliora­ mento spirituale, come offerta alla divinità-dio e diviene esso stesso mezzo di straniamento dal reale e di vicinanza con piani percettivi sim­ bolici. In ogni forma di rappresentazione qualche cosa si trova al posto di un’altra. Come fa osservare il filosofo Ferdinando Gii, ‘rappresentare’ significa tener luogo d'altro, un altro che viene insieme evocato e can­ cellato dalla rappresentazione stessa ( 1980, 551 ). Da un punto di vista sociologico si può dire che coordinando gli elementi dell'ambiente so­ ciale e dando loro coerenza, la rappresentazione conferisce significato al comportamento, integrandolo in un sistema relazionale più esteso. I processi che definiscono la rappresentazione sono l’oggettivazione in immagini di quell’entità che rimarrebbe altrimenti astratta e l’anco­ raggio di ogni elemento rappresentativo nella rete di categorie della so­ cietà, per rendere familiare ciò che altrimenti sarebbe difficilmente per­ cettibile. Partendo dalla radice latina del termine rappresentare (repraesentare) è possibile, come dice Jack Goody (2000), chiarire alcu­ ne sfumature interpretative del processo. Il termine è composto dal pre­ fìsso re, indicante l'idea della reiterazione, unito al prefisso avverbia­ le prae (davanti, da intendersi sia in senso spaziale che in senso tem­ porale) e dal verbo praesens (dal verbo essere sum), che letteralmente indica l’essere davanti di nuovo. C’è l’idea di una presenza reiterata nel tempo. Da ricordare, inoltre, che il verbo sum in latino ha una con­ notazione concreta molto forte, significa esserci, essere materialmen­ te presente, vivere. Re-praesentare letteralmente indica il ‘portare alla presenza qualcosa che fino a quel momento non c'era', ‘mettere sotto gli occhi’. In questa prospettiva non c’è semplicemente la rappresen­ tazione intesa come l’incarnazione di un’astrazione in un oggetto, ma c’è l’idea del ‘rendere presente qualcosa, concretamente davanti agli occhi, una seconda volta’. Da notare anche che nella terminologia giu­ ridica il verbo latino re-praesentare significa in senso strettamente con­ creto pagare in contanti, anticipare’. Il concetto di ‘rappresentatività’, da intendersi come legittimità a rappresentare, come capacità di rappresentare qualcosa, di essere al po­ sto di, è centrale in ambito religioso, dove l'elemento rappresentalo è nella maggior parte dei casi la divinità-dio. Secondo Fernando Gii, tut­ to ha la capacità di rappresentale tutto, almeno quando si definisca e si riconosca un sistema di corrispondenze biunivoche tra il sistema rap­ presentativo e la sfera rappresentata ( 1980, 553). È chiaro che la rap­

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presentazione viene colta solo dall’interno e si traduce nella corri­ spondenza tra gli elementi rappresentati da una parte e le regole del lo­ ro ordinamento dall’altra. Per questo la rappresentazione è espressio­ ne del modo in cui un gruppo sociale percepisce se stesso, legge il suo rapporto con il sociale e si differenzia dagli altri. Torna utile rileggere in tal senso il concetto di «campo religioso» elaborato da Pierre Boudieu, concetto che bene delimita il processo di monopolizzazione del­ la gestione dei beni extra-umani e di salvezza da parte di specialisti re­ ligiosi.

L’autonomie du champ religieux s'affirme dans la tendance des spécialistes a s’enfermer dans la référence autarcique au savoir religieux déjà accumule et dans l'ésotérisme d'une production quasi cumula­ tive, d'abord destinée aux producteurs [...]. En tant qu’elle est l’aboutissement de la monopolisation de la gestion des biens de salut par un corps de spécialistes religieux, socialement reconnus comme les détenteurs exclusifs de la compétence spécifique qui est nécessaire a la production ou a la reproduction d'un corpus délibérément organise de savoirs secrets (done rares), la constitution d'un champ religieux est correlative de la dépossession objective de ceux qui en soni exclus et qui se trouvent constitues par la méme en tant que laics (ou profanes, au double sens du terme) dépossèdes du capitai religieux (comme tra­ vail symbolique accumule) et reconnaissant la légitimité de cede dé­ possession du seul fait qu’ils la méconnaissent comme telle (Bour­ dieu. 1971. 304)8. Al centro della nozione di campo religioso c’è proprio la perce­ zione e la rappresentatività della presunta divinità-dio. In ambito mo­ nastico tali processi sono esasperati, tradotti nella pratica della quoti­ dianità, all’interno della quale acquisiscono caratteri di reiterazione e

8 «L’autonomia del campo religioso si afferma nella tendenza che hanno gli spe­ cialisti a chiudersi nei riferimento autarchico al sapere religioso già accumulato e nel­ l'esoterismo di una produzione quasi cumulativa, destinata prima di tutto ai produtto­ ri stessi [...]. Nella misura in cui la costituzione di un campo religioso deriva dalla mo­ nopolizzazione della gestione dei beni di salvezza da parte di un corpo di specialisti re­ ligiosi. socialmente riconosciuti come esclusivi detentori della competenza necessaria alla produzione o riproduzione di un corpus scientemente organizzato di saperi segre­ ti (e quindi rari), tale costituzione è correlativa della spoliazione oggettiva di coloro che ne sono esclusi e che. proprio per questa ragione, si trovano costituiti come laici (o profani, nel doppio senso del termine), spogliati del capitale religioso (come lavoro simbolico cumulato) e riconoscenti la legittimità di tale spoliazione per il solo fatto che non la riconoscono come tale» (traduzione dell'autrice).

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di obbligatorietà. Quale ne sia l’origine, empirica o concettuale, nel­ la rappresentazione religiosa della divinità-dio sono centrali due que­ stioni: da una parte quella del contenuto informativo, dall'altra quel­ la de\V efficaci tà. La rappresentazione dice sempre qualcosa, veicola un messaggio e, di conseguenza, un modello comportamentale, chia­ ramente legato ad entità soprannaturali. Allo stesso tempo ha una pro­ pria efficacia, produce un intervento attivo nel contesto sociale, cre­ andolo e modificandolo. Ha inevitabilmente una ricaduta pratica, una funzione, da intendersi come capacità operativa dell'oggetto all’inter­ no di un determinato contesto. Le rappresentazioni esprimono in mo­ do decisivo il fatto che ci sia sempre una interazione fra il soggetto e l’oggetto e fra soggetti e soggetti. Il processo rappresentativo è fon­ damentale per la vita sociale dell’essere umano. La natura del conte­ nuto introduce il problema della somiglianza tra rappresentato e rap­ presentante, la similitude con il rappresentato. Più volte Goody (2000) evidenzia la dicotomia rappresentazione//??///zc.s7\s (nel senso greco di imitazione), due termini che vanno tenuti ben separati. La rappresen­ tazione. in quanto ri-produzione, non può mai essere identica all’og­ getto originario. È per questo che l’individuo si trova sempre di fron­ te ad un potenziale problema nell'accettare o nel respingere ciò che ha creato. Se è indubbio che il contenuto di verità della rappresentazio­ ne non sia in relazione all'idea di somiglianza, bisogna però ricono­ scere che è proprio questo l’aspetto che crea problemi cognitivi. Tut­ ti noi, infatti, dall’esattezza della corrispondenza tra rappresentato e rappresentante, che erroneamente ci attendiamo, siamo portati a de­ sumere una giustificazione di principio sulla esattezza della nostra per­ cezione. Come ci ha fatto notare Cesare Poppi, noi di solito pensiamo alle rappresentazioni in termini mimetici. In effetti non c’è sempre magnetismo fra simbolo e significato (1993, 198). Ma se la gente guar­ dasse alle rappresentazioni che ha creato come a rappresentazioni mi­ metiche non ci crederebbe affatto. E anzi ci sarebbero delle contrad­ dizioni profonde. La rappresentazione è il risultato di un processo di costruzione, una codificazione operata da un soggetto determinato per scelta volonta­ ria. Bisogna tener presente che è sempre il risultato di una decifrazio­ ne e di un trattamento dell'inform azione all’interno di un contesto ben preciso. Questo non vuole dire però che la rappresentazione, una vol­ ta creata, non risulti difficile da gestire. Le stesse religiose riconosco­ no tale difficoltà:

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En fail, il y a des moments où 1’on aimerait bien que quelqu’un nous prenne dans ses bras, mais on tombe dans ses bras à lui. On est sùres qu'on est dans ses bras, dans son coeur (suor X, 18 novembre 2011 )9. Nous ne sommes pas dépourvues de tendresse, c’est vrai. Mais nous vivons certains sacrifices; surtout quand on est plus jeune et qu’on est fatiguées, il peut arriver qu’on se sente seule et qu’on pense à ce que pourrait ètre une vie de couple. On aimerait avoir quelqu’un sur qui s'appuyer (suorY, 18 novembre 2011)10. Considerato che la percezione della presenza della divinità-dio ri­ sulta. a tratti, diffìcile da vivere per le religiose stesse, dove si presume entri in gioco la forza costruttiva della credenza, è intuibile la difficol­ tà di rapportarsi a situazioni di questo tipo per l’antropologo. Nel­ l’ambito claustrale egli si trova a fare i conti da una parte con una pre­ sunta presenza completamente svincolata al piano concreto, una pre­ senza che effettivamente nessuno vede (se non a livello intimo e sog­ gettivo), che tuttavia costruisce e condiziona in modo diretto e incisi­ vo la realtà circostante. Si tratta chiaramente di una forma rappresen­ tazionale molto forte, a trattai ingombrante e strutturante. Bisogna quin­ di chiedersi secondo quali modalità possa essere superato il gap inter­ pretativo fra le due posizioni. L’antropologo francese Marc Auge ri­ flette sulla logica insita nel campo stesso. Egli fa notare come il rap­ porto tra informatore e antropologo sia per definizione «duplice», per­ ché «pur trovandosi nella stessa situazione d’indagine e pur trattando dello stesso tema, non parlano della stessa cosa» (2002,65). Il loro rap­ porto implica cioè due modalità discorsive distinte: la persona oggetto d'indagine parla della situazione con interesse reale in quanto quella si­ tuazione è per lui la sua vita, ogni decisione che prende o comporta­ mento che mette in atto incidono concretamente sulla sua quotidiani­ tà; l’antropologo invece segue la logica del campo, cercando di legare insieme le informazioni che riceve e di avere conferme interpretative, ma ciò che accade non lo riguarda direttamente perché comunque pri­ ma o poi torna a casa, anche lui alla sua vita. 9 «In effetti. ci sono dei momenti in cui vorremmo che qualcuno ci prendesse in braccio, ma cadiamo nelle sue braccia. Siamo certe di essere fra le Sue braccia, nel Suo cuore» (traduzione dell'autrice).

10 «La tenerezza non ci manca, è vero. Però viviamo alcuni sacrifìci: soprattutto quando siamo più giovani, nei momenti di stanchezza ci può capitare di sentirci sole e di pensare a cosa potrebbe essere una vita di coppia. Ci piacerebbe avere qualcuno a cui appoggiarci» (traduzione dell'autrice).

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È un’altra antropoioga francese, la Jeanne Favret-Saada, che già ne­ gli anni Settanta, con la sua esperienza estrema di campo dentro la stre­ goneria del Bocage francese (1977), ci offre una possibile modalità per superare, seppur per breve tempo, la sfasatura emico/etico e per cerca­ re di evitare la logica di campo di cui parla Marc Auge. Secondo que­ sta autrice è solo la «partecipazione emotiva» e l’entrata effettiva den­ tro il campo ad offrire allo studioso una chiave di accesso alla realtà del­ l’altro. L’autrice parla non di partecipazione sul campo in quanto po­ sizionamento strategico o gioco di ruoli da considerarsi finzione etno­ grafica, ma di una entrata totale, seppur per tempo determinato, nel molo del campo. Ciò implica viverlo a fondo senza recitare e prende­ re in prima persona delle decisioni come se realmente fosse un mo­ mento della propria vita, agendo senza apparenza, valutando le esi­ genze altrui e proprie in relazione non tanto alla logica del campo quan­ to alla dinamica contingente. In alcune situazioni etnografiche sembra essere l’unica modalità per entrare dentro il campo. Questo metodo sembra rivelarsi utile quando la realtà degli altri è evidentemente estre­ ma e difficilmente controllabile, come in ambito religioso. Se spesso sono proprio quegli altri che andiamo a studiare a pretendere da noi a volte in modo esplicito e consapevole, altre volte in modo indiretto o inconsapevole - una piena adesione per poter accedere alla situazione, a volte siamo noi stessi che la accettiamo e la ricerchiamo come ne­ cessità metodologica. Si tratta chiaramente di una sperimentazione che se da una parte permette di comprendere le esigenze e le emotività di coloro che si vo­ gliono studiare, avvicinandoci realmente alla loro vita, dall’altra lascia entrare nella ricerca una soggettività a tratti scomoda e contraddittoria. A questo si deve aggiungere il fatto che non tutti i campi permet­ tono l’applicazione di questa metodologia: unita a circostanze fortuite favorevoli, è necessaria una apertura effettiva da parte degli attori so­ ciale che devono lasciare intervenire attivamente lo studioso. Studiale la realtà monastica significa in primis, a causa della sua stessa natura chiusa, scontrarsi con un concreto limite di accesso e, una volta oltrepassato questo, con forme rappresentative problematiche. Andare al di là della grata e di conseguenza di ciò che dicono di fare coloro che si trovano a vivere per scelta dietro di essa significa essere accettati a partecipare a situazioni di vita concreta di norma vietate ai laici, rivestendo per forza di cose un ruolo estraneo alla propria perso­ na e quindi tutto da imparare. Anche se ciascun convento mantiene una sua autonomia gestionale, l’orientamento politico-spirituale passa co­

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munque attraverso il controllo e le autorizzazioni del vescovo. È chia­ ro quindi che la possibilità di partecipare alla vita claustrale deve essere sì approvata e votata dal consiglio delle religiose, ma deve anche ave­ re alle spalle il benestare delle autorità ecclesiastiche. Essere ammes­ sa, per motivi di ricerca, alla vita claustrale ha significato per me po­ tervi entrale come se fossi una postulante, colei cioè che - come è espli­ citato nel diritto canonico - dopo aver manifestato il desiderio di entrare in un ordine religioso, si trova nel periodo di prova, detto appunto po­ stulato. In questa fase la persona comincia a fare, prima di decidere se intraprendere il percorso di noviziato effettivo, alcune brevi esperien­ ze di vita - della durata di uno o due mesi - all’interno del monastero. Questo mi ha permesso, durante il soggiorno, di assumere su me stes­ sa i diritti/doveri di norma spettanti ad una postulante e di seguire sul­ la mia pelle il percorso di apprendimento attraverso il quale queste don­ ne, intervenendo su se stesse, inventano il loro essere religiose. Il pri­ mo stadio di formazione consiste nel decostruire la rappresentazione sociale della persona al femminile per sostituirla progressivamente, co­ me in parte abbiamo visto, con un’altra. Per poter partecipare alla vita quotidiana in tutte le sue parti, sia di preghiera che lavorative, sono stata affiancata dal cosiddetto unge gardien. una religiosa incaricata di indicarmi i comportamenti adatti e di aiutarmi. Entrale dentro in qualità di ricercatrice - come le religiose stesse mi hanno fatto notare negandomi l’accesso a tale condizione avrebbe significato alterare, con le troppe domande ed investigazioni, l’andamento della quotidianità conventuale e relegale me stessa al sem­ plice ruolo di osservatrice, condizione impossibile da attuare dall’in­ terno. Il mio interesse non è stato quello di confrontarmi con la pro­ blematica legata all’atto di separazione dal mondo, in quanto momen­ to unico e irripetibile che segna per la persona interessata l’inizio di una nuova vita, quanto piuttosto di cercare di capire come quella scel­ ta. che «è avvenimento» (D’Haenens, 1985, 17), diventi quotidianità e dia forma a modellizzazioni della persona e a processi di vita concre­ ta modulati sulle rappresentazioni di quella divinità-dio che resta chia­ ramente la loro divinità, ma che ho potuto, con la mia entrata in clau­ sura, avvicinare. In questo caso la condivisione della pratica quotidia­ na e della reale vita monastica mi ha portalo ad un avvicinamento non simulato altrimenti non realizzabile. E allora che improvvisamente e per brevi tratti il campo diviene violentemente parte nella propria vita e si trasforma, come ricorda Favret-Saada, in «un’avventura persona­ le» da condividere (2007, 55).

