Cinema tra immaginario e utopia
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Maurizio Del Ministro

HfHp Cinema rI tra immaginario e utopia

ombra sonora collana diretta da Guido Aristarco

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Maurizio Del Ministro

Cinema tra immaginario e utopia

edizioni Dedalo

In copertina: Alain Resnais, L'anno scorso a Marienbad (1961). Il giardino.

Copyright © by Edizioni Dedalo spa, Bari 1984 Copertina di Mimmo Castellano Stampato in Bari dalla Dedalo litostampa spa

Gli uomini non possono restare bam­ bini per sempre, devono affrontare la vita ostile. Freud Zivokini era senza voce. I suoi amici scossero il capo con comprensiva com­ passione. « Come potrai interpretare quella par­ te, Vasilij Ignatevic? » Zivokini non si lasciò scoraggiare. Dis­ se serenamente: « Le note che non posso fare con la voce, le farò vedere con le mani ». EjzenStejn, L’inatteso

Introduzione Per una regia del critico

In uno dei suoi studi più indicativi, Walter Binni dichiara che alla sua unitaria e centrale istanza d’interpretazione e ricostruzione dei fatti artistici in tutta la loro connessa storicità peculiare e gene­ rale, sollecitano e rimandano, in diverso modo, alcuni elementi delle tendenze attualmente più vivaci e vistose della critica: storicità so­ ciale dell’opera d’arte, storicità del linguaggio e dello stile. Ma essa si è distinta e appoggiata ad una particolare base di ricerca e ad una prospettiva di studio che respinge la semplice rappresentatività sto­ rica della poesia e la semplice misurazione stilistica dei risultati poe­ tici, il periodo del documentarismo e del formalismo, ed essa tende ad avviare e sostenere un’operazione critica e storiografica unitaria e articolata, attenta alle forze vive dell’ispirazione e del loro concreto alimento vitale, culturale, storico, e alla loro disposizione e tensione a tradursi, attraverso il lavoro espressivo, artisticamente fino al risul­ tato stilistico estremo h

Anche i problemi del film, continua Binni, portano molto al di là delle adempienze del metodo crociano, senza con ciò accettare un’assoluta radicale distinzione del cinema­ tografo, quasi anch’esso non fosse una forma di espressione di sen­ timenti poetici e storici e l’esame dei suoi prodotti non fosse ricon­ ducibile ad un criterio storico-critico, basato sulla considerazione della 7

poetica cinematografica e delle poetiche dei singoli periodi e dei sin­ goli artisti. Anzi, proprio in questo campo un atteggiamento più storico-critico ricondurrebbe a maggiore centralità gli sbalzi eccessivi fra grezzo contenutismo ed esasperato formalismo e potrebbe in parte rifluire dalla critica nella poetica dei registi2. Il pensiero di questo autore consiste in un attuale, concreto ed originale materialismo, intessuto di profonde mediazioni cul­ turali che vanno da De Sanctis a Momigliano, da Russo a Gram­ sci, in una nuova visione e distacco dal sistema crociano: la poe­ tica è sentita come commutatore dell’intero fascio delle espe­ rienze di un autore e la poesia è tensivamente sentita come pro­ dotto non deterministico della poetica. A proposito dell’insegna­ mento di Binni, ha ragione Mario Costanzo quando afferma che la

nozione di poetica e il metodo storico-critico sono essenziali per superare Vimpasse fra strutturalismo, semiologia e tendenze varie del­ le metodologie di matrice marxista e per sostenere un esercizio ade­ guato alle più profonde istanze del materialismo storico e dialettico3.

Sia per superare, aggiungiamo noi, unilaterali interpretazioni di tipo sociologico e psicoanalitico. Da un’ottica marxista, una tensione verso l’opera binniana l’offre il complesso organico studio di poetica sul cinema dei fratelli Taviani compiuto da Aristarco4. In questa monografia, alimentata da vari apporti metodologici (e non solo quelli lukacsiani), viene mostrata la dialettica delle basi e delle fonti cul­ turali, artistiche, sociali, ideologiche, stilistiche dei due registi, nel rinvenimento di alcune « commutazioni », attraverso la con­ siderazione dei vari periodi ed esperienze storiche in cui i film sono stati creati; l’analisi delle singole opere evidenzia una let­ tura che illumina il significato dei segni strutturali e dei relativi concetti. Questo libro si presenta come il risultato più maturo di un lungo processo critico in cui Aristarco si è posto, a diversi gradi, e in diversi contesti, il problema delle poetiche, tanto che Binni5 in una lettera a lui inviata, parlando di « concordanze » e « con­ sonanze » tra le loro pur differenti metodologie, scriveva: Dalla tua rivista possono venire a me, e ad altri, sollecitazioni 8

ad un fecondo ricambio di esperienze fra la critica cinematografica e la critica letteraria [...] molti elementi della tua laboriosa ricerca metodologica e critica hanno pure molte concordanze con molte in­ dicazioni del mio metodo di lavoro e quindi del mio saggio meto­ dologico [...] basti pensare al senso più vero di « poetiche » delle tue « teoriche » cinematografiche, o, fra tanti tuoi scritti, alla tua « in­ troduzione » (soprattutto per le tue osservazioni critiche) al Film come arte di Arnheim6. Anche per noi, che fin dal 1963 abbiamo considerato Fee­ rica, critica e storia letteraria un libro basilare da commutare in campo filmico, lo studio dei registi si presenta come « ricostru­ zione », perché vogliamo scartare anzitutto una pura costruzione arbitraria ed indipendente dai testi e dalla realtà della personalità e della storia, assunti come sollecitazione pretestuosa ad immagini, prive del ‘ momento essen­ ziale ’ della fedeltà e della comprensione 7.

Il momento della comprensione — ribadisce Binni — è essenziale e chi lo sfugge o non l’attua convenientemente, non può non ricadere che nell’impressionismo, nel giudizio tendenzioso e antistorico, nella misurazione esterna, nel semplice adeguamento dell’arte a documento senza valore artistico. Occorre perciò uno studio che parta da

una profonda conoscenza e comprensione dei documenti di poetica di un artista o di un’epoca, dal rilievo delle direzioni di poetica vive in uno svolgimento di poetica personale o nella tensione espressiva di un’epoca o di una corrente letteraria, e così avvìi la ricostruzione intera, la interpretazione e il giudizio della personalità, delle epoche, delle opere, attraverso la comprensione delle particolari direzioni in cui queste sono state imposte e promosse8. Ciò significa per la critica cinematografica la massima dispo­ sizione dei testi, per un continuo vaglio delle poetiche maggiori e minori, compresi anche i film di quei registi che, in modo pur confuso e frammentario, tendono verso una poetica. Tale filo­ logica possibilità di verifica e di salvataggio delle opere, un tempo veramente compromessa, va ed andrà sempre più progre­ dendo con le continue scoperte ed avanzamento dell’elettronica

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con la diffusione dei testi, mediante i videoregistratori e i video­ dischi che permettono (pur nei limiti di una riproducibilità ancora imperfetta, ma che già sta migliorando) una nuova vita al film, per certi aspetti rinverdito da questi strumenti indispensabili, che ci possono fornire vari tipi di cineteche personali e pubbliche. Certo, i film videoregistrati perdono in qualità rispetto alla loro natura originale, anche se, spesso, già sono migliori della riproduzione in pellicola « a formato ridotto »; tuttavia, mediante la consuetudine dei testi a domicilio, confortata dal confronto con gli « originali », visionati in cineteche e in sale di proiezione ad alto livello, lo studioso può lavorare con i vantaggi che han­ no le altre discipline. Si può così giungere a più maturi risultati proprio perché la disponibilità assidua dei testi, incrementata dall’incessante sviluppo delle nuove tecnologie, permette un ar­ ticolato e accurato studio del rapporto poetica-poesia, secondo una metodologia — si badi bene — aperta ad ogni aspetto della ricerca scientifica. In questa esigenza, profondamente interdisciplinare, raffor­ zata da un uso funzionale degli studi critici sugli argomenti trat­ tati, il presente lavoro nasce particolarmente da una lunga con­ suetudine con Poetica, critica e storia letteraria e Storia delle teoriche del film, in un progetto, bisognoso certo di ulteriori svi­ luppi, ma che già chiarisce la nostra tendenza nelle sue linee di complementarietà: il « momento della comprensione » nello stu­ dio di Lang, le analisi di Messaggera d’amore di Losey, Stavisky... di Resnais, All that Jazz di Fosse, Shining di Kubrick e il dise­ gno monografico di Ejzenstejn, costituiscono i modi di una con­ creta proposta per la lettura di testi filmici, che cerca di svi­ luppare a diversi gradì (e soprattutto nel capitolo su Stavisky...) il concetto di regia del critico; e contributi utili per tale proble­ matica sono gli scritti, raccolti in appendice, Il tema della diver­ sità in Pasolini, Losey e Bresson, Il cavaliere elettrico di Pollack e II labirinto e il leone di pietra. Per regia del critico s’intende una tensione conoscitiva verso il testo, considerato come un vero e proprio oggetto biologico, in cui l’analisi del particolare rimanda al « generale » e il « ge­ nerale » al « particolare »: mostrare il rapporto poetica-poesia nelle opere di un regista significa far rivivere, nella immagina­ zione del critico e in quella del lettore, il senso espressivo del 10

film, a dirla con Ejzenstejn, la sua « organicità e pathos » l0, at­ traverso una attenta storicizzazione, sia delle fonti culturali, sia del fascio di esperienze, di cui le immagini o le fono-immagini sono formate. E, in tale ricerca, al di là del fatto metodologico, abbiamo sviluppato, secondo appunto una nostra linea di poetica, le pre­ messe apparse nel precedente lavoro Pirandello, scena, personag­ gio e film 11 : i temi conoscitivi della « diversità », dell’illusoria onnipotenza narcisistica e della follia, della corruzione etico-po­ litica sono accostati al problema della conoscenza materialistica, quale emerge nell’opera di Ejzenstejn. Un contrasto, ci auguriamo fecondo, sostiene il nostro la­ voro: da una parte una visione della realtà sentita come an­ goscia ed immodificabilità e, nello stesso tempo, invece, l’uto­ pia di un cambiamento. La realistica ed insieme fantastica metafora del Pot'èmkin, la vitale immagine del leone di pietra, che si risveglia e infine si solleva, ribellandosi alla funerea re­ pressione della folla sulla scalinata di Odessa, assume nel con­ testo del volume il significato di una emblematica « sfida al la­ birinto »12, in quanto, come ricorda Ejzenstejn, « colui che co­ nosce, è colui che costruisce » B. Maurizio Del Ministro Genova, 20 luglio 1983

Ringrazio l'équipe della Library of Congress di Washington, il Film Archive di San Francisco, {’Istituto di Cultura Francese e, « in memoriam », il cortese Henry Langlois, per avermi dato la possibilità di consultare a Palais de Chaillot i film nella loro edizione originale ed integrale. Una profonda riconoscenza per Giovanni Macchia che, in alcuni illuminanti colloqui, svoltisi sulle tematiche e sulla struttura delle sue opere (Il mito di Parigi e, in particolare, La caduta della luna), mi ha incoraggiato a disporre i saggi in un itinerario interno, secondo la naturale ispirazione che li sostiene.

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I

Lang

Metafisica del male

Nella Storia della letteratura tedesca il Mittner ricorda che nel periodo espressionista si afferma la più dinamica delle arti, ultima in ordine di nascita, il cinema; soltanto dopo il 1914 si può infatti parlare di cinema d’arte. A conti fatti, l’espressionismo tedesco si diffuse nel mondo forse in primo luogo con cinque o sei film dell’incubo, di travolgente originalità, tuttora validi; ed il cinema impose al teatro ed anche al romanzo i propri scenari e procedimenti tecnici, il proprio stile di recitazione mimica, il proprio ritmo narrativo, conquistando di colpo quella supremazia che non sembra più destinato a perdere. Bastereb­ be questo fatto a provare l’importanza eccezionalissima dell’espres­ sionismo *. Al di là della posizione assunta in sede storiografica dal Mitt­ ner circa la datazione dei film d’arte e al di là dei complessi e particolari rapporti tra letteratura espressionista e cinema, per tracciare un nuovo quadro del cinema tedesco, ogni distin­ zione fra « film espressionisti » e « non espressionisti » deve essere controllata puntualmente nelle diverse poetiche, che in­ vestono fittamente il paesaggio cinematografico germanico fra

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le due guerre. Il problema della corrente espressionista del resto è tuttora non risolto anche nelle altre arti, sia il teatro, sia la pittura e la musica, anche se, negli ultimi anni, un interesse mag­ giore e strumenti di analisi più compiute non sono mancati. Un’esigenza di chiarificazione diviene particolarmente neces­ saria di fronte a un periodo complesso come « l’espressionismo », in cui Paolo Chiarini riconosce giustamente « la presenza di un clima comune » e « una koiné ideologica la quale, per quanto contraddittoria e apparentemente disorganica, è invece ricondu­ cibile ad un denominatore comune che ha le sue radici in un atteggiamento mentale unitario »2. Tuttavia il critico avverte che siamo di fronte non a un movimento o ad una scuola, con un programma preciso ed organico o con una poetica coerentemente e univocamente artico­ lata, bensì ad una corrente che, sgorgata dalle ricche fonti culturali della cultura tedesca alla svolta del secolo (Impressionismo, Simboli­ smo, Neo-romanticismo) venne a poco a poco mutando la direzione del proprio cammino e alimentandosi per via di sempre nuovi affluenti.

L’espressionismo cinematografico, analogo per diversi aspetti a quello letterario, deve essere studiato non come « categoria generale » o come un « unico stile », ma per mezzo di una mi­ nuziosa storicizzazione delle singole poetiche, nel modo con il quale Franco Croce ha proceduto per il Seicento, « ricostruendo un quadro folto e vivo delle poetiche barocche nella loro varietà, meglio di quanto si potrebbe fare con un esame generale della categoria barocca o dell’unico stile barocco, colti nella loro ultima realtà e non riattinti nella loro genesi e articolazione »3. D’al­ tronde la mancanza o la difficoltà di recupero dei film è una delle varie ragioni che ha reso, in genere, così insoddisfacente lo studio del cinema espressionista nelle sue varie fasi, nella valutazione etico-estetica del rapporto poetica-poesia. La critica ha dovuto infatti lavorare su opere di alcuni registi, maggiori e minori, talvolta analizzate con sensibilità, senza tuttavia riportarle dialet­ ticamente ai vari centri motori delle singole poetiche. La saggistica vive in un contesto per lo più teso ad una analisi figurativa delle opere, si pensi a Lo schermo demoniaco 4 di Lotte H. Eisner, o eticamente legato soprattutto ad una con­ 14

cezione di limitata valutazione psicologico-sociale, come il lavoro pur meritevole di Siegfried Kracauer, Cinema tedesco5. Un autore, ad esempio, quale Fritz Lang, oltre ad essere verificato nella prospettiva che va da Caligari a Hitler, deve essere analizzato nell’arco della sua poetica. Fin dai Ragni (Die Sipnnen, 1919), l’unica fra le prime opere rimasteci, che ha per argomento gli intrighi di una associazione criminale internazionale, sono chiare le caratteristiche del regista, ma il significato del film si precisa soprattutto nel più noto Destino (Der Miide Tod, 1921), ove tre episodi, che hanno per sfondo una ambigua città musulmana, una insidiosa Venezia ri­ nascimentale, una crudele Cina fantastica, divengono pretesto per una narrazione simbolica al cui centro sta il mondo dell’ol­ tretomba che con il suo fato condiziona la fragile vita degli uo­ mini. Il personaggio allegorico del patibolare « Angelo della morte » è inteso come stanco custode di un destino malefico contro cui lotta inutilmente una umanità innocente, indifesa e infine vittima. In questa opera, dalla struttura fiabesca, sono evidenti i tratti caratteristici di Lang e la centralità del suo tema principale: la realtà viene concepita dal regista come tragico e lugubre palco­ scenico, dominato, nell’ambito del fato, da due forze opposte, di cui la più implacabile, il « male », si è carnalizzato, fatto ma­ teria, suscitatore di inquieti e tormentati impulsi; si trova di continuo in modo emblematico in lotta con il suo elemento an­ tagonista, il « bene », entità che, anche quando si presenta fra­ gile, non rifugge dal combattere il suo avversario. Circa il signi­ ficato dei suoi film Lang ha dichiarato: « Credo che il tema cen­ trale della mia opera sia la lotta che un individuo conduce con­ tro quello che i Greci e i Romani chiamavano il destino, e che prende qui la forma di una potenza reale, dittatura, legge o sin­ dacato del crimine. Si tratta della volontà di salvaguardare l’in­ dividualità, ed è importante lottare per arrivarci »6. È proprio quando Lang descrive, in modo antinaturalistico, la lotta del « bene » e del « male », la fatalità di questo, la tensione che pervade queste due forze, che si hanno nelle sue opere sequenze e momenti espressivamente risolti: non parti isolate, bensì indici della poetica dell’autore. Zone che sono state magari sottolineate con particolari analisi della critica (oltre che

