I greci a teatro. Spettacolo e forme della tragedia [26 ed.] 8842004480, 9788842004486

Eschilo, Sofocle, Euripide nelle loro concrete condizioni di lavoro e nei loro non meno concreti problemi poetici: il fi

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I greci a teatro. Spettacolo e forme della tragedia [26 ed.]
 8842004480, 9788842004486

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Universale Laterza 230

H. C. Baldry

Titolo originale The Greek Tragic Theatre pubblicato da Chatto & Windus, London 1971 nella serie «Ancient Culture and Society» diretta da M.I. Finley © H.C. Baldry 1971

I GRECI A TEATRO Spettacolo e forme della tragedia

Traduzione di Herbert W. e Marjorie Beimore Prima edizione 1972 Nona edizione 1995

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, com­ presa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è il­ lecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la scienza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Proprietà letteraria riservata G ius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari

Editori Laterza

1995

Premessa L ’autore è particolarmente grato al prof. Μ. I. Finley, al signor J. W. Roberts e al dott. B. A. Sparkes, che hanno letto il manoscritto di questo libro e hanno fatto utili osservazioni. Essi non sono, tuttavia, responsabili delle opinioni espresse nel libro.

Finito di stampare nel settembre 1995 nello stabilimento d ’arti grafiche Gius. Laterza & Figli, Bari C L 20-0448-8 ISBN 88-420-0448-0

Capitolo primo IL PROBLEMA NOTA D E L L ’E D IT O R E

Per i brani citati, si rimanda a: Eschilo, Sofocle, Euripide, da Poeti greci, tradotti da Ettore Romagnoli, Zanichelli, Bologna. Aristofane, Le commedie, a c. di Benedetto Marzullo, Laterza, Bari 1968. Aristotele, La poetica, a c. di Manara Valgimigli, Laterza, Bari 19687. Ringraziamo per averci concesso di riprodurre le figure in bianco e nero: Alison Franz, per le figg. la e lb ; J. B. Serpieri (Coll. Vlasto), per la fig. 2a; Museo Martin von Wagner, Wiirzburg, per la fig. 2b; Hirmer Fotoarchiv, Munchen, per la fig. 3; Museum of Fine Art, Boston (Fondo Pierce), per la fig. 4

Se mai gli scienziati riuscissero ad inventare una « macchina del tempo » capace di trasportarci indietro attraverso la storia, una delle mete fra le più interes­ santi per la nostra capsula sarebbe una rappresenta­ zione teatrale nel V secolo a. C. ad Atene, la patria d ’origine del dramma greco nel periodo in cui tutte le tragedie a noi pervenute furono rappresentate per la prima volta. In tal caso, gran parte di quanto è stato scritto sul teatro greco potrebbe dimostrarsi errato, compresa, senza dubbio, una buona parte di quanto è detto in questo libro. Ma intanto sino a qual punto possiamo anticipare tale visita immaginaria me­ diante un accurato esame degli elementi ancora esi­ stenti, accompagnato da uno sforzo dell’immaginazione storica? Possiamo leggere le opere teatrali a noi per­ venute, ma fino a che punto possiamo collocarle esat­ tamente nel loro ambiente storico originale? In quale misura possiamo riconquistare l’esperienza totale della quale i testi ora in nostro possesso una volta erano parte? Questo, ridotto nei suoi termini più semplici, è il problema che questo libro si propone di affrontare, anche se, per esigenze di spazio, si limita alla sola tra­ gedia. Non si tratta di una questione di mero interesse antiquario: i poeti tragici greci crearono le loro opere 7

anzitutto per il teatro, e non per la lettura; e l’occa­ sione, l’ambiente, la rappresentazione, insieme alle pa­ role, erano tutti aspetti connessi tra loro del risultato globale al quale mirava il poeta. Studiare soltanto il testo, da qualsiasi punto di vista, vorrebbe dire con­ centrarsi su una sola parte della creazione dell’autore, correndo sempre il rischio di perdere o travisare quanto era nelle intenzioni dell’autore stesso, o quan­ to il pubblico di allora ricavava dalla sua opera. Una visita all’antica Atene con la nostra ipotetica macchina farebbe risultare probabilmente in errore non soltanto gli archeologi e quegli studiosi che si sono occupati delle tecniche del teatro greco, ma persino alcuni de­ gli autori che hanno trattato aspetti meno materiali della tragedia. Possiamo affermare a buon diritto che il nostro problema sia in qualche modo connesso con numerosi argomenti largamente discussi, ma non trattati in questo libro: i concetti religiosi e filosofici dei poeti tragici, ad esempio; le origini della tragedia attica; persino l’argomento di costante controversia, la natura stessa della tragedia. Una cosa è esporre l’importanza del problema, un’altra risolverlo. Sarà opportuno accennare, sin dal principio, ad alcune delle difficoltà che incontriamo nel nostro cammino, e che inevitabilmente rendono qualsiasi risposta incerta e incompleta. Una è la distanza nel tempo che separa l ’antico teatro greco dalla nostra esperienza e che risalterà in tutti i capitoli seguenti. Nel suo libro On Aristotle and Greek Tragedy John Jones dichiara che « proba­ bilmente non si è in grado di recuperare molti ele­ menti dell’antica esperienza tragica ». Essa è troppo « inevitabilmente estranea ». Questo punto da lui sot­ tolineato vale non soltanto per tutti gli aspetti della civiltà greca, ma anche per molti altri periodi della storia umana. Ma non è questo un valido motivo per 8

abbandonare ogni speranza di poter colmare la lacuna, accontentandoci (come molti hanno fatto) di reinter­ pretare il dramma greco e le altre forme della lette­ ratura antica, adattandoli alla nostra esperienza. Serve piuttosto come ammonimento contro ogni sorta di fa­ ciloneria: dobbiamo guardarci, ad ogni svolta, dal pe­ ricolo di portare i nostri preconcetti nella letteratura antica, interpretando la tragedia greca con lo spirito del ventesimo secolo. Se l’ampiezza della lacuna costituisce una delle difficoltà, un’altra è data dalla scarsezza dei mezzi da noi posseduti per colmarla. Per alcuni aspetti del tea­ tro del V secolo ci manca qualsiasi testimonianza; per tutti, dopo un accuratissimo esame di ogni fonte possibile, le informazioni accumulate in decenni di studi rimangono purtroppo inadeguate. Inoltre, cia­ scuno dei vari tipi di testimonianza comporta proprie difficoltà per l’uso e l’interpretazione. In una breve monografia come la presente non è possibile una di­ scussione approfondita di tali complessità, ma in una forma o nell’altra, le incontreremo quasi ad ogni pa­ gina. Come guida preliminare, diamo nel Capitolo se­ condo un breve sommario dei vari tipi di informa­ zione di cui disponiamo. La distanza dalla nostra vita odierna e la mancanza o l ’oscurità delle testimonianze sono caratteristiche consuete di qualsiasi esplorazione del mondo antico. Ma l’indagine da noi tentata in questo libro presenta altresì i suoi particolari ostacoli, che per forza di cose non possono essere del tutto superati. Nella ricerca della risposta al nostro problema, dobbiamo necessa­ riamente cercare di concentrare la nostra attenzione su un singolo punto. Cosa significava, ci domandiamo, assistere alla rappresentazione di una tragedia in un giorno x nel V secolo a. C.? Una macchina del tempo potrebbe fornirci una risposta precisa; noi non siamo 9

certamente in grado di farlo. Le nostre informazioni sul teatro e sul suo ruolo si estendono attraverso un arco di tempo di molti anni, e sarebbe ardito affer­ mare — o negare — che ciò che è dimostrato per l’anno 450 a. C. resta valido anche trenta anni dopo, oppure che un’abitudine consueta nel IV secolo ve­ niva seguita anche nel V. Il nostro quadro sarà per forza composito, un amalgama di elementi che sono validi per una determinata data, ma che forse non sono mai esistiti tutti assieme in un dato momento. Lo stesso per le tragedie. La situazione è analoga: ognuna di esse, come ogni opera d’arte, era una crea­ zione unica. Generalizzare quindi sulla « rappresenta­ zione della tragedia greca » equivale ad offuscare le differenze fra di esse. Per lo più, la tragedia del V se­ colo verrà trattata in questo volume come un tipo più o meno omogeneo. Non ci soffermeremo sulle va­ rie fasi del suo sviluppo, e neppure sulle differenze fra i tre grandi poeti tragici, Eschilo, Sofocle, Euri­ pide. Per fortuna, non mancano opere che trattano dei singoli autori e dei singoli drammi. Un ultimo argomento, ed avremo finito con l’elen­ cazione delle difficoltà. Noi dobbiamo affrontare un solo problema, che forse richiederebbe una sola rispo­ sta. « L ’esperienza globale » che cerchiamo di recu­ perare fu un’esperienza unica. Eppure noi dobbiamo inevitabilmente trattarla analiticamente, una parte di­ stinta dall’altra, osservandone una faccia dopo l’altra. Perciò la parte principale di questo libro è stata divisa in capitoli sulla città che offrì l’ambiente generale per il dramma attico, le competizioni teatrali, il teatro, la rappresentazione, i drammi giunti fino a noi. Es­ sendo tutti questi elementi altrettanti aspetti dello stesso complesso, è inevitabile una certa sovrapposi­ zione di questi argomenti. Non intendiamo suggerire che un determinato elemento prevalga su un altro, che 10

la forma dell’edificio del teatro abbia determinato il carattere dei drammi o viceversa, oppure che l’am­ biente sia stato la causa di entrambi. L’unico punto essenziale è che tutti gli elementi erano strettamente connessi tra loro, e debbono essere giudicati nel loro reciproco rapporto. Insomma, l’analisi deve essere sol­ tanto il preludio alla sintesi. Ma un libro non può fare altro che cercare di esporre, in forma interessante e intelligibile, il materiale dal quale il lettore può trarre le proprie conclusioni. In fin dei conti, ciascuno di noi è la propria « macchina del tempo ».

Capitolo secondo LE TESTIMONIANZE

In primo luogo, le opere teatrali a noi pervenute. È facile farsi un’idea del numero delle opere rap­ presentate nel teatro del V secolo ad Atene. Ad ogni gara teatrale, ciascuno dei tre poeti tragici prescelti presentava una trilogia: tre tragedie, la cui rappresen­ tazione doveva richiedere quattro o più ore del giorno. Seguiva come breve epilogo un pezzo semicomico con un coro di satiri, scritto dallo stesso autore. La com­ media, a sua volta, assumeva la forma di parecchie singole opere di differenti drammaturghi: il numero era diverso secondo i vari periodi. Ovviamente, il totale per questi tre tipi di opere teatrali raggiunge qualche centinaio, e la nostra conoscenza del dramma greco è limitata, nel modo più semplice e umiliante, dal fatto che, di tante centinaia di opere, non più di qualche decina siano pervenute fino a noi. Fortunata­ mente per il nostro scopo, il tipo meglio rappresen­ tato nella nostra piccola collezione è la tragedia. Di tutte le tragedie originariamente rappresentate nel V secolo a. C., soltanto trentadue sono giunte sino a noi: sette di Eschilo, sette di Sofocle, diciotto at­ tribuite ad Huripide (delle quali una incerta). Siamo in grado di determinare con sicurezza la data di ta­ lune: furono tenuti atti ufficiali delle gare, e parte di tali informazioni è pervenuta a nói'in un m_':.u o nel­ 12

l’altro: in iscrizioni trovate sulle pendici dell’Acro­ poli o altrove, oppure in osservazioni fatte nei ma­ noscritti delle opere in nostro possesso. In talune di queste, un’allusione ai fatti del giorno sembra indicare l’anno probabile della prima rappresentazione. Altre opere si possono classificare in un ordine congetturale per motivi basati sullo stile o sui criteri del tratta­ mento, benché la scoperta recente di un frammento di papiro abbia dimostrato che le conclusioni rag­ giunte in questo modo possano comportare un errore di ben trent’anni. In mancanza di altre fonti, la guida più sicura sembra essere un esame delle variazioni della tecnica metrica dell’autore, esame che ha già con­ tribuito notevolmente alla cronologia delle opere di Euripide. Seguendo questo metodo, perveniamo alla seguente elencazione: E

I Persiani I Sette a Tebe Le Supplici Prometeo incatenato

sc h il o

472 467

(525-456) Agamennone Coefore Eumenidi

458 458 458

La trilogia rappresentata nel 458 a. C. fu nota come 1’Orestea. S o fo c le

Aiace Antigone Trachinie Edipo Re E u r ip id e

Alcesti Medea Ippolito Gli Eraclidi Andromaca Ecuba Le Supplici Elettra Le Troadi

438 431 428

415

(496-406) Elettra Filottete Edipo a Colono (485-406) Eracle Ifigenia in Tauride Elena Ione Fenicie Oreste Ifigenia in Aulide Le Baccanti Reso (attribuito) 13

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412 408

Oltre a questi testi completi, si conoscono i titoli di numerose tragedie perdute, · nonché migliaia di « frammenti »: qualche riga isolata o parti di righe o brevi passi, conservati su frammenti di papiro, citati per i loro precetti morali oppure perché contengono qualche parola o forma grammaticale insolita. In ta­ luni casi possiamo arrivare ad una supposizione atten­ dibile sulla trama e sui personaggi dell’opera teatrale. Tutti questi documenti fino a che punto rappre­ sentano le parole che il pubblico udiva recitare o can­ tare nel teatro di Dioniso nel V secolo? Il dramma non veniva « pubblicato » nel senso moderno della parola: non vi era una legge sui diritti d’autore che proteggesse il testo scritto dall’autore che perciò po­ teva essere cambiato o variato con facilità quando se ne facevano delle copie. In particolare, gli attori avevano la tendenza ad eliminare o cambiare versi, oppure ad inserire nuovi passi da loro stessi composti; è chiaro che nelle nostre versioni non mancano le « interpolazioni fatte da attori ». Si dice che a tali abusi fu posto fine dallo statista ateniese Licurgo, il quale, verso l’anno 330 a. C., presentò una legge per la quale una copia ufficiale delle tragedie di Eschilo, Sofocle ed Euripide doveva essere conservata e letta agli attori affinché potessero verificare i propri testi '. Tale versione autorizzata del IV secolo può essere la fonte primitiva dalla quale derivano le opere super­ stiti, cioè quelle costituenti un’antologia fatta princi­ palmente per uso scolastico ai tempi dell’impero ro­ mano, anche se dobbiamo ad un caso fortuito qualche altra opera contenuta in un’antica edizione completa di Euripide. Il risultato è assai diverso da un campio­ nario casuale della tragedia del V secolo. Vi sono rap-

presentati, infatti, soltanto i tre maggiori dramma­ turghi, e ciascuno con opere teatrali scritte in età adul­ ta o avanzata: non possediamo alcuna opera completa scritta da Eschilo prima che avesse cinquantaquattro anni, o di Sofocle e di Euripide prima che ne avessero quaranta. Fortunatamente la nostra raccolta com­ prende comunque alcune delle opere considerate le migliori. Tutte furono create soprattutto « per essere rap­ presentate », e quindi dovevano essere « rappresen­ tabili »: per quanto certi episodi o situazioni possano sembrare strani a noi, o sconcertanti ad un regista mo­ derno, è da presumere che non contenessero nulla che non potesse essere rappresentato davanti ad un pub­ blico entro i limiti e le convenzioni del teatro del­ l ’epoca. Ma i testi da soli sono guide poco sicure per illuminarci sul modo in cui venivano presentati: come le parole erano recitate o cantate, come gli attori ed il coro si muovevano, quali gli eventuali scenari o i costumi. Non vi sono didascalie, benché una volta, forse, ce ne siano state: talune, si suppone, potrebbero essere state incorporate nei versi recitati, mentre altre erano forse riprodotte in note marginali aggiunte più tardi (« qui parla con collera », « deve alzarsi di scat­ to »), ma non possiamo dire se tali note riproducano didascalie originali o siano state soltanto dedotte dal testo. Per la maggior parte, ci rimangono solo le even­ tuali conclusioni che possiamo trarre noi stessi dalle parole del poeta, e a questo punto dobbiamo affron­ tare una questione cruciale: quando il testo descrive l’aspetto di un personaggio o una scena, l’autore ac­ cennava a ciò che era effettivamente realizzato con mezzi materiali nel teatro, oppure ricorreva all’imma­ ginazione degli spettatori, servendosi tanto più ampia­ mente della descrizione verbale, proprio perché le cose

1 Le Vite degli oratori, 841 sg., attribuite a Plutarco. 15 14

descritte non erano visibili all’occhio? Ridotti come siamo al solo testo, non siamo in grado di risolvere questo enigma se non con i nostri propri preconcetti; vedremo poi quanto siano diverse le risposte che ci offrono tali preconcetti. Benché, infatti, non vi possa essere una testimonianza più attendibile di quella delle opere teatrali stesse, le varie conclusioni da esse tratte da parte di studiosi che hanno trattato l’aspetto pra­ tico del teatro greco dimostrano quanto sia difficile usarle per tale scopo, e quali ingannevoli guide pos­ sano essere.

ricerca di informazione è ovviamente rischioso trarre conclusioni da queste strutture più recenti per poi ap­ plicarle alle condizioni esistenti ad Atene in epoca an­ teriore. Nel Capitolo quinto parleremo più dettagliatamente delle conclusioni che si possono razionalmente dedurre da tali testimonianze archeologiche e dell’idea che ci si può fare del luogo delle rappresentazioni.

In secondo luogo, i resti dei teatri antichi, soprat­ tutto il teatro di Dioniso ai piedi dell’Acropoli di Atene, dove si rappresentavano per la prima volta le tragedie del V secolo. Qui possiamo distinguere il pro­ filo e il carattere generale dell’ambiente originale del dramma, ma se cerchiamo maggiori dettagli, restiamo delusi. Le strutture di questo teatro, del V secolo, erano per la maggior parte di legno, e ne rimangono poche tracce. Ciò che rimane è un insieme complesso di ruderi di pietra che appartengono a varie fasi po­ steriori della storia del teatro stesso, fino all’epoca dell’impero romano. Altrove nel Mediterraneo orientale, vi sono nu­ merosi altri teatri greci che risalgono al IV secolo a. C. o ad epoca posteriore. Alcuni, come l’eccellente esem­ pio di quello di Epidauro, sono in uno stato di conser­ vazione assai migliore di quello del loro prototipo di Atene e hanno subito un numero minore di alterazioni ed aggiunte più recenti. La visione del grande teatro di Epidauro costituisce per il visitatore un’esperienza che di per sé gli offre una qualche idea di come era originariamente rappresentato il dramma greco. Ma dobbiamo sempre procedere con cautela: nella nostra

In terzo luogo, gli scrittori antichi che si sono oc­ cupati del dramma e del teatro. Nel mondo moderno, ogni aspetto dell’attività tea­ trale è descritto e discusso in pubblicazioni a stampa, ma nulla di simile esisteva nella Grecia del V secolo. I contemporanei di Sofocle e di Euripide dimostra­ vano un grande interesse per le opere teatrali, ma co­ munque gli autori davano per scontato il lato pratico del teatro come cosa nota e ovvia, e vi accennarono raramente. La prima ampia descrizione di un teatro greco che abbiamo ci viene da un romano, l’architetto e ingegnere militare Vitruvio. Nel V libro della sua opera latina De Architectura, pubblicata verso la fine del I secolo a. C., egli distingue il teatro greco dal suo equivalente romano, descrivendone accuratamente la pianta in termini geometrici; è uno schema ideale, piuttosto che la descrizione di un esempio particolare. Risale a due secoli dopo una relazione più ampia dello studioso greco Giulio Polluce, arricchita da brani che trattano in modo abbastanza particolareggiato dei co­ stumi e delle maschere. Da questi due autori di epoca romana, distanti parecchi secoli dall’Atene di Pericle, deriva la maggior parte delle informazioni letterarie giunte fino a noi in forma esplicita sul teatro e sull’uso che ne era fatto. Fino agli ultimi anni del secolo scorso, la loro testimonianza fu accettata come atti­

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nente al teatro del V secolo, che pertanto si voleva dotato (ad esempio) di un palcoscenico alto tre metri o tre metri e mezzo. Oggi sappiamo che ciò era im­ possibile. È stato riconosciuto che Vitruvio e Polluce fecero ricorso in larga misura ad autori ora perduti del periodo « ellenistico » posteriore ad Alessandro Magno, di modo che, se gran parte di ciò che asseri­ scono potrebbe essere vero per il II secolo a. C., e in parte potrebbe riferirsi a una pratica ancora più antica, essi, tuttavia, non sono più riconosciuti come fonti autorevoli per l’epoca delle tragedie greche per­ venuteci. Lo stesso vale per varie fonti minori di epoca più recente: brevi biografie dei drammaturghi, dichia­ razioni preliminari e note marginali (dette « scolli », dagli « scoliasti ») nei manoscritti delle opere in no­ stro possesso, commenti casuali fatti da antiquari e lessicografi. Può darsi che tutti questi elementi con­ tengano qualche informazione che ha origini antiche, ma separare il grano dal loglio, l’antico dal recente, costituisce un problema per il quale non esiste valida soluzione. Più mettiamo in dubbio queste tarde testimonianze, più sentiamo il bisogno di esaminare accuratamente scrittori più vicini nel tempo alla grande epoca della tragedia. Tali autori non si sono occupati specificamente di teatro, ma che cosa possiamo leggere fra le righe? Cosa hanno detto in accenni casuali, cosa hanno insinuato o supposto? Per molti aspetti della tragedia greca, la più im­ portante fonte è costituita dalle commedie di Aristo­ fane a noi pervenute, scritte fra il 425 ed il 388 a. C. Fra gli argomenti preferiti della sua satira d’attualità, figurano le opere dei drammaturghi tragici, soprat­ tutto quelle di Euripide. Tutto quanto egli riferisce o insinua sulla rappresentazione delle loro opere tea­

trali è di valore inestimabile, e talvolta quello che non dice è altrettanto significativo. Quando arriviamo al IV secolo, ci allontaniamo già nel tempo dalle tragedie che conosciamo, e qual­ siasi testimonianza da noi utilizzata può essere messa in dubbio. In che misura la rappresentazione di opere ben note ad autori di questo secolo differiva dalla loro messa in scena nel V? Appare chiaro che l’attore di­ venne sempre più il centro dell’attenzione e che l’aspetto musicale assunse maggiore importanza; ma in che cosa effettivamente consistessero tali differenze è un problema insolubile. L ’unica cosa che possiamo asserire con certezza è che il divario fra le produzioni teatrali del V e IV secolo fu insignificante in confronto al contrasto fra queste due e le usanze dell’epoca el­ lenistica e romana; questo era nulla in confronto al­ l’abisso profondo che separa quelle usanze dal teatro come lo conosciamo ai nostri giorni. Dobbiamo quindi tenere in gran conto qualsiasi informazione possiamo spigolare dagli oratori del IV secolo o dai dialoghi di Platone, che ha molto da dire sulla tragedia nella Re­ pubblica, nelle Leggi, e altrove; soprattutto dal più importante documento del IV secolo, relativo al dramma: la Poetica di Aristotele, scritta probabil­ mente poco dopo il 335 a. C. L ’importanza di questo breve e incompleto saggio per la storia letteraria della tragedia è ovvia; tanto per considerarne un aspetto: rispetto a noi, Aristotele era in grado di leggere un numero assai maggiore di opere teatrali, probabilmente tutte le opere di Sofocle e di Euripide, e in pratica tutte le opere di Eschilo, non­ ché molte di altri autori ora perdute. Non dobbiamo però immaginarcelo come un lettore di drammi in pol­ trona, seduto nella biblioteca della sua scuola di filo­ sofia, alle prese con la sua collezione di opere teatrali.

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In quarto luogo, i cosiddetti « monumenti »: pit­ ture su vasi, sculture, statuette e altre diverse opere d ’arte che sembrano offrire un’immagine di qualche aspetto dell’attività teatrale. Nuove scoperte si sono recentemente aggiunte a questa massa di materiale, che comprende ora parecchie centinaia di pezzi. Gli studiosi hanno dovuto conseguentemente rivedere i loro giudizi sulle rimanenti testimonianze; tali sco­ perte hanno contribuito più di qualsiasi altra cosa in questo secolo a trasformare la nostra concezione di come il dramma greco veniva rappresentato origina­ riamente.

Anche qui si presentano molti problemi, alcuni dei quali non troveranno facilmente una soluzione. A molti pezzi del nostro elenco possiamo assegnare una data approssimativa e una fonte precisa, e talvolta possiamo anche attribuirli a un artista conosciuto; ciò non è, però, possibile per tutti e, finché non ne co­ nosciamo la data e la provenienza, è difficile giudicare quale testimonianza possano fornire sull’Atene del V secolo. Inoltre, persino quando ne conosciamo l’epoca e la provenienza, sorge la stessa domanda che si pone per le testimonianze letterarie. Che cosa ci può dire un dipinto del 350 a. C. circa la messa in scena ai tempi di Sofocle? Fino a che punto una scena dipinta su un vaso delle comunità greche dell’Italia meridionale può costituire una va­ lida testimonianza per il teatro in Atene? « Monu­ menti » di epoca assai più recente come gli scritti di Vitruvio e di Polluce costituiscono ormai testimonianze assai screditate: non crediamo più che una statuetta del II Secolo d. C. possa fornirci un’informazione utile sul costume dell’attore tragico di seicento anni prima. Ma per « monumenti » di data più antica il problema è meno semplice, e la questione della distanza di tempo e di luogo deve essere esaminata di volta in volta. Vi sono ancora altre difficoltà, soprattutto nei ri­ guardi delle pitture sui vasi: spesso raffigurano una scena che potrebbe essere tratta da un’opera teatrale, ma non siamo in grado di verificare se le figure siano attori in costume oppure i personaggi come l’artista se li immaginava. In altri casi, il riferimento al teatro è accertato: le figure portano o tengono in mano le maschere, o c’è un sonatore di flauto per indicare che si tratta di un dramma. Anche qui, però, quello che vediamo è assai diverso da una fotografia. Da un lato, nella rappresentazione l’artista è condizionato dallo

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Per Aristotele, come dice uno dei suoi commentatori, « una tragedia è sostanzialmente qualcosa da rappre­ sentarsi ». Durante i molti anni trascorsi ad Atene, egli deve aver spesso assistito agli agoni teatrali, os­ servando tutti quegli aspetti della rappresentazione — lo spettacolo, l’ambiente, la musica, la danza — dei quali noi conosciamo così poco. Nessun lettore delle sue opere biologiche può dubitare che fosse un frequentatore di teatro più attento di molti altri. È vero che ben poco su tale argomento emerge esplici­ tamente nella Poetica. Aristotele non descrive mai come furono rappresentate le opere teatrali. Ciò che ricaviamo dai suoi scritti non è, purtroppo, una descri­ zione del costume teatrale, ma soltanto qualche ac­ cenno o allusione affascinante: il resto è sottinteso perché a tutti familiare. Ma vi è un punto troppo spesso ignorato che verrà sottolineato nel presente li­ bro, e cioè che in tutto quanto egli afferma sul dramma nella Poetica, è sottintesa una serie di presupposti sulla sua rappresentazione; e se il quadro che noi rico­ struiamo utilizzando il resto delle nostre testimonianze è in contrasto con tali presupposti, è improbabile che sia esatto.

spazio a sua disposizione e dalle convenzioni della sua tecnica; dall’altro lato, la sua immaginazione non su­ bisce limitazioni da parte della precisione realistica: egli può introdurre nel suo dipinto creature umane o divine che non figuravano nel dramma; può inserire in un ambiente teatrale incidenti narrati nel discorso di un messaggero; può trasformare la maschera in un viso espressivo, di modo che vediamo in parte l’attore, in parte il personaggio da lui rappresentato. Non dob­ biamo considerare come un dato di fatto ciò che ri­ sulta dallo sforzo, parzialmente realizzato, dell’artista di. esprimere ciò che aveva in mente. Un ultimo commento può servire da epilogo a questo breve e alquanto scoraggiante panorama: visto che l’esame di testimonianze di ogni tipo è così irto di difficoltà, può sembrare che ci siano poche speranze di arrivare alla verità; e questo avverrebbe se i vari tipi di testimonianze fossero del tutto isolati fra loro. Tuttavia, si può arrivare a conclusioni valide confron­ tando l’uno con l’altro, indagando cioè su ogni possi­ bile legame fra il testo delle tragedie, altre testimo­ nianze letterarie, i ruderi dei teatri, e i « monumen­ ti ». In un volumetto come questo non possiamo ov­ viamente indicare le ragioni di ogni affermazione, ma cercheremo, ove possibile, di spiegarne sia i fonda­ menti che le conclusioni, per suggerire, almeno, come usare le complesse testimonianze a nostra disposi­ zione.