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Narrare i fenomeni religiosi. Orizzonti espressivi e sociali delle “profezie” Adriana Destro

I discorsi fondativi dei fenomeni religiosi, soprattutto se complessi, non emergono sempre da atti verbali ed eventi vissuti. Più spesso o pre­ valentemente nascono da testi o interpretazioni scritte. Un po’ para­ dossalmente, l’elaborazione scritta è lo strumento privilegiato della co­ noscenza e della ricostruzione di processi religiosi, di articolati teore­ mi sulla divinità, di più o meno trasparenti sistemi simbolici. Per rappresentare l’ambito religioso, in primo luogo, prendiamo in considerazione la scrittura, soffermandoci proprio su ciò che essa può rivelare del vivere religioso, come atto espressivo umano primario. Su­ bito dopo osserveremo le vicende o le esperienze religiose come pro­ cessi socialmente densi e incisivi. Il punto di partenza è la considerazione che ovunque l’uomo tende ad avvicinarsi all’universo, generalmente ritenuto infinito e di natura di­ vina. Egli s'impegna a raggiungere questa realtà immensa e sovruma­ na. Dispone tuttavia di risorse ridotte, di capacità limitate. Le imprese religiose, duttili e variegate oltre che innumerevoli, entrano in questo sforzo dell’uomo di accordarsi colle incontenibili forze superiori. La consapevolezza della sproporzione fra il mondo della divinità e delle forze invisibili e i soggetti e i mezzi umani non frena le aspira­ zioni o gli sforzi dell’individuo. Anzi, davanti alla disomogeneità del­ le energie e degli attori in campo, l’individuo accende la propria fan­ tasia. Detto più esplicitamente, malgrado le limitazioni di cui soffre, in modo a volte stupefacente, l’essere umano non rinuncia a vedersi in comunicazione o a “entrare in contatto" con un essere supremo, un creatore o un padre divino. Si sente quasi sempre destinatario del pia­ no e delle attenzioni di poteri supremi e non rinuncia ad appellarsi al loro volere, a ritenere doveroso obbedire ai loro ordini (cioè a osser­ vare decisioni che ad essi sono attribuite.) In sostanza, un individuo

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s’interroga e spera fortemente nel mondo sovrastante da cui pensa di dipendere. È molto spesso condizionato da ciò che tale mondo gli im­ pone o gli offre. Nell’affrontare un tema come quello del fenomeno religioso va dun­ que accettato subito il fatto che esso si manifesta in una pluralità di forme e di situazioni, come storia orale o scritta, come tensione inte­ riore e come evento realmente vissuto.

Tensioni umane e forze divine

Le narrazioni religiose sono strumenti per “rappresentare” ciò di cui il soggetto religioso ha bisogno. Solitamente suscitano una gamma di sentimenti e mettono in essere una varietà di conoscenze e di risorse, in cui l’essere umano può riporre le proprie aspettative. E attraverso cui. dato che non va sotto valutato, definisce la propria posizione pre­ sente e futura, terrena o ultraterrena. Va precisato, in poche parole, che la complessità della vita influisce sulla messa a fuoco dei fenomeni religiosi e delle loro particolarità. Dà luogo a processi di valutazione e trasposizione scritta dei processi, estremamente intricati, dell'immaginazione umana. Sarebbe dunque il­ lusorio pensare che lo scritto sia in grado di sciogliere nodi e di rende­ re trasparente ciò che è percepito o sperimentato nell’esistenza. Nella scrittura, la complessità della vita si somma a quella delle tec­ niche analitiche e ricostruttive che spesso gonfiano e rendono difficili le rappresentazioni religiose perché rispondono a precise regole e su­ biscono gli effetti di condizionamenti stilistici o redazionali. Il rapporto scrittura-rappresentazione del reale è intricato. L’os­ servazione diretta di un fenomeno concreto necessariamente si tradu­ ce, in sede etnografica finale, in un testo. E, nel contempo, lo svolgi­ mento di una storia religiosa che si vuole osservare e comprendere “giace” in un racconto, in una sintesi o memoria scritta, che non è mai la trascrizione semplice di tale storia. Nei testi molto spesso mancano i contesti, le descrizione del come, quando l’evento esaminato si è ve­ rificato. Le analisi socio-antropologiche e storiche, proprio per queste ca­ renze delle narrative religiose, spesso utilizzano strumenti analitici, an­ che molto raffinati, per verificare la natura delle situazioni o degli as­ setti reali, rammentati nei racconti. Ciò sta a dire che davanti alla com­ plessità e variabilità di esperienze religiose, l'esame socio-culturale

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tende a tenere in conto gruppi umani reali, non solo dottrine astratte, nozioni e proiezioni generali. Nelle scienze sociali, parlare del religio­ so non significa cioè restare nel mondo dei soli sentimenti o nel regno dell’irraggiungibile e dell’inconoscibile. Significa cercare di sondare concrete tensioni ed esperienze. È evidente che la concretezza del vivere, quando appare in una scrit­ tura, non può non essere semplificata, manipolata. Ogni autore possie­ de un progetto e un orizzonte di scrittura. Le narrazioni scritte, dun­ que, sono condizionate dalla mentalità e dalla competenza di chi le ha scritte, dai costumi di precisi ambienti ed epoche degli autori. Entro questo sfondo, in un sistema religioso, a certe condizioni, il mondo divino può diventare “raggiungibile”. Una visione di totale se­ paratezza dell’umano dal sovrumano ordinariamente non è cioè con­ cepibile. Nelle storie dei profeti, soggetti di cui vogliamo occuparci, primaria e garantita è la comunicazione tra mondo terreno e mondo di­ vino. Nelle imprese profetiche è proprio soddisfatta un’essenziale aspi­ razione umana, è assicurato il rapporto con gli esseri supremi. Questa comunicazione o connessione a volte entra nel processo e nelle pro­ spettive della profezia in modo problematico o bizzarro.1 L’aspirazione e la fiducia nel raggiungimento del dio è però, come detto, ostacolata dalle limitazioni degli esseri umani. Le certezze reli­ giose dell’individuo possono essere fortemente sfidate dalla sue debo­ lezze: la sua spinta verso il sacro può essere messa in gioco dal suo ti­ tubante o sfortunato procedere nella vita pratica. Molte imprese reli­ giose si pongono fra questi due poli: fiducia illimitata e ostacoli limi­ tanti. La ricchezza delle culture è tale che appena individuata la questio­ ne del rappresentale la dimensione religiosa della persona e di tutto il mondo che le ruota attorno, ci troviamo davanti ad un’enorme gamma di questioni delle quali non sempre siamo in grado di dare ragionevo­ li spiegazioni. Lo sconfinato campionario dei sistemi religiosi è dunque in sé fonte d’incertezze e di analisi difficoltose. L'indagine antropolo­ gica1 2 cerca di mantenere una posizione neutra o scettica, ma anche di

1 M. Douglas trova la visione della connessione divino e umano interessante e cu­ riosa: «According to the non-believer, religion is a solemn affair, awe-inspiring, fri­ ghtening even, but not a joking matter. However, the Bible prophets expound the oldest and best joke in the world, they promise that the mighty will be brought down and the lowly raised up» (Douglas. 1996. 193). 2 Nello studio del religioso, l'antropologia non è solo dominata dal fatto inoppu-

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“dare senso” a quel che ha sottocchio? sapendo che non esiste alcun criterio culturale che non possa essere riletto e riformulato.4

Sfondi. Le costanti e le oscillazioni dei ‘fatti” religiosi

In campo religioso, l’uomo ha spesso sperimentato la condizione del­ la insostenibile incertezza. La rivive ogniqualvolta è colto alla sprov­ vista da crisi che lo indeboliscono o lo stremano. Cosicché è opportu­ no dare qualche sfondo di carattere sociologico al nodo di disparate esperienze che normalmente soverchiano l’umano. Utilizzando una visione di Z. Bauman, si può fare un passo in avan­ ti ricordando che se quelle appena accennate sono le situazioni di ba­ se, se l’uomo religioso - anche quello in possesso di una fiducia in­ crollabile - vive la precarietà religiosa e cerca di volta in volta di su­ perarla, egli tuttavia sperimenta una condizione esistenziale che non è direttamente paragonabile a quella liquida, di cui l’autore parla. Forse però sperimenta una sua variante piuttosto singolare. La liquidità baumaniana è una condizione sfidante, che nasce o affiora velocemente. Condiziona l'ambiente e lo destabilizza. La sua forza sottrae terreno all’iniziativa umana; genera un’incalzante mutabilità delle condizioni della vita. In un ambiente liquido “le situazioni si modificano prima che i modi di agire (degli uomini) riescano a consolidarsi in abitudini e procedure” (Bauman, 2005, VII). La vita liquida “non è in grado di conservale la propria forma o di tenersi in rotta a lungo” (2005, VII). La vita impiantata o incentrata in un sistema religioso non ha questo ti­ po di velocità inarrestabile, travolgente e destrutturante. Anche se è in

gnabile della varietà e delia variabilità delle forme umane viventi, delle culture stori­ che esistite. Deve fronteggiare il fatto che non esiste alcuna certezza che le cose che in­ contra, nel momento in cui sfiora l’extraumano. siano ragionevolmente spiegabili. Non ci sono perciò che analisi e immagini culturali incerte, alterabili.

3 «In truth. I must admit that scepticism suits the anthropologist. We write profesionally about other people’s religions... and it would be unreasonable to expect us to believe in them all. We study taboo, symbolism, blessing and curses: oracles and ma­ gic come into our purview. But largely our effort is to make sense of what we find. We are not there to pour contempt or to despise» (Douglas. 1996. 194). 4 Pratiche e consuetudini sono assunte per quel che valgono in un dato momento, ma poi possono essere anche mutate e gradualmente consacrate, riconsaerate o stabi­ lizzate nella “tradizione”. Per questo stesso fatto, essa muta e non può essere data co­ me punto di riferimento intoccabile e perpetuo.

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movimento la vita religiosa di norma consente di tenere la rotta. È un tipo di esistenza che segue (o solo non nega) un adeguamento allo sta­ to delle cose (Hervieu-Léger, 1999) o cerca di farvi fronte. La liquidità sociale ordinaria presuppone dunque qualche effetto vi­ scoso oppure dissolvente. In campo religioso, l’incertezza e la preca­ rietà sono certamente diffuse, ma gli effetti non sono di quest’ordine. Molti sforzi che sono compiuti per gettare un ponte verso il divino, agli occhi degli attori religiosi, non sembrano andare a vuoto o essere vanificati dal lato incerto della vita. Ci sono precisi tipi di risorse che aiu­ tano l'individuo. Colui che ha un’aspettativa positiva o cerca di averla, ritiene di avere un baricentro fuori dalla società, dalla contingenza, dal grande magma delle contraddizioni sociali, culturali. Si ritiene parte di un piano perfetto. Ciò è il suo assillo e la sua salvezza.

Esiste un altro elemento da valutare, la rappresentazione dei senti­ menti e dei pensieri religiosi non è stabile. Varia a causa della natura delle narrazioni, delle memorie, dei riferimenti discorsivi stessi. Come si è notato, scrivere significa esprimere precise idee, in un preciso am­ biente, ai fini di un preciso piano. Alla narrativa religiosa invece ven­ gono attribuiti caratteri di perennità e di efficacia che non appartengo­ no ai testi normali. Spesso testi e narrazioni religiose usano termino­ logie o riferimenti singolari o piuttosto oscuri. Talora si tratta di voca­ boli che gettano ombre sui fatti che intendono narrare. La complessità dei testi, dunque, aggiunge difficoltà alla comprensione della com­ plessità degli eventi. Il profilo di un uomo religioso, ad esempio, può essere descritto in una certa maniera in una narrazione di tipo biogra­ fico (innovatore, fondatore, giudice, predicatore, seguace) può avere un altro nome in un trattato teologico (illuminato, credente, salvato, in­ viato, eretico, infedele) ed essere definito in un terzo modo dallo stu­ dioso (capo carismatico, legislatore, sacrificatore, mistico, visionario). La domanda che sorge davanti ai vari linguaggi e ai vari stili è: quali so­ no i parametri da prendere in considerazione per capire i vari fenome­ ni religiosi, per capire se si è di fronte a soggetti coinvolti in un pro­ cesso iniziatico o mantico. in una purificazione corporale, in una im­ molazione animale assolutoria? Scegliamo di domandarci che cosa sia la profezia., un fenomeno dai contorni frastagliati, che può affiorare con modalità singolari in conte­ sti sociali in transizione, o coinvolti in repentini mutamenti. Grosso modo, essa riguarda percorsi storico-religiosi non troppo criptici e inac­ cessibili. È cioè un fenomeno che esprime rapporti sintomatici e co­

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struttivi fra soggetti umani. Una vicenda profetica lega fra loro alcuni agenti della società e innesca, si vedrà, alcuni benefici processi di ri­ fondazione e d’irrobustimento. Ogni epoca ha i “propri profeti", ossia soggetti che incarnano un certo sapere e un certo modo di influire sulla storia di coloro che li con­ tornano. Ogni epoca utilizza forme verbali e scritte, per individuare e sottolineare specifici soggetti che chiama profeti. Di norma essi assu­ mono caratteri visibilmente e univocamente religiosi. Le società tradizionali spesso hanno affidato a queste figure ruoli o precise azioni di leadership e d’innovazione (Filoramo, 2003). Malgrado l’importanza che la profezia ha avuto più o meno apertamente nelle varie culture, non sempre essa è stata una funzione pacificamente accettata o esalta­ ta. La condizione di profeta, attualmente poco ricorrente ma non poco influente, non cessa di interrogare. Il linguaggio religioso odierno fa scarso riferimento ad atti di profezia, alle loro varie forme, alle loro sfumature. I discorsi sui profeti sono ritenuti obsoleti o da applicare ad eventi passati. Ciò avviene, almeno in parte, a causa della densità di signifi­ cati cui il termine sembra alludere.

Qualche tentativo di chiarificazione La profezia condivide alcuni presupposti con altri fenomeni religiosi. E richiede alcuni approcci. In partenza, il fenomeno religioso può es­ sere avvicinato a partire da alcuni dati di base: eventi singolari, perso­ naggi eccezionali e precisi percorsi umani. Molto sommariamente si può dire che l’inquadramento del fenomeno può essere, per ciò che ri­ guarda il nostro discorso, ridotto grossomodo a due modalità. Una pri­ ma via di avvicinamento al fenomeno religioso può essere quella di ri­ correre a un quadro cosmocentrico, in cui tutto l’universo è considera­ to come retto direttamente dal divino. Ogni uomo deriva da tale uni­ verso e ad esso si rivolge direttamente. In questo schema, esistono cioè forme e forze preesistenti ed eterne che determinano la totalità degli eventi, da quelli minuscoli a quelli macroscopici. In un secondo ap­ proccio, al quale qui preferiamo riferirci, il fenomeno religioso con lut­ ti i suoi attributi e articolazioni può essere letto, come si è indicato fin dall’inizio, attraverso lo schema del contatto-comunicazione degli uo­ mini colla divinità. Questa visione, in sostanza, prende corpo da un’idea di trasmissione del volere divino, operata da uomini (spesso ma non

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sempre nominati profeti) che hanno la funzione di porre in connessio­ ne il mondo alto e quello basso. I mediatori profetici, in particolare, si preoccupano di trasmettere e divulgare verità supreme che sono state loro variamente comunicate (durante visioni, contatti divini). E come dire che trasmettono istruzioni sul senso da dare agli eventi divini, al­ la loro ricaduta sulla posizione dell’uomo. I due sfondi appena schematizzati non sono né onnicomprensivi, né in opposizione fra loro; il secondo si differenzia dal primo soprattutto perché, come si vedrà in seguito, il suo punto centrale o focale sta nel­ l’individuo vivente, nella reale esistenza quotidiana. Sta nel rapporto che intercorre tra chi ha ricevuto una rivelazione dal cielo e chi la riceve da chi l’ha ottenuta per primo. Per quest’ultimo schema è opportuno fare riferimento ad una dop­ pia immagine della mutabilità e incompletezza dell’uomo. Dalla lettu­ ra antropologica generale si ottiene l’idea che a) fuomo nasca debole e imperfetto e che possa completarsi e perfezionarsi per gradi e che b) il processo di perfezionamento avvenga sulla base di un intricato si­ stema di principi e di nozioni culturali e religiose. L’individuo vivreb­ be sempre “impigliato" e dunque condizionato da una rete di simboli e di interpretazioni (Geertz, 1988, 41). La teoria della incerta e debole situazione umana alla nascita e del processo di sviluppo e miglioramento, opponendosi alla visione (ge­ neralmente poco gradita ai vari sistemi religiosi) dell’uomo perfetto, uniforme e costante, offre orientamenti importanti in molti campi cul­ turali. identitari, etici. In questo senso, gli uomini sperimenterebbero la necessità di attivarsi, di prendere decisioni, di mobilitarsi per scopi no­ bili e giusti. In particolare, secondo questa teoria gli individui avrebbero l’obiettivo di irrobustirsi e di crescere seguendo un disegno che viene dall’alto, dal potere invisibile. È attraverso la “profezia", che tale pia­ no si rivelerebbe loro e li guiderebbe.