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da Kracauer e dalla Eisner7, anche da Bogdanovich 8, Courtade ’, Moullet10 e Jensen 11 ) ma che non sono state ricondotte al nucleo centrale di poetica e poesia. Si ricordi, ad esempio, in Destino il muro che cinge il regno dei trapassati e la smisurata lunghezza della scala per accedervi, immagini queste che raffigurano l’im­ possibilità da parte dell’umanità di vincere la forza metafisica del fato che determina la necessità del male; oppure la foresta di ceri-anime — che ispirerà Welles per la descrizione dell’am­ biente lugubre e corrotto del Palazzo di giustizia ne II Processo (The trial, 1959) — in cui VAngelo della morte dice di essere stanco di svolgere il suo triste ruolo. È noto come Lang sia stato influenzato dalla psicoanalisi; Freud è perfino citato ne La donna del ritratto (The woman in the window, 1944). « Il regista », afferma Lang, « dovrebbe essere ogni volta una specie di psicoanalista, spiegare all’attore la sua parte e aiutarlo a scoprire il personaggio », invitando più o meno indirettamente la critica a usare la psicoanalisi come strumento per studiare il cinema12. In Destino, l’istante in cui la disperata fanciulla tenta il suicidio, per raggiungere il suo innamorato, sottrattogli dall’Angelo della morte, deve essere vagliato secondo un’ottica freudiana. Allorché le lancette dell’oro­ logio del villaggio si fermano e al tempo cronologico subentra il tempo dell’inconscio, la giovane ha una visione nella quale le appare l’Angelo della morte che annienta un bambino tolto a una madre. Poiché nella logica del sogno o dell’incubo o di una visione non si può mai uscire dal proprio « io », l’immagine del bambino rappresenta la fanciulla stessa che nella sua paura ha subito una regressione alla infanzia. Nel suo annientamento, essa tenta, attraverso l’onnipotenza, la megalomania, il giuoco infan­ tile, di potenziare la sua condizione, moltiplicando la sua infelice storia d’amore. Perciò le varie coppie di amanti (Zobeide e il Franco infedele a Baghdad, Fiammetta e Giovan Francesco a Ve­ nezia, Tiao Tsien e Liang in Cina, l’Angelo della morte che le insegue divenendo ora funesto giardiniere, ora moro omicida, ora arciere sicario) sono tutte immagini ripetitorie del suo « io » minacciato dall’ombra dell’al di là, dall’oscuro senso della morte. La stessa magia, che si affaccia con tanta insistenza nella vi­ cenda dei due innamorati cinesi, è un aspetto della megalomania infantile sempre frustrata: il mago viene trasformato in cactus, 16

la bacchetta magica si assottiglia sempre di più ogni qual volta viene usata; l’uomo, che per sua difesa, è stato trasformato in tigre, viene ugualmente trafitto dalla freccia dell’arciere, mentre la sua amata, al culmine della sua onnipotenza, con la quale si illude di avere una forza simile a quella di un dio, si trasforma in una divinità di pietra. Lang si ricollega così alla poetica freu­ diana del « perturbante », messa in rilievo acutamente da Ugo Finetti13 nella lettura de II fantasma della libertà (Le fantòme de la liberté, 1974) di Bunuel, il quale, sensibile al mondo « im­ maginario » di Lang, riferendosi proprio a Destino, ha dichiarato che il film aprì i suoi occhi « alla poetica espressività del cine­ ma » 14. Anche nell’opera del regista tedesco, a dirla con Freud, «le personalità si duplicano, si dividono e si scambiano [...] vi è una continua ricorrenza della stessa cosa, la ripetizione delle stesse qualità, o tratti del carattere, o avvenimenti, la ripetizio­ ne degli stessi delitti »,5. « Questa invenzione del raddoppia­ mento, quale preservazione contro l’estinzione », continua Freud, « trova corrispondenza nel linguaggio dei sogni ». E in un’at­ mosfera di sogno o meglio d’incubo avviene la visione della gio­ vane, in cui il doppio da « assicurazione contro la morte diventa il perturbante annunciatore di morte »,6. In questa struttura rad­ doppiata, caratteristica di Destino, la scena dell’Angelo della morte che separa il bambino dalla madre, si presenta, a livello « soggettivo », come immaginazione della giovane regredita in modo « perturbante » all’infanzia e, a livello oggettivo, come personificazione della Morte, sovrana e sterminatrice del genere umano in ogni luogo e in ogni tempo. Il moltiplicarsi dei piani immaginari è un aspetto di questo film così complesso, la cui ricchezza umano-fantastico tanto ancor oggi affascina il moderno spettatore. Il « doppio » è elemento strutturale del film, il cui titolo originale è La morte stanca, stanca cioè di raddoppiarsi. Significative sono le strofe, scritte da Thea von Harbou, non più rintracciabili nelle copie odierne del film, strofe monche, ma che efficacemente esprimono la tematica langhiana:

Da qualche parte vi è una cittadina che sogna in un una vallata; in essa vivevano e si amavano due giovani, felici e spensierati; 17

ma da tutti gli alberi cadono le foglie dorate come lacrime nel rosso tramonto e all’incrocio carico di storia le attende silenziosa la Morte.

Cerca il suo amore dappertutto e gira per le strade. Ha lasciato la città. Al cimitero tutte le tombe sono celate da un muro Venti freddi come presentimenti di morte soffiano intorno al suo capo. [?] [?] L’Amore lotta con la Morte e crede!

La Morte trionfa nella lotta ma la chiave del destino la mette nelle mani di lei, sorridendo della sua sofferenza...17 Il complesso tema della onnipotenza infantile di Destino co­ stituisce l’importante terreno da cui nasce la figura più caratte­ ristica del cinema langhiano, il megalomane dottor Mabuse, per­ sonaggio dell’omonimo film (Dr. Mabuse. Prima parte: Der Spie­ ler; Ein Bild der Zeit; seconda parte: Inferno: Menscben der Zeit) che moltiplica la sua personalità in varie maschere. Cosa significa tale figura, a prescindere dal valore profetico di Hitler datogli da taluni, se non la concezione di un elemento malefico che altera e deforma le condizioni di tutta la realtà? Il suo con­ tinuo cangiare (apparire e scomparire in forme diverse, apparte­ nenti a tutti gli strati sociali, ora uno psichiatra, ora un magnate della finanza, ora un operaio, ora un ipnotizzatore) è il simbolo di questa dimensione incarnata, cupa e irrazionale del male pc18

liedricamente operante: una specie di volontà assurda che detiene un folle dominio sul mondo per guastarlo e sottometterlo. Il potere ipnotico del protagonista va inteso come capacità medianica di attrarre, a proprio piacimento, il reale per disto­ glierlo da qualsiasi direzione etica. Il male come ipnosi assurda, come vizio inestirpabile, non solo di natura fisica, ma addirittura metafisica, per l’impossibile giuoco del caso e delle coincidenze, è il leit-motiv che percorre anche quest’opera di Lang. Perciò il film va al di là del « poliziesco » o del « feuilleton », come asse­ risce Paul Rotha, che pure considera positivamente Destino e i Nibelunghi (Die Nibelungen. Prima parte: Siegfrieds Tod; secon­ da parte: Kriembilds Rache, 1923-24) « due esempi superbi della scuola tedesca del film d’arte » ’8, ma lo scontro fra Mabuse e Wenck, nella tragica catena di delitti e di morti che ha per sce­ nario la Germania ambigua e corrotta della Repubblica di Wei­ mar, assurge a lotta tipica e miticizzata, espressione simbolica di una condizione del mondo pessimisticamente osservato e dia­ gnosticato. Circa la genesi di questo film Lang ha dichiarato: L’epoca, dopo la prima guerra mondiale, fu per la Germania un periodo della più profonda disperazione, d’isterismo, di cinismo e di vizio sfrenato. Una tremenda povertà coesisteva accanto alla più grande e nuova ricchezza. Berlino coniò allora una parola « Raffke » (così si chiamava l’arricchito). Il dottor Mabuse è il prototipo di questo tempo. Egli è un giocatore, gioca a carte, alla roulette, e gioca con le persone. Egli gioca con il loro destino, non crede ai senti­ menti profondi; dice a una donna che ama: «Non c’è amore, c’è solo bramosia ». Egli gioca con la vita di questi uomini e gioca con la morte. In quell’epoca c’era un manifesto a Berlino: « Berlino, la tua ballerina è la morte» [...] Mi si è spesso detto che il dottor Mabuse sarebbe il prototipo della dittatura, che io avevo presagito Hitler. Ciò non è vero, per me il dottor Mabuse è il Superuomo, in un certo qual modo il superuomo di Nietzsche, visto in senso dete­ riore. Più tardi ho fatto ancora un terzo film sul dottor Mabuse, prima di lasciare la Germania: Il testamento del dottor Mabuse Testament von Dr. Mabuse, 1933] e fu allora che io misi in bocca al dottor Mabuse frasi e motti del movimento hitleriano. Il dottor Mabuse vuol portare il cittadino a seppellire l’autorità che egli stesso ha posto sopra di sé, l’autorità dello Stato, ed erigere sulla rovina di questo stato il suo mondo, il mondo del crimine 19.

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Quel che colpisce dunque Lang della crisi della Germania sono il vizio, il « gioco », intesi come gelida rinuncia al senti­ mento e all’etica, in vista di un criminale arricchimento, nel senso lugubre dell’accadere sintetizzato dal manifesto Berlino, la tua ballerina è la morte. Il vasto affresco di tipi e d’ambienti si snoda come una danza macabra, mossa da questo « Ubermensch », torbido e deleterio. La realtà storica della Germania, che accoglie una tremenda povertà accanto alla criminale ricchezza, si fatalizza in Mabuse e Lang affida ad una narrazione mitica la rappresen­ tazione del « caos » di un’epoca. Ci sembra interessante riferire a Mabuse e agli altri mostri di Lang questo rilievo che Mittner ha dedicato alla cultura espressionista. L’illusionista si potenziò poi nella figura torva del mago, medico ipnotizzatore o scienziato che, chiuso nel suo tenebroso gabinetto, medita la rovina dell’umanità intera. Il mago possiede una forza se­ greta con cui può dominare o rendere folle o anche distruggere l’uma­ nità, eppure è spesso, egli medesimo, vittima della propria potenza illimitata, della propria perversa volontà distruttrice. Questo mago, preso talora di sana pianta dai peggiori romanzi ‘ satanici ’ dell’epoca o addirittura dai vecchi romanzi ‘ neri ’ della letteratura inglese, fu talora stupendamente potenziato nei film dell’incubo ed impersonò, in quegli anni di smarrimento, la magia nera della scienza e della tecnica che, sfuggendo al controllo dell’uomo, minacciano di diventare una mostruosa entità superumana; ma anticipò anche, profeticamente, i futuri dittatori politici, suggestionatoti delle masse — perché sug­ gestionati dalle masse. La figura del Mago, che nella letteratura va dal romanzo Dall’altro lato di Kubin (1907) a Mario e il mago di Thomas Mann (1929) e al Tentatore di Broch [...] crea nel cinema con la sua sinistra psicologia ambivalente e rovesciabile un senso nuovo di fatalità20.

Nel Dottor Mabuse, di là dalla diretta citazione espressioni­ sta dell’ambiente della Contessa (la cui casa è arredata con sup­ pellettili, plastici, quadri espressionisti), la Germania degli Anni Venti rivive fra spettrali case da gioco, dalle pareti opprimenti (si veda il club del miliardario Hull, ove avviene la prima ipnosi, giovane vittima di Mabuse, oppure si veda il ristorante Shrammt con le sue luci-occhi annesso alla bisca clandestina), immagini che suggeriscono, nella loro alterazione a incubo, una realtà fisica

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losca e minacciosa, un universo equivoco dove si può essere sempre spiati e le cui strutture sono instabili e in preda al caos. Come il mago Cipolla del celebre racconto di Thomas Mann, anche Mabuse, mago, scienziato illusionista vuole non solo do­ minare l’ispettore Wenck ma l’intera società21. E proprio in una prospettiva critica che cerchi una motivazione interna all’opera e di questa ne documenti, organizzandoli, i centri più espressivi e non soltanto figurativi, si pensi alla sequenza studiata dallo Arnheim221 in cui nella fumosa bisca clandestina, il volto glaciale del criminale sorge dal nero dello schermo per ipnotizzare l’in­ consapevole Wenck, oppure al momento in cui l’ombra minac­ ciosa del suo profilo incombe sulla sua alleata e vittima Cara Carozza. Si veda quando il volto glaciale del rispettabile banchiere, in realtà Mabuse, emerge nella grande sala della Borsa deserta, tra gli stralci di titoli caduti. Oppure l’altra scena d’ipnosi a teatro, in cui Wenck riconosce finalmente, una dopo l’altra, le maschere illusorie in cui il volto di Mabuse si cela cangiando. E raggiunge poesia lugubre e allucinante il finale (già presagio di quello di M) in cui il protagonista ormai folle e braccato dalla polizia gioca a carte con i fantasmi di coloro che ha ucciso, operandosi così un involontario contrappasso nella sua coscienza di baro, in preda al rimorso. Oppure gli spettrali momenti in cui Mabuse, solo e perduto tra i falsari ciechi asserviti alla sua volontà, vede in una macerante ossessione la macchina fabbricatrice di monete false can­ giarsi in un idolo mostruoso, a cui lavorano mostri lignei, simili a cavallette, vera e propria sequenza espressionista, rappresenta­ zione fisica e insieme metafisica del male. Ed ecco anche così giustificarsi, in sede di ragioni di poetica, il valore innegabile di certe sequenze spesso valorizzate dalla critica, ma convincenti proprio perché facenti parte tensivamente del centro ispiratore dell’arte langhiana: come il tumulto dei giocatori nel frenetico crollo dei valori in Borsa, l’imperturbabilità minacciosa di Ma­ buse, la rappresentazione della folla, quasi magnetizzata dagli eventi criminosi scatenati dal protagonista. Si osservino alcuni scorci della corsa notturna in cui Mabuse sfugge a Wenck in un’auto munita di una feritoia da cui, nella luce di un notturno sinistro, l’assassino si affaccia per spiare; o l’altra fuga di Wenck verso la morte spinto dalla ipnosi osses­ 21

siva di Mabuse; o l’annientamento del debole Conte Told, chiuso nella sua casa espressionista, divenuta domicilio di incubi pro­ curatigli da Mabuse che lo spinge al suicidio (tra le immagina­ zioni, pur nella sua innocenza, c’è l’angoscioso rimorso di essere baro, instillatogli da Mabuse). Anche lo stesso duello finale tra Wenck e Mabuse, in un notturno drammatico, episodio anche secondo Kracauer « mirabilmente condotto »23, trova giustifica­ zione critica, se si tiene conto della tensione di forze che Mabuse e von Wenck rappresentano. Tuttavia per un giudizio sul per­ sonaggio di von Wenck, così circonfuso dalla corruzione che lo circonda, rischioso paladino della forza di giustizia, ricordiamo una nota critica di Kracauer: « Wenck stesso non è che uno scaltro rappresentante della legge, una specie di bandito legale, con la polizia che gli serve da banda. A differenza di Francis che insegue Caligari per motivi giusti e profondi, Wenck è così mo­ ralmente nullo che la sua vittoria manca di senso »24. In realtà a noi sembra che Wenck, a causa del male rappre­ sentato da Mabuse, sia nelle sue vesti di difensore della legge legato a un compito così arduo, che gli è forse difficile conser­ vare intatta fino in fondo la sua etica professionale. Cioè i con­ fini delle due forze — fermo restando il giudizio morale del re­ gista — non sono mai divisibili nettamente, asservite come sono a una fatalità che le domina. Fondamentali anche per capire questa problematica, essenziale all’ideologia del regista, sono al­ cune dichiarazioni di Lang: Ho l’abitudine di dire questo: ci sono solamente due categorie di individui, quelli che sono malvagi e quelli che sono molto malvagi. Ma noi siamo giunti a una convenzione e chiamiamo i malvagi buoni e coloro che sono molto malvagi malvagi25.

[...] La lotta dell’individuo contro il fato sta alla base di tutti i miei film. La lotta dell’uomo, fondamentalmente buono, contro forze superiori — che si tratti della violenza di un’ingiustizia sociale, del potere di un’organizzazione, di una società o di un’autorità corrotta o della violenza delle proprie pulsioni consce o inconsce... Quanto alla morte, credo che sia talvolta da preferire, a una vita vissuta in condizioni disumane, e che bisogna lottare per ciò che si considera giusto, anche contro forze schiaccianti e a rischio di morire. L’importante è la lotta, la ribellione 2Ó. 22

Questa concezione dell’uomo, come « fondamentalmente buo­ no », deve essere messa in relazione con quella in cui il regista asserisce che per convenzione « chiamiamo i malvagi buoni e coloro che sono molto malvagi malvagi ». Non c’è contraddi­ zione, bensì conflitto tra le due dichiarazioni. Lang tende al bene come atto morale, cercando di sconfiggere in sé, e nella sua opera, l’ossessione del male che lo porta spesso a momenti di terribile pessimismo, nonostante che sostanzialmente lo combatta.