Capitolo terzo LA CITTÀ

Il contesto sociale nel quale nacquero le tragedie a noi pervenute fu la città di Atene nel periodo più splendido della sua storia: quello della sua leadership sugli stati greci dopo la disfatta degli invasori persiani, commemorata nella prima tragedia di Eschilo, i Per­ siani·, della trasformazione della supremazia in potere imperiale, sotto la guida di Pericle; della disastrosa guerra del Peloponneso contro Sparta e i suoi alleati (431-404 a. C.), che figura in alcune delle opere di Eu­ ripide. La magnificenza dei luoghi pubblici della città testimoniava a tutti i visitatori della sua grandezza e prosperità: i templi sull’Acropoli, gli edifici civici nel­ l’agorà, il teatro. La gloria di Atene! Tuttavia, per farsi un’idea precisa di tale successo, occorre tener conto delle di­ mensioni: in confronto alle città di oggi, Atene era piuttosto piccola. Le stime della popolazione variano, ma il totale per Atene e il territorio circostante, l’At­ tica, non può mai aver superato di molto in questo periodo le 300 000 unità; e di queste meno della metà abitava nella città stessa. Il nostro tempo non conosce tanta attività creativa in una comunità così piccola. Questo contrasto si nota soprattutto nel campo del dramma: come spiegare il fatto che, mentre le città moderne di analoghe dimensioni abbattono i 23

loro teatri o stentano a mantenerli in attività, nel tea­ tro di Atene grandi masse di pubblico assistevano alla rappresentazione di centinaia di opere nuove? Una risposta parziale è fornita da vari aspetti della vita della città: politica, ricchezza, istruzione, religione; ma occorre osservare ognuno di essi nell’ambiente dell’epoca se vogliamo comprenderne l’esatta posi­ zione nel contesto che fa da sfondo al teatro greco. Atene, si dice, era una democrazia; e lo stesso Pe­ ricle, nella famosa orazione funebre attribuitagli dallo storico Tucidide, accompagna tale affermazione con il quadro di una comunità democratica che supera ogni altra nell’esercizio delle arti (n , 40, 41). «Siam o amanti del bello... Atene è la scuola della Grecia ». Se consideriamo la popolazione nel suo complesso, la pretesa di essere una democrazia non regge alla critica: circa la metà della popolazione era costituita da schiavi, privi di qualsiasi diritto politico. Forse venti o trentamila erano meteci, cioè non-ateniesi re­ sidenti nell’Attica che godevano di certi diritti, ma non della piena cittadinanza. Gli altri erano i cittadini e le loro famiglie: pertanto il complesso dei citta­ dini adulti maschi al quale il termine « democrazia » potrebbe essere applicato in qualche modo raggiun­ geva la cifra massima di 40 000 persone. Persino al­ l’interno di questo gruppo esistevano linee di demar­ cazione, non soltanto la divisione formale in « tribù » e quella geografica in « paroichìe » o « demòi », ma anche una gerarchia di classi basata sul censo; meno determinata, ma non meno importante, era una forte predilezione per la nobiltà di lignaggio, che durante la maggior parte del V secolo a. C. procurava ai ram­ polli delle famiglie migliori le posizioni direttive in quasi tutti i campi. Tutto ciò va contrapposto alla pretesa di Atene di essere uno stato democratico. Ciò nonostante è sempre vero (e di somma importanza

per lo studio del teatro attico) che la società ateniese era più compatta e meglio integrata delle odierne de­ mocrazie. Fra i suoi cittadini troviamo pochi segni di quelle antitesi « noi-loro » che inducono all’apatia tante comunità moderne. Il parlamento che decideva sulle leggi non era un organo remoto, ma un’assemblea di massa nel cuore della città, alla quale tutti i citta­ dini potevano partecipare; e molti esercitavano effet­ tivamente questo diritto. Qualsiasi cittadino poteva essere chiamato a svolgere un ruolo importante per un periodo limitato, sia come membro del Consiglio dei Cinquecento, sia perché investito di una carica più o meno alta. Naturalmente, non mancavano i mezzi per mantenere una buon parte del potere effettivo in de­ terminate mani; tuttavia, la cittadinanza era consa­ pevole di partecipare direttamente alla gestione dei propri affari. Troveremo ovvie analogie fra le riunioni dell’Assemblea sulla Pnice e le rappresentazioni nel teatro distante un po’ meno di un chilometro: l’im­ pegno della massa del pubblico, la partecipazione at­ tiva di un gran numero di cittadini, l’eloquenza degli oratori e degli attori. Per quanto riguarda il lato finanziario, l’antica città greca è stata giustamente descritta come una so­ cietà privata chiusa, congegnata in modo da favorire i suoi cittadini che ne erano al tempo stesso ammi­ nistratori e azionisti; anch’essa una forma di organiz­ zazione aperta alla partecipazione di tutti. È ovvio che la preminenza di Atene nel campo delle arti era deterJ minata in gran parte da questo modo di amministrare la ricchezza. Non che la città-stato tipica fosse ricca secondo i parametri odierni: la sua agricoltura era pri­ mitiva, il commercio poco sviluppato, le guerre tanto feroci quanto inefficaci. Nel suo insieme, l’antica Gre­ cia era una zona sottosviluppata, anche in confronto alla Roma di qualche secolo dopo. Tuttavia, nel V se­

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colo a. C., Atene accumulò una ricchezza relativamente cospicua, dopo che i contributi versati dai suoi alleati per la difesa comune contro la Persia vennero conver­ titi in tributi veri e propri da parte di stati soggetti; e alcuni dei suoi cittadini riuscirono ad accumulare somme relativamente elevate, con le quali erano te­ nuti a contribuire al bene comune. Quello che c’inte­ ressa è come la ricchezza della città veniva spesa, cioè quanto ne fu devoluto (certamente anche per motivi di prestigio) allo splendore di edifici pubblici come il Partenone o alla magnificenza di pubbliche celebra­ zioni. Più avanti vedremo quale parte delle finanze la cittadinanza assegnava alle gare teatrali. È chiaro che una spesa pubblica devoluta alle arti implica che queste arti suscitassero entusiasmo. La spinta di tutto questo va ricercata, come saremmo ten­ tati di supporre, in un alto livello d’istruzione? No, se intendiamo con questo il livello del « saper leggere, scrivere e far di conto », al quale si mira oggi nei paesi sviluppati; tanto meno se intendiamo l’assimi­ lazione di cognizioni specializzate. Nell’Atene di Pe­ ricle, una specializzazione come quella diffusa nel mondo moderno era del tutto sconosciuta. Persino i libri (rotoli di papiro) e la lettura avevano poca parte nella -vita, anche se abbiamo qualche testimonianza della loro diffusione verso la fine del secolo. Ciò che importava era la parola viva, l ’uso della voce umana come mezzo di comunicazione o persuasione o diver­ timento; e in ciò, anche se non nell’alfabetismo e nelle nozioni, gli antichi ateniesi furono avvantaggiati ri­ spetto al cittadino dei nostri giorni, creatura che in genere non sa esprimersi sufficientemente. L ’uso bril­ lante della parola viva, generalmente all’aperto, era la caratteristica centrale sia della loro politica, tanto vi­ vace quanto eccentrica, sia di quello che ora, impro­ priamente, chiamiamo la loro « letteratura ». La mag­

gior parte dei generi « letterari » creati dai greci nac­ que da occasioni che comportavano il discorso o il canto: il poema epico, ad esempio, dalla recitazione davanti a nobili riuniti a banchetto, o a folle in festa; la retorica, dai dibattiti politici nell’assemblea o dai discorsi nei tribunali; il dialogo filosofico, dalla con­ versazione nell’agorà o nella palestra; il dramma, dalle feste in onore di Dioniso nel suo teatro all’aperto. Nel dramma stesso, come vedremo più dettagliatamente in un capitolo successivo, ciascuno dei princi­ pali usi della parola — la narrativa, la retorica persua­ siva, il dibattito, il canto — aveva il proprio posto nel modello rappresentato dall’opera teatrale. L ’accenno a Dioniso ha introdotto gli dei nel qua­ dro che stiamo illustrando. Senza di loro nessun di­ scorso sull’ambiente del dramma greco o su qualsiasi altro aspetto della vita greca può essere considerato completo. Il pensiero degli dei provocava reazioni dif­ ferenti in occasioni differenti e in settori diversi della popolazione: paura, meraviglia, ilarità, scetticismo, ra­ ramente amore. Tuttavia essi erano sempre presenti nel pensiero dei greci, mentre altrettanto non avviene della religione nel pensiero dell’uomo moderno. Il loro potere e le loro azioni arbitrarie fornivano la spie­ gazione di molte delle cose che succedevano nel mondo e che noi oggi cerchiamo di capire attraverso la scienza. Il rituale religioso era parte essenziale della vita di ogni giorno. La stessa Atene, città di larghe vedute, era dominata dal grande tempio di Atena. Non c’è da meravigliarsi che il dramma attico fosse strettamente legato con il culto della dea o che gli dei avessero un posto così preminente nei drammi. Nella Repubblica, Platone contesta l’importanza attribuita in Atene al teatro, e propone di espellere i drammaturghi dalla sua città ideale insieme con gli altri poeti. Attraverso i secoli, i commentatori non si 27

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sono stancati di contrastare questa strana proposta, ma un suo aspetto significativo è spesso trascurato: la supposizione del filosofo che la poesia, e specialmente quella drammatica, abbia bisogno di una trattazione esauriente in una discussione sullo stato ideale, la sua convinzione che gli autori di tragedie e di commedie esercitano sulla comunità un’influenza talmente forte da meritare di essere espulsi. Benché la Repubblica sia stata scritta venti o trentanni dopo la morte di Sofocle e di Euripide, essa costituisce la nostra testi­ monianza più significativa sull’argomento che ha for­ mato l’oggetto principale di questo capitolo: che il teatro cioè prosperò e raggiunse un così alto grado di perfezione nell’Atene del V secolo appunto perché non era un’attività marginale in una società poco com­ patta, ma occupava anzi un posto centrale nella vita e nel pensiero — nonché nella spesa pubblica — di una comunità strettamente unita. Nel prossimo capi­ tolo, attraverso un’indagine approfondita degli agoni teatrali, ci faremo un’idea più chiara del ruolo svolto da esso nella vita della comunità.

Capitolo quarto GLI AGONI DRAMMATICI

Il festival è una manifestazione ben nota dei no­ stri tempi. Da Edimburgo a Salisburgo, da Stratford (Ontario) a Sydney, queste rassegne artistiche prospe­ rano attirando migliaia di visitatori, e quasi ovunque opere teatrali di vario genere vi occupano un posto preminente. È più facile quindi per noi, che non per i nostri nonni, comprendere come il festival possa essere uno dei tanti mezzi per portare il dramma da­ vanti al pubblico e anche capire che nella Grecia del V secolo esso poteva essere l’unico mezzo. Tuttavia, fra le celebrazioni drammatiche di Atene e le nostre ci sono delle differenze che rendono la nostra espe­ rienza di uomini del XX secolo solo parzialmente per­ tinente. Un tratto caratteristico non del tutto sconosciuto oggi ma certo assai più rilevante nella Grecia classica, è costituito dall’aspetto competitivo dei « festival » antichi. Quasi tutte le manifestazioni della vita greca erano notevolmente influenzate dall’idea della gara, non già a fine di lucro, ma per il prestigio, la fama, la gloria. La rivalità fra gli eroi dell 'Iliade è il modello che più tardi viene applicato sia ad attività dei tempi di pace sia in guerra, e non solo nelle gare atle­ tiche in occasione dei giochi, ma anche nelle gare tra i « rapsodi » che recitavano Omero, tra i dramma­ 29

turghi e tra gli attori nel teatro. Come vedremo, l ’aspetto competitivo degli agoni drammatici aveva una parte di rilievo nella loro organizzazione. Una caratteristica ancora più importante, scono­ sciuta a quasi tutti i festival teatrali dei nostri giorni, è il carattere religioso dei concorsi attici, i quali face­ vano parte delle numerose feste in onore degli dei che ricorrevano ad intervalli frequenti nel corso del­ l ’anno. Atena, la dea protettrice della città, la cui sta­ tua gigantesca si ergeva nel Partenone sull’Acropoli, aveva la sua grande festa estiva, durante la quale si recitavano i poemi epici di Omero. Il dramma era di turno d’inverno e all’inizio della primavera, con le celebrazioni in onore di Dioniso, chiamato anche Bacco, la cui principale dimora ad Atene (tempio e teatro) era situata ai piedi dell’Acropoli, all’angolo sud-est di essa. Poiché per noi il teatro è tutt’altro che un luogo sacro, l’idea che sia il sacro recinto di una divinità può sembrarci piuttosto strana. Ma a nes­ sun greco sarebbe venuto in mente di metterla in di­ scussione e non vi è dubbio che, fra le tante divinità elleniche, nessuna era più adatta di Dioniso a svolgere tale funzione. Egli era assai più di un semplice dio del vino: era un dio della fertilità e della vegetazione, le cui incarnazioni animali erano il toro, e il capro; i suoi simboli, l’edera lussureggiante e il fallo. Il suo rituale — soggetto preferito dai pittori di vasi — era generalmente eseguito da donne: attraverso la danza e il vino, poteva produrre uno stato di estasi, col­ mando di gioia le sue fedeli che si sentivano posse­ dute dal dio. Nel concetto greco di questa divinità c ’era anche però qualcosa di ferocemente macabro. Si narravano storie oscure come quella drammatizzata da Euripide nelle Baccanti·, leggende sul destino ri­ servato a coloro che offrivano resistenza al dio, di­ laniati sulle montagne dalle frenetiche Menadi. Ecco

una divinità che faceva appello piuttosto alle pas­ sioni che all’intelletto, alla gioia e al terrore piuttosto che alla ragione, un dio al quale potevano apparte­ nere sia la commedia che la tragedia; e benché per gli ateniesi del V secolo le orge sfrenate sui colli non fossero altro che una favola, e Dioniso fosse ormai ammesso nella compagnia degli Olimpici, c’era ancora attorno al suo culto uno spirito che lo separava dagli altri dei e che deve aver dato alle sue celebrazioni un’atmosfera del tutto particolare. Il carattere religioso delle feste greche non si­ gnifica che esse fossero avulse dalla vita generale della comunità, come si potrebbe supporre nella nostra epoca essenzialmente profana, soprattutto quando il dio era così vicino al cuore del popolo come Dioniso. Com­ prenderemo meglio la situazione se pensiamo a un rito religioso in una affollata cattedrale del Medioevo, oppure, come termine di confronto della partecipa­ zione delle masse (ma senza il dio) possiamo pensare a una partita di calcio in una città moderna, in cui, però, la percentuale di spettatori sia molto più ele­ vata. Ma, a dire il vero, tra l ’epoca medievale o mo­ derna e la situazione nel mondo antico non esiste una reale analogia. Possiamo formarci meglio un’idea del­ l’imponenza delle feste di Dioniso e del loro effetto sulla comunità, se esaminiamo qualche aspetto delle nostre informazioni in merito: il programma delle manifestazioni, l’amministrazione e (elemento sempre significativo nella storia del teatro) il lato finanziario. Delle varie feste di Dioniso in programma nel calendario attico, una, la più antica, probabilmente non aveva alcun nesso con il dramma del V secolo a. C.: quella delle Antesterie, celebrate verso la fine di febbraio, quando si aprivano gli orci col vino del­ l ’ultima vendemmia. Quelle nelle quali si rappresen­

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tavano opere teatrali avevano luogo in stagioni che a noi appaiono sorprendenti. Anche nei paesi del Mediterraneo il teatro all’aperto non è più un passa­ tempo invernale; più a nord prospera soltanto quando l ’estate è veramente bella. Ma nei distretti dell’Attica fuori della città, come vedremo più oltre, il periodo normale per i concorsi drammatici era la fine di di­ cembre, mentre in Atene stessa le gare si svolgevano in occasione delle Lenee, verso la fine di gennaio. Persino le Dionisie cittadine, le più importanti di tutte, si celebravano ad Atene aH’inizio della prima­ vera, cioè nell’ultima settimana di marzo, quando, nella Grecia moderna, si è appena all’inizio della sta­ gione turistica. Indubbiamente c’erano dei motivi religiosi; ma, tenuto conto dell’imponenza delle feste e del numero di cittadini che vi prendevano parte attiva, queste date vanno considerate come parte del modello generale di attività degli ateniesi durante l’anno. La primavera e l’estate erano le stagioni de­ dicate al commercio, ai viaggi, e soprattutto, alla guerra. Dalla primavera fino all’autunno, se l’Attica era libera da invasori, si lavorava a pieno ritmo nella campagna: in autunno si preparava il terreno e si seminava; il raccolto si faceva all’inizio dell’estate. L ’inverno, quando le campagne militari erano ces­ sate e le sementi allignavano, era la stagione più li­ bera per Dioniso e per le sue feste, e inoltre era l ’epoca in cui se ne sentiva maggiormente il bisogno; ed era logico che i migliori frutti del lavoro teatrale fatto nell’inverno, risultato di tanti preparativi e prove, si mostrassero in occasione delle Dionisie ur­ bane all’inizio della primavera. Non occorre soffermarci sulle Lenee, così chia­ mate da uno dei nomi dati alle donne adoratrici del dio. Ben poco si conosce sul rituale, ma è certo che comprendeva una processione per le vie della città

e delle competizioni teatrali; in un primo tempo que­ ste si svolgevano in un recinto del dio, chiamato il Leneo, ma poi furono trasferite (forse verso la metàdel V secolo) al teatro a sud-est dell’Acropoli. La documentazione epigrafica suggerisce che competi­ zioni ufficiali di tragedie e commedie abbiano fatto la loro comparsa nelle Lenee verso il 440 a. C. La com­ media, tuttavia, vi predominava: nel V secolo sol­ tanto due poeti tragici vi presero parte, ciascuno con due opere, ed era raro che i più famosi vi parte­ cipassero. Le Lenee erano una festa locale, celebrata quando il mare Egeo era tempestoso e non vi era affluenza di gente da altri stati; un’assemblea locale che era in grado di godersi al massimo la satira locale e per­ sonale di un Aristofane. Quando invece cominciava la festa cittadina di Dioniso, la stagione -della navi­ gazione era già iniziata, e Atene, tranne che in pe­ riodo di guerra, era stipata di visitatori: commer­ cianti che venivano per affari, rappresentanti degli « alleati » portatori di tributi, viaggiatori desiderosi di vedere le meraviglie della più bella città della Grecia, oppure attirati dalla festa stessa. Queste feste si chiamavano « grandi » Dionisie, o semplicemente Dionisie, ed erano un’occasione in un certo senso panellenica, che radunava nel teatro non soltanto gli ateniesi, ma anche gente di lingua greca accorsa da ogni parte del mondo. Esse erano l’occasione prin­ cipale per la rappresentazione della tragedia, e, data la sua importanza, ci sono più note delle Lenee, sia attraverso iscrizioni o accenni letterari, sia attraverso i commentatori. Per ambedue questi motivi, l’argo­ mento principale del presente capitolo deve essere una relazione sulle Dionisie cittadine. Ne ignoriamo molti particolari, e vi sono molti punti discutibili, compreso l’ordine degli eventi, ma queste incertezze

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possono influire scarsamente sulla nostra idea del­ l’occasione nel suo insieme, e basterà al nostro scopo ricostruirne un quadro verosimile, a cominciare dai preparativi nei mesi precedenti (probabilmente i mesi di mezza estate) fino alla competizione stessa. La comunità era impegnata fin dal principio, at­ traverso il suo capo nominale, l’« arconte », che dava il suo nome all’anno durante il quale era in carica e che non era un capo politico né un funzionario di professione dello stato (benché fosse rimunerato), ma un cittadino qualunque, scelto a sorte fra tutti i cittadini, eccettuati quelli più poveri: il più vicinotermine di confronto che si possa trovare in Atene col sindaco di una moderna città europea. La dire­ zione delle Dionisie era una fra le sue molteplici man­ sioni. Era a lui che i poeti desiderosi di competere « chiedevano un coro », e per la tragedia egli ne sceglieva tre. Ciascuno doveva proporre un gruppo di opere nuove, cioè tre tragedie e un epilogo; più tardi, in segno di eccezionale omaggio a Eschilo dopo la sua morte nel 456 a. C., venne concesso un posto a qualunque poeta volesse presentare una tragedia del grande drammaturgo. Non sappiamo come l’arconte facesse la propria scelta e neppure con chi si consultasse. Egli era assi­ stito nelle sue funzioni da due aiutanti, i quali dove­ vano interessarsi, però, di tutto l’insieme del lavoro da svolgere e non avevano esperienza di teatro. (Man­ cava l’idea di un regista di professione che potesse prendere decisioni indipendentemente da controlli sia nazionali che municipali!) Sembra poco probabile che un funzionario tanto occupato trovasse il tempo di leggere le opere teatrali per poter prendere una pro­ pria decisione, benché un brano di Platone (Leges 817d) lasci supporre che ogni poeta avesse letto da­ 34

vanti a lui dei brani delle proprie opere. Può darsi -che scegliesse non tanto i drammi quanto i poeti, so­ prattutto in base alla loro fama. Poteva anche sba­ gliare, come ci dimostra la preferenza data in un certo anno a un certo Gnesippo anziché a Sofocle; c vedremo che era anche possibile chiedergli, conto -del suo operato. La messa in scena di un dramma implica una spesa, e nell’antica Grecia nessuno immaginava che il teatro potesse o dovesse essere economicamente auto­ sufficiente. Un ulteriore compito dell’arconte era quello di provvedere al primo finanziamento della competizione, trovando per ogni drammaturgo un corego o promotore, un patrono, se si può parlare di patronato obbligatorio, un contribuente di sovrim­ posta, se il pagamento di imposte eccezionali può -condurre alla gloria. (Esistono iscrizioni in cui il nome del corego precede quello del poeta.) Provve­ dere alle spese di una rappresentazione alle Dionisie, come mantenere una trireme per un anno o pagare una delegazione da inviare ad un altro stato, era con­ siderata una prestazione per il vantaggio comune che era lecito attendersi dai cittadini facoltosi. Alcuni fra Ì più ricchi offrivano volontariamente i propri servizi, e questa era una via sicura verso la popolarità. È anche da supporre che spesso l’arconte dovesse eser­ citare il proprio potere di nomina: se il cittadino da lui designato non aveva reso tale prestazione per un anno, egli poteva sottrarvisi solo sfidando qualcuno che, secondo lui, fosse ancora più facoltoso; questi allora doveva o assumersi la spesa o scambiare con lui i propri beni o rimettere la decisione ai tribunali. La fortuna del poeta nell’assegnazione del corego, de­ cisa probabilmente dalla sorte, era della massima im­ portanza per le sue prospettive nella gara. Una spesa minima era prescritta dalla legge, ma, secondo la vo­ 35

lontà o meno da parte del promotore di superare tale spesa, un’opera scadente poteva riuscire e invece un’opera di valore fallire. Nicia, l’uomo di stato tanto ammirato dal popolo, che possedeva un migliaio di schiavi e ne ricavava un bel reddito mandandoli a lavorare in affitto nelle miniere d’argento, riusciva sempre a vincere il premio. La semplicità della rappresentazione delle opere e la mancanza di ogni specializzazione eliminavano le spese che gravano sul teatro moderno: non c’era illuminazione, lo scenario era primitivo o inesistente, scarse le attrezzature. La maggior parte delle fun­ zioni ora distribuite fra diverse persone — autore, regista, compositore, coreografo — era riunita nella persona del poeta, che non soltanto doveva scrivere il testo, ma anche comporre la musica per i canti e progettare le danze. Nel V secolo a lui era general­ mente riservato anche il compito d’istruire il coro. Altri aspetti della rappresentazione gravavano invece sul corego, il quale doveva trovare e pagare i quin­ dici componenti del coro, e probabilmente anche il sonatore di flauto. Talvolta era necessario un secondo coro, e per tutti si dovevano procurare maschere e costumi (su questa voce si poteva risparmiare qual­ cosa, noleggiandoli di seconda mano), senza parlare di un ricevimento al termine della gara. Quando verso la fine del secolo nacque l’usanza d ’impiegare un istruttore del coro di professione, si dovè pensare anche al pagamento del suo stipendio. Una voce che variava molto nel bilancio era la presenza di com­ parse mute, dato che alcuni « divi » chiedevano un seguito imponente. Ma che cosa dire degli attori? Come vedremo più dettagliatamente in seguito, per ogni opera teatrale ne occorrevano tre — un primo, un secondo e un terzo attore — che con op­

portuni cambiamenti di maschera e di costume si divi­ devano fra loro le parti recitative. I primi autori ave­ vano recitato essi stessi le proprie opere, e più tardi impiegarono attori scelti personalmente; ma verso la metà del V secolo l’arconte si era intromesso, sce­ gliendo tre attori-divi, « protagonisti » pagati dallo stato, per la gara di tragedia, e assegnandoli a sorte ai poeti stessi, sebbene recitare da divo in quattro opere di seguito possa sembrare un’impresa poco verosimile. (Non abbiamo alcuna prova dell’esistenza di un suggeritore.) Non sappiamo come il secondo e il terzo attore venissero scelti o pagati; può darsi che ci pensasse il protagonista stesso. Nel IV secolo, e forse anche prima, se un attore scritturato per la gara non si presentava veniva multato dallo stato. C’era poi un altro preliminare di rito da compiere qualche tempo prima della gara: i preparativi per la scelta dei giudici (in greco: kritai, parola dalla quale deriva il nostro termine « critico »). L ’intero proce­ dimento che conduceva fino al giudizio nelle gare era reso più complicato a causa delle precauzioni contro la corruzione, e nelle testimonianze pervenu­ teci (principalmente dagli oratori del IV secolo) ci sono alcuni punti incerti e oscuri: nulla ci indica, ad esempio, se gli stessi giudici fossero chiamati a pronunciarsi in tutte le gare, oppure se vi fosse un gruppo distinto per ciascuna di esse. Per assicurare la rappresentanza di tutta la cittadinanza, le dieci « tribù » in cui essa era divisa servivano come base, e da ciascuna di esse il Consiglio compilava un elenco di nomi. Non conosciamo i criteri per la scelta delle singole persone: non è provato che si tenesse conto dell’esperienza teatrale o dell’acume critico. Di mag­ giore importanza forse è il fatto che i coreghi erano presenti ed evidentemente facevano del loro meglio per inserirvi i propri fautori. Una volta scelti,

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i nomi venivano chiusi in dieci urne, una per ogni tribù, poi sigillate dai presidenti del Consiglio e dai coreghi per essere depositate presso i tesorieri pub­ blici sull’Acropoli fino al giorno della gara. La loro manomissione costituiva un delitto capitale. La conoscenza di tutti questi preparativi era cer­ tamente di pubblico dominio nella città: in una so­ cietà senza stampa e senza giornali, vi erano altri mezzi per far circolare informazioni (attendibili o meno), soprattutto voci controverse come la scelta dei poeti, degli attori e dei coreghi. Tuttavia, qualche giorno prima della gara, si svolgeva una cerimonia ufficiale, il proagon, mediante la quale venivano por­ tati a conoscenza del pubblico tutti i dettagli del pro­ gramma. Nella seconda metà del V secolo tale ceri­ monia si svolgeva nella nuova sala di Pericle, l’Odeon, costruita accanto al teatro. Qui si recavano i poeti scelti con i loro coreghi, attori, musicisti e compo­ nenti del coro, in magnifiche vesti e inghirlandati; pare che ogni poeta salisse a turno sul podio accom­ pagnato dai propri attori per annunciare i titoli delle sue opere e anche forse per esporre brevemente la trama. Non portavano maschere né costumi teatrali, di modo che tutti potessero conoscere l’identità dei personaggi mascherati che avrebbero più tardi os­ servati nel teatro. Un altro atto preliminare era di rigore prima che la festa potesse cominciare; assicurare, cioè, la pre­ senza del dio: per le Dionisie cittadine, questi era Dioniso Eleuterio, così chiamato perché si dice che il suo culto e la sua immagine fossero stati portati ad Atene da Eleutere, vicino al confine nord-occi­ dentale dell’Attica. Di solito l’immagine si trovava nel tempio nel recinto del teatro. Ora, per ripro­ durre simbolicamente la sua venuta, essa veniva por­

tata in un tempio alla periferia della città sulla strada di Eleutere, e poi riportata in città con una fiaccolata per essere collocata nel teatro. Il primo giorno dell’evento, l’intera città era in festa: persino gli arrestati venivano liberati su cau­ zione. Il programma aveva inizio al mattino con tutto il fastoso cerimoniale di un grande corteo per le vie di Atene, con accompagnamento di danze e di canti satirici durante il percorso. Fanciulle di alto lignaggio recavano ceste dorate piene di offerte. C’erano cittadini vestiti di bianco e meteci in abito scarlatto, mentre i coreghi indossavano vesti di ec­ cezionale splendore. Enormi falli erano portati in pro­ cessione a simboleggiare il gran dono divino della fecondità, e un toro e altri animali erano condotti per le vie della città, pronti ad essere sacrificati quando la lunga colonna avrebbe raggiunto il recinto del teatro. Questo era il punto di partenza per parecchi giorni di gare, il cui esatto svolgimento ci è sconosciuto. Non tutte erano gare teatrali, ma ve ne era compresa una tra i cori delle dieci « tribù » nell’esecuzione di « ditirambi », cantati e danzati in onore del dio. Vi prendevano parte dieci cori maschili e dieci femmi­ nili, ciascuno composto di cinquanta elementi. A questa gara partecipavano anche coreghi, poeti (tal­ volta personalità ben note affluite da altri stati, come Simonide e Pindaro), sonatori di flauto e istrut­ tori; ma gli esecutori non portavano maschere, e quale che sia la parte che il ditirambo abbia potuto avere nell’origine della tragedia, esso esula dall’am­ bito del nostro tema. Con le gare drammatiche la festa toccava il suo apice. Esse avevano inizio con atti che a noi, abi­ tuati a considerare il dramma un genere a parte,

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sembrano uno strano preludio alla rappresentazione di opere teatrali. Veniva sacrificato un porcellino per purificare il teatro, e si versavano libagioni. Era questa l’epoca in cui gli « alleati » portavano i loro tributi ad Atene; così un gruppo di giovani ateniesi sfilava davanti al pubblico, recando ciascuno in un vaso un talento d’argento per dimostrare l’incidenza dei tributi sulla spesa pubblica per l’anno precedente. Quindi si annunciavano le onorificenze conferite a cittadini o a stranieri per i servigi resi alla città e i figli di uomini caduti in combattimento per Atene sfilavano in parata indossando armature donate dallo stato ed ascoltavano una breve esortazione prima di recarsi ai posti speciali loro assegnati. Ultima veniva forse la scelta dei giudici: si toglievano i sigilli alle dieci urne prelevate dall’Acropoli e portate giù al teatro, l’arconte estraeva un nome da ciascuna, e i dieci così eletti giuravano di dare un giudizio im­ parziale. In questo clima di solenni cerimonie si recitava la prima tragedia. L ’ordine delle rappresentazioni era già stato deciso a sorte fra i concorrenti: pare che l’ultimo posto fosse considerato il migliore. Allo squillare di una tromba, ecco l’inizio del primo dramma. In tempo di pace, questo era il punto di partenza per quattro giorni di gare teatrali: proba­ bilmente tre giorni in cui si rappresentavano gruppi di tragedie con i loro epiloghi satireschi e uno riser­ vato alla rappresentazione di cinque commedie. Du­ rante la guerra del Peloponneso, furono risparmiati tempo e spese, riducendo i giorni a tre, ciascuno con tragedie ed epilogo al mattino e una sola commedia nel pomeriggio. La nostra documentazione in pro­ posito è costituita da poche righe degli Uccelli di Aristofane, in cui il coro pennuto indica al pubblico uno dei vantaggi di possedere ali (786-9): 40