Le caratteristiche socio-culturali che distinguono la profezia

Si è visto che la profezia entra nel quadro del perfezionamento del­ l’essere umano perché è legata ad alti di disciplinamento della vita, al raggiungimento di traguardi all*interno di processi umani e sovruma­ ni. Gli esempi storici di movimenti profetici sono estremamente nu­ merosi, da quelli della storia ebraica antica, alle moderne chiese cri­ stiane africane, ai movimenti di liberazione latino-americani, ai vari

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misticismi orientali, ai vari millenarismi che si sono sviluppati attorno a inimitabili guide-maestri. Altrettanto vale per le figure di profeti: da Mosè, Gesù o Mohammed, a Gandhi al Mugwe. dalle figura bibliche di Elia o Daniele a quella greca di Cassandra, dagli uomini giusti del­ lo stetl ebraico agli sciamani siberiani e amerindiani, dai veggenti ome­ rici ai guru indiani, ai giovani pastori di Fatima e molti altri. Presa in senso ampio, la profezia corrisponde ad un atto profonda­ mente umano e partecipato. Siamo di fronte al caso di un “uomo che palla" per volere divino, che trasmette un'illuminazione (che più o me­ no esplicitamente attribuisce a dio). Ciò che concretamente avviene è uno svelamento fatto da un dio-spirito o potenza ad una persona che opera da trasmettitore. Essa si rivolge con un messaggio straordinario ultraumano ad un destinatario più o meno ben definito come un grup­ po, un ceto, una assemblea, una comunità insediata. In questo schema, il profeta ha pertanto la funzione e la capacità di apprendere l’ordine di­ vino. divulgarlo ed intervenire così su realtà umane. Si può avere un’altra lettura del fenomeno. Si può capovolgere lo schema presentato (da un dio ad un uomo che profetizza), e partire da chi riceve il messaggio. È interessante illuminare la posizione di chi ri­ tiene di essere l'obiettivo finale delle rivelazioni e dei contatti, allo sco­ po di comprendere quali siano le partite in corso e gli attori in gioco. Si è detto che la profezia è fatto umano, in quanto ha radici e pre­ supposti in un mondo di uomini viventi, che praticano un insieme di re­ gole, di usi religiosi. Riguarda un ambiente fatto di risorse umane co­ muni. incarnato in un preciso tempo e spazio. Il processo profetico, sul piano espressivo, va pertanto visto come un sistema di parole e gesti, azioni e reazioni. Non è pura lettura dei flussi superiori e delle sue for­ ze. Non è neppure una semplice anticipazione di eventi non ancora av­ venuti, o narrazione di quelli attesi e auspicati. La profezia può avere risvolti importanti esattamente nel campo sociale della giustizia, della perfetta pacificazione, del recupero dell’umanità. Può sfociare in mo­ vimenti di promozione o di riconversione. I profeti, anche quelli meno celebrati, hanno insegnato a riformulare il modo di operare nel mondo. Seppur con modalità cangianti, alcuni fattori differenziano la pro­ fezia da altri fenomeni religiosi. a. Si può costatare, in primo luogo, che a differenza di altre pratiche religiose, profetare non significa “elevarsi" verso il sacro, contem­ plare dio o raggiungere uno stato personale semi-divino. Non dà luogo ad atti che si possono ricondurre solo all'intimo personale.

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alla concentrazione profonda e segreta dell’umano sull’extra-umano. Pur partendo da un mondo dominato dagli esseri divini, la pro­ fezia non coincide cioè col semplice desiderio di annullamento del sé e della propria volontà, col desiderio assoluto di entrare prima­ riamente in uno stato estatico, prossimo al divino. b. Nella pratica profetica il messaggio è divino, ma ha bisogno di un tramite umano attivo e consapevole. A volte essere profeta signifi­ ca essere solo disponibile, pronto a funzionare da canale, ad ado­ perarsi o addirittura ad “immolarsi” fisicamente pur di trasmettere la rivelazione ricevuta. Spesso il profeta è perdente e consapevole della propria possibile o prossima sconfitta. c. Esiste sempre un destinatario, o un gruppo di destinatari specifici della profezia. È come dire che non si profetizza in modo generico: il profeta si rivolge a uomini precisi. Si ritiene che essi non possa­ no capire il proprio destino senza essere istruiti, senza ricevere un’esplicito, seppur mediato, messaggio. I destinatari sono forse poco consapevoli di quali sono le traiettorie profetiche, ma devono apprendere quale partecipazione al piano divino si chiede loro. d. La rivelazione profetica è atto espressivo codificato, ossia emanato da chi è ritenuto competente o predestinato. La sua predestinazio­ ne spesso resta segreta fino al momento o al compimento della ri­ velazione stessa. In altri termini, un uomo dotato di capacità profe­ tica parla ai suoi compagni, correligionari, seguaci o avversari in termini o nelle vesti di guida legittima e necessaria per la loro esi­ stenza. Su queste basi, è evidente che tutta la forza del profeta ripo­ sa in questo intreccio di aspettative, necessità, investiture, scelte umane. Se un elemento da tenere in conto è che il profeta viene concepito e “rappresentato” come un uomo scelto e istruito da dio, ed a lui è af­ fidato il compito di reclamare giustizia, invocare benessere in favore di un gruppo o di un popolo, bisogna ricordare anche che ha ruoli istitu­ zionali o formali solo in alcuni casi. Laddove riceve un’investitura au­ torevole, essa di solito lo trasforma in un leader, un uomo ascoltato che può coordinarsi con chi ha ruolo politico o morale. Più spesso invece il profeta non fa ricorso o non si aggrega ad una autorità costituita e sta fuori dai luoghi del potere. Non si identifica assolutamente con loro. Seppur in via semplificante, si può dunque dire che il profeta, più spesso di quanto si immagini, affronta il mondo senza ricorrere alle vie statutarie ordinarie (leggi, giudizi, regole e proclami). Per questo, i pro-

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feti possono pagare i propri atti con la vita: sono cioè giudicati perico­ losi dissidenti, rivoltosi, autori di eventi tumultuosi. E spesso sono vio­ lentemente eliminati. I punti sociologicamente rilevanti riguardano le condizioni di vita dei destinatari della profezia. Si possono nominare alcuni elementi: sta­ to dì crisi, denuncia, intervento-protezione, risanamento. STATO DI CRISI. I fenomeni profetici si avverano ed hanno im­ portanti conseguenze sulla gente quando insorge una condizione di di­ sagio, di sofferenza per fatti che sono attribuibili al soverchiante do­ minio. alla crudeltà di qualcuno o sono dovuti a disgrazie, carestie, lot­ te o altro. Il presupposto della profezia è dunque dato da una situazione uma­ na di pericolo o un malessere ingovernabile. Possiamo immaginare le figure profetiche come persone fedeli alle linee tradizionali del proprio ambiente ma anche dotate di proprie inimitabili capacità chiaroveg­ genti o anticipatrici. Esse osservano e valutano tensioni o antagonismi fra settori e strati sociali, in opposizione o in collisione fra loro. Sono tensioni sovente sotterranee che corrodono le basi di una società. Inci­ dono sui rapporti, distolgono la gente dal normale ritmo di vita, dal “vivere comune”. La crisi affiora, in sostanza, quando la vita è peg­ giore del solito: quando è sconvolta da conflitti, usurpazioni, tradimenti che sembrano insopportabili o ingiusti. Ma è anche ritenuta conse­ guente ad altri e più impalpabili motivi: disobbedienza al volere di dio, interruzione del rapporto con l’extra-umano, infedeltà religiosa e mol­ to altro. Ciò detto, va aggiunto che il “parlare” di un profeta non è un discorso o una lamentela qualsiasi. Non è un resoconto riguardante tra­ gedie, sconfitte, punti cardine che vengono meno. Non è neppure un puro ammonire o predicare buone intenzioni: è piuttosto un comando superiore emotivamente molto pressante. Le figure profetiche appaiono sulla scena quando si ritiene che non ci sia via di scampo senza un intervento dall'alto, senza un messaggio salvifico, un chiarimento divino sulle vie da intraprendere. La rivela­ zione che viene fatta dal profeta indica dunque che non c'è che una so­ luzione, quella che viene invocata o indicata dal profeta stesso.

DENUNCIA. Una prova dell'impellenza e della pressione emotiva si ricava dai toni drammatici della profezia che insiste su necessità non procrastinabili, sul bisogno di uscire ad ogni costo da situazioni inac­ cettabili.

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Si presuppone che i profeti siano in grado di interpretare e capire gli eventi che traumatizzano o distruggono. Appaiono saggi e preparati a compiere lo svelamento ad un popolo che è privo di mezzi propri di reazione e dunque di salvezza. Se è implicito che l’interpretazione compiuta dai profeti può esse­ re fatta nel segno della urgenza in presenza di eventi pericolosi ed in­ giusti, inevitabilmente il loro discorso assume il tono veemente della accusa, non di una semplice messa in guardia. I profeti annunciano che gli eventi stanno conducendo alla catastrofe e che le colpe possono es­ sere individuate in fatti e personaggi. Il destinatario diventa consape­ vole e responsabile al momento in cui gli viene notificata la catastrofe imminente nella quale sarà coinvolto. Le accuse muovono da un’idea di giustezza e di equità, di riaffer­ mazione di cose doverose verso dio e verso gli uomini. Scatenano emo­ zioni e indignazioni; possono comportare sconforto ma anche grande speranza. Esse portano alla fine a valutazioni dell’importanza delle of­ fese e delle ingiustizie subite e dei mezzi per contrastarle. Nella de­ nuncia profetica si coagulano molti sentimenti che strutturano l’azio­ ne sociale reale e comune. INTERVENTO (E PROTEZIONE). Alle denunce non può non con­ nettersi l'attesa della soddisfazione. Ciò che caratterizza la scena pro­ fetica è la speranza di azioni straordinarie, risanatrici e risolutone. Il punto importante è che, di norma, la soluzione della crisi è in mano agli attori stessi che la vivono. Essi saranno posti nella condizione, sot­ to la guida del profeta, di dar un nuovo corso alla vita. Tutto questo in­ sieme di condizioni attivate dall'intervento profetico hanno alle spalle un certo numero di nozioni (molto difficili da sintetizzare) che potreb­ bero essere chiamate idee fiduciose nel bene, nella protezione di dio, ma anche in precisi atti liberatori umani. A monte del profeta dunque c’è una scala di valori ben precisi che egli desidera proteggere e promuovere. Si può aggiungere, sintetiz­ zando. che la protezione che il profeta offre non giunge a tutti o non è gradita allo stesso modo a tutti i destinatari. Coloro che non la accet­ tano e ne sono per qualche ragione esclusi, possono essere esposti a giudizi o rappresaglie. Nella storia della umanità, purtroppo, anche co­ loro che “hanno raccolto la profezia" sono stati a volte considerati re­ ietti, eretici, destinati a punizioni ed esclusioni gravi. La profezia si presenta come un evento e discorso sgradito ai po­ tenti, in quanto si presenta come forza di controtendenza, come stru­

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mento con finalità di riordino e di rifondazione. L’esercizio della pro­ fezia è dunque difficile perché urta contro alcune prerogative e precisi privilegi che visibilmente dominano la scena culturale e sociale. Met­ te in vista alcuni valori e promette chiarimenti, interventi e cure ener­ giche contro il male causato da precisi soggetti o situazioni. 1 soggetti profetici che hanno cercato di proteggere e promuovere vi­ sioni diverse e alternative sono stati definiti dai loro oppositori e nemici come sediziosi, impostori, banditi o canaglie, personaggi cioè che mi­ ravano a produrre ‘‘disordini e disgrazie". Essi non potevano non esse­ re repressi, eliminati. Dal loro seguito i profeti invece sono stati defi­ niti coraggiosi, rivoluzionari, disinteressati, compassionevoli, retti, pre­ veggenti e molto altro. Le problematiche della profezia e la sua efficacia dipendono dagli scarti fra questi dati classificatori. Lo spazio di conflitto è sempre sta­ to ampio, ma non generalizzabile. Ogni valutazione dei percorsi pro­ fetici deve dunque essere fatta in base a letture specifiche delle forze in campo.5 RISANAMENTO. L’esito cui tende il profeta di norma consiste in una totale capovolgimento, innovazione e liberazione dallo stato di bi­ sogno. Il risanamento è un obiettivo estremo e un risultato irrinuncia­ bile in ogni profezia. Di certo, l’uomo profetico aspira e cerca di mettere in essere un mo­ do gratificante di sperimentare il trascendente e il mondano.6 Sullo sce­ nario profetico ciò che il profeta cerca di ottenere è un nuovo corso dell’esistenza reale, un modo corretto di collocare i destinatari del mes­ saggio divino nel mondo. Anche se non si possono vantare certezze sull’effetto della profezia, sul piano teorico e analitico, occorre ridurre al minimo le vaghezze e le ambiguità. È utile dunque fare ulteriori considerazioni sul fatto che la profezia risana. Il risanamento può avere l’apparenza di un’utopia.

5 Lo schema che s’intravede dietro ai fenomeni religiosi (profezia inclusa) è la di­ visione dell’universo in “due emisferi” Essi sono sempre raffigurati o rappresentati da binomi (credente-ateo, ortodosso eterodosso, fedele-infedele, vero-eretico e molti al­ tri). Questa divisione è spesso attribuita direttamente a dio. 6 Non è qui il caso di soffermarsi sugli stili di vita dei profeti. Basti dire che il pro­ feta può andare alla ricerca di un codice etico generale, uno stile di vita particolare, o partire dalla esigenza di purità etnica (corporale) o di revisione dei diritti umani (con o senza consolazione nell’aldilà).

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Può assumere forme di resistenza passiva, di rifiuto di privilegi o dirit­ ti indiscussi, ma anche passare attraverso un misconoscimento concre­ to del sistema sociale e simbolico in atto. Astenersi dal compiere atti co­ muni (mediante il silenzio, il nascondimento, l’immobilità, la segrega­ zione, il digiuno, la dissimulazione) comunica idee di libertà, di puri­ ficazione e di non-correità. 11 rifiuto del cibo può. ad esempio, assu­ mere il valore di una lotta morale e politica. Il profeta astinente usa la propria corporalità in modo dimostrativo e provocatorio: può essere ben più credibile ed efficace di altri soggetti coinvolti in azioni clamo­ rose. Il risanamento, quando passa per l’assenza totale di azione, un po’ paradossalmente, inaugura o instaura un regime di auto-controllo, una volontà tenace e senza termine. In questo senso, la profezia cambia il sistema religioso di riferi­ mento o i suoi presupposti perché, dato indiscutibile per chi è implica­ to, riceve l’avvallo divino. Proviene dalla energia divina indistruttibile e intramontabile. Si ritiene che sia diretta al riscatto o al riassetto del popolo al quale dio “affida la sua volontà" attraverso i profeti.