I Nibelunghi: mito ed epica

Nel ciclo de 1 Nibelunghi, estrema miticizzazione del con­ flitto primitivo del « bene » e del « male », ancora una volta in­ teso come ineluttabile, la poetica raggiunge una sfera artistica elevata. Nell’evocazione delle gesta di Siegfried, del malvagio Haghen, del debole Gunther, delle fiere Brunhild e Kriemhild, le passioni, gli atti, eroici e malvagi, dominati dal senso inelut­ tabile del « fato », in cui s’accendono le forze del bene e del male, attingono alla diretta ispirazione dell’autore. Innanzi tutto, per comprendere il valore della prima parte di questa saga, è da rifiutare un equivoco critico, secondo cui il « corrispettivo visivo » in Lang sarebbe sostanzialmente un de­ corativismo edonistico e formalistico. Avverte con sensibilità Claudio Varese 27, « che il bisogno di insistere sull’aspetto formale del linguaggio cinematografico non diventa in Lang calligrafia: un motivo umano, un senso morale e una trama narrativa, si calano in immagini e nascono e vivono secondo il linguaggio ci­ nematografico ». La decorazione, il geometrismo visivo della sce­ nografia entro cui si muovono ritmicamente i personaggi sono necessari: si veda l’arco che racchiude la presentazione di Kriem­ hild, oppure il suo incedere nella cattedrale di Worms in linea mediana rispetto al rosone della chiesa, oppure la forma astratta di Gunther-Siegfried durante il duello contro Brunhild. Senza questa dimensione compositiva l’opera cadrebbe nel naturalismo, inadatto a celebrare un universo mitico, e senza la palese astrazione, che nasce dal rapporto geometrico tra perso­ naggi e ambiente, avremmo avuto ciò che Lang voleva evitare: « l’esteriore gigantismo del film di costume americano »I 23

personaggi si muovono in linee geometriche, solennemente sta­ tuari, perché il loro mondo è un mondo di eroi, in cui il muo­ versi, l’azione non possono essere piattamente naturalistici. In questo senso l’astrazione di sfondi e personaggi si giustifica. La topografia è per lo più astratta: si notino le forme pressoché cu­ biche del castello di Gunther, la geometrica luce a faggeta del­ l’inaccessibile regno di Brunhild, e in genere il rapporto anti­ naturalista fra personaggio e ambiente. Si pensi agli alti muri bianchi, le grandi scalinate, il rapporto solenne col personaggio, dominato dal Fato, che Kracauer ha così acutamente notato: « Lang sapeva bene perché, invece di ricorrere al pittoresco stile operistico di Wagner o a qualche specie di pantomima psicolo­ gica, aveva preferito basarsi sul fascino di queste composizioni decorative: sono infatti simboli del Fato, la cui forza coercitiva si rispecchia visivamente nel rigoroso confluire di tutti gli ele­ menti strutturali in una ossatura di lucide forme »29. Ma in questa aura di « fato », ancora una volta come ne II Dottor Ma­ buse, Lang sviluppa il suo tema centrale in una « ossatura di lucide forme », in un figurativo che è in funzione epico-narra­ tiva, non sterile ornamento. Il valore epico dell’opera è ammesso anche con acume da Ragghianti30 quando scrive di « realizzazioni di una estrema raffinatezza sensitiva, dei risentimenti del roma­ nico, dell’atmosfera rorida e senza luce della miniatura, e negli edifici e nei cori, delle semplificazioni di masse e di movimenti indescrivibilmente epiche ». L’astrazione mitica di sfondi e per­ sonaggi, lungi da essere ornamento e colpevole sfondo fatale prenazista, diviene il palcoscenico di una lotta epica che affonda le radici nella più vera ispirazione di Lang. La figura di Siegfried esiste in funzione della lotta contro le forze maligne che deve sconfiggere e dalle quali risulterà sconfitto. È la purezza di Sieg­ fried che deve lottare contro il drago favoloso della leggenda, contro la viscida malvagità di Alberich, scontrarsi e perire a causa di Haghen; se solo si tiene conto della lotta di forze, di purezza e corruzione, che alimenta in un fato immutabile il mon­ do di Lang, si può allora comprendere a pieno, in una interna dialettica, il valore dell’opera. La lotta contro il drago malefico, il bagno di Siegfried nel sangue, la cavalcata dell’eroe nel paesaggio scandito da linee pri­ mordiali, l’incontro di Siegfried con la mano minacciosa di Al24

bench, gnomo malvagio nel bosco spettrale, i nani, che si tra­ sformano in pietre, divenendo cariatidi in pena secolare, risultano sequenze espressivamente risolte, poiché la forza dell’avversità di un ostacolo da sconfiggere domina fatalmente la natura, in una saga in cui il male è sempre concepito come qualcosa di feroce, di enigmatico, di potente. Le case da gioco dalle pareti distorte di Mabuse, la deformazione, il caos degli ambienti, qui sono sostituite da brume insidiose che contrastano con la temperie luminosa di Kriemhild e Siegfried, vicino all’albero fiorito, oasi di purezza nel castello, zona di « bene », di non « conflitto ». Ma, anche l’albero fiorito è destinato a trasformarsi nel disegno di un simbolico teschio, allorché Siegfried si separa dalla sua sposa per recarsi alla caccia proditoria. Anche in quest’opera si ripete dunque, nella fatalità mitica dell’epica, la dialettica bene­ male degli altri film di Lang, che trova in Haghen un nuovo Mabuse. Con un visivo significativo (il minaccioso elmo alato), questi appare portatore di sinistro presagio, in una sacra cerimonia nella cattedrale di Worms. In lui, come in Mabuse, c’è il calcolo scien­ tifico d’inganni, astuzia, tradimento. La sua ombra si erge varie volte ambigua e minacciosa nel primo pudico incontro di Kriem­ hild e Siegfried: si notino l’offerta della coppa, la delicata no­ biltà degli sguardi, la maestà delle forme, elementi pre-ejzen§tejniani che si troveranno magistralmente modulati nella sequenza nuziale di Ivan il Terribile (Ivan Groznij, 1944-46). E Haghen è presente al patto amicale tra Siegfried e Gunther (la debolezza di questo personaggio rimanda all’indole passiva del Conte Told); è ancora Haghen a presiedere al patto di sangue tra Siegfried e Gunther, a ergersi viscido e intrigante nella stanza della dolce Kriemhild per carpire il luogo segreto della vulnerabilità dell’eroe. Da Haghen, come da Mabuse, si irradia il male, la trasforma­ zione delle due donne, la implacabile fierezza verginale di Brun­ hild, divenuta feroce ribellione, la gentilezza di Kriemhild, tra­ sformata in funesta e furente maschera di vendetta. I consigli di Haghen agiscono come l’ipnosi che Mabuse istillava ai suoi nemici. Come Mabuse, Haghen si muove per spinta di supre­ mazia e potenza. Con questo fulcro nella dialettica bene-male si hanno alti momenti e sequenze poetiche. Si pensi alla delicata visualizzazione dell’unione di Brunhild 25

con Siegfried: alla scena del ricamo, che Kriemhild fa sull’abito dello sposo per proteggerlo, corrisponde quella ferrigna ed im­ placabile di Haghen, presso l’armeria, che infigge, in senso di minaccia, una lancia al suolo. La lancia ritorna, come stilema fi­ gurativo, nella morte di Siegfried, vera e propria realizzazione criminosa di Haghen. Questa poetica sequenza è preparata dal contrappunto vitalistico dell’attesa della caccia (l’ignara giosiosità di Siegfried, la sfida e la gara della corsa) e infine l’esplosione di un agguato co­ struito e improvviso. Si noti il violento modulo visivo della lancia che si infigge nel corpo dell’eroe, la sua morte lenta, a malapena confortata dai due compagni che lo portano fino ad Haghen, il responsabile. Morte scandita in più tempi: l’addio dolce e de­ licato di Brunhild, la caccia e, infine, il ritorno al castello in un funerale notturno, il cui feretro tra vento e fiaccole par guidato dal bianco cavallo di Siegfried, simbolo della purezza dell’eroe sacrificato, fino alla scena della stanza del castello di severa com­ postezza, con il soffitto che incombe sui personaggi racchiuden­ doli in una topografia drammatica in cui Kriemhild chiede ven­ detta dinanzi ad Haghen. Realizzazioni visive che esprimono il senso di lugubre fatalità dei versi di Siegfried morente: « A che giovarono i miei servigi se voi mi avete ucciso? Vi fui sempre fedele; questo non l’ho meritato. Avete macchiato d’infamia tut­ ta la vostra razza. Ne porteranno il marchio quanti nasceranno da voi da questo giorno in poi »31. La seconda parte de I Nibelunghi, così animata da sangue e vendetta, raggiunge i suoi toni più foschi e violenti nel furibondo gesto infanticida di Haghen contro il bambino di Attila e Kriem­ hild e nella descrizione dell’ambiente barbarico degli Unni, che anticipa il torvo paesaggio del Macbeth di Welles.

Metropolis e l’alibi del capitalismo

Anche in Metropolis (1926), dove il mito coerentemente coincide con la dimensione fantascientifica, Lang esemplifica la sua ispirazione nella figura di Rothwang, il folle costruttore di un automa malvagio, che è una vera e propria derivazione mabusiana della sadica natura del suo inventore. Contro il potere di 26

odio, emanato da tale creatura e dal suo creatore, il giovane Frederson e la spirituale Maria, poli positivi della lotta, simboli di equità e di bene, si muovono (in un analogo terreno di giu­ stizia contrastata in cui si batteva Wenck) in favore degli umili e oppressi abitanti della città sotterranea, condannati a lavorare per i ricchi ed egoisti cittadini dei quartieri alti e luminosi. Il paesaggio, cupo e fosforescente, che si apre sui mostruosi mac­ chinari elettrici, sotto le cui sagome sinistre e gelidamente geo­ metriche si appiattiscono come cariatidi i corpi degli operai, espri­ me l’entità fisica del male, il suo dinamico e doloroso flusso, ritmato dal livido bagliore degli strumenti meccanici che forni­ scono l’energia vitale alla città. Si veda, tra le tante scene indica­ tive, il momento in cui il giovane Frederson scopre gli operai, ridotti a ombre, macerati dalle disumane fatiche della città sot­ terranea, momento riconducibile al centro ispiratore di Lang, che presenta la ineluttabilità di una forza maligna che alberga nel reale: il dominio criminoso di Rothwang contro cui la creatura colpita, come fa appunto il giovane Frederson, arretra sconvolta e stupefatta. Si può asserire per Metropolis ciò che Roberto Salvini af­ ferma per l’arte espressionista, che il film « esprime la dispera­ zione, come espressione della situazione dell’uomo di fronte alla civiltà industriale che sempre più lo rende schiavo »32. Si osser­ vino, in questo senso, certi gruppi di operai che tornano dal la­ voro sullo sfondo di larvali edifici, ove il geometrismo simme­ trico della composizione non svolge ancora una volta un ruolo solo decorativo, bensì esprime l’angosciosa costrizione dell’uomo paralizzato da una topografia claustrofobica che determina il suo completo asservimento. E per dirla con lo Haftmann33, così come per le arti figurative, anche Metropolis, e vari film espres­ sionisti, ci danno « la grande città moderna col suo petroso de­ dalo di strade, il suo movimento, le sue prostitute, i suoi ponti di acciaio e i suoi canali, i suoi locali notturni e la sua miseria ». La concezione dell’operaio di Lang rimanda ad alcuni aspetti della letteratura espressionista, di cui Mittner scrive: « un’evasione nell’utopia è di per sé l’Uomo cosmico, che è poi l’uomo nudo, l’operaio in tuta, sottratto alla legge della gravità, cioè alle leggi della realtà politico-sociale »Metropolis, aggiunge il critico,

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valorizza coerentemente la tecnica espressionista, riprende vari mo­ tivi cari all’espressionismo (la macchina divoratrice dell’operaio e la ribellione degli operai capeggiata dal figlio del capitalista) ma li ri­ prende creando un abile alibi per il capitalismo, alibi che non poteva dispiacere al nazismo avanzante. La mostruosa metropoli dell’avvenire è un male, ma l’industriale che la domina non è malvagio; malvagio è il suo ex-amico e poi rivale, lo scienziato mago, che contribuì a costruire la metropoli e minaccia poi di distruggerla, salvo che alla fine il pericolo è scongiurato: capitale e lavoro si riconciliano per effetto del matrimonio fra il figlio dell’industriale (che è quasi un ribelle) e la figlia del capo-operaio (il quale fa da spia all’industriale)35. Lang ha più volte onestamente riconosciuto il grave errore ideologico insito in Metropolis, dichiarando di detestarne il falso finale, ma tale errore non si deve solo alla sceneggiatura della moglie Thea von Harbou, ma al fatto che la poetica del regista tedesco, così lontana dal comprendere in profondità il materia­ lismo storico come testimonia la sua polemica con Brecht, nata durante la lavorazione del film Anche i boia muoiono (Hangmen also die, 1943) tocca il tema della lotta di classe in termini astrat­ ti e sentimentali *. Comunque, nel progetto originario di Lang, Ì due amanti, Maria e il giovane Frederson, non sarebbero do­ vuti restare nell’inferno di Metropolis, ma fuggire. Godard, nel suo Alphaville, che tanto deve per ispirazione e stile al film di Lang, adotterà il finale del suo maestro che vorrà con sé ne II disprezzo (Le mépris, 1969). Più compatto nella sua struttura ideologica e stilistica è L’inafferrabile (Spione, 1927-28), film ingiustamente sottovalu­ tato, in cui il personaggio principale Haghi (si faccia attenzione anche al nome) nasce dalla simbiosi di Mabuse e del feroce Ha­ ghen de I Nibelunghi; anche lui superuomo, « rispettabile » di­ rettore di banca, feroce assassino che ruba contratti internazionali, sabota treni, asservisce donne, domina, assolda sicari: nella sua lotta contro l’agente Tremaine (figura che riunisce l’intelligenza di Wenck e la sincerità dei sentimenti del giovane Hull in Ma­ buse) sarà sconfitto finendo suicida, annullandosi in una delle sue tante parti e maschere, quella di attore a teatro, non a caso dal nome « Nemo ». Come Cipolla del racconto di Mann, egli muore sul palcoscenico mentre esegue un « numero » in una atmosfera angosciosa e grottesca. Spione presenta un notevole

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alleggerimento stilistico rispetto alle più dense e marcate com­ posizioni espressioniste dei film precedenti, una narrazione sin­ tetica e agile che ci pare preludere al periodo americano di Lang. In La donna nella luna (Frau im Mond, 1928), ove si sente l’influenza di Verne, la delittuosa e megalomane sete dell’oro si sviluppa avidamente in misteriosi paesaggi ultraterrestri, raggiun­ ti da un razzo avveniristico sul quale gravano, fin dalla sua so­ lenne partenza, gravi presagi. Ma è soprattutto con M, il mostro di Diisseldorf (M, 1931), che il regista rende ancora una volta esplicita la linea della sua poetica, scandita dal fragile controllo della forza del bene che non riesce a dominare la coatta brutalità del suo antagonista. Al mostro, al maniaco sessuale infanticida, non resta che la pietosa e tragica diagnosi del proprio torbido essere, nella agghiacciante coscienza di non poter desistere dall’opera criminale verso cui si sente attratto. Braccato dalla corte dei miracoli dei criminali della città, af­ frescati dal regista, con un vigore evocativo, che nasce non solo dalla elaborazione dei « tipi » dei film precedenti (basti pensare alla guardia del corpo di Mabuse e ai ciechi asserviti alla sua volontà) ma anche da una ammessa influenza dei personaggi de L’opera da tre soldi di Brecht, il protagonista confessa di non poter nulla contro il male che lo incalza: « Sono obbligato a cam­ minare senza posa per le strade e senza posa qualcuno è alle mie spalle. Quel qualcuno sono io. A volte sento che sono io ad inseguirmi, eppure non posso fuggire... voglio fuggire... devo fuggire. Gli spettri mi inseguono continuamente... se non lo faccio. Poi, davanti a un manifesto leggo ciò che ho commesso. Io ho commesso questo? Eppure non ne so nulla. È una cosa che mi ripugna... che deve ripugnarmi... non posso più ».

Genesi di M La genesi di M rimanda a un fondamentale racconto autobio­ grafico di Lang Sulla morte benevola, riportato dalla Eisner nella sua utile e seria monografia37.

Il sogno infantile che più ha influenzato la mia vita e la mia

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opera non aveva a che fare né con l’amicizia, né con l’amore. Eppure risvegliò in me una emozione paurosa che si fece amore così forte che da allora non sono stato capace più di liberarmi dalla sua potenza quasi mistica. Ero malato, al confine tra la fanciullezza e l’adolescenza, e accadde una notte in cui mi trovavo vicinissimo alla realizzazione del detto che colui che è amato dagli dei muore giovane. Sentivo 1’avvicinarsi della morte con una specie di sorda lucidità, ma ero trop­ po febbricitante per potermi opporre all'avanzare della nera straniera. Il respiro mi si faceva sempre più debole e il volto bagnato di lacrime della mia adorata madre mi stava scomparendo dagli occhi. Dormivo e sognavo, oppure ero sveglio? Con la vista lucida, quasi troppo, vedevo la stanza familiare in cui giacevo; le persiane della finestra erano mezze aperte, il chiaro di luna inondava di luce la stanza e ad un tratto mi vidi a faccia a faccia con la Morte, non terrificante ma inequivocabile, fatta di bianco c di nero, di luce e di ombra, col costato e le nude ossa visibili, il capo a mala pena distinguibile, om­ brato da un cappello a larghe falde. La Morte ed io ci demmo uno sguardo, io non so se dovrei dare il nome di paura alla sensazione che provai in quel momento, certo era orrore, ma non panico, ma anche l’orrore si trasformò in una sorta di mistica estasi che mi diede la capacità di comprendere, piccolo come ero, fino in fondo l’estasi con cui martiri e santi abbracciano la morte. Mi sollevai dal letto per andarle incontro. Ma debole come ero, caddi per terra, finché qualcuno mi rialzò e la Morte svanì. Poco dopo guarii, ma l’amore della morte, composto in ugual mi­ sura di orrore e di affetto, proprio secondo la descrizione dei maestri gotici, restò con me fino a diventare parte integrante dei miei film in vari modi, umana in Destino, simbolica ne I Nibelunghi, gotico vivente in Metropolis 38.

Ora tale allucinazione, se viene collegata al tema della mega­ lomania, tanto sentito dal regista e che dimensiona i suoi per­ sonaggi (si pensi in primo luogo a Mabuse, a Rothwang, Haghi) ci invita a tentare, sia pure con cautela, una ipotesi sulla genesi del complesso di colpa che affiora nella sua opera, caratterizzata in modo ossessivo dal problema del crimine e della sua respon­ sabilità. « Sempre di più, a volte con riluttanza, sono giunto alla conclusione » dichiara Lang « che in ogni mente umana alberga un impulso ad uccidere »39. Come è noto, il bambino vive — nell’accezione freudiana — in una sfera megalomane tanto che è portato a identificare il suo « io » onnipotente con la realtà 30

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Fritz Lang, Al (1931). La piccola Elsie e l’ombra del mostro.