Niente di più bello e più dolce che mettere ali. Facciamo che le avesse uno di voi spettatori. Si stufa dei cori dei tragedi, gli viene fame: spicca il volo, va a casa e mangia! Poi torna da voi, sempre in volo, con la pancia piena. La presentazione delle tragedie e la reazione del pubblico saranno argomento dei due prossimi capi­ toli. Vorremmo chiudere la nostra descrizione del programma con qualche accenno alle cerimonie di chiusura. Alla fine della gara veniva il verdetto: ciascuno dei dieci giudici scriveva su una tavoletta l’ordine delle proprie preferenze; e dopo che esse erano state poste in un’urna, l’arconte ne estraeva cinque, in base alle quali si addiveniva poi alla decisione. Si annunciavano i nomi del poeta e del corego vincenti, e l’arconte li incoronava nel teatro con corone di edera. Le nostre fonti non ci dicono come veniva assegnato il premio per la recita, ma sappiamo che non andava necessariamente al protagonista di una opera vincente. Seguivano certamente celebrazioni in onore dei vincitori, e possiamo immaginare il corteo trionfale che accompagnava a casa corego, poeta e protagonista. Più tardi il corego vincitore della gara tragica poteva affiggere una targa a ricordo del pro­ prio successo, mentre l’attore forse dedicava la sua maschera al dio. L ’evento finale delle gare pone ancora in evidenza l ’interesse dell’intera comunità per le Dionisie: nel teatro si svolgeva un’altra riunione dei cittadini, questa volta in assemblea speciale per passare in ras­ segna lo svolgimento della festa. Si discuteva l’operato dell’arconte sotto il profilo della direzione degli agoni e poteva succedere che egli e altri funzionari venis­ sero complimentati e onorati, oppure, altre volte, 41

biasimati. Ci si poteva lagnare a causa di un cattivo comportamento tenuto durante la processione o nelle gare e persino di qualche violenza: se l’assemblea ap­ poggiava le lagnanze, poteva derivarne un’azione le­ gale in tribunale. Nel 349 a. C. il grande oratore Demostene pretese di esser stato colpito nel teatro mentre fungeva da corego; e sebbene la lite venisse risolta con un compromesso e l’orazione Contro Midia da lui preparata non fosse mai pronunciata, essa ci rimane sempre come una delle nostre fonti di docu­ mentazione sulle gare teatrali. Sotto tutti gli aspetti è ovvio che i cicli di rap­ presentazioni in onore di Dioniso occupassero nella vita di Atene un posto assai diverso da quello di qualsiasi opera teatrale dei nostri giorni. Possiamo precisare questo punto considerando più dettaglia­ tamente due aspetti delle Dionisie cittadine: il nu­ mero degli spettatori e le somme di danaro impegnate. Notevole di per sé è il numero dei partecipanti attivi, provenienti per la maggior parte non da una classe distinta di professionisti, ma da svariate sfere sociali. Attori, musicisti e istruttori erano indubbia­ mente « gente di teatro » specializzata, e lo stesso si può affermare, in un certo senso, dei poeti; ma almeno nel V secolo questo non poteva avvenire per gli elementi del coro, i quali per tutte e tre le gare — ditirambo, tragedia e commedia — ammontavano probabilmente a circa 1200. L ’appoggio finanziario veniva da cittadini facoltosi e influenti; il rituale era nelle mani dei sacerdoti; il compito di apprestare e giudicare le opere presentate spettava ai cittadini comuni, dall’arconte in giù, sui quali veniva così a gravare una forte responsabilità. Se aggiungiamo a tale numero elementi straordinari, macchinisti, co­ stumisti e altri simili, il numero complessivo attiva­ 42

mente impegnato poteva salire a quasi 1500 persone, senza contare molti altri che prendevano parte alle cerimonie o ai cortei. Quanti venivano a guardare e ad ascoltare? Sen­ z’altro una grande moltitudine. Era questa una festa rituale in onore di un dio popolare, e per di più l’unica occasione di assistere al dramma nella città. Sebbene la replica di opere di Eschilo sia stata auto­ rizzata solo dopo la sua morte, e, come vedremo, dopo il V secolo altre riprese siano state incluse nelle gare, non esisteva mai la possibilità di « tenere il cartellone », come si dice oggi. La rappresentazione era una sola, e occorreva un auditorio abbastanza grande per contenere la massa di quelli che volevano approfittare di questa unica occasione per assistervi. È difficile valutare con precisione la capacità com­ plessiva del teatro: il numero delle persone che pos­ sono stare in una cabina telefonica varia da una a ventisei, a seconda della loro intenzione di fare una telefonata o di fare della pubblicità per una baldoria studentesca. La quantità di spettatori seduti su un banco nel teatro di Dioniso variava nel tempo e dipendeva anche dall’aspettativa del pubblico sulla qualità delle opere; non si sa, inoltre, fino a che punto del pendio dell’Acropoli vi fosse posto per il pubblico verso la fine del V secolo a. C. Adottando l ’ipotesi più probabile, cioè calcolando 40 centimetri per persona (uno spazio minimo), arriviamo a circa 17 000 spettatori. Tuttavia, nell’unica docu­ mentazione letteraria che abbiamo, un brano del Simposio di Platone (175e), leggiamo che il poeta Agatone avrebbe vinto il premio per la tragedia nel 416 a. C. davanti a un pubblico di « oltre 30 000 persone ». Tale cifra è probabilmente esagerata, anche se dobbiamo sempre tenere presente la cabina tele­ fonica di cui abbiamo parlato! Un moderno frequen­ 43

Questi posti erano assegnati in omaggio: non sappiamo se gli occupanti ricevessero un biglietto. Per il resto del teatro, l’ingresso ne comportava pro­ babilmente uno; ci sono pervenuti infatti piccoli di­ schi di piombo simili a monetine che dovevano forse

servire a questo scopo. Pare che il prezzo fosse lo stesso per qualsiasi ordine di posto, due oboli (la terza parte di una dracma) al giorno; ma, a partire dall’epoca di Pericle era la tesoreria dello stato che pagava i posti per i cittadini. Le entrate andavano a un imprenditore che stipulava con lo stato un con­ tratto di locazione per la manutenzione e le ripara­ zioni del teatro. Questo versamento di due oboli da parte della tesoreria è spesso stato considerato come una specie di « sovvenzione », ma c’è ancora un altro aspetto: la presunzione che il teatro rientrasse nella sfera degli interessi della comunità e facesse parte di quella che noi oggidì consideriamo l’educazione. Indubbiamente i cittadini costituivano la massa degli spettatori, soprattutto perché avevano libero ingresso. Determinati settori erano riservati ai mem­ bri del Consiglio e agli efebi, i giovanotti sottoposti al turno dell’addestramento militare; fra i loro com­ piti rientrava anche quello di assistere alle rappre­ sentazioni. Sembra probabile che ciascuna delle dieci « tribù » avesse il proprio settore di posti, ma dato che i settori erano tredici, la loro distribuzione non è del tutto chiara. Certamente i meteci vi parteci­ pavano numerosi: molti di essi potevano ben per­ mettersi di pagate l’ingresso. Assistevano inoltre centinaia, forse migliaia, di visitatori affluiti da altri stati, seduti probabilmente ai lati dell’auditorio. Si sono avute vivacissime discussioni sulla pre­ senza o meno di donne e bambini: se potevano assi­ stere alle tragedie,, dovevano pure essere stati pre­ senti alle commedie, almeno durante gli anni di guerra quando tutte le rappresentazioni si svolge­ vano in un solo giorno; tuttavia, per gli studiosi della generazione passata era difficile accettare questa ipo­ tesi. Molti passi delle commedie fanno supporre che la stragrande maggioranza degli spettatori fossero uo­

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tatore di teatri può domandarsi se la massima capa­ cità di 17 000 posti fosse stata raggiunta spesso; ma il fatto che l’auditorio sia stato ampliato varie volte e gli accenni a lotte per ottenere i posti ci fanno pensare che il teatro fosse generalmente esaurito. La composizione di questa enorme folla rispec­ chiava la diversità della stessa società greca. Davanti, nei posti d’onore, vi erano molte persone la cui pre­ senza indicava l’importanza civica e religiosa di que­ sta occasione: sacerdoti, arconti e altri funzionari pubblici, benefattori della città, i figli di uomini ca­ duti in guerra, ambasciatori di altri stati greci. Tutti costoro venivano accompagnati ai loro posti con grandi cerimonie. Nel teatro come è oggi ci sono ses­ santa posti nella prima fila contrassegnati da diversi titoli, e altri più indietro. La maggior parte di queste iscrizioni risale all’epoca romana, ma molte sono in­ cise sopra altre simili di data anteriore; del resto lo schieramento di notabili suggerito da queste iscri­ zioni non poteva essere stato molto diverso in epoche più antiche. Al centro della prima fila, il trono del sacerdote di Dioniso Eleùterio, delicatamente scol­ pito, probabilmente copia di un originale del quarto secolo, ricorda un momento delizioso nelle Rane di Aristofane (405 a. C.): Dioniso incamminato verso l’Ade, dove fungerà egli stesso da giudice in una gara di poeti tragici, in un momento di panico si,rivolge al proprio sacerdote per chiedergli aiuto (297): Prete, salvami: poi andiamo a pranzo assieme!

mini, ma abbiamo sufficienti testimonianze che ren­ dono probabile la presenza di alcune donne nel teatronell’ultima parte del V secolo e nel IV, tanto alle tragedie che alle commedie, e non c’è motivo di du­ bitare che così fosse anche in epoca anteriore. Co­ munque, l’ipotesi che le donne occupassero posti se­ parati dagli uomini poggia su basi poco solide, e pro­ babilmente almeno le donne libere sedevano accanto ai propri congiunti maschi. Era consentito l ’ingresso persino agli appartenenti al ceto ancora più umile della società ateniese, gli schiavi, ma soltanto — è da supporre — al seguito dei loro padroni; appunto come, nei paesi dove si pratica la segregazione una domestica di colore può stare insieme ai figli del suo padrone su una spiaggia riservata ai bianchi. Alla fine del IV secolo, Teofrasto enumera fra i suoi Caratteri morali (9) un uomo « svergognato » che introduce un pedagogo schiavo con i propri figli al teatro e li fa sedere nei posti acquistati per i visitatori. Se uno dei criteri per giudicare l’interesse che una comunità nutre per il teatro è costituito dall’af­ fluenza degli spettatori, l’altro è rappresentato dal contributo finanziario che il teatro stesso riceve. L ’am­ montare del bilancio dell’Arts Couneil, il magro sus­ sidio assegnato dai comuni al teatro e il destino di tali sussidi in un’epoca di crisi sono anche troppo significativi per l’Inghilterra di oggi. Sarà possibile applicare questo stesso criterio di valutazione all’Atene classica? Ci sono di mezzo molte difficoltà: le informa­ zioni in proposito sono scarse e contraddittorie, e gran parte di esse provengono da fonti nelle quali l ’affermazione di una tesi è più importante della ri­ cerca della verità. Anche se le nostre conoscenze fos­ sero assai più ampie, la grande diversità dei sistemi 46

finanziari escluderebbe qualsiasi confronto approfon­ dito con la situazione moderna. Però i conti si pos­ sono fare, anche se con un largo margine di errore, ed è possibile farsi un’idea molto approssimativa della spesa fatta ad Atene per le feste di Dioniso. Nel corso di una causa civile (XXI, 1-4), il logo­ grafo Lisia fa descrivere al suo cliente le spese vive sostenute per servizi resi allo stato durante gli ul­ timi anni del V secolo a. C. Egli afferma di aver speso 30 mine come corego per la tragedia (1 talento = 60 mine = 6000 dracme), 16 come corego per la com­ media, e nella gara ditirambica 50 mine per un coro maschile e 15 per un coro di giovanetti. Può darsi che esageri alquanto per migliorare la sua causa, pre­ tendendo di aver speso il quadruplo del minimo le­ gale; comunque va tenuto in conto che ciò avvenne durante gli anni di difficoltà finanziarie poco prima della disfatta di Atene. Intorno al 388 a. C., un altro cliente di Lisia menziona la cifra di 50 mine come spese sostenute per aver assolto due volte l’incarico di corego tragico (XIX, 42). Tali cifre fanno supporre che mediante questo sistema di sopratassa, venissero spesi per le Dionisie cittadine qualcosa come 6 ta­ lenti. Quanto ai costi gravanti direttamente sulle casse dello stato, la spesa per i posti dei cittadini deve essere stata di almeno 3 talenti, da cui vanno detratti i versamenti fatti dall’affittuario del teatro alla teso­ reria. Non si conoscono le somme pagate agli attori, ma il loro totale non poteva essere molto al di sotto di un talento, e una somma almeno pari deve èssere stata corrisposta ai poeti concorrenti, i quali tutti, accanto alla corona di edera, ricevevano somme di danaro a titolo di onorario. Per lo stato e i coreghi insieme la somma complessiva di 11 talenti può essere considerata vicina alla spesa effettiva. Questa si rife­ risce, però, alle sole gare: la spesa totale per il com­ 47

plesso dei festeggiamenti doveva essere assai più elevata; inoltre bisogna contare anche il costo delle Lenee. Lo studioso tedesco Bockh calcola la spesa sostenuta direttamente dallo stato ateniese per tutte le feste intorno ai 25-30 talenti l’anno. Quanto valeva il talento? Non è possibile espri­ mere il suo valore in valuta moderna, ma se ne può avere un’idea approssimativa calcolando che esso sa­ rebbe bastato grosso modo al mantenimento annuo di quindici o più famiglie di quattro persone al livello di sussistenza al quale viveva la maggior parte degli ateniesi; oppure ci si sarebbero potuti comprare al prezzo corrente trenta schiavi. Dimezzando queste cifre, arriviamo alla somma che un corego poteva spendere per allestire una tragedia. Quale quota delle entrate complessive della città o delle sue altre uscite rappresentavano queste spese? Il costo per quello che possiamo chiamare il corpo di polizia è stato stimato in 40 talenti l’anno. Il costo della « difesa » oscillava fortemente secondo le esi­ genze delle guerre, come pure le somme che afflui­ vano alla tesoreria: la cifra menzionata alla vigilia della guerra del Peloponneso è di « non meno di mille talenti l’anno » (Senofonte, Anabasi V II, 1, 27). La maggior parte di questa somma — elevatissima, se giudicata con i parametri dell’epoca — proveniva dagli « alleati ». Fu il potere imperiale di Atene a permettere, finché durò, lo splendore della città, ivi compreso quello delle sue feste, anche se i cittadini facoltosi vi contribuivano nella veste di coreghi. Per il futuro del teatro il punto era di vitale importanza: non pare che le spese per le Dionisie siano state ridotte in misura sensibile nei duri anni che prece­ dettero la fine della guerra, anche se il numero delle gare fu diminuito; ma con la disfatta e la cessazione del pagamento dei tributi, il teatro ne risentì insieme

al resto della città, e perse qualcosa della magnificenza dei begli anni del V secolo. Fin qui abbiamo trattato le feste di Atene, e so­ prattutto le grandi Dionisie di primavera. Siccome il carattere della nostra documentazione pone queste feste al centro degli avvenimenti, è facile pensare che soltanto il teatro presso l’Acropoli fosse importante: un’analogia, su scala ridotta, alla tendenza del mo­ derno critico teatrale di concentrare la propria atten­ zione su una città capitale, trascurando quanto ac­ cade altrove. Ma vi erano molti altri avvenimenti, e per completare la nostra descrizione occorre dire qual­ cosa su un aspetto più oscuro del quadro: le feste celebrate nell’Attica fuori della città, spesso erronea­ mente chiamate « Dionisie rurali » (la parola greca significa « nei campi » in contrasto con « nella città »). Di queste non sappiamo nulla, né sul numero di spet­ tatori né sull’impegno finanziario. La nostra docu­ mentazione frammentaria ci viene in larga misura dal IV secolo a. C. o dai tempi ad esso successi, ma ciò che essa ci suggerisce vale probabilmente grosso modo anche per gli ultimi decenni del V. Ogni paese o borgata (demos) dell’Attica cele­ brava la propria festa in onore di Dioniso, general­ mente nel mese di dicembre. Quando il campagnoloeroe degli Acarnesi di Aristofane conclude la pace con Sparta per proprio conto, la celebra con un corteo nel quale sua figlia rappresenta le ancelle recanti of­ ferte agli dei, due schiavi portano un fallo su un palo, e il contadino, invece di un coro allegro, canta un inno, mentre sua moglie (che rappresenta gli spettatori) guarda dal tetto. È questo uno dei soliti rituali della fecondità in miniatura, ridotta alla sua forma più semplice. È chiaro, però, che come nella città in molti demoi la processione era abbinata a gare drammatiche più o meno sul modello ateniese.

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Un’iscrizione del V secolo proveniente dal piccolo villaggio di Icarione (ora Dioniso) dimostra che anch’esso aveva i suoi coreghi. Non sono rimasti molti ruderi di teatri: il più completo, quello di Torico nel Sud-Est della Grecia, pare fosse piccola cosa in con­ fronto al grande teatro sotto l ’Acropoli. Ma il teatro menzionato da Tucidide al Pireo (V ili, 93), allora come adesso porto di Atene, doveva essere piuttosto grande; sappiamo che ambasciatori inviati da altri stati assistevano al festival del Pireo, il cui splendore era forse di poco inferiore a quello delle stesse Dionisie cittadine. Si dice che anche Euripide avesse preso parte alle gare che vi si svolgevano. Tra le iscrizioni giunte sino a noi ve n’è una (I. G. il2, 3090) che sembra ricordare la vittoria ottenuta da opere di Sofocle e di Aristofane a Eieusi, presso il confine occidentale dell’Attica, ma questo si rife­ risce probabilmente alla replica di opere già rappre­ sentate ad Atene, secondo un’abitudine forse nor­ male nelle Dionisie rurali del V secolo, estesa più tardi a tutta la Grecia. Siamo indotti a far risalire al V se­ colo la pratica confermata dagli attori del IV: quella di tournées effettuate da compagnie di attori nei demoi per presentarvi le opere più note dei grandi maestri della tragedia. Grazie a tutte queste occasioni, sembra che gli abitués del teatro fossero sempre più nume­ rosi. Agli inizi del IV secolo, Platone descrive nella Repubblica questi « tifosi del teatro e amanti della musica »: nel loro entusiasmo « girano le Dionisie cittadine e rustiche senza mai perdere una rappresen­ tazione, come se iossero impegnati per contratto ad assistere a ogni rappresentazione ». Ma se nell’Attica antica, come nel mondo moderno, per qualche mi­ noranza il teatro poteva anche diventare una pas­ sione struggente, un’attività quasi continua, il suo posto reale nella vita degli ateniesi era quello de­ 50

scritto in gran parte del presente capitolo: non il passatempo preferito di pochi, ma una grande occa­ sione civica e religiosa per la comunità nel suo in­ sieme, ricca di fasto e di cerimonie, finanziata dalla tesoreria dello stato e da privati facoltosi, con centi­ naia di partecipanti e molte migliaia di spettatori; un evento centrale dell’anno che nemmeno le preoc­ cupazioni della guerra e la disfatta potevano inter­ rompere.

gior parte senza testa. Ancora più in là vi sono tracce di fondamenta in pietra che formano una varietà di figure rettangolari. Questo insieme di ruderi, che rende perplessi gli esperti ed è assolutamente sconcertante per i profani, è il teatro di Dioniso come venne alla luce dagli scavi eseguiti nell’Ottocento. Nulla può meglio illu­ strare quanto sia difficile servirsi delle testimonianze archeologiche per chiarire la storia del dramma. A differenza del magnificò teatro di Epidauro (Tav. lb) creazione di un singolo architetto e che subì poche modifiche successive, il teatro di Atene attraversò una fase dopo l’altra di sviluppi e di cambiamenti. Ciò che vediamo oggi è il risultato cumulativo di tutte queste fasi, ma soprattutto il prodotto dell’ul­ tima, delle modifiche cioè apportate dai romani nei primi tre secoli d. C., quando si svolgevano combat­ timenti di gladiatori e forse persino naumachie là dove una volta aveva cantato e danzato il coro di Eschilo. Del teatro di quei tempi, questi ruderi ap­ partenenti a sette o otto secoli posteriori hanno poco da dirci, anche se quel poco, come vedremo, è di grandissima importanza. Per farsi un’idea chiara della cornice in cui le tragedie furono originariamente rappresentate, occorre uno sforzo d’immaginazione, guidato non soltanto da un esame professionale del sito del teatro, ma anche dalle testimonianze di ogni specie di cui disponiamo. I resti più antichi in situ sono scarsi, ma impor­ tanti, comprendenti una parte delle fondamenta di un piccolo tempio e una fila di sei pietre disposte ad arco, ovviamente un frammento del muro di so­ stegno di una terrazza piana ai piedi del pendio del­ l’Acropoli. Entrambi risalgono forse al VI secolo a. C. Ecco tutto ciò che rimane delle due principali carat­ teristiche del recinto nei primi anni del dramma: il 54

tempio del dio, e lo spazio piano (in greco: orche­ stra, luogo riservato alle danze), dove il coro ese­ guiva appunto le sue danze. In qualche posto, alla estremità di questo luogo o più in là, deve esservi stata una tenda o baracchino per cambiare le maschere o i costumi, come quelli che incontriamo anche oggi per una rappresentazione all’aperto. (La parola greca per questa tenda era skene, in latino scaena, in ita­ liano « scena ».) Senza dubbio alcuni spettatori sta­ vano in piedi sulla terrazza circostante e altri sul pendio, dove col passare del tempo furono sistemati sedili di legno sorretti da impalcature. Non si sa per quanto tempo ci si contentò di tale semplice soluzione: alcune delle tragedie di Eschilo si possono rappresentare senza altre attrez­ zature. È chiaro, però, che durante il V secolo si ebbero grandi cambiamenti. È certo che prima della rappresentazione dell’Orestea nel 458 a. C., e pro­ babilmente in epoche ancora precedenti, il semplice b a r a c c h in o -ii:c h e serviva agli attori per cambiarsi il costume fu sostituito da strutture più solide. Un crollo disastroso delle tribune di legno, verificatosi forse nell’agorà anziché nel teatro, condusse alla realizzazione di un theatron, o « luogo da dove guar­ dare », costruito con cura sul pendio (la parola la­ tina auditorium significa luogo dove si ascolta). Più tardi la sua rampa si fece più ripida e il cerchio per le danze fu trasferito qualche metro più vicino al­ l’Acropoli. Fu eretto un secondo tempio per ospitare una nuova statua criselefantina del dio. Forse fu Pe­ ricle il promotore di gran parte di tali modifiche, benché non sia probabile che siano state ultimate durante la sua vita; è questo teatro di Pericle (Fig. 2) che va esaminato più attentamente come la cornice della maggior parte delle tragedie che ora posse­ diamo. Nell’esame di tale costruzione in ogni sua 55

parte, non dobbiamo dimenticare che si tratta di un unico insieme, non come opera di un solo architetto, ma come complesso sviluppatosi organicamente, nel quale tutte le parti (e come vedremo più oltre, tutte le persone che le affollavano) erano connesse fra loro. Non c’era in questo teatro alcun arco di pro­ scenio né sipario per servire da barriera, né alcuna divisione fra auditorio oscurato e palcoscenico ben illuminato. Ogni parte era in comunicazione con tutte le altre a cielo aperto. L ’auditorio fa oggi scarsa impressione e non riesce a evocare la gran folla che vi stava seduta durante le feste: la maggior parte dei sedili di pietra fu asportata nel Medioevo per essere utilizzata altrove come mate­ riale da costruzione. Soltanto i resti dei muri di so­ stegno attorno al limite indicano l’area una volta occu­ pata. Nel teatro di Pericle i posti d’onore nelle prime file erano forse già costruiti in pietra, ma tutti gli altri spettatori dovevano sedersi su panche di legno senza schienali collocate su terrazze di terra in ordine ascen­ dente. Come è stato dimostrato nella descrizione del pubblico e dei biglietti d’ingresso, erano divise da anguste scalinate in blocchi a forma di cuneo. Ad una certa altezza, c’era probabilmente un corridoio a livello da una parte all’altra dell’intera area (in greco: diazoma, cintura); in alto, un antico sentiero che correva lungo le pendici dell’Acropoli forniva un’altra via d’accesso trasversale. Al di sopra di questa c’erano altre panche; si raggiungeva così un totale di ottanta file, ma non sappiamo se questa parte superiore fosse già usata nel V secolo. Né siamo in grado di giudicare l’acustica del teatro di Pericle, con le sue panche di legno. È probabile che non raggiungesse la perfezione dell’auditorio di Epidauro, ideato da un architetto, nel quale si può sen­ tire nell’ultima fila il rumore prodotto dallo strappo 56

di un pezzo di carta nell 'orchestra. Tuttavia, nem­ meno i poeti comici si lagnano mai che non si sentisse la voce degli attori o il coro. Oggi non esiste più traccia άύΥorchestra a piè dell’ampio theatron com’era nel V secolo a. C. Suc­ cessive modifiche sovrapposte l’hanno completamente cancellata, e non sappiamo precisamente dove si trovasse allora. Non c’è dubbio che fosse di forma circolare, e la sua larghezza era di circa diciotto metri. Il pavimento — se possiamo giudicare dall’analogia di Epidauro — era di terra battuta, non lastricato né coperto, e il centro era occupato da un piccolo altare in pietra del dio. Fra questa zona riservata alle danze e la prima fila di posti, vi era probabilmente uno spazio vuoto di alcuni metri di larghezza, e intorno al margine ci doveva essere un canale di scolo che raccoglieva l’acqua piovana dalle pendici. Nessuna barriera, però, separava gli spettatori dal coro; niente di simile, cioè, ai lastroni di marmo che nell’epoca romana tenevano separati i gladiatori dal pubblico. Ai due lati c’erano i corridoi (in greco: parodoi), attraverso i quali il pubblico poteva accedere all’au­ ditorio. Attraverso questi passaggi, il coro di solito raggiungeva il cerchio delle danze durante le prime fasi della rappresentazione e ne usciva al termine. Essi servivano talvolta da entrata e uscita anche per gli attori. Più tardi, quando, almeno per la commedia, la scena era normalmente ambientata ad Atene, nac­ que una convenzione in relazione a quanto il pub­ blico poteva vedere dal teatro: siccome il Pireo e l’agorà erano situati alla sua destra, l’entrata dal porto o dall’agorà nella commedia doveva avvenire attraverso la parodos di destra, mentre dall’aperta campagna doveva avvenire dal lato sinistro. Nella tragedia del V secolo, però, l’identità e la prove­ nienza di ogni nuovo personaggio entrato in scena 57

erano spiegate, come ad esempio nella Medea di Euripide (665-7): Anche a te salve, Egeo, figlio del saggio Pandione: a questo suol di dove giungi? E geo Di Febo or or lasciai l’antico oracolo. M edea

Al di là di questi passaggi, allontanandoci dal­ l ’Acropoli, troviamo i resti più consistenti del teatro del V secolo. La parte inferiore di un lungo muro diritto dello spessore di circa 60 centimetri, che deve aver sorretto una vasta terrazza, corre per una lun­ ghezza di circa 61 metri di fronte all’auditorio; da questo muro, sporge di circa 3 metri verso Vorchestra un massiccio rettangolo di pietra, costruito alla stessa epoca. Vicino all’altro lato del muro, vi sono i resti di un lungo e stretto portico con gradinata che si apriva lungo la maggior parte del lato opposto all’auditorio. Ancora più verso sud, ci sono le fon­ dazioni del secondo tempio. Lo scopo del portico è ancora oggetto di discussione: il suo lato aperto fa pensare a qualche uso sociale, a un riparo dalla pioggia, ad esempio, piuttosto che a un grande ma­ gazzino. Ma la caratteristica più significativa per il teatro come cornice per il dramma si trova nel lungo muro dirimpetto al luogo riservato alle danze. Sca­ nalature o fessure verticali, originariamente dieci in tutto, furono scavate nella pietra ai due lati del ret­ tangolo sporgente. Queste scanalature che suggeri­ scono la presenza di pesanti pali di legno, ora spariti, sono l’unico elemento di prova materiale dell’esistenza di qualche struttura nell’area della rappresentazione delle tragedie del V secolo. Ovviamente, questi resti visibili non danno una risposta alla maggior parte dei quesiti ai quali cer­ chiamo una soluzione. Quali erano la forma e le di­

mensioni della skene i cui sostegni erano inseriti nei dieci fori per i pali? Qual era il rapporto tra l’area della recitazione e Vorchestrai A che livello si tro­ vava? C’era un vero e proprio palcoscenico? C’era uno scenario? Che tipo di macchine e di attrezzi ve­ niva adoperato? Per risolvere tali problemi dob­ biamo far ricorso ad altre testimonianze, le quali tutte presentano qualche particolare difficoltà: alle pitture dei vasi, di dubbia attinenza al teatro, almeno per questo teatro a quest’epoca; alle opere di Vitruvio e di Polluce e ad altre fonti documentarie che potreb­ bero essere valide per il teatro di varie epoche po­ steriori, ma hanno scarso valore per l’epoca di Pericle; e soprattutto alle tragedie stesse, purché riusciamo ad evitare preconcetti sulla maniera in cui venivano rappresentate. I fori per i pali situati dietro la skene implicano altri sostegni in posizione più avanzata per la sua parte frontale; e la maggior parte delle opere teatrali pervenuteci confermano che esisteva una struttura dominante l’orchestra più elaborata della tenda o ba­ racchino originario. Se fossero state usate tutte le scanalature, tale struttura avrebbe avuto una lun­ ghezza di oltre 30 metri; ma in realtà, probabil­ mente, non era larga più di 3,70 metri. C’erano forse, alle due estremità, delle ali sporgenti (in greco: paraskenia) come quelle dei teatri costruiti in pietra di epoche posteriori, ma questo è un punto non ac­ certato. Evidentemente era questa una struttura di legno, e può darsi che fosse costruita ex novo per ogni festa. Ma una struttura così massiccia difficil­ mente poteva venir costruita per singole occasioni, tanto meno poi per particolari drammi: doveva es­ sere lasciata al suo posto per tutta la durata delle gare teatrali. Una facciata di legno dietro gli attori avrebbe 59

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costituito un efficace schermo acustico per le loro voci, e avrebbe inoltre fatto spiccare le loro maschere e i loro pittoreschi costumi; un gran vantaggio, in­ fatti, proprio come sfondo alle rappresentazioni. Ma la skene era diventata qualcosa di più: invece che da tenda o baracchino per i mutamenti d’abito (un accessorio esterno come un camerino in un teatro moderno) fungeva adesso da luogo strettamente con­ nesso con la trama dell’opera teatrale. Era diventata parte della finzione, parte del dramma stesso, qua­ lunque cosa rappresentasse nell’immaginazione del pubblico: un palazzo, un tempio, la tenda di un ge­ nerale o persino una grotta. Si potevano considerare i personaggi del dramma come abitanti della skene, dalla quale entravano e uscivano. Per le tragedie a noi pervenute, una sola porta è necessaria, ma si è arguito che per alcune commedie ne occorressero al­ meno due: negli ultimi anni del V secolo, c’erano forse tre entrate nella facciata, una grande centrale, larga forse più di tre metri, ed altre due più pic­ cole ai lati. Polluce fa menzione di un theologeion sovra­ stante la skene, cioè un luogo dal quale parlavano gli dei; ed è chiaro che in alcune delle opere di Eschilo e di Euripide tale piano superiore si richie­ deva. La spiegazione più semplice è che, almeno nel V secolo, questo piano era fornito dal tetto della stessa struttura di legno, che veniva raggiunto pre­ sumibilmente a mezzo di una scala interna. La sua funzione principale era indubbiamente quella sugge­ rita dal termine adottato più tardi. Pare, ad esempio, che Eschilo ne abbia fatto uso nella sua Pesatura di anime (Psychostasia, opera ora perduta), in una bel­ lissima scena nella quale Zeus pesa i destini di Achille e Memnone, mentre le loro madri divine, Tetide e Aurora, lo supplicano di salvare i propri figli. Per

questo quadro celeste il tetto figurava come la di­ mora degli dei, ma poteva anche servire semplicemente da tetto del palazzo, usato dalla scolta solitaria άύΥAgamennone, oppure da tre personaggi umani nell’episodio finale dell’Oreria di Euripide. L ’altezza della skene non è accertata, ma alcuni ritengono che una scena di Euripide richiedesse il salto di un attore dal tetto a terra; se ne deduce quindi che l’altezza non dovesse superare i tre metri circa. Per raggiungere una quota maggiore sopra il normale piano degli attori, fu usata la gru del teatro, detta comunemente dai greci mechane (in latino: ma­ china, in italiano « macchina »). La potenza di questo attrezzo non poteva essere stata così grande come taluni asseriscono: difficilmente avrebbe potuto, nel Prometeo di Eschilo, sollevare l’intero coro delle Oceanidi nel loro carro alato, tenendole sospese in alto durante 160 versi del dramma. È incerto che Eschilo abbia mai fatto uso della gru, e Sofocle non ne fa menzione. Ma Euripide era noto per concludere le sue opere con il « deus ex machina », e talvolta ne fece un uso più ardito: nel dramma perduto intito­ lato Bellerofonte, il protagonista veniva sollevato verso il cielo sul suo cavallo alato Pegaso (certamente di cartapesta!). Purtroppo sui particolari della « mac­ china » sappiamo poco; né conosciamo con certezza il luogo dove era situata. Pare che fosse munita di un braccio manovrabile mediante cavi e carrucole, al quale era sospeso l’attore o il suo carro o cavalcatura dentro una bardatura appesa a un gancio. Non c’è da meravigliarsi che Aristofane considerasse la gru un soggetto adatto alla parodia, oppure che l’attore trovasse la sua passeggiata in aria un’esperienza pe­ ricolosa. Il contadino-protagonista della Pace vola verso il cielo sul dorso di uno scarafaggio gigante, come Bellerofonte sul Pegaso, gridando (174),