Le narrative che “costruiscono” la profezia. La vicenda dell'uomo di Nazaret Il mondo di Gesù è singolare per distanza temporale e storico-cultura­ le. La peculiarità di questo mondo invita a caute rappresentazioni. So­ prattutto obbliga a partire da raffigurazioni scritte, stratificate attraver­ so secoli e difficilmente disaggregabili. Ciò che sappiamo di Gesù, in­ fatti, ci è stato narrato da testi di varia complessità e attendibilità, ca­ nonizzati o espulsi dalla tradizione ufficiale, posteriori alla sua morte (qui interessa soprattutto il primo secolo dell’era Comune). Siamo dipendenti dunque da una letteratura antica che fa uso di tec­ niche di memorizzazione e di rappresentazione che non sono le nostre. I testi, in cui vengono trasmesse notizie su Gesù, sulla sua vita, su chi ha risposto al suo messaggio o su chi ha riflettuto sulla sua morte, han­ no lo scopo di custodire e perpetuare un processo religioso ricollegan­ dolo alla vicenda stessa di Gesù. Sono narrazioni dunque che non in­ tendono assumere lo stile di cronache o biografie, bensì quello di un progetto che ha preso corpo e ha attraversato fasi complicate che si ri­ chiamano, più o meno fondatamente, all’uomo di Nazaret. È necessario accettare che siamo davanti a notizie e memorie ripetutamente trascritte e massicciamente analizzate (Crossan, 1991:

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Ehrdman 1993; 2003: 2009). Tutto ciò giustifica il bisogno di usare let­ ture antropologiche che non ignorino mai, anche se non sempre nomi­ nano, vari livelli e varie finalità dei testi. Occorre tenere ben presenti e distinguere fra fatto narrato e ciò che probabilmente è “accaduto”, fra l'obiettivo esplicito e quello che si nasconde ai livelli più profondi del­ la scrittura, fra il senso delle varie discrepanze delle narrative e valore della “tradizione scritta” (Goody, 2002).

Il nostro punto di partenza è che una forma di narrativa orale o scrit­ ta generalmente nasce in un luogo specifico e per precise persone. Si dilata e si modifica attraverso l’azione di vari autori, ripetitori e inven­ tori7. Il senso di un racconto religioso non è dato una volta per tutte. Può divenire oggetto, in tempi successivi, di riflessioni e di ulteriori atti di­ scorsivi. Sicuramente - come altrove abbiamo cercato di dimostrare8 - Ge­ sù è persona inserita in un preciso ambiente contadino e consapevole dei problemi che la gente usualmente vive in tale contesto. Egli si in­ teressa a e incontra molta gente. Si muove da villaggio a villaggio per incontrarla. Vive le ristrettezze, le sofferenze e i drammi del popolo d'Israele. Agisce in favore e soccorre i propri compaesani con atti por­ tentosi. Gesù dunque non è rappresentato come un pensatore, un leader che si sottrae alla quotidianità e ai suoi risvolti concreti. E una figura religiosa che vuol rinvigorire o sanare lo stile di vita ebraica. Questo tipo di im­ magine di Gesù che, a nostro avviso, si definisce nei testi del cristiane­ simo primitivo, rammenta uno stato di crisi, un mondo in difficoltà. Partendo da questo profilo ci si può chiedere come la rappresenta­ zione scritta ha costruito l’insieme della profezia gesuana? Nei testi si dà varie volte il nome di profeta a Gesù o si accenna alle sue funzioni profetiche (Mt 21,11: Me 6,4; 6,15; 8,28; Le 4,24; 7,16; 9,8; 13.33; 24.19: Gv 1.21; 4.19: 4,44: 6,14: 7,40: 9,17). L’uso del termine in sé non è totalmente trasparente. Non si sa che significato socio-culturale abbia, anche se si sa che fa certamente parte deH’immaginario giudai­

7 Ogni scrittura, ogni forma di narrativa vive nella storia, subisce effetti imprevisti che incidono sulla sua utilizzazione e attendibilità. È soggetta a ripetute analisi che va­

riano per mezzi e fini da epoca ad epoca. Ad esempio, lo studio di alcuni scritti apo­ crifi del primo cristianesimo, e della loro costruzione, ha determinato un nuovo modo di guardare i testi proto cristiani (Ehrman. 2003. 9-67). 8 Cfr. la ricostruzione della figura storica di Gesù in Destro-Pesce. 2008. capp. 2 e 3.

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co. Questa constatazione ci impone il dovere di porci alcuni interroga­ tivi. È utile individuare lo stile di Gesù, il suo modo di agire (natural­ mente come i testi lo presentano) per evidenziare cosa profeta signifi­ chi nel suo caso. A livello analitico, dunque, l’attribuzione del titolo profeta può non essere il punto importante in questo discorso. Gli autori dei testi ave­ vano una propria idea o un principio di definizione di Gesù. In base al­ le loro convinzioni testimoniano cioè che Gesù appartiene ad una ca­ tegoria di soggetti religiosi, eminenti nei loro ambienti culturali. Da parte nostra la profezia di Gesù, ricavata dai testi, può essere illustrata attraverso i caratteri e le nozioni elencate in precedenza. Noi partiamo dal presupposto che il Gesù storico agisse profetica­ mente perché aveva stimoli, esigenze, griglie valutative e classificato­ rie personali. Osservava la sua società, disapprovava quello che vi ac­ cadeva. Desiderava rinnovare il proprio ambiente. Le valutazioni dell’uomo Gesù si possono recuperare qui e là nel­ le narrative ricordando però che spesso esse non sono coincidenti o coerenti. Le frasi delle “beatitudini*’, ad esempio, ci danno alcuni pro­ cessi valutativi di Gesù, mentre le narrazioni delle “parabole" ci dan­ no altri suoi codici, altre convinzioni implicite nel suo mondo.9 Si ri­ fanno ad esempio, all’ideale del Giubileo, della regalità davidica, del valore divino della terra, dell'attesa messianica. Non si possono com­ mentare questi fattori ma essi non possono essere ignorati: costitui­ scono un solido patrimonio che alimenta tutta la visione gesuana e quel­ la del suo ambiente.

Si è detto che tutta la vicenda di Gesù di Nazaret può essere vista come un percorso esistenziale connesso alla condizione critica della terra di Israele, allo stato di bisogno e di forte disagio in cui era cadu­ ta la popolazione. All’epoca di Gesù, la crisi che colpiva la popolazio­ ne ebraica derivava dalla perdita di autonomia del paese a causa del­ l’occupazione romana. Il popolo ebraico stava sperimentato tutte le dif­ ficoltà di una colonizzazione. E come dire che nella storia ebraica, in epoca imperiale, si erano verificate perdite culturali, legate a subordi­ nazioni e spossessamenti. La terra di Israele era, peraltro, percorsa dal­ l’attesa di un riscatto, di una riorganizzazione socio-politica ebraica. 9 Sarebbe opportuno esemplificare e dare dettagli a proposito di queste situazioni disparate. Qui ci si limita a ricordare la pluralità di angolature e di visioni che i testi permettono.

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Esistevano, attorno a Gesù, speranze di un rinnovamento e di una riunione finale di tutte le “nazioni” sotto la guida d’Israele. Esse face­ vano parte della visione utopica ebraica. Gesù vive le pulsioni e le attese della sua gente. Rispetto a tutto questo, va ricordato che Gesù pone in primo piano, tra i propri obiettivi, l’attesa del “regno di Dio”, dell’intervento divino risolutivo. Egli intende preparare, con la sua mis­ sione, un capovolgimento radicale delle sorti di Israele. Questo è il pun­ to da non ignorare per comprendere la profezia gesuana. Richiamando il precedente schema generale della profezia, si può intuire come la vicenda del Gesù, nelle narrative dei vangeli, venga collocata tra due poli, quello della crisi e quello del risanamento. La rappresentazione dei suoi atti profetici dunque si incunea tra questi due riferimenti cardinali (Kaylor, 1994, 56). Due gli episodi cui ci si deve riferire per comprendere come viene scritturisticamente rappresentata la profezia di Gesù. Il primo episo­ dio è l’entrata a Gerusalemme, il secondo è la visita al Tempio e la cacciata dei mercanti. Va detto subito che non si entra nel problema della verità storica degli episodi, ma si analizza solo il fatto che il pro­ feta Gesù è stato, a nostro avviso, narrato attraverso queste precise scene. È stato costruito attraverso la raffigurazione di un personaggio che coglie la drammaticità della situazione in cui si trova e interviene per mutarla.

a. Il primo episodio è l’ingresso “trionfale” a Gerusalemme (Me 11,1-10; Mt 21,1-9: Le 19,28-38, Gv. 12,12-19)10. Sulla scena di Ge­ rusalemme possiamo individuare alcuni atti sintomatici di Gesù. Nel­ la versione di Matteo. Gesù invia due discepoli a cercare un’asina e un puledro. Ha intenzione di entrare in Gerusalemme in modo vistoso e pubblico, (non come un uomo comune, a piedi). Sceglie dunque di muoversi regalmente a cavallo (ma di un’asina). I segni della regalità sono mescolati a simboli che alterano alcuni punti fondativi dello sta­ to regale. Il carattere degli atti è, in ogni modo, intenzionalmente ri-si­ gnificato nei testi che lo descrivono. Questo cambiamento dei riferi­ menti è parte del messaggio-sfida. Ci sono anche altri segni. Avendo trovato gli animali, i discepoli li coprono con mantelli. Il seguito di Ge­

10 Non è possibile procedere, come sarebbe utile, alla comparazione delle varie re­ dazioni dei vangeli. Non interessano le somiglianze e le differenze se non in modo se­ condario. Non sono strettamente necessarie ai fini di questo discorso.

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sù usa inoltre i mantelli per addobbare la via che Gesù percorre. Il ca­ valiere che “viene avanti” è accompagnato da voci o canti. Ne emerge una scena di notevole interesse, che sottolinea un ingresso nella città santa ben architettato

... misero su di essi i mantelli ed egli vi si pose a sedere. La folla nu­ merosissima stese i suoi mantelli sulla strada mentre altri tagliavano rami dagli alberi e li stendevano sulla via. La folla che andava innanzi e quella che veniva dietro, gridava. Osanna al figlio di Davide!, Bene­ detto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nel più alto dei cieli (Mt 21,7-9). Questa entrata in città ha certamente il valore di una volontaria as­ sunzione di ruolo in faccia agli astanti. Entra in scena un uomo che non ha il sostegno delle istituzioni, un uomo che appartiene alle aree dei nullatenenti e dei predicatori itineranti, alla “gente di villaggio” (De­ stro, Pesce, 2008, 59-100). Il profeta Gesù osa fare quello che non è te­ nuto a fare. Cavalcando un’asina attira l’attenzione e l’approvazione della popolazione e assume un comportamento singolare. Riceve il sa­ luto beneaugurante e l'ossequio della folla, assumendo per questa via simboli, funzioni e poteri. L’entrata in Gerusalemme è comunque una manifestazione che ri­ chiama principi e visioni che Israele ben conosce; diventa una denun­ cia. Gesù, così, mostra che occorre segnalare o far capire che la situa­ zione della città e di Israele può essere del tutto diversa, che occorre promuovere forme nuove d’esistenza, contromisure allo stato deterio­ rato del paese. I gesti che i testi sottolineano sono molto eloquenti. La figura pro­ fetica di Gesù diventa temibile perché influisce sull’immaginazione po­ polare, nel momento stesso in cui egli incontra la gente. Molte le rea­ zioni che. fra le persone, si verificano simultaneamente: un riconosci­ mento, una approvazione, un entusiasmo per chi incarna la speranza. In altri termini, la costruzione della figura profetica gesuana si ba­ sa largamente su messaggi e immagini che vengono coagulati nella ac­ coglienza di Gerusalemme. Questo nodo di raffigurazioni lascia intui­ re che per chi scrive - siamo sempre a livello di immaginario - Gesù è protagonista di eventi che vanno “oltre la realtà” del momento, “oltre i confini” del singolo atto. Per ciò che riguarda l’azione profetica di Gesù, va ricordato che in questo ingresso nella città santa sembra affiorare una forte esigenza. La folla che viene messa in scena chiede di essere “liberata”. I presen­

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ti, utilizzando un salmo (118), gridano “salvaci ora”. Essi fanno rie­ cheggiare a gran voce la richiesta dei pellegrini che si recano a Geru­ salemme. I toni espressivi forti mostrano tutto il loro bisogno di rin­ novamento, di sicurezza. L’entrata in Gerusalemme ha conseguenze ri­ levanti: anche se sul momento non scatena le autorità, fa nascere una “agitazione” in tutta la città. Matteo, ad esempio, fa fare alla folla un riconoscimento decisivo proprio in termini profetici

Entrato in Gerusalemme, tutta la città fu in agitazione e la gente si chie­ deva: ’’Chi è costui?” E la folla rispondeva “Questo è il profeta Gesù da Nazaret di Galilea” (Mt 21.10-11 ). All’ingresso di Gesù in Gerusalemme, la gente sembra sperimenta­ re la forza della denuncia, sembra sentire la protezione di chi è capace di compiere un gesto liberatorio. La città pare intuire in qualche modo 1’avvicinarsi di un rivolgimento, di un risanamento. Va aggiunta, in questo senso, un’altra considerazione. Varcare la porta di Gerusalemme è descritto come un atto che accelera la libera­ zione, ma anche i tempi del “dramma” di Gesù, perché si tratta di un atto provocatorio, sconvolgente. Il profeta Gesù - sembrano dire i te­ sti - avvia la propria distruzione proprio perché è diventato visibile, influente. È un marginale che emerge, una persona che non lascia le cose come stanno e ciò è un fatto che può avere alti costi. b. Il secondo episodio narrato (Mt 21,12-17: Me 11,15-17: Le 19.45-46: Gv 2.13-17) è quello della purificazione del Tempio, o del­ la “cacciata dei mercanti”, in cui Gesù è sdegnato e fa denunce pun­ tuali. Si scaglia contro precisi attori sociali, scaraventa a terra i banchi dei commercianti e dei cambiavalute. Egli si oppone e condanna i traf­ fici che si compiono nel Tempio. Matteo spiega: Gesù entrò nel tempio e scacciò tutti quelli che vi trovò a comprare e vendere: rovesciò i tavoli dei cambiavalute e le sedie dei venditori di colombe e disse loro. La Scrittura dice: ‘La mia casa sarà chiamata ca­ sa di preghiera ma voi ne fate una spelonca di ladri’. Gli si avvicinaro­ no ciechi e storpi nel tempio ed egli li guarì. Ma i sommi sacerdoti e gli scribi, vedendo le meraviglie che taceva e i fanciulli che acclamavano nel tempio: ‘Osanna al figlio di Davide’ si sdegnarono ... (21,12-15)

L’atto profetizzante di Gesù viene rappresentato in una area molto singolare e sacralizzata. Nulla è più rispettabile, custodito e celebrato

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del Tempio. Il culto vi trova la sua sede più alta e simbolicamente ine­ guagliabile. Il Tempio è un luogo sotto la protezione dell’aristocrazia sacerdotale, la quale è responsabile esclusiva della espressività rituale, della funzionalità dei riti. È cioè il luogo in cui il potere religioso giu­ daico ha le proprie radici e i propri strumenti e in cui si qualifica come alternativo ai poteri imperiali. I Giudei e i Romani sono legati da con­ trapposte e delicate attese. I Romani di certo “sorvegliano" l’aristocra­ zia sacerdotale che in molte occasioni è loro alleata, ma che non è sem­ pre solidale. Le visioni e le aspettative romane, nel complesso, sono sfidate dalle classi alte dei giudei o denunciate dalle invettive di preci­ si personaggi delle classi basse. La cacciata di gente indegna, ad opera di un profeta, è collocata dunque in un luogo nevralgico, sul quale si concentra l’attenzione del­ la città. Gesù opera con autorità, ma certamente non come appartenente alle élìtes che custodiscono il luogo sacralizzato. Qui la sua distanza dalle istituzioni è evidente; dà sicuramente una precisa dimensione al­ la “parola profetica". Si tratta per di più di un intervento molto energi­ co, non solo verbale. E questo un tratto singolare (non del tutto comu­ ne nella azione profetica) che viene valorizzato dai testi. Lo scontro templare evidenzia che esiste, da una parte, l'aristocra­ zia sacerdotale dominante, dall’altra il gruppetto di Gesù. Egli è un uo­ mo che soccorre, guarisce, predica11 ma appartiene alla parte debole della popolazione. Di fatto però incarna la figura di leader che non agi­ sce debolmente: non solo aspira ad un cambiamento, mette in atto un tentativo di rinnovamento. Col gesto della “cacciata" Gesù entra nella schiera di coloro che non si insediano in luoghi decentrati e periferici, ma vanno al centro del sistema, in faccia alle autorità. Il Gesù narrato nei testi che agisce con l’autorità del debole, canalizza messaggi inappellabili e innovativi. L’uso della posizione autorevole del debole conferma la qualificazio­ ne regale e messianica di Gesù (assunta all’ingresso in Gerusalemme). L'azione di condanna che egli compie è cioè una sorta di sigillo di ciò che avverrà, della liberazione che arriverà.