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stessa; cosicché gli è difficile passare dall’infantile narcisistico principio del piacere al principio della realtà. Più tardi, in vari modi, il bambino comincia a perdere la sua illusoria identifica­ zione con la madre, la bandisce dal suo regno onnipotente, l’al­ lontana da sé come un’estranea, la sente straniera e la nega. Il bambino può diventare così la morte dell’amata madre. Questa a sua volta può essere sentita come « morte », in quanto negatrice del principio del piacere e nello stesso tempo come « vita » in quanto gli si ripresenta come principio del piacere non ancora abbandonato. Sotto questa prospettiva non meravi­ glino gli ambivalenti sentimenti che affiorano nel racconto del regista, quali paura e non paura, potenza e impotenza, orrore ed estasi, amore e morte. Del resto le figure femminili del cinema di Lang presentano sovente e con tratti singolari, questa ambi­ valenza di calore e d’amore, di gelo e di crimine. Si pensi ad esempio, in Destino, a Fiammetta che diviene involontariamente assassina del suo adorato Giovan Francesco; in I Nibelunghi alla dolce Kriemhild che dopo l’uccisione di Siegfried si trasforma in lugubre maschera di vendetta; in Metropolis alla spirituale Ma­ ria che viene derubata delle sue gentili sembianze dal maligno doppio-robot comandato da Rothwang; in Spione, a Sonia che lascia il mondo delittuoso di Haghi per amore di Tremaine. Proprio perché in un sogno o in una visione o in un incubo non si può uscire dal proprio « io », anche in questa allucina­ zione, narrata da Lang ormai adulto, le figure della madre e della Morte possono essere considerate le stesse immagini speculari della soggettività del regista, il quale non a caso dice che nella sua esistenza non è stato mai abbandonato dall’amore della morte « composto in ugual misura d’orrore e d’affetto », vale a dire — aggiungiamo noi — da quell’amore identificatori© con la ma­ dre a cui il suo inconscio è restato fissato. Infatti, nel racconto di Lang affiorano sia aspetti della dolorosa separazione del fan­ ciullo dalla propria genitrice (« Il volto bagnato di lacrime dell’adorata madre viene sostituito da quello funesto della nera straniera»), sia aspetti dell’onnipotenza infantile. L’espressione « colui che è amato dagli dei muore giovane » e quella in cui si dice di comprendere « l’estasi con cui martiri e santi abbracciano la morte », sono assai rivelatrici e rimandano alla situazione del bambino che, secondo Freud, nel momento in cui compie in sé

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un atto d’amore e distruzione, può sentirsi investito da una forza simile a quella di un demone, di un dio. Forse proprio per que­ sto il regista a proposito di M dichiara: « Ho cercato di avvi­ cinare la figura dell’assassino per via immaginativa in modo da farlo vedere come un essere umano posseduto da un demone che lo ha spinto al di là dei confini comuni del comportamento umano » 40 . Da questa visione interna nasce il più tragico, certo il più sofferto dei personaggi di Lang, il « mostro » Franz Becker, che è megalomane ed insieme impotente, come risulta sia dalle let­ tere intimidatorie che invia alla polizia, sia dalla confessione di sostanziale frustrazione di fronte al male che lo assale. Inerme come un bambino, proprio perché è fissato a una immatura ses­ sualità, ama e distrugge le bambine, separandole dalle madri. Lang asserisce che non era soltanto interessato « a scoprire perché qualcuno è portato a un crimine così orribile come quello di uccidere i bambini » e che « il messaggio del film non è la condanna dell’assassino, ma l’ammonimento a tutte le madri: Voi dovreste sorvegliare meglio i vostri figli »41. La dialettica bambino-madre-morte è un aspetto fondamentale dell’opera che rinvia direttamente a Destino, alle immagini fu­ neree in cui l’Angelo della morte strappa la prole a chi l’ha creata. M del resto si apre sui giochi infantili delle fanciulle che cantano una filastrocca che ha per soggetto il mostro (« Scappa, scappa, monellaccio, sennò viene l’uomo nero col suo lungo col­ tellaccio per tagliarti a pezzettini! »), inoltre spiccano protettive o angosciate figure di madri (in particolare quella di Frau Beck­ mann che non vedrà più tornare a casa la piccola Elsie); ed in­ fine la copia originale, non mutilata, del film si conclude con tre madri meste o in lacrime per la sorte delle loro figlie42. E forse anche perché in Lang sussiste un antico senso di colpa per l’innocente delitto infantile, affiora nella struttura del film un’autocensura che si è trasformata in una severa estetica narrativa in cui il delitto non ci è direttamente mostrato, bensì espresso in forma evocativa con il frequente uso della « sineddo­ che » nell’immagine e nel suono. Ricorda Kracauer: La mamma di Elsie, dopo ore di attesa, esce sul pianerottolo e

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2. 3.

Fritz Lang, AL Le tre madri. Fritz Lang, M. Franz Becker (Peter Lorre) e il suo doppio.

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urla disperata il nome della sua creatura. Mentre risuona il suo ' Elsie ’, passano sullo schermo i seguenti fotogrammi: la scala vuota, l’abbaino vuoto, il piatto intatto di Elsie sul tavolo di cucina, un lontano spiazzo d’erba dove giace la sua palla, un pallone che si im­ piglia nei fili del telegrafo (lo stesso pallone che l’assassino ha com­ prato dal mendicante cieco per guadagnarsi la fiducia della bimba). Come un appoggio di pedale, il grido « Elsie! » accompagna questi quadri, altrimenti slegati, fondendoli in un cupo racconto. Ogni volta che l’assassino viene invaso dal bisogno di uccidere fischietta alcune note di una melodia di Grieg. Il film è punteggiato dal fischio, funesto preannuncio della sua comparsa43. E anche in questa opera si affaccia, in modo « perturbante », il tema del « doppio » che raggiunge il culmine quando l’assas­ sino, sempre ossessionato dal suo alter ego che lo spinge al de­ litto, durante il ripetersi delle sue coatte ricerche omicide, scorge nella vetrina di un negozio la propria immagine, segnata dal mar­ chio infamante della lettera M o quando, nell’ambiente del de­ littuoso processo imbastito dai criminali della città, vede il mol­ tiplicarsi delle immagini fotografiche delle sue giovani vittime. Tuttavia Mòrder non svela soltanto « il gusto per la psico­ patologia sessuale dell’autore », come giustamente osserva Michel David44, ma a nostro avviso ha un grande valore oltreché mo­ rale, anche sociale e politico. Ancora Kracauer sottolinea che nel montaggio il regista « al­ terna gli ambienti della polizia a quelli della malavita; mentre i capibanda discutono i loro piani, si riuniscono anche gli esperti della polizia, e queste due riunioni vengono confrontate attra­ verso costanti spostamenti di scena imperniati su ingegnose ana­ logie »45. A noi sembra che nei tempi censori in cui il film fu girato, tra sospetti ed intimidazioni, Lang abbia usato — met­ tendo sullo stesso piano polizia e malviventi — una lingua al­ lusiva, a dirla con Aristarco « esopiana » (quella che in una ben diversa situazione storico-politica avrebbe adoperato Ejzenstejn nel comporre la tragedia atea marxista Ivan il terribile), l’unica lingua che a guardare bene forse si poteva usare in un periodo che già segnava l’ascesa del nazismo al potere. Non si dimentichi del resto che, due anni dopo, Il testamento del dottor Mabuse, definito dal suo autore « allegoria dei sistemi terroristici di Hitler », fu proibito da Goebbels47. In questa direzione anche

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M non è solo circoscritto al caso psicopatologico di Franz Bec­ ker, ma mette in luce altri « mostri »: svela una polizia allusi­ vamente confrontata con i peggiori criminali e cittadini infidi che raccolti in fumosi ritrovi o affollati nelle strade sospettano l’uno dell’altro, scaricandosi addosso l’accusa di essere « il mostro ».

Complesso di colpa

Il leitmotiv della colpa e dell’innocenza (a cui si uniscono le complementari componenti della pena e del riscatto) variato nella consueta dialettica del bene e del male, appare nella vasta gal­ leria dei personaggi e delle situazioni dei film girati da Lang in Francia, in America e poi di nuovo in Germania. Il regista sviluppa infatti — usando con stringatezza compo­ nenti melodrammatiche — una novellistica unitaria espressa nelle sue varie forme di dramma psicologico, privato e sociale; nei li­ miti dei generi e condizionamenti produttivi, degli inevitabili momenti d’inerzia, di cedimento artistico, dovuti al suo peregri­ nare da uno studio ad un altro, cercando di non subire, il più possibile, le imposizioni del sistema hollywoodiano. Come è avvenuto per la produzione del periodo espressionista, ancora una volta la critica ha analizzato le tematiche, senza rin­ venire il complesso propulsore della poetica. È nostro intento invece evidenziare la coerenza ideologica dei film di Lang, per mostrare poi — alla luce di una lettura circostanziata di una novella significativa come II covo dei contrabbandieri (Moonfleet, 1954) — un aspetto fondamentale del rispettivo paesaggio estetico. Appena sfuggito astutamente alla dittatura germanica, già nel suo breve periodo d’esilio in Francia, Lang crea Liliom (La leg­ genda di Liliom, 1933) storia di un’anima inquieta e ribelle, a cui si dà la possibilità di redimere il suo passato, purché com­ pia, per le leggi del cielo, una buona azione sulla terra. Ugualmente indicativi sono i film del ciclo antinazista. In Anche i boia muoiono, che Brecht aveva concepito in una forma epico-narrativa48 che svelasse la natura di classe della nefasta ideologia, c’è invece lo sviluppo, secondo la poetica del regista, dell’accusa e cattura dei responsabili dell’aberrante sistema; basti pensare all’episodio della trappola tesa all’ignominioso birraio 37

Czaka, condannato dalla resistenza dei cittadini di Praga. Ne 11 prigioniero del terrore (Ministry of fear, 1944), Stephen Neyle, già implicato con senso di colpa in un caso di eutanasia, entra in contatto con il mondo cupo e colpevole dei nazisti, analogamente a quanto accade a Thorndike, costretto alla fuga in Duello mor­ tale (Man hunt, 1941). In Maschere e pugnali (Cloak and dagger, 1946), il protagonista lotta contro i mostri del III Reich, rei d’aver sequestrato per scopi maligni ed antipacifisti un famoso scienziato per carpirne i segreti. Secondo la protesta e denuncia, morale e politica, che ha ca­ ratterizzato i migliori film del periodo tedesco, Lang presenta un’« America amara » nella trilogia sociale, realizzata nel periodo 1936-39. La folla selvaggia di Furia (Fury, 1936) crede che il probo Joe Wilson sia un criminale ed effettua un linciaggio: il giovane riesce a restare illeso, ma se anche rinuncia, in extremis, ad una feroce vendetta, finisce per non credere più alla giustizia e per non essere più l’innocente di prima. Pregiudizi, dubbie le­ galità rendono fuorilegge — in modo irreversibile — la sfortu­ nata coppia di sposi Eddie e Joan Taylor di Sono innocente! (You only live once, 1937), oppressi dal caso e dal fato, fino alla totale espiazione; ed infine tra legalità ed illegalità fluttua la vita precaria dei carcerati Joe ed Helen dell’inedito in Italia You and me (1938), racconto ritmato dalla musica di Kurt Weill. Sull’esordio americano del regista, ove il mondo domestico viene completamente sgretolato o faticosamente ricomposto, scrive Le­ wis Jacobs: « Lang infonde nei suoi film la sua profonda com­ prensione dell’uomo e della società. Tutto il suo materiale è tratto dalla vita quotidiana; la sua trama è drammatizzata dalla sua ma­ gistrale descrizione della rete sociale, di cui è prigioniero l’uomo medio »49. Guardando alla passata tradizione americana, a proposito del­ la « trilogia western », il regista ribadisce: « Amo i western. Si basano su un codice morale molto semplice ed essenziale. Per la riuscita di un film, la morale deve essere semplice [...] la lotta tra il bene e il male è vecchia quanto il mondo ». Frank James de II vendicatore di Jess il bandito (The return of Frank James, 1940) diviene fuorilegge perché il tribunale, corrotto dalla com­ pagnia ferroviaria non punisce, ma anzi assolve gli assassini del fratello; Vance Shaw di Fred, il ribelle (Western Union, 1941)

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soffre il contrasto tra la sua operosità alla Compagnia telegrafica « Western Union » e i suoi trascorsi di banditismo che lo legano all’affetto fraterno. Nella leggenda-ballata di Rancho Notorious, Aitar sembra riscattarsi del suo passato corrotto, illuminata dal sentimento d’amore per il giovane Vern Haskell, che, inseguendo i responsabili che gli hanno tolto la sua donna con il delitto, finirà per uscire dai confini della legge. L’intensa variazione del complesso di colpa si arricchisce di varie sfumature anche in altre novelle in cui l’istanza psicologica e psicoanalitica s’intreccia, a vari livelli, con quella ambientale o più decisamente sociale. Se, in Gardenia blu (The blue gardenia, 1952), Norah, risvegliandosi da un incubo si crede assassina e in La donna del ritratto (The woman in the window, 1944) il pro­ fessor Wanley, in preda al sogno, si sente colpevole di omicidio, in Strada scarlatta (Scarlet street, 1945) il pittore Chris Cross, travolto nella realtà da una passione per una donna cinica, finisce per regredire ai fantasmi del rimorso, dopo aver punito con la morte la coppia degli amanti, subdoli ed impostori, che lo hanno depredato delle sue creazioni artistiche. Ne II grande caldo (The big heat, 1953), il poliziotto Davie Bannion, sempre sul punto di vendicarsi di Lagana, nuovo Mabuse, che gli ha infranto la vita domestica, è attratto da Debbie, la ragazza della « gang », dal simbolico volto per metà sano e per metà sfregiato, ironica creatura sospesa tra bene e male, che dissolve il suo correo pas­ sato con il proprio sacrificio fisico. Nei due melò, La confessione della signora Doyle (Clash by night, 1951) e La bestia umana (Human desire, 1954), eloquenti sono i personaggi femminili di Mae e Vicky, minacciati, a di­ versi gradi e modi, nella loro identità: l’una sceglierà di sconfig­ gere le forze eversive che la legano all’amante Earl, cercando pro­ tezione nel suo fragile, incerto mondo di sposa e di madre; l’al­ tra, decisamente inarrestabile nel suo cupio dissolvi, precipite­ rà nel suo stesso mondo di delittuosa finzione, da cui il gio­ vane Jeff, vincendo la seduzione della donna, riesce, in un estre­ mo sforzo etico, a salvarsi. In L'alibi era perfetto (Beyond a reasonable doubt, 1956), tale dialettica di bene e di male, di colpa e di pena, viene ad assumere — nelle sue influenze brechtiane e in un conseguente di­ stanziamento della componente melodrammatica — il tono di una

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favola didascalica. Lo scrittore Tom Garrett, per contribuire a dimostrare l’illusorio valore della legge sociale che permette ancora la pena di morte, crea documenti falsi per essere impu­ tato di omicidio, fino a che il tribunale, prima lo invia alla sedia elettrica e poi di nuovo lo assolve per prove cosiddette « sicu­ re »: ma, fatalmente, quando sta per avere la grazia, Tom si lascia sfuggire una confessione e scopriamo che lui stesso è il vero assassino. In questa metamorfosi continua delle forze del bene e del male, ambiguo è il comportamento finale della fidan­ zata Susan, che, a sua volta, consegna irrimediabilmente Tom alla labile giustizia degli uomini, nella prospettiva equivoca di un nuovo legame amoroso con un suo amico. Basilari per la comprensione di questa poetica sono le amare riflessioni che Lang, in uno dei suoi stati d’animo pessimisti, ha dedicato al film, il cui titolo, Beyond a reasonable doubt, cioè « Al di là di ogni ragionevole dubbio », chiarisce la sua sofferta Weltanschauung.