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Macchinista, bada! L ’attore dunque poteva apparire sul tetto della skene, oppure venire sollevato ancora più in alto, ma il suo posto normale era lo spazio davanti alla facciata di legno. Questi pochi metri quadrati sono diventati per gli studiosi un campo di battaglia. Il loro rapporto col settore riservato alle danze è risul­ tato il più polemico dei tanti problemi riguardanti il teatro del V secolo. Gli autori antichi di scritti sul teatro greco suppongono che il palcoscenico fosse alto da tre metri a tre metri e mezzo. La mancanza di qualsiasi testimonianza archeologica sull’esistenza di tale struttura nel V secolo non costituisce un ar­ gomento conclusivo contro questa ipotesi: un palcoscenico come la skene poteva essere di legno ed es­ sere quindi scomparso senza lasciare traccia. Un fat­ tore più decisivo è costituito dal fatto che le opere stesse richiedevano il mescolarsi di attori e coro. È vero che essi avevano funzioni diverse che in larga misura li tenevano divisi; tuttavia il loro contatto è troppo frequente per ammettere l’esistenza di qual­ siasi grande barriera fra di loro come un dislivello o una scala di. tre metri. In diversi casi il coro entra o esce attraverso la skene-, gli attori entrano ed escono attraverso le parodoi ai lati dello spazio riser­ vato alle danze, e sembrano liberi di muoversi in qualsiasi punto fra la skene e la prima fila di posti per il pubblico, secondo le esigenze dell’azione. Anche in mancanza di tale testimonianza deducibile dalle opere teatrali, una sistemazione che colloca gli attori su un piano tanto diverso sarebbe appena concepi­ bile in un periodo in cui gli attori apparivano ancora una recente derivazione dal coro. L ’alto palcoscenico dei commentatori antichi non si accorda quindi con il teatro di Pericle, ma appartiene piuttosto ad un

periodo successivo, quando gli attori, divenuti premi­ nenti nella rappresentazione teatrale, erano l’elemento che contava nel dramma. Restano due alternative. La prima è che l’area normale dell’azione comprendesse la parte del settore riservato alle danze più lontana dal pubblico, più qualsiasi spazio fra tale settore e la skene·. quelli che sono di questo avviso ammettono che ci sareb­ bero stati uno o due larghi gradini alla base della facciata di legno, sui quali l’attore poteva stare di quando in quando, ma generalmente lo collocano sullo stesso livello del coro. La seconda è quella di ren­ dere l’attore più visibile agli spettatori, collocandolo su una bassa piattaforma, presumibilmente di legno, comunicante con l'orchestra mediante qualche gra­ dino o con una scaletta. Nei resti di qualche altro teatro greco si trovano incavi atti a ricevere sostegni per una tale piattaforma. Il fatto che essa appaia in scene comiche su vasi del IV secolo provenienti dall’Italia meridionale non costituisce una prova va­ lida per l’Atene periclea, ma una pittura molto di­ scussa su un vaso attico del 420 a. C. circa (Tav. 3a) sarà forse più pertinente. Un attore comico paro­ diando Perseo sta guardando da una piattaforma bassa alla quale sono attaccati dei gradini; ai piedi di questi gradini vi sono due figure sedute (il poeta e il corego, oppure un pubblico simbolico?). Non vi è traccia di coro o di spazio per esso, ed è piuttosto dubbio che il disegno abbia un qualsiasi rapporto con il teatro di Dioniso. Tuttavia, se tale rapporto c’era e c’era una piattaforma per le commedie, dev’essere stata usata anche per le tragedie, visto che la commedia e la tragedia venivano rappresentate nel corso delle stesse gare, e durante la guerra del Peloponneso ad­ dirittura lo stesso giorno. Le dimensioni di questa ipotetica struttura di

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1 Un’apparente eccezione si trova in 1456 a 2, ma qui opsis è una discutibile variante del testo; il suo autore, Bywater, inter­ pretò la parola anche qui come riferibile all’aspetto degli « strani personaggi introdotti ».

prende gioco della gru e degli altri attrezzi adoperati nella rappresentazione di tragedie, non esiste traccia di satira a proposito di esagerate scene di sfondo o di macchinisti frettolosi, né troviamo accenni nei commentatori posteriori di commedie ora perdute. Volgendoci all’arte figurativa, non troviamo nulla che a quest’epoca suggerisca l’esistenza di una pratica scenografica. I pittori di vasi si dedicano principal­ mente agli esseri e all’ambiente umano, indicando la natura con i simboli più semplici: un delfino per il mare, steli d’erba o un paio di alberi di lauro per la campagna. Si intende che la decorazione dei vasi è assai lontana dall’opera di un Agatarco, ma difficil­ mente possiamo credere che, in un periodo in cui un ottimo pittore di vasi disegnò una musa nel suo recesso di montagna, ponendola seduta su una roccia con la scritta « Elicona », si facesse uso nel teatro di grandi scene di sfondo raffiguranti paesaggi. Le scarse testimonianze sulla pittura murale del V secolo indicano lo stesso leggero e simbolico trattamento della natura riscontrato sui vasi. Dovevano passare oltre due secoli prima che si sviluppasse la pittura di paesaggi su larga scala. Se il nostro ragionamento è valido, il teatro del V secolo ignorava la « scenografia » come la inten­ diamo noi. Che pensare dunque delle opere teatrali con la loro grande varietà di ambienti? Siamo indotti a ipotizzare che, qualunque fosse il luogo in cui i personaggi avrebbero dovuto trovarsi — fuori di un tempio o palazzo o in un accampamento o in cam­ pagna o sulla spiaggia — l’intera azione si svolgeva davanti alla stessa facciata con la sua o le sue porte, decorate forse con dipinti in prospettiva. Può darsi benissimo che una semplice sagoma di legno rappre­ sentante un altare o una tomba fosse collocata tal­ volta a poca distanza dalla facciata. È anche probabile

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tura di scene », ma « pittura della skene », che po­ trebbe essere una cosa ben diversa. Una spiegazione di quanto dice Aristotele ci viene qualche secolo più tardi da Vitruvio (V II, pref. 11), il quale ci informa che Agatarco fu il primo « a fare una scaena » ad Atene, e va oltre suggerendo che la sua innovazione era la rappresentazione della prospettiva architetto­ nica. Vitruvio l’associa con la rappresentazione di una tragedia di Eschilo, probabilmente una replica, perché ci sono buone ragioni per datare la rappre­ sentazione in epoca molto posteriore alla morte del poeta. Da Aristotele e Vitruvio insieme facciamo la seguente deduzione: che in una certa epoca della se­ conda metà del V secolo, Agatarco inventò l’.arte di dipingere un disegno architettonico in prospettiva sulla skene davanti alla quale si muovevano gli at­ tori. Nulla ci suggerisce che il disegno avesse lo scopo di far sì che la skene rappresentasse un tipo partico­ lare di costruzione: probabilmente esso rimaneva lo stesso per tutte le opere teatrali, almeno durante un intero agone. Non si tratta qui di « scenario » nel senso con­ sueto del termine né troviamo altre testimonianze in proposito relative al V secolo - a. C. La Poetica non ne fa cenno: Aristotele menziona più volte l’aspetto visuale del dramma (opsis), ma quello che intende esprimere si riferisce piuttosto all’aspetto dell’attore o del coro; la parola « spettacolo », con la suggestione di meraviglie sceniche, è una traduzione inesatta dal greco *. Fatto ancora più notevole, lo scenario non sug­ gerisce facezie alla commedia: in Aristofane, che si

che tra gli altri arredi teatrali, vi fossero statue lignee degli dei, forse vivacemente colorate, ed è anche pos­ sibile che fossero portati in scena schermi leggeri che indicavano una roccia, magari per nascondere un per­ sonaggio dalla vista di un altro; è più semplice però ritenere che la tragedia greca e il suo pubblico ac­ cettassero la Stessa convenzione della commedia ro­ mana, cioè che un personaggio possa rimanere inos­ servato e non udito da altri per tutto il tempo che conviene al drammaturgo. Questi sono problemi mi­ nori, anche se molto discussi. Il punto essenziale è che, mentre lo spettatore moderno si attende uno scenario appositamente ideato per un dramma par­ ticolare, il pubblico di Atene si attendeva e trovava poco o nulla più di una struttura ben nota, usata in tutte le opere teatrali. Per il resto, bastava l ’immaginazione, stimolata e guidata dalle parole. Quando il coro dello Ione di Euripide (206-7) ammira una serie di scene mitologiche sulla facciata del tempio —

Ahimè, ahimè, ahimè! Ilio fiammeggia, di Pergamo ardono i tetti, brucia la città, bruciano dei muri i vertici.

Toccò ai romani dei tempi di Nerone distruggere col fuoco una casa vera sul palcoscenico. In tutto ciò, il teatro greco era forse in disac­ cordo col nostro; ben si accorda invece con le usanze di altri tempi e di altre civiltà, compresa l’epoca in cui il dramma raggiunse le sue cime più elevate: ad esempio, il teatro di Shakespeare con il suo sfondo invariato di porte, alcova e balcone; il teatro giap­ ponese Nò con la sua immagine immutata di un pino sullo sfondo del settore dell’azione; oppure il dramma sanscrito, così suggestivo ed esotico con la scena suggerita dalle parole, sebbene rappresentato su un palcoscenico completamente spoglio. Nella storia del teatro mondiale nel suo complesso, è pre­ valsa la libertà d’immaginazione: la nostra epoca, legata al realismo visivo, non ha tenuto il passo. In questo vagare libero dell’immaginazione, un solo limite nel teatro greco del V secolo lo distingue dalle possibilità di un palcoscenico completamente spoglio o dalla sequenza di scene caleidoscopiche del dramma elisabettiano. La skene medesima, sia che servisse da palazzo o da tempio, tenda o grotta, po­ teva costituire, e normalmente in effetti costituiva, un punto di riferimento intorno al quale si svolgeva tutta l’azione del dramma. L ’unità di luogo non era una regola tassativa, e non è da meravigliarsi che Aristotele non ne abbia fatto menzione nella Poe­ tica, benché i commentatori rinascimentali credessero di trovarcela: nel corso della stessa opera, come ab­ biamo visto, lo spazio davanti alla facciata poteva spostarsi nell’immaginazione da Delfi ad Atene, da un accampamento alla spiaggia. Tale libertà era mag­ giore nelle opere di Eschilo che non in quelle dei suoi successori, specie in quelle di Euripide. Tuttavia la presenza del coro dava a tutto il dramma greco una continuità che non si trova in Shakespeare, e

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Sopra i muri, vedi il tumulto dei Giganti nel marmo sculto? — sono le parole pronunciate dal coro che permettono al pubblico di partecipare alla visione, e non una scena di sfondo portata sul palcoscenico all’inizio del dramma. Quando, alla fine delle Troadi, Troia viene incendiata, non vi fu alcuno spettacolo simile a quello che possono produrre la tecnica e l’illuminazione del teatro moderno, ma soltanto le lamentazioni del coro o di Ecuba (1295-7):

nella maggior parte delle tragedie la funzione imma­ ginaria della skene rimaneva immutata come pure quella dello spazio davanti ad essa. Era qui che tutta l’azione visibile del dramma si svolgeva, fuori, al­ l’aperto; un ambiente che può apparire strano in re­ gioni più fredde, ma che era del tutto naturale per i greci, che trascorrevano gran parte della loro vita di ogni giorno all’aperto. Basti pensare all’Assemblea che ascoltava gli oratori all’aria aperta, a Socrate che dissertava per la strada o nell’agorà, oppure al teatro stesso. Era questo l’unico punto focale dell’opera, una delle caratteristiche che fanno apparire statica la tra­ gedia greca, dandole allo stesso tempo una concen­ trazione in confronto alla quale Shakespeare spesso appare vago e frammentario. Verso questo « fuoco », che assume però un senso ancora più ampio, tutti i personaggi dovevano convergere per partecipare al­ l’azione. In realtà, l’azione visibile che si svolge qui, davanti al pubblico, è ben lungi dal comprendere tutti gli avvenimenti del dramma. Molti di essi, fra cui i più violenti, si svolgono altrove; non vengono però mostrati con un cambiamento di scena, ma an­ nunciati da un messo. Gli antichi greci non erano troppo delicati in fatto di violenza o di morte: a partire àAY Iliade, lo spargimento di sangue era cosa del tutto normale nella poesia narrativa, come lo era nelle pitture sui vasi e nella realtà della vita di ogni giorno. Né è vero che in teatro la morte o la sofferenza fisica non fossero mai rappresentate. Alcesti e Ippolito muoiono, Eracle ed Edipo agoniz­ zano in scena, Prometeo è trafitto nel petto da un palo. Nella Poetica (11), Aristotele riferisce a «c asi di morte apertamente presentati, grandi sofferenze, ferimenti e simili », senza minimamente far cenno a che tali spettacoli fossero interdetti: può darsi quindi 70

che essi si verificassero in alcune delle tragedie andate perdute. Tuttavia è un fatto che in quelle conservate la violenza e l’assassinio si svolgono generalmente fuori scena: il pubblico non vede duelli emozionanti né spettacoli cruenti. Si è cercato di spiegare questa sorta di pudore con qualche tabù religioso, oppure con difficoltà inerenti al numero limitato di attori. Ma quale che sia stata l’origine dell’usanza, il fatto è che fu conservata; il che dimostra ancora una volta la disposizione ad affidarsi all’immaginazione piutsto che alla visione, all’orecchio piuttosto che al­ l ’occhio. In uno dei dialoghi platonici (Ione 535e), un professionista specializzato in recitazioni di Omero descrive l’effetto da lui prodotto sugli ascoltatori: « Li vedo sempre dall’alto della tribuna piangere, guardar bieco, e spaventarsi alle mie parole ». Un pubblico abituato a commuoversi tanto ascoltando i versi dell 'Iliade avrà certo trovato il racconto del nunzio che narrava l’agonia di Eracle morente (nelle Trachinie di Sofocle) o lo strazio di Penteo (nelle Baccanti di Euripide) assai più vivo di qualsiasi altro realismo teatrale. (Quante volte, a questo proposito, un omicidio in scena riesce oggi a convincere?) Ciò che il pubblico di Atene si aspettava di vedere non era la violenza stessa, ma le sue conseguenze. Al cul­ mine dell’intensità già provocata dal racconto del messaggero, il risultato dell’azione viene spesso esi­ bito di fronte al pubblico: Ippolito viene trasportato morente nella scena e la regina Agave vittima di una tragica illusione, entra trionfante tenendo in mano la testa del proprio figlio. Tornando alla skene, ci domandiamo come la sua funzione drammatica si inquadri nello schema gene­ rale. In molte delle tragedie pervenuteci, gran parte dell’azione si svolge « dentro », ma i greci non hanno mai sviluppato il concetto di una scena interna resa 71

visibile al pubblico mediante una convenzione tea­ trale che noi accettiamo senza discussione, cioè l’eli­ minazione di una parete della stanza. La percezione di eventi dietro la facciata della skene si limitava a quanto era udito, ma non visto, ed era comunicata al pubblico attraverso i commenti dei personaggi che erano fuori della skene o dal coro: le grida di collera e di odio di Medea alla notizia del nuovo matrimonio di Giasone; le urla di Clitennestra morente; oppure — uso più ingegnoso del medesimo accorgimento — Fedra origliante dietro la porta, mentre Ippolito dentro il palazzo maledice la nutrice che ha tradito il segreto della matrigna. Altre volte, quello che av­ veniva « dentro » era comunicato con la stessa tec­ nica usata per ciò che accadeva sulla montagna, sulla spiaggia o in qualche altro luogo lontano. Poteva essere narrato da un messaggero (in greco: exangelos, cioè uno che ha portato notizie dall’interno della casa), e le conseguenze venivano esposte davanti al pubblico. Edipo, scoperta l ’agghiacciante verità sul suo passato, si precipita dentro al palazzo e chiude la porta: uno schiavo esce per annunciare che Gio­ casi a si è impiccata e il re si è cavato gli occhi. Il pubblico, che ha immaginato l’accecamento attraverso il racconto del messaggero, vede ora riaprirsi la porta e assiste all’entrata di Edipo ormai cieco. La ricomparsa di Edipo non presentava alcuna difficoltà e quanto al corpo esanime di Giocasta in questo caso esso rimaneva invisibile. È chiaro, però, che in qualche tragedia il risultato della catastrofe avvenuta all’interno era esibito al pubblico, morto compreso. Tali scene non erano quadri statici: a volte richiedevano parole ed azione, dalle quali scaturiva un ulteriore sviluppo del dramma. NelYAgamennone di Eschilo, Clitennestra appare ac­

canto ai corpi esanimi di suo marito e di Cassandra, mostrando trionfante la rete che era servita a cat­ turare il re ed esultando per la sua morte. Nella seconda tragedia della trilogia, le Coefore, vi è una scena molto simile: Oreste, che sta sopra i corpi esanimi di Clitennestra e di Egisto, ancora una volta con la rete fatale, scorge le Eumenidi vendicatrici che si avvicinano e corre precipitosamente a cercare rifugio a Delfi. Nell’Ippolito, la porta viene aperta per ordine di Teseo, e appare il corpo di Fedra: egli trova, legata al polso di lei, una lettera con la quale accusa suo figlio; Teseo lo maledice, causando il di­ sastro finale. Nell’Eracle, la porta si apre per rivelare Ercole addormentato, legato ad una colonna spezzata, mentre la moglie e i figli giacciono morti ai suoi piedi: fra poco, come Agave, tornerà in sé, renden­ dosi conto di quello che ha fatto. Il modo in cui tali scene venivano rappresentate costituisce uno dei problemi più discussi della storia del teatro greco. Alcuni sostengono che bastavano l’apertura della porta e quanto appariva sulla soglia stessa, ma è quasi certo che i due battenti della porta si aprivano verso l’interno, per cui il quadro prece­ dentemente allestito si sarebbe trovato a circa due metri dall’inizio della scena: lo spettacolo sarebbe stato perciò poco visibile per gran parte del pub­ blico, che avrebbe stentato anche a udire le pa­ role. Meglio accettare la testimonianza, benché confusa, di scrittori e commentatori posteriori i quali asseriscono che nel V secolo si faceva già uso di un apposito meccanismo detto ekkyklema: una spe­ cie di macchina spinta fuori su ruote. Le loro afferma­ zioni hanno dato luogo a due ipotesi: una, che si trattasse di una forma elementare del moderno pal­ coscenico girevole, l’altra, di un congegno più pri­

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mitivo, più adatto quindi al V secolo, cioè una piat­ taforma bassa su ruote (che non avrebbe superato i tre metri in larghezza e due in profondità), spinta fuori attraverso l’apertura centrale della skene. Alla domanda se le figure su questa piattaforma, le parole pronunciate e le azioni in rapporto con essa fossero aH’interno o all’esterno del palazzo, la risposta è che né gli spettatori né i drammaturghi si preoccupavano di tale problema, come del resto non se ne preoccu­ pava Shakespeare in molte delle sue scene; né la questione si pone ad un pubblico moderno mentre segue una rappresentazione su un palcoscenico al­ l’aperto. Quando Yekkyklema era in funzione, la distinzione fra « interno » ed « esterno » appariva poco importante finché il poeta non avvertiva il bisogno di ristabilirla. Se troviamo qualcosa di comico in questa piatta­ forma su ruote con il suo carico di orrore, è interes­ sante constatare che gli stessi ateniesi erano predi­ sposti a trovarla così. Uno dei motivi più validi per credere alla sua esistenza nel V secolo è che due passi di Aristofane sarebbero incomprensibili se non si riferissero ad essa per metterne in evidenza il lato ridicolo. Nelle Tesmoforiazuse (95), il poeta tragico è « spinto fuori sulle ruote »; e quando negli~Acarnesi (407-9), Euripide è troppo occupato per uscire dalla sua casa per incontrare il campagnolo-eroe, quest’ultimo grida: « Fatti portare con la macchina! », e così accade. Su questo punto, come su altri, la commedia fornisce alcune delle prove più valide sul modo di rappresentare la tragedia. Comunque sia, Yekkyklema, per quanto ci possa sembrare strano, era una trovata logica per ottenere l’effetto centripeto sottolineato in questo capitolo. Nessuno scenario rea­ listico ostacolava l’immaginazione del pubblico che si 74

faceva trasportare liberamente dalla magia della pa­ rola ad azioni lontane o attraverso vaste distanze di spazio e di tempo; ma l’uso di far convergere il rac­ conto e le sue conseguenze verso un solo immutato punto centrale è una delle caratteristiche che die­ dero alla tragedia attica nei momenti del suo più grande splendore quella concentrazione e intensità dinamica che la contraddistinguono.

Dopo la discussione del luogo, rivolgiamo la no­ stra attenzione a ciò che vi si svolgeva nei giorni dei concorsi tragici: dal teatro, cioè, alla rappresenta­ zione. Un dramma rappresentato alla festa di Dio­ niso era un’occasione unica e indivisibile, alla quale partecipavano tutti i presenti — attori, coro e pub­ blico — ognuno a modo suo. Il rapporto fra di loro costituisce una parte essenziale del nostro quadro; ma se vogliamo farcene un’idea precisa, dobbiamo prima cercare di separare quello che è veramente inseparabile, esaminando successivamente ognuno dei tre elementi. In primo luogo, l ’attore tragico. (Recitare com­ medie era considerato un’arte diversa.) Nei primi tempi della tragedia, vi fu un unico attore: il poeta medesimo. Nella Poetica (4), Aristotele ci informa che Eschilo portò il numero degli attori a due, mentre Sofocle ne aggiunse un terzo. Non si richiese più all’autore di recitare. Si dice che Sofocle vi abbia rinunciato a causa della sua voce debole, benché suo­ nasse la lira in una delle sue tragedie, e dilettasse il pubblico giocando a palla nella parte di Nausicaa. Nel 449 a. C., fu introdotto un premio per la recita, e d ’ora innanzi troviamo nelle iscrizioni il nome del­ l’attore principale insieme con quello del poeta e del

corego. È così che ebbe inizio la professione dell’at­ tore, professione che in pochi decenni avrebbe do­ minato il teatro. Tre cose spiccano nelle notizie che abbiamo in­ torno a questo processo. In primo luogo, riguardano esclusivamente gli attori; non vi erano attrici, no­ nostante il carattere eccezionale dei personaggi fem­ minili nelle tragedie: Clitennestra, Elettra, Ecuba, Medea. L ’alta reputazione di cui questa professione era circondata rendeva di per sé inconcepibile un’idea simile: soltanto donne libere e rispettabili avrebbero potuto esercitarla, ed era inimmaginabile che questo tipo di persona recitasse in un luogo pubblico. Né si faceva uso di ragazzi per simulare voci femminili, come nel teatro dell’epoca elisabettiana: tutte le parti femminili erano interpretate da uomini. La seconda caratteristica che ci colpisce è il ruolo di preminenza dato al primo attore, cioè al protago­ nista, che ereditava il posto originariamente occupato dal poeta medesimo. Di lui solo si poteva dire che « recitava » nel dramma, a lui solo spettava il premio per la recitazione. Nella rappresentazione, però, non era così nettamente distinto dagli altri come il suo equivalente nei drammi giapponesi del No, lo « shite » (che è l’unico a ballare, portando una ma­ schera e un costume magnifico), anche se i suoi col­ leghi, il « deuteragonista » e il « tritagonista », do­ vevano stare al proprio posto, non facendosi mai troppo avanti. Nel IV secolo, famosi divi del teatro potevano chiedere enormi stipendi, e furono impie­ gati come ambasciatori in missioni di stato. Il terzo punto è il più notevole: una volta che gli attori recitanti ebbero raggiunto il numero di tre, tale numero rimase inalterato. Ciò naturalmente non significa che vi fossero soltanto tre personaggi nel dramma. Di solito, il numero delle parti era due o

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Capitolo sesto LA RAPPRESENTAZIONE

tre volte superiore, e gli attori le dividevano fra di loro; inoltre, vi erano delle comparse mute, il cui numero variava a seconda della liberalità del corego: a volte, la zona dell’azione era addirittura un’esibi­ zione di pompa. Ma assai di rado, anzi quasi mai, vi erano più di tre personaggi che recitavano contem­ poraneamente. Non sappiamo come fossero distri­ buite le parti nelle singole tragedie, tranne che per poche, interpretate da protagonisti famosi. Gli stu­ diosi, però, hanno cercato di risolvere l’enigma, arri­ vando a volte a strani risultati. Né ì' Antigone di So­ focle, lo stesso attore recitò probabilmente le parti di Antigone e di Emone; è certo che la parte di Ismene fu accoppiata con quella della guardia. Nelle Baccanti di Euripide, il deuteragonista probabilmente sommava le parti del re Penteo e di sua madre Agave, che lo uccide. Nello Ione e nell "Elettra, un solo at­ tore (presumibilmente il tritagonista) recitava quattro parti, nell'Oreste almeno cinque. ÌAell'Edipo a Colono sofocleo, l’ipotesi più semplice è che un personaggio, Teseo, fosse interpretato da tutti e tre gli attori a turno, o forse qui, e in certi casi quando parla un bambino, era ammesso un quarto attore. Talvolta i drammaturghi incontravano difficoltà in relazione a questa regola dei tre attori. Essa richie­ deva qualche cambiamento velocissimo di maschera e di costume dentro la skene mentre pochi versi ve­ nivano recitati fuori. Provocava dei silenzi strani e poco verosimili. Alla fine AéB'Oreste, Euripide tentò un colpo di scena, portando sei o sette dei dieci per­ sonaggi davanti al pubblico allo stesso tempo, ma almeno tre di questi, compreso Pilade, l’amico di Oreste, furono per forza rappresentati da comparse mute. Quando Oreste si accinge a uccidere Ermione, e Menelao domanda a Pilade se vuole partecipare 78

all’assassinio, il drammaturgo risolve la difficoltà fa­ cendo rispondere Oreste (1592): Col silenzio acconsente. Io parlo, e basta. Per quale motivo si conservava una regola' tal­ volta tanto incomoda? Se è corretta l’informazione di Aristotele, nell’introduzione del terzo attore, non vi era un motivo religioso. Una spiegazione parziale può essere l’esigenza che i poeti partecipanti alla gara si attenessero tutti allo stesso numero di attori; un’altra, la difficoltà di trovare un numero di attori sufficiente per tutte le opere presentate in gara. È da notare, però, che nelle tragedie giunte sino a noi accade spesso che neppure i tre attori disponibili siano pienamente impiegati. La maggior parte delle scene consiste di dialoghi tra due persone, e di rado tre personaggi parlano a lungo insieme. Ovviamente la regola rimaneva in vigore perché i drammaturghi non sentivano gran voglia di infrangerla ed avevano scarsa disposizione (nonostante la scena finale deiΓ Oreste) per situazioni complesse o discorsi fra più personaggi. L ’impiego che fanno degli attori ci ricorda la zona dell’azione con il suo unico punto focale: qui ancora lo scopo non era la complessità, ma la sem­ plicità, non la diffusione e la dispersione dell’effetto, ma un’intensità, concentrata, e vieppiù rinforzata, dalla preminenza del protagonista. Abbiamo dunque tre attori ai quali si poteva ag­ giungere un certo numero di comparse. Qual era il loro aspetto? Come si muovevano,.come parlavano? Cosa significava recitare una parte? Spesso si immagina l’attore tragico antico come una figura orripilante, dalla fronte allungata, con gli occhi fissi, la bocca aperta, una veste lunga fino a 79

terra e degli stivali con alte suole che lo rialzavano parecchi centimetri dal suolo. Questa sagoma severa e statuaria, presagio di immane orrore e destino ine­ luttabile, che ha improntato tutta la nostra concezione della tragedia greca, non esisteva al tempo di Sofocle. L ’immagine prese origine dall’arte figurativa dei se­ coli posteriori, quando il costume di un tempo era stato alterato, e dalle descrizioni di Polluce' e di altri autori posteriori che furono considerate valide anche per il V secolo a. C. Oggi siamo giunti alla conclu­ sione che l’unica testimonianza attendibile per questo periodo consiste nei cospicui resti provenienti dal­ l’arte figurativa dell’epoca o di tempi ad essa molto vicini — comprese alcune scoperte recenti — a cui possiamo aggiungere qualche occasionale deduzione tratta dalle opere stesse. Anche qui, come abbiamo visto, permane una grande incertezza: fino a che punto un pittore di vasi era guidato dalla pratica concreta del teatro, e fino a che punto dalla propria immaginazione? Tuttavia, nonostante un buon mar­ gine di errore, possiamo farci un’idea dell’aspetto che aveva l’attore quando le tragedie a noi pervenute furono rappresentate per la prima volta. In primo luogo la maschera, cioè quella parte del suo costume che a noi appare la più strana. Era fatta di lino, a volte di sughero o di legno; ecco perché non se ne è conservata nessuna, tranne qualche copia di marmo o di terracotta, eseguita con qualche scopo preciso; ad esempio, per essere consacrata a un dio. La maschera, a cui erano attaccati i capelli, copriva tutta la testa o quasi: non si usavano par­ rucche separate. La faccia, probabilmente dipinta in bianco ó bianco-grigio per le donne e più scura per gli uomini, mostrava lineamenti naturali ben marcati, con piccole aperture negli occhi per permettere all’at­ tore di vedere, e con la bocca leggermente aperta.

Polluce enumera ventotto maschere di repertorio per i personaggi della tragedia; non sappiamo — se mai nel V secolo ci fu una divisione in tipi — quanto essa fosse minuziosa. Qualche volta (sempre che si giungesse a tanto realismo visivo!), un attore poteva cambiare maschera nel corso della stessa interpreta­ zione: così fa Edipo, ad esempio, quando esce dal palazzo sanguinando abbondantemente dagli occhi ormai ciechi. Per quale motivo gli attori portavano la ma­ schera? In molte parti del mondo si usano — o fu­ rono usate — maschere nei riti, e la presenza di figure mascherate nell’arte greca assai prima delle origini presunte del dramma indica un’origine reli­ giosa o magica. D ’altra parte, la tradizione vuole che Tespi, il creatore della tragedia, dapprima facesse uso di un trucco a base di biacca, e soltanto più tardi adoperasse la maschera. Quale che sia stato il motivo della loro introduzione nel dramma, le maschere fu­ rono conservate e accettate dai greci attraverso i se­ coli, perché nel teatro greco erano appropriate: co­ stituivano il mezzo logico per lo scopo desiderato. Nei teatri relativamente piccoli dei nostri giorni, l’espressione del viso è di somma importanza per l’attore, il quale lo lascia scoperto, benché possa ca­ muffarlo mediante il trucco: un sorriso, un cipiglio può comunicare al pubblico più di qualsiasi parola. Ma ad Atene una distanza di almeno diciotto metri separava gli attori dal pubblico che sedeva nella prima fila al di là dell 'orchestra, e circa novanta metri li dividevano dalle ultime file. A tale distanza, i cam­ biamenti del volto erano appena visibili e, anche in mancanza di maschere, sarebbe stato ugualmente ne­ cessario descrivere l’espressione dei personaggi se­ condo l’uso che troviamo ampiamente attestato nelle tragedie.