La rappresentazione della profezia di Gesù è dunque di lettura com­ plessa. Un versante è particolarmente importante. Nel Tempio, si è del-11 11 Di nuovo si tralascia la verifica della veridicità della scena, avendo assunto il punto di vista della “rappresentazione” evangelica di Gesù come fatto centrale di que­ sta analisi.

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to. i giudei sono messi davanti ad un atto di autorità di Gesù, visibile da tutti i presenti, dai frequentatori del Tempio, di alto o basso livello. Nasce una contestazione dei giudei sull'“esercizio della autorità". Essa riguarda ciò che Gesù ha compiuto ma anche il fatto che egli si sia attribuita l’autorità di farlo (Lémonon, 2007, 360). Il problema che vie­ ne sollevato è: chi gli ha data l’autorità per intervenire? La questione è di quelle che sconvolgono un intero sistema religioso. Ogni risposta mette in gioco tutto l’insieme di credenze, il modo giudaico di pensa­ re il rapporto con Dio. Nel Tempio, possono compiersi atti dimostrativi, pronunciati di­ scorsi incendiali. Vi possono scoppiare tafferugli e contestazioni, ri­ volte. La folla che gira per il Tempio può diventare un fattore aggres­ sivo o portare a conflitti. Quindi un atto come quello che viene attri­ buito a Gesù assume il significato di una operazione che tende alla di­ fesa o riattivazione di alcune prerogative del luogo sacralizzato e di tut­ to il sistema che ispira. Il profetare in questo luogo è visto come un at­ to che non può passare inosservato, che viene usato intenzionalmente per intraprendere un processo di risanamento. Tutto questo rende evidente che i racconti evangelici hanno la fun­ zione di rappresental e la profezia gesuana come qualcosa che le auto­ rità paventano.12 E che la gente apprezza. Gesù fa sentire la sua voce profetica proprio durante una affollata festa, quando c'è molto popolo e si possono creare forti reazioni popolari. È evidente che gli autori, mettendo in luce questo particolare, danno risalto ad eventi che raffi­ gurano una società giudaica in difficoltà (colonizzata dai romani, gui­ data dal ceto sacerdotale, percorsa da tensioni e aspettative, ed abitata da profeti) che contribuisce a rappresentare la densità dell'azione di Gesù. In conclusione, Gesù mostra che nel Tempio si possono prendere decisioni e si possono compiere azioni che incidono fortemente sul­ l’esistenza del popolo d’Israele. Entrare a sconvolgere questo luogo è fatto esorbitante e radicale. In esso, un'azione profetica segnala con chiarezza - gli autori mostrano di crederlo - ciò che è un profeta e co­ sa è destinato a fare.

12 Ci sono soldati-guardie nel Tempio, in permanenza, perché da qui possono na­ scere eventi importanti e temibili. I timori di sommosse si ampliano quando molta gen­ te circola o si raduna in città, soprattutto durante le feste: questo misura la forza del pro­ cesso profetico che teoricamente il Tempio può sempre ospitare.

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Intorno alla partecipazione della gente Nelle vicende di Gesù, le azioni profetiche aprono la strada ad alcuni quadri complessivi relativi al comportamento della folla, della gente comune. I due casi appena riferiti, a livello di analisi, si presentano co­ me una buona occasione per vagliare la parte della popolazione che si muove attorno al profeta. In linea generale, attorno alle figure profetiche, si riuniscono tante persone che aspettano di essere ascoltate, guidate. Esse riflettono sto­ rie popolari condivise e aspirazioni imperniate su giustizia, libertà re­ ligiosa o civile, diritto d’opinione, ecc. La riunione di tanti individui crea un “soggetto nuovo". E la massa, influente e variegata, che spin­ ta da condizioni difficili, esprime giudizi e prende decisioni. L’intervento profetico è molto spesso im prevedi bile, si scatena a causa di uno stato caotico, di una accelerazione di una catena di disa­ gi. Si avvera sempre nel mezzo della vita che pulsa e che spinge da tut­ te le parti. Quindi la profezia prende la forma che le impone la situazione contingente, il bisogno immediato di specifiche aree, strati. Nel pro­ cesso profetico possono affiorare, senza troppi preavvisi, soggetti mo­ tivati, schieramenti, saperi, scelte di precisi agenti che scuotano le fondamenta di un assetto sociale. Le folle possono mettere in di­ scussione ogni cosa con l'idea di dare ordine al cosmo e di rendere limpida la vita. Il “popolo del profeta", in sostanza, è quello che è stato attratto o in­ cantato da stimoli scatenanti, da nuove ascese di personaggi capaci di captare interesse e solidarietà. Questo tipo di gente, vivendo accanto al profeta mostra di essere “fuori dal sistema", ma proprio per questo mo­ stra di essere nella situazione di conoscere subito ciò che di nuovo ap­ pare all’orizzonte (fuori dagli schemi delle autorità costituite). Le persone che seguono un profeta, nel riconoscere le necessità e i pericoli da affrontare, si allertano, si mobilitano e si schierano princi­ palmente con la diversità, con l’alterità. La gente che segue un profeta è capace di entusiasmo per radicalismi vari. E tenuta insieme, malgra­ do o a dispetto di ogni differenza e disomogeneità, proprio da queste tendenze, oltre che, naturalmente, dalle qualità che solo il profeta mo­ stra di avere. E chiaro che la gente che segue un profeta si muove solo per sop­ piantare coloro che hanno potere, per contrastare energicamente i loro

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eccessi e le loro trasgressioni13 non per istituire uno stile moderato, o per ridursi alla routine. La gente che assiste alla “cacciata dei mercan­ ti” è sicuramente inclusa, quasi a sua insaputa, nel processo di rinno­ vamento e di restaurazione religiosa (che non ha programmato). Non è da escludere che, su queste basi, sia in grado però di avvertire gli orizzonti e la portata del cambiamento del quale è testimone. La gente si entusiasma per l’atto profetico, ma non ne fa un obiet­ tivo per esprimere se stessa. Ciò in virtù del fatto che i piani persegui­ ti dal profeta non sono il perfezionamento personale, la salvaguardia di un certo tipo di spiritualità o l’amore di una pratica religiosa. La gen­ te che si spende e segue un profeta, s’impegna direttamente. In qualche modo compromette la propria persona o le proprie risorse in atti di de­ nuncia. di sdegno, di sostegno del bene comune.

Sull’influenza del “fare profetico” occorre aggiungere un’ultima cosa. Non è la stessa cosa lavorare e comportarsi onestamente oppu­ re mettersi a seguire un profeta per accelerare il risanamento (1 av­ vento finale di Dio, nel caso di Gesù). Nel primo caso si cerca una normale sicurezza o pacificazione quotidiana, nel secondo si aspira alla salvezza in senso ampio o addirittura come evento totale. È ben di­ verso vivere entro o al di fuori di una promessa profetica. La gente, nei due casi di Gesù, sembra riconoscere che il fare del profeta è determinato da un progetto d’ordine superiore, per così dire cosmico. Comprende che non ci si può facilmente sottrarre a tale ordi­ ne (restando legata ai fatti di ogni giorno). In alcuni movimenti profetici può farsi strada l’idea che al di là del­ la conquista di una nuova base dell’esistenza umana si può sperare in potenti ricompense extraumane.14 Quest’ultima riflessione sulle spe­ ranze ultramondane vuol qui richiamare il fatto che in molte attese pro­ fetiche ci si aspetta ben di più di un rimedio ai disagi della vita. Ci si attende, in qualche modo, di essere protetti dal mondo divino sovra­ stante e di godere dei suoi benefici per sempre. Tutto ciò meriterebbe ampia attenzione.

13 Naturalmente, l’efficacia di un profeta è proporzionale alla qualità dei personaggi in gioco, alla gravità delle vessazioni, e del danno che alcuni eventi hanno procurato e che la gente ritiene di non dover sopportare. Del resto un’atmosfera pubblica incandescente non è sempre foriera di esempi profetici, né di alto profilo, né di tipo popolare.

14 Cfr. in Le 6.21 e Mt 5.4 le promesse di gioia e conforto futuro in risposta alle sof­ ferenze presenti.

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Rappresentazioni indigene: profili e tecniche del “salvataggio” etnografico. Dead Birds di Robert Gardner Mauro Bucci

I film documentari realizzati prima degli anni Cinquanta che sono spes­ so oggetto di studio nell'ambito dell'antropologia visuale, consistono in opere prodotte per un pubblico cinematografico, racconti romantici di culture esotiche, e in filmati girati dagli antropologi come supporto alle ricerche scritte o materiale da archiviare per il futuro. Nel primo ca­ so abbiamo documentari articolati a livello narrativo come Nanook of the North ( 1922) oppure Moana: A Romance of the Golden Age (1926) di Robert J. Flaherty, che descrivono una tradizione diversa impiegan­ do gli strumenti offerti dal linguaggio cinematografico ma senza pre­ tese di scientificità perché realizzati per motivi personali o commer­ ciali. Nel secondo caso, invece, antropologi come Alfred C. Haddon, Franz Boas e Margaret Mead utilizzano la cinepresa per documentare culture altre in modo da conservarne una testimonianza visiva o per raccogliere materiale da impiegare per successive analisi. I filmati han­ no qui una funzione strumentale alle tesi dell'antropologo: non viene costruito un discorso filmico complesso come nel lavoro di Flaherty o nel cinema documentario in generale, perché il girato quasi mai viene montato e quando in seguito questo accade è a scopo principalmente il­ lustrativo o didattico, per fornire un sostegno visivo alle teorie esposte dal commento (Henley. 1998, 44-45). In America, la produzione di un cinema che combinò all’indagine antropologica le convenzioni affermatesi in campo cinematografico, avvenne soprattutto grazie all’opera di Robert Gardner e del Film Stu­ dy Center e dei cineasti e ricercatori che gravitarono attorno a questa giovane ma vitale istituzione fondata nel 1957 all’interno del Peabo­ dy Museum of Archaeology and Ethnology della Harvard University. Gardner, con una formazione accademica da antropologo e da autodi­ datta nel campo del cinema, si affermò come regista nel 1964 grazie

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a Dead Birds, film girato presso la popolazione Dani della valle del Baliem nel corso di una spedizione etnografica sugli altipiani della Nuova Guinea occidentale. Tra i membri della ricerca figurarono Karl G. Heider, un antropologo, Eliot Elisofon, un fotografo professionista, Peter Matthiessen. uno scrittore, Jan Broekhuijse, un sociologo e Mi­ chael Rockefeller come addetto alla registrazione del suono e foto­ grafo. L’impresa coinvolse un’équipe composta da diverse persone, ciascuna con un differente incarico da svolgere in prevalenza in mo­ do autonomo. Il progetto era quindi organizzato secondo un modello di spedizione scientifica pluridisciplinare tipico del XIX secolo ed im­ piegato per la prima volta in ambito antropologico nel 1898-99 da Haddon, nella sua esplorazione delle culture isolane dello stretto di Torres. Tuttavia, come nota Heider (2001,63). a differenza delle pre­ cedenti ricerche etnografiche, quella di Gardner aveva un orientamento marcatamente umanistico considerata l'area di ricerca dei componen­ ti principali del gruppo. Dead Birds fu la prima importante opera do­ cumentaria di cui Gardner ebbe la completa responsabilità. In prece­ denza la sua attività cinematografica riguardò, infatti, due cortome­ traggi etnografici sugli indiani Kwakiutl dell’America del nord (ispi­ rati dalla lettura di Patterns of Culture di Ruth Benedict), un corto­ metraggio sull’artista Mark Tobey ed il film The Hunters (Marshall, 1957), sui Boscimani del Kalahari, a cui collaborò in qualità di assi­ stente al montaggio. La spedizione Harvard-Peabody si svolse, compresi i sopralluoghi, tra i mesi di Febbraio e Agosto del 1961 e le sue fasi sono ampiamen­ te documentate dagli scritti di Gardner che ritornano più volte sull’ar­ gomento1. La richiesta di svolgere una ricerca scientifica sotto forma di documentario antropologico, giunse al Film Study Center da Victor J. de Bruyn, direttore dell’ufficio degli affari dei nativi della allora Nuo­ va Guinea Olandese. Il controllo coloniale sulla parte occidentale del­ l’isola durò fino agli inizi degli anni Sessanta. L’amministrazione olan­ dese contribuì al finanziamento del progetto che venne inquadrato co­ me uno studio delle culture autoctone prima che queste scomparissero o venissero irrimediabilmente alterate dalla presenza occidentale in­

1 La spedizione è da Gardner descritta, con diversa ampiezza, nei saggi Chroni­ cles of the Human Experience: Dead Birds ( 1969). On the Making of Dead Birds {1972). The More Things Change ( 1992) e nei volumi Gardens of War. Life and Death in the New Guinea Stone Age (1968), The Impulse to Presene. Reflections of a Film­ maker (2006). Making Dead Birds. Chronicle of a Film (2007).

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tenzionata a “civilizzare” i nativi pacificando l’area dalle continue guer­ re rituali2. Gardner era a conoscenza della mancanza di studi sulle zone che avrebbe visitato e di come la spinta alla modernizzazione promossa dal governo coloniale e l’opera dei missionari stessero avviando rapidi cambiamenti presso le diverse comunità locali. Considerata quindi rimportanza e l’urgenza dell’indagine, egli sentì la necessità di predi­ sporre ogni aspetto della spedizione e raccogliere più informazioni pos­ sibili prima della partenza. Gardner rifletté accuratamente sul genere di documentario che intendeva realizzare e sul tipo di popolazione indi­ gena che voleva filmale, oltre ad occuparsi della scelta degli studiosi, dell’attrezzatura e delle questioni logistiche necessarie alla ricerca. Benché il progetto venisse in seguito modificato adattandolo alle con­ dizioni di vita incontrate presso i Dani, questo conservò in buona par­ te le idee da Gardner elaborate prima delle riprese. Uno degli aspetti più importanti su cui concentrarsi era quello di individuare una comunità indigena il più estranea possibile ai contatti e alle influenze dell’Occi­ dente: Gardner era intenzionato a documentare, in accordo con gli obiettivi dell’amministrazione olandese, quelle che dal suo punto di vi­ sta erano delle autentiche tradizioni locali prima che venissero inevi­ tabilmente conformate a modelli stranieri. Questo fine della spedizio­ ne emerge chiaramente dai suoi scritti:

I was looking above all for a society functioning fully indigenously. This meant finding a group sufficiently remote from governmental and missionary activities to have escaped the kinds of influence which would have led to significant social or technological change (Gardner. 1969. 343). Egli sottolinea come il conseguimento di tale obiettivo fosse tal­ mente importante da determinare la scelta dell'area da studiare: «I was so intent upon finding a remote and fully traditional society that my mind was still open to the possibility of working anywhere in West New Guinea» (Gardner, 1972, 32): in modo da non perdere l’opportu­ nità di rilevare tradizioni destinate a cambiare rapidamente come, per esempio, era accaduto con il popolo degli Asmat che durante il viaggio in Nuova Guinea aveva escluso come possibile oggetto del proprio do2 Ai fini politici, lo studio dei gruppi indigeni era funzionale a non cedere il con­ trollo della parte occidentale della Nuova Guinea allTndonesia. facendo leva sulle dif­ ferenze culturali esistenti tra le loro popolazioni.