In realtà l’uomo non vuol sapere chi o com’è veramente, e tanto meno gli interessa conoscere gli altri. La gente agisce sotto la spinta della disonestà personale, profondamente radicata, che la giovane ge­ nerazione giustamente rimprovera a quella vecchia. Come disse Brecht, « l’uomo non è buono, l’uomo è malvagio ». Riflettevo su tutto questo nell'autunno del 1955, quando mi fu offerto di girare L’alibi era perfetto, e mentre mi chiedevo se il pubblico avrebbe accettato il fatto che l’« eroe » simpatico del film, Dana Andrews, all’ultimo momento si rivelasse un odioso assassino, cominciai anche a domandarmi chi fosse peggio come persona, l’assas­ sino o la ricattatrice senza scrupoli che insegue con fredda determina­ zione il suo denaro. Questa non è una scusante per l’assassino, ma potrebbe essere una spiegazione. E la donna di cui l’assassino è innamorato? Lo ama veramente? Lasciare un uomo che ha commesso un assassinio è forse comprensi­ bile, ma tradirlo, consegnarlo sapendo che finirà sulla sedia elettrica, è un’altra cosa. Chi dei due è peggiore? O chi dei tre? O chi dei quattro, se includiamo il giornalista che è innamorato di Susan e leva di mezzo un rivale semplicemente telefonando al car­ cere? Allora qual è l’essere umano peggiore? L’uomo che viene spinto dalla propria natura all’assassinio, la ricattatrice che per denaro è disposta a rovinare un uomo, o i due filistei che non cercano neppure 40

4. Fritz Lang, L'alibi era perfetto (1956). La prigione di Tom Garrett (Dana Andrews); davanti a lui la fidanzata Susan (Joan Fontaine). 41

di capire cosa può avere spinto quell’uomo ad uccidere, prima perché « queste cose non si fanno », in secondo luogo perché consegnandolo al boia « come si merita », spianano la strada al proprio letto matri­ moniale rispettabile. Quale dei quattro è il personaggio più spregevole? 50

In particolare Lang svela, in alcuni suoi film, l’aspetto os­ sessivo, coatto, patologico e quindi innocente della colpa, in un rimando alla problematica di Mòrder. Ad esempio, in Bassa ma­ rea (House by the River, 1949) lo scrittore Stephen Byrne scopre in se stesso un irrefrenabile impulso ad uccidere. Senza nemmeno accorgersene, diviene assurdamente omicida, soffocando la dome­ stica Emily durante un tentato amplesso, finché, in un contrap­ passo per il suo delitto, Stephen viene strangolato improvvisa­ mente da un pesante tendaggio nella sua stessa casa, dalla quale, in modo naturale e repentino, la morte si sviluppa e si espande quale risultato del perbenismo e dell’ipocrita morale vittoriana. In Mentre la città dorme (While the city sleeps, 1955), una variazione di M, il giovane Robert, immaturo ed infantile, uccide avvenenti ragazze lasciando scritto sulle mura con il rossetto: « Chiedetelo alla mamma ». E alla madre del resto si rivolge, incolpandola con accenti di odio e di minaccia. Come avviene per il personaggio di Franz Becker, anche qui lo stato d’innocente ed insieme colpevole « diversità » dell’assassino è contrapposto alla sostanziale corruzione, ambizione e cinismo, megalomania che alligna a diversi gradi nell’ambiente giornalistico. In Dietro la porta chiusa (Secret beyond the door, 1948), Mark sente amore e brama delittuosa per le donne. Il dramma di Mark è avvenuto nella infanzia, perché una notte fu chiuso nella sua stanza dalla sorella, in tutta la tortura che nasce dalla solitudine, dall’abbandono e dall’amore negato. L’amore deluso della sorella rimanda a quello della madre. Da allora la mente di Mark diviene una stanza della tortura: il suo collezionare stanze felici, che hanno tutte in comune la morte violenta di donne, uccise in storici e celebri delitti punitivi, non è che una quoti­ diana proiezione allucinata del suo passato. « Felice », dichiara alla moglie, significa « agevole all’effetto »; e l’effetto è il crimine, da lui tanto amato e tanto odiato, che lo spinge ad un arredamento perfetto, da incubo megalomane. Chiu42

5. Fritz Lang, Il covo dei contrabbandieri (1954). L’incontro dei bam­ bini con la morte. 43

so nel suo « io » narcisista, Mark vive in un tale sdoppiamento, che, quando si affaccia alla sua mente il desiderio di uccidere la propria moglie, vediamo egli stesso divenire contemporanea­ mente accusatore e difensore. Nel tribunale della coscienza egli esclama: « Siamo tutti figli di Caino ». Cecilia, la nuova moglie, che racconta la sua esperienza, evocando immagini simboliche di narcisi ed acque amniotiche, ama lo sposo, proprio affascinata dal suo mondo di ombre e fantasmi delittuosi. L’amore della sposa per Mark è più forte della morte: ed essa tenta il rischioso salvataggio dell’innamorato come la giovinetta di Destino, opera continuamente presente nella poetica del regista. Del resto il dittico La tigre di Eschnapur (Der tiger von Eschnapur, 1958) e 11 sepolcro indiano (Das indische Grabmal, 1958), certo fantasioso, ma non privo di pletorica ed oleografia, costituisce una variazione dell’episodio cinese del ’21. 1 due amanti, la danzatrice Seetha e l’architetto Berger, colpevoli di aver infranto la legge e la religione, fuggono dal regno del ma­ ragià Chandra, che, a sua volta, pentito del suo sadico compor­ tamento, trova nell’umiltà della religione il modo di purificarsi, rinunciando a quella onnipotenza che Lang denuncia nella sua ultima opera, Il diabolico Dottor Mabuse (Die Tausend Augen des Dr. Mabuse, 1960), autentica rappresentazione dell’occhio cannibalico del male, che, tra mille finzioni, alberga nella società come uno spettro del nazismo ancora operante.

Chiar di luna Il covo dei contrabbandieri (Moonfleet, 1954), film interessan­ te per il suo denso retaggio espressionista in simbiosi con la genesi della poetica del regista, rinvia direttamente al racconto di Lang del 1927. L’orfanello John Mohune, che cerca nell’avventuriero Jeremy Fox « un amico », in una atmosfera tra sogno e realtà, entra in contatto con la morte, « umanizzata », « simbolica » ed infine « gotica ». Immagine di questa sono i crudeli contrabbandieri della costa, la coppia dei perversi aristocratici Ashwood, l’umi­ liata ed infida Lady Minton, amante di Fox; la figura del guer­ riero Mohune, detto Barbarossa, ed infine l’emblematica rappre­ sentazione « gotica », la statua di legno dell’Angelo del cimitero, 44

6. Fritz Lang, Il covo dei contrabbandieri. La rivolta morale di Je­ remy Fox (Stewart Granger) che spara a Lord Ashwood (George Sanders). 45

il cui volto brilla di luce demoniaca, tanto da far fuggire terro­ rizzato l’orfanello. Lo sguardo spettrale del simulacro sembra determinare, fin dalle prime immagini del film, la caduta del bambino nell’allu­ cinante odissea delle varie stazioni, la fossa dei contrabbandieri, la grotta, la taverna, la scogliera, cioè nei vari pericoli di una infanzia, come in M, sempre sul punto di essere negata o distrutta. Jeremy Fox, che è stato legato alla madre del piccolo John da un amore profondo, contrastato e umiliato da barriere di classe — tanto da conoscere l’orrore della tortura fisica dalla crudele stirpe dei Mohune — è forse il personaggio tra i più tragici di Lang: in lui, cinismo e sentimento, colpa ed innocenza perduta si mescolano, fino al totale riscatto, alla rinuncia del te­ soro ritrovato. Moonfleet ha analogie sia con La donna nella luna, in cui si sviluppa il tema della brama dell’oro e il ragazzo si salva, sia con Destino, ove la fanciulla finisce per unirsi nell’al di là con il suo innamorato, piuttosto che negare la vita ad un infante. In­ fatti Jeremy finisce per ricongiungersi idealmente alla donna ama­ ta, che gli ha inviato — quale « messaggero d’amore » — il pic­ colo John: in ricordo di lei e per il fanciullo, l’avventuriero rin­ nega Ì piani delittuosi di pirateria con gli aristocratici e si sacri­ fica. Interrompendo il viaggio notturno, Fox spara contro Lord Ashwood, che proditoriamente lo ha ferito a morte con la lama nascosta nel suo bastone. Quel repentino colpo di spada e di pistola, accompagnato dal­ l’eco sinistra dei cavalli imbizzarriti e dallo sfascio della carrozza dei criminali, sembra far deflagrare — come simbolico segno di riscatto — l’universo asfittico e maligno di Moonfleet, scolpito da un imprigionante uso del « cinemascope » a colori, ispirato alla pittura di Hogarth e scosso dal timbro lugubre, ora estraniato, ora romanzato, della musica di Miklos Rozsa. Lang dice che il « cinemascope è adatto ai funerali e ai ser­ penti ». Il senso funereo è diffuso in tutto il film, fino alla me­ lanconica e commossa scena finale in cui John apre il cancello della villa nell’impossibile attesa che torni Jeremy, ormai dive­ nuto suo vero amico con il gesto estremo. Al tema della morte si associa quello del « doppio ». Il mo­

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tivo dei serpenti, inteso come metafora della doppiezza, ipocrisia e raggiro è un aspetto centrale del film: già Lady Minton, che tradirà Jeremy e l’orfanello, viene inquadrata con il volto vicino ad un affresco che mostra un groviglio di serpi, nel momento in cui nel corrotto castello entra il bambino, destinato a modificare la coscienza dell’avventuriero e quindi suscitare il risentimento della donna; gli stessi Ashwood conoscono il raggiro e la dop­ piezza, disposti ad ogni compromesso per il potere; il contrab­ bandiere Greening viene fulminato dalla pistola di Fox come un serpente, dopo che, in un agguato, ha scagliato in modo prodi­ torio un coltello contro l’avventuriero; l’avo Mohune tradisce per il possesso del diamante il proprio re; il giudice di pace Maskew è un sadico ed espone i cadaveri dei contrabbandieri lungo le strade di Moonfleet, a mo* di esempio, lasciando che i bambini li possano vedere. Fox, che pure si redimerà, dice di aver fatto « il patto con il diavolo » ed usa la finzione del tra­ vestimento per inserirsi insieme al bambino negli accampamenti militari e impadronirsi della pietra preziosa. Il paese stesso è come sdoppiato: da una parte c’è la losca sotterranea attività dei contrabbandieri di « seta, tabacco, rhum », che crea misteriosi suoni notturni nel villaggio, dall’altra vi sono le dicerie della gente che crede che il villaggio sia dominato da corpi risuscitati, Greening, Barbarossa. Il sacerdote del villaggio, nella chiesa, ove si erge il simulacro di pietra del guerriero, ac­ cusa di superstizione la gente di Moonfleet, sdoppiata tra paga­ nesimo e cristianesimo. Il paesaggio di Moonfleet con le sue sinistre taverne, con il suo cimitero, con le sue radure è veramente un paesaggio lunare. Il titolo del film, che allude al covo dei contrabbanieri, significa « Flotta della luna ». Del resto, nel suo racconto, Lang dice che la « perturbante nera straniera » gli appare quando la stanza fa­ miliare, a dirla con Freud, Vheimlich, cioè il mondo domestico, è « inondato dal chiarore lunare ». Giovanni Macchia ci ricorda « una serie di lune malefiche, sul teatro, in. pittura, in poesia, nella musica, lune espressionisti­ che colme di desideri orribili e dolci come quella del Pierrot Lunaire, o che accompagnano e quasi invitano al delitto, rosse come ‘ un ferro insanguinato ’ nel Wozzeck, o quelle pericolanti di Klee e Chagall, di cui l’uomo teme la caduta, sulla sua testa indifesa ». 47

In questo caso, a dirla con Macchia, ci troviamo innanzi ad una luna espressionista « legata ai fantasmi e alle apparizioni, ai sogni, ai lati oscuri della natura »51. E veramente la sequenza iniziale de II covo dei contrabban­ dieri, in cui un cielo tempestoso si ammanta di chiazze di viola sangue e gialli macilenti, sembra un paesaggio dove la luna sia caduta sulla terra, per annunciare l’avvicendarsi di delitti e cata­ strofi: le varie ripetitorie forme di male, di finzione, morte e crudeltà incontrate dal bambino, il destino tragico di Fox e di Lady Minton che conosce, prima, l’esilio dalla propria patria e poi una fine ignominiosa in terra straniera, la caduta nell’abisso dei luciferini Ashwood. Il riferimento culturale al saggio di Macchia ci permette di sottrarre l’opera all’accusa di essere un modesto « film di cappa e spada », come parve a molti critici, che alla prima pubblica­ zione non si accorsero nemmeno che Lang aveva attinto a fonti culturali quali Great expectations di Dickens e Kidnnapped di Stevenson52. L’ambiente di Moonfleet evoca altri e diversi paesaggi del regista tedesco. Sia chiaro che l’espressione « paesaggio lunare » va qui intesa non solo nel suo significato letterale, ma anche in quello traslato. La complessa temperie langhiana sembra infatti brillare non di luce diretta, ma riflessa, ora diffusa, ora tagliente, ora come investita dal chiarore malato di un pianeta spento. Co­ munque, è una temperie fatta di luce e di ombra, che esprime costantemente la dialettica del bene e del male, della colpa e dell’innocenza. Ad esempio, nella trilogia sociale, in Furia, si ponga attenzio­ ne alla luce accusatrice che si accende nell’aula del tribunale, al­ lorché la macchina da proiezione mostra sullo schermo i volti e i gesti della folla dei cittadini che hanno linciato Joe Wilson. Per i film antinazisti, in II prigioniero del terrore, si ricordi la sequenza del bombardamento rischiarato dai bengala, dove un colpevole, il finto cieco, che appartiene non a caso alla fittizia associazione delle « Madri delle Nazioni libere » — in realtà covo hitleriano — si dissolve insieme alla torta misteriosa che contiene il microfilm; oppure si consideri la seduta spiritica in casa della chiromante, in cui Stephen Neyle, nel bagliore spet­ trale della sfera di cristallo, è costretto a rivivere il suo com­ 48

plesso di colpa per aver lasciato morire la moglie, una notte, per eutanasia. Nella trilogia « western », in Rancho Notorious, una spilla di brillanti avrebbe dovuto adornare, presso il nido d’amo­ re « Paradiso azzurro », al chiar di luna, la giovane massacrata dal bandito: il monile diviene il leitmotiv funesto della colpa e della vendetta per il fidanzato Vern che diviene fuorilegge, della pena e del riscatto per Aitar, la responsabile del funereo mondo criminale, « Molino d’oro », celato tra notturne rocce e picchi espressionisti. Le vie de La donna del ritratto, Strada scarlatta, rischiarate dalla luce artificiale delle vetrine e dei lampioni accompagnano, come una quinta metaforica, le angosce e i rimorsi del professor Wanley, del pittore Chris Cross, toccati dal male e dal delitto, in seguito all’incontro con misteriose « donne fatali » ; analoga fun­ zione svolge il giardinetto di Gardenia blu, illuminato dal faro dell’auto della polizia e dal fuoco del forno, ove Norah, domi­ nata dal senso di colpa, brucia gli abbigliamenti indossati la notte dell’assassinio. In II grande caldo, allorché gli smarriti Bannion e Debbie parlano di esigenza di giustizia e di colpevole vendetta, la camera d’albergo, immersa nella penombra, viene sciabolata dalle strisce geometriche delle veneziane in un emblematico chia­ roscuro che indica l’ottenebrarsi e il risvegliarsi della coscienza in crisi dei personaggi. In La confessione della signora Doyle — seppure in tono non privo di retorica, del resto tipico di questo film, cui nuoce il trattamento talvolta letterario della commedia di Odets — la luna appare, quasi didascalicamente, due volte: tra nubi e onde in tempesta, quando Earl vive il conflitto passionale che potrebbe turbare la tranquillità domestica dell’amico; come diffusa e ar­ gentata distesa marina quando lo sposo ignaro, con il bambino in braccio, va verso la finestra ed esclama: « Guarda là, guarda, è la luna, sai, non è stupendo? è il più bello spettacolo di tutta la natura! » Ed è in quei momenti che anche la sposa Mae, re­ pressa nei sensi e nello spirito, vive il dramma, l’angoscia del possibile adulterio che ormai grava su di lei. Nei film in cui predomina l’aspetto della « colpa coatta », in Bassa marea, il paesaggio del fiume, decisamente lunare, in­ ghiotte e fa riemergere, come in un contrappasso, i corpi fatti scomparire dallo scrittore omicida. In Dietro la porta chiusa, il 49

7. Fritz Lang, Il grande caldo (1953). Il poliziotto Bannion (Glenn Ford) con Debbie (Gloria Grahame).

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8. Fritz Lang, Dietro la porta chiusa (1948). Lo smarrimento di Cecilia (Joan Bennett) nel bosco.

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pozzo dei desideri, acceso dalla corona delle candele, i corridoi della villa e i sentieri del bosco parzialmente o soffusamente illuminati, sono le stazioni di un emblematico labirinto dell’ani­ ma, ove tra impulsi di morte e di colpa, si muovono il possibile Barbablù e la sua sposa. In Mentre la città dorme, una luce forte e tagliente guizza nel grattacielo del megalomane e frustrato Kyne, sede di crudeli comportamenti umani e il colpevole/innocente « assassino del rossetto » va verso la sua inevitabile cattura nel notturno, imprigionante tunnel della metropolitana. In L'alibi era perfetto, l’atmosfera larvale, da pianeta spento, degli ambienti in cui si muovono, come manichini, i personaggi del didascalico racconto, esprime coerentemente l’ideologia del funerale della giustizia. La contrapposizione langhiana del bene e del male è, come abbiamo visto, variegata e così il paesaggio estetico che la esprime. Nel « dittico indiano », le luminose stanze del palaz­ zo del tirannico maragià sono sentite, dalla giovane Seeta pri­ gioniera, cupe e senza luce, come i sotterranei della tortura. Ugual­ mente ne La bestia umana, il paesaggio cordiale del treno in corsa accoglie il sorriso fiducioso di Jeff, sfuggito alla tentazione omicida e nello stesso tempo il corpo senza vita di Vicky, soffo­ cata dallo sposo umiliato e vindice. Nel finale de La tigre di Eschnapur gli amanti in fuga sono condannati a morire nelle sab­ bie del deserto. L’architetto Karl spara al sole che grava sulle loro teste e poi si getta, insieme all’amata, nella sabbia rovente. La sequenza, ritmata sia dal timbro repentino dello sparo e dalla immagine degli avvoltoi rapaci, sia dal gesto di volontà allucinata del giovane, che assurdamente vuol spegnere l’astro distruttore, finisce per evocare un paesaggio di silenzio e di tenebre. Dei due elementi, il luminoso e il tenebroso, è quello tenebroso a domi­ nare nel cinema di Lang. Scrive giustamente Peter Bogdanovich: « Come creatore di incubi, Lang ha pochi uguali; il suo mondo — sia che si parli dell’Inghilterra del XVIII secolo in Moonfleet o della middleclass dei ferrovieri in Human desire — è fatto di ombre e di notte, infestato da funeste apparizioni, colme dì presagi e violenze, di angoscia e morte »53. È fondamentale ricordare un altro passo autobiografico di Lang, sorto nel periodo in cui il regista si apprestava a girare La donna nella luna, al suo ritorno dal viaggio in Asia, nel Vienna52

Berlino express. Tale brano indica l’amore che il nostro autore ha per il paesaggio notturno, stellare e lunare, vagheggiato in un sogno narcisista, infantile, nel gioco della megalomane invenzione fantastica: Amo la notte nella carrozza letto. Posso rimanere disteso per ore, le mani sotto la testa, e lanciare sguardi nel buio. Il girare delle ruote che ha per me un ritmo sempre nuovo e mutevole, il dolce mo­ vimento del corpo avanti e indietro, il fischio della locomotiva, gli sciami di stelle cadenti, del loro scintillìo, la consapevolezza di essere trasportato da un posto all’altro, senza aver niente da fare all’infuori di rimanere sdraiato ed immobile, vagheggiando i sogni della giovi­ nezza: rimboscata indiana all’odiato « cavallo di fuoco » — forse anche un po’ de La madonna delle carrozze letto — tutto questo con­ tribuisce a creare in me una condizione di ebrezza da cui traggo ri­ petutamente ispirazione, che mi rende felice e alla quale anelo con­ tinuamente. Questa notte, adesso, diveniva per me la più avventurosa cavalcata della mia vita, mai avuta fino ad allora: la visione ottica del mio navigare verso la luna. Non importa ciò che si era trasferito dal libro al mio cervello cinematografico, qualsiasi cosa io raccogliessi o rifiutassi, costruissi o mettessi da parte, ero ammaliato dall’unico, insostituibile — ma anche il mai estinguibile — delirio che il sog­ getto ispirava [...]. Una cuccetta di vagone letto divenne uno spaziocabina-nave e uno sbuffante veicolo, attaccato alle rotaie con una velocità di settanta o ottanta Kmh., si trasformò in un razzo in corsa attraverso lo spazio ad una velocità di undicimila duecento metri al secondo. Naturalmente fra la terra e la luna intercorrono 384.000 Km., la stessa distanza che si frappone tra il desiderio e la sua rea­ lizzazione — esprimibili in anni luce solamente 54.