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Nella Medea di Euripide, ad esempio, Giasone dice a Medea (922-3):

Ciò che importava al pubblico greco, che non dispo­ neva della guida di un programma, era di indivi­ duare subito il personaggio; questo problema veniva spesso risolto richiamando per nome un personaggio appena arrivato in scena. Conoscendo approssimati­ vamente la trama, il pubblico era in grado di indi­ viduare immediatamente dalla maschera dell’attore il personaggio rappresentato. Cosa ancora più impor­ tante, soltanto le maschere permettevano all’attore di cambiare la propria identità, in modo che gli spet­ tatori che lo avevano osservato nelle vesti di Afro­ dite, potessero accettarlo poco più tardi nelle vesti di Fedra, e più tardi ancora in quelle di Teseo. Si intende che la caratterizzazione dei personaggi soffrì dell’uso delle maschere (o meglio, delle dimen­ sioni del teatro greco): la maschera poteva, meglio del volto, idealizzare un personaggio, ma non offriva altri vantaggi. Il pittore di un cratere del IV secolo proveniente da Taranto (Tav. 2b) mette in evidenza il contrasto fra la maschera idealizzata, con una bella chioma di capelli biondi, e l’anziano attore che la tiene in mano, con barba ispida e frónte stempiata. Ma quel volto, quante sfumature avrebbe potuto esprimere se non fosse stato nascosto sotto una ma­ schera sempre fissa! Come vedremo più oltre, volendo delineare il carattere di un personaggio, la tragedia greca fece uso di altri mezzi. Per ciò che riguarda i costumi indossati dagli at­ tori del V secolo, ci rivolgiamo ancora una volta, ma con minor fiducia, alle pitture vascolari. Quando il pittore rappresenta una figura che tiene una maschera

sul viso o in mano, o è accompagnata da un flautista, si tratta certamente di una testimonianza valida per stabilire l’abbigliamento dell’attore; ma se una figura sembra semplicemente vestire abiti speciali, può an­ che non riferirsi al teatro. Una cosa però, è certa, cioè che i greci non concepivano il costume « storico » come ricerca di una riproduzione realistica del pas­ sato; e siccome non ebbero tale concetto, non venne loro in mente neppure il contrario, cioè l’idea di rap­ presentare un dramma in costume contemporaneo. Non sappiamo che cosa abbia influenzato l’abbiglia­ mento dell’attore; se, cioè, esso avesse origini orien­ tali oppure riproducesse i paramenti rituali indossati nel culto di Dioniso o di altri dei. Comunque, il ri­ sultato conseguito in età periclea doveva soddisfare pienamente le esigenze del teatro: una magnifica va­ riante del costume contemporaneo, adattata in modo particolare ai bisogni dell’attore, e destinata a far colpo sul pubblico. Dovendo dare nell’occhio da lon­ tano, il costume era riccamente ornato con disegni vistosi, e spesso a colori vivaci, benché i personaggi in lutto portassero il nero. Poiché nella stessa opera doveva recitare diverse parti di ambedue i sessi, l’identità fisica dell’attore era completamente na­ scosta: la maschera, il costume e gli stivali lo copri­ vano interamente, tranne le mani. Di solito l’abito scendeva fino alle caviglie (ma non sempre, come dimostra la Tav. 2b). In contrasto con il costume normale del tempo, le maniche erano lunghe per na­ scondere le braccia troppo manifestamente maschili. Pare che indossasse stivali morbidi dalle suole sot­ tili, talvolta decorati e allacciati, che coprivano una parte del polpaccio. Nella Tav. 3 troviamo l ’imma­ gine di un attore tragico raffigurato nella testimo­ nianza più importante in nostro possesso: un cratere del tardo V secolo con figure presumibilmente ve­

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Perché gli occhi, d ’ardenti lagrime bagni, e smorta la guancia altrove giri...?

stite di abiti simili a quelli della tragedia, benché in realtà rappresentino i preparativi per un dramma satiresco. Fino a questo punto abbiamo descritto l ’abbi­ gliamento standard. Esistono purtroppo scarse testi­ monianze che indichino in che misura se ne faces­ sero delle variazioni per distinguere i singoli attori, cioè il protagonista dagli attori secondari, oppure i diversi personaggi, giovani e vecchi, padroni e schiavi, persino uomini e donne, o esseri divini e umani. Semplici oggetti potevano conseguire notevoli effetti: l ’arco di Apollo, la clava e la pelle di leone d’Èrcole; uno scettro per un re, una spada per un guerriero, una ghirlanda per un messaggero. Qualsiasi distin­ zione, però, era probabilmente di carattere simbolico piuttosto che realistico. In un’opera di Euripide, ora perduta, il re Telefo si travestiva da mendicante: Aristofane mette ripetutamente in ridicolo il poeta per averlo mostrato in cenci. Maschera, costume e calzatura non inceppavano troppo l’attore, né lo trasformavano in una figura rigida e statuaria come l’orripilante attore dei secoli posteriori. Una delle maggiori lacune nella nostra conoscenza del teatro del V secolo riguarda tuttavia proprio i suoi movimenti. Le opere teatrali spesso richiedono spostamenti rapidi e gesti vigorosi: si parla di personaggi che si abbracciano, s’inginoc­ chiano, si battono il petto o si buttano per terra. Non sappiamo bene come fossero previsti i movi­ menti adatti a tali situazioni, né come fossero ese­ guiti. Poiché, come abbiamo visto, il coro era istruito e addestrato, dapprima dal poeta stesso, poi da un istruttore professionista, è logico supporre che anche gli attori dovessero sottostare alla direzione del poeta finché egli fu uno di loro; ma quando la parte prin­

cipale fu assegnata ad un attore di professione, sem­ bra probabile che il protagonista fosse al tempo stesso il « regista » della compagnia; non sappiamo in che modo gli attori fossero « diretti » né quale tipo di regia venisse loro impartita. Tutto sommato, appare verosimile che, rispetto al realismo, la recitazione greca tendesse ad essere formale e stilizzata. Un brano della Poetica (26) accenna a una polemica sorta fra attori del V secolo circa i vari stili della recitazione: Minnisco, il protagonista di talune delle tarde tragedie di Eschilo, chiamò un giovane attore « scimmia » per avere esagerato la sua parte, cioè, come si deduce dal contesto, perché si muoveva con­ tinuamente. L ’aneddoto si inquadra bene con varie caratteristiche del teatro e dei drammi che sembrano indicare un modo di recitare assai più semplice e meno realistico di quello dei nostri giorni. Una di tali caratteristiche è costituita, come abbiamo visto, dalla poca profondità della zona di azione; un’altra consiste nella tendenza ad evitare la violenza; una terza è la struttura formale del dialogo, di cui par­ leremo più dettagliatamente nel prossimo capitolo. La cosa più importante era la preponderanza della voce e della parola pronunciata. Abbiamo considerato l’attore come uno spettacolo che, sebbene lontano, colpiva l’occhio; ma soprattutto egli era una voce che raggiungeva, al di sopra dell'orchestra, le file più distanti dell’enorme auditorio. Riguardo al suo aspetto, i suoi movimenti, i suoi gesti, navighiamo nell’incertezza, ma le testimonianze dimostrano ampiamente che la cosa più importante era la sua voce. Essa costituiva il suo pregio mag­ giore, quello che gli permetteva di diventare attore e determinava la sua carriera professionale. Per per­ fezionarla egli usava sottoporsi a un allenamento me-

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ticoloso, digiunando, mettendosi a regime e appro­ fittando di ogni occasione per metterla alla prova. L ’elemento essenziale era una voce forte per farsi sen­ tire attraverso tutto il teatro senza gridare: non vi è motivo di supporre, come si pensava una volta, che la maschera contribuisse in qualche modo ad amplifi­ carla. Però, altre qualità erano ugualmente richieste: chiarezza, accuratezza di dizione (i poeti comici non si stancavano mai di mettere in berlina un certo er­ rore di pronuncia assai noto), finezza di timbro, ca­ pacità di adeguarsi al personaggio e ai suoi stati d’animo. L ’attore greco doveva essere in grado di cambiare voce con la stessa facilità con cui cambiava la maschera, trasformandosi da giovane in vecchio, da uomo in donna. Doveva dimostrare nel modo di parlare la stessa versatilità che un attore moderno dimostra nell’espressione del volto. Doveva eccellere nell’interpretare gli elementi di disputa e quelli di narrazione, le due funzioni della parola che conta­ vano maggiormente nel teatro, come del resto nella vita pubblica della città in generale. Ma non soltanto questo gli si richiedeva: occorreva anche la cono­ scenza della musica e l’esperienza del recitativo, quando intonava i vari ritmi accompagnato dal flauto; a volte, in momenti di grande emozione, doveva pro­ rompere nel canto, sia di un a solo lirico, sia di strofe cantate, alternandosi con il coro. Non è da meravi­ gliarsi che uomini dotati di tali talenti fossero diffi­ cili a trovarsi, benché, come abbiamo già detto, il limite dei tre attori che ne conseguiva convenisse molto ai poeti. Né sembra strano che gli accenni ad attori contenuti nella letteratura greca somiglino a dei commenti su cantanti lirici. Per l’uno, come per l’altro, la voce era il fattore essenziale: l’aspetto, i movimenti e i gesti, benché importanti, erano se­ condari. 86

Dopo gli attori, rivolgiamo la nostra attenzione al coro. Nelle rappresentazioni moderne, esso più che altro dà fastidio, ostacolando gli attori nelle scene dialogate o recitando odi di oscuro significato e nep­ pure all’unisono, mentre il pubblico aspetta che il dramma vada avanti. Anche nei tempi antichi il coro finì per esser considerato come un’interruzione inop­ portuna e superflua: già all’inizio del IV secolo, Agatone introdusse l’usanza di scrivere interludi co­ rali che potevano servire in un dramma come in un altro. Nelle tragedie a noi pervenute, però, avviene di rado che ci si imbatta in una così forte discor­ danza, e sebbene l’importanza del coro per la trama diminuisse e la parte assegnatagli divenisse più ri­ stretta, è indubbio che, durante tutto il V secolo, fosse parte integrante della rappresentazione, parte che, non meno di quella degli attori, contribuiva al successo dell’opera intera. Anche i membri del coro portavano maschere e indossavano diversi tipi di costumi. Un vaso del V secolo, ora a Boston (Tav. 4), mostra due giova­ netti che fanno parte di un coro femminile. Uno di loro si sta vestendo, e la maschera giace a terra da­ vanti a lui; l’altro, già vestito, sembra stia provando la sua parte. In questa illustrazione, le maschere e gli abiti sono piuttosto semplici, ed è probabile che i costumi del coro in generale fossero meno splendidi di quelli degli attori. Qualche decennio più tardi, però, le figure dipinte su un cratere attico com­ prendono altri membri di un coro femminile dalle vesti riccamente ornate. Le tragedie dimostrano chia­ ramente che l’aspetto del coro variava secondo l’età o il sesso presunto dei membri, o la loro nazionalità o occupazione. Un tipo comune, cioè i vecchi, usava portare un bastone; un altro, le donne a lutto, ve­ stiva di nero, con i capelli delle maschere tagliati 87

corti. Altri gruppi erano più esotici: le Danaidi, ap­ pena arrivate dall’Egitto, « con vesti e acconciature straniere »; le Menadi con le pelli di daino e i tirsi intrecciati d’edera; le Erinni anguicrinite. Tuttavia, la caratteristica essenziale del coro tragico consiste nel fatto che il costume era lo stesso per tutti i mem­ bri, quindici nella seconda metà del V secolo, e forse dodici in epoca anteriore, benché taluni ritengano che Eschilo a volte ne impiegasse ben cinquanta. È vero che uno fungeva da capo-coro, esercitando una fun­ zione diversa da quella degli altri, e a volte (non tanto spesso, però, quanto sostengono alcuni tradut­ tori) parlavano e intonavano le melodie individual­ mente, oppure cantavano in due gruppi separati. Ma in sostanza erano un insieme bene addestrato a par­ lare, cantare e danzare in un gruppo unico, mentre le loro maschere identiche cancellavano il volto, la parte più personale e variabile del corpo umano. L ’arte figurativa ci aiuta ben poco a ricostruire i loro movimenti, di modo che ancora una volta dob­ biamo ricorrere a Polluce e ad altre autorità di epoca posteriore, non meno che ad altre informazioni più o meno discutibili che si possono desumere dai drammi stessi. Alla loro prima entrata, che general­ mente avveniva dopo una scena o un discorso di apertura, i membri del coro erano preceduti dal pro­ prio accompagnatore, il suonatore di flauto, Punica figura che si presentava senza maschera davanti al pubblico e che si fermava vicino all’altare al centro άύ\'orchestra. Si dice che entrassero a passo di marcia, e certamente in ritmo di marcia (anapesti) sono i primi versi che essi pronunciano. Di solito erano divisi in tre file di cinque persone ciascuna, ma ov­ viamente né questo schieramento né la marcia erano tassativi, visto che il coro delle Erinni inseguitrici delle Eumenidi (458 a. C.), e i vecchi perlustranti

àél'Edipo a Colono (rappresentato nel 401 a. C .), entravano in gruppi sciolti, oppure uno dietro l’altro, e nel Prometeo Eschilo riuscì a introdurre il suo coro di Oceanidi su un carro alato. Una cosa è certa: una volta arrivati in scena, vi rimanevano — tranne rare eccezioni, quando era necessario che si allontanas­ sero per poi rientrare — finché non se ne andavano alla fine, marciando e cantando qualche altro verso anapestico. Qual era la funzione del coro nel corso della rap­ presentazione? Nella Poetica (18), Aristotele de­ plora la scarsa aderenza del coro al testo rappresen­ tato, dicendo che il coro stesso va considerato come uno degli attori (uno solo, si noti bene, non quindici) e dovrebbe partecipare all’azione, come infatti fa, più o meno, nelle tragedie pervenute fino a noi. Nelle Supplici di Eschilo, il coro è addirittura al centro della trama, e il suo destino è la questione princi­ pale in gioco. Le maschere e i costumi testimoniano che in tutte le opere il coro tragico, in contrasto con quello ditirambico che nel corso della festa lo pre­ cedeva, svolgeva una parte drammatica che lo colle­ gava agli attori. Il contatto durante i dialoghi parlati avveniva attraverso il corifeo, il quale, nella mag­ gioranza dei drammi, ha molti versi da recitare, benché non faccia lunghi discorsi. Al tempo dell’at­ tore unico, che era allora il poeta, non vi era stato altro dialogo che quello fra lui e il corifeo; donde l’uso del termine hypokrites (quello che risponde), per indicare l’attore. Quando il numero degli attori aumentò, diventando costoro, per conseguenza, po­ tenzialmente indipendenti dal coro, conservarono an­ cora il loro rapporto con il corifeo, rivolgendosi di solito prima a lui quando entravano in scena, rispon­ dendo alle sue domande, placando i suoi timori, aspettando alla fine di un discorso il suo commento

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di due versi, tanto previsto quanto fin troppo ovvio. Nelle tragedie posteriori giunte sino a noi, il ruolo del corifeo declina, mentre aumentano altri tipi di contatto, soprattutto brani cantati (in greco, kotnmoi), quando la tensione del dramma raggiunge il colmo del dolore, dell’angoscia, dell’orrore o della gioia, e uno o più attori e il coro intero esprimono a turno la propria commozione; vedi, per esempio, l ’alternarsi del coro di Sofocle con Edipo, quando quest’ultimo rientra in scena cieco, o del coro di Euripide con Elettra e Oreste dopo l’assassinio di Clitennestra nel­ l’interno del palazzo. Che cosa faceva (o non faceva) il coro come unità durante le scene di dialogo parlato, che in genere costituiscono all’incirca tre quarti del dramma? La risposta, semplice e certa, è che non lo sappiamo, e probabilmente non lo sapremo mai. Tuttavia, se consideriamo le tragedie dal punto di vista della loro rappresentazione nel teatro, è importante chiedersi, anche in modo congetturale, dove si trovasse la parte maggiore del complesso di attori, e cosa facesse du­ rante la maggior parte della rappresentazione. La- risposta tradizionale, basata su qualche tardo accenno che fa riferimento alle commedie, è che du­ rante le scene dialogate il coro conservava la propria formazione in tre file, guardando verso gli attori e volgendo le spalle al pubblico, verso cui si girava soltanto per recitare le sue parti poetiche. Si può forse credere questo per il palcoscenico alto del pe­ riodo posteriore, se (come pare probabile) gli attori allora recitavano sul palcoscenico, mentre il coro ri­ maneva sull’orchestra sottostante. In tal caso, il coro non avrebbe impedito agli spettatori di vedere gli attori che stavano tanto al di sopra: poteva anzi dare l ’effetto drammatico di una folla che osserva e ascolta gli attori, accrescendo in tale modo l’impor­

tanza centrale dell’azione sul palcoscenico. Tale qua­ dro ben si accorda con la descrizione del coro fatta dall’autore di un brano dei Problemi (19, 48), opera attribuita ad Aristotele, ma certamente di data assai posteriore: il coro, dice, « è uno spettatore inattivo degli avvenimenti; infatti, la sua unica funzione è quella di mostrare una favorevole disposizione verso coloro che si trovano contemporaneamente sul pal­ coscenico ». Può darsi che questo sia giusto per il teatro ellenistico, ma è difficile immaginare che nel V secolo a. C., durante quasi tutta la rappresenta­ zione, il pubblico si trovasse di fronte a un rettan­ golo ordinato di spalle immobili. Essendo sullo stesso piano àe\Yorchestra o elevati poco sopra di essa, gli attori non avrebbero potuto esser visti per intero dagli spettatori delle prime file — quelle più impor­ tanti — e una tale passività assoluta certamente non sarebbe stata in armonia con la parte attiva voluta per il coro dalla Poetica (in contrasto con i .Problemi). Non ci rimane dunque che concludere che il quadro tradizionale non si può applicare al V secolo a. C. Ma con che cosa dobbiamo sostituirlo? Soltanto il buon senso ci può servire da guida in questo pro­ blema. Non è probabile che il coro si comportasse come una folla in una rappresentazione moderna, mostrando le proprie emozioni e fingendo di conver­ sare; ma, come unità, doveva senz’altro reagire alle parole ed all’azione, e per rendere visibili tali rea­ zioni, doveva stare di fronte all’auditorio, o quasi. Forse, con una certa audacia, dovremmo affidarci agli accenni confusi fatti dagli scoliasti a una specie di « danza » eseguita dal coro mentre gli attori recita­ vano. È possibile immaginare che mentre si snodava la vicenda e le voci degli attori risuonavano al di sopra dell’auditorio, i membri del coro arricchissero lo spettacolo e guidassero il pubblico, « danzando »

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le scene dialogate, non con i sincronizzati movimenti delle odi corali e neppure necessariamente con passi che li allontanassero dal proprio posto (oramai ab­ biamo tutti acquistato familiarità con l’idea del bal­ lare rimanendo nello stesso punto), ma con i movi­ menti ritmici delle mani, dei piedi e della testa che costituivano gran parte della danza greca? Molte delle loro mosse potevano consistere in una panto­ mima imitativa, cui spesso fanno cenno Platone ed Aristotele. Non siamo in grado di dire quanto fosse realistica, ma possiamo immaginare che tale « danza » mimasse la reazione fisica al dramma che gli spet­ tatori avrebbero potuto esternare se si fossero alzati dai loro posti. Qualunque sia la verità su questo difficile pro­ blema la funzione del coro, anche durante le scene dialogate, era certamente più complessa e delicata di quella suggerita da Aristotele, che esigeva che il coro si comportasse come un attore. In parte asso­ migliava agli attori, e come essi era parte integrante del dramma; ma era anche distinto dagli attori da differenze visibili ad ogni livello: il coro era fornito dal corego, gli attori dallo stato; il coro era « di­ retto » dal proprio istruttore, gli attori probabil­ mente dal protagonista; il posto del coro era l’orchestra, quello degli attori vicino alla skene; infine, il coro doveva resistere fino alla fine, quale che fosse il destino dell’attore. Dal punto di vista storico, ci troviamo qui di fronte a due elementi riuniti al mo­ mento della creazione del dramma, però mai del tutto conciliati, con risultati assurdi che divennero sempre meno accettabili a misura che aumentava il realismo nel teatro: per esempio, l’omissione del soccorso, con varie scuse, quando si sentono provenire dal palazzo grida di aiuto o i segreti rivelati a quindici inopportuni spioni che devono giurare il silenzio.

Era inevitabile che, col tempo, il coro dovesse ces­ sare di stare allo stesso tempo dentro il dramma e fuori, e gli interludi di Agatone lo collocarono sen­ z’altro fuori. Comunque, la sua duplice funzione, essenziale nella tragedia del V secolo, era allora un cemento che teneva unita l’intera rappresentazione. Dal suo posto nell ’orchestra il coro era collegato da una parte con gli attori, dall’altra con gli spettatori, i quali, in questi umili vecchi o ancelle, vedevano gente più simile a loro che non le figure eroiche degli attori e, a causa della loro familiarità con la danza corale nelle gare ditirambiche e altrove, percepivano attraverso i movimenti del coro il flusso e riflusso del ritmo drammatico. Di solito il coro è più « fuori del dramma » du­ rante le odi corali, quei canti prolissi, abbreviati dai moderni registi delle tragedie greche, semplificate dai traduttori, e generalmente saltati dai lettori. Antigone è stata condotta a morte; Creonte tace. II coro dei vecchi canta la storia di tre altri personaggi, famosi nella leggenda, che subirono la stessa sorte di Antigone (944):

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Anche la bella Danae mutò la luce eterea con un bronzeo carcere, nascosta fu nei vincoli di sepolcrale talamo... Il loro canto, diviso in due coppie di strofe in corri­ spondenza, unisce degli schemi metrici per formare un insieme tanto nuovo quanto unico. Questo appare chiaro dal testo, ma sappiamo ben poco su come si realizzasse nella rappresentazione. La cosa principale che possiamo dire della musica è che, almeno fino agli ultimi anni del V secolo, non alterava né nascon­

deva le parole. Il poeta era anche compositore: non è che « musicasse » le parole, ma egli creava per il coro un canto nel quale la musica accompagnava il ritmo quantitativo delle parole. La funzione del flau­ tista era solo di accompagnamento, nulla di più. Il canto era all’unisono; l’armonia, nel senso moderno della parola, era sconosciuta. La stessa corrispon­ denza con il ritmo delle parole doveva verificarsi per la danza del coro, e lo studio metrico delle odi ci permette di giudicare se i movimenti di danza che esse implicavano fossero lenti o rapidi, maestosi o agitati. Ma se si prescinde da tali concetti di carat­ tere generale, la nostra ignoranza è quasi totale. Un commentatore antico dichiara che il coro si muoveva verso destra mentre cantava la prima di una coppia di strofe (da questo deriva il nome greco: strophe, cioè svolta), e durante la seconda strofa (in greco: antistrophe), tornava indietro, mentre stava fermo se si aggiungeva una singola strofa o epodo. Anche se è vera, questa testimonianza non ci dice niente a proposito dei movimenti e dei gesti mimici, del modo di esprimere materialmente le emozioni e le immagini che nelle odi, anche se non durante il dia­ logo, erano certamente l’essenza della danza. Dall’insieme di parole, musica e danza, i poeti e i maestri del coro realizzarono schemi complessi di suono e spettacolo di un tipo ben lontano dall’espe­ rienza moderna, i sommi prodotti di quella tendenza verso la struttura formale che pervade tutta la tra­ gedia greca. Per il pubblico di Atene, erano emozio­ nanti di per sé come capolavori d’artigianato: gran parte della discussione a proposito delle odi nelle Rane di Aristofane si riferisce a problemi tecnici. Ma quale contributo davano queste odi all’insieme del dramma? Sono state paragonate alle scene comiche di Sha­

kespeare, come mezzo di breve evasione dalla ten­ sione, altrimenti insopportabile, del dramma. Mentre Shakespeare fa scendere il suo pubblico alla comicità grossolana del portiere o del becchino, il poeta greco eleva i pensieri sul piano universale della comune mitologia e tradizione religiosa, una sfera nella quale il lettore moderno facilmente si trova perplesso e smarrito. Il singolo avvenimento è inquadrato in una prospettiva più ampia, e le emozioni risvegliate dal­ l’azione della scena precedente vengono temporanea­ mente placate da una pausa di riflessione. Non dob­ biamo però ritenere che il coro dividesse o frammen­ tasse il dramma, così come una rappresentazione mo­ derna è interrotta da intervalli colmi di chiacchiere o di visite al bar. Per l’ateniese del V secolo, anche se non per quelli delle epoche posteriori, la tragedia significava un’estensione dell’arte, ancora fiorente, del coro cantato, inquadrata, per riceverne unità, entro la sua cornice corale. Sebbene le odi corali potessero coprire un lasso di tempo che dipendeva dall’imma­ ginazione, il dramma era mantenuto in un’unità con­ centrata di azione dalla presenza continua del coro, e non soltanto da essa, ma anche dallo spettacolo continuo di movimenti corali che dovevano rispec­ chiare qualsiasi cambiamento di situazione o di stato d’animo durante tutta la rappresentazione.

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Ora torniamo agli spettatori, il numero e com­ posizione dei quali sono già stati trattati nella de­ scrizione della festa. Come si comportavano? In che modo reagivano alla tragedia? Quale era il loro ruolo nel complesso della cerimonia? Sarebbe assurdo generalizzare. La rappresenta­ zione alla quale assistevano aveva certamente signi­ ficato diverso a seconda dei diversi tipo di pubblico: greci provenienti da altri stati, oltre agli ateniesi;

cittadini e non-cittadini di ogni classe e di ogni censo; uomini, ed anche donne e ragazzi; persino schiavi e cittadini liberi. Aristotele, per il quale tali distin­ zioni sono parte dell’ordine della natura, mette a confronto due tipi di spettatori teatrali: il signore istruito e il tipo volgare, cioè un artigiano, un operaio e simili (Politica V il i , 7). Nei Caratteri Morali (11, 14) Teofrasto ci fornisce bozzetti in miniatura di qualche individuo nella folla: il Villano, che fischia mentre tutti gli altri applaudono e applaude quando tutti gli altri tacciono; il Fesso che si addormenta durante lo spettacolo e rimane ancora addormentato nel teatro vuoto quando tutto è finito. Senza dubbio taluni dormivano e altri non face­ vano molta attenzione alla rappresentazione, ma in vari modi e a vari livelli, si trattava per lo più di un pubblico critico. Non soltanto i dieci prescelti, ma tutti si facevano giudici. La gara era tale da ri­ svegliare tutti i sentimenti di partigianeria; una gara, per giunta, nella quale la massa del pubblico cono­ sceva i concorrenti, cioè i poeti, i coreghi, gli attori, i cori, nelle cui file poteva facilmente trovarsi un parente, un amico, oppure un vicino di casa. Una qualsiasi commèdia di Aristofane, con la sua satira su Euripide e le sue beffe contro un attore goffo o un corego tirchio, testimonia il clima di vivace cri­ tica diffuso tra le panche durante le rappresentazioni. Non soltanto si provavano, ma si esprimevano liberamente i sentimenti di ostilità o di approvazione. Benché il recinto di Dioniso fosse terra sacra, e tutti i presenti assistessero a un atto comune del rituale, non vi regnava il silenzio solenne che oggigiorno ci si aspetta, almeno nei paesi nordici, per le grandi occasioni drammatiche. Di una « claque » organiz­ zata non vi sono prove fino a un’epoca assai più tarda; invece sono ben documentati rumori spontanei

provenienti dal pubblico: battimani, grida, fischi, colpi di piedi contro i sedili. Aristotele ci dice (Mor. X, 5) che taluni spettatori provocavano disor­ dini quando si recitava male, mangiando rumorosa­ mente i loro cibi. Non c’è da meravigliarsi che Pla­ tone (Legg. 659a) accenni con disapprovazione alla influenza esercitata sui giudici dal « tumulto della folla ». Leggiamo, sebbene in genere a proposito delle commedie, che il pubblico si impadroniva tal­ volta della situazione, fischiando un’opera, oppure lanciando olive, fichi o persino sassi contro gli attori. Da Aristofane e da racconti (non sempre attendibili) di scrittori di epoche posteriori, possiamo dedurre ciò che soprattutto destava rabbia o approvazione. « Per che cosa si deve ammirare un poeta? » domanda Eschilo nelle Rane (1008). «P e r l’abilità e i buoni consigli », risponde Euripide. L ’abilità tecnica, o la mancanza di essa, da parte dell’autore, degli attori o del coro, era certamente la cosa più seguita dal pubblico con occhio e orecchio critici. Ancora più forte era la reazione degli spettatori ai « consigli » che accettavano o che trovavano oltraggiosi. Si sen­ tivano grida di « bis » (in greco: authis) se qualche verso colpiva la loro fantasia. D ’altra parte, Seneca (Ep. 115) ci dice che lo sdegno provocato da un brano in lode del denaro avrebbe interrotto la rap­ presentazione di un’opera di Euripide, se il poeta non si fosse precipitato sulla scena pregando il pub­ blico di aspettare che cosa stesse per accadere al per­ sonaggio che aveva pronunciato tale lode. Era facile per il drammaturgo farsi applaudire con discorsi o canti in lode della città di Atene. In tutto questo non si discerne nulla che indichi un alto livello ge­ nerale del gusto letterario o della critica dramma­ tica. Tuttavia, rimane il fatto che i grandi poeti tragici erano i preferiti, soprattutto Sofocle che ra­

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ramente, o forse mai, sembra scrivere appunto per far piacere alla folla. Tutto questo si riferisce al pubblico come critico che giudicava il dramma « da fuori ». Durante la rappresentazione di una tragedia, esso era sempre in qualche modo « fuori »: non vi era niente di quella « partecipazione del pubblico » che troviamo nelle commedie del V secolo, nelle quali il coro arringava gli spettatori su fatti di attualità e gli attori scher­ zavano con loro, persino lanciando fichi o dolciumi. Non ci si aspettava dal protagonista tragico di anti­ cipare una forma di spettacolo simile a quella rea­ lizzata di recente negli Stati Uniti, nella quale Amleto lasciava il palcoscenico per vendere arachidi tostate nell’auditorio (Il « Times » di Londra, 21 gennaio 1968). Tuttavia il pubblico può essere profonda­ mente coinvolto in un dramma senza tali contatti diretti con gli attori. Ci troviamo qui di fronte a un problema alquanto difficile: quando dal canto corale nacque la tragedia, la sostanza del cambia­ mento fu l’introduzione della finzione, del « facciamo finta ». Alla festa di Dioniso il pubblico di Atene compiva tale mutamento in una notte passando dalla gara dei cori ditirambici senza maschere agli attori e al coro mascherati del dramma. Quale differenza era intervenuta nel loro atteggiamento da un giorno all’altro? In quale modo venivano ora coinvolti nella finzione, nell’illusione? Ovviamente non come il pubblico di un moderno teatro a proscenio, messo a confronto con l’imitazione realistica della vita in uno scenario realistico. La pre­ senza del coro costituiva un ostacolo fatale a tale realismo, e mancavano lo scenario e i costumi d’epoca necessari. Ma la finzione non dipende necessariamente da realistici sussidi visivi: bastano dei simboli, se sono compresi, come pure bastano le parole scritte 98

da un grande poeta e recitate da un grande attore, soprattutto se trattano di cose già in parte note al pubblico. L 'Agamennone di Eschilo, rappresentato la prima volta all’alba di una mattina di primavera del 458 a. C., comincia con le parole di una scolta. Il pubblico già la conosce dall Odissea (IV, 524), ma colà era appostata da Egisto su di una roccia presso il mare ad aspettare il ritorno della flotta greca. Eschilo la fa entrare nell’ambito della scena teatrale, collocandola sul tetto del palazzo di Argo, rappre­ sentato al momento dalla skene. Egli parla: Numi, il riscatto concedete a me dei miei travagli, della guardia lunga un anno già, ch’io vigilo sui tetti degli Atridi, prostrato su le gomita a mo’ d’un cane. E de le stelle veggo il notturno concilio, ed i signori riscintillanti che nell’etra fulgono, ed il verno e la state all’uomo recano. Benché il pubblico stia seduto alla luce del giorno, accetta nell’immaginazione che sia buio, appunto come fa il pubblico nel Mercante di Venezia di Sha­ kespeare: Come splendida è la luna! In una notte come questa mentre un vento dolce e fresco accarezzava lievemente le foglie senza svegliarvi il più piccolo fremito, in una notte come questa... Tale è la magia del teatro, realizzata sulle pendici dell’Acropoli o al « Globo », non mediante il rea­ lismo scenico o artifici di illuminazione, ma mediante la sola parola parlata. La si chiami illusione o no, man mano che il dramma di Eschilo procedeva, il pubblico ne veniva coinvolto sentimentalmente in 99

m^do profondo. Aristotele aveva buone ragioni quando asseriva che la tragedia ha il potere di de­ stare terrore e pietà. Tuttavia, essere coinvolti nel dramma mediante la poesia è una cosa, accettarne l’imitazione della vita reale è un’altra, e le due non vanno confuse. Certi studiosi, ragionando in termini di teatro realistico, hanno fornito una nuova inter­ pretazione di parecchie delle tragedie greche perve­ nuteci allo scopo di eliminare certe incoerenze da loro ritenute inaccettabili: nell’Orestea, ad esempio, arrivano ad Argo da Troia prima un nunzio e poi Agamennone, dopo un intervallo di solo qualche cen­ tinaio di versi dal segnale che annuncia la caduta di Troia; nelle Baccanti di Euripide, il palazzo viene distrutto in una scena, ma i personaggi che entrano più tardi si comportano come se fosse intatto. Le spiegazioni avanzate per tali « impossibilità » sono tanto abili quanto superflue. L ’immaginazione destata e guidata dalla parola parlata possiede una libertà di movimento che le viene a mancare quando si trova imprigionata nelle restrizioni del realismo: la capa­ cità di fare un salto in avanti attraverso il tempo, oppure di dimenticare il passato per concentrarsi sul momento attuale. Essa passa rapidamente senza al­ cuna difficoltà dalla caduta di Troia al funesto ritorno di Agamennone, benché in realtà i due eventi distino tra loro delle settimane o addirittura dei mesi. Tra­ scura il crollo del palazzo (non vi sono macerie o mura distrutte a ricordarcelo), e passa all’evento successivo. Nel suo Greek Scenic Conventions (p. 108), Peter Arnott scrive: « Il teatro era una forma vuota, nella quale il drammaturgo poteva versare le sue idee, impostando la scena con le sue parole e supe­ rando tutte le limitazioni di luogo e di tempo ». Ag­ giunge giustamente che Eschilo sfruttava al massimo

la libera immaginazione del pubblico: in Euripide, le restrizioni dèi realismo cominciano già a farsi sentire. Tuttavia, se la descrizione delle rappresen­ tazioni tragiche fatta in questo capitolo ha una qual­ che validità, la storia non finisce qui. Il dramma può assumere numerose forme, ognuna delle quali fa uso del teatro e coinvolge il pubblico in un modo suo proprio; quanto alla forma che nacque nell’Attica e divenne tragedia, essa non si può semplicemente accostare ad altre per le quali il teatro era « una forma vuota ». Era il frutto di un’evoluzione di carat­ tere univoco, il più consono al genio greco; una evo­ luzione che realizzava quella combinazione di libertà e ritegno così caratteristica dell’arte greca del V secolo. Aveva ragione Aristotele nel ritenere l’unità un ele­ mento essenziale della tragedia alla libera immagina­ zione dello spettatore, ma la sua tendenza caratteristica era di concentrare tale immaginazione su di un sin­ golo obiettivo. Più tardi vedremo cosa significasse questa tendenza per il trattamento della trama. In questo capitolo, come in quello precedente, ci siamo occupati delle manifestazioni di tale tendenza nelle rappresentazioni: l ’utilizzazione dell’area davanti alla skene come unico punto focale al quale convergono i personaggi, dove sono narrati avvenimenti accaduti altrove e si svolgono le loro conseguenze; l’impiego di tre attori soltanto, con il protagonista come centro principale dell’attenzione; e, elemento questo di mas­ sima ^importanza, il coro, che aveva Teffetto non di frammentare ma di unificare l’azione, mantenendola all'interno di una cornice unitaria e legando attori e pubblico in un’unica esperienza comune.