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cu mentario anche per i segni del contatto col mondo occidentale or­ mai, a suo avviso, troppo evidenti: It is an enormous pity that no major film has been made of these peo­ ple. In 1961 all the elements of tribal life were fully functioning though the first signs of change were already apparent. [...] the purist in me re­ coiled at the highly visible and frequent visored cap. Heineken BeerTshirt and the cast-off police clothing which was so prized by the Asinai men (Gardner, 1972,32). L'esigenza di documentare tradizioni indigene prima che queste scompaiano o vengano “contaminate" dall’incontro con tratti cultura­ li provenienti da società sensibilmente diverse non è nuova nel campo dell’antropologia ma radicata in profondità nella storia della discipli­ na. Dead Birds rappresenta un caso esemplare attraverso cui esamine­ remo questa prospettiva di ricerca in ambito visuale. Per osservare co­ me nel cinema di matrice antropologica si esprima l’etnografìa cosid­ detta di salvataggio, prenderemo in considerazione, inoltre, opere di periodi diversi di Gardner assieme a quelle di altri autori. Ci occupe­ remo del tipo di rappresentazione della cultura generato da questo ap­ proccio ed indicheremo, in alcuni casi, il suo effetto politico sulla realtà sociale dei nativi. Prima di analizzare come il “salvataggio" di culture indigene si possa configurare in una ricerca condotta con il mez­ zo filmico, è importante, però, identificarne le origini e le ragioni al fine di comprendere il tipo di lavoro prodotto dallo studioso orientato da questo paradigma.

L'etnografia di “salvataggio" e l'ideologia delle culture in via di scomparsa

Jacob W. Gruber ( 1970) analizza le ragioni culturali e socio-politiche che, nel XIX secolo, indussero gli studiosi a focalizzare l’attenzione sulle culture indigene considerate in via di scomparsa e parla a tal pro­ posito di ethnographic salvage. Egli sostiene che in questo periodo emerse una consapevolezza più profonda delle differenze umane e si sviluppò una forte sensibilità per la raccolta di dati su quelle popola­ zioni del mondo di cui si temeva l'estinzione a causa dell'espansione coloniale occidentale. Di fronte alla diffusione, considerata inevitabi­ le, della civilizzazione, si avvertì in tutto il secolo la necessità di un'azione scientifica volta a preservare una memoria di ciò che stava

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andando irrimediabilmente perduto, fornendo, così, esperienze e ma­ teriali che divennero la base della successiva ricerca antropologica (Gruber, 1970, 1294). Tale prospettiva sollecitò la raccolta sistematica di dati, la collezione di oggetti e la produzione di una vasta documen­ tazione scritta delle pratiche tradizionali. Anche in molti studi etno­ grafici del secolo seguente è possibile ritrovare questo presupposto. In Argonauts of the Western Pacific, Bronislaw Malinowski sostiene l’im­ portanza dei rilevamenti sul campo e dell’elaborazione del dato etno­ grafico perché «[...] our final goal is to enrich and deepen our own world’s vision, to understand our own nature and to make it finer, in­ tellectually and artistically» (Malinowski. 1922. 517-518). Egli conti­ nua affermando che solamente grazie allo studio e alla capacità di ca­ pire il punto di vista dell’Altro e all’abbandono dell’abito culturale cui siamo abituati dalla nascita è possibile, infatti, conoscere fino in fon­ do noi stessi e la realtà in cui viviamo. Malinowski, però, conclude la sua riflessione manifestando il timore di mancare questi importanti tra­ guardi scientifici se il lavoro di ricerca non si svolgerà in tempi brevi. Nella premessa del libro, si rammarica, infatti, di come proprio nel mo­ mento di sviluppo dell’etnologia il suo oggetto di studio, le comunità indigene appartenenti ad aree selvagge, finirà, a suo avviso, per scom­ parire nell’arco di un paio di generazioni (Malinowski, 1922, XV-XVI). Nel documentare tradizioni prima che sia troppo tardi, l’impulso a preservare 1’“autenticità” di popolazioni indigene dai cambiamenti che i rapporti interculturali inevitabilmente portavano con sé, favorì una descrizione etnografica volta a presentare un’immagine statica del­ l’esistenza dei nativi. Il tentativo di celare le influenze o i mutamenti causati da elementi considerati estranei alla loro cultura, in particolare occidentali, portò lo sguardo degli antropologi a rivolgersi in diversi casi al passato, producendo un ritratto della comunità altra cristallizzato in situazioni o pratiche non più attuali. Per esempio, negli scritti di Ma­ linowski sugli abitanti delle Trobriand, i riferimenti al cristianesimo sono quasi assenti nonostante la chiesa metodista fosse qui presente sin dall’ottocento, inoltre questi consistono in prevalenza in velati giu­ dizi negativi che suggeriscono il coinvolgimento dei missionari nella di­ sgregazione dell’originaria cultura locale (Whitehouse, 2006, 296297). Anche la Mead identificava nella documentazione delle tradizio­ ni indigene in declino un importante obiettivo dell’antropologia. Come spiega in uno dei suoi interventi più rilevanti per l’antropologia visua­ le su cui ritorneremo in seguito, ella riteneva responsabilità della di­ sciplina preservare una documentazione dei costumi in via di scom­

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parsa come sapere scientifico e futura memoria per le nuove genera­ zioni locali nell’eventualità che un giorno decidessero di riscoprire o di ri appropri arsi del loro retaggio (Mead. 1975, 8-9). Da qui l'interes­ se verso tradizioni ritenute parti peculiari della cultura di un popolo perché appartenenti a un periodo privo di “contaminazioni" esterne. Per James Clifford (1987, 160-161), questo modello, che identifica come the salvage paradigm, ha informato la raccolta di materiali da tradizioni ritenute in pericolo, portando gli studiosi alla ricerca di un'“autenticità" che esisteva solo in un tempo “tradizionale”, cultu­ ralmente immobile, diverso da quello del mondo industrializzato. Clifford, infatti, sostiene che Marginal, non-western groups constantly, as the saying goes, ‘enter the modern world’. And whether this entry is celebrated or lamented, the price is always that local, distinctive paths through modernity vanish. These historicities are swept up in a destiny dominated by the capital­ ist West and by various technologically advanced socialisms. What's different about peoples seen to be moving out of ‘tradition’ into ‘the modern world’ remains tied to inherited structures that either resist or yield to the new but cannot produce it (Clifford. 1987. 161).

Nelle rappresentazioni orientate dal “salvataggio" etnografico, alle culture cosiddette primitive è riconosciuta solo la possibilità di ripete­ re le loro antiche usanze, se rimangono isolate, oppure di perdere la lo­ ro identità, se entrano in contatto con modelli culturali diversi. La pos­ sibilità di una propria storia è, di conseguenza, negata. Sebbene, come abbiamo visto, ricerche di questo tipo abbiano por­ tato alla raccolta di molti dati da culture diverse permettendo nell'Ot­ tocento all’antropologia di svilupparsi come scienza e riflessione sul­ l’uomo, il limite di tale approccio risiede nell’ignorale le conseguenze spesso rilevanti sulle società studiate che provengono da tradizioni al­ tre e la capacità di una cultura di metabolizzale nuove esperienze, in­ tegrandole nei moduli correnti della propria esistenza. Infatti, sempre a proposito delle ricerche condotte alle isole Trobriand, un importante aspetto (cui Malinowski non ha mai dato adeguato peso nel suo lavo­ ro) era che gli abitanti di queste zone assorbirono la cultura cristiana in­ tegrandola nella loro stessa tradizione, intrecciandovi, per esempio, ele­ menti provenienti da riti e pratiche autoctone e viceversa (Whitehouse, 2006, 297-299). Inoltre, come nota Clifford (1986. 112). la cultura lo­ cale non è affatto scomparsa ma. diverso tempo dopo Malinowski, è stata oggetto di ulteriori ricerche e i nativi si sono appropriati di usan­

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ze occidentali come dimostra, per esempio, il documentario Trobriand Cricket: An Ingenious Response to Colonialism* dove uno sport intro­ dotto dal colonialismo viene rielaborato sulla base di tradizioni locali. Nella cultura spesso si innescano, come reazione, dinamiche di assi­ milazione ed opposizione che portano a relazionarsi in maniera dialet­ tica con realtà diverse dalla propria. Nel “salvataggio", invece, il rac­ conto orale degli eventi passati acquista molta importanza perché spes­ so è ritenuto l'unica via praticabile per ottenere una documentazione di quelle tradizioni distintive di una cultura che la modernità ha cancella­ to o compromesso. La Mead nota, infatti, come Much of the fieldwork that laid the basis of anthropology as a science was conducted under conditions of very rapid change, where the field­ worker had to rely on the memory of the informants rather than upon observation of contemporary events. The informant had only words in which to describe the war dance that was no longer danced, the buffa­ lo hunt after the buffalo had disappeared, the discontinued cannibal feast, or the abandoned methods of scarification and mutilation (Mead, 1975,5).

L’immagine della cultura indigena che quindi ne deriva è una “rie­ vocazione", basata spesso sulle memorie dei componenti più anziani della società, di modelli passati, di un tempo inalterato ma ormai tra­ scorso che è stato spesso e con modalità differenti, chiamato “presen­ te etnografico".

// “salvataggio” di tradizioni indigene e la rappresentazione visuale

Queste istanze si presentano anche nell'ambito dell'antropologia vi­ suale (la cui origine si intreccia alle prime ricerche sulle culture del­ l'uomo) andando ovviamente ad esprimersi attraverso gli strumenti propri di questa sottodisciplina. L’orientamento esistente negli studi antropologici volto a preservare le tradizioni considerate sul punto di scomparire, trovò infatti nei mezzi di registrazione del “reale" un vali­ do strumento per conseguire questo scopo.

3 Kildea. Leach. 1976.

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Nella spedizione etnografica del 1898-99 nello stretto di Torres. Haddon si avvalse per la raccolta di dati della macchina fotografia e della cinepresa nonostante le difficoltà dovute al trasporto delle in­ gombranti attrezzature e alla conservazione della pellicola in un clima tropicale. Egli affermava come il colonialismo, i missionari e i com­ merci portassero alla scomparsa di costumi e credenze locali in diver­ se parti del mondo, quindi, in una prospettiva di ricerca scientifica, al­ la perdita di importanti materiali di studio aggravata oltretutto dall'in­ differenza di quanti non si muovevano per documentarli mentre erano ancora in tempo (Haddon, 1898, XXIII). Haddon avvertiva l’urgenza di salvare una memoria di queste tradizioni e per registrare nei suoi film attività ormai in disuso non esitò a ricorrere ad una loro ricostruzione, eseguita dai nativi, davanti alla cinepresa. Come sappiamo, in ambito scritto l’antropologia ispirata dal “sal­ vataggio" si affidava spesso ai resoconti fatti dagli indigeni di pratiche non più attuali per descrivere le attività considerate dai ricercatori tipi­ che della loro cultura. La stessa esigenza di documentare tradizioni “autentiche" ritorna naturalmente anche in quella che a posteriori ver­ rà definita antropologia visuale ma la risposta che viene data all’im­ possibilità di osservare direttamente questi eventi coinvolge qui i di­ versi mezzi di comunicazione: non si ricorre a racconti di situazioni passate ma ad una loro ricostruzione per conservarne, invece di una memoria scritta, una documentazione filmica o fotografica. Quando necessario, le ricostruzioni di questo tipo erano eseguite anche da Franz Boas che, impiegata più volte la fotografia nelle sue indagini etnogra­ fiche, si dotò nel 1930 di una cinepresa 16mm e di un fonografo a ci­ lindri di cera per i suoi ultimi rilevamenti sul campo presso gli indiani Kwakiutl della Columbia Britannica, in Canada. Jay Ruby rileva che le modalità di registrazione filmica riflettevano le teorie ed il metodo di indagine della cultura seguiti da Boas e tipici del suo periodo, che ten­ devano ad isolare dai loro contesti i singoli comportamenti, la cui ana­ lisi avrebbe consentito di rivelare gli schemi sociali che li informava­ no. Inoltre anche per Boas una delle ragioni dell’utilizzo degli stru­ menti di registrazione e della messa in scena era salvare una docu­ mentazione delle tradizioni indigene (Ruby, 1980, 8). La stessa Mead, assieme a Gregory Bateson, impiegò nelle sue ricerche sull'isola di Ba­ li la macchina fotografica e la cinepresa come strumenti integrativi del­ l’etnografia scritta pubblicando nel 1942 il libro Balinese Character: A Photographic Analysis e circa una decina di anni dopo sei film in cui veniva descritto ed interpretato il comportamento dei nativi alla luce

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degli studi condotti. Le opere si configurano soprattutto come uno stu­ dio della cultura balinese con particolare attenzione alle relazioni fami­ liari e all'apprendimento infantile. I brevi documentali servivano a sup­ portare le ricerche condotte per permettere una comprensione migliore e più completa dei comportamenti e delle pratiche indigene e preser­ varle prima che scomparissero. L’interesse della Mead per l’antropolo­ gia di “salvataggio” è chiaramente espresso nella sua nota introduzione al volume Principles of Visual Anthropology, che raccoglie essenzial­ mente gli interventi dell’International Conference on Visual Anthropo­ logy tenutosi a Chicago nel 1973 in occasione del IXth International Congress of Anthropological and Ethnological Sciences. In questa se­ de fu presentata anche una risoluzione per la documentazione delle cul­ ture in via di scomparsa attraverso l’utilizzo del film. Nel libro, curato da Paul Hockings e pubblicato due anni dopo il congresso, la Mead ri­ leva amaramente come nello studio delle culture l’importanza di im­ piegare i dispositivi cinematografici come memoria duratura di com­ portamenti destinati a svanire, spesso non venisse ancora compresa: Department after department and research project after research proj­ ect fail to include filming and insist on continuing the hopelessly in­ adequate note-taking of an earlier age, while the behavior that film could have caught and preserved for centuries [...] disappears - dis­ appears right in front of everybody’s eyes (Mead. 1975, 4-5).

Il parere entusiastico della Mead riguardo al documentario di Gard­ ner Dead Birds, derivava quindi dall’impiego dei mezzi cinematogra­ fici per raggiungere questo obiettivo, ignorato da molti antropologo e dalla capacità del film di dare vita al ritratto dei nativi: The filming of Dead Birds is a major anthropological event, compara­ ble in its importance to such other anthropological events as the Torres Straits Expedition, the Jessup Expedition, or the publication of The Argonauts of the Western Pacific, Patterns of Culture, or The Children of Sanchez - a genuine breakthrough in our capacity to record and to communicate. The events portrayed [...] have all been reported many times by eye witnesses, without a camera, and by informants who have tried to put the intensities of their vanishing culture into words. In Dead Birds, that culture is before one’s eyes - vivid, inescapable, palpable (Mead. 1964. 14).

Per il lavoro svolto con la cinepresa, Paul Henley ( 1998,44-45) an­ novera Haddon, Boas e la Mead tra i precursori dell’antropologia fil­ mica. Come abbiamo visto, la loro attività produsse registrazioni visi-

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ve da impiegare per fini di ricerca e conservazione e a sostegno, so­ prattutto, del costrutto teorico verbale; oltre ad essere ispirata dall’idea di salvare una rappresentazione della tradizione indigena attraverso il mezzo cinematografico.