Accordiamo questo brano « luminoso » sulla luna a quello de­ cisamente « tenebroso » de La benevola morte, e ritroveremo il commutatore, autobiografico, ideologico e stilistico, di Lang, la dialettica di bene e male, di colpa e d’innocenza, megalomania ed annientamento che, in modi diversi, condiziona le opere mag­ giori e minori. Ad ogni modo, ora a noi preme non il giudizio di valore sulle singole opere, quanto la delineazione di un progetto di poetica, e soprattutto un orientamento etico-estetico, un indice del rapporto poetica e poesia, il rinvenimento di una centralità nell’opera di Lang. Siamo tuttavia convinti che Mòrder sia il film 53

politicamente e moralmente, oltre che esteticamente, più avanzato del regista, sia perché si cala nello spessore profondo della sua poetica, sia perché privo delle istanze melodrammatiche, talvolta convenzionali, pagate ad Hollywood e giustamente invise a Brecht. Inoltre, la luce lunare degli ambienti spettrali simili a car­ ceri oscure di Mòrder è la più complessa e la più allusiva dei film di Lang. M, avverte Brega, « è ben centrato su un perso­ naggio, sulla sua follia, ma, come in teatro, il riflettore puntato sul primo attore rivela nell’alone di luce un pezzo di mondo »55. Scegliendo come « pezzo di mondo » gli ultimi anni della Repub­ blica di Weimar, Lang, autore dall’ideologia borghese in con­ trasto con Brecht, denuncia il morbo nazista. E il grembo da cui il mostro nacque — come insegna il drammaturgo in Arturo Vi — è ancora fecondo56.

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Il

« Messaggero d’amore » di Losey

Il tema dell’infanzia, distrutta o smarrita, narrato da Lang è consono anche alla poetica di Losey, che ha girato il rifaci­ mento di M e Messaggero d’amore (The go-between, 1970). Per questo ultimo film, insieme al nome di Proust, si deve fare an­ che quello di Freud. Il dramma di Leo anziano, che non riesce ad amare, risale all’infanzia, al suo rapporto con la coppia, quando da giovinetto fungeva da latore di lettere amorose fra l’aristocratica Marian e il plebeo, rude Ted. Per essere rimasto vittima di una morbosa conoscenza di tale relazione, luttuosamente conclusasi, Leo, in seguito, è divenuto col cuore insensibile e freddo, sembra non voler o poter sentire la « necessità d’amare ». The go-between è film particolarmente importante nella pro­ duzione loseyana, perché in modo diretto, per la prima volta, il regista indica la genesi della sua ossessiva poetica servo-padrone. Questa risiede appunto nella situazione di Leo, personaggio, certo autobiografico in Losey: è noto quanto amore e distruzione — secondo Freud — può sorgere verso i familiari nel bambino che si avvia alla nevrosi. Nella sua « onnipotenza infantile » (qui simboleggiata dalle significative pratiche di magìa, modi per rea­ lizzare ogni desiderio ed insieme « meccanismo di difesa » contro l’angoscia), Leo entra in relazione con i due amanti, figure so­

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stitutive dei genitori, cercando presso di loro quell’amore e si­ curezza che non riesce ad ottenere; ama Marian ed invidia, pur amandolo, Ted, che riesce ad avere la giovane; incuriosito, si sente escluso dal loro rapporto che finisce per sentire in maniera ansiosa. Prima, in una esperienza destinata a diventare trauma­ tica, il ragazzo sembra addirittura interpretare l’amplesso d’amore in senso distruttivo, allorché avverte il respiro affannoso di Ma­ rian vicino alle piante velenose del vecchio giardino. In seguito sorprende gli amanti, condotto a forza nel loro segreto luogo di incontri dalla madre della giovane in una notte spettralmente temporalesca; e, ancora una volta, il respiro dei due corpi allac­ ciati sembra assumere per lui quasi il suono di un rantolo.

Servi e padroni

Riferendoci all’esperienza di Leo Colston, si può dire che per non aver superato l’infantile situazione « edipica », i personaggi dei film loseyani si sentono in colpa, frustrati, servi, e da tale condizione cercano di sollevarsi — mediante l’onnipotenza in­ fantile — ad una dimensione di padrone — stabilendo spesso rapporti perversi ed immaturi come quelli tra Tony e Barrett ne Il servo (The servant, 1963) tentando vanamente una comuni­ cazione che si risolve come dominio dell’uomo sull’uomo. L’uno serve l’altro in un conflitto di attrazione e repulsione, come se « Falter » fosse un pezzo utilizzabile per la propria persona. In questa tensione di servitù e dominio, i personaggi cercan­ do l’uno nell’altro una parte della loro umanità dimezzata, hanno una comunicazione solo apparente, non escono da loro stessi; ogni rapporto reale è compromesso, solo illusorio, poiché dare o darsi significa soltanto usare, un usare che si ripercuote costantemente nella vita sociale. A dirla con Marx, il regista inglese mostra nel­ la patologia dei suoi personaggi l’uomo egoistico « in quanto membro della società borghese, ossia chiuso in sé, nel proprio interesse privato e nel proprio privato arbitrio, separato dalla comunità », cosicché la società viene intesa come « una cornice esterna degli individui, una limitazione della loro originaria au­ tonomia » *. Nonostante il suo incontro avuto nel passato con Brecht e quindi con Marx, Losey è restato sempre allo stadio di 56

9. Joseph Losey, Messaggero d’amore (1970). Marian (Julie Christie) consegna la lettera a Leo Colston, suo messaggero (Dominic Guard). 57

diagnosi amara ed impotente del mondo borghese ed aristocra­ tico, proprio per la pessimistica concezione dell’individuo inteso come egoistico, spesso malato e comunque incapace di « organiz­ zare le forces propres come forze sociali ». Il regista ha cercato di esemplificare, a livello di parabola cosmica, il suo pensiero nel labirinto senza uscita del tutt’altro che convenzionale Caccia sadica (Figures in a landscape, 1970) allargando il tema della servitù a quello dell’impero della « macchina » e la impassibile crudeltà dominatrice della natura: l’unico legame che tiene unite le due « figure in fuga nella pianura » è soprattutto — a dirla ancora con Marx — « la necessità di natura, il bisogno e l’inte­ resse privato ». Anche in Messaggero i personaggi sono costruiti in questa dialettica sempre risorgente di servo-padrone. Marian e Ted usa­ no come servo Leo, i genitori della giovane adoperano il Visconte Hugh Triminghan per riparare cou un matrimonio di convenien­ za allo « scandalo », la madre di Marian non esita a servirsi con crudeltà di Leo perché l’aiuti a scoprire il luogo dove Ted e la figlia si amano; Marcus, il ricco compagno di scuola, che ha ospitato Leo per le vacanze estive, tende ad esercitare il proprio dominio sull’ospite in un continuo giuoco servo-padrone, che Leo d’altronde ricambia; i due amanti infine vedranno la loro relazione brutalmente interrotta per barriere di classe. Tale poetica trova esiti positivi a livello espressivo, in quelle opere in cui la componente storico-sociale non è giustapposta dall’esterno, ma intimamente vissuta dai personaggi, come av­ viene nel morbido e tetro mondo domestico de II servo o nel triste ambiente universitario-familiare de L’incidente (The acci­ dent, 1967); e in quei lavori in cui — a differenza di quello che accade in Cerimonia segreta (Secret ceremony, 1968) — la sceneggiatura di Pinter aiuta Losey a superare la componente melodrammatica e naturalistica, come avviene in gran parte in Messaggero, film colto, sincero e sofferto, e la cui composizione, filtrata dalla memoria, guarda a Proust. « Quando si deve trasportare un personaggio scenico in un luogo lontano e diverso, pur facendolo rimanere in scena sempre sotto gli occhi dello spettatore », osserva Debenedetti, « lo si tiene immobile, al massimo gli si fa segnare il passo, mentre dietro di lui si fa scorrere il fondale che rappresenta il succe­

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dersi dei luoghi attraversati dal personaggio »2. « Il romanzo di Proust », continua il critico, « fa qualcosa di analogo, crea il movimento in quella successione di attimi immobili, facendo scorrere il tempo dietro la loro immobilità ». In un certo modo « qualcosa di analogo » avviene nel film, ove l’anziano Leo, che racconta la sua vita, è come immobile nel tempo o « tutt’al più segna il passo ». Lo scorgiamo come fermo in grigi esterni, entra lentamente per momenti discontinui nella casa di Marian, ma dietro la immobilità del protagonista o meglio la sua mobilità condizionata, simbolo quasi della sua paralisi ed impotenza a modificarsi, Losey fa scorrere con mezzi teatrali e filmici stili­ sticamente maturi « il fondale del tempo » della vecchia Inghil­ terra. « Come scorre il tempo, scorre anche lo spazio » — spe­ cifica Debenedetti — « cioè non sono gli oggetti a provocare, col loro moto, l’apparizione di oggetti successivi; è lo scorrere dello spazio a sostituire quegli oggetti con quelli nuovi e diversi che occupano la successiva porzione di spazio ». E in questo spazio portato dal tempo, si animano nel film « i luoghi attraversati dal personaggio », la villa sontuosa — scale gallerie quadri —, l’ampia campagna e parco circostante, il luogo per le merende, ove Leo bambino accarezza i capelli bagnati di Marian e scopre la presenza virile di Ted, le colazioni sull’erba e le ricche cene, le corse tra i campi dalla abitazione di Marian a quella rustica di Ted, le passeggiate in carrozza nel sole, i rituali convegni do­ menicali alla chiesa.

Giardini in una tazza da té

In tale paesaggio, dolce ed angoscioso, compaiono due com­ ponenti tipiche della narrativa di Joyce e Proust, su cui tanto insiste l’autore del Romanzo del Novecento e che Aristarco ha messo in evidenza a proposito del cinema della memoria3. La prima è l’epifania (« il fenomeno di seconda vista per cui la cosa, percepita nell’oggettività materiale, naturale del suo apparire, invita a scorgere ed effettivamente fa scorgere qualcosa d’altro »); la seconda è l’intermittenza del cuore (« un risorgere del tem­ po perduto, di un tratto del tempo perduto, grazie all’opera — meglio si direbbe l’intercessione — della memoria involon­ 59

taria stimolata da una sensazione, da un oggetto, che talvolta con quelle immagini, con la viva e folta anima di quelle imma­ gini, ha poca somiglianza, poche analogie, spesso puramente ca­ suali »). E {’epifania si sposa con V intermittenza del cuore, nella ricerca di un « oltre », appunto l’inconscio, il passato, « paese straniero », dove — come osserva il protagonista ormai senile — « tutto si svolge in modo diverso »: nell’adolescenza infatti, pur nell’angoscia egli ha amato Marian, in vecchiaia l’amore gli è negato. Così il narratore, nella sua giornata umida e grigia, ri­ corda con la « memoria involontaria » la viva e folta anima delle immagini del passato, in cui oggetti e situazioni tendono ad epifanizzarsi, ad avere cioè un loro « oltre » simbolico. « L’epifania o momento irradiante » — avvisa Debenedetti — « questo ri­ splendere o apparire è ciò che chiamiamo simbolismo e il suo oggetto radiante è il simbolo ». Si osservi quella luna tra nubi oscure che appare durante le pratiche di magia del giovinetto — quasi un enigmatico occhio che sembra conoscere il suo triste destino — quei fiori venefici, che, nel loro nome di bellezza muliebre associato a quello della morte, evocano il presagio del suo futuro disgregato e senza amore: « Atropa » significa « senza vita ». Delenda est Atropa Belladonna, esclama il giovane e ripete l’anziano Leo, allorché percepisce con ambascia il respiro della donna nell’amplesso; si faccia attenzione alla pagina appena letta di un libro che allude al ceto sociale o a quella della Bibbia che parla del Tempo; si osservi il fazzoletto di Ted, insanguinato dalla ferita del bambino e conservato da Marian. Tale oggetto rinvia a ferimenti più gravi, il graffio spirituale subito da Leo e l’autolesione estrema di Ted, divenuto suicida, perché privato dell’amore della sua donna; si osservi la cicatrice sul viso di Hugh Triminghan, quasi un pre­ sagio del ruolo riparatore che opererà il gentiluomo sposando l’addolorata fanciulla; e quella solenne cattedrale che sembra in­ cutere timore al ragazzo, acuire il suo senso di colpa. In questa complessa orchestrazione intimista della memoria, la composizione di Messaggero ritma spazi e tempi allusivi, in cui ogni accadere attrae lo spettatore, quasi incuriosito proprio dal sentimento epifanie© che il film sprigiona. L’« oltre », cioè l’unità perduta della persona, « il di là da se stesso » frantumato di Leo — l’amore di Marian — ciò che possa ricomporre la sua

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esistenza lacerata, diviene una dimensione irraggiungibile, certo una possibilità impossibile. Marian, divenuta Lady Triminghan, ha il volto distrutto dal Tempo, un volto del passato che ram­ menta quello della madre Madeleine Mausdley. E vanamente la vecchia signora vorrà che il vecchio Leo convinca il proprio ni­ pote, diretto discendente del figlio avuto con Ted, a sciogliersi dal suo gelo e solitudine; pare impossibile anche per lui ogni mutamento, preclusa la possibilità d’amare. Potremmo asserire che questo personaggio rappresenta, con la sua triste giovinezza, il periodo di tempo intercorso dall’età di Leo bambino a quello di Leo anziano. Da questo continuo « oltre » il sottile fascino misterioso del film che sottende un viaggio a ritroso che potrà difficilmente recare compostezza ed equilibrio alla persona. Cade così ogni accusa di formalismo e addirittura di oleografia rivolta all’opera. Al contrario, figure paesaggi e fisionomie hanno lo spessore di un funzionale visivo che non rinuncia ad una dimensione corale: durante la partita di cricket, ove il ragazzo, « piccolo David » gareggia con Ted, per mostrare il suo potere, il tema della distinzione servo-pa­ drone, sia pur di riflesso, sembra esser vissuto dalle altre figure — quegli aristocratici contrapposti ai poveri del villaggio. Si può inoltre dire, pur procedendo con cautela in simili confronti, che la composizione pittorica in Messaggero diviene, come osserva Macchia4 a proposito della Recherche, « simbolo di una società che amò specchiarsi edonisticamente in colori ed immagini: rifra­ zioni luminose in paesaggi aperti, psicologia soave ed ambigua, incanto e persecuzione degli oggetti »; e che in tale società « l’a­ more per la comodità mondana cela sgomento e orrore della morte »5. Nasce così nel film una confessione e ricerca del tempo e insieme dell’uomo perduto, in un’ottica, « irradiante », ora cupa, ora luminosa, in un sonoro asincrono e frantumato nel tempo, come la coscienza del narratore; perciò, a livello di affinata con­ sumazione autobiografica, parafrasando Proust, si può asserire che per Leo Colston « i fiori del giardino e quelli del parco dei Mausdley, e la buona gente del villaggio e le loro casette e la chiesa e la contea di Norfolk e i suoi dintorni, tutto quello che vien prendendo forma e solidità, è sorto, città e giardini,-dalla tazza da té ». E in questa grande « intermittenza del cuore », le più signi­ 61

ficative epifanie sono l’abito e la bicicletta « verdi » donati al ragazzo. « Verde », afferma Marcus, riferendo le parole di Ma­ rian « significa “ imberbe ” “ immaturo ” » e il regista allude alla “ regressione ” di Leo vecchio: i capelli verdi del personaggio del primo film di Losey si sono completamente epifanizzati ed indicano che all’essenza di quell’opera prima non c’è tanto storia di un messaggio antibellico e pacifista, ma soprattutto storia, dramma di una «diversità»: infatti, a livello espressivo, mentre retoriche risultano le sequenze della spettrale apparizione dei piccoli mutilati di guerra e didattiche le considerazioni dello psi­ cologo e della maestra, assai efficaci invece appaiono le scene in cui il bambino scopre i tratti differenti della propria immagine riflessa nello specchio e quella del crudele taglio dei capelli, in­ nanzi agli abitanti del villaggio, che lo hanno allontanato con il loro conformismo. E la « diversità » è una componente importante nel cinema di Losey: viene espressa intensamente nell’orrore dei bambini abituati alle radiazioni atomiche in Hallucination {The damned, 1962), nella solitudine di Don Giovanni e soprattutto nella tra­ gica esperienza di Mr. Klein, l’ebreo che pagherà con la vita il fatto di essersi allontanato dalla sua razza, di essere venuto meno all’impegno morale verso i suoi fratelli.