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Capitolo settimo LE TRAGEDIE

zioni a disposizione dell’uomo moderno. A noi i loro soggetti possono apparire remoti e strani; ma per i greci del V secolo, riuniti per la festa, questi argo­ menti costituivano un patrimonio comune, condiviso in ugual modo dai drammaturghi, dagli esecutori e dal pubblico. Questo è vero soprattutto per la com­ media, con i suoi scherzi di attualità e le caricature dei personaggi del giorno; Aristofane teneva uno specchio — anche se deformante — rivolto verso la realtà del presente. I poeti tragici invece si occu­ pavano del passato, non come lo conosciamo noi ora, ma come era visto dalla comunità per la quale scrivevano. Nei primi decenni del secolo, l’argomento del dramma era tratto a volte dalla storia dell’imme­ diato passato e a quanto pare produceva un pro­ fondo effetto sul pubblico. Nel 494 a. C. la città di Mileto, che guidava la rivolta dei greci d’Oriente contro i persiani, fu assediata e presa d’assalto dal nemico: gli uomini furono uccisi, le donne e i bam­ bini fatti schiavi. Qualche anno dopo, il poeta Frinico drammatizzò il disastro in una tragedia intito­ lata La presa di Mileto. Le reazioni del pubblico sono così riferite da Erodoto (VI, 21):

Torniamo alla nostra documentazione principale: le tragedie giunte sino a noi. Non vogliamo tentare qui di descriverle o di riassumerle tutte, il che sa­ rebbe una sostituzione noiosa della loro lettura. Lo scopo di questo capitolo è vedere come il poeta tragico affrontava il suo compito, creando drammi adatti all’occasione, al luogo e allo stile di rappre­ sentazione che abbiamo descritto: come sceglieva il suo materiale dalla storia o dalla leggenda; come lo adattava alla rappresentazione in teatro, plasmandolo secondo un determinato modello; come adoperava i propri personaggi; quale ruolo svolgeva nella sua opera il pensiero religioso o filosofico. Ci serviremo di certe opere (non sempre le migliori) per illustrare le nostre argomentazioni. Fino ad un certo punto tratteremo « la tragedia greca » come se fosse di un unico tipo, ma qui qualche differenziazione fra i tre grandi poeti tragici si impone. Si dice che ogni pubblico teatrale ha i drammi che si merita. Indubbiamente le opere rappresentate alle feste di Dioniso erano appropriate al pubblico e all’occasione e traevano il loro materiale dall’espe­ rienza e dalle conoscenze comuni alle migliaia di spettatori presenti; i limiti erano perciò assai ristretti in confronto alla straordinaria ricchezza di informa­

Il motivo per cui per la prima volta fu proibita la rappresentazione di un dramma sarebbe stato dunque l’aver toccato troppo da vicino la coscienza del pub­ blico. Tra quelli pervenutici, invece, l’unico dramma che tratti un argomento di storia recente ha per ar­ gomento una vittoria greca. I Persiani di Eschilo, la

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Tutti gli spettatori scoppiarono poeta] fu inflitta una multa di mille ricordato loro le proprie disgrazie, e nessuno rappresentasse mai più quella

in lacrime: [al dracme per aver fu decretato che tragedia.

più antica tragedia che abbiamo, celebrò nel 472 a. C. la disfatta dei persiani a Salamina, avvenuta otto anni prima. Il poeta stesso aveva combattuto nella battaglia accanto a molti degli spettatori; Pericle ne era il corego. Il dramma contrasta spiccatamente con i drammi storici alla Shakespeare, con il loro ritmo incalzante e l’ampio raggio d’azione. Non ha né trama né caratterizzazione, nel senso comune della parola. L ’ambiente non è la battaglia stessa, ma la capitale persiana qualche mese dopo; e a questo punto, unico nello spaziò e tempo, l’intera guerra persiana viene presentata all’immaginazione del pub­ blico: il passato, mediante il racconto della spedizione fatto dal coro e la narrazione della battaglia di Sa­ lamina da parte del messaggero; il futuro, mediante le profezie dello spettro di Dario. In questo stesso momento arriva Serse sconfìtto, portando l’azione al culmine dell’angoscia e della lamentazione. Il tutto costituisce un vero capolavoro di effetti spettacolari trasmessi a mezzo della parola. Solo se riuscissimo ad immaginare come si sarebbe potuto allestire, negli anni intorno al 1950, un dramma ambientato nel quartiere generale di Hitler all’epoca dell’invasione alleata della Francia, potremmo comprendere a un dipresso l’effetto prodotto dai Persiani nel teatro di Atene. Le altre tragedie conservate sono ambientate nella leggenda, nella storia del passato più antico, che fi­ gurava in più larga misura nell’educazione e nel pen­ siero dei greci che non la maggior parte della loro storia più recente. A volte la leggenda stessa poteva essere direttamente legata al pubblico, spiegando, ad esempio, l’origine di qualche rituale ben noto o qualche altro elemento della vita di tutti i giorni. Nelle Eumenidi (458 a. C.), Eschilo porta Oreste ad Atene perché sia processato per l’assassinio della

Suona la tromba, e l’intero pubblico non sta più as­ sistendo ad uno spettacolo, ma partecipa all’istitu­ zione del tribunale che conosce ancora sotto il nome di Areopago. Non c’è da meravigliarsi se nel trattare le leg­ gende i drammaturghi spesso fanno appello all’or­ goglio o al patriottismo degli ateniesi. Atene viene descritta come la protettrice dei deboli e degli op­ pressi, la patria della democrazia e della libertà. Nei primi anni della guerra del Peloponneso, Euripide fa uso delle vecchie storie come di un mezzo di pro­ paganda contro Sparta. Più importante, però, è il fatto che l’intero repertorio di leggende dal quale i tragediografi trassero la trama dei loro drammi era un retaggio comune, un ricco materiale da tutti con­ siderato come patrimonio sociale, benché le testimo­ nianze contrastanti non ci permettano di giudicare fino a che punto il pubblico fosse al corrente dei particolari. Non era sconosciuta l’idea della finzione nel teatro; era usuale nella commedia, e nella Poe­ tica (9), Aristotele accenna a un’opera di Agatone come ad una delle numerose tragedie con personaggi e trama inventati. Comunque, è chiaro che tale espe­ rimento non poteva durare: non fu soltanto per ri­ spetto della tradizione o per avversione ai cambia­ menti che queste storie più o meno conosciute del passato continuarono a fornire materia alla tragedia, ma soprattutto per la convinzione che esse costituis-

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madre. Atena, dea patrona della città, presiede al tri­ bunale ed invita l’araldo ad annunciare l’apertura del giudizio: E la squillante buccina tirrena, sino al cielo, di vivo alito gonfia, l’acutissima voce alzi alla turba.

più grande delle tragedie; per altri elementi del dramma del V secolo — avventure romantiche, in­ gegnosità della trama — non occorre cercare più in là dell ’Odissea, mentre in ambedue i poemi la com­ binazione della rapida narrazione con il contrasto del discorso e della replica ci prepara alla struttura delle tragedie. Non vi può essere preparazione migliore alla tragedia greca che la lettura dei due poemi omerici.

sero la più ricca fonte di motivi drammatici a dispo­ sizione della comunità. Quindi la leggenda era la riserva alla quale di solito si rivolgevano i poeti tragici in cerca di una trama; ma la leggenda già vista sotto una certa an­ golatura e plasmata in una forma determinata. Eschilo, si dice, chiamò le sue opere « fette dai grandi ban­ chetti di Omero » (Ateneo V ili, 347e): per Omero, un greco dell’epoca intendeva non soltanto l’Iliade e l ’Odissea, ma tutto il corpo dei poemi epici di stile omerico, ora perduto, che allora abbracciava l’intera gamma della mitologia e della saga eroica. Abbia Eschilo pronunciato questa frase o no, essa proclama una verità echeggiata da altri e fondamen­ tale per la comprensione della tragedia greca. Nella Repubblica (595b-c), Platone parla di Omero come dell’« istruttore e guida originaria della bella com­ pagnia dei poeti tragici ». Aristotele collega strettamente la tragedia con l’epopea, trovando gli stessi elementi in ambedue. Se immaginiamo l’epopea ome­ rica non come dei versi sulla pagina ‘stampata, ma come era conosciuta dai greci, cioè come una serie di narrazione e discorsi declamati, quasi recitati, sia dai ragazzi a scuola, sia dal rapsodo alla festa, l’affi­ nità fra essa e il dramma diventa più evidente. Ciò che i drammaturghi trovarono nella poesia epica o nella poesia lirica affine a quella non somigliava al materiale grezzo che Shakespeare trasse da Plutarco e altrove: era materiale già elaborato, con impressi dei caratteri che ricompaiono nel teatro. Benché la tragedia greca sia ben lontana dal « teatro epico » nel senso usato da Brecht, le sue caratteristiche principali spesso ci riconducono ad Omero: il concetto degli esseri umani, eroici o umili; l’intervento degli dei nella vita umana; la dignità dell’uomo e la sua impotenza. Tutte queste caratteristiche sono ben evidenti nell’Iliade, forse la

Omero è spesso stato chiamato la Bibbia greca. Vi è un elemento di verità in questa frase, se pen­ siamo all’influenza dell’epopea primitiva sulla vita e la letteratura delle epoche posteriori, ma il confronto è erroneo se implica che l’opera di Omero fosse trattata come la Sacra Scrittura. Se si sottolinea che la leggenda come veniva presentata nell’epopea era lo sfondo ambientale della tragedia, si deve anche insistere sul punto altrettanto importante che nes­ suna versione veniva considerata « classica ». Una caratteristica della religione greca, assai pertinente al dramma, è che il rituale (compreso quello del teatro), era fisso sì da non essere facilmente cambiato, mentre la fede era fluida, variabile, sempre mutevole. Le leggende degli dei e degli eroi assumevano di con­ tinuo nuove forme, e i poeti erano gli agenti prin­ cipali in tale processo. La parola greca poietes signi­ fica « artefice », e quando Aristotele descrive il dram­ maturgo come « artefice di favole » (Poetica IX), lo inserisce fra i poeti epici e corali che già prima di lui avevano fatto e rifatto i racconti. Questo concetto della funzione del drammaturgo può oggi sembrarci strano. Noi non abbiamo l’abi­ tudine di rimaneggiare i nostri testi classici, ma la­ sciamo al regista il compito di presentare nuove ver­ sioni mediante una reinterpretazione del testo. Nel

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teatro greco, invece, gli stessi soggetti erano costan­ temente rifatti: abbiamo i titoli di drammi su Edipo di dodici autori diversi, e può darsi che ce ne fossero ancora di più; sappiamo di 56 soggetti trattati da almeno due autori, di 16 usati da 3, 12 da 4, 5 da 5, 3 da 6 e 2 da 7. Fra tutto questo rimodellare, un nucleo essenziale veniva conservato: come dice Ari­ stotele, Clitennestra deve essere uccisa da Oreste, perché che Oreste ed Egisto finissero per congedarsi da buoni amici era possibile nella versione comica della vicenda, ma non certo nella tragedia (Poetica XIV, 20). Non possiamo dire fino a che punto la libertà di invenzione fosse permessa al di fuori di tale nucleo. Non siamo in grado di rispondere a questa domanda neanche per la maggior parte delle opere conservate, perché non sappiamo abbastanza della forma originaria del soggetto nei poemi epici, nel canto corale o nell’arte. Tuttavia, il fatto che Aristotele indichi la trama come l’elemento centrale del dramma sarebbe inconcepibile se un’opera si limi­ tasse a ripetere la trama di un’altra, e almeno talune delle tragedie che abbiamo danno forse alla leggenda un’impronta più originale di quanto comunemente non si creda. Pare che nelle Eumenidi la scena del processo ad Atene sia la conclusione data da Eschilo stesso alla storia di Oreste; per quanto sappiamo, non esiste un modello per VAntigone di Sofocle; e l’assassinio dei figli di Medea è probabilmente un’ag­ giunta fatta da Euripide medesimo. È evidente dalle Rane che in larga misura l’interesse per il dramma da parte del pubblico nascesse dalla tensione fra il familiare e il nuovo. Nelle rappresentazioni moderne, il pubblico riceverebbe un’idea più precisa dell’im­ pressione che faceva originariamente la tragedia greca, se gli fosse offerto non un sommario della trama, ma un resoconto di come la storia era conosciuta

precedentemente nell’epopea, nel canto corale, negli altri drammi e nell’arte. Se ci domandiamo come il poeta plasmasse il proprio dramma dal materiale da lui scelto, ci avvi­ ciniamo al cuore della creazione drammatica così come la concepivano i greci. Non era in questione un pen­ siero astratto, una storia tradizionale rimodellata e adattata a una serie di idee preconcette. Qualche se­ colo più tardi Seneca drammatizzò gli stessi soggetti in latino, applicando consapevolmente ad essi i prin­ cìpi stoici; nelle opere di Bernard Shaw, la teoria della « forza vitale » si fa sentire troppo spesso tanto nel dramma quanto nella premessa e lo stesso O ’Neill, nella sua potente versione della leggenda di Oreste, Il lutto si addice ad Elettra, si ispira in modo troppo evidente a Freud. Ma, i poeti tragici del V secolo erano artisti drammatici, non filosofi che scrivevano opere drammatiche, anche se Euripide a volte corre il rischio di avvicinarsi pericolosamente a tale cate­ goria; l ’artista non pensa in termini astratti, ma nei termini del materiale di cui fa uso, sia esso il colore, la pietra o il mito. Senza dubbio la mente del dram­ maturgo era variamente influenzata: dal patriottismo locale, da pregiudizi o atteggiamenti religiosi o mo­ rali, suoi propri o della sua epoca, e soprattutto dalle possibilità e dalle limitazioni inerenti alla rappresen­ tazione nel teatro. Studiando e analizzando le tragedie oggi, possiamo separare questi fattori per poi com­ porre saggi sulla religione di Eschilo o sull’atteggia­ mento di Euripide nei riguardi della guerra del Pe­ loponneso. Ma il processo di creazione del dramma era certamente questo: sotto tutte queste influenze, il drammaturgo vedeva la storia in una nuova luce, un nuovo concetto di essa si formava nella sua im­ maginazione, e tale concetto egli plasmava e adattava sino a fare di esso un dramma.

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Tale era, ridotta alla sua essenza, l’attività del poeta tragico. Non a caso, nella Poetica, Aristotele si sofferma soprattutto su questo argomento. « Quando scrivo un dramma — dice Bernard Shaw nel poscritto del suo Back to Methuselah — non invento mai una trama: lascio che il dramma si scriva e si plasmi da sé, cosa che sempre avviene, anche se fino alPultimo momento non prevedo la via d’uscita ». È probabile che numerosi drammi moderni vengano scritti se­ condo lo stesso criterio, ma il metodo greco era del tutto diverso. Per il drammaturgo, il compito prin­ cipale era dare una forma determinata alla trama. Dice Aristotele: « Il più importante di questi ele­ menti è la composizione dei casi [cioè la favola]... e le parti che la compongono devono essere coordi­ nate per modo che, spostandone o sopprimendone una, ne resti come dislogato e rotto tutto l’insieme » (Poetica VI, 15e, V ili, 30). Guardiamo più attentamente questo processo fon­ damentale di rimodellamento o di drammatizzazione, ricordando sempre che persino le opere a noi perve­ nute sono troppo varie per permettere una genera­ lizzazione applicabile a tutte indistintamente, e ricor­ dando anche che i poeti drammatici scrivevano per il teatro. Sullo scorcio del V secolo, i testi dei drammi erano disponibili per la lettura ad Atene: nelle Rane (52-3), era appunto la lettura dell’Andromeda di Eu­ ripide che destava in Dioniso il desiderio di riportare sulla terra il poeta dall’Ade. Comunque, la rappre­ sentazione alla festa e la partecipazione all’agone tragico dovevano essere per il drammaturgo la meta principale; né vi era un regista al quale affidare i problemi della rappresentazione mentre egli stesso meditava cose più elevate. La drammatizzazione del materiale proveniente dall’epopea poteva, benissimo dare come risultato una 110

specie di dramma storico, non meno liberamente composto e pieno di episodi che il poema epico stesso. Tuttavia, nessuna delle tragedie a noi perve­ nute entra in questa categoria, e Aristotele ci in­ forma (Poetica XV III, 15) che tale tentativo era destinato all’insuccesso: Tutti coloro i quali si accinsero a ridurre .in una tra­ gedia unica tutta la storia della distruzione di Ilio, e non in una serie di tragedie come fece Euripide; o vollero drammatizzare [tutto intero il mito di] Niobe, e non [una parte soltanto] come fece Eschilo; costoro, nei con­ corsi drammatici, o caddero addirittura, o riuscirono ma­ lamente. Varietà di scene e intrecci secondari saranno cosa normale nel dramma elisabettiano, ma ciò che con­ veniva al teatro attico, descritto nei capitoli prece­ denti, era tutto l’opposto: la concentrazione su di un unico avvenimento o su un’unica situazione. Anche qui vi era una specie di precedente nella stessa epo­ pea omerica: l’Iliade non comprende l’intera guerra troiana, ma ha come nucleo centrale un solo episodio dell’ultimo anno della lotta, « l’ira di Achille ». Nel teatro Tunico episodio scelto non era presentato con le aggiunte e le digressioni proprie dello stile ome­ rico, ma soltanto nei suoi elementi essenziali. Se l ’autore traeva l’intera trilogia dalla stessa leggenda, ne sceglieva tre momenti in cui il conflitto raggiun­ geva il culmine della drammaticità, creando un’opera breve secondo i nostri criteri, centrata su ognuno di questi momenti: l’assassinio di Agamennone, la ven­ detta di Oreste, il giudizio di Oreste. Altrimenti, il suo dramma era costruito intorno a un singolo epi­ sodio nella storia: la sepoltura di Polinice, Edipo che scopre la verità. I precedenti dell’episodio centrale 111

e le sue conseguenze potevano essere menzionati o narrati, ma la nota dominante dell’azione stessa, come abbiamo visto nel capitolo precedente, era la semplicità e l’unità. I drammaturghi del V secolo non avevano avuto il vantaggio di leggere la Poetica, e quindi le loro opere non sempre si conformano alle norme del filosofo; tuttavia, i migliori esempi della tragedia greca (PAgamennone, 1’Edipo Re, le Bac­ canti) sono ciò che Aristotele vuole che siano, cioè non una cronaca sconnessa, e neppure un mero brano di leggenda portato sul palcoscenico, ma la presen­ tazione di un solo evento oppure di un gruppo di eventi intimamente connessi, trasformati in un’opera d’arte completa, compatta e unificata. Al tempo dei Persiani, questo processo di trasfor­ mazione aveva già dato luogo al 'formarsi di un mo­ dello convenzionale che rimaneva sempre il mede­ simo nelle linee essenziali, benché fosse suscettibile, per tutto il periodo delle tragedie a noi pervenute, di numerose variazioni. Le prime fasi della sua storia sono altrettanto oscure quanto altri aspetti dell’ori­ gine della tragedia. In modo significativo, esso ci ricorda una liturgia rituale. Per il pubblico del V secolo era uno schema di suoni, movimenti e spet­ tacolo. Per noialtri, che non siamo in grado di sen­ tire la musica né di vedere le danze e le figurazioni d’in­ sieme, ciò che rimane nel testo è uno schema di lin­ guaggio, stile e metro. Nondimeno, questa forma con­ venzionale, comune a tutte le tragedie, è forse la loro caratteristica più notevole per il lettore moderno. La struttura fondamentale ed evidente è l’alter­ narsi del dialogo parlato e del canto corale: il com­ pito del drammaturgo, nella sua forma più semplice, era quello di dividere la breve trama in brani di azione o di azione riportata, separati l’uno dall’altro

da odi corali. Di qui lo schema che troviamo in tutte le tragedie. Di solito il coro non entrava al principio; l’apertura normale era costituita da un prologos (« ante-discorso ») recitato prima dell’entrata del coro. Il prologo poteva assumere varie forme: dialogo, discorso pronunciato da un solo personaggio (l’uso normale di Euripide), oppure la combinazione dei due. Comunque, esso aveva lo scopo di chiarire la situazione, cosa necessaria soprattutto quando l’azione vera e propria doveva iniziare poco prima del cul­ mine della trama; anche nel caso di un prologos dia­ logato, pare che certe inverosimiglianze fossero ac­ cettabili per rendere chiara la spiegazione. Seguiva la marcia del coro che entrava nell’orchestra e il primo canto (in greco parodos, già menzionata nel Capitolo quinto come il nome del corridoio attra­ verso il quale il coro faceva la sua entrata). La scena seguente era dialogata e chiamata episodio (in greco: epeisodion, dall’arrivo di un attore che si incontrava col coro), mentre le successive odi corali erano chia­ mate stasima, parola che probabilmente significava non odi cantate a pié fermo, il che sarebbe tutt’altro che esatto, almeno per il V secolo, ma odi cantate dopo che il coro aveva raggiunto il proprio posto. Dopo l’ultima di queste odi seguiva la scena finale, conclusa di solito da Euripide con il « deus ex ma­ china », conosciuta come exodos (« uscita »), seb­ bene in un primo tempo questo termine si applicasse forse soltanto ai pochi versi cantati dal coro uscente per concludere la rappresentazione. Questi sono i termini tecnici della tragedia riportati da Aristotele (Poetica XII). Non sappiamo quanto diffuso ne fosse l’uso, certamente però essi confermano la conven­ zione strutturale che troviamo nelle tragedie perve­ nute fino a noi. Se prolunghiamo gli episodi, to-

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gliendo il coro e sostituendo le odi con un sipario ed eventualmente con un intervallo, abbiamo un dramma moderno. Tale era lo schema basilare, ma la struttura for­ male, l’equilibrio e la simmetria figuravano assai di più nella tragedia, a volte in modi che non si pos­ sono rilevare nella traduzione. Abbiamo già accen­ nato al complesso schema metrico delle odi corali con la corrispondenza di strofe e antistrofe. I com­ plicatissimi ritmi corali si comprendono soltanto at­ traverso lo studio del testo greco, e anche con questo, come abbiamo visto, soltanto in parte, data la nostra ignoranza della musica di accompagnamento e della danza. In una versione tradotta, il ripetersi dello schema simmetrico nelle scene dialogate appare più evidente. NéTAntigone di Sofocle, ad esempio, ur canto corale è seguito (626) dall’entrata di Emone. figlio di Creonte. Creonte rivolge la parola al giovane in quattro versi, e riceve a sua volta una risposta di quattro versi. Poi Creonte espone il proprio caso in 42 versi, e dopo un commento di due versi, pronun­ ciato dal corifeo, Emone dà la sua risposta in altri 41 versi (o secondo taluni commentatori, in 42), seguito ancora una volta da due versi pronunciati dal corifeo alla fine. Padre e figlio recitano due versi ciascuno, e poi ne seguono 28 nei quali a botta e risposta, discutono con un verso ciascuno finché quattro detti da Creonte e lo stesso numero detti da Emone concludono la controversia e il figlio si allon­ tana di corsa. La scena, espressa in questi termini numerici, può sembrare assurda; osservata nel teatro, però, diventa uno scontro formidabile, favorito, piut­ tosto che danneggiato, dallo schema formale. Anche se a noi un siffatto modo di bilanciare discorso con discorso può sembrare strano, non è dif­ ficile trovare esempi di un metodo analogo nella vita

e nella letteratura greca. Qui pure la tragedia greca trovava ampi precedenti in Omero, e, fra i testi del V secolo, basta esaminare i dibattiti formali usati da Tucidide per spiegare i motivi degli avvenimenti storici. Fu pratica normale nei tribunali assegnare alle parti opposte un tempo uguale per i loro discorsi, misurato con la clessidra idrica. È più difficile spie­ gare la stichomythia (cioè il « discorso verso per verso »), e non ci rimane che supporre che avesse origini rituali. Nella tragedia, tuttavia, questo è il modo normale di conversare, spesso, come nella scena con Emone, dopo discorsi più lunghi. A volte in momenti di agitazione o passione, lo scambio si fa più rapido e vengono impiegati dei mezzi versi. Al fine di mantenere lo schema, si poteva interrom­ pere una frase, lasciando sospesa la sintassi, uso abil­ mente parodiato da A. E. Housman nel dialogo fra il corifeo ed un nuovo venuto nel suo Frammento di una Tragedia Greca·.

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C oro Si può sapere a che cosa mira la tua presenza? A lcmeone La bocca interrogata di un pastore mi in­

formò che...

C oro Cosa? perché ancora non so cosa vuoi dire... A lcmeone Né mai lo saprai se m’interrompi. C oro Continua, e la lingua mi rimarrà muta in bocca. A lcmeone ... di Erifile era questa casa, non di altri.

In tali dialoghi rapidissimi il drammaturgo greco sfrutta con il massimo dell’effetto una delle princi­ pali caratteristiche della sua arte, l’ironia drammatica, che comunica al pubblico un senso di partecipazione al dramma. Dato il fatto che gli spettatori sono a conoscenza della vera situazione, ogni verso può avere per loro un significato ignorato da uno o più personaggi. Essi sono in possesso del segreto e

quindi aspettano con crescente attesa che i personaggi scoprano la verità. Nell 'Ifigenia in Tauride di Euri­ pide, Oreste, appena sbarcato sulla costa del Mar Nero, incontra sua sorella che, essendo sacerdotessa di Artemide, deve sacrificare tutti gli stranieri alla dea. Gli spettatori conoscono l’identità della coppia, sanno che il sacrificio costituirebbe un altro assas­ sinio nella famiglia sfortunata di Agamennone; nes­ suno dei due, però, ha ancora riconosciuto l’altro, benché stia per avere inizio una scena di riconosci­ mento ideata con grande ingegno.