Modi di rappresentazione e ‘'autenticità" della cultura nel film etnografico

L’etnografia “d’urgenza" si espresse in opere organizzate a livello nar­ rativo e basate su convenzioni cinematografiche in grado di produrre di­ scorsi filmici articolati, attraverso diversi procedimenti volti a fornire quella fotografia autentica della vita degli indigeni fin qui descritta. Tra i metodi seguiti vi fu il ricorso alle ricostruzioni, che già conosciamo e che venne impiegato, per esempio, in film come Nanook e Moana mentre, in tempi meno lontani, in Desert People (Dunlop, 1966) e nel­ la serie Netsilik Eskimo (Brown, Young, 1967-68). In questi documen­ tari. specifici tratti oppure interi stili di vita passati sono ricostruiti dai nativi in accordo con le esigenze del cineasta. La pratica della rappresentazione a posteriori può riguardare oltre all’intervento sul profilmico anche la selezione della realtà da ripren­ dere e le modalità di montaggio delle immagini. Il cineasta può esclu­ dere quegli elementi considerati non tradizionali raffigurando gli even­ ti come egli ritiene si fossero svolti abitualmente in passato. Un esem­ pio di questo tipo è la descrizione dell'antico rituale vedico dell’t/g/?/cayana in Altar of Fire, documentario del 1976 girato da Frits Staal in collaborazione con Gardner presso i bramini Nambudiri di Kerala, in India. I riferimenti all’evento sociale o politico legato alVagnicayana e quasi ogni elemento riconducibile a un’idea di modernità della vita dei sacerdoti indiani è escluso dal documentario. Nell'opuscolo di ac­ compagnamento al film, è commentato in questo modo l’abbigliamen­ to indossato dai presenti durante le riprese: Some film footage was spoiled or its use made impossible by these ful­ ly dressed people, who contrasted sadly with the Nambudiris in their white loincloths, themselves disfigured only by an occasional wrist­ watch (Paul, 1978. 198).

L’obiettivo principale del “salvataggio" etnografico nell’ambito del­ l'antropologia scritta e visuale è ovviamente lo stesso, quello di pre­ servare l’eredità specifica di una cultura prima che questa scompaia.

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I metodi seguiti nel cinema di carattere antropologico per raggiungere questo scopo riguardano spesso, a livello fìlmico, la selettività dello sguardo e l’attenzione rivolta al passato appena descritte. L’approccio adottato nel rapporto con i soggetti osservati, può invece variare sensi­ bilmente: alcuni cineasti per ottenere una rappresentazione degli au­ tentici costumi locali collaborano con i nativi per una loro ricostruzio­ ne o riattivazione mentre altri, al contrario, cercano questa “purezza” di tradizioni e di comportamenti evitando di intervenire direttamente negli eventi osservati per mantenerli più isolati possibile da influenze esterne. L’impostazione metodologica prodotta dal “salvataggio” è presen­ te nel lavoro di Gardner e coinvolge, come vedremo, sia il rapporto con i nativi sia le scelte filmiche adottate per la realizzazione di Dead Birds. La decisione maturata presso il Film Study Center di produrre do­ po The Hunters un nuovo film etnografico, si inseriva in una progetto di ricerca che mirava alla realizzazione di una serie di opere docu­ mentarie riguardante le forme basilari di adattamento dell’uomo al pro­ prio ambiente: With a film on a primitive hunting society already available [The Hunters], it seemed appropriate to think in terms of one about an agri­ cultural group. Then at least two of the three basic ecological patterns of human society would have been documented. Material I have gath­ ered on three pastoral societies in Ethiopia will be released as three full-length films early in 1970 (Gardner, 1969. 342). Una funzione riconosciuta al “salvataggio” e alla raccolta sistema­ tica di dati e materiali sui modi in cui gli individui si comportano e ri­ spondono all’ambiente in cui vivono, è stata anche quella di consenti­ re una visione più profonda della condizione umana. Già nell’Ottocento si avvertiva, come osserva Gruber, la necessità di salvare una memoria delle diverse tradizioni indigene poiché solamente esami­ nando la varietà con cui l’uomo aveva pensato se stesso e il proprio mondo era possibile arrivare ad una conoscenza dell’essere umano in quanto tale. La mancata documentazione di mondi lontani avrebbe si­ gnificato rinunciare a questa opportunità, di comprendere meglio anche l’identità dell’occidente (Gruber, 1970, 1297-1298). In Dead Birds, come in molti altri documentari di Gardner, la rappresentazione etno­ grafica è indirizzata verso obiettivi analoghi. Il film, oltre a descrivere la cultura materiale, le credenze magico-spirituali, i riti e simboli indi­ geni, consente di interpretare la realtà dei nativi per giungere a con­

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clusioni che interessino l’umanità in generale. Gardner ritrae in Dead Birds una società Dani strettamente legata al proprio ambiente, sia nel­ le attività materiali sia in quelle simboliche, lasciando intendere che grazie allo studio di persone così vicine alla natura sia possibile rag­ giungere verità di portata universale (Kirsch, 2010, 5-6). Si indaga il rapporto tra individuo, morte e violenza superando il significato attri­ buitogli dalla cultura locale per alludere a inquietudini ed esigenze profonde che riguardano ogni persona. Dead Birds mostra come la pra­ tica della guerra rituale serva presso i Dani a misurare l’aggressività umana e ad esprimere una forma di controllo su un evento ineludibile come la morte. Attraverso l’esame di questi processi è per Gardner pos­ sibile ottenere una migliore comprensione di come l’uomo si rapporti con la violenza incanalandola in specifiche forme culturali, permet­ tendo così di riflettere anche sui conflitti vissuti dalla propria società: «[Dead Birds] if it is successful, it should speak about human violen­ ce every where - not simply in a remote mountain valley of New Gui­ nea» (Gardner, 1964, 14). La descrizione di una guerra rituale intrin­ seca al modo di vita delle culture indigene coinvolge, però, anche un di­ scorso di potere sotteso al modello ideologico del “salvataggio". La rappresentazione etnografica di una società belligerante “per natura" e costretta in tradizioni inalterate e ripetitive ha fornito la giustificazio­ ne morale agli interventi del colonialismo e dei governi nazionali per reprimere le minoranze considerate incapaci di raggiungere un’esi­ stenza pacifica e collocarsi autonomamente in un moderno processo di sviluppo. La scomparsa di stili di vita “arretrati" in alcuni casi viene ce­ lebrata come affermazione del progresso mentre in altri denunciata co­ me perdita di quei valori genuini che solo le società primitive a contatto con la natura sono in grado di conservare. In entrambe le prospettive, la scomparsa delle tradizioni, causata spesso dall’intervento di un po­ tere più forte, è però considerata inevitabile. Questa visione dell’Altro ha fornito la giustificazione per politiche colonialistiche di genocidio, verso popolazioni che nell'immaginario collettivo apparivano già de­ stinate a scomparire (Rony, 1996. 90-91). In tali frangenti l’unico ge­ sto possibile è preservare una memoria della cultura che si sta spe­ gnendo. Questo compito spetta, in un’ottica di “salvataggio" etnogra­ fico, a un soggetto esterno, all’antropologo, che con la sua autorevo­ lezza scientifica può rappresentare quella che si dà per scontato essere una società più debole e bisognosa d’aiuto, la cui descrizione è inevi­ tabilmente legata a ciò che di essa è ritenuto più importante, vale a di­ re il suo passato (Clifford, 1986, 113). Per Stuart Kirsch immagini di

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tribù perdute e popolazioni incontaminate come quelle dei Dani in Dead Birds, contribuiscono alla costruzione e alla sedimentazione di stereotipi che persistono ancora oggi ed influenzano negativamente le politiche locali: l’idea dei nativi della Papua occidentale dediti per istin­ to alla guerra o alla violenza è diventato, per esempio, un argomento usato dalla politica indonesiana per giustificare la brutalità delle azio­ ni militari nella provincia (Kirsch, 2010). La ricerca, inoltre, di un’origine incontaminata della cultura indi­ gena dipende, in alcuni casi, da un’esigenza comparativa che rinvia ad una visone epistemologica piuttosto rigida di chiara ascendenza evoluzionistica: per comprendere l'Europa, in particolare la storia del suo progresso, si rendeva necessario studiare i primitivi che rappre­ sentavano con le loro tradizioni stadi culturali antecedenti a quello occidentale. L’eco di tale pensiero è rilevabile, per esempio, nel do­ cumentario A Man Called "Bee": Studying the Yanoinamo (Asch, Chagnon, 1974) dove l’antropologo Chagnon sostiene che gli Yanomamò dell’America del sud siano, per il loro isolamento, una delle ultime popolazioni grazie a cui è possibile scrutare “nel nostro pas­ sato’’. Clifford sostiene come nella scrittura etnografica la tradizione in via di scomparsa sia oggetto di un particolare indirizzo allegorico ba­ sato sul racconto pastorale che nella cultura occidentale ha una lunga tradizione: questo si configura come una struttura retrospettiva che pro­ muove sentimenti di nostalgia e valori di autenticità verso un mondo passato e irrecuperabile, accessibile ormai solo nel testo (Clifford, 1986, 110-115). Nonostante, infatti, possa in alcuni casi trovare una giustificazione in contesti interessati da forti e violenti cambiamenti sociali, la tematizzazione di tradizioni indigene in via di scomparsa proprio nel momento della loro scoperta da parte dell’antropologo è stata talmente frequente negli studi etnografici da trascendere una rea­ le esigenza di questo tipo per configurarsi soprattutto come costrutto re­ torico (Clifford, 1986, 112).

Dead Birds di Robert Gardner

Considerata la forte spinta al “salvataggio” etnografico che motivava la spedizione Harvard-Peabody, furono scelti come soggetti del docu­ mentario i Dani della valle del Baliem perché dalle informazioni a di­ sposizione di Gardner erano ancora pochi gli occidentali entrati in con­

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tatto con loro a causa degli scontri tra indigeni presenti nel territorio. Egli osserva a proposito di questo luogo: «it was completely Dani and such in all ways as to satisfy my most outrageous requirements of pu­ rity» (Gardner, 1972, 33). Nonostante l’intenzione iniziale fosse quella di realizzare un docu­ mentario basato sulla pratica dell’agricoltura. Gardner rinunciò a que­ sto tema centrale in favore della descrizione della guerra rituale. La coltivazione era, infatti, un’attività eseguita in prevalenza dalle don­ ne e spesso, nei loro gruppi, la presenza maschile non era accettata. Gardner inoltre, era molto colpito dall’importanza che la violenza rivestiva nella vita quotidiana dei Dani:

[...]! was convinced that the topic I had chosen was of such central im­ portance to the whole nature and significance of the Dani world that by treating it exhaustively I had my best chance to illuminate the culture as a whole (Gardner, 1969, 346).

Dead Birds è un documentario che indaga le pratiche di guerra ri­ tuale presso la popolazione Dani. Attraverso questo argomento princi­ pale sono affrontati altri aspetti della loro cultura (le attività agricole, le usanze funebri, le danze cerimoniali, la preparazione del cibo, ecc.) descrivendo in una dimensione olistica l’organizzazione sociale indi­ gena. Il film segue soprattutto tre soggetti: Weyak, un guerriero, Pua un giovane guardiano di maiali e, in misura minore. Lakha. moglie di Weyak. Le immagini sono accompagnate da un commento che descrive ogni situazione rendendola comprensibile e contribuendo alla costru­ zione di un impianto narrativo classico. La protezione del villaggio e l'uccisione di un ragazzino da parte dei nemici determinano il conflit­ to drammatico mentre la conseguente vendetta porta alla conclusione catartica della vicenda. Nonostante la diversità tra le tradizioni locali e quelle occidentali, grazie alla familiarità di questa forma di racconto la cultura non appare allo spettatore distante e aliena ma il ritratto propo­ sto umanizza i nativi rappresentando in modo intenso le loro esperien­ ze. Il titolo del film deriva dal mito Dani che accomuna gli esseri uma­ ni agli uccelli in quanto creature legate dallo stesso destino mortale. Inoltre è un’espressione usata per alcuni tipi di anni, ornamenti e tro­ fei di guerra degli indigeni. Il comportamento della spedizione era volto a preservare il più pos­ sibile lo status quo della popolazione incontrata al fine di registrare quelli che erano considerati i loro originali costumi e le loro abituali

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azioni. Gardner limitò i doni agli indigeni a delle conchiglie, offerte per favorire l’accettazione del suo gruppo, e in seguito a sale, coltelli e accette d’acciaio. Queste ultime assieme ad alcune perline di vetro e qualche pezzo di stoffa rossa erano gli unici segni visibili del contatto tra il mondo occidentale e le genti locali, rilevati da Gardner al suo ar­ rivo. L’aspetto più importante del metodo di rappresentazione seguito, riguarda però la scelta di celare ai nativi il funzionamento dei disposi­ tivi di registrazione visiva, quindi del lavoro stesso svolto da Gardner: «I should point out that, with not only Weyak and Pua but with all of the Dani I filmed, my job was made much easier because no one knew what I was doing» (Gardner. 1972,34). Egli, infatti, decise di non mo­ strare ai Dani alcun tipo di immagine in modo da conservare il più pos­ sibile l’“innocenza” del comportamento dei nativi che ignorando a co­ sa servissero gli strumenti di registrazione visiva, riservavano a questi un interesse simile a quello rivolto agli abiti o altri oggetti portati dal gruppo di studiosi con sé. Durante le riprese fu raccontato ai nativi che lo scopo delle attrezzature era fare vedere più chiaramente, attraverso l’immagine offerta dal mirino, le loro azioni. Gardner, a conoscenza di missionari e antropologi che presentando in buona fede delle fotogra­ fìe a comunità indigene le avevano profondamente turbate, decise di non mostrare alcuna immagine per evitare incidenti analoghi e ottene­ re un ritratto di quello che considerava essere il comportamento auten­ tico Dani (Gardner. 1969. 344). Questa pratica richiama il metodo di registrazione, oggi giudicato sul piano etico inaccettabile dall’antro­ pologia visuale, cosiddetto candid camera dove attraverso diversi espe­ dienti i nativi venivano ripresi senza che ne avessero la consapevolez­ za, evitando quindi che l’attività della cinepresa potesse innescare curiosità e atteggiamenti poco naturali. Il metodo seguito da Gardner presso i Dani si pone quindi in anti­ tesi a quello adottato da Flaherty con gli Inuit. Com'è noto, il regista di Nanook durante la sua permanenza nell’artico canadese descrisse ai nativi il suo progetto, mostrò loro cosa fosse un film e girò ascoltando anche i consigli che da questi gli furono dati. Gli eventi mostrati in Dead Birds, inoltre, non sono il risultato di ricostruzioni del profilmi­ co attuate sotto richiesta del cineasta come invece accade nel lavoro di Flaherty. In alcuni momenti Gardner interviene sulla realtà da filmare per ottenere delle inquadrature migliori, per esempio chiedendo di so­ spendere un’azione per avere il tempo di riposizionare la macchina da presa. Queste operazioni non servono tuttavia per ricostruire usanze della cultura Dani. L’autore di Dead Birds non mutua da Flaherty il

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suo approccio collaborativo ma. a livello intrafilmico. i procedimenti narrativi che gli consentono di descrivere una cultura esotica attraver­ so il punto di vista di pochi individui rappresentati come personaggi e le convenzioni di un racconto classico basato su una progressione drammatica organizzata attorno alla presenza di un conflitto e della sua risoluzione. La didascalia iniziale4 “firmata” da Gardner informa lo spettatore come il documentario mostri una storia vera ed eventi reali perché «no scene was directed and no role was created. The people in the film merely did what they had done before we came [...]». Nono­ stante la struttura narrativa del film prodotta soprattutto dal montaggio e dall’intenso commento faccia apparire ambigua tale dichiarazione, questa concerne il rapporto del cineasta con i soggetti filmati ed evi­ denzia l'intenzione di prendere le distanze da una modalità di rappre­ sentazione basata sulla ricostruzione del profilmico. Inoltre. Heider os­ serva che nonostante Dead Birds impieghi tecniche adottate da Fla­ herty. si differenzi notevolmente dal suo lavoro per il tipo di ricerca dal quale ha avuto origine. La spedizione organizzata da Gardner non ser­ viva semplicemente per realizzare un documentario ma per condurre un'approfondita analisi scientifica da parte di diversi studiosi produ­ cendo, quindi, quel contatto tra cinema ed etnografia che era più vici­ no al lavoro della Mead e di Bateson che non di Flaherty (Heider, 1976, 39-40). Anche se Gardner non chiede di ripetere usanze passate, va ri­ levato che per lo svolgimento della cerimonia sacra warn kanekhé mo­ strata in Dead Birds, i maiali necessari furono pagati, sotto richiesta dei nativi probabilmente in difficoltà nel procurarseli, dai ricercatori. Questo intervento, però, servì a una tradizione ancora in uso di avere luogo. Heider commenta in tal modo l’influenza del suo gruppo sul ri­ to Dani: «[...] 1 have no reason to suspect that our role in the ceremo­ ny significantly altered the performance of the ceremony as seen in the film or on the level I was able to describe it» (Heider, 1976, 95). Con­ siderata, però, la delicatezza della materia, egli sostiene, in generale, la necessità di valutare quanto giustificabile possa essere l’intervento sul­ la realtà indigena tenendo conto del tipo di dati che si intende racco­ gliere e del ruolo svolto dai ricercatori e cineasti nel cambiare o crea­ re il contesto per permettere ad un evento di verificarsi (Heider, 1976, 95-96). Sappiamo che il ricorso alla ricostruzione è spesso motivalo

4 È utile segnalare che la didascalia introduttiva del film è stata rimossa dalla ver­

sione in formato DVD di Dead Binds, distribuita nel 2004.