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« Stavisky... » di Resnais

Stavisky: il grande truffatore {Stavisky..., 1974) di Alain Re­ snais, rimanda a diverse mediazioni culturali. Per quel che ri­ guarda la « letteratura dei fumetti », un po’ Phanton e un po’ Mandrake, Stavisky ha la massiccia prestanza dell’uno e l’ele­ ganza dell’altro (abito da sera, cilindro e mantello). La sua im­ magine è disegnata, insieme con quella di altre figure del film, in una vignetta del Petit Journal Illustre che mostra la sua cat­ tura a Marly Le Roy nel 1926, cui segue la sequenza dell’arresto in una temperie che rinvia a quella dei film muti: si pensi ad esempio al « serial » Pantomas di Louis Feuillade. Inoltre il gu­ sto del « poliziesco » è riconfermato dall’antico progetto del re­ gista di ricavare un film da Le avventure di Harry Dickson, mentre quello del « tenebroso » risente dell’attenzione alla nar­ rativa di Lovecraft. Dietro la facciata del romanzesco e del fumetto, c’è la per­ sona Stavisky — nella accezione junghiana — maschera e indi­ viduo. Nel superficiale ambiente oleografico di un night club pa­ rigino, ove risuona un popolare motivo orientale ridotto a squalli­ do folklore, certo una beffa per l’ebreo, lo « straniero », il « mega­ lomane », « folle » Stavisky, egli dichiara la sua imperscrutabilità ad un ministro che non lo comprende: « Lei non sa niente, nes­ suno sa chi sono io, di cosa sono capace! » 63

La « mania di grandezza del giocatore », avverte Edmund Bergler 1 potrà solo comprendersi esaminando brevemente un fe­ nomeno comune nella psicologia infantile, la « fantasia di onni­

potenza ».

Il giocatore

Secondo Bergler, il bambino non conosce che un’unità di misura, quella del suo Io esaspe­ rato. Concepisce il mondo esterno come qualcosa su cui egli abbia completo controllo. Tale fraintendimento della realtà viene favorito dai genitori che, automaticamente, cercano di esaudirne ogni desiderio di cibo, sonno, affetto. Il bambino considera l’adempimento di tali desideri fisici ed emotivi come risultato non dell’amore della madre, bensì della propria onnipotenza. Gradatamente, l’esperienza della realtà distrugge questa illusione, e tale esperienza costituisce probabilmente il più profondo disinganno dell’infanzia [...]. Divenire adulti nel senso reale della parola, significa abbandonare il principio del piacere (Freud) per il principio della realtà [...]. Esiste tuttavia una situa­ zione eccezionale nella vita, nella quale il principio della realtà non prevale sul principio del piacere: ed è il gioco. Giocare fa perciò rivivere l’antica fantasia infantile di potenza e megalomania. Ciò che è più importante, attiva la rivolta latente contro la logica, l’intelli­ genza, la moderazione, la moralità e la rinuncia. Il principio del piacere non viene mai completamente abbando­ nato; se ne trovano sempre tracce, più o meno spiccate, nell’incon­ scio. Di tanto in tanto, l’esigenza latente di arrendervisi diviene una forza attivante, che induce l’individuo a schernire ironicamente tutte le norme di vita apprese dall’educazione e dall’esperienza. Ne deriva una forte rappresaglia interiore. Dato che il bambino aveva appreso quelle norme dai genitori o dai loro sostituti [...] la sua rivolta sca­ tena un profondo sentimento di colpa. In termini clinici, è questa la situazione psichica del giocatore: in primo luogo, aggressività incon­ scia, in secondo luogo, tendenza inconscia autopunizione in ragione di quella stessa aggressività. Il fattore autopunitivo, che è sempre presente, non viene quasi mai riconosciuto se non nel corso del trat­ tamento psicoanalitico. Così, il fraintendimento infantile, inconscio, nevrotico dell’intero processo del gioco crea un circolo vizioso senza fine. Da qui l’interiore necessità di perdere. L’atto di giocare costi­ tuisce in se stesso un rinnegamento del principio della realtà.

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Tale ambivalenza di megalomania e frustrazione connesse con il « sentimento di colpa » è presente in Stavisky che cerca di op­ porre il principio del piacere al principio della realtà, onde con­ servare « l’onnipotenza infantile » mediante una « rivolta » con­ tro la logica, l’intelligenza, la moderazione, la rinuncia, espressa attraverso il gioco, il ladrocinio, la truffa. Perciò egli dichiara che il piacere è da « gente ricca » e che per raggiungerlo non « basterebbe tutta una vita ». Adagiato sulla tomba del cimitero parigino ricorda con la­ tente rimorso la morte del padre suicida per la condotta immo­ rale del figlio:

Il giorno in cui si accorse che rubavo l’oro delle protesi dentarie nel suo gabinetto mi disse: « Sacha, se tu disonori il nostro nome io mi ammazzo! »... L’onore, il lavoro: erano le uniche parole che aveva in bocca! Come se il suo nome lo avessero rispettato, in Ucraina, all’epoca dei pogroms! Ma voleva dimenticare, voleva essere consi­ derato un garbato dentista del XVI arrondissement!... Se non fosse stato per il nonno che lo prendeva in giro, sarebbe andato a messa tutte le domeniche... Cosa c’è di più terribile che avere un padre vigliacco? E malgrado tutto ha avuto il coraggio di spararsi una revolverata! Poco dopo questa confessione si rifugia come un bambino nel grembo della sua sposa Arlette. La donna è sentita sia come madre protettrice, cioè « vita », sia come negatrice dell’infantile narcisistico principio/ del piacere, cioè « morte ». In tale ambi­ valenza ora ella appare luminosa sullo sfondo marino di Biarritz e i fiori incorniciano radiosamente la sua bellezza nella camera esposta al sole; ora i fiori appaiono come décor di una camera ardente nella stanza in penombra oppure evocano un carro fu­ nebre, quando le sono recati in omaggio dallo sposo sull’auto inghirlandata. Arlette dichiara al corteggiatore Montalvo di appartenere a Stavisky ed esclama: « Non sono virtuosa. E non rispetto il sa­ cramento del matrimonio [...] ma appartengo a un uomo, sono sua. Lui soltanto può liberarmi da questa schiavitù. E l’unica cosa al mondo di cui ho paura è che mi restituisca a me stessa! » Stavisky, immagine possessiva e asservitrice di Arlette, è la qualità maschile inconscia della donna, cioè l’animus; a sua volta 65

Arlette, immagine della fragilità di Stavisky, nascosta sotto l’ap­ parenza di falsa sicurezza, è la qualità femminile inconscia del­ l’uomo, cioè l’« anima ». Non a caso il barone Raoul, amico della nevrotica coppia, osserva che il « vero segreto » del truffatore è la sua sposa: Arlette ci conduce all’inconscio di Stavisky. Si comprende così la sequenza in cui egli incontra il giovane inven­ tore del Matriscopio, « apparecchio rivoluzionario che permette di esaminare le donne incinte, di prevedere il sesso del nascituro e di diagnosticarne lo stato di salute ». L’interesse che il truffatore ha di finanziare il Matriscopio tradisce un latente desiderio di conoscere la parte più remota della formazione del suo « io », ancorato all’angoscioso amore materno. Frantumato nella sua psiche, Stavisky è in preda fortemente all’« istinto di morte ». Se Claude Ridder di Je t'aime, Je t'aime. Anatomia di un suicidio {Je t'aime, je t'aime, 1968) era « mezzo morto » e tentava, mediante un esperimento di laboratorio, di rivivere frammenti della propria esistenza passata per giungere forse a un nuovo totale annientamento, anche Stavisky potrebbe dire come Claude Ridder e il narratore della Ricerca di Proust:

il pensiero della morte si insediò definitivamente in me, a guisa di un amore. Non che amassi la morte: la detestavo. Ma senza dub­ bio, dopo avervi pensato di quando in quando, come a una donna che non si ama ancora, adesso il pensiero di lei aderiva così strettamente al più profondo strato del mio cervello che non potevo oc­ cuparmi di una cosa qualsiasi senza che questa cosa qualsiasi attra­ versasse anzitutto il pensiero della morte; e, anche se non mi occu­ pavo di nulla, ed ero in pieno riposo, tale pensiero mi teneva com­ pagnia con la stessa assiduità del pensiero del mio proprio 4 io *2.

Teatro di Spettri Calato nel labirinto esistenziale di « io, donna, vita, morte, incomunicabilità », citando Oscar Wilde, il truffatore dichiara che « il peggio nella vita non è la morte, ma la prigione ». Per­ ciò gli piace recitare Intermezzo di Giraudoux insieme all’attrice ebrea, Erna Wolfgang, profuga e marxista. Durante la scena, nell’« ombra » data dall’« effetto notte », Stavisky si incontra con lo Spettro, Poltre, l’inconscio. Spettro, significa « ombra con sem66

bianza » e tale intimamente si sente Stavisky nella sua tragica inconsistenza. Questo personaggio nevrotico, i cui « mille nomi » sono indici della sua frantumazione (Alexandre, Serge, AlexandreSacha, Jean-Sacha, Alex, Doisy de Monty, Victor Boitel) tenta di supplire alla sua effimera identità — cioè di consistere — mediante la finzione, il teatro, la festa, lo spettacolo. Egli si è così costruito un suo mondo artificiale, un teatro, l’Empire, un palcoscenico, vive e passa il suo tempo in scenografiche residenze come l’Albergo Claridge o I’Hotel du Palais, risiede in un ufficio segreto con finte pareti, ama travestimenti e baffi posticci, non sa rinunciare per la sua megalomania a feste rischiose come quella che lo porta alla cattura di Marly Le Roy; e infine a teatro, all’Empire e alla Comédie Fran^aise, si svolgono fasi importanti del suo procedere verso la sconfitta, la morte. Resnais ha così motivato questo aspetto della sua poetica programmatica:

È fuori dubbio che quello che mi ha sedotto nel personaggio di Alexandre è il rapporto con il teatro e lo spettacolo in generale. Il ricordo che conservo di quest’epoca è del resto fortemente impre­ gnato di teatralità. Stavisky mi appariva come un attore fantastico, un eroe da feuilleton. Egli aveva quel dono che consiste nel concre­ tizzare i propri fantasmi con gesti superbi; bisognava che recitasse ogni giorno una specie di commedia. Era lontanissimo dal finanziere seduto nel proprio ufficio che accumula denaro; l’importante per lui era spenderlo. Era un essere che viveva continuamente dentro una rappresentazione. Aveva il desiderio di darsi allo spettacolo non soltanto su una scena (non a caso acquistò l’Empire e si occupò anche di produzione cinematografica verso il 1927-28), ma nella vita. E questo è sicu­ ramente uno dei comportamenti più enigmatici dell’uomo3. Jung dichiara che la persona

come vuole il suo stesso nome, altro non è che la maschera por­ tata dalla psiche collettiva, maschera che simula una individualità, facendo credere agli altri e a sé di essere un individuo, mentre in­ vece si tratta della recitazione di una parte attraverso la quale si esprime la psiche collettiva. Quando analizziamo la persona le strap­ piamo la maschera e scopriamo che quello che sembrava individuale, alla base è collettivo4. 67

Il truffatore e la sua « anima » Arlette, recitano così incon­ sapevolmente un ruolo attraverso il quale si esprime la « psiche collettiva », in una dimensione teatrale non solo elegante, bensì edonistica, funzionale al principio del piacere-, si pensi, oltre all’Empire e alla Comédie Franchise, anche ai due alberghi, agli esterni boschivi e marini, spesso slontanati come in uno spetta­ colo, oppure al golf di Chiberta o al Festival di Biarritz, osser­ vati col binocolo o con la macchina fotografica, rispettivamente dal Barone Raoul o da Montalvo. In questa dimensione, una e molteplice, la struttura del film è simile a quella di « spettro », così come lo intende la fisica: « striscia di luce variamente colorata prodotta da un raggio di luce che attraversa un prisma ottico ». In questo senso Stavisky... (i puntini di sospensione del titolo originale francese evocano F« oltre » che la favola offre) è opera la cui composizione si presenta come una « striscia di luce variamente colorata », la cui qualità richiede un giudizio etico e insieme politico. In una serie di associazioni, analogie e differenze, alla recita di Stavisky e della sua anima, Arlette, rimandano l’infida guardia del corpo e poi trafficanti, poliziotti, ministri corrotti, ricatta­ tori; la conservazione, la destra, il fascismo, la trama nera, espressi a diversi gradi da Raoul, Montalvo, l’ispettore Bonny che si insinua nell’Hotel Claridge; la sinistra espressa da Trockij e dai suoi giovani seguaci, quali Michel Grandville e l’attrice Erna Wolfgang. Del resto altra definizione di « spettro » è quella di « pericolo, minaccia incombente »: « Senza Stavisky », dice Grandville a Erna, « niente 6 febbraio... senza la sommossa fa­ scista del 6 febbraio davanti alla quale Deladier capitola, niente governo di Unione Nazionale, senza governo di Unione Nazio­ nale, niente espulsione di Trockij ». Veramente Stavisky potrebbe essere un ospite del romanzo-saggio La caduta della luna di Gio­ vanni Macchia5: parafrasando il critico, si può dire che anche il truffatore, « malato famoso, è colpito senza saperlo da quel disastro della sua coscienza, sorpreso nel momento della sua scon­ fitta, allorché cede a un cupo istinto di distruzione »; e anche nel film di Resnais, « ove il gusto del teatro apre e conclude il nero di una esibizione », la scena può divenire « presentimento e terrore di una catastrofe imminente, dentro e fuori dell’uomo; dubbio e certezza di una natura sconvolta, o semplice giuoco » é. 68

Sulla scena deserta dell’Empire, il corrotto ministro Vericourt, dal volto spettrale, annunciando la situazione di Stavisky, ulte­ riormente aggravatasi in seguito alla scoperta dei falsi Buoni di Bayonne, esclama una frase che segna non solo il destino del truffatore, ma anche di una società: « È finita Alexandre. Cala il sipario ». La recita dunque si svolge nel teatro dell’inconscio, oltre che personale, anche collettivo, e come tale non perituro, immortale. Così si comprende perché nella rappresentazione di Intermezzo Etna Wolfgang riferendosi alla razza dei morti, cioè degli « spettri », dichiari: « È curioso come tutte le razze cono­ scono male se stesse! La razza degli indiani si crede rossa, la razza dei negri si crede bianca, la razza dei morti si crede mortale ». Stavisky... ci ricorda alcuni passi del celebre poema psicoana­ litico Corpo d’amore’.

Personalità è persona, una maschera. Il mondo è un palcoscenico, l’essere una creazione teatrale. L’essere, dunque, come un personaggio recitato, non è una cosa organica con una sua specifica locazione, il cui destino fondamentale sia quello di nascere, maturare, morire: è un effetto drammatico che nasce globalmente dalla presentazione di una scena. L’essere non appartiene al suo proprietario. Lui e il suo corpo forniscono semplicemente il gancio al quale verrà appeso per qualche tempo un certo prodotto collettivo. Il gancio non ha in sé i mezzi per produrre e mantenere l’essere [...]. Ci sarà un gruppo di persone che agirà sul palcoscenico appoggiandosi ai sostegni di­ sponibili per costituire la scena dalla quale emergerà l’essere del per­ sonaggio recitato, e un altro gruppo di persone, il pubblico, la cui attività interpretativa sarà necessaria perché quello emerga7. Così Stavisky, definito dal Barone Raoul « gran mascherato » tra « grandi mascherati », viene recitato da un « prodotto col­ lettivo », dai vari personaggi impotenti a conoscere « l’eroe », in quanto tutti lo vedono « ciascuno a suo modo ». Sta allo spet­ tatore, al pubblico aggiungere una « attività interpretativa » per­ ché il personaggio emerga. Resnais ha dichiarato di amare una frase di Proust che rinvia in parte a Pirandello: « La vita è vera per tutti e differente per ciascuno ». Ora Resnais ha attrazione e pena per il suo personaggio, proprio perché nella favola Sta­ visky è visto come un malato e infine vittima di una recita e di un gioco politico più grande e corrotto di lui.