Questi schemi di equilibrio e simmetria nelle scene dialogate si accompagnano con la formalità an­

cora maggiore delle odi corali. Tuttavia, come ab­ biamo visto, la complessità e variabilità dell’intero schema si fanno maggiori nei passi che non coinci­ dono con le divisioni in coro e dialogo, o in canto e discorso. Nella vita dei greci, il lutto rituale era l’accompagnamento normale della morte o della ca­ lamità, e perciò figura largamente nella loro rappre­ sentazione in teatro. Di qui il kommos (da un verbo che significa « battersi il petto »), nel quale il coro e l’attore (o gli attori) si rispondono a vicenda in strofe corrispondenti di lamento cantato, talvolta prolungate a tal punto da annoiare il lettore o il pub­ blico moderno. La stessa forma di canto combinato si usava più raramente per esprimere altre emozioni, la paura o persino la gioia. Il canto a solo (« mono­ dia »), i duetti o i trii recitati dagli attori, erano preferiti da Euripide, ma spesso beffati e parodiati nella commedia. Abbiamo già paragonato l’antico attore a un divo dell’opera lirica: ed effettivamente certe parti delle tragedie di Euripide assomigliavano piuttosto all’opera che non al dramma in senso stretto. L ’esempio più notevole è quello dello schiavo frigio n é ì’Oreste, il quale invece di comunicare le sue nuove con un normale discorso « da messag­ gero », canta a ritmo agitato 130 versi lirici, inter­ rotti da quelli pronunciati dal corifeo. Si potrebbe dire molto di più a proposito del­ l’aspetto formale della tragedia. L ’equilibrio formale si incontra non soltanto in un determinato settore, ma nel corso dell’intera opera. Un esempio evidente è fornito dal modo in cui Euripide presenta le due dee nc\VIppolito: Afrodite apre il dramma, Arte­ mide lo conclude, e le loro dichiarazioni formano una cornice che inquadra l’azione. Il discorso di Afro­ dite che apre il dramma è seguito da un inno indi­ rizzato ad Artemide; alla fine, un canto del coro sulla

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Nobilissimo cuor, tu sei cresciuto da nobile radice, e amico sei veramente agli amici. O se a te simile fosse il fratello ch’unico mi resta: poi che neppure a me manca un fratello, salvo che mai non l’ho veduto... O r e st e Chi compierà su me lo sconcio orribile? I figenia I o : ché la dea m’assegna tale ufficio. O r e st e Lugubre ufficio, e non lieto, fanciulla! I figenia È pur necessità: devo piegarmi. O r e st e T u , donna, con la spada uccidi gli uomini? I figenia N o : ma i tuoi crini d’acqua aspergerò. O r e st e E chi m’ucciderà, se posso chiederlo? I figenia Son dentro il tempio quei che n’hanno il compito. O r e st e Qual tomba m’accorrà, quando io sia morto? I figenia II fuoco sacro, entro un roccioso baratro. O r e st e Ahimè! Seppellir mi potesse mia sorella! I figenia II voto che tu esprimi è vano, o misero, qual che tu sia: ch’ella abita lontano da questa terra barbara. Però, poi che d’Argo tu sei, nulla di quanto io posso dar, ti mancherà. [609-31] I figenia

potenza dell’amore precede l’entrata di Artemide. Un ulteriore esame del testo fa scoprire altre rispon­ denze di metro o stile. Per l’effetto totale una certa corrispondenza analogica è presente oggi piuttosto in una sala di concerti che non in teatro: una tragedia greca, come un quartetto o una sinfonia, è costruita entro i limiti di uno schema convenzionale, ma è unica nel suo genere. Poiché lo schema generale aveva qualcosa della stabilità di un rituale, l’impressione che il lettore moderno trae oggi dalle tragedie del V secolo è di una certa uniformità, anzi di una certa monotonia, di forma e stile. Ciò che stupisce, invece, è la varietà di contenuto e di argomento, la gamma dell’espe­ rienza drammatica raggiunta entro un’unica conven­ zione generale. Ancora una volta ci troviamo di fronte a quella combinazione di libera immaginazione e di misura così caratteristica del teatro come pure di tutta l’arte della Grecia. Aristotele riconosce tale varietà fino ad un certo punto. Nel suo principale tentativo di classificare le trame (Poetica 10), egli le divide in semplici e com­ plesse, anche se a noi, rispetto al dramma moderno, tutte le tragedie greche possono sembrare semplici. La distinzione essenziale fra queste due categorie consiste nel fatto che nei drammi « semplici » l’azione si muove continuamente in un unico senso, come nel Prometeo di Eschilo e nella Medea di Euripide, men­ tre le trame « complesse » comportano il passaggio dall’ignoranza alla cognizione, o dalla prosperità alla calamità. Aristotele definisce la migliore tragedia quella che comprende sia il riconoscimento [art agnorisis), sia la peripezia (pcripetcia), cilaudu ΓEdipo Re come un capolavoro nel quale le due cose sono com­ binate con grande effetto. Infatti, molte delle tragedie

comportano un drastico cambiamento di fortuna, spesso collegato a una scoperta imprevista che ri­ guarda l ’identità di uno dei personaggi oppure gli avvenimenti passati: l’ironia drammatica, come ab­ biamo visto, dipende dall’esistenza temporanea di illusioni non condivise dal pubblico. Gli studiosi hanno fatto l’impossibile per far rientrare tutte le tragedie entro gli schemi descritti da Aristotele, ma persino fra quelle in nostro possesso ve ne sono al­ cune che non si conformano a tale descrizione. La ricostruzione congetturale di altre fa supporre una diversità ancora maggiore: nonostante l’uniformità generale di argomento e forma, è chiaro che i dram­ maturghi trattavano il contenuto con assai maggiore varietà di quella concessa dalle norme aristoteliche. Non vogliamo soffermarci in questa sede sulle differenze fra i tre grandi poeti tragici, ma a questo punto la generalizzazione non è più valida, e diventa necessaria una trattazione individuale. Ciascuno di loro usa a suo modo il linguaggio, tratta a suo modo la struttura tradizionale della tragedia; soprattutto obbedisce a criteri personali nel « plasmare la storia », nell’« ordinare gli avvenimenti », nell’adattare la leg­ genda al teatro. Benché le sette tragedie di Eschilo oggi in nostro possesso fossero state scritte durante gli ultimi anni della sua vita, esse risentono ancora della prossimità alle origini corali della tragedia. I traduttori sanno fin troppo bene che le sue odi corali possiedono uno splendore e una complessità di linguaggio a mala pena eguagliati dal suo stesso contemporaneo Pin­ daro. Sono piene di metafore, di epiteti accumulati, di sorprendenti parole composte, e nelle scene dialo­ gate il linguaggio è quasi altrettanto ricco e strano. Le sue tragedie hanno la rigida grandiosità del rituale, e pare che egli sia stato più audace dei suoi succes­

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sori nello sfruttamento delle risorse del teatro allo scopo di renderle spettacolari. Eschilo era il più abile nel drammatizzare la leggenda, cioè nel trarre gli argomenti direttamente dalla poesia epica e tforale per poi adattarli al dramma: i poeti posteriori spesso non fecero altro che riplasmare il materiale che egli aveva già introdotto nel teatro. Era sua abitudine presentare un’intera trilogia tratta dalla stessa storia; qualunque ne sia stato il motivo, la composizione su questa scala si adattava bene all’ampiezza straordi­ naria della sua visione, come si vede ripetutamente nelle tragedie quando la sua poesia ci trasporta con la forza dell’immaginazione nel passato più lontano o nelle regioni più remote del mondo conosciuto. Ognuno dei suoi tre soggetti è trattato con potente semplicità. Per le sue tragedie sceglie un solo mo­ mento culminante del racconto che riguarda un solo conflitto ben definito. Fin dall’inizio, questo mo­ mento culminante è sempre presente: le prime scene del dramma conducono inevitabilmente verso la fine aspettata. L ’emozione destata nel pubblico è vera e propria « suspense », tanto più sentita quando si sa già quello che deve accadere. Osserviamo due esempi, assai differenti tra loro, ma ambedue caratteristici: I Sette a Tebe e VAga­ mennone. I Sette a Tebe erano l’ultima parte di una tri­ logia tebana, la prima drammatizzazione, per quanto ne sappiamo, di quella storia della famiglia di Laio, Edipo e Antigone che fu costantemente rimaneggiata dai poeti greci e che ancora oggi fornisce materiale a un Cocteau o a un Anouilh. Per Eschilo, era la leggenda di una dinastia perseguitata da una male­ dizione, e per le due prime tragedie, ora perdute, egli scelse due momenti nei quali viene colpita: ne

sappiamo soltanto quel poco che possiamo indovinare dai titoli, Laio ed Edipo. Per la terza, scelse l’adem­ pimento del destino invocato da Edipo contro i propri figli, cioè che dovessero battersi per l’eredità e ucci­ dersi fra loro. Essi hanno convenuto di governare Tebe un anno ciascuno, ma Eteocle, alla fine del suo anno, ha rifiutato di ritirarsi in favore di Polinice che pertanto ha condotto un esercito contro la città dalle sette porte per rovesciarlo. Eschilo ambienta la scena non sul campo di bat­ taglia, ma in un luogo aperto della città. Non si vede 10 spettacolo dell’awicinarsi del nemico, né il con­ flitto stesso, che vengono comunicati al pubblico mediante descrizioni: dapprima da un esploratore che porta notizie ad Eteocle; poi dal canto del coro di donne in preda al panico quando sentono (e fanno sentire a noi, senza beneficio di rumori fuori scena) 1’avvicinarsi del nemico; ancora, dall’esploratore che annuncia la disposizione delle forze attaccanti; e finalmente da un messaggero che racconta brevemente 11 duello mortale dei fratelli prima che le loro salme vengano portate sul palcoscenico per la lunga scena di lamentazione con la quale il dramma si conclude. Ogni fase di questa sequenza di fatti ci fa avanzare verso il culmine previsto. Ma l’arté magistrale del poeta sta nel modo in cui usa ai fini drammatici le sette porte della città. Quando l’esploratore appare per la seconda volta, Eteocle è accompagnato da sei guerrieri armati fino ai denti. L ’esploratore indica quale dei capi del nemico è stato appostato ad ognuna delle porte, descrivendo l’emblema sul suo scudo; in un discorso corrispondente, Eteocle destina uno dei sei ad affrontarlo, e l’uomo se ne va, mentre il coro intona una preghiera per il suo successo. Tale schema simmetrico prosegue finché si avvicina con

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ritmo regolare il momento in cui Polinice verrà ine­ vitabilmente nominato come il settimo assalitore e spetterà ad Eteocle affrontarlo in duello: Più adatto chi mai di me? Re contro re, fratello contro fratello ivi starò, nemico contro nemico. La scena dura non meno, di qualche centinaio di versi, e in un’altra opera sullo stesso soggetto (Le Fenicie, 751-2), Euripide, più realistico nel suo atteggiamento, mette in ridicolo tale lunghezza: Lungo sarebbe dire di ciascuno il nome, mentre i nemici già le mura investono. Ma nonostante la semplicità, forse alquanto ingenua, dei Sette a Tebe, quest’opera è assai più drammatica delle Fenicie. Nell’Agamennone, la prima parte dell’Orestea, Eschilo ha escogitato una versione della leggenda che porta al culmine la tensione drammatica. Ancora una volta vede il suo soggetto come la storia di una fa­ miglia tormentata, nella quale un delitto provoca l’altro. Quale primo punto culminante sceglie l’as­ sassinio di Agamennone appena tornato dalla guerra troiana. Il presagio del male si avverte già nel discorso della scolta all’inizio, quando dal tetto della skene scorge il falò che segnala la caduta di Troia. Tuttavia, si susseguono scene su scene di tensione sempre crescente prima che il presagio si compia e Agamen­ none incontri il suo destino. Nella parodos si parla dei precedenti orrori che hanno condotto a questo momento. Clitennestra racconta come la catena di 122

falò abbia portato la notizia. Quando l’esercito torna, il primo ad arrivare non è il re, ma un araldo che annuncia il suo arrivo imminente e descrive poi i lunghi anni dell’assedio. La tragedia è quasi a metà quando Agamennone arriva con la sua prigioniera, la principessa Cassandra, e Clitennestra lo induce contro la sua volontà a commettere un peccato di superbia, cioè a camminare sopra un tappeto rosso fino alla porta del palazzo. Rimane davanti al pub­ blico Cassandra, la profetessa destinata a predire sempre la verità e a non essere mai creduta. In un canto sfrenato che si placa alquanto per poi scop­ piare di nuovo in furore, ella racconta al coro incre­ dulo, dal principio alla fine, la propria visione del funesto destino della famiglia che si concluderà con gli assassinii non ancora avvenuti, cioè la morte del re e la sua propria. Entra nel palazzo, dal quale final­ mente si sente venire il tanto atteso urlo di agonia. Non esce nessun messo per annunciare l’evento: con la sua trovata geniale, Eschilo ce l’ha già raccontato, facendoci sentire tutto l’orrore del colpo ancor prima che venga vibrato. L 'ekkyklema viene spinto fuori con Clitennestra trionfante sopra le sue vittime. Come ha scritto Sir John Beazley: « Una lunga tensione contraddittoria, un lampo d’azione, un in­ terno rivolgimento e un’inquietudine tanto più strani perché non visti, costituiscono la formula e l’anima stessa della tragedia eschiliana » ’. Nel giudizio di molti, Eschilo sarebbe il più grande dei drammaturghi greci; nelle sue opere, però, la tragedia è ancora in fase di formazione. Con So­ focle diventa un’arte indipendente, raggiungendo 1 B ea zley

e A sh m o le,

bridge 1932, p. 38.

Greek Sculpture and Painting, Cam­ 123

piena maturità. Nelle sue tragedie l’atmosfera non è più dominata dalle origini rituali del dramma. La parte assegnata al coro diminuisce, sebbene le odi corali di Sofocle siano fra le più belle di tutta la poesia greca. Il dialogo, sempre poetico, diventa più semplice e più naturale. L ’azione assume una forma che potrebbe giustamente essere chiamata « trama » nel senso moderno della parola: nei suoi migliori mo­ menti Sofocle merita pienamente il giudizio che Ari­ stotele dava di lui come di un maestro eccezionale dell’intreccio, in parte, senza dubbio, perché trae pro­ fitto dall’esperienza di Eschilo, rielaborando un ma­ teriale già da questi impiegato. A differenza del suo predecessore, di solito scrive tragedie indipendenti, non collegate al resto della trilogia. Il suo argomento consta di un singolo avvenimento, ma l’unità della trattazione è talvolta meno evidente che nelle opere di Eschilo, perché divide tale avvenimento in « epi­ sodi » che hanno ciascuno un suo peso drammatico, non essendo meri passi verso un dato punto culmi­ nante. L ’interesse moderno per il carattere dei per­ sonaggi (di cui si tratterà più avanti) ha persino pro­ vocato delle critiche contro VAiace, PAntigone e le Trachinie, che mancherebbero di unità e sarebbero come divise in due parti, perché un protagonista del­ l’azione muore troppo presto; queste scomparse premature, invece, non servono che a confermare che l’interesse principale del poeta risiede altrove. Nelle opere di Sofocle, la « peripezia » e il « ricono­ scimento » voluti da Aristotele sono brillantemente illustrati, come pure l’ironia drammatica. Mentre Eschilo ci conduce lentamente ma costantemente verso la crisi, Sofocle fa delle curve e svolte im­ provvise strada facendo. Proviamo ancora « suspense » e il presentimento del male, ma egli dà al suo pub­

blico anche una sensazione nuova a teatro: l’emo­ zione della sorpresa. Aristotele giustamente sceglie l'Edipo Re come l’esempio più notevole dell’arte di Sofocle, a prescin­ dere del fatto che offre una parte stupenda al pro­ tagonista. Quando Edipo invoca la maledizione con­ tro l’uccisore di Laio il quale, secondo l’oracolo, avrebbe portato la peste a Tebe, il pubblico sa che la maledizione si abbatterà sulla sua testa; inoltre, non permettono nessun dubbio sull’esito degli avve­ nimenti le profezie di Tiresia che predice al re incre­ dulo tutto ciò che deve succedere. Ma il riconosci­ mento della verità da parte di Edipo e la totale in­ versione della sua fortuna non si compiono nella ma­ niera diretta e semplice di Eschilo. Con maestria Sofocle spacca il procedimento in una serie di scene, ognuna delle quali comporta un imprevisto colpo di scena. Quando Giocasta narra la morte di Laio con l’intento di dimostrare la falsità degli oracoli, un antico ricordo si affaccia alla memoria di Edipo, por­ tandolo sulla via della scoperta di se stesso e dimo­ strando la veridicità delle parole di Apollo:

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Ahi, come, o donna, nell’udirti, l’anima va flut­ tuando, ed il pensiero s’agita! G iocasta Qual cura ti sconvolge a dir così? E dipo Questo punto da te, mi sembra, ho udito: che in un trivio trafitto Laio cadde. E dipo

Pare che ancora una volta un oracolo sia caduto nel vuoto quando un messo annuncia la morte di Polibo, presunto padre di Edipo; ma quando l’uomo rivela le vere origini del re, Giocasta intuisce la verità e si precipita dentro il palazzo per darsi la morte. Una serie di episodi simili ci conduce alla catastrofe

finale. La caratteristica più notevole che rende questa tragedia un prodotto tipico del teatro greco è il fatto di sembrare piena di avvenimenti ed azione, mentre in realtà è costruita su elementi di narrazione e di­ scussione. Nelle parole di Waldock (Sophocles thè Dramatist, London-New York 1951, p. 168): «N on succede quasi nulla tranne l’arrivo di gente che porta notizie. Osserviamo come i pezzi dell’incastro si mettono a posto, l’uno dopo l’altro; tuttavia non si può immaginare un dramma altrettanto vibrante nel senso dell’azione ». L ’Antigone è un altro capolavoro di narrazione e dibattito su fatti che hanno luogo fuori scena. Una tragedia assai diversa, ma altrettanto caratteristica di Sofocle, è il Filottete, scritto negli ultimi anni della sua vita su un argomento già utilizzato prima di lui da Eschilo ed Euripide (e forse anche da altri). Qui nessuna narrazione, neppure un solo discorso del messaggero: tutta l’azione si svolge davanti al pub­ blico. Ancora una volta, però, una serie di scene comporta svolte inaspettate e un intreccio a sorpresa. La porta della skene rappresenta una grotta sull’isola di Lemno, ma non dobbiamo per questo supporre esigenze realistiche o necessità scenografiche, e così via: la scena, descritta in modo insolitamente parti­ colareggiato al principio del dramma, si fissa nell’im­ maginazione del pubblico per tutta la durata della rappresentazione. Filottete, con un piede in suppu­ razione in seguito al morso di una vipera, è stato abbandonato su una spiaggia deserta dai suoi com­ pagni greci che si recano a Troia. Ora, però, i greci hanno saputo che senza l’arco e le frecce mortali di Eracle che Filottete porta con sé, non potranno prendere la città. Ulisse e Neottolemo, figlio di Achille, sono quindi venuti a prenderlo. Qui ab­ biamo tre parti di eguale importanza per gli attori,

e sui loro reciproci rapporti in continuo cambia­ mento Sofocle costruisce un dramma che comprende sia il riconoscimento che la peripezia, mediante l’abile uso, ai fini drammatici, dell’arco irresistibile che rende padrone della situazione chiunque lo possegga. Sappiamo qualcosa delle versioni che della storia diedero Eschilo ed Euripide, e un confronto con esse ci mostra di quanta libertà i drammaturghi go­ dessero nel trattamento della leggenda. Ambedue immaginavano l’isola di Lemno abitata, introducendo un coro di abitanti, mentre Sofocle ottiene un ef­ fetto più intenso facendo dell’isola un luogo deserto e impiegando un coro di marinai greci. Nella ver­ sione eschilea, Ulisse ruba l’arco mentre Filottete è sopraffatto dal dolore; in quella di Euripide invece, egli ha Diomede come compagno, e il dramma si impernia su una lotta fra loro e i messi troiani per il possesso del malato e del suo arco, con la vittoria finale dei greci. Soltanto Sofocle introdusse Neotto­ lemo nella tragedia, trasformando così la storia in qualcosa simile a un dramma psicologico: al centro della trama vi è il conflitto interiore del giovane che finisce per rinunciare al proprio mandato e promette di ricondurre Filottete in Grecia. La decisione viene però rovesciata e la storia è ricondotta alla versione tradizionale con l’intervento di Eracle, il quale esige che le sue armi adempiano il loro destino: unico esempio dell’uso del « deus ex machina » da parte di Sofocle.

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In tutte le epoche, i commentatori hanno definito Euripide un innovatore radicale, e in questa luce lo videro anche i suoi contemporanei, se possiamo fi­ darci del giudizio di Aristofane. Ma per quanto ri­ guarda la forma della tragedia, egli non è un rivo­ luzionario; si attiene allo schema tradizionale e anzi,

in qualche modo, tende a renderlo più preciso, defi­ nendone i vari elementi con maggiore chiarezza. Come abbiamo già accennato, il prologos nelle sue tragedie è un discorso formale che chiarisce il pas­ sato, come forse lo era nelle prime fasi della tragedia; esso è spesso bilanciato alla fine da una dichiarazione altrettanto formale pronunciata da un dio e riguar­ dante il futuro. In quasi tutte le sue tragedie, si trova almeno una lunga relazione fatta da un mes­ saggero, e la simmetria con cui un discorso si con­ trappone a un altro discorso fornisce lo spunto a dibattiti retorici nei quali un oratore risponde al­ l’altro punto per punto: Giasone contro Medea, Clitennestra contro Elettra, Elena contro Ecuba. Il complesso linguaggio poetico delle odi corali si di­ stingue sempre più da quello semplice, spesso quasi prosaico, del dialogo. D ’altra parte, la distinzione fra coro e personaggi è ottusa da un’altra caratteri­ stica euripidea, non facile a intendersi quando si leg­ gono le traduzioni; nel modo di servirsi della musica, era senza dubbio un innovatore che dotava gli attori di una nuova gamma di esprèssioni vocali mediante l’uso del recitativo e del canto. Pare che Euripide sia andato oltre Eschilo e So­ focle nel variare i contenuti inseriti in questa forma più o meno stereotipa. Senza dubbio questa impres­ sione è dovuta in parte al semplice fatto che di lui abbiamo un maggiore numero di opere: ma la sua versatilità si rivela ancora meglio se esaminiamo i numerosi « frammenti » e i tentativi di ricostruzione delle opere perdute. È chiaro, comunque, che nelle sue mani la tragedia divenne più che mai varia. Il suo metodo di servirsi della leggenda, e conseguen­ temente la qualità del risultato, era quanto mai mu­ tevole. Egli, scrisse non soltanto le peggiori tragedie che abbiamo, ma anche parecchie delle migliori. 128

La propaganda politica di un determinato secolo diventa noiosa in un altro, soprattutto se vi sono di mezzo migliaia di anni. A volte Euripide si avvicina troppo alla propaganda pura e semplice, ivi compresa quella della guerra nei primi anni del conflitto con Sparta. Consideriamo, ad esempio, VAndromaca, scritta probabilmente fra il 428 e il 424 a. C., seb­ bene uno degli scoliasti asserisca che non fu rappre­ sentata ad Atene. Secondo la leggenda, dopo la presa di Troia la moglie di Ettore fu assegnata come preda a Neottolemo, figlio di Achille, che poi sposò la figlia di Menelao, re di Sparta. Non si fa torto a Euripide se si suppone che il suo motivo principale nello sce­ gliere tale argomento fosse il fatto che le sofferenze inflitte ad Andromaca dagli spartani gli fornivano buon materiale per attaccare verbalmente il nemico che a quell’epoca occupava l’Attica. Menelao è rap­ presentato come un furfante della peggior specie, e sua figlia come una diavolessa malvagia. Andromaca apostrofa irosamente Menelao, inveendo con vigo­ roso stile retorico: O fra tutti i mortali esecratissima, gente di Sparta, principi d’inganni, consiglieri di frode, tessitori di malefatte, genti oblique, senza franchezza mai, che fra raggiri sempre avvolgete il pensier, deh, quanto ingiusto è che felici voi siate ne l’Éllade! e così via in questo senso, pertinente al contesto della guerra del Peloponneso, ma non al mondo della leg­ genda omerica. Ancora più fuori posto è un attacco contro il modo di vestire e i costumi delle ragazze spartane. Non c’è da stupirsi che tale ambiente edu129

cativo abbia prodotto una donna dissoluta come Elena! Peleo, padre di Achille, dice a Menelao: E già, neppur volendo, a Sparta restar potrebbe onesta una fanciulla: che, lasciate le case, insiem coi giovani, nude le gambe, alto succinti i pepli, hanno comuni — usanza insopportabile — stadi e palestre. E allor, che meraviglia se le fanciulle oneste non vi crescono? Tipicamente euripideo è che circa dieci anni dopo egli abbia scritto le Troadi, fornendo un quadro de­ solante degli effetti della guerra in se stessa. Ma nelle sue opere posteriori, l’impostazione principale tende verso il dramma di intreccio e di avventura. Egli preferisce attingere alle versioni meno conosciute della leggenda, sebbene curi sempre nel prologos, che il pubblico conosca lo svolgimento della trama. I suoi intrecci diventano più complessi, benché siano ancora semplici in confronto a quelli di Shakespeare o di autori più moderni: aumenta il numero dei per­ sonaggi e a volte riempie il dramma di tanti avveni­ menti da far perdere di vista l’unità. Ione, Ifigenia in Tauride e Oreste sono esempi singolari della sua capacità di introdurre elementi emozionanti ed epi­ sodi. romanzeschi nel teatro. L 'Elena (412 a. C.) è più di qualsiasi altra sua opera lontana dalla « tragedia » com’è generalmente concepita: è un’opera capric­ ciosa e molto vicina alla commedia, non a torto paragonata alla Tempesta o al Flauto magico. La maggior parte della trama e due dei personaggi prin­ cipali sembrano essere stati inventati dal poeta stesso. ÌAeìYAndromaca, Elena è la seduttrice spartana che provocò la guerra di Troia e poi convinse Menelao a ricondurla a casa. Nelle Troadi, lo vediamo mentre 130

la fa salire sulla nave diretta ad Argo, dove (egli dice) verrà giustiziata. Nell 'Elena, invece, Euripide riprende da un poeta corale una versione fantasiosa e completamente diversa della storia, che né il pub­ blico né lui stesso avrebbero potuto prendere sul serio, anche perché rende assurda tutta la storia della guerra troiana. Elena non andò mai a Troia: all’inizio dell’opera, la troviamo fuori di una reggia sulla costa dell’Egitto, mentre spiega come, dopo il giudizio di Paride, Ermete l’abbia trasportata in Africa avvolta in una nube. Per fare un dispetto ad Afrodite, Era ha ingannato Paride che ha rapito un simulacro del­ l’amata, per il quale i greci e troiani, di tutto ignari, hanno combattuto sotto le mura di Troia. Ora il re d’Egitto incalza Elena perché acconsenta a sposarlo. Entra in scena un greco, Teucro, il quale (appena riavutosi dalla sorpresa di vedere una donna così somigliante alla « donna fatale »), la mette al corrente del fatto che Troia è stata presa sette anni prima e Menelao è perito con Elena in una tempesta mentre tornava in patria. A questo punto, naturalmente, appare Menelao, gettato dal naufragio sulla costa egi­ ziana. Intorno a questo errore di persona Euripide ha creato una magnifica situazione che sfrutta al mas­ simo delle possibilità. L ’intreccio si sviluppa passando di sorpresa in sorpresa, finché i greci riescono a fug­ gire dalle mani del re furibondo, mentre Castore e Polluce (fratelli di Elena) appaiono sopra il palazzo per informarlo che quanto è successo è opera di,Zeus! Dopo la lettura di un’opera così gaia, con i suoi brani di pura commedia e la sua felice conclusione, è difficile credere all’osservazione di Aristotele (Poe­ tica 13) che Euripide era criticato per gli esiti lut­ tuosi delle sue opere, oppure al suo giudizio su Euripide, definito « il più tragico fra tutti i poeti ». Tuttavia tale opinione resta nel suo complesso va131

lida: Euripide è appunto il poeta che porta al limite estremo la funzione della tragedia che, secondo Ari­ stotele, è quella di destare compassione e paura. Per un confronto con 1’Elena, esaminiamo brevemente le Baccanti, scritte negli ultimi anni della sua vita e presentate postume ad Atene a cura del figlio. Il protagonista è un dio: Dioniso stesso, il dio della tragedia; suo era il teatro nel quale l’opera veniva rappresentata. Forse nello stesso anno (405 a. C.), Aristofane lo presenta nelle Rane come un perso­ naggio comico che discende nell’Ade travestito da Eracle. Nelle Baccanti, Dioniso e le sue fedeli donne asiatiche (che formano il coro) hanno portato il suo culto a Tebe, e le tebane, già prese dalla sua febbre, impazzano nelle orge bacchiche sulle pendici del Monte Citerone. La montagna è il vero centro del­ l’azione, sempre presente all’immaginazione del pub­ blico, mentre la skene rappresenta il palazzo del re Penteo che si oppone al dio; ancora una volta siamo di fronte a un dramma apparentemente denso di avvenimenti, ma in realtà costituito per lo più di di­ scussioni e narrazioni, immerse in un clima teso e passionale creato dalla selvaggia, benché formale, bellezza delle odi corali. (Per questa tragedia, più che per qualsiasi altra, dobbiamo lamentare la nostra ignoranza della musica e della danza.) I vecchi, Cadmo e Tiresia, si preparano a raggiungere le donne sulla montagna; Dioniso, travestito da sacerdote di se stesso, è fatto prigioniero da Penteo, ma più tardi riesce a dominarlo completamente, convincendolo a vestirsi da donna e ad andare a spiare le orge sulla montagna; arrivano dalla montagna due uomini con notizie, un pastore che narra i miracoli cui ha assi­ stito, e un messaggero con la storia della tremenda sorte di Penteo, dilaniato dalle mani stesse delle donne. Finalmente gli spettatori assistono alla terri­

Pertanto, esaminando la tragedia, Aristotele si oc­ cupa soprattutto degli intrecci, dedicando alla carat­ terizzazione appena qualche paragrafo. Può darsi che Aristotele sia spesso in errore, ma a questo riguardo ha certamente ragione. Intere ge­ nerazioni di studenti sono stati impegnati per ore nello svolgimento di temi o in risposte d’esame sulla « caratterizzazione nelle tragedie di Sofocle », oppure sul « carattere di Medea », e decine di libri e di arti­ coli hanno affrontato il problema della caratterizza­ zione nei tre poeti tragici greci. Taluni costruiscono

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bile conclusione delle vicende svoltesi sulla montagna: entrano le donne, guidate da Agave, madre di Penteo, che esibisce trionfante ciò che crede essere la testa di un leoncino finché, tornata in se stessa, non si accorge di avere in mano la testa del proprio figlio. Qualunque « significato » si possa dare alle Baccanti, nessun’altra tragedia greca raggiunge un più alto cul­ mine di compassione e paura. In questo capitolo ci siamo occupati finora del materiale scelto dal drammaturgo e della forma da­ tagli, dello schema e delle trame della tragedia. Meno si è parlato della caratterizzazione, seguendo l’ordine di priorità suggerito dalla Poetica. Secondo Aristotele (Poetica VI, 15-35): ... la tragedia non è mimesi di uomini bensì di azione e di vita [...]. Non dunque i personaggi di un’azione drammatica agiscono per rappresentare determinati carat­ teri, ma assumono questi caratteri per sussidio e a ca­ gione dell’azione [...]. Anche si osservi che senza azione non ci potrebbe esser tragedia, senza caratteri sì. [...] Dunque la favola è l’elemento primo e come l’anima della tragedia; in seconda linea vengono i caratteri.