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nei documentari girati presso altre culture dalla volontà di rappresen­ tare gli aspetti considerati più tradizionali, molte volte ritenuti in via di scomparsa o non più attivi, quindi strettamente connesso al paradigma dell’antropologia di “salvataggio”. Gardner non sceglie questa strada, tuttavia cerca di raffigurare la vita tradizionale dei Dani attraverso il montaggio delle immagini girate. Le riprese realizzate nell’arco di me­ si delle battaglie rituali sono infatti impiegate per mostrare scontri che nella diegesi del film avvengono in singole occasioni in modo da ri­ produrre una tipica battaglia indigena. Questa compressione di eventi, spesso motivo di critica verso il documentario, trova secondo Heider una legittimazione se comparata al lavoro degli antropologi in ambito scritto, dove talvolta la descrizione delle attività tradizionali avviene attraverso una mediazione tra informazioni di vario genere. Egli pren­ de ad esempio Argonauts of the Western Pacific indicando come Mali­ nowski nella descrizione del viaggio dei nativi da Sinaketa a Dobu non si basi su un’esperienza diretta ma, vista la sua buona conoscenza del­ la cultura locale, sull'osservazione di situazioni simili e sulla raccolta di testimonianze da vari trobriandesi, cioè su quella che può essere con­ siderata una ricostruzione dell’evento. Heider, tuttavia, ritiene più sem­ plice per la scrittura produrre generalizzazioni di questo tipo rispetto al film, che a causa del suo legame diretto e particolare con la realtà ren­ de più problematico applicare in maniera soddisfacente tale procedi­ mento (Heider. 1976, 11-14). Possiamo aggiungere, infine, che nonostante un documentario sia, a diversi livelli, inevitabilmente il frutto di operazioni di selezione e interpretazione, la sua relazione indessicale con la realtà registrata può portare a ritenere un intervento mistificatorio la “manipolazione” degli avvenimenti attraverso le possibilità offerte dal linguaggio cinemato­ grafico.

La presenza dell'etno-cineasta e il tempo della rappresentazione Nel film etnografico l’esclusione di elementi che indichino la presen­ za sul campo dell’antropologo o cineasta, ha origine, in diversi casi, dalla stessa premessa che porta a trascurare il ruolo delle influenze oc­ cidentali nelle ricerche scritte ispirate dal “salvataggio”: testimoniare, attraverso l’isolamento, la genuinità dei comportamenti dei nativi, il carattere unico della loro tradizione. Nei film basati su questa idea i ri­ ferimenti agli aspetti della modernità, introdotti anche dal cineasta e

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dalla sua troupe, vengono quindi ignorati dando una rappresentazione degli avvenimenti come se si svolgessero in seno alla più autentica tra­ dizione indigena. Verso gli anni Settanta, tuttavia, diversi film5 inizia­ no a tematizzare le influenze del mondo industrializzato e la presenza di occidentali presso le popolazioni indigene pur rimanendo ancorati ad una immagine idealizzata della cultura: usanze e costumi autentici e tradizionali sono sempre l’aspetto più importante nella rappresenta­ zione delle società altre. I cambiamenti, causati dall’impatto con la ci­ viltà, anticipano o mostrano l'inevitabile scomparsa della tradizione locale, la sua assimilazione nel globale sistema politico ed economico. I film di Gardner non raffigurano la cultura in questo modo ma resti­ tuiscono un’immagine più conservatrice delle comunità indigene in­ contrate. Come sappiamo, nella realizzazione di Dead Birds l’attenzione ri­ volta a descrivere i tratti distintivi della vita Dani, si espresse non sol­ tanto nei rapporti con i nativi ma anche nei modi in cui venne girato e montato il film. In questo sono esclusi i riferimenti al contatto sia con la spedizione di Gardner che con altri occidentali. Anche gli oggetti scambiati con la comunità indigena non sono ritratti nel documenta­ rio. Gardner intende mostrare il comportamento ordinario dei nativi, la presenza di persone diverse non ha importanza nella raffigurazione della loro cultura. Per quanto riguarda invece altri aspetti del film, con il commento frequente e personale, l’elaborato montaggio, lo stile del­ le riprese, i temi affrontati e i simboli impiegati, egli comunica la sua soggettività e interpretazione della cultura locale. L'interesse di Gard­ ner verso una popolazione isolata, lo portò a descrivere i Dani come una cultura situata in un tempo sempre uguale fatto di antiche tradi­ zioni e perenne reiterazione degli stessi riti. La densa didascalia ini­ ziale riferisce come il film sia stato realizzato «in a remote comer of the Baliem Valley». Tuttavia nel periodo della sua attività, le pressioni del governo coloniale erano sempre più forti e avrebbero portato dopo poco tempo a pacificare la zona trasformando le usanze dei nativi. Gardner infatti

[...] was annoyed at missionaries and government officials in the area who seemed set on putting an end to the fighting, and he explicitly

5 Tra questi si possono includere To Live With Heids: A Dry Season Among the Jie ( 1971 ) di Judith e David MacDougall oppure i documentari della serie Disappearing World, prodotti in questo periodo dalla Granada Television.

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wanted to keep the police and army out of the area during the period of filming, as these law enforcers might have had a restraining effect on ‘normal’ tribal behavior (Lopate. 2007. XII). Il metodo seguito da Gardner in Dead Birds viene criticato da Ru­ by ( 1991, 8-10) che ritiene fuor vi ante per la comprensione di una tra­ dizione diversa basarsi sull’assunto che escludendo i segni del contat­ to con l’Occidente e riprendendo i nativi a loro insaputa sia possibile ottenere un’immagine filmica “autentica” della loro società, quando è lecito ritenere che tutti i comportamenti siano “veri”, influenzati o no da un’altra cultura. In Dead Birds, la vita dei Dani è descritta come incontaminata da fattori perturbanti esterni e collocata al di fuori di qualsiasi processo di divenire storico. L'andamento ciclico della narrazione del film (che ini­ zia e termina sul leitmotiv della mortalità umana) e il tema centrale del­ la guerra rituale ripetuta all’infinito per placare gli spiriti dei morti (ogni uccisione esige, infatti, vendetta producendo così un circolo vizioso), sostengono la rappresentazione di una società marcatamente tradizio­ nalista dove, a dispetto dei conflitti, ogni tipo di cambiamento viene escluso. Questo punto di vista rinvenibile in Dead Birds ritorna spesso nel cinema etnografico di Gardner, nonostante la diversità delle cultu­ re osservate e dello stile cinematografico impiegato. In questi film il ritratto che viene fatto delle comunità indigene è molte volte accom­ pagnato da un senso di nostalgia per costumi che si avvertono legati al passato quindi destinati, nonostante l’assenza di segni immediati di cambiamento, a scomparire. Se Dead Birds descrive gli uomini bloc­ cati in un perpetuo ciclo di guerre rituali. Rivers of Sand (Gardner. 1974) rappresenta gli Marnar dell’Etiopia sudoccidentale come prigio­ nieri di ruoli ancestrali dal quale è impossibile svincolarsi e che deter­ minano uno stato di afflizione generale (Cooper. 1995. 36). In questo film è presente una sospensione e ripetitività del tempo che emerge dal frequente inserimento di eventi, suoni ed azioni simili (in particolare le­ gati alla macinazione del sorgo) che appaiono come ritratti o metafore del rapporto conflittuale tra ruoli sociali, tra maschile e femminile che si perpetua da tempo immemorabile e destinato a continuale, nono­ stante rincontro con la modernità preannunciato dal commento a ter­ mine del documentario, per sempre. L’impossibilità di un mutamento delle radicate regole sociali e la sensazione di ripetizione temporale so­ no comunicate invece in Deep Hearts (Gardner, 1981 ) dall'iterazione continua di immagini di danze i cui movimenti sono spesso protratti

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da slow motion, da cantilene e suoni di anelli metallici usati come or­ namenti. che accompagnano in maniera ipnotica molte scene del film e dalla presenza di alcuni rumori di sottofondo che sono rallentati fino a venire trasformati in suoni prolungati ed ovattati talvolta indecifrabi­ li. Deep Hearts ci mostra la preparazione e lo svolgimento presso i Bororo Fulani del Niger centrale del gerewol, una competizione rituale basata su un’accurata decorazione dei corpi maschili, dov’è premiato il giovane dotato di maggiore bellezza fisica e morale. In questo film l’ordinaria progressione del tempo si frantuma: Gardner inserisce, per esempio, danze o musiche della cerimonia durante le immagini di al­ tre attività o mentre i Bororo arrivano nel luogo del suo svolgimento dando l’impressione di un evento avulso da una precisa collocazione spaziale e temporale. I maggiori film di Gardner, Dead Birds, Rivers of Sand, Deep Hearts e Forest of Bliss (1986: qui le attività dell’antica città indiana di Benares sono interpretate come un incessante processo di costruzione e distruzione, di passaggio dalla vita alla morte in un circolo continuo) si distinguono per la rappresentazione di un tempo ciclico, chiuso in se stesso. In particolare Dead Birds, permette di esaminal e come un’ope­ razione di “salvataggio” etnografico possa esprimersi nell’ambito del documentario, restituendo quella rappresentazione cristallizzata della tradizione altra che è stata presente in molte ricerche antropologiche. I film di Gardner hanno tuttavia il inerito di raccontare l’alterità non in modo distaccato ma con uno sguardo vicino alle persone riprese, con­ ferendo umanità e spessore alla loro raffigurazione filmica. I suoi do­ cumentari aprono una finestra su modi di vivere descritti come ancora “intatti” e coerenti dove lo spettatore è coinvolto nell’esistenza dei na­ tivi e, grazie a questa, in riflessioni anche sulle proprie esperienze.

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Gli autori

Mauro Bucci è laureato in Dams (indirizzo cinema) presso l'Universi­ tà di Bologna e diplomato alla Scuola di Etnografia Visiva deiriSFCI di Roma. Si occupa di antropologia visuale, in particolare delle possi­ bilità offerte dal film per lo studio e la comprensione dei diversi aspet­ ti della cultura. Ha pubblicato per la rivista di cinema Bianco e Nero il saggio “ Fore st of Bliss. Esperienza sensoriale e film etnografico'*'. Adriana Destro, Professore ordinario di Antropologia Culturale e di Antropologia delle Religioni, ha pubblicato in anni recenti: Antropo­ logia e religioni, Morcelliana, Brescia (2006): Antropologia dei flussi globali. Strategie dei mondi minimi e locali (a cura di), Carocci, Roma (2006); Femminile e personale. Esplorare mondi in transizione (a cu­ ra di), Carocci. Roma (2010): I volti della Turchia. Come cambia un paese antico, Carocci, Roma (2012). Insieme a M. Pesce ha scritto: Antropologia delle origini cristiane. Laterza, Bari-Roma ( 1995. 2008): Forme culturali del cristianesimo primitivo, Morcelliana, Brescia (2008): Come nasce una religione, Morcelliana, Brescia (2005); L'uomo Gesù. Luoghi, giorni, incontri di una vita. Mondadori. Mi­ lano (2008); From Jesus to his First Followers. Continuity' and Discontinuity, Brill, Leiden (in stampa).

Francesca Ferrucci si occupa delle dinamiche comunitarie e familiari della migrazione transnazionale peruviana in Italia e nella zona costiera del Perù. Ha conseguito nel 2012 il titolo di Dottore di ricerca in An­ tropologia presso l’Università di Bologna con una tesi dal titolo Pro­ cessi ed impatti della migrazione. L'esperienza di chi resta in tre fa­ miglie peruviane. Ha pubblicato «Farsi donne. Migranti peruviane in Italia», in A. Destro (a cura di). Femminile e personale. Esplorare mon­

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di in transizione, Carocci, Roma (2010): «Cuando las mujeres ya no callan. Perspectivas femeninas sobre cambios y continuidades», Thule, Rivista italiana di studi americanistica, n. 30-31, aprile/ottobre 2011, Centro Studi Americanistici “Circolo Amerindiano”.

Zelda Alice Franceschi insegna Antropologia Culturale all’università degli Studi di Bologna. Ha conseguito il dottorato in Antropologia del­ la Contemporaneità presso l'Università degli Studi Milano “Bicocca” (2002). In quegli anni ha sviluppato i suoi interessi per la metodologia biografica e auto-biografica. Lavora dal 2004 nel Chaco argentino con comunità Wichf: si è impegnata in progetti finanziati dal Comitato Uni­ versitario Italia-Argentina (CUIA): ha pubblicato numerosi saggi sul te­ ma della memoria, delle storie di vita e dell’autobiografia per Clueb Storie di vita. Percorsi nella storia delTAntropologia Americana (2006): con Emil/Odoya ha pubblicato Etno-grafie. La scrittura come testimonianza tra i Wichf (2008) e recentemente Razza, razzismo e an­ tirazzismo. Modelli, rappresentazioni, ideologie, 2011.

Sara Pesce insegna Istituzioni di storia del cinema presso l’Univesità di Bologna. Si occupa di studi sull’attore nella tradizione shakespeariana, di film bellico americano e italiano e di studi sulla memoria nell’am­ bito cinematografico e audiovisivo in senso ampio. Nel 2005 pubblica Dietro lo schermo. Gli immigrati ebrei che hanno inventato Hollyw ood (1924-1946), nel 2008 Memoria e immaginario. La seconda guerra mondiale nel cinema italiano, nel 2007 è curatrice e autrice di un’ope­ ra sul melodramma cinematografico: Imitazioni della vita. Il melodramma cinematografico. Ha in corso d'opera una monografia sull’at­ tore inglese Laurence Olivier. Valentina Peveri ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Antropologia culturale presso l’Università di Bologna dove è stata docente di Antro­ pologia politica. Attualmente assegnista di ricerca, ha svolto ricerche sul campo in Etiopia fra 2004 e 2009 e ha pubblicato saggi sulle dina­ miche dei poteri femminili e sui significati indigeni dell’amore, del ma­ trimonio e della maternità in una zona contadina del sud del paese. At­ tualmente sta conducendo ricerche nell’ambito del cibo e della nutri­ zione.

Francesca Sbardella, ricercatrice presso la Facoltà di Lettere e Filoso­ fia dell'università di Bologna, si occupa di antropologia delle religio­

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ni in ambito europeo. Insegna Etno-antropologia delle religioni. An­ tropologia dei sistemi religiosi e Antropologia sociale. Dopo il DEA in Anthropologie sociale et histoire de ('Europe all’École des Hautes Études en Sciences Sociales a Parigi, ha conseguito il dottorato di ri­ cerca in Studi religiosi: scienze sociali e studi storici delle religioni all’Università di Bologna in convenzione di colutela con l’École. E au­ trice di Antropologia delle reliquie. Un caso storico, Brescia (2007); ha curato A ntropologia dell'Europa. 1 testi della riflessione francese, Bo­ logna (2007), con Franco Lai Esperienze etnografiche al femminile. Complicità, osservazione e racconto, Bologna (2011) e con Maria Chiara Giorda Famiglia monastica. Prassi aggregative di isolamento. Bologna (2012).

Finito di stampare da Studio Rabbi - Bologna Luglio 2012