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Quest’opera rivela l’antifascismo dell’autore e, come afferma Semprun « un’antinomia » politica8 fra tante antinomie di ordine psicologico, sociale e morale. « Questo è il problema... Tutta l’attività di Trockij è diretta verso il Partito, pesare sul Partito, trasformare il Partito, ricostruire il Partito », — dichiara Grandville con appassionata sincerità sugli scogli di Saint-Palais-sur-Mer — « d’altro canto Trockij afferma che Stalin ha tradito la rivo­ luzione... E il Partito è dietro a Stalin... Come agire, allora, su uno strumento che vi sfugge, che vi è avverso? C’è una contrad­ dizione ». E alla domanda di Erna: « Perché allora ci si sta bat­ tendo? » Grandville risponde: « Perché niente è scritto in an­ ticipo ». Il tempo in cui si muove la « favola » è scandito dalla strut­ tura epifanica. Si osservi la strana tomba piramidale e la donna imprigionata al cancello, figure di morte e prigione, che appaiono al momento in cui il Medico Mezy sollecita ad immaginare l’ini­ ziazione alla vita di Stavisky; si faccia attenzione al bianco er­ mellino di Arlette che rinvia al momento in cui il suo sposo, prima della sua fine, vedrà un ermellino vivo sulla neve; si os­ servi l’invernale scenario del palcoscenico dell’Empire che sembra preludere all’ultimo atto, al rifugio mortale, Le Vieux Logis, a Chamonix e si consideri infine quella coroncina in testa al tradi­ tore Laloy, simbolo della detronizzazione del truffatore, del suo illusorio potere; non mancano neppure le « intermittenze del cuore » che si intrecciano con le « epifanie »; si pensi, ad esem­ pio, ai ricordi di Raoul quando rievoca la giornata di eleganza e di automobili a Biarritz ove rispende la vitale beltà di Arlette o quella triste, autunnale con gli amici alla foresta di Barbizon, nei luoghi del padre del giocatore, ove mediante la presenza di Erna, i mondi diversi dei due « stranieri », Trockij e Stavisky, sembrano venire a contatto Tale struttura temporale ci conduce sicuramente a una delle principali fonti cinematografiche cui ha attinto — e non solo oggi — Resnais: l’opera di Orson Welles. Non meno di Kane, anche Stavisky resta enigmatico, come il protagonista de L’in­ fernale Quinlan (Touch of evil, 1957) nei riguardi di Menzies, tradisce la buona fede dell’amico Raoul, e infine come Arkadin ha deciso di dimenticare, occultare il suo angoscioso dossier,0. In questa narrazione siamo anche qui — come è stato detto 70

10. Alain Resnais, Stavisky, il grande truffatore (1974). La passeg­ giata di Alex e Arlette (Jean Paul Belmondo e Ann Duperey). 71

a proposito di Quarto potere (Citizen Kane, 1940-41) — di fronte « a un tempo perduto che non diventa mai tempo ritro­ vato, nel senso che non ci restituisce mai la verità, ma solo la verità soggettiva di chi la racconta » ", oppure frammenti ogget­ tivi, incapaci insieme con quelli soggettivi, di ricostruire il puzzle. Si può capire così la frase del Barone Raoul riferita a questo mosaico teatrale che maschera la tragicità della vita: « Cercate di capirmi! Nella vita non succede come a teatro! Sulla scena tutto è permesso... Ma io sono come Fabrizio a Waterloo, signori, io conosco solo un pezzetto di questo rompicapo cinese ». In questo « giallo alla rovescia » il colore dai toni ora luminosi, ora lividi del « panavision spherique » esprime la temperie edonistica e spettrale del mondo del giocatore; e la musica con esso armo­ nizzata, ora piacevole, ora lugubre, ci riporta a un film molto amato da Resnais, La donna che visse due volte (Vertigo, 1958), nel quale Hitchcock narra una storia di ricerca di identità, inco­ municabilità, truffa, amore e morte 12. « Quello che mi piacerà nella morte è la pigrizia della morte, questa fluidità un po’ densa e ingorda della morte, per cui in definitiva non ci sono dei morti, ma unicamente degli annegati... », esclama nel finale Raoul, ripetendo le parole dello Spettro di Giraudoux. L’immagine degli « annegati » rimanda al simbolo dell’acqua, alla « ricchezza pluridimensionale dell’archetipo », l’in­ conscio, la madre e, in tale contesto, alla vita e alla morte. Nella geografia psicoanalitica acquistano significato la topografia me­ diterranea del porto di Cassis, sbarco prudente per la sicurezza di Trockij, l’oceanica Saint-Palais-sur-Mer, dimora delle sue vitali attività politico-culturali, e le altrettanto oceaniche Biarritz e Bayonne, sedi dell’illusorio splendore e distruzione del giocatore. I viaggi dell’avventuriero e del politico s’intrecciano e alle passeg­ giate sul mare di Leon e Nathalia corrispondono quelle di Alex e Arlette. « La traversata degli eroi », nell’oceano dell’inconscio, regredisce verso l’esilio e la morte. Non è un caso perciò che nella sua visita alla luminosa e luttuosa Arlette, anima di Stavisky, il Barone Raoul attraversi « Via delle Onde », che il truffatore sìa sognato dalla sua sposa in un niveo incidente mortale, che du­ rante un improvviso temporale e in una atmosfera di triste pre­ sagio si parli del viso-maschera e poi del suicidio di Madame Winters, e che addirittura sui titoli di testa dei giornali, che an­ 72

nunciano l’ambigua scomparsa di Stavisky, si oda il rumore dei marosi. Ugualmente non è un caso che si scorga una breve im­ magine di Trockij giungere dal mare, che questi e il suo fecondo insegnamento vengano evocati sugli scogli di Saint-Palais-sur-Mer dai giovani marxisti ed infine che l’ispettore Gardet, inviato go­ vernativo dei destini di Trockij e Stavisky, sosti all’Hotel della sorgente. A proposito della nostra lettura psicoanalitica Resnais dichiara di « fare riferimento sempre un po’ alla scrittura automatica [...] quando le immagini affiorano » B. Infatti, mediante questa « scrit­ tura automatica », si focalizzano componenti quali inconscio, spettro, sogni, spie di una fondamentale mediazione culturale di Resnais: « il surrealismo » al quale — e in particolare a Breton — il regista si è sempre dichiarato fedele. E proprio Breton, nel ’38, insieme a Trockij, scrisse il III Manifesto del Movimento, Per un’arte rivoluzionaria indipendente, in cui si esponeva, ricorda Mario De Micheli, l’intento di conciliare il conflitto della « dop­ pia anima », quella individuale e quella sociale 14. Ci sembra che Resnais abbia tenuto conto di alcuni aspetti di tale problematica: da una parte la situazione dolorosamente edonistica di Stavisky e dall’altra una alternativa rivoluzionaria, sia pur così dramma­ ticamente sofferta. Si comprende perciò sia l’inserimento nel film di una scena della commedia ]e t’aitne di Sacha Guitry che pre­ senta la impossibilità di comprendere l’intimità della coppia, sia i richiami al Coriolano di Shakespeare e la citazione, fatta da Erna, di La linea di condotta di Brecht, proibita dai nazisti. Il primo testo pone il problema delle classi sfruttate e il secondo un insegnamento didascalico, in cui i temi del « teatro nel tea­ tro », « l’annullamento » e la « maschera » vengono visti attra­ verso l’ottica del materialismo storico e della lotta di classe. Tale forma di teatro militante sottolinea, per contrasto, quella evasiva e gastronomica prospettata dal Barone Raoul, che afferma: « Il pubblico popolare va a teatro per distrarsi! Vuole lusso, danze, lustrini! Tutto quello che non ha! Gli piace credere che la vita sia facile ». La mascherale situazione di Stavisky viene messa in relazione con quella mascherale di Trockij, costretto a nascondersi come politico e letterato. Hans Mayer15 dice che il III Manifesto 73

Trockij lo firmò occultando il suo nome sotto quello del pittore Diego Rivera. Il dramma del « diverso » sofferto da Alexandre evoca quello patito da Leon, che nei suoi scritti, rivela ancora Mayer, tende a censurare la sua condizione di ebreo. Resnais e Semprun pongono al centro di questa problematica la figura di Erna, attrice che ha preso coscienza lucida e critica della propria « diversità ». Fondamentale in questo senso è il dialogo della giovane con Alexandre nella hall dell’Empire dopo la recita dello Spettro di Giraudoux. Ella dice di preferire la fe­ licità e rifiuta il mondo edonistico del truffatore, teso al difficile principio del piacere. Alla domanda di Stavisky: « Perché va gridando ai quattro venti che è ebrea? », ella risponde: « Perché è vero »; e ad Alexandre, insoddisfatto, che giudica tale risposta « semplicissima e del tutto cretina », Erna, ironizzando sulla sua teatralità, risponde: « Vuole una risposta più intelligente, più teatrale? Perché al mattino, se guardo gli alberi, la rugiada, l’azzurro di sogno, so che sono ebrea. Perché detesto le razze che conoscono male se stesse. Detesto la razza degli ebrei che si credono felici, uguali nei diritti, dimentichi della sventura! » E alla replica del truffatore: « E questo a cosa le serve? », ella risponde: « Ad essere me stessa. Cioè diversa ». Tale tema della diversità ritorna altre volte nel film fino al cinismo della frase di Borelli, traditore deH’ultima ora di Stavisky: « Noi tutti lasceremo che tu vada a picco, Alex! Non ti conosceremo più, ti avremo sì e no visto per caso al ristorante, non sapevamo nem­ meno chi eri! Sai cosa diremo? Diremo che in fin dei conti non c’è da stupirsi: non si diffida mai abbastanza dei mezzo sangue, degli apolidi, degli ebrei! » Bergler avverte che i racconti dei giocatori danno l’impressione di una sequenza in­ terrotta. È come se si assistesse a un film nel quale una singola si­ tuazione specifica ha esercitato su di noi una attrazione potente. Ci si ferma su questa scena trascurando tutta l’azione che segue. Il momento prescelto, e per così dire « cristallizzato », è precisamente il momento del successo.

Ora Resnais, da un punto di vista psicoanalitico, filma, non il momento del successo del truffatore — del resto più apparente

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che reale (finto, teatrale) — quanto il momento della sconfitta, cui corrisponde la crisi di un periodo storico, gli anni ’33-’34. La scelta della sequenza interrotta o meglio di varie sequenze interrotte (ad esempio, in un salto qualitativo, si passa dall’auto di Trockij a Cassis all’ascensore dell’Hotel Claridge di Parigi, e così via) corrisponde alla struttura prismatica, mediante la quale, con un montaggio attrattivo-intellettuale, Resnais trasmette allo spettatore il leitmotiv centrale della sua opera: una tensione mai completamente appagata a conoscere, ad acquistare coscienza critica nei riguardi di personaggi e situazioni che il tempo fran­ tuma e che la memoria non può mai esaurientemente ricordare; cosicché la creatura resneniana, vivendo in questa discontinua di­ mensione storica, diviene a diversi gradi incerta e sospesa, desi­ derosa di prendere consapevolezza di sé e degli altri per poter comunicare.

La Conoscenza

Hiroshima, mon amour descrive l’ansia conoscitiva della cop­ pia Elle et Lui, spinta da un casuale incontro a ricordare il pas­ sato di varie esperienze sofferte nel periodo bellico. La famosa iterata frase del giapponese all’inizio del film: « Tu non hai visto niente a Hiroshima », non è motto retorico fine a se stesso, ma l’invocazione-evocazione che svela il desiderio di comunicabilità del personaggio; così nel finale, dopo che Elle ha rivolto a Lui il grido: « Ti dimenticherò! Ti ho già dimenticato! Guarda come ti dimentico! Guardami! », le successive parole proferite dai due amanti, « Hiroshima... è il tuo nome » e « Il tuo nome è Ne­ vers », sintetizzano, come in un epitaffio, la coscienza lirica e critica di chi vuol lucidamente fissare nel tempo una tragedia individuale e corale per sottrarla all’oblìo, secondo quelle istanze stilistiche, etico-politiche contro la guerra e il nazismo espresse nei documentari Guernica e Notte e nebbia (Nuit et brouillard, 1955). L’anno scorso a Marienbad (L'année dernière à Marienbad, 1961) presenta la tensione — sempre sconfitta — a chiarire completamente l’ambiguo infinito mondo immaginario in cui fluttuano i rapporti tra l’uomo X, la donna A, e l’altro Y, fan­ 75

tasmi di un tempo sconvolto, desiderosi di una impossibile cer­ tezza nei gelidi labirinti del giardino e dell’albergo. L’insistere continuamente della macchina da presa, da varie angolazioni, su­ gli interminabili ed enigmatici corridoi dell’albergo e viali del giardino, lontano dall’essere uno sterile formalismo, esprime l’esi­ genza, l’ansioso tentativo di captare il senso di una realtà impe­ netrabile e pluralmente interpretabile. In questo modo gli stessi specchi, quel mondo artificiale e dorato sono la beffa crudele, il mascherale da cui il personaggio vuole sinceramente sottrarsi, vanamente cercando di scoprire il mistero del reale. Muriel o il tempo del ritorno (Muriel, ou le temps d’un re­ tour, 1963) mostra, in una temperie domestica, il tentativo che attuano alcuni abitanti della città di Boulogne di far luce sui loro legami affettivi e contrasti passati: tuttavia né la dolce e dissipata Helene, né lo sradicato Alphonse, né il giovane Ber­ nard, in preda al rimorso per aver partecipato ad una tortura nel­ la guerra di Algeria, riescono nei loro propositi. La guerra è fi­ nita (La guerre est finie, 1966) delinea il desiderio che ha Diego di chiarire a sé, ai suoi compagni e all’amata Marianne i dubbi, le scelte etico-politiche che stanno alla base della sua lotta clan­ destina antifranchista, osservata attraverso i frammenti della memoria e deH’immaginazione in cui s’incontrano i volti di coloro che si sono sacrificati o si potrebbero sacrificare per la causa. Je t’aime, Je t’aime, racconta il viaggio nella macchina del tempo di Claude Ridder — così si chiama anche l’intellettuale dalla co­ scienza in crisi nell’episodio di Lontano dal Vietnam (Loin du Vietnam, 1967) — che scavando nella memoria, e addirittura ripetendo i più minuscoli pezzi della sua realtà fisica, non riesce a trovarvi una connessione, un equilibrio ordinatore. Come si sono svolti i fatti? Ha veramente Claude ucciso la donna amata oppure è stato un incidente? Quali sono state le cause del ten­ tato suicidio del protagonista? Il viaggio tuttavia, durante il quale non a caso la macchina si guasta, non solo non garantisce il ritorno, ma nemmeno un chiarimento degli eventi. Le possi­ bilità di ricostruire il reale sono astratte, illusorie: gli ambienti quotidiani, l’appartamento di Claude, il suo ufficio d’impiegato, il pezzo di spiaggia in Costa Azzurra, i corridoi della clinica, le stanze del « misterioso » Centro di Ricerche di Crespel sono le labirintiche stazioni di una medesima prigione esistenziale. 76

11.

Alain Resnais, L'anno scorso a Marienbad (1961). Il giardino.

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L’esclamazione stessa « Je t’aime, Je t’aime », rivolta da Claude e Cattine, la donna amata, è l’estrema richiesta dell’in­ dividuo che anela ad una comunicabilità, innanzi a una nuova conferma dell’umana avventura che, rivissuta mediante un espe­ rimento, si svela ancora come caos e angoscia, fino alla possibilità di un totale annientamento. Significativamente Resnais, riferen­ dosi a questo film, ha asserito: « Spero di aver raccontato una favola di fantascienza sul tema vecchio tremila anni: l’esperienza è una strana avventura, io non comprendo perché siamo sulla terra »16. Providence presenta in tempi e spazi sconvolti, nei quali realtà e fantasia, sogno ed incubo si confondono, l’odissea del padre Clive che cerca di comprendere le ragioni del suo rapporto con il figlio e la madre-amante Molly, secondo una particolare commutazione dell’UZirre joyciano. In questo universo immagi­ nario e surreale, in cui sotto il segno di Pirandello, l’autore col­ loquia con i suoi personaggi e sotto quello di Lovecraft gli uomini per la loro disumanità regrediscono ad animali, compaiono due fondamentali oggetti epifanici: il binocolo e il libro, dal titolo significativo La scala del tempo, che i fratellastri Kevin e Claud donano rispettivamente al vecchio padre Clive — con il quale è difficile, se non impossibile un’autentica ed intima corrispon­ denza — sembrano voler simboleggiare i temi della conoscenza e del tempo. Esemplare è in questo senso la sequenza che con­ clude l’opera: all’ora del tramonto, i familiari si allontanano dal desco, ma prima di lasciare il vecchio scrittore a bere l’ultimo sorso di vino, lo guardano, per l’ultima volta, in un tentativo disperato di poter rompere il silenzio e la cieca consuetudine del loro rapporto infelice. In Mon onde d’Amérique (1980), infine, il tema della co­ noscenza raggiunge un enorme spessore, investendo non solo la sfera teoretica, morale e politica — come nelle altre sue opere — ma anche quella biologica. Se in La guerra è finita Resnais ci ha parlato della coscienza in crisi del rivoluzionario Diego, in Mon onde d’Amerique, ci fa pensare a un’altra rivoluzione: quella che potrebbe nascere dalla reale e concreta cognizione dei più segreti meccanismi del cervello, per liberare così l’uomo dalla schiavitù dell’egoismo, dallo scoglio del narcisismo, che ci rende 78

gli uni e gli altri, allo stesso tempo, innocenti vittime e carnefici, sull’assurdo e misterioso palcoscenico dell’esistenza. Invece di essere soltanto caratterizzata dal contributo dei vari sceneggiatori (Duras, Robbe-Grillet, Cayrol, Semprun, Sternberg, Mercer ed infine Labori t) a noi sembra che la poetica di Resnais sia coerente ed autonoma: del resto il regista talvolta modifica certi aspetti delle sceneggiature dei suoi collaboratori e v’immette particolari tutt’altro che insignificanti, come nel caso di Stavisky..., in cui, proprio a livello di « scrittura automatica », è palese l’interesse per i segni di un paesaggio marino meno indicato nel testo di Semprun. Privilegiando il vasto alveo della conoscenza tra i tanti temi trattati, a proposito della sua concezione di opera d’arte, Resnais ha rilasciato significative dichiarazioni:

Piuttosto che di oblìo e di memoria, preferisco parlare di co­ scienza ed inconscio. Ho molto amato Vercors quando ha detto: l’uo­ mo è il solo essere al mondo che protesta della propria condizione perché è il solo ad essere cosciente. Ricordarsi, è essere cosciente... Credo che il tema della memoria sia presente ogni qual volta un’opera è scritta o un quadro è dipinto, perché essi rispondono ad una vo­ lontà di arrestare il tempo e lottare contro la morte. Preferisco le parole « coscienza », « immaginario », piuttosto che « memoria », ma la coscienza è sicuramente costituita di memoria 17. E anche durante il nostro colloquio ha affermato: « Penso che le immagini fabbricate dall’immaginario — chiamatele co­ scienza o conoscenza — sono altrettanto importanti nella vita corrente di ciò che per convenzione chiamiamo avvenimenti del mondo reale » 18. In una simile tensione, così legata a problemi gnoseologici, Stavisky... è forse il primo film del regista francese che, in modo diretto, affronta un tema psicoanalitico. Tuttavia già in Je t’aime, Je t’aime (opera che costituisce una prefazione a Stavisky... in quanto presenta anche la situazione del personaggio principale segnato dalla morte), non solo la macchina del tempo ha una forma lobale, che ricorda quella di un vasto cervello costruito in laboratorio, ma il suo viag­ giatore, Claude Ridder, in certe inquadrature all’interno della navicella, sembra un essere infantile, prigioniero di un più vasto 79

alveo umano, angosciosamente femminile, quasi materno. E se Je t’aime, Je t’aime è film assai singolare nell’ambito della fan­ tascienza, non meno singolare ed inedita ci appare nel cinema la figura di questo giocatore, espressa da Resnais in uno stile lu­ gubre ed ornato, che traduce efficacemente in fono-immagini la frase di Kipling, messa a capo da Bergler al suo libro: « Un uomo può inghirlandarsi di tutta la paccottiglia del successo, e andare nudo alla tomba ». Lo stile rivela una tecnica sempre funzionale: il carrello laterale sulle pareti dell’HoZ