un quadro estremamente minuzioso basato su una serie di sottigliezze alle quali è difficile trovare un riscontro nei testi. Altri, con ragioni più valide, di­ mostrano che nel dramma greco l’elaborazione e il trattamento dei caratteri sono scarsissimi. Costoro sot­ tintendono che i greci in realtà cercassero di raggiun­ gere con i propri personaggi gli stessi fini che si pro­ pone un drammaturgo moderno, ma senza riuscirvi, 0 per l’eccessiva brevità dei drammi, o per i limiti imposti all’azione. Osservati da questo punto di vista, 1 personaggi delle tragedie sono veramente troppo semplici, schematici, statici. Come al solito, però, sarà meglio affrontare il problema dal punto di vista dei greci, piuttosto che dal nostro: in realtà, il risul­ tato del loro lavoro era diverso da quello odierno, perché diverso era il loro modo di procedere; non già dunque un’opera analoga riuscita peggio, ma qualcosa (caratterizzazione compresa, se è lecito usare questo termine) da esaminare in una luce completamente differente. Il drammaturgo del XX secolo è uguale al suo pub­ blico: per entrambi la psicologia di un personaggio co­ stituisce un soggetto di per sé affascinante. La nostra letteratura (il romanzo, la biografia), i giornali, i pro­ grammi televisivi evidenziano tutti tale atteggiamento. A Shakespeare forse non interessava affatto dire quanti figli avesse Lady Macbeth, ma per gli spettatori mo­ derni questo particolare potrebbe essere tutt’altro che secondario. Non è strano che un autore consideri i propri personaggi più importanti della trama stessa, né che tenda a delinearli in primissima istanza, com­ piacendosi delle loro idiosincrasie, e quasi lasciando che siano loro a sviluppare l’intreccio. Egli cerca di vederli dall’interno, di penetrare nella loro menta­ lità, e pretende che gli attori facciano altrettanto. Lo stesso atteggiamento si riscontra nelle recensioni degli 134

spettacoli: l’interpretazione dei personaggi da parte del regista e degli attori viene discussa assai più a lungo del modo in cui l’autore tratta la trama. I greci del V secolo concepivano i personaggi in maniera del tutto diversa e, come abbiamo visto nel capitolo precedente, non avrebbero avuto neppure la possibilità di rappresentarli, secondo i nostri schemi, nel teatro di Atene. L ’attore antico, conseguente­ mente, recitava in condizioni che non gli avrebbero permesso una resa psicologica dei personaggi: l’uso delle maschere, i costumi fuori del tempo, la scarsa profondità della zona dell’azione, l’interpretazione maschile delle parti femminili, il numero limitato di attori. Anche se il protagonista aveva una sola parte in ogni tragedia di una trilogia, com’era possibile per lui immedesimarsi nelle tre parti principali, maschili o femminili che fossero, nell’ambito di una stessa mattinata? Se vogliamo comprendere la reale natura della caratterizzazione nella tragedia attica, dobbiamo cominciare da qui, dall’attore tragico che Aristotele assai significativamente non distingue con chiarezza dal personaggio rappresentato, e non dai nostri pre­ concetti. Il personaggio ha un nome — Agamennone, Elena, Aiace — se appartiene all’aristocrazia della società omerica; altrimenti, ha una definizione ge­ nerica — messaggero, pastore, nutrice. E inoltre ha la maschera. Nome e maschera insieme valgono a restringere la gamma di ciò che egli deve fare o dire: se recita la parte di Ulisse, non gli può mancare quel tanto di furberia e di ingegnosità ben note a ogni greco dall’Odissea. Ma persino nel caso di eroi tanto famosi, la tradizione era così flessibile che lo stesso personaggio poteva assumere da un’opera all’altra, anche se dello stesso autore, colorazioni del tutto dif­ ferenti. Entro certi ampi limiti, il poeta era arbitro della leggenda: poteva moltiplicare le gesta dell’eroe 135

o inventare una nuova versione del mito, e persino attribuirgli moglie o figli di volta in volta diversi. Oltre il nome, proprio o generico, la maschera e gli eventuali costumi, che cos’altro definiva la parte dell’attore? L ’espressione del volto non poteva cam­ biare; i movimenti erano stilizzati piuttosto che rea­ listici; a volte altri personaggi del dramma lo descri­ vevano, ma quasi sempre per linee estremamente generali. Qualsiasi altro tratto della sua interpreta­ zione veniva dunque da ciò che faceva e diceva, ele­ menti determinati entrambi non certo dall’analisi dei processi interiori del personaggio, bensì dallo sviluppo dell’intreccio e dallo schema dell’opera. Osserviamo ancora una volta come viene trattato Emone nel dram­ ma sofocleo. Anouilh, nella sua Antigone, fa esatta­ mente ciò che da un drammaturgo moderno ci aspet­ tiamo: narra la storia del fidanzamento di Emone e di Antigone; li presenta insieme in una scena com­ movente; rappresenta la violenta protesta di Emone contro la decisione di Creonte che ha decretato la morte della fanciulla e la sua drammatica uscita di scena quando esclama di non poter vivere senza l’amata; alla fine fa uccidere Emone nel corpo di Antigone. Tutte queste cose sono « in carattere » col personaggio e derivano dall’amore che egli nutre per Antigone. Quest’amore era presente anche nelle ver­ sioni antiche della vicenda e forse era un elemento centrale dell’Antigone euripidea (benché nelle Fe­ nicie [v. 1675] costei avrebbe preferito uccidere il figlio di Creonte piuttosto che sposarlo). Anche So­ focle mette in evidenza l’amore di Emone, serven­ dosi delle parole del messaggero che descrive il sui­ cidio del giovane (Antigone 1237-40): E, ancora in sé, si stringe col braccio, già mancante, alla fanciulla, 136

e sbuffa, e avventa su la bianca guancia di rosse stille impetuoso fiotto. E poi che i riti nuziali, o misero, nell’Averno compie, giace cadavere a un cadavere avvinto. Ma il tema amoroso viene introdotto soltanto nelle ultime battute della tragedia, per non dar luogo, come dice Waldock, a « una divagazione incomoda » che avrebbe attenuato la violenza dello scontro tra Creonte e Antigone, i quali in tal modo vengono isolati con grande effetto drammatico. Emone e la sua amata non sono mai visti insieme. La funzione di Emone quando appare al termine della vicenda è semplicemente di accrescere l’isolamento di Creonte, tanto che i suoi ragionamenti non sono quelli dell’amante di Antigone ma quelli di un figlio che si scaglia, contro il proprio padre: e questo effetto, come abbiamo visto, viene ottenuto contrapponendo discorso a discorso, verso a verso. Particolarmente estraneo alla mentalità moderna è proprio quest’ultimo punto: l’azione esercitata sulla parte dell’attore dal posto che tale parte occupa nello schema metrico e musicale e dal contesto stilistico. Ogni forma di espressione drammatica in una tra­ gedia greca — discorso lungo, sticomitia, lamenta­ zione con il coro, canto a solo e così via — ha i pro­ pri limiti e le proprie potenzialità, e determina le parole recitate o cantate più di quanto non faccia il « carattere » del personaggio che le pronuncia. Quando nell 'Ippolito euripideo Fedra, consumata d’amore, esce dal palazzo, canta con passione la sua nostalgia per la montagna e la caccia; la nutrice l’in­ terroga, e dopo una lunga sticomitia, la costringe a rivelare il suo segreto; a questo punto Fedra ia un discorso inaspettatamente calino e razionale, spie 137

gando la propria situazione al coro. Che cosa è suc­ cesso? Concentrando la nostra attenzione sull’intimo pensiero di Fedra, potremmo dire che il suo stato d ’animo è cambiato; che avendo confessato il suo amore, può parlarne con serena lucidità. In una rap­ presentazione moderna, l’attrice cercherà di comuni­ care questo mutamento psicologico mediante un cam­ biamento dell’espressione del volto. Ma cosa dob­ biamo concludere trovando lo stesso passaggio dalla passione alla razionalità in un’opera dopo l’altra? Medea, ad esempio, che geme ed impreca nell’interno del palazzo, ma quando ne esce pronuncia un di­ scorso freddo e composto; o Cassandra, ηέΆ!Aga­ mennone e nelle Troadi, che passa dall’estasi ispirata a un savio e pacato argpmentare. ' Ciò che è avvenuto può essere interpretato come un mutamento di stato d’animo, ma va pure rico­ nosciuto come un mutamento di forma e stile — dal canto al discorso, da un ritmo a un altro — noto al pubblico e da esso accettato come elemento nor­ male nello schema della tragedia. Nel canto, ci si aspettava l’espressione lirica dell’emozione; in un di­ scorso senza musica, invece, un’esposizione ragione­ vole del caso, tanto più gradito quanto più eloquente e convincente. Quando Ippolito viene a conoscenza dell’amore di Fedra, esplode in una retorica invet­ tiva antifemminista che ce lo fa apparire ‘ un insop­ portabile presuntuoso; ma il pubblico ateniese avrebbe sottolineato con uno scroscio di applausi l’efficace trattazione dell’argomento. Per fare un ultimo esem­ pio, quando la nutrice risponde al discorso di Fedra, invitandola ad accettare il potere universale dell’a­ more, fa uso di argomentazioni filosofiche e di rife­ rimenti mitologici che la collocano completamente « fuori personaggio ». 138

Sono, però, soprattutto i personaggi minori, di solito senza nome e autori di brevi comparse sulla scena, quelli che più strettamente dipendono dal posto che occupano nella trama e nella struttura della tragedia. Il messaggero non ha un’esistenza psicolo­ gica indipendente: egli è semplicemente una voce che narra con eloquenza una storia le cui parole e il cui stile sono in armonia con il livello poetico gene­ rale del dramma. Sebbene vi possa essere nelle cose che dicono un tocco familiare e persino colloquiale, questi umili personaggi della tragedia portano l ’im­ pronta della tradizione epica non meno dei suoi re e delle sue regine e ben poco hanno in comune con il Portiere del Macbeth o con il soldato Jones dalla faccia rossa del Secondo Battaglione, nel quale Anouilh trasforma la guardia dell’opera sofoclea. Sta di fatto, però, che la tragedia greca ci for­ nisce taluni dei personaggi più vigorosi dell’intera storia del dramma: ad esempio, la Clitennestra di Eschilo, o l’Edipo di Sofocle, oppure la Medea o l’Ecuba euripidee. Del resto, i titoli stessi delle tra­ gedie, e l’antichissima istituzione di un premio per la migliore recitazione attestano quale importanza il pubblico antico vi attribuisse. L ’esistenza di questi personaggi memorabili non invalida ciò che abbiamo detto sulla caratterizzazione o meglio sull’assenza di essa. Nel dramma giapponese Nò, assai più che nel teatro attico, l’interesse si concentra su un protago­ nista, lo shit e: di solito questi è l’unico a portare la maschera e un costume splendido; la sua lunga danza costituisce l’acme della rappresentazione; su di lui converge l’attenzione degli attori secondari mentre la musica e il canto del coro si intensificano a misura che la sua parte ascende all’apice. Egli è davvero in­ dimenticabile, ma non è caratterizzato nel senso mo­ 139

derno. È qui, più che sui moderni palcoscenici occi­ dentali, che possiamo trovare il tipo cui apparten­ gono gli esseri superbi che tanto maestosamente si muovono nelle tragedie di Eschilo, gli eroi e le eroine della poesia epica fatti rivivere davanti agli occhi del pubblico. Sia Sofocle che Euripide partono dallo stesso punto, ma col passare del tempo si insinuano altre tendenze, più vicine al nostro concetto del ca­ rattere drammatico. L ’interesse al carattere del per­ sonaggio in talune tragedie diventa, di diritto, un elemento centrale: abbiamo già visto come il con­ flitto morale di Neottolemo sia il fattore chiave della trama del Filottete sofocleo. Euripide si avvicina spesso ancora di più al concetto che noi moderni ab­ biamo del personaggio, trattando Giasone o Clitennestra come esseri umani pieni di umane debolezze. Ma anche lui è assai lontano — assai più di quanto talvolta si pretenda — dal « dramma psicologico ». La Dale tratta l’argomento mirabilmente nella sua edizione dell’Alcesti (pp. xxn , x x v ii ), opponendosi a « quella scuola che vede nella creazione dei “ ca­ ratteri ” il maggiore e più originale contributo di Eu­ ripide al dramma, cercando in ogni nuovo episodio, in ogni verso del dialogo, qualche piccolo tocco per completare un ritratto complesso ». Ella scrive: « In una tragedia euripidea ben costruita, ciò che governa una successione di situazioni non è l’unità di carattere saldamente concepita, ma la forma dell’azione intera, e ciò che determina lo sviluppo e la finezza di ogni situazione non è il desiderio di aggiungere tratti de­ licati a un autoritratto, ma la “ retorica ” della situa­ zione stessa ». Queste osservazioni su Euripide vanno applicate a tutte le tragedie greche. L ’elemento deci­ sivo non è la caratterizzazione, ma piuttosto il modo in cui il poeta organizza l’azione e le varie forme del discorso e del canto che formano lo schema dell’opera.

Può sembrare che in questa nostra descrizione sia stato trascurato un altro aspetto importante delle tragedie: le idee o ipotesi religiose e filosofiche dei drammaturghi. Che cosa pensavano costoro degli dei? È vero che i loro personaggi non sono altro che fantocci nelle mani del destino? Quale rapporto c’era fra il loro modo di vedere e le credenze mutevoli che troviamo altrove nella letteratura greca del V secolo? Tali questioni hanno un gran peso in molti libri sulla tragedia greca, e non intendiamo qui ag­ giungere nuovi elementi alla discussione complessa e difficile che questi problemi hanno suscitato. D’altro lato, al principio di questo capitolo abbiamo adot­ tato nei riguardi dei poeti tragici un certo atteggia­ mento, rimasto poi costante; li abbiamo cioè consi­ derati degli autori di drammi, non dei filosofi, o almeno, drammaturghi in primo luogo e filosofi poi. Sarà utile ribadire questo fatto alla luce di ciò che abbiamo detto sul loro modo di creare. Vi era naturalmente una certa prospettiva ine­ rente al materiale che traevano dalla poesia epica: l ’ipotesi, ad esempio, che ci siano esseri immortali che intervengono attivamente negli affari degli uo­ mini. Alcuni scrittori moderni hanno asserito che, almeno per Eschilo e Sofocle, non è necessario dir molto di più: nelle loro opere non esiste una conce­ zione religiosa o un pensiero filosofico che ci porti al di là di Omero o del suo quasi contemporaneo Esiodo. Ciò costituisce senza dubbio una sana reazione con­ tro lo strano miscuglio di « idee avanzate » desunte dalle opere con un eccesso di ingegnosità. Però la cosa non è così semplice. Vorremmo piuttosto ripe­ tere che, nel rimodellare il materiale epico, il dram­ maturgo gettava nel crogiuolo della trasformazione, fra altri elementi, le credenze mutevoli del suo tempo e il proprio atteggiamento nei loro confronti; il risul­

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tato conseguito comprendeva gli elementi utili e ne­ cessari all’insieme dell’opera, fossero essi impliciti nell’adattamento della trama o espressi dai perso­ naggi o dal coro. Il modo in cui il drammaturgo pre­ sentava le forze soprannaturali, nonché i suoi per­ sonaggi, faceva parte di una sua determinata visione del mondo, che egli plasmava in una trilogia o in una tragedia determinata. Non è questo un procedimento da filosofo, né su­ scita meraviglia che nessuno dei poeti tragici sia mai considerato filosofo da Platone, da Aristotele o dagli scrittori posteriori (fin quasi ai giorni nostri). E nep­ pure è sorprendente che tutti e tre possano essere accusati di incoerenza di pensiero, anche soltanto sulla base delle tragedie rimaste. Lo Zeus che nelVOrestea, saggio ed equo, fa soffrire l’uomo perché possa imparare, difficilmente si riconosce nel tiranno capriccioso del Prometeo incatenato, e la teoria che più tardi nella trilogia di Prometeo il carattere di Zeus abbia subito un cambiamento è una soluzione poco soddisfacente. In Sofocle è forse più facile tro­ vare un comune denominatore, cioè la certezza di un ordine divino non del tutto compreso dall’uomo; tuttavia, le Trachinie, VElettra e l'Edipo a Colono sono esempi stranamente diversi dell’eletto di tale elemento comune. Euripide è ancora il più variabile: i divergenti atteggiamenti dei suoi personaggi verso gli dei si possono comprendere soltanto nel contesto di ogni tragedia o addirittura di ogni singola scena. In certi brani, gli immortali vengono attaccati per essere causa di sofferenze e disastri, in altri si asse­ risce che non possono essere fonte del male, e in altri ancora la loro esistenza è negata del tutto. In parecchie tragedie si fanno dichiarazioni che indebo­ liscono tutta la leggenda che ne costituisce la trama. Data tale molteplicità di atteggiamenti, è inutile do­

La flessibilità delle storie presentate dai poeti tragici greci suggerisce senz’altro che tale rigido de­ terminismo non fosse condiviso né da loro né dal pubblico. Dice il coro di Anouilh: « Se il tuo nome è Antigone, non puoi recitare che una sola parte, e così dovrai recitare la tua parte fino alla fine ». Ma commette un errore: nùYAntigone di Euripide, ad esempio, la protagonista ha una parte ben diversa; non sappiamo i particolari di questa versione, ma è certo che, invece di essere giustiziata, sposava Emone. Un esame minuzioso delle tragedie rivela che il soggetto è più complesso e più confuso. Mólte delle trame dipendono dall’adempimento di oracoli, il che

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mandarsi se Euripide credesse negli dei. Egli era in primo luogo un drammaturgo, e in secondo luogo un critico della tradizione, ma non era in alcun campo un pensatore sistematico. Lo stesso tipo di risposta va dato alla questione del destino e del libero arbitrio. L ’errore più comune è quello di considerare la tragedia come un dramma del destino, nel quale ogni mossa è preordinata e i personaggi umani non hanno nessuna facoltà di scelta o responsabilità degli avvenimenti. Nelle parole del coro nell 'Antigone di Anouilh: « In una tragedia, nulla è in dubbio, e si conosce il destino di ognuno... L ’uccisore non è più colpevole della vittima uccisa: tutto dipende dalla parte che si recita ». Cocteau in­ titola la sua drammatizzazione della leggenda di Edipo ha Macchina infernale: Spettatore, questa macchina che vedi qui, caricata al massimo in modo tale che la molla si scaricherà lentamente per tutta la durata di una vita umana, è una delle più perfette costruite dagli dei infernali per la distruzione matematica di un mortale.

implica (se andiamo fino in fondo) che ciò che do­ veva avvenire fosse già determinato quando l’oracolo si pronunciava. Tuttavia ha indubbiamente ragione Snell quando asserisce (Discovery of thè Mind, p. 105), che « nelle tragedie di Eschilo la decisione personale è un tema centrale » e che (p. I l i ) in Euripide « l’es­ sere umano è rappresentato isolato dal tessuto varie­ gato delle forze divine e terrestri, diventando invece egli stesso il punto dal quale le azioni e le imprese traggono origine. Le sue proprie passioni, la sua pro­ pria conoscenza sono gli unici fattori determinanti; tutto il resto non è che inganno e apparenza... Euri­ pide porta avanti logicamente ciò che Eschilo aveva iniziato ». Impossibile conciliare tante contraddizioni. Sta di fatto, però, che incongruenze di questo genere sono presenti nella maggior parte della letteratura mon­ diale e che sono sempre state (come sono tuttora) la condizione mentale di quasi tutta la razza umana. Quando gli evangelisti parlano della profezia· del Cristo a Pietro, « Prima che canti il gallo, mi tradirai tre volte », non vogliono certo intendere che il di­ niego di Pietro fosse l’azione di un fantoccio inca­ pace di fare una scelta diversa. Gli eroi di Omero debbono morire nel « giorno stabilito »; ma ciò non impedisce che siano descritti come individui, con i loro desideri, volontà e scelte che si risolvono nel­ l’azione; altrimenti, l'Iliade e i suoi personaggi sa­ rebbero insopportabilmente noiosi invece che pieni di intensa vitalità. Lo stesso si può dire della tragedia greca, sebbene i drammaturghi talvolta sembrino es­ sersi avventurati più in là di ' Omero verso la con­ quista di una cosciente volontà da parte del soggetto: pensiamo a certi accenni alla comune responsabilità dei personaggi umani e delle forze soprannaturali. La discussione filosofica del determinismo, di cui questi 144

sono sintomi, sorse più tardi nel pensiero greco: sullo sfondo del dramma del V secolo non possiamo tro­ vare una teoria sistematica della predestinazione o del libero arbitrio. Tale mancanza non turbava il pub­ blico ateniese, come non disturba la maggioranza del pubblico moderno. Quel pubblico, invece, non avrebbe trovato di suo gusto drammi noiosi nei quali i per­ sonaggi non fossero altro che meri automi maneg­ giati e schiacciati dall’« infernale macchina del de­ stino ». Ci rimangono dunque le tragedie, non come illu­ strazioni di una dottrina filosofica o teologica, e nep­ pure come esempi dell’operato inesorabile del destino, ma come tragedie, ognuna delle quali è una creazione unica, nata dall’immaginazione del poeta e dotata di una propria forza drammatica. L ’importanza e l’at­ trazione universalmente esercitate da opere d’arte così particolari pongono un problema che si estende al di là del teatro, nella sfera dell’arte nella sua inte­ rezza, e che i teorici, da Aristotele in poi, non sono riusciti a risolvere. La questione si pone con parti­ colare nettezza nella tragedia greca, come anche nei drammi di Shakespeare, perché i suoi soggetti erano, e sono tuttora, straordinari, atipici, non pertinenti, si potrebbe pensare, alla normale esperienza umana. Non succede ogni giorno che i figli uccidano i propri padri per poi sposare le loro madri, oppure che le mogli trucidino i propri figli per far dispetto ai ma­ riti. Può darsi che osserviamo affascinati tali fatti sul palcoscenico appunto perché cristallizzano in forma estrema certi impulsi e motivi primari, certe situazioni che tutti, in una certa misura, riconosciamo essere nostre: l’amore e l’odio all’interno della fami­ glia, l’ira della donna disprezzata, l’orrore della sco­ perta della propria identità. Come dice Waldock a 145

proposito di Re Lear : « Questi elementi sono in­ torno a noi tutti; ogni sobborgo ne mostra in minia­ tura i risultati ». Freud credeva che qualcosa di Edipo fosse latente in ogni uomo, e perciò cercava nella tragedia greca i nomi generici per le tendenze da lui scoperte nella psiche umana. Quale che ne sia la spie­ gazione, il materiale usato dai drammaturghi greci domina tuttora la mente dell’uomo: la drammatiz­ zazione della leggenda, cominciata ad Atene, è conti­ nuata nei secoli e perdura ancora nel teatro odierno.

Capitolo ottavo LA VENDETTA DI ORESTE

Fra le tragedie giunte sino a noi, ce ne sono tre nelle quali possiamo osservare la stessa leggenda trat­ tata da tutti e tre i grandi poeti tragici: le Coefore di Eschilo, YElettra di Sofocle, e YElettra di Euri­ pide. Un confronto fra queste opere servirà ad illu­ strare le ampie possibilità di trattamento offerte da un unico tema e il diverso modo usato dai dramma­ turghi nel concepire una storia, ordinare la trama, scegliere e impiegare i personaggi e il coro. È come se avessimo non un Macbeth soltanto, ma tre, ognuno scritto da un maestro diverso. La relazione tempo­ rale fra le tre opere è ovviamente importante. Natu­ ralmente le Coefore sono le prime, perche furono rappresentate insieme con il resto della trilogia delYOrestea nel 458 a. C. Le due Elettre, come ve­ dremo, sono evidentemente collegate con la versione eschiliana, sia per analogia sia per contrasto, sebbene tra l’una e le altre intercorrano quarant’anni: en­ trambe probabilmente appartengono al decennio 420410 a. C., benché la data non sia certa per nessuna delle due. Un accenno di Aristofane alle Coefore (Nuvole, 534-6) suggerisce una possibile spiegazione di tale intervallo, cioè la riesumazione della tragedia di Eschilo circa un anno prima del 420 a. C. che rin­ frescò nel pubblico ateniese il ricordo dell’opera e 147

ispirò le due nuove versioni del soggetto. È probabile che la versione di Euripide fosse la prima e quella di Sofocle, rappresentata qualche anno più tardi, la seconda; le tratteremo dunque in quest’ordine. Anche se fosse vero il contrario, il contrasto fra le due opere rimane sempre significativo. Una quarta opera conclude il quadro, l'Oreste di Euripide, con la quale nel 408 a. C. egli ebbe l’ultima parola nello strano dialogo di versione e controversione presentato da queste tragedie. La storia del ritorno di Agamennone in Grecia e la sua continuazione erano senza dubbio ben note al pubblico che si radunò per le Dionisie urbane nel 458 a. C. Ma non era una storia univoca: alcuni fram­ menti letterari e i resti di alcune opere figurative dimostrano che le versioni correnti erano diverse. La leggenda appare per la prima volta in parecchi passi dell’Odissea tutti discordanti fra loro: combinan­ doli, otteniamo una versione omerica più o meno coerente. Mentre Agamennone, sovrano di Micene, era lontano perché impegnato nella guerra di Troia, la regina Clitennestra fu sedotta dal cugino di lui, Egisto; al ritorno del re con la principessa Cassandra, che egli aveva fatto prigioniera, entrambi furono uccisi. Nel frattempo suo figlio Oreste o era fuggito ad Atene o vi era stato condotto. La traduzione del1 Odissea (III, 304-10) fornita da Alexander Pope suona così: Per sette anni, il traditore regnò sulla ricca Micene, mentre il popolo gemendo obbediva al suo governo severo; ma nell ottavo anno, Oreste, tornato da Atene al suo regno, brandì la vindice spada, uccise la coppia crudele e diede alle fiamme l’abietto assassino e l’adultera femmina *.1 1 « Seven years, thè traitor rich Mycenae swayed, / And his 148

La versione di Pope è vivace, ma (come avviene spesso), inesatta. Nell’originale greco si dice che Oreste uccise Egisto e fece una festa funebre sopra il corpo suo e su quello della propria madre. Non si dice in che modo questa sia morta. Né si attribui­ scono colpe di sorta a Oreste. Non vi è cenno di col­ pevolezza nella sua vendetta, nessuna menzione delle Furie. Egli è il nobile Oreste, il figlio eroico che fece il proprio dovere. Infatti, la ragione principale per cui questa storia è introdotta nell 'Odissea è che essa poteva servire da modello per il giovane Telemaco, figlio di Ulisse; e la spiegazione più probabile della reticenza del poema riguardo alla morte di Cliten­ nestra è che essa non era pertinente al contesto. Te­ lemaco deve vendicarsi sugli usurpatori dei beni di suo padre: sua madre Penelope non è una Cliten­ nestra, ma un raro esempio di fedeltà coniugale. Si noti che Elettra non figura nel poema omerico, benché ci siano nell’Iliade tre figlie di Agamennone con altri nomi. Pare che ella sia stata menzionata per la prima volta nel V II secolo a. C.: il poeta Xanto fornì la spiegazione del suo nome: ella era la figlia che non conobbe letto matrimoniale (in greco: lektron). Un altro personaggio assente dal racconto omerico è Pilade, il compagno di Oreste, che è in­ trodotto nella versione di un poema epico posteriore (ora perduto) sul ritorno dei vari eroi da Troia. La sua comparsa suggerisce che Oreste fanciullo si fosse rifugiato nei pressi di Delfi, non ad Atene; questo accenno all’oracolo di Apollo ci prepara all’altra ver­ sione che, dopo l’Odissea, deve essere stata la meglio conosciuta da Eschilo e dai suoi contemporanei: stern rule thè groaning land obey’d; / The eighth, from Athens to his realm restored / Orestes brandish’d thè avenging sword, / Slew thè dire pair, and gave to funeral flame / The vile assassin, and adulterous dame » (Alexander Pope, 1688-1744). 149

di Stesicoro, un lungo poema lirico-narra­ tivo scritto probabilmente all’inizio del VI secolo, del quale ora non rimangono che pochi frammenti. In questi troviamo alcuni elementi nuovi che incontre­ remo ancora nelle tragedie: la nutrice di Oreste; un sogno sinistro fatto da Clitennestra prima della sua morte; e, più importante di tutto, la difesa di Oreste mediante l’arco di Apollo contro le Furie che lo in­ calzano, suscitate dall’assassinio di sua madre. La questione della colpevolezza ha coperto ormai con la sua ombra la storia della vendetta eroica. Nell’arte figurativa, le rappresentazioni della leg­ genda vanno dalle rozze figure del V II secolo ai bei dipinti della morte di Agamennone ed Egisto su un cratere che certamente risale a una data assai vicina alla trilogia eschilea. La vendetta di Oreste era il sog­ getto preferito, specialmente sui vasi attici a figure rosse del 500 a. C. circa. La vittima è sempre Egisto; Oreste è l’uccisore, ma anche Elettra è presenta; Cli­ tennestra cerca di prevenire l ’assassinio, ma viene trat­ tenuta 2. Probabilmente vi erano poche storie del pas­ sato eroico così ben conosciute al pubblico ateniese. V O restea

Per quanto ne sappiamo, Eschilo fu il primo a introdurre nel teatro questo materiale così familiare agli spettatori, plasmandolo in forma drammatica. La sua visione della leggenda fu, come era sua abi­ tudine, particolarmente grandiosa; egli risalì al lon­ tano passato della famiglia reale, e guardò oltre la vendetta di Oreste, giungendo sino alla fine della sinistra sequela di delitti, l’uno condizionato dal­ l’altro. Abbiamo già osservato che i tre punti culmi­ 2 Per giudizi recenti sulle rappresentazioni nell’arte, vedi E. 1-22; 1969, pp. 214-60.

V e r m e u l e , « American Journal of Archaelogy », 1966, pp. Μ. I. D a v i e s , « Bulletin de Correspondance Hellénique »,

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nanti da lui scelti per la sua trilogia erano l’assassinio di Agamennone, la vendetta di Oreste e il suo pro­ cesso ad Atene, che era forse un’aggiunta originale del poeta medesimo. VAgamennone è già stato di­ scusso. Le Coefore vanno messe con questo in stretto rapporto: il re morto incombe sulla seconda parte della trilogia come una presenza invisibile ma quasi più fortemente sentita di quella viva e tangibile della prima parte; Clitennestra, l’assassina, diventa la vit­ tima principale di Oreste, mentre Egisto, così impor­ tante nel racconto di Omero e nell’arte, è ridotto a un ruolo secondario. Il tema della colpa, centrato sùll’uccisione del marito e della madre, collega tutta la· trilogia, conducendo dalla prima parte, attraverso la seconda, fino alla terza. Come nélVAgamennone, la skene delle Coefore rappresenta la reggia di Argo. Una semplice struttura di legno vicino alla facciata simboleggia la tomba di Agamennone. Omero aveva ambientato la storia a Micene, Stesicoro a Sparta; la scelta di Argo fatta da Eschilo è motivata da ragioni politiche: gli per­ metterà di accennare, alla fine della trilogia, alfa nuova alleanza fra Argo e Atene. Oreste deve re­ carsi colà, sconosciuto e insospettato, farsi ammet­ tere alla reggia, e uccidere l’assassino di suo padre; una serie di avvenimenti abbastanza credibili nella narrativa, ma difficili a realizzarsi nel teatro. Due millenni più tardi, quando il drammaturgo elisabet­ tiano John Pickeryng introdusse questa storia nel dramma inglese, risolse il problema dotando « Horestes » di un esercito di mille uomini, ed inscenando una battaglia nel vigoroso stile dell’epoca. Nella ver­ sione eschilea gli unici alleati disponibili per Oreste, ad eccezione di pochi servitori, sono Pilade, Elettra e il coro. Vedremo come ognuno dei tre poeti tragici abbia 151

risolto questo problema a modo proprio. È caratte­ ristico di Eschilo che si arrivi alla soluzione verso la fine dell’opera, quando con un’improvvisa impennata l’azione arriva al suo acme. L ’intera prima parte del dramma è dedicata all’incontro di Oreste con la so­ rella, che viene trattato in un modo per noi sorpren­ dente. Un drammaturgo moderno avrebbe certamente presentato Elettra per prima, e poi avrebbe fatto entrare Oreste, come previsto. Eschilo, invece, co­ mincia con Oreste (il protagonista), che entra accom­ pagnato da Pilade (il terzo attore), per